Premessa

PRESENTAZIONE
Puntuale ad un appuntamento che si rinnova con continuità ormai dal 2004, l’Ufficio del Massimario ha dedicato le prime settimane di quest’anno, oltre che all’abituale e prevalente attività di studio e massimazione, anche alla preparazione della rassegna relativa alla giurisprudenza dell’anno appena trascorso, sia con riferimento al settore civile che a quello penale.
Con particolare riguardo al civile, l’emersione, nello scorso anno, di problematiche connesse anche ad un sensibile aumento del contenzioso, oltre che ad un corrispondente aumento del numero di decisioni, ha esasperato alcune peculiarità del settore, imponendo all’Ufficio una riflessione sul proprio ruolo, in particolare volta alla riconsiderazione degli strumenti e delle modalità finora utilizzate per fornire un’adeguata e funzionale informazione sul precedente. La rassegna in presentazione, nella sua impostazione e nei suoi contenuti, è anche frutto di questa riflessione.
L’ingente aumento dei ricorsi civili (soprattutto in materia tributaria e di protezione internazionale) ha infatti imposto l’adozione di misure legislative e organizzative che hanno comportato e sempre più comporteranno un ulteriore cospicuo aumento della produzione giurisprudenziale della Corte di legittimità, perciò la necessità, per l’Ufficio del Massimario, di veicolarne la conoscenza nel modo più incisivo, posto che un significativo aumento della produzione giurisprudenziale moltiplica il rischio di contrasti anche inconsapevoli, quindi, per converso, aumenta il numero di ricorsi “esplorativi” e perciò, in una spirale perversa, il numero di processi sopravvenienti, così smarrendo l’efficacia disincentivante di orientamenti consolidati.
In tale situazione si rischia la progressiva e irreversibile obsolescenza della funzione nomofilattica attribuita alla Corte di cassazione dall’Ordinamento Giudiziario, trattandosi di funzione delicata e complessa che per la sua piena esplicazione richiede impegno costante, posto che l’intensità del corrispondente vincolo dipende dalla coerenza delle decisioni della Corte, dalla chiarezza delle relative motivazioni nonché dall’affidabilità ed efficacia degli strumenti utilizzati per rendere noti gli orientamenti giurisprudenziali espressi. 
Peraltro, il carico di lavoro eccessivo, il considerevole aumento del numero di magistrati e la diminuzione dell’età di accesso alla Corte comportano che sempre più spesso la Cassazione non costituisca più l’ultima tappa della carriera di un magistrato ma solo un momento di passaggio in vista di altri obiettivi, e tale circostanza, unitamente alla evidenziata difficoltà di conoscere e “governare” una giurisprudenza esorbitante, rischia di far venire a mancare la coscienza dell’appartenenza ad una istituzione che nella sua collegialità, non nell’eccellenza dei singoli, esprime la funzione di nomofilachia che – sembra utile rammentarlo – è prevista dal legislatore non già come mezzo di conformazione giurisprudenziale bensì come primo e fondamentale strumento di realizzazione dell’uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge.
Queste ed altre serie considerazioni hanno indotto l’Ufficio del Massimario a cercare i mezzi più idonei per adeguare la propria attività alle peculiarità del momento, quindi ad individuare gli strumenti, i tempi e le modalità di informazione e riflessione sui precedenti della Corte più idonei a conferire nuovo vigore alla funzione nomofilattica, scongiurando l’irreversibilità di una crisi del giudizio di legittimità che, in mancanza di significative contromisure, rischia di aggravarsi sempre più nel futuro.
Si è ben consapevoli infatti che nell’attuale situazione non può più ritenersi sufficiente il monitoraggio attento e continuo delle decisioni della Corte, la massimazione dei principi nuovi con indicazione delle conformità, difformità e contiguità riscontrate e la segnalazione dei contrasti eventualmente rilevati: il compito dell’Ufficio del Massimario sta cambiando ed è sempre più destinato e mutare nel tempo, non solo in relazione alla costante evoluzione dei mezzi di trasmissione delle informazioni utilizzati ed alle complesse problematiche connesse (secondo le note teorie della scuola di Toronto), ma anche – soprattutto nel medio e breve periodo – in relazione al già evidenziato aumento (oggi in certa misura non del tutto controllabile, soprattutto in funzione proiettiva) del numero di decisioni emesse dalla Corte, che impone all’Ufficio di sperimentare le strategie più idonee a veicolare una conoscenza “effettiva” del precedente di legittimità, che sia tendenzialmente corretta, tempestiva e mirata, così da rendere più agevole il controllo della mole di informazioni esaminate e diffuse attraverso il sistema Italgiure, dovendo peraltro pur sempre sottolinearsi che trattasi di ambiziosi obiettivi prudentemente “tendenziali”, in considerazione dei numerosi compiti di cui sono gravati i magistrati addetti al Massimario, delle scoperture di organico e della mole di decisioni da esaminare nonché di massime e relazioni da redigere.
In proposito va sottolineato che nell’ultimo anno l’Ufficio del Massimario, tra i vari e numerosi strumenti utilizzati per realizzare al meglio i propri compiti di istituto, ha riscontrato grande utilità nella predisposizione di rassegne di giurisprudenza mirate e frequentemente aggiornate, che, rispetto alla sola informazione fornita dal sistema Italgiure, pongono l’utente in condizione di conoscere cosa cercare e, a seconda delle caratteristiche delle differenti rassegne, forniscono anche diverse chiavi di lettura suscettibili di suggerire nuovi angoli visuali e diversificati approcci all’informazione.
Accanto alla rassegna annuale della giurisprudenza civile e penale di legittimità (unica rassegna prevista fino al 2017), nell’anno 2018 appena trascorso l’Ufficio del Massimario ha perciò realizzato numerose altre rassegne, più agili perché più frequentemente aggiornate o più specifiche perché relative a singole materie ovvero a particolari settori o problematiche.
E a tale proposito è doveroso sottolineare che si è trattato di un lavoro molto impegnativo -soprattutto se si ha riguardo al numero ed alla qualità delle rassegne realizzate in rapporto al gravemente carente organico dell’Ufficio- che è stato possibile solo grazie al sacrificio di colleghi motivati e preparati che hanno partecipato con entusiasmo alla realizzazione di alcuni progetti veramente ambiziosi (si pensi alla rassegna della giurisprudenza di legittimità in materia tributaria, di cui in prosieguo, che allo stato rappresenta, in rapporto ad alcune peculiarità che la caratterizzano, un unicum nel suo genere).
In particolare, fin dallo scorso mese di maggio si è prevista la redazione di una rassegna mensile di tutta la giurisprudenza civile di legittimità (divisa per sezioni, quanto al diritto sostanziale, e proposta secondo un indice tematico quanto al diritto processuale), distribuita per posta elettronica a tutti i magistrati della Corte ed immediatamente e gratuitamente fruibile mese per mese da tutti gli interessati in quanto immessa sul sito della Corte di cassazione e sul portale del Massimario. 
Si è poi ritenuto che, in relazione ad alcune particolari emergenze giurisprudenziali connesse a specifici settori, l’immediata fruibilità di una rassegna monotematica veloce ed organica riportante, in riferimento al periodo considerato, tutta la relativa giurisprudenza, avrebbe potuto essere di grande utilità. È nata così la rassegna della giurisprudenza di legittimità sul processo civile telematico, pubblicata on line prima dell’estate sul portale del Massimario nonché sul sito della Corte, e successivamente aggiornata all’inizio di quest’anno.
È stata inoltre realizzata la rassegna giurisprudenziale in materia di protezione internazionale.
Un notevole lavoro ha poi richiesto la già citata rassegna semestrale della giurisprudenza tributaria, che ha visto la luce all’inizio dell’autunno, anch’essa accessibile a tutti sul sito della Corte e sul portale del Massimario (in modo da creare anche una sorta di “ponte” tra la giurisprudenza di legittimità e la giurisprudenza di merito in materia). Ed è in corso di preparazione la rassegna relativa al secondo semestre.
È infine prevista per l’inizio dell’estate una rassegna completa della giurisprudenza di legittimità in materia di processo di esecuzione.
Il mutato contesto come sopra descritto impone dunque di dare ragione della conservazione della rassegna annuale della giurisprudenza civile di legittimità, oggetto di presentazione in questa sede, ed eventualmente delle sue mutate caratteristiche rispetto al passato. 
Occorre in proposito innanzitutto osservare che già nella presentazione della rassegna relativa all’anno 2017 si era evidenziato che il carattere strumentale di essa imponeva il progressivo adeguamento delle relative modalità di redazione alle caratteristiche della giurisprudenza di legittimità siccome eventualmente mutate nel tempo, e si era sottolineato che l’impostazione e l’organizzazione della rassegna nel futuro avrebbero dovuto adattarsi ai mutamenti in corso, soprattutto in relazione al prevedibile, considerevole aumento del numero di decisioni della sezione tributaria.
Va tuttavia sottolineato che, se è vero che la lievitazione del numero di sentenze pronunciate dalla Corte di cassazione e la necessità di governare la difficile situazione anche attraverso l’attenta individuazione di strumenti di conoscenza più frequenti, specifici e mirati, ha indotto l’Ufficio del Massimario nel corso di quest’anno a prevedere una diversificazione delle informazioni periodiche sulla giurisprudenza di legittimità, è anche vero che resta comunque (e a maggior ragione) ferma la necessità di una rassegna annuale, non più finalizzata alla mera informazione sul precedente ma piuttosto intesa a tirare le fila del più ampio discorso giurisprudenziale sviluppatosi nel corso dell’anno.
La rassegna in presentazione acquisisce dunque più profonda e significativa attualità, configurandosi come lettura critica e sistematica della giurisprudenza relativa ad un significativo lasso di tempo, utile per cogliere ed evidenziare tendenze e spinte evolutive attraverso l’analisi argomentata dei percorsi ermeneutici seguiti e delle relative dinamiche. 
A tale scopo si evidenzia che la rassegna, sia nella parte sostanziale che in quella processuale, prevede anche l’inserimento di alcuni importanti approfondimenti tematici che consentono una lettura dinamica e “trasversale” delle relative problematiche.
Infine, va sottolineata un’altra significativa novità della rassegna in presentazione, costituita dal fatto che (come già accaduto per la rassegna tributaria presentata lo scorso autunno), alla sua redazione hanno contribuito non solo i magistrati del Massimario ma anche, su invito dal direttore, alcuni consiglieri della Corte, così testimoniando la forza di un progetto culturale che vede i magistrati del Massimario e della Corte insieme impegnati, nonostante i carichi di lavoro esorbitanti e le disfunzioni del sistema, a conservare l’efficienza del giudizio di legittimità e l’effettività della funzione di nomofilachia. 
E il valore anche simbolico di questo impegno comune riempie il cuore e la mente di emozione e fierezza.
I volumi della rassegna in presentazione, come per il recente passato, saranno pubblicati, per conto della Corte, dall’Istituto Poligrafico dello Stato.
La collega Paola D’Ovidio ha curato il coordinamento generale della rassegna.
Alla redazione della rassegna hanno collaborato (alcuni come autori, altri anche o solo come coordinatori di singoli capitoli o parti, secondo quanto specificato nelle relative sedi) i colleghi Irene Ambrosi, Fabio Antezza, Giovanni Armone, Paolo Bernazzani, Stefania Billi, Dario Cavallari, Aldo Cennicola, GianAndrea Chiesi, Marina Cirese, Vittorio Corasaniti, Francesco Cortesi, Paolo Di Marzio, Luigi Di Paola, Milena D’Oriano, Paola D’Ovidio, Giovanni Fanticini, Ileana Fedele, Giuseppe Fichera, Fulvio Filocamo, Paolo Fraulini, Vincenzo Galati, Chiara Giammarco, Rosaria Giordano, Gianluca Grasso, Stefano Giame Guizzi, Luigi La Battaglia, Salvatore Leuzzi, Laura Mancini, Anna Chiara Massafra, Anna Mauro, Maria Elena Mele, Roberto Mucci, Angelo Napolitano, Aldo Natalini, Andrea Penta,Stefano Pepe, Francesca Picardi, Valeria Pirari, Eleonora Reggiani, Stefania Riccio, Raffaele Rossi, Salvatore Saija, Donatella Salari, Antonella Filomena Sarracino, Antonio Scarpa, Paolo Spaziani, Andrea Venegoni.
Alla rifinitura dell’editing ha provveduto, come per il passato, il personale addetto alla Segreteria dell’Ufficio del Massimario e del CED.
A tutti va un sincero ringraziamento, perché solo con il contributo attento partecipe di ciascuno è stata possibile la realizzazione di questo lavoro.
Alla redazione di quest’opera avrebbe dovuto partecipare anche la collega Francesca Miglio: aveva insistito per dare il suo contributo di studio e ricerca benché già stesse male.
Purtroppo se n’è andata prima di riuscire a realizzare il suo intento, lasciando a noi un esempio alto di forza, coraggio e amore per il proprio lavoro, ma anche il ricordo struggente della dolcezza elegante e vaga che ha accompagnato il suo passaggio lieve e troppo breve al nostro fianco.
Questa rassegna è dedicata da tutti noi a Francesca.
Roma, febbraio 2019
Camilla Di Iasi Maria Acierno

PARTE INTRODUTTIVA 

  • giurisprudenza (UE)
  • applicazione del diritto dell'UE
  • diritto dell'UE

I)

LA NOMOFILACHIA ED IL DIRITTO EUROPEO: LA CORTE DI CASSAZIONE PROTAGONISTA DEL DIALOGO SOVRANAZIONALE

(di Milena d’Oriano )

Sommario

1 La Corte di cassazione, garante della nomofilachia nazionale. - 2 La Corte di Giustizia UE, monopolista della nomofilachia europea. - 3 Il primato del diritto dell’Unione e la centralità del giudice nazionale. - 4 I parametri unionali: criticità e questioni aperte. - 4.1 La Carta di Nizza: l’ambito di applicazione. - 4.2 Il rinvio pregiudiziale. - 4.3 Gli effetti processuali ed extraprocessuali delle sentenze della Corte di Giustizia UE. - 4.4 La questione del giudicato interno. - 4.5 La responsabilità risarcitoria dello Stato. - 5 Il diritto europeo nella giurisprudenza di legittimità. - 5.1 Il richiamo alle fonti ed alla giurisprudenza europea. - 5.2 I principi generali dell’Unione. - 5.3 Le decisioni interpretative della CGUE. - 5.4 La disapplicazione. - 6 Il ruolo della Consulta: la svolta di cui alla sentenza n. 269 del 2017. - 6.1 Le prime ricadute nelle pronunce della Suprema Corte.

1. La Corte di cassazione, garante della nomofilachia nazionale.

L’apertura alle fonti sovranazionali costituisce da tempo per il giudice nazionale una inesauribile occasione di arricchimento ed uno stimolo all’ampliamento delle garanzie nella tutela dei diritti fondamentali che l’ordinamento italiano già assicura, efficacemente, affidandone alla Corte costituzionale un controllo equilibrato, bilanciato ed uniforme.

Il dialogo multilivello, che ha portato alla massima espansione i livelli minimi di tutela dei diritti, ha assunto negli anni forme complesse, trovando espressione ora in pacifici richiami costruttivi ora in manifestazioni di dissenso, garbatamente palesi o abilmente occulte.

Mentre la funzione di protezione dei diritti svolta dalla Corte EDU ha carattere sussidiario, rispetto a quella assicurata dagli organi giurisdizionali nazionali, ed un eventuale contrasto tra norma nazionale e norma convenzionale è destinato ad essere risolto sempre previa mediazione della Corte costituzionale, grazie al meccanismo del controllo accentrato di cui all’art. 117 Cost., il rapporto con le fonti europee si presenta diretto ed immediato in quanto fondato sul principio della cd. primauté del diritto dell’Unione che, in combinato disposto con il principio dell’effetto diretto, sancisce la prevalenza del diritto europeo rispetto ai diritti nazionali degli Stati membri.

La fluidità della relazione tra diritto nazionale e diritto eurounitario se ha determinato una repentina apertura, specie dal basso della giustizia di merito, alle sollecitazioni provenienti dalla giurisprudenza europea, dall’altro, con maggiore evidenza negli ultimi anni caratterizzati da una crescente apertura ai cd. principi generali dell’Unione e ai principi e diritti desumibili dalla cd Carta di Nizza, ha favorito una situazione di tensione che ha trovato espressione ai massimi livelli della giurisprudenza costituzionale.

L’improvvisa virata, da un clima di armonica collaborazione ad un atteggiamento di circospetta difesa, ha trovato la sua massima espressione nella nota sentenza n. 269 del 14 dicembre 2017 con cui la Corte costituzionale ha reagito ad un paventato rischio di marginalizzazione riaffermando la sua primazia nel controllo accentrato di costituzionalità in materia di diritti fondamentali, seppure “in un quadro di costruttiva e leale cooperazione fra i diversi sistemi di garanzia, nel quale le Corti costituzionali sono chiamate a valorizzare il dialogo con la Corte di giustizia (da ultimo, ordinanza n. 24 del 2017), affinché sia assicurata la massima salvaguardia dei diritti a livello sistemico (art. 53 della CDFUE)” (vedi punto 5.2. della sentenza).

In tale articolato contesto la Corte di cassazione, come garante della nomofilachia nazionale, è chiamata ad assolvere un ruolo fondamentale, quale referente privilegiato del giudice comune ed interlocutore qualificato della Corte UE e della Corte costituzionale.

Ruolo che, come si cercherà in seguito di evidenziare, ha ritenuto di assolvere da protagonista consapevole ma equilibrata, attraverso un uso prudente della disapplicazione, attenta ad evitare il cd. utilizzo extra districtum della CDFUE e ad resistere alla tentazione di procedere. in autonomia. ad un controllo diffuso di costituzionalità sfruttando l’efficacia diretta, già più volte affermata, di importanti principi generali dell’Unione.

In ossequio alla consolidata giurisprudenza comunitaria e costituzionale, la Corte di legittimità si è dimostrata solerte nell’adeguamento delle sue decisioni alle statuizioni della Corte UE; in presenza di sospette antinomie, la prima opzione resta quella dell’interpretazione conforme, seguita dall’utilizzo dell’istituto del rinvio pregiudiziale.

Da ultimo non si è sottratta ad un vivace confronto con il nuovo assetto proposto dalla richiamata sentenza n. 269 del 2017, instaurando ora un dialogo diretto e propositivo con la Corte costituzionale, ora optando per il ricorso prioritario alla pregiudiziale comunitaria.

2. La Corte di Giustizia UE, monopolista della nomofilachia europea.

Protagonista della nomofilachia europea è senza dubbio la Corte di Giustizia UE che con le sue pronunce ha proceduto negli anni non solo a garantire l’uniforme e corretta interpretazione delle fonti comunitarie di natura sostanziale, ma anche a costruire un articolato e condiviso sistema di regole e principi nel tentativo di dare una forma intellegibile ai delicati rapporti istituzionali tra ordinamento europeo ed ordinamenti nazionali.

Si tratta di “lavori in corso”, in continuo divenire, che possono fare affidamento sulle solide fondamenta dei principi di natura costitutiva, sempre di matrice giurisprudenziale ma ormai consolidati, che emergono dallo spirito e dal sistema dei Trattati e quindi direttamente dal diritto primario dell’Unione – quali il principio del primato e supremazia del diritto comunitario, il principio dell’efficacia diretta, il principio dell’effettività delle sue norme, il principio della leale collaborazione tra istituzioni dell’Unione e Stati membri, il principio della responsabilità risarcitoria degli Stati – ma che nello stesso tempo richiedono continui interventi di aggiustamento e di mediazione, laddove si trovano ad incidere nel campo dei principi generali comuni agli ordinamenti giuridici e costituzionali degli Stati membri, per la cui individuazione è necessario procedere ad una comparazione giuridica critico-valutativa tra tali ordinamenti.

Opera quest’ultima resa ancora più ardua e scivolosa a seguito della rivoluzione avvenuta con la nuova formulazione dell’art. 6 del TUE, introdotta dal Trattato di Lisbona entrato in vigore l’1 dicembre 2009, che ha determinato da un lato l’assimilazione ai Trattati della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, (cd. Carta di Nizza, ove è stata approvata il 7 dicembre 2000, per poi essere adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007), e dall’altro l’esplicita qualificazione come principi generali dell’Unione dei diritti fondamentali riconosciuti dalla CEDU e di quelli risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli stati membri.

Lo strumento che negli anni ha consentito alla CGUE di essere l’ispiratrice del processo continuo di integrazione delle diverse sensibilità istituzionali, politiche, culturali e sociali degli Stati nazionali è senza dubbio il rinvio pregiudiziale.

Il giudice nazionale, mentre è sovrano nell’interpretazione della norma interna, non ha analogo potere sulle norme comunitarie: nel caso in cui si trovi di fronte ad un dubbio applicativo spetterà esclusivamente alla Corte di Giustizia UE il compito di fornire l’interpretazione corretta di tali disposizioni, o di decidere in ordine alla loro validità.

La pregiudiziale comunitaria ha la finalità di garantire l’uniforme applicazione del diritto comunitario nell’ambito dell’Unione e consente alla Corte di Giustizia di attuare indiretta-mente un controllo di conformità degli atti interni; con la pregiudiziale interpretativa la CGUE fornisce la “lettura ufficiale” del testo comunitario, di cui ha il monopolio dell’interpretazione, e contribuisce attivamente, avvalendosi della collaborazione diffusa di ogni giudice nazionale, alla costruzione del diritto dell’Unione.

3. Il primato del diritto dell’Unione e la centralità del giudice nazionale.

Il primato del diritto europeo costituisce un principio cardine dell’Unione, la cui funzione è quella di assicurare una protezione uniforme dei cittadini da parte del diritto europeo su tutto il territorio dell’UE.

Analogamente al principio dell’efficacia diretta e ad altri principi generali dell’Unione, non è contemplato nei Trattati ma è stato introdotto in via giurisprudenziale dalla Corte europea che ne ha affermato l’esistenza già nella lontana sentenza Costa c/o Enel del 15 luglio 1964, causa 6/64, per poi ribadirlo con la sentenza 5 febbraio 1963, causa 26/62, van Gend en Loos, e consacrarlo nella sentenza Simmenthal, 9 marzo 1978, causa 106/77.

Gli artefici della supremazia del diritto comunitario rispetto agli ordinamenti interni sono i giudici nazionali, definiti “giudici comunitari di diritto comune” o anche “giudici decentrati del diritto comunitario”, cui è affidata l’interpretazione e l’applicazione delle norme dell’ordinamento UE nell’esercizio della funzione giurisdizionale.

La principale espressione del primato va infatti individuata nel potere di disapplicazione della norma interna incompatibile, che la Corte di giustizia ha riconosciuto ai giudici nazionali quale strumento cardine nella risoluzione delle antinomie tra norma nazionale e norma europea.

L’art. 4, n. 3, TUE (già art. 10 TCE) impone agli Stati membri un obbligo generale di leale cooperazione al fine di garantire la piena efficacia dei diritti attribuiti ai singoli dalle norme dell’Unione: il giudice nazionale, in quanto espressione dello Stato, come ogni altra autorità pubblica, è tenuto ad attuare tale obbligo con lo specifico compito di “vigilare sull’applicazione e sul rispetto del diritto comunitario nell’ordinamento giuridico nazionale.”

Al giudice, quale articolazione dello Stato membro, compete non solo il compito di dare piena applicazione alla norma europea ma anche, qualora ritenga esistente un conflitto tra una norma nazionale ed una norma europea provvista di effetto diretto, il potere di procedere alla disapplicazione della prima.

Già nella sentenza Simmenthal, manifesto del ruolo dei giudici come organi dell’Unione, la Corte europea afferma che l’esigenza di assicurare su tutto il territorio dell’Unione un’applicazione rapida, diffusa ed uniforme del diritto europeo richiede che tale funzione sia svolta da tutti i giudici ordinari, di qualunque grado, senza che la stessa possa essere riservata alle Corti costituzionali che, pur potendo eliminare dall’ordinamento interno le norme incompatibili con efficacia erga omnes, operano con tempi e meccanismi troppo lunghi per poterla validamente garantire.

La disapplicazione non costituisce però l’unica manifestazione della supremazia; vari sono infatti gli strumenti attraverso i quali il diritto dell’Unione esercita la sua pressione esterna sugli ordinamenti nazionali, sempre in vista di un obbiettivo di uniformità e quindi di uguaglianza tra i cittadini europei .

Il riferimento è all’obbligo di interpretazione conforme, alla responsabilità risarcitoria dello Stato da inadempimento comunitario, estesa anche agli organi giurisdizionali, all’obbligo di rinvio pregiudiziale per gli organi giurisdizionali di ultima istanza, alla procedura di infrazione per lo Stato inadempiente.

La posizione dei giudici nazionali, che è paritaria quanto all’utilizzo degli istituti dell’interpretazione conforme e della disapplicazione, risulta diversificata rispetto allo strumento del rinvio pregiudiziale a seconda che avverso le loro decisioni sia possibile esperire un rimedio impugnatorio; nel primo caso, il giudice ha una mera facoltà di rinvio (ex art. 267, comma 2, TFUE) nel secondo, un vero e proprio obbligo di rinvio (ex art. 267, comma 3).

Per gli organi giurisdizionali di ultima istanza, in presenza di un dubbio interpretativo sulla portata di una norma europea, sussiste infatti uno stringente obbligo di rinvio; la distinzione tra obbligo e facoltà è estremamente rilevante in quanto solo la violazione dell’obbligo da parte di un giudice di ultima istanza potrà determinare una eventuale responsabilità dello Stato membro, nei cui confronti potrà essere intrapresa la procedura d’infrazione ex art. 258 TFUE o presentato dai singoli un ricorso per risarcimento dei danni causati dalla violazione del diritto dell’Unione.

Come affermato per la prima volta dalla Corte di Giustizia UE nella sentenza 30 settembre 2003 C- 224/01, Kobler, e poi nella sentenza 13 giugno 2006, C-173/03, Traghetti del Mediterraneo ed in Commissione c. Italia 24 novembre 2011, C-379/10, la violazione del diritto europeo fonte di responsabilità per lo Stato può derivare anche da una decisione di un organo giurisdizionale, sempre che la decisione provenga da un organo di ultimo grado, che la norma violata sia preordinata ad attribuire diritti ai singoli, che la violazione sia sufficientemente caratterizzata e sussista un nesso causale diretto tra questa violazione e il danno subito dalle parti lese.

Tenuto conto della specificità della funzione giurisdizionale, nell’accertare l’esistenza di una violazione manifesta del diritto comunitario va valutata, come ipotesi specifica, anche la “la mancata osservanza, da parte dell’organo giurisdizionale di cui trattasi, del suo obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 234, terzo comma, CE”; in ogni caso sussiste violazione allorché una intervenga ignorando manifestamente la giurisprudenza della Corte UE.

4. I parametri unionali: criticità e questioni aperte.

Il sistema delle regole elaborato dalla nomofilachia europea ha dunque un unico obbiettivo, ottenere l’uniforme ed effettiva applicazione del diritto dell’Unione, perseguito attraverso la valorizzazione del ruolo dei giudici nazionali e la messa a punto di meccanismi di soluzione delle antinomie e di dissuasione da possibili violazioni.

La complessità dei rapporti tra l’ordinamento nazionale e quello sovranazionale europeo continua tuttavia a creare situazioni di tensione, a volte risolte in modo omogeneo dalle Corti protagoniste del dialogo, a volte ancora foriere di contrasti.

4.1. La Carta di Nizza: l’ambito di applicazione.

Il giudice nazionale prima di attingere al coacervo di norme europee, al fine di dedurne il contrasto con la normativa nazionale, è tenuto a verificare che la controversia sottoposta al suo esame abbia un oggetto che rientri nell’ambito di competenze che il TFUE assegna all’Unione.

Quando l’antinomia si pone tra norma interna ed un atto emanato da una istituzione eurounitaria (ad es. un regolamento o una direttiva dettagliata o una sentenza della Corte di Giustizia), la cd. normazione secondaria, tale operazione risulta agevole, in quanto sarà sufficiente accertare la sussumibilità della fattispecie concreta in quella astratta disciplinata.

L’indagine diviene più complessa quando il possibile contrasto si pone rispetto ai cd. principi generali dell’Unione o ai principi e diritti desumibili dalla cd. Carta di Nizza, in considerazione della portata ontologicamente generale degli stessi e del loro ambito applicativo.

Sia la giurisprudenza della Corte di Giustizia UE sia quella della Corte costituzionale, pur a seguito dell’entrata in vigore delle modifiche all’art. 6 del Trattato, concordano nell’escludere rilevanza ai principi generali, anche se riconosciuti nella Carta, al di fuori dell’ambito UE.

Secondo la costante giurisprudenza della CGUE i diritti fondamentali garantiti nell’ordinamento giuridico dell’Unione si applicano in tutte le situazioni disciplinate dal diritto dell’Unione, ma non al di fuori di esse. Ove una situazione giuridica non rientri nella sfera d’applicazione del diritto dell’Unione, ma abbia rilievo esclusivamente interno, la Corte UE non è competente e le disposizioni della Carta eventualmente richiamate non possono giustificare, di per sé, tale competenza. (ex plurimis, sentenza 26 febbraio 2013, causa C-617/10, Åklagaren contro Hans Åkerberg Fransson e, più recentemente, sentenza 6 ottobre 2016, Paoletti e a., causa C-218/15; ordinanza 26 ottobre 2017, causa C-333/17, Caixa Económica Montepio Geral contro Carlos Samuel Pimenta Marinh e altri).

Anche la Corte costituzionale ha ripetutamente affermato, a partire dalla sentenza n. 80 del 2011, ed ancora nella sentenza n. 63 del 2016 che “A norma del suo art. 51 (nonché dell’art. 6, paragrafo 1, primo alinea, del Trattato sull’Unione europea e della Dichiarazione n. 1 allegata al Trattato di Lisbona) e di una consolidata giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, le disposizioni della Carta sono applicabili agli Stati membri solo quando questi agiscono nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione” (nello stesso senso sentenza n. 111 del 2017).

Da ultimo nella sentenza n. 194 del 2018, la Corte cost., rilevata l’assenza di disposizioni del diritto dell’Unione che impongano specifici obblighi agli Stati membri, ed all’Italia in particolare, nella materia dei licenziamenti illegittimi, disciplinata dal censurato art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, ha escluso che la CDFUE fosse applicabile alla fattispecie e che l’art. 30 della stessa Carta potesse essere invocato, quale parametro interposto, nella relativa questione di legittimità costituzionale.

La Corte di cassazione si è sempre allineata alle posizioni delle due Corti, affermando ripetutamente l’irrilevanza della Carta dei diritti fondamentali nelle materie non regolate dal diritto UE, tanto al fine di respingere sia istanze di rinvio pregiudiziale, per evidente irrilevanza del richiamo rispetto alla controversia, sia richieste di disapplicazione di norma interne. per presunta contrarietà a diritti e principi riconosciuti nella Carta.

In continuità Sez. 5, n. 23272/2018, Perrino, Rv. 650691-01, afferma che la nozione di «attuazione del diritto dell’Unione», contemplata dall’art. 51 della Carta, richiede l’esistenza di un collegamento di una certa consistenza, che vada al di là dell’affinità tra le materie prese in considerazione o dell’influenza indirettamente esercitata da una materia sull’altra, e che quindi per stabilire se una normativa nazionale rientri nell’attuazione del diritto dell’Unione, occorre verificare, tra le altre cose, se essa abbia lo scopo di attuare una disposizione del diritto dell’Unione, quale sia il suo carattere e se essa persegua obiettivi diversi da quelli contemplati dal diritto dell’Unione, anche se è in grado di incidere indirettamente su quest’ultimo, nonché se esista una normativa di diritto dell’Unione che disciplini specificamente la materia o che possa incidere sulla stessa; in assenza di disposizioni dell’Unione che impongano obblighi agli Stati membri nella materia ha quindi ritenuto che il procedimento di accertamento delle imposte dirette esulasse dall’ambito della competenza dell’Unione.

Per Sez. L, n. 02286/2018, Cavallaro, Rv. 647390-01, premesso che le disposizioni della cd. Carta di Nizza non sono applicabili a fattispecie relative a periodi anteriori al 1° gennaio 2009, data di entrata in vigore del Trattato di Lisbona, poiché solo a partire da tale data la Carta ha acquisito lo stesso valore giuridico dei Trattati dell’Unione europea, non deve procedersi al rinvio pregiudiziale alla CGUE di una norma anteriore a tale data – nella specie l’art. 1, comma 777, della l. n. 296 del 2006, in tema di determinazione della retribuzione pensionabile per periodi di lavoro svolto all’estero, di cui si deduceva il contrasto con l’art. 47 della Carta – in quanto l’art. 267 TFUE presuppone che il giudice nazionale debba decidere una controversia concernente il diritto dell’Unione in concreto applicabile.

4.2. Il rinvio pregiudiziale.

Procedimento incidentale non contenzioso, cd. “da giudice a giudice”, il rinvio pregiudiziale vede protagonista il giudice nazionale a cui spetta in via esclusiva valutare la rilevanza della questione interpretativa o di validità di una norma UE, in riferimento alla controversia dinanzi a lui pendente, e quindi decidere se sottoporla o meno alla Corte, delimitare l’oggetto del procedimento pregiudiziale attraverso la redazione dell’ordinanza di rinvio e la formulazione dei quesiti, decidere la causa principale nel rispetto di quanto statuito dalla CGUE.

Da Sez. L, n. 14828/2018, Amendola F., Rv. 648997-01, è ricordato che non sussiste alcun diritto della parte all’automatico rinvio pregiudiziale alla CGUE ai sensi dell’art. 267 TFUE ogni qualvolta la Corte di cassazione non ne condivida le tesi difensive, bastando che le ragioni del diniego siano espresse, ovvero implicite, laddove la questione pregiudiziale sia manifestamente inammissibile o manifestamente infondata.

In tale arresto si ribadisce che l’obbligo per il giudice nazionale di ultima istanza di rimettere la causa alla Corte di Giustizia UE, viene meno quando non sussista la necessità di una pronuncia pregiudiziale sulla normativa comunitaria, in quanto la questione sollevata sia materialmente identica ad altra, già sottoposta alla Corte in analoga fattispecie, ovvero quando sul problema giuridico esaminato si sia formata una consolidata giurisprudenza (cfr. sul punto anche Sez. 5, n. 15041/2017, Carbone, Rv. 644554-04); che il rinvio pregiudiziale presuppone comunque che la questione interpretativa controversa abbia rilevanza in relazione al thema decidendum sottoposto all’esame del giudice nazionale e alle norme interne che lo disciplinano e che lo stesso non costituisce un rimedio giuridico esperibile automaticamente a semplice richiesta delle parti, spettando solo al giudice stabilirne la necessità.

Esprimendosi in tema di sindacato consentito alle Sezioni Unite sulle decisioni del Consiglio di Stato, Sez. U, n. 29391/2018, De Chiara, Rv. 651807-01, ha affermato che la violazione dell’obbligo di rimessione alla Corte di giustizia U.E. delle questioni relative all’interpretazione delle norme dell’Unione europea non integra una questione inerente alla giurisdizione, né secondo l’accezione tradizionale, come riparto tra ordini giudiziari, non contemplando le norme sul detto riparto, tipiche ed esclusive dell’ordinamento nazionale italiano, la Corte di giustizia tra i destinatari del riparto medesimo, né secondo l’accezione funzionale della giurisdizione, nel senso di tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi, dato che non è la Corte di giustizia ad erogare la tutela del caso concreto, bensì il giudice di rinvio, ossia il giudice nazionale.

4.3. Gli effetti processuali ed extraprocessuali delle sentenze della Corte di Giustizia UE.

Sebbene il compito della Corte europea non sia quello di offrire la soluzione del caso concreto, né di pronunciarsi su questioni di fatto, ma solo quello di fornire al giudice a quo gli elementi interpretativi corretti della norma dell’Unione per consentirgli di applicarla conformemente nella definizione del giudizio principale, la sentenza emessa dalla stessa ha degli effetti vincolanti assoluti sul processo al cui interno è stata sollevata la pregiudiziale comunitaria, per cui, pur spettando al giudice remittente la decisione della causa principale, questi dovrà farlo dando attuazione alle statuizioni della Corte in merito ai provvedimenti consequenziali sul piano del diritto interno.

Come ricordato da Sez. L, n. 04223/2018, Bronzini, Rv. 647269-01, non solo l’interpretazione del diritto dell’Unione è di competenza esclusiva della Corte di giustizia ex art. 267 del TFUE, e tale competenza si estende alla valutazione di legittimità delle eventuali deroghe che alla normativa nazionale è consentito apporre alle regole sovranazionali, in relazione a specifici obiettivi di politica sociale riconducibili ai Trattati., ma, alla luce dell’art. 267 del TFUE e degli art. 4, comma 3, e 19 del TUE, neppure ad una Corte di legittimità è riconosciuto il potere di dare una interpretazione diversa da quella offerta dalla Corte di Giustizia UE, non essendo il giudizio di rinvio una sede nella quale sia possibile impugnare o contestare il decisum della Corte del Lussemburgo.

Da tempo poi sia la Corte costituzionale (vedi tra le tante sentenze n 285 del 1993, n. 255 del 1999, n. 62 del 2003) che la Corte di cassazione hanno riconosciuto che le sentenze pregiudiziali sono dotate di una efficacia extraprocessuale erga omnes e quindi destinate a prevalere sul diritto nazionale incompatibile con “il valore di ulteriore fonte del diritto comunitario”; al pari delle norme comunitarie direttamente applicabili, hanno operatività immediata negli ordinamenti interni e “si inseriscono direttamente nell’ordinamento interno con il valore di ius superveniens, condizionando e determinando i limiti in cui quelle norme conservano efficacia”

Da ultimo in Sez. 5, n. 05381/2017, Olivieri, Rv. 643292-02 è riaffermato che l’interpretazione del diritto comunitario adottata dalla Corte di giustizia ha efficacia ultra partes, sicché alle sentenze dalla stessa rese, sia pregiudiziali che emesse in sede di verifica della validità di una disposizione, va attribuito il valore di ulteriore fonte del diritto comunitario, non nel senso che esse creino ex novo norme comunitarie, bensì in quanto ne indicano il significato ed i limiti di applicazione, con efficacia erga omnes nell’ambito della Comunità.

Non meno vincolanti poi le decisioni della Commissione dell’Unione Europea che, ancorché prive dei requisiti della generalità e dell’astrattezza, costituiscono fonte di produzione del diritto e, pertanto, vincolano il giudice nazionale anche nei giudizi pendenti, in quanto ius superveniens incidente sul rapporto controverso (vedi Sez. 5, n. 01325/2018, Venegoni, Rv. 646919-01).

Per Sez. 6-5, n. 12393/2018, Mocci, Rv. 648749-01, le decisioni adottate dalla Commissione delle Comunità Europee, nell’ambito delle funzioni ad essa conferite dall’art. 211 (ex art. 155) del Trattato CE, sull’attuazione e lo sviluppo della politica della concorrenza, in forza degli artt. 88 e 87 (ex artt. 93 e 92) dello stesso Trattato, ancorché prive dei requisiti della generalità e dell’astrattezza, costituiscono fonte di produzione del diritto comunitario, sia pure limitatamente ai rapporti giuridici tra privati e pubblici poteri e, pertanto, vincolano il giudice nazionale nell’ambito dei giudizi portati alla cognizione dello stesso, sicché è preclusa ogni ulteriore discussione e contestazione relativa all’illegittimità o invalidità delle valutazioni compiute dalla istituzione comunitaria, ove l’atto sia divenuto inoppugnabile.

4.4. La questione del giudicato interno.

Questione da tempo dibattuta è se l’obbligo di disapplicazione sussista anche in presenza di un giudicato formatosi nel diritto interno; la CGUE sembrava aver inizialmente affermato che il primato del diritto comunitario avesse una forza tale da imporsi sul giudicato nazionale che, se formato in contrasto con il diritto comunitario, andava disapplicato.

Nella sentenza Lucchini 18 luglio 2007, C-119/05, si statuiva che il diritto comunitario osta all’applicazione di una disposizione del diritto nazionale, come l’art. 2909 del c.c. italiano, volta a sancire il principio dell’autorità di cosa giudicata, nei limiti in cui l’applicazione di tale disposizione impedisce il recupero di un aiuto di Stato erogato in contrasto con il diritto comunitario e la cui incompatibilità con il mercato comune è stata dichiarata con decisione della Commissione divenuta definitiva; sulla stessa linea anche la sentenza della stessa Corte UE 12 febbraio 2008, C-2/06 Kempter, in cui si affermava che la P.A. ha l’obbligo di riesaminare un atto amministrativo adottato in violazione del diritto comunitario, anche quando esista ormai un giudicato che abbia escluso l’illegittimità del provvedimento medesimo.

In successive pronunce la stessa Corte di Giustizia ha tuttavia ridimensionato gli effetti dirompenti di tali decisioni.

Già nella sentenza 3 settembre 2009 C-2/08 Fall.to Olimpclub srl, occasionata da un rinvio pregiudiziale proposto dalla Corte di cassazione in materia di Iva, e poi anche successivamente, la CGUE ha ribadito l’importanza, sia nell’ordinamento giuridico dell’Unione che negli ordinamenti giuridici nazionali, del principio dell’intangibilità del giudicato e che il diritto dell’Unione non impone a un giudice nazionale di disapplicare le norme procedurali interne che attribuiscono forza di giudicato a una pronuncia giurisdizionale, neanche quando ciò permetterebbe di porre rimedio a una situazione nazionale contrastante con detto diritto.

Rimesse le modalità di formazione della cosa giudicata e quelle di attuazione del relativo principio alle disposizioni dell’ordinamento giuridico interno dei singoli Stati, la Corte di Giustizia UE riafferma che «al fine di garantire sia la stabilità del diritto e dei rapporti giuridici, sia una buona amministrazione della giustizia» «le decisioni giurisdizionali divenute definitive dopo l’esaurimento delle vie di ricorso disponibili o dopo la scadenza dei termini previsti per questi ricorsi non possano più essere rimesse in discussione» (in tal senso, sentenze 22 dicembre 2010, C-507/08, Commissione europea c. Governo Slovacchia; 10 luglio 2014 C-213/13, Impresa Pizzarotti & 38 C. Spa; 6 ottobre 2015, C-69/14, T. c. Governo Romania; 21 luglio 2016, C-226/15, Apple and Pear Australia Ltd e Star Fruits; 26 gennaio 2017, C-421/14, Banco Primus SA Diffusion).

La nostra Corte di legittimità, in conformità, ha quindi affermato che il diritto dell’Unione europea, come costantemente interpretato dalla Corte di Lussemburgo, non impone al giudice nazionale di disapplicare le norme processuali interne da cui deriva l’autorità di cosa giudicata di una decisione, nemmeno quando ciò permetterebbe di porre rimedio ad una violazione del diritto comunitario da parte di tale decisione, salva l’ipotesi, assolutamente eccezionale, di discriminazione tra situazioni di diritto comunitario e situazioni di diritto interno, ovvero di pratica impossibilità o eccessiva difficoltà di esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento comunitario. (vedi Sez. 5, n. 02046/2017, Sabato, Rv. 642529-01; Sez. 5, n. 16032/2015, Cirillo, Rv. 636342-01; Sez. 5, n. 18642/2018, Perrino, Rv. 649770-01).

Questo principio è stato così applicato in relazione ad una pluralità di fattispecie in cui l’efficacia preclusiva discendente dalla forza del giudicato è solo la diretta conseguenza dell’osservanza delle regole sottese a ciascun modello di tutela processuale, sicché si è ritenuto che nemmeno ove possa effettivamente sussistere una violazione del diritto unionale da parte della decisione divenuta irrevocabile è possibile aver ragione delle norme che rendono inammissibili l’appello (vedi Sez. 5, n. 25320/2010, Cappabianca, Rv. 615368-01) o il ricorso per cassazione (vedi Sez. 5, n. 16032/ 2015 già cit.) perché tardivi o ancora il ricorso per cassazione (vedi Sez. 5, n. 2046/2017 già cit.) perché privo di sommarietà.

Non meraviglia poi quanto da ultimo affermato da Sez. 1, n. 16983/2018, Marulli, Rv. 649675-01, secondo cui non è contraria ai principi del diritto comunitario e non deve, pertanto, essere disapplicata la disciplina del codice di rito civile, come costantemente interpretata dal diritto vivente, secondo cui, nel giudizio di opposizione all’esecuzione, iniziata in base ad un titolo esecutivo giudiziale, (nella specie un decreto ingiuntivo irrevocabile in una controversia in tema di aiuti di Stato) non possono essere sollevate eccezioni che si fondino su fatti anteriori alla formazione del titolo medesimo.

4.5. La responsabilità risarcitoria dello Stato.

Anche il principio della responsabilità degli Stati membri per i danni causati ai singoli, in conseguenza di violazioni del diritto europeo ad essi imputabili, non si trova espresso nei Trattati ed ha una esclusiva matrice giurisprudenziale.

La Corte di Giustizia, a partire dalla famosa sentenza Francovich, 19 novembre 1991, C-6/90 e C-9/90, seguita dalla sentenza 5 marzo 1996, C-46/93 e C-48/93, Brasserie du pêcheur e Factortame e da tante altre, ne ha definito, e nel tempo consolidato, il contenuto qualificandolo come principio “inerente al sistema dei Trattati“

Con il consolidarsi del processo di integrazione è aumentata l’esigenza di garantire un’applicazione uniforme del diritto dell’Unione in tutti i Paesi membri per evitare una situazione di discriminazione tra i cittadini; ogni violazione da parte di uno Stato membro rappresenta, infatti, un vulnus in un sistema giuridico che vede tra i suoi obiettivi fondamentali quello della parità di trattamento dei singoli all’interno dell’Unione, parità che può essere garantita solo da una interpretazione ed applicazione uniforme delle regole comuni.

La sentenza Francovich individua per la prima volta i presupposti sostanziali necessari per affermare una responsabilità degli Stati membri per i danni cagionati ai singoli, seppure limi-tatamente all’ipotesi più eclatante di violazione del diritto comunitario, quella in cui uno Stato membro venga meno all’obbligo, imposto dall’art. 288 TFUE (ex art. 249 del TCE), di adottare tutti i provvedimenti necessari a conseguire il risultato prescritto da una direttiva.

Tre le condizioni richieste:

1) che il risultato prescritto dalla direttiva implichi l’attribuzione di diritti a favore dei singoli;

2) che il contenuto di tali diritti possa essere individuato sulla base delle disposizioni della direttiva e che quindi la violazione sia sufficientemente caratterizzata;

3) che esista un nesso di causalità tra la violazione dell’obbligo a carico dello Stato e il danno subito dai soggetti lesi.

La sentenza Brasserie du Pêcheur e Factortame specifica tali condizioni affermando che è sufficientemente caratterizzata la violazione manifesta e grave, da parte di uno Stato membro o di un’istituzione comunitaria, dei limiti posti dal diritto comunitario al loro potere discrezionale.

Per valutare che una violazione sia manifesta e grave il giudice competente può prendere in considerazione vari elementi quali “il grado di chiarezza e di precisione della norma violata, l’ampiezza del potere discrezionale che tale norma riserva alle autorità nazionali o comunitarie, il carattere intenzionale o involontario della trasgressione commessa o del danno causato, la scusabilità o l’inescusabilità di un eventuale errore di diritto, la circostanza che i comportamenti adottati da un’istituzione comunitaria abbiano potuto concorrere all’omissione, all’adozione o al mantenimento in vigore di provvedimenti o di prassi nazionali contrari al diritto comunitario.”

È poi una violazione certamente manifesta e grave, quella che perdura sebbene vi sia stata la pronuncia di una sentenza della Corte che abbia già accertato l’inadempimento contestato, o di una sentenza pregiudiziale o di una giurisprudenza consolidata dalle quali risulti l’illegittimità del comportamento in questione.

Secondo le diverse qualificazioni giuridiche nazionali, spetta invece agli Stati membri, definire la competenza e le regole processuali dell’azione risarcitoria; sarà quindi il giudice interno, pur applicando le regole comunitarie, a dover accertare e liquidare il danno e a risolvere, secondo le disposizioni nazionali, tutte le complesse questioni che possono sorgere in tema di giurisdizione, legittimazione passiva, decadenza, prescrizione, entità del risarcimento.

Nel nostro ordinamento, in assenza di una disciplina organica ed autonoma della fattispecie, si sono avute da subito delle difficoltà a ricondurre questa peculiare ipotesi di responsabilità alle note e tradizionali categorie dell’illecito contrattuale o extracontrattuale.

A partire dalla sentenza Sez. U, n. 09147/2009, Picone, Rv. 607428-01, seguita da Sez. 3, n. 10813/2011, Frasca, Rv. 617336-01, è ormai consolidato l’orientamento secondo cui l’inadempimento dello Stato ad una direttiva comunitaria, che riconosca in modo sufficientemente specifico un diritto, dà luogo ad una fattispecie di responsabilità che non nasce da un fatto illecito alla stregua dell’art. 2043 c.c., ma è “contrattuale”, non già nel senso di una responsabilità da contratto, che nella specie manca, ma nel senso di un’obbligazione risarcitoria ricollegata direttamente alla violazione di una obbligazione preesistente, secondo la prospettiva dell’art. 1173 c.c., che è quella di adeguarsi all’ordinamento comunitario, violazione che è fonte di un obbligo risarcitorio nei termini fissati dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia.

Nel corso del 2018 le sentenze di legittimità in tema di responsabilità da inadempimento hanno avuto ad oggetto il non tempestivo recepimento nell’ordinamento italiano, entro il termine del 31 dicembre 1982, della direttiva n. 82/76/CEE, riassuntiva delle direttive n. 75/362/CEE e n. 75/363/CEE, in materia di corsi di specializzazione medica, e la tardiva ed incompleta trasposizione delle stesse con il d.lgs. n. 257 del 1991, che ha dato luogo negli anni ad una molteplicità di controversie, connesse essenzialmente alla mancata percezione dell’adeguata remunerazione prevista in ambito comunitario, promosse sia dai medici specializzandi che avevano frequentato corsi tra il 1983 e l’anno accademico 1990/91, che lamentavano un totale inadempimento, sia da quelli che avendo frequentato corsi tra gli anni 1991/92 e 2005/06, si sono visti applicare le disposizioni di cui al d.lgs. n. 257 del 1991 e lamentano un incompleto adeguamento rispetto a quanto disposto dal successivo d.lgs. n. 368 del 1999.

Sez. U, n. 20348/2018, Scaldaferri, Rv. 650269-01, a composizione di un contrasto insorto in ordine alla sussistenza di un diritto al risarcimento del danno anche a favore di quei medici che avevano iniziato il corso di specializzazione prima del 1° gennaio 1983 – questione sulla quale la stessa Corte, con ordinanza interlocutoria n. 23581 del 21 novembre 2016, aveva effettuato un rinvio pregiudiziale – in conformità con quanto affermato dalla CGUE nella sentenza 24 gennaio 2018, C-616/16 e C-617/16, ha riconosciuto ai medici specializzandi il risarcimento per la mancata percezione di una retribuzione adeguata anche per l’anno accademico 1982-1983, ma solo a partire dal 1° gennaio 1983, data dalla quale si era verificato l’inadempimento, e fino alla conclusione della formazione stessa.

Nello stesso senso si erano già espresse Sez. 3, n. 13773/2018, Fiecconi, Rv. 650179-01, e Sez. 6-3, n. 20186 /2018, Positano, Rv. 650476-01.

Sulla quantificazione del risarcimento, si è ulteriormente consolidato l’orientamento secondo cui la previsione di cui all’art. 11 della l. n. 370 del 1999, con la quale lo Stato italiano ha ritenuto di procedere ad un sostanziale atto di adempimento parziale soggettivo, con una sorta di aestimatio dell’obbligo risarcitorio, debba trovare applicazione anche nei confronti degli specializzandi non contemplati, sia che abbiano seguito corsi di specializzazione medica, iniziati negli anni dal 1° gennaio 1983 all’anno accademico 1990-1991 (su cui vedi Sez. U, n. 30649/2018, Scaldaferri, Rv. 651813-02), sia che avendo iniziato il corso anteriormente all’anno accademico 1990-1991, lo abbiano proseguito in epoca successiva, non applicandosi nei confronti di questi ultimi la disciplina di cui all’art. 6 del d.lgs. n. 257 del 1991, in forza dell’esclusione stabilita dall’art. 8, comma 2, del medesimo decreto legislativo (su cui Sez. 3, n. 13759/2018, Rossetti, Rv. 649045-01; conforme Sez. 3, n. 19884/2013, Frasca, Rv. 627589-01; difforme Sez. L, n. 02632/2012, Ianniello, Rv. 621212-01).

Sez. 3, n. 13758/2018, Rossetti, Rv. 649044-01, in continuità con Sez. 6-3, n. 06606/2014, Di Stefano, Rv. 630184-01, ha ribadito che tale diritto al risarcimento del danno si prescrive, per coloro i quali avrebbero potuto fruire del compenso nel periodo compreso tra il 1° gennaio 1983 e la conclusione dell’anno accademico 1990-1991, nel termine decennale decorrente dalla data di entrata in vigore (27 ottobre 1999) della l. n. 370 del 1999, il cui art. 11 ha riconosciuto il diritto ad una borsa di studio soltanto in favore di quanti, tra costoro, risultavano beneficiari delle sentenze irrevocabili emesse dal giudice amministrativo.

Questione specifica, ma non meno interessante, quella decisa da Sez. 3, n. 17058/2018, Spaziani, Rv. 649445-02, conforme Sez. 6-3, n. 17321/2018, Cirillo, Rv. 649840-02, secondo cui è ammissibile l’appello avverso la sentenza di condanna dello Stato italiano al risarcimento del danno derivante dalla violazione di una Direttiva europea, emessa dal giudice di pace nell’ambito di un giudizio di equità cd. necessaria, ai sensi dell’art. 113, comma 2, c.p.c., atteso che la ragione di impugnazione fondata sull’erronea applicazione della Direttiva rientra tra i motivi “limitati” di cui all’art. 339, comma 3, c.p.c.

5. Il diritto europeo nella giurisprudenza di legittimità.

Il diritto europeo costituisce un costante punto di riferimento per le decisioni della nostra Corte di legittimità, in alcuni casi come mero ispiratore di un’autonoma attività di interpretazione conforme del diritto nazionale, in altri come vincolo applicativo, laddove la questione interpretativa sia stata già esaminata e risolta dalla CGUE.

Ferma come prima soluzione quella del rinvio pregiudiziale, lo strumento della disapplicazione viene utilizzato cautamente, laddove costituisce la ricaduta necessaria dell’adeguamento al deliberato della Corte di Giustizia UE o in presenza del cd. acte eclaré, in ipotesi cioè così simili ad altre già esaminate dalla Corte che una omessa pronuncia in tal senso costituirebbe violazione manifesta del diritto eurounitario; non si rinvengono ad oggi decisioni in cui si sia proceduto direttamente alla disapplicazione di norme nazionali per contrarietà a disposizioni della CDFUE.

Tante le decisioni nella materia tributaria e del lavoro, ma non ne mancano in altri settori oggetto di normativa europea.

5.1. Il richiamo alle fonti ed alla giurisprudenza europea.

Numerose pronunce si segnalano per gli ampi riferimenti alla Carta di Nizza ed alla giurisprudenza europea come argomento ad abundantiam, in funzione rafforzativa di altri valori fondamentali già rinvenibili nel nostro ordinamento, o come parametro di riferimento ai fini di un’interpretazione conforme in vista di un risultato favorevole ad una delle parti altrimenti non ritenuto possibile.

Con una decisione ispirata alle disposizioni costituzionali ed europee che sanciscono un allargamento del concetto di famiglia, al fine di assicurare una tutela preminente agli interessi dei minori, Sez. 1, n. 19780/2018, Valitutti, Rv. 649955-02, ha stabilito che, alla luce dei principi desumibili dall’art. 8 CEDU, dall’art. 24, comma 2, della Carta di Nizza e dagli artt. 2 e 30 Cost., il diritto degli ascendenti, azionabile anche in giudizio, di instaurare e mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni, previsto dall’art. 317-bis c.c., cui corrisponde lo speculare diritto del minore di crescere in famiglia e di mantenere rapporti significativi con i parenti, ai sensi dell’art. 315-bis c.c., non va riconosciuto ai soli soggetti legati al minore da un rapporto di parentela in linea retta ascendente, ma anche ad ogni altra persona che affianchi il nonno biologico del minore, sia esso il coniuge o il convivente di fatto, e che si sia dimostrato idoneo ad instaurare con il minore medesimo una relazione affettiva stabile, dalla quale quest’ultimo possa trarre un beneficio sul piano della sua formazione e del suo equilibrio psico-fisico.

L’interesse del minore rileva anche in tema di procedimento per lo stato di adottabilità, ove Sez. 1, n. 18148/2018, Sambito, Rv. 649903-01, ha ribadito che il titolo II della l. n. 184 del 1983, nel testo novellato dalla l. n. 149 del 2001, che riflette anche principi sovranazionali (artt. 3, 9, 12, 14, 18, 21 della Convenzione di New York del 20 novembre 1989, ratificata con l. n. 176 del 1991; artt. 9 e 10 della Convenzione Europea sui diritti del fanciullo, stipulata a Strasburgo il 25 gennaio 1996 e ratificata con l. n. 77 del 2003; art. 24 della Carta di Nizza), attribuisce ai genitori del minore una legittimazione autonoma, connessa ad un’intensa serie di poteri, facoltà e diritti processuali atta a fare assumere loro la veste di parti necessarie e formali dell’intero procedimento di adottabilità.

La tutela di un diritto fondamentale quale quello alla riservatezza, esce sicuramente rafforzato dal richiamo oltre al quadro normativo e giurisprudenziale nazionale (artt. 2 Cost., 10 c.c. e 97 della l. n. 633 del 1941), a quello europeo desumibile dagli artt. 8 e 10, comma 2, della CEDU e 7 e 8 della c.d. Carta di Nizza.

Da tali fonti qualificate Sez. 1, n. 06919/2018, Valitutti, Rv. 647763-01, ricava il principio che il diritto fondamentale all’oblio può subire una compressione, a favore dell’ugualmente fondamentale diritto di cronaca, solo in presenza dei seguenti specifici presupposti: 1) il contributo arrecato dalla diffusione dell’immagine o della notizia ad un dibattito di interesse pubblico; 2) l’interesse effettivo ed attuale alla diffusione dell’immagine o della notizia (per ragioni di giustizia, di polizia o di tutela dei diritti e delle libertà altrui, ovvero per scopi scientifici, didattici o culturali); 3) l’elevato grado di notorietà del soggetto rappresentato, per la peculiare posizione rivestita nella vita pubblica del Paese; 4) le modalità impiegate per ottenere e nel dare l’informazione, che deve essere veritiera, diffusa con modalità non eccedenti lo scopo informativo, nell’interesse del pubblico, e scevra da insinuazioni o considerazioni personali, sì da evidenziare un esclusivo interesse oggettivo alla nuova diffusione; 5) la preventiva informazione circa la pubblicazione o trasmissione della notizia o dell’immagine a distanza di tempo, in modo da consentire all’interessato il diritto di replica prima della sua divulgazione al pubblico.

In tale arresto si rinvia a CGUE, sentenza 13 maggio 2014, C-131/12, Google Spain, secondo cui un soggetto interessato, sulla scorta dei diritti fondamentali derivanti dagli artt. 7 e 8 della Carta di Nizza, può chiedere che informazioni non più di interesse apprezzabile per la collettività non vengano messe a disposizione del grande pubblico, dovendo il diritto all’oblio prevalere, non soltanto sull’interesse economico del gestore del motore di ricerca, ma anche sull’interesse di tale pubblico ad accedere all’informazione suddetta in occasione di una ricerca concernente il nome di questa persona, con ‘unica eccezione per l’ipotesi in cui «risultasse, per ragioni particolari, come il ruolo ricoperto da tale persona nella vita pubblica, che l’ingerenza nei suoi diritti fondamentali è giustificata dall’interesse preponderante del pubblico suddetto ad avere accesso, in virtù dell’inclusione summenzionata, all’informazione di cui trattasi».

Chiaro esempio di utilizzo dell’interpretazione conforme del diritto nazionale è invece Sez. L, n. 06798/2018, Spena, Rv. 647606-01 e 647606-02, in cui preliminarmente si chiarisce che ai fini della tutela del lavoratore disabile, una controversia rientra nell’ambito di applicazione della direttiva n. 78/2000/CE del 27 novembre 2000, sulla parità di trattamento in materia di occupazione, ove sussista il presupposto oggettivo della attinenza della controversia stessa alle condizioni di lavoro e sia presente una condizione di “handicap”, la cui nozione, ricavabile dal diritto eurounitario come interpretato dalla CGUE, presuppone la presenza di una limitazione, risultante da menomazioni fisiche, mentali o psichiche di lunga durata, che, in interazione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione dell’interessato alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori.

Individuata la condizione di handicap, se ne deriva che in tema di licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta del lavoratore, derivante da una tale condizione, ai fini della legittimità del recesso, sussiste a carico del datore di lavoro l’obbligo della previa verifica della possibilità di adattamenti organizzativi ragionevoli nei luoghi di lavoro che discende, pur con riferimento a fattispecie sottratte ratione temporis all’applicazione dell’art. 3, comma 3-bis, del d.lgs. n. 216 del 2003, di recepimento dell’art. 5 della direttiva 2000/78/CE, dall’interpretazione del diritto nazionale in modo conforme agli obiettivi posti dal predetto art. 5.

L’interpretazione conforme al diritto dell’Unione europea è utilizzata anche da Sez. 3, n. 01269/2018, Spaziani, Rv. 647359-01 e 647359-02, per affermare che in tema di assicurazione della responsabilità civile derivante dalla circolazione di autoveicoli, l’art. 18 della l. n. 990 del 1969 (e, attualmente, l’art. 144 del d.lgs. n. 209 del 2005) deve essere interpretato nel senso che l’assicuratore non può esercitare l’azione di regresso nei confronti dell’assicurato proprietario del veicolo ove egli sia anche passeggero-vittima del sinistro, al fine di evitare che lo stesso debba restituire quanto conseguito per effetto del risarcimento, senza che possa essere opposta la clausola di esclusione dalla copertura assicurativa fondata sul fatto che il veicolo era condotto da persona non abilitata o in stato di ebbrezza, salvo che l’assicurato fosse a conoscenza della circostanza che il mezzo era stato rubato; nella stessa decisione, interpretata la disciplina di diritto interno in conformità alla giurisprudenza della Corte di giustizia, si è ritenuto che la qualità di vittima-avente diritto al risarcimento prevale su quella di assicurato-responsabile e pertanto il proprietario del veicolo, il quale al momento del sinistro viaggiava sullo stesso come trasportato, ha diritto ad ottenere dall’assicuratore il risarcimento del danno derivante dalla circolazione non illegale del mezzo, senza che assuma rilevanza la sua eventuale corresponsabilità, salva l’applicazione, in detta ipotesi, dell’art. 1227 c.c.

5.2. I principi generali dell’Unione.

Altre decisioni si caratterizzano per gli ampi richiami ai principi generali dell’Unione, come interpretati ed applicati dalla CGUE.

In riferimento alla normativa di contrasto alle società di comodo, Sez. 5, n. 16204/2018, Venegoni, Rv. 649230-02, ha ritenuto che il meccanismo di determinazione presuntiva del reddito di cui all’art. 30 della l. n. 724 del 1994, superabile mediante prova contraria, non si ponga in contrasto con il principio di proporzionalità, rispetto al quale, la Corte di Giustizia (sentenza 13 marzo 2007, causa C-524/04) ha affermato che una normativa nazionale che si fondi sull’esame di elementi oggettivi e verificabili per stabilire se un’operazione consista in una costruzione di puro artificio ai soli fini fiscali, e quindi elusiva, va considerata come non eccedente rispetto a quanto necessario per prevenire pratiche abusive, ove il contribuente sia messo in grado, senza oneri eccessivi, di dimostrare le eventuali ragioni commerciali che giustificano detta operazione.

Per Sez. 5, n. 05733/2018, Venegoni, Rv. 647279-01, in materia di agevolazioni tributarie, la previsione dell’art. 29, comma 1, del d.l. n. 185 del 2008 (cd. “decreto anticrisi”), conv. con modif., in l. n. 2 del 2009, nella parte in cui istituisce un tetto massimo al credito d’imposta fruibile per le spese di ricerca e di sviluppo, anche con riguardo ai crediti maturati prima della sua entrata in vigore, non contrasta con il principio di legittimo affidamento, perché, come affermato dalla Corte cost. e dalla Corte di Giustizia UE, detto principio arretra quando l’intervento normativo è giustificato dalla salvaguardia di principi, diritti e beni di rilievo costituzionale, tra i quali rientra la finalità di detto decreto di mantenere il bilancio dello Stato nel rispetto dei limiti approvati anche in sede europea.

Da Sez. 5, n. 04150/2018, Crucitti, Rv. 647158-02, è affrontata la questione del termine di decadenza applicabile al diritto al rimborso di imposte dichiarate incompatibili con il diritto dell’Unione, equiparate ai tributi pagati in base a norma dichiarata incostituzionale, che in quanto eliminata con effetto retroattivo dall’ordinamento rende ex post i pagamenti non dovuti, con il limite per cui il rimborso non spetta quando il pagamento si collega a un rapporto esaurito, intendendosi per tale anche quello in cui sia scaduto il termine per chiedere il rimborso, che decorre dal pagamento.

Premesso che, in mancanza di disciplina comunitaria di domande di rimborso delle imposte indebitamente prelevate, spetta all’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro stabilire i requisiti al ricorrere dei quali tali domande possano essere presentate, purché i requisiti in questione rispettino i principi di equivalenza e di effettività, si è ritenuto che il termine di decadenza biennale previsto dall’art. 21, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, entro il quale può essere chiesto il rimborso dell’IVA indebitamente corrisposta all’Amministrazione finanziaria, trova applicazione, in mancanza di una disciplina specifica, anche ove una norma interna sia stata dichiarata incompatibile con il diritto dell’Unione Europea, in quanto detto termine, come affermato dalla stessa Corte di Giustizia, non è contrario ai principi di equivalenza e di effettività, consentendo ad un soggetto normalmente diligente di far valere i propri diritti.

Sempre in materia di rimborsi di imposte dichiarate, in epoca successiva al pagamento, incompatibili con il diritto comunitario da una sentenza della Corte di Giustizia, Sez. 5, n. 22345/2018, Scotti, Rv. 650232-01, ha ritenuto che il termine di decadenza del diritto al rimborso, previsto dall’art. 38 del d.P.R. n. 602 del 1973 per le imposte sui redditi, decorre dalla data del versamento (quanto ai versamenti diretti) o della ritenuta (quanto alle somme assoggettate a ritenuta alla fonte), e non da quella in cui è intervenuta la pronuncia che ne ha sancito la contrarietà all’ordinamento comunitario, senza che possano invocarsi, in senso contrario, i principi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità in tema di overruling per giustificare la decorrenza del suddetto termine dalla data della decisione della Corte di Giustizia, in quanto, per un verso, non vengono in rilievo regole processuali e, per un altro, vi è un’esigenza di certezza delle situazioni giuridiche, tanto più cogente in materia tributaria, che sarebbe compromessa dalla sostanziale protrazione a tempo indeterminato dei relativi rapporti.

In tema di successione abusiva di contratti a termine nel settore pubblico, l’art. 32 della l. n. 183 del 2010 è stato ritenuto un idoneo parametro ai fini della determinazione del danno da precarizzazione in quanto conforme ai principi di effettività ed equivalenza di cui alla direttiva n.1999/70/CE, così come interpretati dalla CGUE nella decisione 7 marzo 2018 in causa C-494/2016. (vedi Sez. 6-L, n. 31174/2018, Spena, Rv. 651917-01.

Il principio di non discriminazione è spesso protagonista nella materia lavoristica ove nel corso del 2018 è stato al centro di due questioni sottoposte con esiti opposti al preventivo vaglio della CGUE.

Sez. L, n. 03982/2016, Napoletano, Rv. 638852-01, nell’ambito di un giudizio in cui si contestava la legittimità di un licenziamento di un giovane assunto con un contratto di lavoro cd. intermittente, caratterizzato cioè da prestazioni discontinue, intimato esclusivamente in ragione del raggiungimento del 25° anno di età, aveva effettuato un rinvio pregiudiziale, sull’interpretazione del principio di non discriminazione in base all’età, principio generale del diritto dell’Unione che trova la sua espressione nella direttiva n. 2000/78/CE del 27 novembre 2000, in tema di parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro e nell’art. 21, n. 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, in vista di un potenziale conflitto con l’art. 34 del d.lgs. n. 276 del 2003, il cui secondo comma nella formulazione ratione temporis applicabile, prevedeva che il contratto di lavoro intermittente potesse essere concluso solo con riferimento a prestazioni rese da soggetti con meno di 25 di età o più di 45 (limite successivamente ridotto a meno di 24 anni e più di 50).

La Corte rilevava che ai sensi dell’art. 6, n. 1, comma 1, della predetta direttiva una disparità di trattamento in base all’età non costituisce discriminazione laddove essa sia oggettivamente e ragionevolmente giustificata, nell’ambito del diritto nazionale, da una finalità legittima, compresi giustificati obiettivi di politica del lavoro, di mercato del lavoro e di formazione professionale, e i mezzi per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari e che la normativa nazionale non effettuava alcun riferimento ad una di tali finalità.

Sez. L, n. 04223/2018, Bronzini, Rv. 647269-02, si è adeguata a quanto deciso dalla CGUE, con sentenza del 19 Luglio 2017, causa C-143/201 e, ritenuto che l’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, l’art. 2, par. 1 e par. 2, lett. a), nonché l’art. 6, par. 1, della direttiva 2000/78/CE del Consiglio, che regolano la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, devono interpretarsi nel senso che essi non ostano ad una disposizione, quale l’art. 34, comma 2, del d.lgs. n. 276 del 2003, che autorizza il datore di lavoro a concludere contratti di lavoro intermittente con lavoratori con meno di venticinque anni, qualunque sia la natura delle prestazioni da eseguire, e a licenziare detti lavoratori al compimento del venticinquesimo anno, in quanto tale disposizione, perseguendo una finalità legittima di politica del lavoro e del mercato del lavoro, non determina una discriminazione in ragione dell’età, ha riformato sul punto la sentenza di merito, che aveva invece ritenuto la natura discriminatoria del licenziamento.

Un altro caso di discriminazione per età aveva ad oggetto il tema del prolungamento dell’età pensionabile per i lavoratori dello spettacolo appartenenti alle categorie dei tersicorei e ballerini, con un limite massimo diverso tra uomini e donne; in questo caso con l’ordinanza interlocutoria del 9 marzo 2017, n. 06101, non massimata, la Sezione lavoro, sempre in un giudizio avente ad oggetto la legittimità di un licenziamento intimato esclusivamente in ragione dell’età, aveva espresso dubbi sul potenziale conflitto con il principio di non discriminazione in base al sesso, di cui alla direttiva n. 2006/54/CE, in tema di pari opportunità e parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e di impiego, con l’art. 21 della CDFUE e con l’art.157 TFUE (ex art. 141 TCE) che sancisce il principio di parità retributiva fra uomini e donne, dell’art. 3, comma 7, del d.l. n. 64 del 2010, conv. con modif. in l. n. 100 del 2000, nella parte in cui fissa il limite massimo per l’esercizio dell’opzione di permanenza in servizio, oltre l’età pensionabile fissata a quarantacinque anni, in quarantasette anni per le donne e cinquantadue per gli uomini.

La CGUE, con ordinanza 7 febbraio 2018, C-142/17 e 143/17, Maturi e a., ha affermato che tale normativa, introduce una discriminazione diretta fondata sul sesso in quanto i lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile si trovano in una situazione paragonabile per quanto attiene alle condizioni di cessazione del rapporto di lavoro, per la quale, a differenza di quanto previsto per le discriminazioni indirette, non sono possibili deroghe per finalità legittime per cui tale discriminazione è vietata dall’art. 14, paragrafo 1, lettera c), della direttiva 2006/54, e Sez. L, n. 12108/2018, Lorito, Rv. 649001-02, adeguandosi, ha deciso per la diretta disapplicazione della norma in questione.

In tema di trattamento economico dei dipendenti del Ministero della Sanità, Sez. L, n. 12804/2018, Torrice, Rv. 648735-01, ha invece escluso che l’eliminazione dell’indennità incentivante di cui all’ art. 7 della l. n. 362 del 1999, disposta dall’art. 67, comma 2, del d.l. n. 112 del 2008, conv. con modif. dalla l. n. 133 del 2008, fosse contraria ai principi di non discriminazione di cui agli artt. 20 e 21 della Carta di Nizza e della direttiva n. 2000/78/CE, in quanto funzionale alle esigenze di stabilizzazione della finanza pubblica.

5.3. Le decisioni interpretative della CGUE.

Diretta applicazione di decisioni interpretative della Corte di Giustizia UE in materia di Iva sono: Sez. 5, n. 25440/2018, Catallozzi, Rv. 650802-01; Sez. 5, n. 24447/2018, Putaturo Donati Viscido di Nocera, Rv. 650705-01; Sez. 5, n. 23514/2018, Triscari, Rv. 650339-01; Sez. 5, n. 22333/2018, Catallozzi, Rv. 650507-01; Sez. 5, n. 20257/2018, Stalla, Rv. 650150-01; Sez. 5, n. 13119/2018, Perrino, Rv. 648514-01; Sez. 5, n. 12237/2018, Mancuso, Rv. 648368-01; Sez. 5, n. 10006/2018, Caiazzo, Rv. 648067-01; Sez. 5, n. 11140/2018, Nonno, Rv. 648065-01; Sez. 5, n. 27822/2018, Federici, Rv. 651541-01.

In tema di accise sui carburanti si è espressa Sez. 5, n. 24326/2018, Nonno, Rv. 650524-01; l’INVIM è l’oggetto di Sez. 5, n. 10682/2018, Mondini, Rv. 648062-01, mentre in tema di appalti pubblici di servizi sanitari stipulati nel vigore del d.lgs. n. 157 del 1995, nel testo anteriore alle modifiche recate dal d.lgs. n. 65 del 2000, si segnala Sez. 1, n. 25553/2018, Mercolino, Rv. 651297-01, che sulla base sulla base dei principi fissati da CGUE, sentenza 19 aprile 2018, C-65/17, ha ritenuto che la scelta del sistema della trattativa privata non dispensa l’amministrazione aggiudicatrice dall’osservanza dell’obbligo di garantire, a pena di nullità del contratto, un adeguato livello di pubblicità della procedura imposto dalla direttiva, sempre che non si provi la sussistenza di ragioni di sanità pubblica idonee a giustificare una deroga al predetto obbligo, stante la competenza degli Stati membri a configurare i loro sistemi di sanità pubblica secondo principi di universalità, solidarietà, efficienza economica e adeguatezza.

L’attenuazione del regime probatorio in caso di procedimenti speciali antidiscriminatori promossi nei confronti del datore di lavoro, in linea con quanto disposto dall’art. 19 della direttiva CE n. 2006/54, come interpretato da CGUE nella sentenza 21 luglio 2011, C-104/10, è ribadita da Sez. L, n. 25543/2018, Di Paolantonio, Rv. 650734-01.

Sulla scottante tematica dell’immigrazione, di grande attualità e oggetto ormai di un consistente contenzioso, Sez. 6-1, n. 13858/2018, Lamorgese, Rv. 648790-01, ha chiarito che ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, a norma dell’art. 14, lett. c), del d.lgs. n. 251 del 2007, la nozione di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato, interno o internazionale, in conformità con la giurisprudenza della Corte di giustizia UE (sentenza 30 gennaio 2014, in causa C-285/12), deve essere interpretata nel senso che il conflitto armato interno rileva solo se, eccezionalmente, possa ritenersi che gli scontri tra le forze governative di uno Stato e uno o più gruppi armati, o tra due o più gruppi armati, siano all’origine di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria. Il grado di violenza indiscriminata deve aver pertanto raggiunto un livello talmente elevato da far ritenere che un civile, se rinviato nel Paese o nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio, un rischio effettivo di subire detta minaccia e sulla base di tale principio ha escluso la ricorrenza del presupposto nel caso di un cittadino del Bangladesh.

Mentre per Sez. 6-1, n. 19819/2018, Sambito, Rv. 650342-01, in applicazione dell’art. 7 del d.lgs. n. 25 del 2008 e in conformità alla giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea (sentenza 30 maggio 2013, causa C-534/11), il cittadino straniero richiedente asilo ha diritto di rimanere nel territorio dello Stato per tutto il tempo durante il quale la sua domanda viene esaminata, anche se è stata presentata dopo l’emissione del decreto di espulsione – fermo restando che, in presenza delle altre condizioni di legge, può comunque essere disposto il suo trattenimento, nel caso in cui la richiesta appaia del tutto strumentale – sicché, operando il divieto di espulsione, il rigetto dell’opposizione avverso il decreto di espulsione, da lui proposta innanzi al giudice di pace, deve ritenersi illegittimo.

5.4. La disapplicazione.

Non sempre il primato del diritto dell’Unione costituisce uno strumento di espansione ed ampliamento della sfera dei diritti, nel senso che andando ad operare a tutela di interessi superiori degli Stati, può incidere, limitandoli, sui diritti dei singoli.

Tanto avviene spesso nella materia tributaria, nell’ambito della disciplina dell’Unione in materia di IVA, che, in quanto improntata alla salvaguardia del principio di neutralità dell’imposta rispetto alle varie fasi del ciclo produttivo o distributivo, ha determinato la disapplicazione di numerose norme cd. clemenziali; quasi tutte le pronunce conseguono a decisioni interpretative della CGUE.

Per Sez. 6-5, n. 19661/2018, Napolitano, Rv. 650358-01 va disapplicato l’art. 9-bis della l. n. 289 del 2002, nella parte in cui consente di definire una controversia con l’Amministrazione finan-ziaria evitando il pagamento delle sanzioni connesse al ritardato od omesso versamento dell’IVA, a prescindere da specifiche deduzioni di parte e senza che possano ostarvi preclusioni procedimentali o processuali (quale, nella specie, il carattere “chiuso” del giudizio di cassazione), essendo in contrasto con gli obblighi previsti dagli artt. 2 e 22 della VI direttiva del Consiglio 17 maggio 1977, n. 77/388 CEE, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative all’IVA, secondo l’interpretazione resa dalla Corte di giustizia nella sentenza 17 luglio 2008, causa C-132/06, che ascrive a dette norme comunitarie portata generale, poiché anche tale forma di condono cd. clemenziale, come le ipotesi di condono premiale previste dagli artt. 7 ed 8 della stessa l. n. 289 del 2002, è idonea a pregiudicare in modo significativo il funzionamento del sistema comune dell’imposta sul valore aggiunto, incidendo sulla corretta riscossione di quanto dovuto.

Si è anche precisato in Sez. 5, n. 17621/2018, Nonno, Rv. 649820-01, che la disapplicazione, per contrasto con il diritto unionale, delle disposizioni interne sul condono in relazione all’IVA, non incide sulla proroga dei termini per l’accertamento prevista dall’art. 10 della l. n. 289 del 2002 proprio per consentire all’Amministrazione di effettuare gli adempimenti imposti dal condono senza pregiudizio per l’esercizio del potere accertativo nelle ipotesi nelle quali, per scelta del contribuente o limitazione normativa, non possa realizzarsi la definizione premiale.

Nella materia dei rifiuti, Sez. 2, n. 19553/2018, Criscuolo, Rv. 649995-01 ha concluso per la disapplicazione, ai sensi della sentenza CGUE 11 novembre 2004, C-457, per contrasto con l’art. 1, lett. a), della direttiva CEE n. 442 del 1975, recepito dall’art. 6, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 22 del 1997, dell’art. 14 del d.l. n. 138 del 2002, conv. dalla l. n. 178 del 2002, nella parte in cui sottrae dalla categoria dei rifiuti le sostanze che possono essere riutilizzate in un diverso ciclo produttivo e che, invece, secondo la direttiva medesima, devono considerarsi rifiuti fino alla loro effettiva riutilizzazione.

Sez. L, n. 05513/2018, Pagetta, Rv. 647663-02, ha invece escluso che sia disapplicabile per contrasto con la direttiva n. 98/59/CE, l’impianto normativo di cui alla l. n. 223 del 1991, nel testo vigente prima delle modifiche recate dall’art. 16 della l. n. 161 del 2014, nella parte in cui esclude i dirigenti dalle procedure in tema di licenziamento collettivo, atteso che, in accordo con la giurisprudenza della CGUE che esclude l’efficacia diretta delle direttive prima della loro attuazione nei rapporti cd. orizzontali (sentenza 26 febbraio 1986, in causa C-152/84, Marshall), la disciplina dei licenziamenti collettivi è destinata a regolare interessi che attengono esclusivamente a situazioni soggettive private (del datore di lavoro e del lavoratore), né tale caratteristica viene meno in considerazione dell’impatto economico e sociale normalmente connesso all’adozione di dette procedure, per le quali è previsto il coinvolgimento delle organizzazioni sindacali, anch’esse soggetti privati, ovvero del mero obbligo di comunicazione all’autorità pubblica del progetto di licenziamento, insuscettibile di evidenziare l’esistenza di uno specifico e diretto interesse collettivo distinto da quello degli altri soggetti privati coinvolti.

6. Il ruolo della Consulta: la svolta di cui alla sentenza n. 269 del 2017.

La Corte costituzionale ha da sempre affermato che la supremazia delle norme comunitarie, che si esprime nei vincoli imposti al legislatore e nel potere di non applicazione della norma interna in contrasto da parte del giudice nazionale, incontra comunque un limite, quello della intangibilità dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e dei diritti inviolabili garantiti dalla Costituzione.

L’affermazione dell’esistenza dei cd “controlimiti” ha come premessa l’idea che permanga un ambito sottratto al primato del diritto unionale, ove resta intatta la sovranità nazionale ed il potere di disapplicazione diffuso arretra a favore di una riespansione del controllo di costituzionalità anche su fonti ad efficacia diretta.

Tale teoria è stata ribadita anche dopo l’ “europeizzazione dei controlimiti” avvenuta con il richiamo contenuto nell’art. 4, comma 2, del TUE al rispetto da parte dell’Unione dell’uguaglianza degli Stati membri dinanzi ai Trattati e della “loro identità nazionale insita nella loro struttura fondamentale politica e costituzionale” e con la riformulazione dell’art. 6, che ha determinato l’equiparazione ai Trattati della cd. Carta di Nizza e l’inserimento nei principi generali del diritto dell’Unione dei diritti fondamentali garantiti dalla CEDU e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri (si veda in Corte cost. sentt. n. 28 e n. 227 del 2010).

Il Giudice delle leggi ha così attribuito a sé il monopolio nella identificazione del concetto di “identità nazionale”, che l’Unione si è impegnata a rispettare, e rifiutato l’idea che questi limiti da interni fossero divenuti esterni, e quindi incorporati da quello stesso ordinamento rispetto al quale erano stati eretti.

Mentre sino a qualche tempo fa i controlimiti sembravano avere una funzione più che altro simbolica, di mero deterrente ad una ingerenza eccessiva del diritto eurounitario, si è andati molto vicino ad un loro primo utilizzo all’esito della sentenza della CGUE 8 settembre 2015, C-105/14, Taricco.

Tale pronuncia ha messo a dura prova diritti e principi fondanti del nostro sistema costituzionale, quali il principio della certezza del diritto, per l’eccessiva discrezionalità lasciata al giudice nazionale nel valutare il ricorso alla disapplicazione, ed il principio di legalità, rispetto alla natura sostanziale che la prescrizione penale riveste nel nostro ordinamento.

Non meraviglia dunque che molti osservatori abbiano visto una reazione difensiva nell’ulteriore pilastro a tutela della sovranità nazionale eretto dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 269 del 2017, pronuncia che ha suscitato un animato e non ancora sopito dibattito.

Il precetto ivi espresso, innovativo rispetto alle di poco precedenti sentenze nn. 48 e 111 dello stesso anno, e dalle ricadute dirompenti, è contenuto in un obiter, per cui si è dubitato della sua vincolatività; difficile comunque non tenerne conto, sia per l’autorevolezza della fonte sia per la lapidarietà dell’enunciato.

L’ordinanza di rimessione, con cui la Commissione tributaria provinciale di Roma ha sollevato una questione di legittimità costituzionale della normativa in tema di contributi imposti alle imprese per finanziare l’AGCM, poneva l’annoso problema della inadeguatezza, rispetto alle esigenze di certezza del diritto, e della difficile conciliazione con il nostro sistema a Costituzione rigida, del controllo diffuso di costituzionalità sotteso all’utilizzo della disapplicazione/non applicazione come regola di risoluzione dell’antinomia tra diritto interno e diritto dell’UE, che conduce appunto alla non utilizzazione da parte del giudice comune della norma interna incompatibile per la soluzione del caso esaminato, senza che ciò comporti l’eliminazione di quest’ultima dall’ordinamento nazionale.

La Corte, pur dopo aver ricordato che la questione di compatibilità con il diritto dell’Unione europea costituisce un prius logico e giuridico rispetto alla questione di legittimità costituzionale in via incidentale, poiché investe la stessa applicabilità della norma censurata nel giudizio principale e, pertanto, la rilevanza della questione di cui ogni giudice deve farsi carico, a pena di inammissibilità, al centrale punto 5.2. precisa che, a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, che ha modificato tra l’altro l’art. 6, par. 1 del Trattato sull’Unione europea, sono stati attribuiti effetti giuridici vincolanti alla CDFUE, per cui, fermi i principi del primato e dell’effetto diretto del diritto dell’Unione, come sin qui consolidatisi nella giurisprudenza europea e costituzionale, occorre prendere atto che la citata Carta dei diritti costituisce parte del diritto dell’Unione dotata di caratteri peculiari in ragione del suo contenuto di impronta tipicamente costituzionale.

Poiché “ i principi e i diritti enunciati nella Carta intersecano in larga misura i principi e i diritti garantiti dalla Costituzione italiana (e dalle altre Costituzioni nazionali degli Stati membri)”, è possibile che la violazione di un diritto della persona infranga, ad un tempo, sia le garanzie presidiate dalla Costituzione italiana, sia quelle codificate dalla Carta dei diritti dell’Unione; ebbene, nel caso una legge sia oggetto di dubbi di illegittimità tanto in riferimento ai diritti protetti dalla Costituzione italiana, quanto in relazione a quelli garantiti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea in ambito di rilevanza comunitaria, secondo l’innovativo principio affermato dalla Consulta, dovrà essere sollevata preliminarmente la questione di legittimità costituzionale, fatto salvo il ricorso, al rinvio pregiudiziale per le questioni di interpretazione o di invalidità del diritto dell’Unione, ai sensi dell’art. 267 del TFUE.

Con la sentenza n. 269 del 2017 la Corte costituzionale ha quindi attratto a sé la competenza nel caso la questione riguardi la violazione di diritti fondamentali della persona riconosciuti, a un tempo, dalla Costituzione e dalla Carta di Nizza, pur laddove alle disposizioni di quest’ultima dovesse essere riconosciuta o fosse stata già riconosciuta l’attitudine di fonte ad efficacia diretta.

Poiché la Carta di Nizza rileva solo nell’ambito di attuazione del diritto dell’Unione, è inevitabile che tale eventualità andrà a verificarsi in settori dove opera la normativa secondaria, inoltre data l’ampiezza delle previsioni della CDFUE è difficile ipotizzare che vi siano settori oggetto di normativa secondaria che non rientrino anche nel “cono d’ombra” della stessa; il discrimine resta dunque solo quello dell’impatto su diritti fondamentali.

In tali ipotesi, permane ad oggi priva di ostacoli ed anzi è incentivata la via del rinvio pregiudiziale; la scelta come prima via, dell’incidente di costituzionalità o del rinvio pregiudiziale, resta anch’essa rimessa alla discrezionalità del giudice nazionale, opzione che dovrà articolarsi esclusivamente sul piano dell’esistenza o meno di dubbi interpretativi sulla norma UE, sui quali sussiste il monopolio della CGUE.

L’indicazione della Corte costituzionale risulta invece innovativa rispetto al passato laddove richiede che l’incidente di costituzionalità sia prioritario rispetto alla disapplicazione; mentre in precedenza, in presenza dei presupposti per la disapplicazione, quindi dell’efficacia diretta della norma UE, la questione di legittimità costituzionale perdeva di rilevanza divenendo così inammissibile, oggi, nei casi in cui la questione impatti diritti fondamentali della persona, o sussista il solo dubbio che coinvolga uno di tali diritti, si pone come indispensabile il preventivo ricorso al Giudice delle leggi.

Come già evidenziato dalla più autorevole dottrina, fatte salve le ipotesi più agevoli in cui, preventivamente adita la Corte costituzionale la norma venga dichiarata costituzionalmente illegittima, o preventivamente adita la CGUE vengano esclusi i presupposti per la sua disapplicazione, tale soluzione pone le basi per potenziali conflitti che potrebbero coinvolgere due (Corte costituzionale e giudice comune) o tre (Corte costituzionale, Corte di Giustizia UE e giudice comune) degli interlocutori delle rispettive pregiudiziali.

Pur superato il vaglio di legittimità costituzionale, il giudice remittente potrebbe ritenere di procedere comunque alla disapplicazione, senza ricorrere al rinvio pregiudiziale non avendo dubbi sulla portata della norma UE; ancora più complesso il conflitto nel caso in cui, effettuata successivamente la pregiudiziale comunitaria, la sussistenza dei presupposti per procedere alla disapplicazione vengano confermati dalla CGUE, con obbligo del giudice comune di conformarsi alla decisione del giudice europeo.

Ancora da chiarire la portata dell’inciso “ove per altri profili” di cui alla sentenza n. 269 del 2017, a sua volta condizionato dall’ampiezza del sindacato che la Corte costituzionale sceglierà di esercitare sul parametro europeo, trovandosi per la prima volta a scrutinare norme precise ed incondizionate dotate di efficacia diretta, rispetto alla cui interpretazione opera il vincolo del monopolio della CGUE.

Dalla lettura della sentenza n. 269 del 2017 non sembra che la Corte cost. intenda porsi limiti, in quanto affermando che “giudicherà alla luce dei parametri interni ed eventualmente di quelli europei (ex artt. 11 e 117 Cost.), secondo l’ordine di volta in volta appropriato, anche al fine di assicurare che i diritti garantiti dalla citata Carta dei diritti siano interpretati in armonia con le tradizioni costituzionali” rivendica e riserva a sé l’armonizzazione e quindi la soluzione dei conflitti tra i parametri interni ed europei (conflitto che si determina proprio nel caso in cui la norma venga ritenuta costituzionalmente legittima ma incompatibile con il diritto UE).

L’inciso potrebbe o essere svuotato sino al punto da divenire quasi pleonastico, in quanto, autolimitando la Corte costituzionale il proprio sindacato ai profili costituzionali, la disapplicazione potrebbe sempre avvenire per il contrasto con una norma UE, dalla stessa non presa in considerazione, e non con una norma costituzionale, o caricarsi di contenuto, sino ad escludere il potere di disapplicazione del giudice comune sia rispetto alla norma UE, direttamente esaminata dalla Corte come parametro europeo, sia per quei profili in cui la norma UE va comunque a coincidere con la norma costituzionale esaminata quale parametro interno, sindacato quest’ultimo inevitabile in quanto la contemporanea infrazione della norma UE e della norma costituzionale costituisce il presupposto del preventivo ricorso alla Consulta.

Mentre in passato la nostra Corte costituzionale, con le dichiarazioni di inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale sollevate in riferimento a norme disapplicabili, si era sottratta volutamente ad ogni corto circuito interpretativo, oggi, seppure limitatamente alle questioni che coinvolgano diritti fondamentali, ha posto le premesse per la insorgenza di potenziali conflitti, nel caso in cui rispetto allo stesso parametro europeo si affermi la legittimità costituzionale della norma nazionale ma la sua incompatibilità con il diritto UE.

6.1. Le prime ricadute nelle pronunce della Suprema Corte.

Le criticità poste da tale pronuncia sono state prontamente stigmatizzate da Sez. 2, n. 03831/2018, Cosentino, Rv. 647802-01 e 02, che ha sollevato una questione di legittimità costituzionale dell’art. 187 quinquiesdecies del Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria (TUF), nel testo originario, con riferimento ai parametri interni degli artt. 24, 111 e 117 Cost., in relazione all’art. 6 CEDU, ed all’art. 14, comma 3, lett. g), del Patto internazionale sui diritti civili e politici adottato a New York e, infine, con riferimento agli artt. 11 e 117 Cost., in relazione all’art. 47 CDFUE, norma che, sanzionando la non ottemperanza alle richieste della CONSOB o il ritardo recato all’esercizio delle relative funzioni, anche in capo al soggetto al quale, nell’esercizio di dette funzioni di vigilanza, la stessa CONSOB ascriva illeciti amministrativi relativi all’abuso di informazioni privilegiate, sembrerebbe, a giudizio del Collegio, violare il diritto inviolabile di ogni individuo di non poter essere obbligato a collaborare alla propria incolpazione.

Questione di legittimità costituzionale è stata sollevata anche per l’art. 187-sexies TUF, introdotto dall’articolo 9, comma 2, lett. a), della l. n. 62 del 2005, in relazione agli artt. 3, 42 e 117 Cost., quest’ultimo con riferimento all’art. 1 del Primo Protocollo addizionale alla CEDU, nonché agli artt. 11 e 117 Cost., con riferimento agli artt. 17 e 49 della CDFUE, nella parte in cui assoggetta a confisca l’equivalente della somma del profitto dell’illecito e dei mezzi impiegati per commetterlo, ossia l’intero prodotto dell’illecito.

L’ordinanza al punto 11.3.6.6 esamina in modo problematico i rapporti tra il diritto fondamentale espresso nel principio nemo tenetur se detegere, tutelato dall’art. 47 della CDFUE, ed il dovere di prestare collaborazione alle indagini, al fine di dotare le autorità di vigilanza di strumenti e poteri idonei a garantire l’efficacia della loro azione, desumibile dall’art. 14, comma 3, della direttiva 2003/6/CE, relativa all’abuso di informazioni privilegiate e alla manipolazione del mercato, anche alla luce del 37° considerando della stessa direttiva.

Ponendosi però contemporaneamente un problema di violazione di diritti fondamentali tutelati sia dalla Costituzione che dalla CDFUE, e pur non dubitando della efficacia diretta dell’art. 47 della Carta applicabile in un ambito oggetto di disciplina dell’Unione, la S.C., in luogo di procedere ad un preliminare rinvio pregiudiziale alla CGUE ed all’esito ad una eventuale disapplicazione, in ossequio al dettato della sentenza n. 269 del 2017, ha ritenuto di adire preventivamente la Corte costituzionale e sottoposto la questione di legittimità costituzionale sia con riferimento ai parametri interni (art. 24 e 111 Cost.), ed interni come interposti (art. 117, in riferimento all’art. 6 CEDU), sia con riferimento ai parametri europei (art. 11 e 117, in riferimento all’art. 47 della Carta).

Il Collegio si interroga tuttavia, e su tanto sollecita un intervento chiarificatore della Consulta, sulle conseguenze di una eventuale declinatoria della questione di legittimità costituzionale; la questione posta è se il giudice comune, sia autonomamente perché certo dell’interpretazione delle norme UE sia all’esito di un eventuale rinvio alla CGUE, che potrebbe concludersi con un esito opposto a quello dell’incidente di costituzionalità, conservi il potere di non applicazione della norma in ogni caso o solo per profili diversi da quelli già esaminati dalla Corte costituzionale, come sembrerebbe dall’inciso utilizzato nella sentenza n. 269.

La Sezione lavoro, con due pronunce successive, ha invece scelto soluzioni diverse, procedendo in un caso alla diretta disapplicazione di una norma nazionale, che pur attingeva diritti fondamentali, ed optando in un altro, in via prioritaria, per il rinvio pregiudiziale.

Sez. L, n. 12108/2018, Lorito, Rv. 649001-02, in materia di cessazione del rapporto per raggiunti limiti di età dei lavoratori dello spettacolo appartenenti alle categorie dei tersicorei e ballerini, ha concluso per l’immediata disapplicazione dell’art. 3, comma 7, del d.l. n. 64 del 2010, conv. con modif. dalla l. n. 100 del 2010, che introducendo una discriminazione fondata sul sesso, laddove diversifica il limite massimo di età pensionabile previsto per le donne (quarantasette anni) e per gli uomini (cinquantadue), si pone in contrasto con l’art. 14, par. 1, lett. c) della direttiva 2006/54/CE, senza ritenere necessario promuovere preventivamente l’incidente di costituzionalità, sia per la natura non obbligante della sentenza della Corte cost. n. 269 del 2017, sia perché, nella specie, la questione era già stata sottoposta alla Corte di Giustizia UE, che, con ordinanza 7 febbraio 2018, C-142/17 e C-143/17, si era espressa nel senso della violazione della direttiva, in assenza di richiami alla Carta di Nizza.

Il tema posto dalla Corte costituzionale è stato così eluso, evidenziando da un lato che il contrasto della normativa interna con il diritto dell’Unione europea aveva già formato oggetto di accertamento da parte della Corte di giustizia, precedentemente investita dalla stessa Corte con rinvio pregiudiziale disposto nell’ambito di quel medesimo procedimento, e dall’altro che il precetto di cui alla sentenza n. 269 del 2017, oltre che non vincolante, in quanto espresso in un obiter, non era comunque rilevante nella fattispecie, non venendo in rilievo un contrasto tra la disposizione interna e la CDFUE, perché il diritto a non essere discriminati per sesso risultava tutelato già dalla direttiva 2006/54 e pertanto sarebbe stato sottratto al controllo accentrato di costituzionalità rivendicato dalla Corte costituzionale.

Sez. L, n. 13678/2018, Leone, non massimata, dubitando della compatibilità di una norma interna con il divieto di discriminazione per età contenuto nella direttiva 2000/78 e nell’art. 21 della Carta di Nizza, ha proposto invece in via preliminare il rinvio pregiudiziale alla Corte europea, evocando entrambi i parametri, possibilità lasciata comunque alla scelta discrezionale del giudice nazionale anche dalla Consulta.

La scelta di non sollevare prima la questione di legittimità costituzionale della norma interna viene motivata, anche in questo caso, con la natura di obiter delle indicazioni contenute nella sentenza n. 269 del 2017, e poi sottolineando che nella specie il dialogo diretto con la Corte di giustizia doveva considerarsi «lo strumento più diretto ed efficace per accertare la compatibilità del diritto interno con le disposizioni dell’Unione ed i principi posti a tutela dei diritti fondamentali stante la chiara prevalenza degli aspetti concernenti il contestato rispetto del diritto dell’Unione sui profili nazionali».

Pur potendo essere una buona occasione, la S.C. non ha però ritenuto di formulare alcun quesito in ordine alla compatibilità con il diritto dell’Unione del nuovo meccanismo della doppia pregiudizialità, costituzionale ed euro unitaria, proposto dalla nostra Corte costituzionale per la soluzione delle antinomie.

Infine ancora diversa la posizione assunta da Sez. 2, n. 31632/2018, Cosentino, Rv. 651762-02, che decidendo in base alla sentenza della Corte di Giustizia UE del 20 marzo 2018 C-537/16, emessa all’esito di un rinvio pregiudiziale disposto nello stesso procedimento, ha affermato che non è compatibile con il principio del ne bis in idem di diritto convenzionale ed euro unitario e, in particolare, con l’art. 50 della cd. CDFUE, l’instaurazione di un procedimento amministrativo sanzionatorio o la sua prosecuzione, eventualmente anche in sede di opposizione giurisdizionale, in relazione alla commissione dell’illecito amministrativo di cui all’art. 187-bis del TUF, punito con una sanzione sostanzialmente penale, qualora, con riferimento ai medesimi fatti storici, l’incolpato sia stato definitivamente assolto in sede penale, con formula piena, dal delitto previsto dall’art. 184 TUF.

Dopo aver messo in evidenza che il rinvio pregiudiziale era stato disposto prima dell’innovazione alla giurisprudenza costituzionale apportata dalla sentenza n. 269 del 2017, il Collegio non si sottrae al confronto, e verificato che la controversia soggiace alla disciplina della CDFUE, perché riguarda una materia rientrante nella competenza dell’Unione europea, essendo disciplinata da norme emanate in attuazione di una direttiva comunitaria, e che l’art. 50 della Carta conferisce, secondo una consolidata giurisprudenza della Corte europea, un diritto direttamente applicabile negli ordinamenti nazionali, ritiene che per le specifiche caratteristiche della vicenda oggetto del giudizio, l’attuazione dell’art. 50 cit., come interpretato dalla Corte di giustizia in esito al rinvio pregiudiziale, non entri in conflitto con alcuna disposizione interna, per cui non si ponga né una questione di disapplicazione di norme interne in ragione del primato del diritto dell’Unione europea, né una frizione con il principio del controllo accentrato di costituzionalità di cui all’articolo 134 Cost., sul quale si fondano le indicazioni contenute nella sentenza Corte cost. n. 269 del 2017.

L’operatività della regula iuris che la Corte di giustizia trae dall’art. 50 della CDFUE, secondo cui il giudicato penale di assoluzione impedisce di instaurare o proseguire, per gli stessi fatti, un procedimento sanzionatorio amministrativo, non interferisce, infatti, con l’art. 187-bis TUF, sia nel testo anteriore alla modifica recata dal d.lgs. n. 107 del 2018, sia nel testo successivo, che configura e punisce l’illecito amministrativo, giacché quest’ultima norma presuppone che l’illecito sia stato accertato e fa salve in questo caso le sanzioni penali.

Diverso sarebbe stato se gli stessi fatti fossero stati oggetto di un giudicato penale di condanna, in quanto un problema di interferenza tra il divieto di-bis in idem di matrice euro unitaria e convenzionale e l’applicazione dell’articolo 187-bis del TUF si sarebbe posta nell’ipotesi in cui il procedimento amministrativo si fosse concluso con l’irrogazione, in conformità al disposto di detto articolo, di una sanzione amministrativa di natura sostanzialmente penale.

Nell’attesa di ulteriori sviluppi, non si può che guardare con plauso all’immediato e propositivo inserimento della Corte di legittimità nel dialogo tra le due Corti, costituzionale ed europea, dialogo che procede ed evolve anche grazie all’indispensabile e costruttivo contributo dei giudici nazionali.

  • trattamento crudele e degradante
  • diritto dell'UE
  • diritto di famiglia
  • diritto degli stranieri
  • diritto tributario
  • Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea
  • trattato di Lisbona
  • sanzione amministrativa

II)

L’APPLICAZIONE DELLA CONVENZIONE PER LA SALVAGUARDIA DEI DIRITTI DELL’UOMO E DELLE LIBERTÀ FONDAMENTALI DA PARTE DELLA CORTE COSTITUZIONALE E DELLA CASSAZIONE CIVILE

(di Gianluca Grasso )

Sommario

1 Premessa - 2 La giurisprudenza costituzionale sul diritto dell’Unione e sulle norme della CEDU. - 2.1 Il fondamento della diretta applicazione del diritto dell’Unione. - 2.2 L’inquadramento delle norme della CEDU tra le fonti del diritto italiano e i poteri del giudice nazionale comune. Il sindacato della corte costituzionale. - 2.2.1 Il “diritto consolidato” e la “sentenza pilota”: i vincoli derivanti dall’interpretazione della Corte di Strasburgo. - 2.2.2 L’inquadramento delle norme della CEDU a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona: persistenza del rilievo delle norme della CEDU quali “norme interposte” ai fini della verifica del rispetto dell’art. 117, comma 1, Cost. - 3 La giurisprudenza della Cassazione civile. Casistica relativa all’applicazione delle norme della CEDU. - 3.1 Il diritto di famiglia. - 3.2 Il cittadino straniero. - 3.3 La detenzione e il divieto di trattamenti inumani. - 3.4 Le sanzioni amministrative. - 3.5 Il diritto tributario.

1. Premessa

Questo contributo affronta il tema dell’inquadramento delle norme della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) nell’ambito delle fonti interne, alla luce della giurisprudenza costituzionale, presentando una casistica delle decisioni assunte in materia dalla Corte di cassazione civile.

2. La giurisprudenza costituzionale sul diritto dell’Unione e sulle norme della CEDU.

La Corte costituzionale ha da tempo definito con chiarezza le differenze che sussistono tra il diritto comunitario, oggi dell’Unione europea, e le norme della CEDU e dei suoi protocolli.

2.1. Il fondamento della diretta applicazione del diritto dell’Unione.

La diretta applicazione del diritto dell’Unione nel nostro ordinamento trova il suo fondamento nell’art. 11 Cost., la cui seconda parte stabilisce che l’Italia «consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo». Con l’adesione ai Trattati comunitari, l’Italia, cedendo parte della sua sovranità, è entrata a far parte di un “ordinamento” più ampio, di natura sovranazionale. Tale cessione ha riguardato anche il potere legislativo nelle materie oggetto dei Trattati, con il solo limite dell’intangibilità dei principi e dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione.

In ragione della peculiarità del diritto dell’Unione, il contrasto tra norme statali e disciplina UE non dà luogo all’invalidità o all’illegittimità delle norme interne, ma comporta la loro disapplicazione o non applicazione al caso concreto. È questo l’orientamento costante della Corte costituzionale a partire dalla sentenza 8 giugno 1984, n. 170, per cui le norme comunitarie provviste di efficacia diretta precludono al giudice comune l’applicazione di contrastanti disposizioni del diritto interno, quando egli non abbia dubbi in ordine all’esistenza del conflitto. La non applicazione deve essere evitata solo quando venga in rilievo il limite, sindacabile unicamente dalla stessa Corte costituzionale, del rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale o dei diritti inalienabili della persona, nel cui ambito resta ferma la possibilità del controllo di costituzionalità della legge di esecuzione del Trattato (Corte cost. 13 luglio 2007, n. 28).

La Consulta ha così superato l’indirizzo originario in base al quale le norme comunitarie abrogavano le norme statali incompatibili preesistenti, mentre dovevano essere oggetto di rimessione alla Corte quelle sopravvenute per violazione dell’art. 11 Cost. (Corte cost. 30 ottobre 1975, n. 232). Secondo l’orientamento successivo (a partire da Corte cost. n. 170 del 1984), l’effetto connesso alla vigenza della norma comunitaria è quello «non già di caducare, nell’accezione propria del termine, la norma interna incompatibile, bensì di impedire che tale norma venga in rilievo per la definizione della controversia innanzi al giudice nazionale».

Tali principî sono stati riferiti dalla Corte costituzionale, nella pronuncia n. 170 del 1984, ai regolamenti comunitari, quali fonti immediatamente applicabili, e la giurisprudenza successiva ha riconosciuto la “diretta applicabilità” anche alle sentenze interpretative della Corte di giustizia (Corte cost. 19 aprile 1985, n. 113 ai sensi dell’art. 177 del Trattato, ora art. 267 TFUE), alle norme comunitarie interpretate in pronunce rese dalla Corte di giustizia in sede contenziosa ai sensi dell’art. 169 del Trattato (ora art. 258 TFUE) (Corte cost. 11 luglio 1989, n. 389), alle direttive munite d’efficacia diretta, nei limiti indicati dalla Corte di giustizia (Corte cost. 18 aprile 1991 n. 168 con riferimento alle disposizioni incondizionate e sufficientemente precise, attributive di un diritto riconosciuto al cittadino, azionabile nei confronti dello Stato inadempiente, secondo quanto precisato dalla Corte di giustizia a partire dalla sentenza 19 gennaio 1982, causa 8/81, Becker).

2.2. L’inquadramento delle norme della CEDU tra le fonti del diritto italiano e i poteri del giudice nazionale comune. Il sindacato della corte costituzionale.

Il sistema convenzionale, derivante dalla CEDU, è caratterizzato dalla presenza di un trattato internazionale multilaterale che, sia pur peculiare, non ha dato luogo a un ordinamento giuridico sovranazionale, dai cui organi deliberativi possano derivare norme vincolanti per le autorità interne degli Stati membri.

Nella lettura fatta propria dalla Consulta a partire dalle sentenze 24 ottobre 2007 n. 348 e n. 349, le norme della CEDU non ricevono copertura costituzionale dall’art. 11 Cost. – che riguarda il diritto sovranazionale dell’Unione europea, le cui norme primarie dotate di efficacia diretta devono avere efficacia obbligatoria in tutti gli Stati membri senza la necessità di leggi di ricezione e di adattamento – ma dall’art. 117 Cost., come modificato dall’art. 2, l. cost. 18 ottobre 2001 n. 3, che enuncia gli obblighi dello Stato e delle Regioni derivanti dal diritto internazionale pattizio. In base all’art. 117, comma 1, Cost. non può attribuirsi rango costituzionale alle norme contenute in accordi internazionali, oggetto di una legge ordinaria di adattamento (legge 4 agosto 1955 n. 848 che ha disposto la ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali), derivando da tale previsione l’obbligo del legislatore ordinario di rispettare le norme poste dai trattati e dalle convenzioni internazionali, e tra queste figurano quelle contenute nella CEDU.

Secondo la Corte costituzionale, diversamente da quanto avviene con il diritto dell’Unione, il giudice nazionale non può disapplicare direttamente la norma interna contrastante con le disposizioni della CEDU (Corte cost. n. 348 e n. 349 del 2007. Nello stesso senso, tra le altre, Corte cost. 11 novembre 2011, n. 303; 22 luglio 2011, n. 236; 7 aprile 2011, n. 113; 11 marzo 2011, n. 80; 5 gennaio 2011, n. 1; 28 maggio 2010, n. 187; 15 aprile 2010, n. 138; 12 marzo 2010, n. 93; 4 dicembre 2009 n. 317; 26 novembre 2009, n. 311; 27 febbraio 2008, n. 39).

La CEDU – secondo la Consulta – in considerazione del suo contenuto, presenta una portata sub-costituzionale, con la conseguenza che la norma nazionale incompatibile con la norma della Convenzione e dunque con gli «obblighi internazionali» di cui all’art. 117, comma 1, Cost. viola quest’ultimo parametro. In questo modo si determina un rinvio mobile alla norma convenzionale di volta in volta conferente, che dà vita e contenuto a quegli obblighi internazionali evocati dall’art. 117 e, con essi, al parametro stesso. Essendo l’uniformità dell’applicazione della CEDU garantita dall’interpretazione attribuita alla Corte EDU – alla quale questa competenza è stata espressamente riconosciuta dagli Stati contraenti – il giudizio di costituzionalità sulla norma interna dovrà riguardare la disposizione della Convenzione così come interpretata dalla Corte di Strasburgo.

Pertanto, il giudice nazionale comune, a fronte di un possibile contrasto tra la norma interna e quella della CEDU, deve cercare di risolvere l’antinomia mediante un’interpretazione conforme della norma interna alla Convenzione, secondo la lettura offertane dalla Corte di Strasburgo. Nel far questo, il giudice nazionale deve spingersi fino a dove ciò sia consentito dal testo delle disposizioni messe a confronto, avvalendosi di tutti i normali strumenti di ermeneutica giuridica. L’apprezzamento della giurisprudenza europea consolidatasi sulla norma conferente va operato in modo da rispettare la sostanza di quella giurisprudenza (Corte cost. n. 311 del 2009).

Qualora tale risultato non sia conseguibile in via interpretativa nei limiti indicati, ovvero il giudice dubiti della compatibilità della norma interna con la disposizione convenzionale “interposta”, nell’ipotesi in cui vi sia un contrasto tra le due disposizioni, egli deve verificare se la norma contenuta nella CEDU sia conforme alla Costituzione.

Se la norma della CEDU rispetta la Costituzione, il giudice nazionale non può far altro che sollevare la questione di legittimità della norma interna con riferimento all’art. 117 Cost. e della norma o delle norme CEDU interposte, ovvero anche dell’art. 10, comma 1, Cost., ove si tratti di una norma convenzionale ricognitiva di una norma del diritto internazionale generalmente riconosciuta (Corte cost. n. 311 del 2009).

In tal caso, la Corte costituzionale dovrà accertare la sussistenza del denunciato contrasto e, in caso affermativo, verificare se le stesse norme CEDU, nell’interpretazione data dalla Corte di Strasburgo, garantiscano una tutela dei diritti fondamentali almeno equivalente al livello garantito dalla Costituzione italiana, appurando la compatibilità della norma CEDU con le pertinenti norme della Costituzione (Corte cost. n. 311 del 2009). Il verificarsi di un conflitto con altre norme della nostra Costituzione – da ritenersi eccezionale – esclude l’operatività del rinvio alla norma internazionale e, dunque, la sua idoneità a integrare il parametro dell’art. 117, comma 1, Cost., determinando l’illegittimità, per quanto di ragione, della legge di adattamento (sentenze n. 348 e n. 349 del 2007).

In caso di accertato contrasto della norma interna con quella della CEDU, dovrà essere dichiarata l’illegittimità costituzionale della disposizione interna per violazione dell’art. 117, comma 1, Cost., in relazione alla norma convenzionale invocata.

È questo il meccanismo individuato dalla Corte costituzionale per realizzare un corretto bilanciamento tra l’esigenza di garantire il rispetto degli obblighi internazionali e quella di evitare che ciò possa comportare una lesione della Costituzione stessa.

2.2.1. Il “diritto consolidato” e la “sentenza pilota”: i vincoli derivanti dall’interpretazione della Corte di Strasburgo.

La Corte costituzionale (sentenza 26 marzo 2015, n. 49) ha precisato a quali condizioni la giurisprudenza della Corte EDU – la cui interpretazione è fondamentale per definire l’esatto contenuto delle norme della Convenzione – vincoli il giudice nazionale, allo scopo di evitare un uso arbitrario e selettivo dei precedenti. La ricerca di questi ultimi è senz’altro più complessa di quella che si può effettuare per le decisioni della Corte di giustizia, di regola ufficialmente tradotte in tutte le lingue dell’Unione europea e presenti in un data base di agevole accessibilità, dove per la giurisprudenza di Strasburgo si prevedono due sole lingue ufficiali, il francese e l’inglese, mentre le traduzioni in lingua italiana delle principali decisioni vengono curate dal nostro Ministero della giustizia.

Alla Corte di Strasburgo compete di pronunciare la «parola ultima» (sentenza n. 349 del 2007) in ordine a tutte le questioni concernenti l’interpretazione e l’applicazione della Convenzione e dei suoi Protocolli, secondo quanto le parti contraenti hanno stabilito in forza dell’art. 32 della CEDU.

Tuttavia, secondo la Corte costituzionale, questo meccanismo non ha spogliato il giudice nazionale della funzione interpretativa che gli compete, ai sensi dell’art. 101, comma 2, Cost., in quanto soggetto soltanto alla legge (in senso conforme Corte cost. 11 maggio 2017, n. 109; 7 aprile 2017, n. 68; 16 dicembre 2016, n. 276; 9 febbraio 2016 n. 36). Tale regola vale anche per le norme emergenti dalla giurisprudenza della CEDU, che entrano nell’ordinamento giuridico nazionale grazie a una legge ordinaria di adattamento e sono recate da sentenze meramente dichiarative e non esecutive (cfr. art. 46 Convenzione EDU).

Al di là dei casi in cui il giudice comune torni a occuparsi della richiesta di cessazione degli effetti lesivi della violazione accertata dalla Corte di Strasburgo (Corte cost. 18 luglio 2013, n. 210; Corte cost. n. 113 del 2011), l’interpretazione offerta dalla Corte EDU vincola il giudice nazionale soltanto in quanto espressiva di un “diritto consolidato”, mentre nessun obbligo esiste a fronte di pronunce che non siano il frutto di un orientamento divenuto definitivo (Corte cost. n. 49 del 2015 che ribadisce e precisa quanto affermato dalle sentenze n. 236 del 2011 e n. 311 del 2009 secondo cui il giudice comune è tenuto a uniformarsi alla «giurisprudenza europea consolidatasi sulla norma conferente», «in modo da rispettare la sostanza di quella giurisprudenza», fermo il margine di apprezzamento che compete allo Stato membro, Corte cost. 6 gennaio 2012, n. 15 e n. 317 del 2009).

Sul punto, la Consulta (Corte cost. n. 49 del 2015)  evidenzia che il riferimento al “diritto consolidato” risponde alle modalità organizzative della Corte di Strasburgo, che consente opinioni dissenzienti e prevede un meccanismo idoneo a risolvere il contrasto tra singole sezioni, quale la rimessione alla Grande Camera (la nozione stessa di “giurisprudenza consolidata” trova riconoscimento nell’art. 28 della CEDU con riferimento al potere del comitato investito di un ricorso individuale ai sensi dell’art. 34 di potere, con voto unanime, di dichiararlo ricevibile e pronunciare congiuntamente sentenza sul merito, solo quando tale “giurisprudenza consolidata” sussista e vada applicata). La formazione del diritto giurisprudenziale della CEDU riveste quindi un carattere progressivo (e la Grande Camera, nel caso previsto dall’art. 30 CEDU, può essere chiamata a prevenire contrasti, sulla non opposizione delle parti, requisito questo dell’accordo tacito che secondo il protocollo n. 15 – non in vigore e non ratificato dall’Italia – potrebbe essere sostituito da un potere d’ufficio).

La Corte costituzionale, al riguardo, sottolinea che non è sempre di immediata evidenza se una certa interpretazione delle disposizioni CEDU abbia maturato a Strasburgo un adeguato consolidamento, specie a fronte di pronunce destinate a risolvere casi del tutto peculiari, e comunque formatesi con riguardo all’impatto prodotto dalla CEDU su ordinamenti giuridici differenti da quello italiano.

Si richiamano, a tal fine, alcuni indici idonei a orientare il giudice nazionale nel suo percorso di discernimento: la creatività del principio affermato, rispetto al solco tradizionale della giurisprudenza europea; gli eventuali punti di distinguo, o persino di contrasto, nei confronti di altre pronunce della Corte di Strasburgo; la ricorrenza di opinioni dissenzienti, specie se alimentate da robuste deduzioni; la circostanza che quanto deciso promana da una sezione semplice, e non ha ricevuto l’avallo della Grande Camera; il dubbio che, nel caso di specie, il giudice europeo non sia stato posto in condizione di apprezzare i tratti peculiari dell’ordinamento giuridico nazionale, estendendovi criteri di giudizio elaborati nei confronti di altri Stati aderenti che, alla luce di quei tratti, si mostrano invece poco confacenti al caso italiano.

In presenza di tutti o alcuni di questi indizi, secondo la Corte costituzionale, in base a un giudizio che non può peraltro prescindere dalle peculiarità di ogni singola vicenda, non vi è alcuna ragione che obblighi il giudice comune a condividere la linea interpretativa adottata dalla Corte EDU per decidere una certa controversia, sempre che non si tratti di una “sentenza pilota” in senso stretto, secondo la procedura oggi definita nell’art. 61 del regolamento della Corte, non potendosi attribuire tale valenza in via interpretativa da parte del giudice nazionale. Il procedimento della “sentenza pilota”, di origine giurisprudenziale, è codificato nell’art. 61 del regolamento e può essere adottato nei confronti di una parte contraente in presenza di una grave disfunzione, quale un problema strutturale o sistemico che potrebbe dar luogo alla rappresentazione di ricorsi analoghi, ma la cui efficacia ultra partes verso Stati terzi non è espressamente disciplinata e risulta negata da Cass. pen., Sez. IV, 6 novembre 2014, n. 46067). La “sentenza pilota” è infatti adottata avendo riguardo alle specificità di un determinato ordinamento, che è quindi il solo chiamato a prendere le misure riparatorie in applicazione del suo dispositivo.

Ad aiutare il giudice nel suo compito potrà soccorrere il parere consultivo di cui al Protocollo addizionale n. 16 – entrato in vigore con decorrenza dal 1° agosto 2018 con la ratifica ad opera della Francia, non ratificato dall’Italia – che la Corte EDU può rilasciare, se richiesta, alle giurisdizioni nazionali superiori, pur se espressamente definito non vincolante (art. 5).

Il vincolo interpretativo per il giudice italiano discende pertanto dalla presenza di un “diritto consolidato” o di una “sentenza pilota” adottata nei confronti dell’Italia che, riempiendo di contenuti specifici la norma interposta della CEDU, impongono al giudice di superare eventuali contrasti rispetto alla norma interna attraverso gli strumenti interpretativi a sua disposizione, ovvero azionando l’incidente di costituzionalità ove ciò fosse possibile (Corte cost. n. 49 del 2015; Corte cost. n. 80 del 2011).

Al di là dei vincoli che possano derivare dalla giurisprudenza consolidata della Corte EDU, resta fermo che il giudice comune, nell’esercitare l’attività interpretativa riconosciutagli dalla Costituzione, ha il dovere di evitare violazioni della Convenzione europea e di applicarne le disposizioni, sulla base dei principi di diritto espressi dalla Corte di Strasburgo, specie quando il caso sia riconducibile a precedenti di quest’ultima (Corte cost. n. 109 del 2017; n. 68 del 2017; n. 276 del 2016; n. 36 del 2016) col solo limite del divieto di disapplicazione.

2.2.2. L’inquadramento delle norme della CEDU a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona: persistenza del rilievo delle norme della CEDU quali “norme interposte” ai fini della verifica del rispetto dell’art. 117, comma 1, Cost.

Il sistema non ha subìto mutamenti in seguito all’entrata in vigore (1° dicembre 2009) del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007, ratificato e reso esecutivo con legge 2 agosto 2008, n. 130, con cui sono stati modificati il Trattato sull’Unione europea e il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (già Trattato istitutivo della Comunità Europea).

È noto che non sia ancora giunta a esser definita la questione dell’adesione dell’UE alla CEDU, prevista dalle modifiche introdotte con il Trattato di Lisbona, avendo la Corte di giustizia, con parere articolato, ritenuto che il progetto di accordo sottopostole dalla Commissione non fosse compatibile con l’art. 6, par. 2, TUE, né con il connesso protocollo n. 8 (Corte giust., parere, 18 dicembre 2014).

La Corte costituzionale, allo stato, esclude che la riconduzione della CEDU al diritto dell’Unione europea – realizzata mediante il riconoscimento (art. 6, par. 1, TUE) dei diritti, delle libertà e dei principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (c.d. Carta di Nizza), nonché attraverso l’attribuzione, ai diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, della dignità di principi generali del diritto dell’Unione (art. 6 parr. 2 e 3) – consenta di ritenere operante per le norme della Convenzione la copertura dell’art. 11 Cost. e di accedere, conseguentemente, alla possibilità di una loro diretta applicazione da parte del giudice nazionale (cfr., tra le tante, Corte cost. 22 luglio 2011, n. 236; 28 novembre 2012, n. 264; 18 luglio 2013, n. 202; 4 luglio 2014, n. 191; 18 luglio 2014, n. 223).

Corte cost. 11 marzo 2011, n. 80 puntualizza che il richiamo alla CEDU contenuto nel paragrafo 3 dell’art. 6 TUE – secondo cui i diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione «e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali» – riprende lo schema del previgente paragrafo 2 dell’art. 6 del TUE, evocando una forma di protezione preesistente al Trattato di Lisbona e quindi nelle forme già indicate dalla sentenza della Consulta n. 349 del 2007.

La Corte costituzionale esclude altresì una «trattatizzazione» indiretta della CEDU, alla luce della “clausola di equivalenza” che figura nell’art. 52, par. 3, della Carta dei diritti fondamentali, discendente dall’equiparazione di quest’ultima ai Trattati. La Corte sottolinea che in sede di modifica del Trattato si è inteso evitare che l’attribuzione alla Carta di Nizza dello «stesso valore giuridico dei trattati» abbia effetti sul riparto delle competenze fra Stati membri e istituzioni dell’Unione (art. 6, par. 1, primo alinea TUE secondo cui «le disposizioni della Carta non estendono in alcun modo le competenze dell’Unione definite nei trattati»), evidenziando che le disposizioni della Carta si applicano solo nell’ambito delle competenze dell’Unione europea (art. 51, par. 1, TUE; Corte giustizia sentenza 5 ottobre 2010, C-400/10 PPU, McB; ordinanza 12 novembre 2010, C-399/10, Krasimir e altri).

3. La giurisprudenza della Cassazione civile. Casistica relativa all’applicazione delle norme della CEDU.

La giurisprudenza della Corte di cassazione civile è conforme alle pronunce della Corte costituzionale.

Sez. L, n. 2286/2018, Cavallaro, Rv. 647390-02 ha ribadito che in caso di conflitto tra una norma di diritto nazionale e la CEDU, il giudice non può fare diretta applicazione delle disposizioni di quest’ultima, disapplicando la norma nazionale, ma deve sollevare la questione di legittimità costituzionale della norma interna per contrasto con l’art. 117 Cost.; tale assetto del sistema delle fonti non è stato modificato dal rinvio alla CEDU operato dall’art. 6, par. 3, del TUE, come modificato dal Trattato di Lisbona, dato che tale norma disciplina il rapporto della CEDU con l’Unione europea e non quello con gli ordinamenti giuridici degli Stati membri (in senso conforme vedi già Sez. 6–2, n. 27102/2013, Petitti, Rv. 628739-01; Sez. L, n. 4049/2013, Arienzo, Rv. 625344-01; Sez. U, n. 9595/2012, Macioce, Rv. 623162-01).

Secondo Sez. 5, n. 950/2015, Chindemi, Rv. 634956-01, ammettere un potere o addirittura un obbligo di non applicare la legge, in contrasto col principio costituzionale secondo cui il giudice è soggetto unicamente alla legge (art. 101 Cost.), significherebbe aprire un pericoloso varco al principio di divisione dei poteri, avallando una funzione di revisione legislativa da parte del potere giudiziario, che appare estraneo al nostro sistema costituzionale, determinando il giudice eventuali limiti di applicazione della normativa nazionale per contrasto con pronunce della Corte di Strasburgo, esorbitando dai suoi poteri. L’abrogazione della legge è vincolata alle ipotesi contemplate dall’art. 15 preleggi e art. 136 Cost., che non tollerano la disapplicazione da parte del giudice, pur dovendo essere interpretata alla luce dei principi sovranazionali.

Esulano, invece, dalle attribuzioni del giudice nazionale le questioni concernenti l’interpretazione delle sentenze della Corte EDU, spettando tale attività interpretativa, in forza degli artt. 32 e 46 della Convenzione, nonché dell’art. 79 del regolamento della Corte, in via esclusiva e definitiva alla stessa Corte (Sez. U, n. 11826/2013, Di Palma, Rv. 626214-01); ne consegue che il giudice nazionale, se ha il dovere, nell’ambito della cognizione del singolo caso, di applicare i principi enunciati dalla Corte europea sulla base della CEDU e dei relativi Protocolli, non ha invece giurisdizione al fine di stabilire se sia stata esattamente adempiuta dallo Stato italiano una specifica sentenza della Corte di Strasburgo, involgendo necessariamente tale profilo l’interpretazione del singolo dictum.

Le principali questioni che hanno portato la Corte di cassazione civile nel 2018 a confrontarsi con le norme della CEDU possono essere suddivise, a grandi linee, negli ambiti del diritto in famiglia, della tutela del cittadino straniero, della detenzione e del divieto di trattamenti inumani nei confronti di soggetti detenuti o internati, delle sanzioni amministrative e del diritto tributario.

L’analisi delle pronunce riguardanti l’art. 6 CEDU, sul diritto a un equo processo, si rinvia alla trattazione specifica nell’ambito di questa rassegna.

3.1. Il diritto di famiglia.

Il primo degli ambiti in cui la Corte di cassazione civile ha avuto modo di confrontarsi col sistema convenzionale è quello del diritto di famiglia.

Si segnala, sul punto, Sez. 1, n. 11696/2018, Acierno, Rv. 648562-02 in merito al matrimonio tra persone dello stesso sesso contratto all’estero tra un cittadino italiano e uno straniero. Tale matrimonio, secondo l’interpretazione fatta propria dalla Corte, può essere trascritto nel nostro ordimento come unione civile ai sensi dell’art. 32-bis della legge n. 218 del 1995, essendo trascrivibile come matrimonio solo quello contratto all’estero da due cittadini stranieri. La Corte ha escluso che tale previsione sia discriminatoria per ragioni di orientamento sessuale e in contrasto con gli artt. 2, 3, 29 e 117 Cost., in relazione agli artt. 8 e 14 della CEDU, poiché la scelta del modello di unione riconosciuta tra persone dello stesso sesso negli ordinamenti facenti parte del Consiglio d’Europa è rimessa al libero apprezzamento degli Stati membri, purché garantisca a tali unioni uno standard di tutele coerente con il diritto alla vita familiare ex art. 8 come interpretato dalla Corte EDU. È stato così stabilito (Sez. 1, n. 11696/2018, Acierno, Rv. 648562-01) che le disposizione della l. n. 76 del 2016, riguardante la regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e la disciplina delle convivenze, e dei decreti di attuazione n. 5 e n. 7 del 2017 si applicano anche ai vincoli costituiti prima dell’entrata in vigore della predetta disciplina poiché, ai sensi dell’art. 1, comma 28, della l. n. 76 del 2016, tali norme sono state espressamente formulate per garantire un trattamento giuridico uniforme a situazioni identiche sorte in tempi diversi.

Sui rapporti familiari va inoltre fatta menzione di due pronunce sul diritto degli ascendenti a mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni.

Tale diritto, previsto dall’art. 317-bis c.c., cui corrisponde lo speculare diritto del minore di crescere in famiglia e di mantenere rapporti significativi con i parenti, ai sensi dell’art. 315-bis c.c., alla luce dei principi desumibili dall’art. 8 CEDU, dall’art. 24, comma 2, della Carta di Nizza e dagli artt. 2 e 30 Cost., come precisato da Sez. 1, n. 19780/2018, Valitutti, Rv. 649955-02, non va riconosciuto ai soli soggetti legati al minore da un rapporto di parentela in linea retta ascendente, ma anche a ogni altra persona che affianchi il nonno biologico del minore, sia esso il coniuge o il convivente di fatto, e che si sia dimostrato idoneo ad instaurare con il minore medesimo una relazione affettiva stabile, dalla quale quest’ultimo possa trarre un beneficio sul piano della sua formazione e del suo equilibrio psico-fisico.

Sez. 6 – 1, n. 15238/2018, Mercolino, Rv. 649149-01 ha chiarito che il diritto degli ascendenti a mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni, coerentemente con l’interpretazione dell’art. 8 CEDU fornita dalla Corte EDU, non ha un carattere incondizionato, ma il suo esercizio è subordinato ad una valutazione del giudice avente di mira “l’esclusivo interesse del minore”. La sussistenza di tale interesse – nel caso in cui i genitori dei minori contestino il diritto dei nonni a mantenere tali rapporti – è configurabile quando il coinvolgimento degli ascendenti si sostanzi in una fruttuosa cooperazione con i genitori per l’adempimento dei loro obblighi educativi, in modo tale da contribuire alla realizzazione di un progetto educativo e formativo volto ad assicurare un sano ed equilibrato sviluppo della personalità del minore.

3.2. Il cittadino straniero.

Sui diritti del cittadino straniero e la sua permanenza sul territorio dello Stato, Sez. 1, n. 23957/2018, Pazzi, Rv. 650406-01 ha confermato, in tema di espulsione, che l’art. 13, comma 2-bis, del d.lgs. n. 286 del 1998, secondo il quale è necessario tener conto, nei confronti dello straniero che ha esercitato il diritto al ricongiungimento familiare, della natura e dell’effettività dei vincoli familiari, della durata del soggiorno, nonché dell’esistenza di legami con il paese d’origine, si applica – con valutazione caso per caso, in coerenza con la direttiva comunitaria 2008/115/CE – anche al cittadino straniero che abbia legami familiari nel nostro Paese, ancorché non si trovi nelle condizioni di richiedere formalmente il ricongiungimento familiare (conforme Sez. 1, n. 15362/2015, Acierno, Rv. 637091-01). Tale interpretazione è in linea con la nozione di diritto all’unità familiare delineata dalla giurisprudenza della Corte EDU con riferimento all’art. 8 CEDU e fatta propria dalla sentenza n. 202 del 2013 della Corte costituzionale, che non distingue tra vita privata e familiare, trattandosi di estrinsecazioni del medesimo diritto fondamentale tutelato dall’art. 8, che non prevede gradazioni o gerarchie.

Sez. 6-1, n. 17072/2018, De Chiara, Rv. 649648-01 ha escluso che possa essere riconosciuto al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari, di cui all’art. 5, comma 6, del d.lgs. n. 286 del 1998, considerando, isolatamente e astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia. Secondo la Corte, tale diritto non può essere affermato neppure in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al Paese di provenienza, atteso che il rispetto del diritto alla vita privata di cui all’art. 8 CEDU, può soffrire ingerenze legittime da parte di pubblici poteri finalizzate al raggiungimento d’interessi pubblici contrapposti quali quelli relativi al rispetto delle leggi sull’immigrazione, particolarmente nel caso in cui lo straniero non possieda uno stabile titolo di soggiorno nello Stato di accoglienza, ma vi risieda in attesa che sia definita la sua domanda di riconoscimento della protezione internazionale (Corte EDU 8 aprile 2008, Nyianzi c. Regno Unito).

Il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui all’art. 5, comma 6, del d.lgs. n. 286 del 1998, al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve infatti fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza (Sez. 1, n. 4455/2018, Acierno, Rv. 647298-01).

In ambito previdenziale si segnala Sez. L, n. 23763/2018, Riverso, Rv. 650547-01 che ha riconosciuto allo straniero, legalmente soggiornante nel territorio dello Stato da tempo apprezzabile e in modo non episodico (a prescindere dal superamento del limite temporale quinquennale che condiziona il rilascio della carta di soggiorno), il diritto alla pensione di invalidità civile, ove in possesso degli ulteriori requisiti di legge. Secondo l’apprezzamento della Corte, tale prestazione rientra tra le provvidenze destinate al sostentamento della persona, nonché alla salvaguardia di condizioni di vita accettabili per il contesto familiare in cui il disabile è inserito che, alla luce della giurisprudenza costituzionale che ha espunto l’ulteriore condizione della necessità della carta di soggiorno, devono essere erogate senza alcuna discriminazione tra cittadini e stranieri che hanno titolo alla permanenza nel territorio dello Stato, pena la violazione del principio di non discriminazione sancito dall’art. 14 CEDU.

3.3. La detenzione e il divieto di trattamenti inumani.

Diverse sono le decisioni che hanno riguardato i rimedi risarcitori conseguenti alla violazione dell’art. 3 della CEDU nei confronti di soggetti detenuti o internati ex art. 35-ter della l. n. 354 del 1975, come introdotto dall’art. 1 del d.l. n. 92 del 2014, conv. con la l. n. 117 del 2014.

Il rimedio previsto dall’art. 35-ter, comma 1, l. n. 354 del 1975, secondo cui il magistrato di sorveglianza dispone, a titolo di risarcimento del danno, una riduzione della pena detentiva ancora da espiare pari, nella durata, a un giorno per ogni dieci durante il quale il richiedente ha subito il pregiudizio, presuppone che l’interessato versi in condizione di restrizione in carcere e che questa abbia una durata tale da consentire l’eventuale decurtazione nella misura richiesta, mentre in tutti i casi in cui lo stato di carcerazione sia cessato, l’interessato può agire in sede civile, al fine di ottenere la provvidenza di natura indennitaria prevista dall’art. 35-ter, comma 3, stessa legge (Sez. 3, n. 31552/2018, Di Florio, Rv. 651945-02).

Il rimedio di cui all’art. 35-ter l. n. 354 del 1975 presuppone una responsabilità di tipo contrattuale, derivante dallo stretto rapporto che si instaura tra lo Stato e il detenuto, la quale dà luogo a una obbligazione indennitaria ex lege (Sez. 3, n. 31556/2018, Fiecconi, Rv. 651946-01); pertanto, sotto il profilo del riparto dell’onere probatorio, spetta all’amministrazione penitenziaria, chiamata a rispondere della violazione di obblighi di protezione e di norme di comportamento, provare l’adempimento conforme ai principi della Convenzione, mentre compete al detenuto fornire la dimostrazione del danno lamentato e del nesso causale tra quest’ultimo e il dedotto inadempimento. Resta salva la possibilità di avvalersi, oltre che delle presunzioni e del principio di contestazione, dei poteri integrativi e officiosi del giudice propri del rito camerale prescelto dal legislatore, quali, in particolare, il potere di assumere informazioni previsto dall’art. 738, comma 3, c.p.c., che costituisce – in funzione della salvaguardia del principio di effettività della tutela giurisdizionale di diritti di indubbia matrice costituzionale e convenzionale – un utile meccanismo riequilibratore nell’ambito di un procedimento caratterizzato da una situazione di squilibrio tra la parte pubblica, titolare della potestà punitiva, e il soggetto privato che la subisce (in senso analogo sui poteri d’ufficio del giudice si era già espressa Sez. 1, n. 5255/2018, Acierno, Rv. 647743-01, ritenendo sufficiente l’allegazione specifica dell’avvenuta detenzione e della sua durata).

Riguardo al risarcimento del danno per insussistenza di uno spazio individuale minimo in cella collettiva, il giudice del merito deve valutare la violazione del divieto di trattamenti inumani nei confronti di soggetti detenuti o internati, stabilito dall’art. 3 della CEDU, secondo i canoni interpretativi fissati dalla Corte EDU, da ultimo con la sentenza della Grande Camera 20 ottobre 2016, Mursic contro Croazia (Sez. 1, n. 12955/2018, Cristiano, Rv. 649116-01). Pertanto, l’indagine del giudice non può essere condotta sulla scorta del mero criterio del calcolo della superficie di cui il detenuto dispone all’interno della cella ma, persino quando questa sia inferiore ai 3 mq., deve includere la valutazione di ogni altro fattore, emergente dagli atti – come, nella specie ritenuto dalla S.C., la regolare fruizione di attività ricreative e sportive, la possibilità di movimento all’esterno della cella, la condivisione di questa con un solo detenuto – che possa compensare la mancanza dello spazio vitale nella camera detentiva.

Sempre sul piano probatorio, Sez. 1, n. 4096/2018, Lamorgese, Rv. 647236-02 ha ritenuto che qualora, in una cella collettiva, la superficie utilizzabile da ciascun detenuto risulti inferiore a 3 mq., sussiste la “forte presunzione” della violazione del divieto di trattamenti inumani o degradanti, la quale, alla luce della giurisprudenza della Corte EDU, può essere superata attraverso la valutazione di adeguati fattori compensativi – che si individuano nella brevità della restrizione carceraria, nell’offerta di attività in ampi spazi all’esterno della cella, nell’assenza di aspetti negativi relativi ai servizi igienici e nel decoro complessivo delle condizioni di detenzione – la cui esistenza è onere dello Stato, convenuto in giudizio, provare.

Tale diritto a una somma di denaro pari a otto euro per ciascuna giornata di detenzione in condizioni non conformi ai criteri di cui all’art. 3 della CEDU si prescrive in dieci anni, trattandosi di un indennizzo che ha origine nella violazione di obblighi gravanti ex lege sull’amministrazione penitenziaria, così come chiarito da Sez. U, n. 11018/2018, Curzio, Rv. 648270-01 (in senso conforme Sez. 1, n. 20528/2018, Pazzi, Rv. 650168-01). Il termine di prescrizione decorre dal compimento di ciascun giorno di detenzione nelle su indicate condizioni, salvo che per coloro che abbiano cessato di espiare la pena detentiva prima del 28 giugno 2014, data di entrata in vigore del d.l. cit., rispetto ai quali, se non sono incorsi nelle decadenze previste dall’art. 2 del d.l. n. 92 del 2014, il termine comincia a decorrere solo da tale data.

Sez. 1, n. 17274/2018, Di Marzio, Rv. 649514-01 ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 35-ter, comma 3, della l. n. 354 del 1975, in relazione agli artt. 3 e 117 Cost. – quest’ultimo con riferimento all’art. 46, comma 1, CEDU – nella parte in cui, prevedendo un diritto al risarcimento del danno di soli otto euro giornalieri ai fini della riparazione per ingiusta detenzione, valuterebbe in termini diversi il valore giornaliero della detenzione rispetto a quello previsto per il ragguaglio fra pene pecuniarie e pene detentive e non distinguerebbe tra i diversi gradi di gravità nei quali la lesione dell’art. 3 CEDU può manifestarsi. Per un verso, infatti, la somma stabilita dalla norma ha natura indennitaria, come tale non rapportata alla precisa entità del danno ipoteticamente cagionato, cosicché neppure ha senso – trattandosi di grandezze eterogenee – raffrontare l’entità della somma riconosciuta per la detenzione inumana o degradante con il valore giornaliero della detenzione considerato ai fini del ragguaglio fra pene pecuniarie e pene detentive ovvero ai fini della riparazione per ingiusta detenzione; per altro verso, il rimedio introdotto con la norma in discorso è già stato giudicato non irragionevole dalla giurisprudenza della Corte EDU.

3.4. Le sanzioni amministrative.

Altro ambito in cui la Corte di cassazione civile ha avuto modo di confrontarsi con le norme della CEDU è quello relativo alle sanzioni amministrative.

Sez. 2, n. 9269/2018, Picaroni, Rv. 648084-01 ha confermato che riguardo a tali sanzioni (nella specie, per violazione dell’art. 19 del d.lgs. n 31 del 2001 sulla fornitura di acqua destinata al consumo umano) non trova applicazione il principio di retroattività della legge successiva più favorevole (Sez. 6–2, n. 29411/2011, Carrato, Rv. 620859-01). Come ribadito dalla Corte costituzionale con sentenza del 20 luglio 2016 n. 193, nel quadro delle garanzie apprestato dalla CEDU non si rinviene l’affermazione di un vincolo di matrice convenzionale in ordine alla previsione generalizzata del menzionato principio, da parte degli ordinamenti interni dei singoli Stati aderenti, da trasporre nel sistema delle sanzioni amministrative, né è dato rinvenire un vincolo costituzionale nel senso dell’applicazione in ogni caso della legge successiva più favorevole, rientrando nella discrezionalità del legislatore modulare le proprie determinazioni secondo criteri di maggiore o minore rigore in base alle materie oggetto di disciplina.

In tema di responsabilità disciplinare dei notai, Sez. 2, n. 10872/2018, Grasso, Rv. 648829-01 ha ritenuto che l’art. 147, comma 1, lett. a), l. n. 89 del 1913 – che definisce il sistema delle sanzioni – rispetti gli artt. 3, 25 e 117 Cost. e l’art. 7 CEDU. L’art. 147, secondo la S.C., individua con chiarezza l’interesse meritevole di tutela (dignità e reputazione del notaio, decoro e prestigio della classe notarile) e la condotta sanzionata (comportamenti che compromettono tale interesse), il cui contenuto, sebbene non tipizzato, si ricava dalle regole di etica professionale e, quindi, dal complesso dei principi di deontologia oggettivamente enucleabili dal comune sentire di un dato momento storico. La Corte ha precisato, sul punto, che il principio di tipicità attiene, nella sua assolutezza, alla sola sanzione penale e che l’art. 147 l. n. 89 del 1913 viene integrato dal codice deontologico, il quale è rivolto a una platea di soggetti perfettamente in grado, per qualificata professionalità, di coglierne perimetro e valenza ed è elaborato dalla loro stessa categoria professionale.

Vanno inoltre richiamate le questioni di legittimità costituzionale sollevate in relazione al Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria (d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58) e alle sanzioni applicate dalla Consob.

Sez. 2, n. 3831/2018, Cosentino, Rv. 647802-01 ha ritenuto rilevante e non manifestamente infondata – in relazione agli articoli 24, 111 e 117 Cost., quest’ultimo con riferimento all’art. 6 CEDU e all’art. 14, comma 3, lett. g), del Patto internazionale sui diritti civili e politici adottato a New York il 16 dicembre 1966, reso esecutivo in Italia con la l. n. 881 del 1977, nonché in relazione agli articoli 11 e 117 Cost., con riferimento all’art. 47 CDFUE, e avuto riguardo al principio generale nemo tenetur se detegere – la questione di legittimità costituzionale dell’art. 187 quinquiesdecies T.U.F. – nel testo originariamente introdotto dall’art. 9, comma 2, lett. b), della l. n. 62 del 2005 – nella parte in cui sanziona la condotta consistente nel non ottemperare tempestivamente alle richieste della Consob o nel ritardare l’esercizio delle sue funzioni anche nei confronti di colui al quale la medesima Consob, nell’esercizio delle sue funzioni di vigilanza, ascriva illeciti amministrativi relativi all’abuso di informazioni privilegiate.

Con la stessa ordinanza è stato sollevato – in relazione agli articoli 3, 42 e 117 Cost., quest’ultimo con riferimento all’art. 1 del Primo Protocollo addizionale alla CEDU, nonché agli articoli 11 e 117 Cost., con riferimento agli articoli 17 e 49 CDFUE – l’incidente di costituzionalità dell’art. 187 sexies T.U.F., introdotto dall’art. 9, comma 2, lett. a), della l. n. 62 del 2005, nella parte in cui assoggetta a confisca l’equivalente della somma del profitto dell’illecito e dei mezzi impiegati per commetterlo, ossia l’intero prodotto dell’illecito (Sez. 2, n. 3831/2018, Cosentino, Rv. 647802-02).

3.5. Il diritto tributario.

Ulteriore ambito in cui hanno assunto rilievo i principi della CEDU è quello tributario.

In tema di rimborso d’imposte, Sez. 5, n. 25464/2018, Dell’Orfano, Rv. 650717-01 ha ritentuo che qualora l’Amministrazione non abbia adottato alcun provvedimento di liquidazione del credito esposto nella dichiarazione dei redditi e, al contempo, siano decorsi i termini per operare la rettifica, il diritto del contribuente non si consolida automaticamente alla data di scadenza dei termini previsti per l’accertamento, restando fermo il potere di contestazione del credito da parte dell’Amministrazione, senza che, peraltro, ciò contrasti con l’art. 1 del I Protocollo addizionale alla CEDU, in quanto tale norma garantisce tutela sul piano convenzionale ai soli crediti già accertati, nonché liquidi ed esigibili, ossia a quelli che possano ritenersi parte del patrimonio dell’individuo.

Sez. 5, n. 26417/2018, Crucitti, Rv. 650811-01, ha respinto, in quanto manifestamente infondata, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 11 della l. n. 413 del 1991, in relazione all’art. 117 Cost. – quest’ultimo con riferimento all’art. 1 del Primo Protocollo addizionale alla CEDU – nella parte in cui prevede l’assoggettamento a tassazione delle plusvalenze conseguenti alla percezione di indennità di esproprio. Secondo quanto apprezzato dalla S.C., per un verso, il “giusto equilibrio” tra le esigenze dell’interesse generale della comunità e il requisito della salvaguardia del diritto fondamentale di proprietà, enunciato dall’art. 1 cit., riguarda la disciplina delle ipotesi di ingerenza dell’ente pubblico sulla proprietà privata e del quantum da corrispondere al privato spogliato del diritto di proprietà, mentre l’art. 11 cit. attiene al momento successivo dell’esercizio del potere impositivo dello Stato sui propri contribuenti, cioè a un ambito del tutto distinto dagli aspetti sostanziali-indennitari della vicenda espropriativa; per altro verso, la disciplina introdotta con la norma in questione è già stata positivamente valutata dalla giurisprudenza della Corte EDU, secondo la quale l’imposta del venti per cento sull’indennità di esproprio non può classificarsi come un onere “irragionevole e sproporzionato” a carico del proprietario, atteso che la cifra da versare non ha una portata tale da renderne il pagamento simile a una confisca, non intaccando l’entità in relazione al valore di mercato dei terreni.

PARTE PRIMA I DIRITTI FONDAMENTALI DELLA PERSONA

  • diritti e libertà
  • diritti umani

CAPITOLO I

I) I DIRITTI DI NUOVA EMERSIONE

(di Giovanni Armone )

Sommario

1 I diritti di nuova emersione. - 2 Il prisma del diritto all’identità personale. - 3 Il principio di effettività della tutela giurisdizionale.

1. I diritti di nuova emersione.

Quando, nel 2017, le Sezioni Unite della Corte di cassazione, raccogliendo l’invito della Corte EDU (sentenza Godelli c. Italia del 25 settembre 2012) e della Corte costituzionale (sentenza n. 278 del 2013), hanno riconosciuto, stante l’inerzia del legislatore, il diritto del figlio nato da parto anonimo di conoscere le proprie origini e di accedere alla propria storia parentale, interpellando la madre che abbia dichiarato alla nascita di non voler essere nominata (Sez. U, n. 01946/2017, Giusti, Rv. 642009-01), la dottrina ha salutato la pronuncia come il segno inequivoco dell’apertura di una nuova stagione, o meglio del definitivo disvelamento di un fermento che da tempo essa aveva preconizzato.

Nel tempo della tutela multilivello, “il fulcro del procedimento interpretativo si è venuto ormai spostando dal momento di posizione di un enunciato ai modi della sua concretizzazione nell’esperienza giurisdizionale, inducendo l’interprete a collocarsi all’interno di un processo di ricreazione del diritto nella sua portata storica concreta, vincendo i vecchi postulati della sua positività formale” (Lipari, Giudice legislatore, in Foro it., 2017, I, 492).

Il giudice contribuisce alla costruzione dei diritti della persona, non si limita a seguire i percorsi tracciati sulla mappa legislativa, ma apre egli stesso un sentiero che il legislatore dovrà formalizzare e completare. Ciò avviene nell’ottica non già di una contrapposizione tra i due formanti, ma al contrario di leale cooperazione tra di essi. Da un lato, infatti, la possibilità “che un giudice possa offrire composizione agli interessi “in conflitto” costituirebbe, sia pur per il tempo necessario al legislatore per introdurre una normativa specifica, la maggiore sicurezza che un sistema democratico possa fornire alle persone che vi risiedono. Ciò, peraltro, non eliderebbe affatto la necessità di un intervento legislativo, anzi ineludibile proprio per evitare il peggiore difetto che l’inerzia legislativa produce in ragione della possibile lesione del canone (fondamentale) dell’uguaglianza al quale aspirano le persone che vivono in una comunità statuale” (Conti, Diritto all’anonimato [versus diritto alla conoscenza delle origini dell’adottato,] in Fattore tempo e diritti fondamentali, IPZS, 2017, 84).

Nel corso del 2018, questo percorso è stato ulteriormente approfondito dal giudice di legittimità.

2. Il prisma del diritto all’identità personale.

Il diritto all’identità personale era tradizionalmente inteso come un carattere della persona acquisito una volta per tutte, come una sorta di gemmazione del diritto al nome, da tutelare contro i travisamenti illeciti della personalità individuale.

L’opera delle corti, in particolare della Corte EDU, ne ha ampliato i contenuti, includendovi anche il diritto a stabilire e ricostruire la sostanza della propria identità, la propria genealogia personale e familiare. Ciò implica anche una maggiore proattività del diritto. La tutela non ha carattere soltanto difensivo, inibitoria o più spesso risarcitoria, ma si arricchisce di strumenti nuovi, quale quello che consente di ricercare e ottenere informazioni sulla propria identità.

Lungo questa strada nel 2018 merita di essere anzitutto segnalata Sez. 1, n. 03004/2018, Lamorgese, Rv. 647337-01, che ha ribadito il principio espresso da Sez. 1, n. 15024/2016, Bisogni, Rv. 6451021-01, secondo cui, nel caso di cd. parto anonimo, sussiste il diritto del figlio, dopo la morte della madre, di conoscere le proprie origini biologiche mediante accesso alle informazioni relative all’identità personale della stessa, non potendosi considerare operativo, oltre il limite della vita della madre che ha partorito in anonimo, il termine di cento anni, dalla formazione del documento, per il rilascio della copia integrale del certificato di assistenza al parto o della cartella clinica.

Ma la pronuncia più innovativa in tema è Sez. 1, n. 06963/2018, Acierno, Rv. 647764-01, con cui la S.C., muovendo dalla centralità del diritto all’identità personale nell’attuale sistema costituzional-convenzionale, già affermata dalle Sezioni Unite nella citata sentenza n. 1946 del 2017, ha riconosciuto all’adottato il diritto di conoscere le proprie origini accedendo alle informazioni concernenti non solo l’identità dei propri genitori biologici, ma anche quelle delle sorelle e dei fratelli biologici adulti, previo interpello di questi ultimi mediante procedimento giurisdizionale idoneo ad assicurare la massima riservatezza ed il massimo rispetto della dignità dei soggetti da interpellare.

La sentenza si contraddistingue anzitutto per la messa a fuoco dei contenuti del diritto all’identità personale, di cui il diritto a conoscere le proprie origini costituisce un’espressione essenziale: “lo sviluppo equilibrato della personalità individuale e relazionale si realizza soprattutto attraverso la costruzione della propria identità esteriore, di cui il nome e la discendenza giuridicamente rilevante e riconoscibile costituiscono elementi essenziali, e di quella interiore. Quest’ultimo aspetto, più complesso, può richiedere la conoscenza e l’accettazione della discendenza biologica e della rete parentale più prossima”.

Dal punto di vista della tecnica interpretativa, questo approdo è stato raggiunto attraverso una lettura non riduttiva dell’art. 28, comma 5, della l. n. 184 del 1983, nella parte in cui consente all’adottato, raggiunta l’età di venticinque anni, di accedere alle informazioni che riguardano “la sua origine e l’identità dei propri genitori biologici”. Tale formula non è stata letta dalla S.C. come un’endiadi ridondante, ma al contrario, attraverso un’interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata, come l’espressione della volontà del legislatore di garantire all’adottato la “scoperta della personale genealogia biologico-genetica”, funzionale appunto alla costruzione dell’identità personale ad ampio raggio.

Il diritto dell’adottato di conoscere le proprie sorelle e i propri fratelli biologici non ha tuttavia, secondo la Corte, la stessa assolutezza che connota il diritto a conoscere i genitori biologici.

In quest’ultimo caso, il diritto è funzionale alla costruzione dello status filiationis, cioè di una condizione fondativa dell’individuo espressamente sancita nella Carta costituzionale, su cui converge un fascio di interessi, di tipo patrimoniale e non patrimoniale. Nel primo caso invece, osserva la S.C., “può legittimamente determinarsi una contrapposizione tra il diritto del richiedente di conoscere le proprie origini, e quello delle sorelle e dei fratelli a non voler rivelare la propria parentela biologica ed a non voler mutare la costruzione della propria identità attraverso la conoscenza d’informazioni ritenute negativamente incidenti sul raggiunto equilibrio di vita”.

Pertanto, “l’esercizio del diritto nei confronti dei genitori biologici e nei confronti degli altri componenti il nucleo familiare biologico-genetico originario dell’adottato, non può realizzarsi con modalità identiche”. Solo nel caso dei genitori, il diritto alla conoscenza delle proprie origini si può configurare alla stregua di un diritto potestativo. Nel caso delle sorelle e dei fratelli, può farsi ricorso alla diversa modalità procedimentale già sperimentata dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 1946 del 2017, riconoscendo loro “il diritto di essere interpellati in ordine all’accesso alle informazioni sulla propria identità, trovandosi a confronto posizioni giuridiche soggettive di pari rango e di contenuto omogeneo sulle quali non vi è stata alcuna predeterminazione legislativa della graduazione gerarchica dei diritti e degli interessi da comporre, come invece previsto nei commi 5 e 6 dell’art. 28, con riferimento all’adottato maggiorenne che voglia conoscere l’identità dei propri genitori biologici”.

Quanto appena esposto rende ulteriormente significativa la sentenza. Nell’esercizio della delicata funzione “creativa” che l’inerzia del legislatore e l’integrazione sovranazionale assegnano ai giudici, la giurisprudenza tende comunque a procedere con cautela, senza tagli netti, costruendo relazioni tra i soggetti della comunità familiare, piuttosto che contrapporli, se non assolutamente necessario, nella rigida dialettica diritto potestativo-soggezione.

Lo stesso richiamo ai numerosi protocolli elaborati dai Tribunali per i minorenni dei diversi distretti giudiziari (analogo a quello fatto dalle Sezioni Unite del 2017) dimostra l’adesione da parte della S.C. a una concezione della regola giuridica come stratificata, che muove dal dato costituzionale e convenzionale, si arricchisce delle addizioni di principio delle corti superiori e trova poi declinazioni pratiche “su misura” presso i giudici di merito, che sono a stretto contatto con la realtà delle esperienze umane e familiari.

Maggiormente legata ai tratti tipici del diritto all’identità personale, ma pur sempre di spiccato rilievo, è poi Sez. 1, n. 18006/2018, Lamorgese, Rv. 649524-01, con cui è stata confermata la sentenza di merito che aveva condannato al risarcimento del danno per lesione della riservatezza, il giornalista che aveva divulgato la conversazione ripresa con una telecamera nascosta all’insaputa dell’interlocutore, in violazione dell’art. 2 del codice deontologico dei giornalisti, che vieta artifici e pressioni indebite nell’attività di raccolta delle notizie.

Pur ricadendosi in una fattispecie più tradizionale, di tutela risarcitoria contro il travisamento della personalità e la violazione della riservatezza (su cui v. Sezione II, § 6), anche in questo caso la S.C. ha dovuto bilanciare interessi di rango costituzionale: da un lato, la libertà di stampa, cioè la base su cui poggia l’art. 137, comma 2, del d.lgs. n. 196 del 2003, che consente il trattamento dei dati personali per finalità giornalistiche anche senza il consenso dell’interessato; dall’altro lato, i diritti inviolabili della persona, tra cui quello all’identità personale, destinati a prevalere quando l’attività giornalistica si avvalga di mezzi scorretti e fraudolenti.

3. Il principio di effettività della tutela giurisdizionale.

È difficile, in un ordinamento presidiato dagli art. 24 e 111 Cost., parlare del diritto alla tutela giurisdizionale effettiva come diritto di nuova emersione

Accade tuttavia che, sulla spinta delle fonti legislative e giurisprudenziali di matrice sovranazionale, il principio di effettività assuma una posizione ancor più centrale e conosca declinazioni sempre nuove (per un approfondimento v. la parte introduttiva del vol. III).

A tale riguardo, è sufficiente considerare che la Corte di giustizia Ue, in una sentenza del 2018, ha richiamato il principio di effettività per escludere la legittimità di una modifica normativa realizzata in uno Stato membro, che aveva condotto alla riduzione degli stipendi degli appartenenti all’ordine giudiziario, affermando: “il principio di tutela giurisdizionale effettiva dei diritti che i singoli traggono dal diritto dell’Unione, cui fa riferimento l’articolo 19, paragrafo 1, secondo comma, TUE, costituisce, infatti, un principio generale di diritto dell’Unione che deriva dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, che è stato sancito dagli articoli 6 e 13 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, e che è attualmente affermato all’articolo 47 della Carta. … L’esistenza stessa di un controllo giurisdizionale effettivo destinato ad assicurare il rispetto del diritto dell’Unione è intrinseca ad uno Stato di diritto” (Corte giust. 27 febbraio 2018, causa C-64/16, Associação Sindical dos Juízes Portugueses).

Nel sistema multilivello, il principio di effettività può essere dunque osservato da più angoli prospettici. Dal punto di vista funzionale, esso è diretto a garantire il raggiungimento degli scopi perseguiti dall’Unione europea nel singolo settore di intervento, ma è anche coessenziale all’indipendenza del sistema giudiziario e dunque al mantenimento e alla piena realizzazione dello stato di diritto nei singoli ordinamenti nazionali. Dal punto di vista soggettivo, il principio rafforza i diritti riconosciuti dalle direttive ai singoli cittadini dell’Unione e assurge esso stesso al rango di diritto fondamentale (art. 19 del Trattato dell’Unione europea e art. 47 della Carta di Nizza).

La giurisprudenza di legittimità è consapevole da tempo del ruolo cruciale giocato dal principio di effettività. Già nel 2006, le Sezioni Unite, ragionandone alla luce della Costituzione e delle fonti sovranazionali, avevano così efficacemente concluso a proposito del principio di effettività: “il risultato di tali indicazioni, provenienti da norme o ordinamenti di rango superiore, è un vero e proprio effetto di irraggiamento nei confronti della disciplina legislativa che regola i modi di esercizio della tutela giurisdizionale” (Sez. U, n. 03117/2006, Altieri, Rv. 58683001).

Nell’anno appena trascorso, l’effetto descritto ha conosciuto ulteriori forme di inveramento.

L’occasione più importante per ribadirlo è stata offerta da uno dei temi più delicati e controversi degli ultimi anni, quello dei riflessi dell’avvento del processo civile telematico (p.c.t.) sui princìpi e gli schemi del processo civile tradizionale.

Investita della questione della procedibilità del ricorso per cassazione notificato come documento informatico nativo digitale e animata dall’intento di procedere alla parziale rimeditazione di un proprio recente orientamento, Sez. U, n. 22438/2018, Vincenti, Rv. 650462-01, 650462-02, 650462-03, ha preso le mosse proprio dall’attuale pervasività del principio di effettività: vi è infatti “l’esigenza di consentire la più ampia espansione, nel perimetro di tenuta del sistema processuale, del diritto fondamentale di azione (e, quindi, anche di impugnazione) e difesa in giudizio (art. 24 Cost.), che guarda come obiettivo al principio dell’effettività della tutela giurisdizionale, alla cui realizzazione coopera, in quanto principio “mezzo”, il giusto processo dalla durata ragionevole (art. 111 Cost.), in una dimensione complessiva di garanzie che rappresentano patrimonio comune di tradizioni giuridiche condivise a livello sovranazionale (art. 47 della Carta di Nizza, art. 19 del Trattato sull’Unione europea, art. 6 CEDU)”.

Sulla scia di Sez. U, n. 10648/2017, D’Ascola, Rv. 643945-01, che già aveva sottolineato l’impellente necessità di liberare il giudizio di legittimità da rigori formalistici, in accordo con la dottrina che aveva criticato la S.C. per la sua eccessiva attenzione a esigenze di “cronofilachia”, Sez. U, n. 22438/2018, Vincenti, Rv. 650462-01, 650462-02, 650462-03, ha ribadito la vocazione “liberale” dell’intervento nomofilattico, vocazione che deve rimanere “anch’essa particolarmente attenta ai criteri di ragionevolezza e proporzionalità che devono orientare eventuali restrizioni del diritto della parte all’accesso ad un tribunale … trovando rinnovata vitalità nel principio cardine di “strumentalità delle forme” degli atti del processo, siccome prescritte dalla legge non per la realizzazione di un valore in sé o per il perseguimento di un fine proprio ed autonomo, ma in quanto strumento più idoneo per la realizzazione di un certo risultato, il quale si pone come il traguardo che la norma disciplinante la forma dell’atto intende conseguire”.

Di qui la duplice conclusione (per il cui approfondimento v. vol. III parte introduttiva): che la mancata sottoscrizione con firma digitale dell’atto nativo digitale notificato può sì dar luogo a nullità dell’atto stesso, ma solo a condizione che non vi sia la possibilità di ascriverne comunque la paternità certa, in applicazione del principio del raggiungimento dello scopo; e che la improcedibilità del ricorso è esclusa quando il controricorrente (anche tardivamente costituitosi) depositi copia analogica del ricorso ritualmente autenticata ovvero non abbia disconosciuto la conformità della copia informale all’originale a lui notificata.

Garantire l’accesso alla giustizia comporta, più in generale, che le preclusioni, le decadenze, i termini prescrizionali devono avere carattere ragionevole per essere compatibili con l’effettività della tutela. Consapevole di ciò, Sez. T, n. 04150/2018, Crucitti, Rv. 647158-02, ha sottoposto a prova di resistenza il termine di decadenza biennale previsto dall’art. 21, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, entro il quale può essere chiesto il rimborso dell’IVA indebitamente corrisposta all’Amministrazione finanziaria, giungendo però alla conclusione che esso, come affermato dalla stessa Corte di Giustizia, non è contrario ai principi di equivalenza e di effettività, in quanto consente ad un soggetto normalmente diligente di far valere i propri diritti.

Il principio del giusto processo (art. 111 Cost.) è volto a tutelare l’effettività dei mezzi di azione e difesa attraverso la celebrazione di un giudizio che tenda, essenzialmente, alla decisione di merito: v. Sez. L,  n. 08422/2018, Cinque, Rv. 647623-01.

Su questo si innesta il tema del cd. overruling processuale. Com’è noto, l’ineliminabile evoluzione di orientamenti giurisprudenziali anche consolidati trova un necessario contrappeso nell’affidamento incolpevole della parte che su tali orientamenti abbia confidato per compiere, omettere o ritardare il compimento di atti processuali (sulle condizioni affinché operi il bilanciamento vedi per tutte Sez. U, n. 21194/2017, Barreca, Rv. 64531101). Si tratta ancora una volta di un modo di operare del principio di effettività, cui ha fatto riferimento Sez. L, n. 07833/2018, Marchese, Rv. 648040-01, avallando la decisione del giudice di merito che aveva consentito la “rinnovazione” della omessa notificazione di un’opposizione a cartella esattoriale, ben prima che maturasse l’orientamento giurisprudenziale che ha imposto di dichiarare improcedibili gli atti lato sensu impugnatori non notificati alla controparte

Sulla stessa falsariga, Sez. T, n. 11435/2018, Greco, Rv. 648072-01, ha affermato che, nel processo tributario, l’omissione, da parte del giudice adito, dell’ordine, alla parte privata che ne sia priva, di munirsi di un difensore, dà luogo ad una nullità relativa, che può essere eccepita in appello solo dalla parte di cui sia stato leso il diritto ad un’adeguata difesa tecnica; ciò in quanto l’art. 12, comma 5, del d.lgs. n. 546 del 1992 deve essere interpretato, in una prospettiva costituzionalmente orientata, in linea con l’esigenza di assicurare l’effettività del diritto di difesa in vista di un’adeguata tutela contro gli atti della P.A., evitando, allo stesso tempo, irragionevoli sanzioni di inammissibilità, che si risolvano in danno del soggetto che si intende tutelare; del resto, nel processo tributario il difetto di assistenza tecnica non incide sulla rappresentanza processuale, atteso che l’incarico al difensore può essere conferito anche in udienza pubblica, successivamente alla proposizione del ricorso e non dà luogo, pertanto, ad una nullità attinente alla costituzione del contraddittorio.

Un altro importante richiamo al principio di effettività è stato operato ad esempio da Sez. U, n. 13702/2018, Lombardo, Rv. 648653-01, che ha dovuto valutare l’asserito eccesso di potere giurisdizionale del giudice amministrativo, che, nel ruolo di giudice dell’ottemperanza, avendo rilevato la violazione o l’elusione del giudicato civile, aveva adottato provvedimenti in luogo della P.A. inadempiente. Secondo le Sezioni Unite, il principio di effettività rende impossibile che il giudizio di ottemperanza, preordinato alla piena soddisfazione dell’interesse sostanziale del ricorrente, possa arrestarsi di fronte ad adempimenti parziali, incompleti od addirittura elusivi del contenuto della decisione.

Sempre al fine di rafforzare o non intaccare i poteri del giudice, ma con attenzione allo squilibrio tra le parti del rapporto sostanziale, di particolare rilievo si profila Sez. 3, n. 31556/2018, Fiecconi, Rv. 651946–01. La sentenza è stata chiamata a occuparsi del rimedio di cui all’art. 35-ter l. n. 354 del 1975, preordinato a porre riparo alla violazione dell’art. 3 CEDU nei confronti di soggetti detenuti o internati (su cui v. infra). Dopo aver ribadito la natura contrattuale della responsabilità dell’Amministrazione e il riparto dell’onere probatorio, la sentenza ha sottolineato che il giudice conserva poteri integrativi ed officiosi propri del rito camerale prescelto dal legislatore, quali, in particolare, il potere di assumere informazioni previsto dall’art. 738, comma 3, c.p.c.; si tratta, secondo la Corte, di un utile meccanismo riequilibratore nell’ambito di un procedimento caratterizzato da una situazione di squilibrio tra la parte pubblica, titolare della potestà punitiva, e il soggetto privato che la subisce, in funzione della salvaguardia del principio di effettività della tutela giurisdizionale di diritti di indubbia matrice costituzionale e convenzionale.

Il principio del giusto processo può essere peraltro strumentalizzato e piegato a tattiche ostruzionistiche. Contro questa possibilità, la S.C. sottolinea che è proprio l’effettività a esigere che non si dia corso ad attività processuali inutili e dispendiose e che il processo giunga a una rapida conclusione, nell’interesse dell’altra parte e dell’amministrazione della giustizia: su queste basi, Sez. 2, n. 12515/2018, F. Manna, Rv. 648755-01, ha osservato che, in caso di ricorso per cassazione prima facie infondato, appare superfluo, pur potendone sussistere i presupposti, disporre la fissazione di un termine per l’integrazione del contraddittorio ovvero per la rinnovazione di una notifica nulla o inesistente, atteso che la concessione di esso si tradurrebbe, oltre che in un aggravio di spese, in un allungamento dei termini per la definizione del giudizio di cassazione senza comportare alcun beneficio per la garanzia dell’effettività dei diritti processuali delle parti; analogamente, Sez. 1,  n. 08592/2018, Fraulini, Rv. 648549-01, ha precisato che le sentenze e le ordinanze ex art. 380-bis c.p.c., emesse dalla Corte di cassazione nel giudizio di revocazione, non sono suscettibili di una nuova impugnazione per revocazione, essendo esauriti i mezzi di impugnazione ordinari, né contro le stesse può proporsi il ricorso straordinario ex art. 111 Cost., esperibile solo avverso un provvedimento di merito avente carattere decisorio e non altrimenti impugnabile; e ancora all’effettività del contraddittorio ha fatto appello Sez. 6-2, n. 05314/2018, Falaschi, Rv. 647989-02, per escludere che l’errata indicazione della persona cui l’atto introduttivo doveva essere notificato possa condurre, oltre che alla rimessione in termini in favore dell’attore, alla “stabilizzazione” nei confronti del reale destinatario, in funzione della comune difesa, degli effetti di atto giudiziario notificato ad altro soggetto e del conseguente giudizio.

  • polizia
  • dati personali

II)

IL DIRITTO ALLA RISERVATEZZA ANCHE ALLA LUCE DEL NUOVO REGOLAMENTO UE

(di Marina Cirese )

Sommario

1 Premessa. - 2 Il diritto alla riservatezza: brevi cenni alle origini - 3 La tutela della “privacy” nell’ordinamento italiano. - 4 Il Regolamento UE n. 2016/679 e l’adeguamento della normativa nazionale. - 5 I dati personali ed i dati sensibili. - 6 Il trattamento dei dati personali. - 7 Il diritto all’oblio. - 8 Il trattamento dei dati personali da parte di forze di polizia. - 9 Profili processuali.

1. Premessa.

Il dibattito teorico e l’esperienza applicativa hanno conferito alla nozione di “privacy” una prospettiva fortemente dinamica correlata ai mutamenti determinati dalle tecnologie dell’informazione ed alla emersione di nuovi fronti di tutela. L’originaria definizione di “diritto di esser lasciato solo”, peraltro strettamente legata a logiche proprietarie, ha da tempo ceduto il passo a definizioni che, riferite anche ad un contesto sovranazionale, attengono alla possibilità di un soggetto di conoscere, controllare, indirizzare, interrompere il flusso delle informazioni che lo riguardano.

2. Il diritto alla riservatezza: brevi cenni alle origini

La tutela della riservatezza viene sancita solennemente dall’art. 12 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo che vietava “l’arbitraria interferenza con la riservatezza”. In seguito la Convenzione Europea sui diritti dell’uomo del 1950 all’art. 8 recita che “ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare” e all’art. 10 precisa che “la stessa libertà di espressione incontra, tra i suoi limiti, il divieto di divulgare “informazioni confidenziali”. Riprendendo la formulazione dell’art. 8 CEDU, anche la Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea (Carta di Nizza) ha previsto, all’art. 7, il “rispetto della vita privata e della vita familiare” e, all’art. 8, la “protezione dei dati di carattere personale”.

In Italia la Costituzione non dedica alcuna norma specifica alla tutela della riservatezza ed alla protezione dei dati personali, tuttavia il valore costituzionale di tali beni giuridici viene rinvenuto nella lettura sistematica di varie disposizioni: l’art. 2 attraverso il richiamo ai nuovi diritti inviolabili della persona, l’art. 3 che afferma la pari dignità sociale tra gli individui, altre norme della prima parte della Costituzione tra le quali l’art. 14 relativo alla protezione del domicilio, l’art. 15 sulla libertà e segretezza della corrispondenza, l’art. 13 sulla libertà personale, nonché lo stesso art. 21 che protegge la libertà di manifestazione del pensiero anche in senso negativo quale diritto del soggetto a mantenere segrete le proprie idee e convinzioni. È stata soprattutto la giurisprudenza, che dapprima negava l’esistenza di un diritto alla riservatezza, ad individuare il fondamento giuridico della “privacy” quale diritto sostanzialmente tutelato ed a fungere da vero e proprio motore trainante nel suo lungo cammino di riconoscimento. Un momento di svolta è rappresentato da Sez. 1, n. 02129/1975, F. Santosuosso, Rv. 375882-01, nella quale il diritto alla riservatezza viene riconosciuto quale diritto costituzionalmente tutelato in base tra l’altro all’art. 2 della Costituzione. Nel 1970 il diritto alla “privacy” ha quindi il suo primo riconoscimento legislativo nella Carta dei diritti dei Lavoratori ove viene fatto divieto al datore di lavoro di effettuare indagini ai fini dell’assunzione come nel corso dello svolgimento del rapporto di lavoro alle opinioni politiche, religiose o sindacali dei lavoratori.

3. La tutela della “privacy” nell’ordinamento italiano.

In Italia una disciplina organica sulla “privacy” viene introdotta sulla spinta dell’Unione Europea in quanto la Direttiva n. 95/46/CE sulla tutela dei dati personali imponeva agli Stati membri il recepimento della stessa entro tre anni dalla sua entrata in vigore. La legge n. 675 del 1996, ora abrogata, creava una normativa organica in materia di protezione della “privacy”, volta esplicitamente alla tutela della dignità, dei diritti e delle libertà fondamentali della persona.

Dal 1° gennaio 2004 è entrato in vigore il cd. Codice della Privacy, ovvero il Testo Unico sulle disposizioni in materia di protezione dei dati personali, che è stato adottato con il d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale il 29 luglio 2003.

La novità della nuova legge va individuata nel pieno riconoscimento legislativo del diritto alla riservatezza ed all’identità personale nel quadro dei diritti fondamentali della persona che si è tradotto in un diritto all’autodeterminazione informativa che affida al consenso dell’interessato le legittimità del trattamento dei suoi dati personali. Il testo unico riordina tutta la normativa in tema di trattamento dei dati personali riunendo in un unico contesto la l. 675/1996 e gli altri decreti legislativi, regolamenti e codici deontologici che si erano succeduti, apportando numerose integrazioni e modificazioni che tengono conto della “giurisprudenza” del Garante per la protezione dei dati personali e della direttiva Ue 2000/58 sulla riservatezza nelle comunicazioni elettroniche.

4. Il Regolamento UE n. 2016/679 e l’adeguamento della normativa nazionale.

Il 24 maggio 2016 è entrato in vigore il Regolamento Generale Europeo (UE 679/2016 – Pubblicato nella Gazzetta Ufficiale europea il 4 maggio 2016) sulla protezione dei dati personali delle persone fisiche denominato GDPR (General Data Protection Regulation). Il Regolamento rappresenta la normativa di riforma della legislazione europea in materia di protezione dei dati. La sua attuazione, è stata prevista a distanza di due anni, quindi a partire dal 25 maggio 2018. Trattandosi di un regolamento europeo, non necessita di recepimento da parte degli Stati dell’Unione e verrà attuato da tutti allo stesso modo, realizzandosi così di fatto la definitiva armonizzazione della regolamentazione in materia di protezione dei dati personali all’interno dell’Unione europea.

Il GDPR, più esplicito della direttiva 95/46/CE, proclama la tutela del diritto alla protezione dei dati personali inteso come diritto fondamentale delle persone fisiche. L’art. 1 par. 2 recita “Il presente regolamento protegge i diritti e le libertà fondamentali delle persone fisiche, in particolare il diritto alla protezione dei dati personali”.

Le novità di maggior rilievo si individuano nell’introduzione di una nuova figura – e professionalità, quella del c.d. Data Protection Officer (“DPO”), il “responsabile della protezione dei dati”. Il DPO dovrà essere obbligatoriamente presente all’interno di tutte le aziende pubbliche nonché in tutte quelle ove i trattamenti presentino specifici rischi, come ad esempio le aziende nelle quali sia richiesto un monitoraggio regolare e sistematico degli “interessati”, su larga scala, e quelle che trattano i c.d. “dati sensibili”. Ogni azienda dovrà rendere noti i dati del proprio DPO e comunicarli al locale “Garante per la protezione dei dati personali”. Altra novità di rilievo, è l’introduzione dell’obbligo, per ogni azienda titolare del trattamento dei dati, di tenere un “registro delle attività di trattamento”, svolte sotto la propria responsabilità, nonché quello di effettuare una “valutazione di impatto sulla protezione dei dati”. Quest’ultimo adempimento, in particolare, è richiesto ad esempio in relazione ai trattamenti automatizzati, ivi compresa la profilazione, o con riguardo ai trattamenti su larga scala di categorie particolari di dati (sensibili), nonché relativamente ai dati ottenuti dalla sorveglianza sistematica, sempre su larga scala, di zone accessibili al pubblico. Il Regolamento esonera dagli adempimenti appena accennati le piccole e medie imprese, quelle dunque con meno di 250 dipendenti, a meno che, però, “ il trattamento che esse effettuano possa presentare un rischio per i diritti e le libertà dell’interessato, il trattamento non sia occasionale o includa il trattamento di categorie particolari di dati (sensibili)… o i dati personali relativi a condanne penali “. Il processo di adeguamento alla normativa europea è avvenuto con l’introduzione del d.lgs. 10 agosto 2018, n. 101, pubblicato in G.U. n. 205 del 4 settembre 2018, intitolato “Disposizioni per l’adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché’ alla libera circolazione di tali dati e che abroga la direttiva 95/46/CE (regolamento generale sulla protezione dei dati)”. Tale decreto legislativo, che è entrato in vigore il 19 settembre 2018, apporta modifiche al Codice in materia di protezione dei dati personali (d.lgs. n. 196 del 2003), adeguando la normativa interna a quella europea. Codice della “privacy” e regolamento europeo (GDPR), dunque, coesisteranno. La normativa italiana va interpretata e applicata conformemente a quella europea, in quanto integra, ma non sostituisce il GDPR. Ai sensi dell’art. 288 TFUE, infatti, “ciascun regolamento europeo, e pertanto anche il Regolamento 679/2016 (GDPR), ha portata generale (..) è obbligatorio in tutti i suoi elementi e direttamente applicabile in ciascuno degli stati membri”.

5. I dati personali ed i dati sensibili.

Il codice della “privacy”, nella versione antecedente alla novella, procedeva alle definizioni secondo una tecnica più volte sperimentata dal legislatore italiano con chiari intenti di chiarezza.

Per quanto riguarda la definizione dei dati oggetto di tutela, veniva in rilievo quella di dato personale, ovvero di “qualunque informazione relativa a persona fisica, persona giuridica, ente od associazione, identificati o identificabili, anche indirettamente, mediante riferimento a qualsiasi altra informazione, ivi compreso un numero di identificazione personale”.

L’art. 4, comma 1, del d.lgs. n. 196 del 2003, oggi abrogato, conteneva alla lett. d) la nozione di dato sensibile che, indica il dato idoneo a rivelare tipi di informazioni, espressamente elencati, attinenti a differenti profili della persona, relativi a caratteristiche, stati, condizioni ovvero all’esercizio di libertà fondamentali. Una disciplina ulteriore, più restrittiva e specifica, è stata, invece, prevista per quei dati che risultano idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale del soggetto interessato.

Si tratta di una sorta di “tertium genus” di dati, comunemente considerati “sensibilissimi”, collocati all’interno della più ampia categoria dei c.d. dati sensibili dai quali si distinguono tuttavia poiché intrinsecamente più delicati e pericolosi.

Con Sez. 2, n. 17665/2018, Criscuolo, Rv. 649454-01, la S.C. precisa che nella nozione di dato personale rientra qualsiasi informazione che consenta di identificare, anche indirettamente, una determinata persona fisica e ricomprende pure i “dati identificativi”, quali il nome, il cognome e l’indirizzo di posta elettronica, traendone la conseguenza che anche per utilizzare questi ultimi dati è prescritta la previa informativa di cui all’art. 13 del d.lgs. n. 196 del 2003 ai fini dell’acquisizione del consenso degli interessati all’impiego dei dati di loro pertinenza.

Sez. 3, n. 16816/2018, Dell’Utri, Rv. 649423-01 comprende nella nozione di dato personale e sensibile, come tale oggetto di tutela, anche la salute di un minore, sia in relazione al minore stesso sia in relazione ad altre persone legate a quest’ultimo da vincoli di comunanza di vita familiare o domestica, considerando che la situazione del familiare congiunto a persona affetta da invalidità esprime in ogni caso una condizione di debolezza o di disagio sociale, di per sé potenzialmente idonea ad esporre la persona a condizionamenti o discriminazioni assimilabili a quelle tipicamente individuate dal legislatore a protezione dei dati personali. Nella caso dedotto in giudizio la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, che aveva riconosciuto ai genitori ed al fratello di un minore la legittimazione ad agire per il risarcimento dei danni dagli stessi subiti a seguito dell’illecita diffusione, mediante la pubblica esposizione di una graduatoria di ammissione a corsi scolastici, di dati sensibili riguardanti la salute del minore stesso e funzionali all’attribuzione di privilegi concorsuali. Con riguardo all’accesso ai dati personali ex art. 7 d.lgs. n. 196 del 2003, Sez. 1, n. 32533/2018, Campese, Rv. 652231-01, analizzando una fattispecie in cui un dipendente di una banca aveva richiesto di poter accedere a dati personali contenuti nella documentazione della banca in relazione all’instaurazione di un procedimento disciplinare afferma che da un lato, che il diritto di accesso ex art. 7 del d.lgs. n. 196 del 2003 non può intendersi, in senso restrittivo, come il mero diritto alla conoscenza di eventuali dati nuovi ed ulteriori rispetto a quelli già entrati nel patrimonio di conoscenza e, quindi, nella disposizione dello stesso soggetto interessato al trattamento dei propri dati, atteso che scopo della norma suddetta è garantire, a tutela della dignità e riservatezza del soggetto interessato, la verifica “ratione temporis” dell’avvenuto inserimento, della permanenza, ovvero della rimozione di dati, indipendentemente dalla circostanza chetali eventi fossero già stati portati per altra via a conoscenza dell’interessato, verifica attuata mediante l’accesso ai dati raccolti sulla propria persona in ogni e qualsiasi momento della propria vita relazionale

6. Il trattamento dei dati personali.

Il momento qualificante dell’utilizzo dei dati personali è rappresentato dal trattamento che veniva definito nell’art. 4 del codice della “privacy” oggi abrogato come “qualunque operazione o complesso di operazioni, effettuati anche senza l’ausilio di strumenti elettronici, concernenti la raccolta, la registrazione, l’organizzazione, la conservazione, la consultazione, l’elaborazione, la modificazione, la selezione, l’estrazione, il raffronto, l’utilizzo, l’interconnessione, il blocco, la comunicazione, la diffusione, la cancellazione e la distruzione di dati, anche se non registrati in una banca di dat.

A seguito della novella, venuta meno una definizione generale di trattamento, viene invece tracciata la distinzione tra “comunicazione” e “diffusione” dei dati personali (art. 2-ter, comma IV), nozioni che peraltro avevano dato adito nel recente passato a dubbi interpretativi con particolare riguardo al trattamento dei dati sensibili (vedi ordinanze interlocutorie datate 9.2.2017, 10.2.2017, 10.2.2017, 9.2.2017, con cui la Prima Sezione civile aveva rimesso gli atti al Primo Presidente affinché valutasse ex art. 374, comma 2, c.p.c. l’assegnazione della controversia alle Sezioni Unite perché provveda a risolvere il contrasto giurisprudenziale emerso in relazione alla nozione di trattamento e di comunicazione dei dati sensibili (questioni peraltro ritenute anche di particolare importanza, cui è seguita S.U., n. 30981/17, Acierno, Rv. 646734-01, secondo la quale i dati sensibili idonei a rivelare lo stato di salute possono essere trattati dai soggetti pubblici e dalle persone giuridiche private che agiscano rispettivamente in funzione della realizzazione di una finalità di pubblico interesse o di adempimento di un obbligo contrattuale, soltanto mediante modalità organizzative, quali tecniche di cifratura o criptatura che rendono non identificabile l’interessato. Nella specie, la S.C. affermava che il soggetto pubblico – la Regione – e il soggetto persona giuridica privata – la banca – sono tenuti, in qualità di titolari del trattamento dei dati personali, nel procedimento di riconoscimento, erogazione ed accredito dell’indennità di cui alla l. n. 210 del 1992, ad occultare, mediante tecniche di cifratura o criptatura, il riferimento alla detta legge, in quanto idoneo a rivelare lo stato di salute del beneficiario dell’indennità).

Analizzando il trattamento dei dati per finalità giornalistiche, Sez. 1, n. 18006/2018, Lamorgese, Rv. 649524-01, stabilisce che detto trattamento, che può essere effettuato anche senza il consenso dell’interessato, ai sensi dell’art. 137, comma 2, del d.lgs. n. 196 del 2003, deve pur sempre essere effettuato secondo modalità che garantiscano il rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali, della dignità dell’interessato, del diritto all’identità personale, nonché del codice deontologico dei giornalisti, che ha valore di fonte normativa in quanto richiamato dall’art. 139 del detto d.lgs. n. 196 del 2003. La S.C. nella fattispecie ha confermato la sentenza di merito che aveva condannato al risarcimento del danno per lesione della riservatezza, il giornalista che aveva divulgato la conversazione ripresa con una telecamera nascosta all’insaputa dell’interlocutore.

Con particolare riguardo poi alla diffusione dell’immagine, secondo Sez. 1, n. 18006/2018, Lamorgese, Rv. 649524-02, la presenza delle condizioni legittimanti l’esercizio del diritto di cronaca non comporta tout court la legittimità della pubblicazione o diffusione anche dell’immagine delle persone coinvolte che è subordinata, oltre che al rispetto delle prescrizioni contenute negli artt. 10 c.c., 96 e 97 della l. n. 633 del 1941, nonché dell’art. 137 del d.lgs. n. 196 del 2003 e dell’art. 8 del codice deontologico dei giornalisti, anche alla verifica in concreto della sussistenza di uno specifico ed autonomo interesse pubblico alla conoscenza delle fattezze dei protagonisti della vicenda narrata. Nell’ambito dell’individuazione dei limiti posti all’esercizio dell’attività giornalistica ove viene in rilievo il delicato bilanciamento tra la tutela della riservatezza e la libertà di manifestazione del pensiero sancita dall’art. 21 della Cost. si pone Sez. 3, n. 16311/2018, Scarano, Rv. 649435-01 che l’essenzialità dell’informazione riguardo a fatti di interesse pubblico comportano il dovere di evitare riferimenti allo stato di salute ed a patologie dei congiunti del soggetto interessato dai detti fatti, se non aventi attinenza con la notizia principale e quando siano del tutto privi di interesse pubblico. Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che aveva ritenuto non pertinente la diffusione, da parte di un quotidiano locale e senza il consenso degli interessati, della notizia che i due fratelli di un minorenne deceduto per un’influenza, risultata fatale a causa della sindrome adreno-genitale dalla quale lo stesso era affetto, erano portatori della stessa patologia ereditaria.

Pone l’accento sulla illegittimità del trattamento in quanto violi i limiti territoriali e temporali previsti, Sez. 1, n. 15075/2018, Campese, Rv. 64912501 secondo cui è illegittimo il provvedimento con il quale l’Agenzia delle Entrate aveva disposto la pubblicazione “on line” su tutto il territorio nazionale, degli elenchi recanti i nominativi dei contribuenti che avevano presentato le dichiarazioni relative all’imposta sui redditi ed all’IVA, ai sensi dell’art. 69 del d.P.R. n. 600 del 1973 e dell’art. 66-bis del d.P.R. n. 633 del 1972 e ciò in quanto le norme indicate avevano imposto stringenti limiti territoriali e temporali alla conoscenza dei predetti elenchi (i quali dovevano essere depositati solo presso i comuni interessati ed i competenti uffici dell’Agenzia delle Entrate e restare accessibili, ai fini della consultazione da parte di chiunque, soltanto per un anno.

In materia di consenso al trattamento di dati personali da parte di privati ex art. 23 del d.lgs. n. 196 del 2003 oggi abrogato, Sez. 1, n. 17278/2018, Di Marzio, Rv. 649516-01 dopo aver compiuto un ampio excursus sulla nozione e la latitudine del consenso nella materia de qua, precisa che detta norma nello stabilire che il consenso è validamente prestato solo se espresso liberamente e specificamente in riferimento ad un trattamento chiaramente individuato, consente al gestore di un sito internet, il quale somministri un servizio fungibile di condizionare la fornitura del servizio al trattamento dei dati per finalità pubblicitarie, a condizione che il consenso sia singolarmente ed inequivocabilmente prestato in riferimento a tale effetto. In taluni casi tuttavia il consenso non è richiesto. È quanto avviene nel caso di registrazioni di colloqui tra il dipendente e i colleghi sul luogo di lavoro ove l’utilizzo a fini difensivi non necessita del consenso dei presenti, per l’imprescindibile necessità di bilanciare le contrapposte istanze della riservatezza da una parte e della tutela giurisdizionale del diritto dall’altra e pertanto di contemperare la norma sul consenso al trattamento dei dati con le formalità previste dal codice di procedura civile per la tutela dei diritti in giudizio (vedi Sez. L., n. 11322/2018, Marotta, Rv. 648816-01).

7. Il diritto all’oblio.

Definito come “right to be forgotten” enuclea un vero e proprio diritto soggettivo, frutto di elaborazione dottrinale e giurisprudenziale e delle Autorità garanti europee e rientrante fra gli attributi fondamentali della personalità. Tale diritto si sostanzia dunque nella pretesa di un individuo a tornare padrone della propria storia personale e di recuperarne il controllo anche dopo che la stessa è stata oggetto di divulgazione, assumendo quindi il significato di diritto a cancellare, ad eliminare ciò che non appartiene più alla propria identità agendo quindi su quello che è stato il passato di un soggetto per tutelare il suo futuro, con ciò agevolmente ricollegandosi all’alveo del diritto all’identità personale tutelato dall’art. 3 Cost. ed all’art. 2 del C.d. Codice della Privacy.

Di rilievo centrale è il bilanciamento del diritto all’oblio, quale proiezione della personalità, con altri diritti che trovano espressione nella Carta costituzionale tra cui il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero di cui all’art. 21 Cost. la cui principale espressione è il diritto di cronaca, da intendersi come il diritto di portare a conoscenza dell’opinione pubblica fatti e vicende su temi politici, economici, scientifici di attualità. Con Sez. 1, n. 6919/18, Valitutti, Rv. 647763-01, la S.C., si inscrive nell’alveo dell’interpretazione della latitudine del c.d. diritto all’oblio e del suo rapporto con il diritto di cronaca svolgendo un’ampia disamina delle fonti e delle decisioni di matrice nazionale ed europea in particolare della sentenza della Corte di giustizia del 13.5.2014 nella causa Google Spain SL e Google c. Agencia Española de Protección de Datos e Costeja González in base alla quale, trascorso un certo lasso di tempo, la persona i cui dati figurano su una pagina web può rivolgersi ai gestori dei motori di ricerca per impedire che l’utenza possa servirsi di tali strumenti per trovare la notizia non più attuale. Viene altresì citata la sentenza della Corte EDU 19.10.2017 Fuschsmann/Germania che enuclea i criteri in base ai quali una informazione non è più di apprezzabile interesse per la collettività. Ai medesimi principi si richiamano peraltro i precedenti della S. C. afferenti al bilanciamento tra il diritto all’oblio ed il diritto di cronaca ove si afferma che in tema di diffamazione a mezzo stampa, il diritto del soggetto a pretendere che le vicende personali del passato non siano pubblicamente rievocate, nel caso specifico si trattava di una militanza in bande terroristiche) può essere compresso a fronte del diritto di cronaca solo quando sussista un interesse effettivo ed attuale alla diffusione della notizia, nel senso che quanto recentemente accaduto (nella specie, il ritrovamento di un arsenale di armi nella zona di residenza dell’ex terrorista) trovi diretto collegamento con la vicenda del passato rinnovandone l’attualità. A contrario, qualora tale collegamento con l’attualità non sussista la persistente diffusione dell’informazione si risolverebbe in un’illecita lesione del diritto alla riservatezza. Ciò premesso, nella pronuncia indicata, la S.C., alla luce dei principi tracciati dal diritto europeo e richiamandosi ai propri precedenti, enuclea per la prima volta un “decalogo” per operare il bilanciamento tra diritto all’oblio e diritto di cronaca, affermando che il diritto all’oblio può subire delle compressioni solo in presenza dei seguenti parametri: 1)contributo arrecato dalla notizia a un dibattito di interesse pubblico; 2) ragioni di giustizia, di polizia, scopi scientifici, didattici e culturali; 3)certezza del diritto dei terzi garantita dalla pubblicità legale ai fini della lealtà delle transazioni commerciali e, quindi, del buon funzionamento del mercato interno; 4)stato di figura pubblica; 5)notizia veritiera, di attualità e continente; 6)concessione del diritto di replica prima della diffusione della notizia. Alla luce di tali criteri la S.C. ha quindi ritenuto, in ciò ribaltando il giudizio di entrambi i giudici di merito, che nel caso di specie la trasmissione della Rai, recante “la classifica dei personaggi più scorbutici dello spettacolo”, non rivestisse i caratteri della notizia di interesse pubblico né tantomeno avesse il carattere dell’attualità riportando peraltro un evento verificatosi ben cinque anni prima. Inoltre, dal punto di vista soggettivo, ha reputato che, pur essendo il protagonista della vicenda un noto cantante, lo stesso non potesse definirsi un personaggio pubblico. Sulla scorta di tali rilievi, la S.C. ha quindi concluso per l’insussistenza dei presupposti per una compressione del diritto all’oblio del cantante, peraltro attuato nella specie da una trasmissione televisiva unicamente per finalità commerciali. Da ultimo non può non farsi cenno al Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, dianzi citato, che prevede tra le maggiori novità l’espressa regolamentazione (art. 17) del diritto all’oblio prevedendo che l’ interessato, onde evitare che notizie ritenute pregiudizievoli ed offensive continuino ad essere di pubblico dominio, può ottenere la rimozione dai motori di ricerca di tutti i link e riferimenti che rimandano ai contenuti online in questione, invocando tale diritto.

8. Il trattamento dei dati personali da parte di forze di polizia.

Il trattamento dei dati personali da parte delle forze di Polizia confluiti negli archivi del CED era disciplinato dal Capitolo Primo, Titolo Secondo, del d.lgs n. 196 del 2003 il quale non prevedeva alcun limite per la conservazione di detti dati limitandosi a consentire alla persona cui i dati si riferiscono la rettifica, l’integrazione, la cancellazione o la trasformazione in forma anonima ai sensi dell’art. 56 che rinviava all’art. 10 della l. 1 aprile 1981 n. 121.

L’art. 57 d.lgs. n. 196 del 2003 demandava ad un apposito decreto del Presidente della Repubblica l’individuazione delle modalità di attuazione da ultimo disciplinate nel d.p.r. 15 gennaio 2018 n. 121 recante il regolamento per l’attuazione dei principi del codice della “privacy” relativamente al trattamento effettuato per finalità di polizia che ha dato rilievo ai principi di completezza pertinenza, non eccedenza ed aggiornamento dei dati ed ha introdotto una regolamentazione dei termini per la loro conservazione.

In relazione a tali dati, Sez. 1, n. 21362/2018, Mercolino, Rv. Rv. 650309-01, in una fattispecie in cui una persona sottoposta ad indagini penali, definite con l’archiviazione in data anteriore all’emanazione del regolamento per l’attuazione dei principi del codice della “privacy”, che relativamente al trattamento dei dati per finalità di polizia, è applicabile, in quanto norma di carattere sostanziale, l’art. 10, comma 3, lett. f) del predetto regolamento, che fissa in venti anni dall’emissione del provvedimento di archiviazione il termine per la conservazione dei dati con ciò realizzando un bilanciamento tra la tutela della riservatezza e l’esigenza di conservazione di detta tipologia di dati.

9. Profili processuali.

Secondo Sez. 1, n. 14678/2018, Tricomi, Rv. 648944-01, in tema di illeciti amministrativi di cui al d.lgs. n. 196 del 2003, il dies a quo per il computo del termine di novanta giorni per la notificazione del verbale di contestazione decorre dall’accertamento della violazione, il quale non coincide con la generica ed approssimativa percezione del fatto e l’acquisizione di documentazione ad esso relativa, ma richiede l’avvenuta elaborazione dei dati così ottenuti al fine di individuare gli elementi costituitivi delle eventuali violazioni.

Sez. 1, n.16061/2018, Tricomi, Rv. 649282-01 precisa che il provvedimento del Garante per la protezione dei dati personali, che abbia accertato l’illegittimità della raccolta e della diffusione di determinati dati personali, ha natura amministrativa ed è dunque inidoneo al giudicato, cosicché non possono trovare applicazione nel relativo giudizio di opposizione in unico grado innanzi al tribunale, ai sensi degli artt. 151 e 152 del d.lgs. n. 196 del 2003, i principi processuali che governano la cognizione in grado di appello.

  • adozione di minore
  • matrimonio
  • minore età civile
  • regime economico
  • separazione legale
  • divorzio
  • diritto di affidamento
  • adozione internazionale
  • unione civile
  • figlio naturale

CAPITOLO II

LE RELAZIONI FAMILIARI E GENITORIALI

(di Paolo Di Marzio, Eleonora Reggiani, Giovanni Armone, Chiara Giammarco )

Sommario

1 Giurisdizione internazionale e residenza abituale del minore. - 2 L’unione matrimoniale: profili critici in tema di validità/nullità. - 3 La separazione personale dei coniugi. - 3.1 L’addebito, il contributo al mantenimento del coniuge e la riconciliazione. - 3.2 Profili processuali. - 4 Il divorzio. - 4.1 L’assegno divorzile, la porzione della pensione di reversibilità e la quota dell’indennià di fine rapporto. - 4.2 Profili processuali. - 5 Il regime patrimoniale della famiglia. - 5.1 Comunione legale dei beni, fondo patrimoniale, donazioni tra coniugi e impresa familiare. - 5.2 Comunione legale dei beni e processo. - 6 Il mantenimento dei figli. - 7 Il destino della casa familiare nello scioglimento della coppia. - 8 Il sepolcro gentilizio. - 9 La protezione dei soggetti bisognosi. - 10 Questioni in materia di matrimonio concordatario. - 11 Le unioni civili e la l. n. 76 del 2016. - 12 Matrimonio tra persone dello stesso sesso, stato civile e giurisdizione del giudice ordinario. - 13 Le convivenze di fatto all’indomani della l. n. 76 del 2016. - 14 Relazione omosessuale e protezione internazionale (rinvio). - 15 La responsabilità genitoriale e l’intervento del giudice. - 16 La regolamentazione dell’affidamento (rinvio). - 17 I provvedimenti limitativi della responsabilità genitoriale nei “procedimenti separativi”. - 18 Alcune caratteristiche dei “procedimenti separativi”. - 18.1 La competenza territoriale. - 18.2 Il ruolo del Pubblico Ministero. - 19 La novità del curatore speciale del minore nei “procedimenti separativi” nei casi di conflittualità che influisce sulla capacità genitoriale. - 20 Le misure sanzionatorie previste dall’art. 709-ter c.p.c. - 21 La tutela dei rapporti dei minori con gli ascendenti e i loro conviventi. - 22 La privazione del potere di rappresentanza legale e di gestione del patrimonio del minore. - 23 Procedimenti ex art. 336 c.c. e questioni processuali. - 23.1 Limiti di operatività della competenza per attrazione del giudice ordinario. - 23.2 I genitori come parti necessarie del procedimento. - 23.3 La partecipazione del minore e la nomina del curatore speciale. - 24 La genitorialità solidale: gli sviluppi degli istituti adottivi. - 24.1 Aspetti processuali. - 24.2 Lo stato di abbandono. - 24.3 L’adozione in casi particolari. - 24.4 Il riconoscimento delle sentenze straniere di adozione, l’ordine pubblico e l’interesse del minore. - 25 Lo stato di figlio. - 26 Il bilanciamento tra favor veritatis e genitorialità intenzionale dopo Corte cost. n. 272 del 2017. - 27 Altre questioni ancora aperte in tema di azioni di stato filiale. - 27.1 La prova nei giudizi relativi al riconoscimento dello stato di figlio. - 27.2 I rapporti tra le diverse azioni di stato.

1. Giurisdizione internazionale e residenza abituale del minore.

Nell’anno 2018 è proseguito l’impegno della S.C. finalizzato ad individuare i criteri utili per determinare quale sia la residenza abituale del minore, un problema che non rileva soltanto al fine di individuare il giudice dotato di competenza territoriale nei giudizi nazionali (v. infra), ma anche nell’ipotesi che i diversi componenti della famiglia vivano in Stati diversi, ed occorra perciò definire al giudice di quale Paese appartenga la giurisdizione.

Il giudice di legittimità ha affermato, in quest’ultimo ambito, che, per accertare quale sia lo Stato in cui ha la residenza abituale un figlio di tenera età, nato da genitori non uniti in matrimonio che vivono in Paesi diversi, e individuare, in conseguenza, il giudice nazionale dotato di giurisdizione, al fine di assumere i provvedimenti riguardanti il minore, possono valorizzarsi indicatori di natura proiettiva, quali l’iscrizione del bambino presso l’asilo nido in un determinato Paese ed il godimento dell’assistenza sanitaria presso il sistema pediatrico del medesimo Stato (Sez. U, n. 08042/2018, Acierno, Rv. 649686-01).

In una successiva pronuncia, adottata in materia di decadenza dalla potestà genitoriale, le Sezioni Unite hanno ribadito che, qualora i genitori risiedano in Stati diversi, la competenza giurisdizionale deve essere individuata con riferimento al criterio della residenza abituale del minore al momento della proposizione della domanda, il cui accertamento si risolve in una quaestio facti, con una valutazione da svolgersi anche in chiave prognostica, che può essere effettuata direttamente dalla S.C. sulla base dei dati emergenti dagli atti processuali, occorrendo valorizzare circostanze quali la frequenza della scuola e il conseguimento di un ottimo rendimento scolastico in un determinato Stato, l’apprendimento della lingua, l’inserimento nel contesto sociale ed anche la entusiasta volontà del minore di rimanere in un certo luogo, accertata mediante l’ ascolto del minore medesimo (Sez. U, n. 32359/2018, Sambito, Rv. 651820-01).

Queste decisioni devono peraltro coordinarsi con quanto statuito pochi mesi prima da Sez. 1, n. 30123/2017, Di Marzio P., Rv. 646487-01, laddove la Cassazione, oltre a confermare che in tema di sottrazione internazionale del minore da parte di uno dei genitori, la nozione di residenza abituale posta dalla Convenzione de L’Aja del 25 ottobre 1980, ratificata con la legge n. 64 del 1994, consiste nel luogo in cui il minore, in virtù di una durevole e stabile permanenza ha consolidato, consolida, ovvero, in caso di recente trasferimento, possa consolidare una rete di affetti e relazioni tali da assicurargli un armonico sviluppo psicofisico, ha poi escluso che potesse ritenersi residenza abituale del minore il luogo (Londra) in cui i genitori avevano programmato di vivere, senza, tuttavia, dare mai attuazione a tale intendimento, essendo sopravvenute circostanze che avevano portato il minore al trasferimento in Italia in forma stabile e senza soluzione di continuità.

La S.C. si è quindi pronunciata, sempre a Sezioni Unite, per confermare il principio secondo cui, se possibile, tutti i procedimenti giudiziari riguardanti i minori devono svolgersi innanzi al medesimo giudice. Si consideri che, in materia minorile, le problematiche della responsabilità genitoriale assumono rilievo prevalente, anche quando riguardino profili che potrebbero apparire marginali, come la disciplina del diritto di visita del coniuge non collocatario, e sono pertanto destinate ad attrarre presso il giudice dello Stato che ha giurisdizione su di esse anche controversie di elevato rilievo, come quelle relative al mantenimento del minore, ma aventi natura accessoria.

Le Sezioni Unite hanno, in particolare, chiarito che qualora nel giudizio di divorzio introdotto innanzi al giudice italiano siano avanzate domande inerenti la responsabilità genitoriale (nella specie, con riferimento al diritto di visita) ed il mantenimento di figli minori non residenti abitualmente in Italia, ma in altro Stato membro dell’Unione Europea (nella specie, la Germania), la giurisdizione su tali domande spetta, rispettivamente ai sensi degli artt. 8, par. 1, del Regolamento CE n. 2201 del 2003 e 3 del Regolamento CE n. 4 del 2009, all’A.G. dello Stato di residenza abituale dei minori al momento della loro proposizione, dovendosi salvaguardare l’interesse superiore e preminente dei medesimi a che i provvedimenti che li riguardano siano adottati dal giudice più vicino al luogo di residenza effettiva degli stessi, nonché realizzare la tendenziale concentrazione di tutte le azioni che li riguardano, attesa la natura accessoria della domanda relativa al mantenimento rispetto a quella sulla responsabilità genitoriale (Sez. U, n. 30657/2018, Giusti, Rv. 651442-01).

D’altronde, le medesime Sezioni Unite si erano già espresse in senso conforme pochi mesi prima, affermando che il giudice nazionale competente in materia di autorizzazione al mutamento della residenza del minore, nonché di pagamento percentuale delle spese scolastiche e straordinarie, in quanto domande direttamente incidenti sull’esercizio della responsabilità genitoriale da parte del genitore non affidatario o collocatario, è quello dello Stato di residenza abituale del minore (Sez. U, n. 27091/2017, Acierno, Rv. 649684-01).

Peraltro, in quest’ultima decisione, le stesse Sezioni Unite avevano anche ritenuto doversi escludere che la domanda relativa alla violazione dell’obbligo di mantenimento potesse ritenersi attratta al foro previsto per le domande relative alla responsabilità genitoriale, non potendo queste ultime ritenersi eziologicamente collegate con una richiesta di risarcimento del danno (Sez. U, n. 27091/2017, Acierno, Rv. 649684-02).

2. L’unione matrimoniale: profili critici in tema di validità/nullità.

In materia di validità del matrimonio, nell’anno 2018, pur nella varietà delle questioni esaminate – alcune particolarmente rilevanti, ad esempio in materia di componenti essenziali del matrimonio – si evidenziano le plurime occasioni in cui la S.C. è stata chiamata a pronunciarsi in materia di trascrivibilità del matrimonio contratto all’estero da persone appartenenti allo stesso sesso, su cui v. infra.

Per quanto attiene al contenuto essenziale del matrimonio, la Corte di cassazione ha specificato che l’autorità consolare italiana non può negare il visto di ingresso sul territorio nazionale al cittadino straniero che lo domandi al fine di attuare il ricongiungimento familiare al coniuge, altro cittadino straniero legittimamente soggiornante in Italia, in conseguenza dell’accertamento che il matrimonio è stato contratto in mancanza di precedenti rapporti tra gli sposi, ed è stato concordato tra le loro famiglie, perché queste circostanze non escludono il fine tipico del matrimonio, consistente nell’intento dei coniugi di formare una famiglia propria, potendo essere negato il visto d’ingresso solo in conseguenza dell’accertamento che il matrimonio è stato contratto al fine esclusivo di consentire al richiedente di entrare o soggiornare nel territorio dello Stato (Sez. 6-1, n. 03234/2018, De Chiara, Rv. 647883-01).

In tema di impugnative matrimoniali, quindi, il giudice di legittimità ha chiarito che l’azione per impugnare il matrimonio affetto da vizi della volontà ovvero da incapacità di intendere e di volere di uno dei coniugi ha carattere personale ed è trasmissibile agli eredi solo qualora il relativo giudizio sia già pendente al momento della morte di detto coniuge, il quale è titolare esclusivo del potere di decidere se impugnare il proprio matrimonio, aggiungendo inoltre che l’azione di nullità, pur essendo promuovibile dal pubblico ministero ex art. 125 c.c., non può più essere esperita dopo la morte di uno dei coniugi (Sez. 2, n. 04653/2018, Picaroni, Rv. 647813-02).

3. La separazione personale dei coniugi.

Come di consueto, sono risultate assai numerose, nell’anno 2018, le pronunce in materia di separazione personale dei coniugi, anche in relazione ai profili processuali.

3.1. L’addebito, il contributo al mantenimento del coniuge e la riconciliazione.

La Corte di cassazione, nell’anno 2017, aveva affermato, in tema di addebito, che le violenze fisiche costituiscono violazioni talmente gravi ed inaccettabili dei doveri nascenti dal matrimonio da risultare idonee di per sé sole, quand’anche concretatesi in un unico episodio di percosse, a fondare non solo la pronuncia di separazione personale, in quanto cause determinanti l’intollerabilità della convivenza, ma anche la dichiarazione della sua addebitabilità all’autore, e ad esonerare il giudice del merito dal dovere di comparare con esse, ai fini dell’adozione delle relative pronunce, il comportamento del coniuge che sia rimasto vittima delle violenze, restando altresì irrilevante la posteriorità temporale delle violenze rispetto al manifestarsi della crisi coniugale (Sez. 1, n. 07388/2017, Bisogni, Rv. 644601-01).

Nell’anno 2018 la S.C. ha confermato che l’accertamento del comportamento violento di un coniuge esonera il giudice del merito dal dovere di procedere alla comparazione, ai fini dell’adozione delle relative pronunce, col comportamento del coniuge che sia vittima delle violenze, ma ha precisato che tale condotta, di estrema gravità, è comunque comparabile con comportamenti omogenei. Resta da valutare se non occorra effettuare qualche ulteriore riflessione circa quale sia il corretto rilievo da assegnare ad una simile condotta, ai fini dell’addebito della separazione, qualora risulti accertato che il comportamento violento sia stato posto in essere quando il rapporto coniugale era già entrato in crisi ed i coniugi (se del caso) erano stati pure autorizzati a vivere separati.

In particolare, la Corte di cassazione ha confermato che le reiterate violenze fisiche e morali, inflitte da un coniuge all’altro, costituiscono violazioni talmente gravi dei doveri nascenti dal matrimonio da fondare, di per sé sole, non solo la pronuncia di separazione personale, in quanto cause determinanti la intollerabilità della convivenza, ma anche la dichiarazione della sua addebitabilità all’autore di esse. Il loro accertamento esonera il giudice del merito, ha confermato la medesima Corte, dal dovere di procedere alla comparazione, ai fini dell’adozione delle relative pronunce, col comportamento del coniuge che sia vittima delle violenze, trattandosi di atti che, in ragione della loro estrema gravità, sono comparabili solo con comportamenti omogenei, Sez. 6-1, n. 03925/2018, Sambito, Rv. 647886-01.

Sempre in tema di addebito della separazione, la stessa Corte ha ancora una volta precisato che grava sulla parte che richiede tale pronuncia, per inosservanza dell’obbligo di fedeltà, l’onere di provare la relativa condotta e la sua efficacia causale nel rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza, mentre è onere di chi eccepisce l’inefficacia dei fatti posti a fondamento della domanda, e quindi dell’infedeltà nella determinazione dell’intollerabilità della convivenza, provare le circostanze su cui l’eccezione si fonda, vale a dire l’anteriorità della crisi matrimoniale all’accertata infedeltà (Sez. 6-1, n. 03923/2018, Sambito, Rv. 647052-01).

Per quanto riguarda le statuizioni economiche conseguenti alla separazione, Sez. 6-1, n. 00402/2018, Bisogni, Rv. 647294-01 ha ribadito che non sussiste il diritto all’assegno di mantenimento nel caso in cui non si sia realizzata, dopo il matrimonio, alcuna comunione materiale e spirituale tra i coniugi (nella fattispecie, il matrimonio era durato 28 giorni e i coniugi non avevano mai instaurato un regime di convivenza).

Sez. 6-1, n. 13954/2018, Mercolino, Rv. 648791-01, ha anche rilevato che la valutazione delle capacità economiche del coniuge obbligato, ai fini del riconoscimento e della determinazione dell’assegno di mantenimento in favore dell’altro coniuge, deve essere operata sul reddito netto e non già su quello lordo, poiché, in costanza di matrimonio, la famiglia fa affidamento sul reddito netto, e ad esso rapporta ogni possibilità di spesa (nel caso di specie, la S.C. ha cassato la sentenza della corte d’appello, la quale aveva ritenuto che il reddito di un agente di commercio potesse essere desunto dall’importo delle fatture emesse per il pagamento delle provvigioni, detratte le sole ritenute d’acconto, senza prendere in considerazione la dichiarazione dei redditi dell’onerato, e le spese sostenute per l’esercizio dell’attività professionale),

Inoltre, Sez. 6-1, n. 05817/2018, Terrusi, Rv. 647896-01 ha chiarito che l’attitudine al lavoro proficuo dei medesimi, quale potenziale capacità di guadagno, costituisce elemento valutabile ai fini della determinazione della misura dell’assegno di mantenimento da parte del giudice, qualora venga riscontrata in termini di effettiva possibilità di svolgimento di un’attività lavorativa retribuita, in considerazione di ogni concreto fattore individuale e ambientale e con esclusione di mere valutazioni astratte e ipotetiche. (In applicazione di tale principio la S.C. ha rigettato il ricorso avverso la sentenza del giudice di merito, che aveva escluso il diritto al mantenimento del coniuge, in ragione della pacifica esistenza di proposte di lavoro immotivatamente non accettate).

Tenuto conto che durante il matrimonio ciascun coniuge è obbligato a contribuire alle esigenze della famiglia in misura proporzionale alle proprie sostanze, secondo quanto previsto dagli artt. 143 e 316-bis, comma 1, c.c., Sez. 6-1, n. 10927/2018, Lamorgese, Rv. 648282-01 ha precisato che, a seguito della separazione, non sussiste il diritto al rimborso di un coniuge nei confronti dell’altro, con riferimento alle spese sostenute in modo indifferenziato per i bisogni della famiglia durante il matrimonio (nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza del giudice di merito che aveva dichiarato la compensazione tra quanto versato dall’attore per la TARSU, relativa all’immobile assegnato alla moglie in sede di separazione, con il credito vantato da quest’ultima a titolo di rimborso delle spese per le utenze domestiche sostenute durante il matrimonio).

La Corte ha poi ritenuto che, una volta intervenuta la separazione personale dei coniugi, la convivenza stabile e continuativa, intrapresa con altra persona, è suscettibile di comportare la cessazione o l’interruzione dell’obbligo di corresponsione dell’assegno di mantenimento gravante sull’altro, dovendosi presumere che le disponibilità economiche di ciascuno dei conviventi more uxorio siano messe in comune nell’interesse del nuovo nucleo familiare, restando comunque salva la facoltà del coniuge che richiede l’assegno di provare che la convivenza di fatto non influisce in melius sulle sue condizioni economiche e che i suoi redditi rimangono inadeguati (Sez. 1, n. 16982/2018, Lamorgese, Rv. 649674-01).

Sulla stessa questione, Sez. 1, n. 32871/2018, Genovese, Rv. 651937-01, ha invece affermato che la formazione di un nuovo aggregato familiare di fatto ad opera del coniuge beneficiario dell’assegno di mantenimento, operando una rottura tra il preesistente tenore e modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale ed il nuovo assetto fattuale, fa venire definitivamente meno il diritto alla contribuzione periodica.

Con riferimento alla cessazione degli effetti della separazione, Sez. 2, n. 01630/2018, Scarpa, Rv. 647784-01 ha poi precisato che, in forza dell’art. 157 c.c., ove manchi una dichiarazione espressa di riconciliazione, gli effetti della separazione personale cessano soltanto col fatto della coabitazione, la quale non può ritenersi ripristinata per la sola sussistenza di ripetute occasioni di incontri e di frequentazioni tra i coniugi, ove le stesse non depongano per una reale e concreta ripresa delle relazioni materiali e spirituali costituenti manifestazione ed effetto della rinnovata società coniugale. Da ciò la S.C. ha fatto conseguire che, in caso di morte di uno dei coniugi dopo il passaggio in giudicato della sentenza di separazione personale con addebito reciproco, il coniuge superstite, al fine di far valere diritti successori, è tenuto ad allegare specificamente l’avvenuta cessazione degli effetti della separazione, con la correlata caducazione della sentenza, a far data dal ripristino della convivenza spirituale e materiale.

3.2. Profili processuali.

Per quanto riguarda il giudizio di separazione personale dei coniugi, la S.C. ha ancora una volta affermato che i provvedimenti di modifica o di revoca delle ordinanze presidenziali, adottati dal giudice istruttore ai sensi dell’art. 709, comma 4, c.p.c., non sono reclamabili, essendo garantita l’effettività della tutela delle posizioni soggettive mediante la modificabilità e la revisione, a richiesta di parte, dell’assetto delle condizioni separative e divorzili, anche all’esito di una decisione definitiva, piuttosto che dalla moltiplicazione di momenti di riesame e controllo da parte di altro organo giurisdizionale nello svolgimento del giudizio a cognizione piena (Sez. 6-1, n. 11279/2018, Acierno, Rv. 648581-01).

La stessa Corte ha anche chiarito che, nel giudizio di separazione personale dei coniugi, la memoria integrativa art. 709 c.p.c., depositata dal ricorrente nel termine assegnato nell’ordinanza presidenziale, ove contenga domande nuove, deve, a pena di inammissibilità della domanda, essere notificata al convenuto che non sia costituito in giudizio al momento del deposito della memoria, in applicazione del principio generale, stabilito dall’art. 292 c.p.c., secondo cui è necessaria la notificazione delle domande nuove alla parte non costituita (Sez. 1, n. 16858/2018, Lamorgese, Rv. 649784-01).

La medesima Corte ha inoltre evidenziato che, ove nel corso del giudizio di separazione si assumano provvedimenti in ordine alla convivenza dei figli con uno dei genitori, l’audizione del minore infradodicenne, capace di discernimento, costituisce adempimento previsto a pena di nullità, in relazione al quale incombe sul giudice un obbligo di specifica e circostanziata motivazione – tanto più necessaria quanto più l’età del minore si approssima a quella dei dodici anni, oltre la quale subentra l’obbligo legale dell’ascolto – non solo se ritenga il minore infradodicenne incapace di discernimento, ovvero l’esame manifestamente superfluo o in contrasto con l’interesse del minore, ma anche qualora il giudice opti, in luogo dell’ascolto diretto, per un ascolto effettuato nel corso di indagini peritali o demandato ad un esperto al di fuori di detto incarico, atteso che l’ascolto diretto del giudice dà spazio alla partecipazione attiva del minore al procedimento che lo riguarda, mentre la consulenza è indagine che prende in considerazione una serie di fattori quali, in primo luogo, la personalità, la capacità di accudimento e di educazione dei genitori, la relazione in essere con il figlio (Sez. 1, n. 12957/2018, Bisogni, Rv. 649153-01).

Infine, con riferimento alle ipotesi di cassazione con rinvio per vizi di motivazione di sentenze pronunciate nei giudizi di separazione, la S.C. ha precisato che il giudice di merito conserva tutti i poteri di indagine e di valutazione della prova, potendo compiere anche ulteriori accertamenti giustificati dalla sentenza di annullamento e dall’esigenza di colmare le carenze da questa riscontrate, tranne che in ordine ai fatti che la sentenza medesima ha considerato definitivamente accertati, per non essere investiti dall’impugnazione, né in via principale né in via incidentale, e sui quali la pronuncia di annullamento è stata fondata. In applicazione del principio enunciato, la Corte ha cassato con rinvio la sentenza della corte di appello che, in tema di addebito della separazione, una volta accertati definitivamente i maltrattamenti e le condotte violente del marito, aveva omesso di valutarne l’efficacia causale sulla crisi coniugale, ritenendo non imputabile allo stesso l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza, dopo aver comparato quei comportamenti con quelli della moglie, rispetto alla quale non era stata formulata domanda di addebito della separazione (Sez. 1, n. 31901/2018, Caiazzo, Rv. 651897-01).

4. Il divorzio.

Sono numerose, e di rilievo, anche in ambito processuale, le pronunce della S.C. nel 2018 adottate in tema di scioglimento del matrimonio o di cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario. Particolarmente significativa appare la pronunzia delle Sezioni Unite in materia di riconoscimento e quantificazione dell’assegno divorzile in favore dell’ex coniuge.

Sembra prima oppurtuno ripercorrere le decisioni che hanno trattato delle statuizioni economiche conseguenti alla pronuncia di divorzio (attribuzione dell’assegno divorzile o di una porzione della pensione di reversibilità ovvero di una quota dell’indennità di fine rapporto) e a seguire quelle che hanno interessato questioni di carattere processuale.

4.1. L’assegno divorzile, la porzione della pensione di reversibilità e la quota dell’indennià di fine rapporto.

Com’è noto, nell’anno 2017, la Corte di cassazione aveva affermato che il giudizio relativo alla spettanza di tale assegno dovesse svolgersi in due fasi nitidamente distinte, quella relativa all’an debeatur, da definire accertando se il coniuge richiedente dispone di mezzi adeguati – valutazione da effettuarsi non più in considerazione del tenore di vita della pregressa vita coniugale, bensì dell’autosufficienza economica dell’istante – ed una seconda fase, solo eventuale, dedicata alla definizione del quantum debeatur, servendosi dei parametri indicati all’art. 5, comma 6, della legge divorzile, n. 898 del 1970. Nella stessa decisione la medesima Corte aveva ritenuto che la funzione dell’assegno divorzile in favore dell’ex coniuge dovesse ritenersi esclusivamente assistenziale (Sez. 1, n. 11504/2017, Lamorgese, Rv. 644019-01).

Sez. 1, n. 04091/2018, Di Marzio P., Rv. 647148-02 ha poi precisato che, nel quantificare l’assegno di divorzio, il giudice non è tenuto a prendere in considerazione tutti, e contemporaneamente, i parametri di riferimento indicati dall’art. 5 della l. n. 898 del 1970, ma può anche prescindere da alcuni di essi, dando adeguata giustificazione delle sue valutazioni, con una scelta discrezionale non sindacabile in sede di legittimità (nella specie, la S.C. ha rigettato il motivo di ricorso per cassazione, fondato sulla dedotta mancata analitica valutazione, nella sentenza impugnata, di ciascuno dei parametri indicati dall’art. cit., evidenziando che il giudice dell’appello aveva valorizzato in misura preponderante, tra i vari criteri, la comparazione delle condizioni economiche delle parti, formulando un giudizio adeguatamente motivato in relazione alle allegazioni e deduzioni delle parti).

Successivamente è intervenuta una fondamentale pronuncia a Sezioni Unite, ove si è chiarito che la funzione dell’assegno non è solo assistenziale, ma anche perequativa e compensativa, e che i ricordati parametri, di cui all’art. 5, comma 6, della legge divorzile, devono essere utilizzati sia per stabilire se l’assegno è dovuto, sia per provvedere alla sua quantificazione.

Le Sezioni Unite hanno infatti affermato che il riconoscimento dell’assegno di divorzio richiede l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi dell’ex coniuge istante e dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, applicandosi i criteri equiordinati di cui alla prima parte della norma, i quali costituiscono il parametro, a cui occorre attenersi per decidere sia sulla attribuzione sia sulla quantificazione dell’assegno. Il giudizio dovrà essere espresso, in particolare, alla luce di una valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare ed alla formazione del patrimonio comune, nonché di quello personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio ed all’età dell’avente diritto (Sez. U, n. 18287/2018, Acierno, Rv. 650267-01).

Nella stessa decisione, le Sezioni Unite hanno pure specificato che all’assegno divorzile in favore dell’ex coniuge deve attribuirsi, oltre alla natura assistenziale, anche natura perequativo-compensativa, che discende direttamente dalla declinazione del principio costituzionale di solidarietà, e conduce al riconoscimento di un contributo volto a consentire al coniuge richiedente non il conseguimento dell’autosufficienza economica sulla base di un parametro astratto, bensì il raggiungimento in concreto di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle aspettative professionali sacrificate (Sez. U, n. 18287/2018, Acierno, Rv. 650267-02).

Ancora nella medesima decisione, le Sezioni Unite hanno chiarito che la funzione equilibratrice del reddito degli ex coniugi, anch’essa assegnata dal legislatore all’assegno divorzile, non è finalizzata alla ricostituzione del tenore di vita endoconiugale, ma al riconoscimento del ruolo e del contributo fornito dall’ex coniuge economicamente più debole alla formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale degli ex coniugi (Sez. U, n. 18287/2018, Acierno, Rv. 650267-03).

Per quanto riguarda il diritto dell’ex coniuge all’attribuzione di una porzione della pensione di reversibilità dell’altro, la Corte di cassazione ha evidenziato che tale diritto presuppone il riconoscimento, con decorrenza anteriore alla morte dell’altro coniuge, della spettanza dell’assegno divorzile, anche in conseguenza di pronuncia non ancora passata in giudicato, Sez. 1, n. 04107/2018, Di Marzio P., Rv. 647625-01.

Come ritenuto dalla stessa Corte di legittimità, la titolarità dell’assegno di cui all’art. 5 della l. n. 898 del 1970, deve intendersi come titolarità attuale e concretamente fruibile dell’assegno periodico divorzile al momento della morte dell’ex coniuge e non già come titolarità astratta del diritto all’assegno divorzile già definitivamente soddisfatto con la corresponsione in unica soluzione. In quest’ultimo caso, infatti, difetta il requisito funzionale del trattamento di reversibilità, che è dato dal medesimo presupposto solidaristico dell’assegno periodico di divorzio, finalizzato alla continuazione del sostegno economico in favore dell’ex coniuge, mentre nel caso in cui sia stato corrisposto l’assegno una tantum non esiste una situazione di contribuzione economica che viene a mancare (Sez. U, n. 22434/2018, Bisogni, Rv. 650460-01).

In ordine alla quota dell’indennità di fine rapporto, spettante al coniuge titolare dell’assegno divorzile, il giudice di legittimità ha precisato che il disposto dell’art. 12-bis della l. n. 898 del 1970, nella parte in cu prevede tale quota è dovuta anche anche se l’indennità viene a maturare dopo la sentenza, deve essere interpretato nel senso che diritto può sorgere anche prima della sentenza di divorzio, ma dopo la proposizione della relativa domanda, coerentemente con la natura costitutiva della sentenza sullo status e con la possibilità, ai sensi dell’art. 4 della l. n. 898 del 1970, di stabilire la retroattività degli effetti patrimoniali della sentenza a partire dalla data della domanda (Sez. 6-1, n. 07239/2018, Valitutti, Rv. 647900-01).

4.2. Profili processuali.

Il giudice di legittimità ha deciso che il rito camerale, previsto per l’appello avverso le sentenze di divorzio e di separazione personale, da un lato, non preclude la proponibilità dell’appello incidentale (tardiva) indipendentemente dalla scadenza del termine per l’esperimento del gravame in via principale e dall’altro, risultando caratterizzato dalla sommarietà della cognizione e dalla semplicità delle forme, esclude la piena applicazione delle norme che regolano il processo ordinario e, in particolare, del termine perentorio fissato, per la relativa proposizione, dall’art. 343, comma 1, c.p.c., con la conseguenza che il principio del contraddittorio deve ritenersi rispettato per il solo fatto che il gravame incidentale sia portato a conoscenza della parte avversa entro limiti di tempo tali da assicurare a quest’ultima la possibilità di far valere le proprie ragioni mediante l’organizzazione di una tempestiva difesa tecnica. Da ciò consegue che la tardiva proposizione dell’appello incidentale non comporta l’inammissibilità del gravame, consentendo semmai all’appellante principale di ottenere, ove lo richieda, il differimento dell’udienza, per meglio articolare le proprie difese (Sez. 1, n. 04091/2018, Di Marzio P., Rv. 647148-01).

In tema di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, ha specificato la Corte di cassazione, la morte del coniuge, anche nel corso del giudizio di legittimità, fa cessare la materia del contendere sia nel giudizio sullo status che in quello relativo alle domande accessorie, compreso il giudizio sulla richiesta di assegno divorzile, non assumendo alcun rilievo, in senso contrario, l’intervenuto passaggio in giudicato della sentenza non definitiva di divorzio, posto che l’obbligo di corresponsione di tale assegno è personalissimo e non trasmissibile agli eredi, trattandosi di posizione debitoria inscindibilmente legata a uno status personale, che può essere accertata solo in relazione alla persona cui detto status si riferisce (Sez. 1, n. 04092/2018, Bisogni, Rv. 647149-01).

La S.C. ha statuito che deve pronunciarsi la cessazione della materia del contendere, nella procedura di cui all’art. 709-ter c.p.c., introdotta per contestare le modalità di affidamento dei figli minori a seguito della separazione personale dei coniugi, qualora sopravvenga la sentenza di divorzio, anche se non passata in giudicato, ed essa disponga sulla stessa materia, conseguendone il venir meno dell’interesse delle parti alla pronuncia, in quanto ogni contestazione relativa all’affidamento dei figli potrà essere proposta soltanto avverso le determinazioni adottate in merito dalla sentenza di divorzio (Sez. 1, n. 04516/2018, Di Marzio P., Rv. 648249-01).

Nel giudizio di scioglimento e cessazione degli effetti civili del matrimonio, ha sancito la Corte di legittimità, l’ordinanza della corte di appello, pronunciata su reclamo avverso il provvedimento di diniego di misure provvisorie ed urgenti emesso dal presidente del tribunale, non è ricorribile per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost., difettando il requisito della definitività in senso sostanziale e dell’idoneità al giudicato, dal momento che tale ordinanza, pur incidendo su posizioni di diritto soggettivo, non è idonea a statuire su di esse in modo definitivo, ma assume la stessa natura di provvedimento interinale, provvisorio e strumentale al giudizio di merito, che caratterizza l’ordinanza presidenziale, sempre revocabile e modificabile dal giudice istruttore, ai sensi dell’art. 4, comma 8, della l. n. 898 del 1970 (Sez. 6-1, n. 11788/2018, Mercolino, Rv. 649064-01).

La stessa Corte ha spiegato che, nel processo di divorzio, non trovano applicazione gli artt. 183 e 190 c.p.c., venendo in rilievo la disciplina speciale di cui all’art. 4 della legge n. 898 del 1970 (come modificato dall’art. 8 della legge n. 74 del 1987) volta ad accelerare la procedura di accertamento dei presupposti dello scioglimento o della cessazione degli effetti civili del matrimonio, al fine di impedire condotte defatigatorie ed ostative del convenuto, ed in virtù della quale è riservata al giudice istruttore la possibilità di rimettere la causa al collegio per l’emissione della sentenza non definitiva relativa allo status quando la causa debba proseguire per la determinazione dell’assegno (Sez. 6-1, n. 15570/2018, Nazzicone, in corso di rimassimazione per problemi tecnici sul sito).

Qualora sia stata proposta istanza congiunta di divorzio, ha statuito la Corte di cassazione, la revoca del consenso da parte di uno dei coniugi non comporta l’improcedibilità della domanda, dovendo il tribunale provvedere ugualmente all’accertamento dei presupposti per la pronuncia richiesta, per poi procedere, in caso di esito positivo della verifica, all’esame delle condizioni concordate dai coniugi, valutandone la conformità a norme inderogabili ed agli interessi dei figli minori. Infatti, a differenza di quanto avviene nel procedimento di separazione consensuale, la domanda congiunta di divorzio dà luogo ad un procedimento che si conclude con una sentenza costitutiva, nell’ambito del quale l’accordo sotteso alla relativa domanda riveste natura meramente ricognitiva, con riferimento alla sussistenza dei presupposti necessari per lo scioglimento del vincolo coniugale ex art. 3 della l. n. 898 del 1970, mentre ha valore negoziale per quanto concerne la prole ed i rapporti economici, consentendo al tribunale di intervenire su tali accordi nel caso in cui essi risultino contrari a norme inderogabili, con l’adozione di provvedimenti temporanei ed urgenti e la prosecuzione del giudizio nelle forme contenziose, Sez. 6-1, n. 19540/2018, Mercolino, Rv. 650192-01.

Pronunciando in materia di riconoscimento dell’efficacia di sentenza straniera di divorzio, Sez. 1, n. 12473/2018, Tricomi L., Rv. 649031-01 ha deciso che, in tema di procedimento sommario di cognizione ex art. 702-bis c.p.c., richiamato dall’art. 30 del d.lgs. n. 150 del 2011, che disciplina il giudizio di riconoscimento di efficacia delle sentenze straniere, è legittimo, e non costituisce una rimessione in termini, benché sollecitato dal ricorrente, il provvedimento con cui il giudice, accortosi di aver fissato un termine eccessivamente breve per la notificazione alla controparte del ricorso e del decreto, differisce la data della prima udienza, così di fatto prorogando sia il termine ordinatorio originariamente concesso per la notifica del ricorso e del decreto, sia quello per la costituzione del convenuto (nella fattispecie, la S.C. ha escluso la ricorrenza di una illegittima rimessione in termini del ricorrente, in conseguenza del provvedimento con cui il presidente della corte di appello, accortosi, su sollecitazione di parte, che il termine concesso per la notifica del ricorso e del decreto coincideva con il giorno in cui il provvedimento di fissazione dell’udienza era stato comunicato telematicamente al ricorrente, aveva differito l’udienza per riconoscere a quest’ultimo un tempo ragionevole entro cui notificare alla controparte il ricorso con il decreto).

Nella medesima decisione, il giudice di legittimità ha pure chiarito che la regola del diritto straniero secondo cui il divorzio può essere pronunciato senza la previa separazione personale dei coniugi, ed il decorso di un periodo di tempo adeguato a consentire loro di ritornare sulla decisione assunta, non costituisce ostacolo al riconoscimento in Italia della sentenza straniera per quanto concerne il rispetto dell’ordine pubblico, richiesto dall’art. 64, comma 1, lett. g), della l. n. 218 del 1995, essendo a tal fine necessario, ma anche sufficiente, che il divorzio segua all’accertamento dell’irreparabile venir meno della comunione di vita tra i coniugi (Sez. 1, n. 12473/2018, Tricomi L., Rv. 649031-02).

5. Il regime patrimoniale della famiglia.

L’analisi delle decisioni della S.C., nell’anno 2018, in materia di regime patrimoniale della famiglia, inteso in senso lato, mostra come la materia si riveli interdisciplinare, non solo per la presenza di decisioni in materia sostanziale così come processuale, ma anche per la ricorrente interferenza con materie proprie di rami diversi del diritto civile rispetto al diritto della famiglia, specifica attribuzione della prima sezione della S.C. In conseguenza, riscontrata la loro indubbia rilevanza, si è ritenuto opportuno riportare anche decisioni di tutte le altre sezioni della Corte di cassazione.

5.1. Comunione legale dei beni, fondo patrimoniale, donazioni tra coniugi e impresa familiare.

Si deve senza dubbio richiamare Sez. 1, n. 01429/2018, Di Marzio P., Rv. 646853-01, ove la Corte di legittimità ha statuito che, qualora viga il regime di comunione legale tra coniugi, in virtù dell’art. 177, comma 1, lett. b) c.c., deve escludersi che rientrino nella comunione de residuo i frutti dei beni personali di uno dei coniugi in corso di maturazione, ma non ancora percepiti, al tempo dello scioglimento della comunione legale (nella specie la S.C. ha escluso dalla comunione de residuo gli interessi su buoni postali di proprietà esclusiva di uno dei coniugi, in corso di maturazione al tempo della separazione personale).

La cessione di un immobile di proprietà di coniugi in regime di comunione legale dei beni, e utilizzato per l’esercizio dell’impresa individuale di uno di essi, è soggetta ad IVA, ha deciso la Cassazione. Tale soggezione è assorbente rispetto a quella ad imposta di registro, in quanto, dal punto di vista tributario, la cessione non è un atto plurimo avente ad oggetto singole quote di comune proprietà valutabili separatamente in dipendenza della natura dei soggetti proprietari, ma un atto unitario, rilevante oggettivamente come atto d’impresa, Sez. 5, n. 03557/2018, Stalla, Rv. 647208-01.

Il giudice di legittimità ha poi sancito che la realizzazione da parte di uno dei coniugi, senza il consenso dell’altro e su un fondo in comunione legale, di uno o più edifici, costituisce atto eccedente l’ordinaria amministrazione di cui è possibile fare valere l’annullabilità in giudizio (Sez. 2, n. 04676/2018, Bellini, Rv. 647844-01).

In tema di IRPEF, la S.C. ha chiarito che la plusvalenza derivante dalla cessione di un’impresa familiare, ove il titolare si sia avvalso, nella propria dichiarazione dei redditi, dell’imposta sostitutiva di cui all’art. 1, del d.lgs. n. 358 del 1997, deve essere interamente imputata allo stesso e non anche ai singoli familiari partecipanti in proporzione della quota (Sez. 5, n. 05726/2018, Esposito, Rv. 647252-01).

In materia di rimborsi e restituzioni conseguenti allo scioglimento della comunione legale dei beni tra coniugi, ha sancito la Corte di cassazione, il riconoscimento del debito, operato durante il matrimonio da uno dei coniugi in favore della comunione, non importa una modifica delle convenzioni matrimoniali e non è pertanto richiesta l’adozione della forma dell’atto pubblico (Sez. 1, n. 07957/2018, Di Marzio P., Rv. 648882-01).

La Corte di legittimità ha quindi chiarito che, vigendo il regime patrimoniale di comunione legale dei coniugi, il disposto di cui all’art. 184 c.c. (secondo cui gli atti compiuti da un coniuge senza il necessario consenso dell’altro, e da questo non convalidati, sono annullabili se riguardano beni immobili o beni mobili elencati nell’art. 2683 c.c.) presuppone l’effettiva autonoma disposizione di un bene comune da parte di uno solo dei coniugi, pertanto non si applica nel caso in cui tutti i contraenti siano a conoscenza della comunione dei beni tra i coniugi e questi ultimi figurino entrambi nel contratto come venditori, atteso che, in tal caso, il mancato consenso di uno dei due impedisce il sorgere di una valida obbligazione a carico dell’altro (Sez. 2, n. 08525/2018, Bellini, Rv. 647997-01).

Il coniuge dell’acquirente di un immobile, che sia rimasto estraneo alla stipulazione dell’atto di compravendita, ha statuito il giudice di legittimità, non è litisconsorte necessario nel giudizio promosso dal venditore per l’accertamento della simulazione del contratto, perché l’inclusione del bene nella comunione legale ai sensi del’art. 177 c.c. costituisce un effetto ope legis dell’efficacia e validità del titolo di acquisto. Nel’affermare il principio enunciato, la S.C. ha confermato che, nel caso di azione di simulazione di contratto di compravendita immobiliare, non sussiste litisconsorzio necessario tra l’acquirente e il coniuge in regime di comunione legale (Sez. 6-3, n. 11033/2018, Rubino, Rv. 648914-01).

In tema di assegnazione di alloggi di cooperative edilizie a contributo statale, il momento determinativo dell’acquisto della titolarità dell’immobile da parte del singolo socio, onde stabilire se il bene ricada, o meno, nella comunione legale tra coniugi, ha chiarito la S.C., è quello della stipula del contratto di trasferimento del diritto dominicale (contestuale alla convenzione di mutuo individuale), poiché solo con la conclusione di tale negozio il socio acquista, irrevocabilmente, la proprietà dell’alloggio (assumendo, nel contempo, la veste di mutuatario dell’ente erogatore), mentre la semplice qualità di socio, e la correlata “prenotazione”, in tale veste, dell’alloggio, si pongono come vicende riconducibili soltanto a diritti di credito nei confronti della cooperativa, inidonei, come tali, a formare oggetto della communio incidens familiare (Sez. 2, n. 13570/2018, Grasso G., Rv. 648770-01).

In tema di imposta di registro, ai fini del godimento delle agevolazioni cd. “prima casa” da parte di un soggetto coniugato in regime di comunione legale dei beni, la Corte di cassazione ha chiarito che la dichiarazione di cui all’art. 1, nota II-bis, lett. b) e c), della Tariffa allegata al d.P.R. n. 131 del 1986, deve essere resa da entrambi i coniugi, anche quello non intervenuto nell’atto (Sez. 6-5, n. 14326/2018, Luciotti, Rv. 648871-01).

Qualora una quota di eredità sia stata alienata a persona non facente parte della comunione, che sia però sposata in regime di comunione legale con uno dei coeredi, il giudice di legittimità ha deciso che l’acquirente non può essere considerato soggetto estraneo ai fini dell’esercizio del diritto di prelazione previsto dall’art. 732 c.c., poiché tale quota rientra automaticamente ex art. 177 c.c. nella suddetta comunione legale e, pertanto, il regime proprietario conseguente alla cessione è identico a quello che sarebbe derivato se il cessionario fosse stato il coniuge coerede (Sez. 6-2, n. 15271/2018, Criscuolo, Rv. 649214-01).

In tema di fondo patrimoniale, il criterio identificativo dei crediti il cui soddisfacimento può essere realizzato in via esecutiva sui beni conferiti nel fondo va ricercato nella relazione esistente tra gli scopi per cui i debiti sono stati contratti ed i bisogni della famiglia, ha sancito la Corte di legittimità, con la conseguenza che l’esecuzione sui beni del fondo o sui frutti di esso può avere luogo qualora la fonte e la ragione del rapporto obbligatorio abbiano inerenza diretta ed immediata con i predetti bisogni (Sez. 6-3, n. 16176/2018, Scoditti, Rv. 649433-01).

In tema di imposta di registro e dei relativi benefici per l’acquisto della prima casa, ai fini della fruizione degli stessi, ai sensi dell’art. 2 della l. n. 118 del 1985, il requisito della residenza nel Comune in cui è ubicato l’immobile va riferito alla famiglia, ha chiarito la S.C., con la conseguenza che, in caso di comunione legale tra coniugi, quel che rileva è che il cespite acquistato sia destinato a residenza familiare, mentre non assume rilievo in senso contrario la circostanza che uno dei coniugi non abbia la residenza anagrafica in tale Comune, e ciò in ogni ipotesi in cui il bene sia divenuto oggetto della comunione ai sensi dell’art. 177 c.c., quindi sia in caso di acquisto separato che congiunto dello stesso (Sez. 6-5, n. 16604/2018, Luciotti, Rv. 649211-01).

La Corte di cassazione ha quindi statuito che la comunione legale dei coniugi, in assenza della dichiarazione di dissenso di cui all’art. 228, comma 1, della l. n. 151 del 1975, decorre dal 16 gennaio 1978 e interessa i beni acquistati separatamente nel primo biennio di applicazione della legge stessa – e, dunque, in pendenza del regime transitorio – solo se ancora esistenti, alla scadenza del biennio, nel patrimonio del coniuge che li ha acquistati (Sez. 2, n. 20969/2018, Tedesco, Rv. 650026-01).

Il giudice di legittimità ha chiarito che, in tema di riscossione coattiva, l’iscrizione ipotecaria di cui all’art. 77 del d.P.R. n. 602 del 1973, è ammissibile anche sui beni facenti parte di un fondo patrimoniale alle condizioni indicate dall’art. 170 c.c., sicché è legittima solo se l’obbligazione tributaria (nella specie, per sanzioni amministrative per violazione del codice della strada e per omesso pagamento di tributi) sia strumentale ai bisogni della famiglia o se il titolare del credito non ne conosceva l’estraneità a tali bisogni, gravando in capo al debitore opponente l’onere della prova non solo della regolare costituzione del fondo patrimoniale, e della sua opponibilità al creditore procedente, ma anche della circostanza che il debito sia stato contratto per scopi estranei alle necessità familiari, avuto riguardo al fatto generatore dell’obbligazione ed a prescindere dalla natura della stessa (Sez. 3, n. 20998/2018, Di Florio, Rv. 650445-01).

La donazione del bene, effettuata da parte di uno solo dei coniugi in regime di comunione legale, è invalida, ha statuito la Corte di legittimità, ai sensi dell’art. 184 c.c., previsione specifica e tendenzialmente onnicomprensiva che commina la sanzione dell’annullabilità a tutti gli atti dispositivi compiuti senza il consenso o in assenza di convalida, atti nel cui novero rientra anche la donazione avente ad oggetto beni immobili o mobili registrati (Sez. 2, n. 21503/2018, Criscuolo, Rv. 650316-01).

L’attività con la quale il marito fornisce il denaro affinché la moglie divenga con lui comproprietaria di un immobile, ha deciso la S.C., è riconducibile nell’ambito della donazione indiretta, così come sono ad essa riconducibili, finché dura il matrimonio, i conferimenti patrimoniali eseguiti spontaneamente dal donante, volti a finanziare lavori nell’immobile, giacché tali conferimenti hanno la stessa causa della donazione indiretta. Tuttavia, dopo la separazione personale dei coniugi, analoga finalità non può automaticamente attribuirsi ai pagamenti fatti dal marito o alle spese sostenute per l’immobile in comproprietà, poiché in tale ultimo caso non può ritenersi più sussistente la finalità di liberalità e tali spese dovranno considerarsi sostenute da uno dei comproprietari in regime di comunione, con l’applicazione delle regole ordinarie ad essa relative. Conseguentemente, il coniuge comproprietario potrà ripetere il 50% delle spese che ha sostenuto per la conservazione ed il miglioramento della cosa comune, purché abbia avvisato preliminarmente l’altro comproprietario e purché questi, a fronte di un intervento necessario, sia rimasto inerte (Sez. 3, n. 24160/2018, Rubino, Rv. 651128-01).

Nella stessa decisione la Corte di cassazione ha chiarito che al credito vantato da un coniuge separato nei confronti dell’altro per la restituzione di somme pagate per spese relative ad un immobile in comproprietà con l’altro coniuge, non si applica la sospensione della prescrizione ex art. 2941, n. 1, c.c., dovendo prevalere sul criterio ermeneutico letterale un’interpretazione conforme alla ratio legis, da individuarsi, tenuto conto dell’evoluzione della normativa e della coscienza sociale e, quindi, della valorizzazione delle posizioni individuali dei membri della famiglia rispetto alla conservazione dell’unità familiare e della tendenziale equiparazione del regime di prescrizione dei diritti post-matrimoniali e delle azioni esercitate tra coniugi separati. Nel regime di separazione, infatti, non può ritenersi sussistente la riluttanza a convenire in giudizio il coniuge, collegata al timore di turbare l’armonia familiare, poiché è già subentrata una crisi conclamata e sono già state esperite le relative azioni giudiziarie, con la conseguente cessazione della convivenza (Sez. 3, n. 24160/2018, Rubino, Rv. 651128-02).

Secondo Sez. 2, n. 25754/2018, Abete, Rv. 650834-01, vigendo il regime patrimoniale della comunione legale tra i coniugi, l’atto di straordinaria amministrazione costituito dal conferimento ex art. 2253 c.c. di un bene immobile in società personale, posto in essere da un coniuge senza la partecipazione o il consenso dell’altro, è soggetto alla disciplina dell’art. 184, comma 1, c.c., e non è pertanto inefficace nei confronti della comunione, ma solamente esposto all’azione di annullamento da parte del coniuge non consenziente nel breve termine prescrizionale entro cui è ristretto l’esercizio di tale azione, decorrente dalla conoscenza effettiva dell’atto ovvero, in via sussidiaria, dalla trascrizione o dallo scioglimento della comunione; ne consegue che, finché l’azione di annullamento non venga proposta, l’atto è produttivo di effetti nei confronti dei terzi (nella specie, la S.C. ha riconosciuto la persistente efficacia dell’atto di conferimento del locale commerciale conteso, compiuto dal coniuge in favore di una società in nome collettivo, all’atto della sua regolarizzazione, senza la partecipazione della moglie, poiché quest’ultima non aveva esercitato l’azione di annullamento nel termine quinquennale di prescrizione di cui all’art. 184 c.c., decorrente dal decesso del coniuge e dal conseguente scioglimento della comunione legale).

Sez. 2, n. 27412/2018, Carrato, Rv. 651027-01, ha inoltre statuito che il principio generale dell’accessione, posto dall’art. 934 c.c., in base al quale il proprietario del suolo acquista ipso iure, al momento dell’incorporazione, la proprietà della costruzione su di esso edificata, e la cui operatività può essere esclusa soltanto da una specifica pattuizione tra le parti o da una altrettanto specifica disposizione di legge, non trova deroga nella disciplina della comunione legale tra coniugi, poiché l’acquisto della proprietà per accessione avviene a titolo originario, senza la necessità di un’apposita manifestazione di volontà, mentre gli acquisti ai quali è applicabile l’art. 177, comma 1, c.c. hanno carattere derivativo, essendone espressamente prevista una genesi di natura negoziale. Ne consegue che la costruzione realizzata in costanza di matrimonio ed in regime di comunione legale da entrambi i coniugi sul terreno di proprietà personale esclusiva di uno di essi è a sua volta proprietà personale ed esclusiva di quest’ultimo in virtù dei principi generali in materia di accessione, spettando al coniuge non proprietario che abbia contribuito all’onere della costruzione il diritto di ripetere nei confronti dell’altro le somme spese, ai sensi dell’art. 2033 c.c.

In tema di impresa familiare, Sez. L, n. 27966/2018, Arienzo, Rv. 651053-01, ha deciso che il partecipante che agisce per ottenere la propria quota di utili ha l’onere di provare la consistenza del patrimonio aziendale e la quota astratta della propria partecipazione, potendo a tal fine ricorrere anche a presunzioni semplici, tra cui la predeterminazione delle quote operata a fini fiscali, mentre sul familiare esercente l’impresa grava l’onere di fornire la prova contraria rispetto alle eventuali presunzioni semplici, nonché dimostrare il pagamento degli utili spettanti pro quota a ciascun partecipante.

Infine, Sez. 2, n. 33546/2018, Dongiacomo, Rv. 651983-01, ha affermato che l’usufrutto acquistato da entrambi i coniugi permane, nella sua interezza e senza quota, nella comunione legale fra loro esistente fino allo scioglimento della stessa, allorquando cade in comunione ordinaria fra i medesimi coniugi, che divengono contitolari di tale diritto, ciascuno per la propria quota, fino alla sua naturale estinzione. Tuttavia, ove la cessazione della comunione legale avvenga per effetto del decesso di uno dei coniugi, la quota di usufrutto spettante a quest’ultimo si estingue, non potendo avere durata superiore alla vita del suo titolare, salvo che il titolo non abbia previsto il suo accrescimento in favore del coniuge più longevo.

5.2. Comunione legale dei beni e processo.

In materia processuale, e con riferimento al giudizio coinvolgente coniugi in comunione legale dei beni, Sez. 2, n. 26631/2018, Criscuolo, Rv. 650787-01 ha sancito che nell’ipotesi in cui il coniuge, litisconsorte necessario pretermesso, intervenga volontariamente in appello, accettando la causa nello stato in cui si trova, e nessuna delle altre parti resti privata di facoltà processuali non già altrimenti pregiudicate, il giudice di appello non può rilevare d’ufficio il difetto di contraddittorio, né è tenuto a rimettere la causa al giudice di primo grado, ai sensi dell’art. 354 c.p.c., ma deve trattenerla e decidere sul gravame, risultando altrimenti violato il principio fondamentale della ragionevole durata del processo, il quale impone al giudice di impedire comportamenti che siano di ostacolo ad una sollecita definizione della controversia (nella specie, in un caso in cui al processo di primo grado, intentato dal promissario acquirente di un immobile ex art. 2932 c.c., non aveva partecipato il coniuge in regime di comunione legale, che era poi intervenuto volontariamente in appello senza eccepire alcunché, la S.C. ha cassato la sentenza con la quale il giudice di secondo grado aveva dichiarato nullo il giudizio di primo grado e rimesso la causa al primo giudice ai sensi dell’art. 354 c.p.c.).

6. Il mantenimento dei figli.

Di sicura rilevanza sono risultate le pronunce della Corte di cassazione in materia di mantenimento dei figli nell’anno 2018. La S.C. ha avuto modo di confermare, ad esempio, la propria giurisprudenza secondo cui non è necessario il previo concerto dei genitori separati in materia di spese straordinarie per il figlio, quando non si tratti di esborsi che si collegano alle decisioni di “maggior interesse” per il figlio stesso, perché solo in questo caso la legge prevede possa chiedersi al giudice di valutare la vicenda. La Corte di legittimità ha poi chiarito che le somme corrisposte a titolo di assegno di mantenimento per la prole non sono suscettibili di compensazione o ripetizione, perché hanno natura “sostanzialmente alimentare”. La delicatezza dell’istituto del mantenimento del minore induce ad auspicare che il giudice di legittimità abbia presto occasione di meglio definire il concetto espresso, chiarendo anche se la funzione dell’assegno di mantenimento in favore dei figli sia soltanto (e non “sostanzialmente”) assistenziale, oppure se al contributo economico possa riconoscersi una pluralità di funzioni, sulla falsariga di quanto deciso dalle Sezioni Unite in materia di assegno per il mantenimento dell’ex coniuge, approfondendo anche le conseguenze dell’opzione prescelta.

Un particolare rilievo agli obblighi di mentenimento dei genitori nei confronti dei figli è dato da Sez. 3, n. 02675/2018, Di Florio, Rv. 647937-01, ove la S.C. ha spiegato, in tema di responsabilità del medico per erronea diagnosi concernente il feto e conseguente nascita indesiderata, che il risarcimento dei danni, i quali costituiscono conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento della struttura sanitaria all’obbligazione di natura contrattuale gravante sulla stessa, spetta non solo alla madre, ma anche al padre, atteso il complesso di diritti e doveri che, secondo l’ordinamento, si incentrano sulla procreazione cosciente e responsabile, considerando che, agli effetti negativi della condotta del medico ed alla responsabilità della struttura ove egli opera non può ritenersi estraneo il padre che deve, perciò, considerarsi tra i soggetti “protetti” e, quindi, tra coloro rispetto ai quali la prestazione mancata o inesatta è qualificabile come inadempimento, con il correlato diritto al risarcimento dei conseguenti danni, immediati e diretti, fra cui deve ricomprendersi il pregiudizio patrimoniale derivante dai doveri di mantenimento dei genitori nei confronti dei figli (nella specie, era stato eseguito in maniera erronea un intervento di raschiamento uterino in seguito ad una non corretta diagnosi di aborto interno, accertata dopo la ventunesima settimana e, quindi, oltre il termine previsto dalla l. n. 194 del 22 maggio 1978, con la conseguenza che la gravidanza era proseguita e si era conclusa con la nascita indesiderata di una bambina).

Sez. 6-1, n. 04811/2018, Nazzicone, Rv. 647894-01, ha poi chiarito che, a seguito della separazione personale dei coniugi, nel quantificare l’ammontare del contributo dovuto dal genitore non collocatario per il mantenimento del figlio minore, deve osservarsi il principio di proporzionalità, che richiede una valutazione comparata dei redditi di entrambi i genitori, oltre alla considerazione delle esigenze attuali del figlio e del tenore di vita da lui goduto (nella specie, la S.C. ha cassato la decisione della corte d’appello per non aver effettuato un’adeguata indagine circa le risorse patrimoniali e reddituali di ciascuno dei genitori, ed avere pure espressamente trascurato la maggiore capacità patrimoniale del padre, comunque accertata nel caso concreto).

La dichiarazione di cessazione dell’obbligo di mantenimento dei figli maggiorenni non autosufficienti, ha confermato il giudice di legittimità, deve trovare fondamento in un accertamento di fatto che abbia riguardo all’età, all’effettivo conseguimento di un livello di competenza professionale e tecnica, all’impegno rivolto verso la ricerca di un’occupazione lavorativa nonché, in particolare, alla complessiva condotta personale tenuta, dal raggiungimento della maggiore età, da parte dell’avente diritto (Sez. 6-1, n. 05088/2018, Acierno, Rv. 648569-01).

Sez. L, n. 09237/2018, Mancino, Rv. 648627-01, ha poi spiegato che, in caso di morte del pensionato, il figlio superstite ha diritto alla pensione di reversibilità, ove maggiorenne, se riconosciuto inabile al lavoro e a carico del genitore al momento del decesso di questi, laddove il requisito della “vivenza a carico”, se non si identifica indissolubilmente con lo stato di convivenza né con una situazione di totale soggezione finanziaria del soggetto inabile, va considerato con particolare rigore, essendo necessario dimostrare che il genitore provvedeva, in via continuativa e in misura quanto meno prevalente, al mantenimento del figlio inabile; tale accertamento di fatto è rimesso al giudice di merito e, pertanto, incensurabile in sede di legittimità se adeguatamente motivato (nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto non provato il requisito della vivenza a carico del defunto padre di una figlia, e riconosciuto la pensione di reversibilità solo alla vedova).

Sez. 6-3, n. 11689/2018, Rubino, Rv. 648702-01 ha inoltre statuito che il carattere sostanzialmente alimentare dell’assegno di mantenimento a beneficio dei figli, in regime di separazione, comporta la non operatività della compensazione del suo importo con altri crediti (nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che aveva escluso la compensazione tra credito per spese di lite e credito derivante dal mancato pagamento di ratei dell’assegno di mantenimento cumulativamente dovuto per l’ex moglie e le figlie).

L’obbligo di mantenimento dei figli minori ex art. 148 c.c. spetta primariamente e integralmente ai loro genitori, ha confermato la Corte di legittimità sicché, se uno dei due non possa o non voglia adempiere al proprio dovere, l’altro, nel preminente interesse dei figli, deve far fronte per intero alle esigenze della prole con tutte le sue sostanze patrimoniali e sfruttando tutta la propria capacità di lavoro, salva la possibilità di convenire in giudizio l’inadempiente per ottenere un contributo proporzionale alle condizioni economiche globali di costui. Pertanto, l’obbligo degli ascendenti di fornire ai genitori i mezzi necessari affinché possano adempiere i loro doveri nei confronti dei figli – che investe contemporaneamente tutti gli ascendenti di pari grado di entrambi i genitori – va inteso non solo nel senso che l’obbligazione degli ascendenti è subordinata e, quindi, sussidiaria rispetto a quella, primaria, dei genitori, ma anche nel senso che agli ascendenti non ci si possa rivolgere per un aiuto economico per il solo fatto che uno dei due genitori non dia il proprio contributo al mantenimento dei figli, se l’altro genitore è in grado di mantenerli; così come il diritto agli alimenti ex art. 433 c.c., legato alla prova dello stato di bisogno e dell’impossibilità di reperire attività lavorativa, sorge solo qualora i genitori non siano in grado di adempiere al loro diretto e personale obbligo (Sez. 6-1, n. 10419/2018, De Chiara, Rv. 648281-01).

In tema di rimborso delle spese straordinarie sostenute nell’interesse dei figli minori, ha deciso la Cassazione, il genitore collocatario non è tenuto a concordare preventivamente e ad informare l’altro genitore di tutte le scelte dalle quali derivino tali spese, poiché l’art. 155, comma 3, c.c. (oggi art. 337-ter c.c.) consente a ciascuno dei coniugi di intervenire nelle determinazioni concernenti i figli soltanto in relazione “alle decisioni di maggiore interesse”, mentre, al di fuori di tali casi, il genitore non collocatario è tenuto al rimborso delle spese straordinarie, salvo che non abbia tempestivamente addotto validi motivi di dissenso (Sez. 6-1, n. 15240/2018, Mercolino, Rv. 649330-01).

In tema di contributo al mantenimento dei figli minori nel giudizio di separazione o divorzio, è legittima l’acquisizione, da parte della corte d’appello, di una relazione investigativa sulle condizioni reddituali di una parte, prodotta per la prima volta insieme con la comparsa conclusionale del secondo grado del giudizio, ha ritenuto la Corte di legittimità, poiché la tutela degli interessi morali e materiali della prole è sottratta all’iniziativa ed alla disponibilità delle parti, ed è sempre riconosciuto al giudice il potere di adottare d’ufficio, in ogni stato e grado del giudizio di merito, tutti i provvedimenti necessari per la migliore protezione dei figli, e di esercitare, in deroga alle regole generali sull’onere della prova, i poteri istruttori officiosi necessari alla conoscenza della condizione economica e reddituale delle parti (Sez. 1, n. 21178/2018, Di Marzio P., Rv. 650230-01).

La stessa Corte ha ribadito che l’obbligo di mantenere il figlio non cessa automaticamente con il raggiungimento della maggiore età, ma si protrae, qualora questi, senza sua colpa, divenuto maggiorenne, sia tuttavia ancora dipendente dai genitori. In tale ipotesi, il coniuge separato o divorziato, già affidatario è legittimato, iure proprio (ed in via concorrente con la diversa legittimazione del figlio, che trova fondamento nella titolarità, in capo a quest’ultimo, del diritto al mantenimento), ad ottenere dall’altro coniuge un contributo per il mantenimento del figlio maggiorenne. Pertanto, non potendosi ravvisare nel caso in esame una ipotesi di solidarietà attiva (che, a differenza di quella passiva, non si presume), in assenza di un titolo, come di una disposizione normativa che lo consentano, la eventuale rinuncia del figlio al mantenimento, anche a prescindere dalla sua invalidità, dovuta alla indisponibilità del relativo diritto, che può essere disconosciuto solo in sede di procedura ex art. 710 c.p.c., non potrebbe in nessun caso spiegare effetto sulla posizione giuridico-soggettiva del genitore affidatario quale autonomo destinatario dell’assegno (Sez. 1, n. 32529/2018, Tricomi L., Rv. 651936-01).

Infine, la S.C. ha chiarito che la transazione con la quale la madre abbia rinunciato al credito per il rimborso, da parte del padre, delle spese anticipate per il mantenimento del figlio minore, con lei convivente, riferite al periodo precedente la proposizione del ricorso, non è affetta da nullità, trattandosi di un credito entrato a far parte del suo patrimonio e, dunque, non (più) qualificabile come indisponibile (Sez. 1, n. 16860/2018, Caiazzo, Rv. 649785-01).

7. Il destino della casa familiare nello scioglimento della coppia.

Le pronunce della S.C. in materia di assegnazione della casa familiare, negli ultimi anni, sono altrettanto numerose quanto le sentenze che affrontano i problemi del mantenimento dei figli. Le questioni più complesse, si è confermato nell’anno 2018, sembrano essere rappresentate dalla necessità di assicurare un’adeguata tutela sia alle esigenze dei figli, in considerazione delle quali la casa è stata assegnata al genitore loro collocatario in occasione della separazione dei genitori, sia ai diritti acquisiti da terzi sull’immobile. La lettura delle statuizioni dell’anno consente di evidenziare che si registra qualche incertezza in ordine ad un principio che pareva consolidato, quello secondo cui il provvedimento di assegnazione della casa familiare è opponibile, nei limiti del novennio, al terzo acquirente dell’immobile, anche se non trascritto affatto. Qualora dovesse essere definitivamente riaffermato, peraltro, questo principio dovrebbe anche coordinarsi con l’orientamento espresso dalla Corte di legittimità (e sinora non smentito), secondo cui, in materia di assegnazione della casa familiare, l’art. 155-quater c.c. (applicabile ratione temporis), laddove prevede che «il provvedimento di assegnazione e quello di revoca sono trascrivibili e opponibili a terzi ai sensi dell’art. 2643» c.c., andrebbe interpretato nel senso che entrambi non hanno effetto riguardo al creditore ipotecario che abbia acquistato il suo diritto sull’immobile in base ad un atto iscritto anteriormente alla trascrizione del provvedimento di assegnazione, il quale perciò può far vendere coattivamente l’immobile come libero (Sez. 3, n. 07776/2016, Barreca, Rv. 639499-01).

In particolare, Sez. 1, n. 00772/2018, Iofrida, Rv. 647226-01, ha ritenuto che il provvedimento giudiziale di assegnazione della casa familiare al coniuge collocatario della prole, immediatamente trascritto (sia in ipotesi di separazione dei coniugi che di divorzio), è opponibile al terzo successivo acquirente del bene, atteggiandosi a vincolo di destinazione, estraneo alla categoria degli obblighi di mantenimento e collegato all’interesse superiore dei figli a conservare il proprio habitat domestico. Ne deriva che il diritto di abitazione non può ritenersi venuto meno per effetto della morte del coniuge, trattandosi di diritto di godimento sui generis, suscettibile di estinguersi soltanto per il venir meno dei presupposti che hanno giustificato il relativo provvedimento o a seguito dell’accertamento delle circostanze di cui all’art. 337-sexies c.c., legittimanti una sua revoca giudiziale (nella specie, la S.C. ha confermato la pronuncia di merito, che aveva rigettato la domanda di rilascio della casa familiare, avanzata nei confronti del coniuge assegnatario da un terzo, il quale, avendo acquistato l’intero immobile dopo il provvedimento di assegnazione, sosteneva il travolgimento di quest’ultimo in virtù del sopravvenuto decesso dell’altro coniuge, suo dante causa).

La Corte di cassazione ha anche deciso che il provvedimento di assegnazione della casa familiare al coniuge (o al convivente) affidatario di figli minori (o maggiorenni non autosufficienti senza loro colpa) è opponibile – nei limiti del novennio, ove non trascritto, o anche oltre il novennio, ove trascritto – anche al terzo acquirente dell’immobile solo finché perduri l’efficacia della pronuncia giudiziale, sicché l’insussistenza del diritto personale di godimento sul bene – di regola, perché la prole sia stata ab origine, o sia successivamente divenuta, maggiorenne ed economicamente autosufficiente o versi in colpa per il mancato raggiungimento dell’indipendenza economica – legittima il terzo acquirente a proporre un’ordinaria azione di accertamento al fine di conseguire la declaratoria di inefficacia del titolo e la condanna dell’occupante al pagamento di una indennità di occupazione illegittima (Sez. 2, n. 01744/2018, Sabato, Rv. 647785-01).

Nella medesima decisione il giudice di legittimità ha poi precisato che in tema di separazione personale dei coniugi e affidamento della casa familiare, al di fuori di casi specifici di affidamento condiviso, in assenza di disposizioni di legge impositive di un litisconsorzio necessario, l’azione del proprietario volta a ottenere il rilascio del proprio immobile gravato da un mero diritto atipico di godimento, previo accertamento dell’inefficacia di quest’ultimo, non afferisce ad alcun rapporto sostanziale plurisoggettivo tale da necessitare il litisconsorzio, per cui la relativa azione va proposta solo nei confronti del coniuge che occupi l’immobile (Sez. 2, n. 01744/2018, Sabato, Rv. 647785-02).

Ancora nella stessa sentenza, la S.C. ha pure specificato che in tema di separazione personale dei coniugi e affidamento della casa familiare, la proposizione della domanda di accertamento del terzo, estraneo alla gestione della crisi della famiglia o della convivenza, non soffre i limiti temporali di proponibilità connessi alle procedure per la gestione di tale crisi, dovendo ritenersi ipotizzabile una contestazione da parte del terzo anche della mancanza originaria dei presupposti per l’assegnazione della casa, come nelle ipotesi di assegnazione in pregiudizio al terzo (ad es. abitazione non adibita a residenza familiare, o simulazione di esigenze di studio di figli maggiorenni). La non riconducibilità dell’azione agli schemi processuali dettati per la revisione delle condizioni di separazione e divorzio determina la possibilità di cumulare oltre alla domanda di accertamento dell’insussistenza originaria o sopravvenuta delle condizioni di assegnazione anche quelle di consegna dell’immobile, di condanna al pagamento dell’indennità di occupazione, ed eventualmente di risarcimento dei danni (Sez. 2, n. 01744/2018, Sabato, Rv. 647785-03).

Infine, sempre nella medesima decisione la Corte di cassazione ha statuito che, in caso di azione proposta dal terzo per l’accertamento dell’inefficacia dell’assegnazione della casa familiare o della convivenza per assenza dei presupposti, la spettanza di un’indennità per l’occupazione illegittima decorre dal verificarsi della mora restitutoria, mediante intimazione o richiesta, oppure, in mancanza, dalla domanda giudiziale, Sez. 2, n. 01744/2018, Sabato, Rv. 647785-04.

La Corte di legittimità ha pure confermato che il provvedimento di assegnazione della casa coniugale in sede di divorzio, come desumibile dall’art. 6, comma 6, della legge n. 898 del 1970 – analogamente a quanto previsto, in materia di separazione, dagli artt. 155 e, poi, 155-quater c.c., introdotto dalla legge n. 54 del 2006, ed ora 337-sexies c.c., introdotto dall’art. 55 del d.lgs. n. 154 del 2013 – è subordinato alla presenza di figli, minori o maggiorenni non economicamente autosufficienti, conviventi con i genitori, spieganod che tale ratio protettiva, che tutela l’interesse dei figli a permanere nell’ambito domestico in cui sono cresciuti, non è configurabile in presenza di figli economicamente autosufficienti, sebbene ancora conviventi, verso cui non sussiste alcuna esigenza di speciale protezione (Sez. 6-1, n. 03015/2018, Lamorgese, Rv. 647338-01).

L’alloggio assegnato in concessione, a titolo oneroso, ad un impiegato civile dello Stato, a norma dell’art. 3 della l. n. 329 del 1949, ha spiegato il giudice di legittimità, è qualificabile come “casa familiare”, in quanto viene ceduto, ancorché in correlazione con le prestazioni lavorative, al fine di soddisfare le esigenze abitative del dipendente pubblico e dei componenti della sua famiglia. Detto alloggio, pertanto, in caso di separazione personale, può essere attribuito, anziché al concessionario, all’altro coniuge affidatario della prole, ai sensi dell’art. 155, comma 4, c.c., ratione temporis applicabile; su quest’ultimo graveranno, in caso di cessazione del rapporto concessorio, gli obblighi inerenti all’occupante, quali quello di pagamento del corrispettivo convenuto per l’utilizzo dell’alloggio, salvo il maggior danno, ai sensi dell’art. 1591 c.c. (Sez. 1, n. 05575/2018, Sambito, Rv. 647751-01).

Sez. 6-3, n. 17332/2018, Cirillo, Rv. 650236-01 ha inoltre chiarito che, in caso di comodato di bene immobile stipulato senza determinazione di termine, l’onere di provarne la destinazione a casa familiare, e la persistenza della predetta destinazione alla domanda di rilascio, grava sul comodatario (nella specie la S.C. ha cassato la sentenza che aveva ritenuto onerati i comodanti dell’onere della prova di dimostrare l’insussistenza di vincoli di destinazione).

La casa familiare deve comunque essere assegnata tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei figli minorenni e dei figli maggiorenni non autosufficienti a permanere nell’ambiente domestico in cui sono cresciuti, per garantire il mantenimento delle loro consuetudini di vita e delle relazioni sociali che in tale ambiente si sono radicate, ha ribadito la S.C., sicché è estranea a tale decisione ogni valutazione relativa alla ponderazione tra interessi di natura solo economica dei coniugi o dei figli, ove in tali valutazioni non entrino in gioco le esigenze della prole di rimanere nel quotidiano ambiente domestico, e ciò sia ai sensi del previgente articolo 155 quater c.c., che dell’attuale art. 337-sexies c.c. (Sez. 1, n. 25604/2018, Iofrida, Rv. 650826-01).

Sez. 6-1, n. 32231/2018, Sambito, Rv. 651826-02 ha confermato che il godimento della casa familiare a seguito della separazione dei genitori (anche se non uniti in matrimonio), ai sensi dell’art. 337 sexies c.c. è attribuito tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei figli, occorrendo soddisfare l’esigenza di assicurare loro la conservazione dell’habitat domestico, da intendersi come il centro degli affetti, degli interessi e delle consuetudini in cui si esprime e si articola la vita familiare, e la casa può perciò essere assegnata al genitore, collocatario del minore, che pur se ne sia allontanato prima della introduzione del giudizio (nella specie la S.C., nel ribadire il principio, ha assegnato la casa familiare alla madre, collocataria del figlio di età minore, reputando non ostativa la circostanza che la donna si fosse allontanata dalla casa in conseguenza della crisi nei rapporti con il padre del bambino, e non attribuendo rilievo al tempo trascorso dall’allontanamento, dipeso dalla lunghezza del processo, che non può ritorcersi in pregiudizio dell’interesse del minore).

8. Il sepolcro gentilizio.

In materia, assume particolare rilievo Sez. U, n. 17122/2018, Manna, Rv. 649495-01. Le Sezioni Unite hanno infatti chiarito che, nel sepolcro ereditario, lo ius sepulchri si trasmette nei modi ordinari, per atto inter vivos o mortis causa, come qualsiasi altro diritto, dall’originario titolare anche a persone non facenti parte della famiglia, mentre in quello gentilizio o familiare – tale dovendosi presumere il sepolcro, in caso di dubbio – lo ius sepulchri è attribuito, in base alla volontà del testatore, in stretto riferimento alla cerchia dei familiari destinatari di esso, acquistandosi dal singolo iure proprio sin dalla nascita, per il solo fatto di trovarsi col fondatore nel rapporto previsto dall’atto di fondazione o dalle regole consuetudinarie, iure sanguinis e non iure successionis, e determinando una particolare forma di comunione fra contitolari, caratterizzata da intrasmissibilità del diritto, per atto tra vivi o mortis causa, imprescrittibilità e irrinunciabilità. Tale diritto di sepolcro si trasforma in ereditario con la morte dell’ultimo superstite della cerchia dei familiari designati dal fondatore, rimanendo soggetto, per l’ulteriore trasferimento, alle ordinarie regole della successione mortis causa (nella specie, le Sezioni Unite hanno ritenuto che il diritto di sepolcro, contemplato nella scheda testamentaria, andasse qualificato come gentilizio poiché il testatore aveva in esso espresso la volontà che la tomba ospitasse l’intera famiglia dei cugini, se essi l’avessero voluto, sicché la ricorrente ne era divenuta titolare ancorché non erede).

9. La protezione dei soggetti bisognosi.

Nell’anno 2018 è proseguito lo sforzo della Corte di cassazione volto alla ricerca delle migliori forme di protezione dei soggetti bisognosi, specie attraverso ulteriori contributi alla precisazione dei caratteri dell’istituto dell’amministrazione di sostegno. In tal senso appare di grande rilievo l’affermazione contenuta in una delle massime di seguito riportate, con la quale la Corte di legittimità ha definitivamente chiarito che l’amministrazione di sostegno può essere disposta anche per esclusivo fine di cura della persona dell’amministrato, sebbene egli non disponga di alcun patrimonio che l’amministratore sia chiamato a gestire. Un principio che sembra meritevole di segnalazione ha riguardato pure l’interdetto, riconosciuto dalla S.C. legittimato, servendosi degli offici del tutore, a promuovere il proprio giudizio di separazione personale dei coniugi.

Nella valutazione della situazione economica dei soggetti che richiedono prestazioni sociali agevolate, ha chiarito il giudice di legittimità, il dettato di cui all’art. 2, comma 6, del d.lgs. n. 109 del 1998 – il quale espressamente esclude modifiche alla disciplina relativa ai soggetti tenuti alla prestazione degli alimenti ai sensi dell’art. 433 c.c., o interpretazioni che attribuiscano agli enti erogatori le facoltà di cui all’art. 438, comma 1, c.c., nei confronti dei componenti del nucleo familiare – non consente di ritenere che la provvidenza richiesta (nella specie il pagamento di una quota della retta di ricovero di persona in amministrazione di sostegno) non operi se ci sono soggetti tenuti alla prestazione alimentare, atteso che la stessa disposizione si occupa della posizione dei familiari nei commi precedenti (Sez. 3, n. 03024/2018, Frasca, Rv. 647942-01).

Il ricorso per cassazione avverso il decreto emesso dalla corte d’appello, all’esito del reclamo su un provvedimento reso dal giudice tutelare in tema di autorizzazione alla riscossione di somme capitali, ai sensi dell’art. 374, comma 1, n. 2) c.c., da parte del beneficiario di amministrazione di sostegno, è inammissibile, ha confermato la S.C., dovendosi limitare la facoltà di ricorso ex art. 720-bis, ultimo comma, c.p.c., ai soli decreti di carattere decisorio, assimilabili alle sentenze di interdizione od inabilitazione, senza estensione a quelli aventi carattere gestorio (Sez. 6-1, n. 03493/2018, Acierno, Rv. 647369-01).

La generica, e peraltro del tutto soggettiva, valutazione di incapacità del soggetto di provvedere ai propri interessi, e la sua condizione di analfabetismo, ha deciso la Corte di legittimità, non giustificano l’adozione di nessuna misura limitatrice della sfera di autonomia della persona, neppure l’amministrazione di sostegno, che ha quali presupposti l’infermità o la menomazione fisica o psichica della persona, oggettivamente verificabili, che determinino l’impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere alla cura dei propri interessi (Sez. 1, n. 04709/2018, De Marzo, Rv. 647741-01).

Il provvedimento con il quale il giudice tutelare ordini all’amministratore di sostegno di revocare il coadiutore, nominato ai sensi dell’art. 408, comma 4, c.c., ha statuito la S.C., presenta carattere meramente ordinatorio ed amministrativo e, di conseguenza non è assoggettabile ai normali mezzi d’impugnazione, in quanto risulta sempre revocabile e modificabile, diversamente da ciò che si verifica per i provvedimenti che dispongono l’apertura o la chiusura dell’amministrazione, che hanno contenuto corrispondente alle sentenze pronunciate in materia di interdizione ed inabilitazione a norma degli artt. 712 e ss. c.p.c., espressamente richiamati dall’art. 720-bis c.p.c. (Sez. 1, n. 05123/2018, Genovese, Rv. 647637-01).

Analoghi principi sono stati quindi espressi dal giudice di legittimità affermando, ancora in tema di amministrazione di sostegno, che solo i provvedimenti a carattere decisorio che la dispongono, o revocano, sono suscettibili di sindacato in sede di legittimità, e non anche i provvedimenti di designazione o sostituzione dell’amministratore, in quanto aventi natura amministrativa e gestoria (Sez. 6-1, n. 09839/2018, Acierno, Rv. 648279-01).

Sempre in materia di amministrazione di sostegno, la Cassazione ha statuito che il giudice tutelare può prevedere d’ufficio ex artt. 405, comma 5, nn. 3 e 4, e 407, comma 4, c.c., sia con il provvedimento di nomina dell’amministratore, sia mediante successive modifiche, la limitazione della capacità di testare o donare del beneficiario, ove le sue condizioni psico-fisiche non gli consentano di esprimere una libera e consapevole volontà. Infatti – esclusa la possibilità di estendere in via analogica l’incapacità di testare, prevista per l’interdetto dall’articolo 591, comma 2, c.c., al beneficiario dell’amministrazione di sostegno, ed escluso che il combinato disposto degli articoli 774, comma 1 e 411, commi 2 e 3, c.c., non consenta di limitare la capacità di donare del beneficiario – la previsione di tali incapacità può risultare strumento di protezione particolarmente efficace per sottrarre il beneficiario a potenziali pressioni e condizionamenti da parte di terzi, rispondendo tale interpretazione alla volontà del legislatore che, con l’introduzione dell’amministrazione di sostegno, ha voluto realizzare un istituto duttile, e capace di assicurare risposte diversificate e personalizzate in relazione alle differenti esigenze di protezione (Sez. 1, n. 12460/2018, Mercolino, Rv. 649112-01).

L’amministrazione di sostegno può essere disposta anche nel caso in cui sussistano soltanto esigenze di cura della persona, senza la necessità di gestire un patrimonio, ha sancito il giudice di legittimità, poiché l’istituto non è finalizzato esclusivamente ad assicurare tutela agli interessi patrimoniali del beneficiario, ma è volto, più in generale, a garantire protezione alle persone fragili in relazione alle effettive esigenze di ciascuna, limitandone nella minor misura possibile la capacità di agire (Sez. 6-1, n. 19866/2018, Sambito, Rv. 650197-01).

Con riferimento all’istituto dell’interdizione, la Corte di legittimità ha chiarito che i casi di sospensione della prescrizione sono tassativamente indicati dalla legge e sono insuscettibili di applicazione analogica e di interpretazione estensiva, in quanto il legislatore regola inderogabilmente le cause di sospensione, limitandole a quelle che consistono in veri e propri impedimenti di ordine giuridico, con esclusione degli impedimenti di mero fatto. Ne consegue che la espressa previsione della interdizione per infermità di mente come causa di sospensione impedisce l’estensione della medesima disciplina alla incapacità naturale (Sez. 6-L, n. 11004/2018, Ghinoy, Rv. 64868-01).

In argomento, la S.C. ha affermato che sussiste la legittimazione attiva dell’interdetto infermo di mente, tramite il proprio rappresentante legale, a promuovere il giudizio di separazione personale, in applicazione analogica di quanto stabilito dal legislatore, con riferimento al divorzio, all’art. 4, comma 5, d.lgs. 898/70, norma che disciplina espressamente la sola ipotesi in cui l’incapace abbia il ruolo di convenuto. Trattasi di opzione ermeneutica costituzionalmente orientata, volta ad evitare che l’interdetto sia privato in fatto di un diritto personalissimo di particolare rilievo, che la legge attribuisce ad entrambi i coniugi senza disparità di trattamento, nei casi previsti, ed il cui esercizio può rendersi necessario per assicurare l’adeguata protezione del soggetto incapace (Sez. 1, n. 14669/2018, Cristiano, Rv. 649122-01).

Nella medesima decisione la Corte di cassazione ha chiarito che il tutore può compiere in nome e per conto dell’interdetto anche un atto personalissimo (sempre che ne sia accertata la conformità alle esigenze di protezione), sicché la designazione di un curatore speciale è necessaria solo nel caso di conflitto di interessi tra il tutore ed il rappresentato, non evincendosi dal sistema una generale e tassativa preclusione al compimento di atti di straordinaria amministrazione da parte del rappresentante legale dell’incapace (Sez. 1, n. 14669/2018, Cristiano, Rv. 649122-02).

10. Questioni in materia di matrimonio concordatario.

Il perdurante rilievo delle problematiche del matrimonio canonico, cui siano riconosciuti gli effetti civili, è rimasto confermato nell’anno 2018, in cui la S.C. è stata chiamata a confrontarsi con istituti di rara applicazione, come la trascrizione tardiva del matrimonio canonico, che assumono però un grande rilievo sistematico. La Corte di cassazione ha avuto anche occasione di sancire che il riconoscimento degli effetti civili alla sentenza ecclesiastica di nullità matrimoniale comporta la cessazione dell’efficacia delle statuizioni patrimoniali adottate nel corso del giudizio di separazione personale degli stessi coniugi, che pure fossero divenute definitive.

In particolare, la Corte di legittimità ha chiarito che la conoscenza e la non opposizione alla richiesta di trascrizione tardiva del c.d. matrimonio concordatario proposta dall’altro coniuge, di cui all’art. 8, l. n. 121 del 1985, che ha reso esecutivo il c.d. nuovo Concordato tra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica, devono verificarsi in riferimento al momento in cui la trascrizione è stata richiesta. Qualora la verifica risulti positiva, può precedersi alla trascrizione tardiva, non rilevando la successiva morte del coniuge che non si era opposto, sebbene verificatasi prima che la trascrizione fosse eseguita (Sez. 1, n. 05894/2018, Nazzicone, Rv. 648250-01).

Nella stessa decisione, la Corte di cassazione ha precisato che nell’ipotesi di trascrizione del matrimonio canonico, eseguita dall’ufficiale di stato civile su ordine del tribunale, adito con ricorso di un solo nubendo in sede di procedimento camerale, ai sensi degli artt. 95 e 96 del d.P.R. n. 396 del 2000, il soggetto che si ritenga leso da tale trascrizione può agire con l’azione ordinaria di cognizione di cui all’art. 16 della legge n. 847 del 1929, volta all’accertamento della nullità della trascrizione stessa, allorché assuma che questa sia avvenuta in mancanza del consenso integro – espresso o tacito – dell’altro coniuge, da accertare con riguardo al momento in cui fu formulata la richiesta la trascrizione all’ufficiale di stato civile, in origine disattesa (Sez. 1, n. 05894/2018, Nazzicone, Rv. 648250-02).

La Corte di legittimità ha chiarito che la pronuncia la quale rende esecutiva nello Stato la sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio concordatario tra le parti, successiva al passaggio in giudicato della sentenza di separazione, fa venir meno le statuizioni economiche relative al rapporto tra i coniugi in essa previste poiché – a differenza di quanto avviene nel caso di precedente passaggio in giudicato della sentenza di cessazione degli effetti civili del matrimonio, le cui statuizioni in ordine all’assegno divorzile restano efficaci in forza del principio di solidarietà post coniugale – la sentenza di separazione che stabilisce il diritto al mantenimento a favore del coniuge separato trova il suo fondamento nella permanenza del vicolo coniugale e nel dovere di assistenza materiale tra coniugi sicché, venuto meno il vincolo matrimoniale, non possono sopravvivere le statuizioni accessorie dal quale esse dipendono (Sez. 1, n. 11553/2018, Campese, Rv. 648559-01).

11. Le unioni civili e la l. n. 76 del 2016.

Le unioni civili sono state regolate dalla l. n. 76 del 2016. A quasi tre anni di distanza, la giurisprudenza di legittimità non è stata ancora chiamata ad affrontare questioni fondate direttamente sulla nuova disciplina.

In alcune occasioni, è tuttavia accaduto che, alla luce della nuova normativa, la giurisprudenza abbia dovuto riorientare il proprio convincimento.

L’esempio più evidente è quello del matrimonio tra persone dello stesso sesso, celebrato all’estero, di cui venga chiesta la trascrizione nei registri dello stato civile italiano. Sino a pochi anni fa, l’assenza di regolamentazione induceva la S.C. a giudicare tale matrimonio inidoneo a produrre effetti giuridici nell’ordinamento interno, ancorché, sulla scorta della giurisprudenza della Corte EDU, la diversità di sesso dei nubendi non venisse considerata presupposto “naturalistico” di “esistenza” del matrimonio e dunque non imponesse di collocare il matrimonio same-sex nella categoria dell’inesistenza (Sez. 1, n. 04184/2012, Di Palma, Rv. 62177801).

Nel 2018, la Cassazione ha potuto invece affermare che il matrimonio, l’unione civile o altri istituti analoghi costituiti all’estero tra persone dello stesso sesso sono pienamente validi anche in Italia e che anzi le disposizioni della legge n. 76 del 2016 e dei decreti di attuazione n. 5 e n. 7 del 2017 si applicano anche ai vincoli costituiti prima dell’entrata in vigore della predetta disciplina poiché, ai sensi dell’art. 1, comma 28, della l. n. 76 del 2016, tali norme sono state espressamente formulate per garantire un trattamento giuridico uniforme a situazioni identiche sorte in tempi diversi (Sez. 1, n. 11696/2018, Acierno, Rv. 648562-01).

La sentenza appena citata ha poi precisato che il matrimonio tra persone dello stesso sesso contratto all’estero tra un cittadino italiano e uno straniero, ai sensi dell’art. 32-bis della l. n. 218 del 1995, può essere trascritto nel nostro ordinamento come unione civile, essendo trascrivibile come matrimonio solo quello contratto all’estero da due cittadini stranieri, escludendo che tale previsione possa essere considerata discriminatoria per ragioni di orientamento sessuale ed in contrasto con gli artt. 2, 3, 29 e 117 Cost., in relazione agli artt. 8 e 14 della CEDU. La scelta del modello di unione riconosciuta tra persone dello stesso sesso negli ordinamenti facenti parte del Consiglio d’Europa è infatti rimessa al libero apprezzamento degli Stati membri, purché garantisca a tali unioni uno standard di tutele coerente con il diritto alla vita familiare ex art. 8 come interpretato dalla Corte EDU.

Un importante riflesso dell’approvazione della l. n. 76 del 2016 si è avuto anche in materia di adozione. È noto come la nuova disciplina sulle unioni civili non sia intervenuta sulla possibilità che le coppie dello stesso sesso accedano al procedimento di adozione, neppure con riferimento ai figli del partner (cd. adozione coparentale). Essa contiene soltanto, all’art. 1, comma 20, una ambigua disposizione (cd. clausola di equivalenza) la quale, dopo aver esteso al componente dell’unione civile le norme che nell’ordinamento si riferiscono al “coniuge” e aver tuttavia escluso che tale estensione valga anche per le disposizioni di cui alla legge n. 184 del 1983, recita: «resta fermo quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti».

Sulla scorta di un recente precedente (Sez. 1, n. 12962/2016, Acierno, Rv. 640133-01) e facendo leva sulla citata clausola di equivalenza, Sez. 1, n. 14007/2018, Iofrida, Rv. 649527-02, ha negato che una sentenza straniera di adozione coparentale si ponga in contrasto con l’ordine pubblico, valutato nel superiore interesse del minore (v. più appronditamente infra).

Su un terreno contiguo, va poi segnalata l’ordinanza Sez. 1, n. 04382/2018, Genovese, non massimata, con cui sono state sottoposte alle Sezioni Unite due importanti questioni di massima di particolare importanza riguardanti il delicato tema della maternità surrogata. Il caso riguardava una coppia di sesso maschile, che aveva fatto ricorso a una pratica di maternità surrogata in Canada e che chiedeva il riconoscimento in Italia degli atti stranieri che attribuivano la paternità dei nati a entrambi i componenti della coppia. A seguito del rifiuto opposto dall’ufficiale dello stato civile, la questione è giunta davanti alla S.C., che si è chiesta se le normative interne in materia di filiazione, adozione (l. n. 184 del 1983), procreazione medicalmente assistita (l. n. 40 del 2004) e unioni civili (l. n. 76 del 2016), con i loro divieti e con i loro limiti all’autonomia privata in materia di status, contengano principi di ordine pubblico e si pongano così come argine alla trascrizione della sentenza straniera di riconoscimento della doppia paternità.

In particolare, la delicatezza della questione (concernente per la prima volta due uomini) e l’omesso riconoscimento esplicito dell’adozione co-parentale nella legge sulle unioni civili hanno indotto la sezione remittente a non prendere posizione e a richiedere il responso delle Sezioni Unite.

12. Matrimonio tra persone dello stesso sesso, stato civile e giurisdizione del giudice ordinario.

Sempre nel 2018 è poi giunta a (provvisoria) conclusione la vicenda, di un certo clamore, relativa al provvedimento prefettizio che aveva annullato l’atto con cui il Sindaco di Roma Capitale aveva disposto nel 2014 la trascrizione nei registri dello stato civile di un matrimonio omosessuale celebrato in Spagna. Dapprima il TAR Lazio aveva considerato la controversia rientrante nella giurisdizione del giudice ordinario. Tale linea era stata sconfessata dal Consiglio di Stato che, in riforma della sentenza del TAR, aveva affermato la giurisdizione amministrativa e confermato l’annullamento prefettizio.

Le Sezioni Unite della Corte di cassazione (Sez. U, n. 16957/2018, Petitti, Rv. 649493-01), adite con ricorso ex art. 362 c.p.c., hanno cassato la sentenza del Consiglio di Stato, affermando che la questione relativa alla legittimità dell’atto del prefetto che, in forza dei poteri di vigilanza sul sindaco, abbia ordinato all’ufficiale dello stato civile di annullare la trascrizione, nei relativi registri, di un matrimonio contratto all’estero tra persone dello stesso sesso, ritenendolo inesistente per la mancanza del requisito indefettibile della diversità di genere della coppia, appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario e non a quella amministrativa, poiché la soluzione della controversia comporta l’esame, in via pregiudiziale, quale antecedente logico necessario, della validità nel nostro ordinamento del matrimonio contratto all’estero, che, riguardando una questione di status ex art. 8, comma 2, c.p.a. è esclusivamente riservata all’autorità giudiziaria ordinaria.

13. Le convivenze di fatto all’indomani della l. n. 76 del 2016.

Dopo che, per lungo tempo, la regolamentazione della convivenza more uxorio e dei suoi effetti era stata affidata a frammenti normativi, interpolati dalle sentenze della Corte costituzionale e dall’interpretazione della giurisprudenza di legittimità, la l. n. 76 del 2016 ha per la prima volta offerto una compiuta disciplina dei diritti che scaturiscono dalle convivenze di fatto. A due anni di distanza dall’entrata in vigore, tuttavia, la S.C. non ne ha ancora fatta applicazione diretta. Ciò è verosimilmente accaduto per due motivi: da un lato, perché non vi è stato tempo sufficiente perché giungessero al grado di legittimità i contratti di convivenza conclusi ex art. 1, comma 50, della l. cit.; dall’altro lato, perché i maggiori conflitti sorgono alla fine del rapporto di convivenza e nelle primissime pronunce adottate in sede di legittimità ed anche di merito sembra affiorare la tendenza a considerare le norme della l. n. 76 del 2016, che regolano gli effetti della cessazione del rapporto, applicabili alle sole convivenze cessate dopo la sua entrata in vigore (v. ad es. Sez. 3, n. 10377/2017, Olivieri, Rv. 644066-01).

Nel 2018, le decisioni hanno dunque continuato a utilizzare il vecchio strumentario interpretativo.

Tra le pronunce più interessanti vi è senza dubbio Sez. 3, n. 14732/2018, Rubino, Rv. 649049-01. Il caso affrontato riguardava una coppia di conviventi, in cui ciascuno dei partner aveva contribuito – conferendo denaro e tempo libero – alla costruzione della dimora comune, che era tuttavia rimasta, dopo la cessazione del rapporto sentimentale, nella proprietà esclusiva di uno dei due, in ragione della proprietà del terreno e del principio dell’accessione. La S.C. ha escluso che tali conferimenti potessero essere considerati una donazione o un’attribuzione spontanea, perché erano stati effettuati in vista della instaurazione della futura convivenza e dunque nell’interesse comune. Ha ritenuto piuttosto che si trattasse di prestazioni che esulavano dal mero adempimento delle obbligazioni nascenti dal rapporto di convivenza, concludendo per l’ammissibilità dell’azione generale di arricchimento.

Sugli effetti riflessi dell’instaurazione di un rapporto di convivenza sulla separazione coniugale, merita di essere citata Sez. 1, n. 16982/2018, Lamorgese, Rv. 649674-01, secondo la quale deve presumersi che le disponibilità economiche di ciascuno dei conviventi more uxorio siano messe in comune nell’interesse del nuovo nucleo familiare, con la conseguenza che, salva la possibilità di prova contraria, la convivenza stabile e continuativa, intrapresa con un’altra persona dal coniuge separato avente diritto all’assegno di mantenimento, fa cessare in capo all’altro coniuge l’obbligo di corresponsione.

Tra i diritti del convivente di origine costituzionale e sovranazionale vi è anche quello di mantenere rapporti affettivi con i discendenti del partner. È per questo che Sez. 1, n. 19780/2018, Valitutti, Rv. 649955-02, ha affermato che, alla luce dei principi desumibili dall’art. 8 CEDU, dall’art. 24, comma 2, della Carta di Nizza e dagli artt. 2 e 30 Cost., il diritto degli ascendenti, azionabile anche in giudizio, di instaurare e mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni, previsto dall’art. 317-bis c.c., cui corrisponde lo speculare diritto del minore di crescere in famiglia e di mantenere rapporti significativi con i parenti, ai sensi dell’art. 315-bis c.c., non va riconosciuto ai soli soggetti legati al minore da un rapporto di parentela in linea retta ascendente, ma anche ad ogni altra persona che affianchi il nonno biologico del minore, sia esso il coniuge o il convivente di fatto, e che si sia dimostrato idoneo ad instaurare con il minore medesimo una relazione affettiva stabile, dalla quale quest’ultimo possa trarre un beneficio sul piano della sua formazione e del suo equilibrio psico-fisico (v. più approfonditamente infra).

Sez. 3, n. 14903/2018, Di Florio, Rv. 649053-01, ha poi ribadito che, in assenza di specificazioni, le norme che fanno riferimento alla convivenza al fine di riconoscere determinati benefici di solidarietà familiare intendono riferirsi alla comunanza di affetti della convivenza more uxorio, con esclusione di altri rapporti di lavoro, servizio o ospitalità (il caso riguardava il subentro nell’alloggio di edilizia residenziale pubblica da parte della badante della titolare deceduta).

Altro ambito nel quale la convivenza more uxorio ha assunto rilevanza è stato quello della responsabilità civile. Da tempo la S.C. estende alla perdita del rapporto di convivenza i princìpi affermati in tema di danno da perdita del rapporto parentale. Sez. 3, n. 09178/2018, Rubino, Rv. 648590-01, ha chiarito che, ai fini dell’accertamento dell’esistenza della convivenza – intesa quale legame affettivo stabile e duraturo in virtù del quale siano spontaneamente e volontariamente assunti reciproci impegni di assistenza morale e materiale – i requisiti della gravità, precisione e concordanza degli elementi presuntivi devono essere ricavati dal complesso degli indizi, da valutarsi non atomisticamente ma nel loro insieme e l’uno per mezzo degli altri, nel senso che ognuno, quand’anche singolarmente sfornito di valenza indiziaria, potrebbe rafforzare e trarre vigore dall’altro in un rapporto di vicendevole completamento.

14. Relazione omosessuale e protezione internazionale (rinvio).

Per un interessante risvolto della tematica in esame si veda Sez. 6-1, n. 26969/2018, Acierno, Rv. 651511-01, resa in materia di protezione internazionale ed esaminata in modo approfondito nel Capitolo III.

15. La responsabilità genitoriale e l’intervento del giudice.

Da un punto di vista meramente concettuale è semplice distinguere i tra provvedimenti che riguardano l’esercizio della responsabilità, e dunque attengono al modo in cui la genitorialità si esprime nella relazione con il figlio, e provvedimenti che invece incidono sulla titolarità della responsabilità genitoriale, escludendola o limitandone l’ambito operativo.

I provvedimenti per primi indicati sono quelli che il giudice è chiamato ad adottare con riferimento alla prole, in caso di contrasto tra i genitori su questioni di particolare importanza (art. 316 c.c.) e in tutte le ipotesi in cui cessa la comunione di vita di questi ultimi (art. 337-bis c.c.).

Gli altri provvedimenti riguardano invece le ipotesi cui si verifica la violazione dei doveri inerenti alla responsabilità genitoriale in pregiudizio del minore. Quando il pregiudizio è grave, si può arrivare alla pronuncia di decadenza dalla responsabilità genitoriale (art. 330 c.c.), mentre qualora il comportamento non sia tale da richiedere l’adozione di un rimedio così estremo, o leda un interesse specifico e circoscritto del minore senza implicare un giudizio di totale inaffidabilità del genitore, il giudice può adottare quei provvedimenti che, secondo le circostanze, si mostrano opportuni, comunemente denominati provvedimenti limitativi della responsabilità genitoriale (art. 333 c.c.). Il contenuto di queste ultime statuizioni è affidato alla discrezionalità del giudice, potendo consistere nell’autorizzare il figlio a fare ciò che è gli stato vietato dal genitore o nell’ordinare a quest’ultimo l’adempimento di un obbligo trascurato, ma comprende anche la possibilità di allontanamento del genitore (ove si tratti di genitore che maltratta o abusa del minore) o del figlio dalla residenza familiare (ove sia un vantaggio per quest’ultimo andare a vivere altrove) e la disposizione dell’affidamento familiare.

Da un punto di vista operativo è però difficile delimitare in modo nitido il confine tra l’una e l’altra categoria di provvedimenti, soprattutto quando, nel disciplinare l’esercizio della genitorialità, nei cosiddetti “procedimenti separativi”, l’esigenza d tutelare l’interesse del minore imponga l’adozione di misure che, se pur non elidono la responsabilità genitoriale, intervengono pesantemente sul relativo esercizio, fino ad assumere i connotati propri dei provvedimenti limitatiti della stessa. E, in effetti, in passato si è verificato spesso che, con riferimento ad una stessa situazione, e in relazione alle stesse parti, si siano incardinati almeno due procedimenti, quello separativo davanti al giudice ordinario e quello sulla responsabilità genitoriale davanti al giudice minorile, con istruttoria distinta e decisioni a volte non coordinate tra loro, se non addirittura in contrasto, e conseguenti incertezze e difficoltà di attuazione.

La l. n. 219 del 2012, nel ridisegnare il riparto delle attribuzioni tra tribunale per i minorenni e tribunale ordinario, ha così introdotto una disposizione che, in presenza di determinati presupposti, prevede una singolare ipotesi di “competenza per attrazione” in favore del giudice ordinario.

Si tratta del novellato art. 38, comma 1, disp. att. c.c., ove, a seguito dell’attribuzione alla competenza del tribunale per i minorenni dei provvedimenti contemplati dagli articoli 84, 90, 330, 332, 333, 334, 335 e 371, ultimo comma, c.c., è precisato che «Per i procedimenti di cui all’articolo 333 resta esclusa la competenza del tribunale per i minorenni nell’ipotesi in cui sia in corso, tra le stesse parti, giudizio di separazione o divorzio o giudizio ai sensi dell’articolo 316 del codice civile; in tale ipotesi per tutta la durata del processo la competenza, anche per i provvedimenti contemplati dalle disposizioni richiamate nel primo periodo, spetta al giudice ordinario.»

La noma è chiaramente volta a dare attuazione al principio della concentrazione delle tutele, perché consente al tribunale ordinario, adito per statuire sull’affidamento del figlio, di emanare (anche d’ufficio) altri provvedimenti nell’interesse del minore, che incidono sul rapporto con i suoi genitori, nel caso in cui vi sia violazione di doveri o abuso di poteri da parte di uno o di entrambi i genitori, coerentemente a quanto stabilito all’art. 337 ter, comma 2, ultima parte, c.c., ove è precisato che il giudice «adotta ogni altro provvedimento relativo alla prole, ivi compreso, in caso di temporanea impossibilità di affidare il minore ad uno dei genitori, l’affidamento familiare».

Le richieste dei provvedimenti previsti dall’art. 336 c.c. possono comunque essere formulate davanti al tribunale ordinario, in cumulo oggettivo con quelle di separazione o di divorzio (o con quelle di regolamentazione dell’affidamento negli altri giudizi previsti dall’art. 337-bis c.c.) e, se proposte separatamente, possono essere riunite a queste ultime, come consentito dagli artt. 40 e 274 c.p.c. (si pensi, ad esempio, alla connessione esistente fra le domande volte a sanzionare gli abusi parentali con quelle di affidamento dei figli o con quelle di addebito della separazione). Ovviamente, come sopra evidenziato, il giudice ordinario può comunque adottare d’ufficio tutti i provvedimenti che ritiene necessari per tutelare la prole.

Tale scelta normativa ha indotto la giurisprudenza ad interrogarsi con maggiore consapevolezza sulla natura dei provvedimenti che vengono volta per volta adottati nel corso dei “procedimenti separativi” e anche sull’incidenza, in termini di disciplina processuale, dell’avvicinamento di tali misure.

Un esempio di tale evoluzione interpretativa è dato dall’orientamento sempre più consolidato della giurisprudenza di legittimità in ordine alla questione dell’impugnabilità mediante ricorso straordinario per cassazione dei provvedimenti adottati in sede di reclamo nei procedimenti ex art. 336 c.c., oramai assimilati, in ordine a tale aspetto, a quelli adottati nei “procedimenti separativi” in tema di affidamento dei minori (v. infra il Capitolo dedicato al ricorso straordinario per cassazione).

In tale quadro, assumono particolare rilievo, accanto alle decisioni assunte nel 2018 in tema di provvedimenti e di procedimenti che regolano l’esercizio della responsabilità genitoriale in senso stretto, quelle che hanno esaminato la questione dell’adozione di provvedimenti limitativi della responsabilità genitoriale nel corso dei “procedimenti separativi”, ovvero che, sempre in pendenza di tali giudizi, hanno valutato la necessità di nominare un curatore speciale per il minore, come un tempo avveniva soltanto nel corso dei procedimenti disciplinati dall’art. 336 c.c.

Esaminate le decisioni appena menzionate, verranno poi illustrate quelle che hanno riguardato l’applicazione delle misure sanzionatorie di cui all’art. 709-ter c.c., la tutela dei rapporti del minore con gli ascendenti e l’adozione di provvedimenti ablativi o limitativi della responsabilità genitoriale.

16. La regolamentazione dell’affidamento (rinvio).

Per quanto riguarda il contenuto dei provvedimenti relativi all’esercizio della responsabilità genitoriale adottati all’esito dei procedimenti di cui all’art. 337-bis c.c., si deve rinviare a quanto sopra già illustrato, essendo ormai unitaria la regolamentazione dell’affidamento e delle statuizioni ad esso connesse (collocamento prevalente, modalità di visita, assegnazione della casa familiare), compreso il mantenimento della prole, in tutti i casi di cessazione di comunione di vita dei genitori.

17. I provvedimenti limitativi della responsabilità genitoriale nei “procedimenti separativi”.

In argomento, è di fondamentale importanza Sez. 1, n. 31902/2018, Tricomi L., Rv. 651898-01, ove si precisa che la decisione con la quale l’autorità giudiziaria, in un giudizio disciplinato dall’art. 337-bis c.c., dispone l’affidamento del minore ai servizi sociali, rientra nella categoria dei provvedimenti convenienti per l’interesse del minore di cui all’art. 333 c.c., trattandosi di una statuizione diretta a superare la condotta pregiudizievole di uno o di entrambi i genitori, che tuttavia non dà luogo alla pronuncia di decadenza dalla responsabilità genitoriale ex art. 330 c.c.

Nella stessa pronuncia, la Corte ha aggiunto che tale misura ha natura di atto di giurisdizione non contenziosa e che, anche se non prevede un termine finale, è comunque da ritenersi privo del carattere della definitività, risultando sempre revocabile e reclamabile, secondo il disposto di cui all’art. 333, comma 2, c.c., come pure si desume dalle previsioni generali di cui agli artt. 739 e 742 c.p.c.

La medesima Corte ha così, nella specie, rigettato la censura del ricorrente, che aveva lamentato il carattere definitivo, e non temporaneo, del provvedimento di affidamento del figlio minore ai servizi sociali, in assenza di un termine di cessazione degli effetti, precisando che la previsione di tale termine non è necessaria, poiché la decisione è comunque suscettibile di essere riesaminata in qualsiasi momento.

Per un approfondimento della giurisprudenza sul punto, si deve però rinviare al Capitolo dedicato al ricorso straordinario per cassazione, ove, come già evidenziato, viene delineato l’orientamento, che si va consolidando, in ordine ai requisiti per la revoca e la modifica di tali provvedimenti e alla conseguente decisorietà rebus sic stantibus degli stessi.

Sempre in tema di statuizioni sull’affidamento che limitano la responsabilità genitoriale, Sez. 1, n. 12954/2018, Cristiano, Rv. 649115-01, ha affermato che il criterio fondamentale, a cui deve attenersi il giudice nel fissare le modalità di affidamento in caso di conflitto genitoriale, è quello del superiore interesse della prole, stante il preminente diritto del minore ad una crescita sana ed equilibrata, sicché il perseguimento di tale obiettivo può comportare anche l’adozione di provvedimenti – quali, nella specie, il divieto di condurre il minore agli incontri della confessione religiosa abbracciata dal genitore dopo la fine della convivenza – contenitivi o restrittivi di diritti individuali di libertà dei genitori, ove la loro esteriorizzazione determini conseguenze pregiudizievoli per il figlio che vi presenzi, compromettendone la salute psico-fisica o lo sviluppo (in tema, v. anche, Sez. 1, n. 24683/2013, Piccininni, Rv. 628840-01, ove è stato stabilito che non è censurabile in cassazione, ove congruamente e logicamente motivato, il provvedimento con il quale il giudice vieti al genitore di condurre i figli minori, al medesimo affidati, alle riunioni della confessione religiosa, cui egli abbia aderito in epoca successiva alla separazione).

18. Alcune caratteristiche dei “procedimenti separativi”.

Assumono, in materia, fondamentale rilievo due pronunce della S.C. che hanno esaminato aspetti importanti di tali tipologie di procedimenti.

18.1. La competenza territoriale.

Si deve prima di tutto menzionare Sez. 6-1, n. 27741/2018, Sambito, Rv. 651355-01, ove la Corte di cassazione ha precisato che il procedimento di cui all’art. 337-ter c.c., volto all’adozione dei provvedimenti in favore dei figli minori, si instaura nel luogo di residenza abituale di quest’ultimo, inteso come il luogo in cui il minore consolida o potrà consolidare una rete di affetti e relazioni, tali da assicurare un armonico sviluppo psicofisico, sicché, in caso di conflitto positivo di competenza, quest’ultima dovrà radicarsi innanzi al giudice funzionalmente competente, senza fare ricorso al criterio di prevenzione di cui all’art. 39, comma 1, c.p.c.

La Corte ha richiamato in motivazione la propria giurisprudenza (da ultimo, Sez. 6-1, n. 27153/2017, Valitutti, Rv. 646771-01 e Sez. 6-1, n. 21285/2015, Dogliotti, Rv. 637318-01), che ha escluso la possibilità di fare riferimento, ai fini della individuazione del giudice territorialmente competente, alla data della domanda o ad un dato meramente quantitativo – quale la prossimità temporale del trasferimento o la maggior durata del soggiorno – aggiungendo che, soprattutto nei casi di recente trasferimento, è necessaria una prognosi sulla possibilità che la nuova dimora diventi l’effettivo, stabile e duraturo centro di affetti e di interessi del minore, dovendo inoltre accertarsi che il trasferimento non si configuri come mero espediente per sottrarre il minore alla vicinanza dell’altro genitore o alla disciplina generale della competenza territoriale (nella specie, la S.C. ha escluso che potesse qualificarsi luogo di residenza abituale del minore quello dei nonni materni ove la madre, priva di occupazione, aveva trovato precaria ospitalità).

18.2. Il ruolo del Pubblico Ministero.

Come precisato da Sez. 1, n. 03638/2018, Mercolino, Rv. 647057-01, nei procedimenti aventi ad oggetto la disciplina dell’affidamento di minori nati da genitori non coniugati (come pure in quelli di separazione coniugale), il Pubblico Ministero non assume la posizione di parte necessaria, essendo il suo intervento normativamente previsto come obbligatorio ma senza alcun potere, né di iniziativa, né di impugnativa della decisione, sicché la sua mancata partecipazione non comporta una lesione del contraddittorio rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del processo, e tale da giustificare la rimessione degli atti al primo giudice ex art. 354 c.p.c., ma una semplice nullità rilevabile d’ufficio, che si converte in motivo di gravame.

In motivazione, la Corte ha precisato che le cause tra genitori non coniugati, aventi ad oggetto provvedimenti relativi ai figli non rientravano originariamente tra quelle per le quali l’art. 70 c.p.c. prevedeva l’intervento obbligatorio del Pubblico Ministero, prescritto invece per l’adozione dei provvedimenti riguardanti i figli sia in sede di separazione, ai sensi dell’art. 710 c.p.c. (nel testo risultante dalla sentenza della Corte costituzionale n. 416 del 1992), sia in sede di divorzio, ai sensi dell’art. 9 della l. n. 898 del 1970 (come modificato dall’art. 13 della l. n. 74 del 1987). Tale lacuna è stata in seguito colmata dall’intervento della Corte costituzionale, che, con la sentenza n. 214 del 1996, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 70 c.p.c., nella parte in cui non prescrive il predetto intervento, osservando che l’art. 30, comma 3, Cost. postula che ai figli nati fuori dal matrimonio sia assicurata tutela eguale a quella attribuita ai figli di genitori sposati, compatibilmente con i diritti dei membri della famiglia legittima, ed escludendo nella specie la sussistenza di ragioni ostative ad una siffatta equiparazione, avuto riguardo alla funzione dell’intervento in questione, consistente nella tutela degli interessi dei figli.

La stessa Corte ha poi rilevato che l’uguaglianza della tutela assicurata ai figli nati fuori del matrimonio ha poi trovato un esplicito riconoscimento nella l. n. 219 del 2012, che, nel completare la parificazione delle rispettive posizioni giuridiche ha disposto, all’art. l, comma 1, la sostituzione della parola “figli” alle espressioni “figli legittimi” e “figli naturali”, ovunque esse ricorrano, aggiungendo però che, a differenza di quanto accade per il giudizio di divorzio, nel quale il Pubblico Ministero riveste la qualità di litisconsorte necessario, quando si tratti di adottare provvedimenti riguardanti i figli minori o incapaci, e può impugnare la sentenza che lo conclude, ai sensi dell’art. 5, comma 5, della l. n. 898 del 1970, nel giudizio di separazione ed in quelli aventi ad oggetto i figli di genitori non coniugati, il Pubblico Ministero non assume la posizione di parte necessaria, dovendo intervenire, ma senza poteri d’iniziativa, e non potendo impugnare la sentenza, neppure per la parte concernente gli interessi dei figli minori. Da ciò consegue che la mancata partecipazione del Pubblico Ministero non comporta una lesione del contraddittorio, che è rilevabile in ogni stato e grado del giudizio e giustifica la rimessione degli atti al primo giudice, ma una nullità rilevabile anche d’ufficio, che si converte in motivo di gravame e può essere fatto valere attraverso l’impugnazione della sentenza (cfr., nello stesso senso, Sez. 1, n. 06965/2002, Forte, Rv. 557203-01, con riferimento al solo giudizio di separazione).

19. La novità del curatore speciale del minore nei “procedimenti separativi” nei casi di conflittualità che influisce sulla capacità genitoriale.

Com’è noto, con sentenza n. 185 del 1986 (Corte cost. 14 luglio 1986, n. 185), la Corte costituzionale ha escluso l’illegittimità costituzionale – in riferimento agli artt. 3, commi 1 e 2, 24, comma 2, e 30 Cost. – della omessa previsione della nomina di un curatore speciale per la rappresentanza in giudizio dei figli minori, nei procedimenti contenziosi relativi allo scioglimento (o alla cessazione degli effetti civili) del matrimonio ed alla separazione dei coniugi, in relazione alle statuizioni sull’affidamento e la visita dei figli, rilevando che la valutazione in ordine al modo e al grado di effettiva tutela in giudizio di determinati interessi è riservata al legislatore, il quale non è vincolato, in tutti i casi di riconosciuti interessi al giudizio o nel giudizio, a prevedere la qualità di parte per i titolari degli stessi interessi.

La Corte costituzionale ha, in particolare, sottolineato che i giudizi di cessazione degli effetti civili del matrimonio e di separazione personale dei coniugi non attengono né si riflettono, quale che sia il loro esito, sullo stato dei figli, aggiungendo che, nei giudizi che invece attengono allo status dei minori (situazioni diverse, rispetto a quelle qui in esame), come ad esempio nel giudizio per il disconoscimento di paternità ed in quello di opposizione al decreto di adottabilità, il legislatore ha previsto la nomina di un rappresentante del minore, e, anche con riguardo all’amministrazione dei beni dei minori (situazione anch’essa diversa, rispetto a quelle qui in esame), ha stabilito la nomina, ai sensi dell’art. 320 c.c., di un curatore speciale, quando sorge conflitto di interessi tra genitori e figli.

In conclusione, secondo la Corte costituzionale, il legislatore non ha ravvisato, nei casi in esame, l’opportunità di istituzionalizzare un conflitto tra genitori e figli, come sarebbe certamente avvenuto con l’attribuzione della qualità di parte ai minori-figli e con la nomina di un curatore per la loro rappresentanza in giudizio, anche se, per le ipotesi di concreta conflittualità, ha apprestato i normali strumenti (ed anche, a volte, la nomina di un curatore speciale) previsti in via generale dal codice civile.

La giurisprudenza di legittimità è rimasta per lungo tempo coerente a tale impostazione ed ha affermato che, nei menzionati procedimenti, i minori non sono parti in senso formale, anche se lo sono in senso sostanziale (e pertanto devono essere ascoltati, in presenza dei presupposti previsti dalla legge, a meno che non vi siano interessi contrari dei minori stessi). In particolare, si deve richiamare, in motivazione, Sez. U, n. 22238/2009, Forte, Rv. 610007-01, relativa ad un procedimento ex art. 710 c.p.c. Negli stessi termini, si è chiaramente pronunciata Sez. 1, n. 07478/2014, Acierno, Rv. 630321-01, con riferimento a un giudizio riguardante l’affidamento e le modalità di visita di un figlio nato fuori del matrimonio. In tutto conforme alla decisione da ultimo menzionata è Sez. 1, n. 8100/2015, Bisogni, non massimata. La stessa posizione è stata da ultimo assunta in un’ordinanza interlocutoria infra richiamata (Sez. 1, n. 06384/2018, Tricomi L., non massimata).

Si deve però tenere presente che Sez. 1, n. 11554/2018, Campese, Rv. 648560-01, ha affermato che, in un procedimento nel quale si discuta dell’affidamento di un minore, la sussistenza del conflitto di interessi tra il figlio e genitori, ai fini della nomina del curatore speciale ex art. 78, comma 2, c.p.c. deve essere valutata in concreto, avuto riguardo all’incapacità, anche temporanea, di questi ultimi di tutelare la posizione del figlio, aggiungendo che la sussistenza del conflitto di interessi non si può desumere dalla mera conflittualità interna tra i medesimi genitori, ove risulti la loro piena capacità ed una buona relazione con il minore.

La pronuncia ha riguardato un caso in cui, in un giudizio sull’affidamento di un minore nato fuori del matrimonio, è stato disposto l’affidamento di quest’ultimo al servizio sociale (che, come sopra evidenziato, in un’altra pronuncia la S.C. ha ritenuto trattarsi di un provvedimento limitativo della responsabilità genitoriale).

La Corte di cassazione – muovendo dal presupposto che la generale previsione contenuta nell’art. 78, comma 2, c.p.c. deve integrarsi, in caso di minori, con gli artt. 3 e 12 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, nonché con gli artt. 4 e 9 della Convenzione di Strasburgo sull’esercizio dei diritti del fanciullo – ha affermato che la normativa convenzionale prevede la possibilità che la posizione del minore sia rappresentata autonomamente nei giudizi che lo riguardano (il riferimento è, in particolare, ai procedimenti relativi ad interventi sulla responsabilità genitoriale ed a quelli adottivi, riservando, tuttavia, ai legislatori nazionali di stabilirne le modalità). Ha poi aggiunto che la scelta operata dal legislatore italiano è stata quella di predeterminare alcune peculiari fattispecie, nelle quali è ipotizzabile in astratto, senza dover distinguere caso per caso, il conflitto d’interessi, con conseguente necessità di nomina del curatore speciale, a pena di nullità del procedimento per violazione dei principi costituzionali del giusto processo (cfr., ad esempio, l’art. 244 comma 6, c.c., l’art. 247, commi 2, 3 e 4, c.c., l’art. 248, commi 3 e 5, c.c., l’art. 249, commi 3 e 4, c.c., l’art. art. 264 c.c.) e, poi, di regolare con l’art. 78, comma 2, c.p.c. tutte le altre innominate e concrete ipotesi di conflitto d’interessi potenziale, che possano insorgere nei giudizi riguardanti i diritti dei minori, lasciando al giudice del merito di verificare in concreto l’esistenza di una potenziale situazione d’incompatibilità tra gli interessi del rappresentante e quello preminente del minore rappresentato.

Quest’ultima pronuncia conferma, per la prima volta in sede di legittimità, un orientamento della giurisprudenza di merito, che già da tempo aveva ritenuto di poter nominare un curatore speciale ai figli minori, nei giudizi instaurati (anche) per regolamentare l’affidamento e la visita dei figli, sia pure in ipotesi davvero eccezionali, ove le parti non risultino in grado di tutelare gli interessi dei loro figli, spesso in conseguenza di una conflittualità così elevata che finisce per pregiudicare la loro capacità di essere genitori.

20. Le misure sanzionatorie previste dall’art. 709-ter c.p.c.

Com’è noto, l’articolo 709-ter c.p.c. attribuisce al giudice la facoltà di adottare misure sanzionatorie nei confronti del genitore che abbia commesso gravi inadempienze o comunque atti che arrechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento delle modalità dell’affidamento. Il procedimento può essere avviato nel corso di uno dei processi indicati dall’art. 337-bis c.c., ma anche nel caso in cui non sia pendente alcuno di tali giudizi, purchè sia stato adottato un provvedimento che regolamenti l’affidamento dei figli.

È evidente che i provvedimenti in esame sono del tutto distinti da quelli adottati ai sensi degli artt. 330 e 333 c.c., essendo i primi volti a garantire l’attuazione della regolamentazione dell’affidamento mediante strumenti di coazione indiretta, mentre i secondi sono destinati ad adottare misure ablatorie o limitative della responsabilità genitoriale.

Le sanzioni che possono essere emanate sono, secondo un criterio di progressiva afflittività: a) l’ammonimento del genitore inadempiente; b-c) la condanna al risarcimento dei danni a carico del genitore inadempiente ed a favore dell’altro genitore o del minore; d) la condanna del genitore inadempiente al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria, quantificata nel minimo e nel massimo. Manca una tipizzazione legislativa delle ipotesi nelle quali, a fronte di un determinato inadempimento o comportamento, deve essere adottata una misura piuttosto che l’altra, talché la relativa valutazione è rimessa al potere discrezionale del giudice.

Proprio con riferimento a queste misure, e in particolare alla condanna al pagamento della sanzione amministrativa, Sez. 1, n. 16980/2018, Lamorgese, Rv. 649673-01, ha affermato che tale sanzione è suscettibile di essere applicata facoltativamente dal giudice nei confronti del genitore responsabile di gravi inadempienze e di “atti che comunque arrechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento delle modalità dell’affidamento”, anche se non è necessario l’accertamento in concreto di un pregiudizio subito dal minore, poiché l’uso della congiunzione disgiuntiva “od” evidenzia che l’avere ostacolato il corretto svolgimento delle prescrizioni giudiziali è un fatto che giustifica di per sé l’irrogazione della condanna, coerentemente con la funzione deterrente e sanzionatoria intrinseca alla norma richiamata.

21. La tutela dei rapporti dei minori con gli ascendenti e i loro conviventi.

Com’è noto, l’art. 371-bis, comma 2, c.c. attribuisce all’ascendente, al quale è impedito l’esercizio del diritto a mantenere rapporti significativi con il minore, di ricorrere al giudice della residenza abituale di quest’ultimo, perché siano adottati i provvedimenti più idonei nell’esclusivo interesse del medesimo. Ai sensi dell’art. 38 disp. att. c.c. la competenza a statuire su tali richieste è del tribunale per i minorenni.

Ai fini di una corretta delimitazione dell’ambito operativo di questa disposizione, si deve senza dubbio menzionare Sez. 1, n. 19780/2018, Valitutti, Rv. 649955-02, ove viene precisato che, alla luce dei principi desumibili dall’art. 8 CEDU, dall’art. 24, comma 2, della Carta di Nizza e dagli artt. 2 e 30 Cost., il diritto degli ascendenti, azionabile anche in giudizio, di instaurare e mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni, previsto dall’art. 317-bis c.c., cui corrisponde lo speculare diritto del minore di crescere in famiglia e di mantenere rapporti significativi con i parenti, ai sensi dell’art. 315-bis c.c., non va riconosciuto ai soli soggetti legati al minore da un rapporto di parentela in linea retta ascendente, ma anche ad ogni altra persona che affianchi il nonno biologico del minore, sia esso il coniuge o il convivente di fatto, e che si sia dimostrato idoneo ad instaurare con il minore medesimo una relazione affettiva stabile, dalla quale quest’ultimo possa trarre un beneficio sul piano della sua formazione e del suo equilibrio psico-fisico.

Si deve però tenere presente che, come precisato da Sez. 6-1, n. 15238/2018, Mercolino, Rv. 649149-01, il diritto previsto dall’art. 317-bis c.c., coerentemente con l’interpretazione dell’articolo 8 CEDU fornita dalla Corte EDU, non ha un carattere incondizionato, perché il suo esercizio è subordinato ad una valutazione del giudice, che deve considerare “l’esclusivo interesse del minore”. In questa ottica, la S.C. ha ritenuto che tale interesse sussiste – nel caso in cui i genitori dei minori contestino il diritto dei nonni a mantenere tali rapporti – quando il coinvolgimento degli ascendenti si sostanzi in una fruttuosa cooperazione con i genitori, per l’adempimento dei loro obblighi educativi, in modo tale da contribuire alla realizzazione di un progetto educativo e formativo, volto ad assicurare un sano ed equilibrato sviluppo della personalità del minore.

La Corte di cassazione ha infatti evidenziato, in motivazione, che l’obbligo per le autorità nazionali, derivante dall’art. 8 CEDU (rispetto della vita privata e familiare), non è assoluto, dovendo queste ultime tenere conto degli interessi e dei diritti e delle libertà di tutte le persone interessate, in particolare degli interessi del minore e dei diritti conferiti allo stesso dallo stesso art. 8 CEDU (cfr. Corte EDU, 29 giugno 2004, Volesky c. Repubblica Ceca; Corte EDU, 22 novembre 2005, Reigado Ramos c. Portogallo).

È per questo che, nella specie, la medesima Corte ha ritenuto che il giudice di merito avesse escluso il coinvolgimento dell’ascendente nell’adempimento degli obblighi educativi e formativi dei genitori con ampia e congrua motivazione, fondata sull’accertata riluttanza dei nipoti ad intrattenere relazioni con il nonno, in conseguenza dell’impressione negativa, suscitata dal comportamento inopportuno ed inquietante di quest’ultimo, solito ad appostarsi nei luoghi da loro frequentati e a seguirli con l’autovettura, nonché dell’incapacità, in tal modo manifestata di cogliere il disagio dei minori e di far prevalere il loro bisogno di serenità sulla propria esigenza d’interessarsi alla loro vita quotidiana.

Per quanto riguarda la questione dell’ammissibilità del ricorso straordinario per cassazione contro il provvedimento della Corte di appello, che statuisca in sede di reclamo nei procedimenti ex art. 317-bis c.c., si rinvia al Capitolo dedicato a tale mezzo di impugnazione.

22. La privazione del potere di rappresentanza legale e di gestione del patrimonio del minore.

Com’è noto, l’art. 334 c.c. prevede la rimozione dall’amministrazione, quale specifico rimedio contro la obiettiva inadeguatezza di uno o di entrambi i genitori nel gestire appropriatamente gli interessi economici del figlio. È per questo che Sez. 6-1, n. 18777/2018, Marulli, Rv. 649526-01, ha precisato che la rimozione dall’amministrazione del patrimonio del figlio presuppone la realizzazione da parte di uno o di entrambi i genitori di condotte concretamente pregiudizievoli per il minore, o comunque tali da rendere serio e concreto il rischio patrimoniale, secondo una valutazione improntata a criteri di oggettività, non essendo sufficienti situazioni di pericolo meramente potenziale o fondate su convinzioni o interessi soggettivi di colui che reclami l’intervento del giudice.

Si deve precisare che, in questi casi, al genitore rimane l’esercizio della responsabilità genitoriale per quanto attiene la cura personale del figlio.

23. Procedimenti ex art. 336 c.c. e questioni processuali.

Importanti pronunce sono state adottate dalla S.C. nel corso nell’anno 2018 in questa materia, in alcuni casi consolidando posizioni interpretative già espresse e in altri casi offrendo soluzioni a problematiche affrontate per la prima volta. In particolare, le decisioni hanno riguardato l’ambito di operatività della “competenza per attrazione”, la qualificazione dei genitori e del minore come parti necessarie del procedimento e i presupposti per la nomina di un curatore speciale di quest’ultimo.

Si deve tenere presente che, in relazione a tali questioni, si stanno formando orientamenti della giurisprudenza di legittimità solo di recente, perché, come già accennato, solo negli ultimi tempi la medesima giurisprudenza si è aperta all’ammissibilità del ricorso per cassazione ex art. 111, comma 7, Cost. contro le statuizioni assunte nei procedimenti ex art. 336 c.c. in sede di reclamo, in virtù di una giurisprudenza che, anche nel corso del 2018, non si è mostrata del tutto concorde, fino alla recentissima pronuncia a Sezioni Unite (Sez. U, n. 32359/2018, Sambito, Rv. 651820-01), come più approfonditamente illustrato nel Capitolo dedicato alla trattazione del ricorso straordinario per cassazione.

23.1. Limiti di operatività della competenza per attrazione del giudice ordinario.

Passando ad esaminare la prima delle questioni indicate, si deve senza dubbio richiamare Sez. 6-1, n. 20202/2018, Bisogni, Rv. 650198-01, ove la S.C. ha affermato che, ai sensi dell’art. 38 disp. att. c.c., come novellato dall’art. 3 della l. n. 219 del 2012, il tribunale per i minorenni resta competente a conoscere della domanda diretta ad ottenere la declaratoria di decadenza o la limitazione della potestà dei genitori ancorché, nel corso del giudizio, sia stata proposta, innanzi al tribunale ordinario, domanda di separazione personale dei coniugi o di divorzio.

In motivazione, la Corte ha peraltro evidenziato che tale soluzione si presenta aderente al dato letterale della norma, rispettosa del principio della perpetuatio iurisdictionis di cui all’art. 5 c.p.c., nonché coerente con ragioni di economia processuale e di tutela dell’interesse superiore del minore, che trovano fondamento nell’art. 111 Cost., nell’art. 8 CEDU e nell’art. 24 della Carta di Nizza (nello stesso senso, Sez. 6-1, n. 2833/2015, Bisogni, Rv. 634420-01).

23.2. I genitori come parti necessarie del procedimento.

Con riferimento alla posizione del genitore, assume fondamentale rilievo Sez. 1, n. 04099/2018, Acierno, Rv. 647061-01, ove la Corte di cassazione ha espressamente affermato che quest’ultimo è litisconsorte necessario, nei giudizi aventi ad oggetto la limitazione o ablazione della responsabilità genitoriale, e che pertanto è munito del pieno potere di agire, contraddire e impugnare le decisioni che producano effetti provvisori o definitivi sulla titolarità o sull’esercizio della predetta responsabilità (nella specie la S.C., cassando la decisione impugnata, ha ritenuto ammissibile il reclamo proposto dal padre avverso la sentenza che lo aveva dichiarato decaduto dalla responsabilità genitoriale).

In motivazione, la S.C. ha evidenziato che il giudizio sulla responsabilità genitoriale non può che svolgersi con ciascuno dei genitori (o il genitore superstite) nella qualità di parte, in quanto titolare ex lege del complesso di diritti e doveri di cui tale responsabilità si compone. Da ciò consegue che, senza la partecipazione del genitore, il giudizio sulla responsabilità genitoriale è tamquam non esset, non essendo costituito validamente il contraddittorio.

23.3. La partecipazione del minore e la nomina del curatore speciale.

Con riferimento alla posizione del minore, Sez. 1, n. 05256/2018, Cristiano, Rv. 647744-01, ha ritenuto che, nei giudizi riguardanti l’adozione di provvedimenti limitativi, ablativi o restitutivi della responsabilità genitoriale, riguardanti entrambi i genitori, l’art. 336, comma 4, c.c., così come modificato dall’art. 37, comma 3, della l. n. 149 del 2001, richiede la nomina di un curatore speciale, ex art. 78 c.p.c., ove non sia stato nominato un tutore provvisorio, sussistendo il conflitto d’interessi di entrambi i genitori. Ne consegue che, nell’ipotesi in cui non si sia provveduto a tale nomina, il procedimento deve ritenersi nullo ex art. 354, comma 1, c.p.c. con rimessione della causa al primo giudice perché provveda all’integrazione del contraddittorio.

In motivazione, la S.C. ha in primo luogo rilevato che, nei procedimenti in questione, il minore è senza dubbio parte in senso formale, richiamando gli argomenti utilizzati dalla Corte costituzionale nella sentenza interpretativa di rigetto n. 1 del 2002 (Corte cost., 30 gennaio 2002, n. 1), relativa a plurime censure formulate nei confronti dell’art. 336 c.c.

La medesima Corte ha poi affermato che, nei cd. giudizi de potestate, la posizione del figlio risulta sempre contrapposta a quella di entrambi i genitori, anche quando il provvedimento venga richiesto nei confronti di uno solo di essi, non potendo in questo caso stabilirsi ex ante la coincidenza e l’omogeneità dell’interesse del minore con quello dell’altro genitore (che potrebbe presentare il ricorso, o aderire a quello presentato da uno degli altri soggetti legittimati, per scopi meramente personali, o, per contro, in questa seconda ipotesi, chiederne la reiezione) e dovendo pertanto trovare applicazione il principio, più volte enunciato in materia, secondo cui è ravvisabile il conflitto di interessi tra chi è incapace di stare in giudizio personalmente e il suo rappresentante legale – con conseguente necessità della nomina d’ufficio di un curatore speciale che rappresenti ed assista l’incapace (art. 78, comma 2, c.p.c.) – ogni volta che l’incompatibilità delle loro rispettive posizioni è anche solo potenziale a prescindere dalla sua effettività.

Si consideri che, in via generale, con riferimento alla verifica del conflitto di interessi tra chi è incapace di stare in giudizio personalmente e il suo rappresentante legale, Sez. 6-3, n. 08438/2018, Sestini, Rv. 648701-01, ha da ultimo ritenuto che tale verifica vada operata in concreto, alla stregua degli atteggiamenti assunti dalle parti nella causa, e non in astratto ed ex ante, ponendosi una diversa soluzione in contrasto con il principio della ragionevole durata del processo (nella specie, la S.C. ha ritenuto esente da critiche la sentenza impugnata che aveva escluso, pur in assenza della nomina di un curatore speciale, la ricorrenza del conflitto tra la figlia minorenne ed i genitori, per essere stata l’azione revocatoria di donazione dei secondi in favore della prima notificata ad essi genitori quali legali rappresentanti, in considerazione dell’atteggiamento processuale dei donanti e di un interesse del tutto convergente con quello della donataria). Nello stesso senso, si è già pronunciata Sez. 2, n. 01721/2016, D’Ascola, Rv. 638532-01, ma l’orientamento precedente non era sulla stessa linea. Si consideri in particolare, Sez. 2, n. 13507/2002, Bucciante, Rv. 557413-01, ove la S.C. ha ritenuto sussistente il conflitto d’interessi tra chi è incapace di stare in giudizio personalmente e il suo rappresentante legale (nella specie, figlio minore e rispettivi genitori), ogni volta che l’incompatibilità delle rispettive posizioni è anche solo potenziale, a prescindere dalla sua effettività, con la conseguenza che la relativa verifica deve essere compiuta in astratto ed ex ante, secondo l’oggettiva consistenza della materia del contendere dedotta in giudizio, anziché in concreto ed a posteriori alla stregua degli atteggiamenti assunti dalle parti nella causa. Pertanto, in caso di omessa nomina di un curatore speciale, il giudizio è nullo per vizio di costituzione del rapporto processuale e per violazione del principio del contraddittorio.

Si deve comunque rilevare che, con ordinanza interlocutoria (che ha disposto la trattazione del procedimento in udienza pubblica e non camerale), Sez. 1, n. 06384/2018, Tricomi L., non massimata, in un identico caso di ricorso straordinario per cassazione avverso una pronuncia di decadenza dalla responsabilità genitoriale di entrambi i genitori, confermata in sede di reclamo, ha ritenuto di rinviare la causa a nuovo ruolo, per l’acquisizione di una relazione dell’Ufficio del Massimario, al fine di approfondire le questioni prospettate con il primo motivo di ricorso, riguardanti, con particolare attenzione alla posizione del minore, i profili relativi alla partecipazione necessaria di tutte le parti del procedimento e, con essi, quelli che interessano il carattere, le modalità di accesso e le forme della difesa tecnica ed anche la delimitazione del “concreto profilo di conflitto di interessi” rilevante ai fini della nomina del curatore speciale del minore, per evitare che venga accertato solo ex post, ed infine le conseguenze dell’inosservanza delle norme relative alla partecipazione, alla rappresentanza e alla difesa del minore. Il tema verrà pertanto presto affrontato da un’altra pronuncia della S.C.

24. La genitorialità solidale: gli sviluppi degli istituti adottivi.

La giurisprudenza del 2018 di questa Corte, nell’affrontare le questioni processuali e di diritto sostanziale legate all’adozione (sia relative all’adozione speciale che all’adozione in casi particolari), ha portato sempre più in avanti il confine della compatibilità della tutela del preminente interesse del minore con gli interessi degli altri soggetti interessati, a diverso titolo, alla vicenda adottiva. In tale ambito, in linea con la tendenza degli anni precedenti, ha assunto una particolare rilevanza la tutela della vita privata e familiare del minore di cui all’art. 8 CEDU, con la conseguente crescente rilevanza dell’effettività dei rapporti instaurati dal minore, piuttosto che dei meri vincoli parentali o genitoriali, quando non sono accompagnati da relazioni affettive significative. La tutela delle relazioni affettive già in essere e consolidate da parte del minore, in nome della tutela del suo preminente interesse, sulla scorta anche della giurisprudenza EDU, si è spinta fino ad affermare l’irrilevanza, in sede di riconoscimento di sentenze straniere di adozione, della circostanza che tali relazioni si siano consolidate nell’ambito di una famiglia costituita da una coppia dello stesso sesso.

24.1. Aspetti processuali.

Dal punto di vista processuale è espressione di questa tendenza, la conferma da parte di Sez. 6-1, n. 25408/2018, Lamorgese, Rv. 651352-01 di quanto già affermato in passato da Sez. 1 n. 04537/2008, Bernabei, Rv. 602195-01, nella parte in cui la S.C. ha ribadito che la proposizione dell’istanza di revoca del decreto di adottabilità non produce alcun effetto sospensivo dell’efficacia del decreto stesso, essendo necessario a tale ultimo fine l’accoglimento della predetta istanza, operante con effetto ex nunc, all’esito dell’accertamento dell’effettiva sopravvenienza dei fatti allegati, in quanto idonei a superare le condizioni di cui all’art. 8 della l. n. 184 del 1983. Ciò, come più diffusamente ha motivato la precedente pronuncia del 2008 appena richiamata, si giustifica in ragione della natura eccezionale dell’istituto potenzialmente lesivo, per la sua reiterabilità sine die, della certezza dei rapporti giuridici e della simmetrica stabilità dell’affidamento preadottivo.

È ispirata alla stessa logica Sez. 1, n. 16990/2018, Pazzi, Rv. 649691-01 che ha affermato il carattere decisorio e definitivo, oltre al valore sostanziale di sentenza con idoneità al giudicato, della pronuncia del tribunale per i minorenni sul riconoscimento del provvedimento straniero in materia di adozione, ancorché adottata in forma di decreto, con la conseguente inammissibilità della successiva domanda di revoca della pronuncia sopradescritta (nella specie, sia in primo che in secondo grado, il giudice di merito aveva rigettato la domanda di revoca, proposta dai genitori adottivi di una minore straniera, all’esito di un procedimento di adozione internazionale, conclusosi con il decreto di riconoscimento del provvedimento straniero sopraindicato, ma la S.C. ha ritenuto ab origine inammissibile tale domanda, con conseguente inammissibilità del ricorso per cassazione).

Esprime il riconoscimento dell’effettività dei rapporti del minore con gli adulti, piuttosto che l’astratta titolarità di relazioni parentali, Sez. 1, n. 26879/2018, Valitutti, Rv. 651447-01, in tema di notifica della sentenza che ha dichiarato lo stato di adottabilità, la quale, in linea con il consolidato orientamento più di recente espresso da Sez. 1, n. 18689/2015, Mercolino, Rv. 637107-01 e Sez. 1, n. 02863/1998, Luccioli, Rv. 513724-01, e interpretando il disposto dell’art. 15, comma 3, della l. n. 184 del 1983 alla luce dell’art. 12, comma 1, della stessa legge – ove è stabilito che devono essere sentiti nel procedimento per l’accertamento dello stato di abbandono i parenti entro il quarto grado, che abbiano mantenuto rapporti significativi con il minore – ha ribadito l’obbligo di notificare la sentenza dichiarativa dell’adottabilità solo a costoro (nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito, che aveva ritenuto irrilevante l’omessa notifica della sentenza di adottabilità ai fratelli ed alla nonna di una minore, avendo escluso il loro interessamento nei confronti della bambina, della quale nessuno di loro aveva chiesto di prendersi cura). Bene ha espresso la ratio di tale scelta Sez. 1 n. 02863/1998, Luccioli, Rv. 513724-01, laddove ha sottolineato che «il carattere vicariante della posizione dei congiunti diversi dai genitori ne comporta il coinvolgimento nel procedimento solo nei limiti in cui essi risultino attualmente titolari di rapporti affettivi forti e durevoli, tali, cioè, da consentir loro di offrire elementi essenziali per la valutazione dell’interesse del minore e, per altro aspetto, di prospettare soluzioni dirette ad ovviare allo stato di abbandono nell’ambito della famiglia di origine. Il dato materialistico comportamentale costituisce, pertanto, un elemento integrativo della fattispecie normativa che spiega influenza sul piano della stessa legittimazione ad essere convocati (nonché a ricevere, ai sensi degli artt. 15 e 17 della legge citata, la notificazione del decreto di adottabilità ed a proporre opposizione)».

Diversa è, naturalmente, la posizione della giurisprudenza quando si tratta di rispettare il diritto dei genitori del minore, della cui dichiarazione di adottabilità si discute, a ricevere la notifica della pronuncia di adottabilità assunta nel procedimento di secondo grado, essendo litisconsorti necessari nel giudizio. Al riguardo Sez. 1 n. 18148/2018, Sambito, Rv. 649903-01, in linea con il precedente orientamento già espresso da Sez. 1 n. 14554/2011, Giancola, Rv. 618600-01, ha ribadito, in tema di procedimento per lo stato di adottabilità che, il titolo II della l. n. 184 del 1983, nel testo novellato dalla l. n. 149 del 2001, che riflette anche principi sovranazionali (artt. 3, 9, 12, 14, 18, 21 della Convenzione di New York del 20 novembre 1989, ratificata con la l. n. 176 del 1991; artt. 9 e 10 della Convenzione Europea sui diritti del fanciullo, stipulata a Strasburgo il 25 gennaio 1996 e ratificata con la l. n. 77 del 2003; art. 24 della Carta di Nizza), attribuisce ai genitori del minore una legittimazione autonoma, connessa ad un’intensa serie di poteri, facoltà e diritti processuali, atta a fare assumere la veste di parti necessarie e formali dell’intero procedimento di adottabilità, anche nel giudizio di appello e sebbene non si siano costituiti in primo grado. Da ciò consegue la necessità di integrare il contraddittorio nei loro confronti, ove non abbiano proposto il gravame, senza che possa ritenersi a tal fine sufficiente la sola notificazione, attuata d’ufficio, del decreto presidenziale di fissazione dell’udienza di discussione dell’appello, che non consente la conoscenza del contenuto dell’altrui ricorso ed il compiuto esercizio del loro diritto di difesa.

D’altronde, Sez. 1, n. 16060/2018, Valitutti, Rv. 649474-01, ha pure precisato che il genitore dichiarato decaduto dalla responsabilità genitoriale può opporsi alla dichiarazione di adottabilità del figlio minore, poiché la sua legittimazione non è espressione della rappresentanza legale del figlio, ma è espressione dell’interesse dell’ordinamento alla tendenziale conservazione della famiglia naturale, in modo tale che, una volta revocata la dichiarazione di adottabilità, il genitore possa attivarsi per il recupero del rapporto con il figlio e, conseguito tale scopo, richiedere la reintegra nella responsabilità genitoriale ex art. 332 c.c.

In tema di ricorso per cassazione avverso la sentenza d’appello che dichiara l’adottabilità, va menzionata Sez. 1, n. 16857/2018, Pazzi, Rv. 649783-02, con la quale la S.C. ha stabilito che il deposito in cancelleria della copia autentica della sentenza impugnata, recante il timbro della cancelleria attestante l’intervenuta irrevocabilità della decisione, a seguito della mancata proposizione del ricorso per cassazione ex art. 325 c.p.c., è idonea ad attestare, per implicito, anche l’avvenuta notificazione alle parti della decisione della corte d’appello, effettuata ai sensi dell’art. 17 della l. n. 184 del 1983, essendo eventualmente onere del ricorrente dimostrare l’esistenza in fatto di circostanze che avrebbero potuto sovvertire l’inevitabile constatazione dell’avvenuto spirare dei termini, quali ad es. l’avvenuta notifica della sentenza in versione non integrale. Nella medesima pronuncia (Sez. 1, n. 16857/2018, Pazzi, Rv. 649783-01), la Corte ha inoltre affermato che la notificazione d’ufficio della sentenza della Corte d’appello, effettuata ai sensi dell’art. 17, comma 1, della l. n. 184 del 1983, è idonea a far decorrere il termine breve d’impugnazione di cui al successivo comma 2 del medesimo articolo, tenuto conto che la natura di lex specialis, da riconoscere alla previsione di detto termine, induce ad escludere l’applicabilità della norma generale di cui all’art. 133 c.p.c., senza che abbia alcun rilievo la circostanza che la notificazione sia avvenuta mediante strumenti telematici, atteso il chiaro tenore dell’art. 16, comma 4, del d.l. n. 179 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 221 del 2012, posto che il principio accelleratorio, sotteso alla disciplina in esame, trova la sua ratio nella preminente esigenza di assicurare la più rapida definizione dello status del minore, senza sacrificare in misura apprezzabile il diritto di difesa delle parti ricorrenti, sottoposto, in definitiva, solo ad un modesto maggiore onere (nello stesso senso, già Sez. 1, n. 10106/2018, De Chiara, Rv. 648552-01).

In tema di remissione in termini per la proposizione del ricorso in cassazione avverso la sentenza di appello, avente ad oggetto la dichiarazione di adottabilità del minore, Sez. 1, n. 30512/2018, Iofrida, Rv. 651875-01, in linea con quanto già affermato da Sez. 1, n. 8216/2013, Carleo, Rv. 625831-01, nel ribadire i principi generali sull’interpretazione dell’art. 153, comma 2 c.p.c., in base ai quali l’istituto della rimessione in termini, astrattamente applicabile anche al giudizio di cassazione, presuppone la sussistenza in concreto di una causa non imputabile, riferibile ad un evento che presenti il carattere dell’assolutezza – e non già un’impossibilità relativa, né tantomeno una mera difficoltà – che sia in rapporto causale determinante con il verificarsi della decadenza in questione, ha escluso la rimessione in termini del genitore, che aveva impugnato tardivamente per cassazione la sentenza, che aveva dichiarato lo stato di adottabilità delle figlie minori , sebbene la decisione fosse stata regolarmente comunicata all’indirizzo PEC del suo difensore, allegando la difficoltà di averne effettiva conoscenza, in ragione del proprio stato di detenzione, del suo essere apolide di fatto e della scarsa dimestichezza con la lingua italiana.

Da ultimo, in relazione alla facoltà attribuita alla madre naturale, che non abbia riconosciuto il figlio al momento del parto, di chiedere la sospensione del procedimento abbreviato di adozione per poter procedere al riconoscimento ex art. 11, comma 2, della l. n. 184 del 1983, deve essere menzionata Sez. 1, n. 31196/2018, Pazzi, Rv. 651926-01, che si è occupata di un caso in cui, in modo anomalo, erano stati trattati in due diversi procedimenti, da un lato, la richiesta di sospensiva del procedimento di adozione del minore per il suo riconoscimento, e dall’altro, il procedimento per la sua dichiarazione di adottabilità. In sede di impugnazione della sentenza che aveva rigettato l’istanza di sospensiva, e dichiarato inammissibile il riconoscimento del figlio minore, la corte d’appello, pur avendo riconosciuto che il tribunale era addivenuto alla pronuncia di inammissibilità e di rigetto in mancanza dei presupposti di legge, aveva tuttavia ritenuto che la sopravvenuta declaratoria di adottabilità del minore in altro procedimento avesse fatto venir meno l’interesse della madre all’impugnativa del rigetto della domanda di sospensione. La S.C. ha cassato con rinvio la sentenza di merito, affermando che il riconoscimento materno dopo il parto in anonimato non era precluso dalla sopravvenuta declaratoria di adottabilità del minore, preclusione che si sarebbe verificata solo nel caso in cui a tale declaratoria fosse seguito l’affidamento preadottivo, che nella specie non vi era stato.

24.2. Lo stato di abbandono.

Passando ad esaminare le questioni di diritto sostanziale, si deve evidenziare che il concetto di “stato di abbandono”, espresso dalla giurisprudenza di questa Corte, ha visto confermarsi, in coerenza con il quadro normativo interno ed internazionale, che tutela il prioritario diritto del minore di crescere ed essere educato nella propria famiglia, il principio secondo cui l’interruzione dei rapporti del minore con la propria famiglia di origine costituisce una estrema ratio, potendosi addivenire alla rescissione del vincolo genitoriale solo dopo che sia stato operato ogni possibile tentativo, da parte di tutti gli organi pubblici preposti alla tutela dei minori, di recuperare o supportare capacità genitoriali assenti o carenti (in tal senso v. Sez. 1 n. 22589/2017, Bisogni, Rv. 645519-01). Per altro verso è stato affermato come il tempo necessario a verificare il recupero di tali capacità non sia una variabile indipendente dai tempi di crescita psicologica ed emotiva del minore.

In tal senso, Sez. 1 n. 07559/2018, Di Marzio M., Rv. 648444-01 ha ribadito che il ricorso alla dichiarazione di adottabilità costituisce solo una “soluzione estrema”, perché il diritto del minore a crescere ed essere educato nella propria famiglia d’origine, quale ambiente più idoneo al suo armonico sviluppo psicofisico, è tutelato in via prioritaria dall’art. 1 della l. n. 184 del 1983. La Corte ha inoltre precisato che il giudice di merito deve operare un giudizio prognostico teso, in primo luogo, a verificare l’effettiva ed attuale possibilità di recupero delle capacità e competenze genitoriali, con riferimento sia alle condizioni di lavoro, reddituali ed abitative (senza però che esse assumano valenza discriminatoria), sia a quelle psichiche, da valutarsi, se del caso, mediante specifica indagine peritale, estendendo detta verifica anche al nucleo familiare, di cui occorre accertare la concreta possibilità di supportare i genitori e di sviluppare rapporti con il minore, anche avvalendosi dell’intervento dei servizi territoriali.

Nel sottolineare come il giudizio del giudice del merito debba essere ancorato a puntuali riscontri fattuali, che abbiano al centro sempre il preminente interesse del minore, Sez. 1, n. 04097/2018, Lamorgese, Rv. 647237-01 (conf. Sez. 1 n. 04545/2010, Dogliotti, Rv. 612789-01) ha affermato che sussiste la situazione d’abbandono, non solo nei casi di rifiuto intenzionale dell’adempimento dei doveri genitoriali, ma anche qualora la situazione familiare sia tale da compromettere in modo grave e irreversibile un armonico sviluppo psico-fisico del bambino, considerato in concreto – ossia in relazione al suo vissuto, alle sue caratteristiche fisiche e psicologiche, alla sua età, al suo grado di sviluppo e alle sue potenzialità – con la conseguente irrilevanza della mera dichiarazione dei genitori di volere accudire il minore, in assenza di concreti riscontri positivi in ordine all’effettivo mutamento del loro stile di vita.

Sez. 1, n. 16357/2018, Di Marzio P., Rv. 649782-01, ha poi posto in luce come la necessità di garantire prioritariamente il diritto del minore a vivere nella propria famiglia e la necessità di esperire tutti i tentativi di aiuto e di sostegno alle capacità genitoriali debbano essere bilanciati con i tempi e le necessità psicologiche del minore, in relazione alle sue diverse fasi di crescita e come, quindi, la pronuncia della dichiarazione di adottabilità non sia esclusa quando, nonostante l’impegno profuso dai genitori per superare le loro difficoltà personali e genitoriali, permanga tuttavia l’incapacità di elaborare un progetto di vita per i figli, che si mostri credibile, senza la possibilità di prevedere l’adeguato recupero delle capacità genitoriali in tempi compatibili con l’esigenza dei minori di poter conseguire una equilibrata crescita psico-fisica.

Una volta esclusa la capacità genitoriale o la possibilità del suo recupero in tempi certi e compatibili con le necessità di crescita del minore, Sez. 1, n. 03915/18, Genovese, Rv. 647147-01 ha ribadito che la natura personalissima dei diritti coinvolti e il principio secondo cui l’adozione ultrafamiliare costituisce l’extrema ratio impongono di valutare anche le figure vicariali dei parenti più stretti, che abbiano rapporti significativi con il bambino e si siano resi disponibili alla sua cura ed educazione, specificando, tuttavia che la valutazione dell’idoneità di tali rapporti deve essere effettuata solo attraverso la considerazione di dati oggettivi, quali le osservazioni dei servizi sociali che hanno monitorato l’ambito familiare o eventualmente il parere di un consulente tecnico (nella specie, la S.C. ha cassato la decisione di merito che aveva escluso l’idoneità di uno zio ad occuparsi del nipote minore soltanto in ragione della sua giovane età e della sua condizione di lavoratore dipendente). Anche Sez. 1, n. 09021/2018, Acierno, Rv. 648885-01 ha sottolineato la necessità che l’idoneità delle c.d. “figure vicariali” sia legata all’obiettività dei rapporti intercorrenti con il minore e che, così come per il recupero delle capacità genitoriali, anche le potenzialità di recupero di tali relazioni possano avere rilevanza, al fine di escludere lo stato di abbandono, solo se tali potenzialità non siano traumatiche per i minori e realizzabili in tempi compatibili con lo sviluppo equilibrato della loro personalità.

Un profilo particolare, è quello affrontato da Sez. 1, n. 01431/2018, Lamorgese, Rv. 646854-01, ove la S.C. ha escluso che lo stato detentivo di lunga durata di entrambi i genitori costituisca una causa di forza maggiore non transitoria, che oggettivamente impedisca un adeguato svolgimento delle funzioni genitoriali, incidendo negativamente sul diritto del bambino di vivere in un contesto unito e sereno negli anni più delicati della sua crescita. Sul tema, in precedenza già Sez. 6-1, n. 26624/17, Mercolino, Rv. 646766-01, e Sez. 1, n. 19735/2015, Mercolino, Rv. 637312-01, entrambi con riferimento allo stato detentivo dell’unico genitore, avevano affermato il medesimo principio, anche se l’ultima delle pronunce indicate aveva dato rilievo, per escludere la dichiarazione dello stato di adottabilità del minore, al fatto che il genitore, nonostante la detenzione, si fosse preoccupato di assicurare al minore l’assistenza morale e materiale, affidandolo a parenti in grado di prendersene cura.

24.3. L’adozione in casi particolari.

Sul tema della rilevanza del dissenso del genitore biologico all’adozione in casi particolari del figlio, prevista dall’art. 46 l. n. 184 del 1983, assume grande rilievo Sez. 1, n. 18827/2018, Campese, Rv. 649680-01, che segna una puntualizzazione di quanto in precedenza affermato da questa Corte sull’argomento.

In tale decisione la Corte di cassazione ha prima di tutto sottolineato che il precedente più vicino, costituito da Sez. 1, n. 18575/2015, Campese, Rv. 636865-01 (ove è stata esclusa l’efficacia preclusiva all’adozione del dissenso del genitore, quando quest’ultimo sia mero titolare della responsabilità genitoriale, senza che ne abbia il concreto esercizio in virtù di un rapporto effettivo con il minore, di regola caratterizzato dalla convivenza), ha riguardato un caso particolare, in cui la madre non aveva avuto alcun rapporto con la figlia adottanda, se non in epoca recente (mediante incontri protetti), mentre, nel caso sottoposto alla sua attenzione, la madre, pur non convivendo con il figlio, aveva manifestato un concreto interesse al recupero del rapporto con il medesimo, visitandolo periodicamente, mentre gli adottanti avevano assunto un comportamento non conforme allo spirito dell’affido e dell’adozione speciale, cercando di escluderla dal rapporto con il ragazzo, estromettendola progressivamente dalla vita affettiva di quest’ultimo.

La medesima Corte ha inoltre posto in evidenza come il precedente indirizzo, espresso da Sez. 1, n. 18575/2015, Campese, Rv. 636865-01, si ponesse comunque in contrasto con Sez. 1, n. 10265/2011, Campanile, Rv. 618035-01, che aveva invece affermato l’efficacia preclusiva del dissenso all’adozione del genitore, anche se non convivente con il minore, dovendo comunque ritenersi anche in questo caso “esercente la potestà” (ora “responsabilità”) genitoriale, in considerazione del fatto che non è la convivenza l’elemento sintomatico necessario per verificare l’esistenza di un effettivo rapporto con il minore, che invece si desume dalle concrete modalità di svolgimento delle relazioni tra genitore e figlio anche se non conviventi tra loro. Alla luce di tali premesse dunque, la Corte di cassazione ha affermato che, di regola, il dissenso manifestato dal genitore titolare della responsabilità genitoriale, anche se non convivente con il figlio minore, ha efficacia preclusiva ai sensi dell’art. 46, comma 2, della l. n. 184 del 1983, a meno che non sia accertata la disgregazione del contesto familiare d’origine del minore in conseguenza del protratto venir meno del concreto esercizio di un rapporto effettivo con il minore da parte del genitore dissenziente.

24.4. Il riconoscimento delle sentenze straniere di adozione, l’ordine pubblico e l’interesse del minore.

Di fondamentale importanza per i principi affermati, sia dal punto di vista sostanziale che dal punto di vista processuale, ed in linea con la precedente giurisprudenza di questa Corte, è infine Sez. 1, n. 14007/2018, Iufrida, Rv. 649527-01 e Rv. 649527-01, riguardante il caso in cui due donne cittadine francesi (una delle due anche cittadina italiana), coniugate tra loro in Francia e residenti in Italia, avevano chiesto il riconoscimento nel nostro Paese delle due sentenze che avevano pronunciato l’adozione piena del figlio biologico di ciascuna da parte dell’altra.

La S.C. ha, in primo luogo, affermato che la fattispecie non rientra nei casi di adozione internazionale, escludendo pertanto la competenza del tribunale per i minorenni a decidere sulla domanda di riconoscimento, per essere invece sussistente la competenza della corte d’appello ai sensi dell’art. 41, comma 1, della l. n. 218 del 1995, che richiama l’art. 64 e ss. della medesima legge (Sez. 1, n. 14007/2018, Iufrida, Rv. 649527-01).

In secondo luogo, la stessa Corte ha ritenuto la non contrarietà all’ordine pubblico di tali sentenze straniere, ritenute pertanto trascrivibili nei registri dello stato civile italiano, «poiché, ai sensi dell’art. 24 della Convenzione dell’Aja sulla protezione dei minori e la cooperazione in materia di adozione internazionale del 1993, il riconoscimento dell’adozione può essere rifiutato da uno Stato contraente solo se, tenuto conto dell’interesse superiore del minore, essa sia manifestamente contraria all’ordine pubblico. Tale interesse, nella specie già vagliato dal giudice straniero, coincide con il diritto del minore al mantenimento della stabilità della vita familiare consolidatasi con entrambe le figure genitoriali, senza che abbia rilievo la circostanza che le stesse siano rappresentate da una coppia dello stesso sesso, non incidendo l’orientamento sessuale sull’idoneità dell’individuo all’assunzione della responsabilità genitoriale» (Sez. 1, n. 14007/2018, Iufrida, Rv. 649527-02).

Quanto a quest’ultimo principio, la Corte ha richiamato quanto già espresso da Sez. 1, n. 19599/2016, Lamorgese, Rv. 641314-01, che – in tema di trascrivibilità in Italia di un atto di nascita straniero di un figlio nato da due donne, delle quali l’una aveva donato l’ovulo e l’altra aveva partorito il bambino – aveva già precisato che il giudizio di compatibilità con l’ordine pubblico, ai sensi degli artt. 64 e ss. della l. n. 218 del 1995, deve essere finalizzato, non già ad introdurre direttamente in Italia la legge straniera, come fonte autonoma ed innovativa di disciplina della materia, ma esclusivamente a riconoscere effetti in Italia a uno specifico atto o provvedimento straniero, relativo ad un particolare rapporto giuridico tra determinate persone, ove la nozione di ordine pubblico è comunque circoscritta ai soli principi supremi o fondamentali e vincolanti della carta costituzionale (e fra questi, quello dell’interesse superiore del minore che trova riconoscimento nell’ordinamento interno ed internazionale), con esclusione delle norme costituenti esercizio della discrezionalità legislativa in materie connesse o direttamente implicate (come la disciplina sulle unioni civili, di cui alla l. n. 76 del 2016). La stessa Corte ha poi precisato che l’art. 24 della Convenzione dell’Aja del 1993 per la tutela dei minori e la cooperazione in materia di adozione internazionale, ratificata in Italia con la l. n. 476 del 1998, prevede che il riconoscimento dell’adozione può essere rifiutato da uno Stato contraente solo se l’adozione è manifestamente contraria all’ordine pubblico, tenuto conto dell’interesse superiore del minore, che opera necessariamente come limite alla valenza della clausola di ordine pubblico, valutata alla luce del caso concreto.

La statuizione in esame, facendo richiamo a Sez. 1 n. 15202/2017, Acierno, non massimata, e al precedente orientamento, espresso da Sez. 1, n. 12962/2016, Acierno, Rv. 640133-01 (pronunce che, in relazione alla richiesta di adozione in casi particolari del minore, figlio naturale del partner dello stesso sesso del richiedente, hanno escluso, tra l’altro, che ai fini dell’indagine sull’interesse del minore possa avere rilievo, anche indiretto, l’orientamento sessuale del richiedente) ha così affermato, ai fini dell’esclusione del contrasto con il preminente interesse dei minori, la rilevanza del loro inserimento nel contesto di una famiglia costituita da una coppia omosessuale.

25. Lo stato di figlio.

Nelle controversie relative all’attribuzione dello stato di filiazione, la giurisprudenza è chiamata a un delicato bilanciamento tra i diversi interessi. In particolare, quello del minore, che pure assume un ruolo cruciale, può talvolta entrare in contrasto con valori di rango superiore o esso stesso assumere connotati oggettivi e venature pubblicistiche.

Prima di analizzare in dettaglio i possibili conflitti con il principio di veridicità dello status di figlio (v. infra), occorre anzitutto chiarire che l’interesse del minore all’accertamento della genitorialità (in particolare, la paternità) è principalmente quello al miglioramento obiettivo della sua situazione giuridica in conseguenza degli obblighi che ne derivano in capo al genitore, ma che il riferimento a detto interesse, così connotato, non può essere utilizzato come alibi per sottrarsi a tali obblighi da parte del convenuto nel giudizio di accertamento. Lo ha accuratamente ribadito Sez. 1, n. 16356/2018, Valitutti, Rv. 649781-01, precisando come, nell’azione di accertamento giudiziale della paternità, sia necessario, per negare l’attribuzione dello status sulla base del presunto contrasto con l’interesse del minore, che il contrasto sia serio e concreto, tale da giustificare una dichiarazione di decadenza dalla responsabilità genitoriale, ovvero che vi sia prova dell’esistenza di gravi rischi per l’equilibrio affettivo e psicologico del minore oltre che per la sua collocazione sociale, risultanti da fatti obiettivi, emergenti dalla pregressa condotta di vita del preteso padre. Non rilevano dunque, al fine di escludere la ricorrenza dell’interesse del minore, l’attuale mancanza di rapporti affettivi con il genitore e la possibilità futura di instaurarli o, ancora, le normali difficoltà di adattamento psicologico conseguenti al nuovo status, né tantomeno le intenzioni manifestate dal presunto genitore di non voler adempiere i doveri morali inerenti alla responsabilità genitoriale.

Si tratta di una logica non dissimile da quella per cui la legittimazione all’azione di accertamento della paternità spetta solo a colui che assume la filiazione, sì da rendere inammissibile la proposizione in via incidentale di un’azione di accertamento negativo della propria paternità, nell’ambito di un giudizio per il risarcimento dei danni proposto nei confronti di colui che reclama lo status di figlio in altro giudizio di accertamento giudiziale della paternità (Sez. 1, n. 18007/2018, Caiazzo, Rv. 649901-01).

Né il genitore di sesso maschile può difendersi, nel giudizio intentato contro di lui per l’accertamento della paternità, invocando il proprio diritto all’anonimato. Sulla scorta di una giurisprudenza consolidata, Sez. 1, n. 32308/2018, Caiazzo, Rv. 651931-01, ha infatti ribadito che la posizione del padre, il quale rifiuti di assumere la paternità, non è assimilabile a quella della madre, la cui possibilità di non risultare tale, e al limite di interrompere la gravidanza, è garantita dal legislatore al preminente scopo di salvaguardarne la salute psico-fisica e dunque in nome di valori costituzionali, che nel caso del padre non ricorrono.

In particolare, nella pronuncia appena richiamata, la S.C. ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 269 c.c., che attribuisce la paternità in base al mero dato biologico, senza alcun riguardo alla volontà contraria alla procreazione del presunto padre, sollevata con riferimento all’art. 3 Cost., in ragione della disparità di trattamento che ne risulterebbe in danno dell’uomo rispetto alla donna, alla quale la l. n. 194 del attribuisce la responsabilità esclusiva di interrompere la gravidanza ove ne ricorrano le condizioni giustificative. Le situazioni poste a confronto non sono comparabili, non potendo l’interesse della donna alla interruzione della gravidanza essere assimilato all’interesse di chi, rispetto alla avvenuta nascita del figlio fuori del matrimonio, pretenda di sottrarsi, negando la propria volontà diretta alla procreazione, alla responsabilità di genitore, in contrasto con la tutela che la Costituzione riconosce alla filiazione (art. 30 Cost.).

Sempre in tema di azione per l’accertamento giudiziale della paternità, Sez. 1, n. 32309/2018, Caiazzo, Rv. 651932-01, ha ritenuto che l’art. 273 c.c., nel contemplare l’esperibilità di detta azione da parte del genitore esercente la responsabilità genitoriale, nell’interesse del figlio minore, configuri un’estensione del potere di rappresentanza ex lege spettante al genitore e miri a tutelare esclusivamente il minore in base alla presunzione di un suo interesse all’accertamento dello status. La S.C. ha aggiunto che non occorre che vi sia l’espressa dichiarazione di agire in nome e per conto del figlio, o comunque nell’interesse dello stesso, rendondosi sufficiente che, dal contesto complessivo dell’atto, emerga che il genitore operi in tal senso.

Nella medesima pronuncia appena richiamata, la Corte di cassazione ha effettuato un’altra importante affermazione, laddove ha precisato che, nel caso in cui il minore compia dodici anni nel corso del processo, deve trovare applicazione la norma generale prevista dall’art. 336-bis c.c., nel testo riformulato in sede di riforma della filiazione. Il minore ultradodicenne deve essere perciò ascoltato, salvo che l’ascolto non sia manifestamente superfluo o sia nocivo per l’interesse dello stesso minore. Non avendo il giudice di merito motivato sul punto, la S.C. ha dichiarato la nullità della sentenza, richiamando l’importanza che l’audizione del minore riveste alla luce anche delle convenzioni internazionali sui diritti del fanciullo.

Passando invece all’analisi delle azioni poste a disposizione del genitore per negare la paternità, un’importante delimitazione è stata operata da Sez. 1, n. 04194/2018, Di Marzio P., Rv. 647626-01, ove si precisa che non può parlarsi di disconoscimento di paternità, quando non operi la presunzione di paternità ex art. 232 c.c. e il figlio sia nato da genitori non uniti in matrimonio, senza che ne sia successivamente intervenuto il riconoscimento. In tal caso, l’unica azione a disposizione del padre è quella “residuale”, prevista dall’art. 248 c.c., di contestazione dello stato di figlio (nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata, ritenendo che quest’ultima avesse erroneamente qualificato come disconoscimento di paternità l’azione con la quale, colui che all’anagrafe figurava essere il padre di un minore, nato dopo anni dalla pronuncia della sua separazione dalla madre, e non riconosciuto, contestava la veridicità delle risultanze anagrafiche).

Quanto all’azione di disconoscimento vera e propria, Sez. 1, n. 03263/2018, Tricomi L., Rv. 646883-01, è intervenuta sulla questione della decorrenza del termine annuale di decadenza previsto dall’art. 244 c.c., precisando che la scoperta dell’adulterio commesso all’epoca del concepimento va intesa come acquisizione certa della conoscenza (e non come mero sospetto) di un fatto rappresentato o da una vera e propria relazione, o da un incontro, comunque sessuale, idoneo a determinare il concepimento del figlio che si vuole disconoscere, non essendo sufficiente la mera infatuazione, la mera relazione sentimentale o la frequentazione della moglie con un altro uomo (nella specie la S.C. ha confermato la sentenza di appello che aveva riconosciuto la tempestività della domanda di disconoscimento della paternità, ritenendo che, pur risultando una pregressa conoscenza dell’adulterio da parte dell’attore, solo all’esito dell’espletamento della prova del DNA questi ne avesse acquisito la certezza).

Sul versante invece del giudizio di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità ex art. 263 c.c., la giurisprudenza del 2018 si è soffermata sugli aspetti che vengono di seguito evidenziati.

Sez. 1, n. 20953/2018, Campese, Rv. 650228-01, ha affermato che il presunto padre naturale non è legittimato ad intervenire nel giudizio di impugnazione del riconoscimento, né in qualità di interveniente autonomo né di interveniente adesivo, essendo egli portatore di un mero interesse di fatto all’esito del processo, e non di un interesse giuridico a sostenere le ragioni dell’una o dell’altra parte, direttamente correlato ai vantaggi ed agli svantaggi che il giudicato potrebbe determinare nella sua sfera giuridica.

Qualora poi l’impugnazione riguardi più minori (da ritenersi litisconsorti necessari, come precisato da Sez. 1, n. 01957/2016, Acierno, Rv. 638384-01), non sempre è necessario nominare curatori diversi per ciascuno di essi, sorgendo tale necessità sorge solo nel caso in cui, tra i figli, si verifichi un conflitto d’interessi anche potenziale (Sez. 1, n. 20940/2018, Di Marzio P., Rv. 650225-01).

Da ultimo, va solo richiamata Sez. 1, n. 27925/2018, Bisogni, Rv. 651124-01, sugli effetti (del riconoscimento o) della dichiarazione giudiziale della filiazione sull’acquisto della cittadinanza, più ampiamente illustrata nel Capitolo III.

26. Il bilanciamento tra favor veritatis e genitorialità intenzionale dopo Corte cost. n. 272 del 2017.

Nel riconoscimento dello stato di filiazione, il favor veritatis continua a rivestire un ruolo decisivo nella giurisprudenza di legittimità e tende tuttora a prevalere sulla genitorialità sociale o intenzionale.

Ne costituiscono prova le pronunce della S.C. che, di recente, hanno dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 270 c.c. nella parte in cui prevede l’imprescrittibilità dell’azione per il riconoscimento di paternità naturale proposta dal figlio, con l’effetto di sacrificare il diritto del presunto padre alla stabilità dei rapporti familiari maturati nel corso del tempo, atteso che la mancata previsione di un termine, soprattutto alla luce della previgente norma che lo prevedeva, non significa che un bilanciamento con la contrapposta tutela del figlio sia mancato, ma solo che esso è stato operato rendendo recessiva l’aspettativa del padre rispetto alle esigenze di vita e di riconoscimento dell’identità personale del figlio (Sez. 1, n. 07960/2017, De Marzo, Rv. 644834-01; nello stesso senso, Sez. 1, n. 24292/2016, Lamorgese, Rv. 642802-01).

Sempre in nome del favor veritatis si assiste a una sostanziale assimilazione, sul piano probatorio, tra le due diverse azioni, di disconoscimento della paternità e di impugnazione del riconoscimento del figlio naturale per difetto di veridicità. Come già affermato da Sez. 1, n. 30122/2017, Di Marzio P., Rv. 646848-01, e ribadito da Sez. 1, n. 18140/2018, Sambito, Rv. 649896-01, l’azione di impugnazione del riconoscimento non postula più la dimostrazione della assoluta impossibilità che il soggetto, che abbia inizialmente compiuto il riconoscimento, sia, in realtà, il padre biologico del soggetto. Così come accade nel disconoscimento della paternità, il fine di entrambe le azioni è quello di giungere al la privazione sopravvenuta di tale status per cause estranee alla sfera di volontà e responsabilità del soggetto destinato a subirne gli effetti. Di qui un alleggerimento del carico probatorio.

Vi sono peraltro settori nei quali si registra un’attenuazione dell’importanza del criterio di veridicità. La recente riforma della filiazione offre segnali in tale direzione. In base al nuovo testo dell’art. 263 c.c., l’autore del riconoscimento ha oggi termini più stringenti per proporre l’impugnazione del riconoscimento.

Il favor veritatis oppone tuttavia una certa resistenza, se è vero che nella giurisprudenza di legittimità si è affermato che, in base alla disciplina transitoria della filiazione, prevista dall’art. 104, commi 7 e 9, del d.lgs. n. 154 del 2013, «mentre la normativa sostanziale di cui al novellato art. 244 cod. civ. si applica a tutte le azioni su cui la riforma è intervenuta, anche se relative a figli nati prima della data di entrata in vigore (7 febbraio 2014) del citato decreto, i nuovi termini di cui al quarto comma della medesima disposizione codicistica operano solo per i figli già nati alla predetta data per i quali non sia stata già proposta l’azione di disconoscimento (persistendo altrimenti l’utilizzabilità del regime decadenziale pregresso), fermi, in entrambe le ipotesi, gli effetti del giudicato formatosi prima della entrata in vigore della legge 10 dicembre 2012, n. 219» (Sez. 1, n. 03834/2017, Campanile, non massimata).

Da segnalare, per la sua incidenza su quell’esempio di potenziale contrasto tra genitorialità fondata sui legami biologici e genitorialità d’intenzione, che è dato dall’istituto dell’adozione, è poi Sez. 1, n. 31196/2018, Pazzi, Rv. 651926-01. La S.C. ha qui chiarito che la madre biologica, la quale abbia scelto l’anonimato al momento del parto, conserva il diritto di effettuare il riconoscimento del figlio, avente carattere indisponibile, e che tale diritto non è precluso, ai sensi dell’art. 11, ult. comma, l. n. 184 del 1983, dalla sopravvenuta declaratoria di adottabilità del minore, a meno che alla stessa non sia seguito l’affidamento preadottivo del minore.

Ma il principale fattore di crisi della centralità del criterio in esame è dato dalla diffusione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita. Le regole contenute nella l. n. 40 del 2004, a seguito degli interventi manipolativi della Corte costituzionale, definiscono un parallelo statuto della genitorialità d’intenzione, in cui il favor veritatis si affianca, con pari rango, all’interesse superiore del minore.

Così, Corte cost. n. 162 del 2014 ha affermato a chiare lettere come «il dato della provenienza genetica non costituisca un imprescindibile requisito della famiglia stessa».

Da parte sua, Corte cost. n. 272 del 2017 ha operato una profonda rimeditazione dei rapporti tra verità e socialità nell’attribuzione dello status filiationis.

Secondo la Consulta, «pur dovendosi riconoscere un accentuato favore dell’ordinamento per la conformità dello status alla realtà della procreazione, va escluso che quello dell’accertamento della verità biologica e genetica dell’individuo costituisca un valore di rilevanza costituzionale assoluta, tale da sottrarsi a qualsiasi bilanciamento. Ed invero, l’attuale quadro normativo e ordinamentale, sia interno, sia internazionale, non impone, nelle azioni volte alla rimozione dello status filiationis, l’assoluta prevalenza di tale accertamento su tutti gli altri interessi coinvolti. In tutti i casi di possibile divergenza tra identità genetica e identità legale, la necessità del bilanciamento tra esigenze di accertamento della verità e interesse concreto del minore è resa trasparente dall’evoluzione ordinamentale intervenuta e si proietta anche sull’interpretazione delle disposizioni da applicare al caso in esame … Se dunque non è costituzionalmente ammissibile che l’esigenza di verità della filiazione si imponga in modo automatico sull’interesse del minore, va parimenti escluso che bilanciare quell’esigenza con tale interesse comporti l’automatica cancellazione dell’una in nome dell’altro. Tale bilanciamento comporta, viceversa, un giudizio comparativo tra gli interessi sottesi all’accertamento della verità dello status e le conseguenze che da tale accertamento possano derivare sulla posizione giuridica del minore. Si è già visto come la regola di giudizio che il giudice è tenuto ad applicare in questi casi debba tenere conto di variabili molto più complesse della rigida alternativa vero o falso. Tra queste, oltre alla durata del rapporto instauratosi col minore e quindi alla condizione identitaria già da esso acquisita, non possono non assumere oggi particolare rilevanza, da un lato le modalità del concepimento e della gestazione e, dall’altro, la presenza di strumenti legali che consentano la costituzione di un legame giuridico col genitore contestato, che, pur diverso da quello derivante dal riconoscimento, quale è l’adozione in casi particolari, garantisca al minore una adeguata tutela».

L’unico limite individuato dalla Corte costituzionale è quello della maternità surrogata, o gestazione per altri, stante il divieto penalmente sanzionato contenuto nell’art. 12, comma 6, della l. n. 40 del 2004. La filiazione che trovi origine in una simile pratica non potrà mai impedire la ricerca della verità biologica.

E tuttavia la stessa sentenza della Consulta individua una via d’uscita a eventuali impasse contrari all’interesse del minore, come accade quando la coppia che ha fatto ricorso alla maternità surrogata sia obiettivamente la più idonea a curare la crescita del figlio. Tale via d’uscita è data dal ricorso a un procedimento, come quello di adozione, che, pur aggravato, porta comunque alla prevalenza della genitorialità d’intenzione.

Lungo questa strada si è incamminata Sez. 1, n. 14007/2018, Iofrida, Rv. 649527-02, supra menzionata, la quale ha negato che una sentenza straniera di adozione coparentale, da parte di una coppia omosessuale che aveva fatto ricorso alla maternità surrogata, si ponga in contrasto con l’ordine pubblico, valutato nel superiore interesse del minore.

Occorrerà verificare se tale indirizzo sarà seguito dalle Sezioni Unite, sollecitate sul punto da Sez. 1, n. 04382/2018, Genovese, non massimata, nel caso di una coppia di sesso maschile che aveva fatto ricorso a una pratica di maternità surrogata in Canada e che chiedeva il riconoscimento in Italia degli atti stranieri che attribuivano la paternità dei nati a entrambi i componenti della coppia. A seguito del rifiuto opposto dall’ufficiale dello stato civile, la questione è giunta davanti alla S.C., che si è chiesta – rimettendo la questione alle Sezioni Unite – se la normativa interna in tema di surrogazione di maternità contenga principi di ordine pubblico e si ponga così come argine alla trascrizione della sentenza straniera di riconoscimento della doppia paternità.

27. Altre questioni ancora aperte in tema di azioni di stato filiale.

La Corte di cassazione ha avuto occasione di respingere, nell’anno 2018, come manifestamente infondate, le censure proposte per affermare l’incostituzionalità dell’attribuzione di un valore determinante, nell’accertamento della filiazione, al rifiuto del supposto genitore di sottoporsi agli esami del DNA. Altre pronunce della S.C. hanno esaminato, sotto diversi profili, il rapporto tra l’azione di disconoscimento di paternità e l’impugnazione del riconoscimento del figlio, da una parte, e l’azione volte alla dichiarazione di altra paternità, dall’altro.

27.1. La prova nei giudizi relativi al riconoscimento dello stato di figlio.

Occorre innanzi tutto rinviare a quanto sopra evidenziato in ordine alla sostanziale assimilazione, sul piano probatorio, tra l’impugnazione del riconoscimento del figlio naturale per difetto di veridicità e l’azione di disconoscimento della paternità, tenuto conto che la giurisprudenza si sta consolidando nel ritenere che, stante la nuova disciplina introdotta dalle riforme del 2012 e 2013 in materia di filiazione, la prova dell’“assoluta impossibilità di concepimento” non è diversa rispetto a quella che è necessario fornire per le altre azioni di stato, richiedendo il diritto vigente che sia il favor veritatis ad orientare le valutazioni da compiere in tutti i casi di accertamento o disconoscimento della filiazione, sicché, essendo la consulenza tecnica genetica l’unica forma di accertamento attendibile nella ricerca della filiazione, deve valorizzarsi, anche per l’azione ex art. 263 c.c., il contegno della parte che si opponga al suo espletamento (Sez. 1, n. 30122/2017, Di Marzio P., Rv. 646848-01, e, nello stesso senso, Sez. 1, n. 18140/2018, Sambito, Rv. 649896-01).

Come già anticipato, con riferimento all’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità, la Corte di cassazione ha anche dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale – per violazione degli artt. 13, 15, 24, 30 e 32 Cost. – del disposto degli artt. 269 c.c., 116 e 118 c.p.c., interpretati nel senso della possibilità di dedurre argomenti di prova dal rifiuto del preteso padre di sottoporsi a prelievi ematici al fine dell’espletamento dell’esame del DNA, spiegando che dall’art. 269 c.c. non deriva una restrizione della libertà personale, avendo il soggetto piena facoltà di determinazione in merito all’assoggettamento o meno ai prelievi, mentre il trarre argomenti di prova dai comportamenti della parte costituisce applicazione del principio della libera valutazione della prova da parte del giudice, senza che ne resti pregiudicato il diritto di difesa. La stessa Corte ha inoltre precisato che il rifiuto aprioristico della parte di sottoporsi ai prelievi non può ritenersi giustificato nemmeno con esigenze di tutela della riservatezza, tenuto conto sia del fatto che l’uso dei dati nell’ambito del giudizio non può che essere rivolto a fini di giustizia, sia del fatto che il sanitario chiamato dal giudice a compiere l’accertamento è tenuto tanto al segreto professionale che al rispetto della legge 31 dicembre 1996, n. 675 (Sez. 6-1, n. 14458/2018, Sambito, Rv. 649148-01).

Merita di essere ricordata anche Sez. 1, n. 32308/2018, Caiazzo, Rv. 651931-01, ove, in motivazione, la S.C. ha spiegato che, nei giudizi promossi per la dichiarazione giudiziale di paternità, è consentito l’esame genetico sul presunto padre mediante consulenza tecnica c.d. percipiente, tenuto conto che tale mezzo istruttorio rappresenta, dati i progressi della scienza biomedica, lo strumento più idoneo, avente margini di sicurezza elevatissimi, per l’acquisizione della conoscenza del rapporto di filiazione. La stessa Corte ha anche precisato che all’espletamento della menzionata consulenza non si applicano gli artt. 118, 258 e 260 c.p.c., perché il prelievo ematico (al pari del prelievo di saliva dalla mucosa buccale) non costituisce un’ispezione corporale, ma un mezzo necessario per l’espletamento della consulenza tecnica, e che, sebbene la volontà di sottoporsi al prelievo per eseguire gli accertamenti sul DNA non sia coercibile, tuttavia nulla impedisce al giudice di valutare, in caso di rifiuto – in sé legittimo, ma privo di adeguata giustificazione – il comportamento della parte ai sensi dell’art. 116 c.p.c.

27.2. I rapporti tra le diverse azioni di stato.

La Corte di cassazione ha in primo luogo chiarito che tra l’azione di disconoscimento della paternità e quella di dichiarazione giudiziale di altra paternità sussiste un nesso di pregiudizialità in senso tecnico-giuridico con la conseguenza che, in pendenza del primo giudizio, il secondo, ex art. 295 c.p.c., deve essere sospeso, coerentemente con quanto previsto dall’art. 253 c.c. (Sez. 6-1, n. 17392/2018, Falabella, Rv. 650189-01).

Sez. 1, n. 06985/2018, Tricomi L., Rv. 648140-01, ha inoltre precisato che è inammissibile l’opposizione di terzo proposta da chi sia indicato come vero padre, avverso la sentenza, passata in giudicato, di disconoscimento della paternità legittima, quando l’opponente deduca che l’esito (positivo) dell’azione di disconoscimento di paternità si riverberi sull’azione di riconoscimento della paternità intentata nei suoi confronti, in quanto il pregiudizio fatto valere è di mero fatto, laddove il rimedio contemplato dall’art. 404 c.p.c. presuppone che l’opponente azioni un diritto autonomo, la cui tutela sia però incompatibile con la situazione giuridica risultante dalla sentenza impugnata.

Per quanto riguarda invece il giudizio di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità ex art. 263 c.c., la Corte ha affermato che il presunto padre naturale non è legittimato ad intervenire nel giudizio, né in qualità di interveniente autonomo né di interveniente adesivo, essendo egli portatore di un mero interesse di fatto all’esito del giudizio, e non di un interesse giuridico a sostenere le ragioni dell’una o dell’altra parte, direttamente correlato ai vantaggi ed agli svantaggi che il giudicato potrebbe determinare nella sua sfera giuridica (Sez. 1, n. 20953/2018, Campese, Rv. 650228-01).

  • adozione di minore
  • apolide
  • rifugiato politico
  • cittadino straniero
  • ammissione di stranieri
  • diritto degli stranieri
  • espulsione

CAPITOLO III

I DIRITTI DEI CITTADINI STRANIERI

(di Marina Cirese, Donatella Salari, Eleonora Reggiani, Chiara Giammarco, Fulvio Filocamo, Aldo Natalini )

Sommario

1 Questioni processuali vecchie e nuove nelle controversie in materia di protezione internazionale. - 1.1 Il riparto di giurisdizione. - 1.2 Il giudizio di appello nel vigore dell’art. 19 del d.lgs. n. 150 del 2011: forma dell’atto introduttivo, produzione di nuovi documenti e audizione del ricorrente. - 1.3 I rilievi di costituzionalità sul d.l. n. 13 del 2017. - 1.4 Le modifiche alla sospensione feriale dei termini introdotte dal d.l. n. 13 del 2017. - 1.5 La definizione del campo di indagine del giudice di merito. - 1.6 Il rito di cui al d.l. n. 13 del 2017 in generale. - 1.7 Le modifiche alla disciplina dell’udienza. - 1.8 Il dovere di allegazione del richiedente, la valutazione di credibilità delle sue dichiarazioni e il dovere di cooperazione del giudice. - 2 Cenni sulla protezione internazionale in generale. - 3 I presupposti positivi e le cause di esclusione del riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria. - 4 Il diritto alla protezione umanitaria: premessa. - 4.1 La protezione umanitaria. - 4.2 Le ragioni umanitarie. - 4.3 Organi competenti e struttura. - 4.4 La nuova protezione umanitaria. - 5 Il rimpatrio del cittadino straniero irregolare. - 5.1 L’espulsione amministrativa. - 5.2 I casi d’inespellibilità. - 5.3 Il trattenimento dello straniero e le misure alternative. - 6 Il minore straniero. - 6.1 Le fonti. - 6.2 I minori stranieri non accompagnati. - 6.3 Cenni alla disciplina di cui alla legge n. 47 del 2017. - 7 L’unità familiare. - 7.1 Segue: lo straniero convivente con i parenti entro il secondo grado o con il coniuge di cittadinanza italiana. - 7.2 Il ricongiungimento familiare. - 7.3 Autorizzazione all’ingresso o alla permanenza in Italia del familiare. - 8 Apolidia e cittadinanza in generale. - 8.1 L’apolide. - 8.2 I modi di acquisto della cittadinanza. - 8.3 Le preclusioni all’acquisto della cittadinanza. - 8.4 La revoca della cittadinanza ex art. 10-bis l. n. 91 del 1992 e gli altri casi di perdita della cittadinanza. - 8.5 La rinuncia alla cittadinanza. - 8.6 Il riacquisto della cittadinanza.

1. Questioni processuali vecchie e nuove nelle controversie in materia di protezione internazionale.

Nel rinviare a quanto più diffusamente esposto nella specifica rassegna sul tema (Rel. n. 108 del 2018) ci si limiterà qui a ricordare che il 17 agosto 2017 sono entrate in vigore le innovazioni ordinamentali e processuali previste dal d.l. n. 13 del 2017, conv., con modif., in l. n. 42 del 2017, che ha ridisegnato il sistema giurisdizionale relativo alle controversie in materia di protezione internazionale, disponendo che tali controversie – per la cui trattazione era previsto in precedenza il rito sommario di cognizione e l’appello avverso la decisioni del tribunale – siano trattate con il rito camerale in unico grado, prevedendo, peraltro, che la fissazione dell’udienza, e, conseguentemente, l’audizione dell’interessato, non siano più obbligatorie, come nel regime previgente, ma siano discrezionalmente disposte dal giudice quando le ritiene necessarie.

Dal punto di vista processuale, la giurisprudenza di questa Corte si è confrontata, nell’anno appena trascorso, con alcune questioni legate all’applicazione del vecchio rito e con le prime questioni interpretative legate all’entrata in vigore delle nuove norme, affrontando anche l’esame di alcune censure di costituzionalità relative al d.l. n. 13 del 2017, già disattese dalla giurisprudenza di merito.

Quanto alle questioni che si sono poste a seguito dell’entrata in vigore del d.l. n. 13 del 2017, deve essere peraltro segnalata, oltre a quanto sarà di seguito illustrato, la questione relativa al rito applicabile alle controversie relative soltanto al permesso per motivi umanitari (istituto abrogato a seguito della recentissima riforma di cui al d.l .n. 113 del 2018, convertito, con modif., in l. 132 del 2018), questione, non ancora giunta all’attenzione della S.C., che ha diviso la giurisprudenza di merito e la dottrina, come illustrato nella relazione n. 108 del 2018, già citata.

1.1. Il riparto di giurisdizione.

Con l’ordinanza di Sez. U, n. 08044/2018, Acierno, Rv.647569-01, alla quale ha fatto seguito Sez. U, 22412/2018, De Chiara, Rv. 650282-01, è stata affermata, in mancanza di una norma espressa (introdotta successivamente dal d.l. n. 13 del 2017), la giurisdizione del giudice ordinario sulle controversie aventi ad oggetto la procedura di determinazione dello Stato europeo competente a decidere sulla domanda di riconoscimento della protezione internazionale, ponendosi in evidenza come, in mancanza di un’apposita norma che disponga diversamente, «la situazione giuridica soggettiva dello straniero che chiede protezione internazionale ha natura di diritto soggettivo, da annoverarsi tra i diritti umani fondamentali».

La stessa motivazione (seguendo il filo rosso inaugurato da Sez. U, n. 19393/2009, Salmé, Rv. 609272-01) sempre in tema di giurisdizione, sorregge Sez. U, n. 30757/2018, Rubino, Rv. 651816-01, Sez. U, 30658/2018, Conti, Rv. 651814-01, e Sez. U, n. 32044/2018, Tria, Rv. 652100-01, rispettivamente, relative la prima e la terza al diniego del permesso di soggiorno per sfruttamento lavorativo ex art. 22, comma 12 quater, d.lgs. n. 286 del 1998 e la seconda al diniego del permesso di soggiorno ex art. 5, comma 6, d.lgs. n. 286 del 1998. In tutte e tre le pronunce si pone in evidenza come la situazione giuridica soggettiva dello straniero richiedente il permesso di soggiorno per motivi umanitari abbia natura di diritto soggettivo, essendo riconducibile alla categoria dei diritti umani fondamentali, che godono della protezione apprestata dall’art. 2 Cost. e dall’art. 3 CEDU e come, pertanto, avendo tutti i provvedimenti assunti dagli organi competenti in materia, natura meramente dichiarativa, e non costitutiva, al questore non sia attribuita alcuna discrezionalità valutativa, essendo il suo ruolo limitato all’accertamento della sussistenza dei presupposti di fatto legittimanti il rilascio del permesso di soggiorno nell’esercizio di una mera discrezionalità tecnica, di talché resta escluso che tali diritti possano essere attratti nella sfera degli interessi legittimi (nello stesso senso, Sez. U, n. 32177/2018, Tria, non massimata, sempre con riferimento al permesso di soggiorno per sfruttamento lavorativo).

A tale riguardo Sez. U, n. 32044/2018, Tria, Rv. 652100-01, in relazione all’espressione del parere o della formulazione della richiesta da parte del PM, previsti per il rilascio del permesso ex art. 22, comma 12 quater, d.lgs. n. 286 del 1998, ha precisato che, al pari del questore, anche il PM è tenuto a compiere una mera ricognizione della sussistenza dei presupposti previsti dal legislatore, ricognizione che è frutto di una “discrezionalità di tipo tecnico”. Ne consegue che la valutazione del PM non ha carattere vincolante per il giudice della protezione internazionale, proprio perché a tale valutazione deve essere attribuito carattere meramente ricognitivo della sussistenza degli specifici presupposti determinati dalla legge cui si riferisce (nello stesso senso, già Sez. 1, n. 10291/2018, Acierno, Rv. 648896-01).

1.2. Il giudizio di appello nel vigore dell’art. 19 del d.lgs. n. 150 del 2011: forma dell’atto introduttivo, produzione di nuovi documenti e audizione del ricorrente.

Nel rimandare alla relazione di questo Ufficio n. 115 del 2018, deve essere segnalata la decisione delle Sez. U, n. 28575/2018, Frasca, Rv. 651358-01, in ordine alla forma dell’atto di appello, proposto ex art. 702 quater c.p.c. contro la decisione di primo grado sulla domanda volta al riconoscimento della protezione internazionale, a seguito delle modifiche introdotte all’art. 19 del d.lgs. n. 150 del 2011 dall’art. 27, comma 1, lett. f), del d.lgs. n. 142 del 2015. La dizione testuale di tale norma (secondo cui «la Corte d’appello decide sulla impugnazione entro sei mesi dal deposito del ricorso»), aveva generato interpretazioni discordanti nella giurisprudenza di merito, almeno fino a Sez. 1 n. 17420/2017, Di Virgilio, Rv. 644940-01, la quale ha affermato che l’appello dovesse essere introdotto con citazione, e non con ricorso, atteso che il riferimento al “ricorso” in appello di cui all’art. 27, comma 1, lett. f), doveva considerarsi volto a regolare i tempi e non la forma di introduzione del giudizio di secondo grado. Le Sezioni Unite hanno comunque ritenuto che l’appello «deve essere introdotto con ricorso e non con citazione, in aderenza alla volontà del legislatore desumibile dal nuovo tenore letterale della norma», aggiungendo che tale innovativa esegesi, in quanto imprevedibile e repentina rispetto al consolidato orientamento pregresso, costituisce un overrulling processuale che, nella specie, assume carattere peculiare in relazione al momento temporale della sua operatività, il quale potrà essere anche anteriore a quello della pubblicazione della prima pronuncia di legittimità che praticò la opposta esegesi, e ciò in dipendenza dell’affidamento sulla perpetuazione della regola antecedente, sempre desumibile dalla giurisprudenza della Corte, per cui l’appello secondo il regime dell’art. 702 quater c.p.c. risultava proponibile con citazione. Resta fermo il principio che, nei giudizi di rinvio riassunti a seguito di cassazione, il giudice del merito è vincolato al principio enunciato a norma dell’art. 384 c.p.c., al quale dovrà uniformarsi anche se difforme dal nuovo orientamento della giurisprudenza di legittimità (in senso conforme, da subito Sez. 6-1, n. 29506/2018, Genovese, Rv. 651503-01, Sez. 6-1, n. 32059/2018, Sambito, Rv. 651967-01 e Sez. 1, n. 32860/2018, Tricomi L., non massimata).

Sempre in relazione al giudizio di secondo grado nei procedimenti in materia di protezione internazionale ratione temporis assoggettati al rito sommario di cognizione ex art. 19 del d.lgs. n. 150 del 2011, Sez. 1, n. 28990/2018, Acierno, Rv. 651579-02, conformemente alla precedente giurisprudenza della S.C. (v. Sez. 6-1, n. 05241 del 2017, Rv. 643972-01) ha stabilito la possibilità, per le parti di produrre nuovi documenti «se ritenuti indispensabili dal Collegio il quale non può omettere tale scrutinio in sede di verifica della loro ammissibilità».

Ancora, in relazione a tale fase, Sez. 6-1, n. 03003/2018, Lamorgese, Rv. 647297-01, riportandosi al principio di diritto già espresso da Sez. 6-1 n. 24544/2011, Macioce, Rv. 619702-01, ha ritenuto che nell’omessa audizione del richiedente nel giudizio di appello relativo ad una domanda di protezione internazionale non è ravvisabile una violazione processuale sanzionabile a pena di nullità, atteso che il rinvio, contenuto nell’art. 35, comma 13, del d.lgs. n. 25 del 2008, al precedente comma 10, che prevede l’obbligo di sentire le parti, non si configura come un incombente automatico e doveroso, ma come un diritto della parte di richiedere l’interrogatorio personale, cui si collega il potere officioso del giudice d’appello di valutarne la specifica rilevanza.

1.3. I rilievi di costituzionalità sul d.l. n. 13 del 2017.

Con Sez. 1, n. 17717/2018, Di Marzio M., Rv. 649521-01-02-03-04-05, questa Corte ha affrontato per la prima volta alcune tra le questioni più frequentemente proposte dai ricorrenti avanti ai giudici di merito, che tuttavia, sino ad ora, le hanno sempre ritenute irrilevanti o manifestamente infondate.

La prima di tali questioni, in ordine logico, è quella che ha posto in dubbio la costituzionalità del veicolo normativo utilizzato per la riforma, considerato in contrasto con l’art. 77 Cost. per la mancanza del requisito della straordinaria necessità ed urgenza, stante la previsione dell’efficacia differita delle norme processuali contenute nell’art. 21 del d.l. n. 13 del 2017. Al riguardo la pronuncia citata (Sez. 1, n. 17717/2018, Di Marzio M., Rv. 649521-01), alla quale ha fatto seguito Sez. 1 n. 28119/2018, Lamorgese, Rv. 651799-02, ha ritenuto infondata la censura di costituzionalità, considerando che la disposizione transitoria, che differisce di 180 giorni dall’emanazione del decreto l’entrata in vigore di alcune norme «è connaturata all’esigenza di predisporre un congruo intervallo temporale per consentire alla complessa riforma processuale di entrare a regime».

La stessa pronuncia (Sez. 1, n. 17717/2018, Di Marzio M., Rv.649521-02) ha dichiarato manifestamente infondata anche la questione posta in relazione all’art. 35-bis, comma 12, del d.lgs. n. 25 del 2008, introdotto dal d.l. n. 13 del 2017, in ordine alla scelta del legislatore di adottare il rito camerale – scelta censurata anche in relazione alla contestuale modifica della disciplina dell’udienza – per la violazione degli artt. 3, 24, 11, 117 Cost., nonché in relazione all’art. 46, par. 3, della direttiva 2013/33/UE ed agli artt. 6 e 13 CEDU. La S.C. ha, infatti, rilevato come il rito camerale ex art. 737 c.p.c. sia previsto nel nostro ordinamento anche per la trattazione di controversie in materia di diritti e di status e come tale rito sia idoneo a garantire il contraddittorio, anche nel caso in cui non sia disposta l’udienza, sia perché tale eventualità è limitata solo alle ipotesi in cui, in ragione dell’attività istruttoria precedentemente svolta, essa appaia superflua, sia perché, in tale caso, le parti sono comunque garantite dal diritto di depositare note scritte.

Sez. 1, 17717/2018, Di Marzio M., Rv. 649521-03, seguita da Sez. 1, n. 28119/2018, Lamorgese, Rv. 651799-03, ha poi ritenuto manifestamente infondata la censura di costituzionalità dell’art. 35-bis, comma 13, del d.lgs. n. 25 del 2008, per asserita violazione degli artt. 3, 24 e 111 Cost., in ragione della brevità del termine (trenta giorni) per proporre ricorso per cassazione, evidenziando che la fissazione di tale termine, nell’ambito di un procedimento improntato ad esigenze di speditezza, quale è il procedimento per la protezione internazionale, è espressione della discrezionalità del legislatore e trova fondamento, appunto, in tali esigenze.

Sez. 1, 17717/2018, Di Marzio M., Rv. 649521-04, ha ritenuto manifestamente infondata anche la questione di costituzionalità dell’art. 35-bis, comma 13, del d.lgs.n. 25 del 2008, sollevata in relazione agli artt. 3, 24 e 111 Cost., per la previsione della necessità che la procura alle liti sia conferita, a pena di inammissibilità, in data successiva alla comunicazione del decreto da parte della cancelleria, ritenendo che ciò non determini «una disparità di trattamento tra la parte privata ed il Ministero dell’Interno, che non deve rilasciare procura», considerato che tale disciplina «si armonizza pienamente con il disposto dell’art. 83 c.p.c., quanto alla specialità della procura, senza escludere l’applicabilità dell’art. 369, comma 2, n. 3 c.p.c.».

Sez. 1, n. 27700/2018, Di Marzio M., Rv. 651122-01, alla quale ha fatto seguito Sez. 1 n. 28119/2018, Lamorgese, Rv. 651799-01, e, più di recente, Sez. 32319/2018, Lamorgese, Rv. 651902-01 (ma per un altro principio espresso, su cui v. infra), hanno affrontato, invece, la questione di costituzionalità relativa all’eliminazione dell’appello. La S.C. in entrambe le pronunce, nel dichiarare la questione manifestamente infondata, ha sottolineato come il doppio grado di giurisdizione sia «privo di copertura costituzionale (cfr. Corte cost. n. 80 e 395 del 1988; n. 543 del 1989; n. 433 del 1990; n. 438 del 1994)» non operando affatto «in una pluralità di ipotesi, già nel procedimento di cognizione ordinaria, e ciò non soltanto nel caso delle controversie destinate a svolgersi in unico grado» e come, avuto riguardo al procedimento per il riconoscimento della protezione internazionale, pur dovendosi considerare «il rilievo primario del diritto in contesa… deve per altro verso sottolinearsi, ai fini della verifica di compatibilità costituzionale della eliminazione del giudizio di appello, che il ricorso in esame è preceduto da una fase amministrativa, destinata a svolgersi dinanzi ad un personale specializzato, nell’ambito del quale l’istante è posto in condizioni di illustrare pienamente le proprie ragioni attraverso il colloquio destinato a svolgersi dinanzi alle C.T., di guisa che la soppressione dell’appello si giustifica anche per il fatto che il giudice è chiamato ad intervenire in un contesto in cui è stato già acquisito l’elemento istruttorio centrale – per l’appunto il colloquio – per i fini dello scrutinio della fondatezza della domanda di protezione, il che concorre a far ritenere superfluo il giudizio di appello».

Sez. 1 n. 32319/2018, Lamorgese, Rv. 651902-01, ha anche affrontato, dichiarandola manifestamente infondata, la censura di costituzionalità dell’art. 35-bis, comma 13, del d.lgs. n. 25 del 2008, per contrasto con gli articoli 3, 24 e 111 Cost., relativamente alla previsione che dispone il venir meno della sospensione degli effetti esecutivi del provvedimento impugnato (che si determina, ai sensi del comma 3 del medesimo articolo, al momento della proposizione del ricorso avverso la decisione della Commissione Territoriale), nel caso in cui il tribunale abbia rigettato il ricorso con decreto anche non definitivo.

La S.C., nel richiamare la pronuncia della Corte di giustizia UE, 27 settembre 2018, causa C- 422/18, in relazione al rinvio pregiudiziale del tribunale di Milano, proprio in ordine alla compatibilità di tali disposizioni con gli artt. 4, par. 3, e 19, par. 1, TUE, con l’art. 47, comma 1 e 2, della Carta nonché con gli articoli 22 e 46 della direttiva 2013/32/UE, e nel sottolineare come detta sentenza, vincolante per il giudice nazionale, abbia ritenuto la nostra disciplina pienamente compatibile con i principi dinanzi evidenziati, ha escluso anche la manifesta fondatezza delle questioni di costituzionalità sollevate, con riferimento ai parametri interni. Con riferimento alla paventata lesione del diritto di difesa, per il fatto che il richiedente una volta costretto a lasciare il paese non possa più partecipare alla fase di impugnazione, ne ha escluso la sussistenza, non essendo prevista la partecipazione personale del richiedente in un giudizio di legittimità, qual è quello di cassazione. Con riguardo alla censura legata all’impossibilità per il giudice, che ha emesso il decreto impugnato in cassazione, di sospenderlo, valutando anche l’eventuale danno grave ed irreparabile, ha affermato che l’asserita necessità della sospensione automatica dell’efficacia esecutiva del provvedimento giurisdizionale, in pendenza del giudizio di impugnazione, non è desumibile dal sistema costituzionale né dalla legislazione ordinaria, dalla quale si desume, anzi una regola di senso inverso. Peraltro, la Corte ha posto in evidenza come l’istituto sospensivo in questione possa essere assimilato, piuttosto che a quello di cui all’art. 373 c.p.c., a quello previsto dall’art. 283 c.p.c., riguardante la sospensione delle sentenze di primo grado, prevista, come nel caso di specie, all’esito di una delibazione sommaria della fondatezza dell’impugnazione, sottolineando, tuttavia, come in ogni caso la norma in esame sia caratterizzata da uno specifico e proprio ambito applicativo, operando l’art. 35-bis in un sistema speciale, qual è quello della “politica nazionale in tema di immigrazione”, nel quale il legislatore ordinario ha un’ampia discrezionalità, come l’ha nella disciplina degli istituti processuali, e dove vi è l’esigenza di celere attuazione delle decisioni giurisdizionali.

1.4. Le modifiche alla sospensione feriale dei termini introdotte dal d.l. n. 13 del 2017.

Ai sensi dell’art. 35-bis, comma 14, del d.lgs. n. 25 del 2008, introdotto dal d.l. n. 13 del 2017, la sospensione feriale dei termini, prevista in via generale dall’art. 1 della l. n. 742 del 1969, e pacificamente ritenuta operante durante la vigenza della precedente normativa (che nulla stabiliva al riguardo) alle controversie in materia di protezione internazionale, non è ad esse più applicabile. Sez. 6-1 n. 16420/2018, Acierno, Rv. 649789-01 e Sez. 6-1 n. 18295/2018, Sambito, Rv. 649649-01 hanno affrontato il problema di diritto intertemporale, avuto riguardo, rispettivamente, ad un caso in cui il tribunale aveva dichiarato inammissibile, poiché tardivo, il ricorso proposto avverso la decisione della Commissione Territoriale in data anteriore all’entrata in vigore delle norme processuali del d.l. n. 13 del 2017, e a un altro caso in cui era stato presentato ricorso per cassazione contro una sentenza d’appello, pubblicata anteriormente a quella data. Nella prima decisione, la S.C ha affermato che la modifica normativa è applicabile solo ai ricorsi contro le decisioni della Commissione Territoriale, depositate successivamente al 17 agosto 2017 (data di entrata in vigore delle norme processuali del d.l. n. 13 del 2017) e, nella seconda, ha precisato che la modifica è applicabile solo al ricorso contro le sentenze di appello pubblicate successivamente a tale data.

1.5. La definizione del campo di indagine del giudice di merito.

Con riferimento alla perimetrazione dell’ambito di valutazione del giudice di merito, adito con ricorso contro la decisione della Commissione Territoriale, deve segnalarsi la recentissima Sez. 1, n. 32862/2018, Di Marzio M., non massimata, che nell’affermare l’irrilevanza di eventuali violazioni delle regole dettate in tema di composizione e di funzionamento delle Commissioni territoriali, ha precisato che la fase giurisdizionale del procedimento per il riconoscimento della protezione internazionale non è diretta all’impugnazione del provvedimento adottato dalla Commissione territoriale, ma alla verifica della sussistenza del diritto alla protezione richiesta e, per tale ragione, non dispiegano alcun rilievo, ai fini dell’accoglimento della domanda, eventuali violazioni delle regole dettate dall’art. 4, commi 3 e 4, del d.lgs. n. 25 del 2008. Tale pronuncia, per l’assolutezza della sua motivazione, sembra non in perfetta linea con Sez. 6-1, n. 19040/2018, Genovese, Rv. 650190-01, che, invece, nell’escludere che l’omissione dell’avvertenza della possibilità per il richiedente asilo di essere sentito dall’organo collegiale, anziché da un singolo componente della Commissione Territoriale, dia luogo alla nullità dell’audizione, pienamente consentita anche in forma monocratica, precisa che ciò non vale se il difetto di tale avvertimento (previsto all’art. 12, comma 1-bis, del d.lgs. n. 25 del 2008) cagioni al richiedente asilo una specifica e sicura lesione dei suoi diritti fondamentali, che comunque deve essere allegata in modo puntuale e denunciata in sede di prima impugnazione giurisdizionale.

Sez. 1, n. 31675/2018, Di Marzio M., Rv. 651889-01, invece, nel riaffermare la competenza esclusiva dell’Amministrazione, e, in particolare, dell’Unità Dublino – operante presso il Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del Ministero dell’Interno – in base al disposto dell’art. 3, comma 3, del d.lgs. n. 25 del 2008, ai fini dell’individuazione dello Stato che deve esaminare la domanda di protezione internazionale, ha cassato il decreto del giudice di merito, che aveva dichiarato inammissibile il ricorso contro il diniego del riconoscimento di tale protezione, sul presupposto che la domanda avrebbe dovuto essere presentata in uno Stato diverso da quello italiano, per essere quello il Paese di primo ingresso.

1.6. Il rito di cui al d.l. n. 13 del 2017 in generale.

Tra le novità introdotte con la riforma nel rito della protezione internazionale, le modifiche apportate alla disciplina dell’udienza sono quelle che hanno dato origine alle maggiori problematiche interpretative, risolte in modo variegato dalla giurisprudenza di merito, per il cui approfondimento si rimanda alla relazione di questo Ufficio n. 108 del 2018. Occorre tuttavia in questa sede evidenziare che il tema dell’udienza e dell’audizione del richiedente acquistano un rilievo centrale nel rito della protezione internazionale, per le peculiarità proprie di tale giudizio che, pur inserendosi nell’alveo dei giudizi civili, è tuttavia indiscutibilmente caratterizzato dall’attenuazione del principio dispositivo e dalla previsione di un dovere di cooperazione del giudice, rispetto all’acquisizione della prova, che sono espressioni del principio di tutela giurisdizionale effettiva, sancito dagli artt. 6 e 13 CEDU, ribadito dall’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE e riconosciuto da Sez. 1, n. 11564/2015, Lamorgese, Rv. 635649-01, in motivazione, e Sez. 3, n. 21255/2013, Travaglino, Rv. 628700-01, come regola-cardine dell’ordinamento costituzionale, volto ad assicurare il diritto «ad un rimedio adeguato al soddisfacimento del bisogno di tutela di quella… unica e talvolta irripetibile situazione sostanziale di interesse giuridicamente tutelato».

1.7. Le modifiche alla disciplina dell’udienza.

Si deve tenere presente che le modifiche introdotte dal d.l. n. 13 del 2017 alla disciplina dell’udienza nella fase giurisdizionale vanno collegate alle nuove norme che regolano la fase amministrativa davanti alle Commissioni Territoriali, nel corso della quale ora l’art. 14 del d.lgs. n. 25 del 2008 prevede che l’audizione del cittadino straniero sia «videoregistrata con mezzi audiovisivi» ed il relativo verbale «trascritto in lingua italiana con l’ausilio di sistemi automatici di riconoscimento vocale». Il comma 3 del novellato art. 14 prevede poi che «copia informatica del file contenente la videoregistrazione e del verbale di trascrizione sono conservati per almeno tre anni, in un apposito archivio informatico presso il Ministero dell’Interno, con modalità che ne garantiscano l’integrità, la non modificabilità e la certezza temporale del momento in cui sono stati formati». Il comma 5 prosegue aggiungendo che, «in sede di ricorso giurisdizionale avverso la decisione della Commissione territoriale, la videoregistrazione e il verbale di trascrizione sono resi disponibili all’autorità giudiziaria in conformità alle specifiche tecniche di cui al comma 8 ed è consentito al richiedente l’accesso alla videoregistrazione». Tuttavia, le “specifiche tecniche” – che, in base al comma 8 del novellato art. 14 d.lgs. n. 25 del 2008, avrebbero dovuto essere stabilite «d’intesa tra i Ministeri della giustizia e dell’interno, con decreto direttoriale, da adottarsi entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente articolo, pubblicato sulla gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana, sui siti internet dei medesimi Ministeri, sentito, limitatamente ai profili inerenti alla protezione dei dati personali, il Garante per la protezione dei dati personali» – non sono ancora state adottate, con la conseguenza che il colloquio del richiedente è verbalizzato in modo riassuntivo ed è questo il verbale che viene messo a disposizione dell’autorità giudiziaria in caso di impugnazione della decisione della Commissione Territoriale.

Tale circostanza, unitamente alla formulazione non inequivoca dei commi 10 ed 11 dell’art. 35-bis del d.lgs. n. 25 del 2008 – il comma 10 dispone che «è fissata udienza per la comparizione delle parti esclusivamente nei casi in cui il giudice: a) visionata la videoregistrazione di cui al comma 8, ritiene necessario disporre l’audizione dell’interessato; b) ritiene indispensabile richiedere chiarimenti alle parti; c) dispone consulenza tecnica ovvero anche d’ufficio, l’assunzione di mezzi di prova», mentre il comma 11 aggiunge che «l’udienza è altresì disposta quando ricorra almeno una delle seguenti ipotesi: a) la videoregistrazione non è disponibile; b) l’interessato ne abbia fatto motivata richiesta nel ricorso introduttivo e il giudice, sulla base delle motivazioni esposte dal ricorrente, ritenga la trattazione del procedimento in udienza essenziale ai fini della decisione; c) l’impugnazione si fonda su elementi di fatto non dedotti nel corso della procedura amministrativa di primo grado» – ha portato all’attenzione della S.C. una delle questioni più dibattute in tema di interpretazione della predetta disciplina.

La già citata Sez. 1, n. 17717/2018, Di Marzio M., Rv. 649521-05 (alla quale hanno fatto seguito Sez. 6-1 n. 27182/2018, Lamorgese, Rv. 651513-01 e Sez. 1, n. 32029/2018, Genovese, Rv. 651982-01) è stata chiamata ad affrontare il caso in cui un ricorrente lamentava la mancata fissazione dell’udienza, nonostante ne avesse fatto richiesta e sebbene la videoregistrazione fosse indisponibile per motivi tecnici. La Corte, chiarendo che il comma 10 dell’art. 35-bis prevede ipotesi in cui il giudice può fissare discrezionalmente l’udienza, mentre il comma 11 prevede i casi in cui egli deve (almeno tendenzialmente) fissarla, ha stabilito che, ove manchi la videoregistrazione per motivi tecnici, e ne sia stata fatta richiesta, il giudice deve obbligatoriamente fissare l’udienza, configurandosi altrimenti la nullità del decreto pronunciato all’esito del ricorso, per inidoneità del procedimento, così adottato, a realizzare lo scopo del pieno dispiegamento del principio del contraddittorio, specificando, inoltre, che ciò non vuol dire automaticamente che si debba anche necessariamente dar corso all’audizione del richiedente, come pure si ricava dalla sentenza della Corte di giustizia UE, 26 luglio 2017, causa C-348/16.

In tale decisione infatti, la Corte di giustizia, affrontando la questione pregiudiziale posta dal tribunale di Milano, nella vigenza del vecchio rito, in ordine alla compatibilità della direttiva 2013/32/UE con l’ipotesi di rigetto del ricorso de plano senza fissazione dell’udienza, nel caso di manifesta infondatezza dello stesso, ha ribadito il principio secondo cui la “direttiva-procedure”, letta alla luce dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali UE, deve essere interpretata nel senso che non osta a che il giudice nazionale, investito di un ricorso avverso la decisione di rigetto di una domanda di protezione internazionale manifestamente infondata, respinga detto ricorso senza procedere all’audizione del richiedente, qualora le circostanze di fatto non lascino alcun dubbio sulla fondatezza di tale statuizione, a condizione, da una parte, che in occasione della procedura sia stata data al richiedente facoltà di sostenere un colloquio personale sulla sua domanda di protezione internazionale conformemente all’art. 14 della direttiva e che il verbale di trascrizione di tale colloquio, qualora sia avvenuto, sia stato reso disponibile unitamente al fascicolo in conformità dell’art. 17, par. 2, della direttiva medesima e, dall’altra parte, che il giudice adito con il ricorso possa disporre tale audizione, ove lo ritenga necessario, ai fini dell’esame completo ed ex nunc degli elementi di fatto e di diritto contemplati dall’art. 46 di tale direttiva. Come è evidente, emerge nuovamente la questione della rilevanza dei vizi procedurali della fase amministrativa, che investono la possibilità di audizione del richiedente, su cui si è pronunciata Sez. 6-1, n. 19040/2018, Genovese, Rv. 650190-01 (v. supra).

Oltre che ribadire la nullità del decreto che decide sul ricorso, in mancanza di fissazione dell’udienza, nel caso in cui manchi la videoregistrazione, deve sottolinearsi come Sez. 1, n. 32029/2018, Genovese, Rv. 651982-01, abbia anche precisato che l’obbligo di videoregistrazione è immediatamente operante a partire dall’entrata in vigore dell’art. 35-bis del d.lgs. n. 25 del 2008, come modificato dal d.l. n. 13 del 2017, non trovando applicazione la vacatio legis prevista dall’art. 21 del d.l. citato.

Un inedito profilo, sempre relativo alla fissazione dell’udienza in mancanza di videoregistrazione, è quello affrontato da Sez. 1, n. 32073/2018, Falabella, Rv. 652088-01. In tale pronuncia la Corte ha censurato il ragionamento del giudice di merito che aveva ritenuto alternative tra loro la videoregistrazione e la redazione del verbale del colloquio, desumendone la possibilità di non fissare l’udienza, quando, pur mancando la videoregistrazione, fosse comunque disponibile il verbale. La Corte, nel reiterare i principi già espressi sul tema dalle decisioni sopra menzionate, ha infatti specificato come la disponibilità del verbale, in assenza della videoregistrazione determini comunque la nullità del decreto che decide il ricorso, poiché la videoregistrazione è specificamente contemplata dalla norma (ed è quindi logico che il legislatore ne abbia disciplinato le conseguenze), mentre l’assenza della verbalizzazione, che dipende da ragioni patologiche e del tutto eccezionali (l’inosservanza della prescrizione normativa da parte della Commissione, che non provveda a redigere alcun verbale, o lo smarrimento di questo), non lo é. La previsione dell’udienza viene dunque correlata all’unica fattispecie di carenza documentale (quella concernente la videoregistrazione) presa in considerazione dal legislatore, e lo è avendo precisamente riguardo alla mancata disponibilità del supporto audiovisivo, il quale dovrebbe consegnare al tribunale un quadro di informazioni più completo e preciso rispetto a quello costituito dal semplice verbale di audizione.

1.8. Il dovere di allegazione del richiedente, la valutazione di credibilità delle sue dichiarazioni e il dovere di cooperazione del giudice.

Come già accennato, nel giudizio relativo alla protezione internazionale rivestono particolare importanza il tema dell’onere probatorio del richiedente asilo e del connesso, cogente principio del dovere di cooperazione da parte dell’autorità competente nell’acquisizione e valutazione della prova. Vanno al riguardo rammentati il quadro normativo e giurisprudenziale europeo e, in particolare, l’art. 46 della direttiva 2013/32/UE, che prevede che gli Stati membri sono tenuti ad assicurare al richiedente un rimedio effettivo dinanzi ad un giudice, nei casi di esame della domanda di protezione internazionale o sussidiaria, specificando che un ricorso effettivo prevede l’esame completo ed ex nunc degli elementi di fatto e di diritto compreso, se del caso, l’esame delle esigenze di protezione internazionale ai sensi della direttiva 2011/95/UE, quanto meno nei procedimenti di impugnazione del giudice di primo grado. Ciò significa, come chiarito dalla Corte di giustizia (Corte di giustizia UE, 22 novembre 2012, causa, C-277/11), che, «benchè il richiedente sia tenuto a produrre tutti gli elementi necessari a motivare la domanda, spetta tuttavia allo Stato membro interessato cooperare con tale richiedente nel momento della determinazione degli elementi significativi della stessa. Tale obbligo di cooperazione in capo allo Stato membro implica, pertanto, concretamente che, se, per una qualsivoglia ragione, gli elementi forniti dal richiedente protezione internazionale non sono esaustivi, attuali o pertinenti, è necessario che lo Stato membro interessato cooperi attivamente alla procedura per consentire di riunire tutti gli elementi atti a sostenere la domanda. Peraltro, uno Stato membro riveste una posizione più adeguata del richiedente per l’accesso a determinati documenti».

In ossequio a tali principi ed in continuità con la giurisprudenza degli anni passati si è mossa la giurisprudenza della S.C., che già con Sez. 6-1, n. 14998/2015, Acierno, Rv. 636559-01, affermava che il richiedente la protezione internazionale, ai sensi dell’art. 14, lett. b) e c), del d.lgs. n. 251 del 2007, non deve fornire alcuna precisa qualificazione giuridica del tipo di misura di protezione invocata e che, come pure precisato da Sez. 6-1, n. 07333/2015, Acierno, Rv. 644949-01, è peculiare compito del giudice colmare le lacune informative, avendo l’obbligo di informarsi in modo adeguato e pertinente alla richiesta, soprattutto con riferimento alle condizioni generali del Paese d’origine, allorquando le indicazioni fornite dal richiedente siano deficitarie o mancanti, avvalendosi dei poteri officiosi di indagine e di informazione di cui all’art. 8, comma 3, del d.lgs. n. 25 del 2008, e verificare se la situazione di esposizione a pericolo per l’incolumità fisica indicata dal ricorrente e astrattamente sussumibile nelle tipologie tipizzate di rischio, sia effettivamente sussistente nel Paese nel quale dovrebbe essere disposto il rientro al momento della decisione.

In continuità con tale orientamento si è espressa Sez. 6-1, n. 02875/2018, Lamorgese, Rv. 647344-01, che, in tema di protezione internazionale, ha ribadito come sia l’autorità amministrativa e sia il giudice di merito «svolgono un ruolo attivo nell’istruzione della domanda, disancorato dal principio dispositivo proprio del giudizio civile, libero da preclusioni o impedimenti processuali, oltre che fondato sulla possibilità di assumere informazioni e acquisire tutta la documentazione necessaria, ove il richiedente adduca il rischio di persecuzione».

Resta tuttavia fermo l’onere di individuazione ed allegazione del richiedente dei fatti costitutivi della sua pretesa, al cui adempimento consegue l’obbligo di cooperazione del giudice, come aveva già precisato Sez. 1, n. 19197/2015, De Chiara, Rv. 637125-01, n. 07333/2015, Acierno, Rv. 634949-01 ed oggi confermato da Sez. 6-1, n. 17069/2018, De Chiara, Rv. 649647-01 che afferma che il potere-dovere del giudice di accertare anche d’ufficio se ed in quali limiti, nel Paese straniero di origine dell’istante, si registrino fenomeni di violenza indiscriminata, sorge solo quando il richiedente abbia adempiuto all’onere di allegare i fatti costitutivi del suo diritto. Nello stesso senso, Sez. 6-1 n. 27336/2018, Terrusi, Rv. 651146-01, ha chiarito che la domanda diretta ad ottenere il riconoscimento della protezione internazionale non si sottrae all’applicazione del principio dispositivo, sicché il ricorrente ha l’onere di indicare i fatti costitutivi del diritto azionato, pena l’impossibilità per il giudice di introdurli d’ufficio nel giudizio (nella specie, la S.C., nel rigettare la censura relativa al mancato utilizzo dei poteri officiosi da parte del giudice di merito, ha evidenziato che non erano state allegate, da parte del ricorrente, né la situazione implicante la protezione internazionale in rapporto a conflitti armati in corso nel suo paese di origine, né – ai fini della protezione umanitaria – una condizione di grave violazione dei diritti umani).

Peraltro, l’onere di allegazione del richiedente secondo Sez. 6-1 n. 02861/2018, Genovese, Rv. 648276-01 (in senso conforme, Sez. 6-1, n. 29875/2018, Genovese, Rv. 651868-01) deve essere particolarmente qualificato, ritenendosi necessario che i fatti dedotti non siano meramente dichiarati, ma collegati con la domanda proposta. Nella specie la S.C. ha ritenuto, infatti, che l’allegazione da parte del richiedente che in un Paese di transito (nella specie la Libia) si consumi un’ampia violazione dei diritti umani, senza evidenziare quale connessione vi sia tra il transito attraverso quel Paese ed il contenuto della sua domanda, costituisce circostanza irrilevante ai fini della decisione, anche se tale profilo può essere valutato ai fini della ricostruzione della vicenda individuale e, di conseguenza della credibilità del dichiarante. Nello stesso senso, Sez. 1, n. 31676/2018, Lamorgese, Rv. 651895-01, ha precisato che, nella domanda di protezione internazionale, l’allegazione da parte del richiedente che in un Paese di transito (nella specie, ancora la Libia) si consumi un’ampia violazione dei diritti umani, senza evidenziare quale connessione vi sia tra il transito attraverso quel Paese ed il contenuto della domanda, costituisce circostanza irrilevante ai fini della decisione, perché l’indagine del rischio persecutorio o del danno grave in caso di rimpatrio va effettuata con riferimento al paese di origine o alla dimora abituale ove si tratti di un apolide. Il paese di transito potrà rilevare (direttiva 2008/115/UE, art. 3, par. 3) solo nel caso di accordi comunitari o bilaterali di riammissione, o altra intesa, che prevedano il ritorno del richiedente nel paese di transito.

Infine Sez. 6-1, n. 27503/2018, Lamorgese, Rv. 651361-01, ricollega la possibilità per il giudice di esprimere un giudizio positivo sulla credibilità del ricorrente, al compimento da parte di questi ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda ai sensi dell’art. 3, comma 5, lettera a), del d.lgs. n. 251 del 2007, in mancanza del quale i fatti da lui narrati non possono essere considerati veritieri. La valutazione di non credibilità del racconto costituisce infatti un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, il quale deve valutare se le dichiarazioni del richiedente siano coerenti e plausibili, ai sensi dell’art. 3, comma 5, lettera c), del d.lgs. n. 251 del 2007, ma pur sempre a fronte di dichiarazioni sufficientemente specifiche e circostanziate.

Deve poi evidenziarsi come il dovere di cooperazione istruttoria del giudice sia posto in correlazione anche con il giudizio di credibilità del richiedente (sul tema v. l’approfondimento nella relazione n. 106 del 2018). In tal senso Sez. 6-1, n. 19716/2018, Sambito, Rv. 650193-01, in tema di protezione sussidiaria, ha affermato che la valutazione della credibilità soggettiva del richiedente non può essere legata alla mera presenza di riscontri obiettivi di quanto da lui narrato, incombendo al giudice, nell’esercizio del potere-dovere di cooperazione istruttoria, l’obbligo di attivare i propri poteri officiosi al fine di acquisire una completa conoscenza della situazione legislativa e sociale dello Stato di provenienza, onde accertare la fondatezza e l’attualità del timore di danno grave dedotto (nella specie, la S.C., ha cassato la sentenza con la quale era stato rigettato il ricorso avverso il diniego del riconoscimento della protezione sussidiaria, avendo il tribunale ritenuto, senza alcun approfondimento istruttorio, che il timore di danno grave dedotto dal richiedente fosse esclusivamente soggettivo in quanto privo di riscontri obiettivi, e il pericolo non fosse più attuale). La pronuncia si pone sulla stessa linea dei precedenti (Sez. 6-1, n. 26921/2017, Lamorgese, Rv. 647023-01), che hanno precisato come la valutazione di credibilità delle dichiarazioni del richiedente non sia affidata alla mera opinione del giudice, essendo il risultato di una procedimentalizzazione legale della decisione, da compiersi non sulla base della mera mancanza di riscontri oggettivi, ma alla stregua dei criteri indicati nell’art. 3, comma 5, del d.lgs. n. 251 del 2007 e, inoltre, tenendo conto della situazione individuale e della circostanze personali del richiedente (di cui all’art. 5, comma 3, lett. c), del d.lgs. cit.), con riguardo alla sua condizione sociale e all’età, senza che possa darsi rilievo a mere discordanze o contraddizioni su aspetti secondari o isolati, quando si ritiene sussistente l’accadimento. Da ciò consegue che è compito prima dell’autorità amministrativa e poi del giudice svolgere un ruolo attivo nell’istruzione della domanda, disancorandosi dal principio dispositivo proprio del giudizio civile ordinario, mediante l’esercizio di poteri-doveri d’indagine officiosi e l’acquisizione di informazioni aggiornate sul paese di origine del richiedente, al fine di accertarne la situazione reale. Sez. 6-1, n. 16925/2018, Acierno, Rv. 649697-01 ha poi precisato che l’accertamento del giudice di merito deve innanzi tutto avere ad oggetto la credibilità soggettiva della versione del richiedente circa l’esposizione a rischio grave alla vita o alla persona e che, nel caso in cui le dichiarazioni siano giudicate inattendibili alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui all’art. 3 del d.lgs. n. 251 del 2007, non occorre procedere ad un approfondimento istruttorio officioso sulla prospettata situazione persecutoria nel Paese di origine, salvo che la mancanza di veridicità derivi esclusivamente dall’impossibilità di fornire riscontri probatori (nello stesso senso, Sez. 6-1, n. 28862/2018, Terrusi, Rv. 651501-01). Da ultimo, anche Sez. 6-1, n. 31826/2018, Terrusi (in corso di rimassimazione per problemi tecnici sul sito), ha ritenuto che la motivazione in ordine alla non credibilità soggettiva del richiedente, quanto alle ragioni di allontanamento dal proprio paese, è di per sé sufficiente a sorreggere il diniego del riconoscimento dello status di rifugiato politico (nella specie la S.C. ha confermato la pronuncia del giudice di merito, che aveva rigettato la domanda di riconoscimento della protezione internazionale avendo considerato il racconto dell’istante generico, privo di riscontri temporali e limitato ad allegazioni scarsamente circostanziate, con conseguente compromissione della possibilità di attivare d’ufficio utili strumenti probatori).

Precisato quanto sopra in ordine all’onere di allegazione del richiedente, perché il giudice possa attivare i propri poteri officiosi, Sez. 6-1-n. n. 09427/2018, Acierno, Rv. 648961-01 (e, in senso conforme, Sez.6-1-n. 17075/2018, De Chiara, Rv. 649790-01, Sez. 1, n. 28990/2018, Acierno, Rv. 651579-01) ha rilevato che, in tema di protezione internazionale, e in particolare di protezione sussidiaria ed umanitaria, la sussistenza dei presupposti per il loro riconoscimento, deve essere valutata al momento della decisione, non potendosi il giudice di merito limitare a rigettare la domanda unicamente sulla base di quanto dichiarato dal cittadino straniero, riguardo ai motivi che lo avevano originariamente determinato a lasciare il proprio paese, atteso che la necessità di ricevere protezione dal paese ospitante può sorgere anche in un momento successivo rispetto alla partenza del richiedente dal Paese di origine, tanto per ragioni oggettive quanto per ragioni soggettive.

2. Cenni sulla protezione internazionale in generale.

I decreti legislativi n. 251 del 2007 e n. 25 del 2008 hanno dato attuazione alle direttive 2004/83/CE e 2005/85/CE, che disciplinano lo status di rifugiato e di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, con riferimento ai cittadini stranieri provenienti da Paesi extra UE e gli apolidi, procedimentalizzando le norme relative al riconoscimento e alla revoca della protezione internazionale. Assume, in proposito, rilievo anche la direttiva 2011/95/UE, recante norme sull’attribuzione a cittadini di paesi terzi o apolidi della qualifica di beneficiario di protezione internazionale, su uno status uniforme per i rifugiati o per le persone aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria, nonché sul contenuto della protezione riconosciuta.

Secondo una catalogazione operabile sui presupposti fondanti la protezione internazionale, attraverso il parametro di cui all’art. 2 d.lgs. 251 n. 2007, e partendo, innanzitutto, dallo status di rifugiato, va detto che esso si basa, a mente del nominato statuto normativo, sul giustificato timore dello straniero di essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche.

In difetto di questi presupposti soccorre la protezione sussidiaria, che può essere riconosciuta allorché nei confronti dello straniero sussistano fondati motivi di ritenere che, se tornasse nel Paese di origine – o, nel caso di un apolide, se tornasse nel Paese nel quale aveva precedentemente la dimora abituale – correrebbe il rischio effettivo di subire un grave danno, normativamente definito, senza che possa o voglia avvalersi della protezione di detto Paese.

La protezione umanitaria è stata prevista in via generale dall’art. 5, comma 6, del d.lgs. n. 286 del 1998, recante la disciplina del permesso di soggiorno per motivi umanitari, come consentito dalla direttiva 2008/115/CE, in forza della quale (art. 6, par. 4) ciascuno Stato può riconoscere allo straniero irregolare un titolo di soggiorno, o altro titolo autorizzatorio, ove emergano “motivi umanitari, caritatevoli o di altra natura”, stabilendo che la decisione di rimpatrio, qualora sia già stata emessa, sia revocata o sospesa per il periodo di validità di tale titolo o di un’altra analoga autorizzazione, che conferisca il diritto di soggiornare. Com’è noto, il d.l. n. 113 del 2018, conv., con modif., in l. n. 132 del 2018, ha abolito la figura generale del permesso di soggiorno per motivi umanitari ed ha introdotto ipotesi predeterminate di rilascio del permesso di soggiorno “in casi speciali” (v. infra).

3. I presupposti positivi e le cause di esclusione del riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria.

Si deve subito rilevare che Sez. 1 n. 28433/2018, Tricomi L., Rv. 651471-01, ha escluso il diritto al riconoscimento della protezione internazionale nel caso in cui, nella parte del territorio del paese di origine del richiedente non sia riscontrabile il pericolo di persecuzione, pur presente in altra zona del Paese. La pronuncia ha sottolineato che tale ipotesi si distingue da quella in cui il pericolo di persecuzione sia presente nella parte del territorio di provenienza del richiedente, ma sia esclusa in parte diversa del medesimo Paese, ipotesi questa che non impedisce il riconoscimento della protezione internazionale, stante il mancato recepimento nella nostra normativa dell’art. 8 della direttiva 2004/83/CEE, come già evidenziato da Sez. 1, n. 02294/2012, Ragonesi, Rv. 621824-01 (in applicazione del principio enunciato, la S.C. ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto nei confronti della sentenza della Corte d’appello, che aveva escluso la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale, in considerazione del fatto che, come risultava dal rapporto di Amnesty International, la situazione di violenza indiscriminata in situazione di conflitto armato interno o internazionale, determinata dalle attività terroristiche del gruppo “Boko Haram”, non fosse estesa all’Edo State ed alla città di provenienza del richiedente). L’argomento appena illustrato, fondato sul mancato recepimento nella nostra normativa dell’art. 8 della direttiva 2004/83/CEE non è tuttavia più attuale, perché il d.l. n. 113 del 2018, conv., con modif., in l. n. 132 del 2018, apportando modifiche all’art. 32, comma 1, del d.lgs. n. 25 del 2008, ha recepito il contenuto del menzionato art. 8 della direttiva 2004/83/CEE, prevedendo, come causa di rigetto della domanda da parte della Commissione Territoriale, la circostanza che, in una parte del paese di origine, il richiedente non abbia fondati motivi di essere perseguitato.

In ordine alle cause ostative al riconoscimento della protezione internazionale o sussidiaria, di cui agli artt. 10 e 16 del d.lgs. n. 251 del 2017, dal punto di vista processuale deve essere segnalata Sez. 1, n. 18739/2018, Pazzi, Rv. 649585-01. Tale pronuncia, nel confermare la sentenza di appello – che, in accoglimento dell’impugnazione proposta dal Ministero dell’interno, con la quale aveva eccepito la sussistenza della causa di esclusione prevista dall’art. 16 del d.lgs. n. 251 del 2007, aveva riformato l’ordinanza del tribunale, rigettando il ricorso proposto dal richiedente avverso il diniego della protezione sussidiaria – ha disatteso il motivo di ricorso con il quale era stata prospettata l’inammissibilità dell’eccezione dell’Amministrazione, relativa alla presenza della menzionata causa di esclusione (in quanto questione nuova e, dunque tardiva ex art. 345 c.p.c.). In particolare, la S.C., sul presupposto che l’assenza delle condizioni previste dall’art. 16 d.lgs. n. 251 del 2007 rappresentasse uno degli elementi costitutivi del riconoscimento dello status di protezione sussidiaria, da esaminare necessariamente al momento del vaglio della posizione soggettiva del richiedente, ha ritenuto che l’eccezione sopra menzionata non potesse essere considerata tardiva, essendo relativa a questioni rilevabili d’ufficio, che riguardavano la sussistenza degli elementi costitutivi del diritto azionato e non eccezioni in senso stretto. Sempre in argomento, Sez. 6-1 n. 27504/2018, Lamorgese, Rv. 651149-01, ha affermato che il diritto al riconoscimento dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria non può essere concesso (e, per identità di ratio, non può essere riconosciuta neanche la protezione umanitaria) a chi abbia commesso un reato grave al di fuori dal territorio nazionale, anche se “con un dichiarato obiettivo politico”, precisando che tale causa ostativa, in quanto condizione dell’azione, deve essere accertata alla data della decisione e, involgendo la mancanza dell’elemento costitutivo previsto dalla suddetta legge, può essere rilevata d’ufficio dal giudice, anche in appello. D’altronde Sez. 6-1, n. 14028/2017, Lamorgese, Rv. 644611-01, aveva già affermato che, in tema di protezione sussidiaria, il parametro normativo, che si desume dal dato testuale della lett. b) dell’art. 16, comma 1, del d.lgs. n. 251 del 2007, non predetermina in modo assoluto le ipotesi di “gravità” dei reati e lascia agli organi amministrativi e giurisdizionali di valutare, senza automatismi, le condotte criminose attribuite allo straniero (anche mediante concorso e collaborazione con altri), in modo da consentire l’esame concreto dei fatti e della loro pericolosità. Sez. 6-1, n. 25073/2017, Acierno, Rv.646244-01, aveva comunque escluso la rilevanza, ai fini dell’individuazione della predetta causa di esclusione, della mera esistenza di un mandato di cattura e della pendenza di un procedimento penale a carico del richiedente, senza che il giudice di merito avesse accertato l’avvenuta commissione di reati fuori del territorio italiano, da qualificarsi gravi alla luce del parametro della pena edittale prevista dalla legge italiana per quel medesimo illecito.

Sottolinea la necessità che i requisiti per il riconoscimento della protezione internazionale siano valutati con riferimento al momento della decisione, Sez. 6-1, n. 09427/2018, Acierno, Rv. 648961-01 (in senso conforme, Sez. 1, n. 28990/2018, Acierno, Rv. 651579-01 e, in tema di protezione sussidiaria, Sez. 6-1, n. 17075/2018, De Chiara, Rv. 649790-01), precisando che il giudice di merito non può limitarsi a rigettare la domanda unicamente sulla base di quanto dichiarato dal cittadino straniero, riguardo ai motivi che lo avevano originariamente determinato a lasciare il proprio paese, atteso che la necessità di ricevere protezione dal paese ospitante può sorgere anche in un momento successivo rispetto alla partenza del richiedente dal Paese di origine, tanto per ragioni oggettive quanto per ragioni soggettive (nel caso di specie, la S.C., cassando la pronuncia di merito, ha escluso la decisività delle dichiarazioni del cittadino straniero formulate all’atto di arrivo nel nostro paese, molti anni prima di richiedere la protezione internazionale).

In tema di persecuzione penale nel Paese di origine, Sez. 6-1 n. 02863/2018, Genovese, Rv. 647343-01, ha specificato che il giudice del merito, nell’ipotesi in cui venga denunciata la lesione di diritti umani dovuta a persecuzione penale, non deve limitarsi a rilevare se tale lesione avvenga in forma diretta e brutale, ma deve verificare se la contestata violazione di norme di legge nel paese di provenienza sia opera degli organi costituzionalmente ed istituzionalmente preposti a quel controllo e se abbia avuto ad oggetto la legittima reazione dell’ordinamento all’infrazione commessa o invece non costituisca una forma di persecuzione razziale, di genere o politico religiosa verso il denunziante.

In relazione all’omosessualità, quale motivo di persecuzione nel paese di origine, Sez. 6-1 n. 02875/2018, Lamorgese, Rv. 647344-01, ha affermato – in un caso in cui il richiedente, cittadino del Gambia (paese nel quale l’omosessualità è punita dall’ordinamento con pene gravissime, quali la tortura, l’ergastolo e la decapitazione), lamentava il mancato riconoscimento della protezione internazionale – che il giudice non deve valutare nel merito la sussistenza o meno del fatto, ossia la fondatezza dell’accusa, ma deve invece accertare, ai sensi degli artt. 8, comma 2 e 14, lett. c) del d.lgs. n. 251 del 2007, se tale accusa sia reale, cioè effettivamente rivolta al richiedente nel suo paese, e, dunque, suscettibile di rendere attuale il rischio di persecuzione o di danno grave in relazione alle conseguenze possibili secondo l’ordinamento straniero. Sez. 6-1 n. 26969/2018, Acierno, Rv. 651511-01 (ma in tal senso già Sez. 6-1, n. 15981/2012, Bisogni, Rv. 624006-01) ha inoltre rilevato che la dichiarazione del richiedente di avere intrattenuto una relazione omosessuale, ove la valutazione circa la credibilità del dichiarante, secondo i parametri indicati nell’art. 3 del d.lgs. n. 251 del 2007, si sia fondata esclusivamente sull’omessa conoscenza delle conseguenze penali del comportamento, impone al giudice del merito la verifica, anche officiosa, delle conseguenze che la scoperta di una tale relazione determina secondo la legislazione del Paese di provenienza dello straniero, perché qualora un ordinamento giuridico punisca l’omosessualità come un reato, questo costituisce una grave ingerenza nella vita privata dei cittadini, che ne compromette la libertà personale e li pone in una situazione di oggettivo pericolo.

Per quanto riguarda i presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria, quanto al “danno grave,” Sez. 6-1 n. 16275/2018, Acierno, Rv. 649788-01 ha chiarito che, in via generale, al fine d’integrare i presupposti di cui all’art. 14, lettere a) e b), del d.lgs. n. 251 del 2007, è sufficiente che risulti provato, con un certo grado di individualizzazione, che il richiedente, ove la tutela gli fosse negata, rimarrebbe esposto a rischio di morte o a trattamenti inumani e degradanti, senza che tale condizione debba presentare i caratteri del fumus persecutionis, non essendo necessario che lo straniero fornisca la prova di essere esposto ad una persecuzione diretta, grave e personale, poiché tale requisito è richiesto solo ai fini del conseguimento dello status di rifugiato politico. In riferimento poi all’ipotesi di cui alla lettera c) del medesimo art. 14, la S.C. ha affermato che la situazione di violenza indiscriminata e di conflitto armato, presente nel Paese in cui lo straniero dovrebbe fare ritorno, può giustificare la mancanza di un diretto coinvolgimento individuale del richiedente protezione nella situazione di pericolo. Al riguardo – in linea con quanto già affermato da Sez. 6-1 n. 16356/2017, Acierno, Rv. 644807-01, in ordine all’irrilevanza, ai fini dell’esclusione del “danno grave” a carico del richiedente, della circostanza che tale danno sia provocato da soggetti privati, qualora nel paese di origine manchi un’autorità statale in grado di fornire adeguata ed effettiva tutela – Sez. 6-1 n. 03758/2018, De Chiara, Rv. 647370-01 ha ritenuto che le minacce di morte da parte di una setta religiosa integrano gli estremi del danno grave ex art. 14 del d.lgs. n. 251 del 2007 e non possono essere considerate un fatto di natura meramente privata, anche se provenienti da soggetti non statuali, sicché l’adita autorità giudiziaria ha il dovere di accertare, avvalendosi dei suoi poteri istruttori anche ufficiosi ed acquisendo le informazioni sul paese di origine, l’effettività del divieto legale di simili minacce, ove sussistenti e gravi, ovvero se le autorità del Paese di provenienza siano in grado di offrire adeguata protezione al ricorrente.

Quanto all’ipotesi di “danno grave” provocato da soggetti privati, va qui ricordata anche la pregressa giurisprudenza della S.C. in tema di violenza domestica. In particolare, Sez. 1, n. 28152/2017, Acierno, Rv. 649254-01, ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato, ha ritenuto costituire atti di persecuzione basati sul genere ex art. 7 d.lgs. 251 n. 2007, rientranti nel concetto di violenza domestica di cui all’art. 3 della Convenzione di Istanbul dell’11 maggio 2011, le limitazioni al godimento dei propri diritti umani fondamentali, attuate ai danni di una donna, di religione cristiana, a causa del suo rifiuto di attenersi alla consuetudine religiosa locale – secondo la quale la stessa, rimasta vedova, era obbligata a sposare il fratello del marito – anche se le autorità tribali del luogo, alle quali si era rivolta nella perdurante persecuzione da parte del cognato che continuava a reclamarla in moglie, le avevano consentito di sottrarsi al matrimonio forzato, ma a condizione che si allontanasse dal villaggio, abbandonando i propri figli ed i suoi beni, nell’incapacità delle autorità statali di contrastare tali limitazioni e di fornire effettiva protezione al richiedente. Anche Sez. 6-1, n. 12333/2017, De Chiara, Rv. 644272-01 ha affermato, in tema di riconoscimento della protezione sussidiaria, che, in virtù degli artt. 3 e 60 della Convenzione di Istanbul dell’11 maggio 2011 sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, anche gli atti di violenza domestica sono riconducibili all’ambito dei trattamenti inumani o degradanti, considerati dall’art. 14, lett. b), del d.lgs. n. 251 del 2007 ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, sicché è onere del giudice verificare in concreto se, pur in presenza di minaccia di danno grave ad opera di un “soggetto non statuale”, ai sensi dell’art. 5, lett. c), del decreto citato, come il marito della ricorrente, lo Stato di origine sia in grado di offrire alla donna adeguata protezione (nella specie, relativa a cittadina marocchina vittima di abusi e violenze – proseguiti anche dopo il divorzio – da parte del coniuge, punito dalla giustizia marocchina con una blanda sanzione penale, la corte d’appello aveva negato il riconoscimento della protezione internazionale valorizzando elementi quali la condanna penale, l’ottenimento del divorzio e l’appoggio della famiglia di origine della donna, circostanze ritenute dalla S.C. di per sé non necessariamente indicative di un’adeguata protezione da parte del Paese di origine).

Quanto alla nozione di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato, interno o internazionale, a norma dell’art. 14, lett. c), del d.lgs. n. 251 del 2007, Sez. 6-1, n. 13858/2018, Lamorgese, Rv. 648790-01, ha stabilito che tale nozione, in conformità con la giurisprudenza della Corte di giustizia (Corte di giustizia UE, 30 gennaio 2014, causa C-285/12), deve essere interpretata nel senso che il conflitto armato interno rileva solo se, eccezionalmente, possa ritenersi che gli scontri tra le forze governative di uno Stato e uno o più gruppi armati, o tra due o più gruppi armati, siano all’origine di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione e che il grado di violenza indiscriminata deve avere pertanto raggiunto un livello talmente elevato da far ritenere che un civile, se rinviato nel Paese o nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio, un rischio effettivo di subire detta minaccia (nella specie la S.C. ha ritenuto esente da vizi la motivazione con la quale la corte d’appello aveva escluso la ricorrenza del presupposto per il riconoscimento della protezione sussidiaria, nel caso di un cittadino del Bangladesh, a causa della mancata indicazione di elementi idonei a compiere una valutazione individualizzante del rischio nel caso di rimpatrio, nonché della politica di democratizzazione intrapresa, sin dal 1971, dal Paese asiatico, nel quale le dispute sui diritti civili e la presenza di terroristi non avevano raggiunto livelli significativi). Sempre in relazione alla prova della sussistenza della minaccia grave ed individuale alla vita o alla persona di un civile, derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale, ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, Sez. 1 n. 14006/2018 Iofrida, Rv. 649169-01 ha chiarito che la prova ad essa relativa implica una contestualizzazione della minaccia suddetta, in rapporto alla situazione soggettiva del richiedente, laddove il medesimo sia in grado di dimostrare di poter essere colpito in modo specifico, in ragione della sua situazione personale, ovvero la dimostrazione dell’esistenza di un conflitto armato interno nel Paese o nella regione, caratterizzato dal ricorso ad una violenza indiscriminata, che raggiunga un livello talmente elevato da far sussistere fondati motivi per ritenere che un civile, rientrato nel paese in questione o, se del caso, nella regione in questione, correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio di questi ultimi, un rischio effettivo di subire detta minaccia. In tal senso, peraltro, si era già in precedenza espressa Sez.6-1 n. 18130/2017, Genovese, Rv. 645059-01 che aveva escluso la necessità che lo straniero provasse di essere interessato personalmente alle situazioni di violenza indiscriminata caratterizzanti un conflitto armato in corso, quando queste raggiunga un livello così elevato da far ritenere presumibile che la sua sola presenza sul territorio, lo esponga concretamente al rischio di subire gli effetti della minaccia. Da ultimo, Sez. 1, n. 32064/2018, Sambito, Rv. 652087-01, ha ribadito che la nozione di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale, di cui all’art. 14, lett. c), del d.lgs. n. 251 del 2007, deve essere interpretata in conformità alla fonte eurounitaria di cui è attuazione (direttive 2004/83/CE e 2011/95/UE), in coerenza con le indicazioni ermeneutiche fornite dalla Corte di giustizia (Corte di giustizia UE, 18 dicembre 2014, causa C-542/13), secondo cui i rischi, a cui è esposta in generale la popolazione di un paese o di una parte di essa, di norma non costituiscono una “minaccia individuale”, che esponga a un danno grave (v. 26° Considerando della direttiva n. 2011/95/UE), in quanto l’esistenza di un conflitto armato interno potrà portare alla concessione della protezione sussidiaria solamente nella misura in cui si ritenga eccezionalmente che gli scontri tra le forze governative di uno Stato e uno o più gruppi armati o tra due o più gruppi armati siano all’origine di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria, ai sensi dell’articolo 15, lettera c) della direttiva, a motivo del fatto che il grado di violenza indiscriminata che li caratterizza raggiunge un livello talmente elevato, da far sussistere fondati motivi per ritenere che un civile rinviato nel paese in questione o, se del caso, nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio, un rischio effettivo di subire la detta minaccia (in questo senso, Corte di giustizia UE, 17 febbrario 2009, causa C-465/07 e Corte di giustizia UE, 30 gennaio 2014, causa C-285/12). Il riconoscimento della forma di protezione in questione presuppone, dunque, che il richiedente rappresenti una condizione che, pur derivante dalla situazione generale del paese, sia, comunque, a lui riferibile e sia caratterizzata da una personale e diretta esposizione al rischio di un danno grave, quale individuato dall’art, 14 del d.lgs. n. 251 del 2007, ed il relativo accertamento costituisce un apprezzamento di fatto, demandato, in quanto tale, al giudice del merito, che, nel compiere tale valutazione, deve far ricorso ai suoi poteri istruttori ed acquisire comunque le informazioni sul paese di origine del richiedente, previste dall’art. 8 d.lgs. n. 251 del 2008.

4. Il diritto alla protezione umanitaria: premessa.

La protezione internazionale rappresenta un sistema pluralistico di cui la protezione umanitaria ha costituito una misura sui generis di carattere residuale la quale, come rilevato da Sez. 6-1, n. 16362/2016, De Chiara, Rv. 641324-01 e, più recentemente, da Sez. U, n. 05059/2017, Giusti, Rv. 643118-01, si qualifica quale diritto umano fondamentale, presidiato dall’art. 2 Cost., nonché dall’art. 3 CEDU, non degradabile ad interesse legittimo, potendo la P.A. solo valutarne la sussistenza dei presupposti di fatto.

Come già accennato, il d.l. n. 113 del 2018, conv., con modif., in l. n. 132 del 2018, ha abolito la figura generale del permesso di soggiorno per motivi umanitari, sostituendola con ipotesi tipizzate di rilascio del permesso di soggiorno “in casi speciali” (v. infra). È tuttavia evidente che le pronunce adottate dalla S.C. nel corso del 2018 hanno ancora riguardato la figura abrogata, le cui origini e caratteristiche devono pertanto in questa sede essere esaminate.

La giurisprudenza della S.C. ha sempre affermato che la protezione internazionale attua, esaurendolo, il diritto di asilo di cui all’art. 10, comma 3, Cost., riconosciuto incondizionatamente allo straniero che veda pregiudicate nel Paese di provenienza le libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana. Si tratta di un’affermazione di amplissimo contenuto, che nel precetto costituzionale si completa con il divieto di estradizione dello straniero per motivi politici.

La genesi dell’art. 10 Cost. è nota. Nasce all’indomani di una drammatica fase di persecuzione politica e razziale.

La clausola aperta dell’asilo costituzionale confluirà poi nella conferenza internazionale, al termine della quale, nel 1951, nascerà la Convenzione di Ginevra sullo status di rifugiato, ratificata e resa esecutiva in Italia con la l. n. 722 del 1954, cui seguirà a livello europeo l’introduzione della protezione sussidiaria con la direttiva n. 2004/83/CE.

La Convenzione di Ginevra contiene una tassativa elencazione dei motivi di persecuzione che caratterizzano lo status di rifugiato. Attesa l’ampia formulazione del diritto d’asilo della nostra Costituzione, la richiamata Convenzione restituisce, rispetto a questa, una formula più restrittiva, nella formulazione dei motivi di persecuzione dello status di rifugiato, il quale costituisce, com’è noto, la prima formula-tassello dello statuto generale di protezione internazionale che comprende, in primis, il detto status, poi quello di protezione sussidiaria, come disegnata dalle “direttive-qualifiche” (2004/83/CE e 2011/95/UE), ed infine la cd. forma nazionale della protezione umanitaria, oggi al centro di una radicale rivisitazione.

La Costituzione ha optato per una formula ampia, ritenendo, in tal modo, che il diritto di asilo sorgesse per il semplice fatto che allo straniero fossero negati i diritti di libertà con una caratterizzazione, che, oggi, riecheggia nella giurisprudenza più recente (Sez. 1, n. 04455/2018, Acierno, Rv. 647298-01), ossia la garanzia di effettività del loro esercizio.

Il parametro dell’effettività si afferma in generale nell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE e, in tema di protezione internazionale e nazionale, in modo ancora più specifico, attraverso la previsione del dovere ufficioso di cooperazione istruttoria (v. supra e in particolare, Sez. 6-1, n. 03758/2018, De Chiara, Rv. 647370-01; Sez. 6-1, n. 19716/2018, Sambito, Rv. 650193-01; Sez. 6-1, n. 17075/2018, De Chiara, Rv. 649790-01; Sez. 6-1, n. 02875/2018, Lamorgese, Rv. 647344-01; Sez. 6-1, n. 26969/2018, Acierno, Rv. 651511-01).

Il principio di effettività incombe, ovviamente, anche sulle Commissioni Territoriali, tenute ad acquisire elementi di prova sulle condizioni dei Paesi di origine, utilizzando le informazioni COI disponibili, onde integrare il materiale probatorio offerto dal richiedente asilo (art. 8 d.lgs. n. 25 del 2008).

Il dovere d’integrazione istruttoria, pertanto, impone che la verifica della situazione politico-sociale del paese di provenienza non si limiti alla verifica fattuale dei motivi esplicitati da colui che chiede protezione, ma si estenda anche a quelle circostanze sopravvenute sia oggettive che soggettive d’instabilità politica, che possono radicare l’esigenza stessa della protezione, con la conseguenza che le dichiarazioni dell’asilante non rivestono valore decisivo sul punto, essendo doverosa la raccolta d’informazioni in via ufficiosa anche su elementi sopravvenuti, ai sensi dell’art. 4 del d.lgs. 251 del 2007 (v. ancora supra e, in particolare, Sez. 6-1, n. 09427/2018, Acierno, Rv. 648961-01, ma anche, con i limiti ivi indicati, Sez. 6-1, n. 27503/2018, Lamorgese, Rv. 651361-01 e Sez. 6-1, n. 16925/2018, Acierno, Rv. 649697-01, nonché, in motivazione, Sez. 1, n. 32028/2018, Campese, Rv. 651900-01, massimata con riferimento ad altro principio enunciato).

4.1. La protezione umanitaria.

La S.C. ha nel tempo valorizzato la protezione umanitaria, innanzitutto, come strumento di chiusura-completamento dell’asilo costituzionale, al punto da escludere margini di residuale diretta applicazione della norma costituzionale sul diritto di asilo.

In particolare, Sez. 6-1, n. 10686/2012 Macioce, Rv. 623092-01, ha evidenziato che, stante il tenore delle norme di cui al d.lgs. n. 251 del 2007 e dell’art. 5 del d.lgs. n. 286 del 1998, la disciplina normativa è da considerare esaustiva dell’obbligo costituzionale di cui all’art. 10, comma 3, Cost. (principio ribadito da Sez. 6-1, n. 16362/2016, De Chiara , Rv. 641324- 01).

A completamento dei riferimenti normativi della protezione umanitaria, come regolata prima della menzionata riforma, vanno considerati, in attuazione del principio di non refoulement, oltre all’ art. 8 CEDU, anche l’art. 11, lettera c ter) e l’art. 28, lettera d), del d.P.R. n. 349 del 1999, nonché l’art. 3 della l. n.110 del 2017, che ha introdotto il comma 1.1. dell’art. 19 del d.lgs. n. 286 del 1998, prevedendo, ad ulteriore presupposto della inespellibilità dello straniero, “il fondato motivo” nutrito da costui di essere sottoposto a tortura in caso di ritorno nello Stato di origine.

Esaminando il quadro europeo, la protezione umanitaria, per quello che interessa, trova fondamento anche nelle seguenti fonti:

- art. 6, comma 5, lett. c), del “Codice frontiere Schengen” – Regolamento (UE) n. 399/2016 del Parlamento europeo e del Consiglio del 9 marzo 2016: «i cittadini di paesi terzi che non soddisfano una o più delle condizioni di cui al paragrafo 1 possono essere autorizzati da uno Stato membro ad entrare nel suo territorio per motivi umanitari o di interesse nazionale o in virtù di obblighi internazionali. Qualora il cittadino di paese terzo interessato sia oggetto di una segnalazione di cui al paragrafo 1, lettera d), lo Stato membro che ne autorizza l’ingresso nel suo territorio ne informa gli altri Stati membri».

- l’art. 17, comma 2 del “Regolamento Dublino” – Regolamento (UE) n. 604/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013: «Lo Stato membro nel quale è manifestata la volontà di chiedere la protezione internazionale e che procede alla determinazione dello Stato membro competente, o lo Stato membro competente, può, in ogni momento prima che sia adottata una prima decisione sul merito, chiedere a un altro Stato membro di prendere in carico un richiedente al fine di procedere al ricongiungimento di persone legate da qualsiasi vincolo di parentela, per ragioni umanitarie fondate in particolare su motivi familiari o culturali, anche se tale altro Stato membro non è competente ai sensi dei criteri definiti agli articoli da 8 a 11 e 16. Le persone interessate debbono esprimere il loro consenso per iscritto.»

La Corte di giustizia UE ha poi precisato che gli Stati membri possono concedere forme di protezione umanitaria e caritatevole anche diverse da quelle previste dalle fonti europee (art. 3 della direttiva 2011/95/UE, c.d. direttiva “qualifiche”), purché non contraddicano la disciplina derivata dell’Unione (Corte di giustizia UE, 9 novembre 2010, cause riunite C-57/09 e C-101/09) ed i suoi presupposti, in accordo al principio del favor nei confronti dell’asilante e pertanto: «l’art. 3 della direttiva deve essere interpretato nel senso che gli Stati membri possono riconoscere un diritto d’asilo in forza del loro diritto nazionale ad una persona esclusa dallo status di rifugiato ai sensi dell’art. 12, n. 2, di tale direttiva, purché questo altro tipo di protezione non comporti un rischio di confusione con lo status di rifugiato ai sensi della stessa direttiva».

In proposito, la giurisprudenza della S.C. ha chiarito da tempo (cfr. Sez. 6-1, n. 04230/2013, Acierno, Rv. 625460-01), che i requisiti della protezione umanitaria sono distinti da quelli che consentono il riconoscimento della protezione sussidiaria, in quanto destinati ad attuare il principio di non refoulement di cui all’art. 19 del d.lgs. n. 286 del 1998. Ne consegue che il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per ragioni umanitarie deve essere frutto di valutazione autonoma rispetto alle altre figure di protezione, essendo necessario che il relativo accertamento sia fondato su uno scrutinio, avente ad oggetto l’esistenza delle condizioni di vulnerabilità, che ne integrano i requisiti, tant’è che il diniego della misura tipica non determina automaticamente il rigetto anche della misura atipica minore e residuale (Sez. 1, n. 28990/2018, Acierno, Rv. 651579-03).

Sempre guardando alla figura della protezione umanitaria precedente al d.l. n. 113 del 2018, si può dunque ritenere che si tratta di un titolo di soggiorno previsto dall’ordinamento giuridico italiano con una clausola generale ed aperta che, sebbene non definita, chiude e suggella il sistema complessivo d’ingresso degli stranieri nel nostro territorio ed è congegnato in modo tale da riempirsi di contenuto di fronte a fattispecie fattuali non sussumibili in ipotesi astratte e normate derivanti dalle fonti interne, ma che indicano chiaramente come il nostro ordinamento abbia inteso conformarsi agli impegni imposti dalla Costituzione o dagli ulteriori vincoli pattizi attraverso un sistema flessibile.

Ne deriva che i due istituti di protezione internazionali (status di rifugiato e protezione sussidiaria), secondo la disciplina pregressa, completano il quadro degli obblighi internazionali e sovranazionali in uno con la protezione umanitaria, che costituisce, invece, misura di fonte nazionale contenuta nel d.lgs. n. 286 del 1998, agli artt. 5, comma 6 e 19, comma 1, e completata dall’art. 20 dello stesso d.lgs. n. 286 del 1998, nonché dall’art. 32, comma 3, del d.lgs. 28 gennaio 2008, n. 25 (fonti normative oggetto in parte di abrogazione e, in parte, di modifica ad opera del d.l. n. 113 del 2018, conv., con modif., in l. 132 del 2018).

4.2. Le ragioni umanitarie.

Al fine di delimitare l’ampio spettro delle ragioni, intorno alle quali ruota la disciplina della protezione umanitaria, così come connotata prima della menzionata riforma, occorre partire da un dato irrinunciabile, ossia l’inclusione delle ragioni umanitarie nell’ambito della violazione dei diritti umani, che vanno rigorosamente accertate, secondo i criteri di effettività del loro godimento nel paese di origine.

In proposito, la S.C. ha ritenuto, da una parte, di confermare la propria giurisprudenza in tema di effettività della lesione dei diritti fondamentali dello straniero nel paese di provenienza, elaborando una serie di parametri di riconoscibilità delle ragioni umanitarie, e, dall’altra, inquadrando quei motivi in situazioni meritevoli di tutela, ma non rientranti nelle misure tipiche o perché aventi il carattere della temporaneità o perché correlate ad un impedimento al riconoscimento della protezione sussidiaria, o, infine, perché intrinsecamente diverse nel contenuto rispetto alla protezione internazionale, ma caratterizzate da un’esigenza qualificabile come umanitaria (problemi sanitari, madri di minori etc.) che fanno della protezione umanitaria una misura atipica e residuale, destinata a coprire situazioni, da individuare caso per caso, nelle quali , pur non sussistendo i presupposti per il riconoscimento della tutela di rango internazionale, tuttavia non possa disporsi l’espulsione e debba provvedersi all’accoglienza del richiedente che si trovi in situazione di vulnerabilità (Sez. 1, n. 14005/2018, Tricomi L., Rv. 649168-01).

Ciò conferma come nella giurisprudenza di legittimità il permesso umanitario sia stato definito come misura flessibile e residuale, idonea ad integrare l’ampiezza del diritto d’asilo, così come inteso dall’art. 10 Cost., sulla base del principio di non refoulement. Alla domanda di riconoscimento dell’asilo costituzionale, alla luce della qualificazione del medesimo stabilita dalla giurisprudenza di legittimità, deve, pertanto, conseguire l’indagine sull’esistenza di una situazione di vulnerabilità idonea a integrare il diritto al permesso umanitario, senza naturalmente escludere altri parametri di riconoscimento delle ragioni umanitarie. Solo così si può comprendere la natura di clausola generale, che viene attribuita a questa forma di tutela, che pone al centro della protezione la libertà e dignità della persona in una civiltà giuridica che deve potersi affidare alla tutela di questi valori fondanti attraverso l’idea di un catalogo aperto di situazioni tutelabili attraverso la protezione umanitaria, nella consapevolezza che le libertà fondamentali sono esposte ad un grado di vulnerabilità maggiore rispetto all’idea originaria del costituente e senza trascurare che la spinta all’emigrazione da molti paesi deriva, innanzitutto, da fattori di instabilità politica e sociale e da imponenti cambiamenti climatici, oltre che da cause di sfruttamento economico delle risorse.

La tutela umanitaria, che già semanticamente richiama il rispetto dei valori fondanti della persona e della loro incomprimibilità nel rispetto della CEDU, attraverso l’interpretazione della Corte di Strasburgo, nonché della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, nel quadro ante novella è dunque destinata a rivestire la struttura di norma aperta ed elastica, non solo alternativa alle misure maggiori, ma del tutto autonoma come risulta evidente anche dall’art. 32, comma 3, del d.lgs n. 25 del 2008 (oggi modificato per effetto dell’art. 1, comma 2, lett. a) del d.l. n. 113 del 2018, conv., con modif., in l. n. 132 del 2018).

Secondo la giurisprudenza della S.C., nel quadro normativo previgente, le ragioni umanitarie sono funzionalmente collegate alla violazione di quel nucleo ineliminabile di diritti fondamentali, il cui pregiudizio – da valutarsi prognosticamente – presidia la tutela e, pertanto, confermando che la protezione umanitaria è una misura destinata a tutelare situazioni da individuare caso per caso, nelle quali, pur non sussistendo i presupposti per il riconoscimento della tutela tipica (status di rifugiato o protezione sussidiaria), non possa provvedersi all’espulsione e debba riconoscersi accoglienza al richiedente che si trovi in situazione di vulnerabilità (Sez. 1, n. 14005/2018, Tricomi L., Rv. 649168-01), in accordo con le ipotesi di divieto di espulsione contenute nell’art. 19, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 286 del 1998 e con l’art. 28, lett. d), del d.P.R. n. 394 del 1999. In queste ipotesi diviene ineseguibile il decreto di espulsione, precedentemente emesso nei confronti della medesima persona e il Giudice di pace, adito in sede di opposizione all’espulsione, deve dichiarare l’inefficacia del decreto (v. infra e Sez. 6-1, n. 21609/2018, Valitutti, Rv. 650345-01).

La vulnerabilità può concretizzarsi anche in un pregiudizio alla salute, ossia al diritto all’integrità fisica e psichica non ovviabile nel paese di provenienza alla luce della previsione della nostra carta costituzionale (art. 32 Cost.) nonché rispetto agli impegni assunti con l’adesione all’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). Ancora, il catalogo aperto delle ragioni umanitarie può riempirsi di contenuto secondo il disposto dell’art. 25 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 Dicembre 1948, a proposito del diritto di ciascun individuo ad un tenore di vita sufficiente al benessere proprio e della propria famiglia ed alle cure mediche ed, infine, con riferimento all’art. 11 del Patto internazionale relativo ai diritti economici, sociali e culturali e Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, ratificato dall’Italia nel 1977 che riconosce ad ogni uomo il diritto fondamentale della libertà dalla fame.

Ai casi espressi di divieto di espulsione si aggiungono, oggi, per effetto delle modifiche apportate dalla novella di cui al menzionato d.l. n. 113 del 2018, conv., con modif., in l. n. 132 del 2018, attraverso l’introduzione della lettera d bis) all’art. 19, comma 2, del d.lgs. n. 286 del 1998, “le ragioni di salute di particolare gravità”, da accertare debitamente e da collegare al pregiudizio irreparabile nel caso di rientro dello straniero nel paese di origine. Si tratta di uno dei “casi speciali”, introdotti in sostituzione delle fattispecie aperta della protezione umanitaria.

Fermo restando il carattere elastico del nucleo presidiato dal previgente titolo di soggiorno per motivi umanitari, va detto che la giurisprudenza di legittimità, sollecitata dalla giurisprudenza di merito, ha cercato di ricostruire nei contenuti le ragioni della tutela in relazione al diritto alla salute, o le condizioni socio politiche del paese di provenienza, anche l’integrazione familiare, sociale e lavorativa.

In particolare, la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che non è sufficiente l’allegazione di un’esistenza migliore nel Paese di accoglienza, sotto il profilo dell’integrazione sociale, essendo, comunque, necessaria una comparazione effettiva tra le due condizioni, rispetto alla garanzia di esercizio dei diritti umani, quantomeno al di sotto di un nucleo ineliminabile, costitutivo dello statuto della dignità personale, in comparazione con la situazione d’integrazione raggiunta.

In questo ultimo caso l’integrazione sociale, secondo Sez. 1 n. 04455/2018, Acierno, Rv. 647298-01 non costituisce, di per sé, ragione esaustiva delle ragioni umanitarie che giustificano la tutela, dovendo effettuarsi una effettiva valutazione della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, da compararsi con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza (in applicazione del principio, la S.C. ha cassato la decisione impugnata che, in assenza di comparazione, aveva riconosciuto ad un cittadino gambiano, presente in Italia da oltre tre anni, il diritto al rilascio del permesso di soggiorno, in ragione della raggiunta integrazione sociale e lavorativa in Italia, allegando genericamente la violazione dei diritti umani nel Paese d’origine). Ritorna, anche in questa complessa pronuncia, tra gli altri, il criterio ermeneutico dell’effettività della lesione dei diritti fondamentali che costituiscono un elemento di apprezzamento concreto della particolare vulnerabilità, cui lo straniero sarebbe esposto in caso di ritorno (in questo caso in Gambia). La Corte, cassando con rinvio la decisione impugnata, ha accolto la tesi del Ministero dell’Interno, a parere del quale il permesso di soggiorno per motivi umanitari non può ex se basarsi sulle ragioni d’integrazione sociale, rispetto al rischio di generale compromissione dei diritti fondamentali dello straniero nel paese di origine, peraltro genericamente prospettato, ove emerga, come nel caso esaminato, un deficit d’indagine specifica che dia contezza, riempendola di contenuto, della clausola aperta di cui all’art. 5, comma 6, TU 286/1998.

La decisione si segnala, poi, per l’individuazione, in motivazione, di altri parametri interpretativi della vulnerabilità collegata al ritorno dello straniero nel Paese di origine. Viene infatti evidenziato che l’allegazione di una situazione di partenza di vulnerabilità può non essere originata soltanto da una situazione d’instabilità politico-sociale, che esponga a situazioni di pericolo per l’incolumità personale, anche non rientranti nei parametri dell’art. 14 d.lgs. n. 251 del 2007, o a condizioni di compromissione dell’esercizio dei diritti fondamentali riconducibili alle discriminazioni poste a base del diritto al rifugio politico, ma non aventi la peculiarità della persecuzione personale potenziale od effettiva. La vulnerabilità può essere la conseguenza di un’esposizione seria alla lesione del diritto alla salute, non potendo tale primario diritto della persona trovare esclusivamente tutela nell’art. 36 del d.lgs. n. 286 del 1998, oppure può essere conseguente ad una situazione politico-economica molto grave con effetti d’impoverimento radicale, riguardanti la carenza di beni di prima necessità, di natura anche non strettamente contingente, od anche discendere da una situazione geo-politica che non offre alcuna garanzia di vita all’interno del paese di origine (siccità, carestie, situazioni di povertà inemendabili). Queste ultime tipologie di vulnerabilità richiedono, tuttavia, l’accertamento rigoroso delle condizioni di partenza di privazione dei diritti umani nel paese d’origine perché la ratio della protezione umanitaria rimane quella di non esporre i cittadini stranieri al rischio di condizioni di vita non rispettose del nucleo minimo di diritti della persona che ne integrano la dignità.

Alla pronuncia richiamata sono seguite altre statuizioni che hanno ribadito lo stesso principio (Sez. 1, n. 28859/2018, Terrusi, non massimata; Sez. 6-1, n. 29503/2018, Valitutti, non massimata). In tali casi, e sempre che il dover di cooperazione istruttoria sia stato esercitato, può dirsi che l’impedimento o la violazione dei diritti fondamentali possa sfociare in una condizione di vulnerabilità, che deve comunque essere effettiva. In particolare, Sez. 6-1, n. 17072/2018, De Chiara, Rv. 649648-01, richiamando la sentenza della Corte EDU, 8 aprile 2008, Nyianzi c. Regno Unito, ha ritenuto l’impossibilità di riconoscere al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari, di cui all’art. 5, comma 6, del d.lgs. n. 286 del 1998, considerando, isolatamente ed astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia, aggiungendo che tale diritto non può essere affermato in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al Paese di provenienza, atteso che il rispetto del diritto alla vita privata di cui all’art. 8 CEDU, può soffrire ingerenze legittime da parte di pubblici poteri, finalizzate al raggiungimento d’interessi pubblici contrapposti, quali quelli relativi al rispetto delle leggi sull’immigrazione, particolarmente nel caso in cui lo straniero non possieda uno stabile titolo di soggiorno nello Stato di accoglienza, ma vi risieda in attesa che sia definita la sua domanda di riconoscimento della protezione internazionale.

In ordine alle condizioni per il riconoscimento della protezione umanitaria, si deve infine richiamare Sez. 6-1, n. 27504 del 30/10/2018, Lamorgese, Rv. 651149-01, nella parte in cui, nell’affermare che il riconoscimento dello status di rifugiato e il beneficio della protezione sussidiaria non possono essere concessi – rispettivamente ai sensi degli artt. 10, comma 2, lett. b), e 16, comma 1, lett. b), del d.lgs. n. 251 del 2007 – a favore di chi abbia commesso un reato grave al di fuori dal territorio nazionale, anche se con un dichiarato obiettivo politico, ha anche precisato che, per identità di ratio, in tali ipotesi, non può essere riconosciuta la protezione per motivi umanitari, aggiungendo che tale causa ostativa, in quanto condizione dell’azione, deve essere accertata alla data della decisione e, involgendo la mancanza dell’elemento costitutivo previsto dalla suddetta legge, può essere rilevata d’ufficio dal giudice, anche in appello.

4.3. Organi competenti e struttura.

Quanto al rilascio il permesso di soggiorno umanitario, previsto dalla disciplina previgente alla menzionata novella, esso compete:

- al questore su impulso della Commissione Territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale, laddove non rimangano accertati i presupposti di diniego dello status di protezione internazionale (status di rifugiato o protezione sussidiaria), ovvero tali forme di tutela siano revocati o cessati ed emergano seri motivi in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano;

- al questore su domanda del cittadino straniero, indipendentemente dall’iniziativa della Commissione, qualora ricorrano gravi motivi di carattere umanitario;

- al Presidente del Consiglio dei Ministri, in caso di riconoscimento della protezione temporanea, ai sensi dell’art. 20 del d.lgs. n. 286 del 1998, e possano essere adottate misure di protezione temporanea, anche in deroga al d.lgs. cit., per rilevanti esigenze umanitarie, in occasione di conflitti, disastri naturali o altri eventi di particolare gravità in Paesi non appartenenti all’UE;

- al questore nei casi in cui non può disporsi l’espulsione o il respingimento ai sensi dell’art. 19 d.lgs. n. 286 del 1998;

- al questore nei casi della cd. protezione sociale di cui all’art. 18 del d.lgs. n. 286 del 1998 e nelle ipotesi di violenza domestica disciplinate dall’art. 18-bis del d.lgs. n. 286 del 1998;

- al questore, anche su proposta del procuratore della Repubblica, o con il parere favorevole della stessa autorità, per consentire allo straniero di sottrarsi alla violenza ed ai condizionamenti dell’organizzazione criminale che ne opera lo sfruttamento.

In linea generale questo titolo di soggiorno, sempre secondo la disciplina previgente, autorizza il beneficiario a svolgere attività, ad iscriversi al Servizio Sanitario Nazionale, alla formazione, nonché di fruire dei centri di accoglienza messi a disposizione dai Comuni.

Per ciò che riguarda la determinazione dello Stato competente all’esame della domanda di protezione va ricordato che Il Regolamento (UE) n. 604 del 2013 (“Regolamento Dublino”), in combinato disposto con il Regolamento (UE) n. 603/2013 (“Regolamento Eurodac”), l’uno e l’altro del Parlamento Europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013, fissa i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione che, in linea generale, spetta al Paese di primo ingresso. Ne consegue che onde prevenire il c.d. asylum shopping tra i diversi Stati membri, laddove il richiedente sia giunto in Italia, dopo avere varcato il confine di altro paese europeo, spetterà all’Unità Dublino, ufficio incardinato presso il Ministero dell’Interno Direzione centrale dei servizi civili per l’immigrazione e l’asilo del Dipartimento libertà civili e immigrazione la verifica della competenza, ad esaminare la domanda (v. supra e in particolare Sez. 1, n. 31675 del 2018, Di Marzio M., Rv. 651889-01).

Si deve inoltre tenere presente che l’art. 11 del d.l. n. 113 del 2018, conv., con modif., in l. n. 132 del 2018, intervenendo anche su questo aspetto procedurale, ha ampliato il numero delle articolazioni territoriali dell’Unità di Dublino presso le Prefetture del Ministero dell’interno fino ad un massimo di tre.

4.4. La nuova protezione umanitaria.

Come più volte anticipato, oggi, con l’entrata in vigore del d.l. n. 113 del 2018, conv., con modif., in l. 132 del 2018, il quadro è cambiato sensibilmente.

Per effetto della novella è stato eliminato ogni riferimento alle fonti normative che, a prescindere dalle ipotesi specifiche sopra richiamate, attuavano i motivi umanitari, legittimando in via generale la protezione per ragioni umanitarie.

Il d.l. n. 113 del 2018, conv., con modif., in l. 132 del 2018, ha infatti sostituito alla figura generale del permesso di soggiorno per “motivi umanitari” le seguenti ipotesi tipizzate di permessi che possono essere rilasciati in “casi speciali”:

- permesso di soggiorno per vittime di violenza domestica (art.18-bis del d.lgs. n. 286 del 1998);

- cure mediche ai sensi dell’art. 19, comma 2, lett. d-bis, del d.lgs. n. 286 del 1998;

- impedimento al ritorno dello straniero nel Paese di origine nel caso di calamità (nuovo art. 20-bis del d.lgs. n. 286 del 1998);

- sfruttamento lavorativo (art. 22, comma 12-quater, d.lgs. n. 286 del 1998).

È poi stato introdotto l’art. 42-bis del d.lgs. n. 286 del 1998, che prevede il permesso di soggiorno per atti di particolare valore civile.

Alcuni dei casi appena elencati (il permesso per motivi di protezione sociale, quello per le vittime di violenza domestica, oltre che per lo sfruttamento lavorativo) erano già esistenti nel sistema ante novella e non hanno avuto modifiche sostanziali.

Si deve invece menzionare la previsione del permesso di soggiorno per “protezione speciale”, previsto nel novellato art. 32, comma 3, del d.lgs. n. 25 del 2008, concesso dal questore nei limiti stabiliti dall’art. 19, commi 1 e 1.1, del d.lgs. n. 286 del 1998, in ossequio al principio di non refoulement per rischio di persecuzione e di tortura.

Per completezza, deve anche essere richiamata l’ulteriore ipotesi di permesso di soggiorno per “protezione speciale”, previsto dall’art. 1, comma 9, del d.lgs. n. 113 del 2018, conv., con modif., in l. n. 132 del 2018, nel regolare la disciplina intertemporale.

Tutte le controversie relative alle fattispecie elencate, tranne quella di cui all’art. 42-bis del d.lgs. n. 286 del 1998 (provvedimento del Ministro dell’Interno su proposta del prefetto), sono state attribuite alla competenza del giudice collegiale, istituito presso le Sezioni Specializzate per l’Immigrazione dei tribunali e le relative statuizioni non sono appellabili.

Con norme d’immediata applicazione, il collegio applicherà il rito sommario di cognizione (art. 702-bis c.p.c.), mentre, nell’ipotesi di cui al permesso regolato dall’art. 32, comma 3, del d.lgs. n. 25 del 2008, il rito applicabile sarà quello camerale (art. 737 c. p. c.).

Per quanto riguarda, invece, il permesso previsto dal nuovo art. 42-bis del d.lgs. n. 286 del 1998 non vi è stata alcuna previsione, né in ordine alla giurisdizione e né sul rito applicabile.

L’art. 1 del d.l. n. 113 del 2017, ai commi 8 e 9, detta norme destinate al regime intertemporale. In particolare, l’art. 1, comma 8, del d.l. cit. stabilisce che i permessi di soggiorno per motivi umanitari, già riconosciuti e in corso di validità alla data di entrata in vigore del decreto, restino validi fino alla scadenza, allorché in favore dei titolari, e fuori dei casi di conversione in altre forme di permesso, può essere rilasciato un ulteriore permesso ai sensi del novellato (e più restrittivo) art. 32, comma 3, del d.lgs. n. 25 del 2008, previa valutazione della Commissione territoriale. L’art. 1, comma 9, del medesimo d.l. disciplina invece la diversa ipotesi in cui, nei procedimenti amministrativi in corso alla data di entrata in vigore del decreto, la Commissione Territoriale, pur non accogliendo la domanda di protezione internazionale, abbia ravvisato la sussistenza dei gravi motivi di carattere umanitario. In tal caso, in favore del richiedente è rilasciato un permesso recante la dicitura “casi speciali”, della durata di due anni, convertibile in permesso di soggiorno per motivi di lavoro. Alla scadenza di tale permesso, si applica il precedente comma 8. Nulla è espressamente previsto con riguardo ai procedimenti giudiziari pendenti alla stessa data del 5 ottobre 2018.

5. Il rimpatrio del cittadino straniero irregolare.

I provvedimenti con cui lo Stato italiano dispone l’allontanamento dal proprio territorio dei cittadini stranieri, che non hanno titolo per soggiornarvi, si suddividono in due grandi categorie: i respingimenti e le espulsioni.

I respingimenti sono adottati dall’autorità amministrativa di pubblica sicurezza. È possibile distinguere il respingimento alla frontiera, disposto dalla polizia di frontiera e immediatamente eseguito al valico di frontiera, e il respingimento del questore, differito nel tempo.

Le espulsioni possono essere adottate dall’autorità amministrativa di pubblica sicurezza nei confronti di stranieri che siano in posizione di soggiorno irregolare, o che siano ritenuti pericolosi per la sicurezza pubblica o per l’ordine pubblico o per la sicurezza dello Stato (art. 13 del d.lgs. n 286 del 1998), ma anche dall’autorità giudiziaria, in conseguenza di procedimenti penali (artt. 15 e 16 del d.lgs. n. 286 del 1998).

Effetto tipico e scopo comune sia dei respingimenti che delle espulsioni è l’effetto ablativo, cioè l’obbligo dello straniero di lasciare il territorio dello Stato. Tale obbligo è quasi sempre eseguito immediatamente in modo coercitivo, con l’accompagnamento immediato alla frontiera da parte delle forze di polizia. Per i provvedimenti amministrativi di espulsione sono però previste ipotesi in cui l’espulsione è differita o si concede un termine per la partenza volontaria.

Qualora sussistano impedimenti temporanei, materiali o legali, all’effettiva esecuzione immediata dell’accompagnamento alla frontiera dello straniero respinto o espulso, l’autorità di pubblica sicurezza può disporre il trattenimento in appositi centri di permanenza per i rimpatri (CPR, prima CIE) per uno o più periodi successivi, ma entro un periodo massimo, o anche altre temporanee misure coercitive alternative ovvero, qualora non sia possibile il trattenimento o il periodo di trattenimento non sia stato sufficiente per rimuovere gli ostacoli all’effettivo accompagnamento alla frontiera, emana un ordine allo straniero respinto o espulso di allontanarsi dal territorio dello Stato entro un breve termine, la cui trasgressione senza giustificato motivo è punita penalmente.

Soltanto le espulsioni, oltre ad esigere l’effettivo allontanamento dello straniero espulso dal territorio dello Stato producono ulteriori effetti nelle ipotesi in cui sono corredate da un divieto di reingresso dello straniero espulso per un determinato periodo successivo alla loro esecuzione, divieto che riguarda sia l’Italia, sia tutti gli altri Stati membri dell’area Schengen o dell’Unione europea, anche mediante la segnalazione al SIS (Sistema informativo Schengen) ai fini della non ammissione.

5.1. L’espulsione amministrativa.

Si tratta di un provvedimento impugnabile davanti al giudice di pace ex art. 18 del d.lgs. n. 150 del 2011, che può eseguirsi mediante accompagnamento alla frontiera (art. 13, commi 4 e 5-bis, del d.lgs. n. 286 del 1998), una misura restrittiva della libertà personale che necessita di convalida da parte del giudice e che, una volta concessa, rende definitivo il provvedimento di espulsione (prima sospeso nella sua efficacia).

Con riguardo al profilo delle garanzie dell’espellendo, nella fase amministrativa, la consolidata giurisprudenza di legittimità, da ultimo riaffermata da Sez. 1, n. 27682/2018, Acierno, Rv. 651119-01, esclude l’obbligo di dare preventiva comunicazione all’interessato dell’inizio del procedimento amministrativo di espulsione, ai sensi degli artt. 7 e 8 della l. n. 241 del 1990. L’argomentazione, leggibile, tra le altre, in Sez. 1, n. 28858/2005, Spagna Musso, Rv. 586798-01, fa leva sulla specialità della procedura espulsiva, venendo in rilievo sia motivi di ordine di pubblico che di sicurezza dello Stato, e tiene conto, altresì, dei caratteri di celerità e speditezza che ne connotano l’iter.

La competenza ad emanare l’atto espulsivo è del prefetto, mentre l’esecuzione deve essere curata dal questore. Come ha precisato Sez. 6-1, n. 18540/2016, Bisogni, Rv. 641171-01, spetta al prefetto stabilire se sussistono le condizioni per concedere, col provvedimento di espulsione, il termine per la partenza volontaria, mentre è il questore che deve indicare, in tale evenienza, le condizioni per la permanenza medio tempore dello straniero nel territorio nazionale, oppure, qualora venga disposta l’espulsione immediata, decidere se provvedere all’accompagnamento coattivo immediato, al trattenimento presso il centro di permanenza per i rimpatri o all’intimazione ex art. 14, comma 5-bis, del d.lgs. n. 286 del 1998. Non vi è pertanto contraddittorietà, secondo la S.C., tra il diniego di concessione di partenza volontaria e la mancata adozione di misure di controllo, che restano applicabili, alternativamente o cumulativamente, dal questore solo nell’ipotesi in cui sia stata accolta dal prefetto la richiesta di rimpatrio volontario.

Circa la natura dell’espulsione amministrativa, è consolidato l’orientamento che riconosce l’obbligatorietà ed il carattere vincolato dell’atto (Sez. 6-1, n. 28860/2018, Terrusi, Rv. 651500-02), escludendosi pertanto qualsivoglia potere discrezionale in capo al prefetto. Il principio è ripetutamente affermato, nel caso di reingresso dello straniero nel territorio dello Stato di cui all’art. 13, comma 2, lett. b), del d.lgs. n. 286 del 1998 (da ultimo, Sez. 6-1, n. 25414/2018, Lamorgese, Rv. 651125-01, conforme a Sez. 6-1, n. 18540/2016, Bisogni, Rv.641171-01; Sez. 6-1, n. 12976/2016, De Chiara, Rv. 640104-01, Sez. 6-1, n. 8984/2016, Genovese, Rv. 639502-01).

Attesa l’automaticità del provvedimento espulsivo, il giudice innanzi al quale viene impugnato è tenuto unicamente a controllare la sussistenza, al momento dell’espulsione, dei requisiti di legge che ne imponevano l’emanazione (così da ultimo Sez. 1, n. 28860/2018, Terrusi, Rv. 651500-01, che ha altresì ammesso accertamenti medico-legali in caso di dubbi sulla maggiore età della persona espulsa) i quali consistono nella mancata richiesta, in assenza di cause di giustificazione, del permesso di soggiorno, ovvero nella sua revoca od annullamento o nella mancata tempestiva richiesta di rinnovo che ne abbia comportato il diniego. Il sindacato giurisdizionale è pertanto circoscritto all’accertamento dell’erroneità (o della mancanza) degli accertamenti di fatto su cui si fonda il decreto espulsivo, oppure all’ipotesi in cui lo straniero non abbia potuto esercitare la propria opzione in ordine alla richiesta di rimpatrio mediante partenza volontaria. Si è altresì precisato che il decreto non può essere dichiarato illegittimo solo perché privo di un termine per la partenza volontaria, così come previsto dalla direttiva 2008/115/CE, posto che tale mancanza può incidere sulla misura coercitiva adottata per eseguire l’espulsione, ma non sulla validità del provvedimento espulsivo (v., in parte motiva, Sez. 6-1, n. 25414/2018, Lamorgese, Rv. 651125-01, conforme a Sez. 6-1, n. 18540/2018, Bisogni, Rv. 641169-01).

Come già chiarito da Sez. 6-1, n. 12976/2016, De Chiara, Rv. 640104-01, al giudice dell’opposizione al provvedimento di espulsione non è consentita alcuna valutazione sulla legittimità del provvedimento del questore che abbia rifiutato, revocato o annullato il permesso di soggiorno, ovvero ne abbia negato il rinnovo. Tale sindacato spetta, secondo la giurisprudenza di legittimità, unicamente al giudice amministrativo, davanti al quale viene impugnato il provvedimento del questore, la cui decisione non costituisce in alcun modo un antecedente logico della decisione sul decreto di espulsione. Ne consegue che la pendenza del giudizio promosso dinanzi al giudice amministrativo per l’impugnazione del provvedimento del questore, non giustifica la sospensione del processo instaurato dinanzi al giudice ordinario con l’impugnazione del decreto di espulsione del prefetto, attesa la carenza di pregiudizialità giuridica necessaria tra il processo amministrativo e quello civile (nello stesso senso, Sez. 6-1, n. 15676/2018, Acierno, Rv. 649334-01).

Anche con riferimento al caso di proposizione della domanda di riconoscimento della protezione internazionale dopo la notifica del decreto di espulsione, Sez. 1, n. 28860/2018, Terrusi, Rv. 651500-01, ha negato la sospendibilità ex art. 295 c.p.c. del giudizio di impugnazione del decreto di espulsione, nell’attesa di quello relativo al riconoscimento della protezione internazionale, escludendo che l’accertamento delle condizioni per un titolo di soggiorno separatamente invocato si ponga in nesso di pregiudizialità con l’opposizione all’espulsione. Si consideri però che, come di seguito illustrato, Sez. 6-1, n. 19819/2018, Sambito, Rv. 650342-01, ha affermato che, in applicazione dell’art. 7 del d.lgs. n. 25 del 2008, e in conformità alla giurisprudenza della Corte di giustizia (in particolare, Corte di giustizia, 30 maggio 2013, causa C-534/11), il cittadino straniero richiedente asilo ha diritto di rimanere nel territorio dello Stato per tutto il tempo durante il quale la sua domanda viene esaminata, anche se è stata presentata dopo l’emissione del decreto di espulsione, sicché, operando il divieto di espulsione, il rigetto dell’opposizione, da lui proposta innanzi al giudice di pace, deve ritenersi illegittimo.

Sempre con riguardo al sindacato giurisdizionale sul decreto espulsivo, si deve tenere presente che, ove il giudice in sede di opposizione accerti l’insussistenza dei presupposti giustificativi, deve annullarlo, non potendolo convalidare sulla base dell’accertata sussistenza di una diversa ragione di espulsione non contestata dal prefetto (Sez. 6-1, n. 19868/2018, Sambito, non massimata, e Sez. 6-1, n. 10529/2018, De Chiara, non massimata, ove si richiama, in termini, Sez. 6-1, n. 24150/2016, Ragonesi, non massimata). È infatti costante l’orientamento, già espresso ad esempio da Sez. 6-1, n. 5367/2016, Acierno, Rv. 639027-01, secondo cui è precluso al giudice ordinario, dinanzi al quale sia stato impugnato il provvedimento di espulsione, modificare in via interpretativa la contestazione, facendovi rientrare una diversa fattispecie, che è fenomenicamente e giuridicamente diversa. Tale conclusione è ricavata dalla descritta natura vincolata del provvedimento di espulsione, il quale, pertanto, deve essere cadenzato sulle ipotesi di violazione rigorosamente descritte dalla normativa.

Ancora in tema di possibili vizi del provvedimento espulsivo, deve menzionarsi Sez. 1, n. 28115/2018, Sambito, Rv. 651469-01, ove (conformemente a Sez. 6- 1, n. 28330/2017, Sambito, Rv. 646780-01) è invece affermata la legittimità del provvedimento di espulsione dello straniero dal territorio dello Stato emesso dal vice prefetto aggiunto, a ciò delegato dal vice prefetto vicario, in quanto la previsione di tre distinte figure professionali della carriera prefettizia (prefetto, vice-prefetto vicario e vice-prefetto aggiunto), ciascuna titolare di proprie attribuzioni, non esclude la facoltà di delega al compimento di singoli atti, rientranti nelle attribuzioni del delegante, al funzionario delegato, mentre è del tutto irrilevante che tale funzione non sia ricompresa nelle attribuzioni proprie del delegato.

Un caso di conflitto (negativo) di competenza tra giudice di pace, adito in sede di opposizione contro il decreto di espulsione, e tribunale, investito del giudizio al diniego di permesso di soggiorno per motivi familiari, è stato risolto da Sez. 6-1, n. 18622/2018, Marulli, Rv. 649650-01, (v. infra la parte dedicata al diritto all’unità familiare).

5.2. I casi d’inespellibilità.

L’istituto dell’espulsione amministrativa si intreccia con la garanzia dell’inespellibilità dello straniero, che ne preclude l’esecuzione coattiva.

Principale causa di inespellibilità è (tranne alcune eccezioni) la presentazione della domanda di protezione internazionale. Sotto il profilo sostanziale, la disciplina europea e nazionale sancisce in via generale il diritto dei richiedenti la protezione internazionale a rimanere nello Stato membro, sia durante il periodo dell’esame amministrativo della loro domanda di protezione (art. 9 della direttiva 2013/32/CE e art. 7, comma 1, del d.lgs. n. 25 del 2008), sia durante il periodo di attesa della definizione della fase giurisdizionale (v. artt. 9 e 46 direttiva 2013/32/UE e 35-bis, comma 3, del d.lgs. n. 25 del 2008, quest’ultimo articolo aggiunto dal d.l. n. 13 del 2017 e poi modificato dal d.l. n. 113 del 2018).

Si deve tenere presente che l’art. 35-bis, comma 3, del d.lgs. n. 25 del 2008 stabilisce che la proposizione del ricorso avverso la decisione della Commissione Territoriale determina la sospensione automatica degli effetti del provvedimento impugnato, tranne che in alcuni casi tassativamente indicati alle lett. a), b), c), d) del medesimo comma (quando il ricorrente sia trattenuto in un centro di permanenza per i rimpatri, quando vi sia un provvedimento di inammissibilità della domanda, o quando la domanda sia manifestamente infondata, quando la domanda sia stata presentata dopo che il ricorrente sia stato fermato per avere eluso o tentato di eludere i controlli alla frontiera, ovvero fermato in condizioni di soggiorno illegale, al solo scopo di impedire l’adozione o l’esecuzione di un provvedimento di espulsione o respingimento). L’art. 3, comma 2, lett. c), del d.l. n. 113 del 2018, ha poi specificato che la lett. a) riguarda l’ipotesi in cui il ricorso sia proposto da parte di un soggetto «nei cui confronti è stato adottato un provvedimento di trattenimento nelle strutture di cui all’art. 10-ter del d.lgs. n. 286 del 1998». In tali casi la sospensiva può tuttavia essere accordata a richiesta del ricorrente in presenza di gravi e circostanziate ragioni, con decreto motivato da assumersi inaudita altera parte entro cinque giorni dal deposito della richiesta.

Ai sensi dell’art. 35-bis, comma 5, d.lgs. n. 25 del 2008, nel testo introdotto dal d.l. n. 13 del 2017, non è mai sospesa l’efficacia esecutiva del provvedimento della Commissione Territoriale nei casi in cui questa dichiari, per la seconda volta, inammissibile la domanda reiterata senza addurre elementi nuovi. Il d.l. n. 113 del 2018 ha poi modificato tale comma, prevedendo l’impossibilità della sospensione dell’efficacia esecutiva del provvedimento della Commissione Territoriale anche nell’ipotesi in cui l’inammissibilità sia dichiarata per la prima volta, modificando l’articolo nel modo che segue: «la proposizione del ricorso o dell’istanza cautelare, ai sensi del comma 4 non sospende l’efficacia esecutiva del provvedimento che dichiara inammissibile la domanda di riconoscimento della protezione internazionale ai sensi dell’art. 29, comma 1, lett. b), nonché del provvedimento adottato ai sensi dell’art. 32, comma 1-bis».

Infine, in applicazione dell’art. 35-bis, comma 13, del d.lgs. n. 25 del 2008, come formulato con il d.l. n. 13 del 2017, nel caso in cui sia stata disposta o sia intervenuta in via automatica la sospensione del provvedimento impugnato, questa viene meno se «con decreto anche non definitivo, il ricorso è rigettato».

Si deve peraltro tenere presente che, come supra evidenziato, la S.C. ha risposto alle censure di costituzionalità di tale disposizione per contrasto con gli articoli 3, 24 e 111 Cost., da ultimo con la recentissima Sez. 1, n. 32319/2018, Lamorgese, Rv. 651902-01, dichiarandole manifestamente infondate.

Tanto premesso, come già accennato, Sez. 6-1, n. 19819/2018, Sambito, Rv. 650342-01, ha affermato che sussiste il diritto del richiedente asilo di rimanere nel territorio dello Stato per tutto il tempo in cui la sua domanda viene esaminata, anche se è stata presentata dopo l’emissione del provvedimento di espulsione, il quale, in ogni caso, non può essere eseguito – fermo restando che, in presenza delle altre condizioni di legge, può comunque essere disposto il suo trattenimento, nel caso in cui la richiesta appaia del tutto strumentale – sicché, operando il divieto di espulsione, il rigetto dell’opposizione avverso il decreto di espulsione, da lui proposta innanzi al giudice di pace, deve ritenersi illegittimo (in precedenza v. Sez. 6-1, n. 24415/2015, De Chiara, Rv. 637981-01).

Nello stesso senso, Sez. 6-1, n. 28003/2018, Acierno, Rv. 651151-01, ha da ultimo ribadito che la proposizione del ricorso del richiedente asilo avverso il provvedimento di diniego della protezione internazionale emesso dalla Commissione Territoriale è dotato, in via generale, di efficacia sospensiva automatica fino alla decisione sul ricorso.

Si deve comunque tenere presente, come evidenziato da Sez. 6-1, n. 18737/2017, Di Virgilio, Rv. 645680-01, che l’art. 19, comma 4, del d.lgs. n.150 del 2011, sino alla sua abrogazione, avvenuta ad opera del d.l. n. 13 del 2017, conv., con modif., nella l. n. 46 del 2017, prevedeva, in caso di impugnazione, la sospensione ex lege del provvedimento di diniego della protezione internazionale, senza alcun termine di cessazione, sicché la sospensione operava, secondo la disciplina ratione temporis vigente, sino al termine del giudizio, e dunque sino al passaggio in giudicato della statuizione. Con l’entrata in vigore dell’art. 35-bis, comma 13, del d.lgs. n. 25 del 2008, come introdotto dall’art. 6, comma 1, lett. g), del d.l. n. 13 del 2017, invece, in caso di rigetto del ricorso con decreto del tribunale, si verifica la cessazione dell’effetto sospensivo, anche se tale decreto non viene impugnato.

Anche il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui all’art. 6, comma 5, del d.lgs. n. 286 del 1998 – fattispecie “generale” soppressa dal d.l. n. 113 del 2018, conv., con modif., dalla l. n. 132 del 2018 – rende inefficace, e dunque ineseguibile, il decreto di espulsione precedentemente emesso, il quale, come sancisce Sez. 6-1, n. 21609/2018, Valitutti, Rv. 650345-01, deve essere revocato in autotutela dalla stessa amministrazione e, in caso di inerzia, spetta al giudice di pace adito in sede di opposizione dichiararne la perdita di efficacia. Anche per Sez. 6-1, n. 14268/2014, De Chiara, Rv. 631625-01, il rilascio del menzionato permesso di soggiorno comporta la cessazione di efficacia del precedente decreto di espulsione, che non può più avere esecuzione, ma viene precisato che ciò basta per ritenere cessata la materia del contendere, essendo in questo modo conseguito il risultato cui tende il ricorso avverso il provvedimento espulsivo, senza che possa ritenersi persistente l’interesse all’annullamento del decreto di espulsione, dato che la posizione giuridica dell’interessato resta regolata dal permesso di soggiorno conseguito).

Detto arresto giurisprudenziale si ricollega al più generale indirizzo secondo cui, alla luce di un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 14 del d.lgs. n. 286 del 1998 in relazione all’art. 5, par. 1, CEDU (che consente la detenzione di una persona, a fini di espulsione, a condizione che la procedura sia regolare), il giudice, in sede di convalida del decreto di trattenimento dello straniero raggiunto da provvedimento di espulsione, è tenuto a rilevarne incidenter la manifesta illegittimità, che può consistere anche nella situazione di inespellibilità dello straniero (così Sez. 6-1, n. 24415/2015, De Chiara, Rv. 637982-01).

La giurisprudenza ha poi enucleato altre ipotesi di inespellibilità. Come chiarito da Sez. 6-1, n. 12713/2016, De Chiara, Rv. 640100-01, può inibire l’esercizio del potere espulsivo, nel caso di scadenza del permesso di soggiorno oltre il limite temporale stabilito nell’art. 13, comma 2, lett. b), del d.lgs. n. 286 del 1998, il mancato rifiuto esplicito (o per facta concludentia) di ricevere l’istanza di rinnovo, ancorché tardivamente proposta, del permesso di soggiorno scaduto, che può integrare una causa di addebitabilità all’amministrazione della permanenza illegale, purché lo straniero fornisca la prova del comportamento dilatorio ed ostruzionistico subito. D’altra parte, Sez. 6-1, n. 12713/2016, De Chiara, Rv. 640099-01, ha ritenuto che la spontanea presentazione della domanda di rinnovo del permesso di soggiorno oltre il termine di sessanta giorni dalla sua scadenza non consente l’espulsione automatica, che può essere disposta solo se la domanda sia stata respinta per la mancanza, originaria o sopravvenuta, dei requisiti richiesti dalla legge per il soggiorno dello straniero sul territorio nazionale, mentre il ritardo nella presentazione può costituirne solo un indice rivelatore, nel quadro di una valutazione complessiva, della situazione in cui versa l’interessato.

Sez. 6-1, n. 10341/2018, De Chiara, Rv. 648280-01, ha invece escluso che costituisca causa di inespellibilità la pendenza di procedimenti penali a carico dello straniero, in quanto l’interesse dello stesso a partecipare al processo ed ad esercitare il suo diritto di difesa (art. 24 Cost.) è comunque tutelato dall’autorizzazione al rientro prevista dall’art. 17 del d.lgs. n. 286 del 1998 (in senso conforme, Sez. 6-1, n. 19140/2014, De Chiara, Rv. 632077-01).

Sez. 6-1, n. 16272/2018, Acierno, Rv. 649787-01, ha infine precisato che, ove, in sede di impugnazione del decreto di espulsione prefettizio, il ricorrente alleghi specificamente la pendenza, alla data di emissione del decreto di espulsione, della procedura di emersione dal lavoro irregolare ex art. 5, comma 11, del d.lgs. n. 109 del 2012, è onere del giudice accertare la veridicità di quanto dedotto, ai fini della conseguente applicazione del divieto di espulsione, anche mediante richiesta di informazioni alla p.a. ex art. 213 c.p.c. Ne consegue che, in mancanza di tale accertamento, l’ordinanza del giudice di pace che rigetti l’opposizione deve considerarsi illegittima.

Per quanto riguarda i limiti all’espulsione correlati alla tutela dell’unità familiare, si rinvia infra al capitolo a ciò specificamente dedicato.

5.3. Il trattenimento dello straniero e le misure alternative.

Come già accennato, sia nel caso dell’espulsione che nel caso respingimento “differito”, il questore può disporre il trattenimento dello straniero in un centro di identificazione ed espulsione (CIE, ora CPR) ai sensi dell’art. 14, comma 1, del d.lgs. n. 286 del 1998. Si tratta di una misura che incide sulla libertà personale, strumentale all’esecuzione del provvedimento di allontanamento che è soggetta a convalida da parte del giudice di pace (per effetto del d.l. n. 241 del 2004, conv. con modif. in l. n. 271 del 2004), anche con riferimento all’eventuale richiesta di proroga del trattenimento medesimo.

In base all’art. 14, comma 1-bis, del d.lgs. n. 286 del 1998, lo straniero attinto da decreto prefettizio di espulsione – non eseguito – che sia in possesso di passaporto o di altro documento equipollente in corso di validità, anziché essere trattenuto, può essere destinatario di una o più delle seguenti misure adottate dal questore con provvedimento motivato comunicato entro quarantotto ore dalla notifica al giudice di pace competente per territorio il quale, se ne ricorrono i presupposti, le convalida nelle successive quarantotto ore:

a) consegna del passaporto o altro documento equipollente in corso di validità, da restituire al momento della partenza;

b) obbligo di dimora in un luogo preventivamente individuato, dove possa essere agevolmente rintracciato;

c) obbligo di presentazione, in giorni ed orari stabiliti, presso un ufficio della forza pubblica territorialmente competente.

Si consideri che, secondo Sez. 6-1, n. 20108/2016, De Chiara, Rv. 641863-01, l’adozione delle misure alternative al trattenimento ex art. 14, comma 1-bis, del d.lgs. n. 286 del 1998 richiede necessariamente che lo straniero possieda il passaporto o altro documento equipollente in corso di validità, tale non potendo essere considerato il permesso di soggiorno previamente rilasciato a seguito di richiesta di asilo (nella specie, scaduto in conseguenza dell’esito negativo della relativa procedura), perché privo dell’accertamento dell’identità e della nazionalità del titolare.

Il procedimento di convalida del trattenimento o delle misure ad essa alternative è analogo a quello della convalida dell’accompagnamento alla frontiera ed è disciplinato dall’art. 14, commi 3 e 4, del d.lgs. n. 286 del 1998, che fa applicazione dell’art. 13 Cost., con previsione del termine di quarantotto ore per l’emissione del decreto di convalida del trattenimento, previsto a pena di inefficacia. Secondo Sez. 6-1, n. 8268/2016, De Chiara, Rv. 639487-01, ai fini del controllo dei termini di legge, è indispensabile che risulti non soltanto il giorno, ma anche l’ora in cui il decreto di convalida viene emesso. In particolare si è precisato che, ove la convalida intervenga in corso d’udienza, è sufficiente l’indicazione dell’ora in cui questa si è svolta nel relativo verbale. Ove, invece, il decreto sia emesso con distinto provvedimento, è necessario che sia precisata l’ora del suo deposito in cancelleria, posto che il provvedimento emesso fuori udienza viene ad esistenza soltanto con il deposito. Nel caso in cui tale precisazione manchi, il provvedimento è da ritenersi nullo, per difetto di un requisito essenziale ai fini del raggiungimento dello scopo (art. 156, comma 2, c.p.c.).

Con coeve ordinanze interlocutorie di analogo contenuto (Sez. 1, n. 21930/2018, De Chiara, Rv. 650171-01, e Sez. 1, n. 21931/2018, Cirese, non massimata, è stata dichiarata rilevante, e non manifestamente infondata, la questione di costituzionalità dell’art. 14, comma 1-bis, lett. c) del d.lgs. n. 286 del 1998, nella parte in cui non prevede che il giudizio di convalida della misura, ivi regolata (obbligo di presentazione, in giorni ed orari determinati, presso un ufficio di polizia), si svolga in udienza con la partecipazione necessaria del difensore del destinatario (e con nomina di un difensore di ufficio in caso di mancata nomina di un difensore di fiducia), per contrasto con l’art. 13 Cost., in tema di provvedimenti limitativi della libertà personale, e con l’art. 24, comma 2, Cost., in tema di diritto di difesa in giudizio. Richiamando i precedenti esiti, sanciti da Corte cost. n. 144 del 1997, con riferimento all’analogo istituto dell’art. 6, comma 3, della l. n. 401 del 1989 e succ. modif. in tema di manifestazioni sportive, ad avviso della S.C., tali vulnera non possono essere risolti in via interpretativa, attesi gli insuperabili limiti letterali della disposizione censurata, la quale prevede la «facoltà di presentare personalmente o a mezzo difensore memorie o deduzioni al giudice della convalida» come alternativa all’udienza di convalida con la partecipazione necessaria del difensore, prevista invece per le misure del trattenimento in un centro di permanenza per i rimpatri e dell’accompagnamento alla frontiera. Si deve tuttavia tenere presente che Sez. 6-1, n. 02997/2018, Lamorgese, Rv. 647048-01, senza tuttavia fornire una specifica motivazione sul punto, ha ritenuto necessaria anche per la convalida delle misure alternative al trattenimento la celebrazione dell’udienza prevista dal comma 4 dell’art. 14 del d.lgs. n. 286 del 1998, estendendo le stesse garanzie della comunicazione della data d’udienza e della partecipazione necessaria del difensore, di fiducia o di ufficio nel caso in cui l’interessato ne sia sprovvisto.

Con riferimento alla proroga del trattenimento, Sez. 6-1, n. 7158/2016, De Chiara, Rv. 639310-01, ha ritenuto sufficiente ai fini della tempestività della stessa, che essa sia disposta nel termine originario di scadenza del trattenimento, mentre il decorso, tra la corrispondente richiesta e la sua convalida da parte del giudice di pace, di un tempo superiore alle quarantotto ore, non ne inficia la validità, non ponendosi alcuna esigenza di rispetto dell’art. 13, comma 3, Cost., atteso che il giudice non interviene per convalidare un provvedimento restrittivo già emesso dal questore, ma emette egli stesso il provvedimento restrittivo. In senso difforme, invece, Sez. 6-1, n. 3298/2017, Genovese, Rv. 643361-01, ha affermato che il provvedimento di proroga del trattenimento in un centro di identificazione ed espulsione (CIE) di uno straniero richiedente asilo o protezione internazionale deve essere disposto, a pena di nullità, nel termine di quarantotto ore dalla richiesta del questore, imponendo gli strumenti internazionali e comunitari (oltre che la legge nazionale) che il giudice, nel termine menzionato, debba motivare in ordine alla necessità di tale eccezionale misura limitativa della libertà personale, anziché di quelle alternative previste dalla legge, in rapporto alla delibazione della richiesta di protezione internazionale.

Sempre in tema di proroga del trattenimento, inserendosi nel solco della consolidata giurisprudenza di legittimità, Sez. 6-1, n. 12709/2016, De Chiara, Rv. 640098-01, ha applicato al procedimento giurisdizionale sulla richiesta di proroga del trattenimento presso il CIE le stesse garanzie del contraddittorio, consistenti nella partecipazione necessaria del difensore e nell’audizione del trattenuto, previste per il procedimento di convalida della prima frazione temporale del trattenimento, senza necessità di specifica richiesta del trattenuto di essere sentito dal giudice (nello stesso senso, Sez. 1, n. 28423/2018, Bisogni, Rv. 651451-01).

Con riguardo al rapporto tra il giudizio sul provvedimento di espulsione e l’accertamento in sede penale dei fatti, che potrebbero essere posti a base della valutazione di pericolosità dell’espulso, Sez. 6-1, n. 12711/2016, De Chiara, Rv. 640097-01, ha ravvisato un rapporto di connessione e non di pregiudizialità in senso tecnico-giuridico ex art. 295 c.p.c.

Sez. 6-1, n. 3007/2018, Lamorgese, non massimata, ha infine escluso, in caso di impugnazione della convalida della misura alternativa al trattenimento, la possibilità di sottoporre alla cognizione del giudice circostanze personali che avrebbero potuto essere fatte valere in sede di impugnazione del decreto di espulsione, ribadendo il costante indirizzo sulla “doppia tutela”, incentrato sul sindacato a cognizione piena in sede di ricorso avverso l’espulsione e su quello solo limitato alla mera esistenza formale e all’efficacia dell’atto presupposto in sede di convalida delle misure di esecuzione dell’espulsione (orientamento scalfito da Sez. 6-1, n. 17407/2014, Acierno, Rv. 632264-01, che ha invece affermato la possibilità del giudice del trattenimento di rilevare la manifesta illegittimità dell’atto presupposto).

6. Il minore straniero.

Il d.lgs. n. 286 del 1998 disciplina anche l’ingresso, la permanenza, il respingimento e l’espulsione degli stranieri in Italia, tra i quali gli stranieri minorenni, applicandosi la normativa a tutti quei cittadini non appartenenti all’Unione europea e agli apolidi. Vanno infatti distinti gli stranieri qualificati come comunitari (titolari di una cittadinanza europea, sancita dal trattato di Maastricht, la quale, basandosi sull’appartenenza ad uno degli Stati membri dell’Unione, permette un’equiparazione quasi totale ai cittadini italiani) e gli stranieri extracomunitari che, non appartenendo ad alcuno Stato membro della Unione europea, hanno una posizione giuridica diversa dai primi. Il d.lgs. cit., applicabile ai soli stranieri extracomunitari, offre una particolare rilevanza giuridica alla figura del minorenne straniero clandestino oppure irregolare, il quale, a sua volta, può essere accompagnato o non accompagnato da almeno uno dei genitori, o in alternativa da un parente entro il quarto grado, clandestinamente oppure irregolarmente soggiornante. Disciplina a se stante e di recente “creazione” riguarda poi la categoria dei minori stranieri non accompagnati.

6.1. Le fonti.

La normativa a tutela dei minori extracomunitari deriva dalla lettura combinata delle norme disciplinanti la tutela dei minori con quelle regolanti la posizione dei cittadini extracomunitari in Italia.

Le norme relative ai minori derivano da:

1) gli articoli 2, 3, 29, 30, 31, 37 della Costituzione. Dal quadro complessivo di tali norme risulta che la Carta Costituzionale considera il minore come un soggetto meritevole di una tutela specifica sotto diversi profili: come essere umano, come figlio e come lavoratore;

2) la Convenzione ONU sui diritti del fanciullo siglata a New York il 21 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con l. n. 176 del 1991. Tale convenzione stabilisce i principi che gli Stati parti si impegnano ad introdurre nei rispettivi ordinamenti ed ai quali si devono ispirare i procedimenti giurisdizionali ed amministrativi che riguardano ogni minore di età;

3) la Convenzione di Lussemburgo del 20 maggio 1980 e la Convenzione dell’Aja del 25 ottobre 1980 sui provvedimenti di affidamento e sottrazione di minori ratificate e rese esecutive con l. n. 64 del 1994;

4) la Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli del 25 gennaio 1996, ratificata e resa esecutiva in Italia con l. n. 77 del 2003. Tale trattato, approvato a Strasburgo dall’Assemblea del Consiglio d’Europa, contiene una serie di disposizioni, volte a rafforzare la tutela ed il rispetto dei diritti dei minori;

5) la direttiva 2003/86/CE del Consiglio del 22 settembre 2003 che, nei “considerando”, riprendendo i principi riconosciuti in particolare nell’art. 8 della Convenzione europea, per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali dell’Unione europea, ribadisce che è compito degli Stati membri “assicurare la protezione della famiglia ed il mantenimento o la creazione della vita familiare”;

6) la direttiva 2003/9/CE del Consiglio del 27 gennaio 2003, recante norme minime relative all’accoglienza dei richiedenti asilo negli Stati membri, successivamente abrogata dalla direttiva 2013/33/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013;

7) le norme del codice civile in materia di tutela e di responsabilità genitoriale, ovvero l’art. 403 c.c. che dispone interventi urgenti di protezione per i minori, gli artt. artt. 330 e ss. c.c. in materia di sospensione e decadenza della responsabilità genitoriale, gli artt. 343 e ss. c.c. che disciplinano l’apertura della tutela;

8) le norme sull’affidamento dei minori, ovvero gli articoli 4 e 9 della l. n. 184 del 1983, riformata dalla l. n. 149 del 2001, che regolano l’affidamento giudiziale, consensuale e intrafamiliare dei minori.

Le norme relative all’immigrazione sono:

1) il d.lgs. n. 286 del 98 e successive modificazioni ed il relativo regolamento di attuazione, d.P.R. n. 394 del 1999 n. 394, che disciplinano il rilascio del permesso di soggiorno e l’esercizio da parte dei minori stranieri di alcuni diritti fondamentali;

2) la l. n. 47 del 2017, che ha dettato una nuova disciplina in materia di protezione dei minori stranieri non accompagnati.

6.2. I minori stranieri non accompagnati.

Giova a questo punto menzionare la legge n. 47 del 2017, che per la prima volta detta una disciplina unitaria per la tutela dei minori stranieri non accompagnati, colmando vuoti normativi e stabilendo importanti misure, pur se in relazione alla stessa non possono ancora menzionarsi pronunce della S.C.

La legge n. 47 del 2017 ha individuato (art. 2) la definizione di minore non accompagnato, ai soli fini della sua applicazione, stabilendo che si deve intendere «il minorenne non avente cittadinanza italiana o dell’Unione europea che si trova per qualsiasi causa nel territorio dello Stato o che è altrimenti sottoposto alla giurisdizione italiana, privo di assistenza e di rappresentanza da parte dei genitori o di altri adulti per lui legalmente responsabili in base alle leggi vigenti nell’ordinamento italiano».

La norma non precisa quale sia la maggiore età, che quindi deve ritenersi compiuta al raggiungimento dei diciotto anni, come stabilito dall’art. 2 c.c., così superando le ambiguità che, in passato, avevano portato a prendere in considerazione la più elevata soglia di età stabilita dal paese d’origine.

La definizione non comprende i minori cittadini italiani o dell’Unione europea, ai quali, quindi, non si applica la disciplina stabilita dalla legge de qua, trovando invece applicazione le norme sui minori stabilite dal diritto nazionale.

All’opposto, viene stabilito il principio della parità di trattamento dei minori stranieri (intesi quindi quali extracomunitari) rispetto ai cittadini italiani e dell’Unione europea prevedendo espressamente (art. 1) che «sono titolari dei diritti in materia di protezione dei minori a parità di trattamento con i minori di cittadinanza italiana o dell’Unione Europea» ed ha introdotto un apprezzabile sistema di tutela «in ragione della loro condizione di maggiore vulnerabilità».

6.3. Cenni alla disciplina di cui alla legge n. 47 del 2017.

Facendo qualche breve cenno alla nuova disciplina, la stessa, nel suo complesso, segna un momento di evoluzione rispetto al passato, in quanto mira a superare la logica dell’assistenza e a promuovere una politica di accoglienza. Proprio in quest’ottica devono essere osservate disposizioni particolarmente qualificanti, quali quella che consacra in termini assoluti il principio di non-refoulement, sancendo il divieto assoluto di respingimento alla frontiera (art. 3), nonché quella che introduce significative modifiche della disciplina vigente al fine di assicurare un’adeguata e specifica tutela ai minori richiedenti protezione internazionale (art. 20). Sempre in questo senso assumono rilievo le disposizioni che fanno emergere una finalità d’inclusione che si espande oltre il compimento della maggiore età e si realizza mediante «misure di integrazione di lungo periodo» (art. 13).

L’obiettivo di conciliare l’ineludibile esigenza di presidiare la sicurezza del territorio nazionale e controllare i flussi migratori con quella di tutelare i diritti fondamentali della persona è posto a fondamento dell’art. 5 con riferimento all’identificazione dei minori stranieri non accompagnati. La norma prevede un colloquio volto ad approfondire la storia personale e familiare del minore ed a far emergere ogni altro elemento utile alla sua protezione. Il colloquio deve svolgersi alla presenza del personale qualificato della struttura di prima accoglienza e sotto la direzione dei servizi dell’ente locale competente.

Nell’ambito dell’identificazione assume fondamentale rilievo l’accertamento dell’età dichiarata dal minore. A tale riguardo è prevista un’articolata procedura nella quale l’accertamento dell’età anagrafica del minore è condotto con modalità che garantiscano nella massima misura possibile il rispetto dei fondamentali diritti della persona ed è svolto sulla base di accorgimenti idonei ad assicurare un’adeguata assistenza nelle more del procedimento.

L’affermazione del principio secondo cui è vietato in termini assoluti il respingimento dei minori stranieri non accompagnati ha imposto anche la riformulazione delle norme che regolano i permessi di soggiorno di questa particolare categoria di persone (art. 10). A tale riguardo la nuova disciplina prevede infatti che – in particolari ipotesi nelle quali la legge disponga il divieto di respingimento o di espulsione – possa essere rilasciato dal questore al minore straniero non accompagnato, rintracciato nel territorio nazionale e segnalato alle autorità competenti, un “permesso di soggiorno per minore età”. Detto permesso – la cui validità si estende sino al compimento della maggiore età – potrà essere rilasciato anche prima della nomina del tutore ai sensi dell’art. 346 c.c., qualora ne faccia richiesta lo stesso minore direttamente oppure avvalendosi di colui che esercita la responsabilità genitoriale. Sono inoltre contemplate ulteriori ipotesi di rilascio del permesso di soggiorno per motivi familiari al minore che risulti affidato ai sensi dell’articolo 9, comma 4, della l. n. 184 del 1983 o che sia sottoposto alla tutela di un cittadino italiano o di uno straniero regolarmente soggiornante nel territorio nazionale. A tale riguardo è prevista una disciplina differenziata a seconda che il minore abbia un’età inferiore ai quattordici anni oppure compresa tra i quattordici e i diciotto anni.

7. L’unità familiare.

Il diritto all’unità familiare viene sancito in termini espressi dall’art. 28 del d.lgs. n. 286 del 1998 emergendo l’interesse prioritario del legislatore ad assicurare una incisiva protezione della vita familiare in particolare allorché del nucleo medesimo facciano parte dei minori. Mezzi ordinari di attuazione di tale diritto, nonché del connesso diritto del minore a crescere e ad essere educato nell’ambito della propria famiglia, sono l’istituto del ricongiungimento familiare (art. 29) ed il rilascio del permesso di soggiorno per motivi familiari (art. 30).

La tutela dei legami familiari tuttavia, nell’interpretazione della giurisprudenza eurounitaria e nazionale, si è espansa oltre tale ambito e si coglie altresì nell’interpretazione delle norme che disciplinano il rilascio del permesso di soggiorno e l’espulsione.

A riguardo va in primis menzionata la sentenza della Corte Costituzionale n. 202 del 2013 (Corte cost., 18 luglio 2013, n. 202), la quale – nel dichiarare l’illegittimità costituzionale parziale dell’art. 5, comma 5, del d.lgs. n. 286 del 1998 nella parte in cui non prevede che la valutazione in concreto della pericolosità sociale da eseguire in sede di rilascio, revoca o rinnovo del permesso di soggiorno possa essere svolta tanto nei confronti dello straniero che abbia esercitato il diritto al ricongiungimento familiare o del familiare ricongiunto quanto nei confronti di chi abbia legami familiari nel territorio dello Stato – ha chiarito che anche in quest’ultima ipotesi deve tenersi conto della durata del soggiorno e del quadro dei legami, non solo familiari, ma anche sociali, prospettando espressamente l’adozione dell’interpretazione della giurisprudenza EDU relativa all’art. 8 come parametro interposto di costituzionalità della norma impugnata.

Tali principi comportano anche l’estensione dell’ambito di applicazione dell’art. 13, comma 2-bis, del d.lgs. n. 286 del 1998, come da ultimo ribadito da Sez. 1, n. 23957/2018, Pazzi, Rv. 650406-01, anche alla valutazione della posizione del cittadino straniero che abbia legami familiari nel nostro paese, ancorché questi non si trovi nelle condizioni di richiedere formalmente il ricongiungimento familiare.

A riguardo la S.C. ha avuto modo di chiarire, che l’art. 13, comma 2-bis, del d.lgs. 286 del 1998, dando attuazione a uno dei principi cardine della direttiva 2003/86/CE, ha introdotto un rilevante temperamento nell’applicazione automatica delle cause espulsive previste dall’art. 13, comma 2, lett. a) e b), imponendo di tenere conto, nei confronti dello straniero che abbia esercitato il diritto al ricongiungimento familiare, sia per l’ipotesi dell’ingresso irregolare che per quella della mancanza del permesso di soggiorno originaria o sopravvenuta, anche della natura e dell’effettività dei vincoli familiari, della durata del soggiorno nonché dell’esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il paese di origine, ancorché lo stesso non sia nella posizione di richiedente formalmente il ricongiungimento familiare. La norma recepisce un consolidato orientamento della Corte EDU, secondo il quale non può aversi interferenza di un’autorità pubblica nell’esercizio del diritto alla vita privata e familiare a meno che questa ingerenza non sia prevista dalla legge e costituisca una misura necessaria per la sicurezza nazionale, la sicurezza pubblica, la prevenzione dei reati e la protezione della salute e della morale. A ciò si aggiunga che dai principi di cui alla direttiva 2008/115/CE (attuata con il d.l. n. 89 del 2011, convertito dalla l. n. 129 del 2011) si ricava che l’adozione della misura espulsiva, non può basarsi sulla mera constatazione del soggiorno irregolare, ma richiede una valutazione della situazione personale, ovvero della vita familiare, delle condizioni di salute del cittadino di un paese terzo interessato e del rispetto del principio di non-refoulement ed in tale valutazione va bilanciato il diritto dello Stato membro alla conservazione di un regime di sicurezza e di controllo del fenomeno migratorio e il nucleo dei diritti della persona connessi all’applicazione del principio di non-refoulement, ai divieti di cui all’art. 3 CEDU e al diritto alla salute e alla vita familiare.

In tema strettamente processuale, Sez. 6-1, n. 18622/2018, Marulli, Rv. 649650-01, ha risolto il conflitto negativo di competenza tra giudice di pace, destinatario dell’opposizione avverso il decreto di espulsione, e tribunale, avanti al quale era pendente il giudizio sulla richiesta dell’opponente del permesso di soggiorno per motivi familiari. La S.C. ha affermato la competenza del tribunale, per avere il legislatore inteso fare salva la vis attractiva di tale ufficio, mediante la concentrazione sul medesimo organo giudicante della cognizione dei provvedimenti incidenti sul diritto all’unità familiare.

7.1. Segue: lo straniero convivente con i parenti entro il secondo grado o con il coniuge di cittadinanza italiana.

La giurisprudenza non è ancora unitaria in ordine alla questione dei limiti al divieto di espulsione e delle condizioni ostative al rilascio e al rinnovo del permesso di soggiorno per motivi familiari nei riguardi dei soggetti individuati dall’art. 19, comma 2, lett. c), del d.lgs. n. 286 del 1998 (familiare entro il secondo grado e coniuge di cittadinanza italiana).

In proposito, si deve menzionare Sez. 6-1, n. 00701/2018, Bisogni, Rv. 647296-01, ove la Corte ha affermato che il divieto di espulsione dello straniero convivente con parente entro il secondo grado o con il coniuge di nazionalità italiana, previsto dall’art. 19, comma 2, lettera c), del d.lgs. n. 286 del 1998, e il conseguente obbligo di rilascio del permesso di soggiorno per coesione familiare, possono essere derogati, anche in sede di rinnovo, esclusivamente se ricorrono le condizioni ostative contenute nell’art. 13, comma 1, del d.lgs. cit., consistenti in “motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato”, oggetto di specifica valutazione del questore in sede di diniego di rilascio e, successivamente, del giudice eventualmente adito. La stessa Corte ha precisato che non è sufficiente, a tal fine, invocare i precedenti penali e la frequentazione di pregiudicati, atteso che tali elementi di fatto possono essere idonei ad integrare le “ragioni di sicurezza” poste a base dei provvedimenti di allontanamento di un cittadino comunitario ex art. 20 del d.lgs. n. 30 del 2007, ma non le più restrittive condizioni previste nel citato art. 13 del d.lgs. n. 286 del 1998 (nel dare applicazione al principio, la S.C. ha cassato l’ordinanza del giudice di pace, che aveva respinto il ricorso avverso il decreto di espulsione, promosso dal cittadino straniero, convivente con la madre e la moglie, entrambe italiane).

La statuizione è conforme a Sez. 6-1, n. 20719/2011, Macioce, Rv. 619704-01, espressamente richiamata in motivazione, che ha affermato lo stesso identico principio, in una fattispecie riguardante, però, l’opposizione al rigetto della richiesta di rinnovo del permesso di soggiorno per motivi familiari (cittadino straniero, figlio convivente di cittadina italiana). Nella motivazione di quest’ultima pronuncia, si legge che il rinvio all’art. 13, comma 1, del d.lgs. n. 286 del 1998, operato dall’art. 19, comma 2, lett. c), del medesimo d.lgs., al fine di indicare i limiti al divieto di espulsione e del connesso obbligo di rilascio del permesso di soggiorno per coesione familiare, interessa anche il rinnovo del titolo di soggiorno (sempre per coesione familiare), con la precisazione che detti limiti non corrispondono a quelle che, con varie ma ricorrenti formule, sono indicate dal d.lgs. n. 30 del 2007 e dal d.lgs. n. 32 del 2008 quali clausole ostative al ricongiungimento, al rinnovo o al rilascio di permessi per ragioni di famiglia del familiare di cittadino comunitario o quali ragioni del suo allontanamento, dovendo ritenersi ben chiara la differenza, quanto a gravità ed a presupposti della situazione, tra i motivi di sicurezza dello Stato o di ordine pubblico e le ragioni di pubblica sicurezza. La Corte, ha, inoltre, aggiunto che, come nella speculare ipotesi di coesione familiare per “ricongiungimento”, l’ostatività al divieto di espulsione è correlata al fatto che lo straniero possa rappresentare una minaccia per l’ordine pubblico o la sicurezza dello Stato, in base ad una valutazione che, per effetto dell’intervento normativo operato sull’art. 4, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998 (novellato dall’art. 4 della l. n.189 del 2002 ed integrato dall’art. 2 del d.lgs. n. 5 del 2007), deve essere effettuata in concreto, considerando non la mera irrogazione di condanne penali, ma anche elementi ulteriori, verificando la sussistenza, in concreto, di una grave ed attuale esposizione a pericolo per l’ordine pubblico o la sicurezza dello Stato.

Adotta un’altra soluzione interpretativa Sez. 6-1, n. 18553/2014, Acierno, Rv. 631939-01, pronunciata con riferimento ad una fattispecie, in cui era stata proposta opposizione al decreto di espulsione nei confronti di un cittadino straniero, coniuge di cittadina italiana, a cui era stato revocato per ragioni di “pericolosità sociale” il permesso di soggiorno, in precedenza rilasciato per motivi familiari. La Corte di cassazione, dopo aver precisato l’insindacabilità delle ragioni poste a fondamento della revoca del titolo di soggiorno, già confermata con pronuncia passata in giudicato, ha evidenziato che il parametro normativo a cui fare riferimento, per individuare i limiti all’espulsione del cittadino straniero coniugato con cittadino italiano, deve trarsi, non dall’art. 13, comma 1, del d.lgs. n. 286 del 1998, ma dall’art. 20, comma 1, del d.lgs. n. 30 del 2007, relativo ai cittadini comunitari, ai sensi del quale, oltre alle ragioni di ordine pubblico e di sicurezza dello Stato, da valutarsi in concreto, possono essere verificati gli “altri motivi di ordine pubblico e di pubblica sicurezza”, sicché, posto che il divieto di espulsione di cui all’art. 19, comma 2, lett. c) del d.lgs. n. 286 del 1998 costituisce condizione necessaria per il rilascio del predetto permesso al cittadino straniero coniugato con cittadina italiana, le condizioni ostative devono essere coincidenti.

A conclusioni profondamente diverse è pervenuta la recentissima Sez. 1, n. 30828/2018, Di Marzio M., Rv. 651885-01, ove la S.C. ha affermato che il menzionato divieto di espulsione, stabilito all’art. 19, comma 2, lett. c), del d.lgs. n. 286 del 1998, deve essere interpretato nel senso che esso non opera solo se, in presenza dei “motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato” di cui all’art. 13, comma 1, del d.lgs. cit., sia stato adottato il provvedimento ministeriale di alta amministrazione di competenza del Ministro dell’Interno, previa notizia al Presidente del Consiglio dei Ministri ed al Ministro degli Affari Esteri, a seguito di una valutazione comparativa degli interessi coinvolti, dovendosi escludere che l’operatività del divieto possa discendere dalla sussistenza di “motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato” altrimenti rilevati dal prefetto (in applicazione del principio enunciato, la S.C. ha cassato l’ordinanza del giudice di pace e, decidendo nel merito, ha annullato il decreto di espulsione, emesso nei confronti dello straniero, convivente con la coniuge cittadina italiana, in ragione della pacifica assenza del menzionato provvedimento ministeriale).

Con specifico riferimento al rinnovo del permesso di soggiorno per motivi familiari, Sez. 6-1, n. 17070/2018, De Chiara, Rv. 649646-01, ha ritenuto che è onere dell’autorità amministrativa e, successivamente, dell’autorità giurisdizionale, al fine di non incorrere nel vizio di motivazione, esplicitare in concreto le ragioni dell’attuale pericolosità sociale del richiedente il permesso di soggiorno, che siano tali da giustificare il rigetto dell’istanza. Ciò in quanto per effetto delle modifiche introdotte con il d.lgs. n. 5 del 2007 agli artt. 4, comma 3, e 5, comma 5 (cui è stato anche aggiunto il comma 5 bis) del d.lgs. n. 286 del 1998, in caso di richiesta di rilascio (o rinnovo) del permesso di soggiorno per motivi di coesione familiare non è più prevista l’applicabilità del meccanismo di automatismo espulsivo, in precedenza vigente, che scattava in virtù della sola condanna del richiedente per i reati identificati dalla norma sulla base di una valutazione di pericolosità sociale effettuata ex ante in via legislativa, occorrendo, invece, per il diniego, la formulazione di un giudizio di pericolosità sociale effettuato in concreto, il quale induca a concludere che lo straniero rappresenti una minaccia concreta ed attuale per l’ordine pubblico e la sicurezza, tale da rendere recessiva la valutazione degli ulteriori elementi di valutazione contenuti nel novellato art. 5, comma 5, del d.lgs. n. 286 del 1998 ovvero la natura e la durata dei vincoli familiari e, per lo straniero già presente nel territorio nazionale, la durata del soggiorno pregresso (nell’affermare il principio, la S.C. ha cassato la decisione del giudice di merito, per difetto di motivazione, in un caso di impugnazione del diniego di rinnovo del permesso di soggiorno per motivi familiari, richiesto dallo straniero, convivente con moglie e figlio minorenne di cittadinanza italiana, che era stato condannato per spaccio di stupefacenti).

Nello stesso senso, Sez. 1, sentenza n. 12071/2013, Acierno, Rv. 626265-01, ha affermato che la verifica della “pericolosità sociale” costituisce una condizione ostativa al rinnovo del permesso di soggiorno per motivi familiari, richiesto dal familiare straniero di cittadino italiano o dell’Unione Europea, precisando che l’assenza di tale ostacolo deve essere valutata dall’autorità competente per il rilascio del titolo, ovvero per il mantenimento di quello preesistente, senza che tuttavia detta autorità possa procedere automaticamente all’allontanamento in violazione dei criteri di attribuzione di tale specifica funzione previsti dalla norma.

In motivazione, la Corte ha spiegato che la nuova disciplina dei titoli di soggiorno giustificati da motivi familiari, relativi ai cittadini UE e ai loro familiari, contenuta nel d.lgs. n. 30 del 2007 (attuativo della Direttiva 2004/38/CE, avente specificamente ad oggetto il diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare liberamente nel territorio degli Stati membri), si applica, nel nostro ordinamento interno, anche ai titoli di soggiorno richiesti dai familiari stranieri (non comunitari) dei cittadini italiani, ai sensi dell’art. 23 del d.lgs. cit., ove è espressamente stabilito che le disposizioni di quel d.lgs., se più favorevoli, si applicano ai familiari di cittadini italiani non aventi la cittadinanza italiana, aggiungendo che, senza dubbio, la disciplina contenuta in tale d.lgs. contiene una disciplina più favorevole. E in effetti, nel sistema del testo unico in materia di immigrazione, il permesso di soggiorno per coesione familiare, fondato sul divieto di espulsione del cittadino straniero coniugato con cittadino italiano ex art. 19, comma 2, lett. c), del d.lgs. n. 286 del 1998 e sul successivo art. 30 del medesimo d.lgs., che regola le condizioni del permesso di soggiorno per motivi familiari, attribuisce un titolo di soggiorno di natura temporanea, soggetto a rinnovi periodici e indissolubilmente legato al rapporto di coniugio e all’effettività della convivenza. La mancanza di autonomia del diritto al soggiorno e l’instabilità temporale del medesimo ne costituiscono le caratteristiche principali. Al contrario, nel sottosistema del d.lgs. n. 30 del 2007, il cittadino straniero coniugato con il cittadino italiano ottiene un titolo di soggiorno (la carta di soggiorno) dotato di ampia stabilità temporale (suscettibile di divenire permanente dopo cinque anni e non subordinato alle condizioni di rilascio della carta di soggiorno) e di tendenziale autonomia, che conserva la sua efficacia, a determinate condizioni, anche in caso di decesso o partenza del cittadino italiano (art. 11 d.lgs. n. 30 del 2007), oltre che nel caso di divorzio o annullamento del matrimonio, essendo sufficiente a tale ultimo riguardo che, anche in mancanza del diritto al soggiorno permanente di cui all’art. 14, il matrimonio sia durato almeno tre anni, di cui almeno un anno nel territorio nazionale prima dell’inizio del provvedimento di divorzio o annullamento.

La stessa Corte ha, quindi, evidenziato che, in base ad una lettura sistematica del testo normativo di derivazione comunitaria, il giudizio di “pericolosità sociale”, richiesto dall’art. 20 del d.lgs. n. 30 del 2007 ai fini dell’allontanamento del cittadino straniero, costituisce uno dei parametri di valutazione della sussistenza delle condizioni non solo per il rilascio, ma anche per il rinnovo del titolo di soggiorno per motivi familiari, precisando che tale giudizio, derivante non solo da motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato ma anche da ragioni di pubblica sicurezza, deve essere effettuato in concreto.

Al medesimo risultato è pervenuta Sez. 6-1, n. 06666/2017, Bisogni, Rv. 643648-01, relativa ad un caso di mancato rinnovo del permesso di soggiorno per motivi di coesione familiare (coniuge di cittadino italiano), in ragione della ritenuta “pericolosità sociale” del cittadino straniero non comunitario.

In tale pronuncia, la S.C. ha precisato che il divieto di espulsione di cui all’art. 19, comma 2, lett. c), del d.lgs. n. 286 del 1998 costituisce condizione necessaria per il rilascio del permesso di soggiorno per motivi di coesione familiare e, pertanto, non opera quando, per ragioni di “pericolosità sociale”, sia stato revocato il titolo di soggiorno dello straniero, anche se fondato sulla medesima condizione soggettiva produttiva dell’inespellibilità, aggiungendo che le condizioni ostative al rilascio del titolo di soggiorno devono trarsi dall’art. 20, comma 1, del d.lgs. n. 30 del 2007 e consistono, oltre che nelle ragioni di ordine pubblico e sicurezza dello Stato, da valutarsi in concreto, dagli altri motivi di ordine pubblico e di pubblica sicurezza, cui fa riferimento la norma, in relazione a comportamenti della persona, che rappresentino una minaccia concreta e attuale tale da pregiudicare l’ordine pubblico e la sicurezza pubblica.

Anche Sez. 6-1, n. 19337/2016, Acierno, Rv. 641860-01, in una controversia relativa alla revoca del permesso di soggiorno rilasciato a cittadino straniero (non comunitario) per motivi familiari (coniuge di cittadina italiana), ha affermato che l’esame della “pericolosità sociale” del coniuge straniero (non comunitario) di cittadino italiano, ai fini del rinnovo del permesso di soggiorno per motivi familiari, deve essere svolta alla luce dei criteri indicati nell’art. 20 del d.lgs. n. 30 del 2007 e può essere desunta dalla commissione di reati, che possono colpire o mettere in pericolo l’integrità fisica, come la rapina, fermo restando che la valutazione deve essere svolta in concreto, attraverso un esame della condotta complessiva del richiedente, considerata la tipologia e l’entità delle condotte delittuose, della loro continuità o sviluppo diacronico e ferma la necessità che almeno una di esse sia riconducibile alle ipotesi normativamente descritte nella citata disposizione.

La pronuncia assume, tuttavia, particolare rilevanza per le ulteriori precisazioni, che si leggono in motivazione.

Nella stessa statuizione, la S.C. ha, infatti, evidenziato le ipotesi normative indicate all’art. 20 del d.lgs. n. 30 del 2007 sono del tutto omologhe a quelle di cui all’art. 5, comma 5-bis, del d.lgs. n. 286 del 1998, regolante le condizioni di legge per il rilascio ed il rinnovo, in generale, del titolo di soggiorno anche per motivi diversi da quelli volti a salvaguardare l’unità familiare – ritenute testualmente conformi anche a quelle di cui all’art. 4, comma 3, del medesimo d.lgs., relative ai limiti all’ingresso nel territorio dello stato – rilevando che «il riferimento normativo alla ‘sicurezza dello Stato’ contenuto nel citato art. 5 comma 5-bis deve essere interpretato in correlazione con le fattispecie incriminatrici sintomatiche desumibili dagli artt. 380 e 407 cod. proc. pen. al fine di pervenire ad una nozione coerente con quella relativa alla sicurezza pubblica contenuta nell’art. 20 d.lgs. n. 30 del 2007. Tali fattispecie non riguardano soltanto reati che attentano alla sicurezza dello Stato inteso come territorio, istituzioni ed ordinamento ma anche alla sicurezza collettiva di tutti coloro che vivono all’interno di esso.»

Nella medesima ordinanza, la Corte ha, inoltre, messo in risalto la diversità di presupposti che, nel d.lgs. n. 286 del 1998, consentono l’espulsione da quelli che impediscono il rilascio e rinnovo del permesso di soggiorno, evidenziando che tale differenza è, comunque, giustificata dal fatto che la titolarità del permesso di soggiorno consente l’esercizio di un ampio spettro di diritti, anche sociali, all’interno del nostro ordinamento e, di conseguenza, giustifica un maggior rigore nella verifica del rispetto delle regole di convivenza civile, specie in correlazione con la violazione di norme penali, mentre l’annullamento di un provvedimento espulsivo pone il cittadino straniero non automaticamente in condizioni di richiedere ed ottenere un titolo di soggiorno, evitandogli con certezza soltanto il rimpatrio verso il suo paese di origine.

7.2. Il ricongiungimento familiare.

Per ricongiungimento familiare si intende l’istituto che consente allo straniero extracomunitario o apolide che vive nel territorio nazionale in base ad un regolare titolo di soggiorno oppure ad un cittadino italiano o di uno Stato UE di chiedere l’ingresso dei familiari stranieri extracomunitari o apolidi residenti all’estero, al fine di mantenere o riacquistare in modo continuativo l’unità della propria famiglia.

In base all’art. 29 T.U. immigrazione lo straniero può chiedere tra l’altro il ricongiungimento con i figli minori, anche del coniuge o nati fuori del matrimonio, non coniugati, a condizione che l’altro genitore, qualora esistente, abbia dato il proprio consenso presso la rappresentanza consolare italiana, al momento della richiesta del visto di espatrio. Sono equiparati ai figli naturali i figli minori adottati, affidati o sottoposti a tutela.

Ai fini dell’ingresso per ricongiungimento familiare, Sez. 6-1, n. 03234/2018, De Chiara, Rv. 647883-01, chiarisce che l’autorità consolare italiana non può negare il visto di ingresso sul territorio nazionale al cittadino straniero che lo domandi, al fine di attuare il ricongiungimento familiare al coniuge, cittadino straniero legittimamente soggiornante in Italia, avendo accertato che il matrimonio è stato contratto in mancanza di precedenti rapporti tra gli sposi, ed è stato concordato tra le loro famiglie. Tali circostanze non escludono il fine tipico del matrimonio, consistente nell’intento dei coniugi di formare una famiglia propria, potendo essere negato il visto d’ingresso solo in conseguenza dell’accertamento che il matrimonio è stato contratto al fine esclusivo di consentire al richiedente di entrare o soggiornare nel territorio dello Stato.

Con riguardo alla prova, Sez. 6-1, n. 04379/2018, De Chiara, Rv. 647653-01, precisa che in tema di ricongiungimento familiare, la documentazione ufficiale dello status filiationis proveniente dalle competenti autorità del Paese di nascita dell’interessato non è assistita da fede privilegiata ex art. 2700 c. c., ma ha un valore probatorio che deve essere oggetto di accertamento giudiziale unitamente alle altre prove che, secondo le regole generali, le parti hanno diritto di produrre in giudizio.

7.3. Autorizzazione all’ingresso o alla permanenza in Italia del familiare.

L’art. 31, comma 3, del d.lgs n. 286 del 1998 prevede una duplice possibilità di autorizzazione temporanea all’ingresso ed alla permanenza del familiare sul territorio nazionale in deroga alle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione, ove ricorrano gravi motivi connessi con lo sviluppo psicofisico del minore, tenuto conto della sua età e delle sue condizioni di salute.

Attorno al concetto di “gravi motivi” si sono tradizionalmente registrate contrastanti interpretazioni nell’ambito della stessa giurisprudenza di legittimità. L’orientamento risalente, nella prospettiva di salvaguardare il territorio nazionale da una immigrazione non regolamentata a sostanziale svantaggio del “superiore interesse del fanciullo”, ha interpretato restrittivamente il concetto di gravi motivi, ritenendo che questo richiedesse l’accertamento di situazioni di emergenza di natura eccezionale e contingente, di situazioni, cioè, che non siano normali e stabilmente ricorrenti nella crescita del minore (così Sez. 1, n. 11624/2001, Proto, Rv. 549252-01; Sez. 1, n. 03991/2002, Losavio, Rv. 553161-01 e Sez. 1, n. 17194/2003, Giuliani, Rv. 569291-01).

I gravi motivi connessi con lo sviluppo psicofisico del minore straniero presente nel territorio italiano erano interpretati come correlati esclusivamente alla sussistenza di circostanze contingenti ed eccezionali che ponessero in grave pericolo lo sviluppo normale della personalità del minore (dal punto di vista fisico e psichico), tanto da richiedere il sostegno del genitore per fronteggiarle, e non possono essere configurati in rapporto a situazioni che presentino carattere di normalità e tendenziale stabilità, quali le ordinarie esigenze di compimento del ciclo scolastico o dell’intero processo educativo-formativo del minore, di indeterminabile o lunghissima durata, come si desume inequivocamente dal rilievo che tale autorizzazione deve essere temporalmente limitata e revocata con la cessazione dei motivi che ne abbiano giustificato il rilascio.

In seguito a Sez. U, n. 22216/2006, Vitrone, Rv. 592144-01, ha tuttavia cominciato a farsi strada una interpretazione estensiva dei gravi motivi connessi con lo sviluppo psico-fisico del minore, non limitati dai requisiti dell’eccezionalità e contingenza, ma strettamente connessi allo sviluppo del fanciullo in modo da prenderne in considerazione il preminente interesse in relazione alle varie circostanze del caso concreto, quali l’età, le condizioni di salute (anche psichiche), nonché il pregiudizio che potrebbe a questi derivare dall’allontanamento dei familiari (nel caso di specie, in cui era stata richiesta l’autorizzazione alla permanenza del familiare che diversamente doveva essere espulso, le Sezioni Unite hanno ritenuto, in accoglimento del ricorso, che la situazione eccezionale fosse conseguenza dell’allontanamento improvviso del familiare sin allora presente, ritenendo irrilevante che nel ricorso non fossero stati indicati i gravi motivi richiesti dalla legge, in quanto il giudice adito, sulla base delle conclusioni della consulenza tecnica, aveva accolto la domanda del genitore dopo aver accertato il grave pregiudizio, che sarebbe derivato alla minore in tenerissima età dalla perdita improvvisa della figura genitoriale).

Dopo pochi anni, le Sezioni Unite si sono pronunciate di nuovo sull’argomento (Sez. U, n. 21799/2010, Salvago, Rv. 614300-01), ribadendo che la temporanea autorizzazione alla permanenza in Italia del familiare del minore, prevista dall’art. 31 del d.lgs. n. 286 del 1998, in presenza di gravi motivi connessi al suo sviluppo psico-fisico, non richiede necessariamente l’esistenza di situazioni di emergenza o di circostanze contingenti ed eccezionali, strettamente collegate alla sua salute, potendo comprendere qualsiasi danno effettivo, concreto, percepibile ed obiettivamente grave che, in considerazione dell’età o delle condizioni di salute ricollegabili al complessivo equilibrio psico-fisico, deriva o deriverà certamente al minore dall’allontanamento del familiare o dal suo definitivo sradicamento dall’ambiente in cui è cresciuto. Le medesime Sezioni Unite hanno anche precisato che deve trattarsi di situazioni non di lunga o indeterminabile durata e non caratterizzate da tendenziale stabilità che, pur non prestandosi ad essere catalogate o standardizzate, si concretino in eventi traumatici e non prevedibili, che trascendano il normale disagio dovuto al rimpatrio del minore o a quello di un suo familiare.

Ponendosi nel solco interpretativo tracciato da quest’ultima decisione, Sez. 1, n. 04197/2018, Lamorgese, Rv. 648136-01, ha ancora affermato che l’art. 31 del d.lgs. n. 286 del 1998, poiché tutela il diritto del minore ad avere rapporti continuativi con entrambi i genitori anche in deroga alle altre disposizioni del decreto, non può essere interpretato in senso restrittivo, sicché la norma non richiede la ricorrenza di situazioni eccezionali o necessariamente collegate alla sua salute, ma comprende qualsiasi danno grave che potrebbe subire il minore, sulla base di un giudizio prognostico circa le conseguenze di un peggioramento delle sue condizioni di vita con incidenza sulla sua personalità, cui egli sarebbe esposto a causa dell’allontanamento dei genitori o dello sradicamento dall’ambiente in cui è nato e vissuto, qualora segua il genitore espulso nel luogo di destinazione.

La decisione ha, in particolare, chiarito che le situazioni che possono integrare i “gravi motivi” di cui al citato art. 31 non si prestano ad essere catalogate o standardizzate, spettando al giudice di merito valutare le circostanze del caso concreto con particolare attenzione, oltre che alle esigenze di cure mediche, all’età del minore, che assume un rilievo presuntivo decrescente con l’aumentare della stessa, e al radicamento nel territorio italiano, il cui rilievo presuntivo è, invece, crescente con l’aumentare dell’età, in considerazione della prioritaria esigenza di stabilità affettiva nel delicato periodo di crescita.

Con riguardo alla rilevanza del radicamento in Italia del minore nel territorio nazionale, ai fini della verifica della ricorrenza dei gravi motivi, Sez. 6-1, n. 10930/2018, Lamorgese, Rv. 648577-01, ha precisato che tale radicamento va valutato anche nel caso in cui si sia determinato a seguito della permanenza sul territorio nazionale, conseguente ad una pregressa autorizzazione temporanea rilasciata ai genitori, non essendo vietata la possibilità di una reiterazione di tale autorizzazione, come si evince dall’art. 29, comma 6, del d.lgs. n. 286 del 1998.

Sez. 6-1, n. 09391/2018, Acierno, Rv. 649062-01, ha inoltre sottolineato che i gravi motivi connessi con lo sviluppo psicofisico del minore, rilevanti ai fini dell’ottenimento della temporanea autorizzazione alla permanenza in Italia del suo familiare, devono consistere in situazioni oggettivamente gravi, comportanti una seria compromissione dell’equilibrio psicofisico del minore, non altrimenti evitabile se non attraverso il rilascio della misura autorizzativa, senza che tale norma possa essere intesa come destinata ad assicurare una generica tutela del diritto alla coesione familiare del minore e dei suoi genitori, che comporterebbe l’effetto di superare, e porre nel nulla, la disciplina del ricongiungimento familiare tutte le volte in cui, a causa dell’espulsione del genitore irregolare, si dovesse realizzare la rottura dell’unità di una famiglia con minori, determinando l’applicazione automatica dell’autorizzazione de qua.

La pronuncia rileva anche perché ha precisato che incombe sul richiedente l’onere di allegare la specifica situazione di grave pregiudizio, che potrebbe derivare al minore dall’allontanamento del genitore (nella specie, ha rigettato il ricorso, confermando la decisione impugnata, che, in assenza di specifiche deduzioni, aveva ritenuto non valutabile alcuna situazione di radicamento nel territorio nazionale di un minore di due anni, tenuto conto che la domanda era stata presentata dai genitori poche settimane dopo il suo ingresso in Italia).

Un limite all’esame della domanda ex art. 31 del d.lgs. n. 286 del 1998 è per la giurisprudenza costituito dall’espulsione obbligatoriamente inflitta in sede penale. In tal caso, come affermato da Sez. 1, n. 03916/2018, Genovese, Rv. 647059-01, l’applicazione della misura di sicurezza dell’espulsione al cittadino straniero condannato in sede penale, ove obbligatoriamente inflitta ai sensi dell’ art. 235 c.p., perché imposta da leggi speciali (nella specie dalla legge penale in materia di stupefacenti) – e diversamente dall’ipotesi di espulsione applicata facoltativamente ex art. 15 d.lgs. n. 286 del 1998 – non consente al giudice civile, investito della richiesta di autorizzazione temporanea all’ingresso ed al soggiorno ex art. 31, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998, di svolgere alcun sindacato su tale domanda. Ciò in quanto l’esecuzione della misura spetta esclusivamente, anche in riferimento ai profili attinenti alla famiglia dello straniero condannato, al complesso sistema articolato per gradi, della magistratura di sorveglianza.

Sez. 1, n. 14238/2018, Acierno, Rv. 648936-01, ha poi affermato che, nel giudizio avente ad oggetto l’autorizzazione all’ingresso o alla permanenza in Italia del familiare di minore straniero, occorre valutare la sussistenza di comportamenti del familiare richiedente, che si rivelino incompatibili con il soggiorno nel territorio nazionale, mediante un esame complessivo della sua condotta in base ad un giudizio effettuato in concreto, al fine di stabilire, all’esito di un attento bilanciamento, se le esigenze statuali inerenti alla tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza nazionale debbano prevalere su quelle derivanti dai gravi motivi, connessi con lo sviluppo psicofisico del minore, cui la norma conferisce comunque protezione in via primaria.

Nella menzionata pronuncia, la Corte ha sottolineato che l’art. 31 d.lgs. n. 286 del 1998 pone un parametro esterno a quello che costituisce il bene tutelato dalla norma, conferendo rilievo ostativo ad attività del familiare incompatibili con la sua permanenza nel territorio nazionale, sia quando tali attività siano sopravvenute, e si rendano ostative al rinnovo dell’autorizzazione, sia quando siano riscontrate al momento del primo rilascio, e impediscono l’accoglimento della richiesta.

In altre parole, ha spiegato la stessa Corte, il giudice è chiamato in primo luogo ad accertare, con riferimento esclusivo ai minori, la sussistenza dei gravi motivi connessi con il loro sviluppo psicofisico, così come intesi dalla ormai costante giurisprudenza di legittimità a partire dalla succitata pronuncia delle Sezioni Unite (Sez. U, n. 21799/2010, Salvago, Rv. 614300-01). Esaurito positivamente tale accertamento, il giudice, a fronte del compimento da parte del familiare istante di attività incompatibili con la sua permanenza in Italia, potrà negare l’autorizzazione soltanto all’esito di un esame complessivo, svolto in concreto e non in astratto, della sua condotta, cui segua un attento giudizio di bilanciamento tra l’interesse statuale alla tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza nazionale e il preminente interesse del minore (nella specie, la S.C. ha cassato la decisione impugnata, che aveva negato l’autorizzazione ai genitori di tre minori, imputati e condannati per reati relativi alla tutela del diritto d’autore, ricettazione e contraffazione, considerati gravi in base ad un giudizio astratto, trascurando l’interesse dei minori, che così aveva assunto carattere residuale anziché considerazione primaria).

Sempre in tema di valutazione del comportamento del familiare richiedente l’autorizzazione, che risulti incompatibile con la permanenza in Italia, la Corte di cassazione, con un’ordinanza interlocutoria (Sez. 1, n. 29802/2018, De Chiara, non massimata) ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l’assegnazione alle Sezioni Unite della questione di massima di particolare importanza, in ordine al se tale comportamento possa essere preso in considerazione soltanto ai fini delle revoca dell’autorizzazione già concessa oppure anche ai fini del diniego dello stesso rilascio dell’autorizzazione richiesta.

In motivazione, la Corte ha evidenziato che l’unico precedente (Sez. 1, n. 14238/2018, Acierno, Rv. 648936-01), appena illustrato, presuppone la seconda soluzione, senza tuttavia motivare sul punto, perché la questione non era stata prospettata con il ricorso.

Nell’ordinanza in esame tuttavia, la Corte ha ritenuto che la soluzione favorevole all’attribuzione di rilevanza del comportamento del familiare anche in sede di rilascio dell’autorizzazione non fosse quella immediatamente suggerita dalla lettera dell’art. 31, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998, che consente il rilascio dell’autorizzazione anche in deroga alle altre disposizioni del medesimo d.lgs. e ne prevede la revoca (anche) per attività del familiare incompatibili con le esigenze del minore o con la permanenza in Italia. Contro tale soluzione milita, secondo la medesima Corte, non soltanto il riferimento alla sola revoca (e non anche al diniego) dell’autorizzazione, quale sanzione dell’attività incompatibile con la permanente del familiare, ma anche l’espressa previsione che l’autorizzazione può essere rilasciata anche in deroga alle altre disposizioni del d.lgs. n. 286 del 1998, comprese evidentemente quelle, come gli artt. 4, comma 3, e 5, commi 5 e 5-bis, del medesimo d.lgs., che precludono il rilascio del permesso di soggiorno in favore di soggetti con precedenti penali ostativi o che siano considerati una minaccia per l’ordine pubblico o la sicurezza dello Stato. La stessa Corte ha poi evidenziato che la disposizione in esame non sembra dare rilievo ai precedenti del soggetto interessato, bensì all’attività incompatibile con la permanenza in Italia, ponendo a base della decisione sfavorevole al familiare non una prognosi bensì un comportamento in atto al momento della decisione, del quale viene predicata non la pericolosità bensì la incompatibilità con la permanenza in Italia, senza che ne siano meglio definiti i contorni.

La questione è stata ritenuta di particolare importanza, anche per la sua collocazione al delicato incrocio tra interessi di fondamentale rilievo per l’ordinamento, quali la protezione dei minori e la tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica. Rimessa la causa ai sensi dell’art. 374 c.p.c., si attente ora la pronuncia delle Sezioni Unite.

8. Apolidia e cittadinanza in generale.

Com’è noto, la Costituzione, pur non definendo il concetto di cittadino, impone, con l’art. 22, il principio per cui nessuno può essere privato, per motivi politici, della cittadinanza. Analogamente, la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, all’art. 15, stabilisce che ogni individuo ha diritto ad una cittadinanza e che nessun individuo potrà essere arbitrariamente privato della sua cittadinanza, né del diritto di poterla mutare.

Con l’entrata in vigore del Trattato di Maastricht, è cittadina dell’Unione Europea ogni persona che abbia la cittadinanza di uno Stato membro, quale complemento automatico che non sostituisce quella nazionale. Ogni Stato dell’Unione è libero di stabilire le modalità di acquisto o di perdita della cittadinanza nazionale, in quanto la cittadinanza europea non limita l’esercizio del potere discrezionale dei singoli Stati, che dovranno però valutare le conseguenze della decisione di revocare una precedente naturalizzazione nel rispetto del principio di proporzionalità, alla luce dei parametri indicati dalla Corte di Giustizia (Corte di giustizia UE, 2 marzo 2010, causa C-135/08).

È da rilevare, inoltre, che con la l. n. 162 del 2015 l’Italia ha ratificato la Convenzione di New York del 30 agosto 1961 di riduzione dei casi di apolidia, secondo la quale, in particolare, ogni Stato contraente è tenuto a concedere la cittadinanza a una persona nata nel proprio territorio che sarebbe altrimenti apolide (art. 1).

La disciplina della cittadinanza italiana è regolata dalla l. n. 91 del 1992, che di recente ha subito alcune modifiche, introdotte dall’art. 14 del d.l. n. 113 del 2018, conv., con modif., in l. n. 132 del 2018.

8.1. L’apolide.

La condizione di apolidia, ovvero di assenza di alcuna cittadinanza, consente l’acquisto della cittadinanza italiana alla presenza di determinate condizioni, fermo restando che, in ogni caso, se l’apolide risiede legalmente nel territorio della Repubblica, è soggetto alla legge italiana per quanto si riferisce all’esercizio dei diritti civili (art. 16 della l. n. 91 del 1992).

La domanda diretta ad ottenere l’accertamento dello stato personale di apolide di cui alla Convenzione di New York del 28 settembre 1954 e all’art. 17 del d.P.R. n. 572 del 1993, apre un giudizio contenzioso in materia di stato e capacità della persona, che appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario e alla competenza del tribunale ai sensi dell’art. 9 c.p.c. (Sez. U, n. 28873/2008, Forte, Rv. 606251-01).

Proprio con riferimento a tale giudizio, Sez. 1, n. 01183/2018, Acierno, non massimata, ha evidenziato che elemento costitutivo del diritto al riconoscimento dello status di apolide è la condizione di soggetto che nessuno Stato considera come proprio cittadino nell’applicazione della propria legislazione. Tale condizione comprende non solo l’accertamento del mancato possesso della cittadinanza dello Stato o degli Stati con cui il soggetto intrattenga o abbia intrattenuto rapporti significativi, ma anche l’accertamento, intimamente connesso al primo, in ordine all’assenza delle condizioni giuridiche e/o fattuali che permettano al soggetto di acquisire – attraverso un’istanza, una dichiarazione di volontà o simili formalità di carattere amministrativo – la cittadinanza di quel determinato Stato.

La Corte ha evidenziato che non può prescindersi dall’analisi delle leggi sulla cittadinanza degli Stati rilevanti, al fine di verificare, a livello normativo, quali siano le condizioni, cui quegli ordinamenti subordinano l’acquisizione dello status civitatis, eventualmente con il supporto delle informazioni richieste dal giudice alle competenti autorità amministrative, diplomatiche o consolari dello Stato italiano o dello Stato straniero. Tuttavia, ha precisato la medesima Corte, tale cooperazione istruttoria ufficiosa (affermata da Sez. 6-1, n. 04262/2015, Acierno, Rv. 634731-01 e ribadita da Sez. 1, n. 28153/2017, Acierno, Rv. 646007-01, in fattispecie del tutto analoghe) non esclude che incomba sul richiedente l’onere di allegare specificatamente tutti i fatti costitutivi della domanda e dunque, come sopra evidenziato, la condizione di “non-cittadino” dello Stato o degli Stati di prossimità e l’assenza dei presupposti normativi e/o fattuali che consentano al medesimo il riconoscimento dello status civitatis da parte di quei medesimi Stati.

8.2. I modi di acquisto della cittadinanza.

Secondo la l. n. 91 del 1992, si può acquisire la cittadinanza:

- ius sanguinis, per nascita o filiazione (anche adozione) da un cittadino italiano (art. 1, comma 1, lett. a), art. 2 e 3);

- ius soli, per nascita sul territorio nazionale se entrambi i genitori sono ignoti o apolidi, ovvero se il figlio non segue la cittadinanza dei genitori secondo la legge dello Stato al quale questi appartengono, o ancora se si tratta di figlio di ignoti trovato nel territorio della Repubblica, qualora non venga provato il possesso di altra cittadinanza (art. 1, comma 1, lett. b) e comma 2);

- iure communicatione (art. 5) e cioè per matrimonio con cittadino italiano, se lo straniero o l’apolide risiede legalmente da almeno due anni nel territorio della Repubblica, oppure dopo tre anni dalla data del matrimonio se residente all’estero, qualora, al momento dell’adozione del decreto di concessione del Ministro dell’interno, non sia intervenuto lo scioglimento, l’annullamento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio e non sussista la separazione personale dei coniugi (senza che abbia rilievo la separazione di fatto, come precisato da Sez. 1, n. 00969/2017, Acierno, Rv. 643351-01);

- per beneficio di legge, in presenza di requisiti soggettivi ed oggettivi predeterminati (art. 4);

- per naturalizzazione, ovvero per concessione dell’Autorità a seguito di un prolungata residenza sul territorio nazionale (art. 9).

Si consideri che l’art. 14, comma 1, lett. a) del d.l. n. 113 del 2018, conv., con modif., in l. n. 132 del 2018, ha abrogato il comma 2 dell’art. 8 della l. n. 91 del 1992, cosicché non può più formarsi il silenzio assenso sulla domanda di cittadinanza, corredata della documentazione, che non sia stata esaminata per un periodo di due anni.

In tema di acquisto della cittadinanza per filiazione, si deve senza dubbio menzionare Sez. 1, n. 27925/2018, Bisogni, Rv. 651124-01, ove la S.C. ha precisato che, nel caso di riconoscimento o dichiarazione giudiziale della filiazione durante la minore età del figlio, ai sensi del combinato disposto degli artt. 2 e 23 della l. n. 91 del 1992, quest’ultimo acquista la cittadinanza dei genitori, mentre, se ciò si verifica quando il figlio è maggiorenne, egli conserva il proprio stato di cittadinanza, ma può dichiarare, entro un anno dal riconoscimento o dalla dichiarazione giudiziale della filiazione, ovvero dalla dichiarazione di efficacia del provvedimento straniero, di scegliere la cittadinanza determinata dalla filiazione. Tale dichiarazione di elezione può essere resa sia in Italia presso il comune di residenza sia all’estero presso il consolato italiano territorialmente competente.

Con riguardo invece al riconoscimento della cittadinanza del figlio di stranieri, al compimento della maggiore età, Sez. 1, n. 12380/2017, Acierno, Rv. 644317-01, ha ritenuto che la verifica del possesso dei requisiti previsti dall’art. 4 della l. n. 91 del 1992 comporta che debba essere accertata la residenza ininterrotta in Italia del richiedente fin dalla nascita, applicandosi il criterio della residenza effettiva, che può essere dimostrata con ogni idonea documentazione, dovendo tale criterio ritenersi prevalente sulla residenza anagrafica.

8.3. Le preclusioni all’acquisto della cittadinanza.

Com’è noto, l’art. 6 della l. n. 91 del 1992 prevede che, in caso di condanna per determinati reati, non si possa concedere la cittadinanza italiana ai sensi dell’art. 5 della medesima legge, a meno che il cittadino straniero non ottenga la riabilitazione.

Sul punto la S.C. ha precisato come l’effetto preclusivo dell’acquisto della cittadinanza, non dipenda dalla mera irrogazione della sanzione penale, bensì dall’accertamento della responsabilità e dal giudizio di colpevolezza, non potendo quindi derivare dalla pronuncia della sentenza di applicazione su richiesta ai sensi dell’art. 444 c.p.c., perché richiede una vera e propria sentenza di condanna (Sez. 1, n. 24312/2007, Salmè, Rv. 601197-01).

8.4. La revoca della cittadinanza ex art. 10-bis l. n. 91 del 1992 e gli altri casi di perdita della cittadinanza.

L’art. 14, comma 1, lett. d) del d.l. n. 113 del 2018, conv., con modif., in l. n. 132 del 2018, ha introdotto l’art. 10-bis alla l. n. 91 del 1992, che stabilisce la possibilità di revoca della cittadinanza italiana, attribuita ai sensi degli artt. 4, comma 2, 5 e 9 della l. n. 91 del 1992, in caso di condanna definitiva per determinati gravi reati, previsti dall’articolo 407, comma 2, lettera a), n. 4), c.p.p., nonché dagli artt. 270-ter e 270 quinquies 2, c.p.).

Il provvedimento di revoca è adottato entro tre anni dal passaggio in giudicato della sentenza di condanna per i reati di cui al primo periodo, con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Ministro dell’interno.

Ancor prima della introduzione dell’art. appena richiamato, la l. n. 91 del 1992 prevedeva ipotesi di perdita della cittadinanza, distinte dalla rinuncia (v. infra), collegate alla revoca dell’adozione (art. 3) o a particolari condotte tenute anche in tempo di guerra (art. 12).

Salvo eccezioni, la cittadinanza può essere riacquistata a determinate condizioni, come viene di seguito evidenziato.

8.5. La rinuncia alla cittadinanza.

Ai sensi dell’art. 11 della l. n. 91 del 1992 il cittadino che possiede, acquista o riacquista una cittadinanza straniera conserva quella italiana, ma può ad essa rinunciare qualora risieda o stabilisca la residenza all’estero. Da ciò si desume che, oltre al possesso di altra cittadinanza e la residenza all’estero, è necessaria anche una rinuncia che sia frutto di una decisione volontaria e consapevole.

In argomento, Sez. 1, n. 22271/2016, Mercolino, Rv. 642645-01) ha evidenziato che l’acquisto della cittadinanza straniera, pur se accompagnato dal trasferimento all’estero della residenza, non implica necessariamente la perdita della cittadinanza italiana, a meno che l’interessato non vi rinunci con un atto consapevole e volontario. Infatti, come si evince dall’art. 4 Cost., dall’art. 15 della Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo del 10 dicembre 1948 e dal Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007, ogni persona ha un diritto soggettivo permanente ed imprescrittibile allo stato di cittadino, che è azionabile in via giudiziaria in ogni tempo e può perdersi solo per rinuncia. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha cassato la sentenza di merito, dichiarando la cittadinanza italiana della ricorrente, insieme al figlio, in quanto, sebbene trasferitasi in Australia, acquistando la cittadinanza di quel Paese, mai aveva esplicitamente rinunciato a quella italiana).

8.6. Il riacquisto della cittadinanza.

All’art. 13 della l. n. 91 del 1992 sono indicati i requisiti per il riacquisto della cittadinanza italiana da parte di chi l’abbia precedentemente perduta.

Non è tuttavia il riacquisto nel caso di revoca dell’adozione durante la maggiore età dell’adottato, quando lo stesso, in possesso di altra cittadinanza, abbia rinunciato alla cittadinanza italiana, e neppure nei casi di perdita della cittadinanza durante lo stato di guerra (artt. 13, comma 2).

Su questo tema la S.C. ha specificato che colui che, in seguito ad acquisto di cittadinanza straniera, abbia perso quella italiana, la riacquista per il solo fatto di risiedere in Italia per un anno, sempre che non manifesti una volontà contraria, con la conseguenza che il soggetto che non voglia riacquistare la cittadinanza italiana ha l’onere di rinunciarvi espressamente nel medesimo termine di un anno, da intendersi come termine di decadenza, secondo la disciplina di cui agli art. 2964 e 2966 c.c. (Sez. 1, n. 12411/2000, Spagna Musso, Rv. 540279-01).

PARTE SECONDA I DIRITTI A CONTENUTO ECONOMICO (coordinata da Dario Cavallari, Gian Andrea Chiesi e Gianluca Grasso)

  • urbanistica e edilizia
  • abitazione
  • proprietà pubblica
  • proprietà privata
  • servitù
  • usufrutto

CAPITOLO IV

I DIRITTI REALI E IL POSSESSO

(di Gian Andrea Chiesi )

Sommario

1 Proprietà pubblica. - 1.2 Azioni a tutela della proprietà pubblica e della relativa destinazione. - 2 Le servitù pubbliche (o di uso pubblico). - 3 Conformità urbanistiche degli immobili e diritti privati. - 3.1 (Segue) Le distanze legali. - 4 Le azioni a tutela della proprietà: a) la rivendicazione. - 4.1 (Segue) b) la “negatoria servitutis” - 4.2 (Segue) c) le azioni di regolamento di confini e di apposizione di termini. - 4.3 d) (Segue) Le immissioni. - 5 Comunione di diritti reali. - 5.1 Comunione e tutela in sede giudiziaria. - 6 Usufrutto, uso e abitazione. - 7 Servitù prediali. - 7.1 Profili processuali relativi alla costituzione delle servitù. - 8 Tutela ed effetti del possesso. - 8.1 Profili processuali relativi all’esercizio delle azioni possessorie e quasi-possessorie.

1. Proprietà pubblica.

L’art. 41, comma 1, Cost. chiarisce che la proprietà è privata o pubblica ed alla regolamentazione di quest’ultima sono altresì dedicate numerose previsioni del codice civile; peraltro, neppure la proprietà privata è del tutto scevra da connotazioni latamente pubblicistiche, se si considera che, dal combinato disposto degli 42, comma 2, Cost. e 832 c.c., essa va esercitata sì da assicurarne la funzione sociale. Il medesimo concetto è espresso dall’art. 17 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, firmata a Nizza il 7 dicembre 2000, ove, nell’ultimo periodo, si chiarisce che “l’uso dei beni può essere regolato dalla legge nei limiti imposti dall’interesse generale”.

Gli interventi della Corte in materia di regime proprietario hanno coinvolto anzitutto i beni di interesse artistico, storico ed archeologico, la cui disciplina è diversificata a seconda che si tratti di beni in proprietà pubblica o privata. Ed infatti, osserva Sez. 2, n. 25690/2018, Federico, Rv. 650776-01 che, mentre i beni muniti delle predette caratteristiche e che appartengono allo Stato o ad altri enti pubblici devono considerarsi tout court culturali – nel senso che attraverso l’apposizione del vincolo archeologico non si costituisce su di essi una nuova qualità, ma semplicemente si certifica una prerogativa che il bene già possiede per le sue caratteristiche – al contrario, i beni di proprietà privata che, per le loro caratteristiche intrinseche, rivestano interesse artistico, storico e archeologico, rientrano tra i beni culturali solo se oggetto di un provvedimento amministrativo di dichiarazione attestante l’interesse particolarmente rilevante, il quale è sottoposto a notifica, ai fini del suo assoggettamento al vincolo, nonché a trascrizione, con funzione di pubblicità notizia, al fine di far conoscere ai soggetti interessati l’esistenza del provvedimento amministrativo. Sicché, in ultima analisi, diversamente dai beni privati (che, per quanto esposto, possono rientrare tra i beni culturali solo se “notificati”), rispetto ai beni pubblici l’atto impositivo del vincolo di interesse archeologico ha natura meramente dichiarativa (arg. da Sez. U, n. 00401/1977, Granata, Rv. 383947-01), correlata a caratteristiche e peculiarità intrinseche che il bene possedeva “ab origine” e pur in assenza di una formale dichiarazione di interesse culturale, ovvero di ricomprensione negli elenchi dei beni di interesse culturale ex art. 4 della l. n. 1098 del 1939, essendo il requisito del carattere culturale insito negli stessi beni, per il loro appartenere alla categoria delle cose di “interesse archeologico” (Sez. 1, n. 02995/2006, Benini, Rv. 586959-01). Alla luce della distinzione innanzi esposta, Sez. U, n. 05097/2018, D’Ascola, Rv. 647319-01 chiarisce che nella compravendita di bene sottoposto a vincolo archeologico, l’eventuale inefficacia del vincolo, per inosservanza delle norme in tema di trascrizione e notificazione del relativo atto impositivo, non implica che il successivo esercizio della prelazione da parte della P.A. integri una fattispecie di carenza di potere in astratto – come tale determinante un’ipotesi di nullità del provvedimento amministrativo per difetto assoluto di attribuzione – trattandosi, invero, di un’ipotesi di carenza di potere in concreto, in quanto attinente non all’”an” bensì al “quomodo” della potestà pubblica, con la conseguenza che la posizione fatta valere, sul presupposto di una tale inefficacia, dall’acquirente che abbia subito l’esercizio del diritto di prelazione, è di interesse legittimo oppositivo, e non di diritto soggettivo, ed in quanto tale devoluta alla giurisdizione del giudice amministrativo.

Si è, poi, occupata della sorte dei beni appartenenti alla soppressa Opera nazionale per la protezione della maternità e dell’infanzia (O.N.M.I.), Sez. 2, n. 17481/2018, Scarpa, Rv. 649451-02 che, all’esito di un articolato excursus normativo, ha concluso nel senso che i beni mobili e immobili di proprietà della stessa devono ritenersi automaticamente trasferiti, ai sensi dell’art. 5 della l. n. 698 del 1975, al patrimonio delle Province e dei Comuni presso cui sono ubicati, con la duplice conseguenza che ne discende per cui, da un lato, il relativo provvedimento di individuazione del Ministero del Tesoro, non incidendo sul perfezionamento della vicenda traslativa, non ha natura costitutiva o autoritaria, bensì di mera ricognizione e, dall’altro, il giudice civile, in caso di controversia sulla legittimità dell’inclusione di dati beni nella successione apertasi “ex lege”, può riscontrare autonomamente la sussistenza o meno dei diritti soggettivi fatti valere.

Una particolare categoria di beni pubblici è quella riconducibile ai beni confiscati alla criminalità organizzata, ai sensi della l. n. 575 del 1965. Invero, rispetto ad essi va anzitutto chiarito che Sez. U, n. 00018/1996, Teresi, Rv. 205262-01 ha ritenuto che la confisca prevista nell’ambito del procedimento di prevenzione nei confronti di persona indiziata di appartenere ad associazione di tipo mafioso non ha né il carattere sanzionatorio di natura penale, né quello di un provvedimento di prevenzione, ma va ricondotta nell’ambito di quel “tertium genus” costituito da una sanzione amministrativa, equiparabile, quanto al contenuto ed agli effetti, alla misura di sicurezza prevista dall’art. 240, comma 2, c.p.. Nella genericità della originaria posizione assunta dal giudice delle leggi (che ne ha parlato in termini di “materia sanzionatoria o, quanto meno, limitativa di diritti”: così Corte Cost., n. 721/1988), si è, infine, tuttavia inequivocabilmente statuito (Corte Cost., n. 21/2012) che, da un lato, è “ferma la ormai acquisita configurazione giurisdizionale del procedimento di prevenzione”, sicché si “impone in via di principio l’osservanza delle regole (come quelle del contraddittorio) coessenziali al giudizio in senso proprio”, d’altro lato, che tale procedimento non è assimilabile a quello penale, tanto più con riferimento alla ratio specifica della confisca in questione, che “comprende ma eccede quella delle misure di prevenzione”, mirando non soltanto alla sottrazione del bene alla criminalità, ma anche a collocarlo in un ambito esente dalla stesso condizionamento criminale. In tale contesto, dunque, Sez. L, n. 15085/2018, Blasutto, Rv. 649353-02 evidenzia come, per effetto del provvedimento ablatorio definitivo, che determina la devoluzione dei detti beni allo Stato, sorge un vincolo di destinazione a finalità pubblicistiche assimilabile a quello che insiste sui beni demaniali (e sui beni compresi nel patrimonio indisponibile), evocato dal richiamo che l’art. 2-decies l. cit. opera al regime giuridico di cui all’art. 823 c.c.. (con il che deve escludersi che, in caso di confisca di compendi aziendali, lo Stato assuma la veste di cessionario d’azienda e trovi applicazione il regime giuridico di cui all’art. 2112 c.c.).

Sempre in tema di beni demaniali, poi, Sez. 2, n. 10489/2018, Grasso, Rv. 648239-01 chiarisce che la natura demaniale dell’arenile – ovvero del tratto di terraferma che residua al naturale ritirarsi delle acque, restando idoneo ai pubblici usi del mare, anche se in via soltanto potenziale e non attuale – deriva dalla corrispondenza con uno dei beni normativamente definiti negli artt. 822 c.c. e 28 c.n. e permane anche qualora una parte di esso sia stata utilizzata per realizzare una strada pubblica, non implicando tale evento la sua sdemanializzazione, così come l’esercizio di un potere di fatto da parte di un privato che vi abbia realizzato abusivamente opere e manufatti, non fa venir meno l’attitudine del bene a realizzare i pubblici usi del mare.

Di peculiare interesse, infine, la tematica della dismissione del patrimonio immobiliare pubblico, affrontata da Sez. 2, n. 23074/2018, Fortunato, Rv. 651005-01, che, nell’esaminare il sistema risultante dalla disciplina contenuta nel d.l. n. 351 del 2001, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 410 del 2001, e nel d.l. n. 41 del 2004, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 104 del 2004, evidenzia come le vantaggiose condizioni relative al prezzo di vendita degli immobili oggetto di dismissione trovano applicazione in favore dei soli conduttori, in regola col pagamento dei canoni e in possesso di un valido contratto di locazione, che, entro il termine del 31 ottobre 2001, abbiano manifestato la volontà di acquistare ovvero abbiano esercitato il diritto di opzione: in tal modo la S.C. ha dunque escluso che di tali condizioni favorevoli possa avvantaggiarsi chi a tale data, rivestiva la qualità di occupante “sine titulo” il bene.

1.2. Azioni a tutela della proprietà pubblica e della relativa destinazione.

Sul versante processuale, molteplici sono state le decisioni che hanno affrontato, sotto vari angoli prospettici, il tema del riparto di giurisdizione in ipotesi di azioni a tutela di beni pubblici.

Anzitutto, Sez. U, n. 21598/2018, Doronzo, Rv. 650279-01, che devolve alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. b), del d.lgs. n. 104 del 2010, le controversie inerenti ad atti o provvedimenti relativi al riconoscimento, da parte di un Comune, della titolarità del diritto di sepoltura privata esercitato da tempo immemorabile su aree o porzioni di edificio in un cimitero pubblico, atteso che tale riconoscimento si configura quale concessione amministrativa di beni soggetti al regime demaniale. In tale ottica ricostruttiva del rapporto ente comunale-privato si erano peraltro già pronunciate, nel passato Sez. U, n. 00375/1991, Caturani, Rv. 470502-01 (per cui la concessione da parte del Comune di aree o porzioni in cimitero pubblico integra concessione amministrativa di bene demaniale) e, più recentemente, Sez. 2, n. 01134/2003, Scherillo, 559992-01 che, muovendo dal medesimo presupposto (il riconoscimento in capo al concessionario, cioè, di un diritto di natura reale sul bene – il cd. diritto di sepolcro – la cui manifestazione è costituita prima dalla edificazione, poi dalla sepoltura), aveva ulteriormente chiarito come il diritto del concessionario, che afferisce alla sfera strettamente personale del titolare, sia, dal punto di vista privatistico, disponibile da parte di quest’ultimo, ben potendo egli legittimamente trasferirlo a terzi, ovvero associarli nella fondazione della tomba, senza che ciò rilevi nei rapporti con l’ente concedente, il quale può revocare la concessione soltanto per interesse pubblico, ma non anche contestare le modalità di esercizio del diritto “de quo”, che restano libere e riservate all’autonomia privata.

Merita, inoltre, di essere segnalata Sez. U, n. 02581/2018, Scrima, Rv. 647039-01 che, in tema di concessione ad uso esclusivo di beni demaniali, individua la giurisdizione in capo al G.O, ove la controversia trovi la propria origine in un rapporto tra concessionario ed il terzo, sempre che la P.A. concedente resti totalmente estranea a tale rapporto derivato e non possa ravvisarsi alcun collegamento con l’atto autoritativo concessorio, da qualificarsi come mero presupposto; al contrario, quando la pretesa azionata sia riferibile direttamente all’atto di concessione e l’Amministrazione concedente abbia espressamente previsto ed autorizzato il rapporto tra concessionario e terzo, la giurisdizione appartiene al giudice amministrativo (nella specie, la S.C. ha ritenuto sussistente la giurisdizione ordinaria con riferimento a una controversia insorta tra l’ente territoriale concessionario di una struttura ricettiva demaniale e due soggetti privati, in relazione alla validità di altrettanti rapporti contrattuali di affitto e subaffitto d’azienda, derivati dalla concessione, ma ai quali l’ente pubblico concedente era rimasto del tutto estraneo).

Devolve, infine, alla giurisdizione del giudice ordinario la controversia tra privati, o tra privati e P.A., avente ad oggetto l’esistenza ed estensione del diritto di proprietà, nelle quali le risultanze catastali possono essere utilizzate a fini probatori, Sez. U, n. 19524/2018, Cirillo, Rv. 649627-01, con la precisazione, tuttavia, che, qualora tali risultanze siano contestate per ottenerne la variazione, anche al fine di adeguarle all’esito di un’azione di rivendica o regolamento di confini, la giurisdizione spetta al giudice tributario, ai sensi dell’art. 2, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992 e in ragione della diretta incidenza degli atti catastali sulla determinazione dei tributi.

2. Le servitù pubbliche (o di uso pubblico).

L’istituto della “servitù” trova pacificamente applicazione anche nel campo del diritto “pubblico”, sebbene l’esatta identificazione del significato e la delimitazione del contenuto della locuzione “servitù pubbliche” appaiono ancora oggi tutt’altro che univoche, con precipuo riferimento (a) ai relativi elementi costitutivi, (b) all’eventuale autonomia concettuale rispetto all’omologo istituto disciplinato dal codice civile e (c) alle linee di demarcazione dalle fattispecie di cd. “limitazione amministrativa della proprietà”. L’elaborazione dottrinaria e giurisprudenziale è comunque giunta alla conclusione per cui le “servitù pubbliche” (o “servitù d’uso pubblico”) possono essere qualificate in termini di vincoli lato sensu pubblicistici alla (condizione giuridica della) proprietà privata o pubblica, caratterizzati da un’intensa funzionalizzazione alla tutela di interessi pubblici o collettivi (cfr. anche l’art. 825 c.c.), immanente alle differenti matrici e giustificazioni teoriche della demanialità (o della immutabilità di destinazione propria del concetto di patrimonio indisponibile), nonché a situazioni di vantaggio su beni privati aventi caratteristiche oggettive assimilabili a quella dei beni pubblici riconosciute in favore di comunità di cittadini o utenti.

Per ciò che concerne i relativi modi di costituzione, essi vengono comunemente ravvisati – non dissimilmente rispetto a quanto avviene relativamente alle servitù coattive di diritto privato – nella legge, negli atti amministrativi ablatori, nell’esistenza di una convenzione tra le parti, nell’usucapione e nella sentenza, così come non dissimili sono le cause di estinzione: sicché ove la servitù pubblica sia stata costituita su base convenzionale, è anzitutto nel regolamento contrattuale che vanno ricercate le fonti di eventuali cause di cessazione della medesima (ad es.: fissazione di un termine); ove, al contrario, all’origine del vincolo reale vi sia un provvedimento amministrativo, l’eventuale sopravvenienza di ragioni d’interesse pubblico incompatibili con la permanenza del vincolo potrebbe costituire il presupposto per l’esercizio di poteri di autotutela amministrativa (come nel caso si revoca del provvedimento impositivo del vincolo).

Ciò posto in linea teorica, la Corte ha avuto anzitutto modo di occuparsi – sotto vari profili – proprio della costituzione di tali tipologie di servitù.

In particolare, già Sez. 2, n. 28632/2017, Lombardo, Rv. 646531-01 aveva chiarito che, perché si costituisca per usucapione una servitù pubblica di passaggio su una strada privata, è necessario che concorrano contemporaneamente tre condizioni: 1) l’uso generalizzato del passaggio da parte di una collettività indeterminata di individui, considerati “uti cives” in quanto portatori di un interesse generale, non essendo sufficiente un’utilizzazione “uti singuli”, cioè finalizzata a soddisfare un personale esclusivo interesse per il più agevole accesso ad un determinato immobile di proprietà privata; 2) l’oggettiva idoneità del bene a soddisfare il fine di pubblico interesse perseguito tramite l’esercizio della servitù; 3) il protrarsi dell’uso per il tempo necessario all’usucapione. Adde, in proposito, la recente Sez. 2, n. 15618/2018, Cavallari, Rv. 649346-02 che, ove il transito interessi una strada di proprietà privata, la semplice imposizione di un vincolo di uso pubblico su strada vicinale, pur permettendo alla collettività di esercitarvi il diritto di servitù di passaggio con le modalità consentite dalla conformazione della strada stessa, non altera in ogni caso il diritto di proprietà sulla medesima, che rimane privata. Sotto altro profilo, poi, Sez. 2, n. 14367/2018, Federico, Rv. 648972-01 chiarisce che non la natura, pubblica o privata, della proprietà di una determinata area quanto, piuttosto, la sua destinazione ad uso pubblico ne giustifica, per evidenti ragioni di ordine pubblico e sicurezza collettiva, la soggezione alle norme del codice della strada.

Anche la cd. “dicatio ad patriam” rappresenta un valido modo di costituzione di una servitù pubblica, osservando in proposito Sez. 2, n. 15618/2018, Cavallari, Rv. 649346-02, cit., come esso postuli un comportamento ad uso pubblico del proprietario che, seppur non intenzionalmente diretto a dare vita a tale diritto, metta volontariamente, con carattere di continuità, un proprio bene a disposizione della collettività, assoggettandolo al relativo uso. Un caso concreto è affrontato da Sez. 1, n. 16979/2018, Cirese, Rv. 649672-01 che, muovendo dall’assunto per cui il comportamento del proprietario di un fondo, il quale, nel lottizzarlo, metta volontariamente e con carattere di continuità una striscia di terreno a disposizione della collettività, assoggettandola al relativo uso pedonale e carrabile, rende applicabile l’istituto della cd. “dicatio ad patriam”, quale modo di costituzione di una servitù, ne trae la conclusione per cui la successiva esecuzione, da parte di un Comune, di lavori di miglioria su detta striscia (consistenti, segnatamente, nella realizzazione di un marciapiedi), non dà luogo ad una cd. occupazione usurpativa, difettandone i presupposti (a) della trasformazione del bene in opera pubblica e (b) della sua radicale manipolazione in guisa da farlo divenire strutturalmente un “aliud” rispetto a quello precedente e (c), mancando, altresì, a monte, un provvedimento amministrativo che riveli l’intendimento della P.A. di appropriarsi della strada e di trasformarla in strada pubblica, includendola nel relativo elenco.

Quanto, invece, alle cause di estinzione, proprio la funzionalizzazione al soddisfacimento di interessi collettivi preclude che il semplice mancato uso del fondo servente possa condurre alla cessazione del diritto: chiara in tal senso è, ad esempio, Sez. 2, n. 11676/2018, Federico, Rv. 648328-01, la quale evidenzia come l’estinzione della servitù di pubblico passaggio su strada vicinale non possa derivare dal mancato uso di detto passaggio da parte degli utenti, richiedendo, al contrario, che l’ente territoriale, quale soggetto esponenziale della collettività dei cittadini, esprima la sua volontà in tal senso attraverso l’adozione di un provvedimento che riconosca cessati l’uso e l’interesse pubblico a servirsi del bene, ovvero con un comportamento concludente, consistente nell’omesso esercizio del diritto-dovere di tutela davanti ad atti usurpativi o impeditivi del privato.

3. Conformità urbanistiche degli immobili e diritti privati.

La tematica delle conformità urbanistiche ha rappresentato fertile terreno di indagine da parte della giurisprudenza di legittimità.

Va anzitutto chiarito che, in tale ambito, la distinzione fra “vincoli conformativi” e “vincoli espropriativi” (comprensivi di quelli “preordinati all’esproprio” e di quelli “sostanzialmente espropriativi”, secondo la formula dell’art. 39, comma 1, del d.P.R. n. 327 del 2001) origina dalla sentenza n. 55/1968 della Corte costituzionale ed ha ricevuto una più precisa definizione nella successiva sentenza n. 179/1999 del giudice delle leggi: in via di prima approssimazione il discrimen sembrerebbe riposare sul binomio determinatezza/generalità, nel senso che i vincoli espropriativi sono a titolo particolare su beni determinati, mentre quelli conformativi attengono alla generalità o a categorie, determinate anche “per zone territoriali” oppure, ma sempre in via generale, in rapporto a beni o a interessi della pubblica amministrazione (in altri termini, come indicato nella sentenza n. 6/1966 della Corte Costituzionale, hanno un carattere “generale e obiettivo”). La distinzione interessa il giudice civile (e quello amministrativo) sotto diversi profili: in primis, in vista della determinazione dell’indennità connessa all’esercizio del potere espropriativo.

A questa classificazione di massima si conforma Sez. 1, n. 16084/2018, Sambito, Rv. 649574-01, per cui la distinzione tra vincoli conformativi ed espropriativi cui possono essere assoggettati i suoli non dipende dal fatto che essi siano imposti mediante una determinata categoria di strumenti urbanistici, piuttosto che di un’altra, ma deve essere operata in relazione alla finalità perseguita in concreto dell’atto di pianificazione: ove mediante lo stesso si provveda ad una zonizzazione dell’intero territorio comunale o di parte di esso, sì da incidere su di una generalità di beni, nei confronti di una pluralità indifferenziata di soggetti, in funzione della destinazione dell’intera zona in cui i beni ricadono e in ragione delle sue caratteristiche intrinseche, il vincolo ha carattere conformativo, mentre, ove si imponga solo un vincolo particolare, incidente su beni determinati, in funzione della localizzazione di un’opera pubblica, lo stesso deve essere qualificato come preordinato alla relativa espropriazione e da esso deve, pertanto, prescindersi nella qualificazione dell’area, e ciò in quanto la realizzazione dell’opera è consentita soltanto su suoli cui lo strumento urbanistico ha impresso la correlativa specifica destinazione, cosicché, ove l’area su cui l’opera sia stata in tal modo localizzata abbia destinazione diversa o agricola, se ne impone sempre la preventiva modifica.

3.1. (Segue) Le distanze legali.

Nell’ambito delle limitazioni legali al diritto di proprietà dettate dai rapporti di vicinato rilievo preminente assume la disciplina delle distanze tra costruzioni (artt. 873 ss. c.c.), le cui prescrizioni hanno carattere preventivo e trovano applicazione indipendentemente dall’esistenza di un danno: si tratta di reciproci presupposti di convienza e sviluppo, non inquadrabili nel concetto di servitù benché tutelabili per il tramite dell’”actio negatoria”, imprescrittibili (ma suscettibili di cedere di fronte a chi abbia acquisito, anche per il mezzo dell’usucapione, una servitù) e non onerosi.

La disamina dei molteplici arresti con cui la Corte si è soffermata sulla disciplina delle distanze tra costruzioni, consente di suddividere la materia tra (a) decisioni che si sono occupate, perimetrandolo, dell’ambito di applicabilità della normativa in questione e (b) pronunzie che si sono interessate delle modalità applicative della disciplina volta a regolare le distanze tra costruzioni.

Preliminarmente, però, va chiarito che la nozione stessa di “costruzione”, rilevante ai fini dell’applicabilità della normativa in tema di distanze, ha continuato ad impegnare anche nel corso del 2018 la Corte la quale, premessa la sua unicità ed esclusa la possibilità di deroghe da parte di fonti secondarie – atteso che il rinvio a norme integrative contenuto nell’ultima parte dell’art. 873 c.c. riguarda la sola possibilità, per tali norme, di stabilire un distacco maggiore di quello codicistico (così Sez. 2, n. 23845/2018, Sabato, Rv. 650630-01) – ha infine ribadito (Sez. 2, n. 23856/2018, Orilia, Rv. 650633-01) che essa non si identifica con quella di “edificio”, ma si estende a qualsiasi manufatto non completamente interrato avente i caratteri della solidità, stabilità ed immobilizzazione al suolo, anche mediante appoggio o incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di fabbrica contestualmente realizzato o preesistente, e ciò indipendentemente dal livello di posa ed elevazione dell’opera stessa.

Passando, quindi, alla disamina del primo gruppo di decisioni (quelle, cioè, delimitative dell’ambito di applicabilità della disciplina in esame), va anzitutto segnalata Sez. 2, n. 15070/2018, Criscuolo, Rv. 649172-01 che opera un netto distinguo tra normativa sulle distanze e normativa sulle vedute, evidenziando come l’art. 905 c.c., che salvaguarda il fondo finitimo dalle indiscrezioni attuabili mediante l’apertura di vedute negli edifici vicini al fine di proteggere interessi esclusivamente privati non abbia correlazione alcuna con l’art. 873 c.c. che, diretto a tutelare, evitando la formazione di intercapedini dannose, interessi generali di igiene, decoro e sicurezza negli abitati, consente agli enti locali di stabilire distanze maggiori secondo una valutazione particolare dei detti interessi collettivi. In conseguenza, non vi è spazio per una integrazione della previsione dell’art. 905 c.c. con quelle eventuali più restrittive in tema di distanze tra costruzioni contenute nei regolamenti locali, deponendo in tal senso anche l’assenza nel testo della norma di un rinvio – che è, invece, contemplato nell’art. 873 c.c. – ai regolamenti in questione.

Osservano, poi, Sez. 2, n. 26270/2018, Cosentino, Rv. 650783-01 e Sez. 2, n. 05016/2018, Carrato, Rv. 647817-01, che le prescrizioni contenute nei piani regolatori e nei regolamenti edilizi comunali (le quali, a mente di quanto precisato da Sez. 2, n. 22374/2018, Fortunato, Rv. 650366-01, sono vincolanti non alla data della loro adozione da parte dei competenti enti pubblici territoriali, ma solo quando, compiuto l’”iter” previsto dalla legge, vengano approvate dall’organo a ciò preposto), essendo dettate, contrariamente a quelle del codice civile, a tutela dell’interesse generale a un prefigurato modello urbanistico, non tollerano deroghe convenzionali da parte dei privati le quali, se anche concordate, sono comunque invalide: né tale invalidità può venire meno per l’avvenuto rilascio di concessione edilizia, poiché il singolo atto non può consentire la violazione dei principi generali dettati, una volta per tutte, con gli indicati strumenti urbanistici.

Concorrono a delimitare l’ambito applicativo della normativa sulle distanza, infine, quelle pronunzie che ne escludono l’operatività in ragione della loro natura ovvero del posizionamento concreto degli immobili interessati. In particolare, la disciplina sulle distanze contenuta in leggi speciali o regolamenti edilizi locali richiede, ai fini della propria applicazione, il rispetto di un duplice concorrente requisito e, cioé, che (a) le norme violate abbiano carattere integrativo delle disposizioni del codice civile sui rapporti di vicinato, siccome disciplinanti la stessa materia e da esse (artt. 872 e 873 c.c.) richiamate e (b) si tratti di costruzioni soggette all’obbligo delle distanze e, quindi, non confinanti con vie o piazze pubbliche (art. 879, comma 2, c.c.). Sicché Sez. 2, n. 27364/2018, Bellini, Rv. 651024-03 ne trae la conclusione per cui resta escluso il rispetto di tale disciplina – e, con essa, delle distanze dalla stessa dettate (con conseguente impraticabilità di una riduzione in pristino) – ove tra i fabbricati siano interposte strade pubbliche e ciononostante la norma edilizia locale applicabile (dotata di carattere integrativo di quelle del codice civile) prescriva che la distanza minima prevista debba essere osservata pure qualora tra i fabbricati siano interposte aree pubbliche. L’esonero dal rispetto delle distanze legali, previsto dall’art. 879, comma 2, c.c., opera, peraltro, anche in relazione a costruzioni a confine con strade di proprietà privata ma gravate da servitù pubbliche di passaggio, giacché – come chiarito da Sez. 2, n. 27364/2018, Bellini, Rv. 651024-02 – il carattere pubblico della strada, rilevante ai fini dell’applicazione della norma citata, attiene, più che alla proprietà del bene, all’uso concreto di esso da parte della collettività. Chiarisce ulteriormente Sez. 6-2, n. 18439/2018, Lombardo, Rv. 649463-01, che le prescrizioni relative alle distanze legali degli alberi e delle piante dal confine, stabilite nei primi tre commi dell’art. 892 c.c., non devono essere osservate quando sul confine esista un muro divisorio (la cui nozione, si badi, coincide con quella di cui all’art. 881 c.c.) e le dette piante non lo superino in altezza poiché, in questo caso, il vicino non subisce diminuzione di aria, luce e veduta.

Relativamente alle decisioni che, invece, si sono interessate dell’applicazione, in concreto, delle normativa sulle distanze tra costruzioni, meritano di essere segnalate: 1) Sez. 2, n. 26783/2018, Tedesco, Rv. 650848-01 che, rifacendosi ad un consolidato orientamento di legittimità, afferma che, quando due edifici su fondi finitimi si trovano a distanza inferiore a quella legale, quello dei due frontisti che per primo sopraelevi, ove non provi il diritto a ottenere l’arretramento del fabbricato dell’altro, deve osservare nella sopraelevazione (che, anche se di ridotte dimensioni, comporta sempre un aumento della volumetria e della superficie di ingombro e va, pertanto, considerata a tutti gli effetti come nuova costruzione. Così Sez. 3, n. 15732/2018, Scarano, Rv. 649409-01) la distanza legale (art. 873 c.c.), arretrandosi sul proprio edificio quanto necessario per rispettarla, essendo irrilevante che la sopraelevazione risulti ad altezza maggiore dell’edificio vicino; 2) Sez. 2, n. 26263/2018, Tedesco, Rv. 650781-01, la quale precisa che il divieto di costruire a distanza inferiore a tre metri da una preesistente veduta, stabilito dall’art. 907 c.c. a salvaguardia di tale diritto, riguarda in genere una “fabbrica” realizzata a distanza inferiore da quella prevista dalla legge, di qualsiasi materiale e forma, idonea ad ostacolare stabilmente l’esercizio della “inspectio” e della “prospectio” e, quindi, anche i muri di cinta, i quali – secondo la previsione di cui all’art. 878, comma 1, c.c. – sono soltanto esentati dal computo della distanza tra costruzioni su fondi finitimi di cui all’art. 873 c.c. e non anche dall’osservanza, per l’appunto, delle distanze stabilite a tutela delle vedute; 3) Sez. 2, n. 24076/2018, Federico, Rv. 650635-01, per cui la distanza minima di dieci metri tra le costruzioni stabilita dall’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 deve osservarsi in modo assoluto, indipendentemente dall’altezza degli edifici antistanti e dall’andamento parallelo delle loro pareti, purché sussista almeno un segmento di esse tale che l’avanzamento di una o di entrambe le facciate porti al loro incontro, sia pure per quel limitato segmento, dovendosi ravvisare la “ratio” della norma non già nella tutela della riservatezza, bensì in quella della salubrità e sicurezza.

Quanto, infine, alle modificazioni delle distanze dovute all’intervento di “ius superveniens”, Sez. 2, n. 24206/2018, Scalisi, Rv. 650639-01 ribadisce, uniformandosi all’ormai consolidato orientamento di legittimità, che le disposizioni in materia edilizia, nell’ipotesi di successione di norme nel tempo, sono di immediata applicazione, poiché i piani regolatori, come i regolamenti edilizi comunali, essendo essenzialmente diretti alla tutela dell’interesse generale nel campo urbanistico, prescindono dall’interesse del privato: sicché se, dopo la concessione della licenza edilizia, sopravviene una diversa regolamentazione sulle distanze fra edifici, le costruzioni devono adeguarsi alla disciplina vigente al momento della loro realizzazione, a nulla rilevando la legittimità della precedente autorizzazione a costruire mentre, qualora l’esercizio dello “ius aedificandi” abbia già avuto inizio e concreta attuazione alla data di entrata in vigore della normativa sopravvenuta, ha rilievo l’epoca dell’inizio dell’opera con conseguente inapplicabilità della disposizione edilizia, sopraggiunta nel corso della costruzione anteriormente iniziata, che stabilisca distanze maggiori, non potendo essa avere efficacia retroattiva ed incidere su situazioni pregresse, neppure ove l’esecuzione dei lavori si sia protratta oltre il termine previsto dalla suddetta licenza edilizia. Conformente la successiva Sez. 2, n. 26886/2018, Criscuolo, Rv. 651380-01 specifica che lo “ius superveniens” che contenga prescrizioni più restrittive incontra la limitazione dei diritti quesiti e non trova applicazione con riferimento alle costruzioni che, al momento della sua entrata in vigore, possono considerarsi già sorte, in ragione dell’avvenuta realizzazione delle strutture organiche, costituenti punti di riferimento essenziali per la misurazione delle distanze. Applicazione pratica di tali principi si rinviene, in tema di sopraelevazione, in Sez. 2, n. 11320/2018, Penta, Rv. 648832-01, per cui, qualora lo strumento urbanistico locale, successivamente intervenuto, abbia sancito l’obbligo inderogabile di osservare una determinata distanza dal confine ovvero tra le costruzioni, tale nuova disciplina vincola il preveniente che rimane tenuto, se vuole sopraelevare, alla osservanza della diversa distanza stabilita, senza alcuna facoltà di allineamento (in verticale) alla originaria preesistente costruzione, a meno che la normativa regolamentare non preveda una espressa eccezione in proposito. D’altra parte, in principio è coerente con la considerazione, fatta propria da Sez. 2, n. 05049/2018, Dongiacomo, Rv. 647818-01, per cui la sopraelevazione a tutti gli effetti deve essere considerata come nuova costruzione e può essere di conseguenza eseguita solo con il rispetto della normativa sulle distanze legali dalle costruzioni esistenti sul fondo confinante.

4. Le azioni a tutela della proprietà: a) la rivendicazione.

Le azioni riconosciute al proprietario a tutela del proprio diritto sono quattro (rivendicazione, “negatoria servitutis”, regolamento di confini ed apposizione di termini) e ad esse si aggiungono le due azioni di nunciazione (denuncia di nuova opera e di danno temuto) su cui si avrà modo di tornare più avanti.

La fondamentale azione di rivendicazione ha lo scopo di far conseguire al proprietario il possesso definitivo della cosa, con ogni suo incremento ed è, pertanto, esercitata da chi sia proprietario, ma non nel possesso della “res”: d’altra parte, già Sez. 2, n. 00705/2013, Giusti, Rv. 624971-01 aveva chiarito che la domanda con cui l’attore chieda di dichiarare abusiva ed illegittima l’occupazione di un immobile di sua proprietà da parte del convenuto, con conseguente condanna dello stesso al rilascio del bene ed al risarcimento dei danni da essa derivanti, senza ricollegare la propria pretesa al venir meno di un negozio giuridico, che avesse giustificato la consegna della cosa e la relazione di fatto sussistente tra questa ed il medesimo convenuto, non dà luogo ad un’azione personale di restituzione, e deve qualificarsi come azione di rivendicazione. Nella medesima occasione, peraltro, la Corte ha escluso che detta domanda possa qualificarsi come di restituzione, in quanto tendente al risarcimento in forma specifica della situazione possessoria esistente in capo all’attore prima del verificarsi dell’abusiva occupazione, non potendo il rimedio ripristinatorio ex art. 2058 c.c. surrogare, al di fuori dei limiti in cui il possesso è tutelato dal nostro ordinamento, un’azione di spoglio ormai impraticabile. Nel medesimo solco si muove Sez. 2, n. 25052/2018, Giannaccari, Rv. 650672-01, la quale evidenzia, per l’appunto, come l’azione personale di restituzione sia destinata ad ottenere l’adempimento dell’obbligazione di ritrasferire un bene in precedenza volontariamente trasmesso dall’attore al convenuto, in forza di negozi giuridici (quali la locazione, il comodato ed il deposito) che non presuppongono necessariamente nel “tradens” la qualità di proprietario.

Caratteristica peculiare della “rei vindicatio” è, poi, la prova particolarmente rigorosa richiesta all’attore (cd. “probatio diabolica”), dovendo questi risalire ad un titolo originario di acquisto della proprietà, normalmente coincidente con l’usucapione. A tal fine, però, non è sufficiente, stando a quanto chiarito da Sez. 6-2, n. 21940/2018, Falaschi, Rv. 650080-01, produrre l’atto di accettazione ereditaria, che non prova il possesso del dante causa, né il contratto di acquisto del bene, che non prova l’immissione in possesso dell’acquirente. Né il rigore della “probatio diabolica” riceve attenuazione per il fatto che la controparte proponga domanda riconvenzionale ovvero eccezione di usucapione, in quanto – come chiarito da Sez. 3, n. 14734/2018, Graziosi, Rv. 649050-01 – chi è convenuto nel giudizio di rivendicazione non ha l’onere di fornire alcuna prova, potendo avvalersi del principio “possideo quia possideo”, anche nel caso in cui opponga un proprio diritto di dominio sulla cosa rivendicata, dal momento che tale difesa non implica alcuna rinuncia alla più vantaggiosa posizione di possessore. Diverso è, invece, il caso in cui il convenuto spieghi una domanda ovvero un’eccezione riconvenzionale, invocando un possesso “ad usucapionem” iniziato successivamente al perfezionarsi dell’acquisto ad opera dell’attore in rivendica (o del suo dante causa) in quanto – come spiegato da Sez. 2, n. 08215/2016, Falabella, Rv. 639670-01 – in tale ipotesi l’onere probatorio gravante su quest’ultimo effettivamente si riduce alla prova del suo titolo d’acquisto, nonché della mancanza di un successivo titolo di acquisto per usucapione da parte del convenuto, attenendo il “thema disputandum” all’appartenenza attuale del bene al convenuto in forza dell’invocata usucapione e non già all’acquisto del bene medesimo da parte dell’attore.

Legittimato passivo a resistere alla domanda di rivendicazione, a qualsiasi titolo proposta (dunque, anche a titolo di usucapione), è unicamente chi possiede il bene o ne è proprietario all’atto della domanda, e non anche il precedente dante causa che, pertanto, non ha veste di litisconsorte necessario (così Sez. 6-2, n. 24260/2018, Cosentino, Rv. 651231-01).

4.1. (Segue) b) la “negatoria servitutis”

L’azione negatoria ha, invece, lo scopo di tutelare la pienezza del diritto di proprietà sulla cosa, con libertà da pesi o servitù pretesi da altri sulla stessa: l’azione trova ingresso allorché alle molestie provenienti dal terzo corrisponda la pretesa esistenza di un diritto: essa, secondo quanto chiarito da Sez. 2, n. 11823/2018, Criscuolo, Rv. 648357-01, è esperibile non soltanto dal proprietario, ma anche al titolare di un diritto reale di godimento sul fondo servente diverso da quello di proprietà.

In linea generale la Corte se ne è occupata, nel corso del 2018, per ragioni di carattere squisitamente processuale, essendosi chiarito che: (a) rispetto all’azione negatoria di servitù, costituisce domanda nuova, per diversità di “petitum” e di “causa petendi”, quella diretta, ai sensi dell’art. 1067 c.c., all’accertamento dell’avvenuto aggravamento della servitù stessa e al ripristino della precedente situazione, con la conseguenza che tale ultima domanda, ove venga proposta per prima volta in appello, è inammissibile, stante il divieto sancito dall’art. 345 c.p.c (Sez. 2, n. 14502/2018, Criscuolo, Rv. 648846-01). Ed infatti, in linea di continuità con Sez. 2, n. 00203/2017, Scarpa, Rv. 642206-01 può osservarsi che, mentre la “negatoria” tende alla negazione di qualsiasi diritto, anche dominicale, affermato dal terzo sul bene e, quindi, non al mero accertamento dell’inesistenza della pretesa servitù ma al conseguimento della cessazione della dedotta situazione antigiuridica, al fine di ottenere la libertà del fondo, domanda di riduzione in pristino per aggravamento di servitù esistente prospetta un’alterazione dei luoghi compiuta dal titolare di una servitù prediale e trova fondamento nei rimedi di cui agli artt. 1063 e 1067 c.c.; (b) nell’azione volta ad ottenere l’accertamento della inesistenza della servitù di apporre le tubature del gas sul muro perimetrale di un edificio e la conseguente condanna alla loro rimozione la legittimazione passiva spetta all’ente erogatore del gas, quale proprietario del fondo dominante costituito dall’impianto di distribuzione e non all’utente del servizio di fornitura comproprietario del muro (così Sez. 2, n. 22050/2018, Tedesco, Rv. 650074-01); (c) Sez. 2, n. 17664/2018, Chiesi, Rv. 649385-01, infine, precisa che l’azione per l’osservanza della limitazione legale della proprietà prevista dall’art. 913 c.c. per lo scolo delle acque, la quale miri ad ottenere, oltre all’accertamento dell’aggravamento della condizione del fondo inferiore in conseguenza di opere abusivamente costruite in quello superiore, la demolizione di tali opere, si sostanzia in una “actio negatoria” di servitù di scolo che, poiché diretta alla rimozione di opere realizzate nel fondo altrui, determina, ove la piena proprietà di questo appartenga a più soggetti (comproprietari o usufruttuario e nudo proprietario), un’ipotesi di litisconsorzio necessario nei confronti di tutti costoro.

Un’attenzione particolare è stata poi dedicata ad un’ipotesi peculiare di “actio negatoria servitutis”, quale quella volta al rispetto delle distanze legali tra le costruzioni. Chiarisce infatti Sez. 2, n. 15041/2018, Cavallari, Rv. 649068-01 come il proprietario che lamenti la realizzazione di un manufatto su un fondo limitrofo a distanza non regolamentare deve dare prova solo del fatto della costruzione e di quello della dedotta violazione, mentre il convenuto, che affermi di avere acquisito per usucapione il diritto di mantenere il suo fabbricato a distanza inferiore a quella legale per avere ricostruito un edificio preesistente “in loco”, deve dimostrare la sussistenza degli elementi costitutivi dell’acquisto a titolo originario, vale a dire la presenza per il tempo indicato dalla legge del manufatto nella stessa posizione e l’assoluta identità fra la nuova e la vecchia struttura. Precisa ulteriormente Sez. 2, n. 21501/2018, Giu. Grasso, Rv. 650315-02 che al proprietario confinante che lamenti tale violazione compete sia la tutela in forma specifica, finalizzata al ripristino della situazione antecedente al verificarsi dell’illecito, sia quella risarcitoria, e il danno che egli subisce (danno conseguenza e non danno evento) deve ritenersi “in re ipsa”, senza necessità di una specifica attività probatoria, essendo l’effetto, certo e indiscutibile, dell’abusiva imposizione di una servitù nel proprio fondo e, quindi, della limitazione del relativo godimento che si traduce in una diminuzione temporanea del valore della proprietà. Di diverso avviso, però, Sez. 2, n. 10362/2018, Fortunato, Rv. 648354-01, secondo la quale la realizzazione di opere in violazione di norme recepite dagli strumenti urbanistici locali, diverse da quelle dettate in materia di distanze, non comportano immediato e contestuale danno per i vicini, il cui diritto al risarcimento presuppone l’accertamento di un nesso tra la violazione contestata e l’effettivo pregiudizio subito, la cui prova deve essere fornita dagli interessati in modo preciso, con riferimento alla sussistenza del danno ed all’entità dello stesso.

Precisato, poi, che l’eventuale sanatoria edilizia di cui all’art. 31 della l. n. 47 del 1985 opera nei rapporti fra l’autore della costruzione e la P.A., ma non comporta la modifica della disciplina urbanistica né fa venir meno la contrarietà della costruzione alle norme che regolano i rapporti fra privati in materia di distanze delle costruzioni contenute nel codice civile o di questo integrative (così Sez. 2, n. 09268/2018, Bellini, Rv. 648083-01), quanto al danno concretamente patito in conseguenza dell’illecita attività edificatoria, Sez. 2, n. 14294/2018, Bellini, Rv. 648840-01 evidenzia che, ove sia disposta la demolizione dell’opera, il risarcimento va computato tenendo conto della temporaneità della lesione del bene protetto dalle norme non rispettate e non del valore di mercato dell’immobile, diminuito per effetto della detta violazione, proprio poiché tale pregiudizio è suscettibile di eliminazione.

4.2. (Segue) c) le azioni di regolamento di confini e di apposizione di termini.

Le azioni cd. “di confine” sono due e perseguono, rispettivamente, finalità diverse: mentre l’actio finium regundorum si esercita allorché vi sia un’incertezza sul confine ad opera di uno (azione qualificata) ovvero di entrambi (“actio simplex”) i confinanti, l’azione di apposizione di termini viene invece introdotta quando tale incertezza non vi sia e si voglia unicamente apporre un segno visibile ad indicazione del confine tra i fondi. Si tratta, in entrambi i casi, di un “iudicium duplex”, nel senso che entrambe le parti confinanti possono introdurre le due azioni, vantando reciprocamente una posizione di pretesa e di difesa.

La Corte – e, in specie, Sez. 2, n. 11822/2018, Picaroni, Rv. 648496-01 – si è occupata principalmente dell’azione di regolamento di confine, ravvisandone il “discrimen” rispetto alla rivendica proprio nella la ricorrenza di una situazione di incertezza sul confine tra due fondi, ma non sul diritto di proprietà degli stessi, anche se oggetto di controversia è la determinazione quantitativa delle rispettive proprietà; né – evidenzia Sez. 2, n. 22645/2018, Criscuolo, Rv. 650370-01 – l’azione muta natura, trasformandosi in rivendica, nel caso in cui l’attore sostenga che il confine di fatto non sia quello esatto per essere stato parte del suo fondo usurpato dal vicino, essendo del tutto irrilevante – come già evidenziato da Sez. 2, n. 02297/2017, Scalisi, Rv. 642489-01 – che l’accertamento della proprietà di una delle parti sulla porzione di fondo controversa comporti anche un effetto recuperatorio della proprietà stessa quale mera conseguenza dell’esperimento della detta azione, la cui finalità è soltanto quella di eliminare l’incertezza e le contestazioni relativa alla linea divisoria, prescindendo da ogni controversia sul diritto di proprietà.

Quanto alla prova, ribadendo un principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità, Sez. 2, n. 10066/2018, Criscuolo, Rv. 648164-01 chiarisce che solo in caso di rivendica incombe sull’attore l’onere di fornire la prova del suo diritto di proprietà in forza di un titolo di acquisto originario o derivativo risalente ad un periodo di tempo atto all’usucapione; diversamente, nell’azione di regolamento di confini, la quale si configura come una “vindicatio incertae partis”, Sez. 2, n. 10062/2018, Chiesi, Rv. 648330-01 chiarisce che incombe sia sull’attore che sul convenuto l’onere di allegare e fornire qualsiasi mezzo di prova idoneo all’individuazione dell’esatta linea di confine, mentre il giudice, del tutto svincolato dal principio “actore non probante reus absolvitur”, deve determinare il confine in relazione agli elementi che gli sembrano più attendibili, ricorrendo in ultima analisi alle risultanze catastali, aventi valore sussidiario. Interessante, a tale ultimo proposito, il principio affermato da Sez. 2, n. 20691/2018, Falaschi, Rv. 650006-01, per cui la regola stabilita dall’art. 950, ultimo comma, c.c. trova applicazione anche nel caso in cui all’accertamento del confine si proceda in via incidentale, ai fini della verifica del rispetto delle distanze, fuori del tipico processo di regolamento di confini previsto nel citato articolo.

4.3. d) (Segue) Le immissioni.

Discorrendo della regolamentazione dei rapporti di vicinato, discorso a parte merita la disciplina delle immissioni, regolate dall’art. 844 c.c., il cui limite è rappresentato non già dalla normalità dell’esercizio di una determinata attività, quanto dalla normale tollerabilità per chi deve subirla, tenendo conto (a) delle esigenze della produzione e (b) delle condizioni di ambiente (cd. “preuso”).

Tali principi sono ben chiariti da Sez. 2, n. 28201/2018, Fortunato, Rv. 651181-01 che evidenzia come il limite di tollerabilità delle immissioni rumorose non è mai assoluto, ma relativo alla situazione ambientale, variabile da luogo a luogo, secondo le caratteristiche della zona e le abitudini degli abitanti, e non può prescindere dalla rumorosità di fondo, ossia dalla fascia rumorosa costante, sulla quale vengono ad innestarsi i rumori denunciati come immissioni abnormi (cd. criterio comparativo), sicché la valutazione diretta a stabilire se i rumori restino compresi o meno nei limiti della norma deve essere riferita, da un lato, alla sensibilità dell’uomo medio e, dall’altro, alla situazione locale, appropriatamente e globalmente considerata.

La materia registra evidenti collegamenti con la normativa (di stampo pubblicistico) antinquinamento, pur dovendosi tenere sempre presente la distinzione tra tutela reale ex art. 844 c.c. (a vantaggio del proprietario) e generale tutela delle persone, ex art. 2043 (o 2059) c.c.: Sez. 2, n. 23754/2018, Criscuolo, Rv. 650628-01 ne trae pertanto la conclusione per cui i parametri fissati dalle norme speciali a tutela dell’ambiente (dirette alla protezione di esigenze della collettività, di rilevanza pubblicistica), pur potendo essere considerati come criteri minimali inderogabili, al fine di stabilire l’intollerabilità delle emissioni che li superino, non sono sempre vincolanti per il giudice civile il quale, nei rapporti fra privati, può pervenire al giudizio di intollerabilità ex art. 844 c.c. anche qualora le immissioni siano contenute nei summenzionati parametri, sulla scorta di un prudente apprezzamento che tenga conto della particolarità della situazione concreta e dei criteri fissati dalla norma civilistica e che, ove adeguatamente motivato, costituisce accertamento di merito insindacabile in sede di legittimità. Sicché se il superamento dei limiti pubblicisti rende l’immissione senz’altro illecita, non è sempre vero il contrario. Nel procedere a tale valutazione, peraltro, occorre tenere conto che il limite della tutela della salute è da ritenersi ormai intrinseco nell’attività di produzione, oltre che nei rapporti di vicinato, alla luce di una interpretazione costituzionalmente orientata: sicché Sez. 2, n. 21504/2018, Penta, Rv. 650317-02 ne trae la conclusione per cui la soddisfazione di una normale qualità della vita deve sempre considerarsi prevalente rispetto alle esigenze della produzione, con esclusione, in siffatta evenienza, dell’impiego di qualsiasi criterio di contemperamento di interessi contrastanti e di priorità dell’uso.

L’accertamento del superamento della soglia di normale tollerabilità di cui all’art. 844 c.c. comporta, nella liquidazione del danno da immissioni, l’esclusione di qualsiasi criterio di contemperamento di interessi contrastanti e di priorità dell’uso poiché, venendo in considerazione, in tale ipotesi, unicamente l’illiceità del fatto generatore del danno arrecato a terzi, si rientra nello schema dell’azione generale di risarcimento danni ex art. 2043 c.c. e specificamente, per quanto concerne il danno non patrimoniale risarcibile, in quello dell’art. 2059 c.c. (Sez. 2, n. 21554/2018, Federico, Rv. 650173-01). Né rileva, in senso ostativo all’azionabilità della tutela ex art. 844 c.c., la mancanza della certificazione di abitabilità del bene interessato dalle propagazioni, ad esclusione dei casi in cui emergano circostanze concrete che incidano, negandola, sulla configurabilità dell’illegittima limitazione del godimento dello stesso o della concreta riduzione del suo valore (Sez. 2, n. 11677/2018, Fortunato, Rv. 648329-01).

5. Comunione di diritti reali.

Fermo il rinvio al relativo capitolo tematico, cionondimeno vanno comunque evidenziate alcune decisioni che affermano principi di carattere generale in materia di comunione.

A lungo si è posto il problema dell’individuazione delle norme applicabili ai consorzi di urbanizzazione, istituti atipici con aspetti sia associativi che di realità, (derivanti, questi ultimi, dall’osservanza di obblighi “propter rem” o dalle costituzioni di reciproche servitù): la questione, invero, è stata ripetutamente affrontato in sede di legittimità, sotto il profilo dell’applicabilità, alternativamente, delle norme in materia di condominio o di associazioni non riconosciute: dall’atipicità del rapporto consortile è stata argomentata la necessità di tener conto, anzitutto, dell’atto costitutivo o dello statuto, al fine di rispettare la volontà espressa dai consorziati medesimi sui vari aspetti della disciplina del rapporto, salvo passare, ove questo nulla disponga al riguardo, all’individuazione della normativa più confacente alla regolazione degli interessi implicati dalla controversia. Con particolare riferimento, poi, all’ipotesi di recesso dal consorzio – prospettabile anche in termini di cd. abbandono liberatorio e che rappresenta l’ipotesi che maggiormente interessa, ai fini che in questa sede rilevano – in assenza di una disciplina contrattuale specifica si è posta la questione relativa alle norme da applicare, in ragione dell’aspetto di realità delle vicende del rapporto consortile. In proposito, secondo l’orientamento costante della Corte, ai consorzi costituiti tra proprietari di immobili per la gestione delle parti e dei servizi comuni di una zona residenziale si applicano le disposizioni in materia di condominio (Sez. 1, n. 03665/2001, Verucci, Rv. 544731-01), con esclusione, laddove esista una specifica disciplina in tema di condominio (art. 1139 c.c), delle norme sulla comunione; del pari, qualora si verta in tema di consorzi di urbanizzazione finalizzati alla costruzione, manutenzione e ripristino di opere stradali, nonché di quelle per la distribuzione dell’acqua e dell’energia elettrica (svolgendo, ancora, tutte le altre attività comunque utili al comprensorio), è stata esclusa ogni possibilità di recesso degli associati, se non per effetto di trasmissione a terzi del diritto di proprietà immobiliare (evidentemente esclusiva, la quale comporta altresì il trasferimento delle pertinenze, tra le quali le quote delle cose comuni asservite alla proprietà esclusiva) (Sez. 1, n. 04125/2003, Rv. 561278-01). Se ne è tratta, pertanto, la conclusione per cui nei consorzi di urbanizzazione per la disciplina dei beni in proprietà comune ai consorziati, e posti al servizio delle proprietà esclusive dei medesimi, in difetto di diversa disciplina contenuta nell’atto costitutivo o nello statuto, trovano applicazione le norme sul condominio, e, tra esse, l’art. 1118, comma 2, c.c. (Sez. 2, n. 20989/2014, Falaschi, Rv. 632395-01).

La conclusione è stata confermata da Sez. 2, n. 27634/2018, Casadonte, Rv. 651029-01 che ha ribadito come, atteso il nesso funzionale tra i beni di proprietà comune e quelli di proprietà esclusiva, il recesso del consorziato diretto alla liberazione dall’obbligo contributivo, in assenza di specifica previsione statutaria, non è disciplinato dall’art. 1104 c.c., che consente l’”abbandono liberatorio” nella comunione, bensì dall’art. 1118 c.c., che lo vieta nel condominio. Tale soluzione appare, peraltro, perfettamente in linea con il novellato art. 1117-bis c.c., che estende la disciplina del condominio a tutte le fattispecie che registrano la compresenza di parti di proprietà esclusiva e parti di proprietà comune.

Con più specifico riferimento alla tematica della comunione, invece, merita di essere anzitutto segnalata Sez. 2, n. 27645/2018, Oliva, Rv. 651175-01, la quale evidenzia che, quando i beni in godimento comune provengono da titoli diversi, non si realizza un’unica comunione, ma tante comunioni quante sono i titoli di provenienza dei beni, corrispondendo, quindi, alla pluralità di titoli una pluralità di masse, ciascuna delle quali costituisce un’entità patrimoniale a sé stante. Pertanto, in caso di divisione del complesso, si hanno, in sostanza, tante divisioni, ciascuna relativa ad una massa e nella quale ogni condividente fa valere i propri diritti indipendentemente da quelli che gli competono sulle altre masse. Nell’ambito di ciascuna massa, inoltre, debbono trovare soluzione i problemi particolari relativi alla formazione dei lotti e alla comoda divisione dei beni immobili che vi sono inclusi. Adde a quanto precede Sez. 2, n. 25756/2018, Picaroni, Rv. 650835-01, per cui in tal caso il litisconsorzio necessario tra i condividenti si determina soltanto all’interno del giudizio di divisione relativo a ciascuna massa, potendo procedersi a un’unica divisione solo in presenza del consenso di tutte le parti e purché la circostanza risulti da uno specifico negozio.

Quanto alle modalità di stima dei beni facenti parte della masse, in caso di scioglimento di comunioni ereditarie, Sez. 6-2, n. 14406/2018, Criscuolo, Rv. 649089-02, si è occupata di indicare un criterio per la determinazione del valore del diritto di abitazione sulla casa coniugale spettante al coniuge superstite. Orbene, la decisione – che si si pone in ideale linea di continuità con Sez. U, n. 04847/2013, Mazzacane, Rv. 625171-01 (la quale ha chiarito che, in tema di successione legittima, spettano al coniuge superstite, in aggiunta alla quota attribuita dagli artt. 581 e 582 cod. civ., i diritti di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare e di uso sui mobili che la corredano, di cui all’art. 540, comma 2, c.c., dovendo il valore capitale di tali diritti essere detratto dall’asse prima di procedere alla divisione dello stesso tra tutti i coeredi, secondo un meccanismo assimilabile al prelegato, e senza che, perciò, operi il diverso procedimento di imputazione previsto dall’art. 533 c.c., relativo al concorso tra eredi legittimi e legittimari e strettamente inerente alla tutela delle quote di riserva dei figli del “de cuius”) – evidenzia come la stima del diritto di abitazione spettante al coniuge superstite può essere determinata attraverso i criteri relativi al diritto di usufrutto, nonostante tali diritti differiscano per le facoltà che ne sono oggetto e la relativa disciplina, poiché l’obiettiva attitudine del bene destinato a casa coniugale a soddisfare esigenze abitative comporta una sostanziale identità delle utilità ricavabili dall’immobile da parte dell’usufruttuario e dell’abitatore..

Un’attenzione particolare, infine, è stata dedicata alla tematica dell’accessione rispetto ai beni in comproprietà: così, risolvendo anzitutto un contrasto che si era determinato a livello di sezioni semplici, Sez. U, n. 03873/2018, Lombardo, Rv. 647093-01, ha definitivamente chiarito che la costruzione eseguita dal comproprietario sul suolo comune diviene, per accessione, ai sensi dell’art. 934 c.c., di proprietà comune agli altri comproprietari dell’immobile, salvo contrario accordo, traslativo della proprietà del terreno o costitutivo di un diritto reale su di esso, che deve rivestire la forma scritta “ad substantiam”. Viene così peraltro risolta – in senso negativo – anche la correlata questione della riconducibilità dell’accessione ai “titoli contrari” richiesti dall’art. 1117 c.c. onde sottrarre un bene, astrattamente rientrate tra quelli tipologicamente ascrivibili ai nn. 1, 2 e 3 della menzionata disposizione, al regime legale di condominialità.

Quindi, ribadendo un principio ormai pacifico a proposito del regime giuridico della costruzione realizzata da entrambi i coniugi in regime di comunione legale su suolo di proprietà esclusiva di uno solo dei due, Sez. 2, n. 27412/2018, Carrato, Rv. 651027-01 ha evidenziato che il principio generale dell’accessione posto dall’art. 934 c.c., in base al quale il proprietario del suolo acquista “ipso iure”, al momento dell’incorporazione, la proprietà della costruzione su di esso edificata e la cui operatività può essere esclusa soltanto da una specifica pattuizione tra le parti o da una altrettanto specifica disposizione di legge, non trova deroga nella disciplina della comunione legale tra coniugi, poiché l’acquisto della proprietà per accessione avviene a titolo originario, senza la necessità di un’apposita manifestazione di volontà, mentre gli acquisti ai quali è applicabile l’art. 177, comma 1, c.c. hanno carattere derivativo, essendone espressamente prevista una genesi di natura negoziale: sicché, la costruzione realizzata in costanza di matrimonio ed in regime di comunione legale da entrambi i coniugi sul terreno di proprietà personale esclusiva di uno di essi è a sua volta proprietà personale ed esclusiva di quest’ultimo in virtù dei principi generali in materia di accessione, spettando al coniuge non proprietario che abbia contribuito all’onere della costruzione il diritto di ripetere nei confronti dell’altro le somme spese, ai sensi dell’art. 2033 c.c.

5.1. Comunione e tutela in sede giudiziaria.

Sul versante più spiccatamente processualistico, la Corte ha indiguato particolarmente sul regime patrimoniale della famiglia, intervenendo in due occasioni: nel primo caso, Sez. 6-3, n. 11033/2018, Rubino, Rv. 648914-01 ha escluso che il coniuge dell’acquirente di un immobile, che sia rimasto estraneo alla stipulazione dell’atto di compravendita, sia litisconsorte necessario nel giudizio promosso dal venditore per l’accertamento della simulazione del contratto, perché l’inclusione del bene nella comunione legale ai sensi del’art. 177 c.c. costituisce un effetto “ope legis” dell’efficacia e validità del titolo di acquisto; nella seconda circostanza, Sez. 2, n. 25754/2018, Abete, Rv. 650834-01 ha invece chiarito che in regime di comunione legale tra i coniugi, l’atto di straordinaria amministrazione costituito dal conferimento ex art. 2253 c.c. di un bene immobile in società personale, posto in essere da un coniuge senza la partecipazione o il consenso dell’altro, è soggetto alla disciplina dell’art. 184, comma 1, c.c. e non è pertanto inefficace nei confronti della comunione, ma solamente esposto all’azione di annullamento da parte del coniuge non consenziente nel breve termine prescrizionale entro cui è ristretto l’esercizio di tale azione, decorrente dalla conoscenza effettiva dell’atto ovvero, in via sussidiaria, dalla trascrizione o dallo scioglimento della comunione; con la conseguenza che ne discende per cui, finché l’azione di annullamento non venga proposta, l’atto è produttivo di effetti nei confronti dei terzi.

6. Usufrutto, uso e abitazione.

La proprietà può essere in vario modo compressa, non solo sulla base di diritti che altri soggetti vantino nei confronti del proprietario, ma anche in virtù di diritti esistenti sulla cosa stessa, esercitabili “erga omnes” e concorrenti con la proprietà: rispetto a quest’ultima, ovviamente, non hanno il carattere di pienezza ed esclusività (donde la definizione in termini di diritti parziari o limitati), ma ne condividono il carattere reale; sono inoltre caratterizzati, pur nella crescente critica, sul punto, della dottrina, dalla tipicità (si discorre, in proposito, di “numerus clausus” dei diritti reali) e dal diritto di seguito. Si distinguono, sistematicamente, in diritti reali di garanzia e di godimento e tra questi ultimi rientrano le servitù, l’usufrutto, l’uso e l’abitazione.

Proprio con riferimento all’usufrutto la Corte ha affrontato la questione concernente la compatibilità dello schema ex art. 1333 cod. civ. (per cui la proposta diretta a concludere un contratto da cui derivano obbligazioni a carico del solo proponente è irrevocabile appena giunge a conoscenza del destinatario; il destinatario può rifiutare la proposta nel termine richiesto dalla natura dell’affare o dagli usi e, in mancanza di tale rifiuto, il contratto è concluso) con la conclusione dei contratti ad efficacia reale: questione che registra un acceso dibattito in dottrina, oscillandosi tra chi nega tale possibilità, sulla scorta del rilievo per cui la richiamata disposizione contempla esclusivamente obbligazioni a carico del solo proponente, mentre non consente di imporre all’oblato obblighi manutentivi di beni, per di pù conseguentemente al loro trasferimento mediante invio della semplice proposta e chi, al contrario, la ammette, considerando, da un lato, la presenza di diverse disposizioni che prevedono atti unilaterali ad effetti reali (quale, ad esempio, l’art. 1070 cod. civ.) e, dall’altro, la possibilità che il contratto a favore di terzo possa produrre effetti reali.

In particolare, Sez. 2, n. 15997/2018, Tedesco, Rv. 649225-01, accogliendo una posizione mediana tra le due tesi innanzi proposte, risolve il problema affermando l’applicabilità dell’art. 1333 cod. civ. anche ai contratti con effetti traslativi da una sola parte, a condizione, tuttavia, che si tratti di attribuzioni traslative che non comportino alcun onere od obbligo a carico del beneficiario, in quanto la presenza di un pregiudizio, anche solo potenziale – quali gli oneri di custodia, gestione o tributari – impone la necessaria accettazione del destinatario. Ancor più chiara, nel passato, era stata Sez. 2, n. 05748/1987, Girone, Rv. 454162 – 01, pure richiamata in motivazione dalla pronunzia in esame, per la quale, poiché la “ratio” dell’art. 1333 c.c. – che consente la formazione del contratto per mancato rifiuto da parte del destinatario della proposta – risiede nel fatto che a quest’ultimo possono derivare soltanto vantaggi dal contratto medesimo, la detta disposizione deve essere intesa nel senso che non soltanto gli effetti obbligatori derivanti dal contratto, ma anche gli eventuali effetti dispositivi o estintivi debbano essere ad esclusivo carico del proponente.

Peculiare, invece, è la vicenda affrontata da Sez. 2, n. 02754/2018, Scarpa, Rv. 647792-02: la sentenza che accoglie l’azione di annullamento di un contratto di vendita della nuda proprietà di una quota di un bene immobile fa venir meno l’estinzione dell’usufrutto su di essa gravante a seguito di riunione, verificatasi in epoca successiva al negozio annullato, dell’usufrutto medesimo e della proprietà in capo alla medesima persona, non quale effetto dell’estensione dell’efficacia della pronuncia di annullamento al successivo contratto traslativo del diritto di usufrutto, né della reviviscenza del diritto di usufrutto, bensì quale conseguenza, discendente dalla natura costitutiva e dal valore retroattivo della sentenza di annullamento, della negazione dell’effetto della consolidazione ex art. 1014, n. 2, c.c.

Quanto, infine, al diritto di abitazione, Sez. 2, n. 10065/2018, Criscuolo, Rv. 648163-01, evidenzia come il credito derivante dalle migliorie e dalle addizioni apportate dal relativo titolare è inesigibile prima della restituzione del bene al nudo proprietario in quanto, in applicazione del principio del divieto di arricchimento ingiustificato, solo al momento della riconsegna è possibile verificare se sia residuata una differenza tra lo speso e il migliorato.

7. Servitù prediali.

L’art. 1027 c.c. definisce la servitù come un peso al godimento di un fondo, per l’utilità di un altro fondo appartenente a diverso proprietario: vantaggio e correlativa restrizione formano, dunque, due aspetti correlati nel concetto stesso di servitù, tanto da consentire l’identificazione di un fondo servente e di uno dominante; per la valida costituzione di una servitù, però, non è necessario che il titolo contenga la specifica descrizione del fondo dominante e del fondo servente, essendo sufficiente, come affermato da Sez. 2, n. 26516/2018, Scarpa, Rv. 650841-01, che questi ultimi siano comunque desumibili dal contenuto dell’atto. La soggezione può consistere in un “pati” o in un “non facere”, salvo, relativamente a quest’ultima prestazione la possibilità di prevedere, a carico del proprietario del fondo servente, alcuni obblighi di “facere” (cfr., ad es., l’art. 1091 c.c.). Requisiti comuni a tutte le servitù sono la vicinanza dei fondi (cd. “vicinitas”), la “perpetua causa”, l’indivisibilità e l’inscindibilità.

Quanto alla fonte costitutiva, le servitù possono essere volontarie o coattive (o legali) a seconda che siano riconducibili ad un atto volitivo delle parti (che, tuttavia, come evidenziato da Sez. 2, n. 21501/2018, Giu. Grasso, Rv. 650315-01, oltre a dovere necessariamente rivestire la forma scritta “ad substantiam” ex art. 1350, n. 4, c.c. – cfr. anche Sez. 2, n. 20958/2018, Penta, Rv. 650021-02 – pur senza ridondare in formule sacramentali o formule sacrali particolari – cfr. Sez. 2, n. 10169/2018, Dongiacomo, Rv. 648318-01 – deve altresì, ai fini della sua opponibilità all’avente causa dell’originario proprietario del fondo servente, essere stato trascritto o espressamente menzionato nell’atto di trasferimento al terzo del fondo medesimo, rimanendo, altrimenti, vincolante solo tra le parti originarie. A tale ultimo riguardo, in particolare l’indagine sull’opponibilità di una servitù ai terzi successivi acquirenti va condotta con esclusivo riguardo al contenuto della nota di trascrizione del contratto che della servitù integra il titolo sicché, rileva Sez. 2, n. 08000/2018, Carrato, Rv. 648004-01, detta opponibilità può essere ritenuta solo quando dalla nota menzionata sia possibile desumere l’indicazione del fondo dominante e di quello servente, la volontà delle parti di costituire la servitù) ovvero ad una previsione legislativa, nel senso che, in tale ultimo caso, possono essere costituite anche senza il consenso del titolare del fondo servente (cfr. “infra”), essendo il relativo diritto riconosciuto “ex lege” al titolare del fondo dominante.

Così, ad esempio, osserva Sez. 2, n. 14477/2018, Cavallari, Rv. 648975-01, la costituzione di servitù coattiva di passaggio a favore di fondo non intercluso, ai sensi dell’art. 1052 c.c., e l’ampliamento del passaggio già esistente ex art. 1051, comma 3, c.c. possono avvenire, dopo la pronuncia della Corte costituzionale n. 167 del 1999, non soltanto in presenza di esigenze dell’agricoltura e dell’industria, ma anche quando sia accertata, in generale, l’inaccessibilità all’immobile da parte di qualsiasi persona portatrice di handicap o con ridotta capacità motoria, essendo irrilevante l’inesistenza in concreto della disabilità in capo al titolare del fondo medesimo, oppure qualora occorra garantire la tutela di necessità abitative, da chiunque invocabili.

Ove non apparenti, le servitù volontarie possono costituirsi soltanto per titolo (contratto o testamento) mentre, se apparenti, possono costituirsi anche per usucapione e destinazione del padre di famiglia; quando coattive, in mancanza di accordo tra le parti, possono essere costituite per provvedimento dell’autorità giudiziaria, con cui vengono altresì stabiliti le modalità di esercizio della servitù e l’indennizzo da riconoscere al titolare del fondo servente; tale indennizzo, peraltro, può condizionare l’esercizio stesso della servitù (cfr. l’art. 1030, comma 2, c.c.) e va calcolato con riferimento al peso imposto, indipendentemente da altre limitazioni che, in conseguenza, il fondo servente venga a subire. Così Sez. 1, n. 20136/2018, Tinelli, Rv. 649956-01 rappresenta come in tema di servitù di elettrodotto, nella determinazione dell’indennità di asservimento del fondo, è esclusa l’eventuale diminuzione del valore della residua proprietà (fabbricato) che si viene a trovare in posizione di vicinanza con l’opera pubblica realizzata e specificamente con il traliccio portante i cavi di conduzione dell’energia, riguardando tali effetti le limitazioni legali della proprietà che gravano in modo indifferenziato su tutti i beni che vengano a trovarsi in prossimità dell’opera pubblica.

Interessante il caso affrontato da Sez. 2, n. 14481/2018, Cavallari, Rv. 649067-02 che, rileggendo l’art. 1062 c.c. chiarisce che la costituzione di servitù (volontaria) per destinazione del padre di famiglia può sorgere pure se la divisione del fondo sia stata disposta, anziché dal proprietario, dal giudice dell’esecuzione con il decreto di trasferimento dei lotti risultanti dal frazionamento del terreno in sede di vendita forzata, salvo che il giudice stesso manifesti una volontà a ciò contraria anche tramite l’ordine di rimozione delle opere o dei segni apparenti che avrebbero integrato il contenuto della detta servitù, sostituendosi egli, in tale caso, al “dominus” – padre di famiglia.

Circa il modo di esercizio, quando esso non sia regolato dal titolo, il criterio per determinare il contenuto del diritto è dato dal possesso (cfr. art. 1065 c.c.) e, cioè, dall’esistente situazione di fatto rispetto al godimento che si ha sul fondo servente, valutata sulla base della pratica dell’anno precedente o dell’ultimo godimento (art. 1066 c.c.): il criterio è ribadito in maniera estremamente chiara da Sez. 2, n. 20696/2018, Giannaccari, Rv. 650010-01, la quale evidenzia come l’estensione e le modalità di esercizio della servitù (nella specie, di passaggio) devono essere dedotte anzitutto dal titolo, quale fonte regolatrice primaria del diritto, tenendo conto della comune intenzione dei contraenti, da ricavarsi, peraltro, non soltanto dal tenore letterale delle espressioni usate, ma anche dallo stato dei luoghi, dall’ubicazione reciproca dei fondi e dalla loro naturale destinazione, elementi tutti formativi e caratterizzanti l’”utilitas” legittimante la costituzione della servitù; solo ove il titolo manifesti imprecisioni o lacune, non superabili mediante adeguati criteri ermeneutici, è possibile ricorrere ai precetti sussidiari di cui agli artt. 1064 e 1065 c.c.. Sicché, prosegue Sez. 2, n. 15046/2018, Fortunato, Rv. 649070-01, in applicazione di tali criteri residuali deve farsi riferimento al contemperamento delle esigenze del fondo dominante col minore aggravio di quello servente, tenendo conto, con riferimento all’epoca della loro costituzione, dello stato dei luoghi, della naturale destinazione dei fondi e degli altri elementi rivelatori della “utilitas” da soddisfare, con una valutazione ispirata ai normali criteri di prevedibilità.

Né il proprietario del fondo servente può compiere alcunché in grado di diminuire l’esercizio della servitù o a renderlo più incomodo: ai sensi dell’art. 1068 c.c., infatti, lo spostamento delle opere necessarie per l’esercizio della servitù non può avvenire per iniziativa unilaterale del proprietario del fondo servente il quale, ove l’originario esercizio di quel diritto impedisca di effettuare lavori, operazioni o miglioramenti, può offrire al proprietario del fondo dominante un luogo altrettanto comodo per godere del suo diritto; ove, tuttavia, detta offerta non sia accettata, tale spostamento, evidenzia Sez. 2, n. 14821/2018, Scarpa, Rv. 648853-01, può essere chiesto e conseguito dal proprietario del fondo servente o per decisione del giudice o per effetto di convenzione scritta ex art. 1350, n. 4, c.c. intercorsa tra le parti, implicando il mutamento del luogo di esercizio variazioni nel contenuto della servitù medesima.

Avuto riguardo, infine, ai modi di estinzione delle servitù, Sez. 2, n. 09879/2018, Varrone, Rv. 648156-01 rappresenta che la costituzione di una servitù volontaria ben può essere subordinata a condizione risolutiva – anche se meramente potestativa, in quanto l’art. 1355 c.c. limita la nullità, nell’ambito delle condizioni meramente potestative, a quelle sospensive – che non è incompatibile con la costituzione di una servitù poiché non incide sul requisito della permanenza, connaturale al contenuto reale dell’asservimento tra due fondi, ma si risolve in un modo convenzionale di estinzione della servitù stessa.

7.1. Profili processuali relativi alla costituzione delle servitù.

La difesa del diritto di servitù è affidata all’azione confessoria che rappresenta il simmetrico della azione negatoria: si tratta di un’azione esperibile da chi pretende di avere il diritto reale sulla cosa altrui, nei confronti del proprietario e chiunque ne contesti l’esercizio.

In proposito, Sez. 2, n. 03851/2018, Dongiacomo, Rv. 647806-01 si occupa dei rapporti tra alienante ed acquirente del fondo dominante, ove l’alienazione sia intervenute nelle more del giudizio volto a far valere la servitù: il giudizio, ai sensi dell’art. 111 c.p.c., prosegue tra le parti originarie, ma la sentenza ha effetto anche nei confronti dell’acquirente che può, pertanto, essere chiamato in giudizio o intervenirvi, mentre l’alienante, se le parti vi consentono, può esserne estromesso.

Come evidenziato in precedenza, poi, il giudizio volto alla alla costituzione di servitù coattiva può altresì estendersi, in caso di proposizione della relativa domanda ad opera del titolare del fondo servente, alla determinazione dell’indennità ex art. 1053 c.c.: come chiarito da Sez. 2, n. 09543/2018, Chiesi, Rv. 648153-01, tale domanda non rientra, però, tra quelle per cui è prevista la trascrizione ai sensi degli artt. 2652, 2653, 2690 e 2691 c.c., sicché, non operando la clausola di salvezza degli effetti della trascrizione contemplata dall’art. 111, comma 4, ultimo periodo, c.p.c., la decisione, emanata nei confronti della parte originaria fa stato ed è eseguibile nei riguardi del successore a titolo particolare, restando del tutto irrilevante il momento in cui avvenne la trascrizione ad opera di quest’ultimo.

8. Tutela ed effetti del possesso.

Numerose le pronunce della S.C. relativamente al possesso utile ai fini dell’usucapione.

Trattandosi di modo di acquisto della proprietà a titolo originario, la giurisprudenza di legittimità richiede il compimento di atti diretti in maniera non equivoca a manifestare sul bene un animus corrispondente a quello del proprietario: sicché per Sez. 2, n. 17376/2018, Carrato, Rv. 649349-01 non è sufficiente a tal fine la mera coltivazione del fondo perché essa, di per sé, non esprime, in modo inequivocabile, l’intento del coltivatore di possedere, occorrendo, invece, che tale attività materiale, corrispondente all’esercizio del diritto di proprietà, sia accompagnata da univoci indizi, i quali consentano di presumere che essa è svolta “uti dominus”.

L’interversione nel possesso, infatti, non può avere luogo mediante un semplice atto di volizione interna, ma deve estrinsecarsi in una manifestazione esteriore, dalla quale sia possibile desumere che il detentore abbia iniziato ad esercitare il potere di fatto sulla cosa esclusivamente in nome proprio e non più in nome altrui, e detta manifestazione deve essere rivolta specificamente contro il possessore, in maniera che questi sia posto in grado di rendersi conto dell’avvenuto mutamento e della concreta opposizione al suo possesso. Non è invece richiesto il compimento di atti di interversione in caso di compossesso che muti in possesso esclusivo: seguendo il costante orientamento di legittimità, infatti, Sez. 2, n. 09100/2018, Federico, Rv. 648079-01 ribadisce che il partecipante alla comunione che intenda dimostrare l’intenzione di possedere non più a titolo di compossesso, ma di possesso esclusivo, non ha la necessità di compiere atti di “interversio possessionis” alla stregua dell’art. 1164 c.c., dovendo, peraltro, il mutamento del titolo consistere in atti integranti un comportamento durevole, tali da evidenziare un possesso esclusivo ed “animo domini” della cosa, incompatibile con il permanere del compossesso altrui: non sono tuttavia ritenuti sufficienti all’uopo atti soltanto di gestione, consentiti al singolo compartecipante o anche atti familiarmente tollerati dagli altri ovvero, ancora, atti che, comportando solo il soddisfacimento di obblighi o l’erogazione di spese per il miglior godimento della cosa comune, non possono dare luogo ad una estensione del potere di fatto sulla cosa nella sfera di altro compossessore.

Non consente il decorso del termine “ad usucapionem” neppure il comodato precario di un bene immobile, che al contrario – come evidenziato da Sez. 6-2, n. 12080/2018, Orilia, Rv. 648535-01 costituisce detenzione, tanto in favore del comodatario quanto dei familiari con lo stesso conviventi, con la conseguenza che il comodatario che si oppone alla richiesta di risoluzione del comodato, sostenendo di aver usucapito il bene, non può limitarsi a provare il potere di fatto sull’immobile, ma deve dimostrare l’avvenuta interversione del possesso, cioè il compimento di attività materiali in opposizione al proprietario concedente. Chiarisce inoltre Sez. 2, n. 11141/2018, D’Ascola, Rv. 648051-01 che non è configurabile l’usucapione decennale, ai sensi dell’art. 1159 c.c., in favore di colui che abbia acquistato un’area di parcheggio vincolata al diritto d’uso riservato “ex lege” ai proprietari delle unità immobiliari comprese nei fabbricati di nuova costruzione, trattandosi di atto nullo per contrarietà a norme imperative e, perciò, di titolo inidoneo a trasferire la proprietà, a prescindere dalla sua trascrizione.

L’aspetto relativo all’interruzione del decorso del termine “ad usucapionem” è stato affrontato sotto molteplici profili, collegati al singolo atto cui detto effetto viene astrattamente ricondotto. Così: a) per Sez. 2, n. 27170/2018, Sabato, Rv. 651019-01, ai fini della configurabilità del riconoscimento del diritto del proprietario da parte del possessore, idoneo a interrompere il termine utile per il verificarsi dell’usucapione, ai sensi degli artt. 1165 e 2944 c.c., non è sufficiente un mero atto o fatto che evidenzi la consapevolezza del possessore circa la spettanza ad altri del diritto da lui esercitato come proprio, ma si richiede che il possessore, per il modo in cui questa conoscenza è rivelata o per fatti in cui essa è implicita, esprima la volontà non equivoca di attribuire il diritto reale al suo titolare: in particolare, costituendo la cd. volontà “attributiva” del diritto un requisito normativo del riconoscimento, questa può normalmente desumersi dall’essere state intavolate trattative con i titolari del diritto di proprietà ai fini dell’acquisto in via derivativa, restando invece esclusa quando tali iniziative siano ispirate dalla diversa volontà di evitare lungaggini giudiziarie per l’accertamento dell’usucapione, ovvero di prevenire in via conciliativa la relativa lite. Situazione peculiare si verifica, invece, nel caso di rinuncia a far valere l’acquisto per usucapione maturatosi per effetto del possesso ininterrotto del fondo protrattosi per un certo periodo di tempo: osserva Sez. 2, n. 01363/2018, Cortesi, Rv. 646673-01 come in tal modo la parte non rinuncia ad un diritto di proprietà già acquisito, bensì solo ad avvalersi della tutela giuridica apprestata dall’ordinamento per garantire la stabilità dei rapporti giuridici, con la conseguenza che tale rinuncia non soggiace al requisito della forma scritta ad substantiam ex art. 1350 n. 5 c.c., che la impone, a pena di nullità, solo per gli atti di rinuncia a diritti reali, assoluti o limitati, su beni immobili.; b) è certamente idonea ad interrompere il possesso “ad usucapionem” il promuovimento dell’azione di reintegrazione, indipendentemente dall’esito dell’azione medesima, rilevando piuttosto – come osserva Sez. 2, n. 23850/2018, Bellini, Rv. 650631-02 – la volontà di riacquistare il possesso mediante un atto idoneo ad instaurare il giudizio; c) non esercita, invece, alcuna incidenza sulla situazione di fatto utile ai fini dell’usucapione l’atto di disposizione del diritto dominicale da parte del proprietario in favore di terzi, anche se conosciuto dal possessore, rappresentando quello, rispetto a quest’ultimo, “res inter alios acta”, ininfluente sulla prosecuzione dell’esercizio della signoria di fatto sul bene, non impedito materialmente, né contestato in modo idoneo (così Sez. 2, n. 02752/2018, Manna, Rv. 647791-01).

Ad ogni buon conto, è pacifico (ed il principio è stato ribadito da Sez. 2, n. 11657/2018, D’Ascola, Rv. 648395-01) che gli atti interruttivi dell’usucapione, posti in essere nei confronti di uno dei compossessori, non hanno effetto interruttivo verso gli altri, in quanto il principio espresso dall’art. 1310 c.c., secondo cui gli atti interruttivi contro uno dei debitori in solido interrompono la prescrizione contro il comune creditore con effetto verso gli altri debitori, trova applicazione in materia di diritti di obbligazione e non di diritti reali, per i quali non sussiste vincolo di solidarietà, dovendosi, invece, fare riferimento ai singoli comportamenti dei compossessori, che favoriscono o pregiudicano solo coloro che li hanno (o nei cui confronti sono stati) posti in essere.

Diverso modo di acquisto della proprietà, pur sempre per il tramite del possesso, è esaminato da Sez. 1, n. 12860/2018, Ferro, Rv. 648888-01 che, occupandosi dei beni mobili soggetti ad iscrizione in pubblici registri, ma di fatto non iscritti o non validamente iscritti, non si applica la norma di cui all’art. 1156 c.c., con la conseguenza che la loro proprietà può acquistarsi in attuazione del principio del possesso di buona fede, quando ricorrono le condizioni stabilite dall’art. 1153 c.c.. Quanto al regime giuridico proprio di tale ultima disposizione, peraltro, mentre Sez. 2, n. 01593/2017, Falabella, Rv. 642469-03, aveva già evidenziato come la buona fede ivi richiesta corrisponda a quella di cui all’art. 1147 c.c. (onde essa non è invocabile da chi compie l’acquisto ignorando di ledere l’altrui diritto per colpa grave), Sez. 2, n. 02100/2018, Cortesi, Rv. 647645-01 precisa come il requisito della consegna reale, proveniente dall’alienante e previsto dall’art. 1153, comma 1, c.c., non comporta anche la necessità di un contatto fisico e diretto dell’acquirente con il bene, rilevando unicamente che quest’ultimo sia posto in grado di esercitare sulla “res” i poteri di controllo e vigilanza che costituiscono il contenuto proprio del possesso, ed essendo così sufficiente che la “traditio” spieghi effetto nella sua sfera giuridica (con la conseguenza che, nell’ambito di un rapporto di locazione finanziaria, ai fini dell’acquisto del possesso da parte dell’acquirente-concedente, è ben possibile che la consegna sia effettuata materialmente all’utilizzatore del bene, che del primo assume la veste di “adiectus solutionis causa”).

8.1. Profili processuali relativi all’esercizio delle azioni possessorie e quasi-possessorie.

La tutela del possesso è affidata alle azioni di reintegrazione e manutenzione (rispettivamente disciplinate dagli artt. 1168 e 1170 c.c.), nonché alle azioni di nunciazione o quasi-possessorie (denuncia di nuova opera e di danno temuto, disciplinate dagli artt. 1171 e 1172 c.c.) – che, in realtà, spettano non solo al possessore, ma anche al proprietario ed al titolare di altro diritto reale di godimento.

La struttura del procedimento, nell’uno come nell’altro caso, è modellata sulla falsariga di quello disegnato dagli artt. 669-bis e ss. c.p.c. e, in particolare, dei procedimenti cautelari a giudizio di merito solo eventuale (cfr. l’art. 669-octies c.p.c.): in tal senso, dunque, la novella legislativa apportata con il d.l. n. 35 del 2005, conv. con mod. dalla l. n. 80 del 2005 ha profondamente inciso sulla originaria struttura bifasica del procedimento possessorio, come delineata da Sez. U, n. 01984/1998, Vella, Rv. 512984-01, rendendola solo eventualmente tale. Ciò non toglie, però, che, pur in tale mutato regime normativo, debba essere comunque dichiarato inammissibile il ricorso straordinario per cassazione avverso l’ordinanza sul reclamo, atteso che, in caso di prosecuzione del giudizio di merito ex art. 703, comma 4, c.p.c., l’ordinanza in questione – come osservato da Sez. 6-2, n. 01501/2018, Manna, Rv. 647381-01 – rimane assorbita nella sentenza, unico provvedimento decisorio mentre, in caso contrario, l’ordinanza stessa acquista una stabilità puramente endoprocessuale, inidonea al giudicato, o determina una preclusione “pro iudicato” da estinzione del giudizio.

Prendendo le mosse dalle azioni possessorie e premesso che il decorso del relativo termine di decadenza non è rilevabile d’ufficio dal giudice ed è soggetto al regime delle preclusioni, in primo come in secondo grado – giacché, vertendosi in materia di diritti disponibili, deve essere eccepito, ex art. 2969 c.c., dalla parte interessata la quale, peraltro, nel sollevare l’eccezione deve manifestare chiaramente la volontà di avvalersi dell’effetto estintivo dell’altrui pretesa (così Sez. 6-2, n. 01455/2018, Scarpa, Rv. 647347-01) – la differenza tra spoglio, da un lato e turbativa o molestia, dall’altro (che rispettivamente presiedono all’esperibilità dell’azione di reintegrazione e di manutenzione) va rinvenuta nella definitiva privazione della disponibilità del bene: sicché, si ha molestia possessoria anche ove la condotta comporti una modifica dello stato dei luoghi, idonea a determinare una condizione di potenziale pericolo al possesso altrui e a produrre un’apprezzabile compressione delle facoltà con cui detto possesso si esteriorizza (Sez. 2, n. 26787/2018, Carrato, Rv. 651378-01).

Anche l’acqua sorgiva può formare oggetto di tutela possessoria, se il rapporto con essa si concreta ed estrinseca in un potere di fatto (corrispondente all’acquisto di un diritto reale) autonomo, diretto ed immediato sulle opere indispensabili per la derivazione e l’utilizzazione dell’acqua medesima: tale possesso, secondo Sez. 6-2, n. 01455/2018, Scarpa, Rv. 647347-02 è tutelabile con l’azione di spoglio nei confronti di chi, ricorrendone l’elemento soggettivo, apra un pozzo che, alimentato dalla stessa falda sotterranea, riduca la portata della sorgente, non rilevando, in contrario, che le acque sotterranee siano defluenti a notevole distanza dalla sorgente, in quanto il possesso di quest’ultima implica anche quello della falda che l’alimenta.

Quanto alla legittimazione passiva, evidenzia Sez. 2, n. 24967/2018, Sabato, Rv. 650670-01 che devono considerarsi autori morali dello spoglio e, quindi, legittimati passivi alla domanda di reintegra unitamente all’autore materiale, il mandante e colui che “ex post”, pur senza autorizzarlo, abbia utilizzato consapevolmente a proprio vantaggio il risultato dello spoglio, sostituendo il suo possesso a quello dello spogliato. Conformemente Sez. 2, n. 23855/2018, Tedesco, Rv. 650632-01, per cui, affinché un soggetto possa qualificarsi come autore morale della turbativa, occorre che lo stesso, pur non avendo autorizzato la condotta illecita, ne abbia tratto vantaggio (secondo il criterio del “cui prodest”) e che sia consapevole dell’illiceità dell’atto di molestia compiuto da terzi.

Da ultimo, mentre la prova della consapevolezza dello spoglio in capo al suo autore grava su chi propone la domanda (Sez. 2, n. 21475/2018, Casadonte, Rv. 650312-01), per ciò che attiene alle conseguenze derivanti dall’utile esperimento delle azioni possessorie, Sez. 2, n. 20726/2018, Cosentino, Rv. 650020-01, chiarisce che la riduzione in pristino, cui è diretta l’azione di manutenzione, può consistere non già nella mera riproduzione della situazione dei luoghi modificata o alterata da una determinata azione lesiva dell’altrui possesso, ma anche nell’esecuzione di un “quid novi”, qualora il rifacimento puro e semplice sia inidoneo a realizzare il ripristino stesso.

Per quanto attiene alle azioni di nunciazione, invece, la novella del 2005 ha solo previsto l’eventualità della fase di merito, ma non ha mutato la struttura originaria del procedimento, la cui fase cautelare termina con l’ordinanza di accoglimento o rigetto del giudice monocratico o del collegio in caso di reclamo, mentre il successivo processo di cognizione richiede un’autonoma domanda di merito: sicché, il processo di cognizione che si svolga in difetto dell’atto propulsivo di parte, a causa dell’erronea fissazione giudiziale di un’udienza successiva all’ordinanza cautelare, è affetto da nullità assoluta per violazione del principio della domanda, rilevabile d’ufficio dal giudice e non sanata dall’instaurarsi del contraddittorio tra le parti (Sez. 2, n. 21491/2018, Giannaccari, Rv. 650038-01).

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  • edificio

CAPITOLO V

COMUNIONE E CONDOMINIO

(di Vittorio Corasaniti, Valeria Pirari )

Sommario

1 Premessa. - 2 Le parti comuni nel condominio di edifici. - 3 Il godimento della cosa comune. - 4 Le innovazioni. - 5 La responsabilità del condominio. - 6 Il regolamento di condominio. - 7 La ripartizione delle spese condominiali. - 8 L’amministratore. - 9 L’assemblea e l’impugnazione delle deliberazioni assembleari.

1. Premessa.

Nel corso del 2018, nella produzione giurisprudenziale in materia condominiale, che di seguito verrà illustrata, si segnalano diverse pronunce della S.C. che, talvolta, ha operato interessanti specificazioni di principi elaborati negli anni pregressi, talaltra ha sviluppato nuovi profili alla luce della novella introdotta con la legge 11 dicembre 2012, n. 220, recante “Modifiche alla disciplina del condominio negli edifici”.

2. Le parti comuni nel condominio di edifici.

L’art. 1117 c.c., norma che introduce la disciplina codicistica del condominio, individua, con elencazione non tassativa, i beni che sono presuntivamente di proprietà e godimento comune in relazione alla loro funzione e al collegamento strutturale con le unità immobiliari di proprietà esclusiva costituenti il condominio.

Secondo Sez. 2, n. 00884/2018, Scarpa, Rv. 647073-01, la disciplina del condominio degli edifici è ravvisabile ogni qual volta sia accertato in fatto un rapporto di accessorietà necessaria che lega alcune parti comuni – quali quelle elencate in via esemplificativa dall’art. 1117 c.c. – ad unità o porzioni di proprietà individuale, delle quali le prime rendono possibile l’esistenza stessa o l’uso.

Tale affermazione si pone in linea di continuità con l’orientamento, già sviluppatosi nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui il presupposto perché si instauri un diritto di condominio su un bene comune è costituito dalla relazione di accessorietà strumentale e funzionale che collega i piani o le porzioni di piano di proprietà esclusiva agli impianti o ai servizi di uso comune, rendendo il godimento del bene comune strumentale al godimento del bene individuale e non suscettibile di autonoma utilità, come avviene invece nella comunione (Sez. 2, n. 04973/2007, Trombetta, Rv. 596943-01).

In applicazione di tale principio, chiarisce Sez. 2, n. 10073/2018, Fortunato, Rv. 648166-01, che per ritenersi operante la presunzione dell’art. 1117 c.c. è indispensabile e preliminare la verifica della sussistenza del legame di essenziale indissolubilità e/o di accessorietà tra il bene di proprietà singola e gli altri beni, nel senso che ove quell’accessorietà manchi in concreto, detti beni non possono presumersi – già solo per questo fatto – comuni a tutti i condomini senza che occorra verificare la sussistenza di un titolo contrario alla suddetta presunzione, e, a tal fine, fare riferimento all’atto costitutivo del condominio. Dunque, quando il bene, anche se rientrante nell’elencazione di cui all’art. 1117 c.c., per obiettive caratteristiche strutturali e funzionali, serva in modo esclusivo al godimento di una parte dell’edificio in condominio, la quale formi oggetto di un autonomo diritto di proprietà, viene meno il presupposto per il riconoscimento di una contitolarità necessaria di tutti i condomini, giacché la destinazione particolare vince la presunzione legale di comunione, alla stessa stregua di un titolo contrario.

Secondo la menzionata pronuncia, quindi, ai fini dell’esclusione della presunzione di proprietà comune prevista dall’art. 1117 c.c. non è necessario che il contrario risulti in modo espresso dal titolo, essendo sufficiente che da questo emergano elementi univoci in contrasto con la reale esistenza di un diritto di comunione, dovendo la citata presunzione fondarsi sempre su elementi obiettivi che rivelino l’attitudine funzionale del bene al servizio o al godimento collettivo. Ne consegue che viene meno il presupposto della presunzione quando il bene, per le sue obiettive caratteristiche strutturali, serve in modo esclusivo all’uso o al godimento di una sola parte dell’immobile, oggetto di un autonomo diritto di proprietà, o risulta comunque essere stato a suo tempo destinato dall’originario proprietario dell’intero immobile ad un uso esclusivo, così da rivelare – sulla base di elementi oggettivi, secondo l’incensurabile apprezzamento del giudice di merito – che si tratta di un bene dotato di propria autonomia e perciò non destinato a servizio dell’edificio condominiale.

Sussistendo, invece, il presupposto di operatività della presunzione di cui all’art. 1117 c.c., precisa Sez. 2 n. 20693/2018, Besso Marcheis, Rv. 650008-01, che per stabilire se esista un titolo ad essa contrario occorre fare riferimento all’atto costitutivo del condominio e, quindi, al primo atto di trasferimento di un’unità immobiliare dell’originario proprietario ad altro soggetto. Ne discende – in conformità a precedenti arresti della S.C. (Sez. 2, n. 11812/2011, San Giorgio, Rv. 618093-01) – che se in occasione della prima vendita la proprietà di un bene potenzialmente rientrante nell’ambito dei beni comuni risulti riservata ad uno solo dei contraenti, deve escludersi che tale bene possa farsi rientrare nel novero di quelli comuni.

Quanto poi all’incidenza di siffatta presunzione sul riparto dell’onere probatorio nei giudizi a tutela delle parti comuni, Sez. 2, n. 20593/2018, Grasso GL., Rv. 650001-01, chiarisce che in tema di condominio negli edifici, per tutelare la proprietà di un bene appartenente a quelli indicati dall’art. 1117 c.c. non è necessario che il condominio dimostri con il rigore richiesto per la rivendicazione la comproprietà del medesimo, essendo sufficiente, per presumerne la natura condominiale, che esso abbia l’attitudine funzionale al servizio o al godimento collettivo, e cioè sia collegato, strumentalmente, materialmente o funzionalmente con le unità immobiliari di proprietà esclusiva dei singoli condomini, in rapporto con queste da accessorio a principale, mentre spetta al condomino che ne affermi la proprietà esclusiva darne la prova.

Il criterio dell’attitudine funzionale del bene al servizio o al godimento collettivo ha orientato le pronunce della S.C. in plurime fattispecie concrete.

Secondo Sez. 2, n. 03739/2018, Varrone, Rv. 647800-01, in tema di condominio degli edifici, la presunzione legale di comunione di talune parti, stabilita dall’art. 1117 c.c., trova applicazione anche nel caso di cortile esistente tra più edifici limitrofi ma strutturalmente autonomi appartenenti a proprietari diversi, ove lo stesso sia destinato a dare aria, luce ed accesso a tutti i fabbricati che lo circondano.

Chiarisce Sez. 2, n. 11288/2018, Falaschi, Rv. 648502-01, che i muri perimetrali dell’edificio in condominio, pur non avendo funzione di muri portanti, vanno intesi come muri maestri al fine della presunzione di comunione di cui all’art. 1117 c.c., poiché determinano la consistenza volumetrica dell’edificio unitariamente considerato, proteggendolo dagli agenti atmosferici e termici, delimitano la superficie coperta e delineano la sagoma architettonica dell’edificio stesso. Pertanto, nell’ambito dei muri comuni dell’edificio rientrano anche quelli collocati in corrispondenza dei piani di proprietà singola ed esclusiva e in posizione avanzata o arretrata rispetto alle principali linee verticali dell’immobile.

Puntualizza, poi, Sez. 6-3, n. 24266/2018, Scarano, Rv. 650887-01, che il solaio che separa due unità abitative, l’una sovrastante all’altra ed appartenenti a diversi proprietari, deve ritenersi, salvo prova contraria, di proprietà comune ai due piani; tale presunzione iuris tantum vale per tutte le strutture che hanno una funzione di sostegno e copertura, in quanto svolgono una inscindibile funzione divisoria tra i due piani, con utilità ed uso uguale per entrambi e correlativa inutilità per gli altri condomini, sicché le spese per la loro manutenzione e ricostruzione competono in parti eguali ai rispettivi proprietari, come previsto dall’art. 1125 c.c. Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che, statuendo sulla ripartizione delle spese di riparazione e manutenzione di una terrazza di proprietà e in uso esclusivo, costituente il solaio dell’appartamento sottostante, aveva applicato in via analogica l’art. 1125 c.c. ed escluso l’utilizzabilità dell’art. 1126 c.c.

Specifica, tuttavia, Sez. 2, n. 15048/2018, Giannaccari, Rv. 649171-01, che in tema di piani sovrapposti di un edificio appartenente a proprietari diversi, gli spazi pieni o vuoti che accedono al soffitto o al pavimento e non sono essenziali alla struttura divisoria restano esclusi dalla comunione e sono utilizzabili rispettivamente da ciascun proprietario nell’esercizio del suo pieno ed esclusivo diritto dominicale, ben potendo il possesso su di essi essere mantenuto solo animo. Nella specie, la S.C. ha escluso la natura condominiale dello spazio vuoto esistente fra il solaio ed il controsoffitto e ha ritenuto che il proprietario dell’appartamento sovrastante, collocando al di sotto degli assi di sostegno delle travi del suo pavimento dei tubi e delle condutture, avesse compiuto uno spoglio in danno del possesso esercitato solo animo dal proprietario dell’immobile sottostante.

Afferma, inoltre, Sez. 2, n. 22720/2018, Oliva, Rv. 650372-01, che l’intercapedine esistente tra il piano di posa delle fondazioni di un edificio condominiale – che costituisce il suolo di esso – e la prima soletta del piano interrato, se non risulta diversamente dai titoli di acquisto delle singole proprietà, ed anzi in quelli del piano terreno e seminterrato non è neppure menzionata tra i confini, è comune, in quanto destinata alla aerazione o coibentazione del fabbricato. In applicazione di tale principio, la S.C. ha cassato la decisione impugnata nella parte in cui aveva ritenuto che l’area sottostante al pavimento del piano terreno dell’edificio non fosse ricompresa nell’ambito delle parti comuni dello stabile.

E ancora, secondo Sez. 2, n. 01027/2018, Orilia, Rv. 646671-01, premesso che a norma dell’art. 1117, n. 3, c.c., si presumono comuni i canali di scarico solo “fino al punto di diramazione” degli impianti ai locali di proprietà esclusiva, va escluso che rientri nella proprietà condominiale la c.d. braga (vale a dire, l’elemento di raccordo tra la tubatura verticale di pertinenza del singolo appartamento e quella verticale di pertinenza condominiale), atteso che la stessa, a differenza della colonna verticale, che, raccogliendo gli scarichi di tutti gli appartamenti, è funzionale all’uso di tutti i condomini, serve soltanto a convogliare gli scarichi di pertinenza del singolo appartamento.

Principio, questo, che ha trovato ulteriore specificazione in Sez. 2, n. 27248/2018, Besso Marcheis, Rv. 650851-01, ove si chiarisce che la presunzione di proprietà comune dell’impianto idrico di un immobile condominiale, ex art. 1117, n. 3, c.c., non può estendersi a quella parte dell’impianto ricompresa nell’appartamento dei singoli condomini, cioè nella sfera di proprietà esclusiva di questi e, di conseguenza, nemmeno alle diramazioni che, innestandosi nel tratto di proprietà esclusiva, anche se questo sia allacciato a quello comune, servono ad addurre acqua negli appartamenti degli altri proprietari.

Da ultimo è interessante segnalare quanto affermato da Sez. 2, n. 29457/2018, Criscuolo, Rv. 651388-01, in ordine alla particolare ipotesi in cui più soggetti, esclusivi proprietari di aree tra loro confinanti, si accordino per realizzare una costruzione. Secondo la menzionata pronuncia, infatti, per il principio dell’accessione, ciascuno di essi, salvo convenzione contraria, acquista la sola proprietà della parte di edificio che insiste in proiezione verticale sul proprio fondo, con la conseguenza che anche le opere e strutture inscindibilmente poste a servizio dell’intero fabbricato (quali scale, androne, impianto di riscaldamento, ecc.) rientrano, per accessione, in tutto o in parte, a seconda della loro collocazione, nella proprietà dell’uno o dell’altro, salvo l’istaurarsi sulle medesime, in quanto funzionalmente inscindibili, di una comunione incidentale di uso e di godimento, comportante l’obbligo dei singoli proprietari di contribuire alle relative spese di manutenzione e di esercizio in proporzione dei rispettivi diritti dominicali. In applicazione di tale principio, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza impugnata, evidenziando l’erroneo presupposto da cui era partita la corte d’appello, rappresentato dall’affermazione secondo cui anche laddove un manufatto sia realizzato su due fondi contigui, ma appartenenti a soggetti diversi, si instaura una comunione sull’opera realizzata, trascurando che la proprietà resta esclusiva nella parte che si sviluppa in proiezione verticale sulle porzioni di rispettiva titolarità.

Nel corso del 2018, peraltro, la S.C. ha affrontato, in materia di parti comuni, anche alcune questioni di carattere processuale.

Segnatamente, in tema di domanda di rivendica di un bene proposta da uno o più soggetti che assumono di esserne i comproprietari, afferma Sez. 2, n. 24234/2018, Giannaccari, Rv. 650646-01, che la necessità dell’integrazione del contraddittorio dipende dal comportamento del convenuto. Infatti, qualora egli si limiti a negare il diritto di comproprietà degli attori, non si richiede la citazione in giudizio di altri soggetti, non essendo in discussione la comunione del bene; qualora, al contrario, eccepisca di esserne il proprietario esclusivo, la controversia ha come oggetto la comunione di esso, cioè l’esistenza del rapporto unico plurisoggettivo, e il contraddittorio deve svolgersi nei confronti dì tutti coloro dei quali si prospetta la contitolarità (litisconsorzio necessario), affinché la sentenza possa conseguire un risultato utile che, invece, non avrebbe in caso di mancata partecipazione al giudizio di alcuni, non essendo essa a loro opponibile. In applicazione dell’enunciato principio, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata che, in un giudizio di opposizione di terzo in cui l’attore aveva chiesto accertarsi un proprio diritto – di comproprietà – autonomo incompatibile rispetto a quello – di proprietà esclusiva – vantato dal convenuto, aveva escluso la necessità di integrare il contraddittorio verso coloro che sarebbero risultati comproprietari dell’immobile, ove il bene non fosse stato compreso nella compravendita invocata dall’opposto.

E ancora, precisa, Sez. 2, n. 04685/2018, Scarpa, Rv. 647846-01, che nel giudizio promosso per conseguire la rimozione di una costruzione, illegittimamente realizzata in un’unità immobiliare in danno delle parti comuni di un edificio condominiale, sono litisconsorti necessari tutti i comproprietari di tale unità, indipendentemente dal fatto che solo uno od alcuni di essi ne siano stati gli autori materiali.

Infine, secondo Sez. 2, n. 03575/2018, D’Ascola, Rv. 647798-01, la domanda di un terzo estraneo al condominio, volta all’accertamento, con efficacia di giudicato, della proprietà esclusiva su di un bene condominiale ed al conseguente rilascio dello stesso in proprio favore, si deve svolgere in contraddittorio con tutti i condomini, stante la loro condizione di comproprietari dei beni comuni e la portata delle azioni reali, che incidono sul diritto pro quota o esclusivo di ciascun condomino, avente pertanto reale interesse a contraddire.

3. Il godimento della cosa comune.

La norma regolatrice, in questa materia, è costituita dall’art. 1102 c.c., dettata in tema di comunione, ma applicabile anche al condominio in forza del richiamo operato dall’art. 1139 c.c.

Tale disposizione, nel permettere a ciascun partecipante di servirsi della cosa comune e di apportarvi anche le modificazioni necessarie per il migliore godimento, pone come condizione limitativa il divieto di alterarne la destinazione e il divieto di impedire agli altri partecipanti di farne parimenti uso, secondo il loro diritto. Osservati questi limiti, ogni singolo partecipante può trarre dalla cosa comune le utilità che la stessa e in grado di fornire ed apportarvi, a sue spese, tutte quelle modificazioni suscettibili del migliore godimento di essa.

Trattasi di norma avente portata generale, ma non inderogabile, come chiarito da Sez. 2, n. 02114/2018, Carrato, Rv. 647302-01, secondo cui i suddetti limiti possono anche essere resi più rigorosi dal regolamento condominiale, o da delibere assembleari adottate con il quorum prescritto dalla legge, fermo restando che non è consentita l’introduzione di un divieto di utilizzazione generalizzato delle parti comuni.

Pacifico in giurisprudenza che la nozione di pari uso della cosa comune, agli effetti dell’art. 1102 c.c., non va intesa nei termini di assoluta identità dell’utilizzazione del bene da parte di ciascun comproprietario (Sez. 2, n. 07466/2015, Nuzzo Rv. 635044-01), potendo ognuno di essi trarre dalla cosa una utilità maggiore e più intensa di quella degli altri comproprietari, purché non venga alterata la destinazione del bene o compromesso il diritto al pari uso da parte di questi ultimi (Sez. 2, n. 22341/2009, Mazziotti Di Celso, Rv. 610539-01), puntualizza Sez. 2, n. 09278/2018, Carrato, Rv. 648086-01, che al fine di stabilire se l’utilizzo più intenso del singolo sia consentito ai sensi dell’art. 1102 c.c., deve aversi riguardo non all’uso concreto fatto dagli altri condomini in un determinato momento, ma a quello potenziale in relazione ai diritti di ciascuno. In ogni caso, prosegue la pronuncia da ultimo citata, l’uso più intenso deve ritenersi permesso se l’utilità aggiuntiva ricavata dal singolo comproprietario non sia diversa da quella derivante dalla destinazione originaria del bene, sempre che tale uso non dia luogo ad una servitù a carico del suddetto bene comune.

Qualora, tuttavia, il “miglior uso” della cosa comune per il maggior godimento del bene di proprietà travalichi il perimetro di operatività dell’art. 1102 c.c. in ambito condominiale, si è in presenza di un utilizzo illecito, fonte di obbligazione risarcitoria.

Di particolare interesse, sul punto, è quanto affermato da Sez. 6-2, n. 17460/2018, Scarpa, Rv. 649269-01, in tema di danno risarcibile, secondo cui in tema di condominio negli edifici, ove l’uso della cosa comune da parte di uno dei condomini avvenga in modo da impedire quello, anche solo potenziale, degli altri partecipanti, mentre il danno patrimoniale per il lucro interrotto è da ritenere in re ipsa, non altrettanto è da dirsi in relazione al danno non patrimoniale, quale disagio psico-fisico conseguente alla mancata utilizzazione di un’area comune condominiale, potendosi ammettere il ristoro di tale ultima posta risarcitoria solo in conseguenza della lesione di interessi della persona di rango costituzionale o nei casi espressamente previsti dalla legge, ai sensi dell’art. 2059 c.c., e sempre che si tratti di una lesione grave e di un pregiudizio non futile. In applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la decisione di merito, che aveva escluso il risarcimento del danno non patrimoniale in un caso di occupazione stabile, mediante un’autovettura lasciata in sosta per l’intero giorno e da oltre un anno, dello spazio antistante la rampa di accesso al garage condominiale.

Sempre in tema di illecito si è espressa Sez. U, n. 03873/2018, Lombardo, Rv. 647093-01, con riguardo alla condotta del singolo comproprietario che, senza il consenso degli altri comunisti, abbia edificato sul suolo comune, cambiandone la destinazione, la quale, si è detto, realizza un’alterazione della destinazione della cosa comune e impedisce agli altri comunisti di fare uso di essa secondo il loro diritto, in contrasto con il disposto di cui all’art. 1102 c.c., alla cui ratio rispondono anche gli artt. 1120 e 1108 c.c. (che consentono le innovazioni deliberate dalle maggioranze ivi previste, ma sempre a condizione che si tratti di innovazioni che non pregiudichino l’uso e il godimento della cosa comune da parte di alcuno dei partecipanti).

Le SS.UU. hanno, quindi, sostenuto che, salvo contrario accordo traslativo della proprietà del terreno o costitutivo di un diritto reale su di esso da stipularsi con la forma scritta ad substantiam, la costruzione eseguita dal comproprietario sul suolo comune diviene, per accessione ai sensi dell’art. 934 c.c., di proprietà comune agli altri comproprietari dell’immobile, ritenendo incompatibile proprio con l’esistenza del pari diritto di ogni comunista sulla cosa comune l’opposto orientamento (Sez. 2, n. 04120/2001, Mazziotti Di Celso, Rv. 545016-01) che, sulla base della reputata inapplicabilità del disposto di cui all’art. 934 c.c. in quanto riguardante le sole costruzioni od opere eseguite su terreno altrui da un terzo non (com)proprietario, sosteneva, per contro, l’acquisto della proprietà esclusiva del manufatto e del suolo comune su cui esso insiste da parte del comproprietario costruttore.

Hanno chiarito, altresì, che la manifestazione del consenso alla costruzione eseguita da uno dei comproprietari del suolo, da parte del comproprietario non costruttore, pur se inidonea alla costituzione di un diritto di superficie o di altro diritto reale, preclude l’esercizio dello ius tollendi, il cui mancato esercizio fa insorgere nei comproprietari del suolo l’obbligo di rimborsare al comproprietario costruttore, in proporzione alle rispettive quote di proprietà, le spese sostenute per l’edificazione dell’opera.

4. Le innovazioni.

L’art. 1120 c.c., nella formulazione previgente alla novella introdotta con la l. n. 220 del 2012, stabiliva che i condomini potessero deliberare innovazioni dirette al miglioramento o all’uso più comodo o al maggior rendimento delle cose comuni e che fossero vietate quelle che potessero “recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato”, che ne alterassero il decoro architettonico o che rendessero talune parti comuni dell’edificio inservibili all’uso o al godimento anche di un solo condomino.

A decorrere dal 18 giugno 2013, trova invece applicazione il nuovo testo dell’art. 1120 citato, a mente del quale i condomini, con la maggioranza indicata dal secondo comma dell’articolo 1136 c.c., possono disporre le innovazioni che, nel rispetto della normativa di settore, riguardino: 1) le opere e gli interventi volti a migliorare la sicurezza e la salubrità degli edifici e degli impianti; 2) le opere e gli interventi previsti per eliminare le barriere architettoniche, per il contenimento del consumo energetico degli edifici e per realizzare parcheggi destinati a servizio delle unità immobiliari o dell’edificio, nonché per la produzione di energia mediante l’utilizzo di impianti di cogenerazione, fonti eoliche, solari o comunque rinnovabili da parte del condominio o di terzi che conseguano a titolo oneroso un diritto reale o personale di godimento del lastrico solare o di altra idonea superficie comune; 3) l’installazione di impianti centralizzati per la ricezione radiotelevisiva e per l’accesso a qualunque altro genere di flusso informativo, anche da satellite o via cavo, e i relativi collegamenti fino alla diramazione per le singole utenze, ad esclusione degli impianti che non comportano modifiche in grado di alterare la destinazione della cosa comune e di impedire agli altri condomini di farne uso secondo il loro diritto. È rimasto, invece, inalterato il divieto di innovazioni che possano recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato, che ne alterino il decoro architettonico o che rendano talune parti comuni dell’edificio inservibili all’uso o al godimento anche di un solo condomino.

A quest’ultimo riguardo, Sez. 2, n. 21342/2018, Picaroni, Rv. 650035-01, in linea col precedente orientamento (cfr, Sez. 2, n. 15308/2011, Bianchini, Rv. 618639-01), ha chiarito che tale limite non si identifica nel semplice disagio, ovvero nel minor godimento che l’innovazione procuri al singolo condomino rispetto a quella che, fino a quel momento, è stata la sua fruizione della cosa comune, implicando il concetto di inservibilità la concreta inutilizzabilità della res communis secondo la sua naturale fruibilità, e ha perciò ritenuto non vietata la destinazione a parcheggio di un’area adibita a giardino condominiale.

Per contro, Sez. 2, n. 23076/2018, Scarpa, Rv. 651006-01, ha ritenuto che costituisca innovazione vietata la realizzazione di un ascensore nella corte comune, essendosi con tale opera ridotta la luce e l’aria dell’appartamento, posto al piano terra, di una condomina ed essendosi impedito a quest’ultima l’uso di una porzione rilevante della stessa corte, con conseguente privazione dei suoi diritti individuali su una parte comune dell’edificio, resa inservibile all’uso e al godimento della medesima.

Con riguardo, infine, al differente ambito applicativo degli artt. 1120 e 1102 c.c., Sez. 2, n. 31462/2018, Criscuolo, Rv. 651761-01, ha chiarito che mentre l’art.1120 c.c., nel prescrivere che le innovazioni della cosa comune siano approvate dai condomini con determinate maggioranze, tende a disciplinare l’approvazione di quelle che comportano oneri di spesa per tutti i condomini, l’art. 1102 c.c. (in forza del quale ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri condomini di farne uguale uso secondo il loro diritto, e può perciò apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il miglior godimento della cosa comune), norma che contempla anche le innovazioni, trova, invece, applicazione nel caso in cui non si debba procedere a tale ripartizione per essere stata la spesa relativa alle innovazioni assunta interamente a proprio carico da un condomino. Nel caso esaminato, il giudice del merito aveva, in particolare, rigettato la domanda di riduzione in pristino avanzata dagli attori, ritenendo che l’installazione di un ascensore sulle parti comuni, eseguita dai convenuti a loro spese, non comportasse una limitazione della proprietà degli istanti incompatibile con la realizzazione dell’opera.

5. La responsabilità del condominio.

Il condominio è custode delle parti comuni e di quelle che, indipendentemente dall’assetto proprietario, sono funzionalmente asservite alle proprietà esclusive.

A questo riguardo, va ricordato che, secondo la già citata Sez. 2, n. 09278/2018, Carrato, Rv. 648086-01, la disciplina del condominio degli edifici, di cui agli artt. 1117 c.c. e segg., è ravvisabile ogni qual volta sia accertato in fatto un rapporto di accessorietà necessaria che lega alcune parti comuni, quale quelle elencate in via esemplificativa – se il contrario non risulta dal titolo – dall’art. 1117 c.c., a porzioni, o unità immobiliari, di proprietà singola, delle quali le prime rendono possibile l’esistenza stessa o l’uso e che la nozione di condominio si configura, pertanto, non solo nell’ipotesi di fabbricati che si estendono in senso verticale, ma anche nel caso di beni adiacenti orizzontalmente, purché dotati delle strutture portanti e degli impianti essenziali indicati dal citato art. 1117 c.c., oltre a poter essere frutto di autonomia privata, nel caso in cui manchi un così stretto nesso strutturale, materiale e funzionale, in un complesso immobiliare che comprenda porzioni eterogenee per struttura e destinazione (in tema di condominio sorto in virtù di autonomia privata, si rinvia a Sez. 2, n. 09547/2018, Lombardo, Rv. 648092-01, citata al paragrafo 8, sull’amministratore, la quale affronta la disciplina delle unità minime di intervento costituite ai sensi dell’art. 15 del d.lgs. n. 76 del 1990, con riferimento agli immobili distrutti o da demolire o da riparare in conseguenza degli eventi sismici di cui al medesimo decreto).

L’accertamento della sussistenza di un condominio e la stessa individuazione delle porzioni funzionalmente comuni, secondo la nozione sopra delineata, assume particolare importanza nel campo della responsabilità, rispondendo il condominio, ai sensi dell’art. 2051 c.c., dell’omessa manutenzione, cura, vigilanza e custodia delle stesse in caso di pregiudizio arrecato a terzi (ivi compresi gli stessi condomini).

Che il condominio sia il centro di imputazione degli atti e delle attività compiute dalla collettività condominiale e delle relative conseguenze patrimoniali sfavorevoli, è stato di recente ribadito da Sez. 2, n. 23076/2018, Scarpa, Rv. 651006-01, la quale, nell’esaminare il caso della realizzazione di un ascensore nella corte interna dell’edificio condominiale, deliberata in sede assembleare, e della conseguente riduzione di aria e luce subita dall’appartamento al piano terra di una condomina, nonché dell’impedimento a quest’ultima dell’uso di una porzione rilevante dell’area comune, ha ritenuto che il condominio rispondesse dei danni subiti dalla stessa.

Quanto poi alla responsabilità del condominio sui beni funzionalmente comuni, come il lastrico solare in quanto avente funzione primaria di copertura e protezione delle sottostanti strutture, Sez. 2, n. 11671/2018, Chiesi, Rv. 648327-01, ha sostenuto che, in caso di appalto che non implichi il totale trasferimento all’appaltatore del potere di fatto sull’immobile nel quale deve essere eseguita l’opera appaltata, trova applicazione il principio secondo cui non viene meno per il committente e detentore del bene il dovere di custodia e di vigilanza e, con esso, la conseguente responsabilità ex art. 2051 c.c., la quale, essendo di natura oggettiva, sorge in ragione della sola sussistenza del rapporto di custodia tra il responsabile e la cosa che ha determinato l’evento lesivo, e che il lastrico solare, proprio in considerazione della sua funzione, rimane sempre nella disponibilità del condominio committente, indipendentemente dalla sua consegna all’appaltatore, con conseguente permanenza, in capo a quest’ultimo, delle obbligazioni connesse alla sua custodia e delle connesse responsabilità per il relativo inadempimento.

6. Il regolamento di condominio.

In base alla previsione dell’art. 1138 c.c., è prescritta l’adozione di un regolamento condominiale quando il numero dei condomini sia superiore a dieci. Il regolamento, che costituisce espressione dell’autonomia organizzativa nel condominio, deve contenere le norme circa l’uso delle cose comuni e la ripartizione delle spese, secondo i diritti e gli obblighi spettanti a ciascun condomino, nonché le norme per la tutela del decoro dell’edificio e quelle relative all’amministrazione. Il regolamento condominiale si distingue dal regolamento contrattuale, che postula una “convenzione” intervenuta tra tutti i condomini in via contestuale ovvero mediante adesione di tutti gli acquirenti, attraverso i loro “atti di acquisto”, ad un testo di regolamento predisposto dall’originario proprietario alienante.

Spiega Sez. 6-2, n. 20567/2018, Abete, Rv. 650349-01, che il regolamento di condominio di natura contrattuale è, in ogni caso, un atto di produzione privata, anche nei suoi effetti tipicamente regolamentari, cioè incidenti sulle modalità di godimento delle parti comuni dell’edificio. Ne consegue, sul piano processuale, che non avendo il medesimo natura di atto normativo generale e astratto, il ricorso per cassazione col quale si lamenti la violazione o falsa applicazione delle norme di tale regolamento non è proponibile ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3), c.p.c., ma solo come vizio di motivazione ai sensi del n. 5) del medesimo art. 360.

Sempre sul piano processuale, afferma Sez. 2, n. 06769/2018, Scarpa, Rv. 647860-01, che la questione relativa alla mancata trascrizione in un’apposita nota di una clausola del regolamento di condominio contenente limiti alla destinazione delle proprietà esclusive, ed alla conseguente inopponibilità di tali limiti ai terzi acquirenti, non costituisce oggetto di un’eccezione in senso stretto, quanto di un’eccezione in senso lato, sicché il suo rilievo non è subordinato alla tempestiva allegazione della parte interessata, ma rimane ammissibile indipendentemente dalla maturazione delle preclusioni assertive o istruttorie.

7. La ripartizione delle spese condominiali.

L’art. 1123, comma 1, c.c. fissa il criterio generale di ripartizione delle spese necessarie per la conservazione e per il godimento delle parti comuni dell’edificio, per la prestazione dei servizi nell’interesse comune e per le innovazioni deliberate dalla maggioranza. Secondo la predetta disposizione, tali spese sono sostenute dai condomini in misura proporzionale al valore della proprietà di ciascuno, salvo diversa convenzione.

Premesso, dunque, che la disciplina legale di ripartizione delle spese per la conservazione e per il godimento delle parti comuni è, in linea di principio, derogabile (Sez. 2, n. 04844/2017, Orilia, Rv. 643057-02), chiarisce Sez. 6-2, n. 01848/2018, Scarpa, Rv. 647385-01, che in tema di revisione e modificazione delle tabelle millesimali, qualora i condomini, nell’esercizio della loro autonomia, abbiano espressamente dichiarato di accettare che le loro quote nel condominio vengano determinate in modo difforme da quanto previsto negli artt. 1118 c.c. e 68 disp. att. c.c., dando vita alla “diversa convenzione” di cui all’art. 1123, comma 1, ultima parte, c.c., la dichiarazione di accettazione ha valore negoziale e, risolvendosi in un impegno irrevocabile di determinare le quote in un certo modo, impedisce di ottenerne la revisione ai sensi dell’art. 69 disp. att. c.c., che attribuisce rilievo esclusivamente alla obiettiva divergenza tra il valore effettivo delle singole unità immobiliari dell’edificio ed il valore proporzionale ad esse attribuito nelle tabelle. Ove, invece, tramite l’approvazione della tabella, anche in forma contrattuale (mediante la sua predisposizione da parte dell’unico originario proprietario e l’accettazione degli iniziali acquirenti delle singole unità immobiliari, ovvero mediante l’accordo unanime di tutti i condomini), i condomini stessi intendano (come, del resto, avviene nella normalità dei casi) non già modificare la portata dei loro rispettivi diritti ed obblighi di partecipazione alla vita del condominio, bensì determinare quantitativamente siffatta portata (addivenendo, così, alla approvazione delle operazioni di calcolo documentate dalla tabella medesima), la semplice dichiarazione di approvazione non riveste natura negoziale, con la conseguenza che l’errore il quale, in forza dell’art. 69 disp. att. c.c., giustifica la revisione delle tabelle millesimali, non coincide con l’errore vizio del consenso, di cui agli artt. 1428 e ss. c.c., ma consiste, per l’appunto, nella obiettiva divergenza tra il valore effettivo delle singole unità immobiliari ed il valore proporzionale ad esse attribuito.

Di particolare interesse poi, sul tema della ripartizione delle spese, è quanto affermato da Sez. 2, n. 09280/2018, Fortunato, Rv. 648087-01, secondo cui la disciplina del condominio di edifici trova applicazione anche in caso di c.d. condominio minimo, cioè di condominio composto da due soli partecipanti, tanto con riguardo alle disposizioni che regolamentano la sua organizzazione interna, quanto, a fortiori, con riferimento alle norme che regolamentano le situazioni soggettive dei partecipanti.

Ne consegue, quale precipitato logico, che in tema di condominio minimo, in mancanza di tabelle regolarmente approvate, la quota di partecipazione alle spese gravante sui singoli proprietari deve essere determinata dal giudice in base alla disciplina del condominio di edifici di cui all’art. 1123 c.c. e, quindi, tenendo conto del valore delle loro proprietà esclusive, e non, invece, applicando la regolamentazione in materia di comunione prevista dall’art. 1101 c.c., secondo la quale, in assenza di altra indicazione degli accordi, le quote si presumono uguali.

Inoltre, conformemente a precedenti arresti della giurisprudenza di legittimità (Sez. 2, n. 21015/2011, Petitti, Rv. 619325-01), dalla predetta affermazione discende, sempre in tema di condominio minimo, che il singolo condomino ha diritto al rimborso delle spese sostenute per la gestione della cosa comune nell’interesse degli altri proprietari senza autorizzazione degli organi condominiali, solo qualora, ai sensi dell’art. 1134 c.c., dette spese siano urgenti, secondo quella nozione che distingue l’urgenza dalla mera necessità, poiché ricorre quando, secondo un comune metro di valutazione, gli interventi appaiano indifferibili allo scopo di evitare un possibile, anche se non certo, nocumento alla cosa, mentre nulla è dovuto in caso di mera trascuranza degli altri comproprietari, non trovando applicazione le norme in materia di comunione (Sez. 2, n. 09280/2018, Fortunato, Rv. 648087-02).

In ultimo, è utile segnalare, per il periodo in rassegna, quanto argomentato da Sez. 2, n. 01629/2018, Scarpa, Rv. 647644-01, sul criterio di riparto delle spese legali relative a giudizio vertente tra il condominio ed un singolo condomino. Secondo la richiamata pronuncia è nulla la deliberazione dell’assemblea condominiale che, all’esito di un giudizio che abbia visto contrapposti il condominio ed un singolo condomino, disponga anche a carico di quest’ultimo, pro quota, il pagamento delle spese sostenute dallo stesso condominio per il compenso del difensore nominato in tale processo; in tal caso, infatti, non può farsi applicazione, neanche in via analogica, degli artt. 1132 e 1101 c.c., trattandosi di spese per prestazioni rese a tutela di un interesse comunque opposto alle specifiche ragioni personali del singolo condomino.

8. L’amministratore.

L’art. 1129 c.c., nella formulazione attualmente vigente, prevede che quando i condomini sono più di otto, se l’assemblea non provvede, la nomina dell’amministratore è fatta dall’autorità giudiziaria su ricorso di uno o più condomini o dell’amministratore dimissionario.

La citata norma descrive altresì gli adempimenti cui l’amministratore è tenuto al momento della nomina, le modalità di pubblicizzazione della stessa e i casi di revoca, rispetto ai quali sono stati tipizzati gli inadempimenti che ne costituiscono il presupposto in ragione della loro gravità.

Nei successivi artt. 1130 e 1130-bis c.c. sono analiticamente descritti i compiti assegnati all’amministratore e nell’art. 1131 c.c. i limiti dei poteri di rappresentanza, anche processuali, ad esso attribuiti in stretta connessione con le sue mansioni.

A quest’ultimo riguardo, Sez. 2, n. 02436/2018, Orilia, Rv. 647790-01, interpretando estensivamente la portata dei poteri attribuiti all’amministratore dall’art. 1130, n. 4, c.c., nel senso che gli atti conservativi dei diritti inerenti alle parti comuni dell’edificio, cui egli è tenuto, non sono limitati a quelli necessari ad evitare pregiudizi a questa o quella parte comune, ma riguarda anche quelli volti a salvaguardare i diritti concernenti l’edificio condominiale unitariamente considerato, ha stabilito che rientra tra essi anche l’azione di cui all’art. 1669 c.c. intesa a rimuovere i gravi difetti di costruzione, nel caso in cui questi riguardino l’intero edificio condominiale e i singoli appartamenti, vertendosi in un’ipotesi di causa comune di danno che abilita alternativamente l’amministratore del condominio e i singoli condomini ad agire per il risarcimento, senza che possa farsi distinzione tra parti comuni e singoli appartamenti o parte di essi soltanto.

Con riferimento poi alla legittimazione passiva dell’amministratore ex art. 1131, comma 2, c.c., Sez. 2, n. 22911/2018, Abete, Rv. 650378-01, ha precisato che essa sussiste – anche in ordine all’interposizione d’ogni mezzo di gravame che si renda eventualmente necessario – in relazione a ogni tipo d’azione, anche reale o possessoria, promossa da terzi o da un singolo condomino nei confronti del condominio medesimo relativamente alle parti comuni dello stabile condominiale (tali dovendo estensivamente ritenersi anche quelle esterne, purché adibite all’uso comune di tutti i condomini), trovando ragione nell’esigenza di facilitare l’evocazione in giudizio del condominio, quale ente di gestione sfornito di personalità giuridica distinta da quella dei singoli condomini.

Alla stregua di tale principio, si è dunque affermata la legittimazione passiva dell’amministratore rispetto a un’actio negatoria proposta da un condomino relativamente ad un’area cortilizia esterna al fabbricato ma adibita all’uso comune ed è stata perciò cassata la pronuncia di merito che l’aveva negata sul presupposto della natura non condominiale di tale porzione immobiliare.

I poteri rappresentativi dell’amministratore, anche in sede processuale, possono poi subire un ampliamento ed estendersi a materie non strettamente attribuite ex lege al medesimo, quando siano deliberati dall’assemblea, quale finale depositaria del potere deliberativo che ad essa compete in materia di gestione dei beni comuni, ben oltre lo steccato apparentemente limitativo dell’art. 1135 c.c., e organo provvisto di una competenza decisoria a carattere generale nella gestione dei beni facenti parte del patrimonio comune, avente corrispondente potestà deliberativa in ordine all’assunzione delle liti processuali che li riguardino, sia in virtù del disposto di cui all’art. 1131, comma 1, c.c. (secondo cui «nei limiti delle attribuzioni stabilite dall’articolo precedente o dei maggiori poteri conferitigli dal regolamento di condominio o dall’assemblea, l’amministratore ha la rappresentanza dei partecipanti e può agire in giudizio sia contro i condomini sia contro i terzi»), sia del disposto di cui all’art. 1136, comma 4, c.c. (secondo cui «le deliberazioni che concernono la nomina e la revoca dell’amministratore o le liti attive e passive relative a materie che esorbitano dalle attribuzioni dell’amministratore medesimo, le deliberazioni che concernono la ricostruzione dell’edificio riparazioni straordinarie di notevole entità e le deliberazioni di cui agli articoli 1117-quater, 1120, secondo comma, 1122-ter nonché 1135, terzo comma, devono essere sempre approvate con la maggioranza stabilita dal secondo comma del presente articolo»).

Sulla base di tale premessa, Sez. 1, n. 05900/2018, Marulli, Rv. 648779-01, ha stabilito che l’amministratore del condominio, quando sia autorizzato a maggioranza dall’assemblea condominiale, è legittimato a costituirsi nel giudizio di opposizione alla stima in conseguenza dell’espropriazione di un bene condominiale, dovendo ricorrersi a maggioranze qualificate, oppure all’unanimità dei condomini, solo nei casi previsti dalla legge. A quest’ultimo riguardo si è, infatti, detto che la collegialità, sebbene sia insita nell’adozione del metodo assembleare e presupponga che tutti i condomini siano posti in condizione di esprimere, mediante il voto, il loro giudizio in ordine agli affari comuni, non può restare prigioniera del volere del singolo, sicché la regolazione dell’attività deliberativa dell’assemblea in base al principio maggioritario diviene non solo scelta ordinaria, ma scelta pure obbligata, al fine di evitare che la dialettica assembleare si risolva in danno di un’efficiente gestione dei beni comuni.

In coerenza con i poteri dell’assemblea come sopra delineati, Sez. 2, n. 05014/2018, Criscuolo, Rv. 647157-01, ha sostenuto che l’assemblea può, con una specifica delibera, riconoscere all’amministratore un compenso aggiuntivo, al fine di remunerare un’attività straordinaria da lui compiuta, quando reputi insufficiente il compenso forfettario in precedenza accordato, sebbene, in linea generale, valga il principio che vuole l’attività dell’amministratore ricompresa, per tutta la durata del rapporto, nel corrispettivo stabilito al momento del conferimento dell’incarico se connessa e indispensabile allo svolgimento dei suoi compiti istituzionali e non esorbitante dal mandato con rappresentanza.

Quanto, infine, al momento della cessazione dell’incarico dell’amministratore per scadenza del termine di cui all’art. 1129 c.c. o per dimissioni, Sez. 2, n. 12120/2018, Scalisi, Rv. 648358-01, in linea col precedente orientamento (Sez. 2, n. 15858/2002, Schettino, Rv. 558421-01), ha ritenuto che la perpetuatio di poteri in capo al predetto, in quanto fondata sulla presunzione della sua conformità all’interesse e alla volontà dei condomini, non operi quando l’assemblea condominiale esprima, con delibera, una volontà contraria alla conservazione dei poteri di gestione da parte dell’amministratore cessato dall’incarico.

La disciplina del condominio e, con essa, le attribuzioni dell’amministratore trovano, infine, applicazione anche in caso di condominio costituito in via convenzionale ai sensi dell’art. 15 del d.lgs. 30 marzo 1990, n. 76 (“Testo unico delle leggi per gli interventi nei territori della Campania, Basilicata, Puglia e Calabria colpiti dagli eventi sismici del novembre 1980, del febbraio 1981 e del marzo 1982), il quale, sotto il titolo “Condominio di edifici”, dispone che, “per gli immobili distrutti o da demolire o da riparare in conseguenza degli eventi sismici, i proprietari delle unità immobiliari procedono alla costituzione convenzionale del condominio al fine di adottare le delibere necessarie per l’esecuzione dei lavori di ricostruzione o riparazione” e che la disposizione in tema di maggioranze “deve intendersi applicabile anche agli atti di costituzione dei condomini o dei consorzi di proprietari di unità minime di intervento, previste nei piani indicati nell’articolo 34, comma 3”.

A questo riguardo, Sez. 2, n. 09547/2018, Lombardo, Rv. 648092-01, dopo avere sostenuto che tale disposizione, mirando ad agevolare la ricostruzione delle zone territoriali colpite dal sisma, prevede l’applicabilità della disciplina del condominio non solo nella interlocuzione tra privati e pubblica amministrazione, ma anche per tutto quanto attiene all’esecuzione delle opere di ricostruzione, ha sostenuto che l’amministratore delle unità minime di intervento (cd. “UMI”), è legittimato, sia attivamente che passivamente, per tutto quanto concerne l’esecuzione dei lavori di ricostruzione o riparazione oggetto delle delibere adottate dal condominio, nei medesimi termini in cui lo è l’amministratore di un condominio di edificio, avendo l’art. 15 cit. l’unico fine, acceleratorio e semplificatorio, di rendere applicabile la disciplina codicistica del condominio, quanto alle deliberazioni ed alla rappresentanza delle UMI, sol che sussistano le condizioni previste dalla legge speciale per la ricostruzione ed indipendentemente dalla sussistenza o meno delle condizioni previste dagli artt. 1117 e ss. c.c. per la costituzione del condominio.

9. L’assemblea e l’impugnazione delle deliberazioni assembleari.

L’assemblea dei condomini è l’organo deliberativo del condominio che provvede, ai sensi dell’art. 1135 c.c., all’adozione di decisioni in merito alla conferma dell’amministratore e alla sua retribuzione, all’approvazione del preventivo delle spese occorrenti e alla ripartizione tra condomini, all’approvazione del rendiconto annuale e all’impiego del residuo attivo e alle opere di manutenzione straordinaria e alle innovazioni, oltre alle questioni elencate negli articoli precedenti.

La costituzione dell’assemblea e la validità delle sue deliberazioni sono disciplinate invece dal successivo art. 1136 c.c.

Ai sensi dell’art. 1137 c.c., le deliberazioni assunte dall’assemblea sono obbligatorie per tutti i condomini e, se contrarie alla legge o al regolamento di condominio, possono essere impugnate da ogni condomino assente, dissenziente o astenuto, davanti all’autorità giudiziaria, nel termine di 30 giorni decorrente dalla data della deliberazione per i dissenzienti o gli astenuti ovvero dalla data della comunicazione della deliberazione per gli assenti.

Con specifico riguardo al soggetto titolare dell’azione, Sez. 2, n. 27162/2018, Scarpa, Rv. 651018-01, ha precisato che il generale potere ex art. 1137 c.c. di impugnare le deliberazioni condominiali in relazione alle spese necessarie per le parti comuni dell’edificio compete al proprietario della singola unità immobiliare, ma non all’utilizzatore di un’unità immobiliare in leasing, essendo quest’ultimo titolare non di un diritto reale, ma di un diritto personale derivante da un contratto ad effetti obbligatori che rimette il perfezionamento dell’effetto traslativo ad una futura manifestazione unilaterale di volontà del conduttore.

A questo proposito, è stato altresì sostenuto che, ai fini della legittimazione dell’utilizzatore in leasing alla partecipazione all’assemblea ed alla correlata impugnativa, non può rilevare il principio dell’apparenza del diritto, che conferisce valore dirimente al fatto che quegli si comportasse abitualmente come fosse un condomino, in quanto nei rapporti fra condominio e singoli partecipanti ad esso non trovano applicazione i principi di affidamento e di tutela dell’apparentia iuris.

Quanto poi ai poteri del giudice in ordine ai motivi di annullamento, Sez. 6-2, n. 16675/2018, Scarpa, Rv. 649235-01, ha stabilito che la domanda di declaratoria dell’invalidità di una delibera dell’assemblea dei condomini per un determinato motivo non consente al giudice, nel rispetto del principio di corrispondenza fra chiesto e pronunciato, di pronunciare l’annullamento per qualsiasi altra ragione attinente a quella questione né, tantomeno, l’annullamento, sia pure per la stessa ragione esplicitata con riferimento alla deliberazione specificamente impugnata, delle altre delibere adottate nella stessa adunanza ma non ritualmente opposte, in quanto, ancorché sia redatto un unico processo verbale per l’intera adunanza, l’assemblea pone in essere tante deliberazioni ontologicamente distinte ed autonome fra loro, quante siano le diverse questioni e materie in discussione, con la conseguente astratta configurabilità di separate ragioni di invalidità attinenti all’una o all’altra.

Come noto, la disciplina di cui all’art. 1137 c.c. si riferisce alle sole delibere assembleari annullabili, ma non anche a quelle affette da nullità in quanto prive degli elementi essenziali, aventi oggetto impossibile o illecito (contrario all’ordine pubblico, alla morale o al buon costume) o non rientranti nella competenza dell’assemblea, incidenti sui diritti individuali sulle cose o servizi comuni o sulla proprietà esclusiva di ognuno dei condomini, o comunque invalide in relazione all’oggetto, secondo le indicazioni contenute nella pronuncia delle SS.UU. n. 04806/2005, Elefante, Rv. 579439-01.

Sulla base di questo principio, la già citata Sez. 2, n. 01629/2018, Scarpa, Rv. 647644-01, in conformità al precedente orientamento, ha reputato nulla, in quanto incidente sui diritti individuali sulle cose o servizi comuni, la deliberazione dell’assemblea condominiale che, all’esito di un giudizio che aveva visto contrapposti il condominio ed un singolo condomino, aveva posto anche a carico di quest’ultimo, pro quota, il pagamento delle spese sostenute dallo stesso condominio per il compenso del difensore nominato in tale processo, stante l’inapplicabilità, anche in via analogica, del disposto di cui agli artt. 1132 e 1101 c.c. trattandosi di spese per prestazioni rese a tutela di un interesse comunque opposto alle specifiche ragioni personali del singolo condomino, mentre Sez. 2, n. 08014/2018, Giusti, Rv. 647872-01, ha sostenuto la nullità della delibera con la quale era stato disciplinato il godimento di un’area esterna alle mura perimetrali dell’edificio, assegnando direttamente ai condomini i posti macchina insistenti sulla stessa, nonostante fosse rimasta di proprietà del costruttore del fabbricato e nonostante gli acquirenti degli immobili, illegittimamente privati del diritto all’uso dell’area pertinente a parcheggio, non avessero agito per accertare giudizialmente la nullità dei negozi da loro stipulati nella parte in cui era stato omesso il trasferimento degli spazi a parcheggio, in quanto incidente sui diritti individuali di proprietà esclusiva di uno dei condomini.

  • responsabilità
  • danno

APPROFONDIMENTO TEMATICO

LESIONE DELLA PROPRIETÀ, NEGAZIONE DEI DANNI NON PATRIMONIALI E DANNI PATRIMONIALI IN RE IPSA

(di Antonio Scarpa )

Sommario

1 Premessa - 2 La irrisarcibilità del danno non patrimoniale alla proprietà - 3 La risarcibilità automatica del danno patrimoniale alla proprietà

1. Premessa

Il problema dei rapporti tra la lesione della proprietà e il risarcimento del danno è stato affrontato frequentemente anche nell’ultimo anno dalle decisioni della Corte di Cassazione, soprattutto per stabilire quali siano gli oneri processuali incombenti al riguardo sull’attore, ovvero se tali oneri possano essere in concreto agevolati dal ricorso a presunzioni semplici e ragionamenti inferenziali. Resta, invece, marginale la riflessione della Suprema Corte sulla risarcibilità della compromissione di interessi o valori privi di contenuto economico quale conseguenza immediata di una violazione delle facoltà proprietarie.

2. La irrisarcibilità del danno non patrimoniale alla proprietà

Com’è noto, Sez. U, 26972/2008, Preden (e le altre sentenze dell’11 novembre 2008), negando in modo esplicito il risarcimento del danno non patrimoniale in relazione ai diritti riconosciuti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, giacché non parificabile al danno connotato da un’ingiustizia costituzionalmente qualificata, non lasciava spazio alla risarcibilità del danno non patrimoniale alla proprietà. L’impianto delle pronunce delle Sezioni Unite del 2008 portò a considerare che vi possono, dunque, essere violazioni del principio del neminem laedere, di cui all’art. 2043 c.c., che arrecano un danno alla proprietà in sé ingiusto (nel suo duplice aspetto di danno prodotto contra ius e di danno non iure), e però risarcibile soltanto se patrimoniale, e cioè se connotato da immediata rilevanza economica, ovvero anche se non patrimoniale, ma nei soli casi in cui la lesione della proprietà costituisca anche reato. Ciò non perché, ovviamente, il rapporto di appartenenza, che intercorre tra il dominus e la res, è “privo di copertura costituzionale”, ma perché la natura economica del diritto e la sua funzione tipicamente (seppur non esclusivamente) patrimoniale ne impediscono la risarcibilità quale forma di tutela della persona.

Si aggiungeva nelle sentenze dell’11 novembre che il danno non patrimoniale, seppur determinato dalla lesione di diritti inviolabili della persona, costituisce non “danno evento”, quanto “danno conseguenza”, dunque non sussiste in re ipsa, ma deve sempre essere allegato e provato dall’attore, sia pur non necessariamente mediante testimoni o documenti, quand’anche facendo ricorso al ragionamento presuntivo.

Va ulteriormente considerato come una delle più sicure ipotesi di risarcibilità del danno non patrimoniale per lesione alla proprietà, un tempo ravvisabile, ex art. 185, comma 2, c.p., in presenza della commissione del reato di danneggiamento, debba ora fare i conti con l’intervenuta depenalizzazione del vecchio delitto di danneggiamento semplice, previsto dal primo comma del previgente art. 635, comma 1, c.p., fattispecie perseguita con la sola sanzione pecuniaria civile, ai sensi del d.lgs. 15 gennaio 2016, n. 7. A ciò si aggiunga che, perché la condotta di danneggiamento sia perseguibile, in forza degli artt. 3 e 4, comma 1, del d.lgs. n. 7 del 2017, con la sanzione pecuniaria civile da € cento a € ottomila, occorre che sia accolta la domanda di risarcimento proposta dalla persona offesa.

Si è poi inserito nell’ordinamento l’art. 34 del d.l. n. 98 del 2011, convertito, con modificazioni, nella legge n. 111/2011, il quale ha introdotto nel Testo Unico in materia di espropriazione per pubblica utilità l’art. 42-bis, ove si prevede che l’autorità, la quale, senza un valido titolo espropriativo, utilizza un bene immobile per scopi di interesse pubblico, può disporne l’acquisizione sanante al suo patrimonio indisponibile, corrispondendo al proprietario un indennizzo “per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale, quest’ultimo forfetariamente liquidato nella misura del dieci per cento del valore venale del bene”.

È infine entrato in vigore, nel frattempo, il nuovo testo dell’art. 6 del Trattato sull’Unione europea. Stante il “carattere sub-costituzionale della CEDU”, si impone un raffronto tra le regole da essa ricavate e la Costituzione. Le norme della Convenzione sono idonee a dar corpo agli “obblighi internazionali” costituenti parametro di costituzionalità della legge italiana in forza dell’art. 117, comma 1, Cost. Il giudice nazionale è perciò chiamato ad assegnare al diritto interno un significato quanto più aderente alla CEDU, fermo il prioritario compito di adottare sempre una lettura costituzionalmente conforme.

L’art. 1 del Primo Protocollo addizionale della Convenzione europea sulla salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali appresta un’intensa tutela del diritto di proprietà, unico diritto di contenuto patrimoniale cui è dedicata una disposizione convenzionale. Un altrettanto ampio riconoscimento del diritto di proprietà è contenuto nell’art. 17 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

Per la Corte Europea dei diritti dell’uomo il diritto di proprietà rientra tra quelli involabili, e perciò la violazione del Protocollo n. 1 della Convenzione comporta il risarcimento dei danni anche non patrimoniali (Corte europea diritti dell’uomo, 7 giugno 2012, Centro Europa 7 s.r.l. e Di Stefano c. Italia; Corte europea diritti dell’uomo, 12 ottobre 2010, Atanasiu c. Romania; Corte europea diritti dell’uomo, 21 febbraio 2002, Ghidotti c. Italia; Corte europea diritti dell’uomo 28 giugno 2011, De Caterina e altri c. Italia; Corte europea diritti dell’uomo, 1 febbraio 2011, Quattrone c. Italia; Corte europea diritti dell’uomo, 22 dicembre 2009, Guiso-Gallisay c. Italia; Corte europea diritti dell’uomo, 4 dicembre 2007, Pasculli c. Italia; Corte europea diritti dell’uomo, 24 luglio 2007, Mason c. Italia; Corte europea diritti dell’uomo, 6 marzo 2007, Scordino c. Italia; Corte europea diritti dell’uomo, 11 dicembre 2003, Carbonara e Ventura c. Italia).

La dottrina prospetta, allora, un dilemma operativo: o va ampliato il catalogo dei diritti inviolabili che consentono la risarcibilità dei danni non patrimoniali, in nome di un’interpretazione (non solo) costituzionalmente e (quindi anche) comunitariamente (ex art. 117 Cost.) orientata, includendovi pure il diritto di proprietà; o si pone una questione di legittimità costituzionale dell’art. 2059 c.c. nella parte in cui tale norma non permette il risarcimento del danno non patrimoniale da lesione della proprietà per violazione dell’art. 117, comma 1, Cost., in relazione all’art. 1, Protocollo n. 1, CEDU, quale norma interposta.

Basterebbe dare rilevanza, ai fini dell’ingiustizia del pregiudizio arrecato dal terzo ex art. 2043 c.c., alla relazione di strumentalità tra il bene di proprietà leso e l’esercizio di un’attività destinata a soddisfare non un bisogno economico, quanto la realizzazione di diritti inviolabili della persona. La violazione del diritto di proprietà provoca non soltanto la lesione del bene che ne è oggetto, ma coinvolge anche altri interessi, con conseguenze dannose che possono rivelarsi sia patrimoniali, sia, appunto, non patrimoniali. La tutela della proprietà non è, del resto, tutela del suo solo oggetto, economicamente rilevante, ma tutela del più complesso rapporto che si instaura fra l’oggetto di dominio e la persona. Il risarcimento del danno non patrimoniale per lesione di un bene oggetto di proprietà dovrebbe, allora, valorizzare la destinazione concreta o comunque attuale della cosa ad un’attività o ad uno scopo, destinazione impressa dal proprietario che può rendersi, invero, strumentale a fornirgli nuove utilità non obiettivamente e direttamente commisurabili in denaro e potenzialmente realizzatrici altresì di interessi fondamentali della persona oggetto di tutela costituzionale. Ciò non significherebbe valutare la rilevanza costituzionale con riferimento al tipo di pregiudizio e non al diritto in sé leso, perché il danno non risarcisce la lesione del bene in sé, ma l’alterazione dell’interesse, e cioè del singolo rapporto tra quel bene e quel soggetto. Il rilievo costituzionalmente qualificato, richiesto ai fini dell’art. 2059 c.c., è predicato indifferente rispetto all’evento naturalistico del danno, ed invece indispensabile per valutare proprio la conseguenza della lesione.

Sez. 6-2, n. 17460/2018, Scarpa, Rv. 649269-01, tuttavia, ha escluso la configurabilità di un danno non patrimoniale conseguente alla mancata utilizzazione di un’area comune condominiale, non ravvisandovi alcuna lesione di interessi della persona di rango costituzionale

Sez. 2, n. 23134/2018, Cavallari, invece, definendo una causa in tema di difetti di un immobile compravenduto, ha negato all’acquirente la risarcibilità del danno non patrimoniale cagionato dalla temporanea non disponibilità dell’appartamento alienato, ma ciò considerando che il presunto danneggiato aveva potuto soddisfare le proprie esigenze abitative in altro luogo comunque idoneo, e non già, dunque, a monte, per la natura esclusivamente economica e la funzione tipicamente patrimoniale del diritto del compratore di pretendere, con la consegna del bene, la piena affermazione del suo diritto di proprietà nell’interezza dell’oggetto acquistato. Sez. U, n. 2611/2017, Bianchini, Rv. 642418-01, del resto, nel riconoscere la risarcibilità del danno non patrimoniale conseguente ad immissioni illecite, per il pregiudizio del diritto al normale svolgimento della vita familiare e del diritto alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini di vita quotidiane, radicava il referente normativo della lesione al godimento della propria abitazione non soltanto nell’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ma anche “nell’art. 42, comma 2, Cost., che tutela la proprietà privata e detta i limiti per la compressione del relativo diritto”. Occorre, altrimenti, intendere che il riferimento all’art. 42 Cost., operato da Sez. U, n. 2611/2017, sia stato soltanto un obiter dictum, non avendo tale pronuncia avuto intenzione di affrontare innovativamente il rapporto tra proprietà, diritti inviolabili e danno non patrimoniale, in quanto, nella fattispecie, veniva in considerazione non il diritto economico di proprietà, quanto, piuttosto, la tutela del bisogno abitativo della persona, di per sé indipendente dal titolo di appartenenza del bene-casa.

3. La risarcibilità automatica del danno patrimoniale alla proprietà

La Corte di Cassazione ribadisce univocamente che la lesione di un diritto inviolabile non determina la sussistenza di un danno non patrimoniale “in re ipsa”, essendo comunque necessario che la vittima abbia effettivamente patito un pregiudizio, il quale va allegato e provato, anche attraverso presunzioni semplici (nell’ultimo anno, Sez. 3, n. 11269/2018, Olivieri, Rv. 648606-01; Sez. 6 - 3, n. 7594/2018, Scarano, Rv. 648443-01; Sez. 3, n. 907/2018, Ambrosi, Rv. 647127-03; Sez. 2, n. 28472/2018, Bellini, Rv. 651525-01).

È, invece, oggetto di un latente, quanto netto, contrasto di decisioni di legittimità la questione della risarcibilità del danno “in re ipsa” subito dal proprietario per la perdita di disponibilità o per la limitazione del godimento di un immobile.

Sez. 2, n. 21501/2018, Grasso, Rv. 650315-02, aderisce all’orientamento secondo cui la violazione delle distanze tra costruzioni cagiona al proprietario un danno “in re ipsa”, che non postula una specifica attività probatoria, essendo l’effetto, certo e indiscutibile, dell’abusiva imposizione di una servitù nel proprio fondo e, quindi, della limitazione del relativo godimento che si traduce in una diminuzione temporanea del valore della proprietà.

Sez. 6 - 2, n. 21239/2018, Falaschi, Rv. 650352 – 01, afferma parimenti che è “in re ipsa” il danno subito dal nuovo proprietario nel caso di ritardata consegna di un bene immobile, discendendo dalla perdita della disponibilità del bene, la cui natura è normalmente fruttifera, e dalla impossibilità di conseguire l’utilità da esso ricavabile.

Ancora, per Sez. 2, n. 20545/2018/2018, Federico, Rv. 649998 – 01, nel caso di occupazione illegittima di un immobile, il danno subito dal proprietario è “in re ipsa”, sempre perché correlato alla natura del bene ed alle utilità da esso ricavabili.

Viceversa, per Sez. 3, n.13071/2018, Graziosi, Rv. 648709 – 01, nel caso di occupazione illegittima di un immobile, il danno subito dal proprietario non può ritenersi sussistente “in re ipsa”, arrivandosi altrimenti ad identificare il danno con l’evento dannoso ed a configurare un vero e proprio danno punitivo. Piuttosto, il danno da occupazione “sine titulo”, in quanto particolarmente evidente, può essere agevolmente dimostrato sulla base di presunzioni semplici, ma un siffatto alleggerimento dell’onere probatorio non può comportare anche l’esonero dall’allegazione dei fatti che devono essere accertati, ossia l’intenzione concreta del proprietario di mettere l’immobile a frutto.

Ritornando allo schema di Sez. U, 26972/2008, Preden, quel che rileverebbe ai fini del risarcimento del danno alla proprietà non potrebbe essere, perciò, il “danno evento”, quanto unicamente il “danno conseguenza”, sicché esso non sussiste in re ipsa, ma deve sempre essere allegato e provato dall’attore.

In realtà, nella logica del processo vi è una pressoché inevitabile corrispondenza tra «allegare» e «provare».

Allegare un fatto in giudizio vuol dire, in senso proprio, formulare un enunciato descrittivo di quel fatto all’interno di un atto difensivo. L’allegazione di un fatto, se compiuta entro le barriere preclusive che scandiscono il giudizio civile, contribuisce alla fissazione del thema decidendum e del thema probandum.

L’allegazione di un danno alla proprietà, di cui si chieda il risarcimento, non può, dunque, ridursi nella enunciazione della patita lesione del diritto, acquisendo quest’ultima rilevanza giuridica se la formulazione espliciti l’effetto giuridico del pregiudizio arrecato ad interessi del proprietario, connotati o meno da rilevanza economica.

Di regola, sulla parte che abbia l’onere di allegare un fatto nel processo incombe poi altresì l’onere di dimostrare con prove che quel fatto si sia davvero verificato. Dover provare un fatto significa dover fornire al giudice i mezzi perché questi ne possa controllare l’esistenza. Tuttavia, poiché le sentenze dicono che il danno, patrimoniale come non patrimoniale, da lesione della proprietà, pur non esistendo automaticamente per la sola natura delle cose, può essere provato avvantaggiandosi dell’invocazione delle presunzioni semplici, nella sostanza all’attore basta allegare e provare la condotta violatrice del diritto di proprietà, perché da questo fatto noto percepito il giudice tragga, mediante procedimento logico di deduzione, il fatto ignoto della lesione di interessi del proprietario, suscettibili, o meno, di immediata valutazione economica. In tal modo, al di là delle definizioni, come si avverte in dottrina, il pregiudizio dell’interesse giuridico tutelato rimane automaticamente compreso nella lesione della proprietà, sicché, se non il danno, quanto meno la sua prova tende inevitabilmente a diventare in re ipsa.

  • eredità
  • donazione
  • testamento di vita

CAPITOLO VI

LE SUCCESSIONI E DONAZIONI

(di Dario Cavallari )

Sommario

1 La delazione ereditaria. - 2 L’accettazione di eredità. - 3 Il beneficio d’inventario e la separazione dei beni. - 4 I legittimari e la reintegrazione della quota loro riservata. - 5 Il testamento. - 6 Il legato. - 7 La divisione ereditaria. - 8 Il retratto successorio. - 9 La collazione. - 10 Le donazioni.

1. La delazione ereditaria.

In tema di rapporti fra mandato e successione ereditaria, con riguardo all’efficacia temporale della volontà del de cuius, Sez. 3, n. 11763/2018, Dell’Utri, Rv. 648614-02, ha ribadito l’ormai risalente orientamento di Sez. 3, n. 2804/1962, La Farina, Rv. 254164-01, secondo il quale è valido ed efficace un mandato post mortem exequendum conferito ed accettato durante la vita del mandante ed avente per oggetto un incarico (anche se di contenuto patrimoniale) da eseguirsi dal mandatario dopo la morte del mandante e per conto di questo. Peraltro, è stato rilevato che la validità di un mandato da eseguirsi post mortem resta, comunque, subordinata alla circostanza che la natura dell’affare non sia in contrasto con le norme fondamentali che disciplinano la successione mortis causa, atteso che la volontà del defunto, relativamente ai beni dell’eredità, può operare, dopo il decesso, esclusivamente come volontà testamentaria, nelle forme, nei modi e nei limiti determinati dalla legge.

Pertanto, è stata negata validità ad un mandato contrattuale che comporti, attraverso l’esecuzione da parte del mandatario, dopo la morte del mandante, una trasmissione mortis causa di beni patrimoniali, inerenti all’eredità, a favore di terze persone (mandatum post mortem).

Sempre al fine di garantire il rispetto delle scelte del defunto, Sez. 6-2, n. 15919/2018, Criscuolo, Rv. 649095-01, ha chiarito che è nulla, per violazione degli artt. 458 e 557 c.c., la transazione conclusa da uno dei futuri eredi, allorquando sia ancora in vita il de cuius, con la quale egli rinunci ai diritti vantati, anche quale legittimario, sulla futura successione, ivi incluso il diritto a fare accertare la natura simulata degli atti di alienazione posti in essere dall’ereditando perché idonei a dissimulare una donazione.

Con riferimento alla problematica dell’indegnità, Sez. 2, n. 06747/2018, Picaroni, Rv. 647856-01, ha confermato il precedente di Sez. 3, n. 6859/1993, Fancelli, Rv. 482846-01, per il quale la legittimazione a domandare la relativa pronuncia spetta a coloro che sono potenzialmente idonei a subentrare all’indegno nella delazione ereditaria e, quindi, pure al coerede che potrebbe beneficiare dell’accrescimento della propria quota ove i successibili per diritto di rappresentazione in luogo del medesimo indegno non possano o non vogliano accettare l’eredità.

Inoltre, Sez. U, n. 17122/2018, Manna F., Rv. 649495-02, ha dato seguito all’indirizzo, espresso in passato da Sez. 2, n. 12158/2015, Nuzzo, Rv. 635621-01, per il quale, in tema di successione testamentaria, l’institutio ex re certa ha ad oggetto un bene determinato e solo di riflesso la quota, sicché l’alienazione successiva del bene attribuito implica la revoca della istituzione di erede o l’attribuzione di una quota maggiore rispetto a quella assegnata a favore di altro coerede, senza che possa trovare applicazione l’art. 686 c.c. in materia di legato poiché l’art. 588, comma 2, c.c. consente di determinare la quota spettante all’erede sulla base del valore dei beni assegnati ed in rapporto a quello del restante patrimonio eventualmente attribuito ad altri coeredi.

Sempre trattando di delazione ereditaria, Sez. U, n. 17122/2018, Manna F., Rv. 649495-01, ha confermato che nel sepolcro ereditario lo ius sepulchri si trasmette nei modi ordinari, per atto inter vivos o mortis causa, come qualsiasi altro diritto, dall’originario titolare anche a persone non facenti parte della famiglia. Al contrario, nel sepolcro gentilizio o familiare – tale dovendosi presumere il sepolcro, in caso di dubbio – lo stesso ius sepulchri è attribuito, in base alla volontà del testatore, in stretto riferimento alla cerchia dei familiari destinatari di esso, acquistandosi dal singolo iure proprio sin dalla nascita, per il solo fatto di trovarsi col fondatore nel rapporto previsto dall’atto di fondazione o dalle regole consuetudinarie, iure sanguinis e non iure successionis, e determinando una particolare forma di comunione fra contitolari, caratterizzata da intrasmissibilità del diritto, per atto tra vivi o mortis causa, imprescrittibilità e irrinunciabilità. Il diritto di sepolcro, peraltro, si trasforma in ereditario con la morte dell’ultimo superstite della cerchia dei familiari designati dal fondatore, rimanendo soggetto, per l’ulteriore trasferimento, alle ordinarie regole della successione mortis causa.

Infine, in ordine al rapporto con l’istituto del maso chiuso, Sez. 2, n. 24216/2018, Federico, Rv. 650643-01, ha chiarito che, ai fini della valutazione della ricorrenza dei requisiti preferenziali posti dall’art. 14 l.p. Bolzano n. 17 del 2001 per l’assunzione del maso stesso, non rileva, in ipotesi di vocazione per rappresentazione, la posizione del rappresentato, ma quella del rappresentante, poiché l’istituto in questione, diretto alla preservazione dell’agricoltura di montagna ed alla tutela della minima unità colturale, è ispirato alle garanzie di continuazione, in ambito familiare, dell’attività aziendale da parte di chi abbia un particolare legame con il detto maso.

2. L’accettazione di eredità.

In tema di rapporti fra delazione ed accettazione dell’eredità, Sez. 6-2, n. 05247/2018, Cosentino, Rv. 647986-01, ha affermato che, per l’acquisto della qualità di erede, non è di per sé sufficiente, neanche nella successione legittima, la delazione che segue l’apertura della successione, essendo necessaria l’accettazione del chiamato mediante una dichiarazione di volontà oppure un comportamento obiettivo di acquiescenza.

Seguendo questa impostazione, con una pronuncia che ha confermato la precedente giurisprudenza, esemplificata da Sez. 2, n. 13738/2005, Settimj, Rv. 581423-01, Sez. 2, n. 10060/2018, Fortunato, Rv. 648326-01, ha ribadito che, poiché l’accettazione tacita dell’eredità può desumersi dall’esplicazione di un’attività personale del chiamato incompatibile con la volontà di rinunciarvi, id est con un comportamento tale da presupporre l’intento di accettare l’eredità, essa può legittimamente reputarsi implicita nell’esperimento, da parte del chiamato, di azioni giudiziarie che – essendo intese alla rivendica o alla difesa della proprietà o al risarcimento dei danni per la mancata disponibilità di beni ereditari – non rientrino negli atti conservativi e di gestione dei beni ereditari consentiti dall’art. 460 c.c. e, quindi, non sarebbero state proponibili dal chiamato, se non avesse voluto fare propri i diritti successori.

Ad identiche conclusioni è giunta Sez. 2, n. 14499/2018, Scarpa, Rv. 648845-01, precisando che la valutazione dell’idoneità della condotta del chiamato ad accettare tacitamente l’eredità deve avvenire in maniera obiettiva, alla stregua del comune modo di agire di una persona normale. La S.C. ha, pertanto, ritenuto che la ricezione, da parte del medesimo chiamato, del pagamento dell’indennità per il passaggio coattivo sul fondo servente del de cuius comporti tale accettazione tacita.

Le ultime pronunce menzionate palesano l’esistenza di un orientamento ormai univoco, destinato probabilmente a perpetuarsi in futuro.

Con una statuizione di carattere processuale Sez. 2, n. 09980/2018, Bellini, Rv. 648159-01, ha chiarito, come in passato fatto da Sez. 2, n. 9901/1995, Carnevale, Rv. 494083-01, che la prescrizione del diritto di accettare l’eredità ex art. 480 c.c. opera a vantaggio di chiunque vi abbia interesse, pur se estraneo all’eredità. Il convenuto che sia nel possesso dei beni ereditari può, perciò, in virtù di tale sola circostanza e senza che sia necessario che in proprio favore si sia compiuta l’usucapione, opporre la relativa eccezione a qualunque chiamato all’eredità.

Sempre con riferimento a problematiche processuali, secondo Sez. 2, n. 06745/2018, Scalisi, Rv. 647819-01, il figlio che aziona in giudizio un diritto del genitore, del quale afferma essere erede ab intestato, ove non sia stato contestato il rapporto di discendenza con il de cuius, al fine di dare prova della sua legittimazione attiva, non deve ulteriormente dimostrare l’esistenza di detto rapporto, producendo l’atto dello stato civile attestante la filiazione, poiché è sufficiente che egli, in quanto chiamato a titolo di successione legittima, abbia accettato, anche tacitamente, l’eredità, circostanza che può ricavarsi dall’esercizio stesso dell’azione.

Inoltre, Sez. 2, n. 15066/2018, Criscuolo, Rv. 649077-01, ha affermato che, nell’ipotesi di morte della parte costituita e di dichiarazione dell’evento interruttivo resa in udienza dal suo procuratore o da questi notificata alle altre parti, la mera circostanza che uno dei successori sia parte del giudizio in nome proprio al momento del decesso, sia pure in una posizione di sostanziale coincidenza di interessi e di linea difensiva con il defunto, non comporta che egli assuma automaticamente la qualità di erede dello stesso né al fine dell’impedimento dell’evento interruttivo né con riguardo alla coltivazione delle domande proposte dal de cuius. La S.C. ha, quindi, escluso che il figlio della parte deceduta in corso di causa, presente nel processo in nome proprio, avesse accettato tacitamente l’eredità ex art. 476 c.c. con la semplice proposizione di appello contro la decisione di primo grado, non avendo speso la qualità di erede del genitore.

3. Il beneficio d’inventario e la separazione dei beni.

Rifacendosi al non più recente orientamento espresso da Sez. 2, n. 8527/1994, Santilli, Rv. 488148-01, Sez. 2, n. 20713/2018, Besso Marcheis, Rv. 649914-01, ha ribadito che, una volta scaduto il termine dell’art. 498 c.c., ai creditori che non hanno tempestivamente presentato la dichiarazione di credito è preclusa la possibilità di partecipare alla procedura di liquidazione concorsuale, restando loro azione ex art. 502, comma 3, c.c. nei limiti della somma che residui dopo il pagamento dei creditori e dei legatari collocati nello stato di graduazione.

Ancora con riguardo alla materia del beneficio d’inventario, Sez. 2, n. 07477/2018, Scarpa, Rv. 647999-01, ha chiarito che, se, al momento della formazione del titolo esecutivo giudiziale per un debito del de cuius nei confronti dell’erede che abbia dichiarato di accettare col beneficio, non sono ancora decorsi i termini per il compimento dell’inventario, la limitazione della responsabilità ex art. 490 c.c. può essere utilmente eccepita dinanzi al giudice dell’esecuzione e a quello dell’opposizione, trattandosi di fatto successivo alla definitività del titolo.

Inoltre, Sez. 2, n. 20971/2018, Dongiacomo, Rv. 650027-01, ha specificato che il legittimario totalmente pretermesso dall’eredità che, a tutela del proprio diritto alla reintegrazione della quota di legittima, impugna per simulazione un atto compiuto dal de cuius, agisce in qualità di terzo e non in veste di erede – condizione che acquista solo in conseguenza del positivo esperimento dell’azione di riduzione – e, come tale ed al pari dell’erede che eserciti un’azione di simulazione assoluta ovvero relativa, ma finalizzata a fare valere la nullità del negozio dissimulato, non è tenuto alla preventiva accettazione dell’eredità con beneficio di inventario. Al contrario, ove il legittimario sia anche erede e proponga un’azione di simulazione relativa, ma volta ad accertare la validità del negozio dissimulato, la domanda deve ritenersi presentata esclusivamente in funzione dell’azione di riduzione e postula, quale condizione per la propria ammissibilità, la previa accettazione beneficiata.

Infine, in un’ottica processuale, Sez. U, n. 11849/2018, Manna F., Rv. 648546-01, ha affermato che il decreto con cui la corte di appello rigetta o dichiara inammissibile la domanda di separazione dei beni mobili del defunto da quelli dell’erede ex art. 517 c.c., pur essendo un provvedimento di volontaria giurisdizione, è impugnabile con ricorso straordinario per cassazione ex art. 111, comma 7, Cost., in quanto idoneo, una volta decorso il termine di decadenza dell’art. 516 c.c., ad incidere definitivamente in maniera negativa sul diritto del creditore del de cuius a costituirsi un titolo di preferenza, rispetto ai creditori particolari dell’erede, sui beni oggetto della garanzia patrimoniale sui quali aveva fatto affidamento.

4. I legittimari e la reintegrazione della quota loro riservata.

Secondo Sez. 2, n. 00168/2018, Criscuolo, Rv. 647028-01, la conferma delle disposizioni testamentarie o la volontaria esecuzione di esse non opera rispetto a quelle lesive della legittima, perché gli effetti “convalidativi” dell’art. 590 c.c. si riferiscono alle sole disposizioni testamentarie nulle. Ne deriva che, in dette ipotesi, non è preclusa al legittimario l’azione di riduzione, eccetto che egli non abbia manifestato in modo non equivoco la volontà di rinunciare a fare valere la lesione mediante un comportamento concludente incompatibile con la stessa. In particolare, la S.C. ha annullato la decisione impugnata che aveva ritenuto che l’immissione del legittimario nel godimento dei beni legatigli costituisse rinuncia tacita all’azione di riduzione, considerato, peraltro, che l’erede pretermesso, salva l’ipotesi prevista dall’art. 551 c.c., non è tenuto a rinunciare al legato per proporre l’azione de qua.

In tema di prova, Sez. 2, n. 15510/2018, Criscuolo, Rv. 649176-01, ha affermato che l’erede legittimario, il quale agisca per l’accertamento della simulazione di una vendita compiuta dal de cuius, siccome dissimulante una donazione affetta da nullità per difetto di forma, assume, rispetto ai contraenti, la qualità di terzo – con conseguente ammissibilità della prova testimoniale o presuntiva senza limiti o restrizioni – quando abbia proposto la domanda sulla premessa dell’avvenuta lesione della propria quota di legittima. In tale situazione, infatti, detta lesione assurge a causa petendi accanto al fatto della simulazione ed il legittimario, benché successore del defunto, non può essere assoggettato ai vincoli probatori previsti per le parti dall’art. 1417 c.c., non rilevando che egli, quale erede legittimo, benefici non solo dell’effetto di reintegrazione della summenzionata quota, ma pure del recupero del bene al patrimonio ereditario per intero, poiché il regime probatorio non può subire differenziazioni a seconda del risultato finale cui conduca l’accoglimento della domanda.

Infine, Sez. 2, n. 02754/2018, Scarpa, Rv. 647792-01, ha ribadito, come già deciso da Sez. U, n. 4847/2013, Mazzacane, Rv. 625171-01, che i diritti sull’abitazione adibita a residenza familiare e di uso sui mobili che la corredano, attribuiti dall’art. 540, comma 2, c.c., spettano al coniuge superstite anche ove si apra una successione legittima, in aggiunta alla quota attribuita dagli artt. 581 e 582 c.c., essendo i detti diritti finalizzati a dare tutela, sul piano patrimoniale e su quello etico-sentimentale, al coniuge, evitandogli i danni che la ricerca di un nuovo alloggio cagionerebbe alla stabilità delle abitudini di vita della persona.

5. Il testamento.

Molte sono state le decisioni concernenti i requisiti di forma del testamento e la volontà del suo autore.

La tendenza della giurisprudenza è, ormai da anni, nel senso di garantire al massimo l’attuazione della intenzione del defunto, il che porta, da un lato, a favorire una interpretazione conservatrice della scheda predisposta del de cuius e a ridurre la sindacabilità dell’errore di quest’ultimo, dall’altro, a sanzionare molto severamente gli interventi del terzo nella redazione dell’atto di ultima volontà.

Coerentemente, Sez. 2, n. 10882/2018, Dongiacomo, Rv. 648096-01, e Sez. 2, n. 10075/2018, Criscuolo, Rv. 648333-01, hanno ribadito, conformandosi all’insegnamento di Sez. 2, n. 24637/2010, San Giorgio, Rv. 615311-01, che l’interpretazione del testamento, cui in linea di principio sono applicabili le regole di ermeneutica dettate dal codice in tema di contratti, con la sola eccezione di quelle incompatibili con la natura di atto unilaterale non recettizio del negozio mortis causa, è caratterizzata, rispetto a quella contrattuale, da una più penetrante ricerca, aldilà della dichiarazione, della volontà del testatore, la quale, alla stregua dell’art. 1362 c.c., va individuata con riferimento ad elementi intrinseci alla scheda testamentaria, sulla base dell’esame globale della scheda stessa e non di ciascuna singola disposizione. Tuttavia, ove dal testo dell’atto non emergano con certezza l’effettiva intenzione del de cuius e la portata della disposizione, il giudice può fare ricorso ad elementi estrinseci al testamento, ma pur sempre riferibili al testatore, quali, ad esempio, la personalità dello stesso, la sua mentalità, cultura o condizione sociale o il suo ambiente di vita.

Sempre in ordine all’interpretazione del testamento, con riguardo alla distinzione fra sostituzione fedecommissaria e costituzione testamentaria di usufrutto con contestuale istituzione di eredi nudi proprietari, per Sez. 2, n. 25698/2018, Carrato, Rv. 650777-01, che segue il precedente di Sez. 2, n. 4435/2009, Mazziotti Di Celso, Rv. 606680-01, detta interpretazione, qualora sia volta a determinare se il testatore abbia voluto disporre una sostituzione fedecommissaria o una costituzione testamentaria di usufrutto, deve muovere dalla ricerca della effettiva volontà del de cuius, attraverso l’analisi delle finalità che il defunto intendeva perseguire, oltre che mediante il contenuto testuale della scheda testamentaria. Ne consegue che la disposizione con la quale il de cuius stesso lascia a persone diverse rispettivamente l’usufrutto e la nuda proprietà di un medesimo bene (o dell’intero complesso dei beni ereditari) non integra gli estremi della sostituzione fedecommissaria, ma quelli di una formale istituzione di erede, quando le disposizioni siano dirette e simultanee e non in ordine successivo, i chiamati non succedano l’uno all’altro, ma direttamente al testatore, e la consolidazione tra usufrutto e nuda proprietà costituisca un effetto non della successione, ma della vis espansiva della proprietà.

In tema di modifiche della scheda testamentaria, ad avviso di Sez. 2, n. 27414/2018, Scarpa, Rv. 650939-01, nel testamento olografo l’omessa o incompleta indicazione della data ne comporta l’annullabilità. Al contrario, l’apposizione di questa ad opera di terzi, se effettuata durante il confezionamento del documento, lo rende nullo perché, in tal caso, viene meno l’autografia dell’atto, senza che rilevi l’importanza dell’alterazione. Peraltro, l’intervento del terzo, se avvenuto in epoca successiva alla redazione, non impedisce al negozio mortis causa di conservare il suo valore tutte le volte che sia comunque possibile accertare la originaria e genuina volontà del de cuius.

Si tratta di una decisione che richiama un orientamento tradizionale di legittimità, come quello di Sez. 2, n. 20703/2013, Scalisi, Rv. 627712-01, estremamente severo con la partecipazione di soggetti diversi dal testatore nella predisposizione del testamento.

Secondo Sez. 2, n. 07178/2018, Carrato, Rv. 647862-01, che si ricollega a Sez. 2, n. 2132/1971, Persico, Rv. 352872-01, l’errore sul motivo, assunto dall’art. 624, comma 2, c.c. quale causa di annullamento di disposizioni testamentarie, si identifica in quello che cade sulla realtà obiettiva e non già sulla valutazione che di essa abbia fatto il testatore nel suo libero e insindacabile apprezzamento circa l’importanza e le conseguenze della realtà stessa, in relazione alle sue personali vedute e aspirazioni ed ai fini perseguiti nel dettare le sue ultime volontà, sicché tale soggettiva valutazione della realtà obiettiva è da qualificarsi come giuridicamente irrilevante.

Inoltre, con riferimento ai vizi del testamento, Sez. 2, n. 04653/2018, Picaroni, Rv. 647813-01, ha confermato il precedente di Sez. 2, n. 14011/2008, Mazzacane, Rv. 603416-01, per il quale, in tema di impugnazione di una disposizione testamentaria che si assuma effetto di dolo, per poterne configurare la sussistenza non è sufficiente qualsiasi influenza di ordine psicologico esercitata sul testatore mediante blandizie, richieste, suggerimenti o sollecitazioni, ma occorre la presenza di altri mezzi fraudolenti che – avuto riguardo all’età, allo stato di salute, alle condizioni di spirito dello stesso – siano idonei a trarlo in inganno, suscitando in lui false rappresentazioni ed orientando la sua volontà in un senso in cui non si sarebbe spontaneamente indirizzata. La relativa prova, pur potendo essere presuntiva, deve fondarsi su fatti certi che consentano di identificare e ricostruire l’attività captatoria e la conseguente influenza determinante sul processo formativo della volontà del testatore.

Nella stessa ottica, Sez. 6-2, n. 03934/2018, Criscuolo, Rv. 647981-01, ha dato seguito alla consolidata giurisprudenza, espressa da Sez. 2, n. 27351/2014, Mazzacane, Rv. 633616-01, per la quale l’incapacità naturale del testatore postula la esistenza non già di una semplice anomalia o alterazione delle facoltà psichiche ed intellettive del de cuius, bensì la prova che, a cagione di una infermità transitoria o permanente, ovvero di altra causa perturbatrice, il soggetto sia stato privo in modo assoluto, al momento della redazione dell’atto di ultima volontà, della coscienza dei propri atti o della capacità di autodeterminarsi. Peraltro, atteso che lo stato di capacità costituisce la regola e quello di incapacità l’eccezione, spetta a chi impugni il testamento dimostrare la dedotta incapacità, salvo che il testatore non risulti affetto da incapacità totale e permanente, nel qual caso grava, invece, su chi voglia avvalersene provarne la corrispondente redazione in un momento di lucido intervallo. Più specificamente, Sez. 2, n. 25053/2018, Giannaccari, Rv. 650673-01, ha chiarito che, mentre nell’ipotesi di infermità tipica, permanente ed abituale, l’incapacità del testatore si presume e l’onere della prova che il testamento sia stato redatto in un momento di lucido intervallo spetta a chi ne afferma la validità, qualora, invece, detta infermità sia intermittente o ricorrente, poiché si alternano periodi di capacità e di incapacità, non sussiste tale presunzione e, quindi, la prova dell’incapacità deve essere data da chi impugna il testamento.

Con una pronuncia di carattere processuale, Sez. 2, n. 27414/2018, Scarpa, Rv. 650939-02, ha confermato l’indirizzo, già seguito da Sez. 2, n. 8366/2012, Mazzacane V., Rv. 622459-01, per il quale la domanda giudiziale con cui la parte intenda fare accertare la nullità di un testamento, al fine di poterne disconoscere gli effetti, si pone, rispetto ad un’ipotetica domanda di annullamento di quel medesimo atto dipendente da un’invalidità meno grave, nei termini di maggiore a minore, sicché il giudice, in luogo della richiesta declaratoria di radicale nullità del testamento, può pronunciarne l’annullamento, ai sensi dell’art. 606, comma 2, c.c., ove quest’ultimo risulti fondato sugli stessi fatti, senza che la sentenza sia censurabile per il vizio di ultrapetizione. Al riguardo, non assume rilievo il principio di conservazione delle ultime volontà del defunto, non ricorrendo, nel caso in esame, una questione di interpretazione del testamento, bensì di qualificazione della suddetta domanda di nullità.

Vi sono state, altresì, delle statuizioni che hanno riguardato la materia, invero poco approfondita, della diseredazione.

Per Sez. 2, n. 26062/2018, Tedesco, Rv. 650779-01, poiché, al fine di giustificare l’interesse ad agire per fare accertare l’invalidità di una disposizione testamentaria, occorre che si possa vantare un diritto successorio in dipendenza della detta invalidità, tale posizione non è riconoscibile in capo a chi, potenziale successibile ex lege, sia stato validamente escluso, per diseredazione, dalla successione, atteso che l’invalidità colpisce, di regola, una o più singole disposizioni testamentarie, lasciando valide le altre, inclusa quella di esclusione.

Sul medesimo argomento è intervenuta pure, con considerazioni molto innovative, Sez. 2, n. 26062/2018, Tedesco, Rv. 650779-02, rilevando che la diseredazione, al pari dell’indegnità a succedere, ha efficacia meramente personale e non si estende ipso iure all’intera stirpe dell’escluso, nei cui confronti, pertanto, opera l’istituto della rappresentazione, salvo che il testatore disponga in modo diverso, escludendo dalla successione anche tutti i discendenti della persona diseredata. Nell’enunciare il principio, la S.C. ha confermato la decisione di merito, che aveva ritenuto che, con l’esclusione di fratelli e nipoti, la de cuius avesse manifestato la volontà di escludere dalla successione tutta la stirpe dei fratelli.

Quest’ultima sentenza è di un certo interesse perché sembra palesare la tendenza ad intendere la clausola di diseredazione in senso restrittivo, ricollegandosi essa ad elementi e valutazioni di carattere meramente soggettivo.

Con riferimento alla figura dell’esecutore testamentario ed all’esonero dello stesso dal suo ufficio, Sez. 2, n. 24218/2018, Giannaccari, Rv. 650644-01, ha ribadito che, in considerazione dell’espresso richiamo all’art. 710 c.c. contenuto nell’art. 750, ultimo comma, c.p.c., il provvedimento del presidente del tribunale è reclamabile davanti a quello della corte d’appello e la decisione assunta da quest’ultimo non è impugnabile in cassazione con ricorso straordinario ex art. 111 Cost.

Con una pronuncia che ha affrontato una questione non frequentemente esaminata, Sez. 2, n. 28272/2018, Criscuolo, Rv. 651381-02, ha dato seguito al lontano precedente di Sez. 2, n. 1823/1970, Pratis, Rv. 888031-01, in base al quale l’istituzione di erede subordinata alla prestazione, da parte dell’istituito, di assistenza al testatore fino alla morte va qualificata come condizionata ed è comunque valida, giacché la disposizione non cessa di essere condizionale solo perche l’evento contemplato dal testatore è destinato a diventare certo al momento del suo decesso. La S.C., nel negare che, in caso di istituzione condizionata di erede, potesse tenersi conto, ai fini dell’azione di riduzione, del valore della prestazione di assistenza resa, ha escluso la riconducibilità di una previsione siffatta a clausola testamentaria modale, considerato che, producendo l’onere i propri effetti obbligatori esclusivamente a fare data dall’apertura della successione, l’essere già venuti meno a tale epoca i beneficiari delle prestazioni ivi contemplate avrebbe reso effettivamente priva di efficacia la clausola de qua.

Infine, Sez. 2, n. 00169/2018, Criscuolo, Rv. 646665-01, ha affermato, in tema di revocazione del testamento per sopravvenienza di figli, che il disposto dell’art. 687, comma 1, c.c. ha un fondamento oggettivo, riconducibile alla modificazione della situazione familiare rispetto a quella esistente al momento in cui il de cuius ha disposto dei suoi beni, sicché, dovendo ritenersi che tale modificazione sussista non solo quando il testatore riconosca un figlio, ma anche ove venga esperita nei suoi confronti vittoriosamente l’azione di accertamento della filiazione, il testamento è revocato pure qualora si verifichi il secondo di questi eventi, in virtù del combinato disposto degli artt. 277, comma 1, c.c. e 687 c.c., senza che abbia rilievo che la dichiarazione giudiziale di paternità o la proposizione della relativa azione intervengano dopo la morte del de cuius o che quest’ultimo, durante la sua vita, non abbia voluto riconoscere il figlio, pur essendo a conoscenza della sua esistenza.

6. Il legato.

Per ciò che concerne le disposizioni mortis causa a titolo particolare, la S.C. ha affrontato varie questioni di diritto intertemporale, adottando un indirizzo volto a favorire l’efficacia delle disposizioni de quibus.

Secondo Sez. 6-2, n. 01468/2018, Criscuolo, Rv. 647348-01, in tema di legato, laddove sia in contestazione la risoluzione della disposizione a detto titolo gravante su tutti i coeredi, in ragione del preteso inadempimento del legatario alle obbligazioni su di lui gravanti a titolo di onere, sussiste litisconsorzio necessario tra i coeredi onerati, poiché l’eventuale accoglimento della domanda di risoluzione produce necessariamente i suoi effetti in favore di ogni coerede.

Qualora, poi, il legato sia in favore di un ente di assistenza che sia stato soppresso dopo l’apertura della successione e le cui funzioni amministrative e relativo patrimonio siano stati trasferiti ex lege ad altri enti, Sez. 2, n. 17481/2018, Scarpa, Rv. 649451-03, ha precisato che l’espressa definizione, ad opera del testatore, dello scopo perseguito dal predetto legato, imprimendo un vincolo di destinazione alle somme di denaro derivanti dalla vendita dei cespiti immobiliari che ne sono oggetto, può efficacemente assumere connotazione modale decisiva per l’individuazione dell’ente legittimamente chiamato alla successione, perché deputato ad assolvere tale scopo nel più ampio quadro dei propri fini istituzionali. In particolare, la S.C. ha ritenuto che all’Opera nazionale per la protezione della maternità e dell’infanzia, a vantaggio della quale era stato legato un immobile perché, col ricavato della sua vendita, venisse realizzata una struttura a tutela della maternità e dell’infanzia, fosse succeduto il Comune, rientrando tra le sue attribuzioni le funzioni relative agli asili nido e ai consultori familiari.

Inoltre, sempre con riguardo all’Opera nazionale per la protezione della maternità e dell’infanzia, Sez. 2, n. 17481/2018, Scarpa, Rv. 649451-01, ha chiarito che, per l’accettazione dei legati da parte della stessa, non è necessaria la preventiva autorizzazione governativa prevista dal previgente art. 1, comma 4, del r.d. n. 2316 del 1934, abrogato dall’art. 13, comma 1, della l. n. 127 del 1997, e ciò anche quando la relativa disposizione testamentaria sia precedente a tale abrogazione, poiché l’art. 1 della l. n. 192 del 2000, di modifica del citato art. 13, ha esteso la rimozione della summenzionata preventiva autorizzazione alle acquisizioni deliberate o verificatesi in data anteriore all’entrata in vigore della l. n. 127 del 1997, salvi i casi di rapporti già definiti mediante intervenuta autorizzazione prima di detta data.

Con riferimento alle successioni regolate dal codice civile del 1865, Sez. 2, n. 21480/2018, Casadonte, Rv. 650313-01, rifacendosi a Sez. 3, n. 2289/1968, Abbamondi, Rv. 334583-01, ha confermato che il vigente art. 551 c.c., che reca la disciplina del legato in sostituzione di legittima, ha carattere interpretativo, e non innovativo, ed è, quindi, applicabile anche alle successioni aperte sotto il vigore del codice civile del 1865.

Infine, Sez. 2, n. 18502/2018, Bellini, Rv. 649593-01, ha affermato che, in tema di legato di cosa dell’onerato che sia coerede, qualora il beneficiario eserciti l’azione di rivendica del bene non ricorre un’ipotesi di litisconsorzio necessario nei confronti di tutti gli eredi, dovendo la domanda essere proposta solo contro il suddetto onerato poiché la sentenza, anche se emessa senza la partecipazione al giudizio degli altri successori, non è inutiliter data.

7. La divisione ereditaria.

Nel corso dell’anno vi sono state varie pronunce riguardanti l’individuazione del criterio di assegnazione dei beni ereditari in presenza di una pluralità di masse e di immobili.

Da queste statuizioni sembra potersi evincere la tendenza, ragionevolmente destinata a rafforzarsi in futuro, a soddisfare, nei limiti del possibile, le esigenze dei singoli condividenti, interpretando in senso estensivo i poteri del giudice al momento della decisione, a condizione che sia garantita, comunque, la partecipazione di tutti gli interessati al giudizio, in particolare applicando in maniera rigida le regole sul litisconsorzio.

Si tratta di un tentativo della giurisprudenza di legittimità di interpretare le regole del codice civile e di quello di rito in modo da ottenere un processo giusto e, al contempo, celere, rispettando lo spirito dell’art. 111 Cost.

Pertanto, secondo Sez. 2, n. 20961/2018, Giannaccari, Rv. 650023-01, seguita sul punto da Sez. L, n. 24832/2018, Garri, Rv. 650727-01, che sviluppano una riflessione presente già in Sez. 2, n. 25603/2016, Abete, Rv. 639280-01, l’art. 720 c.c. non obbliga il giudice ad attenersi necessariamente al criterio della quota maggiore, ove uno o più immobili non siano comodamente divisibili, riconoscendogli la legge il potere discrezionale di derogare alla regola della preferenziale assegnazione al condividente titolare della maggior quota. Tale discrezionalità non subisce alcuna limitazione nemmeno quando la scelta vada effettuata tra il singolo titolare della quota maggiore e, congiuntamente, gli altri titolari delle quote inferiori, che sommate, tuttavia, superano la prima. Infatti, in questo caso, pur trovando preferibilmente applicazione il principio del favor divisionis (poiché la richiesta avanzata dal titolare della quota maggiore determinerebbe l’immediato scioglimento della comunione), vengono fatte salve le ragioni di opportunità, che devono essere esplicitate dal giudice di merito, quando ritenga di procedere all’assegnazione congiunta del bene.

Nelle divisioni di beni provenienti da titoli diversi e, perciò, appartenenti a distinte comunioni, Sez. 2, n. 25756/2018, Picaroni, Rv. 650835-01, ha ribadito, conformandosi a Sez. 2, n. 314/2009, Mazzacane, Rv. 606113-01, che si deve procedere a tante divisioni quante sono le masse, derivandone il litisconsorzio necessario tra i condividenti soltanto all’interno del giudizio di divisione relativo a ciascuna di esse. Al contrario, può esservi una unica divisione in presenza del consenso di tutte le parti, purché la circostanza risulti da uno specifico negozio. Come rilevato da Sez. 2, n. 27645/2018, Oliva, Rv. 651175-01, in questa eventualità non si realizza un’unica comunione e, pertanto, in ipotesi di divisione del complesso, ogni condividente fa valere, per ciascuna massa, i propri diritti, indipendentemente da quelli che gli competono sulle altre, dovendo trovare soluzione nell’ambito delle singole masse i problemi particolari relativi alla formazione dei lotti e alla comoda divisione dei beni immobili che vi sono inclusi.

Con riguardo all’istanza di assegnazione in proprietà esclusiva ed a quella di vendita del bene nel giudizio di divisione di beni immobili, Sez. 2, n. 26944/2018, Oliva, Rv. 650850-01, ha chiarito, rifacendosi al precedente di Sez. 2, n. 24728/2011, Mazzacane, Rv. 619765-01, che dette richieste sono da considerare fra loro antitetiche. Ne consegue che, ove la parte che in precedenza abbia avanzato la prima di tali istanze, abbia formulato, in sede di precisazione delle conclusioni, domanda di vendita, il giudice non può procedere all’assegnazione del bene in proprietà esclusiva, dovendosi presumere abbandonata la relativa precedente richiesta. Peraltro, non può assumere rilievo una eventuale modifica delle conclusioni formulata in comparsa conclusionale, attesa la limitata funzione di quest’ultima.

Per quanto concerne la formazione delle porzioni, Sez. 2, n. 09282/2018, Scarpa, Rv. 648088-01, ha precisato, nel solco di Sez. 2, n. 27405/2013, Matera, Rv. 628856-01, che, in tema di divisione ereditaria o di cose in comunione, non è necessario formare delle porzioni assolutamente omogenee, considerato che il diritto del condividente ad una porzione in natura dei beni compresi nelle categorie degli immobili, dei mobili e dei crediti in comunione non consiste nella realizzazione di una ripartizione quotistica delle singole entità appartenenti alla medesima categoria, ma nella proporzionale divisione dei beni rientranti nelle suddette tre categorie, dovendo evitarsi un eccessivo frazionamento dei cespiti. Pertanto, qualora nel patrimonio comune vi siano più immobili da dividere, spetta al giudice del merito accertare se il diritto della parte sia meglio soddisfatto attraverso il frazionamento delle singole entità immobiliari oppure per mezzo dell’assegnazione di interi immobili ad ogni condividente, salvo conguaglio.

Sez. 2, n. 00726/2018, Criscuolo, Rv. 647070-01, ha affermato, poi, che il giudice, nello scegliere, fra più progetti di divisione, quale approvare, ben può privilegiare quello che limita al massimo la misura dei conguagli, così assicurando che la quota sia prevalentemente formata in natura.

Con una pronuncia di rilievo pratico, Sez. 6-2, n. 14406/2018, Criscuolo, Rv. 649089-02, ha riconosciuto che la stima del diritto di abitazione spettante al coniuge superstite può avvenire attraverso i criteri relativi al diritto di usufrutto, nonostante tali diritti differiscano per le facoltà che ne sono oggetto e la relativa disciplina, poiché l’obiettiva attitudine del bene destinato a casa coniugale a soddisfare esigenze abitative comporta una sostanziale identità delle utilità ricavabili dall’immobile da parte dell’usufruttuario e dell’abitatore.

Si tratta di una decisione che sembra dettata principalmente da esigenze di semplificazione del contenzioso, tentando di fornire ai giudici di merito un indirizzo di base al quale conformarsi. Si dovrà valutare, in futuro, lo spazio che potrebbero ancora avere differenti sistemi di calcolo, ritenuti più congrui nei singoli casi dalle corti di merito.

Con riferimento alla resa dei conti di cui all’art. 723 c.c., Sez. 2, n. 18857/2018, Fortunato, Rv. 649703-01, ha confermato che questa, oltre che operazione inserita nel procedimento divisorio, può anche costituire un obbligo a sé stante, fondato – così come avviene in qualsiasi situazione di comunione – sul presupposto della gestione di affari altrui condotta da uno dei partecipanti. Ne consegue che l’azione di rendiconto può presentarsi pure distinta ed autonoma rispetto alla domanda di scioglimento della comunione, benché le due domande abbiano dato luogo ad un unico giudizio, sicché le medesime possono essere scisse e decise senza reciproci condizionamenti.

Nella stessa ottica, per Sez. 2, n. 25120/2018, Gorjan, Rv. 650675-01, che segue Sez. 2, n. 1458/2002, Triola, Rv. 552066-01, il rendiconto, ancorché per il disposto dell’art. 723 c.c. costituisca operazione contabile che deve necessariamente precedere la divisione, poiché preliminare alla determinazione della quota spettante a ciascun condividente, non si pone, tuttavia, in rapporto di pregiudizialità con la proposizione della domanda di divisione giudiziale. Infatti, tale divisione può essere chiesta ex art. 1111 c.c. a prescindere dal rendiconto medesimo, a tanto potendosi e dovendosi provvedere nel corso del giudizio. Il giudice non può, peraltro, disporre il rendiconto senza istanza delle parti, le quali devono indicare i presupposti di fatto del relativo obbligo, con la conseguenza che la detta istanza è soggetta al regime dell’art. 345 c.p.c.

Inoltre, Sez. 2, n. 15504/2018, Tedesco, Rv. 649257-01, ha chiarito che il compartecipe, il quale si ritenga proprietario per usucapione di un bene in comunione, non può iniziare il giudizio di divisione e, qualora sia stato in questo convenuto da uno o più degli altri comproprietari, deve fare valere l’avvenuta usucapione in tale giudizio poiché la divisione, accertando i diritti delle parti sulla base di una comunione di beni indivisi, presuppone il riconoscimento dell’appartenenza delle cose in comunione. Qualora egli, al contrario, non contesti il diritto alla divisione di quel determinato cespite o resti contumace, non può opporre successivamente l’usucapione al condividente cui detto bene sia stato assegnato o al terzo aggiudicatario dello stesso in seguito a vendita all’incanto, salvo che non possa impugnare la divisione contestandone il presupposto e deducendo un titolo di possesso diverso da ogni altro che possa derivargli dalla disciolta comunione.

È una pronuncia che mira a responsabilizzare le parti affinché esse prendano posizione immediatamente in ordine ai profili rilevanti del giudizio di divisione, in maniera che non sorgano successivamente ulteriori contenziosi.

Questa tendenza, come sopra accennato, è ormai palese e si ricollega all’esigenza di garantire un processo giusto, ma pure celere ex art. 111 Cost.

Sempre in relazione al rapporto con l’usucapione, Sez. 2, n. 10734/2018, Scarpa, Rv. 648439-01, ha ribadito che il coerede il quale, dopo la morte del de cuius, sia rimasto nel possesso del bene ereditario, può, prima della divisione, usucapire la quota degli altri eredi, senza necessità di interversione del titolo del possesso; a tal fine, egli, che già possiede animo proprio ed a titolo di comproprietà, è tenuto ad estendere il suo possesso in termini di esclusività, il che avviene quando il coerede medesimo goda del bene con modalità incompatibili con la possibilità di godimento altrui, così da evidenziare una inequivoca volontà di possedere uti dominus e non più uti condominus. La S.C. ha ritenuto, al riguardo, non univocamente significativo che egli abbia utilizzato ed amministrato il bene ereditario e che i coeredi si siano astenuti da analoghe attività, sussistendo la presunzione iuris tantum che abbia agito nella qualità e operato anche nell’interesse degli altri.

Con una pronuncia di carattere processuale, Sez. 6-2, n. 14406/2018, Criscuolo, Rv. 649089-01, ha confermato, rispettando il precedente di Sez. 2, n. 12242/2011, Carrato, Rv. 618059-01, che, nel giudizio di divisione di una comunione ereditaria, ove una quota abbia costituito oggetto di cessione, la qualità di litisconsorte necessario spetta ai cessionari della quota stessa e non agli eredi cedenti.

Secondo Sez. 2, n. 07178/2018, Carrato, Rv. 647862-02, in caso di divisione del patrimonio ereditario disposta direttamente dal testatore, la domanda di nullità proposta dal legittimario pretermesso nel testamento (o, in sostituzione del medesimo, da un suo erede) deve essere accolta qualora lo stesso legittimario (o un suo erede agente iure successionis), da considerarsi preterito per non essere stato compreso nella divisione, abbia positivamente esperito in via preventiva l’azione di riduzione.

Sez. 6-2, n. 04428/2018, Criscuolo, Rv. 647984-01, ha affermato, altresì, che la vendita di un bene, facente parte di una comunione ordinaria, da parte di uno solo dei comproprietari, ha effetto meramente obbligatorio, essendo la sua efficacia subordinata all’assegnazione del bene al venditore a seguito della divisione. Pertanto, fino a questo momento, poiché il bene continua a fare parte della comunione, l’acquirente può avvalersi esclusivamente dei diritti di cui all’art. 1113 c.c. e non è parte necessaria del giudizio di divisione, con la conseguenza che la sua mancata evocazione in giudizio comporta unicamente che la divisione non abbia effetto nei suoi confronti, ma non l’invalidità della sentenza pronunciata in sua assenza.

Con una decisione di elevato rilievo sistematico, poiché concernente i rapporti fra giudizio di divisione (e riduzione per lesione di legittima) e le preclusioni processuali, Sez. 2, n. 28272/2018, Criscuolo, Rv. 651381-01, ha affrontato un contrasto esistente all’interno della giurisprudenza di legittimità e lo ha risolto sancendo che, nel giudizio di riduzione per lesione della legittima, come anche in quello di divisione, è esclusa la possibilità di allegare ovvero provare, per la prima volta in appello, l’esistenza di altri beni idonei ad incidere sulla determinazione del relictum e, conseguentemente, dell’effettiva entità della lesione, dovendo il potere di specificazione della domanda manifestarsi nel rispetto delle preclusioni previste dal codice di rito. In applicazione di tale principio, la S.C. ha chiarito che, in appello, le richieste di ricostruzione del relictum e del donatum mediante l’inserimento di beni e liberalità o l’indicazione di pesi o debiti del de cuius sono ammissibili, nei limiti consentiti dagli elementi tempestivamente acquisiti con l’osservanza delle summenzionate preclusioni, trattandosi di operazioni alle quali il giudice è tenuto d’ufficio. La sentenza si è espressamente discostata dall’indirizzo seguito da Sez. 2, n. 26741/2017, Picaroni, Rv. 645959-01, e da Sez. 2, n. 13385/2011, Bucciante, Rv. 618334-01, mentre ha fatto proprio l’orientamento di Sez. 2, n. 22274/2013, Manna F., Rv. 627902-01, e Sez. 2, n. 29372/2011, Triola, Rv. 620778-01.

Viene così rafforzata la tendenza a ricondurre i giudizi di divisione e riduzione nell’ambito degli ordinari processi civili. L’influsso dell’art. 111 Cost. è palese, tentando la S.C. di concentrare in un unico giudizio tutte le questioni concernenti l’eredità, nell’ottica di valorizzare il dovere delle parti processuali di “parlare chiaro” fin da subito.

8. Il retratto successorio.

Per Sez. 2, n. 12504/2018, Giannaccari, Rv. 648754-01, che si conforma a Sez. 2, n. 6293/2015, Oricchio, Rv. 634733-01, il retratto successorio, previsto in tema di comunione ereditaria al fine di impedire l’intromissione di estranei nello stato di contitolarità determinato dall’apertura della successione mortis causa, non si applica nella situazione di comunione ordinaria conseguente alla congiunta attribuzione di un bene ad alcuni coeredi in sede di divisione, non potendo, peraltro, operare, in tal caso, l’art. 732 c.c., in virtù del rinvio di cui all’art. 1116 c.c., in quanto, per la comunione ordinaria, vige il principio di libera disposizione della quota, ai sensi dell’art. 1103 c.c.

Con riguardo al rapporto con la comunione legale dei beni, Sez. 6-2, n. 15271/2018, Criscuolo, Rv. 649214-01, ha chiarito che, qualora una quota di eredità sia stata alienata a persona, non facente parte della comunione, che sia, però, sposata, in regime di comunione legale, con uno dei coeredi, l’acquirente non può essere considerato soggetto estraneo ai fini dell’esercizio del diritto di prelazione previsto dall’art. 732 c.c. poiché tale quota rientra automaticamente ex art. 177 c.c. nella suddetta comunione legale e, pertanto, il regime proprietario conseguente alla cessione è identico a quello che sarebbe derivato se il cessionario fosse stato il coniuge coerede.

Questa ultima pronuncia riconosce, quindi, la prevalenza della normativa sulla comunione legale dei beni su quella del retratto successorio.

9. La collazione.

Ad avviso di Sez. 6-2, n. 09177/2018, Criscuolo, Rv. 648226-01, la collazione per imputazione si differenzia da quella in natura per il fatto che i beni già oggetto di donazione rimangono di proprietà del medesimo donatario, con la conseguenza che, ove il condividente abbia optato per la prima, la somma di denaro corrispondente al valore del bene donato, quale accertato con riferimento alla data di apertura della successione, viene sin da quel momento a far parte della massa ereditaria in sostituzione del donatum, costituendo, in tal modo, ab origine un debito di valuta a carico del donatario, cui si applica il principio nominalistico. Se ne ricava che anche gli interessi legali vanno rapportati al detto valore e decorrono dal medesimo momento.

Inoltre, Sez. 6-2, n. 01506/2018, Criscuolo, Rv. 647383-01, ha precisato che il presupposto dell’obbligo di collazione, ai sensi dell’art. 737 c.c., è che il soggetto ad esso tenuto abbia ricevuto beni o diritti a titolo di liberalità dal defunto, direttamente o indirettamente tramite esborsi effettuati da quest’ultimo. Ne deriva che, se, durante la vita del de cuius, il coerede ha acquistato direttamente dal venditore la nuda proprietà di un immobile dopo che questo era stato oggetto di un preliminare di vendita concluso dalla madre con prezzo interamente da lei pagato, in sede di divisione dell’eredità paterna non vi è alcun obbligo di collazione in relazione a quell’immobile, poiché il medesimo de cuius, sebbene fosse sposato in regime di comunione legale con la madre dell’acquirente, non ha mai acquistato il diritto reale trasferito al figlio né ha sostenuto esborsi affinché il figlio stesso lo acquistasse.

Infine, secondo Sez. 2, n. 08510/2018, Besso Marcheis, Rv. 648007-01, che riprende un orientamento esemplificato da Sez. 2, n. 15131/2005, Settimj, Rv. 582041-01, l’obbligo della collazione sorge automaticamente e i beni donati in vita dal de cuius devono essere conferiti indipendentemente da una espressa richiesta, essendo sufficiente, a tal fine, la proposizione della domanda di accertamento della lesione della quota di legittima e di riduzione e la menzione in essa dell’esistenza di determinati beni facenti parte dell’asse ereditario da ricostruire.

10. Le donazioni.

Innanzitutto, Sez. 2, n. 14504/2018, Criscuolo, Rv. 648848-01, ha ribadito l’orientamento di Sez. 2, n. 1867/1967, Iannitti Piromallo, Rv. 328787-01, secondo cui la donazione nulla, benché insuscettibile di sanatoria da parte del donante, può, tuttavia, essere rinnovata da quest’ultimo con efficacia ex nunc, mediante un altro atto dotato dei requisiti di forma e di sostanza prescritti dalla legge per porre in essere tale negozio traslativo.

Inoltre, per Sez. 3, n. 24160/2018, Rubino, Rv. 651128-01, l’attività con la quale il marito fornisce il denaro affinché la moglie divenga con lui comproprietaria di un immobile è riconducibile nell’ambito della donazione indiretta, così come, finché dura il matrimonio, i conferimenti patrimoniali eseguiti spontaneamente dal donante, volti a finanziare lavori nell’immobile, giacché tali conferimenti hanno la stessa causa della donazione indiretta. Tuttavia, dopo la separazione personale dei coniugi, analoga finalità non può automaticamente attribuirsi ai pagamenti fatti dal marito o alle spese sostenute per l’immobile in comproprietà poiché, in questo ultimo caso, non può ritenersi più sussistente la finalità di liberalità e le relative spese dovranno considerarsi quali esborsi sostenuti da uno dei comproprietari in regime di comunione, con l’applicazione delle regole ordinarie. Conseguentemente, il coniuge comproprietario potrà ripetere il 50% delle spese che ha sostenuto per la conservazione ed il miglioramento della cosa comune, purché abbia avvisato preliminarmente l’altro comproprietario ed a condizione che questi, a fronte di un intervento necessario, sia rimasto inerte.

In tema di liberalità d’uso, Sez. 2, n. 15334/2018, Criscuolo, Rv. 649079-01, ha dato seguito all’indirizzo tradizionale di Sez. 2, n. 18280/2016, D’Ascola, Rv. 641076-01, per il quale la liberalità d’uso prevista dall’art. 770, comma 2, c.c., che non costituisce donazione in senso stretto e non è soggetta alla forma propria di questa, trova fondamento negli usi invalsi a seguito dell’osservanza di un certo comportamento nel tempo, di regola in occasione di festività, ricorrenze, ricorrenze celebrative nelle quali sono comuni le elargizioni, tenuto in particolare conto dei legami esistenti tra le parti, il cui vaglio, sotto il profilo della proporzionalità, va operato anche in base alla loro posizione sociale ed alle condizioni economiche dell’autore dell’atto. In particolare, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto configurabile una liberalità d’uso nella sporadica elargizione di somme di denaro tra soggetti legati da una relazione sentimentale, pur in mancanza, tra di essi, dell’elemento della convivenza.

Sez. 2, n. 24235/2018, Tedesco, Rv. 650638-01, ha affermato che la donazione compiuta dal rappresentante privo di potere non può essere né ratificata né convalidata dagli eredi del donante, atteso che l’art. 1399 c.c. non è applicabile alla donazione e che la convalida ai sensi dell’art. 799 c.c. presuppone una donazione nulla, ma compiuta personalmente dal donante.

Con una statuizione di rilievo processuale Sez. 2, n. 24131/2018, Oliva, Rv. 650637-01, ha, poi, chiarito che l’azione di risoluzione della donazione modale per inadempimento dell’onere in essa stabilito a carico del donatario può essere proposta solo dal momento in cui si verifica tale inadempimento, purché questo non sia determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile all’obbligato, con la conseguenza che l’azione di risoluzione è soggetta alla prescrizione e al relativo termine, decorrente dall’epoca dell’inadempimento dell’onere e non dalla data di conclusione del contratto di donazione.

Infine, con riferimento alla problematica della revocazione per ingratitudine, Sez. 2, n. 20722/2018, Falaschi, Rv. 650019-01, ha precisato, sviluppando il precedente di Sez. 2, n. 22013/2016, Grasso G., Rv. 641570-01, che l’ingiuria grave richiesta, ex art. 801 c.c., quale presupposto necessario per la revocabilità di una donazione per ingratitudine, pur mutuando dal diritto penale la sua natura di offesa all’onore ed al decoro della persona, si caratterizza per la manifestazione esteriorizzata, ossia resa palese ai terzi, mediante il comportamento del donatario, di un durevole sentimento di disistima delle qualità morali e di irrispettosità della dignità del donante, contrastanti con il senso di riconoscenza che, secondo la coscienza comune, aperta ai mutamenti dei costumi sociali, dovrebbe, invece, improntarne l’atteggiamento. Perciò, in presenza di tali presupposti, resta indifferente la legittimità del comportamento del donatario. In particolare, la S.C. ha ritenuto ingiurioso il comportamento dei donatari che, in assenza di un’oggettiva giustificazione, avevano dapprima intimato, con lettera formale, alla donante il rilascio dell’immobile oggetto della donazione e successivamente agito a questo fine in giudizio, chiedendo, altresì, il pagamento di un’indennità di occupazione.

PARTE TERZA OBBLIGAZIONI, CONTRATTI E RESPONSABILITÀ (coordinata da Irene Ambrosi, Paola D'Ovidio e Paolo Spaziani)

  • contratto
  • obbligazione
  • responsabilità contrattuale

CAPITOLO VII

LE OBBLIGAZIONI IN GENERALE

(di Fabio Antezza )

Sommario

1 Premessa. - 2 Buona fede e correttezza: “contatto sociale qualificato” e responsabilità. - 3 Obbligo di buona fede oggettiva o di correttezza quale fonte di autonomo dovere giuridico. - 4 La natura contrattuale dell’obbligazione indennitaria ex lege in favore di soggetti detenuti o internati. - 5 Adempimento secondo diligenza e rapporti con i doveri di correttezza e buona fede dell’altro contraente. - 6 Correttezza, buona fede e solidarietà: inadempimento e valutazione della domanda risarcitoria. - 7 Dovere di correttezza e buona fede quale parametro per l’esercizio non abusivo del diritto. - 8 Principio di correttezza e buona fede ed azione giudiziale: parcellizzazione della domanda giudiziale e condanna per mala fede nel comportamento processuale. - 9 La compensazione. - 10 Disciplina dell’indebito oggettivo, compensazione e relativa eccezione. - 11 Compensazione e datio in solutum. - 12 La novazione.

1. Premessa.

Nel corso del 2018 la S.C. ha posto alla base di rilevanti decisioni in tema di obbligazioni il principio di correttezza e buona fede, quale espressione del generale principio di solidarietà sociale di cui all’art. 2 Cost.

Quanto innanzi è emerso con particolare riferimento non solo ai limiti dell’esercizio abusivo del diritto, alla stregua appunto del parametro della correttezza e della buona fede, ma anche in merito al “contatto sociale qualificato” ed alla relativa responsabilità, oltre che in ordine all’adempimento secondo diligenza ed ai rapporti con la correttezza e buona fede dell’altro contraente, nonché alla valutazione della domanda risarcitoria.

Il principio in considerazione, che deve improntare il rapporto tra le parti non solo durante l’esecuzione del contratto ma anche nell’eventuale fase dell’azione giudiziale per ottenere l’adempimento, ha costituito altresì limite alla parcellizzazione della domanda giudiziale, con conseguente condanna per mala fede nel comportamento processuale.

In tema di compensazione, infine, sono stati ulteriormente vagliati i rapporti tra la relativa disciplina, la disciplina dell’indebito oggettivo e l’eccezione di compensazione, oltre che quelli tra la compensazione e la datio in solutum.

2. Buona fede e correttezza: “contatto sociale qualificato” e responsabilità.

Il contatto sociale qualificato è inteso come fatto idoneo a produrre obbligazioni ex art. 1173 c.c., dal quale derivano, a carico delle parti, non obblighi di prestazione ai sensi art. 1174 c.c., bensì reciproci obblighi di buona fede, di protezione e di informazione, giusta gli artt. 2 Cost., 1175 e 1375 c.c.

Tale fatto, ha precisato, Sez. 3, n. 24071/2017, Olivieri, Rv. 645832-01, opera anche nella materia contrattuale, prescrivendo un autonomo obbligo di condotta che si aggiunge e concorre con l’adempimento dell’obbligazione principale, in quanto diretto alla protezione di interessi ulteriori della parte contraente, estranei all’oggetto della prestazione contrattuale, ma comunque coinvolti dalla realizzazione del risultato negoziale programmato

In materia di contratti pubblici, in particolare, l’erronea scelta del contraente di un contratto di appalto, divenuto inefficace e tamquam non esset per effetto dell’annullamento dell’aggiudicazione da parte del giudice amministrativo, espone la P.A. a dover corrispondere il risarcimento dei danni per le perdite e i mancati guadagni subiti dal privato aggiudicatario.

Tale responsabilità non è qualificabile né come aquiliana né come contrattuale in senso proprio, sebbene a questa si avvicini poiché consegue al “contatto” tra le parti nella fase procedimentale anteriore alla stipula del contratto ed origina dalla violazione dei doveri di buona fede e correttezza.

In questi termini si era già espressa Sez. 1, n. 24438/2011, Forte, Rv. 620472-01, per la quale, nella fattispecie di cui innanzi, l’Amministrazione, avendo indetto la gara e dato esecuzione ad un’aggiudicazione apparentemente legittima, provoca la lesione dell’interesse del privato, non qualificabile come interesse legittimo ma assimilabile a un diritto soggettivo, avente ad oggetto l’affidamento incolpevole nella regolarità e legittimità dell’aggiudicazione stessa.

Muovendo da siffatta ricostruzione della fonte della responsabilità da contatto sociale, fondata sui doveri di correttezza e buona fede, Sez. 1, n. 19775/2018, Cirese, Rv. 649953-01, ha confermato che il risarcimento del danno dovuto all’appaltatore necessita di essere parametrato non già alla conclusione del contratto bensì al c.d. interesse contrattuale negativo, che copre sia il danno emergente, ovvero le spese sostenute, che il lucro cessante. Quest’ultimo, però, deve essere riferito ad altre occasioni di contratto che la parte allega di avere perso e non deve intendersi alla stregua di mancato guadagno rispetto al contratto non eseguito.

Per converso, sempre muovendo dalla medesima ricostruzione, Sez. 1, n. 15707/2018, Di Marzio M., Rv. 649278-01, in tema di sollecitazione al pubblico risparmio, ha ritenuto di natura aquiliana la responsabilità per violazione delle regole destinate a disciplinare il prospetto informativo che correda l’offerta di prodotti finanziari. Tali regole, difatti, sono volte a tutelare un insieme ancora indeterminato di soggetti ed a consentire a ciascuno di essi la corretta percezione dei dati occorrenti al compimento di scelte consapevoli, non essendo ancora configurabile, al momento dell’emissione del prospetto, un contatto sociale con i futuri eventuali investitori.

3. Obbligo di buona fede oggettiva o di correttezza quale fonte di autonomo dovere giuridico.

L’obbligo di buona fede oggettiva o di correttezza costituisce un autonomo dovere giuridico, espressione del generale principio di solidarietà sociale, applicabile in ambito non solo contrattuale ma anche extracontrattuale. Esso difatti pone una regola di comportamento in base alla quale, nei rapporti della vita di relazione, ciascuno è tenuto ad un comportamento leale, volto alla salvaguardia dell’utilità altrui nei limiti dell’apprezzabile sacrificio (si veda, ex plurimis, Sez. 3, n. 10182/2009, Vivaldi, Rv. 608010-01).

Argomentando dalla ricostruzione di cui innanzi in termini di violazione dell’autonomo dovere giuridico fondato sull’obbligo di buona fede oggettiva o di correttezza, Sez. 3, n. 02057/2018, Scarano, Rv. 647906-01, ha ritenuto fonte di responsabilità extracontrattuale il comportamento dell’INPDAP che aveva liquidato per intero al debitore l’indennità di buona uscita, pretendendo, per l’opponibilità dell’assegnazione nei suoi confronti, l’instaurazione di un nuovo pignoramento presso terzi, tenuto conto che in tale ipotesi non ricorre una cessione del debito (o una novazione soggettiva), ma una semplice delegazione di pagamento.

Quanto innanzi è stato in particolare statuito dall’ordinanza da ultimo citata in fattispecie caratterizzata dall’aver il creditore già avuto, all’esito di un procedimento ex art. 543 c.p.c., l’assegnazione nei confronti del Ministero, terzo pignorato, di un quinto dello stipendio e dell’eventuale t.f.r. del debitore, dipendente pubblico, con conseguente invio all’ente previdenziale, da parte del Ministero, di copia del provvedimento di assegnazione, con il riepilogo della situazione debitoria, “per l’ulteriore seguito di competenza”.

4. La natura contrattuale dell’obbligazione indennitaria ex lege in favore di soggetti detenuti o internati.

In ragione dello stretto rapporto che si instaura tra lo Stato ed il detenuto, la violazione dell’art. 3 CEDU nei confronti di soggetti detenuti determina una responsabilità di tipo contrattuale, sicché quella indennitaria di cui all’art. 35-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354, è un’obbligazione ex lege di cui all’art. 1173 c.c..

Dalla premessa di cui innanzi Sez. 3, n. 31556/2018, Fiecconi, Rv. 651946-01, ne ha fatto derivare, sotto il profilo del riparto dell’onere probatorio, la spettanza in capo all’Amministrazione penitenziaria, chiamata a rispondere della violazione di obblighi di protezione e di norme di comportamento, l’onere di provare l’adempimento conforme ai principi della Convenzione.

Per converso, graverà in capo al detenuto l’onere di provare il danno lamentato ed il nesso causale tra quest’ultimo ed il dedotto inadempimento. Ferma restando però la possibilità di avvalersi, oltre che delle presunzioni e del principio di non contestazione, dei poteri integrativi ed officiosi del giudice, propri del rito camerale prescelto dal legislatore. Tra essi, in particolare, si annovera il potere di assumere informazioni previsto dall’art. 738, comma 3, c.p.c., che costituisce – in funzione della salvaguardia del principio di effettività della tutela giurisdizionale di diritti di indubbia matrice costituzionale e convenzionale – utile meccanismo riequilibratore nell’ambito di un procedimento caratterizzato da una situazione di squilibrio tra la parte pubblica, titolare della potestà punitiva, e il soggetto privato che la subisce.

Proprio muovendo dall’assunto per il quale quello di cui al citato art. 35-ter è un indennizzo che ha origine nella violazione di obblighi gravanti ex lege sull’Amministrazione penitenziaria, Sez. U., n. 11018/2018, Curzio, Rv. 648270-01, ha chiarito che si prescrive in dieci anni il diritto alla somma di denaro pari ad otto euro per ciascuna giornata di detenzione in condizioni non conformi ai criteri di cui all’art. 3 della CEDU. Il detto termine decorre altresì dal compimento di ciascun giorno di detenzione nelle su indicate condizioni, salvo che per coloro che abbiano cessato di espiare la pena detentiva prima del 28 giugno 2014 (data di entrata in vigore del citato art. 35 ter), rispetto ai quali, se non sono incorsi nelle decadenze previste dall’art. 2 del d.l. 26 giugno 2014, n. 92 (che ha introdotto il detto art. 35 ter), il termine comincia a decorrere solo da tale data.

5. Adempimento secondo diligenza e rapporti con i doveri di correttezza e buona fede dell’altro contraente.

La S.C. ha evidenziato i rapporti tra inadempimento contrattuale di un contraente e dovere di buona fede e correttezza dell’altro contraente, nella specie, con particolare riferimento a prestazione d’opera professionale del notaio.

Il notaio, al momento della stipula di un mutuo ipotecario, deve essere certo dell’identità personale delle parti, secondo regole di diligenza qualificata, prudenza e perizia professionale.

A tal fine, come ha precisato Sez. 3, n. 13362/2018, Scarano, Rv. 648795-01, l’identificazione della parte fondata, oltre che sull’esame della carta d’identità (o altro documento equipollente), anche sul confronto della corrispondenza dei dati identificativi della persona con quelli riportati nella documentazione approntata dalla banca ai fini dell’istruttoria della pratica di mutuo, consente di ritenere adempiuto il suddetto obbligo professionale.

Per converso, ha proseguito la S.C., è contrario a buona fede o correttezza il comportamento della banca che, dopo aver predisposto la documentazione per la stipula del mutuo comprensiva anche dei dati identificativi del mutuatario, si dolga della erronea identificazione compiuta dal notaio sulla base dell’apparente regolarità della carta d’identità.

6. Correttezza, buona fede e solidarietà: inadempimento e valutazione della domanda risarcitoria.

I principi di correttezza e buona fede nonché di solidarietà, anche nel 2018, sono stati posti dalla S.C. alla base non solo della valutazione della condotta dei contraenti ma anche della domanda risarcitoria.

La banca mutuante che segnali al gestore dell’archivio dei debitori insolventi (cosiddetto CRIF) il nominativo del mutuatario, il cui inadempimento all’obbligo di restituzione della somma mutuata si riveli essere, al momento della segnalazione stessa, conseguenza di un disguido ad esso non imputabile, integra la violazione del fondamentale dovere di solidarietà inerente al rapporto contrattuale, in forza del quale ciascun contraente è tenuto a non pregiudicare ingiustificatamente le ragioni dell’altro.

Nei termini suddetti Sez. 1, n. 09385/2018, Di Marzio P., Rv. 648448-01, ha confermato l’orientamento fatto proprio, con specifico riferimento ai rapporti tra banca e mutuatario, da Sez. 1, n. 23033/2011, Rordorf, Rv. 620483-01, nonché il più generale assunto per il quale correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto, espressione del dovere di solidarietà, fondato sull’art. 2 della Costituzione, impongono a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra e costituisce un dovere giuridico autonomo a carico delle parti contrattuali, a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da norme di legge.

La relativa violazione, quindi, costituisce di per sé inadempimento e può comportare l’obbligo di risarcire il danno che ne sia derivato.

In tal senso si veda anche Sez. 1, n. 21250/2008, Panzani, Rv. 604664-01, che ha cassato la sentenza di merito che, discostandosi da tale principio, aveva escluso che l’improvvisa revoca da parte della banca di un affidamento potesse essere qualificato come illegittimo o potesse in ogni caso costituire titolo per l’azione di danni.

Parimenti, ancorché in tema di assicurazione obbligatoria della responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli a motore (ex art. 145 del d.lgs. n. 209 del 2005), Sez. 3, n. 01829/2018, Fanticini, ha chiarito che non può essere proposta azione risarcitoria dal danneggiato che, in violazione dei principi di correttezza (art. 1175 c.c.) e buona fede (art. 1375 c.c.), con la propria condotta abbia impedito all’assicuratore di compiere le attività volte alla formulazione di una congrua offerta ai sensi dell’art. 148 del medesimo Codice della assicurazioni private.

Con particolare riferimento alla valutazione della domanda risarcitoria, invece, Sez. 3, n. 17724/2018, Di Florio, Rv. 650180-01, ha confermato che, in tema di danno non patrimoniale da “vacanza rovinata”, il quale, secondo quanto espressamente previsto in attuazione della direttiva n. 90/314/CEE, costituisce uno dei casi previsti dalla legge ai sensi dell’art. 2059 c.c. di pregiudizio risarcibile, spetta al giudice di merito procedere alla valutazione della domanda risarcitoria alla stregua dei generali precetti di correttezza e buona fede e alla considerazione dell’importanza del danno, fondata sul bilanciamento, per un verso, del principio di tolleranza delle lesioni minime e, per l’altro, della condizione concreta delle parti.

Così statuendo la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza impugnata, per omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione fra le parti, consistente nell’omessa valutazione della ripercussione negativa del tardivo ritrovamento del bagaglio sulla prosecuzione del periodo di vacanza.

Il danno in esame, difatti, richiede la verifica della gravità della lesione e della serietà del pregiudizio patito dall’istante, al fine di accertarne la compatibilità col principio di tolleranza delle lesioni minime (precipitato, a propria volta, del dovere di solidarietà sociale previsto dall’art. 2 Cost.). Essa si traduce in un’operazione di bilanciamento demandata al prudente apprezzamento del giudice di merito, il quale, dalla constatazione della violazione della norma di legge che contempla il diritto oggetto di lesione, attribuisce rilievo solo a quelle condotte che offendono in modo sensibile la portata effettiva dello stesso (Sez. 3, n. 14662/2015, Amendola A., Rv. 636373-01).

7. Dovere di correttezza e buona fede quale parametro per l’esercizio non abusivo del diritto.

Il rispetto del dovere di correttezza e buona fede segna anche il limite all’esercizio del diritto tale da escluderne l’abusività.

L’abuso del diritto non è difatti ravvisabile nel solo fatto che una parte del contratto abbia tenuto una condotta non idonea a salvaguardare gli interessi dell’altra, quando tale condotta persegua un risultato lecito attraverso mezzi legittimi. Esso è invece configurabile allorché il titolare di un diritto soggettivo, pur in assenza di divieti formali, lo eserciti con modalità non necessarie ed irrispettose del dovere di correttezza e buona fede, causando uno sproporzionato ed ingiustificato sacrificio della controparte contrattuale, ed al fine di conseguire risultati diversi ed ulteriori rispetto a quelli per i quali quei poteri o facoltà sono attribuiti.

Nel confermare il principio di cui innanzi, Sez. L, n. 15885/2018, Negri Della Torre, Rv. 649311-01, ha ritenuto esente da critiche la sentenza di merito che aveva escluso configurasse un abuso il trasferimento, in sedi lontane e disagiate, di alcuni lavoratori che avevano scelto di non aderire ad una proposta di conciliazione per l’accettazione della mobilità in una condizione di libera autodeterminazione e nella consapevolezza delle conseguenze di ciascuna delle opzioni esistenti.

In senso conforme si è in precedenza espressa anche Sez. L. n. 10568/2013, Napoletano, Rv. 626199-01, per la quale, in applicazione del principio, nel contratto di agenzia, l’abuso del diritto è da escludere, allorché il recesso non motivato dal contratto sia consentito dalla legge, la sua comunicazione sia avvenuta secondo buona fede e correttezza e l’avviso ai clienti si prospetti come doveroso.

È stata altresì ritenuta non “abusiva”, in applicazione del medesimo principio, la condotta del locatore di un immobile, avente la veste di società commerciale, che aveva ceduto le proprie quote ad altra società commerciale, per poi fondersi per incorporazione in essa, disattendendo la domanda del conduttore secondo cui tale condotta era volta a dissimulare un trasferimento a titolo oneroso dell›immobile locato, e quindi a privarlo della facoltà di esercitare il diritto di prelazione (Sez. 3, n. 08567/2012, Amatucci, Rv. 622633-01).

8. Principio di correttezza e buona fede ed azione giudiziale: parcellizzazione della domanda giudiziale e condanna per mala fede nel comportamento processuale.

Il principio di correttezza e buona fede deve improntare il rapporto tra le parti non solo durante l’esecuzione del contratto ma anche nell’eventuale fase dell’azione giudiziale per ottenere l’adempimento.

L’esigenza di non violare il detto principio, oltre che quello costituzionale del giusto processo, impedisce al creditore di una determinata somma di denaro, dovuta in forza di un unico rapporto obbligatorio, di frazionare il credito in plurime richieste giudiziali di adempimento, contestuali o scaglionate nel tempo, per sua esclusiva utilità e con unilaterale modificazione aggravativa della posizione del debitore.

Tale scissione del contenuto della obbligazione, ha proseguito Sez. 6-2, n. 19898/2018, Falaschi, Rv. 650068-01, attuata mediante la parcellizzazione della domanda giudiziale diretta alla soddisfazione della pretesa creditoria, si traduce in un abuso degli strumenti processuali che l’ordinamento offre alla parte, nei limiti di una corretta tutela del suo interesse sostanziale, con conseguente improcedibilità delle relative domande.

La citata ordinanza ha confermato l’orientamento frutto dell’intervento nomofilattico di Sez. U., n. 23726/2007, Morelli, Rv. 599317-01.

Quest’ultima sentenza aveva altresì precisato che la relativa domanda di condanna della controparte al risarcimento dei danni per malafede nel comportamento processuale (consistente, nella specie, proprio nel frazionamento di un unico credito in molteplici domande giudiziali) deve qualificarsi come domanda di condanna per lite temeraria ai sensi dell’art. 96 c.p.c., attenendo esclusivamente al profilo del regolamento delle spese processuali senza incidere sul valore della controversia. Così statuendo, le citate Sez. U. avevano ritenuto ammissibile il ricorso avverso la sentenza del giudice di pace pronunciata secondo equità in una controversia in cui la domanda principale, ove non sommata a quella di risarcimento danni per il comportamento processuale della controparte, si sarebbe mantenuta nei limiti fissati dall’art. 113 c.p.c.

Le domande aventi ad oggetto diversi e distinti diritti di credito, benché relativi ad un medesimo rapporto di durata tra le parti, possono comunque essere proposte in separati processi.

Ove però le suddette pretese creditorie, oltre a far capo ad un medesimo rapporto tra le stesse parti, siano anche, in proiezione, inscrivibili nel medesimo ambito oggettivo di un possibile giudicato o, comunque, fondate sullo stesso fatto costitutivo (sì da non poter essere accertate separatamente se non a costo di una duplicazione di attività istruttoria e di una conseguente dispersione della conoscenza dell’identica vicenda sostanziale), le relative domande possono essere formulate in autonomi giudizi solo se risulti in capo al creditore un interesse oggettivamente valutabile alla tutela processuale frazionata.

Laddove invece manchi la corrispondente deduzione del detto interesse, il giudice che intenda farne oggetto di rilievo dovrà indicare la relativa questione ex art. 183, c.p.c., riservando, se del caso, la decisione con termine alle parti per il deposito di memorie ex art. 101, comma 2, c.p.c.

In tal senso si sono espresse Sez. U., n. 04090/2017, Di Iasi, Rv. 643111-01, oltre che, tra le più recenti, Sez. 2, n. 17893/2018, D’Ascola, Rv. 649387-01, nonché, con particolare riferimento alla necessità dell’oggettivo interesse al frazionamento del credito, Sez. 2, n. 20714/2018, Besso Marcheis, Rv. 650013-01.

Medesimi principi governano poi anche la materia del risarcimento dei danni da responsabilità civile.

Il danneggiato, a fronte di un unitario fatto illecito produttivo di danni a cose e persone, non può frazionare la tutela giudiziaria, agendo separatamente per il risarcimento dei relativi danni, neppure mediante riserva di farne valere ulteriori e diversi in altro procedimento, trattandosi di condotta che aggrava la posizione del danneggiante-debitore, ponendosi in contrasto al generale dovere di correttezza e buona fede e risolvendosi in un abuso dello strumento processuale, salvo che risulti in capo all’attore un interesse oggettivamente valutabile alla tutela processuale frazionata.

Nella specie, Sez. 3, n. 17019/2018, Saija, Rv. 649441-02, ha confermato la decisione impugnata che aveva ritenuto illegittima la condotta processuale dell’attore il quale, dopo aver proposto una prima azione di risarcimento per i danni materiali subiti in occasione di un sinistro stradale, ne aveva proposta una seconda per quelli alla persona, nonostante che alla data dell’esercizio della prima azione l’intero panorama delle conseguenze dannose fosse pienamente emerso.

L’ordinanza da ultimo citata, infine, ha confermato l’orientamento per il quale la violazione del divieto di promuovere separati giudizi per domandare il risarcimento di danni differenti causati dal medesimo fatto illecito ha per conseguenza l’inammissibilità della sola domanda di risarcimento proposta per seconda. Per converso, deve ritenersi ammissibile la domanda di risarcimento proposta per prima, anche se abbia ad oggetto una parte soltanto del pregiudizio patito dalla vittima, in quanto è sempre facoltà del creditore chiedere l’adempimento parziale dell’obbligazione (in senso conforme si veda Sez. 6-3, n. 22503/2016, Rossetti, Rv. 642994-01).

9. La compensazione.

In tema di compensazione dei crediti, se è controversa, nel medesimo giudizio instaurato dal creditore principale o in altro già pendente, l’esistenza del controcredito opposto in compensazione, il giudice non può pronunciare la compensazione, neppure quella giudiziale, perché quest’ultima, ex art. 1243, comma 2, c.c., presuppone l’accertamento del controcredito da parte del giudice dinanzi al quale è fatta valere, mentre non può fondarsi su un credito la cui esistenza dipenda dall’esito di un separato giudizio in corso e prima che il relativo accertamento sia divenuto definitivo.

Con la statuizione di cui innanzi Sez. 3, n. 31359/2018, Rossetti, Rv. 651827-01), ha aderito all’orientamento proprio di Sez. U., n. 23225/2016, Chiarini, Rv. 641764-01. Quest’ultima ha altresì chiarito che, nell’ipotesi descritta, resta esclusa la possibilità di disporre la sospensione della decisione sul credito oggetto della domanda principale, ed è parimenti preclusa l’invocabilità della sospensione contemplata in via generale dall’art. 295 c.p.c. o dall’art. 337, comma 2, c.p.c, in considerazione della prevalenza della disciplina speciale dell’art. 1243 c.c.

Sempre in tema di compensazione, Sez. 1, n. 17277/2018, Di Marzio M., Rv. 649515-01, ha statuito che nel giudizio introdotto ai sensi dell’art. art. 35-ter, comma 3, della l. n. 354 del 1975, il Ministero della giustizia, convenuto dal detenuto per il risarcimento dei danni patiti a causa delle condizioni di detenzione, non può opporre in compensazione il credito maturato verso il medesimo detenuto per le spese di mantenimento fintanto che non si sia consumata la facoltà dell’interessato di chiedere la remissione del debito, posto che prima della definizione del procedimento previsto dall’art. 6 del d.P.R. n. 115 del 2002, il controcredito della P.A. non è certo ed esigibile.

Il debito del soggetto che, a seguito di revocatoria fallimentare, sia tenuto alla restituzione di una somma ricevuta dal fallito sorge con la sentenza di accoglimento della domanda di revoca e nei confronti della massa dei creditori, con la conseguenza che detto debito non può essere opposto in compensazione con crediti vantati verso il fallito, ancorché ammessi al passivo, perché la compensazione è consentita solo tra i debiti ed i crediti verso il fallito medesimo.

In applicazione del principio da ultimo evidenziato, Sez. 1, n. 30824/2018, Terrusi, Rv. 651883-01, ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto non compensabile il debito restitutorio di un soggetto nei confronti del fallimento, conseguente all’intervenuta dichiarazione di inefficacia di un atto di liberalità ex art. 64 l. fall., con il credito da lui stesso vantato nei confronti del fallito ancorché ammesso al passivo.

10. Disciplina dell’indebito oggettivo, compensazione e relativa eccezione.

Qualora venga acclarata la mancanza di una causa adquirendi in ragione della dichiarazione di nullità, dell’annullamento, della risoluzione o della rescissione di un contratto o del venire comunque meno del vincolo originariamente esistente, l’azione accordata dalla legge per ottenere la restituzione di quanto prestato in esecuzione del contratto stesso è quella di ripetizione di indebito oggettivo.

Premesso quanto innanzi, Sez. 2, n. 00715/2018, Criscuolo, Rv. 647258-01, ha proseguito ritenendo non contrario al principio di corrispondenza fra chiesto e pronunciato l’accoglimento da parte del giudice delle richieste restitutorie in conseguenza del rilievo di ufficio della nullità del contratto, anche laddove fosse stata inizialmente proposta domanda di risoluzione, dovendosi escludere che la correlazione operata dalla parte tra la suddetta domanda di ripetizione ed una specifica e differente causa di caducazione del contratto impedisca la condanna alla ripetizione dell’indebito.

Facendo applicazione del medesimo principio Sez. 1, n. 06664/2018, Nazzicone, Rv. 648251-02, ha ritenuto che, accertata la nullità del contratto d’investimento, il venir meno della causa giustificativa delle attribuzioni patrimoniali comporti l’applicazione della disciplina dell’indebito oggettivo, di cui agli artt. 2033 ss. c.c. Ne consegue il sorgere dell’obbligo restitutorio reciproco, subordinato alla domanda di parte ed all’assolvimento degli oneri di allegazione e di prova, avente ad oggetto, da un lato, le somme versate dal cliente alla banca per eseguire l’operazione e, dall’altro lato, i titoli consegnati dalla banca al cliente e gli altri importi ricevuti a titolo di frutti civili o di corrispettivo per la rivendita a terzi, a norma dell’art. 2038 c.c., con conseguente applicazione della compensazione fra i reciproci debiti sino alla loro concorrenza.

L’ordinanza in esame ha peraltro chiarito che in tema di giudizi aventi ad oggetto rapporti di intermediazione finanziaria, ove sia stata dichiarata la nullità del contratto quadro su domanda dell’investitore, non è precluso all’intermediario, che pure non abbia proposto la domanda di nullità anche degli ordini positivamente conclusi per il proprio cliente, di sollevare l’eccezione di compensazione con riguardo all’intero credito restitutorio che gli deriva, in tesi, dal complesso delle operazioni compiute nell’ambito del contratto quadro dichiarato nullo (Sez. 1, n. 06664/2018, Nazzicone, Rv. 648251-01).

11. Compensazione e datio in solutum.

In tema di compensazione e datio in solutum, infine, Sez. T, n. 16533/2018, Federici, Rv. 649200-01 ha ritenuto che la convenzione di lottizzazione sia un accordo endoprocedimentale di diritto pubblico, volto al conseguimento dell’autorizzazione urbanistica o edilizia, il quale non costituisce un contratto a prestazioni corrispettive, mancando tra le stesse una corrispondenza di natura negoziale. Ne consegue l’inapplicabilità dell’istituto della compensazione e l’operatività della datio in solutum, atteso che l’obbligazione relativa all’esecuzione delle opere concordate con l’ente territoriale si estingue solo al momento della realizzazione delle medesime.

12. La novazione.

In tema di novazione, rileva la conferma dell’orientamento per il quale in presenza di una pluralità di contratti a tempo determinato, qualora il primo contratto della serie sia dichiarato illegittimo, con conseguente trasformazione del rapporto a termine in rapporto a tempo indeterminato, la stipulazione dei successivi contratti non incide sulla già intervenuta trasformazione del rapporto.

È fatta salva però la prova, ha proseguito Sez. L, n. 05714/2018, Amendola F., Rv. 647524-01, di una novazione ovvero di una risoluzione anche tacita del medesimo, sicché, una volta accertata con sentenza passata in giudicato la sussistenza tra le parti di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, ogni successiva stipulazione di contratti a termine intervenuta medio tempore, così come il contenzioso giudiziale pendente relativo ad essi, non può incidere su detto accertamento (in senso sostanzialmente conforme la precedente Sez. L, n. 00903/2014, Tria, Rv. 629258-01).

  • contratto
  • risoluzione di contratto
  • responsabilità
  • responsabilità contrattuale
  • diritto di recesso
  • clausola contrattuale

CAPITOLO VIII

IL CONTRATTO IN GENERALE

(di Francesco Cortesi )

Sommario

1 Brevi premesse. - 2 L’accordo delle parti. - 3 La causa. - 3.1 La teoria della “causa concreta”. - 3.2 Causa concreta e meritevolezza degli interessi. - 3.3 Causa concreta e collegamento negoziale. - 4 La forma. - 5 Trattative e responsabilità precontrattuale. - 6 Buona fede nell’esecuzione della prestazione. - 6.1 In generale. - 6.2 Buona fede in pendenza della condizione. - 6.3 Applicazioni del principio di buona fede nell’esecuzione della prestazione. - 7 Interpretazione ed integrazione del contratto. - 8 Contratto preliminare ed esecuzione in forma specifica dell’obbligo di contrarre. - 9 Risoluzione e recesso. - 9.1 Operatività della risoluzione giudiziale. - 9.2 Risoluzione stragiudiziale e suoi presupposti. - 9.3 Recesso ed altre ipotesi di scioglimento. - 10 Invalidità ed inefficacia. - 10.1 Invalidità del contratto e poteri del giudice. - 10.3 Inefficacia del contratto e delle singole clausole.

1. Brevi premesse.

Nel 2018 la Suprema Corte è più volte intervenuta su temi concernenti la disciplina generale del contratto.

Meritano attenzione, anzitutto, le pronunzie che hanno riguardato gli elementi essenziali del contratto, ed in particolare il tema dell’accordo delle parti, della causa e della forma.

Con riferimento a tali istituti, infatti, la Corte ha in parte ribadito – in alcuni casi specificandone la portata – principî già affermati da precedenti decisioni, ed in parte si è attestata su posizioni più innovative, tenendo conto delle mutate prospettive di tutela degli interessi sottesi al contratto, alla luce delle prassi negoziali più diffuse nonché, in alcuni casi, delle esperienze presenti in altri ordinamenti, di cultura giuridica comune al nostro. Si colloca in quest’ultimo ambito, in particolare, il novero delle pronunzie che muovono dall’ormai acquisita riconduzione della nozione di causa del contratto alla teoria della “causa concreta”, improntata sulla considerazione dello scopo pratico dell’affare piuttosto che sulla predeterminazione causale del negozio alla luce della funzione economico-sociale stabilita dal legislatore.

Destano poi interesse le sentenze che si sono occupate del tema della responsabilità precontrattuale e della sua collocazione sistematica; a detta questione, infatti, la stessa giurisprudenza di legittimità non è estranea, a partire da alcune decisioni degli ultimi anni che hanno ricondotto il dovere di comportarsi secondo buona fede nelle trattative precontrattuali al modello della responsabilità “da contatto sociale”, con le note conseguenze in termini di riparto dell’onere probatorio e di prescrizione del diritto.

Diverse pronunzie, inoltre, documentano l’attualità del dibattito sul ruolo della buona fede nell’interpretazione e nell’esecuzione del contratto, cui si richiama la soluzione di problemi specifici connessi all’individuazione dell’esatto contenuto della responsabilità contrattuale.

Ancora, è affrontato il tema del contratto preliminare, in particolar modo dalla prospettiva dell’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di contrarre e del relativo giudizio.

Da ultimo, vengono richiamate le decisioni che hanno riguardato il tema dell’invalidità e dell’inefficacia del contratto, con riferimento tanto all’intero negozio quanto a singole clausole di esso, e con particolare attenzione al tema della rilevabilità d’ufficio di una causa di nullità del contratto da parte del giudice.

2. L’accordo delle parti.

In merito alla conclusione del contratto si segnalano due pronunzie relative al perfezionamento del contratto mediante esecuzione della prestazione, che si richiamano entrambe al principio della disponibilità degli interessi.

Sez. 2, n. 13033/2018, Dongiacomo, Rv. 648760-01, nel muovere dal rilievo secondo cui la pattuizione di una determinata forma per l’accettazione, ex art. 1326, comma 4, c.c., è posta nell’esclusivo interesse del proponente, per le esigenze di certezza e di agevolazione della prova di cui lo stesso ha necessità o da cui trae utilità, ha conseguentemente affermato che il medesimo proponente può rinunciare al rispetto della forma pattuita, e ritenere così sufficiente un’adesione manifestata in modo diverso (consistita, in specie, nell’esecuzione della prestazione contrattuale tipica anziché nell’accettazione per iscritto), ove la legge non richieda una forma particolare per la validità dell’accordo.

D’altro canto, Sez. 2, n. 21550/2018, Fortunato, Rv. 650069-01, ha affermato che il pagamento, effettuato da una parte all’altra in forza di una clausola contrattuale nulla, può costituire valida forma di conclusione del contratto mediante inizio dell’esecuzione ove le parti, consapevoli della causa di nullità, intendano rimuoverla, ponendo nel nulla le patologie da cui il contratto era inizialmente affetto con un comportamento idoneo ad esternare un tale intento negoziale; in mancanza di tale prova, il pagamento effettuato dal soggetto che se ne era assunto invalidamente l’obbligo resta qualificabile come adempimento del contratto nullo, tale perciò da legittimare la restituzione di quanto versato in applicazione dei principî dell’indebito oggettivo.

3. La causa.

3.1. La teoria della “causa concreta”.

La giurisprudenza di legittimità ha da tempo evidenziato la centralità del ruolo del giudice nella qualificazione del contratto, ovvero nella definizione, in base ai fatti dedotti in lite, della natura del rapporto contrattuale, sì da precisarne il contenuto, gli effetti e le norme applicabili.

Tale qualificazione presuppone un’indagine sulla causa del contratto, che va condotta, secondo un orientamento ormai consolidato, non sulla base della funzione economico-sociale assegnata dal legislatore al modello negoziale in esame, ma con riguardo alle esigenze concrete dello specifico contratto (lo “scopo pratico dell’accordo”, ovvero lo “spirito dell’intesa” raggiunta dalle parti, come talune pronunzie affermano), per come emergono alla stregua dell’interpretazione sistematica e funzionale del contratto in relazione alle circostanze del caso.

Ciò che rileva, pertanto, è la funzione individuale della singola e specifica negoziazione, al di là del modello astratto utilizzato (Sez. 3, n. 23941/2009, Rv. 610016-01; Sez. 2 n. 07927/2017, Rv. 643530-01); e tale necessario richiamo alla teoria della “causa concreta”, già diffusamente esposta e condivisa in seno alla Corte, ha ricevuto un definitivo riconoscimento con la pronunzia Sez. U, n. 04628/2015, Rv. 634761-01, ove è affermato che al fine di individuare la causa del contratto occorre procedere all’analisi dell’interesse concretamente perseguito dalle parti nel caso di specie, cioè della ragione pratica dell’affare, dovendosi in particolare valutare l’utilità del contratto e la sua idoneità ad espletare una funzione commisurata sugli interessi che le parti perseguono attraverso quello specifico rapporto contrattuale.

Nell’anno in corso tale impostazione ha trovato ulteriori e significative conferme.

Essa è stata anzitutto ribadita da Sez. 3, n. 10612/2018, D’Arrigo, Rv. 648703-01 con specifico riferimento ai contratti stipulati in forma orale, per i quali occorrerà dunque aver riguardo agli interessi che il negozio è concretamente diretto a realizzare; in tal caso, tuttavia, essendo impossibile un’interpretazione testuale, gli interessi delle parti vanno ricostruiti in base alla funzione tipica dell’operazione negoziale, cosicché la parte che prospetti una diversa qualificazione della stessa è gravata dall’onere di provare la sussistenza di ulteriori elementi che consentano di individuare uno scopo pratico del negozio diverso dalla funzione propria dello schema legale tipico.

Ancora, Sez. 1, n. 15929/2018, Pazzi, Rv. 649529-01, ha evidenziato come nel mutuo di scopo la destinazione delle somme mutuate all’esclusivo raggiungimento di una determinata finalità entri nella struttura del negozio connotandone il profilo causale e così ampliando lo stesso rispetto alla sua normale consistenza, e ciò tanto sotto il profilo strutturale – poiché il mutuatario si obbliga non solo a restituire la somma con gli interessi, ma anche a realizzare lo scopo previsto con l’attuazione in concreto dell’attività programmata – quanto sotto quello funzionale, poiché nel sinallagma assume rilievo essenziale anche quest’ultima prestazione, in termini corrispettivi dell’ottenimento della somma erogata.

Sez. 1, n. 17498/2018, Nazzicone, Rv. 649519-01, ha poi ritenuto lecito il patto con cui il socio di una s.p.a., in occasione di un finanziamento partecipativo, si obblighi a manlevare l’altro dalle eventuali conseguenze negative del conferimento effettuato, mediante l’attribuzione del diritto di vendita (c.d. “put”) entro un termine dato ed il corrispondente obbligo di acquisto della partecipazione sociale a prezzo predeterminato pari a quello dell’acquisto (pur con l’aggiunta di interessi sull’importo dovuto e del rimborso dei versamenti operati nelle more in favore della società), osservando che la ragione pratica di tale meccanismo è quella di finanziare indirettamente l’impresa, con conseguente esclusione della ricorrenza di un patto leonino.

Si richiama, infine, alla nozione di “causa concreta” anche Sez. 3, n. 04922/2018, Iannello, Rv. 647362-03, nell’affermare la nullità del patto occulto di maggiorazione del canone contenuto nei contratti di locazione ad uso non abitativo stipulati anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 311 del 2004 (che ha introdotto la sanzione della nullità testuale in caso di omessa registrazione), in quanto l’accordo simulatorio trova la sua ragione pratica nella finalità di eludere il fisco, sottraendo all’erario il maggior canone dissimulato realmente pattuito, e così ponendosi in contrasto con le disposizioni imperative che impongono l’obbligo di registrazione, integrale e fedele, dei contratti di locazione.

3.2. Causa concreta e meritevolezza degli interessi.

Il ruolo della “causa concreta” assume rilevanza anche nell’applicazione della clausola generale prevista dall’articolo 1322 c.c., che impone di verificare che il contratto sia diretto a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico, fungendo la meritevolezza degli interessi perseguiti dalle parti come limite all’esercizio dell’autonomia privata (così Sez. 1, n. 22950/2015, Rv. 638094-01).

Si tratta, in particolare, di verificare se il contratto sia idoneo ad espletare una funzione commisurata agli interessi che le parti perseguono; tale controllo, operato dal giudice sul regolamento degli interessi voluto dalle parti, ha essenzialmente ad oggetto il rispetto, da parte dei contraenti nell’esercizio dell’autonomia negoziale, del principio di conformità all’utilità sociale dell’iniziativa economica privata di cui all’art. 41 Cost.. La valutazione di meritevolezza ex art. 1322 c.c., in altri termini, non si esaurisce in una verifica di liceità della causa, ma investe il risultato perseguito con il contratto, del quale deve accertare la conformità ai principi di solidarietà e parità che l’ordinamento pone a fondamento dei rapporti privati.

In tal senso, riveste particolare rilevanza – per la sua attinenza ad un tipo commerciale assai diffuso – la sentenza Sez. U, n. 22437/2018, Vincenti, Rv. 650461-01, che ha affrontato il tema della meritevolezza degli interessi nel contratto di assicurazione per la responsabilità civile con clausole “claims made”.

Tale decisione – dopo aver premesso che il modello “claims made” si colloca ormai nell’area della tipicità legale, rifluendo nell’alveo proprio dell’esercizio dell’attività assicurativa, e dunque consente di superare la logica di un giudizio di meritevolezza ancorato al presupposto dell’atipicità contrattuale (art. 1322, comma 2, c.c.) – ha ritenuto tuttavia necessario che la clausola “on claims made basis”, con la quale il pagamento dell’indennizzo è subordinato al fatto che il sinistro venga denunciato nel periodo di efficacia del contratto, «rispetti, anzitutto, i “limiti imposti dalla legge”, che il primo comma dell’art. 1322 c.c. postula per ogni intervento conformativo sul contratto inerente al tipo, in ragione del suo farsi concreto regolamento dell’assetto di interessi perseguiti dai paciscenti, secondo quella che suole definirsi “causa in concreto” del negozio».

In tal senso, hanno precisato le Sezioni Unite, l’indagine è volta ad accertare l’adeguatezza del contratto agli interessi concreti delle parti; tale verifica, pur essendo necessariamente «condizionata dalle circostanze del caso concreto, trova già su un piano di generica astrazione le proprie coordinate, selezionate, a loro volta, dalla diversità della tipologia dei rapporti assicurativi, rispetto ai quali la risposta in termini di tutela non potrà che essere diversificata».

Sul punto, infine, la sentenza osserva che l’analisi del sinallagma del contratto assicurativo costituisce un adeguato strumento per verificare se ne sia stata realizzata la funzione pratica di assicurazione dallo specifico pregiudizio, e ciò al fine non di sindacare l’equilibrio economico delle prestazioni (profilo rimesso esclusivamente all’autonomia contrattuale), ma di indagare se lo scopo pratico del negozio presenti un arbitrario squilibrio tra rischio assicurato e premio, poiché nel contratto di assicurazioni contro i danni la corrispettività si fonda su una relazione oggettiva e coerente fra rischio assicurato e premio.

Va peraltro segnalato che l’indagine sull’assetto degli interessi concretamente perseguiti dalle parti assume rilievo decisivo anche nell’interpretazione del contratto; lo ha riaffermato Sez. 3, n. 06675/2018, Scarano, Rv. 648298-01, sottolineando, in proposito, che l’elemento letterale, sebbene centrale nella ricerca della reale volontà delle parti, deve essere riguardato alla stregua di ulteriori criteri ermeneutici e, segnatamente, di quello funzionale, che attribuisce rilievo alla causa concreta del contratto ed allo scopo pratico perseguito dalle parti.

3.3. Causa concreta e collegamento negoziale.

Il riferimento allo scopo concretamente perseguito dalle parti del contratto costituisce inoltre uno dei termini che consentono la configurazione di un collegamento fra atti negoziali (nonché altri atti giuridici di diversa tipologia) nel senso precisato da Sez. 1, n. 22216/2018, Genovese, Rv. 650405-01; con tale pronunzia, infatti, la Corte ha rilevato che la considerazione unitaria di tali atti, allo scopo di trarne un vincolo a carico di una parte, impone la ricorrenza non solo del tradizionale requisito oggettivo, costituito dal nesso teleologico tra gli stessi, ma anche del requisito soggettivo, costituito dal comune intento pratico delle parti di volere l’effetto tipico dei singoli atti in concreto posti in essere ed il coordinamento tra di essi per la realizzazione di un fine ulteriore, che ne trascende gli effetti tipici e che assume una propria autonomia anche dal punto di vista causale. 

In termini non dissimili, Sez. 1, n. 13305/2018, Vella, Rv. 649159-01 ha evidenziato l’opportunità di verificare caso per caso, indagando sullo scopo concretamente perseguito dalle parti, se un contratto di “sale and lease back” (in sé valido in quanto contratto d’impresa socialmente tipico) presenti elementi sintomatici di un contratto di finanziamento assistito da una vendita in funzione di garanzia, volto ad aggirare, con intento fraudolento, il divieto di patto commissorio.

Sullo stesso tema, infine, Sez. 1, n. 19748/2018, Iofrida, Rv. 650255-01, ha ritenuto ipotizzabile (e rimessa all’accertamento del giudice nel caso concreto) la sussistenza di un collegamento fra il contratto di vendita del diritto di godimento a tempo parziale di beni e servizi alberghieri (cd. “time-sharing”) ed il contratto di finanziamento del corrispettivo dovuto; conseguentemente, la previsione in quest’ultimo negozio di una clausola di rinuncia, di natura vessatoria, all’opponibilità delle eccezioni afferenti la destinazione dell’importo finanziato ed i vizi del bene acquistato, oppure la sua mancata o ritardata consegna, non esclude l’applicazione delle previsioni sul credito al consumo di cui all’art. 124 T.U.L.B., proprio in forza del collegamento negoziale fra tale mutuo di scopo e il contratto di acquisto cui esso è diretto.

4. La forma.

Su questo tema, e con particolare riferimento agli oneri imposti dalla legge ad substantiam actus, gli orientamenti della giurisprudenza di legittimità tendono ad un progressivo superamento di ogni posizione “formalista”, preferendo indagare sulle finalità di tali oneri e quindi sulla possibilità di dar corso ad interpretazioni più funzionali alle stesse.

È certamente questo il caso della nota pronunzia Sez. U, n. 00898/2018, Di Virgilio, Rv. 646965-01, che ha risolto in senso negativo la questione della nullità del contratto per la prestazione di servizi di investimento (cd. contratto-quadro) di cui all’art. 23 T.U.F. nell’ipotesi di mancata sottoscrizione, da parte dell’intermediario, della copia consegnata al cliente; al riguardo, le Sezioni Unite hanno osservato che il requisito della forma scritta del contratto-quadro, posto a pena di nullità azionabile dal solo cliente, va inteso non in senso strutturale, ma funzionale, ovvero nel rispetto della finalità di protezione dell’investitore. Tale requisito, pertanto, è rispettato ove il contratto sia redatto per iscritto e ne sia consegnata una copia al cliente; ed è sufficiente che vi sia la sottoscrizione di quest’ultimo, e non anche quella dell’intermediario, il cui consenso ben può desumersi alla stregua di comportamenti concludenti dallo stesso tenuti.

In linea con tale impostazione, Sez. 1 n. 14243/2018, Falabella, Rv. 649119-01 ha poi specificato che la conclusione del negozio non deve necessariamente farsi risalire al momento in cui l’intermediario produce in giudizio la scrittura privata sottoscritta dal solo cliente, potendo la certezza della data desumersi da uno dei fatti espressamente previsti dall’art. 2704 c.c. o da altro fatto che il giudice reputi significativo a tale fine, e nulla impedendo che il negozio venga validamente ad esistenza prima della produzione in giudizio della relativa scrittura, ed indipendentemente da tale evenienza.

Valorizza i profili funzionali dell’atto negoziale anche Sez. 2, n. 11655/2018, D’Ascola, Rv. 648495-02 nell’escludere la necessità di forma scritta per l’atto con il quale taluno viene incaricato di individuare possibili compratori per un compendio immobiliare, tracciando i profili distintivi di tale atto rispetto alla vera e propria procura ad alienare immobili.

Nello stesso senso, infine, merita di essere segnalata Sez. U, n. 20684/2018, De Stefano, 650274-01, che ha escluso la necessità di forma scritta ad substantiam o l’adozione di altre forme solenni per i contratti conclusi dalle aziende speciali di enti pubblici territoriali. Queste ultime, infatti, pur appartenendo al sistema con il quale l’amministrazione gestisce i servizi pubblici che abbiano per oggetto produzioni di beni e attività rivolte a soddisfare fini sociali e a promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità locali, non vanno assoggettate agli oneri formali imposti ai contratti con la Pubblica Amministrazione, che per un verso sarebbero incompatibili con la rapidità e l’elasticità imposte dalla natura imprenditoriale dell’attività espletata dalle aziende e, per altro verso, finirebbero con l’integrare un ingiustificato privilegio a favore di soggetti che gestiscono un’attività imprenditoriale (sia pure pubblicisticamente orientata), senza considerare le esigenze di tutela delle controparti, che legittimamente si attendono – in difetto di norme chiare in senso contrario – di poter contrattare liberamente con l’imprenditore che si trovano davanti ed in applicazione del principio generali di libertà delle forme.

5. Trattative e responsabilità precontrattuale.

Sulla natura della responsabilità precontrattuale – nella connotazione specifica dell’illegittima interruzione di trattative o del mancato perfezionamento dell’affare, con conseguente lesione dell’affidamento della controparte – la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha continuato a confrontarsi con i principî introdotti da Sez. 1, 14188/2016, Rv. 640485-01, che ha definito tale responsabilità come “da contatto qualificato” tra le parti, assimilabile, anche se non coincidente, con quella di tipo contrattuale, in quanto derivante dalla violazione dei doveri di buona fede, protezione ed informazione che ha comportato la lesione dell’affidamento incolpevole.

In senso conforme a tale posizione si segnala Sez. 1, n. 19775/2018, Cirese, Rv. 649953-01, che, in fattispecie relativa ad annullamento di un contratto di appalto pubblico intervenuto successivamente all’aggiudicazione, ha inquadrato l’obbligo dell’amministrazione di risarcire il danno nella responsabilità di tipo contrattuale da “contatto sociale qualificato”, inteso come fatto idoneo a produrre obbligazioni ai sensi dell’art. 1173 c.c., e ribadito che nella specie si configura «una forma di responsabilità che si colloca ai confini tra contratto e torto», fondata su un contatto da cui trae origine un reciproco affidamento dei contraenti e qualificata dall’obbligo di buona fede e dai correlati doveri di informazione e protezione.

A conclusioni apparentemente opposte, ma in realtà coerenti con la ratio decidendi di tale impostazione, perviene Sez. 1, n. 15707/2018, Di Marzio M., Rv. 649278-01.

Tale pronunzia, relativa ad una vicenda in cui si lamentava la violazione delle regole sul prospetto informativo che correda l’offerta di prodotti finanziari, ha sostenuto che l’eventuale responsabilità che ne scaturisce ha natura aquiliana; ciò, per vero, sul rilievo del fatto che non possono ritenersi (ancora) configurati gli elementi costitutivi del “contatto sociale qualificato” come sopra riassunti, in quanto le regole violate sono volte a tutelare un insieme ancora indeterminato di soggetti ed a consentire a ciascuno di essi la corretta percezione dei dati occorrenti al compimento di scelte consapevoli; non è dunque ancora predicabile, al momento dell’emissione del prospetto, alcun contatto sociale con i futuri eventuali investitori.

6. Buona fede nell’esecuzione della prestazione.

6.1. In generale.

Numerose decisioni hanno ribadito il contenuto del dovere dei contraenti di comportarsi secondo buona fede nell’esecuzione della prestazione, nelle varie manifestazioni che esso può assumere nell’ambito del rapporto contrattuale.

Così, ad esempio, Sez. 3, n. 01829/2018, Fanticini, Rv. 647588-01, ha sottolineato che tale dovere comporta l’adozione dei comportamenti necessari a che la controparte possa dare esecuzione alla prestazione contrattualmente prevista a suo carico, negando il risarcimento al danneggiato che, nell’ambito di un rapporto assicurativo per la responsabilità civile derivante dalla circolazione di veicoli a motore, aveva rifiutato di mettere tempestivamente a disposizione della propria compagnia assicuratrice il veicolo coinvolto nel sinistro.

Si è invece richiamata ad un’accezione del principio di buona fede come dovere di solidarietà, inteso come obbligo di ciascun contraente di non pregiudicare le ragioni della controparte, Sez. 1, n. 09385/2018, Di Marzio P., 648448-01, che, in una fattispecie inerente ad un mutuo bancario, ha qualificato come inadempiente la condotta della banca mutuante che segnali al gestore dell’archivio dei debitori insolventi (cosiddetto CRIF) il nominativo del mutuatario, rispetto al quale emerga che la mancata restituzione della somma mutuata, al momento della segnalazione stessa, sia dipesa da un disguido ad esso non imputabile.

In relazione ad una fattispecie affine, Sez. 3, n. 13068/2018, Fiecconi, Rv. 648616-01 ha precisato che il dovere di buona fede e correttezza permea anche il contenuto del rapporto fra la banca ed il cliente nell’esercizio dei servizi cd. di bancoposta di cui al d.P.R. n. 144 del 2001, sicché la banca ha l’obbligo primario di identificare il cliente che impartisce la disposizione, potendo dare esecuzione agli ordini solo in forza di tale identificazione ed a prescindere dalle procedure utilizzate allo scopo, con la conseguenza che resta irrilevante ogni irregolarità formale dell’operazione bancaria ove risulti che il correntista abbia effettuato e voluto la disposizione patrimoniale.

Diverse pronunzie hanno poi dato continuità al principio affermato da Sez. U, n. 04090/2017, Rv. 643111-01, in relazione al contenuto del dovere di buona fede come divieto di abuso del diritto, nella particolare accezione concernente il possibile “abuso del processo” che può configurarsi con l’introduzione di giudizi separati per il pagamento di crediti distinti ma attinenti al medesimo rapporto.

Nell’occasione, le Sezioni Unite ritennero consentita la proposizione di autonomi giudizi solo in presenza di un interesse oggettivamente valutabile, in capo al creditore, alla tutela processuale frazionata, che dev’essere oggetto di espressa deduzione o, in mancanza, di rilievo da parte del giudice con conseguente instaurazione del contraddittorio sul punto ex art. 101, comma 2, c.p.c. (in senso conforme alla decisione delle Sezioni Unite si pongono, fra le altre, Sez. 2, n. 17893/2018, D’Ascola, Rv. 649387-01 e Sez. 2, n. 20714/2018, Besso Marcheis, Rv. 650013-01).

Si discosta da tale posizione Sez. 6-2, n. 19898/2018, Falaschi, Rv. 650068-01, che richiama invece una precedente pronunzia delle Sezioni Unite (Sez. U, n. 23726/2007, Rv. 599316-01) nella quale era stata recisamente esclusa la possibilità di frazionare il credito in plurime richieste giudiziali di adempimento, traducendosi la parcellizzazione della domanda giudiziale in un abuso degli strumenti processuali offerti alla parte dall’ordinamento. Nel riportarsi al dictum più risalente delle Sezioni Unite, la decisione in questione ha precisato che il principio di buona fede obbliga le parti ad attenersi a canoni di correttezza non solo durante l’esecuzione del contratto, ma anche nell’eventuale fase dell’azione giudiziale volta ad ottenerne l’adempimento.

Traccia, invece, un perimetro al contenuto del dovere di buona fede Sez. 3, n. 23069/2018, Rossetti, Rv. 650881-01, affermando che lo stesso – essendo diretto a salvaguardare l’utilità della controparte nei limiti dell’interesse proprio, dell’accessorietà all’obbligazione pattuita e della necessità di non snaturare la causa contrattuale – non impone al debitore di avvertire il creditore dell’imminente scadenza del termine di prescrizione del suo credito. 

6.2. Buona fede in pendenza della condizione.

Nell’ipotesi di contratto sottoposto a condizione, il contenuto del dovere di buona fede è oggetto di Sez. 2, n. 01887/2018, Scarpa, Rv. 647088-01, relativa ad una fattispecie di vendita immobiliare sotto condizione sospensiva dell’ottenimento di determinate autorizzazioni o concessioni amministrative. Nell’occasione, la Corte ha ritenuto che il dovere di buona fede obblighi il venditore a conservare integre le ragioni della controparte e quindi a compiere tutte le attività che da lui dipendono per l’avveramento della condizione, senza tuttavia che ciò possa comportare un sacrificio dei suoi diritti o interessi, in particolare imponendo l’accettazione del mutamento dell’equilibrio economico delle prestazioni stabilito nel contratto, posto che l’obbligo di buona fede è semplicemente volto ad impedire (e non a provocare) ai contraenti un minor vantaggio – ovvero un maggior aggravio – sotto il profilo economico.

Sul medesimo tema, Sez. 2, n. 22046/2018, Oliva, Rv. 650073-01 ha affermato che nel preliminare di compravendita immobiliare subordinato all’ottenimento, da parte del promissario acquirente, di un mutuo necessario al pagamento del prezzo, ricorre una fattispecie di condizione “mista”, in quanto dipendente anche dal comportamento del promissario acquirente nell’approntare la relativa pratica. A tale proposito, l’eventuale condotta omissiva di quest’ultimo non dà luogo alla finzione di avveramento di cui all’art. 1359 c.c., in quanto – fra l’altro –l’omissione di un’attività può ritenersi contraria a buona fede, e perciò fonte di responsabilità, solo quando costituisca oggetto di un obbligo giuridico, e la sussistenza di un siffatto obbligo deve escludersi per l’attività di attuazione dell’elemento potestativo in una condizione mista.

6.3. Applicazioni del principio di buona fede nell’esecuzione della prestazione.

In applicazione del richiamato principio, si segnalano poi due decisioni di particolare rilievo.

Con la prima – Sez. 2, n. 07171/2018, Grasso Giuseppe, Rv. 647861-01 – la Corte ha richiamato il dovere di buona fede per evidenziare che nell’ambito di un contratto di vendita, poiché il trasferimento deve concernere anche il possesso materiale (non soddisfacendo il diritto dell’acquirente l’effetto giuridico traslativo derivante dalla legge ove la situazione dei fatti sia tale da non consentire un’automatica apprensione del bene), l’esatto adempimento del venditore comporta anche il possesso di fatto del bene venduto, senza che rilevi la possibile conoscenza, da parte del compratore al momento della conclusione del contratto, della materiale occupazione dello stesso; l’obbligo di consegna, inoltre, non è adempiuto semplicemente mettendo il bene a disposizione dell’acquirente, occorrendo altresì che quest’ultimo sia posto in condizione di goderne secondo la funzione e la destinazione in considerazione delle quali ha effettuato l’acquisto.

Con riferimento, invece, ad un’ipotesi di responsabilità contrattuale di una società per azioni ex art. 2383 c.c. a seguito di revoca dell’amministratore, Sez. 1, n. 02037/2018, Nazzicone, Rv. 647624-02 ha statuito che il relativo contenuto, di natura risarcitoria, è limitato al lucro cessante per i compensi residui non percepiti, derivante dal fatto stesso del recesso senza giusta causa. Una responsabilità ulteriore, ad esempio per violazione del dovere di buona fede e correttezza, può configurarsi solo in presenza di condotte diverse dal recesso in sé od ulteriori rispetto ad esso, come per il caso in cui la relativa delibera si fondi su ragioni (o si estrinsechi in condotte) tali da ledere un diritto della persona distinto dal diritto dell’amministratore alla prosecuzione della carica sino alla sua naturale scadenza; in altri termini, la mera mancanza di una giusta causa di recesso non comporta in sé alcuna violazione del dovere di buona fede, attenendo esclusivamente al rapporto fiduciario fra le parti.

7. Interpretazione ed integrazione del contratto.

La Corte ha ribadito la centralità del criterio di buona fede anche nell’ambito dell’interpretazione del contratto.

In particolare, Sez. 2, n. 19493/2018, Varrone, 649993-01 ha osservato che il permanere di una certa ambiguità od oscurità del senso di un contratto o di una sua clausola nonostante il ricorso ai principali criteri ermeneutici abilita l’interprete a dare applicazione al principio della conservazione degli effetti utili del contratto di cui all’1367 c.c.; occorrerà valutare, in particolare, le contrapposte posizioni delle parti in relazione al contenuto della pattuizione, accertando se esse siano corredate da buona fede, anche sulla base del comportamento complessivo dei contraenti.

Così operando, la Corte ha cassato la sentenza di merito che aveva ritenuto la nullità di una clausola contenuta in un contratto d’opera che limitava la facoltà di recesso del committente al caso di colpa grave, evidenziando che tale lettura – non tenendo conto della volontà dimostrata dalle parti di circoscrivere le ipotesi di scioglimento del rapporto alle sole gravi violazioni del regolamento negoziale, di per sé corrispondenti a circostanze determinate ed oggettive – comportava un’ingiustificata ablazione di tale volontà.

Sul tema dell’ermeneutica del contratto, per il resto, è crescente il numero delle pronunzie che affermano la necessità di far ricorso ai criteri sussidiari rispetto a quello meramente letterale (v. supra, p.to 3.2, in relazione alla rilevanza del criterio cd. funzionale).

Vanno tuttavia segnalate due pronunzie che evidenziano ambiti nei quali il criterio letterale mantiene la sua centralità.

Sez. 2, n. 11828/2018, Federico, Rv. 648440-01, ha precisato che, nei contratti soggetti all’obbligo di forma scritta, il criterio della valutazione del comportamento complessivo delle parti può essere utilizzato solo per chiarire – e non per integrare – la portata e la rilevanza giuridica della dichiarazione negoziale.

Sez. 6-5, n. 12423/2018, Iacobellis, Rv. 648520-01, ha invece rilevato che l’utilizzo, da parte dei contraenti, di locuzioni univoche quanto al loro significato in diritto (nella specie, il riferimento al versamento di una somma di denaro come alla dazione di “caparra confirmatoria”), impone il ricorso al criterio ermeneutico del significato letterale delle parole, potendosi interpretarsi diversamente la comune volontà dei contraenti solo in presenza di altre circostanze o situazioni di segno opposto, che evidenzino l’uso improprio di tale espressione o la sua non aderenza alla situazione oggettiva.

8. Contratto preliminare ed esecuzione in forma specifica dell’obbligo di contrarre.

Nutrita, al solito, è stata la produzione sul contratto preliminare, in particolare con riferimento alla domanda di esecuzione in forma specifica ed agli effetti della pronunzia che definisce il relativo giudizio.

Sul contratto preliminare in generale si segnala Sez. U., n. 19281/2018, D’Ascola, Rv. 649687-02, che, affrontando una vicenda relativa alla dismissione di immobili pubblici già ceduti in locazione a privati, ha ritenuto che l’accettazione, da parte di questi ultimi, dell’offerta in opzione contenente gli elementi essenziali della vendita, comporti il perfezionamento di un contratto preliminare che attribuisce loro il diritto di acquistare al prezzo fissato. Secondo le Sezioni Unite, infatti, essendo ormai uscita la determinazione del prezzo dalla discrezionalità tecnica dell’offerente, resta irrilevante ogni possibile successiva vicenda che non sia in grado di scalfire il contenuto della pattuizione così fissato, ed in particolare il mutamento di qualifica dell’immobile (nella specie riclassato come “di pregio”).

Affronta poi il tema della prescrizione dei diritti nascenti dal contratto preliminare Sez. 2, n. 07180/2018, Dongiacomo, Rv. 647863-01, rilevando che la particolarità dell’oggetto – consistente unicamente nell’obbligo di concludere il definitivo – non esclude che l’inattività delle parti, ove protratta per oltre dieci anni dalla scadenza del termine fissato, sia pur non essenziale, determini l’estinzione dei diritti nascenti dal contratto, salvi gli effetti di eventuali atti interruttivi.

Con riferimento, invece, alla domanda ex art. 2932 c.c., Sez. 2, n. 27342/2018, Grasso Giuseppe, Rv. 651021-01 ha precisato che per il relativo accoglimento è di norma sufficiente la semplice offerta non formale della prestazione che risulti idonea a manifestare la volontà di adempiere da parte dell’offerente, semprechè – tuttavia, e come di regola accade – le parti abbiano previsto il pagamento (o il saldo) del prezzo contestualmente alla stipula del definitivo. Laddove, infatti, tale adempimento sia pattuito in un termine anteriore, la relativa scadenza determina l’obbligo della parte ad effettuare il pagamento nel domicilio del creditore o con offerta formale nei modi di legge, non sussistendo, in tale ipotesi, nessuna ragione che giustifichi un’offerta informale, e potendo la controparte, in mancanza, avvalersi dell’eccezione di inadempimento per rifiutare la stipula.

In linea con tale impostazione, Sez. 2, n. 14372/2018, Scarpa, Rv. 648974-03 ha chiarito che la previsione di pagamento del prezzo al definitivo fa sì che il requisito dell’offerta di cui all’art. 2932, comma 2, c.c. debba ritenersi soddisfatto con la proposizione della domanda di esecuzione specifica dell’obbligo di contrarre, perché in essa necessariamente implicito.

In detta ipotesi, peraltro, è solo con il passaggio in giudicato della sentenza costitutiva di accoglimento della domanda che sorge l’obbligo di pagare il prezzo, al quale è subordinato l’effetto traslativo della proprietà. Per tale ragione, Sez. 2, n. 22997/2018, Carrato, Rv. 650381-01 ha precisato che è illegittima l’imposizione in sentenza di un termine per il pagamento che condizioni tale effetto traslativo, determinandone la decorrenza anticipata rispetto al formarsi del giudicato.

Ove, poi, il pagamento non abbia luogo nel termine fissato dalla sentenza (ovvero, in mancanza, nel congruo lasso di tempo necessario perché la mora del promissario acquirente assuma i caratteri dell’inadempimento di non scarsa importanza per il creditore, rendendo non più possibile l’adempimento tardivo contro la volontà di quest’ultimo), esso assume il carattere di una condizione irrealizzabile, precludendo l’effetto traslativo che ne dipende, come precisato da Sez. 2, n. 20226/2018, Scalisi, Rv. 649912-01.

Infine, e con riferimento alla sentenza che definisce il giudizio di esecuzione in forma specifica, Sez. 2, n. 29422/2018, Bellini, Rv. 650665-01 ha ritenuto che l’eventuale giudicato formatosi sul rigetto della domanda, dipendente dal mancato adempimento o dalla mancata offerta della prestazione inerente al prezzo, non osta a che la domanda possa essere riproposta, sulla base della sopravvenienza di detto adempimento o di detta offerta, sempre che il contratto non sia stato risolto nel frattempo.

9. Risoluzione e recesso.

9.1. Operatività della risoluzione giudiziale.

In relazione ai presupposti per addivenire alla risoluzione del contratto, fornisce un utile spunto all’inaquadramento del requisito di “non scarsa importanza” dell’inadempimento Sez. 3, n. 04022/2018, Rossetti, Rv. 647949-01, che specifica come la gravità dell’inadempimento vada commisurata all’interesse che la parte adempiente aveva o avrebbe potuto avere alla regolare esecuzione del contratto e non alla convenienza, per detta parte, della domanda di risoluzione rispetto a quella di condanna all’adempimento.

Quanto, invece, alla necessità di costituire in mora il contraente inadempiente, Sez. 2, n. 15993/2018, Tedesco, Rv. 649224-01 ribadisce che tale adempimento è di regola non necessario, salvi i casi nei quali la risoluzione si basi sulla mora in senso stretto, cioè derivi da un inadempimento non definitivo relativo ad una prestazione da eseguire al domicilio del debitore. In tali casi, infatti, la mancata costituzione in mora prima del giudizio di risoluzione non impedisce l’esecuzione della prestazione, in deroga al principio generale dettato dall’art.1453, ultimo comma, c.c..

Con riguardo al giudizio originato dalla domanda di risoluzione, Sez. 1, n. 16882/2018, Cirese, Rv. 649575-01 affronta il tema dello jus variandi richiamandosi al precedente di cui a Sez. U., n. 08510/2014, Rv. 630334-01, consentendo alla parte che modifica l’iniziale azione per l’esatto adempimento in domanda di risoluzione di ottenere, oltre alla restituzione della prestazione eseguita, anche il risarcimento dei danni derivanti dalla cessazione degli effetti del regolamento negoziale.

In punto al contenuto della pretesa pecuniaria conseguente alla risoluzione del contratto, Sez. 6-2, n. 11012/2018, Criscuolo, Rv. 648231-01 torna sul dibattuto (ed irrisolto) problema della compatibilità fra risarcimento del danno e restituzione del doppio della caparra confirmatoria indebitamente ritenuta dal contraente inadempiente, esprimendosi in senso affermativo. La sentenza, in particolare, esclude che violi il principio della corrispondenza fra chiesto e pronunciato la condanna alla restituzione della caparra, pur a fronte di un erroneo cumulo fra la relativa domanda e l’azione risolutoria e risarcitoria, costituendo la caparra un bene della vita omogeneo rispetto al danno (seppure ridimensionato), e non sussistendo più alcun titolo della controparte a trattenere la somma versata.

In presenza di un giudizio caratterizzato da reciproche domande di risoluzione fondate da ciascuna parte sugli inadempimenti dell’altra, Sez. 3 , n. 06675/2018, Scarano, Rv. 648298-02 ha ritenuto che se il giudice accerta l’inesistenza di singoli specifici addebiti e non può così pronunciare la risoluzione, deve comunque dare atto dell’impossibilità di dare esecuzione al contratto per effetto della scelta di entrambi i contraenti ex art. 1453, comma 2, c.c., e pronunciare la risoluzione con gli effetti di cui all’art. 1458 c.c., essendo le due contrapposte manifestazioni di volontà dirette all’identico scopo dello scioglimento del rapporto negoziale.

In senso opposto, Sez. 6-1, n. 14314/2018, Sambito, Rv. 649146-01, ha affermato che il giudice non può respingere entrambe le domande e dichiarare l’intervenuta risoluzione consensuale del rapporto, implicando ciò una violazione del principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, mediante una regolamentazione del rapporto stesso difforme da quella perseguita dalle parti.

Circa le conseguenze della pronunzia risolutoria, si è anzitutto posto all’attenzione della Corte il tema della risarcibilità del cd. maggior danno di cui all’art. 1224, comma 2, c.c..

Sez. 1, n. 15708/2018, Vella, Rv. 649449-01 ha in particolare ribadito che il riconoscimento di tale voce di danno, soggetto all’onere probatorio del richiedente, va escluso ove il pregiudizio sia assorbito dal riconoscimento di quanto accordato per il danno direttamente conseguente all’inadempimento, onde evitare indebite duplicazioni delle poste risarcitorie. Sez. 2, n. 14289/2018, Grasso Giuseppe, Rv. 648837-03, d’altro canto, ha riaffermato la compatibilità di tale pregiudizio con il credito restitutorio spettante alla parte adempiente in caso di risoluzione, pur se quest’ultimo dà luogo ad un debito di valuta non soggetto a rivalutazione monetaria.

Infine, per l’ipotesi di contratto assistito da clausola penale, Sez. 2, n. 27994/2018, Bellini, Rv. 651038-01, pur ribadendo il divieto di cumulo tra la domanda della prestazione principale e quella diretta ad ottenere la penale per l’inadempimento di cui all’art. 1383 c.c., ha rilevato che, in caso di risoluzione del contratto, il risarcimento del danno da inadempimento può essere richiesto insieme con la penale per la mancata esecuzione dell’obbligazione nel termine stabilito, così come quest’ultima può essere domandata in uno con la penale per l’inadempimento.

La pronunzia ha tuttavia precisato che, ove sia cumulato con la penale per il ritardo, il danno da inadempimento va liquidato tenendo conto dell’entità di quanto sia ascrivibile al ritardo già autonomamente considerato nella determinazione della penale, onde evitare un ingiusto sacrificio del debitore.

9.2. Risoluzione stragiudiziale e suoi presupposti.

In relazione al meccanismo di operatività della risoluzione stragiudiziale, va segnalata anzitutto Sez. 2, n. 15052/2018, Tedesco, Rv. 649073-01, che ha ritenuto l’inefficacia, ai fini risolutori, della diffida ad adempiere intimata prima della scadenza del termine di esecuzione del contratto. Nell’occasione, la Corte ha ribadito che il ricorso allo strumento dalla diffida postula che si sia già verificato l’inadempimento del contratto, poiché la relativa finalità consiste unicamente nel consentire alla parte adempiente di ottenere una celere risoluzione del contratto senza dovere attendere la pronuncia del giudice.

Muovendo da premesse analoghe ha invece affrontato il tema della clausola risolutiva espressa, Sez. 3, n. 24532/2018, Graziosi, Rv. 651138-01; la Corte, dopo aver osservato che tale meccanismo risolutivo presuppone l’inadempimento della controparte di chi se ne avvale, ha ritenuto nella specie che nel caso in cui tale inadempimento non sussista la clausola può al più rilevare come condizione risolutiva ex art. 1353 c.c., purché l’evento cui si riferisce sia sufficientemente determinato e non rimesso alla mera volontà di una parte.

Da ultimo, un rilievo chiarificatore in ordine alla possibilità di risolvere il contratto per mancato rispetto del termine, quantunque non previsto dalle parti come essenziale, giunge da Sez. 2, n. 11653/2018, D’Ascola, Rv. 648246-01.

Nel caso in questione, la Corte ha ritenuto che l’inutile decorso del termine non essenziale, seppur ovviamente non abiliti il ricorso al meccanismo risolutivo stragiudiziale, consente comunque alla parte adempiente di proporre domanda giudiziale di risoluzione del contratto. Quest’ultima, tuttavia, anche prima di proporre la domanda può legittimamente rifiutare l’adempimento tardivo quando – tenuto conto della non scarsa importanza dell’inadempimento in relazione alle posizioni delle parti – sia venuto meno il suo interesse all’esecuzione del contratto; essa, pertanto, può agire in giudizio per la risoluzione anche dopo l’eventuale offerta di adempimento tardivo.

9.3. Recesso ed altre ipotesi di scioglimento.

In tema di risoluzione per impossibilità sopravvenuta consistente nel cd. factum principis, un’importante precisazione giunge da Sez. 3, n. 14915/2018, Iannello, Rv. 649054-01.

Con tale decisione, la Corte ha escluso che potesse invocare tale fattispecie risolutoria una società di formazione professionale che aveva interrotto i rapporti con i destinatari dell’attività formativa sul presupposto della revoca della relativa autorizzazione da parte dell’amministrazione competente, poi dichiarata illegittima dal giudice amministrativo.

In proposito, premesso che la liberazione del debitore per sopravvenuta impossibilità della prestazione ha luogo solo in presenza dell’obiettiva non eseguibilità della prestazione in sé considerata, e dell’assenza di colpa del debitore nella determinazione dell’evento impossibilitante, la sentenza ha ritenuto necessario che il cd. factum principis non sia ragionevolmente e facilmente prevedibile, secondo la comune diligenza, all’atto della assunzione della obbligazione; in tal senso, ha così escluso che un contraente possa validamente invocarlo quando, come nella specie, prima del contratto l’amministrazione lo ha già reso edotto del suo possibile verificarsi, attraverso la formale comunicazione dell’avvio del procedimento amministrativo, ed egli non ha posto in essere alcuna preventiva attività volta a scongiurare l’emissione del provvedimento.

In tema di recesso, costituisce una significativa inversione rispetto al precedente orientamento della Corte regolatrice, Sez. 2, n. 04838/2018, Abete, Rv. 648211-01, secondo cui la previsione, in seno al regolamento contrattuale, di una multa penitenziale quale corrispettivo per l’esercizio del diritto convenzionale di recesso non sottrae il rapporto obbligatorio alla disciplina generale, con conseguente esclusione del diritto alla percezione della multa se il contraente onerato prova che il proprio recesso è giustificato dall’inadempimento della controparte.

Con tale decisione la Corte si è dunque consapevolmente discostata dal pregresso, consolidato orientamento (documentato, fra le altre, da Sez. 2, n. 06558/2010, Rv. 611811-01) secondo cui la finalità meramente indennitaria della multa penitenziale – correlata alla natura potestativa del diritto di recesso – fa sì che resti escluso, in capo al giudice, ogni compito di indagare sull’addebitabilità del recesso, diversamente da quanto avviene in tema di caparra confirmatoria o di risoluzione per inadempimento.

Ravvisa, infine, la ricorrenza degli estremi di un valido atto di recesso nella revoca della carta di debito (cd. bancomat) al cliente da parte della banca Sez. 1, n. 15500/2018, Dolmetta, Rv. 649134-01, pur con il necessario rilievo del fatto che la stessa, per potere essere in grado di produrre effetti, dev’essere preventivamente comunicata al correntista secondo quanto prescritto dall’art. 1334 c.c., trattandosi di atto unilaterale recettizio.

10. Invalidità ed inefficacia.

10.1. Invalidità del contratto e poteri del giudice.

Fermo quanto già esposto ai §§. 1-3 in ordine ai requisiti del contratto, con le relative conseguenze sul piano della nullità, restano da esaminare i profili attinenti alla dimensione giudiziale dell’istituto.

Quanto al possibile rilievo officioso della nullità del contratto, Sez. 2, n. 21418/2018, Orilia, Rv. 650037-01 si è conformata all’insegnamento reso da Sez. U., n. 26242/2014, Rv. 633504-01, ritenendolo sempre consentito (a meno che la pretesa azionata non venga rigettata in base ad un’individuata “ragione più liquida”) in tutte le ipotesi di impugnativa negoziale (risoluzione, annullamento, rescissione) nonché nel caso di azione per l’esatto adempimento del contratto, poiché tali azioni sono tutte disciplinate da un complesso normativo autonomo ed omogeneo.

Si pone in continuità con tale indicazione anche Sez. 2, n. 26614/2018, Criscuolo, Rv. 651009-01, che in relazione alla più specifica ipotesi di nullità cd. di protezione evidenziato come il rilievo officioso resti soggetto alla manifestazione dell’interesse a far valere la causa di nullità da parte dell’interessato legittimato in esclusiva, entro il termine di decadenza previsto per il relativo esercizio.

Il potere del giudice di rilevare d’ufficio la nullità non può tuttavia estendersi fino alla conversione del contratto nullo, ostandovi la previsione di cui all’art. 1424 c.c.; lo ha ribadito Sez. 1, n. 22466/2018, Ceniccola, Rv. 650753-01, con l’ulteriore rilievo che resta ammissibile l’istanza di conversione avanzata dalla parte nella prima difesa utile successiva al rilievo officioso, rispetto al quale si pone in rapporto di stretta consequenzialità.

Sul medesimo tema, Sez. 1, n. 16051/2018, Terrusi, Rv. 649573-01 ha poi specificato che ove sia stata proposta domanda di nullità integrale del contratto, il giudice ben può rilevarne d’ufficio la nullità solo parziale; e qualora le parti, all’esito di tale indicazione officiosa, omettano di proporre un’espressa istanza di accertamento di tale nullità, deve rigettare l’originaria pretesa, non potendo il giudice inammissibilmente sovrapporsi ad esse nelle valutazioni e determinazioni da loro espresse nel processo.

Analizza, infine, i profili distintivi fra l’azione di annullamento per dolo e quella di inadempimento per mancanza delle qualità promesse od essenziali Sez. 2, n. 13034/2018, Scarpa, Rv. 650830-02; la decisione evidenzia l’assoluta autonomia fra le due azioni (rispettivamente attinenti al momento formativo ed al profilo funzionale del contratto), e la conseguente insussistenza di alcun rapporto di incompatibilità o di reciproca esclusione.

10.3. Inefficacia del contratto e delle singole clausole.

In ordine all’efficacia del contratto sottoposto a condizione, Sez. 2, n. 09550/2018, Scarpa, Rv. 648050-01 affronta lo specifico tema del contratto preliminare di compravendita immobiliare sottoposto alla condizione della mancata approvazione del progetto di lottizzazione, che qualifica come condizione risolutiva.

La decisione si discosta da alcuni precedenti che avevano qualificato tale pattuizione come condizione potestativa unilaterale, abilitando di conseguenza il promissario acquirente a reclamare la stipulazione del definitivo indipendentemente dal suo verificarsi (per tutte Sez. 2, n. 14938/2008, Rv. 603859-01); rileva, infatti, che con tale previsione si realizza un equilibrio tra le prestazioni e le aspettative economiche dei contraenti, ben diversamente da quanto accade nel caso di condizione unilaterale. Tale ultima non sussiste sulla sola base del fatto che una soltanto delle parti appaia interessata al verificarsi dell’evento dedotto in condizione, ma necessita di una formulazione inequivoca che implichi il riconoscimento, in capo al contraente, di un diritto potestativo il cui mancato esercizio, successivamente al verificarsi dell’evento, dà vita a un nuovo negozio.

Resta, infine, viva l’attenzione della Corte verso la possibile inefficacia di singole clausole in ragione della loro vessatorietà, al di là dei profili di tutela più specificamente attinenti al rapporto fra professionista e consumatore.

Sez. 3, n. 11757/2018, Ambrosi, Rv. 648707-01, in particolare, ha escluso che presenti carattere di vessatorietà la clausola del contratto di assicurazione contro i danni con la quale si pattuisce che l’assicurato sia indennizzato mediante la riparazione in forma specifica del danno da sinistro stradale; tale pattuizione, infatti, non concreta alcuna limitazione della responsabilità agli effetti dell’art. 1341 c.c. riducendo le conseguenze dell’inadempimento di una parte, ma delimita l’oggetto del contratto, diminuendo – senza escluderlo – il rischio garantito e fissando il limite entro cui l’assicuratore è tenuto a rivalere l’assicurato.

Infine, Sez. 6-3, n. 03307/2018, Cirillo F.F.M., Rv. 647578-01, ha ritenuto che la clausola di deroga alla competenza territoriale contenuta in un modulo predisposto dal cd. contraente forte, di natura vessatoria e perciò da approvare espressamente per iscritto, dev’essere altresì leggibile; ove, tuttavia, la stessa risulti scarsamente leggibile (perché, ad esempio, redatta su modello fotocopiato o con grafica eccessivamente piccola) il contraente che l’abbia sottoscritta non può lamentare in sede giudiziale di non averne rettamente compreso la portata, ben avendo potuto esigere dalla controparte che gli venisse fornito un modulo contrattuale pienamente leggibile.

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  • danno

APPROFONDIMENTO TEMATICO

IL DANNO DA PERDITA DI CHANCE

(di Luigi La Battaglia, Antonella Sarracino )

Sommario

1 Il danno da perdita di chance: caratteri e specificità della figura. - 2 La chance come bene giuridico: la concezione c.d. ontologica. - 3 Perdita di chance e nesso causale: la concezione c.d. eziologica. - 4 Il danno non patrimoniale da perdita di chance. - 5 I recenti approdi della giurisprudenza in tema di danno non patrimoniale da perdita di chance. - 6 Gli orientamenti della giurisprudenza del 2018 in tema di danno patrimoniale da perdita di chance. - 7 Il danno da perdita di chance nella giurisprudenza “lavoristica” del 2018. - 8 Conclusioni.

1. Il danno da perdita di chance: caratteri e specificità della figura.

La fattispecie del danno da perdita di chance è andata progressivamente consolidandosi nella giurisprudenza della Corte di Cassazione dell’ultimo trentennio, venendo interessata, nel corso del 2018, da importanti arresti della Terza Sezione.

La figura nasce negli anni ’80 del secolo scorso, come risposta a un’istanza di (ulteriore) ampliamento dei confini della tutela risarcitoria, per rendere risarcibile il pregiudizio derivante dalla compromissione non già di un “bene giuridico finale” (diritto soggettivo, ma anche interesse giuridicamente rilevante, meritevole di tutela alla stregua dell’ordinamento giuridico), bensì della semplice possibilità di conseguirlo.

La possibilità di realizzazione del vantaggio non deve essere confusa con la ragionevole certezza (o elevata probabilità) di un incremento della sfera patrimoniale del danneggiato, la cui deprivazione, quale conseguenza del fatto illecito del terzo, sostanzia il danno da lucro cessante propriamente detto. Ne consegue che, a volere essere rigorosi, devono essere tenute fuori dalla categoria della perdita di chance tutte quelle fattispecie nelle quali l’espressione viene utilizzata in funzione descrittiva di un pregiudizio che in nulla si distingue da un vero e proprio lucro cessante (o, come si vedrà, da altro tipo di danno emergente, conseguenza della lesione di una situazione giuridica “finale” ben individuata).

La giurisprudenza parla frequentemente di danno da perdita di chance, per esempio, con riferimento alle conseguenze patrimoniali della lesione della salute. Con tale espressione si fa riferimento, in particolare, alla perdita della capacità lavorativa (generica o specifica), che preclude al danneggiato la possibilità di cogliere, nel futuro, opportunità lavorative idonee a procurargli un guadagno (eventualmente maggiore di quello già conseguito al momento dell’evento lesivo). In Sez. 3, n. 6488/2017, Barreca, Rv. 643410-01, per esempio, la Corte rigettò la domanda di una minorenne rimasta vittima di un incidente stradale, volta al conseguimento di un risarcimento per la “perdita di chance” di intraprendere la carriera universitaria, ritenendo che non avesse assolto all’onere di provare che la situazione invalidante le avesse, in concreto, precluso l’accesso a una probabile carriera universitaria o a un probabile inserimento in un determinato e specifico ambito lavorativo. In questi casi, con la locuzione “perdita di chance” si allude a un vero e proprio danno patrimoniale futuro, al quale è preordinata la prova che si richiede di fornire all’attore. Danno che non si configura, quindi, come minus, corrispondente a un determinato grado di possibilità di conseguimento del bene giuridico “finale”, ma che coincide direttamente con quest’ultimo. Non si fa questione neppure in astratto, infatti, di riduzione della quantificazione del risarcimento rispetto all’entità delle retribuzioni che il lavoratore avrebbe potuto guadagnare. Cionondimeno, si parla di perdita di chance, e di questa viene richiamata la definizione quale “entità patrimoniale a sé stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile di autonoma valutazione”. Nello stesso senso, si pongono Sez. L, n. 21544/2008, De Matteis, Rv. 604311-01; Sez. 3, n. 12243/2007, Federico, Rv. 597488-01 e Sez. 3, n. 1752/2005, Segreto, Rv. 578787-01.

Altre volte, si designa con l’etichetta “perdita di chance” una voce di danno, pur sempre conseguente alla lesione della salute ma di natura non patrimoniale, che va sotto il nome di “danno da lesione della cenestesi lavorativa”. Tale pregiudizio rileva come presupposto per la “personalizzazione” in aumento del risarcimento “tabellare” del danno alla salute. Sez. 6-3, n. 20312/2015, Rossetti, Rv. 637454-01, affermò, per esempio, che il danno da lesione della “cenestesi lavorativa”, che consiste nella maggiore usura, fatica e difficoltà incontrate nello svolgimento dell’attività lavorativa, non incidente neanche sotto il profilo delle opportunità sul reddito della persona offesa (c.d. perdita di chance), si risolve in una compromissione biologica dell’essenza dell’individuo e va liquidato omnicomprensivamente come danno alla salute, potendo il giudice, che abbia adottato per la liquidazione il criterio equitativo del valore differenziato del punto di invalidità, anche ricorrere ad un appesantimento del valore monetario di ciascun punto, mentre non è consentito il ricorso al parametro del reddito percepito dal soggetto leso.

La stessa voce di danno viene invece ricondotta alla categoria del danno patrimoniale da perdita di chance da Sez. 3, n. 12211/2015, Scarano, Rv. 635625-01.

Ancora, Sez. L, n. 20829/2015, Buffa, Rv. 637374-01, ha affermato che è astrattamente configurabile un danno risarcibile in favore del medico convenzionato reintegrato nella convenzione (illegittimamente revocatagli), in ragione della perdita di chance professionali derivante dalla contemporanea presenza di altro medico convenzionato nella stessa zona. Nel caso di specie, applicando la regola di cui all’art. 1227 c.c., la Corte ha cassato la sentenza di merito che non aveva scomputato, dal complessivo ammontare del danno invocato dall’attore, quello a lui stesso ascrivibile per aver rifiutato in toto la riattivazione del rapporto di convenzione, sia pure in “concorrenza” con l’altro medico nel frattempo assunto. Anche in questa fattispecie l’uso del termine chance appare improprio (e utile solo dal punto di vista descrittivo), dal momento che a venire in rilievo è né più né meno che l’intero danno patrimoniale da lucro cessante, configurabile quale conseguenza dell’inadempimento del datore di lavoro.

Infine, Sez. 3, n. 243/2017, Frasca, Rv. 642352-01, con riferimento all’omissione, da parte del ginecologo, della prescrizione dell’amniocentesi – che avrebbe permesso alla gestante di conoscere la sindrome di down da cui il feto era affetto –, ha parlato di “perdita della chance di conoscere lo stato del feto”, ma anche in questo caso il termine chance non rileva altro che come variante stilistica sinonimica di “possibilità”, se si considera che il pregiudizio prospettato a carico dell’attrice è un danno biologico (precisamente, il “danno alla propria salute psico-fisica che la gestante lamenti per avere avuto la “sorpresa” della condizione patologica del figlio all’esito della gravidanza”).

2. La chance come bene giuridico: la concezione c.d. ontologica.

L’archetipo di riferimento del danno da perdita di chance venne modellato dalla giurisprudenza, a partire dagli anni ’80, sul danno patrimoniale, per poi venire esteso (in modo pressoché automatico e senza particolari differenziazioni, come si vedrà) al danno non patrimoniale.

Le prime pronunce sul tema si riscontrano in campo lavoristico, in fattispecie di illegittima esclusione del lavoratore da procedure concorsuali finalizzate all’attribuzione di una qualifica superiore. Al lavoratore che non fosse in grado di dimostrare che, in caso di legittimo espletamento della procedura, sarebbe stato certamente incluso nell’elenco dei promossi, veniva riconosciuto comunque un risarcimento per la definitiva perdita della possibilità di conseguire tale risultato (in tal senso, tra le tante, Sez. L., n. 14074/2000, Celentano, Rv. 541206-01). Per la risarcibilità del danno si richiedeva la prova che, al momento della partecipazione al concorso, l’attore possedesse concrete possibilità di vittoria.

Altro campo di applicazione della perdita di chance (patrimoniale) è tradizionalmente rappresentato dal settore della responsabilità professionale dell’avvocato, in relazione agli errori che precludono al cliente di giocarsi le sue chances di vittoria della causa.

L’opzione teorica su cui si fonda tale ricostruzione consiste nella elevazione della possibilità di conseguimento dell’utilità futura (nell’esempio, la promozione ed il correlativo incremento retributivo) a bene giuridico attuale, la cui lesione/compromissione dà luogo – di per sé – a un danno emergente. La chance, viene detto, è un’entità patrimoniale a sé stante, concettualmente distinta dal bene giuridico finale, benché a quest’ultimo vada inevitabilmente rapportata nella fase della liquidazione. Essa preesiste, dunque, al fatto illecito, e da questo viene azzerata. È la tesi c.d. ontologica della chance, che avrà notevole fortuna negli sviluppi futuri della giurisprudenza.

Occorre subito dire che la circostanza che il bene-chance sia costituito di “probabilità” pone il problema se, ai fini della risarcibilità, esse debbano assurgere ad una certa “consistenza” quantitativa. Dal punto di vista logico, infatti, una volta configurata quale danno emergente, la chance non dovrebbe tollerare alcuna “franchigia” risarcitoria, nel senso che anche a basse (o bassissime) probabilità di conseguimento del risultato finale dovrebbe corrispondere un (sia pur contenuto) risarcimento. Cionondimeno, è costante nella giurisprudenza di legittimità il richiamo alla necessità che la chance, per assurgere al rango della risarcibilità, abbia una qualche consistenza, e non sia quindi irrisoria (Sez. L., n. 6506/1985, Fanelli, Rv. 443577-01, richiede che la prova si atteggi “in relazione alla percentuale di probabilità superiore a quella relativa all’evento sfavorevole, costituito dal mancato superamento della selezione stessa”; Sez. L., n. 4725/1993, Toriello, Rv. 481973-01, afferma, invece, essere sufficiente la “ragionevole certezza dell’esistenza di una non trascurabile probabilità favorevole (non necessariamente superiore al cinquanta per cento)”; Sez. L., n. 10748/1996, Roselli, Rv. 500982-01, richiede la prova che il lavoratore “avrebbe avuto possibilità non distanti da quelle degli altri aspiranti positivamente valutati”; Sez. L., n. 8468/2000, Filadoro, Rv. 537894-01, parla di “ragionevoli probabilità di ottenere un risultato utile”; Sez. L., n. 14074/2000, Celentano, Rv. 541206-01, di “perdita di una probabilità non trascurabile di conseguire il risultato utile”; Sez. L., n. 11906/2017, Tria, di “elevate probabilità, prossime alla certezza, di essere chiamati e quindi di ottenere l’assunzione”). Si richiede, dunque, che la chance esprima una probabilità di conseguimento del risultato, se non superiore al 50%, comunque significativa.

Questa impostazione fa emergere la criticità legata alla difficoltà di individuare il confine tra probabilità scarse irrisarcibili, probabilità “significative” – idonee ad integrare un danno da perdita di chance risarcibile – e probabilità più elevate, suscettibili di dar luogo al (maggior) danno scaturente dalla lesione della situazione giuridica soggettiva “finale”. Emblematica di tali incertezze Sez. 3, n. 15759/2001, Settimj, Rv. 551111-01, in tema di responsabilità professionale di un dottore commercialista, secondo cui “la perdita della chance di intraprendere o di proseguire una lite in sede giudiziaria determina un danno per il quale non può, di regola, porsi alcun problema di accertamento sotto il profilo dell’an – una volta accertato l’inadempimento contrattuale sotto il profilo della ragionevole probabilità che la situazione lamentata avrebbe subito, per il cliente, una diversa e più favorevole evoluzione con l’uso dell’ordinaria diligenza professionale -, ma solo, eventualmente, sotto quello del quantum (..)”. All’estremo opposto sembra porsi, invece, la più recente Sez. 1, n. 9571/2017, Valitutti, non massimata, che, relativamente al danno da perdita di chance di aggiudicazione di un appalto, cagionato dalla mancata consegna, da parte di un corriere postale, del plico contenente la relativa domanda di partecipazione, ha affermato che il risarcimento può essere riconosciuto solo quando la chance ha “la certezza o l’elevata probabilità di avveramento”, in tal modo finendo per far coincidere la perdita di chance con il vero e proprio lucro cessante.

Alla stregua della ricostruzione appena illustrata, la (lesione della) chance (patrimoniale) sembra rivestire, in seno alla fattispecie di responsabilità, il ruolo di danno-evento, quale bene giuridico dalla cui lesione discendono le conseguenze pregiudizievoli risarcibili.

Resta attuale l’interrogativo se vi sia una soglia di “consistenza quantitativa” delle probabilità, al di sotto della quale non potrebbe darsi un danno ingiusto risarcibile (e la statuizione risarcitoria assumerebbe, dunque, valenza lato sensu sanzionatoria del comportamento del convenuto).

3. Perdita di chance e nesso causale: la concezione c.d. eziologica.

Alla tesi “ontologica” è venuta a contrapporsi (più precisamente, ad affiancarsi) quella c.d. eziologica, che “ritaglia” per il pregiudizio in questione uno statuto causale autonomo, distinto da quello ordinario in quanto fondato su un grado di probabilità inferiore. Come noto, nella c.d. sentenza Franzese (n. 30328/2002, Canzio, Rv. 222139-01), le Sezioni unite penali della Corte di Cassazione avevano adottato, per il nesso causale, il criterio dell’elevato grado di credibilità razionale, affermando che “non è consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica la conferma o meno dell’ipotesi accusatoria sull’esistenza del nesso causale, poiché il giudice deve verificarne la validità nel caso concreto sulla base delle circostanze del fatto e dell’evidenza probatoria disponibile”. A partire da Sez. 3, n. 21619/2007, Travaglino, Rv. 599816-01 (relativa a una fattispecie di responsabilità medica), la Cassazione civile si discostò da tale modello, prospettando una sorta di scala discendente, che dalla “quasi certezza” penalistica muove verso la “causalità civile ordinaria”, attestata “sul versante della probabilità relativa (o “variabile”), caratterizzata (..) dall’accedere ad una soglia meno elevata di probabilità rispetto a quella penale” (la regola del “più probabile che non”); per approdare infine alla causalità da perdita di chance, “attestata tout court sul versante della mera possibilità di conseguimento di un diverso risultato terapeutico, da intendersi, rettamente, non come mancato conseguimento di un risultato soltanto possibile, bensì come sacrificio della possibilità di conseguirlo, inteso tale aspettativa (la guarigione da parte del paziente) come “bene”, come diritto attuale, autonomo e diverso rispetto a quello alla salute”. La situazione giuridica finale veniva, dunque, a “stemperarsi” in una “aspettativa” di incremento patrimoniale (o non patrimoniale), assimilabile al lucro cessante.

L’inconveniente di questa tesi sta nella difficoltà di ammettere che un danno risarcibile possa scaturire da un meccanismo causale giudicato – in tesi – inidoneo a integrare il “più probabile che non”. In altri termini, se un determinato grado di probabilità nella consecuzione degli eventi non viene ritenuto, in concreto, sufficiente per istituire un nesso causale giuridicamente rilevante, la conseguenza obbligata dovrebbe essere l’impossibilità di riconoscere un danno risarcibile. Il discorso viene a intrecciarsi con quello della natura giuridica della chance (e quindi con le acquisizioni della tesi “ontologica”): se la chance, per quanto la si voglia tenere distinta dalla situazione giuridica finale, di questa mutua i caratteri fondamentali, si dovrebbe dar conto del perché un nesso causale giuridicamente inesistente – siccome insufficiente a determinare il tutto – sia invece idoneo a determinare il minus rappresentato dalla chance. Minus che, nella maggior parte dei casi si traduce, attraverso il richiamo all’art. 1226 c.c., nell’attribuzione alla vittima di una parte del risarcimento che le spetterebbe in relazione alla totale conculcazione della situazione giuridica finale. Ciò che, dal punto di vista logico, pone il problema di equiparare la perdita di una possibilità mai tradottasi in atto alla perdita (accertata) di una parte del tutto.

La chance transita, in quest’ottica, dal piano del danno-evento a quello del danno-conseguenza, come appare chiaro in Sez. 3, n. 12961/2011, Segreto, non massimata, nella cui motivazione si afferma che “la idoneità della chance a determinare presuntivamente ovvero solo possibilmente la detta consecuzione è, viceversa, rilevante, soltanto ai fini della concreta individuazione e quantificazione del danno, da effettuarsi eventualmente in via equitativa, posto che nel primo caso il valore della chance è certamente maggiore che nel secondo e, quindi, lo è il danno per la sua perdita, che, del resto, in presenza di una possibilità potrà anche essere escluso, all’esito di una valutazione in concreto della prossimità della chance rispetto alla consecuzione del risultato e della sua idoneità ad assicurarla”. Ne consegue che – contrariamente a quanto affermato dalla giurisprudenza prevalente – la domanda di risarcimento del danno da perdita di chance venne interpretata, in questa pronuncia, come “riduzione dell’originaria domanda di risarcimento dell’intero pregiudizio assunto”, sicché “non determina una mutatio libelli ed il relativo accertamento può essere effettuato d’ufficio dal giudice”.

Si giunge, per tale via, a un risultato non dissimile da quello del concorso tra causa umana e causa naturale, in presenza del quale la Suprema Corte (sempre in tema di responsabilità sanitaria) ha avallato una graduazione in minus del pregiudizio risarcibile, consentendo di ascrivere al convenuto – sul piano della causalità giuridica – il solo danno-conseguenza “differenziale” rispetto a quello che il danneggiato avrebbe comunque subito per cause naturali (così Sez. 3, n. 3893/2016, Scarano, Rv. 639350-01). Esiste, tuttavia, una differenza di fondo tra le due fattispecie, se è vero che, in quella da ultimo richiamata, il nesso di causalità materiale tra l’illecito (o l’inadempimento) e l’evento lesivo della situazione giuridica finale è pienamente accertato, mentre in quella della perdita di chance è per definizione escluso.

4. Il danno non patrimoniale da perdita di chance.

Sul versante del danno non patrimoniale, il terreno elettivo sul quale l’istituto del danno da perdita di chance si è sviluppato è senz’altro quello della responsabilità medica.

Le fattispecie in cui la perdita di chance viene generalmente evocata, in questo campo, sono quelle nelle quali il comportamento (per lo più omissivo) del medico determina una contrazione delle possibilità di guarigione o di sopravvivenza del paziente. In questi casi, la successione cronologica degli eventi sfocia nella compromissione/perdita, rispettivamente, della salute o della vita del danneggiato, il quale riporta un danno biologico (da invalidità permanente) ovvero decede. A venire in gioco non è però il danno biologico o da morte tout court, ma un danno quantitativamente e qualitativamente inferiore, correlato non al mancato raggiungimento del risultato sperato (per l’appunto, la guarigione o la sopravvivenza), ma alla perdita della possibilità di conseguirlo.

In questo contesto, la giurisprudenza della Corte ha sostanzialmente riprodotto, fino a tempi recentissimi, lo schema teorico coniato per le fattispecie di danno patrimoniale da perdita di chance.

Pur venendo in rilievo, nella maggior parte dei casi, il diritto alla salute del paziente, punto fermo del ragionamento della Corte era che la chance fosse comunque una “entità patrimoniale a sé stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile d’autonoma valutazione”, tanto che la domanda per il relativo risarcimento viene considerata “ontologicamente diversa dalla domanda di risarcimento del danno da mancato raggiungimento del risultato sperato”. In questi termini si esprime (per vero in un obiter dictum, poiché l’attore non aveva formulato una specifica domanda per tale voce di danno) Sez. 3, n. 4400/2004, Segreto, Rv. 570780-01, che segna il debutto del danno da perdita di chance nel “sotto-sistema” della responsabilità sanitaria. Anche in questa pronuncia si ribadisce la necessità che la chance abbia una certa consistenza, individuandosi il danno-evento nella perdita di una “consistente possibilità” di conseguire il risultato finale.

Pure al cospetto di chances chiaramente proiettate su interessi non patrimoniali (quali sono le possibilità di sopravvivenza/guarigione del paziente), a venire risarcito è un danno (implicitamente considerato come) patrimoniale, determinato dalla lesione di un bene giuridico (diverso e, appunto, di natura patrimoniale), che si risolve tutto nella “mera possibilità del risultato finale”.

Sono evidenti gli echi della teoria ontologica della chance.

Per la verità, in Sez. 3, n. 23846/2008, Frasca, Rv. 604660-01, la Cassazione sembrò avallare la ricostruzione della chance in termini di omogeneità (sotto il profilo della natura patrimoniale o non patrimoniale) rispetto alla situazione giuridica finale: affermò la Corte, infatti, che “il concetto di patrimonialità va correlato al bene in relazione al quale la chance si assume perduta e, quindi, in riferimento al danno alla persona ad una chance di conservazione dell’integrità psico-fisica o di una migliore integrità psico-fisica o delle condizioni e della durata dell’esistenza in vita”. A questo ragionamento, tuttavia, non veniva associata la prospettazione di un danno non patrimoniale, confermandosi la definizione della chance quale entità “patrimoniale” autonoma. Permaneva, pertanto, l’aporia costituita dalla difficoltà di intendere la “possibilità di guarigione” quale posta del patrimonio del danneggiato (che sarebbe conculcata dall’inadempimento del medico).

La possibilità di configurare un danno patrimoniale appare, invero, preclusa dalla difficoltà di rintracciare, in primo luogo, un interesse funzionale al soddisfacimento di un bisogno economico del paziente, suscettibile di valutazione in denaro (e oggetto della lesione), nonché, in secondo luogo (sul terreno del danno-conseguenza), un decremento del patrimonio – inteso in senso stretto – del danneggiato.

Per quel che riguarda, invece, il danno da perdita di chance di sopravvivenza, l’ipotesi ricorrente nella giurisprudenza è quella della tardiva diagnosi di una patologia suscettibile di cagionare la morte del paziente, con conseguente ritardo nella somministrazione di una terapia che, se non idonea a scongiurare tale esito, avrebbe potuto quantomeno lenire le sue sofferenze, ovvero rallentare il decorso infausto della malattia, assicurandogli qualche mese (o anno) di vita in più. Si possono citare, al riguardo, Sez. 3, n. 23846/2008, Frasca, Rv. 604660–01 (che prospetta la conculcazione, a carico del paziente, “di una doppia chance, quella di vivere durante il progresso della malattia meglio (per l’effetto, naturalmente, delle cure palliative che si sarebbero innestate su una situazione sulla quale l’intervento chirurgico si sarebbe avuto prima e, quindi, in un momento del progresso della malattia anteriore) e quella di vivere più a lungo, di poche settimane o di pochi mesi”), e Sez. 3, n. 7195/2014, Barreca, Rv. 630704-01, relativa ad un caso di erroneo trattamento terapeutico di un tumore ovarico, che aveva precluso ad una donna (comunque destinata a morire) una più lunga sopravvivenza (si parla di “perdita della possibilità di vedere rallentato il decorso della malattia e quindi aumentata la durata della sopravvivenza”). Anche in tali pronunce, da un lato si richiamano i precedenti che dipingono la chance come bene giuridico autonomo (sulla scia della teoria ontologica, dunque); dall’altro si profila un danno-conseguenza dal carattere evidentemente non patrimoniale, essendo correlato al miglioramento delle condizioni psico-fisiche della vittima o alla possibilità, per la stessa, di vivere più a lungo.

In ogni caso, viene da chiedersi se il pregiudizio risarcito, in questi casi, consista realmente nella perdita della possibilità di vivere meglio o più a lungo, ovvero – più semplicemente – non assuma le sembianze di un danno biologico (o morale), integrato dal peggioramento delle condizioni di vita della vittima nel periodo che la separa dall’exitus.

5. I recenti approdi della giurisprudenza in tema di danno non patrimoniale da perdita di chance.

In questo scenario, dominato da significative oscillazioni e incertezze, sono intervenute, nel 2018, tre pronunce della Terza Sezione, le quali hanno inteso “sistematizzare” la materia del danno da perdita di chance, compiendo un significativo passo avanti verso la razionalizzazione di tale problematico istituto. La prima (Sez. 3, n. 5641/2018, Travaglino, Rv. 648461-01, 648461-02, 648461-03) si è occupata di un caso di ritardo colposo nella diagnosi di un tumore polmonare. La decisione prende le mosse dalla censura di quello che viene definito un “duplice paralogismo” della teoria della chance, consistente, da un lato, nel ricostruire i tratti caratterizzanti della figura, invariabilmente, intorno al modello del danno patrimoniale; e, dall’altro, nel sovrapporre impropriamente i due distinti elementi della fattispecie dell’illecito, rappresentati dal nesso causale e dal bene tutelato oggetto della lesione. Viene quindi ripristinata la simmetria della chance rispetto alla situazione giuridica soggettiva finale di riferimento, distinguendo “morfologicamente” il danno da perdita di chance patrimoniale da quello non patrimoniale. Mentre la chance patrimoniale (definita “pretensiva”) postula la preesistenza di un quid che incorpora in nuce la possibile evoluzione migliorativa verso la situazione giuridica finale, e viene frustrata dal fatto illecito del danneggiante; la seconda (definita “non pretensiva”) si innesta su una preesistenza negativa (la patologia), e viene dapprima creata, e subito dopo frustrata dall’intervento del sanitario. A tale differenza “morfologica” fa da corollario una distinzione sotto il profilo della liquidazione, posto che, a differenza della chance patrimoniale, il risarcimento della chance non patrimoniale “non potrà essere proporzionale al risultato perduto”, ma dovrà essere equitativamente commisurato alla possibilità di realizzare quel risultato. Per quanto riguarda il nesso di causa, la sentenza sottolinea la necessità di mantenerlo concettualmente autonomo dall’evento di danno, rappresentato dalla possibilità perduta. Ove questo evento (inteso in termini di “eventualità di maggior durata della vita e di minori sofferenze”) sia “apprezzabile”, “serio” e “consistente”, si determinerà un danno da perdita di chance risarcibile; ove, invece, si ravvisino “fattori alternativi che ne interrompano la relazione logica con l’evento (quale il sopravvenire di altra patologia determinante di per sé sola dell’exitus o di altri eventi ascrivibili alla condotta di terzi o dello stesso danneggiato)”, non si configurerà alcun danno.

Altro importante arresto è rappresentato da Sez. 3, n. 6688/2018, Graziosi, Rv. 648486-01, anch’essa in tema di tardiva diagnosi tumorale, che non aveva consentito alla paziente di compiere tempestivamente le scelte più opportune per alleviare le conseguenze della malattia nel periodo che le restava da vivere. La Corte ribadisce, anzitutto, il parallelismo tra natura del danno da perdita di chance e natura del diritto alla cui acquisizione la prima è preordinata. Viene, dunque, sconfessata la teorica “patrimonialistica” della chance quale bene giuridico (patrimoniale) autonomo rispetto alla posizione giuridica “finale”. Segue una rassegna della giurisprudenza più significativa sul danno da perdita di chance nella responsabilità sanitaria, alla quale viene addebitato di avere privato “il concetto di chance della sua ontologica eventualità” e di averlo confuso “con la perdita di beni del cui relativo diritto il paziente è già titolare”. Il concetto di chance viene depurato, quindi, dal riferimento alle ipotesi in cui a venire in questione è la lesione tout court di un diritto soggettivo di cui il paziente è già titolare: è il caso del malato terminale, per il quale “non è ravvisabile la perdita di una possibilità proiettata nel futuro nel senso di futuro miglioramento della propria condizione”, bensì del “diritto alle cure palliative per mantenere il fisico in uno stato sensorialmente tollerabile”, e del “diritto all’esercizio delle proprie capacità psico-fisiche e alla conseguente gestione libera e consapevole di se stesso”. Emerge, quindi, una nuova declinazione del diritto all’autodeterminazione del paziente, la cui lesione si traduce in un pregiudizio assimilabile al danno alla salute (la motivazione parla di “lesione della qualità della vita nel tempo conclusivo di un’esistenza che una persona si trova a trascorrere come malata terminale”).

Il tema è ripreso in Sez. 3, n. 7260 del 2018, Dell’Utri, Rv. 647957-01, in cui pure si discute del danno consistente nell’imposizione, a carico del paziente, “di una condizione esistenziale di materiale impedimento a scegliere “cosa fare” nell’ambito di ciò che la scienza medica suggerisce per garantire la fruizione della salute residua fino all’esito infausto, ovvero di programmare il suo essere persona e, dunque, l’esplicazione delle sue attitudini psico-fisiche in vista e fino a quell’esito”. Anche in questo caso, viene messa a fuoco dalla Corte la lesione di un bene non qualificabile in termini di chance, ma “reale, certo (sul piano sostanziale) ed effettivo, (..) apprezzabile con immediatezza quale correlato del diritto di determinarsi liberamente nella scelta dei propri percorsi esistenziali in una condizione di vita affetta da patologie ad esito certamente infausto”: una “specifica forma dell’autodeterminazione individuale”, che dà luogo a un danno sostanzialmente in re ipsa, dal momento che la sua risarcibilità non è subordinata all’allegazione delle concrete scelte del paziente relativamente all’ultimo tratto della sua esistenza.

Tra le pronunce del 2018 in tema di perdita di chance non patrimoniale va menzionata anche Sez. 3, n. 3691/2018, Sestini, Rv. 647601–01, che discorre di “logica e giuridica incompatibilità” tra danno da perdita di chance e danno biologico o morale, nel senso che “il riconoscimento congiunto del danno da perdita di chance e di quello biologico comporterebbe dunque la necessità di affermare che, accertato un concreto nocumento alla salute conseguente alla condotta del sanitario, il danneggiato conservi il diritto a essere risarcito per la perdita di una chance di cura, che è tuttavia superata dall’avvenuta lesione dell’integrità psicofisica, in una relazione di assorbimento tra “contenente” e “contenuto”; il che non può essere consentito, se non a pena di un’inammissibile duplicazione delle voci risarcitorie”.

6. Gli orientamenti della giurisprudenza del 2018 in tema di danno patrimoniale da perdita di chance.

Per quanto riguarda il danno da perdita di chance patrimoniale, Sez. 3, n. 14916 del 2018, Iannello, Rv. 649303-01, ha esaminato il caso in cui un avvocato lamentava l’errato inserimento dei propri dati negli elenchi (e nei siti internet) delle Pagine Bianche e Pagine Gialle, configurando un danno di tal fatta, senza ritenere necessaria la prova della mancata acquisizione di nuovi clienti a causa dell’illecito, “posto che proprio l’incertezza sul punto, in un senso o nell’altro, definisce la chance di cui si lamenta la perdita”.

Discorre di danno da perdita di chance, nel campo del diritto societario, Sez. 1, n. 19741 del 2018, Di Marzio M., Rv. 650161-01, con riguardo alla perdita della possibilità di disinvestimento azionario, preclusa dall’illegittima omissione di un’offerta pubblica d’acquisto. Anche in questo caso (come in altre pronunce sopra richiamate) oggetto della decisione sembra essere un vero e proprio danno da lucro cessante, del tutto coincidente con “quello che l’azionista avrebbe potuto conseguire se l’Opa fosse stata lanciata ed egli vi avesse aderito”, tanto che il risarcimento “va determinato raffrontando il prezzo di rimborso delle azioni in caso di Opa con il loro valore effettivo ritratto dalle risultanze di borsa, secondo il successivo andamento del titolo, nell’arco temporale intercorrente tra il giorno in cui si è consumata la violazione dell’obbligo di Opa e quello del disinvestimento (se vi è stato, ovvero in caso contrario della proposizione della domanda risarcitoria)”.

Da segnalare, infine, Sez. 3, n. 29829 del 2018, Scarano, Rv. 651843-01, occupatasi del danno patrimoniale patito dal socio di una società di persone per la mancata percezione degli utili dovuta alla chiusura della società, in conseguenza dell’infortunio (con conseguente perdita della capacità lavorativa) occorso ad altro socio, unico prestatore d’opera infungibile. Nella motivazione si legge che, “trattandosi di utili dalla società non ancora conseguiti ma meramente futuri, l’impossibilità di relativa ritrazione conseguente alla cessazione della società rimane invero integrata un’ipotesi di lesione aquiliana della mera possibilità, qualificabile come chance, del relativo conseguimento”. Si parla di una “ragione di credito avente ad oggetto la chance di conseguimento degli utili futuri”, considerata come una posizione giuridica attuale di vantaggio in termini di possibilità, ciò che riverbera in termini di diminuzione equitativa del risarcimento, rispetto all’integrale ammontare degli utili ipoteticamente realizzabili.

7. Il danno da perdita di chance nella giurisprudenza “lavoristica” del 2018.

Nell’ambito della sezione lavoro continua, niente affatto sopita, la dialettica tra la tesi eziologica e quella ontologica della chance.

Se Sez. L, n. 13483/2018, Di Paolantonio, Rv. 64874101 ha aderito alla tesi ontologica, Sez. L, n. 11165/2018, Bellè, n. 64818701 e Sez. L, n. 25727/2018, Tria, Rv. 65105502, hanno invece scelto l’approccio causale.

La prima delle due pronunzie è resa in un caso di illegittima cancellazione dell’invalido dalle liste di collocamento obbligatorio e si interroga se da detta cancellazione consegua un danno patrimoniale da possibilità perduta.

A tal fine opera, in primo luogo, una importante distinzione tra la posizione giuridica dell’invalido che, in materia di assunzione obbligatoria, lamenti nei confronti della P.A. di essere stato illegittimamente cancellato dalle liste o di non essere stato reiscritto tempestivamente, da quella del soggetto, avviato al lavoro, cui sia stata poi illegittimamente rifiutata l’iscrizione.

In questa seconda ipotesi, scrive il giudice di legittimità, si fa valere, infatti, una responsabilità contrattuale da inadempimento consistente nella mancata instaurazione del rapporto lavorativo, sicché, senza bisogno di specifica prova, il risarcimento può essere parametrato alle retribuzioni che l’avviato al lavoro avrebbe percepito se – come avrebbe dovuto – fosse stato assunto tempestivamente.

Nella prima ipotesi invece (quella di illegittima cancellazione dalle liste o anche di mancata tempestiva reiscrizione nelle stesse), il danno cagionato è quello tipico da perdita di chance, consistente nell’incisione della possibilità dell’invalido di ottenere un avviamento.

Fatta questa precisazione, in ordine alla qualificazione della possibilità perduta, la Corte la definisce come concreta ed effettiva occasione favorevole di conseguire un determinato bene o un determinato risultato, precisando che essa non costituisce una mera aspettativa di fatto (che, come tale, sarebbe irrisarcibile), ma piuttosto una entità patrimoniale a sé stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile di autonoma valutazione, un danno concreto ed attuale, sebbene non coincidente con il risultato utile al quale si aspirava, ma piuttosto alla probabilità di conseguirlo. È evidente l’accoglimento della tesi ontologica.

Quanto all’onere della prova della possibilità di raggiungere il risultato sperato, la pronunzia, in adesione ai più recenti approdi della giurisprudenza di legittimità, ritiene che essa gravi sul ricorrente, il quale potrà offrirla anche per mezzo di presunzioni.

Una volta assolto l’onere probatorio, il danno va liquidato in via equitativa, tenendo conto, quale parametro di riferimento, delle retribuzioni perse (con le quali pure non coincide), e rapportandole al grado di probabilità ed alla natura del danno da perdita di chance.

La pronunzia, dunque, qui aziona i tipici controlimiti giurisprudenziali, volti a delimitare l’area del risarcimento alle sole “chances sérieuses”, chiamando in campo, peraltro, anche la percentuale probabilistica della possibilità perduta da accertare eziologicamente.

Sul binario che procede in senso opposto, per converso, Sez. L, n. 11165/2018, Bellè, Rv. 64818701, che abbraccia la tesi eziologica.

La sentenza afferma che l’espletamento di una procedura concorsuale illegittima non comporta di per sé il diritto al risarcimento del danno da possibilità perduta, occorrendo che il dipendente provi il nesso di causalità tra l’inadempimento datoriale ed il suddetto danno in termini prossimi alla certezza, essendo insufficiente il mero criterio di probabilità quantitativa dell’esito favorevole.

Nello specifico, il soggetto che agiva in giudizio per il risarcimento da perdita di chance assumeva che, in caso di espletamento di una procedura concorsuale illegittima, in carenza di ulteriori parametri, la chance di superamento della procedura poteva essere positivamente apprezzata in virtù del mero rapporto tra posti messi a concorso ed il numero dei soggetti partecipanti alla selezione, che – nella specie – avrebbe determinato una percentuale con esito positivo pari al 55% (sicché, applicando la regola del “più probabile che non”, il danneggiato avrebbe avuto diritto al risarcimento). La deduzione non viene ritenuta corretta dal giudice di legittimità che così argomenta la decisione.

In primis, è infondato l’assunto, pure sostenuto dalla parte ricorrente, secondo cui l’illegittimità delle procedure concorsuali ridonderebbe sempre nella causazione di un danno risarcibile, salvo che il datore provi che il lavoratore non avesse alcuna possibilità di superare positivamente la valutazione concorsuale; in secundis, è onere del danneggiato dimostrare, pur se solo in modo presuntivo, il nesso di causalità tra l’inadempimento datoriale ed il danno, quindi la concreta sussistenza della possibilità di risultare vincitore nella procedura concorsuale.

A tal riguardo, si evidenzia, in linea di continuità con gli insegnamenti della S.C., che la prova del danno è sempre a carico del danneggiato che può offrirla anche a mezzo di presunzioni, dimostrando la ricorrenza del nesso causale tra il danno e l’inadempimento, mentre è la prova dell’inadempimento che è retta dalla regola tracciata da Sez. U, n. 13533/2001, Preden, Rv. 54995601.

Quanto poi alla verifica della regola causale – ed è questo uno dei punti più interessanti del percorso motivazionale – si afferma che, pur volendo ritenere che il criterio della probabilità statistica possa costituire mezzo idoneo all’apprezzamento del nesso eziologico, non può essere ritenuto utile e valorizzato ai fini del risarcimento del danno da possibilità perduta il mero superamento della soglia del 50% (nella fattispecie nel rapporto tra posti disponibili e partecipanti al concorso).

Si legge a tal riguardo nella sentenza che “rispetto alla prova del nesso causale tra comportamento illegittimo e danno risarcibile per perdita di chance, la giurisprudenza di questa Corte è attestata su parametri valutativi che richiedono l’apprezzamento del probabile trasformarsi della chance in reale conseguimento del beneficio in termini di ‘elevata probabilità, prossima alla certezza’ (…) Tale impostazione va ribadita, in quanto è chiaro che una cosa è la determinazione di un nesso causale tra un comportamento e danno nel quale caso in ambito civilistico vale la cd. regola del ‘più probabile che non’ ed altro è stabilire i criteri di valutazione della rilevanza di un pregiudizio che (…) è addirittura incerto nella sua verificazione.”

Proprio detta incertezza nella verificazione dell’evento (possibilità perduta), secondo questa ricostruzione, impone che la regola causale attinga nel caso di perdita di chance, ai parametri più elevati della scala probabilistica, sicché, se l’unico elemento valutativo è quello statistico, il livello di probabilità per ritenere sussistente il diritto al risarcimento non potrà essere quello del mero superamento della soglia del 50%, essendo necessario un grado di probabilità di verificazione del risultato quasi prossimo alla certezza.

A tal proposito, va peraltro rilevato che l’affermazione che lo statuto eziologico in materia di chance ha in sostanza regole diverse e più severe di quelle normalmente volte all’accertamento della causalità in diritto civile, in cui è sufficiente la regola della preponderanza causale, è stata compiuta in plurime pronunzie, ex plurimis, Sez. 3, n. 04052/2009, Ambrosio, Rv. 60702101; Sez. 3, n. 11353/2010, Vivaldi, Rv. 61300001; Sez. L, n. 04014/2016, Mammone, Rv. 63908601 (in cui è ritenuto sufficiente, ai fini del risarcimento da possibilità perduta di promozione, il coefficiente probabilistico del 90%); Sez. 1, n. 19604/2016, Valitutti, Rv. 64133401 (in cui, pur accogliendosi la tesi ontologica della chance quale danno emergente, il problema causale viene affrontato ai fini della quantificazione della possibilità perduta, affermandosi, azionando i noti controlimiti giurisprudenziali, che la sua esistenza deve risultare in termini di certezza o di elevata probabilità); da ultimo, sulla stessa scia anche Sez. L, n. 11906/2017, Tria, Rv. 64433502, in cui del pari si ribadisce che la chance occorre sia provata in termini di certezza o di elevata probabilità.

Infine, si occupa della chance anche Sez. L, n. 25727/2018, Tria, Rv. 65105502, la quale, aderendo alla tesi eziologica, afferma che in tema di risarcimento di tale danno (nel caso specifico veniva in rilievo il danno da perdita di chance di promozione) incombe sul singolo dipendente l’onere di provare, pur se in modo presuntivo, il nesso di causalità tra l’inadempimento datoriale ed il danno, ossia la concreta sussistenza della probabilità di ottenere la qualifica superiore.

La pronunzia tocca, peraltro, anche un ulteriore tema, quello della violazione degli artt. 3 e 97 della Costituzione da parte del datore, che ridondano in violazioni degli artt. 1175 e 1375 c.c., sicché, qualora tali regole non vengano rispettate (in ipotesi perché la P.A. violi il principio di uguaglianza o non motivi le proprie scelte), è – in linea generale – configurabile, scrive la S.C., un inadempimento contrattuale suscettibile di produrre un danno risarcibile dal giudice ordinario.

In conclusione, è evidente – allo stato – la presenza di plurime impostazioni ricostruttive della risarcibilità della chance che meritano ulteriore riflessione ai fini della composizione, oltre che, probabilmente, una complessiva rielaborazione dell’approccio ai temi causali, come già innanzi si è detto, previa enucleazione della natura della figura.

Di detti aspetti, con riferimento anche alle possibili linee di tendenza future, si discorrerà nel paragrafo che segue.

8. Conclusioni.

Dalla panoramica svolta nei paragrafi precedenti appare chiaro come la giurisprudenza – che pure ha compiuto, nel 2018, importanti passi avanti nel senso della chiarificazione dei caratteri distintivi della fattispecie – sia ancora lontana dall’avere assicurato alla perdita di chance uno statuto teorico solido e coerente con i principi fondamentali della responsabilità civile.

Apprezzabile appare, in primo luogo, la sottolineatura delle specificità che l’istituto in esame assume, in relazione alla natura (patrimoniale o non patrimoniale) della situazione giuridica finale, “a immagine della quale” la chance è modellata. Tale presa di posizione sembra, in primo luogo, escludere la riproponibilità della tesi c.d. ontologica con riguardo al danno non patrimoniale: se, in questo caso, anche la chance riveste natura non patrimoniale, essa evidentemente non può – sul piano logico – configurarsi come “entità patrimoniale a sé stante”.

Si pone, però, a questo punto, il problema di individuare l’interesse non patrimoniale (peraltro di rango inviolabile) “incorporato” dalla chance – che sia diverso dal danno alla salute, dal danno morale, o dal danno da lesione del diritto all’autodeterminazione del paziente –, onde giustificare l’autonoma dignità concettuale del danno non patrimoniale da perdita di chance. L’indiscriminata adozione (più o meno consapevole) del modello di responsabilità extracontrattuale (che richiede, quale anello intermedio della catena causale che conduce dalla condotta al danno-conseguenza, la lesione di una situazione giuridica soggettiva del danneggiato) aveva consentito di aggirare il problema attraverso l’adozione della concezione ontologica della chance, che “ipostatizzava” la possibilità di conseguimento del risultato trasformandola in un elemento preesistente del patrimonio del danneggiato (la cui lesione, peraltro, determinava un danno sostanzialmente in re ipsa, con contestuale obliterazione dell’elemento del danno-conseguenza).

Ma l’adesione alla logica contrattuale (che rende superflua l’individuazione della situazione giuridica soggettiva lesa, discendendo la responsabilità del debitore direttamente dall’inadempimento dell’obbligazione preesistente) non sembra poter dissipare tutti i dubbi. È noto, infatti, che, alla stregua della sistemazione teorica adottata dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 26972/2008, Preden, Rv. 605494-01, il danno non patrimoniale scaturente da fattispecie di responsabilità contrattuale è risarcibile (oltre che nelle ipotesi di espressa previsione della legge ordinaria e di ricorrenza di una fattispecie astratta di reato) in caso di lesione di diritti inviolabili della persona costituzionalmente garantiti. Ci si deve, quindi, domandare se a tale categoria di diritti possa ascriversi, nel campo della responsabilità medica, la chance di guarigione (intesa come situazione giuridica soggettiva diversa dal diritto alla salute), e, prima ancora, se quest’ultima possa essere concepita quale bene giuridico autonomo (la cui salvaguardia venga “presa in carico” dal medico nel momento dell’esecuzione della prestazione sanitaria). Prendendo come riferimento il danno da perdita di chance di guarigione, dovrebbe trattarsi di un interesse giuridico omogeneo al diritto alla salute (sotto il profilo della natura non patrimoniale), ma non coincidente con esso (pena l’inutilità della categoria di cui si va discorrendo).

Un pronunciamento chiarificatore sul punto, da parte della giurisprudenza, si mostra – all’evidenza – improcrastinabile.

Sotto il profilo del nesso causale, poi, se è senz’altro importante la puntualizzazione circa l’applicabilità, alla perdita di chance, delle ordinarie regole causali civilistiche, non risultano adeguatamente sviluppati i corollari che ne derivano, dal punto di vista della necessaria combinazione di due declinazioni della probabilità: da un lato, quella che sostanzia “ontologicamente” la chance; dall’altro, quella che esprime il parametro di riferimento elettivo per l’accertamento del nesso causale (“più probabile che non”). Con la conseguenza che il fatto (attivo o omissivo) viene collegato, “più probabilmente che non”, ad una probabilità. Rimane, quindi, irrisolto il nodo della compatibilità della causalità civilistica con uno scenario caratterizzato da un evento di danno per definizione incerto, nel senso che (come afferma testualmente, in motivazione, Sez. 3, n. 5641/2018, Travaglino), “le conclusioni del c.t.u. risultano, cioè, espresse in termini di insanabile incertezza rispetto all’eventualità di maggior durata della vita e di minori sofferenze, ritenute soltanto possibili alla luce delle conoscenze scientifiche e delle metodologie di cura del tempo”). Non viene, in tal modo, superata (se non con il richiamo a ragioni di politica del diritto) la critica che mette l’accento su una sostanziale “evaporazione” del nesso causale, che dà la stura a un danno risarcibile in maniera pressoché automatica, in contrasto con la proclamata necessità che la chance rivesta i caratteri della serietà e consistenza.

Per quanto concerne il danno patrimoniale, soprattutto nella sua declinazione “lavoristica”, una volta delimitato rigorosamente il campo rispetto alle ipotesi in cui viene in rilievo un danno da lucro cessante tout court (come si è visto sopra), permane il nodo rappresentato dalla “misurabilità” delle probabilità necessarie ad integrare la figura di pregiudizio in discorso (benché non sufficienti a costituire il lucro cessante), e della prova che, al riguardo, si richiede al danneggiato. Con il rischio, guardando la scala delle probabilità, di giungere, verso il basso, a un risarcimento sostanzialmente punitivo nei confronti del danneggiante e di tributare al danneggiato, verso l’alto, nulla più che il danno da lucro cessante, sul presupposto però di una causalità maggiormente “incerta”.

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CAPITOLO IX

I SINGOLI CONTRATTI

(di Stefania Billi, Stefano Pepe (1) )

Sommario

1 Il contratto di appalto privato. - 1.1 Gli atti amministrativi autorizzatori dell’opera e la loro rilevanza ai fini della efficacia del contratto di appalto. - 2 Il contratto di assicurazione. - 2.1 L’assicurazione della responsabilità civile. - 2.2 L’assicurazione obbligatoria r.c.a. - 3 Il comodato tra figure tipiche e atipiche. - 4 I contratti agrari, la denunciatio, natura e forma - 5 La tutela del credito, tra garanzie tipiche e atipiche o improprie. - 6 La locazione di immobili abitativi e non abitativi. - 6.1 Sulla responsabilità del locatore per fatto del conduttore – ipotesi di responsabilità per fatto altrui. - 6.2 Locazione a uso commerciale – clausola contrattuale di rinuncia a indennità di avviamento – Nullità – Limiti. - 7 Il mandato. - 8 La mediazione. - 9 Il mutuo. - 10 La transazione. - 11 Il Trasposto. - 12 La Vendita - 12.1 Vizi del consenso e garanzia per i vizi. - 12.2 Azioni di annullamento e di risoluzione e azioni risarcitorie e azione di simulazione. - 12.3 I diversi tipi di vendita. - 12.4 Il contratto preliminare di vendita. - 12.5 La vendita di beni immobili.

1. Il contratto di appalto privato.

Con riferimento a tale tipo di contratto assume rilievo il tema dei limiti e del contenuto dell’onere di diligenza qualificata imposta all’appaltatore e il relativo onere probatorio, affrontato da Sez. 3, n. 15732/2018, Scarano, Rv. 649409-02, che ha definito l’ambito dei reciproci obblighi e delle conseguenti responsabilità contrattuali che le parti (committente e appaltatore) assumono con la conclusione del contratto e dei conseguenti oneri probatori in sede di azione di inadempimento. In particolare, nella sentenza si è posto in luce che corollario della conclusione del contratto di appalto è la natura professionale delle obbligazioni da esso derivanti; obbligazioni che, dunque, per la natura del contratto, sono caratterizzate dalla specifica abilità tecnica dell’appaltatore, in cui il committente fa affidamento nel conferirgli l’incarico, al fine del raggiungimento del risultato perseguito o sperato. Tale affidamento è tanto più accentuato, in vista dell’esito positivo nel caso concreto conseguibile, quanto maggiore è la specializzazione del professionista, nonché la qualità organizzativa, materiale e tecnica della struttura operativa di cui si avvale.

Fatte tali premesse la Corte di cassazione ha, poi, richiamato l’indirizzo giurisprudenziale secondo cui in tema di contratto di appalto, l’appaltatore è tenuto a realizzare l’opera a regola d’arte, osservando nell’esecuzione della prestazione la diligenza qualificata ai sensi dell’art. 1176, comma 2, c.c., con la conseguenza che se l’impegno dovuto dall’appaltatore si profila superiore a quello del comune debitore, esso va viceversa considerato come corrispondente alla diligenza normale in relazione alla specifica attività professionale esercitata. Il professionista deve così impiegare la perizia ed i mezzi tecnici adeguati allo standard professionale della sua categoria, tale standard valendo a determinare, in conformità alla regola generale, il contenuto della perizia dovuta e la corrispondente misura dello sforzo diligente adeguato per conseguirlo, nonché del relativo grado di responsabilità. In buona sostanza, al professionista, e a fortiori allo specialista, è richiesta una diligenza particolarmente qualificata dalla perizia e dall’impiego di strumenti tecnici adeguati al tipo di attività da espletarsi. La Corte rileva, quindi, che ai diversi gradi di specializzazione corrispondono diversi gradi di perizia, potendosi così distinguere tra una diligenza professionale generica e una diligenza professionale variamente qualificata, giacché chi assume un’obbligazione nella qualità di specialista, o un’obbligazione che presuppone una tale qualità, è tenuto alla perizia che è normale della categoria (cfr., con riferimento alla diligenza professionale del medico c.d. “strutturato”, Sez. 3, n. 8826/2007, Scarano, Rv. 599204-01)

La difficoltà dell’intervento e la diligenza del professionista vanno dunque valutate in concreto, rapportandole al livello di specializzazione del professionista e alle strutture tecniche a sua disposizione, sicché il medesimo deve, da un canto, valutare con prudenza e scrupolo i limiti della propria adeguatezza professionale, ricorrendo anche all’ausilio di un consulto e, da altro canto, adottare tutte le misure volte ad ovviare alle carenze strutturali ed organizzative financo consigliando al committente, se manca l’urgenza di intervenire, di rivolgersi ad altro professionista.

La Corte prosegue rilevando che lo spostamento verso l’alto della soglia di normalità del comportamento diligente dovuto determina la corrispondente diversa considerazione del grado dì tenuità della colpa, con corrispondente preclusione della prestazione specialistica al professionista che specializzato non è (cfr. Sez. 3 n. 12273/2004, Chiarini, Rv. 574123-01)

Alla luce di quanto sopra la Corte ha affrontato il caso particolare in cui l’appaltatore compie l’opera a lui affidata attendendosi alle previsioni progettuali redatte da terze persone, come nel caso in cui il committente abbia predisposto il progetto e fornito indicazioni sulla relativa realizzazione. In tali ipotesi l’appaltatore può comunque essere ritenuto responsabile per i vizi dell’opera qualora non abbia, nel fedelmente eseguire il progetto e le indicazioni ricevute, al primo segnalato eventuali carenze ed errori. Al contrario, va esente da responsabilità laddove il committente, pur reso edotto delle carenze e degli errori, gli richieda di dare egualmente esecuzione al progetto o gli ribadisca le indicazioni, in tale ipotesi risultando l’appaltatore ridotto a mero nudus mínister.

Consegue da quanto sopra che la responsabilità dell’appaltatore è da escludere solo nell’ipotesi in cui risulti costituire passivo strumento nelle mani del committente, direttamente e totalmente condizionato dalle istruzioni ricevute senza possibilità di iniziativa o vaglio critico (cfr. Sez. 2, n. 1981/2016, Manna, Rv. 638792-01).

Precisa la Corte che in ogni altro caso la prestazione dovuta dall’appaltatore implica invero pure il controllo e la correzione degli eventuali errori del progetto, richiedendo lo specifico settore di competenza in cui rientra l’attività esercitata la specifica conoscenza ed applicazione delle cognizioni tecniche che sono tipiche dell’attività necessaria per l’esecuzione dell’opera; pertanto, si configura come onere dell’appaltatore predisporre un’organizzazione della sua impresa che assicuri la presenza di tali competenze per poter adempiere l’obbligazione di eseguire l’opera immune da vizi e difformità (artt. 1667, 1668, 1669 c.c.).

La conclusione di tale ragionamento è che l’appaltatore risponde per i difetti della costruzione derivanti (pure) da vizi della cosa anche laddove gli stessi siano ascrivibili alla imperfetta od erronea progettazione fornitagli dal committente, in tal caso prospettandosi l’ipotesi della responsabilità solidale con il progettista, a sua volta responsabile nei confronti del committente, per inadempimento del contratto d’opera professionale ex art. 2235 c.c.

Ed ancora, la Corte afferma che ove l’appaltatore svolga anche i compiti di ingegnere progettista e di direttore dei lavori, l’obbligo di diligenza è ancora più rigoroso, essendo egli tenuto, in presenza di situazioni rivelatrici di possibili fattori di rischio, ad eseguire gli opportuni interventi per accertarne la causa ed apprestare i necessari accorgimenti tecnici volti a garantire la realizzazione dell’opera senza difetti costruttivi.

Alla luce di tali motivazioni la Corte è passata ad esaminare la tematica dell’onere probatorio in caso di azione di inadempimento, rilevando che la distinzione fra prestazione di facile esecuzione e prestazione implicante la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà di cui all’art. 2236 c.c., operante anche in materia di responsabilità dell’appaltatore, non rileva quale criterio di ripartizione dell’onere della prova, ma soltanto ai fini della valutazione del grado della diligenza e del corrispondente grado della colpa del professionista. Ne consegue che, in caso di inesatta realizzazione dell’opera commissionata, grava sull’appaltatore sia l’onere di dimostrare la particolare difficoltà della prestazione, sia l’onere di provare che il risultato della stessa, non rispondente a quello convenuto, è dipeso da fatto a sé non imputabile in quanto non ascrivibile alla propria condotta conforme alla diligenza qualificata, dovuta in relazione alle specifiche circostanze del caso concreto.

La riconduzione dell’obbligazione professionale nell’ambito del rapporto contrattuale e della eventuale responsabilità che ne consegua nell’ambito di quella da inadempimento ex art. 1218 c.c., e segg., comporta, sotto il profilo dell’onere probatorio, che il creditore che agisce per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l’adempimento, deve dare la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre è al debitore convenuto che incombe di dare la prova del fatto estintivo, costituito dall’avvenuto adempimento; di talché il creditore non è tenuto a provare la colpa del professionista e la relativa gravità, né la distinzione tra prestazione di facile esecuzione e prestazione implicante la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà può d’altro canto valere come criterio di distribuzione dell’onere della prova, rilevando essa solamente ai fini della valutazione del grado di diligenza e del corrispondente grado di colpa riferibile al professionista. La Corte ha, quindi, affermato che l’imposizione della presunzione dell’onere della prova in capo al debitore, il cui fondamento si è indicato nell’operare del principio di c.d. vicinanza alla prova o di riferibilità, va ancor più propriamente ravvisato, come sottolineato anche in dottrina, nel criterio della maggiore possibilità per il debitore onerato di fornire la prova, in quanto rientrante nella sua sfera di dominio, in misura tanto più marcata quanto più l’esecuzione della prestazione consista nell’applicazione di regole tecniche sconosciute al creditore, essendo estranee alla comune esperienza, e viceversa proprie del bagaglio del debitore come nel caso specializzato nell’esecuzione di una professione protetta.

Alla luce dei principi sopra indicati, la Corte ha rilevato che all’art. 2236 c.c. non va conseguentemente assegnata rilevanza alcuna ai fini della ripartizione dell’onere probatorio, giacché incombe in ogni caso al professionista dare la prova della particolare difficoltà della prestazione, laddove la norma in questione implica solamente una valutazione della colpa del medesimo, in relazione alle circostanze del caso concreto. Da ciò consegue che l’appaltatore è responsabile ove abbia mantenuto un comportamento violativo della diligenza professionale qualificata dalla specifica attività esercitata cui è tenuto ex artt. 1176, comma 2, 2236 c.c.

La Corte ha concluso affermando che alla luce di tali disposizioni incombe al professionista dare la prova della particolare difficoltà della prestazione e, in caso di mancata o inesatta realizzazione dell’opera commissionata, l’appaltatore, la cui obbligazione è di risultato, è tenuto a dare la prova che il risultato “anomalo” o anormale rispetto al convenuto esito della propria prestazione professionale dipende da fatto a sé non imputabile, in quanto non ascrivibile alla condotta mantenuta in conformità alla diligenza qualificata dovuta, in relazione alle specifiche circostanze del caso concreto. Risulterebbe, infatti, incoerente ed incongruo richiedere al professionista la prova idonea a vincere la presunzione di colpa a suo carico quando trattasi di prestazione di facile esecuzione, e addossare viceversa al creditore l’onere di provare “in modo preciso e specifico” le “modalità ritenute non idonee” quando l’opera è di particolare o speciale difficoltà. In tali circostanze è, infatti, indubitabilmente il professionista/specialista a conoscere le regole dell’arte e la situazione specifica del caso concreto, avendo pertanto la possibilità di assolvere all’onere di provare l’osservanza delle prime e di motivare in ordine alle scelte operate in ipotesi in cui maggiore è la discrezionalità rispetto a procedure standardizzate.

1.1. Gli atti amministrativi autorizzatori dell’opera e la loro rilevanza ai fini della efficacia del contratto di appalto.

Il contratto di appalto si innesta frequentemente con procedimenti amministrativi autorizzatori volti a consentire, spesso sotto il profilo urbanistico, la realizzazione dell’opera oggetto del contratto stipulato tra le parti. Da ciò consegue che gli esiti di tali procedimenti influiscono anche sugli effetti del contratto di appalto.

In proposito è costante l’indirizzo giurisprudenziale secondo cui il contratto di appalto avente ad oggetto la costruzione di un’opera senza la prescritta concessione edilizia è nullo per illiceità dell’oggetto, nullità che impedisce al contratto di produrre i suoi effetti sin dall’origine, senza che rilevi l’eventuale ignoranza delle parti circa il mancato rilascio della concessione. Tale ignoranza è, infatti, inescusabile, attesa la grave colpa di ciascun contraente che avrebbe potuto verificare, con l’ordinaria diligenza, la reale situazione del bene dal punto di vista amministrativo (Sez. 2, n. 21418/2018, Orilla, Rv. 650037-02).

In linea con questo orientamento, la Corte di legittimità aveva in precedenza affermato che, trattandosi di contratto nullo, ex artt. 1346 e 1418 c.c., in quanto avente un oggetto illecito per violazione delle norme imperative di cui agli artt. 31 e 41 della legge urbanistica n. 1150 del 1942 e artt. 10 e 13 della legge n. 765 del 1967, la nullità permane ancorché sopraggiunga condono edilizio, in quanto essa, una volta verificatasi, anche se non ancora dichiarata, impedisce sin dall’origine al contratto di produrre gli effetti suoi propri (cfr. Sez. 2, n. 2884/2002, Orestano, Rv. 552622 – 01).

Tuttavia, Sez. 2, n. 10173/2018, Criscuolo, Rv. 648168-01, dando continuità agli approdi giurisprudenziali già raggiunti da Cass., Sez. 1, 03913/2009, Rv. 606891-01, ha affermato che sfugge alla sanzione della nullità, l’ipotesi in cui la concessione sia rilasciata dopo la data di stipula del contratto ma, comunque, prima della realizzazione dell’opera, non essendo conforme alla mens legis la sanzione di nullità comminata ad un contratto il cui adempimento, in ossequio al precetto normativo, sia stato intenzionalmente posposto al previo ottenimento della concessione o autorizzazione richiesta, e potendosi tale contratto considerare sospensivamente condizionato, in forza di presupposizione, al previo ottenimento dell’atto amministrativo mancante al momento della stipulazione.

Alla luce di tale principio la Corte, con la sentenza richiamata, ha concluso che deve affermrsi la validità del contratto ove le parti condizionino la stessa esecuzione dei lavori al previo rilascio di un provvedimento autorizzativo, che funge da presupposizione della sua efficacia.

2. Il contratto di assicurazione.

Sulla questione del cumulo tra indennizzo assicurativo e risarcimento, Sez. U, n. 12565/2018, Giusti, Rv. 648648-01 si è pronunciata componendo un contrasto sorto all’interno della S.C. In particolare, il quesito verteva sulla necessità, nella liquidazione del danno da fatto illecito, di detrarre dall’ammontare dei danni risarcibili dal danneggiante l’indennità derivante dall’assicurazione contro i danni che il danneggiato abbia percepito. La pronuncia, resa con riferimento al pregiudizio sofferto dalla compagnia aerea titolare del velivolo abbattuto nel disastro aviatorio di Ustica, ha escluso la possibilità del cumulo, precisando che il danno da fatto illecito deve essere liquidato sottraendo dall’ammontare del danno risarcibile l’importo dell’indennità che il danneggiato-assicurato abbia riscosso in conseguenza di quel fatto. Per giungere alla soluzione la S.C. chiarisce come la questione debba essere inserita in un tema di carattere più generale, che attiene alla individuazione della attuale portata del principio della compensatio lucri cum damno e offre i canoni per rispondere all’interrogativo se e a quali condizioni, nella determinazione del risarcimento del danno da fatto illecito, accanto alla poste negative si debbano considerare, operando una somma algebrica, le poste positive che, successivamente al fatto illecito, si presentano nel patrimonio del danneggiato. In particolare, chiarisce che occorre accertare la finalità e la funzione dei diversi tipi di ristoro.

Nel caso esaminato, in capo al danneggiato concorrono due distinti diritti di credito che, pur avendo fonte e titolo diversi, tendono ad un medesimo fine: il risarcimento del danno provocato dal sinistro. Il cumulo non è consentito, in quanto tali diritti sono concorrenti, costituendo, sotto il profilo funzionale, un mezzo idoneo alla realizzazione del medesimo interesse diretto all’eliminazione del danno causato nel patrimonio dell’assicurato-danneggiato per effetto della verificazione del sinistro. Ne consegue che l’assicurato-danneggiato non può pretendere dal terzo responsabile e dall’assicuratore che gli indennizzi nel totale superino i danni che il suo patrimonio ha subito.

Sul diverso versante della validità di clausole inserite nel contratto di assicurazione, Sez. 3, n. 11757/2018, Ambrosi, Rv. 648707-01 ha chiarito che la clausola con la quale si pattuisce che l’assicurato sia indennizzato mediante la riparazione in forma specifica del danno occorsogli in conseguenza di un sinistro stradale traccia i confini dell’oggetto del contratto, in quanto non limita le conseguenze della colpa o dell’inadempimento e non esclude, ma specifica, il rischio garantito, stabilendo il perimetro entro il quale l’assicuratore è tenuto a rivalere l’assicurato.

Peculiare è l’ipotesi esaminata da Sez. 3, n. 09182/2018, D’Ovidio, Rv. 648591-01, relativa alla clausola di un contratto di assicurazione che preveda, nel caso in cui il pagamento dei premi successivi al primo avvenga con un particolare ritardo (nella specie, superiore a novanta giorni), il protrarsi della sospensione della copertura assicurativa per un ulteriore periodo stabilito dalle parti (nella specie, trenta giorni dopo l’avvenuto pagamento): tale clausola, afferma la citata sentenza, non viola l’art. 1901, comma 2, c.c., atteso che tale norma non prevede alcun termine per la riattivazione della polizza dopo il pagamento tardivo delle rate di premio successive, essendo volta a disciplinare solo gli effetti dell’inadempimento e non ad imporre un determinato equilibrio giuridico ed economico dei rapporti di assicurazione.

Con riferimento al contratto di assicurazione per conto di chi spetta, Sez. 3, n. 04923/2018, Fiecconi, Rv. 647363-01 ha precisato che il consenso a pretendere l’indennizzo in luogo dell’avente diritto non può essere presunto in base alla mera sottoscrizione di una clausola di assicurazione che attribuisce al contraente detta potestà. È necessario, viceversa, che la clausola sia confermata da un consenso espresso del terzo beneficiario del contratto, titolare della pretesa. L’art. 1891, comma 2, c.c, configura, infatti, un’ipotesi di sostituzione processuale, la quale può trovare titolo in uno specifico mandato dell’avente diritto che, quanto all’incasso, può avere ad oggetto sia crediti già sorti che crediti eventuali e futuri, ma non può consistere in una rinuncia per la cui validità ed efficacia sarebbero necessarie l’esistenza del diritto e la consapevolezza di tale esistenza. La pronuncia sembra superare il diverso principio affermato da Sez. 3, n. 13359/2004, Durante, Rv. 576439-01.

In tema di coassicurazione, secondo Sez. 1, n. 03958/2018, Di Virgilio, Rv. 647418-01, la clausola di delega o di guida, con cui i coassicuratori conferiscono ad uno solo di essi l’incarico di compiere gli atti relativi allo svolgimento del rapporto assicurativo, non fa venir meno la caratteristica saliente della coassicurazione, consistente nell’assunzione pro quota dell’obbligo di pagare l’indennità, neanche quando preveda che la denuncia di sinistro sia fatta al solo delegato. Ne consegue che, nell’ipotesi in cui l’impresa delegata operi l’integrale pagamento del sinistro, non si realizzano le due ipotesi di surrogazione legale previste dall’art. 1203 n. 3 c.c. e, dunque, non ricorrono le condizioni per il riconoscimento in favore della delegata del privilegio di cui all’art. 78 del d.lgs. 17 marzo 1995, n. 175, riservato solo agli aventi diritto all’indennizzo.

Sotto un’altra prospettiva, Sez. 2, n. 18016/2018, D’Ascola, Rv. 649587-04 ha confermato il principio affermato da Sez. 3, n. 02051/1988, Patroni Griffi, Rv. 457928-01, secondo cui la surroga dell’assicuratore, prevista dall’art. 1916 c.c., non avviene automaticamente per effetto del solo pagamento dell’indennità all’assicurato, ma solo quando l’assicuratore medesimo richieda al danneggiante il rimborso dell’indennità. Ne consegue che, qualora egli non si avvalga di tale facoltà, il danneggiato, pur se abbia già riscosso l’indennità assicurativa, può agire per il risarcimento totale, senza che il responsabile possa opporgli l’avvenuta riscossione.

Sui limiti dell’esercizio della surroga in caso di concorso di colpa del danneggiato, Sez. 6-3, n. 01834/2018, De Stefano, Rv. 647613-01, ha chiarito che il diritto dell’assicuratore che agisca nei confronti del terzo responsabile è sottoposto al duplice limite del danno effettivamente da questi causato all’assicurato e dell’ammontare dell’indennizzo pagato dall’assicuratore. Ne deriva che, nei casi di concorso di colpa della vittima nella produzione dell’evento, al fine di stabilire il limite della surrogazione, la riduzione per il concorso di colpa dell’assicurato va defalcata dal risarcimento globalmente dovuto dal responsabile e non dall’indennità corrisposta dall’assicuratore. L’assicuratore può pretendere, pertanto, dal responsabile, la minor somma tra l’entità dell’indennizzo concretamente corrisposto all’assicurato e l’ammontare del risarcimento concretamente dovuto dal responsabile, già al netto della riduzione ascritta al concorso di colpa del danneggiato.

Nell’ambito dell’assicurazione contro i danni rientra, come chiarito da Sez. 3, n. 10602/2018, D’Ovidio, Rv. 648599-01, anche quella contro l’invalidità permanente da malattia, al pari di quella per l’infortunio non mortale, dalla quale si differenzia solo perché il danno alla persona deriva da un processo morboso interno alla stessa e non da un fattore causale esterno ad essa. La pronuncia ha altresì chiarito che l’assicurazione contro i danni, si caratterizza anche come assicurazione di persone, e, pertanto, ricade nell’ambito di applicazione del principio indennitario, in virtù del quale l’indennizzo non può mai eccedere il danno effettivamente patito.

Un’importante precisazione proviene da Sez. L, n. 29422/2018, Negri Della Torre, Rv. 651709-01 a proposito del contratto di assicurazione a favore del dipendente, previsto da una norma della contrattazione collettiva come obbligo a carico del datore di lavoro. In particolare, esso deve intendersi assolto con la stipulazione, senza necessità, in difetto di specifica previsione, di comunicare al dipendente l’avvenuta sottoscrizione ed il contenuto del contratto stesso, dal momento che in tal caso, a differenza di quanto avviene nell’ambito del contratto di assicurazione per conto altrui o per conto di chi spetta, l’obbligo di stipulare la polizza trova la propria fonte in una previsione contrattuale collettiva, cioè in una norma conoscibile con l’impiego dell’ordinaria diligenza dal lavoratore.

Con riguardo al contratto di assicurazione per il caso di morte, Sez. 6-3, n. 25635/2018, Positano, Rv. 651370-01 ha chiarito che il beneficiario designato acquista, ai sensi dell’art. 1920, comma 3, c.c., un diritto proprio che trova la sua fonte nel contratto e che non entra a far parte del patrimonio ereditario del soggetto stipulante non potendo, di conseguenza, essere oggetto delle sue eventuali disposizioni testamentarie, né di devoluzione agli eredi secondo le regole della successione legittima. Ne consegue che la designazione dei terzi beneficiari del contratto, mediante il riferimento alla categoria degli eredi legittimi o testamentari, non vale ad assoggettare il rapporto alle regole della successione ereditaria, trattandosi di una mera indicazione del criterio per la individuazione dei beneficiari medesimi in funzione della loro astratta appartenenza alla categoria dei successori indicata nel contratto.

In tema di assicurazione sulla vita, invece, Sez. 3, n. 03707/2018, Tatangelo, Rv. 647908-01 ha precisato la portata dell’art. 1919, comma 2, c.c. La norma, laddove subordina la validità dell’assicurazione contratta per il caso di morte di un terzo al consenso scritto del medesimo, si riferisce all’ipotesi in cui il terzo si venga a trovare nella posizione di mero portatore del rischio, mentre i benefici del contratto assicurativo spettano esclusivamente al contraente o a persona da questo designata nel proprio interesse. Ne consegue che non sussiste la necessità del consenso del terzo quando il beneficiario dell’assicurazione non sia il contraente, ma il terzo stesso, ovvero i suoi eredi o comunque soggetti da lui indicati, configurandosi in tal caso un’assicurazione sulla vita a favore di un terzo, regolata dall’art. 1891 c.c.

Sul diverso contratto di assicurazione contro i rischi di danni alla merce trasportata, stipulata per conto di chi spetta, Sez. 3, n. 13377/2018, Positano, Rv. 649035-02, ha affermato che la persona legittimata a domandare l’indennizzo è il destinatario se il trasporto viene affidato dal venditore ad un vettore o ad uno spedizioniere. In tale ipotesi, infatti, per effetto della consegna della merce alla persona incaricata del trasporto, ai sensi dell’art. 1510 c.c. il rischio del perimento di essa si trasferisce in capo al destinatario.

Sotto il profilo della distribuzione dell’onere probatorio Sez. 1, n. 15630/2018, Terrusi, Rv. 649135-01 ha confermato quanto già espresso da Sez. 3, n. 04234/2012, Lanzillo, Rv. 621633-01, ovvero che, ove l’assicuratore, convenuto per l’adempimento del contratto, alleghi l’esclusione della garanzia, come delimitata alla luce dei criteri normativi di interpretazione del contratto, risolvendosi detta allegazione non nella proposizione di un’eccezione in senso proprio, ma nella mera contestazione della mancanza di prova del fatto costitutivo della domanda, egli non assume riguardo all’oggetto della copertura assicurativa alcun onere probatorio, che resta, perciò, immutato a carico dell’attore.

In posizione dissonante si colloca Sez. 3, n. 01558/2018, Rossetti, Rv. 647582-01, secondo cui nel giudizio promosso dall’assicurato nei confronti dell’assicuratore ed avente ad oggetto il pagamento dell’indennizzo assicurativo è onere dell’attore provare che il rischio avveratosi rientra nei rischi inclusi ovvero nella categoria generale dei rischi oggetto di copertura assicurativa. La pronuncia, tuttavia, stabilisce che, qualora il contratto contenga clausole di delimitazione del rischio indennizzabile, spetta all’assicuratore dimostrare il fatto impeditivo della pretesa attorea e, cioè, la sussistenza dei presupposti fattuali per l’applicazione di dette clausole.

È ammissibile, poi, secondo Sez. 1, n. 19320/2018, Terrusi, Rv. 649683-02, la chiamata in causa, da parte dello assicuratore, del terzo responsabile per la rivalsa a tutela del proprio diritto di surroga, in applicazione del principio di economia processuale anche in difetto del previo pagamento dell’indennità assicurativa. Nello stesso senso già si era espressa Sez. 3, n. 13342/2004, Perconte Licatese, Rv. 575638-01.

In generale, sotto il diverso profilo del divieto imposto alle società assicuratrici di limitare il proprio oggetto sociale all’attività assicurativa ed a quelle connesse in base all’art. 5 della l. n. 295 del 1978, applicabile ratione temporis, Sez. 1, n. 00384/2018, Dolmetta, Rv. 646588-01 ha chiarito che detto divieto non osta al compimento di singoli atti non aventi natura assicurativa, purché ciò non si traduca in un’attività sistematica implicante l’assunzione di un rischio imprenditoriale indipendente ed esterno rispetto a quello tipico dell’assicuratore.

2.1. L’assicurazione della responsabilità civile.

Sulle clausole on claims made basis, quale deroga convenzionale all’art. 1917, comma 1, c.c., consentita dall’art. 1932 c.c., è intervenuto l’importante arresto di Sez. U, n. 22437/2018, Vincenti, Rv. 650461-01. La pronuncia ha escluso l’atipicità di tali clausole, riconducendole al tipo dell’assicurazione contro i danni. Sulla linea tracciata da Sez. U, n. 09140/2016, Amendola, Rv. 639703-01, effettuando un’analisi ancora più approfondita, tale sentenza ridisegna l’ambito della verifica giudiziale. Il giudice deve, in particolare, operare un controllo di rispondenza del regolamento contrattuale ai limiti imposti dalla legge, da intendersi in riferimento all’ordinamento giuridico nella sua complessità, comprensivo delle norme di rango costituzionale e sovranazionale. Tale indagine riguarda, innanzitutto, la causa concreta del contratto, sotto il profilo della liceità e dell’adeguatezza dell’assetto sinallagmatico rispetto agli specifici interessi perseguiti dalle parti. La verifica è molto ampia, in quanto investe: la fase precontrattuale in cui occorre controllare l’osservanza, da parte dell’impresa assicurativa, degli obblighi di informazione sul contenuto delle claims made; la genesi del regolamento negoziale e l’attuazione del rapporto, come nel caso in cui nel regolamento contrattuale on claims made basis vengano inserite clausole abusive.

È stata, poi, ritenuta idonea a sospendere il corso della prescrizione ex art. 2952, comma 4, c.c., da Sez. 3, n. 20975/2018, Frasca, Rv. 650323-01, la lettera con la quale l’assicurato, che in precedenza abbia notiziato l’assicuratore di un sinistro, comunichi la circostanza del proprio rinvio a giudizio da parte del giudice per le indagini preliminari. Tale atto integra la comunicazione dell’esercizio dell’azione civile nel processo penale, ove contenga l’indicazione nell’oggetto del danneggiato, nonché della propria responsabilità professionale e la precisazione, che la comunicazione è fatta per le competenze del caso.

In materia di assicurazione della responsabilità civile, per effetto della specifica disciplina dell’art. 2952, co. 4, c.c., per altro verso, Sez. 6-3, n. 17543/2018, Dell’Utri, Rv. 649688-01, ha affermato che l’avvenuta comunicazione all’assicuratore della richiesta risarcitoria del terzo danneggiato attraverso il diretto coinvolgimento della stessa compagnia assicuratrice nel giudizio di danno proposto dal terzo, determina la sospensione della prescrizione dei diritti derivanti dal contratto assicurativo, quali ad esempio, il diritto al rimborso in favore dell’assicurato, fino al passaggio in giudicato della sentenza che abbia reso liquido ed esigibile il credito risarcitorio del terzo. Resta irrilevante, ai fini dell’operatività della predetta sospensione, la mancata riproposizione, in grado di appello, da parte dell’assicurato della domanda di garanzia nei confronti del proprio assicuratore nel giudizio di danno introdotto dal terzo, in quanto la sorte della sospensione è legata esclusivamente all’esito del procedimento diretto alla liquidazione del credito risarcitorio del terzo.

Le spese giudiziali dovute dall’assicurato al danneggiato vittorioso costituiscono, ad avviso di Sez. 3, n. 24159/2018, Positano, Rv. 651127-01, un accessorio dell’obbligazione risarcitoria e, ai sensi dell’art. 1917 c.c., gravano sull’assicuratore se e nei limiti in cui non comportino superamento del massimale di polizza.

2.2. L’assicurazione obbligatoria r.c.a.

In tema di assicurazione obbligatoria dei veicoli a motore, secondo Sez. 3, n. 20786/2018, Di Florio, Rv. 650408-02, la garanzia assicurativa copre anche il danno dolosamente provocato dal conducente nei confronti del terzo danneggiato, il quale, pertanto, ha diritto di ottenere dall’assicuratore del responsabile il risarcimento del danno. La pronuncia, consolidando l’indirizzo espresso da Sez. 3, n. 19368/2017, Cirillo F.M., Rv. 645383-01, ha chiarito, infatti, che l’art. 1917 c.c. non costituisce il paradigma tipico della responsabilità civile da circolazione stradale, rinvenibile, invece, nelle leggi della RCA e nelle direttive europee che affermano il principio di solidarietà verso il danneggiato. Resta, tuttavia, salva la facoltà della compagnia assicuratrice di rivalersi nei confronti dell’assicurato-danneggiante, per il quale la copertura contrattuale non opera.

In tema di liquidazione del danno da ritardato adempimento dell’obbligazione da r.c.a. Sez. 6-3, n. 04138/2018, Scoditti, Rv. 648029-01, ha confermato che l’obbligazione dell’assicuratore della responsabilità civile derivante dalla circolazione di veicoli nei confronti della vittima di un sinistro stradale ha natura di debito di valuta. Ove, tuttavia, detta obbligazione resti nei limiti del massimale, va liquidata secondo i criteri propri dei debiti di valore, perché di valore è l’obbligazione risarcitoria che determina l’entità del debito indennitario. Quando, invece, il credito della vittima ecceda il massimale, l’obbligazione dell’assicuratore del responsabile va liquidata applicando le regole dettate per le obbligazioni di valuta dall’art. 1224 c.c. Nello stesso senso Sez. 3, n. 08988/2011, Amatucci, Rv. 617895-01.

Sulla scorta del medesimo assunto, ovvero che l’obbligazione dell’assicuratore ha natura di debito di valuta Sez. 3, n. 15752/2018, Vincenti, Rv. 649415-01, confermando l’orientamento di Sez. 3, n. 06155/2009, D’Amico, Rv. 607650-01, ha ribadito che esso sorge quando sia divenuto liquido ed esigibile il debito dell’assicurato nei confronti del danneggiato. Ove il ritardo nella liquidazione del danno al danneggiato sia imputabile all’assicuratore, l’assicurato, che a causa del ritardo nella liquidazione del danno debba pagare al terzo danneggiato una somma maggiore di quella che avrebbe corrisposto all’epoca del sinistro, ha il diritto di chiedere all’assicuratore l’indennizzo relativo al pregiudizio derivante dalla svalutazione monetaria, anche oltre i limiti del massimale. È però necessario, a tale fine, che l’assicurato ne faccia esplicita e tempestiva richiesta, non potendo la relativa domanda ritenersi implicita nella chiamata in causa dell’assicuratore da parte dell’assicurato stesso nel corso del giudizio instaurato dal terzo danneggiato, né potendo tale domanda essere proposta per la prima volta in appello.

Analogamente Sez. 3, n. 18519/2018, Scarano, Rv. 649727-01, ha mantenuto il principio affermato da Sez. 3, n. 18307/2014, Scarano, Rv. 632097-01, secondo cui, ai fini della promovibilità dell’azione diretta nei confronti dell’assicuratore del responsabile è rilevante nei confronti del danneggiato l’autenticità del contrassegno, non la validità del rapporto assicurativo. Il rilascio del contrassegno assicurativo da parte dell’assicuratore della r.c.a. vincola quest’ultimo a risarcire i danni causati dalla circolazione del veicolo, quand’anche il premio assicurativo non sia stato pagato, ovvero il contratto di assicurazione non sia efficace. Ciò, in virtù del combinato disposto dell’art. 7 della l. 24 dicembre 1969, n. 990, attuale art. 127 del d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209 e dell’art. 1901 c.c. Tuttavia, posto che la disciplina del citato art. 7 mira alla tutela dell’affidamento del danneggiato, per escludere la responsabilità dell’assicuratore in ipotesi di contrassegno contraffatto o falsificato, occorre che questi provi l’insussistenza di un proprio comportamento colposo, tale da ingenerare l’affidamento erroneo del danneggiato stesso.

Sez. 6-3, n. 20383/2018, Cirillo F.M., Rv. 650295-01 ha chiarito che, nell’ambito delle procedure di risarcimento di cui agli artt. 144 e ss. del d.lgs. n. 209/05, è ben possibile che l’assicurazione del danneggiato si trovi a rivestire una posizione processuale in contrasto con la domanda da quest’ultimo avanzata.

Sulla definizione di luogo del sinistro Sez. 3, n. 17017/2018, Giaime Guizzi, Rv. 649512-01 ha ribadito che l’azione diretta nei confronti dell’assicuratore del responsabile può essere promossa dal danneggiato quando il sinistro sia avvenuto in un’area che, sebbene privata, possa equipararsi alla strada di uso pubblico, in quanto aperta ad un numero indeterminato di persone, che vi hanno accesso giuridicamente lecito, pur se appartenenti ad una o più categorie specifiche e pur se l’accesso avvenga per finalità peculiari e in particolari condizioni. Nello stesso senso Sez. 3, n. 09441/2012, Carleo, Rv. 622675-01.

In ipotesi di mancato pagamento di premi successivi al primo, sempre in tema di azione diretta, è stato chiarito da Sez. 3, n. 25366/2018, Giaime Guizzi, Rv. 651463-02, che, qualora il sinistro si sia verificato posteriormente alla scadenza del termine per il pagamento di premi successivi al primo, l’assicurazione resta sospesa solo dalle ore ventiquattro del quindicesimo giorno dopo quello della scadenza. Trova applicazione anche in tale caso il disposto dell’art. 1901, comma 2, c.c.

Restando sempre in tema di azione diretta di cui all’art. 149 del d.lgs. n. 209 del 2005, ma con riferimento al luogo di pagamento del credito ex art. 1182, comma 4, c.c. Sez. 6 – 3, n. 12599/2018, Olivieri, Rv. 648747-01 ha chiarito che l’adempimento della prestazione, in quanto avente ad oggetto un credito illiquido, ex art. 1182, comma 4, c.c. deve essere richiesto presso la sede legale della società assicuratrice del danneggiato-creditore, la quale, pertanto, assume esclusivo rilievo ai fini della individuazione della competenza territoriale. Il fondamento di detto principio poggia sulla circostanza che l’azione diretta di cui all’art. 149 del d.lgs. n. 209 del 2005, promossa dal danneggiato nei confronti del proprio assicuratore, non muta la natura risarcitoria dell’obbligazione, ma comporta la sostituzione ex lege del soggetto debitore.

In linea con quanto da tempo affermato da Sez. 3, n. 08816/2002, Mazza, Rv. 555140-01, per Sez. 6 – 3, n. 22062/2018, Sestini, Rv. 650615-01 è da escludere l’azione diretta in caso di danni alle cose, in quanto l’art. 123 del d.lgs. n. 209 del 2005 prevede l’obbligo di assicurazione per la copertura dei soli danni alla persona.

Con riguardo, invece, alla responsabilità civile per la circolazione dei natanti, la proponibilità dell’azione diretta da parte del danneggiato ai sensi dell’art. 22 della l. n. 990 del 1969, applicabile ratione temporis, che prevede il previo invio all’impresa di assicurazione della richiesta risarcitoria a mezzo raccomandata con avviso di ricevimento, è subordinata alle condizioni che si tratti di unità da diporto, dotata di motore ausiliario e che il risarcimento sia richiesto per danni causati alle persone.

Qualora, poi, il danneggiato abbia inviato la richiesta di risarcimento dei danni alla propria impresa di assicurazione, secondo il modello dell’art. 149 del d.lgs. n. 209 del 2005, e per conoscenza all’impresa di assicurazione dell’altro veicolo coinvolto, una volta decorsi i termini di cui all’art. 145 del medesimo decreto, se la fase stragiudiziale non si conclude con un esito positivo, ad avviso di Sez. 3, n. 24548/2018, Cirillo F.M., Rv. 651154-01 si può proporre la domanda giudiziale anche nei confronti dell’impresa assicuratrice dell’altro veicolo coinvolto.

Sez. 6-3, n. 09666/2018, Rossetti, Rv. 648408-01 ha confermato che, in tema di inadempimento dell’assicuratore della responsabilità civile all’obbligo di tenere indenne il proprio assicurato dalle pretese del terzo, c.d. mala gestio propria, non sussiste alcuna conseguenza pregiudizievole qualora il massimale resti capiente nonostante il ritardato adempimento. Ove, viceversa, il massimale sia divenuto incapiente al momento del pagamento, l’assicurato può pretendere dall’assicuratore una copertura integrale, senza riguardo alcuno al limite del massimale. Nella diversa ipotesi di eccedenza del credito del danneggiato sul massimale già al momento del sinistro, il danno da mala gestio deve essere liquidato, attraverso la corresponsione di una somma pari agli interessi legali sul massimale, salva la prova di un pregiudizio maggiore ai sensi dell’art. 1224, comma 2, c.c. Nello stesso senso Sez. 3, n.13537/2014, Rossetti, Rv. 631441-01.

In tema di assicurazione obbligatoria della responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli a motore, a norma dell’art. 145 del d.lgs. n. 209 del 2005, non può essere proposta azione risarcitoria dal danneggiato, secondo Sez. 3, n. 01829/2018, Fanticini, Rv. 647588-01, ove questi con la propria condotta abbia impedito all’assicuratore di compiere le attività volte alla formulazione di una congrua offerta ai sensi dell’art. 148 del citato d.lgs., violando i principi di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1375 e 1175 c.c.

Sull’azione nei confronti dell’assicurato trasportato, vittima del sinistro, Sez. 3, n. 01269/2018, Spaziani, Rv. 647359-02, ha fornito un contributo interpretativo dell’art.18 della l. n. 990 del 1969, attualmente, dell’art. 144 del d.lgs. n. 209 del 2005. In particolare, in conformità al diritto dell’Unione europea, l’assicuratore non può esercitare l’azione di regresso nei confronti dell’assicurato proprietario del veicolo, ove egli sia anche passeggero-vittima del sinistro; ciò, al fine di evitare che quest’ultimo debba restituire quanto conseguito per effetto del risarcimento. Né, in tal senso, può essere opposta la clausola di esclusione dalla copertura assicurativa fondata sul fatto che il veicolo fosse condotto da persona non abilitata o in stato di ebbrezza, a meno che l’assicurato fosse a conoscenza della circostanza che il mezzo era stato rubato.

Altra conseguenza, per la stessa Sez. 3, n. 01269/2018, Spaziani, Rv. 647359-01, derivante dalla prevalenza della qualità di vittima-avente diritto al risarcimento su quella di assicurato-responsabile, è che il proprietario del veicolo, il quale al momento del sinistro viaggiava sullo stesso come trasportato, ha diritto ad ottenere dall’assicuratore il risarcimento del danno derivante dalla circolazione non illegale del mezzo, senza che assuma rilevanza la sua eventuale correponsabilità, salva l’applicazione, in detta ipotesi, dell’art. 1227 c.c.

È stato, poi, ammesso il diritto di rivalsa, di cui all’art. 18, comma 2, della l. n. 990, nel caso di risarcimento del danno da parte dell’assicuratore sulla base della semplice richiesta del danneggiato, senza il preventivo accertamento della responsabilità dell’assicurato. Sez. 6-3, n. 25429/2018, Positano, Rv. 651367-01, ha precisato in proposito che l’assicurato, ove non abbia consentito al pagamento o non abbia partecipato alla transazione, può contrastare la domanda di regresso, con onere probatorio a suo carico, formulando tutte le possibili eccezioni in ordine alla sua responsabilità ed all’entità del risarcimento.

Nell’ipotesi di pluralità di danneggiati dallo stesso sinistro è intervenuta Sez. 3, n. 13394/2018, Spaziani, Rv. 649037-01, individuando l’onere a carico dell’assicuratore di provvedere, usando la normale diligenza, all’identificazione di tutti i danneggiati ed attivandosi anche con la loro congiunta chiamata in causa, per procedere alla liquidazione del risarcimento nella misura proporzionalmente ridotta ai sensi dell’art. 27, comma 1, della l. n. 990 del 1969, ratione temporis vigente. In mancanza, non può opporre ai danneggiati non risarciti l’incapienza del massimale, ma deve rispondere fino alla concorrenza dell’ammontare del medesimo nei confronti di ciascun danneggiato. La pronuncia ha, altresì, precisato che, nel giudizio promosso dal danneggiato non ancora risarcito, l’assicuratore conserva la facoltà di dimostrare che quanto pagato era effettivamente dovuto, siccome corrispondente al danno subito dal danneggiato risarcito. In tale ipotesi, il suo debito verso il danneggiato non risarcito sarà proporzionalmente ridotto nei limiti della quota di indennizzo che, nel rispetto della par condicio, sarebbe spettata al danneggiato precedentemente soddisfatto.

Dal punto di vista processuale, sempre in ipotesi di sinistro stradale con pluralità di danneggiati, secondo Sez. 3, n. 02348/2018, Scoditti, Rv. 647929-01, per i giudizi instaurati prima dell’entrata in vigore dell’art. 140, comma 4, del d.lgs. n. 209 del 2005 non sussiste un litisconsorzio necessario processuale.

Sez. 3, n. 13379/2018, Scrima, Rv. 648797-01 ha affermato che nel giudizio promosso dal danneggiato contro l’assicuratore della targa prova, è litisconsorte necessario, ai sensi dell’art. 144 del d.lgs. n. 209 del 2005, ovvero dell’art. 23 della l. n. 990 del 1969, il titolare dell’autorizzazione a circolare con quest’ultima e non il proprietario del veicolo.

Più in generale, Sez. 3, n. 29038/2018, Olivieri, Rv. 651661-01 ha chiarito che l’accertamento della responsabilità del conducente e del proprietario costituisce il presupposto necessario sia della domanda di garanzia proposta dall’assicurato, conducente o proprietario, nei confronti dell’assicuratore RCA, ove il danneggiato non abbia esercitato contro di lui l’azione diretta, sia della pretesa risarcitoria del danneggiato verso lo stesso assicuratore RCA, ove già inizialmente convenuto con l’azione diretta. Ne consegue che tali cause devono tutte considerarsi tra loro legate da nesso di dipendenza che ne determina l’inscindibilità, ex art. 331 c.p.c., nel giudizio di impugnazione. È da escludere, pertanto che il giudicato sulla responsabilità del conducente possa essere frazionato con conseguente estensione degli effetti favorevoli dell’impugnazione proposta soltanto da alcune delle parti anche a quelle non impugnanti o contumaci che condividono la medesima posizione processuale.

Anche quando l’assicuratore sia terzo chiamato in causa dal convenuto va osservato, secondo Sez. 3, n. 29034/2018, Di Florio, Rv. 651577-01, l’onere che l’art. 22 della l. n. 990 del 1969 pone a carico del danneggiato per la richiesta di risarcimento del danno. Né detto onere può considerarsi altrimenti assolto mediante l’atto di chiamata in causa da parte del convenuto o in virtù della comunicazione all’assicuratore da parte del danneggiante circa l’iniziativa giudiziaria intrapresa dal danneggiato.

3. Il comodato tra figure tipiche e atipiche.

La Corte di cassazione (Sez. 1, n. 8571/2018, Marulli, Rv. 647768-02) ha ricostruito l’isituto del comodato evidenziando la possibilità, con i limiti di seguito riportati, della costituzione di contratti atipici a fianco delle ipotesi tipiche previste dal codice.

In particolare, nell’affrontare una controversia tra il Comune di Roma e un ente morale avente ad oggetto il contratto di uso permanente concesso dal primo al secondo di un bene immobile, la Corte ha qualificato lo stesso come contratto di comodato atipico, avendo le parti convenuto la sua cessazione in caso di estinzione dell’ente o di diversa destinazione del bene concesso in comodato.

Ed invero, l’iter logico argomentativo utilizzato dalla Corte deriva dalla previsione da parte del legislatore di due modelli di comodato.

Il primo, con prefissione di termine, per il quale l’art. 1803 c.c., sulla scia del prestito ad uso, stabilisce che la consegna della cosa “essenzialmente” gratuita avvenga “per un tempo o per un uso determinato”, di modo che il comodatario sia obbligato alla sua restituzione “alla scadenza del termine convenuto o, in mancanza, quando se ne e` servito in conformita` del contratto”, e cio`, sempreche´, non sopravvenga un urgente ed imprevisto bisogno del comodante che in tal caso “puo` esigerne la restituzione immediata” (art. 1809 c.c.).

Il secondo, senza determinazione di durata, estraneo, anche in considerazione dell’autonomia accordata alla figura del c.d. precario, alla disciplina del codice civile del 1865, disciplinato dall’art. 1810 c.c. in base al principio che “se non e` stato convenuto un termine ne´ questo risulta dall’uso a cui la cosa doveva essere destinata, il comodatario e` tenuto a restituirla non appena il comodante la richiede”.

La Corte, con la sentenza in esame ha però affermato che, al fine di evitare pericolosi sconfinamenti del tipo in direzione degli atti atipici di liberalita`, cui fatalmente lo condurrebbe la naturale gratuita` del rapporto, in uno con la sua indeterminata protrazione nel tempo, costituisce un requisito inprescindibile l’apposizione di un termine espresso o tacito, in vista del quale l’obbligo di restituzione possa trovare modo di essere adempiuto posto che, diversamente, un godimento che si prolunga nel tempo senza l’indicazione di un termine finale si porrebbe, da un lato, in contrasto con i principi generali in tema di contratti di durata senza prefissione di un termine di scadenza, per i quali e` normalmente previsto il recesso ad nutum, e, dall’altro, con il carattere di gratuita` del negozio che mal si concilia con un sacrificio illimitato del comodante.

Importante affermazione della Corte è, quindi, quella afferente l’essenzialità del termine, che non deve necessariamente sostanziarsi in un’indicazione temporale puntuale, ma puo` essere desunto dall’uso cui la cosa e` destinata, dovendo però essso essere correlato ad un evento certo nel suo futuro verificarsi, un evento che, per quanto possa essere incertus quando, non puo` essere in ogni caso incertus an. 

Al termine di tale esame delle figure tipiche di comodato, la Corte rileva che non è ammissibile un comodato senza termine, tanto che, sebbene il termine finale possa essere determinato in funzione dell’uso cui la cosa e` destinata, la circostanza che l’uso non abbia in se´ una durata predeterminata nel tempo qualifica il rapporto come a tempo indeterminato, sicche´ il comodato deve intendersi a titolo precario e deve ritenersi che il comodante possa recedere da esso ad nutum a mente dell’art. 1810 c.c.

Sulla base di tali conclusioni con la sentenza in esame si precisa, con riferimento alla fattiscpecie oggetto di giudizio, che accanto ai due modelli tipici di comodato, è configurabile un tertium genus attraverso il quale il prestito d’uso puo` atteggiarsi e puo` rendersi, in ragione degli interessi perseguiti, meritevole di tutela da parte dell’ordinamento giuridico in quanto esplicazione dell’autonomia negoziale che esso riconosce ai privati a mente dell’art. 1322 c.c. In proposito, la Corte ha affermato che si connota come figura atipica, siccome non riconducibile ne´ al modello legale del comodato a termine (art. 1809 c. c.), ne´ a quello del comodato senza limitazione di tempo (art. 1810 c. c.), il contratto di comodato con il quale le parti abbiano negoziato il potere di restituzione facendo sì che il comodante possa continuare a fare uso della cosa solo al perdurare delle condizioni convenute.

La specialita` del comodato di terzo genere non risiede nell’apprestare un particolare statuto giuridico agendo sul profilo temporale del rapporto, ma nel rendere negoziabile il potere di restituzione sottraendolo alla regola dell’esercizio discrezionale e facendo si` che il comodante possa farne uso solo al ricorrere delle condizioni convenute dalle parti. Il principio della libera recedibilita` in tronco del rapporto, che costituisce uno dei naturalia negotii del comodato senza termine cede di fronte alla diversa volonta` negoziale delle parti che intendono regolare lo scioglimento di esso per iniziativa del comodante secondo uno schema che salvaguarda l’assetto degli interessi da esse impresso al negozio all’atto della sua costituzione. E questo rende esattamente il comodato atipico poiche´ il prestito d’uso che vi e` convenuto, non essendone commisurata la durata ad un termine prefissato neppure in maniera implicita e non potendo percio` integrare la figura del comodato disciplinata dall’art. 1809 c.c., rifluisce naturalmente nell’alveo del comodato a cui si applica l’art. 1810 c.c., ma da esso si dissocia, in cio` manifestando la sua atipicita`, poiche´ il potere di restituzione non e` liberamente esercitabile dal comodante.

4. I contratti agrari, la denunciatio, natura e forma

Con riferimento ai contratti agrari merita di essere evidenziata Sez. 3, n. 28495/2018, Scarano, Rv. 651574-01, con la quale la Corte di cassazione ha confermato il proprio precedente indirizzo (Sez. 3, n. 2187/2014, Cirillo, Rv. 630244-01) che aveva superato la precedente giurisprudenza di legittimità in tema di forma della denunciatio cui è tenuto il proprietario venditore del fondo ai sensi dell’art. 8 della l. n. 590 del 1965 e dell’art. 7 l. n. 81 del 1971.

Ed invero, la Corte ha cassato la sentenza emessa dalla Corte d’appello di Genova, che aveva confermato quella del giudice di prime cure sul presupposto della validità della denuntiatio in forma diversa da quella scritta. La pronuncia impugnata faceva leva sull’indirizzo della giurisprudenza di legittimità secondo cui in tema di prelazione agraria, la norma che prevede le formalita` della comunicazione, pur perseguendo finalita` di interesse sociale (creazione di imprese coltivatrici moderne ed efficienti con conseguente incremento della produttivita` agricola), ha carattere dispositivo e non cogente e inderogabile, sicche´ è rimessa all’iniziativa delle parti l’adozione di forme alternative di comunicazione, purche´ idonee a consentire la piena conoscenza della proposta in funzione dell’esercizio della prelazione e nell’ambito del principio generale di liberta` delle forme e` sufficiente anche la forma verbale, non derivando alcun ostacolo dalla disposizione di cui all’art. 1351 c.c., che per i contratti preliminari aventi forma scritta richiede ad substantiam la medesima forma, poiche´ la comunicazione non ha natura di proposta contrattuale (Sez. 3, n. 7768/2003, Durante, Rv. 563267-01).

Su tali basi, la sentenza di merito impugnata aveva ritenuto che il coltivatore aveva avuto piena conoscenza della proposta di vendita e, dunque, si era realizzata la finalita` della legge, avendo partecipato al rogito e così avuto immediata e completa cognizione delle condizioni formulate per iscritto nell’atto di compravendita.

Diversamente, la Corte di cassazione ha affermato che per la comunicazione da parte del proprietario venditore al coltivatore o al confinante della proposta di alienazione del fondo, ai fini della prelazione di cui all’art. 8 l. n. 590 del 1965 e all’art. 7 l. n. 817 del 1971, e` richiesta la forma scritta ad substantiam, non essendo all’uopo sufficiente altro e diverso tipo di comunicazione, anche verbale. La denuntiatio non va, infatti, considerata solo quale atto negoziale ma anche come atto preparatorio di una fattispecie traslativa avente ad oggetto un bene immobile, cioe` il fondo agrario, onde deve rivestire necessariamente la forma scritta, in applicazione dell’art. 1350 c.c., con inevitabili riflessi sul piano probatorio, non essendo, per questo, consentita la prova testimoniale ex art. 2725 c.c. Precisa la Corte di cassazione che tale forma, peraltro, assolve ad esigenze di tutela e di certezza, rendendo, appunto, certa l’effettiva esistenza di un terzo acquirente, evitando che la prelazione possa essere utilizzata per fini speculativi in danno del titolare del diritto e assicurando, a sua volta, al terzo acquirente, in caso di mancato esercizio della prelazione nello spatium deliberandi a disposizione del coltivatore (o del confinante), la certezza della compravendita stipulata con il proprietario, sottraendo l’acquirente al pericolo di essere assoggettato al retratto esercitato dal coltivatore (o confinante) pretermesso; garantisce, infine, il coltivatore (o confinante) in ordine alla sussistenza di condizioni della vendita piu` favorevoli stabilite dal proprietario promittente venditore e dal terzo promissario acquirente.

5. La tutela del credito, tra garanzie tipiche e atipiche o improprie.

Con riferimento alle forme contrattuali aventi come finalità quelle dell’accesso al credito e di tutela della posizione creditoria assumono rilievo le garanzie atipiche o improprie, sia personali che reali, diffuse nella prassi bancaria e commerciale, che presentano punti in comune con la fideiussione ma se ne distaccano per alcuni decisivi caratteri. Si tratta di fattispecie nate in ragione delle mutate esigenze del mercato rispetto a quelle esistenti al tempo di adozione del codice, nonché delle difficoltà di accesso al credito e alla collegata esigenza di trovare nuove forme di tutela del creditore e frutto di successiva elaborazione da parte della giurisprudenza di legittimità.

Prima di passare ad esaminare tali forme di garanzia atipiche, con riferimento alla fideiussione, Sez. 1, n. 17997/2018, Campanile, Rv. 649522-01, ha confermato il principio secondo il quale, nel caso in cui il credito principale sia assistito dalla garanzia personale prestata da un terzo, non è ammissibile la cessione del solo credito di garanzia in assenza del consenso del garante, in quanto, ai sensi dell’art. 1263, comma 1, c.c., in ipotesi di cessione, il credito principale è trasferito al cessionario con i privilegi, le garanzie personali e reali e gli altri accessori, esistendo tra i detti crediti uno stretto collegamento che impone la loro titolarità sempre in capo al medesimo soggetto giuridico.

La questione specificamente esaminata dalla citata pronuncia non aveva precedenti e riguardava la fattispecie in cui una società di assicurazione aveva prestato, a favore della Provincia di Livorno, fideiussione a garanzia delle spese necessarie per la rimozione, il trasporto e lo smaltimento dei rifiuti in relazione all’attività di gestione di un impianto di rifiuti speciali svolta da una società, la quale, diffidata al ripristino della corretta gestione a seguito dell’emersione di irregolarità nella gestione dell’impianto, aveva abbandonato il compendio ed era stata poi dichiarata fallita. Successivamente era intervenuto un accordo – non avendo la società assicuratrice dato seguito alla richiesta di liquidare le spese occorrenti per lo smaltimento dei rifiuti – fra la Provincia di Livorno e una nuova società, la quale avrebbe provveduto allo smaltimento dei rifiuti venendo surrogata nei diritti vantati dall’ente territoriale verso la Compagnia assicuratrice. La Corte d’Appello, in accoglimento del ricorso proposto dalla suddetta società, aveva condannato la Compagnia di assicurazione al pagamento della somma pari al costo sopportato per lo smaltimento dei rifiuti. Tale decisione di merito si fondava sul presupposto che il rapporto giuridico al suo esame doveva qualificarsi quale cessione della posizione creditoria della Provincia in favore della società appellante in relazione al diritto di credito derivante dalla polizza fideiussoria rilasciata dalla Compagnia di assicurazione. A fronte di tale fattispecie, la Corte di cassazione, partendo dal dato normativo di cui all’art. 1263 c.c., e rilevato che esso è applicabile anche alle obbligazioni autonome di garanzie, ha valorizzato lo stretto collegamento esistente tra credito principale e obbligazione di garanzia che lo assite, ritenendo la sussistenza di una insicindibilità tale da rendere inammissibile la cessione del credito di garanzia separatamente dal credito contro il debitore garantito.

Nel corso dell’anno 2018 la Corte di cassazione ha, poi, esaminato diverse forme contrattuali aventi le finalità sopra descritte, riconoscendo loro tutela giuridica in ragione degli interessi da esse perseguiti.

Quanto alle forme di garanzia personale atipiche, assumono rilievo alcune sentenze relative al contratto autonomo di garanzia, che si distingue dalla fideiussione – oltre che dal fatto che il fideiussore assume l’obbligo di eseguire una prestazione di identico contenuto a quella dovuta dal debitore medesimo, mentre la prestazione dovuta dal garante ha ad oggetto il pagamento al beneficiario di una determinata somma di denaro – per l’assenza di accessorietà dell’obbligazione del garante rispetto all’obbligazione garantita, diversamente il fideiussore può opporre al creditore le eccezioni relative al rapporto di base ex art. 1945 c.c.

In ragione di tali principi Sez. 1, n. 16345/2018, Campese, Rv. 649780-01 ha precisato, deliminadolo, l’ambito applicativo dell’inopponibilità delle eccezioni di merito derivanti dal rapporto principale da parte del garante. In proposito, ha rilevato che tale inopponibilità non può comportare un’incondizionata sudditanza del garante ad ogni pretesa del beneficiario, sicché al primo è riconosciuta la possibilità di avvalersi del rimedio generale dell’exceptio doli, che lo pone al riparo da eventuali escussioni abusive o fraudolente, purché alleghi non circostanze fattuali idonee a costituire oggetto di un’eccezione che il debitore garantito potrebbe opporre al creditore, ma faccia valere – sussistendone prova liquida ed incontrovertibile – la condotta abusiva del creditore. Questa può consistere nel fatto che il creditore, nel chiedere la tutela giudiziale del proprio diritto, ha fraudolentemente taciuto, nella prospettazione della fattispecie, situazioni sopravvenute alla fonte negoziale del diritto azionato ed aventi efficacia modificativa o estintiva dello stesso, ovvero ha esercitato tale diritto al fine di realizzare uno scopo diverso da quello riconosciuto dall’ordinamento, o comunque all’esclusivo fine di arrecare pregiudizio ad altri, o ancora contro ogni legittima ed incolpevole aspettativa altrui. In applicazione di tali principi la Corte ha confermato la sentenza di merito, che aveva ritenuto non provato nei termini sopra indicati la eccepita condotta dolosa posta in essere dal creditore garantito, non essendo all’uopo sufficiente il fatto che l’escussione era stata avanzata dal commissario giudiziale del concordato preventivo.

Sempre con riferimento alle possibili eccezioni sollevabili dal garante, (Sez. 1, n. 371/2018, Falabella, Rv. 647026-01) ha, poi, precisato che il garante è legittimato a proporre eccezioni fondate sulla nullità anche parziale del contratto base per contrarietà a norme imperative. Ne consegue che può essere sollevata nei confronti della banca l’eccezione di nullità della clausola anatocistica atteso che la soluzione contraria consentirebbe al creditore di ottenere, per il tramite del garante, un risultato che l’ordinamento vieta.

Con riferimento ad altra forma di garanzia personale atipica, la lettera di gradimento o di patronage, (Sez. 1 , n. 384/2018, Dolmetta, Rv. 646588-01), con riferimento alla già riconosciuta possibiltà da parte di una impresa di assicurazione di rilasciare tale tipo di garanzia, ha precisato che tale possibilità trova un limite nel divieto imposto alle suddette società assicuratrici di limitare il proprio oggetto sociale all’attività assicurativa ed a quelle connesse in base all’art. 5 della l. n. 295 del 1978 (applicabile ratione temporis). In particolare, tale divieto, seppure non impedisce il compimento di singoli atti non aventi natura assicurativa, impone che ciò non si traduca in un’attività sistematica implicante l’assunzione di un rischio imprenditoriale indipendente ed estremo rispetto a quello tipico dell’assicuratore.

Quanto alle garanzie reali, queste si caratterizzano per una minore flessibilità rispetto alle garanzie personali, con la conseguenza che nella prassi si sono diffusi nuovi schemi contrattuali derivanti dagli istituti tipici del diritto obbligazionario e contrattuale: tra queste l’ampia categoria delle alienazioni a scopo di garanzia costituite da vendite sospensivamente o risolutivamente condizionate all’inadempimento del debitore, oppure da vendite con annesso patto di ricompera, di riscatto o di retrovendita. In tali casi la funzione di garanzia si compie con il trasferimento al creditore – a titolo temporaneo o provvisorio – del diritto pieno di proprietà. Di tali alienazioni a scopo di garanzia la Corte di cassazione si è dovuta occupare al fine di evitare che con esse le parti violino il divieto di patto commissorio ex art. 2744 c.c.

Ed invero, con la vendita con patto di riscatto il venditore si riserva il diritto di riacquistare la cosa venduta alle condizioni stabilite dagli artt. 1500 c.c. e ciò al fine di ottenere l’equivalente denaro nella speranza che, successivamente, possa riaquistare il bene venduto. Il negozio in esame può assumere una funzione di garanzia se vista dal lato del compratore, in quanto il pagamento del prezzo può avere la natura di un prestito e la proprietà del compratore garantisce dall’inadempimento dello stesso.

In proposito Sez. 1, n. 4514/2018, Ferro, Rv. 647431-01, ha affermato che la vendita con patto di riscatto o di retrovendita, pur non integrando direttamente un patto commissorio, può rappresentare un mezzo per sottrarsi all’applicazione del relativo divieto ogni qualvolta il versamento del prezzo da parte del compratore non si configuri come corrispettivo dovuto per l’acquisto della proprietà, ma come erogazione di un mutuo, rispetto al quale il trasferimento del bene risponda alla sola finalità di costituire una posizione di garanzia provvisoria, capace di evolversi in maniera diversa a seconda che il debitore adempia o meno l’obbligo di restituire le somme ricevute. Nella specie, la Corte ha cassato con rinvio la sentenza del giudice di merito, che aveva escluso l’esistenza di un patto commissorio, in presenza della vendita di un immobile in seno alla quale l’acquirente si era accollato il mutuo gravante sul venditore, impegnandosi a retrocedere il bene venduto nel caso in cui il detto debito fosse stato estinto.

Diversamente, nel caso di vendita con riserva di proprietà, l’acquirente paga il prezzo del bene in via dilazionata divenendone proprietario, anche se ne ha già la materiale disponibilità, solo al momento del pagamento dell’ultima rata di prezzo. In sostanza il diritto di proprietà rimane in capo al venditore, svolgendo una funzione di garanzia sul pagamento del prezzo, laddove l’inadempimento del pagamento del prezzo da parte del compratore comporta la risoluzione del contratto

6. La locazione di immobili abitativi e non abitativi.

Con riferimento ai contratti in esame assume importanza la pronuncia con la quale si è delimitato il confine della responsabilità del locatore in ordine alle caratteristiche del bene locato. In particolare, (Sez. 3, n. 14731/2018, Moscarini, Rv. 649048-01), con riferimento al contratto di locazione di immobile non destinato ad uso abitativo, ha affermato che grava sul conduttore l’onere di verificare che le caratteristiche del bene siano adeguate a quanto tecnicamente necessario per lo svolgimento dell’attività che egli intende esercitarvi, nonché al rilascio delle necessarie autorizzazioni amministrative. Il corrollario di tale principio è che, ove il conduttore non riesca ad ottenere tali autorizzazioni, non è configurabile alcuna responsabilità per inadempimento a carico del locatore e ciò anche se il diniego sia dipeso dalle caratteristiche proprie del bene locato. La Suprema Corte di cassazione ha, poi, precisato che la destinazione particolare dell’immobile, tale da richiedere che lo stesso sia dotato di precise caratteristiche e che attenga specifiche licenze amministrative, è elemento che diviene rilevante, quale condizione di efficacia, quale elemento presupposto o, infine, quale contenuto dell’obbligo assunto dal locatore nella garanzia di pacifico godimento dell’immobile in relazione all’uso convenuto, solo se abbia formato oggetto di specifica pattuizione, non essendo sufficiente la mera enunciazione, in contratto, che la locazione sia stipulata per un certo uso e l’attestazione del riconoscimento dell’idoneità dell’immobile da parte del conduttore.

6.1. Sulla responsabilità del locatore per fatto del conduttore – ipotesi di responsabilità per fatto altrui.

Il nostro codice civile disciplina alcune ipotesi di responsabilità indiretta, anche detta “per fatto altrui”, disciplinate dagli artt. 2047 e ss. c.c.; responsabilità che si aggiunge e, a volte, si sostituisce, a quella di un altro soggetto, al fine di accrescere, in capo alla persona lesa, le possibilità di ottenere il risarcimento del pregiudizio subito.

Alla luce di tale premesse (Sez. 6, n. 4908/18, Rossetti, Rv. 648039-01), ha precisato i limiti entro i quali il proprietario di un immobile concesso in locazoine può rispondere dei danni provocati dal conduttore, nella specie quelli conseguenti alle immissioni ritenute intollerabili provenienti dall’immobile oggetto del contratto. Ed invero, la fattispecie oggetto di esame da parte della Corte di cassazione traeva origine dalla domanda di risarcimento danni proposta da alcuni condomini di un edificio nei confronti di un proprietario e del conduttore di un locale posto al piano terreno del medesimo immobile adibito a bar, nel quale si eseguivano intrattenimenti musicali e dal quale provenivano immissioni sonore ritenute intollerabili.

La Corte d’Appello di Milano aveva ravvisato una colpa aquiliana della società proprietaria del suddetto locale, consistente nella mancata adozione degli interventi necessari ad impedire il verificarsi del danno, ed in particolare nel non avere vigilato sull’uso che della cosa locata faceva il conduttore, in modo da evitare che provocasse danno agli altri condoomini.

Tale pronuncia è stata ritenuta dalla Corte di cassazione in contrasto con l’art. 2043 c.c. nella parte in cui tale norma esige l’accertamento in concreto della colpa. In particolare, l’esclusione da ogni forma di responsabilità nella vicenda discendeva dal fatto che non era rinvenibile in capo al proprietario alcun obbligo di vigilanza, di intervento o di veto conseguente ad una norma positiva o contrattuale, né si era accertato che quest’ultimo, al momento della stipula del contratto di locazione, poteva prefigurarsi, impiegando la diligenza di cui all’art. 1176 c.c., che il conduttore avrebbe certamente recato danni a terzi con la propria attività.

In conclusione, la responsabilità in capo al proprieratio locatorio per fatto del conduttore può discendere, ex art. 2043 c.c., solo in caso di un esito positivo circa l’avvenuta violazione da parte del primo di norme, clausole contrattuali o del più generale prinicipio di cui all’art. 1176 c.c.

6.2. Locazione a uso commerciale – clausola contrattuale di rinuncia a indennità di avviamento – Nullità – Limiti.

Con riferimento alla clausola contrattuale apposta al contratto di locazione commerciale con la quale le parti convengono di rinunciare alla indennità di avviamento, la Corte di cassazione, ha precisato i principi generali che regolano tale rinuncia.

In proposito, Sez. 3, n. 20974/2018, Armano, Rv. 650322-02 ha affermato che la nullità, ai sensi dell’art. 79 l. n. 392 del 1978, della clausola di rinuncia preventiva, da parte del conduttore, all’indennità di avviamento, non importa la nullità dell’intero contratto, atteso che tale pattuizione è sostituita di diritto dalla norma imperativa, di cui all’art. 34 l. n. 392 del 1978, attributiva del credito indennitario, né assume rilevanza il fatto che le parti abbiano convenuto il venir meno dell’intero contratto in caso di declaratoria di invalidità della pattuizione di rinunzia, rimanendo l’essenzialità di tale clausola esclusa dalla presenza di una disciplina inderogabile del diritto rinunziato, la quale impone ex se, senza la necessità di una disposizione espressa, la sostituzione ai sensi dell’art. 1419, comma 2, c.c.

Con altra pronuncia la Corte di cassazione ha, poi, precisato la ratio posta a fondamento della sanzione di nullità della clausola in esame e, conseguentemente, ha delimitato i casi in cui tale nullità può essere evocata. In proposito Sez. 3, n. 15373/2018, Armano, Rv. 649307-01, ha affermato che l’art. 79 della l. n. 392 del 1978, il quale sancisce la nullità di ogni pattuizione diretta a limitare la durata legale del contratto di locazione o ad attribuire al locatore un canone maggiore di quello legale, ovvero ad attribuirgli altro vantaggio in contrasto con le disposizioni della legge stessa, non impedisce al conduttore di rinunciare all’indennità per la perdita dell’avviamento commerciale, purché ciò avvenga successivamente alla conclusione del contratto, quando può escludersi che il conduttore si trovi in quella posizione di debolezza alla cui tutela la richiamata disciplina è preordinata. In sostanza, la sanzione di nullita` prevista dall’art. 79 cit. non puo` essere estesa agli accordi transattivi conclusi dal conduttore, che gia` si trovi nel possesso del bene, per regolare gli effetti di fatti verificatisi nel corso del rapporto e che, percio`, incidono su situazioni giuridiche patrimoniali gia` sorte e disponibili.

Con tale ultima pronuncia, la Corte di cassazione conferma, quindi, il principio della nullità della clausola che determina la rinuncia all’indennità di avviamento nei limiti sopra indicati e, dunque, della tutela della parità contrattuale tra le parti, precisando che ciò risponde all’indirizzo prevalente della giurisprudenza di legittima dal quale risulta isolata il precedente costituito da Sez. 3, n. 8705/2015, Scrima, Rv. 635206-01, secondo cui, in materia di locazione di immobile ad uso non abitativo, vige il principio della libera determinazione del canone, sicché, tendendo l’art. 79 cit. a garantire l’equilibrio sinallagmatico del contratto secondo la valutazione operata dal legislatore, non sono stati imposti limiti all’autonomia negoziale con riguardo alla previsione di un canone in misura inferiore a quella originariamente concordata, ove la stessa trovi la sua giustificazione nella rinuncia, da parte del conduttore, ai diritti derivantigli dal contratto di locazione, ivi compreso quello alla corresponsione dell’indennita` di avviamento commerciale.

7. Il mandato.

Sul versante dell’inadempimento Sez. 3, n. 07515/2018, Rossetti, Rv. 648304-02 ha chiarito che nel caso di mandato per il compimento di negozi giuridici implicanti specifiche conoscenze tecniche, non è ravvisabile a carico del mandante alcun concorso di colpa, ai sensi dell’art. 1227 c.c., per non avere di propria iniziativa prevenuto o sanato gli errori del mandatario inadempiente fino a quando questi ultimi non gli siano in qualunque modo resi noti ed evidenti, in quanto il mandante, privo delle necessarie competenze, può fare legittimo affidamento sulla competenza del mandatario.

La riscossione di somme da parte del mandatario per conto del mandante ad avviso di Sez. 6-1, n. 03047/2018, Di Marzio M., Rv. 647339-01 comporta l’obbligo, per il primo, di versare tali somme al preponente mediante un distinto atto di ritrasferimento. Ne consegue che ove intervenga medio tempore il fallimento del mandatario, gli eventuali versamenti, da quest’ultimo compiuti in favore del mandante nel cosiddetto periodo sospetto di cui all’art. 67, comma 2, l. fall., integrano gli estremi del pagamento di debiti liquidi ed esigibili, revocabile ai sensi dell’articolo cit. Il principio è stato applicato in una lite tra un’associazione temporanea di imprese e una società fallita, mentre il precedente conforme Sez. 1, n. 13660/1999, Papa, Rv. 531907-01 riguardava una controversia tra un procacciatore d’affari ed una concessionaria di autoveicoli

È invalido un mandato contrattuale che, in qualsiasi forma e modo, comporti, attraverso l’esecuzione da parte del mandatario dopo la morte del mandante, una trasmissione mortis causa di beni patrimoniali, inerenti all’eredità, a favore di terze persone. Nel nostro ordinamento, per Sez. 3, n. 11763/2018, Dell’Utri, Rv. 648614-02, un mandato post mortem exequendum conferito ed accettato durante la vita del mandante ed avente per oggetto un incarico, anche se di contenuto patrimoniale, da eseguirsi dal mandatario dopo la morte del mandante e per conto di questo è valido, solo ove la natura dell’affare non sia in contrasto con le norme fondamentali che disciplinano la successione mortis causa e in ispecie la successione testamentaria. La pronuncia ribadendo un principio affermato da Sez. 3, n. 02804/1962, La Farina, Rv. 254164-01, chiarisce, infatti, che la volontà del defunto, relativamente ai beni dell’eredità, non può operare, post mortem, che come volontà testamentaria, nelle forme, nei modi e nei limiti determinati dalla legge.

Sotto il profilo processuale Sez. 2, n. 17384/2018, Fortunato, Rv. 649350-01, sulla stessa scia di Sez. 2, n.14682/2014, Matera, Rv. 631208-01 ha ribadito che la presunzione di onerosità del mandato, stabilita dall’art. 1709 c.c., ha carattere relativo e può essere superata dalla prova della sua gratuità, desumibile dalle circostanze del rapporto

Conferma l’indirizzo giurisprudenziale espresso da Sez. 3, n. 00721/2001, Finocchiaro, Rv. 543281-01, Sez. 2, n. 10487/2018, Penta, Rv. 648169-01 secondo cui la morte del mandante che sta in giudizio per mezzo del mandatario ad negotia, costituito tramite procuratore legale, acquista rilevanza processuale e comporta l’interruzione del processo solo se è stata dichiarata o notificata dal procuratore legale, restando irrilevante che la morte della parte sia nota al giudice ed alla controparte. La rappresentanza processuale sopravvive, infatti, al decesso del mandante per il suo particolare carattere di rapporto esterno rispetto al giudice ed alla controparte. Nei rapporti interni fra mandante e mandatario, gli atti, compresa la nomina di un procuratore ad processum, che siano stati compiuti dal mandatario prima di conoscere l’estinzione del mandato, per morte del mandante restano validi, sia nei confronti del mandante, sia dei suoi eredi, salva da parte di questi ultimi la ratifica dell’operato del mandatario.

L’azione diretta del mandante nei confronti del sostituto del mandatario, di cui all’art. 1717, comma 4, c.c., è consentita secondo Sez. 3, n. 01580/2018, Rubino, Rv. 647925-01 in tutti casi di sostituzione previsti dai primi tre commi della medesima disposizione e, quindi, anche nell’ipotesi di sostituzione non autorizzata, indebitamente operata dal mandatario nell’ambito di un mandato allo svolgimento di un incarico professionale, necessariamente caratterizzato dall’intuitus personae.

Sez. 1, n. 07364/2018, Falabella, Rv. 647765-01 ha chiarito che l’attività di amministrazione compiuta dalla società fiduciaria, caratterizzata dalla facoltà di compiere per conto del cliente un’attività volta alla realizzazione sui singoli beni ad essa affidati di una serie di atti giuridici coordinati in vista del raggiungimento di un risultato, è qualificabile come mandato senza rappresentanza. Ne consegue che le azioni a tutela della proprietà dei beni spettano al fiduciante, mentre quelle inerenti la gestione dei beni affidati spettano al fiduciario.

8. La mediazione.

L’incarico a trattare finalizzato ad individuare possibili compratori per un compendio immobiliare non richiede, ad avviso di Sez. 2, n. 11655/2018, D’Ascola, Rv. 648495-02 diversamente dalla procura a vendere, la forma scritta ad substantiam.

Sul punto, inoltre, Sez. 2, n. 11656/2018, D’Ascola, Rv. 648394-01 ha precisato che, ai fini della configurabilità del rapporto di mediazione, non è necessaria l’esistenza di un preventivo conferimento di incarico per la ricerca di un acquirente o di un venditore, ma è sufficiente che la parte abbia accettato l’attività del mediatore avvantaggiandosene. Nello stesso senso già si era espressa Sez. 3, n. 25851/2014, Stalla, Rv. 633809-01.

Il diritto del mediatore alla provvigione sorge tutte le volte in cui la conclusione dell’affare sia in rapporto causale con l’attività intermediatrice, non occorrendo un nesso eziologico diretto ed esclusivo tra l’attività del mediatore e la conclusione dell’affare, poiché è sufficiente che il mediatore abbia messo in relazione le stesse, sì da realizzare l’antecedente indispensabile per pervenire alla conclusione del contratto, secondo i principi della causalità adeguata. Il diritto nasce anche in assenza di un intervento del mediatore in tutte le fasi della trattativa ed anche in presenza di un processo di formazione della volontà delle parti complesso ed articolato nel tempo. La pronuncia in tal senso di Sez. 2, n. 00869/2018, Picaroni, Rv. 646668-01 conferma quanto in precedenza espresso da Sez. 3, n. 25851/2014, Stalla, Rv. 633808-01 citata.

Sez. 2, n. 06552/2018, Bellini, Rv. 647854-01 ha, inoltre, precisato che il diritto del mediatore alla provvigione consegue alla conclusione dell’affare, mentre non rileva che questo sia concluso dalle medesime parti ovvero da parti diverse da quelle cui è stato proposto, purché vi sia un legame, anche se non necessariamente di rappresentanza, tra la parte originaria e quella con cui è stato successivamente concluso, tale da giustificare, nell’ambito dei reciproci rapporti economici, lo spostamento della trattativa o la stessa conclusione dell’affare su un altro soggetto. La parte originaria resta comunque debitrice nei confronti del mediatore.

Sul tema, inoltre, secondo Sez. 2, n. 11655/2018, D’Ascola, Rv. 648495-01, il diritto alla provvigione si ricollega all’efficacia dell’intervento del mediatore nel favorire la conclusione dell’affare, non alle forme giuridiche mediante le quali l’affare medesimo è concluso, né alla coincidenza soggettiva tra fase delle trattative e formalizzazione del negozio. Il mediatore può, pertanto, domandare la provvigione alla persona che gli ha affidato l’incarico e ha condotto le trattative, la quale risponde in proprio, tranne che abbia dichiarato fin dall’origine di agire in rappresentanza di un terzo. La pronuncia si pone sulla stessa linea di Sez. 6 – 3, n. 04758/2012, Lanzillo, Rv. 622114-01.

Qualora il mandato ad un mediatore per la ricerca di un acquirente di un immobile sia venuto a scadenza non è comunque preclusa, secondo Sez. 6-2, n. 14623/2018, Scarpa, Rv. 649092-01 a chi ha conferito l’incarico, l’azione di risoluzione del contratto per inadempimento, verificatosi anteriormente al decorso del termine. In tal caso, la pronuncia di risoluzione ha efficacia retroattiva al momento dell’inadempimento e prevale, per la priorità nel tempo dell’operatività dei suoi effetti, rispetto alle altre cause di estinzione del medesimo rapporto.

Sulla scia di quanto affermato da Sez. U, n. 19161/2017, Petitti, Rv. 645138-01 è configurabile, per Sez. 5, n. 29287/2018, Putaturo, Rv. 651545-01, una mediazione negoziale atipica, la cd. mediazione unilaterale, che si realizza ove, a fronte dell’attività di mediazione svolta senza vincoli di collaborazione, dipendenza o rappresentanza di una sola delle parti, sussista un rapporto di mandato ovvero il conferimento dell’incarico al mediatore ad opera di una parte di ricercare una persona interessata allo stesso affare a determinate e prestabilite condizioni.

Dal punto di vista processuale, infine, Sez. 6-2, n. 30730/2018, Grasso Giuseppe, Rv. 651632-01, ha chiarito che la domanda di condanna avanzata dal mediatore per il pagamento della provvigione contro ciascuna delle parti dell’affare concluso in ragione del suo intervento dà luogo ad un’ipotesi di litisconsorzio facoltativo proprio per comunanza di titolo, con conseguente scindibilità delle cause stesse in fase di appello. Ne deriva che, ove entrambi i partecipanti all’affare siano risultati soccombenti in primo grado, l’appello proposto da uno solo dei due non giova all’altro, nei cui confronti, in difetto di impugnazione incidentale, la sentenza sfavorevole passa in cosa giudicata; inoltre, nei riguardi di quest’ultimo, quale che sia l’esito dell’appello, non ha luogo il regolamento delle spese, né per il primo grado, ostandovi il giudicato, né per il secondo, non avendo egli assunto la qualità di parte.

9. Il mutuo.

Nel mutuo fondiario secondo Sez. 1, n. 11201/2018, Dolmetta, Rv. 648901-01, il limite di finanziabilità ex art. 38, comma 2, del d.lgs. 1° settembre 1993, n. 385, è elemento essenziale del contenuto del contratto ed il suo mancato rispetto determina la nullità di quest’ultimo. Resta, tuttavia, salva la possibilità della sua conversione in ordinario finanziamento ipotecario qualora, avuto riguardo alle circostanze del caso concreto e all’intento pratico perseguito dalle parti, emerga che il conseguimento dei peculiari vantaggi fondiari non ha costituito la ragione unica o determinante dell’operazione. La pronuncia conferma quanto espresso da Sez. 1, n. 17352/2017, Terrusi, Rv. 644846-01.

Sul medesimo fronte, Sez. 1, n. 29745/2018, Dolmetta, Rv. 651489-01, ha precisato che l’indicazione nel contratto di mutuo fondiario del valore del bene offerto in garanzia non assurge a requisito di forma prescritto ad substantiam, non essendo previsto come tale dalla disciplina specifica di cui agli artt. 38 e 117 d.lgs. n. 385 del 1993, cd. T.U.B., e non rientrando nell’ambito delle condizioni contrattuali di carattere economico. Ne consegue che la sua omissione non impedisce l’applicabilità del limite di finanziabilità, che è requisito di sostanza del contratto.

Consolida l’indirizzo espresso da Sez. 3, n. 25205/2014 Barreca, Rv. 633489-01, Sez. 6-1, n. 08028/2018, Scaldaferri, Rv. 647904-01, in tema di determinazione degli interessi corrispettivi, ai sensi dell’art. 1346 c.c., sulle rate di ammortamento scadute. In particolare, è ammissibile la determinazione convenzionale per relationem, nel regime anteriore all’entrata in vigore della legge 17 febbraio 1992, n. 154, purché contenga un richiamo a criteri prestabiliti ed elementi estrinseci, obiettivamente individuabili e funzionali alla concreta determinazione del saggio di interesse.

Sez. 1, n. 15929/2018, Pazzi, Rv. 649529-01, ha chiarito meglio la struttura e la funzione del mutuo di scopo. Elemento essenziale del contratto è la destinazione delle somme mutuate alla finalità programmata che incide sulla causa del contratto fino a coinvolgere direttamente l’interesse dell’istituto finanziatore. In tal senso assume rilevanza corrispettiva l’impegno del mutuatario a realizzare tale destinazione, mentre non è indispensabile che il richiamato interesse del finanziatore sia bilanciato in termini sinallagmatici, oltre che con la corresponsione della somma mutuata, anche mediante il riconoscimento di un tasso di interesse agevolato al mutuatario. Detto contratto ha la funzione, infatti, di procurare al mutuatario i mezzi economici destinati al raggiungimento di una determinata finalità, comune al finanziatore, la quale, integrando la struttura del negozio, ne amplia la causa rispetto alla sua normale consistenza.

Sotto il profilo dell’inadempimento del mutuatario, Sez. 1, n. 09385/2018, Di Marzio, Rv. 648448-01, ha affermato che integra la violazione del fondamentale dovere di solidarietà inerente al rapporto contrattuale la segnalazione all’archivio dei debitori insolventi, cd. CRIF, da parte della banca mutuante del nominativo del mutuatario, qualora l’inadempimento all’obbligo di restituzione della somma mutuata si riveli essere, al momento della segnalazione stessa, conseguenza di un disguido ad esso non imputabile. La pronuncia si allinea a quanto espresso in termini da Sez. 1, n. 23033/2011, Rodorf, Rv. 620483-01.

La procura a vendere un immobile, conferita dal mutuatario al mutuante contestualmente alla stipulazione del mutuo, è idonea, secondo Sez. 2, n. 22903/2018, Carrato, Rv. 650377-01, ad integrare la violazione divieto di patto commissorio, ex art. 2744 c.c., qualora si accerti che tra il mutuo e la procura sussista un nesso funzionale. La valutazione è demandata al giudice di merito che, nel compierla, non deve limitarsi ad un esame formale degli atti posti in essere dalle parti, ma deve considerarne la causa in concreto e, in caso di operazione complessa, valutarli alla luce di un loro potenziale collegamento funzionale, apprezzando ogni circostanza di fatto rilevante e il risultato stesso che l’operazione negoziale era idonea a produrre e, in concreto, ha prodotto. Nello stesso senso Sez. 3, n. 15486/2014 Cirillo F.M., Rv. 631747-01.

Sotto il profilo delle nullità Sez. 1, n. 13286/2018, Dolmetta, Rv. 649156-02, ha confermato quanto già affermato da Sez. 1, n. 17352/2017, Terrusi, Rv. 644846-02, in tema di richiesta di conversione del contratto nullo di mutuo fondiario in contratto di mutuo ipotecario ordinario. In particolare, il potere del giudice di rilevare d’ufficio la nullità non può estendersi alla conversione del contratto nullo, ostandovi la previsione di cui all’art. 1424 c.c.; è, viceversa, ammissibile l’istanza in tal senso avanzata dalla parte nel primo momento utile successivo alla rilevazione suddetta, poiché è consequenziale alla rilevata nullità dell’unico titolo posto a fondamento dell’originaria domanda.

Sotto il profilo processuale, è ammessa la prova testimoniale della conclusione di un contratto di mutuo in forma orale, qualora il giudice ritenga verosimile tale ipotesi, avuto riguardo alla sua natura ed alla qualità delle parti, nonostante il valore della lite ecceda il limite previsto dalla citata disposizione. Con tale principio Sez. 2, n. 01751/2018, Cosentino, Rv. 647153-03 conferma Sez. 6-3, n. 14457/2013, Lanzillo, Rv. 626705-01.

Dal lato processuale Sez. 2, n. 30944/2018, Bellini, Rv. 651538-03, ha precisato che qualora l’attore fondi la sua domanda su un contratto di mutuo, la circostanza che il convenuto ammetta di avere ricevuto una somma di denaro dall’attore, ma neghi che ciò sia avvenuto a titolo di mutuo, non costituisce una eccezione in senso sostanziale, sì da invertire l’onere della prova. La negazione dell’esistenza di un contratto di mutuo non equivale all’eccezione di inefficacia, modificazione o estinzione, ma vuol dire negare il titolo posto a base della domanda. Ne consegue che rimane fermo l’onere probatorio a carico dell’attore. Si tratta di un orientamento consolidato; da ultimo v. Sez. 3, n. 06295/2013, Ambrosio, Rv. 625490-01.

Sulla base degli stessi principi è da tempo affermato che l’attore che chieda la restituzione di somme date a mutuo è tenuto a provare gli elementi costitutivi della domanda e, pertanto, non solo l’avvenuta consegna della somma, ma anche il titolo da cui derivi l’obbligo della vantata restituzione. In questo senso Sez. 2, n. 30944/2018, Bellini, Rv. 651538-02, ma anche Sez. 3, n. 09541/2010, Segreto, Rv. 612425-01.

Sez. 1, n. 04202/2018, Ferro, Rv. 648106-01, ha confermato l’orientamento espresso da Sez. 1, n. 03955/2016, Terrusi, Rv. 638838-01, secondo cui è revocabile, ai sensi dell’art. 67, comma 1, n. 2), l. fall., e in ogni caso ex art. 67, comma 2 l. fall., la rimessa conseguente alla concessione di un mutuo garantito da ipoteca destinata a ripianare uno scoperto di conto, laddove il mutuo ipotecario e il successivo impiego di una somma siano inquadrabili in un’operazione unitaria posta in essere in funzione dell’azzeramento della preesistente esposizione debitoria del mutuatario. Il giudice è tenuto, tuttavia ad accertare se una parte del finanziamento potesse essere destinata ad una nuova sovvenzione invece che al consolidamento del passivo.

10. La transazione.

La Corte di cassazione (Sez. 2, n. 26168/2018, Scarpa, Rv. 650839-01), con riferimento al caso di rinuncia all’azione di nullità di un contrato illecito e dei suoi limiti, ha accolto il ricorso avverso la sentenza emessa dalla Corte d’Appello che aveva ritenuto preclusa l’azione di simulazione proposta dagli aventi causa di persona che in diverso giudizio aveva sottoscritto una transazione avente ad oggetto la rinuncia all’azione di nullità del contratto di compravendita in quanto simulato, giudizio che si era, per tale motivo, concluso con la dichirazione della sua estinzione. Tale rinuncia, a parere dei giudici di merito, sarebbe idonea ad impedire ai ricorrenti la medesima azione nel diverso giudizio. La nullita` della transazione, per la Corte di Firenze, doveva poi negarsi, in quanto con essa “non si transige su contratti illeciti, ma sulle domande volte a tale accertamento, al quale si rinuncia”.

La Corte di cassazione osserva che la sentenza oggetto di ricorso si fondava su remoto precedente giurisprudenziale, secondo cui, se e` vero che il negozio giuridico nullo non e` convalidabile, e` pero anche vero che la parte interessata puo` rinunciare all’azione di nullita` cosi come puo` rinunciare al giudicato di nullita`, dovendosi configurare queste rinunce come atti di disposizione della situazione sostanziale legittimante all’azione di nullita`. Tali rinunce comportano indirettamente l’impossibilita` di divenire titolare dei diritti che eventualmente deriverebbero dalla suddetta situazione sostanziale, seppur non possono configurarsi quali rinunce a diritti futuri (Cass. Sez. 3, n. 3925/1977, Mercurio, Rv. 504094-01). Rileva la Corte che tale indirizzo, peraltro, si pone in rapporto di continuità con quanto affermato in precedenza dalla giurisprudenza di legittimità secondo cui l’indisponibilita` dell’esistenza di una causa di nullita` non impedisce al soggetto, che abbia proposto la domanda diretta alla relativa declaratoria, di rinunziare alle situazioni soggettive cui si ricollegano l’interesse e la legittimazione all’azione proposta (rinunziando all’azione e precludendo ogni ulteriore tutela giurisdizionale del diritto), e quindi di determinare la cessazione della materia del contendere. In conclusione, l’insorgere di una causa che determina la cessazione della materia del contendere farebbe, del resto, venir meno altresi` il potere del giudice di dichiarare d’ufficio la nullita` di un atto negoziale (Cass. Sez. 1, n. 2280/1973, Granata, Rv. 365574-01). Alla luce di tali premesse, la Corte, con la sentenza in esame, osserva che la dottrina aveva affermato in modo pressoche´ unanime, che non era possibile rinunciare a far valere la nullita` negoziale, in quanto l’effetto invalidante assoluto deriva direttamente dalla legge e non e` disponibile dai privati. L’inammissibilita` della convalida del contratto nullo, sancita dall’art. 1423 c.c., impedisce, quindi, di dar rilievo negoziale alla rinunzia unilaterale di un contrante, nel senso di rendere valido cio` che e` nato come nullo, rimanendo eccezionale, per la ratio sottesa, la previsione della conferma ed esecuzione volontaria delle donazioni nulle ex art. 799 c.c. Tale interpretazione si fonda sul presupposto che, essendo la nullita` negoziale rimedio posto a tutela anche di interessi pubblici, se l’atto processuale dispositivo di una parte dovesse intendersi in grado non soltanto di rinunziare all’azione, ma anche ai diritti conseguenti alla declaratoria di nullita`, nel senso di precludere definitivamente anche ogni futuro intervento giudiziale, rimarrebbe travolta anche la ratio che e` sottesa alla rilevabilita` d’ufficio della nullita` stessa, come in generale di tutte le eccezioni in senso lato, rilevabilita` funzionale ad una concezione del processo che trae linfa applicativa proprio nel valore di giustizia della decisione e attenta all’essenza della categoria della nullita`, che risiede nella tutela di interessi generali, di valori fondamentali o che comunque trascendono quelli del singolo.

A conclusione di tale iter logico argomentativo, la Corte di cassazione osserva che a parere della richiamata dottrina deve negarsi che la rinuncia alla domanda di nullita` possa portare ad altro che all’estinzione del processo, senza cioe` intaccare il diritto sostanziale, sicche´ l’azione rimarrebbe in se´ impregiudicata e sarebbe riproponibile in successivi giudizi. La Corte di cassazione, quindi, partendo dalle pronunce sopra richiamate e tenuto conto della tesi della dottrina riportata, osserva che nella giurisprudenza di legittimità si afferma, piu` in generale, che la rinuncia alle azioni vertenti su interessi indisponibili (cfr. Sez. 1, n. 14879/2017, Di Palma Rv. 644976-01) spiega i suoi limitati effetti nel relativo giudizio, determinandone l’estinzione con cessazione della materia del contendere, per esser venuto meno l’interesse ad agire e a contraddire del rinunciante, e cioe` l’interesse ad ottenere la pronuncia del giudice sulla sua domanda originaria. Il limitato effetto della rinuncia all’azione di nullita` nell’ambito del procedimento in cui venga manifestata lascia, pertanto, intatta la facolta` di riproporre successivamente la domanda, nel senso che considera tale rinuncia come non incidente direttamente sul diritto sostanziale alla declaratoria di nullita`, finendo altrimenti essa per contrastare con l’indisponibilita` degli interessi generali sottostanti alla categoria delle nullita` negoziali.

All’esito di tali motivazioni, la Corte osserva che nel giudizio in esame, la sentenza impugnata in realtà, più che fondare l’effetto preclusivo dell’azione di nullità proposta dai ricorrenti dall’atto di transazione sottoscritto in altro giudizio dalla loro dante causa, ha quale presupposto la portata preclusiva in sé della suddetta transazione. Ed invero, la Corte osserva che i giudici di merito avevano sostenuto che la transazione non avesse disposto sui contratti illeciti, (simulazione di un contratto di vendita con violazione del patto commissorio) quanto sulle sole domande volte a tale accertamento, rinunciandovi, con ciò non tenendo conto che in realtà la transazione era finalizzata a rendere lecito un contratto di compravendita in violazione dell’art. 2744 c.c e. quindi, illecito, con la conseguenza che tale rinuncia in sede transattiva all’azione di nullita` di un contratto illecito si rivela nient’altro che rinuncia ai diritti conseguenti alla declaratoria giudiziale della nullita`, in contrasto con l’art. 1972, comma 1, c.c.

11. Il Trasposto.

Con riferimento a tale tipo di contratto, nel 2018 assume rilevanza la pronuncia con la quale la Corte di cassazione ha delimitato i limiti tra diritto comunitario e interno in ambito di trasporto aereo e, in particolare, in tema di responsabilità contrattuale per inadempimento o inesatto adempimento, onere probatoro, criteri di riparto, applicazione dei principi generali in assenza di una disciplina speciale.

Con la Sez. 3 n. 1584/2018, D’arrigo, Rv. 647585-01, la Corte di cassazione ha affrontato la questione di diritto concerne l’ampiezza dell’onere probatorio gravante sul passeggero che intenda agire in giudizio nei confronti del vettore aereo chiedendo il risarcimento dei danni da ritardo. In particolare, la controversia verteva sulla circostanza se il passeggero possa limitarsi a provare l’esistenza del contratto di trasporto (ossia l’avvenuto acquisto del biglietto aereo) e ad allegare il ritardo del volo, oppure se egli sia onerato di fornire la prova piena anche di questo secondo elemento, gravando sul vettore il solo onere della prova liberatoria.

La Corte, ai fini di giungere alla individuazione del riparto dell’onere probatorio in esame, preliminarmente, esamina il quadro normativo di riferimento.

Ed invero, il Collegio osserva che la Convenzione di Montre´al (sottoscritta dalla Comunita` europea il 9 dicembre 1999, approvata con decisione del Consiglio 5 aprile 2011, 2001/539/CE e ratificata e resa esecutiva in Italia con legge n. 12 del 2004) non detta una regola specifica in ordine alla prova dell’inadempimento; introduce, però, una presunzione di responsabilità del vettore aereo laddove all’art. 19 è previsto che “il vettore e` responsabile del danno derivante da ritardo nel trasporto aereo di passeggeri, bagagli o merci. Tuttavia il vettore non e` responsabile per i danni da ritardo se dimostri che egli stesso e i propri dipendenti e preposti hanno adottato tutte le misure che potevano essere ragionevolmente ri- chieste per evitare il danno oppure che era loro impossibile adottarle”. Per il vettore aereo è possibile superare tale presunzione offrendo la prova liberatoria dell’imprevedibilita` del danno, tale che non era ragionevole ex ante adottare delle misure idonee ad evitarne l’avveramento, ovvero dell’oggettiva impossibilita` di adottarle, operando l’esenzione in esame in presenza del caso fortuito o della forza maggiore.

La Corte riporta, poi, le norme contenute nel Regolamento CE n. 261/2004, il quale istituisce regole comuni in materia di compensazione e assistenza ai passeggeri in caso di negato imbarco, di cancellazione del volo o di ritardo prolungato, e alcune pronunce della Corte di Giustizia, dalle quali risulta confermata la ratio secondo cui la responsabilità del vettore viene esclusa solo in caso di caso fortuito o forza maggiore.

Da tale uniforme quadro normativo deriva l’immanenza del principio di presunzione di responsabilita` del vettore aereo. Dunque, una volta provato l’inadempimento – o, piu` esattamente, l’inesatto adempimento – l’imputabilita` dello stesso al vettore aereo costituisce oggetto di una presunzione superabile, tanto che si faccia riferimento alla Convenzione di Montre´al quanto che si applichi il Regolamento CE, solamente attraverso la prova liberatoria del caso fortuito o della forza maggiore; presunzione di responsabilita` che opera, com’e` ovvio, sul piano dell’imputabilita` dell’inadempimento, ai sensi dell’art. 1218 c.c., non su quello della prova oggettiva dello stesso sul cui onere le norme sopra riportate nulla dispongono.

In ragione di ciò, conclude la Corte di cassazione che l’assenza di una norma speciale, impone di far riferimento ai criteri ordinari di riparto dell’onere della prova, di cui all’art. 2697 c.c., e l’affermazione del seguente principio di diritto “il passeggero che agisca per il risarcimento del danno derivante dal negato imbarco o dalla cancellazione (inadempimento) o dal ritardato arrivo dell’aeromobile rispetto all’orario previsto (inesatto adempimento), deve fornire la prova della fonte (negoziale) del suo diritto e il relativo termine di scadenza, ossia deve produrre il titolo o il biglietto di viaggio o altra prova equipollente, potendosi poi limitare alla mera allegazione dell’inadempimento del vettore. Spetta a quest’ultimo, convenuto in giudizio, dimostrare l’avvenuto adempimento, oppure che, in caso di ritardo, questo sia stato contenuto sotto le soglie di rilevanza fissate dall’art. 6, comma 1, del Regolamento CE n. 261/2004”.

12. La Vendita

In generale sugli obblighi e gli oneri delle parti negoziali per Sez. 2, n. 07171/2018, Grasso Giuseppe, Rv. 647861-01, è a carico del venditore l’obbligo di adoperarsi fattivamente al fine di trasferire al compratore non soltanto la proprietà ed il possesso giuridico, ma anche il possesso reale o di fatto del bene venduto, essendo la consegna dello stesso l’atto con cui il compratore è posto nella condizione non solo di disporre materialmente della cosa trasferita nella sua proprietà, ma anche di goderla secondo la funzione e destinazione in considerazione della quale l’ha comprata.

L’espressa dichiarazione del venditore che il bene compravenduto è libero da oneri o diritti reali o personali di godimento ad avviso di Sez. 2, n. 14289/2018, Grasso Giuseppe, Rv. 648837-01, esonera l’acquirente dal compiere qualsiasi indagine, operando a suo favore il principio dell’affidamento nell’altrui dichiarazione. Ne consegue che, se la dichiarazione è contraria al vero, il venditore è responsabile nei confronti della controparte tanto se i pesi sul bene erano dalla stessa facilmente conoscibili, quanto, a maggior ragione, se essi non erano apparenti, restando irrilevante la trascrizione del vincolo, che assume valore solo verso il terzo acquirente e non per il compratore il quale, nel rispetto del canone della buona fede, ha il diritto di stare alle dichiarazioni dell’alienante. Tale diritto, però, viene meno qualora dette dichiarazioni trovino diretta ed immediata smentita nel modo d’essere del bene percepibile attraverso i sensi, in quanto, in questo caso, non opera il principio dell’affidamento ed il compratore deve subire le conseguenze della sua negligenza.

12.1. Vizi del consenso e garanzia per i vizi.

Nell’ambito della vendita di cosa gravata da oneri o da diritti di godimento di terzi, Sez. 2, n. 00057/2018, Guido, Rv. 646615-01, ha confermato quanto espresso da Sez. 2, n. 08500/2013, Carrato, Rv. 626150-01, ovvero che la responsabilità del venditore ex art. 1489 c.c. è esclusa, sia nel caso in cui il compratore abbia avuto effettiva conoscenza del peso gravante sulla cosa, presumendosi che egli l’abbia accettata con tale peso, sia nel caso in cui si tratti di oneri e diritti apparenti, che risultino cioè da opere visibili e permanenti destinate al loro esercizio. A nulla rileva, in tal senso, la dichiarazione del venditore della inesistenza di pesi od oneri sul bene medesimo. Il principio dell’affidamento non può trovare applicazione, in quanto il compratore, avendo la possibilità di esaminare la cosa prima dell’acquisto, ove abbia ignorato ciò che poteva ben conoscere in quanto esteriormente visibile, deve subire le conseguenze della propria negligenza, secondo il criterio di auto-responsabilità. Il principio trova conferma con quanto affermato nel paragrafo precedente a proposito della vendita in generale.

Sullo stesso tema, Sez. 3, n. 16795/2018, Sabato, Rv. 649661-01, ha precisato che la conoscibilità del vincolo urbanistico gravante sulla cosa, idonea ad escludere la responsabilità del venditore ex art. 1489 c.c., deve essere valutata in concreto, alla luce della natura del vincolo medesimo e della possibilità per l’acquirente di avvertire la necessità di compiere una verifica.

Sotto il diverso profilo dei vizi del consenso, Sez. 2, n. 29010/2018, Guido, Rv. 651385-01, ha affermato che l’errore sulla valutazione economica del bene oggetto del contratto non rientra nella nozione di errore di fatto idoneo a giustificare una pronuncia di annullamento, in quanto non incide sull’identità o qualità della cosa, ma attiene alla sfera dei motivi in base ai quali la parte si è determinata a concludere un certo accordo e al rischio che il contraente si assume, nell’ambito dell’autonomia contrattuale, per effetto delle proprie personali valutazioni sull’utilità economica dell’affare. La pronuncia si pone in linea con l’orientamento espresso da Sez. 2, n. 20148/2013, Nuzzo, Rv. 627680-01, ma ancor prima da Sez. 3, n. 05139/2003, Segreto, Rv. 561770-01.

Sez. 2, n. 12116/2018, Guido, Rv. 648506-01 è rimasta sul solco tracciato da Sez. 2, n.13869/1991, Paolella, Rv. 475150-01, laddove ha affermato che l›assunzione della garanzia per i vizi della cosa venduta, ai sensi dell’art. 1490 c.c. è configurabile in capo ad un soggetto diverso dal venditore, qualora sia legato da particolari rapporti con il venditore stesso e non, invece, con l’acquirente, come ad esempio di commissione o di preposizione institoria.

12.2. Azioni di annullamento e di risoluzione e azioni risarcitorie e azione di simulazione.

In generale, Sez. 2, n. 01889/2018, Scarpa, Rv. 647133-01, ha chiarito che il termine di prescrizione del diritto dell’acquirente alla risoluzione del contratto e al risarcimento del danno, derivante dalla consegna di aliud pro alio, decorre, ai sensi dell’art. 2935 c.c., non dalla data in cui si verifica l’effetto traslativo, ma dal momento in cui, rispettivamente, ha luogo l’inadempimento e si concretizza la manifestazione oggettiva del danno. È necessario, tuttavia, avere riguardo all’epoca di accadimento del fatto lesivo, per come obiettivamente percepibile e riconoscibile, e non al dato soggettivo della conoscenza della mancata attuazione della prestazione dovuta.

La sentenza che accoglie l’azione di annullamento di un contratto di vendita della nuda proprietà di una quota di un bene immobile, secondo Sez. 2, n. 02754/2018, Scarpa, Rv. 647792-02, fa venir meno l’estinzione dell’usufrutto su di essa gravante per effetto della consolidazione dell’usufrutto medesimo e della proprietà in capo alla medesima persona, ex art. 1014, n. 2, c.c., verificatasi in epoca successiva al negozio annullato. Tale conseguenza deriva dalla natura costitutiva e dal valore retroattivo della sentenza di annullamento.

Nello stesso senso di Sez. 2, n.18202/2013, Correnti, Rv. 627306-01, Sez. 2, n. 02429/2018, Guido, Rv. 647789-01, ha affermato che l’alienazione o la trasformazione della cosa affetta da vizi, di per sé, non è sufficiente a precludere al compratore l’azione di risoluzione del contratto per vizi della cosa venduta, ai sensi dell’art. 1492, comma 3, c.c. occorrendo a tal fine che quel comportamento evidenzi univocamente che l’acquirente abbia inteso accettare la cosa, consapevole dei vizi, rinunciando alla maggiore tutela risarcitoria rispetto alla riduzione del prezzo. Nell’ipotesi in cui l’azione di risoluzione per vizi, nonostante il perimento del bene, non sia preclusa, ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 1492 c.c., all’obbligo della restituzione specifica dei beni periti si sostituisce quello della restituzione per equivalente, che opera in via automatica, senza necessità di una specifica domanda da parte dell’acquirente.

L’autotutela consistente nella vendita senza ritardo delle cose, a spese del compratore, a mezzo di persona autorizzata prevista dall’art. 1515 c.c. in favore del venditore che non ottiene il pagamento del prezzo costituisce, secondo Sez. 2, n. 31308/2018, Besso Marcheis, Rv. 651757-01, una facoltà e non un obbligo. La parte adempiente ha, infatti, la possibilità di agire in via ordinaria per il risarcimento del danno, che va determinato nella sua entità dal giudice in base agli ordinari criteri posti dall’art. 1223 c.c.

Sotto il profilo processuale Sez. 2, n. 08804/2018, Tedesco, Rv. 648014-01 si è allineata all’orientamento espresso da Sez. 3, n. 03869/2004, Trifone, Rv. 570572-01, affermando che in materia di simulazione di contratti di compravendita di immobili, che esigono la forma scritta ad substantiam, è ammissibile l’interrogatorio formale tra le parti, in quanto sia diretto a provocare la confessione del soggetto cui è deferito e a dimostrare la simulazione assoluta del contratto, poiché, in tal caso, oggetto del mezzo di prova è l’inesistenza della compravendita.

Non è litisconsorte necessario nel giudizio promosso dal venditore per l’accertamento della simulazione del contratto il coniuge dell’acquirente di un immobile, che sia rimasto estraneo alla stipulazione dell’atto di compravendita, in quanto, per Sez. 6-3, n. 11033/2018, Rubino, Rv. 648914-01, l’inclusione del bene nella comunione legale ai sensi del’art. 177 c.c. costituisce un effetto ope legis dell’efficacia e validità del titolo di acquisto.

Un’importante precisazione è stata effettuata da Sez. 2, n. 00879/2018, Guido, Rv. 647071-01, secondo cui nel processo civile volto alla declaratoria di nullità, per violazione dell’art. 18 della l. 28 febbraio 1985, n. 47, ha efficacia di giudicato l’accertamento in ordine alla sussistenza del reato di lottizzazione abusiva contenuto in una sentenza penale di condanna divenuta irrevocabile. Secondo la pronuncia il riconoscimento di tale nullità discende dall’accertamento degli stessi fatti materiali ritenuti rilevanti in sede penale.

12.3. I diversi tipi di vendita.

Sez. 1, n. 04514/2018, Ferro, Rv. 647431-01, ha nuovamente confermato che la vendita con patto di riscatto o di retrovendita, pur non integrando direttamente un patto commissorio, può rappresentare un mezzo per sottrarsi all’applicazione del relativo divieto ogni qualvolta il versamento del prezzo da parte del compratore non si configuri come corrispettivo dovuto per l’acquisto della proprietà, ma come erogazione di un mutuo, rispetto al quale il trasferimento del bene risponda alla sola finalità di costituire una posizione di garanzia provvisoria, capace di evolversi in maniera diversa a seconda che il debitore adempia o meno l’obbligo di restituire le somme ricevute. La pronuncia costituisce una conferma di un consolidato principio espresso dalla S.C. (Tra le tante v. Sez. 2, n. 02725/2007, Oddo, Rv. 595520-01, Sez. 1, n. 08957/2014, Mercolino, Rv. 631126-01).

Nella vendita con riserva di proprietà in corso al momento della dichiarazione di fallimento del compratore, Sez. 1, n. 00826/2018, Ferro, Rv. 646797-01, in linea di continuità con Sez. 2, n. 21388/2013, D’Ascola, Rv. 627969-01, Sez. 1, n. 02261/2004, Nappi, Rv. 572499-01, ha confermato che il venditore può richiedere la restituzione della cosa nell’ipotesi di scioglimento del contratto, quando ancora il curatore non si sia avvalso della facoltà di subentrare nel rapporto negoziale, oppure può proseguire l’azione di risoluzione già intrapresa nei confronti dell’acquirente successivamente fallito; non può, invece, dopo la dichiarazione di fallimento e ove il curatore si sia avvalso della facoltà di subentrare nel contratto in corso, chiedere la risoluzione dello stesso, benché fondata su clausola risolutiva espressa, per il pregresso inadempimento del fallito. Il fallimento, infatti, determina la destinazione del patrimonio di quest’ultimo al soddisfacimento paritario di tutti i creditori, con l’effetto che la pronunzia di risoluzione non può produrre gli effetti restitutori e risarcitori suoi propri, i quali sarebbero lesivi della par condicio.

Conferma, altresì, un principio consolidato Sez. 2, n. 30713/2018, Abete, Rv. 651530-01, secondo cui integra un’ipotesi di vendita di aliud pro alio e legittima l’acquirente a richiedere la risoluzione del contratto per inadempimento del venditore ex art. 1453 c.c. la cessione di un’opera d’arte falsamente attribuita ad artista che, in realtà, non ne è stato l’autore (per tutte Sez. 2, n. 17995/2008, Schettino, Rv. 604082-01).

Analogamente sul solco tracciato da molteplici pronunce in tema di vendita con spedizione Sez. 3, n. 13377/2018, Positano, Rv. 649035-01, ha ribadito che con la consegna della merce al vettore o allo spedizioniere il venditore trasferisce all’acquirente, salvo patto contrario, la proprietà dei beni medesimi e, quindi, il rischio connesso al loro perimento. Ne consegue che la qualità di assicurato avente diritto all’indennizzo, nel contratto di assicurazione per conto di chi spetta, è rivestita non dal venditore ma dall’acquirente. In senso conforme, tra le varie, Sez. 2, n. 10770/2003, Mazziotti Di Celso, Rv. 564903-01, Sez. 3, n. 13957/1999, Favara, Rv. 532113-01

In tema di compravendita di animali, Sez. 2, n. 22728/2018, Lombardo, Rv. 650374-01, ha chiarito che la persona fisica che acquista un animale da compagnia, per la soddisfazione di esigenze della vita quotidiana estranee all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente esercitata, va qualificato a tutti gli effetti consumatore, così come va qualificato venditore, ai sensi del codice del consumo, chi, nell’esercizio del commercio o di altra attività imprenditoriale, venda un animale da compagnia che, a sua volta, costituisce bene di consumo. Ne consegue che la denuncia del difetto della cosa venduta è soggetta, ai sensi dell’art. 132 c.cons., al termine di decadenza di due mesi dalla data di scoperta del difetto.

12.4. Il contratto preliminare di vendita.

Molteplici sono state le pronunce sul tema del contratto preliminare di immobili.

Sui requisiti richiesti per la validità del contratto preliminare, è intervenuta Sez. 2, n. 11297/2018, Abete, Rv. 648322-02, per chiarire che non è indispensabile la completa e dettagliata indicazione di tutti gli elementi del futuro contratto, risultando sufficiente l’accordo delle parti su quelli essenziali. In particolare, nel preliminare di compravendita immobiliare, per il quale è richiesto l’atto scritto come per il definitivo, è sufficiente che dal documento risulti che le parti abbiano inteso fare riferimento ad un bene determinato o, comunque, determinabile. In tal senso è sufficiente anche il rimando ad elementi esterni, a condizione che siano idonei a consentirne l’identificazione in modo inequivoco. A differenza di quanto richiesto per il definitivo, l’indicazione pertanto, può essere incompleta, purché l’intervenuta convergenza delle volontà risulti, sia pure aliunde o per relationem, logicamente ricostruibile.

Il contratto preliminare di vendita di un immobile non è configurabile quale atto di disposizione del patrimonio, in quanto non produce effetti traslativi. Sez. 3, n. 15215/2018, Cigna, Rv. 649407-01, sulla scia di un consolidato orientamento già espresso da Sez. 3, n. 17365/2011, Carluccio Rv. 619120-01, ha confermato che il preliminare non è, dunque, assoggettabile all’azione revocatoria ordinaria. Tale azione può, invece, essere proposta con riguardo al definitivo successivamente stipulato. Ne consegue che la sussistenza del presupposto dell’eventus damni per il creditore va accertata con riferimento alla stipula del contratto definitivo, mentre l’elemento soggettivo richiesto dall’art. 2901 c.c. in capo all’acquirente va valutato con riguardo alla conclusione del contratto preliminare, momento in cui si consuma la libera scelta delle parti.

Nel contratto preliminare di compravendita ad esecuzione anticipata, Sez. 6-2, n. 11605/2018, Scarpa, Rv. 648534-01, ha confermato i limiti del diritto del promittente venditore agli interessi compensativi, fissati da Sez. 6-2, n. 20860/2014, Manna F., Rv. 632397-01. In particolare, quest’ultimo ne ha diritto ex art. 1499 c.c. esclusivamente per il periodo successivo alla data prevista per la stipulazione del definitivo, ancorché il promittente acquirente abbia ritardato il pagamento del saldo per causa a lui non imputabile o avvalendosi dell’eccezione di inadempimento e non pure per il periodo intercorrente tra la data della consegna anticipata del bene e quella della stipulazione del definitivo.

In applicazione del principio dell’accessione, attraverso il preliminare di compravendita di un terreno su cui insistano delle costruzioni, si verifica il trasferimento anche di tali immobili, ancorché non espressamente menzionati nell’atto. È comunque fatta salva, per Sez. 2, n. 01750/2018, Sabato, Rv. 647084-01, l’ipotesi che il promittente venditore, contestualmente alla cessione, riservi a sé stesso o ad altri la proprietà del fabbricato, costituendo formalmente sul terreno un diritto di proprietà superficiaria ex art. 952 c.c..

Sez. 2, n. 22046/2018, Oliva, Rv. 650073-01, ha poi confermato quanto affermato da Sez. 3, n. 23824/2004, Finocchiaro, Rv. 578807-01, ovvero che quando le parti subordinino gli effetti di un contratto preliminare di compravendita immobiliare alla condizione che il promissario acquirente ottenga da un istituto bancario un mutuo per potere pagare in tutto o in parte il prezzo stabilito, tale condizione è qualificabile come mista. È di tale natura, in quanto il suo avveramento dipende, non solo, dal comportamento del promissario acquirente nell’approntare la pratica, ma anche del terzo nel concedere il mutuo. La mancata erogazione del prestito, però, comporta le conseguenze previste in contratto, senza che rilevi, ai sensi dell’art. 1359 c.c., un eventuale comportamento omissivo del promissario acquirente.

Nella particolare ipotesi di stipulazione di un contratto preliminare nel quale le parti abbiano concordato il corrispettivo in una misura tale da comprendere anche l’ammontare dell’imposta al cui pagamento è tenuto il cedente, ai fini delle agevolazioni previste per la cd. prima casa, dalla nota II-bis all’art. l della tariffa, parte prima, allegata al d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, secondo Sez. 2, n. 03132/2018, Dongiacomo, Rv. 647876-01, le dichiarazioni di sussistenza delle condizioni ivi previste, ove non siano state rese nel contratto preliminare e il contratto definitivo non sia stato stipulato con la conseguente proposizione della domanda di esecuzione in forma specifica, possono essere rese anche nel corso del giudizio, fino alla sentenza pronunciata a norma dell’art. 2932 c.c.

Restando sul tema della pronuncia costitutiva dell’obbligo a contrarre, Sez. 2, n. 24922/2018, Bellini, Rv. 650665-01 ha confermato l’orientamento espresso da Sez. 6-2, n. 00684/2011, Giusti, Rv. 615941-01, ribadendo che il giudicato formatosi sulla pronuncia di rigetto della domanda di esecuzione in forma specifica di preliminare di vendita, per il mancato adempimento o la mancata offerta della prestazione inerente al prezzo, non impedisce che quella domanda possa essere riproposta, sulla base della sopravvenienza di detto adempimento o di detta offerta, a condizione che il contratto non sia stato risolto.

Se le parti di un preliminare di vendita immobiliare hanno convenuto che il pagamento del prezzo debba essere effettuato alla stipulazione del definitivo, il requisito dell’offerta di cui all’art. 2932, comma 2, c.c. è da ritenersi soddisfatto con la proposizione della domanda di esecuzione specifica dell’obbligo di contrarre, perché in essa necessariamente implicito. Secondo Sez. 2, n. 14372/2018, Scarpa, Rv. 648974-03, in tale ipotesi, deve senz’altro essere emessa la sentenza produttrice degli effetti del contratto non concluso ed il pagamento del prezzo va imposto come condizione per il verificarsi dell’effetto traslativo derivante dalla pronuncia del giudice.

Sez. 2, n. 02022/2018, Scalisi, Rv. 649912-01, ha poi dato seguito all’indirizzo consolidato, secondo cui, nel rapporto giuridico che si costituisce per effetto della sentenza di esecuzione specifica dell’obbligo di concludere il contratto preliminare di compravendita, il pagamento del prezzo ancora dovuto dal promissario acquirente, pur conservando la sua originaria natura di prestazione essenziale del compratore, assume anche il valore e la funzione di una condizione sospensiva dell’effetto traslativo. Detta condizione o si avvera con l’adempimento oppure diviene irrealizzabile nell’ipotesi di omesso pagamento nel termine fissato dalla sentenza oppure, in mancanza, nel congruo lasso di tempo necessario perché la mora del promissario compratore assuma i caratteri dell’inadempimento di non scarsa importanza per il creditore, rendendo non più possibile l’adempimento tardivo contro la volontà di quest’ultimo. Nello stesso senso si era espressa Sez. 2, n. 10827/2001, Rv. 548807-01.

Sul dies a quo di decorrenza del termine dal passaggio in giudicato della sentenza costitutiva si è pronunciata Sez. 2, n. 22997/2018, Carrato, Rv. 650381-01. Ad avviso della S.C. il promissario acquirente che chieda l’esecuzione specifica di un contratto preliminare di vendita è tenuto ad eseguire la prestazione a suo carico o a farne offerta nei modi di legge se tale prestazione sia già esigibile al momento della domanda giudiziale o entro il termine convenzionalmente pattuito, mentre non è tenuto a pagare il prezzo quando, in virtù delle obbligazioni nascenti dal preliminare, il pagamento dello stesso o della parte residua così come l’assolvimento delle altre eventuali condizioni cui si sia obbligato risultino dovute all’atto della stipulazione del contratto definitivo. In tal caso ne deriva che solo con il passaggio in giudicato della sentenza costitutiva di accoglimento della domanda di esecuzione in forma specifica sorge l’obbligo, anche per l’eventuale successivo mancato saldo del prezzo, al quale è subordinato l’effetto traslativo della proprietà. È illegittima, pertanto, la sentenza emessa ex art. 2932 c.c. che imponga un termine per l’assolvimento delle condizioni a cui risulta subordinato l’effetto traslativo che decorra anticipatamente rispetto al passaggio in giudicato della pronuncia costitutiva.

In tema di esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto di compravendita, ai sensi dell’art. 40 l. n. 47 del 1985, ad avviso di Sez. 2, n. 11659/2018, D’Ascola, Rv. 648396-01, può essere pronunciata una sentenza di trasferimento coattivo ex art. 2932 c.c. nel caso in cui l’immobile abbia un vizio di regolarità urbanistica non oltrepassante la soglia della parziale difformità rispetto alla concessione. La pronuncia, sottolinea che, anche quando sia stata presentata istanza di condono edilizio con versamento della somma prevista per l’oblazione e la pratica non sia stata definita, occorre distinguere tra ipotesi di abuso primario, relativo a beni immobili edificati o resi abitabili in assenza di concessione, e abuso secondario, caratterizzato dalla circostanza che solo una parte di unità immobiliare già esistente abbia subito modifica o mutamento di destinazione d’uso.

Con riguardo alla risoluzione per inadempimento del promittente venditore, Sez. 6-2, n. 11012/2018, Criscuolo, Rv. 648231-02, ha escluso che, ove sia accolta la domanda di risoluzione del contratto preliminare di vendita proposta dal promittente compratore, possano essere compresi nel risarcimento del danno anche i frutti della cosa promessa in vendita successivi alla domanda di risoluzione. Detta domanda, infatti, non solo comporta la rinuncia definitiva alla prestazione del promittente venditore, ai sensi dell’art. 1453, comma 3, c.c., ma preclude anche al promittente compratore di lucrare i frutti che dalla cosa avrebbe tratto dopo la rinuncia.

La promessa di vendita effettuata da un comproprietario pro indiviso preclude la facoltà del promissario acquirente di richiedere, ex art. 2932 c.c., il trasferimento coattivo limitatamente alla quota appartenente allo stipulante. Sez. 6-2, n. 21938/2018, Falaschi, Rv. 650079-01, ha chiarito, infatti, che l’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di concludere un contratto è ammessa, ai sensi dell’art. 2932, comma 1, c.c., solo qualora sia possibile e non è, del resto, consentito, in via giudiziale, costituire un rapporto giuridico diverso da quello voluto dalle parti con il preliminare.

12.5. La vendita di beni immobili.

In generale, ha affermato Sez. 2, n. 27256/2018, Scarpa, Rv. 650852-01 la validità di una separata alienazione del soprasuolo dal sottosuolo quali entità giuridicamente autonome, nonché la costituzione in via accessoria di diritti di servitù in favore del sottosuolo trasferito all’acquirente e a carico del soprasuolo rimasto all’alienante, al fine della migliore utilizzazione del fondo alienato. In tal modo l’unica proprietà originaria appartenente a un solo soggetto si scinde in più proprietà distinte in senso verticale facenti capo a soggetti diversi. La pronuncia conferma il risalente indirizzo espresso da Sez. 2, n. 03750/1999, Mazziotti Di Celso, Rv. 525416-01.

In tema di compravendita immobiliare, secondo Sez. 6-2, n. 12226/2018, Orilia, Rv. 648536-01, qualora il venditore ometta di consegnare il certificato di abitabilità e, tuttavia, si accerti l’utilizzabilità del bene, il compratore non può chiedere il risarcimento del danno commisurato all’importo dei canoni di locazione perduti, atteso che il mancato rilascio di concessioni, autorizzazioni o licenze amministrative relative alla destinazione d’uso di un bene immobile o alla sua abitabilità non è in sé di ostacolo alla valida costituzione di un rapporto locatizio.

In linea con un consolidato orientamento secondo Sez. 2, n. 30721/2018, Scarpa, Rv. 651596-01, l’inclusione dell’immobile nel piano regionale di vendita ex art. 1, comma 4, l. 24 dicembre 1993, n. 560, non comporta automaticamente l’obbligo, per l’ente proprietario di alloggi di edilizia residenziale pubblica, di alienare l’immobile all’inquilino, che abbia manifestato una volontà in tal senso. L’inserimento nel piano regionale, infatti, costituisce un mero atto preparatorio del procedimento amministrativo finalizzato all’alienazione, per il cui perfezionamento sarà comunque necessaria un’ulteriore manifestazione di volontà da parte dell’ente proprietario. Nello stesso senso Sez. 3, n. 09719/2012, Rv. 623018-01.

In tema di edilizia economia e popolare, Sez. 2, n. 00196/2018, Giusti, Rv. 647773-01, ha affermato che la nullità della cessione di alloggio da parte dell’assegnatario con patto di riscatto, se stipulata in violazione dell’art. 26 d.P.R. 9 aprile 1956, n. 1265, non toglie che l’assegnatario possa validamente stipulare un preliminare di vendita, che pur se effettuato in pendenza del termine di assegnazione, anche eventualmente accompagnato dall’anticipata attribuzione del possesso dell’immobile, richiede un’ulteriore manifestazione della volontà negoziale dopo l’acquisto della proprietà, al fine di produrre effetti traslativi.

Con riferimento agli spazi destinati a parcheggio Sez. 6-2, n. 22154/2018, Scarpa, Rv. 650084-01, ha chiarito che la sostituzione automatica della clausola che riservi al venditore la proprietà esclusiva dell’area destinata a parcheggio, ai sensi dell’art. 41 sexies della l. 17 agosto 1942, n. 1150, con la norma imperativa che sancisce il proporzionale trasferimento del diritto d’uso a favore dell’acquirente di unità immobiliari comprese nell’edificio attribuisce al venditore, ad integrazione dell’originario prezzo della compravendita, il diritto al corrispettivo di tale diritto d’uso. In difetto di pattuizione tra le parti, tale diritto va determinato in base al prezzo di mercato, avuto riguardo al tempo della conclusione del contratto, presumendosene ex art. 1474, comma 1, c.c. la coincidenza con quello normalmente praticato dall’alienante. L’importo così calcolato ha natura di debito di valuta con la conseguenza che, trovando applicazione la disciplina dettata dall’art. 1277 c.c. e, in caso di ritardo nell’adempimento, dall’art. 1224, comma 2, c.c., lo stesso non è suscettibile di automatica rivalutazione per effetto del processo inflattivo della moneta, né vanno accordati interessi con funzione compensativa sulla somma dovuta aumentata gradualmente nell’intervallo di tempo trascorso fra la conclusione del contratto e la liquidazione operata in sentenza.

  • indennizzo
  • contratto
  • obbligazione
  • responsabilità contrattuale

CAPITOLO X

LE OBBLIGAZIONI NASCENTI DALLA LEGGE

(di Fabio Antezza )

Sommario

1 Premessa. - 2 La ripetizione d’indebito: portata ed onere probatorio. - 3 La rilevanza della mala fede nella ripetizione dell’indebito. - 4 Ripetizione d’indebito e prescrizione. - 5 Ripetizione d’indebito ed espropriazione. - 6 Mancanza di una causa adquirendi, ripetizione d’indebito oggettivo e principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato. - 7 Prestazione contraria al buon costume. - 8 L’arricchimento senza causa. - 9 Domande di adempimento contrattuale e di indennizzo per ingiustificato arricchimento.

1. Premessa.

Nel corso del 2018 la S.C. ha ribadito oltre che chiarito principi in merito alla disciplina della ripetizione dell’indebito, con particolare riferimento alla portata ed all’onere probatorio, alla prescrizione, ai rapporti con l’esecuzione forzata oltre che ai rapporti con il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato.

In merito all’arricchimento senza causa, invece, ha sono stati ribaditi nonché ulteriormente specificati i principi che governano i rapporti tra domanda di adempimento contrattuale e domanda di indennizzo per ingiustificato arricchimento.

2. La ripetizione d’indebito: portata ed onere probatorio.

La disciplina della ripetizione dell’indebito di cui all’art. 2033 c.c. ha portata generale e si applica a tutte le ipotesi di inesistenza, originaria o sopravvenuta, del titolo di pagamento, qualunque ne sia la causa.

In applicazione del principio Sez. L, n. 18266/2018, Lorito, Rv. 649965-01, ha ritenuto applicabile la disciplina in oggetto, con il conseguente regime prescrizionale decennale, al diritto del preponente, in caso di risoluzione anticipata del contratto d’agenzia, alla restituzione degli anticipi provvigionali corrisposti all’agente.

Il pagamento effettuato dal soggetto che aveva assunto il relativo obbligo, ancorché in base ad un contratto nullo, rimane comunque qualificabile come adempimento del contratto stesso, suscettibile di comportare la restituzione dell’importo versato in applicazione dei principi dell’indebito oggettivo.

In particolare, ha chiarito Sez. 2, n. 21550/2018, Fortunato, Rv. 650069-01, detto pagamento resta atto dovuto e non assume carattere e significato negoziale, tranne che nelle ipotesi tipiche indicate dall’art. 1327 c.c., non potendo essere interpretato quale accettazione della proposta di modifica di un contratto giudicato invalido di cui costituisca mera esecuzione.

Circa l’onere probatorio, per Sez. 2, n. 30713/2018, Abete, Rv. 651530-02, nella ripetizione di indebito opera il normale principio dell’onere della prova a carico dell’attore il quale, quindi, è tenuto a dimostrare sia l’avvenuto pagamento sia la mancanza di una causa che lo giustifichi.

Colui che agisce per la ripetizione di un indebito allega la dazione senza causa della somma di denaro non come adempimento di un negozio giuridico ma come spostamento patrimoniale. Sicché, può assolvere l’onere della prova di questo fatto al di fuori dei limiti probatori previsti per i contratti, atteso che detti limiti sono applicabili solo al pagamento dedotto come manifestazione di volontà contrattuale e non a quello prospettato come fatto materiale estraneo alla esecuzione di uno specifico rapporto giuridico.

Ne consegue, per la precedente Sez. 2, n. 18483/2010, Migliucci, Rv. 614623-01, che la prova dell’indebito può essere fornita anche per testimoni, indipendentemente dai limiti di cui all’art. 2721 c.c.

Proposta la domanda di ripetizione dell’indebito, l’attore ha l’onere di provare l’inesistenza di una giusta causa delle attribuzioni patrimoniali compiute in favore del convenuto, ma solo con riferimento ai rapporti specifici intercorsi tra le parti e dedotti in giudizio, non potendosi invece esigere dall’attore la dimostrazione dell’inesistenza di ogni e qualsivoglia causa di dazione tra solvens e accipiens.

Ne consegue che ai fini della prova del diritto alla ripetizione di somme riscosse da A.G.E.A. (Agenzia per le erogazioni in Agricoltura) per contributi ritenuti erogati indebitamente è sufficiente dimostrare l’inesistenza del diritto alla restituzione in capo all’Agenzia pubblica e non, invece, la titolarità del diritto a ricevere aiuti comunitari in capo all’azienda agricola (Sez. 2, n. 20522/2018, De Marzo, Rv. 650167-01).

3. La rilevanza della mala fede nella ripetizione dell’indebito.

In tema di intermediazione finanziaria, allorché sia stata pronunciata la risoluzione del contratto per inadempimento della banca, non può reputarsi in re ipsa la prova della mala fede, traendo tale convincimento dalla mera imputabilità ad essa dell’inadempimento che abbia determinato la risoluzione del contratto.

Ne consegue, ha chiarito Sez. 1, n. 03912/2018, Nazzicone L., 647058-01, che il credito del cliente avente ad oggetto il rimborso del capitale investito produce interessi, in base ai principi in tema di ripetizione dell’indebito, solo a seguito della proposizione della domanda giudiziale, gravando su chi richiede la decorrenza dalla data del versamento l’onere di provare che la banca era in mala fede.

4. Ripetizione d’indebito e prescrizione.

Sez. 3, n. 03706/2018, Tatangelo, Rv. 647602-01, ha chiarito che il diritto alla restituzione delle somme pagate in esecuzione di una sentenza di condanna, successivamente riformata, soggiace, ai sensi degli artt. 2033 e 2946 c.c., al termine di prescrizione decennale, che inizia a decorrere dal giorno in cui è divenuto definitivo – con la riforma della sentenza predetta – l’accertamento dell’indebito.

Sempre in tema di ripetizione dell’indebito e prescrizione è intervenuta altresì Sez. 1, n. 27704/2018, Nazzicone, Rv. 651326-01. Essa ha ribadito che l’azione di ripetizione dell’indebito proposta dal cliente di una banca, il quale lamenti la nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi anatocistici maturati con riguardo ad un contratto di conto corrente, è soggetta all’ordinaria prescrizione decennale. Quest’ultima decorre, in assenza di un’apertura di credito, dai singoli versamenti aventi natura solutoria. Grava sull’attore in ripetizione dimostrare la natura indebita dei versamenti e, a fronte dell’eccezione di prescrizione dell’azione proposta dalla banca, dimostrare l’esistenza di un contratto di apertura di credito idoneo a qualificare il pagamento come ripristinatorio ed a spostare l’inizio del decorso della prescrizione al momento della chiusura del conto (in senso conforme, la precedente Sez. U., n. 24418/2010, Rordorf, Rv. 615489-01).

Quanto innanzi deve coordinarsi con le causa interruttive della prescrizione.

Sicché, in materia contrattuale, la proposizione di una domanda volta a ottenere la restituzione di somme fondata sulla risoluzione o sull’annullamento del contratto vale a interrompere la prescrizione anche del diritto alla restituzione per effetto della nullità dello stesso, essendo medesimo il bene della vita che la parte ha inteso tutelare (Sez. 2, n. 21418/2018, Orilla, Rv. 650037-03).

5. Ripetizione d’indebito ed espropriazione.

Il soggetto espropriato che abbia fatto valere l’illegittimità dell’esecuzione mediante opposizione proposta nel corso del processo esecutivo, ma accolta successivamente alla chiusura dell’esecuzione, può esperire, sul presupposto di tale illegittimità, l’azione di ripetizione dell’indebito nei confronti del creditore al fine ottenere la restituzione di quanto dallo stesso riscosso (Sez. 3, n. 26927/2018, Rubino, Rv. 650910-01).

Per converso, ha chiarito Sez. 3, n. 20994/2018, Saija, Rv. 650324-01, il provvedimento che chiude il procedimento esecutivo, pur non avendo, per la mancanza di contenuto decisorio, efficacia di giudicato, è, tuttavia, caratterizzato da una definitività insita nella chiusura di un procedimento esplicato col rispetto delle forme atte a salvaguardare gli interessi delle parti ed incompatibile con qualsiasi sua revocabilità, in presenza di un sistema di garanzie di legalità per la soluzione di eventuali contrasti, all’interno del processo esecutivo.

Ne consegue che il soggetto espropriato non può esperire, dopo la chiusura del procedimento di esecuzione forzata, l’azione di ripetizione di indebito contro il creditore procedente (o intervenuto) per ottenere la restituzione di quanto costui abbia riscosso, sul presupposto dell’illegittimità per motivi sostanziali dell’esecuzione forzata (in senso sostanzialmente conforme anche la precedente Sez. 3, n. 17371/2011, Barreca, Rv. 619121-01).

6. Mancanza di una causa adquirendi, ripetizione d’indebito oggettivo e principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato.

Qualora venga acclarata la mancanza di una causa adquirendi in ragione della dichiarazione di nullità, dell’annullamento, della risoluzione o della rescissione di un contratto o del venire comunque meno del vincolo originariamente esistente, l’azione accordata dalla legge per ottenere la restituzione di quanto prestato in esecuzione del contratto stesso è quella di ripetizione di indebito oggettivo.

Pertanto, non viola il principio di corrispondenza fra chiesto e pronunciato il giudice che accolga le richieste restitutorie in conseguenza del rilievo di ufficio della nullità del contratto, anche laddove fosse stata inizialmente proposta domanda di risoluzione, dovendosi escludere che la correlazione operata dalla parte tra la suddetta domanda di ripetizione ed una specifica e differente causa di caducazione del contratto impedisca la condanna alla ripetizione dell’indebito (Sez. 2, n. 00715/2018, Criscuolo, Rv. 647258-01).

In senso conforme all’orientamento di cui innanzi si è espressa anche la precedente Sez. 3, n. 09052/2010, Ambrosio, Rv. 612681-01, la quale, proprio in applicazione del principio, ha ritenuto che non fosse incorsa in ultrapetizione la sentenza impugnata, di accoglimento della domanda di restituzione delle somme versate in esecuzione di un contratto, escludendo la configurabilità dello stesso come donazione obnuziale priva di causa per rottura del fidanzamento da parte dei nubendi, come sostenuto dall’attore, ma ravvisandovi un complesso accordo negoziale affetto da nullità perché stipulato in frode alla legge.

Parimenti, Sez. 1, n. 06664/2018, Nazzicone, 648251-02, che, con riferimento alla nullità del contratto d’investimento, ha statuito che il venir meno della causa giustificativa delle attribuzioni patrimoniali comporta l’applicazione della disciplina dell’indebito oggettivo, di cui agli artt. 2033 ss. c.c. Ne consegue il sorgere dell’obbligo restitutorio reciproco, subordinato alla domanda di parte ed all’assolvimento degli oneri di allegazione e di prova, avente ad oggetto, da un lato, le somme versate dal cliente alla banca per eseguire l’operazione e, dall’altro lato, i titoli consegnati dalla banca al cliente e gli altri importi ricevuti a titolo di frutti civili o di corrispettivo per la rivendita a terzi, a norma dell’art. 2038 c.c., con conseguente applicazione della compensazione fra i reciproci debiti sino alla loro concorrenza.

7. Prestazione contraria al buon costume.

La nozione di prestazione non ripetibile di cui all’art. 2035 c.c., non si identifica con un dato materiale, qual è la ripetibilità in concreto della prestazione, bensì con un dato giuridico, nel senso che la prestazione fornita non può formare oggetto di obbligazione restitutoria, in favore di chi sia stato partecipe del negozio immorale, in quanto fondata su un contratto illecito, non corrispondente, di conseguenza, ad un interesse giuridicamente tutelabile del creditore (Sez. 1, n. 25631/2017, Lamorgese, Rv. 647056-05).

L’accertata nullità di un contratto di finanziamento stipulato in danno della P.A., da parte di un funzionario infedele, in conseguenza della illiceità della causa per violazione di norme imperative, non preclude l’autonoma valutazione dell’atto dal punto di vista della sua eventuale contrarietà anche al buon costume che, ove sia accertata, stante il disposto dell’art. 2035 c.c., impone di negare la ripetizione della prestazione eseguita al finanziatore (Sez. 1, n. 25631/2017, Lamorgese, Rv. 647056-04).

Quanto innanzi è stato statuito conformemente al principio per il quale chi abbia versato una somma di denaro per una finalità truffaldina o corruttiva non è ammesso a ripetere la prestazione, perché tali finalità, certamente contrarie a norme imperative, sono da ritenere anche contrarie al buon costume (Sez. 3, n. 09441/2010, Amendola A., Rv. 612552-01).

Sicché, il comune, che sia rimasto estraneo alla stipula di un contratto di finanziamento nullo perché avente causa illecita, concluso dal funzionario infedele, è legittimato a domandare l’applicazione della soluti retentio quando gli effetti del contratto siano ricaduti sulla sua sfera giuridica (Sez. 1, n. 25631/2017, Lamorgese, Rv. 647056-03).

L’impostazione di cui innanzi si è mossa sulla scia di quanto ha chiarito in precedenza la S.C. circa l’applicabilità della soluti retentio prevista dall’art. 2035 c.c.

La nozione di buon costume, in particolare, non si identifica soltanto con le prestazioni contrarie alle regole della morale sessuale o della decenza, ma comprende anche quelle contrastanti con i principi e le esigenze etiche costituenti la morale sociale in un determinato ambiente e in un certo momento storico. Sicché, chi abbia versato una somma di denaro per una finalità truffaldina o corruttiva non è ammesso a ripetere la prestazione, perché tali finalità, certamente contrarie a norme imperative, sono da ritenere anche contrarie al buon costume (Sez. 3, n. 09441/2010, Amendola A., Rv. 612552-01).

In applicazione del medesimo principio Sez. L, n. 02014/2018, Curcio, Rv. 647263-01, ha ritenuto, nell’ipotesi di simulazione assoluta di un rapporto di lavoro, non ammessa la ripetizione delle somme versate a titolo di retribuzione ovvero di contribuzione, perché esclusivamente finalizzate a costituire il presupposto truffaldino per il conseguimento di benefici pensionistici indebiti.

Negli stessi termini si è espressa anche Sez. Sez. 6-3, n. 08169/2018, Cirillo F.M., Rv. 648539-01, per la quale, chi abbia versato una somma di denaro per l‘ottenimento di un posto di lavoro (nella specie, presso un istituto bancario), a prescindere dall’esito della trattativa immorale, non è ammesso a ripetere la prestazione, perché tale finalità, certamente contraria a norme imperative, è da ritenere anche contraria al buon costume.

8. L’arricchimento senza causa.

L’azione generale di arricchimento, di cui all’art. 2041 c.c., presuppone che l’arricchimento di un soggetto e la diminuzione patrimoniale a carico di altro soggetto siano provocati da un unico fatto costitutivo e siano entrambi mancanti di causa giustificatrice, potendo il medesimo arricchimento consistere anche in un risparmio di spesa, purché si tratti sempre di risparmio ingiustificato, nel senso che la spesa risparmiata dall’arricchito debba essere da altri sostenuta senza ragione giuridica.

In applicazione del consolidato principio di cui innanzi Sez. 1, n. 15145/2018, Cirese, Rv. 649467-01, ha cassato la sentenza impugnata che aveva ritenuto inoperanti i presupposti dell’ingiustificato arricchimento in relazione al pagamento delle spese per la progettazione ed il collaudo delle opere di urbanizzazione primaria effettuate dal proprietario di un immobile ricompreso in area P.E.E.P ed in favore del proprietario di immobile adiacente al primo. Nella specie, difatti, l’arricchimento e l’impoverimento invece non trovavano giustificazione nei contratti conclusi con il comune e l’impoverito era contrattualmente tenuto al pagamento delle dette spese solo limitatamente alla quota inerente l’immobile di proprietà.

In applicazione del medesimo principio sono stati altresì ritenuti inoperanti i presupposti dell’ingiustificato arricchimento in relazione al pagamento, eseguito da una banca, titolare del servizio di tesoreria comunale, in favore di terzi creditori del comune, atteso che il risparmio di spesa ottenuto dall’ente trovava autonoma giustificazione in una sentenza della Corte dei conti, che aveva condannato l’istituto tesoriere a reintegrare il fondo-cassa comunale, depauperato per effetto di delibere annullate o prive di esecutorietà (Sez. 1, n. 20226/2013, Lamorgese, Rv. 627805-01).

L’azione generale di arricchimento ha come presupposto la locupletazione di un soggetto a danno dell’altro che sia avvenuta senza giusta causa; ne consegue che non è dato invocare la mancanza o l’ingiustizia della causa qualora l’arricchimento sia conseguenza di un contratto, di un impoverimento remunerato, di un atto di liberalità o dell’adempimento di un’obbligazione naturale.

Sicché, ha statuito Sez. 3, n. 14732/2018, Rubino, Rv. 649049-01, è possibile configurare l’ingiustizia dell’arricchimento da parte di un convivente more uxorio nei confronti dell’altro in presenza di prestazioni a vantaggio del primo esulanti dal mero adempimento delle obbligazioni nascenti dal rapporto di convivenza – il cui contenuto va parametrato sulle condizioni sociali e patrimoniali dei componenti della famiglia di fatto – e travalicanti i limiti di proporzionalità e di adeguatezza.

Con la citata ordinanza la S.C. ha ritenuto operante il principio dell’indebito arricchimento in relazione ai conferimenti di denaro e del proprio tempo libero, impegnato in ore di lavoro per la costruzione della casa che doveva essere la dimora comune, effettuati da uno dei due partner in vista della instaurazione della futura convivenza, atteso che la volontarietà del conferimento non era indirizzata a vantaggio esclusivo dell’altro partner – che se ne era giovato dopo lo scioglimento del rapporto sentimentale in ragione della proprietà del terreno e del principio dell’accessione – e pertanto non costituiva né una donazione né un’attribuzione spontanea (nello stesso senso, in precedenza, Sez. 3, n. 01130/2009, Ambrosio, Rv. 608287-01).

In applicazione dello stesso principio Sez. 1, n. 15243/2018, Campanile, Rv. 649468-01, ha invece ritenuto che le regressioni tariffarie, relative a prestazioni sanitarie, costituissero una sorta di elemento naturale del negozio, introdotte dal d.lgs. n. 502 del 1992 per esigenze di contenimento della spesa, accettate dall’ente convenzionato con l’incasso dei pagamenti in misura ridotta e, pertanto, insuscettibili di fondare l’azione di ingiustificato arricchimento.

Fermo restando quanto innanzi, però, anche dall’esecuzione di un contratto nullo può derivare il diritto all’indennizzo ai sensi dell’art. 2041 c.c. Il concreto modo in cui il rapporto è risultato attuato può infatti determinare l’arricchimento di una parte, con corrispondente depauperamento dell’altra.

Ne consegue, per Sez. 2, n. 20069/2018, Grasso GL., Rv. 649909-01, che nell’ambito di un rapporto professionale, la nullità del patto di quota lite, non comportando l’invalidità dell’intero accordo, non preclude la richiesta di ripetizione di un eventuale spostamento patrimoniale non giustificato.

La sussidiarietà caratterizzante l’azione di ingiustificato arricchimento, però, ne esclude la proponibilità quando il danneggiato avrebbe potuto esercitare un’azione tipica e questa si è prescritta (così, Sez. 3, n. 30614/2018, Fiecconi, Rv. 651857-01, ed in senso conforme, ex plurimis, Sez. 6-L, n. 29916/2011, La Torre M., Rv. 620274-01).

9. Domande di adempimento contrattuale e di indennizzo per ingiustificato arricchimento.

La domanda di adempimento contrattuale e quella di arricchimento senza causa, pur essendo azioni riguardanti diritti eterodeterminati, si differenziano strutturalmente e tipo logicamente, sia quanto alla causa petendi (esclusivamente nella seconda rilevando come fatti costitutivi la presenza e l’entità del proprio impoverimento e dell’altrui locupletazione), sia quanto al petitum (pagamento del corrispettivo pattuito o indennizzo).

Ne consegue che la seconda integra, rispetto alla prima originariamente formulata, una domanda nuova con la conseguenza che nel procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo al creditore opposto, che riveste la posizione sostanziale di attore, è consentito avanzare con la comparsa di costituzione e risposta domanda di arricchimento senza causa soltanto qualora l’opponente abbia introdotto nel giudizio, con l’atto di citazione, un ulteriore tema di indagine che possa giustificare tale esigenza.

Nel confermare il detto orientamento, Sez. 2, n. 17842/2018, Casadonte, Rv. 649452-01, ha escluso che il creditore opposto, che aveva agito in sede monitoria per il pagamento di prestazioni professionali nascenti da titolo contrattuale, potesse avanzare, in sede di opposizione, un’autonoma domanda di arricchimento senza causa, poiché l’opponente si era limitato ad eccepire l’inesistenza del titolo contrattuale a sostegno della pretesa, non estendendo il tema di indagine (trattasi di applicazione di principio di cui a Sez. U., n. 26128/2010, Vivaldi R., Rv. 615487-01).

La domanda di arricchimento senza causa è inammissibile, ove proposta dall’opposto nel giudizio incardinato ai sensi dell’art. 645 c.p.c. avverso il decreto ingiuntivo dallo stesso conseguito per il pagamento di prestazioni professionali, non potendo egli far valere in tale sede domande nuove, rispetto a quella di adempimento contrattuale posta alla base della richiesta di provvedimento monitorio, salvo quelle conseguenti alla domande ed alle eccezioni in senso stretto proposte dall’opponente, determinanti un ampliamento dell’originario thema decidendum fissato dal ricorso ex art. 633 c.p.c. (ex plurimis, Sez. 3, n. 08582/2013, D’Amico P., Rv. 626031-01).

Sez. 1, n. 27124/2018, Mercolino, Rv. 651448-01, nel confermare l’orientamento di cui innanzi ha ritenuto esente da critiche la sentenza con la quale la Corte d’appello aveva escluso che, nel caso di decreto ingiuntivo ottenuto per il pagamento di prestazioni professionali, la proposizione, da parte dell’opponente, delle sole eccezioni di inesigibilità e prescrizione del credito avessero comportato l’introduzione di nuovi temi di indagine, tali da legittimare la proposizione di una nuova domanda, di arricchimento senza causa, da parte degli opposti.

Nel processo introdotto mediante domanda di adempimento contrattuale è però ammissibile la domanda di indennizzo per ingiustificato arricchimento formulata, in via subordinata, con la prima memoria ai sensi dell’art. 183, comma 6, c.p.c., qualora si riferisca alla medesima vicenda sostanziale dedotta in giudizio, trattandosi di domanda comunque connessa per incompatibilità a quella originariamente proposta.

Così statuendo, Sez. U., n. 22404/2018, Scrima, Rv. 650451-01, si è sostanzialmente posta nel solco tracciato da Sez. U., n. 12310/2015, Di Iasi, Rv. 645536-01, per la quale la modificazione della domanda ammessa ex art. 183 c.p.c. può riguardare anche uno o entrambi gli elementi oggettivi della stessa (petitum e causa petendi). Ciò, però, sempre che la domanda così modificata risulti comunque connessa alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio e senza che, perciò solo, si determini la compromissione delle potenzialità difensive della controparte, ovvero l’allungamento dei tempi processuali. Proprio della dette premesse in termini processuali ne consegue l’ammissibilità della modifica, nella memoria ex art. 183 c.p.c., dell’originaria domanda formulata ex art. 2932 c.c. con quella di accertamento dell’avvenuto effetto traslativo.

L’accertamento, con sentenza passata in giudicato, dell’infondatezza dell’azione contrattuale, per insussistenza del titolo negoziale che attribuisca all’attore il relativo diritto, non preclude alla stessa parte di chiedere, in un successivo giudizio, di essere indennizzato per l’indebito arricchimento dalla controparte conseguito, dato che tale seconda azione è diversa per petitum e per causa petendi e che, inoltre, avendo funzione sussidiaria e natura residuale, trova il riconoscimento della sua esperibilità proprio nell’indicato diniego di tutela contrattuale.

Sez. 1, n. 15496/2018, Cirese, Rv. 649133-01, ha confermato il detto consolidato principio con riferimento ad un giudizio nel quale era stata chiesta la condanna a titolo di arricchimento senza causa di un comune una volta formatosi il giudicato sull’infondatezza dell’azione di pagamento del corrispettivo per la custodia dei veicoli, rimossi per conto dell’ente territoriale (si veda, ex plurimis, Sez. 6-2, n. 11489/2011, Giusti A., Rv. 617797-01).

La modificazione, da parte del giudice di appello, della qualificazione giuridica della domanda operata dal primo giudice è illegittima – per violazione del giudicato interno formatosi in ragione dell’omessa impugnazione sul punto della parte interessata – solo se detta qualificazione abbia condizionato l’impostazione e la definizione dell’indagine di merito.

Le dette premesse di natura processuale hanno portato Sez. 6-3, n. 14077/2018, Dell’Utri, Rv. 649336-01, a ritenere consentita la riqualificazione in termini di ripetizione di indebito, ex art. 2033 c.c., della domanda originariamente qualificata come azione di ingiustificato arricchimento, ex art. 2041 c.c., quando i fatti dedotti in giudizio dalle parti siano rimasti pacificamente acclarati e non modificati.

Sez. 3, n. 15196/2018, D’Ovidio, Rv. 649304-01, a fronte di una domanda originaria di indebito oggettivo – proposta dal debitore principale nei confronti del creditore garantito per aver quest’ultimo illegittimamente escusso la garanzia autonoma prestata in suo favore – ha però ritenuto inammissibile, per novità, sia una domanda di risarcimento danni contrattuali che una domanda di ingiustificato arricchimento, ancorché proposte in riferimento alla medesima vicenda contrattuale, atteso che la diversità delle rispettive causae petendi e dei relativi petita poneva nuove questioni di diritto, tali da implicare differenti indagini ed accertamenti di fatto.

La S.C. ha in particolare argomentato dal principio per il quale il giudizio di cassazione ha, per sua natura, la funzione di controllare la difformità della decisione del giudice di merito dalle norme e dai principi di diritto; sicché sono precluse non soltanto le domande nuove, ma anche nuove questioni di diritto, qualora queste postulino indagini ed accertamenti di fatto non compiuti dal giudice di merito che, come tali, sono esorbitanti dal giudizio di legittimità.

  • legittima difesa
  • liquidazione delle spese
  • responsabilità
  • responsabilità contrattuale
  • responsabilità amministrativa
  • veicolo
  • danno
  • responsabilità per i danni ambientali
  • sostanza pericolosa

CAPITOLO XI

LA RESPONSABILITÀ EXTRACONTRATTUALE

(di Giovanni Armone, Luigi La Battaglia, Laura Mancini )

Sommario

1 L’ingiustizia del danno. - 2 La colpa. - 3 La legittima difesa. - 4 Il nesso di causalità. - 5 Il concorso di colpa del danneggiato. - 6 La responsabilità solidale. - 7 Il danno patrimoniale. - 7.1 La determinazione del danno risarcibile. - 7.2 Il danno da perdita di “chance” a carattere patrimoniale. - 7.3 Il danno da ritardato adempimento dell’obbligazione risarcitoria. - 7.4 Allegazione e prova del danno patrimoniale. - 7.5 Il danno patrimoniale futuro. - 8 Il danno non patrimoniale. - 8.1 Nozione e caratteri del danno non patrimoniale. - 8.2 La prova del danno non patrimoniale. - 8.2.1 Il danno da perdita di “chance” a carattere non patrimoniale - 8.3 Il danno non patrimoniale da lesione del diritto all’autodeterminazione. - 9 La liquidazione del danno non patrimoniale. - 9.1 La liquidazione in via equitativa: casistica. - 9.2 La liquidazione del danno biologico. - 9.3 Parametri di quantificazione del danno: le Tabelle di Milano - 10 Le responsabilità speciali. - 10.1 Genitori, maestri e precettori (art. 2048 c.c.). - 10.2 Padroni e committenti (art. 2049 c.c.). - 10.3 Attività pericolose (art. 2050 c.c.). - 10.4 Cose in custodia (art. 2051 c.c.). - 10.5 Responsabilità per il fatto degli animali (art. 2052 c.c.). - 10.6 Il danno da circolazione di veicoli (art. 2054 c.c.). - 10.7 La responsabilità per danno da prodotto difettoso.

1. L’ingiustizia del danno.

Il dibattito intorno al requisito dell’ingiustizia del danno nell’art. 2043 c.c., che ha in passato conosciuto una stagione di grande vitalità, sembra ormai sopito.

Una controversia in tema di lesione aquiliana del credito ha tuttavia offerto alla S.C. l’occasione per ribadire che l’illecito aquiliano può consistere nella lesione di un diritto assoluto, di un diritto relativo, di un interesse legittimo, e di qualsiasi altro interesse preso in considerazione dall’ordinamento, senza che l’art. 2043 introduca alcuna distinzione, quanto all’elemento soggettivo, tra i suddetti tipi di illeciti (Sez. 3, n. 31536/2018, Rossetti, Rv. 651943-01).

Per il resto, il tema dell’ingiustizia del danno è stato affrontato dalla giurisprudenza di legittimità nel 2018 prevalentemente con riguardo ai danni cagionati dall’attività amministrativa.

Un quadro completo è stato delineato da Sez. 1, n. 16196/2018, Mucci, Rv. 649479-01 e 649479-02, chiamata ad affrontare il caso dei danni lamentati da una società privata per la risoluzione, da parte dell’Amministrazione, del contratto di programma relativo a un piano di investimenti industriali nel Mezzogiorno.

La Corte ha anzitutto ribadito l’inesistenza della cd. “pregiudiziale amministrativa”, già affermata nella giurisprudenza di legittimità prima dell’entrata in vigore del codice del processo amministrativo e oggi confermata dall’art. 30 c.p.a.; la domanda di risarcimento dei danni per lesione di interessi legittimi è svincolata dal giudizio di annullamento dell’atto amministrativo presupposto. Pertanto, il giudice di merito procede correttamente a scrutinare la legittimità della condotta tenuta dall’amministrazione, pur in assenza della domanda di annullamento dell’atto dinanzi al giudice amministrativo, pervenendo alla statuizione di condanna risarcitoria previo accertamento della sussistenza degli ordinari elementi dell’evento dannoso, della sua ingiustizia, della sua riferibilità ed imputabilità all’amministrazione.

A tale ultimo proposito, la stessa pronuncia ha tuttavia chiarito che l’ingiustizia del danno non può considerarsi “in re ipsa”, quale conseguenza dell’illegittimo esercizio della funzione amministrativa o pubblica in generale, dovendo il giudice procedere, in ordine successivo, anche ad accertare se: a) sussista un evento dannoso; b) il danno accertato sia qualificabile come ingiusto, in relazione alla sua incidenza su di un interesse rilevante per l’ordinamento (a prescindere dalla qualificazione formale di esso come diritto soggettivo); c) l’evento dannoso sia riferibile, sotto il profilo causale, facendo applicazione dei criteri generali, ad una condotta della P.A.; d) l’evento dannoso sia imputabile alla responsabilità della P.A., sulla base non solo del dato obiettivo dell’illegittimità del provvedimento, ma anche del requisito soggettivo del dolo o della colpa.

Un’importante precisazione è giunta poi da Sez. 1, n. 00651/2018, Marulli, Rv. 646590-01: con riferimento agli interessi pretensivi, l’ingiustizia del danno si configura in relazione alla consistenza della protezione che l’ordinamento riserva all’istanza di ampliamento della sfera giuridica del pretendente, essendo necessario che egli sia titolare non già di una mera aspettativa, bensì di una situazione suscettibile di determinare un oggettivo affidamento circa la consecuzione, secondo la disciplina applicabile ed un criterio di normalità, di un esito favorevole (in una fattispecie di diniego di concessione per l’installazione di un chiosco sulla spiaggia, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che, omettendo il giudizio prognostico sulla fondatezza o meno della richiesta, aveva escluso la sussistenza di un pregiudizio risarcibile correlando la risarcibilità non all’idoneità del provvedimento denegato ad ampliare la sfera del pretendente, ma al mero dato fattuale delle possibilità economiche residuate in capo ad esso in esito al procedimento).

Sez. 1, n. 11695/2018, Marulli, Rv. 648561-01, ha confermato l’inquadrabilità nella responsabilità aquiliana della concessione abusiva di credito. La fattispecie era relativa a una banca che aveva finanziato un’impresa insolvente e ne aveva perciò ritardato il fallimento, con conseguenti danni lamentati dai terzi che avevano confidato nella sua solvibilità e avevano continuato ad intrattenere rapporti contrattuali con essa. La S.C. ha precisato che la responsabilità sussiste purché sia provato che i terzi non fossero a conoscenza dello stato di insolvenza e che tale mancanza di conoscenza non fosse imputabile a colpa.

Resta infine confermato che il potere di qualificazione giuridica del fatto e di conseguente inquadramento normativo – nella fattispecie generale di responsabilità o in una di quelle speciali – è compito del giudice, purché, in caso di diverso inquadramento rispetto alla proposta contenuta nell’atto introduttivo, tale potere si eserciti sui fatti come prospettati dalle parti, non potendo l’esercizio del potere di qualificazione giuridica comportare la modifica officiosa della domanda così come definita nelle fasi di merito. La precisazione è di Sez. 3, n. 17015/2018, Guizzi, Rv. 649511-03, in un giudizio promosso dal pilota di un rimorchiatore per ottenere il risarcimento dei danni subiti in conseguenza di un sinistro verificatosi durante la navigazione, dove la responsabilità era stata riportata esclusivamente all’art. 2087 c.c.

2. La colpa.

La questione del danno subìto dai risparmiatori per l’omessa vigilanza degli organi d’ispezione e controllo (nella specie, la Consob) ha offerto l’occasione alla S.C. per tornare su un tema di particolare delicatezza, quello dei contenuti della colpa nell’ipotesi di illecito omissivo.

Pur consapevole dell’esistenza di voci dottrinali dissonanti, Sez. 1, n. 09067/2018, Di Marzio M., Rv. 648257-01, ha confermato l’orientamento classico, secondo cui il rispetto del principio del “neminem laedere” richiede l’astensione da ogni attività e cioè, propriamente, da un “facere” che possa recar danno ad altri; da ciò tuttavia non deriva che, sempre e necessariamente, sussista colpa in relazione ad un “non facere”, per il solo fatto che l’eventuale attività del soggetto avrebbe potuto impedire l’evento dannoso. Non la semplice inattività può dar luogo a responsabilità per colpa, ma soltanto quella inattività che si risolve in una vera e propria omissione, cioè nel mancato compimento di un’attività specificatamente dovuta.

3. La legittima difesa.

Sono rare, in assoluto, le decisioni in tema di responsabilità civile e legittima difesa. Merita per questo di essere segnalata Sez. 6-1, n. 12820/2018, Scaldaferri, Rv. 649643-01, che ha escluso il ricorrere di una legittima autotutela ex art. 2044 c.c. nella condotta di un imprenditore che aveva avviato una sproporzionata campagna di denigrazione contro l’ex agente, il quale aveva intrapreso un’attività commerciale in violazione del patto di non concorrenza: per poter esimere da responsabilità, la reazione deve rispettare i parametri della continenza generale e della proporzionalità rispetto all’offesa ricevuta.

4. Il nesso di causalità.

Nel corso del 2018, la giurisprudenza di legittimità è stata fortemente impegnata dal tema del nesso causale, chiarendo alcune questioni cruciali, sulle quali permaneva un elevato grado d’incertezza.

In termini generali, va anzitutto menzionata Sez. 3, n. 23197/2018, Olivieri, Rv. 650602-01, con cui la S.C. ha offerto una ricostruzione ad ampio raggio della causalità omissiva.

La verifica del nesso causale tra condotta omissiva e fatto dannoso si sostanzia nell’accertamento della probabilità positiva o negativa del conseguimento del risultato idoneo ad evitare il rischio specifico di danno, riconosciuta alla condotta omessa, da compiersi mediante un giudizio controfattuale, che pone al posto dell’omissione il comportamento dovuto. Tale giudizio deve essere effettuato sulla scorta del criterio del “più probabile che non”, conformandosi ad uno “standard” di certezza probabilistica, che, in materia civile, non può essere ancorato alla determinazione quantitativa-statistica delle frequenze di classi di eventi (cd. probabilità quantitativa o pascaliana), la quale potrebbe anche mancare o essere inconferente, ma va verificato riconducendone il grado di fondatezza all’ambito degli elementi di conferma (e, nel contempo, di esclusione di altri possibili alternativi) disponibili nel caso concreto (cd. probabilità logica o baconiana).

La pronuncia è stata resa in un caso di omessa diagnosi di appendicite acuta, cui era comunque seguita la risoluzione della patologia mediante intervento chirurgico, all’esito del quale era peraltro insorto uno stato di coma con pericolo di vita. Sostituendo alla omessa diagnosi la corretta rilevazione della patologia, il segmento causale successivo sarebbe rimasto immutato, nella sequenza sopra indicata, posto che l’intervento chirurgico aveva trovato il diretto antecedente causale nella malattia non altrimenti trattabile e il successivo stato di coma aveva costituito un evento del tutto anomalo ed eccezionale, la cui genesi eziologica era stata assorbita nella efficienza deterministica esclusiva della condotta gravemente imperita dell’anestesista nel corso dell’intervento.

Sulla stessa scia Sez. 3, n. 03704/2018, Tatangelo, Rv. 647948-01 e Sez. 3, n. 21008/2018, Gorgoni, Rv. 650183-01, hanno ribadito che nei giudizi di risarcimento del danno da responsabilità medica, è onere del paziente dimostrare l’esistenza del nesso causale, provando che la condotta del sanitario è stata, secondo appunto il criterio del “più probabile che non”, causa del danno, sicché, ove la stessa sia rimasta assolutamente incerta, la domanda deve essere rigettata.

Altrettanto importante in tema di nesso causale è poi Sez. 3, n. 05641/2018, Travaglino, Rv. 648461-03, con cui, all’esito di un’approfondita disamina, è stato tracciato il percorso logico-argomentativo che è necessario seguire in materia di “perdita di chance” (su cui vedi i par. 7.2. e 8.2.1. e l’apposito “approfondimento”). Il giudice – ha osservato la S.C. – deve tenere distinta la dimensione della causalità da quella dell’evento di danno e deve altresì adeguatamente valutare il grado di incertezza dell’una e dell’altra, muovendo dalla previa e necessaria indagine sul nesso causale tra la condotta e l’evento, secondo il criterio civilistico del “più probabile che non”, e procedendo, poi, all’identificazione dell’evento di danno, la cui riconducibilità al concetto di “chance” postula una incertezza del risultato sperato, e non già il mancato risultato stesso, in presenza del quale non è lecito discorrere di una “chance” perduta, ma di un altro e diverso danno; ne consegue che, provato il nesso causale rispetto ad un evento di danno accertato nella sua esistenza e nelle sue conseguenze dannose risarcibili, il risarcimento di quel danno sarà dovuto integralmente.

Su un altro delicato terreno, quello del danno patito dai risparmiatori per l’omessa vigilanza degli organi d’ispezione e controllo (in particolare la Consob), Sez. 1, n. 09067/2018, M. Di Marzio, Rv. 648257-02, già sopra citata, ha avuto cura di ribadire che l’omissione di un certo comportamento rileva, quale condizione determinativa del processo causale dell’evento dannoso, quando si tratti di condotta imposta da una norma giuridica specifica, sicché il giudizio relativo alla sussistenza del nesso causale non può limitarsi alla mera valutazione della materialità fattuale, bensì postula la preventiva individuazione dell’obbligo specifico di tenere la condotta omessa in capo al soggetto. Nella specie, peraltro, la S.C. ha confermato la sentenza di merito sul punto, osservando come la corte territoriale non avesse rinvenuto la colpa omissiva nella generica inerzia nell’adozione di idonee misure di cautela e di prudenza, come affermato dall’organismo di vigilanza, bensì nella diretta violazione di specifici obblighi di agire in base alle disposizioni di settore.

Ancora con riguardo alla causalità omissiva, in un caso in cui si lamentavano i danni derivanti dall’omessa esecuzione dell’attività investigativa delegata dall’autorità giudiziaria per l’accertamento di responsabilità penali, Sez. 3, n. 06036/2018, Porreca, Rv. 648415-01, ha escluso che tale omissione possa costituire autonoma fonte di responsabilità civile dell’agente o ufficiale delegato nei confronti di terzi; l’attività pubblicistica dell’organo titolare dell’azione penale si sovrappone alla condotta omissiva del delegato, escludendosi, di conseguenza, la configurabilità di un nesso causale tra tale condotta ed il danno eventualmente risentito da chi si afferma leso dalla stessa.

Altro profilo rilevante è poi quello affrontato da Sez. 3, n. 10578/2018, Saija, Rv. 648316-01, secondo la quale l’accertamento del nesso causale prescinde dall’elemento soggettivo e dal titolo della responsabilità. Pertanto, in caso di responsabilità civile per la morte del lavoratore, l’accertamento in ordine al nesso di causalità tra condotta ed evento nonché alla colpa del datore di lavoro, contenuto nella sentenza definitiva che lo abbia condannato al risarcimento del danno sulla domanda proposta dai congiunti “iure hereditatis”, costituisce giudicato esterno nel diverso giudizio promosso dai medesimi ex art. 2043 c.c. per il ristoro del pregiudizio patito “iure proprio”, restando irrilevante che l’azione ex art. 2087 c.c. abbia natura contrattuale e sia soggetta alla presunzione di colpa della parte datrice, alla quale spetta dimostrare l’assenza di rimproverabilità soggettiva.

5. Il concorso di colpa del danneggiato.

Nel corso dell’anno in rassegna la giurisprudenza di legittimità ha dato continuità all’indirizzo interpretativo (per il quale si veda già Sez. 3, n. 04208/2017, Scoditti, Rv. 643137-01) che individua il fondamento della regola di delimitazione del danno risarcibile sancita dall’art. 1227, comma 1, c.p.c., non nell’autoresponsabilità per colpa, ma piuttosto nel principio di causalità e che interpreta il riferimento alla colpa contenuto in detta disposizione non come criterio soggettivo di imputazione del fatto, bensì come requisito legale della rilevanza causale del comportamento del danneggiato, ovvero come criterio di selezione delle concause rilevanti ai fini della riduzione del risarcimento.

La colpa cui fa riferimento l’art. 1227, comma 1, c.c. non deve, infatti, essere intesa in senso proprio, ossia nell’accezione di elemento soggettivo dell’illecito – assumendo tale nozione rilevanza ai fini soli di un’affermazione di responsabilità, la quale è configurabile soltanto in caso di lesione della sfera giuridico soggettiva altrui –, ma quale sinonimo di comportamento oggettivamente in contrasto con una regola di condotta imposta da un vincolo negoziale o stabilita da norme positive o dettate dalla comune prudenza.

In quest’ottica, Sez. 3, n. 02483/2018, Vincenti, Rv. 648247-01, accedendo ad un’impostazione più che consolidata (per la quale si veda Sez. 3, n. 3242/2012, Giacalone, Rv. 621948-01), ha ribadito che la riduzione proporzionale del risarcimento del danno deve essere praticata anche se la vittima sia incapace di intendere e di volere, atteso che la nozione di colpa in senso oggettivo che viene qui in rilievo non postula il requisito dell’imputabilità.

Ancorché non possa parlarsi di colpa in senso proprio, il fatto colposo, quale comportamento oggettivamente in contrasto con una regola di condotta stabilita da norme positive o dettata dalla comune prudenza ovvero discendente da un vincolo contrattuale costituisce un presupposto indefettibile per l’operatività della regola di delimitazione del danno risarcibile di cui al comma 1 dell’art. 1227 c.c..

Tale assunto è stato evidenziato da Sez. 3, n. 07515/2018, Rossetti, Rv. 648304-01-02, la quale, in materia di mandato, ha ritenuto non configurabile un concorso di colpa a carico del mandante per non avere di propria iniziativa prevenuto o sanato gli errori del mandatario inadempiente, fino a quando questi ultimi non gli siano in qualunque modo stati resi noti ed evidenti, in quanto il mandante, privo delle necessarie competenze, può fare legittimo affidamento sulle competenze del mandatario.

Nello stesso senso si è espressa Sez. 1, n. 29352/2018, Lamorgese, Rv. 651582-01, stabilendo che, in tema di vendita di azioni ad un prezzo specifico, non può ritenersi corresponsabile del danno ai sensi dell’art. 1227, comma 1, c.c. colui che, senza violare alcuna regola di comune prudenza, correttezza o diligenza, non si sia attivato per rimuovere tempestivamente una situazione di pericolo determinata dall’illecito di un terzo, posto che, affinché possa farsi luogo alla diminuzione del ristoro per concorso del creditore nella produzione del danno, è necessario che costui sia tenuto, per legge, o per contratto o per generico dovere di correttezza, ad adottare un determinato comportamento, inerente all’esecuzione del rapporto obbligatorio e idoneo a circoscrivere, se non ad escludere, gli effetti pregiudizievoli dell’inadempimento.

La limitazione codicistica del risarcimento in ragione del concorso di colpa del danneggiato postula, secondo la Suprema Corte, un generale dovere di cautela riconducibile al dovere di solidarietà previsto dall’art. 2 Cost., il quale risponde all’esigenza di ridurre entro limiti di ragionevolezza gli aggravi per gli altri in nome della reciprocità degli obblighi derivanti dalla convivenza civile e si colloca sul piano della causalità, costituendo, in particolare, espressione della causalità adeguata (Sez. 3, n. 02483/2018, Vincenti, Rv. 648247-01; Sez. 3, n. 02480/2018, De Stefano, Rv. 647934-01; Sez. 3, n. 02481/2018, Vincenti, Rv. 647935-01).

Tale contemperamento, come evidenziato dalle pronunce appena richiamate, risponde al canone di proporzionalità imposto dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali e più volte affermato dalla Corte di Strasburgo (e in particolare in CEDU, 20/12/2016, Ljaskaj – Croazia), in forza del quale l’esigenza di tutela del diritto alla salute e all’incolumità personale deve essere contemperata con quella – conforme al principio di ragionevolezza – di non accollare alla collettività o, comunque, immotivatamente al singolo, le conseguenze dannose, soprattutto di natura economica, che derivino da condotte di volontaria e consapevole esposizione al rischio serio o grave per la vita da parte della potenziale vittima e, quindi, costituenti unica causa del danno da questa patito.

Il fatto del danneggiato assume, dunque, rilevanza quale fattore causale concorrente rispetto alla produzione del danno, con la conseguenza che anche in relazione alla fattispecie di cui all’art. 1227, comma 1, c.c. devono trovare applicazione le regole riconducibili alla teoria della causalità adeguata o della regolarità causale, secondo cui occorre dare rilievo alle serie causali che, alla stregua di una valutazione “ex ante”, appaiono idonee a determinare l’evento.

Dando continuità all’orientamento inaugurato da Sez. U, n. 576/2008, Segreto, Rv. 600901-01, le pronunce dell’anno in rassegna hanno, a riguardo, ribadito che la conseguenza normale imputabile è quella che secondo l’“id quod plerumque accidit” e, quindi, in base ad una regolarità statistica o ad una probabilità apprezzabile “ex ante”, integra gli estremi di una sequenza costante dello stato di cose originatosi da un evento originario che ne costituisce l’antecedente necessario. La sequenza costante deve, però, essere prevedibile non da un punto di vista soggettivo, ma in base alle regole statistiche o scientifiche oggettivizzate in base ad una loro preponderanza o comune accettazione, da cui sia possibile inferire un giudizio di non improbabilità dell’evento in base a criteri di ragionevolezza.

Il principio della regolarità causale, rapportato ad una valutazione “ex ante”, diviene, così, la misura della relazione probabilistica in astratto tra evento generatore del danno ed evento dannoso, da ricostruirsi anche sulla base dello scopo della norma violata (Sez. 3, n. 02480/2018, De Stefano, Rv. 647934-01). Sulla scorta di tale premessa, la S.C. ha delineato la nozione di imprevedibilità, quale obiettiva inverosimiglianza, distinguendola dalla nozione di eccezionalità, quale sensibile deviazione dalla frequenza statistica accettata come normale, ovvero vicina alla media statistica, al fine di distinguere tra l’ipotesi di condotta concorrente del danneggiato idonea a giustificare, in ragione del principio di equità ed in deroga al principio generale di cui all’art. 2055 c.c., la riduzione del risarcimento del danno, dall’ipotesi in cui il comportamento del danneggiato assurge a causa esclusiva dell’evento, interruttiva della serie causale riconducibile alla condotta del danneggiante (nel caso di responsabilità per colpa) ovvero al fatto generatore del danno ad esso imputabile (nel caso di responsabilità oggettiva).

I principi suddetti hanno trovato applicazione tanto con riferimento alla responsabilità per colpa, quanto in relazione alla responsabilità oggettiva.

Con riguardo alla prima, Sez. 3, n. 02483/2018, Vincenti, Rv. 648247-02 ha affermato che, in tema di risarcimento del danno per fatto illecito, quanto più le conseguenze della condotta altrui sono suscettibili di essere previste e superate attraverso l’adozione, da parte dello stesso danneggiato, delle cautele normalmente attese e prevedibili in rapporto alle circostanze del caso concreto, tanto più incidente deve considerarsi l’efficienza causale del suo comportamento imprudente nella produzione del danno, fino al punto di interrompere il nesso eziologico tra condotta e danno quando lo stesso comportamento sia da escludere come evenienza ragionevole o accettabile secondo un criterio probabilistico di regolarità causale.

Con riferimento alla responsabilità oggettiva, in materia di responsabilità per cose in custodia, occorre considerare, oltre alle citate Sez. 3, n. 02480/2018, De Stefano, Rv. 647934-01 e Sez. 3, n. 02481/2018, Vincenti, Rv. 647935-01, anche Sez. 3, n. 27724/2018, Positano, Rv. 651374-01, secondo la quale, in tema di responsabilità civile per danni da cose in custodia, la condotta del danneggiato, che entri in interazione con la cosa, si atteggia diversamente a seconda del grado di incidenza causale sull’evento dannoso, in applicazione – anche ufficiosa – dell’art. 1227, comma 1, c.c., richiedendo una valutazione che tenga conto del dovere generale di ragionevole cautela, riconducibile al principio di solidarietà espresso dall’art. 2 Cost., sicché, quanto più la situazione di possibile danno è suscettibile di essere prevista e superata attraverso l’adozione da parte del danneggiato delle cautele normalmente attese e prevedibili in rapporto alle circostanze, tanto più incidente deve considerarsi l’efficienza causale del comportamento imprudente del medesimo nel dinamismo causale del danno, fino a rendere possibile che detto comportamento interrompa il nesso eziologico tra fatto ed evento dannoso, quando sia da escludere che lo stesso comportamento costituisca un’evenienza ragionevole o accettabile secondo un criterio probabilistico di regolarità causale, connotandosi, invece, per l’esclusiva efficienza causale nella produzione del sinistro.

Occorre, altresì, dare evidenza a Sez. 3, n. 19180/2018, Spaziani, Rv. 649737-02, la quale, in materia di responsabilità sanitaria, ha chiarito che si ha interruzione del rapporto di causalità tra fatto del danneggiante ed evento dannoso per effetto del comportamento sopravvenuto di altro soggetto (che può identificarsi anche con lo stesso danneggiato), quando il fatto di costui si ponga, ai sensi dell’art. 41, comma 2, c.p., come unica ed esclusiva causa dell’evento di danno, sì da privare dell’efficienza causale e rendere giuridicamente irrilevante il precedente comportamento dell’autore dell’illecito, ma non quando, essendo ancora in atto ed in fase di sviluppo il processo produttivo del danno avviato dal fatto illecito dell’agente, nella situazione di potenzialità dannosa da questi determinata si inserisca una condotta di altro soggetto (ed eventualmente dello stesso danneggiato) che sia preordinata proprio al fine di fronteggiare e, se possibile, di neutralizzare le conseguenze di quell’illecito. In tal caso lo stesso illecito resta unico fatto generatore sia della situazione di pericolo sia del danno derivante dall’adozione di misure difensive o reattive a quella situazione, sempre che rispetto ad essa coerenti ed adeguate.

Anche nel 2018 ha trovato applicazione il principio della rilevabilità d’ufficio del concorso di colpa del danneggiato, in forza del quale una volta allegato, da parte del debitore inadempiente, il fatto colposo del creditore danneggiato ai sensi dell’art. 1227, comma 1, c.c., il giudice è tenuto a esaminare d’ufficio l’eventuale incidenza causale del comportamento colposo di quest’ultimo nella produzione dell’evento dannoso (Sez. 3, n. 11258/2018, De Stefano, Rv. 648643-02).

Nell’annualità in rassegna è stato, inoltre, ribadito il principio in forza del quale non integra fatto colposo del danneggiato il pregresso stato morboso o di vulnerabilità della vittima.

Significativi spunti, a riguardo, sono stati offerti da Sez. 3, n. 20829/2018, Scarano, Rv. 650420-02, secondo cui in materia di responsabilità per attività medico-chirurgica, ove si individui in un pregresso stato morboso del paziente/danneggiato (nella specie, leucomalacia periventricolare – danno alla sostanza bianca presente nel cervello) un antecedente privo di interdipendenza funzionale con l’accertata condotta colposa del sanitario (nella specie, intempestivo intervento di taglio cesareo di fronte a sofferenza fetale acuta), ma dotato di efficacia concausale nella determinazione dell’unica e complessiva situazione patologica riscontrata, allo stesso non può attribuirsi rilievo sul piano della ricostruzione del nesso di causalità tra detta condotta e l’evento dannoso, appartenendo ad una serie causale del tutto autonoma rispetto a quella in cui si inserisce il contegno del sanitario, bensì unicamente sul piano della determinazione equitativa del danno, potendosi così pervenire – sulla base di una valutazione da effettuarsi, in difetto di qualsiasi automatismo riduttivo, con ragionevole e prudente apprezzamento di tutte le circostanze del caso concreto – solamente ad una delimitazione del “quantum” del risarcimento.

In termini parzialmente diversi si è espressa Sez. 3, n. 20836/2018, Fanticini, Rv. 650421-02, evidenziando che, laddove il danneggiato, prima dell’evento, versi in pregresso stato di vulnerabilità (o di mera predisposizione), ma l’evidenza probatoria del processo, sotto il profilo eziologico, non consente di dimostrare con certezza che, a prescindere dal comportamento imputabile al danneggiante, detto stato si sarebbe comunque evoluto, anche in assenza dell’evento di danno, in senso patologico-invalidante, il giudice in sede di quantificazione del danno non deve procedere ad alcuna diminuzione del “quantum debeatur”, posto che, diversamente, darebbe applicazione all’intollerabile principio secondo cui persone che, per loro disgrazia (e non già per colpa imputabile ex art. 1227 c.c. o per fatto addebitabile a terzi), siano più vulnerabili di altre, dovrebbero irragionevolmente appagarsi di una tutela risarcitoria minore rispetto agli altri consociati affetti da cosiddetta “normalità”.

Per quanto concerne la fattispecie di cui al comma 2 dell’art. 1227 c.c., Sez. 3, n. 19218/2018, Iannello, Rv. 649740-01 ne ha tracciato la distinzione rispetto all’ipotesi di cui al primo comma, evidenziando che il fatto colposo del creditore che abbia concorso al verificarsi dell’evento dannoso (di cui al comma 1 dell’art. 1227 c.c.) va distinto dal contegno dello stesso danneggiato che abbia prodotto il solo aggravamento del danno senza contribuire alla sua causazione, giacché – mentre nel primo caso il giudice deve procedere d’ufficio all’indagine in ordine al concorso di colpa del danneggiato, sempre che risultino prospettati gli elementi di fatto dai quali sia ricavabile la colpa concorrente, sul piano causale, dello stesso – la seconda di tali situazioni forma oggetto di un’eccezione in senso stretto, in quanto il dedotto comportamento del creditore costituisce un autonomo dovere giuridico, posto a suo carico dalla legge quale espressione dell’obbligo di comportarsi secondo buona fede.

Sez. 1, n. 20146/2018, Falabella, Rv. 649908-02, Sez. 3, n. 24522/2018, Guizzi, Rv. 651135-01 e Sez. 3, n. 25750/2018, Sestini, Rv. 651371-01 hanno, poi, ribadito che l’art. 1227, comma 2, c.c., escludendo il risarcimento per il danno che il creditore avrebbe potuto evitare con l’uso della normale diligenza, impone a quest’ultimo una condotta attiva, espressione dell’obbligo generale di buona fede, diretta a limitare le conseguenze dell’altrui comportamento dannoso, intendendosi comprese nell’ambito dell’ordinaria diligenza, a tal fine richiesta, soltanto quelle attività che non siano gravose o eccezionali o tali da comportare notevoli rischi o rilevanti sacrifici.

Con specifico riferimento all’onere della prova in relazione all’obbligo del danneggiato di limitare il danno, di sicuro interesse è Sez. L, n. 17683/2018, Arienzo, Rv. 649596-01, secondo cui in tema di licenziamento illegittimo, il datore di lavoro che affermi la detraibilità dall’indennità risarcitoria prevista dal nuovo testo dell’art. 18, comma 4, st. lav., a titolo di “aliunde percipiendum”, di quanto il lavoratore avrebbe potuto percepire dedicandosi alla ricerca di una nuova occupazione, ha l’onere di allegare le circostanze specifiche riguardanti la situazione del mercato del lavoro in relazione alla professionalità del danneggiato, da cui desumere, anche con ragionamento presuntivo, l’utilizzabilità di tale professionalità per il conseguimento di nuovi guadagni e la riduzione del danno.

6. La responsabilità solidale.

Ai fini della configurabilità della responsabilità solidale degli autori dell’illecito, l’unicità del fatto dannoso richiesta dall’art. 2055 c.c. può ritenersi sussistente anche ove l’evento di danno sia derivato da più azioni od omissioni costituenti illeciti distinti, purché la pluralità di condotte abbia concorso in maniera efficiente alla produzione dell’evento di danno.

In applicazione di tale principio generale – più volte enunciato nella precedente elaborazione della giurisprudenza di legittimità – Sez. 1, n. 02039/2018, Nazzicone, Rv. 646862-01, in materia di violazione del diritto di autore, ha chiarito che, una volta accertata l’esistenza del plagio, sono solidalmente responsabili tra loro tutti i soggetti che hanno dato un contributo rilevante all’illecito, ivi compreso, oltre all’autore materiale del plagio, il soggetto che abbia commercializzato le opere plagiarie nell’ambito della propria attività imprenditoriale, rientrando nel dovere di diligenza qualificata ex art. 1176 c.c., gravante sugli operatori esperti del mercato dell’arte, la verifica che le opere poste in vendita non si palesino plagiarie.

Secondo Sez. 3, n. 32226/2018 Scoditti, Rv. 651952-01, l’unicità del fatto dannoso costituente il presupposto per l’operatività del regime della solidarietà tra i concorrenti nell’illecito non è, invece, configurabile, in materia di corresponsabilità per prodotti difettosi ai sensi dell’art. 9 del d.P.R. 24 maggio 1988, n. 224 (ora art. 121 del d.lgs. n. 206 del 2005), nel caso in cui alla messa in circolazione del prodotto difettoso da parte dei produttori che hanno collaborato nella catena produttiva si aggiunga la violazione, da parte del fornitore, degli obblighi previsti dall’art. 116 del d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206, avuto riguardo all’estraneità di quest’ultimo rispetto alla produzione e al carattere alternativo della speciale responsabilità prevista dalla norma suddetta a suo carico.

In continuità con un consolidato orientamento (per il quale si veda già Sez. 3, n. 18497/2006, Talevi, Rv. 591889-01), Sez. 3, n. 32930/2018, Frasca, Rv. 652285-03 ha ribadito che in caso di fatto illecito imputabile a più persone, la questione della gravità delle rispettive colpe e dell’entità delle conseguenze che ne sono derivate può essere oggetto di esame da parte del giudice del merito, adito dal danneggiato, solo se uno dei condebitori abbia esercitato l’azione di regresso nei confronti degli altri o, in vista del regresso, abbia chiesto espressamente tale accertamento in funzione della ripartizione interna del peso del risarcimento con i corresponsabili, senza che tale domanda possa ricavarsi dalle eccezioni con cui il condebitore abbia escluso la sua responsabilità nel diverso rapporto con il danneggiato.

Occorre, poi, considerare Sez. 3, n. 02066/2018, Scoditti, Rv. 647360-01, la quale ha affermato che, in materia di risarcimento del danno da fatto illecito, ove esistano più possibili danneggianti, la graduazione delle colpe tra di essi ha una mera funzione di ripartizione interna tra i coobbligati della somma versata a titolo di risarcimento del danno e non elide affatto la solidarietà tra loro esistente: ne consegue che la circostanza che il danneggiato si sia rivolto in giudizio contro uno solo degli autori del fatto dannoso non comporta la rinuncia alla solidarietà esistente tra tutte le persone alle quali lo stesso fatto dannoso sia imputabile, sicché, se anche nel corso del giudizio emerga la graduazione di colpa tra i vari corresponsabili, ciò non preclude al danneggiato la possibilità di chiedere di essere integralmente risarcito da uno solo dei corresponsabili.

Per quanto concerne le ricadute processuali del suddetto principio, va segnalata Sez. 3, n. 20849/2018, De Stefano, Rv. 650425-01, la quale ha precisato che nel giudizio sulla responsabilità civile, l’impugnazione proposta da uno dei condannati al risarcimento del danno, volta a sostenere la responsabilità anche di altro convenuto o una diversa misura della colpa tra i convenuti già condannati, è ammissibile solo ove l’impugnante abbia proposto una tempestiva e rituale domanda di rivalsa, posto che, in difetto, il condannato non ha un interesse ad impugnare, in quanto la condanna non aggrava la sua posizione di debitore dell’intero nei confronti del danneggiato, in ragione del disposto di cui all’art. 2055 c.c., né pregiudica in alcun modo il suo eventuale diritto di rivalsa, non essendo stato dedotto in giudizio il rapporto interno che lo lega all’altro debitore.

Ancora, a proposito di regresso, occorre considerare Sez. 2, n. 21197/2018, Besso Marcheis, Rv. 650029-01, la quale ha chiarito che il condebitore solidale, sia “ex contractu” sia “ex delicto”, che paga al creditore una somma maggiore rispetto a quella dovuta, ha diritto di regresso anche se non ha corrisposto l’intero, giacché anche in tal caso, come in quello del pagamento dell’intero debito, egli ha subìto un depauperamento del proprio patrimonio oltre il dovuto, con corrispondente indebito arricchimento dei condebitori.

Quanto, infine, al regime giuridico della solidarietà operante in caso di concorso di più soggetti della causazione di un unico fatto dannoso ai sensi dell’art. 2055 c.c., merita di essere segnalata Sez. 2, n. 24728/2018, Scarpa, Rv. 650662-01, secondo la quale l’obbligazione solidale, pur avendo ad oggetto un’unica prestazione, dà luogo non ad un rapporto unico ed inscindibile, ma a rapporti giuridici distinti, anche se fra loro connessi, e, potendo il creditore ripetere da ciascuno dei condebitori l’intero suo credito, è sempre possibile la scissione del rapporto processuale, il quale può utilmente svolgersi nei confronti di uno solo dei coobbligati. Ne consegue che la mancata impugnazione, da parte di un coobbligato solidale, della sentenza di condanna pronunciata verso tutti i debitori solidali – che, pur essendo formalmente unica, consta di tante distinte pronunce quanti sono i coobbligati con riguardo ai quali essa è stata emessa –, così come il rigetto dell’impugnazione del singolo, comporta il passaggio in giudicato della pronuncia concernente il debitore non impugnante (o il cui gravame sia stato respinto) esclusivamente con riferimento a lui, pure qualora lo stesso sia stato convenuto nel giudizio di appello ex art. 332 c.p.c., mentre il passaggio in giudicato di detta pronuncia rimane, poi, insensibile all’eventuale riforma od annullamento delle decisioni inerenti agli altri coobbligati.

7. Il danno patrimoniale.

7.1. La determinazione del danno risarcibile.

Tra le pronunce che nell’anno in rassegna hanno affrontato questioni attinenti alle regole di determinazione del danno risarcibile, rilievo primario deve essere attribuito ad alcune sentenze delle Sezioni Unite (Sez. U, n. 12564/2018, Giusti, Rv. 648647-01, n. 12565/2018, Giusti, Rv. 648648-01, n. 12566/2018, Giusti, Rv. 648649-01, n. 12567/2018, Giusti, Rv. 648650-01), le quali, nel risolvere le questioni di massima di particolare importanza ed oggetto di contrasto rimesse dalla Terza Sezione con le ordinanze n. 15534/2017, n. 15535/2017, n. 15536/2017 e n. 15537/2017, hanno enunciato i principi di diritto così massimati:

1) Dal risarcimento del danno patrimoniale patito dal familiare di persona deceduta per colpa altrui non deve essere detratto il valore capitale della pensione di reversibilità accordata dall’Inps al familiare superstite in conseguenza della morte del congiunto, trattandosi di una forma di tutela previdenziale connessa ad un peculiare fondamento solidaristico e non geneticamente connotata dalla finalità di rimuovere le conseguenze prodottesi nel patrimonio del danneggiato per effetto dell’illecito del terzo (Rv. 648647-01).

2) Nell’assicurazione contro i danni, il danno da fatto illecito deve essere liquidato sottraendo dall’ammontare del danno risarcibile l’importo dell’indennità che il danneggiato-assicurato abbia riscosso in conseguenza di quel fatto, in quanto detta indennità è erogata in funzione di risarcimento del pregiudizio subìto dall’assicurato in conseguenza del verificarsi dell’evento dannoso ed essa soddisfa, neutralizzandola in tutto o in parte, la medesima perdita al cui integrale ristoro mira la disciplina della responsabilità risarcitoria del terzo autore del fatto illecito (Rv. 648648-01).

3) L’importo della rendita per l’inabilità permanente, corrisposta dall’INAIL per l’infortunio “in itinere” occorso al lavoratore, va detratto dall’ammontare del risarcimento dovuto, allo stesso titolo, al danneggiato da parte del terzo responsabile del fatto illecito, in quanto essa soddisfa, neutralizzandola in parte, la medesima perdita al cui integrale ristoro mira la disciplina della responsabilità risarcitoria del terzo al quale sia addebitabile l’infortunio, salvo il diritto del lavoratore di agire nei confronti del danneggiante per ottenere l’eventuale differenza tra il danno patito e quello indennizzato (Rv. 648649-01).

4) Dall’ammontare del danno subìto da un neonato in fattispecie di colpa medica, e consistente nelle spese da sostenere vita natural durante per l’assistenza personale, deve sottrarsi il valore capitalizzato della indennità di accompagnamento che la vittima abbia comunque ottenuto dall’ente pubblico, in conseguenza di quel fatto, essendo tale indennità rivolta a fronteggiare ed a compensare direttamente il medesimo pregiudizio patrimoniale causato dall’illecito, consistente nella necessità di dover retribuire un collaboratore o assistente per le esigenze della vita quotidiana del minore reso disabile per negligenza al parto (Rv. 648650-01).

Per quanto concerne la questione se il danno patrimoniale patito da coniuge di persona deceduta, consistente nella perdita dell’aiuto economico offerto dal defunto, debba essere liquidato detraendo dal credito risarcitorio il valore capitalizzato della pensione di reversibilità accordata al superstite dall’Istituto nazionale della previdenza sociale, Sez. U, n. 12564/2018, Giusti, Rv. 648647-01, ha, in primo luogo, dato atto del contrasto interpretativo esistente nella giurisprudenza di legittimità tra l’orientamento prevalente che nega la possibilità di tener conto della pensione di reversibilità nella liquidazione del danno da morte del familiare in ragione della natura non risarcitoria di tale erogazione previdenziale, e l’indirizzo che, invece, afferma l’opposto principio della non cumulabilità tra le due poste, risarcitoria e previdenziale, in ragione della funzione previdenziale assolta dal trattamento pensionistico e dell’assunto per il quale, ai fini dell’operatività della “compensatio lucri cum damno” occorre verificare non tanto se lucro e danno siano riconducibili alla medesima fonte, ma, piuttosto, se il lucro, al pari del danno, costituisca conseguenza immediata e diretta del fatto illecito ai sensi dell’art. 1223 c.c., posto che i vantaggi e gli svantaggi derivati da una medesima condotta possono compensarsi anche se alla produzione di essi hanno concorso, insieme alla condotta umana, altri atti o fatti ovvero una previsione di legge.

Hanno, quindi, delineato la nozione generale di “compensatio lucri cum damno” quale “regola di evidenza operativa per la stima e la liquidazione del danno” desumibile dall’art. 1223 c.c. – in forza della quale il danno risarcibile deve essere il risultato di una valutazione globale degli effetti prodotti dall’atto dannoso, così che se, in applicazione della regola della causalità giuridica, dall’atto dannoso deriva, accanto al pregiudizio, anche un vantaggio, quest’ultimo deve essere calcolato in diminuzione dell’entità del risarcimento –, per poi precisare che la delimitazione del danno risarcibile non può ridursi ad una mera operazione contabile, imponendosi la doverosa indagine sulla ragione giustificatrice dell’attribuzione patrimoniale entrata nel patrimonio del danneggiato.

Ed infatti, chiariscono le Sezioni Unite, al fine di individuare i criteri di selezione tra i casi in cui ammettere o negare il cumulo tra risarcimento e vantaggio patrimoniale conseguito all’atto dannoso, occorre verificare “la funzione di cui il beneficio collaterale si rivela essere espressione”, per accertare se esso sia compatibile o meno con una imputazione al risarcimento.

In questa prospettiva, la determinazione del vantaggio computabile richiede che il vantaggio sia “causalmente giustificato in funzione di rimozione dell’effetto dannoso dell’illecito”, così che in tanto le prestazioni del terzo incidono sul danno, in quanto siano erogate in funzione di risarcimento del pregiudizio risentito dal danneggiato. Non è, dunque, necessario che, come sostenuto dalla giurisprudenza prevalente, i titoli del danno e del vantaggio coincidano, ma, piuttosto, che sussista un collegamento funzionale tra la causa dell’attribuzione patrimoniale e l’obbligazione risarcitoria.

Secondo la sentenza, ai fini della computabilità nel risarcimento del danno del lucro conseguito al fatto dannoso, occorre, altresì, accertare se l’ordinamento abbia previsto un meccanismo di surroga o di rivalsa, capace di valorizzare l’indifferenza del risarcimento e di evitare, al contempo, che quanto erogato dal terzo al danneggiato si traduca in un vantaggio per l’autore dell’illecito. Secondo le Sezioni Unite, se “il responsabile dell’illecito, attraverso il non-cumulo, potesse vedere alleggerita la propria posizione debitoria per il solo fatto che il danneggiato ha ricevuto, in connessione con l’evento dannoso, una provvidenza indennitaria grazie all’intervento del terzo, e ciò anche quando difetti la previsione di uno strumento di riequilibrio e di riallineamento delle poste, si avrebbe una sofferenza del sistema, finendosi con il premiare, senza merito specifico, chi si è comportato in modo negligente”. I presupposti essenziali per poter svolgere la decurtazione del vantaggio sono, pertanto: a) il contenuto, “per classi omogenee o per ragioni giustificatrici”, del vantaggio; b) la previsione, appunto, di un meccanismo di surroga, di rivalsa o di recupero, che “instaura la correlazione tra classi attributive altrimenti disomogenee”.

La sentenza ha, inoltre, chiarito che la pensione di reversibilità, la quale è riconducibile al più ampio “genus” delle pensioni ai superstiti, è una forma di tutela previdenziale nella quale l’evento protetto è la morte e, quindi, un fatto naturale che, secondo una presunzione legislativa, crea una situazione di bisogno per i familiari del defunto, i quali sono i soggetti protetti, per poi evidenziare che l’erogazione della pensione di reversibilità non è geneticamente connotata dalla finalità di rimuovere le conseguenze prodottesi nel patrimonio del danneggiato per effetto dell’illecito del terzo, né soggiace ad una logica e ad una finalità di tipo indennitario. Essa costituisce, invece, l’adempimento di una promessa, rivolta dall’ordinamento al lavoratore-assicurato che, attraverso il sacrificio di una parte del proprio reddito lavorativo, ha contribuito ad alimentare la propria posizione previdenziale che, a far data dal momento in cui il lavoratore, prima o dopo il pensionamento, avrà cessato di vivere, quale che sia la causa o l’origine dell’evento protetto, vi è la garanzia, per i suoi congiunti, di un trattamento diretto a tutelare la continuità del sostentamento e a prevenire o ad alleviare lo stato di bisogno. Il trattamento previdenziale, rinvenendo la propria causa nel rapporto di lavoro pregresso, nei contributi versati e nella previsione di legge, non è, quindi, erogato in funzione di risarcimento del pregiudizio subìto dal danneggiato.

Le Sezioni Unite hanno, infine, posto in evidenza che, in materia di pensione di reversibilità non opera la surrogazione. Difatti, l’art. 1916, comma 4, c.c. si applica alle assicurazioni sociali contro gli infortuni sul lavoro; l’art. 14 della legge n. 222 del 12 luglio 1984 prevede la surroga delle prestazioni in tema di invalidità pensionabile, che non sono assimilabili alla pensione di reversibilità ai superstiti; analogamente, l’art. 41 della legge n. 183 del 4 novembre 2010 stabilisce a vantaggio dell’ente erogatore, il recupero, nei confronti del responsabile civile e della compagnia di assicurazioni, delle prestazioni erogate in conseguenza del fatto illecito di terzi, ma con riguardo alle pensioni, agli assegni e alle indennità, spettanti agli invalidi civili ai sensi della legislazione vigente; infine, l’art. 42 della medesima legge, nel disciplinare le comunicazioni delle imprese di assicurazione all’Inps, si occupa delle azioni surrogatorie e di rivalsa spettanti all’ente assicuratore “nei casi di infermità comportante incapacità lavorativa, derivante da responsabilità di terzi”.

Alla luce delle suddette argomentazioni le Sezioni Unite sono pervenute alla conclusione per la quale la pensione di reversibilità non può essere scomputata dall’ammontare del risarcimento del danno dovuto ai familiari superstiti in conseguenza della morte del congiunto.

Sez. U, n. 12565/2018, Giusti, Rv. 648648-01 ha, invece, risolto la questione della scomputabilità dal risarcimento del danno dell’indennizzo assicurativo.

Le Sezioni Unite hanno, in primo luogo, evidenziato che nell’assicurazione contro i danni l’indennità assicurativa è erogata in funzione di risarcimento del pregiudizio subito dall’assicurato in conseguenza del verificarsi dell’evento dannoso, sicché essa soddisfa, neutralizzandola in tutto o in parte, la medesima perdita al cui integrale ristoro mira la disciplina della responsabilità risarcitoria del terzo autore del fatto illecito.

Al danneggiato assicurato competono due distinti diritti di credito che, pur avendo fonte e titolo diversi, tendono al medesimo fine del risarcimento del danno provocato dal sinistro e sono concorrenti in quanto ciascuno di essi realizza, sotto il profilo funzionale, il medesimo interesse all’eliminazione del danno causato nel patrimonio del danneggiato.

Inoltre, se l’assicuratore indennizza per primo l’assicurato, quando il risarcimento da parte del terzo responsabile non ha ancora avuto luogo, trova applicazione l’art. 1916 c.c. e lo stesso assicuratore è surrogato, fino alla concorrenza dell’ammontare dell’indennità corrisposta, nel diritto dell’assicurato verso il terzo medesimo.

Con Sez. U, n. 12566/2018, Giusti, Rv. 648649-01 le Sezioni Unite hanno risolto la questione se dall’ammontare del danno risarcibile si debba scomputare la rendita per l’inabilità permanente riconosciuta dall’INAIL a seguito di infortunio occorso al lavoratore durante il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di abitazione a quello di lavoro.

La Suprema Corte ha affermato che in tal caso viene in rilievo un infortunio scaturito da un fatto illecito di un terzo estraneo al rapporto giuridico previdenziale e, quindi, la vittima può contare su un sistema combinato di tutele, basato sul concorso delle regole della protezione sociale garantita dall’INAIL e di quanto riveniente dalle regole civilistiche in materia di responsabilità.

Il duplice rapporto bilaterale è rappresentato dal sistema di assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro, che dà titolo ad ottenere le prestazioni dell’assicurazione, e dalla relazione creata dal fatto illecito del terzo regolata dalla disciplina della responsabilità civile.

Anche in relazione alla suddetta questione le Sezioni Unite hanno ribadito che la sollecitazione del collegio remittente a compiere la verifica in tema di assorbimento del beneficio nel danno in base ad un accertamento eziologico unitario, non può spingersi fino al punto di attribuire rilevanza ad ogni vantaggio indiretto o mediato, perché ciò condurrebbe ad un’eccessiva dilatazione delle poste imputabili al risarcimento, finendo con il considerare il verificarsi stesso del vantaggio un merito da riconoscere al danneggiante.

La Corte ha, quindi, richiamato i principi enunciati nella sentenza n. 12564/2018, per rilevare, con riferimento alla specifica questione oggetto di esame, che nell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro, la rendita INAIL costituisce una prestazione economica a contenuto indennitario erogata in funzione di copertura del pregiudizio (l’inabilità permanente generica, assoluta o parziale, e, a seguito della riforma apportata dal d.lgs. 23 febbraio 2000, n. 38, anche il danno alla salute) occorso al lavoratore in caso di infortunio sulle vie del lavoro.

Ha poi ricordato che, sebbene il ristoro del danno coperto dall’assicurazione obbligatoria possa presentare delle differenze nei valori monetari rispetto al danno civilistico, la rendita corrisposta dall’INAIL soddisfa, neutralizzandola parzialmente, la medesima perdita al cui integrale ristoro mira la disciplina della responsabilità risarcitoria del terzo, autore del fatto illecito, al quale sia addebitabile l’infortunio “in itinere” risentito dal lavoratore.

La sentenza ha affrontato anche il profilo di surroga, evidenziando che il sistema normativo prevede un meccanismo di riequilibrio idoneo a garantire che il terzo responsabile dell’infortunio “sulle vie del lavoro”, estraneo al rapporto assicurativo, sia obbligato a restituire all’INAIL l’importo corrispondente al valore della rendita per inabilità permanente costituita in favore del lavoratore assicurato. Difatti, l’art. 1916 c.c. si applica, per espressa previsione, “anche alle assicurazioni contro gli infortuni sul lavoro e contro le disgrazie accidentali”, estendendosi, così, il diritto di surrogazione agli enti esercenti le assicurazioni sociali. Inoltre, l’art. 142 cod. ass., nel riprodurre le previsioni contenute nell’abrogato art. 28 della legge 24 dicembre 1969, n. 990, sull’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli a motore e dei natanti, stabilisce che, qualora il danneggiato sia assistito da assicurazione sociale, l’ente gestore di questa ha diritto di ottenere direttamente dall’impresa di assicurazione il rimborso delle spese sostenute per le prestazioni erogate al danneggiato ai sensi delle leggi e dei regolamenti che disciplinano detta assicurazione, sempreché a quest’ultimo non sia già stato pagato il risarcimento. Proprio per evitare detta evenienza, il comma 2 del citato art. 142 prevede, in continuità con la precedente disposizione, un articolato meccanismo di interpello del danneggiato, con la richiesta di una dichiarazione attestante che lo stesso non abbia diritto ad alcuna prestazione da parte di istituti che gestiscono assicurazioni sociali obbligatorie, e di comunicazione al competente ente di assicurazione sociale, ove il danneggiato dichiari di avere diritto a tali prestazioni.

La surrogazione, consentendo all’istituto di recuperare dal terzo responsabile le spese sostenute per le prestazioni assicurative erogate al lavoratore danneggiato, impedisce a quest’ultimo di cumulare, per lo stesso danno, la rendita assicurativa e il risarcimento del danno dovutogli dal terzo e di conseguire così due volte la riparazione del medesimo pregiudizio subìto.

Sulla scorta di tali argomentazioni le Sezioni Unite hanno enunciato il principio di diritto secondo cui l’importo della rendita per l’inabilità permanente corrisposta dall’INAIL per l’infortunio “in itinere” occorso al lavoratore va detratto dall’ammontare del risarcimento dovuto, allo stesso titolo, al danneggiato da parte del terzo responsabile del fatto illecito.

Sez. U, n. 12567/2018, Giusti, Rv. 648650-01 ha, infine, affrontato la questione se nella liquidazione del danno patrimoniale relativo alle spese di assistenza che una persona invalida è costretta a sostenere vita natural durante per l’assistenza personale, debba tenersi conto, in detrazione, del valore capitalizzato della indennità di accompagnamento erogata dall’Istituto nazionale della previdenza sociale.

Anche in questo caso la Corte ha riaffermato i principi espressi nelle precedenti pronunce n. 12564, 12565 e 12566/2018, per poi chiarire che l’indennità di accompagnamento, riconosciuta dalla legge 11 febbraio 1980, n. 18, a favore di coloro, anche minori di diciotto anni, che si trovano nella impossibilità di deambulare senza l’aiuto permanente di un accompagnatore o che, non essendo in grado di compiere gli atti quotidiani della vita, necessitano di un’assistenza continua, ha una finalità solidaristica ed assistenziale.

Tale natura solidaristica non osta, di per sé sola, allo scomputo del beneficio dalla liquidazione del risarcimento del danno, purché ricorrano le seguenti condizioni:

a) che il vantaggio abbia la funzione di rimuovere le conseguenze prodottesi nel patrimonio del danneggiato per effetto dell’illecito;

b) che sia legislativamente previsto un meccanismo di riequilibrio idoneo ad assicurare che il responsabile dell’evento dannoso, destinatario della richiesta risarcitoria avanzata dalla vittima, sia collateralmente obbligato a restituire all’amministrazione pubblica l’importo corrispondente al beneficio da questa erogato all’assistito.

Sulla base di tali considerazioni, le Sezioni Unite hanno ritenuto che la pensione di accompagnamento in favore del danneggiato in conseguenza della minorazione invalidante è volta a compensare direttamente il medesimo pregiudizio patrimoniale causato dall’illecito, ovvero, appunto, quello consistente nella necessità di dover retribuire un collaboratore od assistente per le necessità della vita quotidiana del minore reso disabile per colpa medica. Per altro verso l’art. 41 della l. n. 183 del 2010, secondo cui “le pensioni, gli assegni e le indennità, spettanti agli invalidi civili ai sensi della legislazione vigente, corrisposti in conseguenza del fatto illecito di terzi, sono recuperate fino a concorrenza dell’ammontare di dette prestazioni dall’ente erogatore delle stesse nei riguardi del responsabile civile e della compagnia di assicurazioni”, prevede uno strumento di riequilibrio idoneo ad escludere che l’autore della condotta dannosa possa giovarsi di quella erogazione solidaristica.

Occorre, infine, dare atto che nell’anno in rassegna sull’istituto della “compensatio lucri cum damno” si sono pronunciate anche Sez. 1, n. 05841/2018, Valitutti, Rv. 647434-01, Sez. 1, n. 16088/2018, Nazzicone, Rv. 649565-01 e Sez. 3, n. 20909/2018, Moscarini, Rv. 650441-01.

7.2. Il danno da perdita di “chance” a carattere patrimoniale.

In tema di perdita di “chance” (per il quale si fa comunque rinvio all’apposito “focus”), la pronuncia più significativa è Sez. 3, n. 05641/2018, Travaglino, Rv. 648461-02 e 648461-03. Benché vertente sul danno da perdita di “chance” a carattere non patrimoniale (su cui vedi il par. 8.2.1), la sentenza ha offerto un significativo contributo alla ricostruzione giurisprudenziale dell’ontologia di tale pregiudizio fornendo indicazioni ermeneutiche valide anche in relazione alla “chance” a carattere patrimoniale.

Nella pronuncia suddetta la “chance” patrimoniale viene accostata all’interesse pretensivo così come elaborato dalla dottrina amministrativistica perché, al pari di tale ultima situazione giuridica soggettiva, presuppone la preesistenza di un “quid” su cui abbia inciso sfavorevolmente la condotta colpevole del danneggiante, impedendone la possibile evoluzione migliorativa.

Nel solco dell’impostazione privilegiata da tale decisione si è posta Sez. 3, n. 29829/2018, Scarano, Rv. 651843-01, la quale, in merito al pregiudizio da perdita di “chance” patrimoniale, ha chiarito che in caso di illecito commesso da un terzo nei confronti di una società in accomandita semplice con conseguente scioglimento, messa in liquidazione ed impossibilità di prosecuzione dell’attività sociale, il danno da perdita della possibilità di percepire gli utili si configura come perdita di “chance”, atteso che esso non consiste nella perdita di un vantaggio economico, ma nella perdita della concreta possibilità di conseguirlo e deve essere provato dal socio danneggiato, anche in via presuntiva, in termini di “possibilità perduta” la quale, oltre a rispondere ai parametri di apprezzabilità, serietà e consistenza, va accertata nell’“an” dal giudice di merito sulla base del criterio del “più probabile che non” e stimata nel “quantum” con valutazione equitativa.

Con specifico riferimento al nesso di causalità, occorre considerare Sez. L. n. 11165/2018, Bellé, Rv. 648187-01, secondo cui l’espletamento di una procedura concorsuale illegittima non comporta di per sé il diritto al risarcimento del danno da perdita di “chance”, occorrendo che il dipendente provi il nesso di causalità tra l’inadempimento datoriale ed il suddetto danno in termini prossimi alla certezza, essendo insufficiente il mero criterio di probabilità quantitativa dell’esito favorevole.

Ha, invece, ritenuto sufficiente una prova in termini di possibilità rispondente ai parametri di apprezzabilità, serietà e consistenza, Sez. 3, n. 14916/2018, Iannello E., Rv. 649303-01, in relazione al danno da perdita della possibilità di acquisire nuovi clienti conseguente al mancato inserimento nell’elenco telefonico dei dati identificativi del fruitore del servizio di telefonia fissa.

Per quanto riguarda la prova del danno da perdita di “chance”, di sicuro interesse è Sez. L, n. 25727/2018, Tria, Rv. 651055-02, che ha chiarito che in tema di risarcimento del danno per perdita di “chance”, come conseguenza del mancato riconoscimento di una qualifica superiore, l’onere di provare il nesso di causalità tra l’inadempimento datoriale ed il danno può essere rispettato dal lavoratore anche solo mediante presunzioni.

Ancora, va segnalata Sez. L, n. 13483/2018, Di Paolantonio, Rv. 648741-01, la quale ha precisato che in materia di collocamento obbligatorio, all’illegittima cancellazione dell’invalido dalle liste consegue un danno patrimoniale da perdita di “chance”, perché il comportamento illegittimo della P.A. incide sulla possibilità di ottenere un nuovo avviamento al lavoro; il danno in questione, che non coincide con le retribuzioni perse, va commisurato alla probabilità di ottenere il risultato utile sperato, con onere della prova – anche tramite presunzioni – a carico dell’interessato e liquidazione da compiersi in via equitativa.

In merito alla liquidazione del danno da perdita di “chance” a carattere patrimoniale, va, infine, data evidenza a Sez. 1, n. 19741/2018, M. Di Marzio, Rv. 650161-01, che ha affermato che in tema di società per azioni quotate in mercati regolamentati, qualora sia inadempiuto l’obbligo di offerta pubblica di acquisto totalitaria, ai sensi dell’art. 106 del d.lgs. n. 58 del 1998, gravante a carico dell’acquirente del pacchetto azionario che superi la soglia del 30 per cento, compete agli azionisti, cui l’offerta avrebbe dovuto essere rivolta, il risarcimento del danno patrimoniale che dimostrino di avere sofferto in conseguenza della perdita di “chance” di disinvestimento che l’OPA avrebbe assicurato loro; detto danno va determinato raffrontando il prezzo di rimborso delle azioni in caso di OPA con il loro valore effettivo, ritratto dalle risultanze di borsa, secondo il successivo andamento del titolo nell’arco temporale intercorrente tra il giorno in cui si è consumato l’inadempimento dell’obbligo e quello del disinvestimento, se vi è stato, o, in caso contrario, della proposizione della domanda risarcitoria.

7.3. Il danno da ritardato adempimento dell’obbligazione risarcitoria.

Nel corso del 2018 la tendenza dei giudici di legittimità a rimarcare la distinzione ontologica tra danno evento e danno-conseguenza e la correlata necessità di specifica allegazione e prova di tutte le conseguenze pregiudizievoli, patrimoniali e non patrimoniali, derivanti dall’illecito o dall’inadempimento è emersa anche con riferimento al danno da ritardato adempimento dell’obbligazione risarcitoria.

A fronte dell’orientamento interpretativo (per il quale si veda già Sez. 1, n. 04028/2017, Campanile, Rv. 644309-01), secondo il quale gli interessi compensativi sulla somma dovuta a titolo di risarcimento del danno (contrattuale o extracontrattuale) costituiscono una componente di quest’ultimo e, nascendo dal medesimo fatto generatore della obbligazione risarcitoria, devono ritenersi ricompresi nella domanda di risarcimento e possono essere liquidati d’ufficio, si sono registrate pronunce di segno contrario, volte a valorizzare anche “in subjecta materia” la necessità che il creditore-danneggiato provi, anche attraverso meccanismi presuntivi, l’esistenza del danno da ritardo.

In tal senso, merita di essere menzionata Sez. 3, n. 18564/2018, Scoditti, Rv. 649736-01, la quale ha premesso che nell’obbligazione risarcitoria da fatto illecito, che costituisce tipico debito di valore, è possibile che la mera rivalutazione monetaria dell’importo liquidato in relazione all’epoca dell’illecito, ovvero la diretta liquidazione in valori monetari attuali, non valgano a reintegrare pienamente il creditore, che va posto nella stessa condizione economica nella quale si sarebbe trovato se il pagamento fosse stato tempestivo. Ha, quindi, evidenziato che in tal caso è onere del creditore provare, anche in base a criteri presuntivi, che la somma rivalutata o liquidata in moneta attuale sia inferiore a quella di cui avrebbe disposto, alla stessa data della sentenza, se il pagamento della somma originariamente dovuta fosse stato tempestivo. Il che può dipendere, prevalentemente, dal rapporto tra remuneratività media del denaro e tasso di svalutazione nel periodo in considerazione, essendo ovvio che in tutti i casi in cui il primo sia inferiore al secondo, un danno da ritardo non è normalmente configurabile. Ne consegue che, per un verso, gli interessi cosiddetti compensativi costituiscono una mera modalità liquidatoria del danno da ritardo nei debiti di valore; per altro verso, non è configurabile alcun automatismo nel riconoscimento degli stessi, sia perché il danno da ritardo che con quella modalità liquidatoria si indennizza non necessariamente esiste, sia perché, di per sé, esso può essere comunque già ricompreso nella somma liquidata in termini monetari attuali.

Occorre evidenziare che tale pronuncia si pone nel solco dell’indirizzo ermeneutico, inaugurato da Sez. 3, n. 12452/2003, Amatucci, Rv. 566223-01, che in tempi recenti sta raccogliendo un significativo consenso tra i giudici di legittimità.

Coerente con tale impostazione è, infatti, Sez. 3, n. 07267/2018, Iannello, Rv. 648301-01, la quale ha chiarito che in tema di danno da ritardo nel pagamento di debito di valore, il riconoscimento di interessi compensativi costituisce una mera modalità liquidatoria alla quale il giudice può far ricorso col limite costituito dall’impossibilità di calcolare gli interessi sulle somme integralmente rivalutate dalla data dell’illecito. Non gli è invece inibito, purché esibisca una motivazione sufficiente a dar conto del metodo utilizzato, di riconoscere interessi anche al tasso legale su somme progressivamente rivalutate; ovvero sulla somma integralmente rivalutata, ma da epoca intermedia; ovvero, sempre sulla somma rivalutata e con decorrenza dalla data del fatto, ma con un tasso medio di interesse, in modo da tener conto che essi decorrono su una somma che inizialmente non era di quell’entità e che si è solo progressivamente adeguata a quel risultato finale; ovvero, di non riconoscerli affatto, in relazione a parametri di valutazione costituiti dal tasso medio di svalutazione monetaria e dalla redditività media del denaro nel periodo considerato.

Occorre, infine, dare evidenza a Sez. 1, n. 8766/2018, Fraulini, Rv. 648145-01, la quale ha fornito preziose indicazioni in ordine al computo del risarcimento del danno da lucro cessante stabilendo che in tema di responsabilità extracontrattuale da fatto illecito, sulla somma riconosciuta al danneggiato a titolo di risarcimento occorre che si consideri, oltre alla svalutazione monetaria (che costituisce un danno emergente), anche il nocumento finanziario subìto a causa della mancata tempestiva disponibilità della somma di denaro dovuta a titolo di risarcimento (quale lucro cessante). Qualora tale danno sia liquidato con la tecnica degli interessi, questi non vanno calcolati né sulla somma originaria, né sulla rivalutazione al momento della liquidazione, ma debbono computarsi o sulla somma originaria via via rivalutata anno per anno ovvero sulla somma originaria rivalutata in base ad un indice medio, con decorrenza sempre dal giorno in cui si è verificato l’evento dannoso.

7.4. Allegazione e prova del danno patrimoniale.

Nel corso dell’anno in rassegna si sono registrate pronunce di segno contrario in ordine alla necessità dell’allegazione e della prova del danno-conseguenza in materia di danno patrimoniale.

A fronte dell’orientamento prevalente che nega la configurabilità nel sistema ordinamentale di un danno “in re ipsa”, ossia coincidente con il danno-evento e non necessitante di allegazione e prova, permane, infatti, un indirizzo minoritario che sostiene che, in relazione a determinate fattispecie di danno patrimoniale, la prova delle conseguenze pregiudizievole dell’illecito non sia necessaria.

In tale ultimo senso si sono espresse Sez. 2, n. 20545/2018, Federico, Rv. 649998-01, secondo cui nel caso di occupazione illegittima di un immobile il danno patito dal proprietario è “in re ipsa”, discendendo dalla perdita della disponibilità del bene, la cui natura è normalmente fruttifera, e dalla impossibilità di conseguire l’utilità da esso ricavabile; Sez. 2, n. 21239/2018, Falaschi, Rv. 650352-01, che ha affermato che nel caso di ritardata consegna di un bene immobile al nuovo proprietario, il danno subìto da quest’ultimo è “in re ipsa”, discendendo dalla perdita della disponibilità del bene, la cui natura è normalmente fruttifera, e dalla impossibilità di conseguire l’utilità da esso ricavabile; Sez. 2, n. 17460/2018, Scarpa, Rv. 649269-01, che ha precisato che in materia di condominio, ove sia provata l’utilizzazione da parte di uno dei condomini della cosa comune in modo da impedirne l’uso, anche potenziale, agli altri partecipanti, è risarcibile in quanto “in re ipsa” il danno patrimoniale per lucro interrotto, come quello impedito nel suo potenziale esplicarsi, mentre non è configurabile come “in re ipsa” un danno non patrimoniale inteso come disagio psico-fisico conseguente alla mancata utilizzazione di un’area comune condominiale, potendosi ammettere il risarcimento del danno non patrimoniale solo in conseguenza della lesione di interessi della persona di rango costituzionale, oppure nei casi previsti dalla legge; Sez. 2, n. 21501/2018, Grasso Giuseppe, Rv. 650315-02, secondo cui in tema di violazione delle distanze tra costruzioni previste dal codice civile e dalle norme integrative, quali i regolamenti edilizi comunali, al proprietario confinante che lamenti tale violazione compete sia la tutela in forma specifica, finalizzata al ripristino della situazione antecedente al verificarsi dell’illecito, sia quella risarcitoria, e il danno che egli subisce (danno conseguenza e non danno evento) deve ritenersi “in re ipsa”, senza necessità di una specifica attività probatoria, essendo l’effetto, certo e indiscutibile, dell’abusiva imposizione di una servitù nel proprio fondo e, quindi, della limitazione del relativo godimento che si traduce in una diminuzione temporanea del valore della proprietà.

Secondo Sez. 1, n. 29990/2018, Sambito, Rv. 651590-01, in caso di occupazione illegittima di un immobile è, invece, ravvisabile, secondo una presunzione “iuris tantum”, l’esistenza di un danno connesso alla perdita di disponibilità del bene ed all’impossibilità di conseguirne la relativa utilità; in conseguenza di un simile spossessamento non sussiste uno specifico criterio di legge che indichi in qual modo il danno debba essere liquidato, ed occorre provvedere ad una stima equitativa, potendo anche utilizzarsi il criterio degli interessi legali calcolati sul prezzo di cessione volontaria del bene, quando esso non conduca ad una quantificazione del danno manifestamente incongrua in considerazione del caso concreto.

In senso contrario si è, invece, espressa Sez. 3, n. 13071/2018, Graziosi, Rv. 648709-01, secondo la quale nel caso di occupazione illegittima di un immobile il danno risentito dal proprietario non può ritenersi sussistente “in re ipsa”, atteso che tale concetto giunge ad identificare il danno con l’evento dannoso ed a configurare un vero e proprio danno punitivo, ponendosi così in contrasto sia con l’insegnamento delle Sezioni Unite della S.C. (sentenza n. 26972/2008) secondo il quale quel che rileva ai fini risarcitori è il danno-conseguenza, che deve essere allegato e provato, sia con l’ulteriore e più recente intervento nomofilattico (sentenza n. 16601/2017) che ha riconosciuto la compatibilità del danno punitivo con l’ordinamento solo nel caso di espressa sua previsione normativa, in applicazione dell’art. 23 Cost.; ne consegue che il danno da occupazione “sine titulo”, in quanto particolarmente evidente, può essere agevolmente dimostrato sulla base di presunzioni semplici, ma un alleggerimento dell’onere probatorio di tale natura non può includere anche l’esonero dalla allegazione dei fatti che devono essere accertati, ossia l’intenzione concreta del proprietario di mettere l’immobile a frutto.

In termini analoghi, sempre con riferimento al danno patrimoniale, Sez. 3, n. 31233/2018, Iannello, Rv. 651942-01, ha affermato che non può ritenersi “in re ipsa” il danno patito dal proprietario in conseguenza del ritardo nella consegna del proprio immobile conseguente all’inadempimento di incarico d’opera professionale (nella specie, progettazione e direzione dei lavori di costruzione).

Nella medesima prospettiva va, altresì, considerata Sez. 2, n. 10362/2018, Fortunato, Rv. 648354-01, secondo cui la realizzazione di opere in violazione di norme recepite dagli strumenti urbanistici locali, diverse da quelle in materia di distanze, non comportano immediato e contestuale danno per i vicini, il cui diritto al risarcimento presuppone l’accertamento di un nesso tra la violazione contestata e l’effettivo pregiudizio subìto. La prova di tale pregiudizio deve essere fornita dagli interessati in modo preciso, con riferimento alla sussistenza del danno ed all’entità dello stesso.

Inoltre, in materia di danno da lucro cessante, Sez. 6-2, n. 5613/2018, Orilia, n. 647991-01, ha affermato che il danno patrimoniale da mancato guadagno, concretandosi nell’accrescimento patrimoniale effettivamente pregiudicato o impedito dall’inadempimento dell’obbligazione contrattuale, presuppone la prova, sia pure indiziaria, dell’utilità patrimoniale che il creditore avrebbe conseguito se l’obbligazione fosse stata adempiuta, esclusi i mancati guadagni meramente ipotetici perché dipendenti da condizioni incerte, sicché la sua liquidazione richiede un rigoroso giudizio di probabilità (e non di mera possibilità), che può essere equitativamente svolto in presenza di elementi certi offerti dalla parte non inadempiente, dai quali il giudice possa sillogisticamente desumere l’entità del danno subìto.

In termini non dissimili, Sez. 2, n. 11829/2018, Criscuolo, Rv. 648497-01 ha chiarito che in tema di equa riparazione per la non ragionevole durata del processo, la natura indennitaria dell’obbligazione esclude la necessità dell’accertamento soggettivo della violazione, ma non l’onere del ricorrente di provare la lesione della sua sfera patrimoniale quale conseguenza diretta e immediata di detta violazione, esulando il pregiudizio dalla fattispecie del “danno evento”. Pertanto, anche qualora sopravvengano l’insolvenza del debitore o delle difficoltà dettate dalla necessità di un accertamento concorsuale, sono risarcibili solo i danni, ricollegabili ad una normale sequenza causale, per i quali si dimostri il nesso tra il ritardo ed il pregiudizio sofferto.

7.5. Il danno patrimoniale futuro.

Nel corso dell’annualità in esame la produzione giurisprudenziale in materia di danno patrimoniale futuro, pur non avendo posto in luce nuovi profili ed essendo rimasta in linea con le soluzioni interpretative della giurisprudenza precedente, ha fornito indicazioni utili all’applicazione dei principi acquisiti.

Merita, in particolare, di essere segnalata Sez. 3, n. 10321/2018, Frasca, Rv. 648793-01, che, con riferimento al danno patrimoniale conseguente alla perdita del rapporto parentale, ha precisato che il pregiudizio patrimoniale derivante al congiunto dalla perdita della fonte di reddito collegata all’attività lavorativa della vittima assume natura di danno emergente con riguardo al periodo intercorrente tra la data del decesso e quella della liquidazione giudiziale, mentre si configura come danno futuro e, dunque, come lucro cessante, con riguardo al periodo successivo alla liquidazione medesima; ne consegue che, ai fini della liquidazione, il giudice del merito può utilizzare il criterio di capitalizzazione di cui al r.d. n. 1403 del 1922 soltanto in ordine al danno successivo alla decisione, avuto riguardo al presumibile periodo di protrazione della capacità della vittima di produrre il reddito di cui trattasi, mentre, con riguardo al pregiudizio verificatosi sino al momento della decisione, deve operarsi il cumulo di rivalutazione ed interessi compensativi.

Di particolare interesse sono, inoltre, le pronunce che hanno affrontato la questione della prova del danno patrimoniale futuro.

Sez. 6-3, n. 12572/2018, F.M. Cirillo, Rv. 648918-01, ha ribadito che il danno patrimoniale futuro conseguente alla lesione della salute è risarcibile solo ove appaia probabile, alla stregua di una valutazione prognostica, che la vittima percepirà un reddito inferiore a quello che avrebbe altrimenti conseguito in assenza dell’infortunio. La pronuncia ha, altresì, rimarcato la distinzione, ferma nella precedente giurisprudenza di legittimità, tra il danno reddituale e il pregiudizio da lesione della “cenestesi lavorativa”, che consiste nella maggiore usura, fatica e difficoltà incontrate nello svolgimento dell’attività lavorativa, non incidente neanche sotto il profilo delle opportunità sul reddito della persona offesa e si risolve in una compromissione biologica dell’essenza dell’individuo e va liquidato onnicomprensivamente come danno alla salute, potendo il giudice, che abbia adottato per la liquidazione il criterio equitativo del valore differenziato del punto di invalidità, anche ricorrere ad un appesantimento del valore monetario di ciascun punto.

Sulla stessa linea, Sez. 3, n. 15737/2018, Frasca, Rv. 649412-01, ha precisato che il danno patrimoniale futuro, derivante da lesioni personali, va valutato su base prognostica ed il danneggiato può avvalersi anche di presunzioni semplici, sicché, provata la riduzione della capacità di lavoro specifica, se essa non rientra tra i postumi permanenti di piccola entità, è possibile presumere, salvo prova contraria, che anche la capacità di guadagno risulti ridotta nella sua proiezione futura – non necessariamente in modo proporzionale – qualora la vittima già svolga un’attività lavorativa. Tale presunzione, peraltro, copre solo l’“an” dell’esistenza del danno, mentre, ai fini della sua quantificazione, è onere del danneggiato dimostrare la contrazione dei suoi redditi dopo il sinistro, non potendo il giudice, in mancanza, esercitare il potere di cui all’art. 1226 c.c., perché esso riguarda solo la liquidazione del danno che non possa essere provato nel suo preciso ammontare, situazione che, di norma, non ricorre quando la vittima continui a lavorare e produrre reddito e, dunque, può dimostrare di quanto quest’ultimo sia diminuito.

Ancora, a proposito della prova del danno da riduzione della capacità di guadagno, Sez. 3, n. 11750/2018, Ambrosi, Rv. 648704-01, con riferimento alla specifica ipotesi di danno da riduzione della capacità di guadagno subìto da un minore in età scolare, in conseguenza della lesione dell’integrità psico-fisica, ha chiarito che tale pregiudizio può essere valutato attraverso il ricorso alla prova presuntiva allorché possa ritenersi ragionevolmente probabile che in futuro il danneggiato percepirà un reddito inferiore a quello che avrebbe altrimenti conseguito in assenza dell’evento lesivo, tenendo conto delle condizioni economico-sociali del danneggiato e della sua famiglia e di ogni altra circostanza del caso concreto. Ne consegue che ove l’elevata percentuale di invalidità permanente renda altamente probabile, se non certa, la menomazione della capacità lavorativa specifica ed il danno ad essa conseguente, il giudice può accertare in via presuntiva la perdita patrimoniale occorsa alla vittima e procedere alla sua valutazione in via equitativa, pur in assenza di concreti riscontri dai quali desumere i suddetti elementi.

Per quanto concerne i criteri di liquidazione del danno da perdita della capacità di produrre reddito, Sez. 3, n. 25370/2018, Guizzi, Rv. 651331-01, ha chiarito che la liquidazione del danno patrimoniale da incapacità lavorativa, patito in conseguenza di un sinistro stradale da un soggetto percettore di reddito da lavoro, deve avvenire ponendo a base del calcolo il reddito effettivamente perduto dalla vittima, e non il triplo della pensione sociale (oggi, assegno sociale). Il ricorso a tale ultimo criterio, ai sensi dell’art. 137 cod. ass., può essere consentito solo quando il giudice di merito accerti, con valutazione di fatto non sindacabile in sede di legittimità, che la vittima al momento dell’infortunio godeva sì un reddito, ma questo era talmente modesto o sporadico da rendere la vittima sostanzialmente equiparabile ad un disoccupato.

Con riferimento al danno da mancato guadagno derivante al congiunto dalla perdita della fonte di reddito collegata all’attività lavorativa della vittima, Sez. 3, n. 29830/2018, Scarano, Rv.651845-01 ha, invece, affermato che tale pregiudizio, da valutarsi con criteri probabilistici, in via presuntiva e con equo apprezzamento del caso concreto, va liquidato in via necessariamente equitativa.

Ancora, in tema di liquidazione del danno da perdita della capacità lavorativa e di guadagno, Sez. 3, 09048/2018, Rossetti, Rv. 648487-01, ha stabilito che tale pregiudizio deve essere liquidato sommando e rivalutando i redditi già perduti dalla vittima tra il momento del fatto illecito e quello della liquidazione, nonché attraverso il metodo della capitalizzazione e, cioè, moltiplicando i redditi futuri perduti per un adeguato coefficiente di capitalizzazione corrispondente all’età della vittima al tempo della liquidazione. Se il danno è patito da persona che al momento del fatto non era in età da lavoro, la liquidazione deve avvenire sommando e rivalutando i redditi figurativi perduti dalla vittima tra il momento in cui ha raggiunto l’età lavorativa e quello della liquidazione e capitalizzando i redditi futuri in base al predetto coefficiente di capitalizzazione. Qualora la liquidazione avvenga prima del raggiungimento dell’età lavorativa, la capitalizzazione deve essere operata in base ad un coefficiente corrispondente all’età della vittima al momento del presumibile ingresso nel mondo del lavoro oppure in base ad un coefficiente corrispondente all’età del danneggiato al tempo della liquidazione, ma in questo caso previo abbattimento del risultato applicando il coefficiente di minorazione per anticipata capitalizzazione.

8. Il danno non patrimoniale.

8.1. Nozione e caratteri del danno non patrimoniale.

Nel corso dell’annualità in rassegna il costante processo di ridefinizione giurisprudenziale dello statuto del danno non patrimoniale delineato dai noti arresti delle Sezioni Unite del 2008 (n. 26972/2008, Preden, Rv. 605494-01; n. 26973/2008, Preden, non massimata; n. 26974/2008, Preden, non massimata; n. 26975/2008, Preden, non massimata) ha ricevuto ulteriori significativi apporti.

La S.C. ha mostrato di prestare sempre più consapevole adesione all’orientamento interpretativo che è venuto delineandosi negli ultimi anni (per il quale si veda già Sez. 3, n. 18641/2011, Travaglino, Rv. 619531-01), sulla base di un approccio ermeneutico non del tutto coincidente con quello adottato dalle pronunce nomofilattiche del 2008, secondo le quali il danno non patrimoniale da lesione della salute costituisce una categoria ampia ed onnicomprensiva, nella cui liquidazione il giudice deve tenere conto di tutti i pregiudizi concretamente patiti dalla vittima, ma senza duplicare il risarcimento attraverso l’attribuzione di nomi diversi a pregiudizi identici, con la conseguenza che è inammissibile, perché costituisce una duplicazione risarcitoria, la congiunta attribuzione alla vittima di lesioni personali del risarcimento sia per il danno biologico, sia per il danno morale, inteso quale sofferenza soggettiva, il quale costituisce necessariamente una componente del primo, come pure la liquidazione del danno biologico separatamente da quello c.d. estetico, da quello alla vita di relazione e da quello cosiddetto esistenziale.

Nel 2018 la Corte ha provveduto ad una parziale ridefinizione di tale assetto, nel senso di ritenere che la reale essenza del danno non patrimoniale conseguente alla lesione di interessi costituzionalmente tutelati sia, in realtà, duplice, manifestandosi tanto come sofferenza interiore, quanto come modificazione peggiorativa della vita quotidiana, e in tal modo dando luogo a pregiudizi diversi e, quindi, autonomamente risarcibili, ove allegati e provati.

Con particolare riguardo al danno alla salute, enfatizzando la specificità dei rispettivi tratti fenomenologici, la giurisprudenza della Terza Sezione ha inteso differenziare, dal punto di vista “ontologico”, il danno biologico tradizionalmente inteso (ricalcato sulla definizione di cui agli artt. 138 e 139 del d.lgs. n. 209/2005) dal “danno morale”, corrispondente alla sofferenza interiore patita dal soggetto in conseguenza della lesione del suo diritto alla salute. Il “danno morale”, dunque, non si atteggia più quale mera componente del danno alla salute (liquidabile mediante “personalizzazione” in aumento dei valori “tabellari”), ma integra una voce di pregiudizio concettualmente autonoma, che, come tale, merita una liquidazione differenziata. In tal modo, viene marcata la differenza tra “danno morale” e danno “dinamico-relazionale” o “esistenziale”, di modo che, se la liquidazione di quest’ultimo in aggiunta al danno biologico integra duplicazione risarcitoria (proprio perché verrebbero considerate due volte le conseguenze pregiudizievoli afferenti agli aspetti dinamico-relazionali della persona), tale duplicazione non si ha laddove si attribuisca al danneggiato, oltre al danno biologico, una ulteriore somma a titolo di risarcimento dei pregiudizi non aventi fondamento medico-legale (quali, ad esempio, il dolore dell’animo, la vergogna, la disistima di sé, la paura, la disperazione).

Nell’anno in rassegna, la nuova impostazione ha trovato la sua consacrazione, anzitutto, in Sez. 3, n. 00901/2018, Travaglino, Rv. 647125-01-02-03-04, che si distingue per l’organicità e per il rigore sistematico con cui vengono sviluppati i passaggi argomentativi che supportano la nuova impostazione.

La pronuncia prende le mosse dai concetti di unitarietà e di onnicomprensività del danno alla persona delineati dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 26972/2008, Preden, Rv. 605494-01, ribadendo, sulla scorta dei relativi insegnamenti, che per natura unitaria del danno non patrimoniale deve intendersi l’unitarietà dell’accertamento e della liquidazione di tale pregiudizio rispetto a qualsiasi interesse costituzionalmente rilevante non suscettibile di valutazione economica e che la nozione di onnicomprensività indica l’esigenza di tenere conto di tutte le conseguenze derivate dall’evento di danno, nessuna esclusa, fermo il concorrente limite di evitare duplicazioni risarcitorie attribuendo nomi diversi a pregiudizi identici e di non oltrepassare una soglia minima di apprezzabilità. Sulla scorta di tali considerazioni, la sentenza in esame ha ribadito la necessità che l’accertamento e la liquidazione del danno non patrimoniale tengano conto della reale fenomenologia del danno alla persona e dell’assunto per il quale oggetto della valutazione giudiziale è, in questo caso, la sofferenza umana conseguente alla lesione di un diritto costituzionalmente protetto. Ha, quindi, proposto una rilettura delle pronunce delle Sezioni Unite del 2008 condotta attraverso un’ermeneutica di tipo induttivo che, dopo avere identificato la situazione soggettiva protetta a livello costituzionale, consenta al giudice del merito una rigorosa analisi e valutazione tanto dell’aspetto interiore del danno (la sofferenza morale in tutte le sue manifestazioni), quanto del suo impatto modificativo in pejus sulla vita quotidiana (danno esistenziale, o danno alla vita di relazione da intendersi quale danno dinamico-relazionale). È, infatti, dalla fenomenologia del danno non patrimoniale che si coglie, secondo la Terza Sezione, la sua vera duplice essenza di sofferenza interiore e di modificazione peggiorativa delle dinamiche relazionali. E tali danni sono diversi e, quindi, autonomamente risarcibili se allegati e provati.

In linea con tali indicazioni interpretative, ulteriori importanti puntualizzazioni sull’ontologia del danno non patrimoniale sono state svolte da Sez. 3, n. 07513/2018, Rossetti, Rv. 648303-01, secondo la quale, con particolare riferimento al danno non patrimoniale da lesione della salute, se, per un verso, costituisce duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione del “danno biologico” e del “danno dinamico-relazionale”, atteso che con quest’ultimo si individuano pregiudizi di cui è già espressione il grado percentuale di invalidità permanente (quali i pregiudizi alle attività quotidiane, personali e relazionali, indefettibilmente dipendenti dalla perdita anatomica o funzionale), per altro verso, non costituisce duplicazione la congiunta attribuzione del “danno biologico” e di una ulteriore somma a titolo di risarcimento dei pregiudizi che non hanno fondamento medico-legale, perché non aventi base organica ed estranei alla determinazione medico-legale del grado di percentuale di invalidità permanente, rappresentati dalla sofferenza interiore (quali, ad esempio, il dolore dell’animo, la vergogna, la disistima di sé, la paura, la disperazione). Ne deriva che, ove sia dedotta e provata l’esistenza di uno di tali pregiudizi non aventi base medico-legale, essi dovranno formare oggetto di separata valutazione e liquidazione (come è confermato dal testo degli artt. 138 e 139 del d.lgs. n. 209 del 2005 così come modificati dalla legge n. 124 del 2017 nella parte in cui sotto l’unitaria definizione di danno non patrimoniale distinguono il danno dinamico-relazionale causato dalle lesioni da quello morale). Di conseguenza, ha precisato la pronuncia in esame, il danno non patrimoniale non derivante da una lesione della salute, ma conseguente al “vulnus” di altri interessi costituzionalmente tutelati, va liquidato, non diversamente che nel caso di danno biologico, tenendo conto tanto dei pregiudizi patiti dalla vittima nella relazione con sé stessa (la sofferenza interiore e il sentimento di afflizione in tutte le sue possibili forme, id est il danno morale interiore), quanto di quelli relativi alla dimensione dinamico-relazionale della vita del soggetto leso, in ogni caso senza automatismi risarcitori e dopo accurata e approfondita istruttoria.

L’indirizzo in questione ha ottenuto ulteriore conferma da Sez. 3, n. 23469/2018, Scoditti, Rv. 650858-01, secondo cui la natura unitaria ed omnicomprensiva del danno non patrimoniale deve essere interpretata nel senso che esso può riferirsi a qualsiasi lesione di un interesse o valore costituzionalmente protetto non suscettibile di valutazione economica, con conseguente obbligo, per il giudice di merito, di tenere conto, a fini risarcitori, di tutte le conseguenze “in peius” derivanti dall’evento di danno, nessuna esclusa, e con il concorrente limite di evitare duplicazioni attribuendo nomi diversi a pregiudizi identici. Ne consegue che, a fini liquidatori, si deve procedere ad una compiuta istruttoria finalizzata all’accertamento concreto e non astratto del danno, dando ingresso a tutti i necessari mezzi di prova, ivi compresi il fatto notorio, le massime di esperienza e le presunzioni, valutando distintamente, in sede di quantificazione del danno non patrimoniale alla salute, le conseguenze subite dal danneggiato nella sua sfera interiore (c.d. danno morale, “sub specie” del dolore, della vergogna, della disistima di sé, della paura, della disperazione) rispetto agli effetti incidenti sul piano dinamico-relazionale (che si dipanano nell’ambito delle relazioni di vita esterne), autonomamente risarcibili.

Nello stesso senso si sono, inoltre, espresse Sez. 3, n. 27482/2018, Olivieri, Rv. 651338-01, la quale ha ribadito la distinzione ontologica, nell’ambito del danno non patrimoniale da lesione della salute, tra il danno biologico, rappresentato dall’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico relazionali della vita del danneggiato, e il cd. danno morale soggettivo, inteso come sofferenza interiore patita dal soggetto in conseguenza della lesione del suo diritto alla salute; e Sez. 3, n. 20795/2018, Porreca, Rv. 650413-01, secondo cui, in tema di risarcimento del danno non patrimoniale, costituisce duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione del danno biologico e del danno esistenziale, mentre, come confermato dall’art. 138, comma 2, lettera e) del d.lgs. n. 209 del 2005, nel testo modificato dalla l. n. 124 del 2017, una differente ed autonoma valutazione deve essere compiuta con riferimento alla sofferenza interiore patita dal soggetto, posto che la fenomenologia del pregiudizio non patrimoniale comprende tanto l’aspetto interiore del danno sofferto (danno morale sub specie di dolore, vergogna, disistima di sé, paura, disperazione), quanto quello dinamico-relazionale, coincidente con la modificazione peggiorativa delle relazioni di vita esterne del soggetto. In senso conforme va, poi, richiamata Sez. 3, n. 32944/2018, Dell’Utri, non massimata. 

Merita, altresì, di essere menzionata Sez. 3, n. 26727/2018, Graziosi, Rv. 650909-01, che ha contribuito a delineare la morfologia di una peculiare specie di danno morale, il danno morale terminale. Secondo la Terza Sezione, in caso di morte cagionata da un illecito, nel periodo di tempo interposto tra la lesione e la morte ricorre il danno biologico terminale, cioè il danno biologico “stricto sensu” (ovvero danno al bene “salute”), al quale, nell’unitarietà del “genus” del danno non patrimoniale, può aggiungersi un danno morale peculiare improntato alla fattispecie (“danno morale terminale”), ovvero il danno da percezione, concretizzabile sia nella sofferenza fisica derivante dalle lesioni, sia nella sofferenza psicologica (agonia) derivante dall’avvertita imminenza dell’“exitus”, se nel tempo che si dispiega tra la lesione ed il decesso la persona si trovi in una condizione di “lucidità agonica”, in quanto in grado di percepire la sua situazione ed in particolare l’imminenza della morte, essendo quindi irrilevante, a fini risarcitori, il lasso di tempo intercorso tra la lesione personale ed il decesso nel caso in cui la persona sia rimasta “manifestamente lucida”.

Con specifico riguardo al danno alla salute, dando continuità alla precedente giurisprudenza, Sez. 6-3, n. 12572/2018, F.M. Cirillo, Rv. 648918-01, vi ha fatto rientrare il pregiudizio da lesione della c.d. cenestesi lavorativa, definito come “compromissione biologica dell’essenza dell’individuo” e consistente nella maggiore usura, fatica e difficoltà incontrate nella svolgimento dell’attività lavorativa, non incidente neanche sotto il profilo delle opportunità sul reddito del danneggiato.

In diverse pronunce è stata, invece, marcata la distinzione tra il danno biologico e il danno da lesione del diritto di autodeterminazione del paziente, causato dalla violazione, da parte del sanitario, dell’obbligo di acquisire il consenso informato all’intervento (o ad altra prestazione medica). In argomento, si segnalano Sez. 3, n. 11749/2018, Spaziani, Rv. 648644-01; Sez. 3, n. 17022/2018, D’Arrigo, Rv. 649442-01; Sez. 3, n. 19199/2918, Olivieri, Rv. 649949-01; Sez. 3, n. 02369/2018, Gianniti, Rv. 647593-01; Sez. 3, n. 02070/2018, Di Florio, Rv. 647589-01, per la cui analitica illustrazione si veda il paragrafo 8.3.

Va, infine, data evidenza alle pronunce che nell’anno in rassegna hanno riaffermato il necessario collegamento tra la risarcibilità del danno non patrimoniale e la lesione di un interesse o valore costituzionalmente protetto – non configurabile secondo Sez. 3, n. 13370/2018, Pellecchia, Rv. 649033-01 in relazione all’esigenza di conservare memoria di un evento di particolare importanza come il giorno delle nozze – o, comunque, con una previsione di legge espressa, come nel caso di danno da “vacanza rovinata”, in relazione al quale Sez. 3, n. 17724/2018, Di Florio, Rv. 650180-02 ha chiarito che in tale fattispecie spetta al giudice di merito procedere alla valutazione della domanda risarcitoria alla stregua dei generali precetti di correttezza e buona fede e alla considerazione dell’importanza del danno, fondata sul bilanciamento, per un verso, del principio di tolleranza delle lesioni minime e per l’altro, della condizione concreta delle parti.

8.2. La prova del danno non patrimoniale.

Secondo l’orientamento attualmente prevalente della giurisprudenza di legittimità il danno-conseguenza, quale elemento costitutivo dell’illecito aquiliano e della responsabilità per inadempimento, necessita sempre di specifica allegazione e di prova, non potendo il pregiudizio risarcibile essere identificato con l’evento dannoso. La nozione di danno “in re ipsa” configura, invero, un danno punitivo, ponendosi, così, in contrasto sia con l’insegnamento delle Sezioni Unite (Sez. U., n. 26972/2008, Preden, Rv. 605494-01), secondo il quale quel che rileva ai fini risarcitori è il danno-conseguenza, che deve essere allegato e provato, sia con l’ulteriore e più recente intervento nomofilattico (Sez. U., n. 16601/2017, D’Ascola, Rv. Rv. 644914-01) che ha riconosciuto la compatibilità del danno punitivo con l’ordinamento solo nel caso di espressa sua previsione normativa, in applicazione dell’art. 23 Cost..

Come già accennato nel par. 7.3., occorre, tuttavia, rilevare che in materia di danno patrimoniale nel corso del 2018 si sono registrate alcune pronunce che hanno dato continuità all’indirizzo interpretativo minoritario che, discostandosi dai principi affermati dalle più volte richiamate pronunce nomofilattiche del 2008, con specifico riferimento al danno patrimoniale conseguente alla lesione dei diritti reali, ha continuato a sostenerne la natura “in re ipsa” (si vedano le citate Sez. 2, n. 20545/2018, Federico, Rv. 649998-01, Sez. 2, n. 21239/2018, Falaschi, Rv. 650352-01, Sez. 2, n. 17460/2018, Scarpa, Rv. 649269-01, Sez. 2, n. 21501/2018, Grasso Giuseppe, Rv. 650315-02).

In materia di danno non patrimoniale anche nell’annualità in rassegna, si è, invece, registrata un’uniforme tendenza dei giudici di legittimità ad attestarsi sul convincimento per il quale il danno-conseguenza non può ritenersi coincidente con il danno evento e, pertanto, esige specifica allegazione e dimostrazione.

La cospicua produzione sul tema – proveniente in via preponderante dalla Terza Sezione, ma in parte anche dalla Prima, dalla Seconda e dalla Quarta Sezione – ha arricchito significativamente la casistica in materia, offrendo importanti puntualizzazioni con specifico riguardo all’impiego della prova presuntiva e delle massime di esperienza.

Di particolare interesse sono le indicazioni ritraibili da Sez. 3, n. 00907/2018, Ambrosi, Rv. 647127-03, la quale, valorizzando l’insegnamento della citata sentenza delle Sezioni Unite n. 26972/2008, ha affermato che il danno non patrimoniale da uccisione di un congiunto, quale tipico danno-conseguenza, non coincide con la lesione dell’interesse, ovvero non è “in re ipsa” e, pertanto, deve essere allegato e provato da chi chiede il relativo risarcimento, anche se, trattandosi di un pregiudizio proiettato nel futuro, è consentito il ricorso a valutazioni prognostiche ed a presunzioni sulla base di elementi obiettivi che è onere del danneggiato fornire, mentre la sua liquidazione avviene in base a valutazione equitativa che tenga conto dell’intensità del vincolo familiare della situazione di convivenza e di ogni ulteriore circostanza utile, quali la consistenza più o meno ampia del nucleo familiare, le abitudini di vita, l’età della vittima e dei singoli superstiti ed ogni altra circostanza allegata.

Ancora, Sez. 3, n. 03767/2018, Rossetti, Rv. 648035-02, ha chiarito che, in linea generale, spetta alla vittima di un fatto illecito dimostrare i fatti costitutivi della sua pretesa e, di conseguenza, l’esistenza del danno, ma tale prova può essere fornita anche attraverso presunzioni semplici, ovvero invocando massime di esperienza e l’“id quod plerumque accidit”. In particolare, nel caso di morte di un prossimo congiunto (coniuge, genitore, figlio, fratello), l’esistenza stessa del rapporto di parentela deve far presumere, secondo l’“id quod plerumque accidit”, la sofferenza del familiare superstite, giacché tale conseguenza è per comune esperienza di norma connaturale all’essere umano. La pronuncia in esame ha, tuttavia, precisato che si tratta di una” “praesumptio hominis”, con la conseguente possibilità per il convenuto di dedurre e provare l’esistenza di circostanze concrete dimostrative dell’assenza di un legame affettivo tra la vittima ed il superstite.

Merita, inoltre, di essere menzionata Sez. 1, n. 13992/2018, De Marzo, Rv. 649164-01, secondo la quale nell’ambito di un giudizio promosso per ottenere il risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale conseguente al fatto che nei pressi dell’azienda e dell’abitazione degli attori era stata collocata una discarica, ha ribadito la necessità per il danneggiato di allegare specificamente e di dimostrare nella loro specificità le singole voci di danno richieste.

Inoltre, secondo Sez. 3, n. 11269/2018, Olivieri, Rv. 648606-01, la lesione di un diritto inviolabile non determina, neanche quando il fatto illecito integri gli estremi di un reato, la sussistenza di un danno non patrimoniale “in re ipsa”, essendo comunque necessario che la vittima abbia effettivamente patito un pregiudizio, il quale va allegato e provato, anche attraverso presunzioni semplici.

Occorre, poi, considerare Sez. 3, n. 02056/2018, Scarano, Rv. 647905-01, che ha chiarito che il danno non patrimoniale, con particolare riferimento a quello cd. esistenziale, asseritamente provocato dall’illegittima approvazione da parte di un Comune della graduatoria per la copertura di un posto di medico di base, non può essere considerato “in re ipsa”, ma deve essere provato secondo la regola generale dell’art. 2697 c.c., dovendo consistere nel radicale cambiamento di vita, nell’alterazione della personalità e nello sconvolgimento dell’esistenza del soggetto. Ne consegue che la relativa allegazione deve essere circostanziata e riferirsi a fatti specifici e precisi non potendo risolversi in mere enunciazioni di carattere generico, astratto, eventuale ed ipotetico.

In termini analoghi si sono espresse Sez. 3, n. 07594/2018, Scarano, Rv. 648443-01, secondo cui in tema di responsabilità civile, il danno all’immagine ed alla reputazione (nella specie, “per illegittima segnalazione alla Centrale Rischi”), in quanto costituente “danno conseguenza”, non può ritenersi sussistente “in re ipsa”, dovendo essere allegato e provato da chi ne domanda il risarcimento; Sez. 3, n. 11749/2018, Spaziani, Rv. 648644-01, secondo cui dalla lesione del diritto fondamentale all’autodeterminazione determinata dalla violazione, da parte del sanitario, dell’obbligo di acquisire il consenso informato deriva, secondo il principio dell’“id quod plerumque accidit” un danno-conseguenza autonomamente risarcibile – costituito dalla sofferenza e dalla contrazione della libertà di disporre di sé stesso psichicamente e fisicamente – che non necessita di una specifica prova, salva la possibilità di contestazione della controparte e di allegazione e prova, da parte del paziente, di fatti a sé ancora più favorevoli di cui intenda giovarsi a fini risarcitori; e Sez. 2., n. 28742/2018, Bellini, Rv. 651525-01, secondo cui il danno non patrimoniale, con particolare riferimento a quello cd. esistenziale, non può essere considerato “in re ipsa”, ma deve essere provato secondo la regola generale dell’art. 2697 c.c., dovendo consistere nel radicale cambiamento di vita, nell’alterazione della personalità e nello sconvolgimento dell’esistenza del soggetto. Ne consegue che la relativa allegazione deve essere circostanziata e riferirsi a fatti specifici e precisi, non potendo risolversi in mere enunciazioni di carattere generico, astratto, eventuale ed ipotetico.

Di sicuro interesse sono Sez. 3, 11269/2018, Olivieri, Rv. 648606-01, che ha ribadito il principio, già affermato dalla giurisprudenza precedente, secondo cui la lesione di un diritto inviolabile non determina, neanche quando il fatto illecito integri gli estremi di un reato, la sussistenza di un danno non patrimoniale “in re ipsa”, essendo comunque necessario che la vittima abbia effettivamente patito un pregiudizio, il quale va allegato e provato anche attraverso presunzioni semplici; e Sez. 3, n. 20885/2018, Rubino, Rv. 650433-01, secondo la quale in tema di responsabilità professionale del medico, l’inadempimento dell’obbligo di informazione sussistente nei confronti del paziente può assumere rilievo a fini risarcitori – anche in assenza di un danno alla salute o in presenza di un danno alla salute non ricollegabile alla lesione del diritto all’informazione – a condizione che sia allegata e provata, da parte dell’attore, l’esistenza di pregiudizi non patrimoniali derivanti dalla violazione del diritto fondamentale all’autodeterminazione in sé considerato, sempre che essi superino la soglia minima di tollerabilità imposta dai doveri di solidarietà sociale e non siano futili, ovvero consistenti in meri disagi o fastidi.

In termini analoghi Sez. 3, n. 32939/2018, Scrima, Rv. 652072-01, ha stabilito che il danno non patrimoniale della pubblica amministrazione (nella specie dell’Amministrazione della giustizia), pur non potendosi ritenere “in re ipsa”, è configurabile “ex se” allorché sia riscontrato un fatto comportante l’asservimento della pubblica funzione ad interessi privatistici, per gli evidenti riflessi negativi sul prestigio della p.a. e sulla fiducia verso di essa dei cittadini.

In materia lavoristica, va data evidenza a Sez. L., n. 25743/2018, Cinque, Rv. 651145-01, secondo la quale il danno derivante da demansionamento e dequalificazione professionale (per la cui trattazione analitica si rinvia al cap. XVII) non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale, ma può essere provato dal lavoratore anche ai sensi dell’art. 2729 c.c., attraverso l’allegazione di elementi presuntivi gravi, precisi e concordanti, potendo a tal fine essere valutati la qualità e quantità dell’attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento, la diversa e nuova collocazione lavorativa assunta dopo la prospettata dequalificazione.

8.2.1. Il danno da perdita di “chance” a carattere non patrimoniale

Nell’anno in rassegna l’elaborazione della giurisprudenza di legittimità ha offerto significativi contributi alla definizione del risalente dibattito sulla natura giuridica, la morfologia e la collocazione sistematica del danno da perdita di “chance”, soprattutto attraverso le due pronunce già prima citate, Sez. 3, n. 05641/2018, Travaglino, Rv. 648461-01-02-03 e Sez. 3, n. 06688/2018, Graziosi, Rv. 648486-01, che si distinguono, oltre che per l’ampiezza dell’iter motivazionale, per l’originalità delle soluzioni interpretative proposte (sul tema si fa comunque rinvio all’apposito “focus”).

Al fine di enucleare i tratti connotanti della chance non patrimoniale, con la prima delle suddette pronunce la Terza Sezione ha, innanzitutto, evidenziato l’insufficienza del c.d. “modello patrimonialistico”, che storicamente ha costituito il riferimento teorico dell’evoluzione giurisprudenziale in tema di perdita di chance in quanto esso mal si concilia con la perdita della possibilità di conseguire un risultato migliore sul piano non patrimoniale. La “chance” patrimoniale presenta, infatti, i connotati dell’interesse pretensivo così come costruito dalla dottrina amministrativa e, quindi, postula la preesistenza di un “quid” su cui sia andata ad incidere sfavorevolmente la condotta colpevole del danneggiante, impedendone la possibile evoluzione migliorativa. La “chance non pretensiva”, invece, pur essendo anch’essa rappresentata, sul piano funzionale, dalla possibilità di conseguire un risultato migliorativo della situazione preesistente (segnatamente nel sistema della responsabilità sanitaria), è morfologicamente diversa dalla prima, in quanto si innesta su una preesistente situazione sfavorevole (cioè patologica), rispetto alla quale non può in alcun modo rinvenirsi un “quid” inteso come preesistenza positiva.

Ne consegue, secondo la pronuncia in esame, che, in sede risarcitoria, il giudice di merito deve inevitabilmente tener conto di tale diversità, sia pure sul piano strettamente equitativo, ai fini della liquidazione del danno.

In particolare, in caso di perdita di una “chance” a carattere non patrimoniale, il risarcimento non potrà essere proporzionale al “risultato perduto” (consistente, nel caso deciso dalla S.C., nelle maggiori chances di sopravvivenza di un paziente al quale non era stata diagnosticata tempestivamente una patologia tumorale con esiti certamente mortali), ma andrà commisurato, in via equitativa, alla “possibilità perduta” di realizzarlo (intesa quale evento di danno rappresentato in via diretta ed immediata dalla minore durata della vita e/o dalla peggiore qualità della stessa). Tale possibilità, per integrare gli estremi del danno risarcibile, deve necessariamente attingere ai parametri dell’apprezzabilità, serietà e consistenza, rispetto ai quali il valore statistico-percentuale, ove in concreto accertabile, può costituire solo un criterio orientativo, in considerazione della infungibile specificità del caso concreto.

Ulteriori riflessioni sul tema possono essere tratte da Sez. 3, n. 06688/2018, Graziosi, Rv. 648486-01, la quale, in materia di responsabilità sanitaria, ha tracciato una distinzione tra il danno da perdita di “chance” di guarigione o sopravvivenza e il danno risentito dal malato terminale in conseguenza dell’incompleta informazione da parte del sanitario e consistente in un pregiudizio alla qualità della vita nel tempo conclusivo dell’esistenza.

Sul sanitario che esegua un esame diagnostico grava l’obbligo di informare il paziente, in forma completa e con modalità congrue al livello di conoscenze scientifiche dello stesso, sugli esiti dell’accertamento, sul grado di rischio delle patologie riscontrate e sulla necessità ed urgenza di ulteriori approfondimenti diagnostici, dal cui inadempimento può conseguire in capo al paziente un danno da perdita di “chance” di guarigione o di sopravvivenza. Questo danno, sottolinea la Terza Sezione, presuppone che il paziente, benché malato grave o anche gravissimo, abbia, tuttavia, ancora dinanzi – ove la condotta medica fosse corretta – la possibilità di uscire da tale situazione mediante una guarigione o una sopravvivenza di entità consistente, misurabile in termini di anni (cd. lungo-sopravvivenza), e si distingue dal diverso pregiudizio alla qualità della vita nel tempo conclusivo dell’esistenza, il quale presuppone, invece, che il paziente versi nella condizione di malato terminale, la cui sopravvivenza – sempre nell’ipotesi di condotta medica corretta – sia circoscritta ad un tempo limitato, misurabile in termini di poche settimane o di pochi mesi.

Tale ultimo pregiudizio non è riconducibile al danno da perdita di “chance” in quanto non attiene al mancato conseguimento di qualcosa che il soggetto non ha mai avuto sotto il profilo della mera possibilità di ottenerlo, ma concerne la lesione del diritto relativo a beni che il soggetto già aveva, ovvero il diritto alle cure palliative per mantenere il fisico in uno stato sensorialmente tollerabile, il diritto all’esercizio delle proprie capacità psicofisiche e alla conseguente gestione libera e consapevole di sé stesso e di cui la condotta medica lo ha privato.

Va data, infine, evidenza a Sez. 3, n. 03691/2018, Sestini, Rv. 647601-01, che ha chiarito che, in tema di danno alla persona, la perdita di “chance”, ovvero di una concreta possibilità di conseguire un determinato bene della vita, integrante la lesione di un’entità patrimoniale attuale suscettibile di autonoma valutazione economica, non può coesistere con il danno alla salute (e con il correlato danno morale), il quale presuppone l’accertamento che l’illecito si sia concretizzato in una menomazione dell’integrità psicofisica, e che, di conseguenza, l’inadempimento del sanitario abbia non soltanto privato il paziente di una possibilità di cura ma concretamente inciso sullo stato di salute.

8.3. Il danno non patrimoniale da lesione del diritto all’autodeterminazione.

Le pronunce del 2018 in tema di consenso informato e di danno da nascita indesiderata hanno offerto importanti indicazioni ai fini dell’individuazione e dell’inquadramento dei pregiudizi conseguenti alla lesione del diritto all’autodeterminazione.

Sempre più avvertita è risultata l’esigenza dei giudici di legittimità di porre in risalto l’autonomia della prestazione oggetto dell’obbligo di informazione gravante sui medici rispetto alla prestazione sanitaria e, al contempo, il carattere plurioffensivo della violazione di detto obbligo.

L’inosservanza dell’obbligo di acquisizione del consenso informato determina, innanzitutto, la lesione del diritto fondamentale all’autodeterminazione ed eventualmente anche la lesione del diritto alla salute ove l’intervento sanitario, non preceduto da un’adeguata informazione del paziente circa i possibili effetti pregiudizievoli non imprevedibili, sia stato correttamente eseguito in base alle regole dell’arte, ma da esso siano, tuttavia, derivate conseguenze dannose per la salute.

L’autonomia della violazione del diritto all’autodeterminazione rispetto alla lesione del diritto alla salute è stata ben evidenziata da Sez. 3, n. 17022/2018, D’Arrigo, Rv. 649442-01, secondo la quale l’omessa acquisizione del consenso informato preventivo al trattamento sanitario – fuori dai casi in cui lo stesso debba essere praticato in via d’urgenza e il paziente non sia in grado di manifestare la propria volontà – determina la lesione in sé della libera determinazione del paziente, quale valore costituzionalmente protetto dagli artt. 32 e 13 Cost., quest’ultimo ricomprendente la libertà di decidere in ordine alla propria salute ed al proprio corpo, a prescindere quindi dalla presenza di conseguenze negative sul piano della salute, e dà luogo ad un danno non patrimoniale autonomamente risarcibile, ai sensi dell’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c.

Nella medesima prospettiva, Sez. 3, n. 20885/2018, Rubino, Rv. 650433-01, ha chiarito che in tema di responsabilità professionale del medico, l’inadempimento dell’obbligo di informazione sussistente nei confronti del paziente può assumere rilievo a fini risarcitori – anche in assenza di un danno alla salute o in presenza di un danno alla salute non ricollegabile alla lesione del diritto all’informazione – a condizione che sia allegata e provata, da parte dell’attore, l’esistenza di pregiudizi non patrimoniali derivanti dalla violazione del diritto fondamentale all’autodeterminazione in sé considerato, sempre che essi superino la soglia minima di tollerabilità imposta dai doveri di solidarietà sociale e non siano futili, ovvero consistenti in meri disagi o fastidi.

Un ulteriore contributo alla ricognizione dei tratti connotanti la morfologia del danno da lesione del diritto all’autodeterminazione è stato offerto da Sez. 3, n. 11749/2018, Spaziani, Rv. 648644-01, la quale, sulla scorta delle indicazioni offerte da Sez. 3, n. 16503/2017, De Stefano, Rv. 644956-01, ha chiarito che nel caso di lesione del diritto all’autodeterminazione in sé considerato il danno-evento è rappresentato dalla stessa esecuzione, da parte del medico, dell’intervento sulla persona del paziente senza la previa acquisizione del consenso e il danno-conseguenza è rappresentato: a) dalla sofferenza e dalla contrazione della libertà di disporre di sé stesso, psichicamente e fisicamente, patite dal paziente in ragione dello svolgimento sulla sua persona di interventi non assentiti; b) eventualmente, dalla diminuzione che lo stato del paziente subisce a livello fisico per effetto dell’attività demolitoria, che abbia eliminato, sebbene ai fini terapeutici, parti del corpo o la funzionalità di esse: poiché tale diminuzione si sarebbe potuta verificare solo se assentita sulla base dell’informazione dovuta, ma si è verificata in mancanza di essa, si tratta di conseguenza oggettivamente dannosa, che si deve apprezzare come danno-conseguenza indipendentemente dalla sua utilità rispetto al bene della salute del paziente, che è bene diverso dal diritto di autodeterminarsi rispetto alla propria persona; c) eventualmente, dalle “perdite” relative ad aspetti della salute, con riferimento alla possibilità che, se il consenso fosse stato richiesto, il paziente avrebbe potuto determinarsi a rivolgersi ad altra struttura e ad altro medico, qualora si riveli che sarebbe stata possibile in relazione alla patologia l’esecuzione di altro intervento meno demolitorio o determinativo di minore sofferenza.

La pronuncia da ultimo richiamata ha, inoltre, precisato che la mancata informazione comporta la perdita, in capo al paziente, della possibilità di esercitare una serie di scelte tra cui quella di non sottoporsi al trattamento sanitario o quella di non sottoporvisi immediatamente o, ancora, quella di indirizzarsi altrove per la sua esecuzione. E la perdita della possibilità di esercitare tutte queste opzioni non solo concreta una privazione della libertà del paziente di autodeterminarsi circa la sua persona fisica, ma determina anche una sofferenza psichica, nella misura in cui preclude al paziente di beneficiare dell’apporto positivo che la loro fruizione avrebbe avuto sul grado di predisposizione psichica a subire l’intervento e le sue conseguenze.

Nell’anno in rassegna i giudici di legittimità hanno, inoltre, sviluppato la riflessione sul nesso causale tra la lesione del diritto all’autodeterminazione e il danno conseguenza rappresentato dalla sofferenza e dalla contrazione della libertà di disporre di sé stessi. La questione è stata analiticamente scrutinata da Sez. 3, n. 19199/2018, Olivieri, Rv. 649949-01 e Sez. 3, n. 2369/2018, Gianniti, Rv. 647593-01, le quali hanno chiarito la diversa rilevanza causale dell’obbligo di acquisire il consenso informato del paziente a seconda che quest’ultimo deduca la violazione del diritto all’autodeterminazione o la lesione del diritto alla salute. Nel primo caso l’omessa o insufficiente informazione preventiva evidenzia “ex se” una relazione causale diretta con la compromissione dell’interesse all’autonoma valutazione dei rischi e dei benefici del trattamento sanitario. Nel secondo l’incidenza eziologica del deficit informativo sul risultato pregiudizievole dell’atto terapeutico correttamente eseguito dipende, invece, dall’opzione che il paziente avrebbe esercitato se fosse stato adeguatamente informato ed è configurabile soltanto in caso di presunto dissenso, con la conseguenza che l’allegazione dei fatti dimostrativi di tale scelta costituisce parte integrante dell’onere della prova – che, in applicazione del criterio generale di cui all’art. 2697 c.c., grava sul danneggiato – del nesso eziologico tra inadempimento ed evento dannoso.

Per quanto riguarda la prova del nesso causale, la più volte richiamata Sez. 3, n. 11749/2018, Spaziani, Rv. 648644-01 ha affermato che dalla violazione dell’obbligo di acquisire il consenso informato deriva secondo l’“id quod plerumque accidit” un danno-conseguenza autonomamente risarcibile che non necessita di specifica prova, salva la possibilità di contestazione della controparte e di allegazione e prova, da parte del paziente, di fatti a sé ancora più favorevoli di cui giovarsi a fini risarcitori.

Occorre, a riguardo, segnalare anche Sez. 3, n. 20884/2018, Rubino, Rv. 650433-01, che ha chiarito che in tema di responsabilità professionale del medico, l’inadempimento dell’obbligo di informazione sussistente nei confronti del paziente può assumere rilievo a fini risarcitori – anche in assenza di un danno alla salute o in presenza di un danno alla salute non ricollegabile alla lesione del diritto all’informazione – a condizione che sia allegata e provata, da parte dell’attore, l’esistenza di pregiudizi non patrimoniali derivanti dalla violazione del diritto fondamentale all’autodeterminazione in sé considerato, sempre che essi superino la soglia minima di tollerabilità imposta dai doveri di solidarietà sociale e non siano futili, ovvero consistenti in meri disagi o fastidi.

L’autonomia delle conseguenze pregiudizievoli derivanti dalla violazione del diritto all’autodeterminazione in sé è stata, infine, sottolineata da Sez. 3, n. 02070/2018, Di Florio, Rv. 647589-01, che, sia pure in relazione alla diversa fattispecie dell’erronea esecuzione dell’intervento di interruzione della gravidanza che abbia dato luogo ad una nascita indesiderata, ha affermato che, in virtù dell’interpretazione costituzionalmente orientata degli artt. 1 e 4 della l. n. 194 del 22/5/1978, deve essere riconosciuto non soltanto il danno alla salute psico-fisica della donna, ma anche quello sofferto da entrambi i genitori per la lesione della loro libertà di autodeterminazione, da riconoscersi in relazione alle negative ricadute esistenziali derivanti dalla violazione del diritto a non dar seguito alla gestazione nell’ambito dei tempi e delle modalità stabilite dalla legge e prescindendo totalmente dalle condizioni di salute del nato.

Ancora, in tema di responsabilità del medico per erronea diagnosi concernente il feto e conseguente nascita indesiderata, Sez. 3, n. 02675/2018, Di Florio, Rv. 647937-01 ha stabilito che il risarcimento dei danni, che costituiscono conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento della struttura sanitaria all’obbligazione di natura contrattuale gravante sulla stessa, spetta non solo alla madre, ma anche al padre, atteso il complesso di diritti e doveri che, secondo l’ordinamento, si incentrano sulla procreazione cosciente e responsabile, considerando che, agli effetti negativi della condotta del medico ed alla responsabilità della struttura ove egli opera non può ritenersi estraneo il padre che deve, perciò, considerarsi tra i soggetti “protetti” e, quindi, tra coloro rispetto ai quali la prestazione mancata o inesatta è qualificabile come inadempimento, con il correlato diritto al risarcimento dei conseguenti danni, immediati e diretti, fra cui deve ricomprendersi il pregiudizio patrimoniale derivante dai doveri di mantenimento dei genitori nei confronti dei figli.

9. La liquidazione del danno non patrimoniale.

In tema di liquidazione del danno non patrimoniale, la giurisprudenza della Corte di Cassazione nell’anno 2018 si è posta in sostanziale continuità rispetto a quella degli anni passati, con l’obiettivo di assicurare l’integrale riparazione del danno, mediante il contemperamento delle istanze di uniformità con le esigenze di “personalizzazione” del risarcimento, in relazione alle caratteristiche della fattispecie concreta. Per quel che riguarda il danno non patrimoniale da lesione del diritto alla salute, i principi generali che governano la liquidazione sono l’integralità e l’onnicomprensività del risarcimento; la necessità di evitare duplicazioni risarcitorie; la combinazione di un parametro base uniforme (tratto dalle Tabelle) con un elemento di flessibilità che consenta di adattare il primo alle specificità del caso concreto.

Al di fuori dei pregiudizi per i quali esiste un referente “tabellare” (oltre al danno biologico, anche il danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale), la liquidazione equitativa ex art. 1226 c.c. si impernia sull’attenta valutazione del concreto pregiudizio patito dal danneggiato, per come da questi allegato e provato, sulla scorta di indici più o meno costanti, quali il tipo di offesa arrecata dal comportamento illecito del danneggiante e le condizioni oggettive della vittima, ma anche la gravità soggettiva dell’illecito (in funzione lato sensu punitiva o individual-deterrente).

Sez. 3, n. 31537/2018, Rossetti, Rv. 651944-01, ha affermato, al riguardo, che la liquidazione del danno non patrimoniale da lesione del diritto all’onore e alla reputazione deve essere compiuta dal giudice sulla base, non di valutazioni astratte, ma del concreto pregiudizio presumibilmente patito dalla vittima, per come da questa dedotto e provato (nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che aveva accolto la domanda di risarcimento del danno derivante dall’illegittimo protesto di un assegno sulla base dell’astratta affermazione che tale illecito avrebbe potuto “verosimilmente” pregiudicare la stima e la reputazione di cui gli attori godevano, senza precisare quale fosse tale stima, in quali ambienti fosse goduta e se in essi si fosse propagata la notizia del protesto).

La necessità di esaminare tutte le circostanze di fatto acquisite al processo ha un immediato (e intuitivo) riflesso sugli oneri di motivazione gravanti sul giudice, il quale dovrà dare conto degli elementi concretamente presi in considerazione e del peso riconosciuto a ciascuno di essi, in rapporto agli altri, nell’economia complessiva della fattispecie. Significativa, in argomento, la statuizione di Sez. 3, n. 22272/2018, Spaziani, Rv. 650596-01, secondo cui la liquidazione equitativa, anche nella sua forma cd. “pura”, consiste in un giudizio di prudente contemperamento dei vari fattori di probabile incidenza sul danno nel caso concreto, sicché, pur nell’esercizio di un potere di carattere discrezionale, il giudice è chiamato a dare conto, in motivazione, del peso specifico attribuito ad ognuno di essi, in modo da rendere evidente il percorso logico seguito nella propria determinazione e consentire il sindacato del rispetto dei principi del danno effettivo e dell’integralità del risarcimento. Nel consegue che, allorché non siano indicate le ragioni dell’operato apprezzamento e non siano richiamati gli specifici criteri utilizzati nella liquidazione, la sentenza incorre sia nel vizio di nullità per difetto di motivazione (indebitamente ridotta al disotto del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111, comma 6, Cost.) sia nel vizio di violazione dell’art. 1226 c.c. (nella specie, in applicazione dell’enunciato principio, la S.C. ha cassato la sentenza di appello che aveva operato una drastica riduzione dell’importo dovuto ai danneggiati a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale conseguente a reato di violenza sessuale sulla base del rilievo, puramente assertivo, secondo cui il maggiore importo liquidato dal primo giudice era “sproporzionato” rispetto ai fatti e la riduzione dello stesso appariva “conforme a giustizia”). Ancora, Sez. 3, n. 16908/2018, Sestini, Rv. 649510-02, ha affermato, con riferimento ad un caso di permanenza della pubblicazione su un sito internet di una notizia risalente nel tempo, che è censurabile in sede di legittimità l’esercizio del potere equitativo del giudice di merito ove questi si sia limitato a richiamare genericamente i criteri utilizzati nelle ipotesi di diffamazione, senza precisare in quali termini l’importo liquidato sia conforme ai criteri medesimi, anche alla luce delle peculiarità del caso concreto.

Di notevole interesse altre due pronunce, relative a fattispecie caratterizzate da elementi di “internazionalità”. Secondo Sez. 3, n. 20841/2018, Rossetti, Rv. 650424-03, la domanda di risarcimento del danno scaturente da fatto illecito avvenuto all’estero, commesso nei confronti di cittadino italiano da parte di un cittadino di altro Stato, anche quando possa essere conosciuta dal giudice italiano secondo le regole sulla giurisdizione, è soggetta alla legge del luogo ove è avvenuto il fatto senza che, ove la legge straniera porti a negare il risarcimento del danno non patrimoniale, ovvero a determinarlo in misura inferiore a quanto previsto dalla legge italiana, possa ritenersi violato il diritto dell’Unione europea o quello costituzionale; Sez. 6-3, n. 03767/2018, Rossetti, Rv. 648035-01, ha negato, invece, rilevanza, ai fini della liquidazione equitativa del danno non patrimoniale, alla realtà socio-economica del Paese straniero nel quale la somma liquidata è presumibilmente destinata ad essere spesa, poiché tale elemento è estraneo al contenuto dell’illecito e, ove considerato, determinerebbe una irragionevole lesione del valore della persona umana (in applicazione dell’anzidetto principio, la S.C. ha ritenuto ininfluente – ai fini della liquidazione del danno conseguente ad un sinistro stradale con esito mortale – la residenza in Romania dei soggetti danneggiati).

9.1. La liquidazione in via equitativa: casistica.

Di particolare interesse, per l’anno 2018, si mostrano due pronunce della Corte di Cassazione in merito alla valutazione equitativa del danno da violazione del diritto alla ragionevole durata del processo (attualmente disciplinato dall’art. 2-bis della l. n. 89 del 2001). Sez. 2, n. 28109/2018, Fortunato, Rv. 651180-02, ha affermato che, in tale fattispecie, la valutazione equitativa dell’indennizzo a titolo di danno non patrimoniale è soggetta, in conseguenza dello specifico rinvio, contenuto nell’art. 2 della l. n. 89 del 2001, all’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, al rispetto delle Convenzione medesima, nell’interpretazione giurisprudenziale resa dalla Corte di Strasburgo, ma il giudice nazionale è tenuto a liquidare solo il danno riferibile al periodo eccedente il termine ragionevole, non toccando tale diversità di calcolo la complessiva attitudine della citata l. n. 89 del 2001 ad assicurare l’obiettivo di un serio ristoro per la lesione del diritto alla ragionevole durata del processo. Sez. 2, n. 27352/2018, Orilia, Rv. 651023-01, ha puntualizzato, da parte sua, che il giudice nazionale deve, in linea di principio, uniformarsi ai parametri elaborati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per i casi simili, salvo il potere di discostarsene, in misura ragionevole, qualora, avuto riguardo alle peculiarità della singola fattispecie, ravvisi elementi concreti di positiva smentita di detti criteri, dei quali deve dare conto. La parte che si dolga in sede di legittimità della inadeguatezza della liquidazione del danno non patrimoniale in termini di irragionevole divario rispetto ai criteri adottati dalla giurisprudenza della Corte europea ha, comunque, l’onere di allegare sia i fatti ritenuti rilevanti per fondare la censura di malgoverno della valutazione equitativa da parte del giudice di merito sia i concreti elementi di analogia con i casi consimili in cui, in sede europea, sono stati applicati i parametri più favorevoli.

9.2. La liquidazione del danno biologico.

Le pronunce del 2018 in tema di liquidazione del danno biologico si incentrano prevalentemente sui presupposti per la personalizzazione del risarcimento, funzionale ad incrementare il valore-base corrispondente all’invalidità permanente riportata dalla vittima, espresso dalle tabelle volta a volta applicabili (quelle di legge per le c.d. micropermanenti derivanti da circolazione stradale o da responsabilità sanitaria; quelle elaborate dall’Osservatorio della giustizia civile di Milano per le micropermanenti derivanti da diverse fattispecie di responsabilità e per le macropermanenti, non essendo tuttora stati emanate le tabelle nazionali previste dall’art. 138 d.lgs. n. 209/2005). Ebbene, Sez. 3, n. 23469/2018, Scoditti, Rv. 650858-02, ha puntualizzato che la misura standard del risarcimento ricavabile dal criterio tabellare del c.d. punto variabile può essere aumentata, con riferimento alla componente dinamico-relazionale del danno, solo in presenza di conseguenze dannose del tutto anomale, eccezionali e peculiari, che fuoriescono da quelle normali e indefettibili secondo l’id quod plerumque accidit. Il giudice, in altri termini, deve attenersi, in linea di massima, al valore-base del punto di invalidità (che, nella versione tabellare successiva al 2009, ricomprende anche la componente di pregiudizio relativa alla sofferenza interiore), potendo procedere alla personalizzazione del danno entro le percentuali massime di aumento previste nelle stesse tabelle, dando adeguatamente conto nella motivazione della sussistenza di peculiari ragioni di apprezzamento meritevoli di tradursi in una differente (più ricca, e dunque individualizzata) considerazione in termini monetari (in tal senso, Sez. 3, n. 11754/2018, Vincenti, Rv. 648794-02).

Sottolinea la natura eccezionale della personalizzazione anche Sez. 6-3, n. 10912/2018, Rossetti, Rv. 649024-01, ribadendo che, onde non incorrere in duplicazioni risarcitorie, soltanto in presenza di circostanze specifiche ed eccezionali allegate dal danneggiato, che rendano il danno più grave rispetto alle conseguenze ordinariamente derivanti dai pregiudizi dello stesso grado sofferti da persone della stessa età, è consentito al giudice, con motivazione analitica e non stereotipata, incrementare le somme dovute a titolo risarcitorio in sede di personalizzazione della liquidazione; la sentenza scolpisce in termini particolarmente efficaci tale regola, osservando come il grado di invalidità permanente indicato da un barème medico legale esprime in misura percentuale la sintesi di tutte le conseguenze ordinarie che una determinata menomazione si presume riverberi sullo svolgimento delle attività comuni ad ogni persona; in particolare, le conseguenze possono distinguersi in due gruppi: quelle necessariamente comuni a tutte le persone che dovessero patire quel particolare grado di invalidità e quelle peculiari del caso concreto che abbiano reso il pregiudizio patito dalla vittima diverso e maggiore rispetto ai casi consimili. Tanto le prime quanto le seconde costituiscono forme di manifestazione del danno non patrimoniale aventi identica natura che vanno tutte considerate in ossequio al principio dell’integralità del risarcimento, senza, tuttavia, incorrere in duplicazioni computando lo stesso aspetto due o più volte sulla base di diverse, meramente formali, denominazioni. Soltanto in presenza di circostanze specifiche ed eccezionali allegate dal danneggiato, che rendano il danno più grave rispetto alle conseguenze ordinariamente derivanti dai pregiudizi dello stesso grado sofferti da persone della stessa età, è consentito al giudice, con motivazione analitica e non stereotipata, incrementare le somme dovute a titolo risarcitorio in sede di personalizzazione della liquidazione (nella specie, la S.C. ha ritenuto non autonomamente risarcibile la perdita della capacità riproduttiva subita da una paziente erroneamente sottoposta ad isterectomia, in quanto pregiudizio necessariamente ricompreso nelle conseguenze di tale intervento chirurgico, evidenziando che la particolare sofferenza dedotta dalla vittima, quale conseguenza della menomazione subita, era stata correttamente valorizzata dal giudice di merito attraverso la personalizzazione del risarcimento). Negli stessi termini si sono espresse anche Sez. 3, n. 27482/2018, Olivieri, Rv. 651338-01; Sez. 3, n. 23469/2018, Scoditti, Rv. 650858-02 (che ne fa discendere la conseguenza per cui costituisce duplicazione risarcitoria la distinta liquidazione del danno biologico e del c.d. danno esistenziale); e Sez. 3, n. 30997/2018, Gorgoni, Rv. 651667-01, relativamente ad una fattispecie di danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale.

Attraverso la “personalizzazione” del risarcimento del danno biologico, secondo Sez. 6-3, n. 12572/2018, F.M. Cirillo, Rv. 648918-01, può essere risarcito anche il c.d. danno da lesione della cenestesi lavorativa, consistente nella maggiore usura, fatica e difficoltà incontrate nello svolgimento dell’attività lavorativa, non incidente neanche sotto il profilo delle opportunità sul reddito della persona offesa, il quale si risolve in una compromissione biologica dell’essenza dell’individuo.

S’è già fatto cenno (al par. 8.1.) al nuovo corso della giurisprudenza di legittimità del 2018, volto a sganciare la liquidazione del danno morale da quella del danno biologico-esistenziale. In coerenza con tale impostazione, la considerazione del profilo attinente alla sofferenza interiore della vittima non dovrebbe più rilevare, quindi, quale fattore di personalizzazione in aumento dei valori tabellari, come invece asserito nella giurisprudenza precedente (si veda, per esempio, Sez. 3, n. 21939/2017, Dell’Utri, Rv. 645503-01). Si profila come opportuno, quindi, per il futuro, un pronunciamento chiarificatore della Corte circa i criteri di riferimento (diversi dal generico richiamo alla valutazione equitativa ex art. 1226 c.c.) cui il giudice debba attenersi per la (distinta) liquidazione del danno morale, con particolare riguardo alla necessità, per i casi in cui il danno venga liquidato sulla base delle Tabelle di Milano, di “scorporare” preventivamente dai valori tabellari la quota idealmente imputabile alla sofferenza soggettiva usualmente corrispondente a lesioni di una data entità.

9.3. Parametri di quantificazione del danno: le Tabelle di Milano

In continuità con l’orientamento ormai consolidato sin dal 2011, Sez. 3, n. 11754/2018, Vincenti, Rv. 648794-02, ha ribadito che nella liquidazione del danno non patrimoniale, in difetto di diverse previsioni normative e salvo che ricorrano circostanze affatto peculiari, devono trovare applicazione i parametri tabellari elaborati presso il Tribunale di Milano successivamente all’esito delle pronunzie delle Sezioni Unite del 2008, in quanto determinano il valore finale del punto utile al calcolo del danno biologico da invalidità permanente tenendo conto di tutte le componenti non patrimoniali, compresa quella già qualificata in termini di “danno morale” la quale, nei sistemi tabellari precedenti veniva invece liquidata separatamente, mentre nella versione tabellare successiva all’anno 2011 viene inclusa nel punto base, così da operare non sulla percentuale di invalidità, bensì con aumento equitativo della corrispondente quantificazione. Tuttavia il giudice, in presenza di specifiche circostanze di fatto, che valgano a superare le conseguenze ordinarie già previste e compensate nella liquidazione forfettaria assicurata dalle previsioni tabellari, può procedere alla personalizzazione del danno entro le percentuali massime di aumento previste nelle stesse tabelle, dando adeguatamente conto nella motivazione della sussistenza di peculiari ragioni di apprezzamento meritevoli di tradursi in una differente (più ricca, e dunque, individualizzata) considerazione in termini monetari (nella specie, in relazione ad un’ipotesi di danno iatrogeno, la S.C. ha ritenuto meritevoli di valorizzazione, ai fini della personalizzazione del danno non patrimoniale, aspetti legati alle dinamiche emotive della vita relazionale ed interiore del soggetto leso, in quanto connotati da obiettive e riconoscibili ragioni di apprezzamento). La natura di parametro di riferimento generale della valutazione equitativa del danno alla persona, attribuito alle Tabelle di Milano, comporta, secondo Sez. 3, n. 17018/2018, Scarano, Rv. 649440-01, l’incongruità della motivazione che non dia conto delle ragioni della preferenza assegnata ad una quantificazione che, avuto riguardo alle circostanze del caso concreto, risulti sproporzionata rispetto a quella cui l’adozione dei parametri tratti dalle Tabelle di Milano consenta di pervenire (nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza della Corte territoriale che aveva ritenuto congruo l’importo liquidato dal giudice di primo grado, a titolo di risarcimento del danno biologico, in forza di una non motivata applicazione di una tabella diversa da quella predisposta dal tribunale di Milano, peraltro con riferimento a parametri non aggiornati alla data della decisione).

Da tali principi discendono alcuni corollari processuali, per il caso in cui il giudice si discosti – senza adeguata motivazione – dalle Tabelle in vigore al momento della decisione. Sez. 3, n. 28496/2018, Positano, Rv. 651603-01, ha affermato che, quando in corso di causa (ivi compresa la fase di gravame) sia sopravvenuto il principio giurisprudenziale – enunciato dalla S.C. con sentenza n. 12408 del 2011 – secondo cui la mancata adozione delle cd. tabelle di Milano integra un vizio di violazione di legge, deve ritenersi consentito, a chi agisce per il risarcimento del danno, chiederne l’applicazione, per la prima volta, anche in fase di precisazione delle conclusioni senza che ciò costituisca una domanda nuova. Sez. 3, n. 24155/2018, Olivieri, Rv. 650934-02, ha invece precisato che, allorquando, all’esito del giudizio di primo grado, l’ammontare del danno alla persona sia stato determinato secondo tabelle successivamente modificate nel corso del giudizio di appello, il danneggiato è legittimato a proporre impugnazione per ottenere la liquidazione di un maggiore importo risarcitorio, purché deduca, con specifico motivo di gravame, la differenza tra i valori minimi o massimi tra le tabelle (ante e post 2008) ed alleghi che l’applicazione dei nuovi valori-punto nel minimo comporterebbe per ciò stesso un risultato più favorevole della liquidazione del danno attribuitagli con la sentenza impugnata. (In applicazione del predetto principio, la S.C. ha ritenuto inidonea la mera deduzione in appello della non adeguatezza della somma liquidata per la mancata personalizzazione del danno, senza alcuna contestazione relativa all’omessa applicazione delle variazioni tabellari intervenute “medio tempore”).

Infine, secondo Sez. 3, n. 00913/2018, Dell’Utri, Rv. 647128-01, non comporta violazione dei parametri di valutazione equitativa ex art. 1226 c.c. la liquidazione del danno non patrimoniale (nella specie da perdita parentale) operata con riferimento a tabelle diverse da quelle elaborate dal tribunale di Milano, qualora danneggiato sia riconosciuto un importo corrispondente a quello risultante da queste ultime, restando irrilevante la mancanza di una loro diretta e formale applicazione.

Con specifico riguardo alla corretta applicazione dei criteri tabellari per la liquidazione del danno biologico, meritano di essere segnalate Sez. 3, n. 29031/2018, Sestini (in corso di rimassimazione per problemi tecnici sul sito), la quale ribadisce il principio della liquidazione “differenziale” del danno biologico occorso a soggetto affetto da una preesistenza patologica stabilizzata (nel caso di specie, un incremento dell’invalidità permanente dal 61% fino al 90%); e Sez. 3, n. 25157/2018, D’Arrigo, Rv. 651159-01, secondo cui, in ipotesi di morte del danneggiato per cause indipendenti dal fatto illecito di cui è stato vittima, il principio secondo il quale il danno non patrimoniale trasmissibile “iure successionis” va parametrato alla durata effettiva della vita del danneggiato, e non a quella probabile, assume rilievo solo nel caso in cui il decesso sia avvenuto in età precoce rispetto all’ordinaria aspettativa di vita, atteso che, nel caso opposto, il punto-base di riferimento per la liquidazione del danno tiene già conto delle ridottissime aspettative di vita del danneggiato, sicché nessuna ulteriore riduzione deve essere applicata in considerazione dell’intervenuto decesso (nella specie sopraggiunto in corso di causa, all’età di 96 anni).

10. Le responsabilità speciali.

10.1. Genitori, maestri e precettori (art. 2048 c.c.).

A proposito della fattispecie di responsabilità delineata nell’art. 2048 c.c., la sentenza di maggior rilievo del 2018 è costituita da Sez. 3, n. 02334/2018, Graziosi, Rv. 647926-01.

Gli allievi maggiorenni di un istituto scolastico, frequentanti l’ultimo anno delle superiori, avevano cagionato un danno a una compagna di scuola per effetto dell’accalcamento e delle spinte verificatesi all’uscita della palestra al termine della lezione di educazione fisica. Nel giudizio di merito, la corte territoriale aveva escluso la responsabilità dell’insegnante e dunque del Ministero dell’istruzione sulla base di un’assimilazione tra le fattispecie disciplinate nei primi due commi dell’art. 2048, sul presupposto cioè che il raggiungimento della maggior età escluda in entrambi i casi il ricorrere della presunzione di colpa. All’esito di un’approfondita ricostruzione, la Corte di cassazione ha negato tale presupposto, osservando come la responsabilità di maestri e precettori, a differenza di quella dei genitori, sia fondata su un obbligo di vigilanza, che deriva dal contatto nell’ambiente educativo e che dunque prescinde dall’età dell’allievo, soprattutto quando il danno sia cagionato nell’ambito dell’insegnamento tecnico; l’art. 2048, comma 2, si applica dunque anche al danno provocato dall’allievo maggiorenne, anche se il raggiungimento della maggiore età o di un’età prossima fa presumere una capacità di autonomo discernimento che, pur superabile dalla prova contraria fornita dal danneggiato, è tendenzialmente idonea a integrare il caso fortuito e dunque a esonerare l’insegnante da responsabilità.

Sempre in tema di responsabilità ex art. 2048, comma 2, c.c., Sez. 6-3, n. 14216/2018, Rossetti, Rv. 649338-01, ha poi ribadito che il precettore, per liberarsi della presunzione di colpa posta a suo carico, ha l’onere di provare che né lui, né alcun altro precettore diligente, ai sensi dell’art. 1176, comma 2, c.c., avrebbero potuto, nelle medesime circostanze, evitare il danno. Tale prova non può prescindere dalla dimostrazione della presenza fisica del precettore al momento della commissione dell’illecito da parte dell’apprendista, integrando la stessa un dovere primario del precettore diligente ai sensi dell’art. 1176, comma 2, c.c.

10.2. Padroni e committenti (art. 2049 c.c.).

Il soggetto che, nell’espletamento della propria attività imprenditoriale, si avvale dell’opera di terzi, come accade nel caso in cui il custode di una linea elettrica dia in appalto delle lavorazioni su di essa, risponde anche dei fatti dolosi o colposi di costoro, ancorché non siano alle proprie dipendenze (Sez. 3, n. 25373/2018, Scarano, Rv. 651162-01).

Ancor più esteso è l’ambito della responsabilità secondo Sez. 3, n. 04026/2018, Scoditti, Rv. 647950-01, la quale ha affermato che l’inserimento del concessionario dell’attività di organizzazione e di esercizio di giuochi di abilità e concorsi pronostici nell’apparato organizzativo della pubblica amministrazione comporta la responsabilità, ex art. 2049 c.c., dell’autorità ministeriale concedente, titolare del potere di vigilanza e controllo, per i danni arrecati dal fatto illecito del concessionario.

Si veda poi Sez. 3, n. 30161/2018, Scarano, Rv. 651665-01, chiamata a pronunciarsi su un tema di grande attualità, quello della responsabilità degli intermediari finanziari: la S.C. ha affermato che la società preponente risponde in solido del danno causato al risparmiatore dai promotori finanziari da essa indicati in tutti i casi in cui sussista un nesso di occasionalità necessaria tra il danno e l’esecuzione delle incombenze affidate al promotore e che tale nesso non viene meno per il fatto che il preposto, abusando dei suoi poteri, abbia agito per finalità estranee a quelle del preponente; la responsabilità della preponente deve essere tuttavia esclusa quando la condotta del danneggiato presenti connotati di anomalia, vale a dire, se non di collusione, quanto meno di consapevole acquiescenza alla violazione delle regole gravanti sul promotore, palesata da elementi presuntivi, quali il numero o la ripetizione delle operazioni poste in essere con modalità irregolari, il valore complessivo delle stesse, l’esperienza acquisita nell’investimento di prodotti finanziari, la conoscenza del complesso “iter” funzionale alla sottoscrizione di programmi di investimento e le sue complessive condizioni culturali e socio-economiche.

Un importante profilo processuale connesso a tale ipotesi di responsabilità è poi quello sottolineato da Sez. 3, n. 07936/2018, Scoditti, Rv. 648312-01: nel processo con pluralità di parti, il convenuto vittorioso, in relazione a domanda proposta nei suoi confronti ai sensi dell’art. 2049 c.c. nel quale è rimasto soccombente l’altro convenuto, chiamato in giudizio quale autore del fatto illecito, ha l’onere di proporre impugnazione incidentale in presenza di impugnazione principale proposta dal danneggiato, ove il convenuto soccombente non abbia proposto a sua volta impugnazione, stante l’inscindibilità dell’accertamento in ordine ai presupposti della responsabilità dell’autore del fatto illecito e l’idoneità di tale accertamento a costituire giudicato opponibile anche nei confronti della parte convenuta vittoriosa nel precedente grado.

10.3. Attività pericolose (art. 2050 c.c.).

La nozione di attività pericolosa, ai sensi e per gli effetti dell’art. 2050 c.c., non deve essere limitata alle attività tipiche, già qualificate come tali da una norma di legge, ma deve essere estesa a tutte quelle attività che, per la loro stessa natura o per le caratteristiche dei mezzi adoperati, comportino una rilevante possibilità del verificarsi di un danno, dovendosi, di conseguenza accertare in concreto il requisito della pericolosità con valutazione svolta caso per caso, tenendo presente che anche un’attività per natura non pericolosa può diventarlo in ragione delle modalità con cui viene esercitata o dei mezzi impiegati per espletarla.

Lo ha ribadito, dando continuità a un orientamento consolidato, la citata Sez. 3, n. 19180/2018, Spaziani, Rv. 649737-01, in un’ipotesi di immissione sul mercato di un prodotto cosmetico che tuttavia – sulla base dell’espletata c.t.u. – conteneva una componente medicinale che ne alterava la natura; la S.C. ha annullato la sentenza di merito, che aveva escluso la pericolosità dell’attività sulla base di una distinzione astratta tra prodotti farmaceutici e cosmetici, e ha ricordato che in tali casi l’indagine fattuale deve essere svolta seguendo il criterio della prognosi postuma, in base alle circostanze esistenti al momento dell’esercizio dell’attività.

10.4. Cose in custodia (art. 2051 c.c.).

Nel corso del 2018, la S.C. sembra aver compiutamente delineato lo statuto della responsabilità da cose in custodia.

Lo si deve principalmente a Sez. 3, n. 02481/2018, Vincenti, Rv. 647935-01 e Sez. 3, n. 02482/2018, Vincenti, Rv. 647936-01 e 647936-02, rese in materia di responsabilità della P.A., che hanno tuttavia affermato princìpi estendibili anche ai proprietari privati: a) l’art. 2051 c.c., nel qualificare responsabile chi ha in custodia la cosa per i danni da questa cagionati, individua un criterio di imputazione della responsabilità che prescinde da qualunque connotato di colpa, sicché incombe al danneggiato allegare, dandone la prova, il rapporto causale tra la cosa e l’evento dannoso, indipendentemente dalla pericolosità o meno o dalle caratteristiche intrinseche della prima (su cui v. anche Sez. 3, n. 02477/2018, Sestini, Rv. 647933-01 e Sez. 6-3, n. 27724/2018, Positano, Rv. 651374-01); b) la deduzione di omissioni, violazioni di obblighi di legge di regole tecniche o di criteri di comune prudenza da parte del custode rileva ai fini della sola fattispecie dell’art. 2043 c.c., salvo che la deduzione non sia diretta soltanto a dimostrare lo stato della cosa e la sua capacità di recare danno, a sostenere allegazione e prova del rapporto causale tra quella e l’evento dannoso; c) il caso fortuito, rappresentato da fatto naturale o del terzo, è connotato da imprevedibilità ed inevitabilità, da intendersi però da un punto di vista oggettivo e della regolarità causale (o della causalità adeguata), senza alcuna rilevanza della diligenza o meno del custode; peraltro le modifiche improvvise della struttura della cosa incidono in rapporto alle condizioni di tempo e divengono, col trascorrere del tempo dall’accadimento che le ha causate, nuove intrinseche condizioni della cosa stessa, di cui il custode deve rispondere; d) il caso fortuito, rappresentato dalla condotta del danneggiato, è connotato dall’esclusiva efficienza causale nella produzione dell’evento; a tal fine, la condotta del danneggiato che entri in interazione con la cosa si atteggia diversamente a seconda del grado di incidenza causale sull’evento dannoso, in applicazione – anche ufficiosa – dell’art. 1227, comma 1, c.c.; e deve essere valutata tenendo anche conto del dovere generale di ragionevole cautela riconducibile al principio di solidarietà espresso dall’art. 2 Cost. Pertanto, quanto più la situazione di possibile danno è suscettibile di essere prevista e superata attraverso l’adozione da parte dello stesso danneggiato delle cautele normalmente attese e prevedibili in rapporto alle circostanze, tanto più incidente deve considerarsi l’efficienza causale del comportamento imprudente del medesimo nel dinamismo causale del danno, fino a rendere possibile che detto comportamento interrompa il nesso eziologico tra fatto ed evento dannoso, quando lo stesso comportamento, benché astrattamente prevedibile, sia da escludere come evenienza ragionevole o accettabile secondo un criterio probabilistico di regolarità causale.

La concreta declinazione di tali princìpi ha le seguenti implicazioni.

Rispetto alla P.A. il giudizio di responsabilità deve essere condotto con particolare rigore, non essendo ammissibili aree di immunità di carattere oggettivo.

Lo si ricava da Sez. 3, n. 18325/2018, Rossetti, Rv. 649700-01, pronunciata in un caso in cui il danno si era verificato a carico di un motociclista nella zona non asfaltata ai limiti della sede stradale; la responsabilità dell’ente proprietario della strada è stata affermata, osservandosi che la “banchina” fa parte della struttura della strada e che la relativa utilizzabilità, anche per sole manovre saltuarie di breve durata, comporta esigenze di sicurezza e prevenzione analoghe a quelle che valgono per la carreggiata. Analogamente, Sez. 3, n. 01257/2018, Tatangelo, Rv. 647356-01, ha ribadito che l’esercizio del potere di controllo sulla cosa deve essere concretamente esigibile, non solo però in base all’estensione dell’intero bene, ma anche alla luce di tutte le circostanze del caso concreto, assumendo al riguardo determinante rilievo la natura, la posizione e l’estensione della specifica area in cui si è verificato l’evento dannoso, le dotazioni e i sistemi di sicurezza e di segnalazione di pericoli disponibili: ne consegue che, per i parchi naturali, l’oggettiva impossibilità della custodia non può affermarsi per i sentieri escursionistici segnati, in quanto destinati alla percorrenza da parte dei visitatori in condizioni di sicurezza, né per le zone immediatamente circostanti gli stessi che costituiscono la ragione di interesse (turistico, naturale, storico o di altro tipo) della visita.

Sulla scorta degli stessi princìpi, va negato che l’adozione, da parte dell’autorità amministrativa, di delibere dichiarative dello stato di calamità costituisca di per sé prova dell’eccezionalità ed imprevedibilità degli eventi meteorici che abbiano causato danni alla popolazione, in quanto il concetto di “calamità naturale” espresso nelle leggi sulla protezione civile si riferisce al danno o al pericolo di danno e alla straordinarietà degli interventi tecnici destinati a farvi fronte, non alle caratteristiche intrinseche degli eventi naturali che di quel danno siano stati la causa o la concausa. La citata Sez. 3, n. 02482/2018, Vincenti, Rv. 647936-02 lo ha affermato nella vicenda dei danni patiti in seguito agli eventi alluvionali verificatisi nel territorio della provincia di Messina negli anni 2009/2010.

Sez. 6-3, n. 06703/2018, Scrima, Rv. 648489-01, ha insistito sul contenuto dell’onere probatorio, affermando che la P.A. resta liberata dalla responsabilità da cose in custodia solo ove dimostri che l’evento sia stato determinato da cause estrinseche ed estemporanee create da terzi, non conoscibili né eliminabili con immediatezza, neppure con la più diligente attività di manutenzione, ovvero da una situazione la quale imponga di qualificare come fortuito il fattore di pericolo, avendo esso esplicato la sua potenzialità offensiva prima che fosse ragionevolmente esigibile l’intervento riparatore dell’ente custode; non grava pertanto sull’attore-danneggiato l’onere di dimostrare la conoscenza, da parte dell’ente custode, della presenza sulla strada dell’olio che aveva causato la caduta.

Alcuni temperamenti si riscontrano invece su altri piani.

Anzitutto, la titolarità formale della cosa cede il passo – in sede di giudizio di responsabilità – al concreto affidamento a terzi della gestione e manutenzione della cosa, come accaduto nella fattispecie esaminata da Sez. 3, n. 20907/2018, Gorgoni, Rv. 650440-01, in cui è stata esclusa la responsabilità dell’Agenzia del Demanio per i danni cagionati da un bene appartenente al demanio idrico, la cui gestione, manutenzione e conservazione erano state però affidate alla Regione.

In secondo luogo, la condotta del danneggiato assume spesso una rilevanza decisiva per escludere o ridurre la responsabilità.

Talvolta, determina una riduzione proporzionale del danno ex art. 1227, comma 1, c.c., come nel caso affrontato da Sez. 3, n. 02483/2018, Vincenti, Rv. 648247-01, in cui la S.C. – dovendosi confrontare con la delicata ipotesi del danno patito dall’incapace (nella specie, minore di età) – ha affermato che l’espressione “fatto colposo” che compare nel citato art. 1227 non va intesa come riferita all’elemento psicologico della colpa, che ha rilevanza esclusivamente ai fini di una affermazione di responsabilità, la quale presuppone l’imputabilità, ma deve intendersi come sinonimo di comportamento oggettivamente in contrasto con una regola di condotta, stabilita da norme positive e/o dettata dalla comune prudenza.

In altre occasioni, la condotta della vittima integra il caso fortuito e si connota per l’esclusiva efficienza causale nella produzione del sinistro.

La S.C. lo ha riscontrato, escludendo che i danni patiti potessero essere stati posti a carico dell’ente proprietario della strada, sia nel caso di un motociclista che aveva perso per causa ignota il controllo del mezzo e che aveva per questo superato il “guardrail” di altezza a norma di legge (Sez. 3, n. 02480/2018, De Stefano, Rv. 647934-01), sia in quello di un pedone che, pur in presenza di agevoli percorsi alternativi, aveva scelto di percorrere un tratto di strada obiettivamente pericoloso, trattandosi di un selciato che costituiva un canale di scolo delle acque dal fondo irregolare e con doppia inclinazione (Sez. 3, n. 02481/2018, Vincenti, Rv. 647935-01).

In tema di ripartizione della responsabilità tra titolare del potere di custodia e utilizzatore, vanno infine segnalate le seguenti decisioni.

Nel caso di appalto che non implichi il totale trasferimento all’appaltatore del potere di fatto sull’immobile nel quale deve essere eseguita l’opera appaltata, Sez. 2, n. 11671/2018, Chiesi, Rv. 648327-01, ha affermato che non viene meno per il committente e detentore del bene il dovere di custodia e di vigilanza e, con esso, la conseguente responsabilità ex art. 2051 c.c.; essa, avendo natura oggettiva, sorge in ragione della sola sussistenza del rapporto di custodia tra il responsabile e la cosa che ha determinato l’evento lesivo (fattispecie relativa ai danni derivanti dal lastrico solare condominiale, consegnato all’appaltatore per dei lavori).

Sez. 3, n. 07527/2018, Porreca, Rv. 648305-01, si è invece espressa in un caso di danni cagionati a terzi dalla rottura di un contatore dell’acqua posto a servizio di un’abitazione, ma collocato all’esterno di essa: il proprietario dell’abitazione (ma non del contatore) in quanto privo della disponibilità giuridica e materiale della cosa non è stato considerato responsabile ai sensi dell’art. 2051 c.c., pur potendosi ipotizzare una sua responsabilità ex art. 2043 c.c. per aver mancato, in violazione degli obblighi generali di diligenza, di approntare misure idonee a evitare o ridurre il danno in attesa dell’intervento del gestore o del proprietario.

Infine, va ricordata Sez. L, n. 05957/2018, Lorito, Rv. 647503-01, pronunciata in tema di danno causato al lavoratore da cosa che il datore di lavoro ha in custodia; ove sia accertato il nesso eziologico tra il danno stesso e l’ambiente ed i luoghi di lavoro, la responsabilità del datore di lavoro sussiste ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 2051 c.c. e 2087 c.c., salvo che lo stesso provi il caso fortuito.

10.5. Responsabilità per il fatto degli animali (art. 2052 c.c.).

Rare, nel 2018, le decisioni riguardanti il danno cagionato da animali.

Sez. 3, n. 17060/2018, Scoditti, Rv. 649513-01, si è soffermata sulla questione della ripartizione di competenze (con connesse responsabilità) tra Comuni e Asl nella gestione dei cani randagi nella Regione Puglia, affermando che, in base alla l. r. Puglia n. 12 del 1995, il Comune è privo legittimazione passiva in rapporto alla pretesa risarcitoria per i danni causati dai cani randagi, posto che in base alla menzionata legislazione regionale i Comuni devono limitarsi alla gestione dei canili al fine della mera “accoglienza” dei cani randagi recuperati, mentre al relativo “ricovero”, che presuppone l’attività di recupero e cattura, sono tenuti i Servizi veterinari delle ASL.

Interessante per le sue implicazioni processuali è poi Sez. 3, n. 21018/2018, De Stefano, Rv. 650186-01, in un caso nel quale il danneggiato aveva allegato in primo grado, quale titolo di responsabilità del convenuto, sia la qualità di proprietario che quella di soggetto fruitore dell’animale: la S.C. ha statuito che l’accoglimento della domanda in primo grado in base alla seconda prospettazione, a meno di una esplicita esclusione della prima, non onera la parte danneggiata vittoriosa della proposizione di appello incidentale per avvalersi validamente, mediante la mera ma univoca riproposizione ai sensi dell’art. 346 c.p.c., di quella non accolta dal primo giudice; ne consegue che il giudice di appello non può esimersi, ove escluda la sussistenza del secondo titolo di responsabilità (la disponibilità dell’animale), dall’esaminare nel merito la sussistenza dell’altra (la proprietà o comproprietà).

10.6. Il danno da circolazione di veicoli (art. 2054 c.c.).

Tra le decisioni di legittimità che, nel corso del 2018, hanno dovuto affrontare questioni sostanziali in tema di danni da circolazione stradale, merita anzitutto menzione Sez. 3, n. 23450/2018, Dell’Utri, Rv. 650857-01, che ha dato occasione alla S.C. di chiarire i presupposti applicativi dell’art. 2054. Il caso, assai peculiare, vedeva protagonista una minorenne che aveva affidato a un’amica, anch’essa minorenne, il mezzo di proprietà della madre, che era rimasto coinvolto in un sinistro stradale nel quale era stata accertata la colpa dell’affidataria. La Cassazione ha escluso che la responsabilità dell’affidante potesse fondarsi sull’art. 2054, non rivestendo essa alcuna delle posizioni di garanzia individuate da tale disposizione, con la conseguenza che la verificazione di un sinistro costituisce, ai sensi dell’art. 41, comma 2, c.p., causa sopravvenuta, di per sé idonea a determinare l’evento dannoso, che esclude ogni rapporto di causalità tra detto evento e la condotta del soggetto che ha affidato al conducente il veicolo il quale non sia né proprietario né locatario del veicolo stesso, trovando applicazione in tale peculiare fattispecie il paradigma probatorio dell’art. 2043 c.c.

A proposito della presunzione di pari concorso nella responsabilità, sancita dall’art. 2054, comma 2, Sez. 3, n. 19197/2018, Olivieri, Rv. 649734-01, ne ha affermata l’applicabilità anche ai veicoli coinvolti nell’incidente ma rimasti estranei alla collisione, sempre che sia accertato, in concreto, l’effettivo contributo causale nella produzione dell’evento dannoso; Sez. 6-3, n. 31702/2018, Tatangelo, Rv. 649734-01, ha invece ribadito che la presunzione riguarda anche la collisione tra autovettura e bicicletta.

Sez. 3, n. 31009/2018, Gianniti, Rv. 651866-01, ha però ribadito che la presunzione non opera allorché sia violata – e la circostanza emerga dagli atti – una regola di condotta sancita dal codice della strada (nella specie, la Corte ha cassato la sentenza di merito la quale, nell’esaminare la dinamica del sinistro, aveva omesso di esaminare la specifica disciplina dettata dall’art.148, comma 3, del codice della strada che impone al conducente durante la manovra di sorpasso di tenersi ad una adeguata distanza laterale di sicurezza dal veicolo sorpassato). Analoga statuizione si trova in Sez. 6-3, n. 15788/2018, Pellecchia, Rv. 649343-01, a proposito degli scontri successivi tra veicoli lenti ed incolonnati determinati dalla spinta meccanica in avanti impressa all’ultima vettura dovuta al sopraggiungere di un veicolo veloce: qui non trova applicazione la presunzione di uguale colpa, ex art. 2054, comma 2, c.c., a carico dei conducenti di ciascuna coppia di veicoli, in quanto l’unico responsabile degli effetti delle collisioni è il conducente che le abbia determinate, tamponando l’ultimo dei veicoli della colonna.

Per la sua portata di carattere generale, va poi citata Sez. 6-3, n. 14358/2018, F.M. Cirillo, Rv. 649340-01, con cui si è ribadito che l’apprezzamento del giudice di merito relativo alla ricostruzione della dinamica dell’incidente, all’accertamento della condotta dei conducenti dei veicoli, alla sussistenza o meno della colpa dei soggetti coinvolti e alla loro eventuale graduazione, al pari dell’accertamento dell’esistenza o dell’esclusione del rapporto di causalità tra i comportamenti dei singoli soggetti e l’evento dannoso, si concreta in un giudizio di mero fatto, che resta sottratto al sindacato di legittimità, qualora il ragionamento posto a base delle conclusioni sia caratterizzato da completezza, correttezza e coerenza dal punto di vista logico-giuridico.

Passando all’esame delle implicazioni processuali della responsabilità ex art. 2054 merita anzitutto menzione Sez. 3, n. 13757/2018, Di Florio, Rv. 649043-01: quando la parte agisce invocando la responsabilità della convenuta mediante richiamo generico all’art. 2054, il giudice non è vincolato nel potere di qualificazione giuridica dei fatti costitutivi della pretesa azionata, potendo sussumerli nella fattispecie di cui al comma 1 della citata norma, in luogo di quella di cui al comma 2 della stessa, ove le condotte prospettate siano astrattamente compatibili con essa.

Allorché vi sia la concorrenza di plurimi titoli di responsabilità, occorre poi ricordare, con Sez. 3, n. 29038/2018, Olivieri, Rv. 651661-01, che l’accertamento della responsabilità del conducente e del proprietario (rispettivamente, ai sensi dell’art. 2054, comma 1 e comma 3, c.c.) costituisce il presupposto necessario sia della domanda di garanzia proposta dall’assicurato (conducente o proprietario) nei confronti dell’assicuratore RCA (ove il danneggiato non abbia esercitato contro di lui l’ azione “diretta”), sia della pretesa risarcitoria del danneggiato verso lo stesso assicuratore RCA (ove già inizialmente convenuto con l’azione “diretta”). Pertanto, tali cause devono tutte considerarsi tra loro legate da nesso di “dipendenza” che ne determina l’inscindibilità, ex art. 331 c.p.c., nel giudizio di impugnazione, con conseguente infrazionabilità della formazione del giudicato sulla responsabilità del conducente (sebbene quest’ultimo, in quanto mero coobbligato solidale, non assuma la veste di litisconsorte necessario originario), estendendosi gli effetti favorevoli dell’impugnazione proposta soltanto da alcune delle parti anche a quelle non impugnanti o contumaci che condividono la medesima posizione processuale.

A tale riguardo, Sez. 3, n. 29034/2018, Di Florio, Rv. 651577-01, ha puntualizzato che l’onere che l’art. 22 della l. n. 990 del 1969 pone a carico del danneggiato per la richiesta di risarcimento del danno va osservato anche quando l’assicuratore sia terzo chiamato in causa dal convenuto, senza che, atteso il tenore della norma, tale onere possa considerarsi altrimenti assolto mediante l’atto di chiamata in causa da parte del convenuto o in virtù della comunicazione all’assicuratore da parte del danneggiante circa l’iniziativa giudiziaria intrapresa dal danneggiato.

10.7. La responsabilità per danno da prodotto difettoso.

Per un’ampia ricognizione dei presupposti applicativi della disciplina del codice del consumo in materia di responsabilità da prodotto difettoso, si segnala Sez. 3, n. 29828/2018, Scarano, Rv. 651844-02.

Con tale pronuncia, la S.C. ha anzitutto ribadito che la responsabilità ha natura presunta, e non oggettiva, poiché prescinde dall’accertamento della colpevolezza del produttore, ma non anche dalla dimostrazione dell’esistenza di un difetto del prodotto. Incombe, pertanto, sul soggetto danneggiato – ai sensi dell’art. 120 del codice del consumo – la prova del collegamento causale non già tra prodotto e danno, bensì tra difetto e danno e, una volta fornita tale prova, incombe sul produttore – a norma dell›art. 118 dello stesso codice – la corrispondente prova liberatoria, consistente nella dimostrazione che il difetto non esisteva nel momento in cui il prodotto veniva posto in circolazione, o che all›epoca non era riconoscibile in base allo stato delle conoscenze tecnico-scientifiche.

A tale ultimo fine, il livello di sicurezza al di sotto del quale il prodotto deve ritenersi difettoso non corrisponde a quello della sua innocuità, dovendo piuttosto farsi riferimento ai requisiti di sicurezza generalmente richiesti dall’utenza in relazione alle circostanze tipizzate dalla suddetta norma, o ad altri elementi valutabili e in concreto valutati dal giudice di merito, nell’ambito dei quali rientrano anche gli standard di sicurezza eventualmente imposti da normative di settore.

Da ultimo, Sez. 3, n. 32226/2018, Scoditti, Rv. 651952-01, ha poi chiarito che il regime di responsabilità solidale ex art. 9 del d.P.R. n. 224 del 1988 (ora art. 121 del d.lgs. n. 206 del 2005) – avente natura speciale rispetto a quello dell’art. 2055 c.c. – opera solo tra i produttori collaboranti nella destinazione del prodotto finito alla circolazione e non riguarda il fornitore, in quanto estraneo alla catena produttiva e soggetto, ai sensi dell’art. 4 del citato d.P.R. (oggi art. 116 del d.lgs. n. 206 del 2005), alla responsabilità, alternativa a quella del produttore, derivante dalla mancata comunicazione (nel termine prescritto) al danneggiato dell’identità e del domicilio del medesimo produttore, che non risulti individuato. La S.C. ne ha fatto conseguire l’inapplicabilità dell’art. 1310 c.c.: l’atto interruttivo della prescrizione indirizzato al fornitore non produce effetti nei confronti del produttore.

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APPROFONDIMENTO TEMATICO

L’EVOLUZIONE DIACRONICA DELLA FIGURA DEL DANNO NON PATRIMONIALE NELLA GIURISPRUDENZA DI LEGITTIMITÀ

(di Paolo Spaziani )

Sommario

1 Il danno non patrimoniale nel codice civile del 1942. - 2 Danno non patrimoniale e valori costituzionali. L’emersione del danno alla persona (Corte Cost. n. 184/1986). - 3 Il danno non patrimoniale nella giurisprudenza della Corte di Cassazione. Il sistema costruito sulla base delle sentenze del 2003 - 4 Le Sezioni Unite dell’11 novembre 2008. La configurazione unitaria e omnicomprensiva del danno non patrimoniale e la sua liquidazione. Il sistema tabellare e il suo fondamento. Le proposte di legge all’esame del Parlamento. - 5 Nuove linee evolutive del danno non patrimoniale. Le pronunce del 2018.

1. Il danno non patrimoniale nel codice civile del 1942.

Nella tradizione giuridica precostituzionale il diritto privato era concepito come ordinamento posto a tutela delle relazioni economiche.

A questa tutela è ispirata anche la disciplina della responsabilità civile dettata dall’art. 2043 del codice civile del 1942, il quale stabilisce che qualunque fatto doloso o colposo che cagiona ad altri un danno ingiusto obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno.

Nella concezione tradizionale, infatti, l’obbligo del risarcimento sorgeva unicamente dal fatto illecito che avesse cagionato conseguenze economiche negative in capo al danneggiato, in quanto il danno risarcibile coincideva con il danno patrimoniale.

Peraltro, la figura del danno non patrimoniale non era sconosciuta al diritto positivo, che anzi la contemplava espressamente in un’altra norma del codice civile del 1942 e in una disposizione del codice penale del 1930.

Secondo l’art. 2059 c.c. il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge; ai sensi dell’art. 185 del codice penale, ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il colpevole e coloro che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere per il fatto di lui.

La norma civile sancisce la regola generale della irrisarcibilità dei danni non patrimoniali, salvi i casi in cui il risarcimento sia espressamente stabilito dalla legge; la norma penale, già esistente al momento in cui veniva scritta quella civile, prevede il più importante di questi casi: quello dei danni conseguenti alla commissione di illeciti penali.

Dal raccordo tra le due norme si traeva conferma del principio secondo cui il diritto privato si occupava della disciplina delle relazioni economiche e che la responsabilità civile era posta a tutela degli interessi patrimoniali; mentre gli interessi extrapatrimoniali trovavano protezione in altre branche dell’ordinamento.

2. Danno non patrimoniale e valori costituzionali. L’emersione del danno alla persona (Corte Cost. n. 184/1986).

La concezione paneconomica del diritto privato è però cambiata essendo andata emergendo, nel quadro costituzionale, la preminenza dei valori della persona.

Le norme del codice civile sono state reinterpretate dalla giurisprudenza alla luce dei principi costituzionali.

Movendo dalla tradizionale nozione di danno come “lesione di un interesse”, si è evidenziato che l’art. 2043 c.c. non procede ad una selezione dei tipi di interesse la cui lesione dia luogo a risarcimento ma richiede, quale unica condizione di esso, che si tratti di un interesse “giuridicamente tutelato”.

Il presupposto della tutela aquiliana, in altre parole, non è nel contenuto dell’interesse leso (cd. atipicità dell’illecito civile) ma nell’ “ingiustizia” della lesione.

La lesione è ingiusta se la condotta del danneggiante ha pregiudicato un interesse del danneggiato che non è giuridicamente irrilevante, un interesse che l’ordinamento protegge mediante la concessione al titolare di una specifica situazione giuridica soggettiva attiva.

Il rilievo che la tutela risarcitoria guarda non al contenuto dell’interesse ma alla circostanza se esso formi oggetto di una specifica situazione soggettiva di vantaggio ha posto, per un verso, il problema dei limiti del “danno ingiusto”, e cioè dell’individuazione delle situazioni giuridiche soggettive la cui lesione possa considerarsi risarcibile: in tale prospettiva, la giurisprudenza ha fatto registrare una progressiva espansione della tutela aquiliana, la quale non è rimasta circoscritta alle lesioni dei diritti soggettivi assoluti ma è stata estesa a quelle dei diritti relativi e delle posizioni soggettive “minori” (interesse legittimo, possesso, ecc.); per altro verso, ha indotto ad includere tra gli interessi protetti dal sistema della responsabilità civile anche gli interessi non patrimoniali, tutte le volte in cui essi costituissero l’oggetto di un diritto fondamentale previsto da una norma costituzionale.

Ciò si è detto in particolare per il diritto alla salute, riconosciuto e garantito dall’art. 32 Cost.

La Corte Costituzionale ha collegato la norma costituzionale alla regola del codice civile, qualificando come “ingiusta” la lesione del diritto alla salute, la quale, quindi, deve essere risarcita in sé e per sé considerata, a prescindere dalle conseguenze economiche negative.

L’art. 2043 c.c. è stato qualificato come una norma secondaria, in quanto recante soltanto l’indicazione dell’obbligazione risarcitoria conseguente all’“ingiustizia” della lesione ma non anche l’individuazione dei beni giuridici a cui tale lesione deve essere recata.

La sua applicazione – ha precisato la Corte Costituzionale – presuppone dunque l’esistenza di una “norma primaria”, integrativa del precetto non espresso mediante l’individuazione del bene giuridico tutelato. L’art. 32 Cost., nel riconoscere il diritto alla salute come fondamentale diritto alla persona umana, va ad integrare l’art. 2043 c.c., completandone il precetto primario.

La stessa Corte ha ristretto lo spettro di applicazione dell’art. 2059 c.c., facendo coincidere la figura del danno non patrimoniale tendenzialmente irrisarcibile con il solo danno morale subiettivo (Corte Cost., n. 184/1986).

3. Il danno non patrimoniale nella giurisprudenza della Corte di Cassazione. Il sistema costruito sulla base delle sentenze del 2003

La strada aperta dalla Corte costituzionale avrebbe permesso, attraverso il collegamento con l’art. 2043 c.c. delle singole disposizioni della Costituzione, di riconoscere la tutela risarcitoria alla lesione di tutti i diritti costituzionalmente tutelati.

La teoria dell’atipicità dell’illecito civile avrebbe infatti consentito di utilizzare la norma del codice alla stregua di una norma in bianco, il cui contenuto avrebbe potuto essere determinato, di volta in volta, mediante l’integrazione di essa con le regole costituzionali poste a protezione dei singoli diritti della persona.

Il predetto obiettivo è stato peraltro raggiunto dalla Corte di Cassazione attraverso un itinerario diverso.

Due ostacoli di ordine dogmatico impedivano infatti di seguire il sentiero indicato dalla Corte Costituzionale, a prescindere dall’opinabilità della concezione volta ad individuare, nella norma del codice civile sulla responsabilità aquiliana, una struttura sovrapponibile a quella delle norme penali, articolata nei due momenti del precetto e della sanzione.

In primo luogo, la tesi fondata sul collegamento tra norma primaria costituzionale e norma secondaria codicistica muoveva dalla nozione di danno come “evento lesivo”, omettendo di considerare che il problema della risarcibilità riguarda piuttosto le “conseguenze negative”.

Nel costruire la figura del danno biologico come danno-evento (e nell’aprire alla possibilità di risarcire tutti i pregiudizi che concretassero la lesione di interessi giuridicamente tutelati attraverso le norme costituzionali), non si era tenuto conto della circostanza che la giurisprudenza aveva già precedentemente raggiunto questo risultato, non dubitandosi che, ove vi fosse la lesione di un diritto soggettivo (e dunque di un interesse tutelato come tale da una norma giuridica, non necessariamente costituzionale), ivi era “danno ingiusto” e conseguentemente risarcibilità della lesione ai sensi dell’art. 2043 c.c.. Il problema della patrimonialità o non patrimonialità, dunque, non riguardava l’evento lesivo (che era senz’altro ingiusto se l’interesse formava oggetto di una situazione soggettiva di vantaggio) ma le sue conseguenze, le quali, ai sensi dell’art. 2059 dello stesso codice, potevano essere risarcite soltanto se fossero state suscettibili di valutazione economica, salvo che ricorresse uno dei casi in cui la legge ammetteva il risarcimento anche delle conseguenze non patrimoniali.

Così, ad es., con riguardo ai diritti della personalità (la vita, l’onore, la reputazione) che hanno trovato tutela nella giurisprudenza già prima dell’intervento della Corte Costituzionale e con riguardo a quelli già protetti dalle norme del codice civile del 1942 (il nome, l’immagine: artt. 6-10) non si è mai dubitato che la loro lesione fosse “ingiusta” ai sensi dell’art. 2043 c.c., in quanto pregiudizio di interessi giuridicamente protetti, ma la risarcibilità della stessa veniva circoscritta alle conseguenze economiche negative, ai sensi del successivo art. 2059, salvo che non fosse configurabile una fattispecie penale.

Il problema non era quindi quello di riconoscere l’ingiustizia della lesione attraverso il collegamento tra la norma primaria e la norma secondaria, ma di ammetterne la risarcibilità a prescindere dagli effetti patrimoniali.

In secondo luogo, l’affermata estraneità del danno biologico all’art. 2059 c.c. impediva che lo stesso potesse essere classificato come danno non patrimoniale. Una volta ristretto quest’ultimo al pregiudizio morale subiettivo, il danno all’integrità psico-fisica e alla salute non trovava classificazione all’interno della dicotomia danno patrimoniale-danno non patrimoniale.

Con due storiche sentenze del 2003 (Sez. 3, n. 8827/2003, Amatucci, RRvv. 563833-01, 563834-01, 563835-01, 563837-01; Sez. 3, n.8828/2003, Preden, RRvv. 563839-01, 563840-01, 563841-01, 563845-01) la Suprema Corte, scostandosi dal sentiero tracciato dalla Corte Costituzionale ma muovendo verso il medesimo obiettivo, affermò, dunque, che la restrittiva lettura dell’art. 2059 c.c., in quanto riferita al solo danno morale soggettivo (sofferenza, patema d’animo determinati da fatto illecito integrante reato) non potesse essere ulteriormente condivisa.

Avuto riguardo all’ordinamento costituzionale, evidenziò che la categoria del danno non patrimoniale deve ritenersi comprensiva di ogni ipotesi in cui sia leso un valore inerente alla persona e che esso deve qualificarsi, in generale, come qualsiasi lesione di interessi della persona insuscettibili di valutazione economica.

Secondo le pronunce in esame, nell’ambito del danno non patrimoniale si colloca dunque anche il danno biologico, formula con la quale si designa l’ipotesi della lesione dell’interesse costituzionalmente garantito (art. 32 Cost.) alla integrità psichica e fisica della persona.

La collocazione del danno biologico (quale lesione della salute in sé e per sé considerata, a prescindere dalle conseguenze economiche negative) e delle altre lesioni di interessi inerenti alla persona (da cui conseguano pregiudizi non suscettivi di valutazione economica) nell’ambito dell’art. 2059 c.c., non valeva, secondo la Corte, a subordinarne la risarcibilità alla condizione, stabilita dalla stessa norma, che la legge prevedesse espressamente in tal senso.

La Corte, infatti, si preoccupò di chiarire che il limite della riserva di legge, mentre continua a valere per il danno morale subiettivo, non assume invece rilevanza per le lesioni degli interessi della persona.

Questa soluzione trovava fondamento, in primo luogo, nella rilevanza socio-giuridica degli interessi lesi, elevati a valori costituzionali: le pronunce in esame evidenziarono, in particolare, che nel caso in cui la lesione incida su un interesse costituzionalmente protetto, la riparazione mediante indennizzo (ove non sia praticabile quella in forma specifica) costituisce la forma minima di tutela, ed una tutela minima non è assoggettabile a specifici limiti, poiché ciò si risolverebbe in rifiuto di tutela nei casi esclusi; la non operatività del limite della riserva di legge costituirebbe dunque una necessaria implicazione dell’interpretazione costituzionalmente orientata della norma del codice civile.

In secondo luogo si rilevò che il rinvio ai casi in cui la legge consente la riparazione del danno non patrimoniale ben può essere riferito, dopo l’entrata in vigore della Costituzione, anche alle previsioni della legge fondamentale, atteso che il riconoscimento nella Costituzione dei diritti inviolabili inerenti alla persona non aventi natura economica implicitamente, ma necessariamente, ne esige la tutela, ed in tal modo configura un caso determinato dalla legge, al massimo livello, di riparazione del danno non patrimoniale.

Sulla base delle argomentazioni contenute nelle sentenze del 2003, si affermò che, alla luce di una lettura costituzionalmente orientata dell’art.2059 c.c., nel “genus” danno non patrimoniale dovessero essere ricomprese tre diverse “species”, costituite dal danno biologico (inteso come lesione dell’integrità psico-fisica e della salute della persona), dal danno morale (inteso tradizionalmente come sofferenza fisica e patema d’animo sopportati dal soggetto passivo dell’illecito) e dal cd. danno esistenziale (nozione comprensiva di tutte le altre ipotesi di lesioni di interessi di rango costituzionale inerenti alla persona diverse dalla lesione dell’integrità psico-fisica e della salute).

Di tali “species”, mentre quella del danno morale restava ancorata alla regola della risarcibilità nei soli casi in cui fosse ravvisabile una fattispecie penale (artt. 2059 c.c. e 185 c.p.), quelle del danno biologico e del danno esistenziale erano invece considerate sempre risarcibili, in ragione della rilevanza costituzionale dei beni-interessi pregiudicati dalla lesione.

Quanto alle modalità di liquidazione della somma spettante a titolo di risarcimento, le pronunce precisarono che esse dovessero consistere nel ricorso al criterio equitativo (art. 1226 c.c.), quale unica possibile forma di liquidazione di un danno privo del carattere della patrimonialità (Sez. 3, n. 8827/2003, Amatucci, Rv. 563831-01; Sez. 3, n.8828/2003, Preden, RRvv. 563844-01).

Nell’ambito di questo sistema, l’individuazione di diverse “species” di danno non patrimoniale si rese ancora più evidente in ordine ai pregiudizi non patrimoniali subìti dai prossimi congiunti della vittima primaria dell’illecito nelle ipotesi di morte o grave menomazione di quest’ultima, dovendosi tra l’altro distinguere, nel primo caso, tra i danni patrimoniali ccdd. “riflessi” (vale a dire i danni che, sia pure quale riflesso dell’illecito subìto dalla vittima, coincidono con la lesione di posizioni soggettive proprie del congiunto, il quale viene quindi a vantare una pretesa risarcitoria “iure proprio”) e i danni derivanti dalla lesione di posizioni soggettive proprie della vittima, la cui pretesa risarcitoria viene quindi trasmessa in via ereditaria al congiunto, che può farla valere “iure successionis”.

Si pervenne quindi alla contrapposizione tra danno biologico “iure proprio” (risarcibile nell’ipotesi in cui il congiunto superstite avesse subìto, per effetto della morte del familiare, non semplicemente una sofferenza o un patema d’animo transeunte ma un vero e proprio pregiudizio fisico o psichico, suscettibile di accertamento medico-legale) e danno biologico “iure successionis” o danno biologico terminale (peraltro risarcibile solo nell’ipotesi in cui fosse decorso un apprezzabile lasso di tempo tra la morte del familiare e l’illecito da lui subìto, atteso che altrimenti il diritto al risarcimento non avrebbe potuto considerarsi ancora consolidato nella sfera giuridica del defunto, e considerato altresì che la lesione dell’integrità fisica con esito letale, verificatasi immediatamente o a breve distanza temporale rispetto all’evento lesivo, non era configurabile come lesione del diritto alla salute, incidendo la morte sul diverso bene giuridico della vita: Sez. 3, n. 870/2008, Durante, Rv. 601456-01).

Altra contrapposizione è quella tra danno morale “iure proprio” (inteso quale transeunte sofferenza prodottasi direttamente in capo al congiunto superstite) e danno morale “iure successionis” o danno “catastrofale”, risarcibile allorché, sebbene l’exitus fosse intervenuto immediatamente dopo l’evento lesivo (e dunque la sofferenza sofferta dalla vittima non avesse potuto, per il limitato lasso temporale, degenerare in patologia), tuttavia la vittima medesima fosse stata in condizione di percepire il proprio stato, lucidamente assistendo allo spegnersi della propria vita (con ciò acquisendo una pretesa risarcitoria trasmissibile agli eredi che invece non sussisterebbe nella contraria ipotesi in cui all’evento lesivo fosse seguito immediatamente lo stato di coma e la perdita della lucidità: tra le altre, Sez. 3, n. 22338/2007, Amatucci, Rv. 599941-01).

In quest’ultimo caso (cd. danno “tanatologico”), la Corte di Cassazione, con orientamento ormai consolidato nega il risarcimento del danno “iure successionis”, sul rilievo che la perdita del bene della vita, per il definitivo venir meno del soggetto, non può comportare il contestuale acquisto al patrimonio della vittima di un corrispondente diritto al risarcimento, trasferibile agli eredi (Sez. U., n. 15350/2015, Salmè).

Sia sotto il profilo liquidatorio sia sotto il profilo dell’inquadramento dogmatico, un’importante differenziazione era, infine, operata, tra il danno morale soggettivo propriamente detto e il cd. pregiudizio da perdita del rapporto parentale.

Sotto il profilo liquidatorio, in quanto si ammetteva la congiunta liquidazione di entrambi i pregiudizi, sul presupposto che il primo avesse la funzione di riparare lo stato di dolore derivante dalla perdita di una persona cara, mentre il secondo avesse la diversa funzione di reintegrare la lesione di quello specifico interesse giuridicamente rilevante consistente nel vincolo familiare.

Sotto il profilo dell’inquadramento dogmatico, in quanto, mentre in alcune pronunce il danno da perdita del rapporto parentale veniva inquadrato nell’ambito del danno morale, in altre veniva invece inquadrato nell’ambito del danno esistenziale, sul presupposto che la perdita di una persona cara determini una modifica peggiorativa dell’esistenza con riflessi negativi nella vita di relazione.

4. Le Sezioni Unite dell’11 novembre 2008. La configurazione unitaria e omnicomprensiva del danno non patrimoniale e la sua liquidazione. Il sistema tabellare e il suo fondamento. Le proposte di legge all’esame del Parlamento.

Su questo sistema sono incisivamente intervenute le Sezioni Unite con le storiche sentenze nn. 26972, 26973, 26974 e 26975 dell’11 novembre 2008.

Al fine di evitare duplicazioni risarcitorie ed indebiti arricchimenti le Sezioni Unite hanno ritenuto di dover porre fine alla frammentazione precedente, riconducendo il danno non patrimoniale ad una nozione unitaria e omnicomprensiva, priva di sottodistinzioni, previa unificazione, in un’unica ed omnicomprensiva categoria, sia pure ampia e personalizzata, delle varie voci di pregiudizio precedentemente individuate nell’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale della teoria del danno risarcibile.

In particolare, è stata esclusa, a fini liquidatori, la distinzione tra danno biologico e danno morale, in quanto, pur ammettendosi la configurabilità ontologica di quest’ultimo quale sofferenza soggettiva causata da un fatto astrattamente inquadrabile in un’ipotesi di reato, se ne è esclusa la possibilità di autonoma liquidazione in aggiunta al danno biologico, nel quale esso deve ritenersi invece necessariamente ricompreso quale imprescindile componente, atteso, da un lato, che qualsiasi lesione della salute implica ineluttabilmente una sofferenza fisica o psichica e considerato, dall’altro lato, che la liquidazione di entrambe le voci di danno non patrimoniale, distintamente ed autonomamente quantificate, determinerebbe una indebita duplicazione risarcitoria.

Secondo le pronunce in esame, dunque, per evitare la predetta duplicazione, il giudice deve procedere alla liquidazione del solo danno biologico, previa personalizzazione dello stesso anche tenendo conto dell’entità della sofferenza morale (cfr., in particolare, Sez. U., n. 26972/2008, Preden, Rv. 605494-01).

Se la categoria del danno morale è stata ridimensionata a componente del danno biologico della quale tenere conto in sede di personalizzazione, la categoria del danno esistenziale è stata persino espunta dall’ordinamento.

Le Sezioni Unite hanno infatti precisato che nel nostro ordinamento non è ammissibile l’autonoma categoria del danno esistenziale, inteso quale pregiudizio alle attività non remunerative della persona, in quanto: se in questa categoria si ricomprendano i pregiudizi derivanti dalla lesione di interessi della persona di rango costituzionale o derivanti da reato, essi pregiudizi sono già risarcibili ai sensi dell’art.2059 c.c., interpretato in senso costituzionalmente orientato, di tal che la liquidazione di un’ulteriore posta di danno a tale titolo comporterebbe una duplicazione risarcitoria; se, invece, nella categoria del danno esistenziale si volessero ricomprendere pregiudizi non lesivi di diritti inviolabili della persona, essa categoria sarebbe illegittima, posto che tali pregiudizi non sono risarcibili per il divieto di cui allo stesso art. 2059 c.c. (così la citata sentenza n. 26972/2008).

Con particolare riguardo al danno non patrimoniale spettante ai prossimi congiunti in caso di morte della vittima primaria dell’illecito penale, le sentenze in commento hanno escluso (perché darebbe àdito ad una indebita duplicazione risarcitoria) la congiunta attribuzione del risarcimento a titolo di danno morale subiettivo (inteso quale sofferenza, afflizione o turbamento per la perdita della persona cara) e a titolo di danno da perdita del rapporto parentale, in quanto anche in questa fattispecie la sofferenza morale non costituisce un danno autonomo, ma rappresenta un aspetto del quale tenere conto nella liquidazione unitaria ed omnicomprensiva del danno non patrimoniale, dovendosi quindi procedere ad una personalizzazione del danno causato dall’evento luttuoso che tenga conto di tutte le conseguenze dello stesso.

Il danno non patrimoniale, ormai unitariamente considerato, deve ritenersi risarcibile unicamente nei casi previsti dalla legge (art. 2059 c.c.), e precisamente: 1) quando il fatto illecito è configurabile come reato (nel qual caso il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale prescinde dalla rilevanza costituzionale dell’interesse leso, il quale è penalmente tutelato); 2) quando ricorra una delle fattispecie in cui espressamente la legge consente il ristoro del danno non patrimoniale, a prescindere dalla sussistenza di un reato (nel qual caso il diritto al risarcimento compete esclusivamente per i danni derivanti dalla lesione degli interessi della persona tutelati attraverso la norma attributiva del diritto medesimo: es.: nell’ipotesi di illecito trattamento dei dati personali, il danneggiato avrà diritto al ristoro unicamente del danno non patrimoniale scaturente dalla lesione del diritto alla riservatezza); 3) quando siano stati lesi diritti inviolabili della persona oggetto di tutela costituzionale, nel qual caso il diritto al risarcimento compete a condizione che l’interesse leso abbia rilevanza costituzionale, che la sua lesione sia grave (l’offesa deve superare una soglia minima di tollerabilità, non essendo risarcibili le minime intrusioni personali inevitabilmente conseguenti alla convivenza sociale) e che il danno non sia futile (cfr., ancora, Sez. Un., n. 26972/2008).

Per adeguare i criteri di liquidazione al nuovo sistema introdotto dalle Sezioni Unite del 2008, l’Osservatorio per la giustizia civile di Milano, dal 2009, ha elaborato nuove Tabelle, funzionali ad assicurare la liquidazione unitaria del danno non patrimoniale.

Le Tabelle precedenti, fondate sull’autonomia delle singole “species” di danno non patrimoniale, prevedevano: a) la liquidazione autonoma del danno biologico secondo valori “standard” parametrati alla gravità della lesione alla salute (la percentuale di invalidità) e all’età del danneggiato; b) la liquidazione autonoma del danno morale, che veniva quantificato in una percentuale (variabile tra ¼ e ½) dell’importo liquidato a titolo di danno biologico; c) la c.d. personalizzazione del danno biologico, mediante aumento dei valori “standard” sino al 30%, in riferimento a peculiari condizioni soggettive del danneggiato.

Le Tabelle elaborate a far tempo dal 2009, fondate sull’affermata nozione unitaria di danno non patrimoniale, hanno proposto la liquidazione congiunta del danno non patrimoniale conseguente a “lesione permanente dell’integrità psico-fisica della persona suscettibile di valutazione medico-legale” e del danno non patrimoniale conseguente alle medesime lesioni in termini di “dolore”, “sofferenza soggettiva”, in via di presunzione in riferimento ad un determinato tipo di lesione.

In termini concreti, il valore biologico “standard” (tratto dalle tabelle precedenti e debitamente rivalutato) è stato aumentato di una percentuale per tenere conto della componente morale (“dolore”, “sofferenza soggettiva”).

Il sistema è stato completato da percentuali di “personalizzazione”.

Anche con riguardo al danno non patrimoniale temporaneo, è stata proposta, in ossequio al nuovo orientamento delle Sezioni Unite del 2008, una liquidazione unitaria dell’intero suo ammontare, previa rivalutazione del valore base di liquidazione corrispondente ad un giorno di invalidità temporanea al 100% (danno biologico temporaneo), e successivo aumento di una percentuale del 25% onde tenere conto della componente “dolore”, “sofferenza morale” (danno morale temporaneo).

Infine, con precipuo riferimento al danno non patrimoniale spettante al superstite in caso di morte del prossimo congiunto, è stato proposto un adeguamento dei valori di liquidazione del danno da perdita del rapporto parentale, secondo una tabella che inserisce tra i legittimati, oltre alle tradizionali figure del genitore (con riguardo alla morte del figlio), del figlio (in relazione alla morte del genitore), del coniuge o convivente (in relazione alla morte dell’altro coniuge o convivente) e del fratello (in relazione alla morte del fratello), anche quella del nonno (in relazione alla morte del nipote).

I valori di liquidazione sono stati contenuti in una forbice tra un minimo e un massimo, al fine di personalizzare il risarcimento con riguardo alle circostanze del caso concreto, tipizzabili: 1) nella sopravvivenza o meno di altri congiunti; 2) nella convivenza o meno di questi ultimi; 3) nella qualità ed intensità della relazione affettiva familiare residua; 4) nella qualità ed intensità che caratterizzava il rapporto parentale con la persona perduta.

Le nuove Tabelle milanesi elaborate a partire dal 2009, hanno assunto rilevanza generale in seguito alla sentenza n.12408/2011.

Come si è accennato, il danno non patrimoniale, non essendo suscettibile di valutazione economica, può essere liquidato dal giudice con il criterio equitativo (art. 1226 c.c.).

Tradizionalmente l’equità liquidativa (che integra una forma di equità cd. integrativa della legge e si distingue dall’equità decisionale, quale forma di equità sostitutiva della legge medesima: art. 113 c.p.c.) è stata definita come giudizio di prudente contemperamento dei vari fattori di probabile incidenza sul danno, e cioè come criterio di mediazione tra le probabilità positive e le probabilità negative del danno effettivo nel caso concreto. Pur giocandovi un ruolo rilevante il potere discrezionale del giudice, essa non può tradursi, pertanto, in una valutazione arbitraria, in quanto il giudice è chiamato a compiere un ragionevole apprezzamento di tutte le circostanze che nel caso concreto abbiano potuto avere incidenza positiva o negativa sull’ammontare del pregiudizio e a dare conto, in motivazione, del peso specifico attribuito a ciascuna di esse, in modo da rendere evidente il percorso logico seguito nella propria determinazione e consentire il sindacato del rispetto dei principi del danno effettivo e dell’integralità del risarcimento.

Con la sentenza n. 12408/2011, seguita alle pronunce successive, la Suprema Corte ha aggiunto nuovi contenuti alla nozione di equità liquidativa di cui all’art. 1226 c.c..

Essa non è stata intesa soltanto, come nella tradizione, alla stregua di un giudizio di prudente contemperamento dei vari fattori di probabile incidenza sul danno (e dunque come criterio liquidatorio volto a garantire un’adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto), ma anche come regola volta ad assicurare uniformità di giudizio a fronte di casi analoghi.

Movendo da tale nuova concezione dell’equità, la Corte ha ritenuto che la predetta uniformità di trattamento è garantita dal riferimento al criterio di liquidazione predisposto dal tribunale di Milano, già ampiamente diffuso sul territorio nazionale, al quale deve quindi riconoscersi, in via generale, ai sensi dell’art.3 Cost., la valenza di parametro di conformità della valutazione equitativa operata dal giudice alla disposizione di cui all’art.1226 c.c., salva la sussistenza, in concreto, di circostanze idonee a giustificare il ricorso ad un criterio diverso.

L’ingiustificata applicazione di altro criterio liquidatorio, comportante una liquidazione di minore entità, può dunque essere fatta valere nel giudizio di legittimità come vizio di violazione di legge, sempre che la questione sia stata già posta nel giudizio di merito, dapprima mediante tempestivo deposito in atti delle Tabelle milanesi (ove il giudizio sia celebrato in un ufficio giudiziario diverso da quelli in cui esse tabelle sono già comunemente adottate), e successivamente mediante specifico motivo di appello, con il quale sia stata proposta espressamente la doglianza circa la mancata applicazione del criterio liquidatorio previsto dalle tabelle medesime (Sez. 3, n. 12408/2011, Amatucci, Rv. 618048-01; tra le pronunce successive, v. Sez. 3, n. 20895/2015, Rubino, Rv. 637448-01 e Sez. 3, n. 27562/2017, Rv. 646644-01).

La nuova e più ampia interpretazione della nozione di equità liquidativa fornita dalla Corte di Cassazione si pone in perfetta sintonia con il significato attribuito dalla Corte Europea dei Diritti Umani di Strasburgo (Corte EDU) alla medesima nozione, come ricavabile dall’art. 6 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti Umani e delle libertà fondamentali (Convenzione EDU).

Con la sentenza 13 settembre 2011, Z. v. Serbia, la Corte EDU ha infatti sancito che profonde e persistenti incertezze negli orientamenti interpretativi di un organo giurisdizionale sono idonee a ledere il diritto ad un equo processo garantito dall’art.6 della Convenzione EDU. Dinanzi ad un ricorso proposto da un cittadino serbo, i giudici di Strasburgo hanno chiarito che “per quanto un certo grado di difformità nell’interpretazione giurisprudenziale possa essere considerato un tipico connotato di ogni sistema giudiziario distribuito, come quello serbo, in una fitta rete di differenti organi giudiziari di primo e secondo grado, nel caso di specie le divergenti interpretazioni promanavano dalla medesima Autorità giudiziaria (la Corte distrettuale di Belgrado) e si traducevano nella differente soluzione di casi identici portati alla sua attenzione” (§ 44-47).

Non avrebbe senso osservare che la pronuncia della Corte europea fa riferimento alla difformità di giudizio verificatasi all’interno del medesimo ufficio giudiziario, in quanto da essa può con evidenza trarsi il principio più generale per cui l’uniformità di giudizio (anche quella tra diversi uffici giudiziari) costituisce obiettivo necessario da raggiungere in funzione della tutela del diritto fondamentale protetto dall’art.6 della Convenzione.

A prescindere dai principi affermati dalla sentenza n.12408/2011 (e a prescindere dal criterio tabellare di volta in volta adottato) il giudice di merito sarebbe pertanto comunque tenuto, nella valutazione equitativa del danno non patrimoniale, ad interpretare l’art.1226 c.c. nel senso che è senz’altro imposta l’uniformità di trattamento, atteso che, come è noto, le norme della Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti Umani e delle libertà fondamentali, nell’interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo, integrano norme “interposte” tra la Costituzione e la legge ordinaria e, sebbene non siano immediatamente applicabili dal giudice nazionale, vincolano quest’ultimo a condurre un’interpretazione “conforme” delle norme di diritto interno, nonché, ove tale interpretazione non sia consentita dal testo normativo, a sollevare l’eccezione di illegittimità costituzionale della regola di diritto interno per violazione del parametro costituzionale – l’art. 117 Cost. – che consente l’ingresso di tali norme nell’ordinamento dello Stato italiano (Corte Cost. nn. 348 e 349/2007).

I criteri attualmente utilizzati per l’esercizio del potere giudiziale di liquidazione equitativa del danno alla persona sono costituiti dalle tabelle giudiziali e, per le lesioni derivanti da sinistri stradali che non superino il 9% di invalidità permanente (cd. micropermanenti), dalle tabelle ministeriali emesse in base all’art. 139 del codice delle assicurazioni private (d.lgs. n. 209 del 2005), le quali, pur prevedendo percentuali di personalizzazione in relazione alle condizioni soggettive del danneggiato nel caso concreto, fissano tuttavia un limite massimo.

L’art. 138 del codice delle assicurazioni prevede la predisposizione di una tabella governativa unica anche per le lesioni di non lieve entità che determinino un’invalidità permanente tra il 10% e il 100% (cd. macropermanenti) ma questa norma non è stata ancora attuata.

Le tabelle ministeriali previste per le lesioni derivanti da incidenti stradali dagli artt. 138 e 139 del d.lgs. n. 209/2005, troveranno applicazione anche in ambito di responsabilità sanitaria (art. 7, comma 4, legge 8 marzo 2017, n. 24).

Un limite massimo stabilisce altresì il d.d.l. recante “Modifiche alle disposizioni per l’attuazione del codice civile in materia di determinazione e risarcimento del danno non patrimoniale”, approvato nella scorsa legislatura dalla Camera dei deputati (AC 1063) ed attualmente all’esame del Senato (AS 2755).

Questo disegno di legge, precisamente, prevede l’introduzione, dopo l’art. 84 delle disposizioni di attuazione del codice civile, di un’ulteriore norma (l’art. 84 bis), la quale dovrebbe prevedere, al primo comma, i criteri di liquidazione del danno non patrimoniale derivante dalla lesione dell’integrità psico-fisica e di quello derivante dalla perdita di un rapporto di tipo familiare, attraverso il rinvio alle tabelle contenute negli allegati alle medesime disposizioni, da aggiornarsi annualmente con decreto del Ministro della salute; mentre, al secondo comma, dovrebbe prevedere che l’ammontare del danno così liquidato «può essere aumentato dal giudice in misura non superiore al 50 per cento con equo e motivato apprezzamento delle condizioni soggettive del danneggiato».

La previsione legislativa di un limite massimo alla liquidazione giudiziale del danno alla persona collide con il principio del danno effettivo, alla stregua del quale il risarcimento deve coprire integralmente il pregiudizio subìto dalla vittima dell’illecito.

Si discute peraltro se tale principio abbia copertura costituzionale.

Mentre la dottrina appare divisa, la Corte Costituzionale ha dato soluzioni diversificate che sembrano lasciare il problema aperto:

a) Corte Cost., n. 157/2011 ha dichiarato inammissibile per carenza di prospettazione la questione di legittimità costituzionale dell’art. 139 del Codice delle assicurazioni private, sollevata, in riferimento agli artt. 2, 3, 24 e 76 Cost., nella parte in cui tale norma, prevedendo un risarcimento del danno biologico basato su rigidi parametri fissati da tabelle ministeriali, non consentirebbe di giungere ad un’adeguata personalizzazione del danno;

b) Corte Cost., n. 132/1985 ha dichiarato l’illegittimità, per contrasto con l’art. 2 Cost., della legge di esecuzione della Convenzione di Varsavia sul trasporto aereo internazionale del 1929, nella parte in cui ha dato esecuzione all’art. 22 della Convenzione medesima, che prevede limitazioni alla responsabilità del vettore per i danni subìti dai passeggeri. Premesso che il legislatore deve soddisfare le esigenze di contemperamento tra la tutela del diritto al risarcimento integrale, quando il bene leso dal sinistro è l’incolumità fisica o la vita (che trova copertura costituzionale nell’art.2 Cost.) e quella dell’iniziativa economica connessa con il traffico aereo, la quale riveste indubbia e crescente utilità sociale, ed è anch’essa costituzionalmente protetta, fin dove giunge la guarentigia dell’art. 41 Cost. – e premesso pertanto che in tale prospettiva la limitazione della responsabilità del vettore si appalesa giustificata solo in quanto siano al tempo stesso predisposte adeguate garanzie di certezza od adeguatezza per il ristoro del danno – la Corte ha rilevato che le limitazioni risarcitorie previste dalla Convenzione di Varsavia, risalente al 1929, stipulata in un’epoca in cui l’industria del trasporto aereo, ancora all’inizio ed esposta a sensibile rischio, richiedeva adeguate misure protettive, non costituiscono strumento adeguato a soddisfare le predette esigenze e si traducono in una previsione ingiustificata nella quale difetta del tutto la tutela del danneggiato;

c) Corte Cost., n.235/2014 ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 139 del codice delle assicurazioni, sul rilievo che l’introdotto meccanismo “standard” di quantificazione del danno, attinente al solo specifico e limitato settore delle lesioni di lieve entità e coerentemente riferito alle conseguenze pregiudizievoli registrate dalla scienza medica, lascia spazio al giudice per personalizzare l’importo risarcitorio risultante dall’applicazione delle tabelle, che può essere maggiorato di un quinto avuto riguardo alle condizioni soggettive del danneggiato.

Con questa sentenza la Corte Costituzionale ha espressamente richiamato la pronuncia della Corte di Giustizia 23 gennaio 2014 C371/12, emessa in sede di rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE, la quale aveva affermato la conformità alle direttive europee che regolano la materia dell’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile dalla circolazione di autoveicoli, della legislazione nazionale volta a stabilire “un particolare sistema di risarcimento dei danni morali derivanti da lesioni corporali di lieve entità causate da sinistri stradali, che limita il risarcimento di tali danni rispetto a quanto ammesso in materia di risarcimento di danni identici risultanti da cause diverse da detti sinistri”.

La circostanza che al problema dell’eventuale copertura costituzionale del principio dell’integralità del risarcimento del danno alla persona non è stata data ancora una risposta definitiva da parte del giudice delle leggi, apre alla possibilità che la questione sia nuovamente sottoposta alla Corte Costituzionale, specie se dovesse entrare in vigore il nuovo disegno di legge volto a prevedere un tetto massimo in via generale, senza avere riguardo alle particolari circostanze del caso concreto.

La norma volta a prevedere una siffatta limitazione, in grado di pregiudicare la riparazione integrale del pregiudizio all’integrità psico-fisica della persona, potrebbe infatti essere ritenuta in contrasto con l’art. 2 Cost. in quanto lesiva della dignità della persona umana.

5. Nuove linee evolutive del danno non patrimoniale. Le pronunce del 2018.

Le più recenti decisioni della Suprema Corte sembrano muoversi nel sentiero di una rimeditazione del sistema delineato nel 2008.

- In particolare, Sez. 3, n. 901/2018, Travaglino, RRvv. 647125-01, 647125-02, 647125-03, 647125-04, movendo dalla considerazione che l’ordinamento positivo riconosce unicamente le fattispecie del danno patrimoniale e del danno non patrimoniale, ha precisato che a quest’ultimo va bensì attribuita natura unitaria e omnicomprensiva ma in un senso diverso da quello delle pronunce del 2008. La natura unitaria sta a significare che devono essere trattate allo stesso modo, ai fini dell’accertamento e della liquidazione, le lesioni di tutti i diritti costituzionalmente protetti, si tratti di quello alla salute o di altro diritto. La natura omnicomprensiva sta invece a significare che, nella liquidazione di qualsiasi pregiudizio, il giudice deve tenere conto di tutte le conseguenze che sono derivate dall’evento di danno, nessuna esclusa, pur nella necessità di evitare duplicazioni risarcitorie. Si delinea in tal modo la nuova nozione di danno non patrimoniale sia sotto il profilo del danno-evento che del danno-conseguenza.

- Il danno-evento è costituito dalla lesione di un’indispensabile situazione soggettiva protetta a livello costituzionale (oltre alla salute, il rapporto familiare e parentale l’onore, la reputazione, la libertà religiosa, il diritto di autodeterminazione al trattamento sanitario, l’ambiente, il diritto di libera espressione del pensiero, il diritto di difesa, di associazione, di libertà religiosa, ecc.).

- Il danno-conseguenza è costituito dalle due ripercussioni che ognuno di questi “vulnera” naturalisticamente produce: quella che si colloca all’interno della persona (la sofferenza morale in tutti i suoi aspetti, quali il dolore, la vergogna, il rimorso, la disistima di sé la malinconia, la tristezza) e quella che si colloca all’esterno della persona (l’alterazione della vita quotidiana nel suo aspetto dinamico-relazionale).

- Questa duplice epifania delle conseguenze del danno non patrimoniale (sofferenza interiore, da un lato; incidenza sugli aspetti relazionali della vita della persona, dall’altro) non potrebbe essere cancellata dalle sovrastrutture giuridiche con le quali si è cercato di eliminare l’autonomia del danno morale, in quanto essa non solo sarebbe apprezzabile nell’ordine fenomenico-naturalistico, ma troverebbe fondamento anche nel diritto positivo: da un lato, infatti, la tesi predicativa di una pretesa “unitarietà omnicomprensiva” del danno biologico sarebbe stata smentita, al massimo livello interpretativo, dalla stessa Corte Costituzionale, la quale, con la citata sentenza n. 235 del 2014, per un verso, avrebbe limitato l’applicazione del meccanismo “standard” di quantificazione del danno al solo settore delle lesioni di lieve entità, mentre, per altro verso avrebbe escluso che la norma erroneamente tacciata di incostituzionalità (l’art. 139 del codice delle assicurazioni) precluda la risarcibilità anche del danno morale, lasciando al giudice la possibilità di personalizzare il risarcimento per adeguarlo alle peculiarità del caso concreto; dall’altro lato, il nuovo testo dell’art. 138 del medesimo codice delle assicurazioni (di recente riformulato dalla l. n. 124 del 2017) avrebbe individuato nel danno morale da lesione dell’integrità fisica una imprescindibile componente del danno non patrimoniale.

- La doppia dimensione fenomenologica del danno non patrimoniale dà luogo, dunque, a due conseguenze distinte, entrambi autonomamente risarcibili senza che ciò costituisca alcuna duplicazione risarcitoria. Il giudice deve pertanto procedere alla liquidazione sia del danno morale (attribuendo un valore alla sofferenza interna subìta dalla persona) sia del danno dinamico-relazionale, attribuendo un prezzo alla modificazione peggiorativa esterna della sua vita di relazione. In entrambi i casi, peraltro, la liquidazione deve essere subordinata all’accertamento della conseguenza dannosa, la quale va provata di volta in volta con tutti i mezzi di prova normativamente previsti, anche mediante presunzioni.

- Il necessario corollario di tutto il ragionamento è che, mentre non vi è duplicazione risarcitoria tra danno dinamico-relazionale (anche qualificabile come danno esistenziale o danno alla vita di relazione) e danno morale (trattandosi delle due conseguenze distinte della lesione non patrimoniale), invece non potrebbe, in aggiunta al danno esistenziale, liquidarsi autonomamente e distintamente il danno biologico, trattandosi di pregiudizio incidente, come il primo, sull’aspetto dinamico-relazionale della persona.

La linea di tendenza iniziata con la sentenza n. 901/2018 è proseguita con Sez. 3, n. 7513/2018, Rossetti, Rv. 648303-01 e con Sez. 3, n. 23469/2018, Scoditti, RRvv. 650858-01, 650858-02, 650858-03. Tale linea di tendenza può sintetizzarsi attraverso i seguenti principi:

a) Sul piano del diritto positivo, l’ordinamento riconosce e disciplina (soltanto) le fattispecie del danno patrimoniale e del danno non patrimoniale (artt. 2059 c.c.; 185 c.p.).

b) La natura unitaria ed onnicomprensiva del danno non patrimoniale deve essere interpretata, sul piano delle categorie giuridiche, rispettivamente nel senso: a) di unitarietà rispetto a qualsiasi lesione di un interesse o valore costituzionalmente protetto e non suscettibile di valutazione economica; b) di onnicomprensività intesa come obbligo, per il giudice di merito, di tener conto, a fini risarcitori, di tutte le conseguenze (modificative “in pejus” della precedente situazione del danneggiato) derivanti dall’evento di danno, nessuna esclusa, con il concorrente limite di evitare duplicazioni attribuendo nomi diversi a pregiudizi identici, procedendo, a seguito di articolata, compiuta ed esaustiva istruttoria, ad un accertamento concreto e non astratto del danno, all’uopo dando ingresso a tutti i necessari mezzi di prova, ivi compresi il fatto notorio, le massime di esperienza, le presunzioni.

c) Nel procedere all’accertamento ed alla quantificazione del danno risarcibile, il giudice di merito, alla luce dell’insegnamento della Corte costituzionale (sentenza n. 235/2014) e del recente intervento del legislatore (riformulazione degli artt. 138 e 139 Codice delle assicurazioni ad opera dell’art. 1, comma 17, della l. n. 124 del 2017, i quali ora consentono di distinguere definitivamente il danno dinamico-relazionale causato dalle lesioni da quello morale), deve congiuntamente, ma distintamente, valutare la reale fenomenologia della lesione non patrimoniale, e cioè tanto l’aspetto interiore del danno sofferto (cd. danno morale, sub specie del dolore, della vergogna, della disistima di sé, della paura, della disperazione) quanto quello dinamico-relazionale (cd. danno esistenziale o alla vita di relazione, destinato ad incidere in senso peggiorativo su tutte le relazioni di vita esterne del soggetto).

d) Nella valutazione del danno alla salute, in particolare – ma non diversamente che in quella di tutti gli altri danni alla persona conseguenti alla lesione di un valore o interesse costituzionalmente protetto – il giudice dovrà, pertanto, valutare tanto le conseguenze subite dal danneggiato nella sua sfera morale – che si collocano nella dimensione del rapporto del soggetto con se stesso – quanto quelle incidenti sul piano dinamico-relazionale della sua vita (che si dipanano nell’ambito della relazione del soggetto con la realtà esterna, con tutto ciò che costituisce “altro da sé”).

e) In presenza di un danno permanente alla salute, la misura “standard” del risarcimento prevista dalla legge o dal criterio equitativo uniforme adottato dagli organi giudiziari di merito (oggi secondo il sistema c.d. del punto variabile) può essere aumentata, nella sua componente dinamico-relazionale, solo in presenza di conseguenze dannose del tutto anomale, eccezionali ed affatto peculiari: le conseguenze dannose da ritenersi normali e indefettibili secondo l’ “id quod plerumque accidit” (ovvero quelle che qualunque persona con la medesima invalidità non potrebbe non subire) non giustificano alcuna personalizzazione in aumento del risarcimento.

f) Nel caso di lesione della salute, costituisce, pertanto, duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione del danno biologico – inteso, secondo la stessa definizione legislativa, come danno che esplica incidenza sulla vita quotidiana del soggetto e sulle sue attività dinamico relazionali – e del danno cd. esistenziale, appartenendo tali cd. “categorie” o “voci” di danno alla stessa area protetta dalla norma costituzionale (l’art. 32 Cost.).

g) Non costituisce duplicazione risarcitoria, di converso, la differente ed autonoma valutazione compiuta con riferimento alla sofferenza interiore patita dal soggetto in conseguenza della lesione del suo diritto alla salute.

h) In assenza di lesione della salute, ogni “vulnus” arrecato ad un altro valore o interesse costituzionalmente tutelato andrà specularmente valutato ed andrà accertato, all’esito di compiuta istruttoria, e in assenza di qualsiasi automatismo, il medesimo, duplice aspetto, tanto della sofferenza morale, quanto della privazione o diminuzione o modificazione delle attività dinamico-relazionali precedentemente esplicate dal soggetto danneggiato.

Le due fondamentali implicazioni del nuovo sistema sul versante liquidatorio, sono state ulteriormente evidenziate da Sez. 3, n. 27482/2018, Olivieri, Rv. 651338-01 e da Sez. 3, n. 20795/2018, Porreca, Rv. 650413-01, che hanno confermato, rispettivamente, per un verso, la differenza ontologica tra danno morale e danno biologico e, per l’altro, l’identità concettuale tra quest’ultimo e il danno esistenziale, facendone coerentemente derivare, nel primo caso, la necessità di una distinta ed autonoma valutazione e, nel secondo, l’inammissibilità della duplice liquidazione.

La riemersione dell’autonomia concettuale del danno morale (per l’innanzi relegato a mera componente del danno biologico), quale una delle due necessarie conseguenze della lesione dei valori della persona, ha permesso, infine (Sez. 3, n. 26727/2018, Graziosi, Rv. 650909-01), di recuperare, altresì, la specifica figura del “danno morale terminale”, peraltro mai abbandonata (v., ad es., Sez. 3, n. 23183/2014, Sestini, Rv. 633238-01; Sez. 3, n.21060/2016, Scarano, Rv. 642934-01), ma difficilmente collocabile, sotto il profilo della coerenza sistematica, nel quadro delineato dalle pronunce del 2008.

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  • professioni commerciali
  • professioni finanziarie
  • responsabilità
  • medico
  • avvocato

CAPITOLO XII

LE RESPONSABILITÀ PROFESSIONALI

(di Irene Ambrosi )

Sommario

1 Premessa. - 2 La responsabilità del medico. - 3 La responsabilità dell’avvocato. - 4 La responsabilità del notaio. - 5 La responsabilità del commercialista. - 6 La responsabilità dell’intermediario finanziario.

1. Premessa.

Il “sottosistema” della responsabilità civile elaborato dalla giurisprudenza di legittimità nei diversi ambiti di esercizio delle professioni intellettuali, anche nel corso dell’anno 2018, è stato oggetto di numerose pronunce che hanno riguardato un triplice ordine di temi ricorrenti: l’ambito di estensione della diligenza qualificata esigibile da parte del professionista, il contenuto dell’inesatto adempimento ed i criteri di riparto dell’onere probatorio tra professionista e danneggiato.

2. La responsabilità del medico.

Nel settore delle obbligazioni inerenti le prestazioni professionali, il maggior numero di pronunce si è registrato, anche nell’anno in corso, con riferimento all’ambito sanitario.

La Suprema Corte ha, in primo luogo, confermato la valutazione rigorosa della regola che impone al professionista una diligenza particolarmente qualificata dalla perizia e dall’impiego degli strumenti tecnici adeguati al tipo di attività dovuta; in secondo luogo, si è pronunciata sul tema della violazione del diritto di autodeterminarsi liberamente nella scelta dei propri percorsi esistenziali determinata dalla colpevole condotta dell’esercente la professione sanitaria ed infine, ha regolato la messa a fuoco delle regole di riparto degli oneri probatori tra paziente e medico in relazione sia al dedotto inadempimento o all’inesatto adempimento della prestazione sanitaria sia al denunciato inadempimento all’obbligo di acquisire il consenso informato del paziente, a seconda che sia dedotta la violazione del diritto all’autodeterminazione o la lesione del diritto alla salute.

La casistica affrontata in tema di diligenza, con particolare riguardo alla responsabilità del medico chirurgo, ha ribadito che la diligenza nell’adempimento della prestazione professionale deve essere valutata assumendo a parametro non la condotta del buon padre di famiglia, ma quella del debitore qualificato, ai sensi dell’art. 1176, comma 2 c.c., con la conseguenza che, in presenza di paziente con sintomi aspecifici, il sanitario è tenuto a prenderne in considerazione tutti i possibili significati ed a segnalare le alternative ipotesi diagnostiche. Nella specie, la Suprema Corte ha cassato con rinvio la decisione di merito che aveva ritenuto diligente la condotta del medico il quale in presenza di sintomi aspecifici (quali svenimento e cefalea, non univocamente riconducibili ad un aneurisma cerebrale, ma nemmeno tali da escluderlo) aveva omesso di prescrivere al paziente tempestivi approfondimenti diagnostici con particolare riguardo alla TAC cranica (Sez. 3, n. 30999/2018, Rossetti, Rv. 651668-01). Con riferimento, inoltre, al contenuto dell’obbligo di diligenza che grava su ciascun componente dell’equipe medica è stato affermato che esso comprende non solo le specifiche mansioni a lui affidate, ma anche il controllo sull’operato e sugli errori altrui che siano evidenti e non settoriali, sicché rientra tra gli obblighi di ogni singolo componente della equipe chirurgica, sia esso in posizione sovra o sotto ordinata, anche quello di prendere visione, prima dell’operazione, della cartella clinica contenente tutti i dati per verificare la necessità di adottare particolari precauzioni imposte dalla specifica condizione del paziente ed eventualmente segnalare, anche senza particolari formalità, il suo motivato dissenso rispetto alle scelte chirurgiche effettuate ed alla scelta stessa di procedere all’operazione, potendo solo in tal caso esimersi dalla concorrente responsabilità dei membri dell’equipe nell’inadempimento della prestazione sanitaria. Nella specie, il secondo aiuto di una equipe chirurgica, pur avendo correttamente eseguito i compiti di sua stretta competenza, aveva omesso di rilevare che il paziente versava in condizioni fisiche alterate, individuabili attraverso gli esami ematici presenti nella cartella, tali da sconsigliare altamente l’intervento operatorio, peraltro non necessario né urgente. (Sez. 3, n. 2060/2018, Rubino, Rv. 647907-01).

Quanto all’obbligo di diligenza in materia di danni derivanti da emotrasfusioni, è stato riaffermato che non risponde per inadempimento contrattuale la singola struttura ospedaliera, pubblica o privata, inserita nella rete del servizio sanitario nazionale, che abbia utilizzato sacche di sangue, provenienti dal servizio di immunoematologia trasfusionale della USL, preventivamente sottoposte ai controlli richiesti dalla normativa dell’epoca, esulando in tal caso dalla diligenza a lei richiesta il dovere di conoscere e attuare le misure attestate dalla più alta scienza medica a livello mondiale per evitare la trasmissione del virus, almeno quando non provveda direttamente con un autonomo centro trasfusionale (Sez. 6-3, n. 7884/2018, Cirillo, Rv. 648285-01, conformemente a quanto già affermato da Sez. 3, n.3261/2016, Carluccio, Rv. 638929-01). Inoltre, atteso che l’attività di trasfusione era già connotata da obiettiva pericolosità anche prima dell’entrata in vigore dell’art. 5, comma 7, del d.l. n. 443 del 1987, conv., con modif. dalla l. n. 531 del 1987 (che ha stabilito l’obbligo per le USL di compiere preventivi controlli del sangue da destinare alle trasfusioni, al fine di accertare l’assenza del virus HIV) è stato ritenuto che l’inosservanza della normativa esistente, del protocollo, delle linee guida e delle leges artis, emanati allo scopo di evitare i rischi specifici, configura grave inadempimento contrattuale del medico per condotta commissiva ed omissiva, imputabile anche alla struttura sanitaria ex art. 1228 c.c. (Sez. 6-3, n. 7814/2018, Scarano, Rv. 648351-01, come già ritenuto da Sez. 3, n. 9315/2010, Chiarini, Rv. 612440-01).

Sul tema della violazione del diritto di determinarsi liberamente nella scelta dei propri percorsi esistenziali determinata dalla colpevole condotta dell’esercente la professione sanitaria, la Corte di legittimità si è pronunciata formulando una serie di interessanti precisazioni.

Diverse pronunce hanno toccato il tema del contenuto dell’obbligo del medico di informare il paziente circa i possibili effetti pregiudizievoli, non imprevedibili dell’atto terapeutico.

Nel caso in cui l’atto sia stato correttamente eseguito secundum legem artis, la Corte ha affermato che può essere riconosciuto il risarcimento del danno alla salute per la verificazione degli effetti dannosi, solo ove il paziente alleghi e provi, anche in via presuntiva, che, se correttamente informato, avrebbe rifiutato di sottoporsi a detto intervento ovvero avrebbe vissuto il periodo successivo ad esso con migliore e più serena predisposizione ad accettarne le eventuali conseguenze e sofferenze. (Fattispecie nella quale, Sez. 3, n. 2369/2018, Gianniti, Rv. 647593-01, ha cassato la sentenza di merito che, relativamente alla accertata mancanza di consenso di una paziente rispetto ad un intervento di salpingectomia quale complicanza di un parto cesareo, aveva affermato la responsabilità del medico senza valutare se la paziente, ove adeguatamente informata dell’intervento di sterilizzazione tubarica, avrebbe rifiutato la prestazione).

Nel caso in cui il medico esegua un esame diagnostico, è stato precisato che grava su questi l’obbligo di informare il paziente, in forma completa e con modalità congrue al livello di conoscenze scientifiche dello stesso, sugli esiti dell’accertamento, sul grado di rischio delle patologie riscontrate e sulla necessità ed urgenza di ulteriori approfondimenti diagnostici, dal cui inadempimento può conseguire in capo al paziente un danno da perdita di chance di guarigione o di sopravvivenza; questo danno presuppone che il paziente, benché malato grave o anche gravissimo, abbia tuttavia ancora dinanzi – ove la condotta medica fosse corretta – la possibilità di uscire da tale situazione mediante una guarigione o una sopravvivenza di entità consistente, misurabile in termini di anni (cd. lungo-sopravvivenza) e va distinto dal diverso pregiudizio alla qualità della vita nel tempo conclusivo dell’esistenza, il quale presuppone, invece, che il paziente versi nella condizione di malato terminale, la cui sopravvivenza – sempre nell’ipotesi di condotta medica corretta – sia circoscritta ad un tempo limitato, misurabile in termini di poche settimane o di pochi mesi. (Sez. 3, n. 06688/2018, Graziosi, Rv. 648486-01).

In una fattispecie di responsabilità del medico per erronea diagnosi concernente il feto e conseguente nascita indesiderata, la Suprema Corte ha ritenuto che il risarcimento dei danni, che costituiscono conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento della struttura sanitaria all’obbligazione di natura contrattuale gravante sulla stessa, spetta non solo alla madre, ma anche al padre, atteso il complesso di diritti e doveri che, secondo l’ordinamento, si incentrano sulla procreazione cosciente e responsabile, considerando che, agli effetti negativi della condotta del medico ed alla responsabilità della struttura ove egli opera non può ritenersi estraneo il padre che deve, perciò, considerarsi tra i soggetti “protetti” e, quindi, tra coloro rispetto ai quali la prestazione mancata o inesatta è qualificabile come inadempimento, con il correlato diritto al risarcimento dei conseguenti danni, immediati e diretti, fra cui deve ricomprendersi il pregiudizio patrimoniale derivante dai doveri di mantenimento dei genitori nei confronti dei figli. (Sez. 3, n. 02675/2018, Di Florio, Rv. 647937-01. Nella specie, era stato eseguito in maniera erronea un intervento di raschiamento uterino in seguito ad una non corretta diagnosi di aborto interno, accertata dopo la ventunesima settimana e, quindi, oltre il termine previsto dalla l. n. 194 del 22 maggio 1978, con la conseguenza che la gravidanza era proseguita e si era conclusa con la nascita indesiderata di una bambina).

Con una successiva rilevante pronuncia emessa in relazione alla domanda di risarcimento dei danni parentali conseguenti al decesso di un congiunto, avvenuto a causa di errori diagnostici che ritardarono di oltre due anni la diagnosi di un tumore polmonare, la Corte ha ritenuto che l’attività del giudice debba tenere distinta la dimensione della causalità da quella dell’evento di danno e debba altresì adeguatamente valutare il grado di incertezza dell’una e dell’altra, muovendo dalla previa e necessaria indagine sul nesso causale tra la condotta e l’evento, secondo il criterio civilistico del “più probabile che non”, e procedere, poi, all’identificazione dell’evento di danno, la cui riconducibilità al concetto di chance postula una incertezza del risultato sperato, e non già il mancato risultato stesso, in presenza del quale non è lecito discorrere di una chance perduta, ma di un altro e diverso danno; ne consegue che, provato il nesso causale rispetto ad un evento di danno accertato nella sua esistenza e nelle sue conseguenze dannose risarcibili, il risarcimento di quel danno sarà dovuto integralmente. (Sez. 3, n. 05641/2018, Travaglino, Rv. 648461-03. In applicazione di tale principio, è stata cassata con rinvio la sentenza di merito la quale, nel rigettare la domanda, aveva escluso che l’inadempimento dei sanitari avesse ridotto la chance di guarigione del paziente, sul rilievo che la morte si sarebbe comunque verificata, omettendo così di identificare correttamente l’evento di danno nella perdita anticipata della vita e nella peggiore qualità della stessa).

Sotto altro profilo, è stato precisato che il ritardo diagnostico di una patologia ad esito certamente infausto, non coincide con la perdita di chances connesse allo svolgimento di specifiche scelte di vita non potute compiere, ma con la lesione di un bene di per sé autonomamente apprezzabile sul piano sostanziale, tale da non richiedere l’assolvimento di alcun ulteriore onere di allegazione argomentativa o probatoria e da giustificare una condanna al risarcimento del danno sulla base di una liquidazione equitativa. (Sez. 3, n. 7260/2018, Dell’Utri, Rv. 647957-01).

In via più generale, infine, è stato riaffermato che l’omessa acquisizione del consenso informato preventivo al trattamento sanitario – fuori dai casi in cui lo stesso debba essere praticato in via d’urgenza e il paziente non sia in grado di manifestare la propria volontà – determina la lesione in sé della libera determinazione del paziente, quale valore costituzionalmente protetto dagli artt. 32 e 13 Cost., quest’ultimo ricomprendente la libertà di decidere in ordine alla propria salute ed al proprio corpo, a prescindere quindi dalla presenza di conseguenze negative sul piano della salute, e dà luogo ad un danno non patrimoniale autonomamente risarcibile, ai sensi dell’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c. (Sez. 3, n. 17022/2018, D’Arrigo, Rv. 649442 – 01).

Nello stesso ambito, ma sul piano probatorio, è stato precisato che il danno-conseguenza derivante dalla lesione del diritto fondamentale all’autodeterminazione, determinata dalla violazione da parte del medico dell’obbligo di acquisire il consenso informato, non necessita di specifica prova, salva la possibilità di contestazione della controparte e di allegazione della prova, da parte del paziente, di fatti a sé ancora più favorevoli di cui intenda giovarsi a fini risarcitori (Sez. 3, n. 11749/2018, Spaziani, Rv. 648644 – 01).

Sullo stesso piano, è stato ribadito che il pregiudizio non patrimoniale debba superare ai fini risarcitori la soglia della tollerabilità imposta dai doveri di solidarietà sociale e non essere futile ovvero consistere in meri fastidi e disagi (Sez. 3, n. 2847/2010, Amatucci, Rv. 611428-01, richiamata in motivazione da Sez. 3, n. 20885/2018, Rubino, Rv. 650433-01). Nello stesso solco, inoltre, è stata ribadita per un verso la risarcibilità del danno riflesso subito dal coniuge del paziente che sia conseguenza della condotta di violazione della regola del consenso informato in danno di quest’ultimo (Sez. 3, n. 26728/2018, Fiecconi, Rv. 651140-02) e per l’altro, la sussistenza della responsabilità dell’aiuto chirurgo per non aver assicurato l’informazione dovuta, aggiuntiva a quella che grava sul capo equipe esecutore dell’operazione, in caso di omessa acquisizione del consenso medico informato, soprattutto nel caso in cui l’aiuto chirurgo abbia in precedenza consigliato al paziente l’esecuzione dell’intervento. (Sez. 3, n. 26728/2018, Fiecconi, Rv. 651140-01).

È stato altresì chiarito che l’inadempimento all’obbligo di acquisire il consenso informato del paziente assume diversa rilevanza causale a seconda che sia dedotta la violazione del diritto all’autodeterminazione o la lesione del diritto alla salute. Nel primo caso, l’omessa o insufficiente informazione preventiva evidenzia ex se una relazione causale diretta con la compromissione dell’interesse all’autonoma valutazione dei rischi e dei benefici del trattamento sanitario, nel secondo l’incidenza eziologica del deficit informativo sul risultato pregiudizievole dell’atto terapeutico correttamente eseguito dipende dall’opzione che il paziente avrebbe esercitato se fosse stato adeguatamente informato ed è configurabile soltanto in caso di presunto dissenso, con la conseguenza che l’allegazione dei fatti dimostrativi di tale scelta costituisce parte integrante dell’onere della prova – che, in applicazione del criterio generale di cui all’art. 2697 c.c., grava sul danneggiato – del nesso eziologico tra inadempimento ed evento dannoso. (Sez. 3, n. 19199/2018, Olivieri, Rv. 649949-01. In applicazione del principio, la Corte ha confermato la sentenza di merito con la quale, nella specie, era stata respinta la domanda di risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale sul presupposto che non solo gli attori non avevano allegato il presunto dissenso del congiunto, ma dalle risultanze istruttorie erano emersi elementi, come l’assenza di soluzioni terapeutiche alternative e il fatto che in precedenza il paziente si era sottoposto ad interventi analoghi, che deponevano per la presunzione di consenso al trattamento sanitario).

Una nutrita serie di altre pronunce hanno affrontato la questione relativa ai criteri di riparto dell’onere della prova del nesso causale tra insorgenza o aggravamento della patologia e condotta del medico e, dando seguito alla scelta di campo formulata dalle pronunce Sez. 3, n. 18392/2017, Scoditti, Rv. 645164-01 e Sez. 3, n. 29315/2017, Sestini, Rv. 646653-01, hanno ribadito che grava sul paziente l’onere di dimostrare l’esistenza del nesso causale, dando prova che la condotta del sanitario è stata secondo il criterio funzionale del “più probabile che non” causa del danno; con la conseguenza che nei casi in cui essa sia rimasta assolutamente incerta, la domanda deve essere rigettata (Sez. 3, n. 3704/2018, Tatangelo, Rv. 647948-01 e Sez. 3, n. 20812/2018, Pellecchia, Rv. 650417-01). Nello stesso solco, è stato precisato che la prova dell’inadempimento del medico non è sufficiente ad affermarne la responsabilità per la morte del paziente, occorrendo altresì il raggiungimento della prova del nesso causale tra l’evento e la condotta inadempiente, secondo la regola della riferibilità causale dell’evento stesso all’ipotetico responsabile secondo il criterio del “più probabile che non” (Sez. 3, n. 21008/2018, Gorgoni, Rv. 650183-01). In tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria, ove il danneggiato abbia assolto all’onere di provare il nesso causale tra l’aggravamento della patologia (o l’insorgenza di una nuova malattia) e l’azione o l’omissione dei sanitari, spetta alla struttura dimostrare l’impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile, provando che l’inesatto adempimento è stato determinato da un impedimento imprevedibile ed inevitabile con l’ordinaria diligenza; nella specie, la Suprema Corte ha confermato la decisione di merito che aveva rigettato la domanda risarcitoria proposta dalla paziente (in relazione a un ictus cerebrale che l’aveva colpita a seguito di un esame angiografico), sul rilievo che la consulenza tecnica d’ufficio espletata aveva evidenziato l’esistenza di diversi fattori, indipendenti dalla suddetta condotta, che avevano verosimilmente favorito l’evento lesivo (Sez. 3, n. 26700/2018, Guizzi, Rv. 651166-01).

Sul versante dell’accertamento dell’efficienza concausale di un pregresso stato morboso del paziente (nella specie, leucomalacia periventricolare – danno alla sostanza bianca presente nel cervello) sindrome antecedente priva di interdipendenza funzionale con l’accertata condotta colposa del sanitario (nella specie, intempestivo intervento di taglio cesareo di fronte a sofferenza fetale acuta), ma dotata di efficacia concausale nella determinazione dell’unica e complessiva situazione patologica riscontrata, è stato ritenuto che alla stessa non può attribuirsi rilievo sul piano della ricostruzione del nesso di causalità tra detta condotta e l’evento dannoso, appartenendo ad una serie causale del tutto autonoma rispetto a quella in cui si inserisce il contegno del sanitario, bensì unicamente sul piano della determinazione equitativa del danno, potendosi così pervenire – sulla base di una valutazione da effettuarsi, in difetto di qualsiasi automatismo riduttivo, con ragionevole e prudente apprezzamento di tutte le circostanze del caso concreto – solamente ad una delimitazione del quantum del risarcimento. (Sez. 3, n. 20829/2018, Scarano, Rv. 650420-02, conformemente a quanto già affermato da Sez. 3, n. 03893/2016, Scarano, Rv. 639350). È stato, viceversa, escluso che in sede di quantificazione del danno il giudice possa procedere ad alcuna diminuzione del quantum debeatur in ragione dello stato di vulnerabilità dei danneggiati rispetto alla “normalità” degli altri consociati. (Sez. 3, n. 20836/2018, Fanticini, Rv. 650421-02).

Per ultimo, sul piano processuale, la Corte di legittimità ha formulato due rilevanti precisazioni; con la prima, ha chiarito che ai fini dell’individuazione dei fatti e degli elementi di diritto costituenti ragione della domanda di risarcimento del danno da responsabilità medica ai sensi dell’art. 163, comma 3, n. 4, c.p.c., è imprescindibile l’espressa indicazione di quelli, tra i fatti storici oggetto della pregressa narrazione, sui quali è fondata la causa petendi, non essendo sufficiente la mera attività narrativa senza alcuna esplicitazione in merito all’essere quei fatti “ragione della domanda”. (Sez. 3, n. 10577/2018, Frasca, Rv. 648595-01); con la seconda, ha affermato che la chiamata di terzo formulata dal convenuto in un giudizio di risarcimento dei danni (nella specie, l’Azienda Ospedaliera convenuta aveva chiamato in causa il proprio dipendente medico-chirurgo indicandolo come soggetto (cor)responsabile della pretesa fatta valere dall’attore) con la quale chieda di essere manlevato in caso di accoglimento della pretesa attorea, senza porre in dubbio la propria legittimazione passiva, costituisce una ipotesi di chiamata in garanzia, nella quale non opera la regola della automatica estensione della domanda al terzo chiamato, atteso che la posizione assunta dal terzo nel giudizio non contrasta, ma anzi coesiste, con quella del convenuto rispetto all’azione risarcitoria, salvo che l’attore danneggiato proponga nei confronti del chiamato (quale coobbligato solidale) una nuova autonoma domanda di condanna. (Sez. 3, n. 30601/2018, Olivieri, Rv.651852-01).

3. La responsabilità dell’avvocato.

Con riferimento alle obbligazioni inerenti le prestazioni professionali in ambito legale, la Corte di legittimità ha, per un verso, ribadito e, per l’altro, precisato alcune affermazioni già formulate in passato in tema di diligenza del professionista avvocato nei confronti del cliente.

In via generale è stato ribadito che l’incarico professionale va considerato unitariamente anche quando vi siano stati più gradi di giudizio e indipendentemente dal fatto che sia stata conferita una nuova procura al medesimo difensore per il grado successivo; da tale circostanza, infatti, discende la prosecuzione dell’affare di cui il legale era stato incaricato dal cliente e non il suo esaurimento, sicché il cliente, alla data di pubblicazione della sentenza non impugnabile che definisce il giudizio, può ancora opporre l’eccezione d’inadempimento, ex art. 1460 c.c., per avere l’avvocato violato l’obbligo di diligenza professionale. (Sez. 2, n. 18858/2018 Rv. 649704-01 che in motivazione richiama la costante giurisprudenza in materia Sez. 2, n. 13774/2004, Scherillo, Rv. 574870-01).

Per altro verso, in tema di responsabilità dell’avvocato verso il cliente, è stato riaffermato il principio per il quale viene meno ai propri obblighi di diligenza il professionista che, dopo aver trascritto, in favore del cliente, un sequestro conservativo su un immobile, successivamente alienato dal debitore, non provveda agli adempimenti necessari per la conversione del sequestro in pignoramento, al fine di rendere inopponibile al creditore la suddetta alienazione, ai sensi dell’art. 2906, comma 1, c.c. (Sez. 3, n. 24519/2018, Guizzi, Rv. 651134-01). Nello stesso solco, è stato affermato che la scelta di una determinata strategia processuale può essere foriera di responsabilità nei confronti del difensore, purché la sua inadeguatezza al raggiungimento del risultato perseguito dal cliente sia valutata dal giudice di merito ex ante, in relazione alla natura e alle caratteristiche della controversia e all’interesse del cliente ad affrontarla con i relativi oneri, dovendosi in ogni caso valutare anche il comportamento successivo tenuto dal professionista nel corso della lite; pertanto, in relazione ad una causa che presenti un’elevata probabilità di soccombenza per il proprio cliente, il difensore che abbia accettato l’incarico non può poi disinteressarsene del tutto, incorrendo in responsabilità professionale ove esponga il cliente all’incremento del pregiudizio iniziale, se non altro a causa delle spese processuali cui lo stesso va incontro per la propria difesa e per quella della controparte. (Sez. 3, n. 30169/2018, Fiecconi, Rv. 651847-01. Nella specie ha confermato la sentenza di merito che aveva escluso la responsabilità professionale dell’avvocato il quale, pur avendo sconsigliato il cliente di svolgere l’opposizione a decreto ingiuntivo dal sicuro esito sfavorevole, aveva accettato l’incarico in considerazione della sua impossibilità di onorare nell’immediato il debito, adoperandosi successivamente nel corso della lite per addivenire a una transazione, tuttavia non accettata dal cliente).

Con specifico riguardo alla disciplina delle spese processuali, la Corte ha chiarito che l’attività del difensore senza procura (perché inesistente, falsa o rilasciata da soggetto diverso da quello dichiaratamente rappresentato o per processi o fasi diverse da quelle in cui l’atto è speso) non riverbera alcun effetto sulla parte e resta attività processuale di cui il legale assume esclusivamente la responsabilità, ne consegue che il procedimento sarà definito con declaratoria di inammissibilità e a soccombere sulla questione pregiudiziale della carenza di procura, rilevabile d’ufficio, è soltanto l’avvocato che ha sottoscritto, e fatto notificare, l’atto introduttivo del giudizio, né può trovare applicazione l’esonero dalle spese processuali, previsto dall’art. 152 disp. att. c.p.c., per “il lavoratore soccombente”, non rientrando lo stesso in tale categoria. (Sez. L, n. 15305/2018, Calafiore, Rv. 649253-01).

Degna di menzione in ambito processuale è l’affermazione ribadita dalla Corte per la quale, in assenza di una espressa volontà della parte circa il carattere congiuntivo del mandato alle liti, è valido il ricorso per cassazione sottoscritto da due avvocati, di cui uno solo iscritto nell’albo degli avvocati abilitati alla difesa innanzi alle giurisdizioni superiori, atteso che l’avvocato abilitato, apponendo la firma sul ricorso, fa proprio il contenuto dell’atto e ne assume in pieno la paternità e la responsabilità nei riguardi della parte assistita, della controparte e del giudice, mentre rimane irrilevante l’altra sottoscrizione. (Sez. 2, n. 6736/2018, Besso Marcheis, Rv. 647855-01). Nello stesso ambito, la Corte ha osservato che il cosiddetto vizio di sussunzione censurabile dal giudice di legittimità può consistere o nell’assumere la fattispecie concreta giudicata sotto una norma che non le si addice, perché la fattispecie astratta da essa prevista non è idonea a regolarla, oppure nel trarre dalla norma, in relazione alla fattispecie concreta, conseguenze giuridiche che contraddicano la pur corretta sua interpretazione; si trattava, nella specie, della responsabilità professionale di un avvocato in relazione al ritardato deposito del ricorso in cassazione cui era seguita la declaratoria di improcedibilità (nel cassare la sentenza impugnata, Sez. 3, n. 10320/2018, Guizzi, Rv. 648593-01 – ponendosi in motivazione in consapevole contrasto con altra precedente pronuncia della stessa sezione, Sez. 3, n. 3355/2014, Cirillo, Rv. 630155-01 – ha ritenuto che la valutazione prognostica compiuta dal giudice di merito circa il probabile esito dell’impugnazione, dichiarata improcedibile, non concretasse un mero giudizio di fatto, ma si traducesse in un vizio di sussunzione delle norme sull’accertamento del nesso causale tra la condotta omissiva del professionista e l’evento di danno lamentato dal cliente).

4. La responsabilità del notaio.

Con riferimento alle obbligazioni inerenti le prestazioni professionali del notaio, la casistica si è arricchita fornendo il giudice di legittimità alcune interessanti indicazioni in tema di diligenza e buona fede e di limiti oltre i quali non può ritenersi sussistente la responsabilità.

Sotto il primo profilo, la Corte ha riaffermato il principio secondo cui il notaio – al momento della stipula di un mutuo ipotecario – deve essere certo dell’identità personale delle parti secondo regole di diligenza qualificata, prudenza e perizia professionale; a tal fine, l’identificazione della parte fondata oltre che sull’esame della carta d’identità (o altro documento equipollente), anche sul confronto della corrispondenza dei dati identificativi della persona con quelli riportati nella documentazione approntata dalla banca ai fini dell’istruttoria della pratica di mutuo, consente di ritenere adempiuto il suddetto obbligo professionale, mentre è contrario a buona fede o correttezza il comportamento della banca che, dopo aver predisposto la documentazione per la stipula del mutuo comprensiva anche dei dati identificativi del mutuatario, si dolga della erronea identificazione compiuta dal notaio sulla base dell’apparente regolarità della carta d’identità. (Sez. 3, n. 13362/2018, Scarano, Rv. 648795-01).

Nel caso di accertata responsabilità per condotta omissiva consistita nella mancata verifica dell’esistenza di iscrizioni ipotecarie su immobili, è stato precisato che non sussiste la responsabilità professionale del notaio quando sia provato che il contraente interessato a tale informazione conosceva l’esistenza di quelle formalità. (Sez. 3, n. 17010/2018, Scarano, Rv. 649439-01; nella specie, in un giudizio risarcitorio promosso dagli acquirenti di un immobile nei confronti del notaio richiesto della redazione dell’atto pubblico di compravendita, la Corte ha ritenuto idoneo ad attestare la conoscenza, da parte dei compratori, dell’ipoteca gravante sul bene il fatto che nel contratto fosse stata inserita una clausola, sia pure seguita da annotazione di annullamento, contenente l’impegno della parte venditrice a provvedere alla cancellazione dell’iscrizione pregiudizievole). In un altro caso di accertata responsabilità per condotta omissiva consistita nel mancato accertamento dell’esistenza di iscrizioni ipotecarie e di pignoramenti sull’immobile, la Corte di legittimità ha ritenuto che il notaio rogante può essere condannato al risarcimento per equivalente commisurato, quanto al danno emergente, all’entità della somma complessivamente necessaria perché l’acquirente consegua la cancellazione del vincolo pregiudizievole, la cui determinazione deve essere rimessa al giudice di merito. (Sez. 3, n. 15761/2018, Di Florio, Rv. 649416-01).

Infine, in un’altra fattispecie avente ad oggetto la vendita di terreni dei quali l’alienante assuma di avere acquistato la proprietà per usucapione senza il relativo accertamento giudiziale, il notaio rogante, vincolato all’obbligo di informazione e chiarimento nei confronti delle parti, è tenuto a precisare nell’atto, dopo averlo accertato, che il compratore ha ben chiaro il rischio che assume con l’acquisto dal preteso usucapiente, mediante apposita clausola da menzionare nel quadro “D” della nota di trascrizione, al fine di segnalare altresì a terzi la carenza della pubblica fede notarile con riguardo alla provenienza dell’immobile ed all’inesistenza di formalità pregiudizievoli. (Sez. 2, n. 32147/2018, Scarpa, Rv.652047-01).

5. La responsabilità del commercialista.

Nella materia che concerne la responsabilità del professionista nella predisposizione delle dichiarazioni fiscali, la Corte ha ribadito che vale il principio in base al quale la domanda di rimborso dell’ IVA va tenuta distinta da quella di compensazione dell’imposta con altro debito fiscale, con la conseguenza che, laddove l’istanza del contribuente sia formulata in termini di compensazione, e non denoti l’inequivocabile volontà di ottenere il rimborso del credito (mediante l’indicazione del credito nel quadro “RX4” nella dichiarazione annuale), non si applica il termine ordinario decennale di prescrizione, bensì quello di decadenza biennale previsto dall’art. 21, comma 2, d.lgs. n. 546 del 1992. ((Nella specie, la Corte ha dichiarato inammissibile l’impugnazione avverso la sentenza con cui il giudice di merito aveva considerato ascrivibile alla responsabilità professionale di un commercialista la perdita del diritto al rimborso del credito IVA di una società sua cliente, per non aver compilato l’apposito quadro della dichiarazione dei redditi, indicandolo invece come credito di cui si chiedeva la compensazione. Sez. 3, n. 30168/2018, Fiecconi, Rv. 651846-01).

6. La responsabilità dell’intermediario finanziario.

Con diverse pronunce rese nel corso del 2018, la Corte di legittimità è tornata sulla questione del regime di distribuzione dell’onere della prova nei giudizi relativi agli obblighi informativi nei contratti d’intermediazione finanziaria, con particolare riferimento al sistema normativo delineato dagli artt. 21 e 23 del d.lgs. n. 58 del 1998 (TUF) e dal reg. Consob n. 11522 del 1998. Per un verso, ha ribadito che la mancata prestazione delle informazioni dovute ai clienti da parte della banca intermediaria ingenera una presunzione di riconducibilità alla stessa dell’operazione finanziaria, dal momento che l’inosservanza dei doveri informativi da parte dell’intermediario, costituisce di per sé un fattore di disorientamento dell’investitore che condiziona in modo scorretto le sue scelte di investimento; tale condotta omissiva, pertanto, è normalmente idonea a cagionare il pregiudizio lamentato dall’investitore, il che, tuttavia, non esclude la possibilità di una prova contraria da parte dell’intermediario circa la sussistenza di sopravvenienze che risultino atte a deviare il corso della catena causale derivante dall’asimmetria informativa (Sez. 1, n. 3914/2018, Dolmetta, Rv. 647234-01; Sez. 6 – 1, n. 24142/2018, Rv. 650611-01); per l’altro, ha ritenuto che la normativa sopra meglio richiamata, in armonia con la regola generale stabilita dall’articolo 1218 c.c., impone all’investitore, il quale lamenti la violazione degli obblighi informativi posti a carico dell’intermediario, nel quadro dei principi che regolano il riparto degli oneri di allegazione e prova, di allegare specificamente l’inadempimento di tali obblighi, mediante la pur sintetica ma circostanziata individuazione delle informazioni che l’intermediario avrebbe omesso di somministrare, nonché di fornire la prova del danno e del nesso di causalità tra inadempimento e danno, nesso che sussiste se, ove adeguatamente informato, l’investitore avrebbe desistito dall’investimento rivelatosi poi pregiudizievole; incombe invece sull’intermediario provare che tali informazioni sono state fornite, ovvero che esse esulavano dall’ambito di quelle dovute. (Sez. 1, n. 10111/2018, Di Marzio, Rv. 648553-01).

In tema di risarcimento del danno per la perdita del capitale investito dovuta all’acquisto di un prodotto finanziario e ragionando sulla medesima questione del regime del riparto degli oneri probatori tra le parti, la Suprema Corte ha affermato – in continuità con l’orientamento prevalente emerso nella giurisprudenza di legittimità (Sez. 1, n. 11904/2014, Di Amato, Rv. 631487-01; Sez. 1, n. 23417/2016, Mercolino, non mass.; Sez. 1, n. 12544/2017, Dolmetta, Rv. 644206-01) – che grava sull’intermediario, da un lato, l’onere di provare di aver adempiuto positivamente agli obblighi informativi relativi non solo alle caratteristiche specifiche dell’investimento ma anche al grado effettivo di rischiosità e che grava sull’investitore, dall’altro, quello di provare il nesso causale consistente nell’allegazione specifica del deficit informativo nonché di fornire la prova del pregiudizio patrimoniale dovuto all’investimento eseguito, potendosi fornire la prova presuntiva del nesso causale tra l’inadempimento ed il danno lamentato. In applicazione di tale collaudato schema di riparto degli oneri probatori, ha precisato che la prova dell’avvenuto puntuale adempimento degli obblighi informativi non può essere ritenuta ininfluente in considerazione dell’elevata propensione al rischio dell’investitore dalla quale desumere che quest’ultimo avrebbe comunque accettato il rischio ad esso connesso dal momento che l’accettazione consapevole di un investimento finanziario non può che fondarsi sulla preventiva conoscenza delle caratteristiche specifiche del prodotto, in relazione a tutti gli indicatori della sua rischiosità. (Sez. 1, n. 4727/2018, Acierno, Rv. 647617-01; nella specie, è stata cassata con rinvio la sentenza di merito che aveva escluso la sussistenza del nesso causale tra l’inadempimento ed il danno, sul rilievo che dalla prova testimoniale espletata era emerso che l’eventuale violazione degli obblighi informativi non avrebbe comunque inciso sulla decisione dell’investitore, orientato da un intento speculativo).

Nello stesso ambito, ma con riferimento alla disciplina che pone a carico dell’intermediario la responsabilità solidale per i danni arrecati a terzi dal promotore finanziario nello svolgimento delle incombenze affidategli, anche se tali danni siano conseguenti a responsabilità accertata in sede penale (art. 31, comma 3, del d.lgs. n. 58 del 1998), la Corte ha ribadito il regime di riparto degli oneri probatori, affermando che incombe all’investitore l’onere di provare l’illiceità della condotta del promotore, mentre spetta all’intermediario di provare che l’illecito sia stato consapevolmente agevolato in qualche misura dall’investitore. In applicazione di tale regime di allegazione e prova, la responsabilità dell’intermediario deve essere esclusa ove il danneggiato ponga in essere una condotta agevolatrice che presenti connotati di anomalia, vale a dire, se non di collusione, quanto meno di consapevole acquiescenza alla violazione delle regole gravanti sul promotore, verificandosi in tal caso l’interruzione del nesso di occasionalità necessaria tra il fatto produttivo di danno e l’esercizio delle mansioni cui il promotore finanziario sia adibito, costituente condizione necessaria e sufficiente della responsabilità oggettiva del preponente. (Sez. 3, n. 25374/2018, Scarano, Rv. 651163-01. Nella specie, è stata ritenuta l’estraneità dell’intermediario rispetto alla condotta illecita posta in essere dal proprio promotore finanziario ai danni di risparmiatori e consistita nell’aver consegnato direttamente al promotore, loro congiunto, rilevanti somme senza chiedere copia del contratto di gestione sottoscritto dall’intermediario e senza verificare personalmente, presso la sede di quest’ultimo, l’esistenza di un conto di gestione e delle specifiche operazioni finanziarie all’origine dei profitti riportati nei prospetti contabili ricevuti direttamente dal promotore e da questi falsificati). In base allo stesso principio è stato affermato come l’elemento sintomatico dell’anomalia della condotta del danneggiato può essere palesata da elementi presuntivi, quali il numero o la ripetizione delle operazioni poste in essere con modalità irregolari, il valore complessivo delle stesse, l’esperienza acquisita nell’investimento di prodotti finanziari, la conoscenza del complesso iter funzionale alla sottoscrizione di programmi di investimento e le sue complessive condizioni culturali e socio-economiche. (Sez. 3, n. 30161/2018, Scarano, Rv. 651665-01).

Sul versante processuale, la Corte ha chiarito che non è improponibile l’azione intrapresa dall’investitore italiano nei confronti della banca intermediaria nell’acquisto di bond argentini e fondata sulla nullità, l’annullamento o la risoluzione per inadempimento, del contratto di intermediazione finanziaria, oppure sulla responsabilità risarcitoria dell’intermediario in conseguenza degli obblighi che ad esso fanno carico, per effetto della mera pendenza del giudizio arbitrale, precedentemente intrapreso dall’investitore innanzi all’International Centre for the Settlement of Investiment Disputes (ICSID), ai sensi dell’art. 8, comma 4, della l. n. 334 del 1993, di ratifica dell’Accordo di Buenos Aires tra il Governo della Repubblica italiana ed il Governo della Repubblica argentina del 22 maggio 1990, perché le due azioni si differenziano riguardo ai soggetti, al petitum ed alla causa petendi. (Sez. 1, n. 29354/2018, Falabella, Rv. 651479-01).

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APPROFONDIMENTO TEMATICO

LA DISTRIBUZIONE DELL’ONERE DELLA PROVA DEL NESSO CAUSALE NELLA RESPONSABILITÀ CIVILE, IN SPECIE PROFESSIONALE MEDICA E DELL’INTERMEDIARIO FINANZIARIO

(di Irene Ambrosi )

Sommario

1 Posizione del problema. - 2 Assetti consolidati della giurisprudenza di legittimità in tema di distribuzione dell’onere della prova del nesso causale. - 2.1 Sul versante della responsabilità contrattuale, - 2.2 Sul versante della responsabilità professionale sanitaria, - 2.3 Sul versante della responsabilità nell’ambito della intermediazione finanziaria, - 2.4 Nell’ambito della responsabilità civile extracontrattuale, - 3 Indirizzi attuali e tecniche di riequilibrio dell’onere probatorio nella responsabilità medica. - 3.1 (segue) L’impatto della nuova disciplina della responsabilità civile degli esercenti le professioni sanitarie. - 4 Indirizzi attuali e tecniche di alleggerimento dell’onere probatorio del nesso causale nei rapporti di intermediazione finanziaria. - 5 Linee di tendenza e possibili prospettive.

1. Posizione del problema.

Il tema della distribuzione dell’onere della prova del nesso causale nei giudizi di responsabilità civile relativi a rapporti obbligatori contrattuali ed extracontrattuali attiene al ruolo assunto dalle parti sia in senso sostanziale nell’ambito dell’autonomia negoziale sia in senso processuale.

Il primo profilo evoca molteplici specie di obbligazioni, all’apparenza tra loro distanti, che strutturalmente condividono elementi ricorrenti, da un lato, il necessario conseguimento di una abilitazione e l’iscrizione ad un albo per l’esercizio di una professione o di un’attività protette e, dall’altro lato, l’affidamento riposto nell’esecuzione della prestazione di chi abbisogna dell’opera del professionista.

Il secondo profilo inerisce alla regola generale che governa il giuoco delle parti nel processo riguardo agli oneri di allegazione e di prova, senza riferimento a specifici tipi di domande, che fa gravare l’onere probatorio su quella delle parti che sia in possesso degli elementi utili per promuovere la pretesa o paralizzare la pretesa della controparte, secondo un ragionevole principio di vicinanza.

L’analisi che ci si accinge a compiere intende tirare le fila degli orientamenti della giurisprudenza di legittimità in materia, attraverso l’esame di quelli tradizionali sino ai più recenti, con particolare riferimento ai diversi ambiti della responsabilità professionale medica e di quello della responsabilità da attività di intermediazione finanziaria.

2. Assetti consolidati della giurisprudenza di legittimità in tema di distribuzione dell’onere della prova del nesso causale.

2.1. Sul versante della responsabilità contrattuale,

la giurisprudenza di legittimità ha da tempo affermato l’esigenza di omogeneità del regime dell’onere della prova per ciascuna delle azioni previste dall’art. 1453 c.c. «secondo un criterio di ragionevolezza» (1), tenuto conto che la domanda di adempimento, quella di risoluzione per inadempimento e di risarcimento del danno da inadempimento, si collegano tutte al medesimo presupposto, costituito dall’inadempimento. L’identità del regime probatorio, è stata giustificata, inoltre, in ragione di una ulteriore esigenza di ordine pratico, quella di non rendere eccessivamente difficile l’esercizio del diritto del creditore a reagire all’inadempimento, senza nel contempo penalizzare il diritto di difesa del debitore adempiente; quindi il principio di vicinanza della prova è stato individuato come criterio di riequilibrio che pone «l’onere della prova a carico del soggetto nella cui sfera si è prodotto l’inadempimento, e che è quindi in possesso degli elementi utili per paralizzare la pretesa del creditore, sia quella diretta all’adempimento, alla risoluzione o al risarcimento del danno, fornendo la prova del fatto estintivo del diritto azionato, costituito dall’adempimento» (2)

Pertanto, grava sul debitore l’onere di fornire la prova del fatto positivo dell’avvenuto adempimento o dell’esattezza dell’adempimento e tale onere appare coerente alla regola dettata dall’art. 2697 c.c. che distingue tra tali fatti costitutivi e fatti estintivi, atteso che la prova dell’adempimento (fatto estintivo del diritto azionato dal creditore) spetta al debitore convenuto che dovrà dare la prova diretta e positiva dell’adempimento, trattandosi di fatto riferibile alla sua sfera di azione (3). Viceversa, grava sul creditore che agisca per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l’adempimento, l’onere di provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte. Eguale regime di riparto dell’onere della prova è stato ritenuto applicabile anche nel caso in cui sia dedotto non l’inadempimento dell’obbligazione, ma il suo inesatto adempimento, al creditore istante sarà sufficiente la mera allegazione dell’inesattezza dell’adempimento (per violazione di doveri accessori, come quello di informazione, ovvero per mancata osservanza dell’obbligo di diligenza, o per difformità quantitative o qualitative dei beni), gravando ancora una volta sul debitore l’onere di dimostrare l’avvenuto, esatto adempimento (4)

Il regime di riparto dell’onere della prova del nesso causale così delineato in ambito contrattuale è stato adottato anche nei settori della responsabilità civile professionale in ambito sanitario e della responsabilità derivante dalle attività e dalle prestazioni di servizi di intermediazione finanziaria con alcune peculiarità di cui si darà conto nei seguenti paragrafi.

2.2. Sul versante della responsabilità professionale sanitaria,

le Sezioni Unite hanno chiarito che la questione del regime del riparto dell’onere della prova del nesso causale andava depurata dai riflessi che in essa proiettava la tradizionale distinzione tra obbligazioni di risultato e di mezzi «che, se può avere una funzione descrittiva, è dogmaticamente superata, quanto meno in tema di riparto dell’onere probatorio» (5). Secondo tale superata impostazione, si riteneva che, nelle obbligazioni di mezzi – essendo aleatorio il risultato – incombesse sul creditore l’onere di provare che il mancato risultato fosse dipeso da scarsa diligenza e che, nelle obbligazioni di risultato, invece, incombesse sul debitore l’onere di provare che il mancato risultato fosse dipeso da causa a lui non imputabile.

Depurato da tali riflessi, il meccanismo di ripartizione dell’onere della prova ai sensi dell’art. 2967 c.c. in materia di responsabilità contrattuale è stato ricostruito in modo identico «sia che il creditore agisca per l’adempimento della obbligazione, ex art. 1453 c.c., sia che domandi il risarcimento per l’inadempimento contrattuale, ex art. 1218 c.c., senza richiamarsi in alcun modo alla distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato».

Nella fattispecie allora esaminata concernente il danno da contagio per epatite derivato da emotrasfusione con sangue infetto, le Sezioni Unite trasposero, quindi, i principi enucleati in tema di responsabilità contrattuale da inadempimento in quelli cosiddetti contratti “di spedalità” o di “assistenza sanitaria” vigenti nel rapporto tra paziente e medico, ricondotti a loro volta nell’ambito della responsabilità contrattuale mediante la teoria del contatto sociale.

Più precisamente, al riguardo, affermarono che, per un verso, gravava sul danneggiato l’onere di provare il contratto (o il contatto) relativo alla prestazione sanitaria ed allegare l’inadempimento qualificato (e cioè astrattamente efficiente alla produzione del danno, sostenendo che il medico e la struttura sanitaria erano inadempienti avendolo sottoposto ad emotrasfusione con sangue infetto) e per l’altro, che la struttura sanitaria e il medico in essa operante, dovevano fornire la prova «che tale inadempimento non vi era stato, poiché non era stata effettuata una trasfusione con sangue infetto, oppure che, pur esistendo l’inadempimento, esso non era eziologicamente rilevante nell’azione risarcitoria proposta, per una qualunque ragione, tra cui quella addotta dell’affezione patologica già in atto al momento del ricovero» (6). Pertanto, nel regime di riparto dell’onere probatorio della responsabilità contrattuale nell’ambito sanitario si giunse a gravare la parte debitrice, non soltanto dell’onere di dare la prova del fatto estintivo del diritto azionato, costituito dall’adempimento e dell’assenza di colpa, ma anche di dare prova, in caso di esistenza dell’inadempimento, della interruzione del nesso eziologico tra condotta e danno conseguente.

2.3. Sul versante della responsabilità nell’ambito della intermediazione finanziaria,

la giurisprudenza di legittimità ha già da tempo affermato che la regola imposta ai soggetti abilitati nella prestazione dei servizi e delle attività di investimento di “acquisire le informazioni necessarie dai clienti e operare in modo che essi siano sempre adeguatamente informati” (art. 21, comma 1, lett. b) del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, recante il Testo Unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria) induce a ritenere, sulla base del duplice riferimento alle informazioni adeguate e necessarie e alla direzione dell’obbligo nei confronti del cliente, che le informazioni debbano essere modellate alla luce della particolarità del rapporto con l’investitore, in modo da soddisfare le specifiche esigenze proprie di quel singolo rapporto all’investitore un’informazione adeguata in concreto (7). La richiamata regola (in base alla quale in presenza di un’operazione non adeguata l’intermediario deve astenersi dal dare esecuzione all’operazione se prima non abbia avvertito l’investitore e ottenuto dal medesimo l’espressa autorizzazione ad agire ugualmente sulla base di un ordine contenente l’esplicito riferimento alle informazioni ricevute) trova applicazione con riferimento a tutti i servizi di investimento prestati nei confronti di qualsiasi investitore che non sia un operatore qualificato (sia con riguardo ai servizi di investimento nei quali sia ravvisabile una discrezionalità dell’intermediario, come ad esempio nel caso di contratti di gestione di portafogli di investimento, sia là dove l’operazione avvenga su istruzione del cliente, come, appunto, quando venga prestato il servizio di negoziazione o di ricezione e di trasmissione di ordini)(8).

In tema di riparto dell’onere della prova nei contratti di intermediazione la Suprema Corte ha inteso applicare «il principio sull’onere della prova nella materia contrattuale enunciato dalle Sezioni unite (Sentenza n. 13533 del 30/10/2001) l’investitore dovrà allegare l’inadempimento di quelle obbligazioni disciplinate dal T.U.F. e dalla normativa regolamentare e dovrà fornire la prova del danno e del nesso di causalità (quest’ultimo anche sulla base di presunzioni: cfr. Sez. 3, n. 2305 del 02/02/2007) tra questo e l’inadempimento. L’intermediario, a sua volta, dovrà provare l’avvenuto adempimento delle specifiche obbligazioni poste a suo carico e allegate come inadempiute e, sotto il profilo soggettivo, di avere agito con la specifica diligenza richiesta». (9) Pertanto, nelle azioni di responsabilità per danni subiti dall’investitore – nelle quali occorre accertare se l’intermediario abbia diligentemente adempiuto alle obbligazioni scaturenti dal contratto di negoziazione, dal d.lgs. 24 febbraio 1998 n. 58 e dalla normativa secondaria – il riparto dell’onere della prova si atteggia nel senso che, per un verso, l’investitore ha l’onere di allegare l’inadempimento delle citate obbligazioni da parte dell’intermediario, nonché fornire la prova del danno e del nesso di causalità fra questo e l’inadempimento, anche sulla base di presunzioni; l’intermediario, a sua volta, avrà l’onere di provare l’avvenuto adempimento delle specifiche obbligazioni poste a suo carico, allegate come inadempiute dalla controparte, e, sotto il profilo soggettivo, di avere agito con la specifica diligenza richiesta (10).

2.4. Nell’ambito della responsabilità civile extracontrattuale,

le Sezioni Unite hanno preso come punto di riferimento iniziale (in assenza di norme civili che specificatamente regolino il rapporto causale) i principi generali di cui agli artt. 40 e 41 c.p. e hanno chiarito che ciò che muta tra giudizio penale e giudizio civile è la regola probatoria che nel giudizio penale può essere sintetizzata nella regola della prova “oltre il ragionevole dubbio” (11) e che in quello civile può essere riassunta nella regola della preponderanza dell’evidenza o del “più probabile che non” (12). Più in particolare, hanno precisato che le regole di riparto dell’onere probatorio in tema di responsabilità contrattuale -ove spetta al debitore fornire la prova del suo adempimento in ragione di tre concorrenti fattori: la presunzione di persistenza del diritto, la ravvisata omogeneità del regime dell’onere della prova per le azioni previste dall’art. 1453 c.c. e il criterio di vicinanza della prova (13) -, non possono essere trasposte nell’ambito della responsabilità extracontrattuale in ragione della differenza strutturale tra i due tipi di responsabilità.

L’orientamento consolidato ritiene quindi che nella responsabilità extracontrattuale l’onere della prova del nesso causale rimane pur sempre a carico dell’attore, stante il principio di cui all’art. 2697 c.c. in tema di fatto costitutivo del diritto azionato, ma tale prova può essere fornita tramite presunzioni allorquando il soggetto convenuto è obbligato sulla base di norme giuridiche o tecniche a predisporre la documentazione relativa alla condotta tenuta ed, avendone la disponibilità, non la fornisca ovvero non l’abbia mai predisposta; attraverso il meccanismo presuntivo riassume valore probatorio funzionale il criterio di vicinanza della prova e cioè la effettiva possibilità per l’una o per l’altra parte di offrirla. In proposito, la Suprema Corte ha osservato che «dinanzi alla prova del nesso causale il danneggiato non è lasciato solo, ma a quest’ultimo va affiancato il soggetto evocato in giudizio nella veste di responsabile, ove egli sia tenuto per norma giuridica o tecnica a documentare la sua condotta o determinati fatti, emergendo cioè una situazione in cui entrambe le parti non possono rimanere inerti dinanzi al problema della causalità.» (14).

In applicazione di tale regola ed in tema di responsabilità da attività pericolosa in ipotesi di danno da contagio causato da emotrasfusioni, le Sezioni Unite hanno ritenuto che la prova del nesso causale tra la specifica trasfusione ed il contagio da virus HCV resta pur sempre a carico dell’attore danneggiato e che tale prova può essere fornita anche tramite presunzioni ex art. 2729 c.c., in difetto di predisposizione (o anche solo di produzione in giudizio), da parte della struttura sanitaria, della documentazione obbligatoria sulla tracciabilità del sangue trasfuso al singolo paziente, e ciò in applicazione del criterio della vicinanza della prova (15). Nello stesso ambito di responsabilità aquiliana, con una significativa storica pronuncia è stata accertata la negligenza della Consob per avere permesso la diffusione di un prospetto informativo gravemente mendace nella comunicazione predisposta dal promotore finanziario dell’operazione di pubblica sottoscrizione di titoli atipici, il giudice del merito (nella specie, in sede di rinvio), nel quadro dei principi di equivalenza causale e di causalità adeguata di cui agli artt. 40 e 41 cod. pen., può ritenere che il comportamento omissivo dell’autorità di vigilanza costituisca causa della perdita subita dai risparmiatori, danneggiati dall’aver fatto affidamento sulla veridicità dei dati riportati nel prospetto, e che, per converso, la condotta doverosa della medesima autorità preposta al settore del mercato mobiliare, se fosse stata tenuta, avrebbe impedito la verificazione dell’evento, perché, in presenza di un effettivo esercizio dei poteri di vigilanza e repressivi, l’investimento non ci sarebbe stato (16).

3. Indirizzi attuali e tecniche di riequilibrio dell’onere probatorio nella responsabilità medica.

In via generale, nell’ambito della responsabilità professionale medica, l’attuale indirizzo della giurisprudenza della Suprema Corte ha affermato che «dal punto di vista del danneggiato la prova del nesso causale quale fatto costitutivo della domanda intesa a far valere la responsabilità per l’inadempimento del rapporto curativo si sostanzia nella dimostrazione che l’esecuzione del rapporto curativo che si sarà articolata mediante comportamenti positivi ed eventualmente omissivi si è inserita nella serie causale che ha condotto all’evento preteso di danno, che è rappresentato dalla persistenza della patologia per cui si era richiesta la prestazione o dal suo aggravamento fino anche ad un esito finale come quello mortale o dall’insorgenza di una nuova patologia che non era quella con cui il rapporto era iniziato», (17).

Secondo tale indirizzo, precisato da due importanti pronunce della Terza Sezione civile rese nel corso dell’anno 2017 (18), grava quindi sul creditore l’onere di provare il nesso di causalità fra l’azione o l’omissione del sanitario ed il danno di cui domanda il risarcimento.

Ciò viene espresso con le seguenti nette considerazioni, per un verso, che «non solo il danno ma anche la sua eziologia è parte del fatto costitutivo che incombe all’attore di provare. Ed invero se si ascrive un danno ad una condotta non può non essere provata da colui che allega tale ascrizione la riconducibilità in via causale del danno a quella condotta.» e, per l’altro, che «Se, al termine dell’istruttoria, resti incerta la reale causa del danno, le conseguenze sfavorevoli in termini di onere della prova gravano quindi sull’attore» (19).

Con la prima pronuncia la Corte si è fatta carico di chiarire l’apparente contrasto esistente tra il principio di diritto appena richiamato e quello costantemente reiterato dalla giurisprudenza tradizionale secondo cui nel giudizio di risarcimento del danno conseguente ad attività medico chirurgica, «l’attore danneggiato ha l’onere di provare l’esistenza del contratto e l’insorgenza (o l’aggravamento) della patologia e di allegare l’inadempimento qualificato del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato, restando, invece, a carico del medico e/o della struttura sanitaria la dimostrazione che tale inadempimento non si sia verificato, ovvero che esso non sia stato causa del danno» (20). Spiega, al riguardo, la Corte che la causa presa in esame da quest’ultimo principio non è quella della fattispecie costitutiva della responsabilità risarcitoria dedotta dal danneggiato, bensì quella della fattispecie estintiva dell’obbligazione opposta dal danneggiante; difatti, il riferimento nella giurisprudenza in discorso all’insorgenza (o aggravamento) della patologia come non dipendente da fatto imputabile al sanitario, ma ascrivibile ad evento imprevedibile e non superabile con l’adeguata diligenza, e pertanto con onere probatorio a carico del danneggiante, evidenzia come in questione sia la fattispecie di cui agli artt. 1218 e 1256 c.c. (21).

A questo proposito, la Suprema Corte ha fatto ricorso ai principi già enunciati in tema di ricognizione del complesso rapporto che corre tra il nesso di causa nella responsabilità medica e quello della colpa in relazione ai rispettivi specifici profili probatori (22); ha ritenuto, pertanto, di distinguere, da un lato, fra la causalità materiale relativa all’evento e causalità giuridica relativa al consequenziale danno e quella, dall’altro, concernente la possibilità (rectius impossibilità) della prestazione. In proposito, la Suprema Corte ha precisato che la causalità materiale e quella giuridica sono comuni ad ogni fattispecie di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale e caratterizzano negli stessi termini, per un verso, gli oneri di allegazione e di prova gravanti sulla parte creditrice che lamenta il danno, quale elemento costitutivo della obbligazione dedotta in giudizio e, per l’altro verso, quelli gravanti sulla parte debitrice che deduce quale tema di prova l’elemento estintivo della pretesa obbligazione. Detta comunanza di oneri probatori si innesta sulle peculiarità strutturali delle due forme di responsabilità tenuto conto che nella contrattuale la colpa della parte debitrice è presunta.

Secondo la Corte di legittimità emerge in questo modo un duplice ciclo causale, l’uno relativo all’evento dannoso che deve essere provato dal creditore-danneggiato, l’altro relativo alla possibilità di adempiere che deve essere provato dal debitore-danneggiante; quindi, «il creditore deve provare il nesso di causalità fra l’insorgenza (o l’aggravamento) della patologia e la condotta del sanitario (fatto costitutivo del diritto), il debitore deve provare che una causa imprevedibile ed inevitabile ha reso impossibile la prestazione (fatto estintivo del diritto). Conseguenzialmente la causa incognita resta a carico dell’attore relativamente all’evento dannoso, resta a carico del convenuto relativamente alla possibilità di adempiere. Se, al termine dell’istruttoria, resti incerti la causa del danno o dell’impossibilità di adempiere, le conseguenze sfavorevoli in termini di onere della prova gravano rispettivamente sull’attore o sul convenuto.» (23).

Di sicuro rilievo, l’ulteriore precisazione compiuta a proposito del rapporto di propedeuticità tra i due cicli causali; secondo la Corte, una volta dimostrato da parte del danneggiato il primo ciclo causale relativo all’evento dannoso (ovvero che l’insorgenza o l’aggravamento di una patologia è causalmente riconducibile alla condotta dei sanitari), sorgerà per il danneggiante l’onere di provare il secondo ciclo ovvero che l’inadempimento, fonte del pregiudizio lamentato, è stato determinato da causa non imputabile (ovvero che una causa imprevedibile ed inevitabile ha reso impossibile l’esatta esecuzione della prestazione) (24).

Con la seconda pronuncia, la Terza Sezione Civile, è tornata sul tema della distribuzione degli oneri probatori in ordine al nesso causale al fine di ribadire che nei giudizi di risarcimento del danno derivante da inadempimento contrattuale, così come in quelli di risarcimento del danno da fatto illecito, la condotta colposa del responsabile e il nesso di causa tra questa e il danno costituiscono l’oggetto di due accertamenti concettualmente distinti, cosicché la sussistenza della prima non comporta, di per sé, la dimostrazione del secondo e viceversa (25).

Ciò deve tener conto delle differenze strutturali tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale per come tradizionalmente intese dalla giurisprudenza di legittimità; difatti, la previsione dell’art. 1218 cod. civ. solleva il creditore dell’obbligazione che si afferma non adempiuta (o non esattamente adempiuta) dall’onere di provare la colpa del debitore, ma non dall’onere di provare il nesso di causa tra la condotta del debitore e il danno di cui domanda il risarcimento.

Al riguardo, a parere della Corte, il criterio della maggiore vicinanza della prova (secondo cui essa va posta a carico della parte che più agevolmente può fornirla) non sussiste «in relazione al nesso causale fra la condotta dell’obbligato e il danno lamentato dal creditore, rispetto al quale non ha dunque ragion d’essere l’inversione dell’onere prevista dall’art. 1218 cod. civ. e non può che valere il principio generale sancito dall’art. 2697 c.c. che onera l’attore (sia il danneggiato in sede extracontrattuale che il creditore in sede contrattuale) della prova degli elementi costitutivi della propria pretesa; ciò vale, ovviamente, sia in riferimento al nesso causale materiale (attinente alla derivazione dell’evento lesivo dalla condotta illecita o inadempiente) che in relazione al nesso causale giuridico (ossia alla individuazione delle singole conseguenze pregiudizievoli dell’evento lesivo); trattandosi di elementi egualmente “distanti” da entrambe le parti (e anzi, quanto al secondo, maggiormente “vicini” al danneggiato), non v’è spazio per ipotizzare a carico dell’asserito danneggiante una “prova liberatoria” rispetto al nesso di causa (a differenza di quanto accade per la prova dell’avvenuto adempimento o della correttezza della condotta)» (26).

Esclude inoltre la Corte che possa valere, in senso contrario, il fatto che l’art. 1218 c.c. faccia riferimento alla causa, laddove richiede al debitore di provare «che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile», atteso che la causa in questione, come già chiarito dal precedente cui espressamente si richiama (Sez. 3, n. 18392/2017), attiene alla «non imputabilità dell’impossibilità di adempiere», che si colloca nell›ambito delle cause estintive dell›obbligazione (costituenti «tema di prova della parte debitrice») e concerne un «ciclo causale» che è del tutto distinto da quello relativo all›evento dannoso conseguente all›adempimento mancato o inesatto.

Viene dunque riaffermato il principio di diritto secondo cui nei giudizi di risarcimento del danno da responsabilità medica, è onere dell’attore, paziente danneggiato, dimostrare l’esistenza del nesso causale tra la condotta del medico e il danno di cui chiede il risarcimento (onere che va assolto dimostrando, con qualsiasi mezzo di prova, che la condotta del sanitario è stata, secondo il criterio del “più probabile che non”, la causa del danno), con la conseguenza che, se, al termine dell’istruttoria, non risulti provato il nesso tra condotta ed evento, per essere la causa del danno rimasta assolutamente incerta, la domanda deve essere rigettata.

Conclude, infine, nel confermare che questo meccanismo di distribuzione degli oneri probatori in tema di nesso non si pone in contrasto con quanto affermato dalle Sezioni Unite (Sez. U. n. 577/2008), secondo cui «in tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e di responsabilità professionale da contatto sociale del medico, ai fini del riparto dell’onere probatorio l’attore, paziente danneggiato, deve limitarsi a provare l’esistenza del contratto (o il contatto sociale) e l’insorgenza o l’aggravamento della patologia ed allegare l’inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato, rimanendo a carico del debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante».

Spiega efficacemente la Corte in proposito che «tale principio venne infatti affermato a fronte di una situazione in cui l’inadempimento “qualificato” allegato dall’attore (ossia l’effettuazione di un’emotrasfusione) era tale da comportare -di per sé, ed in assenza di fattori alternativi “più probabili”, nel caso singolo di specie- la presunzione della derivazione del contagio dalla condotta (sì che la prova della prestazione sanitaria conteneva in sé quella del nesso causale), con la conseguenza che non poteva che spettare al convenuto l’onere di fornire una prova idonea a superare tale presunzione, secondo il criterio generale di cui all’art. 2697, 2° co. c.c.. (e non – si badi – la prova liberatoria richiesta dall’art. 1218 c.c.)».

Nel corso dell’anno 2018 una serie di altre pronunce ha affrontato la medesima questione dando seguito alla scelta di campo formulata dalle richiamate pronunce dell’anno precedente.

In particolare, è stato ribadito il principio secondo cui grava sul paziente l’onere di dimostrare l’esistenza del nesso causale, dando prova che la condotta del sanitario è stata secondo il criterio funzionale del “più probabile che non” causa del danno; con la conseguenza che nei casi in cui essa sia rimasta assolutamente incerta, la domanda deve essere rigettata (27). Nello stesso solco, è stato precisato che la prova dell›inadempimento del medico non è sufficiente ad affermarne la responsabilità per la morte del paziente, occorrendo altresì il raggiungimento della prova del nesso causale tra l›evento e la condotta inadempiente, secondo la regola della riferibilità causale dell›evento stesso all›ipotetico responsabile secondo il criterio del «più probabile che non» (28). Infine, nell’ambito della responsabilità contrattuale della struttura sanitaria, è stato confermato che ove il danneggiato abbia assolto all’onere di provare il nesso causale tra l’aggravamento della patologia (o l’insorgenza di una nuova malattia) e l’azione o l’omissione dei sanitari, spetta alla struttura dimostrare l’impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile, provando che l’inesatto adempimento è stato determinato da un impedimento imprevedibile ed inevitabile con l’ordinaria diligenza (29).

3.1. (segue) L’impatto della nuova disciplina della responsabilità civile degli esercenti le professioni sanitarie.

È di sicuro rilievo osservare come l’indirizzo attuale della giurisprudenza di legittimità si è manifestato in un contesto temporale e normativo quasi coevo alla introduzione nell’ordinamento della nuova disciplina della responsabilità civile degli esercenti le professioni sanitarie contenuta nella legge 8 marzo 2017 n. 24 (cd. legge Gelli-Bianco); l’intento perseguito dal legislatore con l’introduzione della novellata disciplina, ritenuto da più parti ormai ineluttabile, è stato, all’evidenza, quello di porre rimedio al fenomeno della medicina cd. difensiva che ha proiettato riflessi negativi sia in termini di cure inappropriate nei confronti dei pazienti sia in termini di costi economici sulle finanze dello Stato e delle Regioni, nonché in quello speculare del contenimento dei costi assicurativi (per la mancanza di un preciso tetto tabellare ai temuti risarcimenti del danno non patrimoniale da medical malpractice) (30) e per ultimo, quello, neppure velato, di porre un freno al governo giurisprudenziale della materia con un ritorno alla disciplina positiva. In coerenza con quest’ultimo fine, viene prevista in tema di responsabilità civile del medico una disposizione-monito del seguente tenore: “le disposizioni del presente articolo costituiscono norme imperative ai sensi del codice civile” (art. 7, comma 5).

In particolare, con la nuova disciplina viene operato un mutamento di titolo della responsabilità sul lato rapporto paziente-medico ed essa sembra travolgere l’assetto giurisprudenziale tradizionale derivante dall’applicazione della teoria del contatto sociale qualificato – che, a partire dalla sentenza Sezioni Unite n. 589 del 1999 – aveva ricondotto la responsabilità medica al titolo della responsabilità contrattuale – ed instaurare un regime binario di responsabilità: contrattuale per la struttura ed extracontrattuale per il medico.

Meno chiaro è se la legge in esame abbia inteso ribaltare la natura del titolo della responsabilità civile del medico, ovvero abbia inteso soltanto richiamare la forma nella quale ricondurre la responsabilità (del medico operante nella struttura sanitaria) di difficile collocazione all’interno delle fonti delle obbligazioni (31). Precisamente, la nuova disciplina prevede che “l’esercente la professione sanitaria di cui ai commi 1 e 2 risponde del proprio operato ai sensi dell’articolo 2043 del codice civile, salvo che abbia agito nell’adempimento di obbligazione contrattuale assunta con il paziente. Il giudice, nella determinazione del risarcimento del danno, tiene conto della condotta dell’esercente la professione sanitaria ai sensi dell’articolo 5 della presente legge e dell’articolo 590-sexies del codice penale, introdotto dall’articolo 6 della presente legge.” (art. 7 comma 3).

È evidente che l’avvenuto mutamento della forma alla quale ricondurre la responsabilità del medico ha un rilevante impatto sugli ambiti sostanziali e processuali della disciplina ovvero in tema di prescrizione, dell’accertamento della colpa, dei criteri di riparto dell’onere probatorio e dei criteri di liquidazione del danno.

Sul piano del termine di prescrizione del diritto (5 anni per la responsabilità extracontrattuale e 10 anni per quella contrattuale). In proposito, può prefigurarsi l’applicazione del termine prescrizionale più lungo nel caso l’atto medico integri reato (sebbene le pene previste per l’omicidio colposo e per le lesioni colpose potrebbero allungare il termine di prescrizione di un ulteriore anno, portandolo a 6 anni).

Sul piano dell’onere probatorio, dovendo il paziente fornire la prova del fatto illecito nella responsabilità extracontrattuale, mentre in caso di inadempimento contrattuale è la struttura sanitaria e l’esercente la professione sanitaria – a dover fornire la prova di aver adempiuto o esattamente adempiuto la propria prestazione.

Sul piano della colpa, il giudice “tiene conto” nella determinazione del danno della condotta del medico (art. 7, comma 3), ovvero se lo stesso si sia attenuto alle raccomandazioni previste dalle linee guida pubblicate, fatte salve le specificità del caso concreto ed in mancanza delle suddette raccomandazioni, si sia attenuto alle buone pratiche clinico-assistenziali (art. 5, comma 1).

Il risarcimento dei danni causati dal medico strutturato saranno risarciti secondo criteri stabiliti dal codice delle assicurazioni per la liquidazione del danno non patrimoniale alla persona causato da sinistri stradali ex artt. 138 e 139 codice delle assicurazioni private, di cui al d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209 così come di recente modificato dalla l. 4 agosto 2017 n. 124 (art. 7 comma 4) (32).

I richiamati effetti imporranno la verifica della tenuta degli approdi giurisprudenziali sino ad ora consolidati in ambito sanitario, soprattutto con riferimento al tema del riparto degli oneri di allegazione e prova.

4. Indirizzi attuali e tecniche di alleggerimento dell’onere probatorio del nesso causale nei rapporti di intermediazione finanziaria.

La questione relativa alla distribuzione degli oneri probatori in tema di nesso di causalità continua ad impegnare la Suprema Corte anche con riferimento agli ambiti di responsabilità derivanti dagli obblighi informativi previsti nei contratti d’intermediazione finanziaria dal sistema normativo delineato nel d.lgs. n. 58 del 1998 (TUF) e nel reg. Consob n. 11522 del 1998.

Con quattro pronunce rese nel corso dell’anno 2018, la Prima Sezione Civile ha avuto modo di riaffermare la cogenza dell’obbligo informativo gravante sull’intermediario finanziario consistente nel fornire all’investitore una informazione adeguata in concreto, tale cioè da soddisfare specifiche esigenze del singolo rapporto in relazione alle caratteristiche personali del cliente e alla sua situazione finanziaria e nel formulare indicazioni idonee a descrivere la natura, la quantità e la qualità dei prodotti finanziari e a rappresentarne la specifica rischiosità.

Con le prime due pronunce la Corte ha ritenuto che «la mancata prestazione dell’informazione, che risulta prestata dall’intermediario ingenera una presunzione di riconducibilità ad essa dell’operazione» (33) e, nello stesso senso, che «l’assolvimento dell’obbligo informativo è a carico dell’intermediario, e non corrisponde alla mera assenza di negligenza, ma deve concretizzarsi nella prova positiva della diligenza, mentre l’investitore è tenuto ad allegare specificamente il deficit informativo ed a fornire la prova dell’esistenza di un pregiudizio patrimoniale dovuto all’investimento od agli investimenti eseguiti.» (34). Ciò è giustificato dalla considerazione secondo cui «il comportamento in concreto tenuto dall’intermediario in punto di informazione del prodotto viene di per sé assunto come uno dei momenti costitutivi – sul piano strutturale – delle singole decisioni di investimento che vengono assunte dal risparmiatore.».

In ordine alla prova del nesso causale dovuto dall’investitore, la Corte ha affermato che questi «deve allegare e provare che la perdita patrimoniale è eziologicamente riconducibile, anche in via non esclusiva, (la concorrenza di altri fattori o della condotta del creditore determinerà effetti sulla attribuzione della responsabilità per intero o parziariamente) alle caratteristiche di rischiosità del prodotto non conosciute» e che «la prova del nesso causale non può dirsi eliminata dal mero rilievo del profilo “speculativo” dell’investitore, ovvero dalla sua elevata propensione al rischio, dovendo escludersi che quest’ultimo possa accettare anche i profili di rischiosità del prodotto finanziario che gli sono ignoti e dei quali alleghi la conoscenza o la prevedibilità in capo all’intermediario, contrattualmente obbligato ad essere preventivamente informato.» (35).

In proposito, è stato dato seguito expressis verbis al prevalente orientamento, già affermatosi nella giurisprudenza di legittimità (36) secondo cui il mancato rispetto degli obblighi di informazione «comporta un alleggerimento dell’onere probatorio gravante sull’investitore ai fini dell’esercizio dell’azione risarcitoria: non nel senso che il danno dall’inadempimento degli obblighi informativi possa rivelarsi in re ipsa, ma in quello più limitato di consentire l’accertamento in via presuntiva del nesso di causalità» (37) con la ulteriore precisazione che tale presunzione è finalizzata a colmare l’asimmetria informativa che caratterizza la posizione delle parti contraenti nei rapporti di intermediazione finanziaria e che spetta all’intermediario superare attraverso la prova di aver correttamente adempiuto (38); difatti, la mancata prestazione delle informazioni dovute ai clienti da parte dell’intermediario costituisce di per sé un fattore di disorientamento dell’investitore che condiziona in modo scorretto le scelte di investimento di questi; in altri termini, «tale condotta omissiva, pertanto, è normalmente idonea a cagionare il pregiudizio lamentato dall’investitore, il che, tuttavia, non esclude la possibilità di una prova contraria da parte dell’intermediario circa la sussistenza di sopravvenienze che risultino atte a deviare il corso della catena causale derivante dall’asimmetria informativa» (39).

Infine, appare significativo aver ribadito che quanto al rapporto tra violazione degli obblighi informativi e produzione del danno (nella specie, la prestazione del servizio di negoziazione dei titoli, qualora l’intermediario abbia dato corso all’acquisto di titoli ad alto rischio senza adempiere ai propri obblighi informativi, ed il cliente non rientri in alcuna delle categorie di investitore qualificato o professionale previste dalla normativa di settore), non è configurabile il concorso di colpa di quest’ultimo nella produzione del danno ex art. 1227 c.c. né, a maggior ragione, può ascriversi efficacia interruttiva del nesso di causalità alle sue scelte (40).

Ulteriore duplice importante precisazione è quella formulata sulla tenuta del regime di riparto degli oneri di allegazione e prova; per un verso, è stato chiarito che nei giudizi di risarcimento del danno, l’onere fatto gravare sull’intermediario di provare di avere agito con la diligenza richiestagli prevista dalla normativa in tema di intermediazione finanziaria (d.lgs. n. 58 del 1998), lungi dal comportare un’inversione dell’onere probatorio ex art. 2697 c.c., si pone in perfetta armonia e continuità con la regola generale stabilita dall’art. 1218 c.c., che, in presenza dell’inadempimento, pone a carico del debitore la prova della sua non imputabilità; per l’altro, che grava sull’investitore, il quale lamenti la violazione degli obblighi informativi posti a carico dell’intermediario, di allegare specificamente l’inadempimento di tali obblighi, mediante la pur sintetica ma circostanziata individuazione delle informazioni che l’intermediario avrebbe omesso di somministrare, nonché di fornire la prova del danno e del nesso di causalità tra inadempimento e danno, nesso che sussiste se, ove adeguatamente informato, l’investitore avrebbe desistito dall’investimento rivelatosi poi pregiudizievole (41). Nello stesso ambito, ma con riferimento alla disciplina normativa che pone a carico dell’intermediario la responsabilità solidale per i danni arrecati a terzi dal promotore finanziario nello svolgimento delle incombenze affidategli, anche se tali danni siano conseguenti a responsabilità accertata in sede penale (art. 31, comma 3, del d.lgs. n. 58 del 1998), la Terza Sezione Civile ha ribadito il regime di riparto degli oneri probatori, affermando che incombe all’investitore l’onere di provare l’illiceità della condotta del promotore, mentre spetta all’intermediario di provare che l’illecito sia stato consapevolmente agevolato in qualche misura dall’investitore. In applicazione di tale regime di allegazione e prova, la responsabilità dell’intermediario deve essere esclusa ove il danneggiato ponga in essere una condotta agevolatrice che presenti connotati di anomalia, vale a dire, se non di collusione, quanto meno di consapevole acquiescenza alla violazione delle regole gravanti sul promotore, verificandosi in tal caso l’interruzione del nesso di occasionalità necessaria tra il fatto produttivo di danno e l’esercizio delle mansioni cui il promotore finanziario sia adibito, costituente condizione necessaria e sufficiente della responsabilità oggettiva del preponente (42). In base allo stesso principio è stato affermato come l’elemento sintomatico dell’anomalia della condotta del danneggiato può essere palesata da elementi presuntivi, quali il numero o la ripetizione delle operazioni poste in essere con modalità irregolari, il valore complessivo delle stesse, l’esperienza acquisita nell’investimento di prodotti finanziari, la conoscenza del complesso iter funzionale alla sottoscrizione di programmi di investimento e le sue complessive condizioni culturali e socio-economiche (43).

5. Linee di tendenza e possibili prospettive.

Dalla comparazione degli orientamenti tradizionali con quelli più recenti emerge una duplice linea di tendenza sulla quale si muove la giurisprudenza di legittimità, sul versante della fattispecie di responsabilità civile, in ordine al complesso tema del riparto dell’onere della prova del nesso causale quale elemento costitutivo dell’illecito.

Una prima linea di tendenza attiene al profilo strutturale della responsabilità contrattuale che, secondo la previsione dell’art. 1218 c.c., a differenza di quella dettata dall’art. 2043 c.c., solleva il creditore dell’obbligazione che si afferma non adempiuta (o non esattamente adempiuta) dall’onere di provare il fatto dell’inadempimento e la colpa del debitore, ma non anche dall’onere di provare il nesso di causa tra la condotta del debitore e il danno di cui domanda il risarcimento in quanto fatto costitutivo dell’azionato diritto al risarcimento.

Tale regola di struttura, comune ai diversi ambiti di responsabilità, compresi quelli di responsabilità professionale esaminati, tende, come veduto, ad attenuare gli effetti di una interpretazione estensiva dell’orientamento tradizionale in tema di danno da emotrasfusioni secondo la quale si riteneva che il creditore, oltre ad avvalersi delle presunzioni di colpa e di inadempimento, potesse avvalersi anche di una terza presunzione riguardante il nesso della idoneità della dedotta inadempienza alla produzione del danno lamentato. Questa estensione dell’assetto di riparto degli oneri probatori – sganciato dalle peculiarità della fattispecie in cui tale regime era stato introdotto – poneva il debitore in una posizione processuale assai svantaggiata imponendogli un onere probatorio eccessivo.

Al fine di superare tale interpretazione, gli attuali orientamenti esaminati hanno fatto riferimento a quanto enunciato dalle Sezioni Unite in tema di armonizzazione dei diversi rimedi posti dall’ordinamento avverso l’inadempimento dell’obbligazione. In particolare, è stato richiamato il regime di riparto degli oneri probatori in base al quale, da un lato, grava sul creditore che agisca per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l’adempimento, l’onere di provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte e, dall’altro, grava sul debitore l’onere di fornire la prova del fatto positivo dell’avvenuto adempimento o dell’esattezza dell’adempimento. È stato ribadito che tale regime di distribuzione dell’onere appare coerente alla regola dettata dall’art. 2697 c.c. che distingue tra tali fatti costitutivi e fatti estintivi, atteso che la prova dell’adempimento (fatto estintivo del diritto azionato dal creditore) spetta al debitore convenuto che dovrà dare la prova diretta e positiva dell’adempimento, trattandosi di fatto riferibile alla sua sfera di azione (Sez. U. n. 13533/2001).

In applicazione di questa regola, è stato definitivamente chiarito che l’onere gravante sul debitore non può reputarsi esteso alla dimostrazione della mancanza del nesso causale che, diversamente dall’adempimento, non costituisce un fatto estintivo del diritto del creditore né rispetto ad esso può essere invocato il criterio di vicinanza della prova secondo cui l’onere probatorio va posto a carico della parte che più agevolmente può assolverlo; difatti, in relazione al nesso causale fra la condotta dell’obbligato e il danno lamentato dal creditore – rispetto al quale non ha dunque ragion d’essere l’inversione dell’onere prevista dall’art. 1218 c.c.- non può che valere il principio generale sancito dall’art. 2697 c.c. che onera l’attore (sia il danneggiato in sede extracontrattuale che il creditore in sede contrattuale) della prova dei fatti costitutivi della propria pretesa; ciò vale, ovviamente, sia in riferimento al nesso causale materiale (attinente alla derivazione dell’evento lesivo dalla condotta illecita o inadempiente) che in relazione al nesso causale giuridico (ossia alla individuazione delle singole conseguenze pregiudizievoli dell’evento lesivo); trattandosi di elementi egualmente “distanti” da entrambe le parti (e anzi, quanto al secondo, maggiormente “vicini” al danneggiato), non v’è spazio per ipotizzare a carico dell’asserito danneggiante una “prova liberatoria” rispetto al nesso di causa (a differenza di quanto accade per la prova richiestagli in relazione all’esattezza dell’adempimento.

È stato opportunamente sottolineato che questo assetto del regime probatorio in tema di nesso causale non si pone in contrasto con quanto affermato dalle Sezioni Unite (Sez. U. n. 577/2008), secondo cui «in tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e di responsabilità professionale da contatto sociale del medico, ai fini del riparto dell’onere probatorio l’attore, paziente danneggiato, deve limitarsi a provare l’esistenza del contratto (o il contatto sociale) e l’insorgenza o l’aggravamento della patologia ed allegare l’inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato, rimanendo a carico del debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante» tenuto conto che tale principio venne affermato a proposito di una fattispecie del tutto peculiare nella quale il creditore aveva allegato un inadempimento qualificato (consistente in una emotrasfusione) tale da comportare di per sé, in assenza di fattori alternativi più probabili la presunzione della derivazione del contagio dalla condotta del medico o della struttura. Si affermò in quella fattispecie che la prova della prestazione sanitaria conteneva in sé quella del nesso causale, «con la conseguenza che non poteva che spettare al convenuto l’onere di fornire una prova idonea a superare tale presunzione, secondo il criterio generale di cui all’art. 2697, 2° co. c.c. (e non – si badi – la prova liberatoria richiesta dall’art. 1218 c.c.)».

Per regola generale, quindi, è onere del creditore allegare specificamente l’inadempimento e dimostrare l’esistenza del nesso causale tra la condotta inadempiente e il danno di cui chiede ristoro, onere che va assolto dimostrando, con qualsiasi mezzo di prova, comprese le presunzioni, che la condotta dell’obbligato è stata, secondo il criterio del “più probabile che non”, la causa del danno, con la conseguenza che se, al termine dell’istruttoria, non risulti provato il nesso tra condotta ed evento, per essere quel nesso risultato assolutamente incerto, la domanda deve essere rigettata.

Una seconda linea di tendenza si registra sotto il profilo funzionale alla luce del principio di effettività della tutela giurisdizionale che impone di rendere effettive le tutele accordate in situazioni di disparità alla luce dei principi costituzionale e convenzionale (artt. 24 Cost. e 3 CEDU) nel senso di interpretare la legge processuale, e non solo quella sostanziale, in modo da rendere possibile o non troppo arduo l’esercizio del diritto di agire in giudizio.

A tale stregua, la giurisprudenza attuale ritiene possibile che la regola probatoria generale possa essere, a seconda del valore dei diritti o interessi coinvolti, conformata dal giudice (44).

Come veduto, la deduzione della violazione di specifici obblighi posti a salvaguardia di diritti fondamentali (come il diritto di autodeterminazione e il diritto alla salute del paziente o il diritto di autodeterminarsi del risparmiatore-investitore finalizzato ad una scelta consapevole) determina una presunzione di responsabilità in ordine alle modalità di esecuzione della prestazione, in ragione dello stretto rapporto che si instaura tra il soggetto attivo – che dispone della potestà di esercitare professionalmente il trattamento sanitario o l’attività di investimento e di intermediazione – ed il soggetto passivo-paziente o risparmiatore-investitore – che richiede o riceve la prestazione.

È stato anche condivisibilmente precisato che le condotte omissive del professionista (ad esempio qualora trascuri di onorare scrupolosamente i propri obblighi informativi nei confronti del cliente) si manifestano, in se stesse, come fattori di scorretto orientamento dell’altra parte (verso scelte di tipo terapeutico sul versante della lesione della salute ovvero di tipo finanziario sul versante della lesione degli obblighi informativi dovuti dall’intermediario).

Pertanto la condotta tenuta dal professionista diviene un momento costitutivo delle singole decisioni assunte dal cliente e consente di essere considerata, di per se, fattore di disorientamento del cliente, ma ciò non esclude, in applicazione del principio di effettività, la possibilità del riequilibrio o dell’alleggerimento degli oneri probatori funzionali gravanti sullo stesso professionista nel consentire a quest’ultimo la prova contraria circa la sussistenza di sopravvenienze che risultino atte a deviare il corso della catena causale derivante dalle asimmetrie informative proprie del rapporto.

Quanto alle possibili prospettive, la tenuta del nuovo orientamento in tema di distribuzione dell’onere della prova del nesso causale dovrà essere indagata con particolare riferimento alla disciplina della nuova responsabilità medica e sarà, di certo, da questa messa alla prova solo se si consideri che ciascuno dei soggetti convenuti nell’azione di risarcimento del danno risponderà secondo il proprio titolo di responsabilità; da un lato la struttura ex art. 1218 c.c. per fatto proprio e per il fatto dell’ausiliario ex art. 1228 c.c. (in quanto l’inadempimento dell’ausiliario è elemento costitutivo della responsabilità del debitore, mentre l’ausiliario non risponde nei confronti del creditore in quanto non è parte del rapporto obbligatorio), dall’altro lato, il medico che risponderà ex art. 2043 c.c., con le conseguenti prevedibili difficoltà probatorie che si porranno nel giudizio.