PARTE QUARTA IMPRESA E MERCATO (coordinata da Aldo Ceniccola e Giuseppe Fichera)

  • marchio commerciale
  • brevetto
  • diritto d'autore
  • concorrenza

CAPITOLO XIII

I DIRITTI DI PRIVATIVA E LA CONCORRENZA

(di Vincenzo Galati )

Sommario

1 Confondibilità di marchi e brevetti. - 2 Decadenza e nullità del marchio. - 3 Cessione del diritto d’autore e contratto di edizione. - 4 Configurabilità dell’opera di ingegno. - 5 Divieto di concorrenza e concorrenza sleale. - 6 L’azione di classe. - 7 Clausole vessatorie nel contratto tra consumatore e professionista.

1. Confondibilità di marchi e brevetti.

Secondo consolidata giurisprudenza di legittimità l’azione di contraffazione del marchio d’impresa ha natura reale e presuppone l’avvenuta registrazione del marchio.

È posta a tutela del diritto assoluto all’uso esclusivo del segno come bene autonomo, sulla base del riscontro della confondibilità dei marchi, mentre prescinde dall’accertamento della effettiva confondibilità tra prodotti e delle concrete modalità di uso del segno; accertamento riservato, invece, al giudizio di concorrenza sleale.

Inoltre, azione di contraffazione e azione di nullità hanno un comune presupposto nella confondibilità dei marchi in conflitto.

Sul punto merita rilievo Sez. 1, n. 15840/2015, Nappi, Rv. 636048-01, laddove è stato affermato il principio, ribadito anche dalla giurisprudenza qui esaminata, secondo cui, ai fini della valutazione della confondibilità dei marchi, l’esame deve essere effettuato in termini globali e sintetici.

Ed infatti, è stato affermato da Sez. 1, n. 08577/2018, Fraulini, Rv. 647769-01, che in tema di marchi d’impresa, l’apprezzamento del giudice del merito sulla confondibilità fra segni distintivi similari deve essere compiuto non in via analitica, attraverso il solo esame particolareggiato e la separata considerazione di ogni singolo elemento, ma in via globale e sintetica.

Nel caso esaminato, è stata ritenuta corretta la valutazione della Corte di appello secondo la quale, in tema di giochi autorizzati, i termini “casinò” e “bingo” non sono sinonimi e non possono generare confusione in ordine alla tipologia delle attività da ciascuno evocata.

Particolarmente significativa, nell’ambito dell’orientamento con il quale è emersa continuità, la precisazione che la verifica deve compiersi sull’insieme degli elementi grafici, visivi, fonetici, nonché concettuali o semantici, laddove il marchio contenga tali riferimenti rispetto al prodotto contrassegnato.

È stata, quindi, sostenuta la tesi della confondibilità (con conseguente nullità del marchio) di due segni distintivi destinati a contrassegnare prodotti analoghi offerti nel medesimo mercato per la eliminazione o la riduzione di modeste alterazioni fisiche o estetiche, senza che le differenze semantiche e concettuali, tra essi pur riscontrate, potessero considerarsi caratterizzanti (Cass. 15840/2015 cit.).

In tema di marchi notori è stata emessa una decisione che non trova riscontro in precedenti della Corte e che, quindi, deve essere segnalata per la sua novità.

Sez. 1, n. 09769/2018, Iofrida, Rv. 648121-02, ha infatti precisato che in tema di capacità distintiva del marchio, ove entrambi i segni distintivi oggetto di comparazione siano qualificabili come notori, stante la rinomanza delle relative case produttrici di settore, va escluso qualsiasi pericolo di confusione tra le due denominazioni, quand’anche l’acquisizione della notorietà sia avvenuta in tempi e con modalità diverse.

Si tratta di principio, come segnalato, inedito nei termini riportati, anche se la Corte si è in passato occupata della tutela del marchio notorio sotto il profilo dell’“affinità”, rispetto allo stesso, dei prodotti commercializzati.

In particolare, anche in ragione della necessità di predisporre una tutela “forte” degli stessi (Direttiva 21 dicembre 1988, n. 89/104/CEE e d.lgs. n. 480 del 1992) e del fatto che il pubblico riconduce a tale particolare categoria di segni distintivi una qualità del prodotto “soddisfacente”, e quindi garanzia di successo a prescindere dalle qualità intrinseche, è stata affermata la necessità di tenere conto del pericolo di confusione in cui il consumatore medio può cadere attribuendo al titolare del marchio celebre la fabbricazione anche di altri prodotti, non rilevantemente distanti sotto il piano merceologico e non caratterizzati – di per sé – da alta specializzazione, cosicché il prodotto meno noto si avvantaggi di quello notorio e del suo segno (Sez. 1, n. 13090/2013, Ragonesi, Rv. 626643-01).

In tutte le sentenze è stata ribadita, anche quale mera premessa del ragionamento logico seguito ai fini della delibazione sul tema in esame, la distinzione tra marchio forte e marchio debole, nonché tra marchio a struttura semplice ed a struttura complessa.

Tale distinzione viene fatta risalire da Cass. 8577/2018 cit. a Sez. 1 2692/1978, Bologna, Rv. 392078-01 ma è esplicita e particolarmente efficace la descrizione in Sez. 1, n. 1267/2016, Ragonesi, Rv. 638432-01.

Si ha presenza di marchio forte, meritevole di una tutela particolarmente incisiva, nel caso di segno distintivo frutto di fantasia, senza aderenze concettuali ai prodotti contraddistinti, sicché anche variazioni pur rilevanti o originali, purchè ne lascino permanere la sostanziale identità, sono illegittime.

L’orientamento delle scelte degli acquirenti, in tal caso, è dato dal c.d. nucleo ideologico del marchio che, permanendo intatto, non esclude la confondibilità.

Viceversa, il marchio è debole laddove il segno distintivo è privo di una particolare forza individualizzante per cui anche modificazioni lievi possono escludere la confondibilità.

Evocato nella giurisprudenza della Corte il fenomeno del c.d. secondary meaning (disciplinato dall’art. 13, commi 2 e 3 d.lgs n. 30 del 2005 come una sorta di meccanismo di validazione nel corso del tempo di un segno distintivo all’origine privo di capacità distintiva) esteso alla trasformazione del marchio debole in marchio forte.

Ulteriori “categorie” sono utilizzate dalla giurisprudenza.

Si parla di marchio “complesso” nel caso in cui siano presenti più elementi caratterizzanti e suscettibili di autonoma tutela anche se la forza distintiva è garantita da un nucleo centrale del marchio.

È, invece, definito “d’insieme” il marchio nel quale gli elementi costitutivi sono privi di autonoma capacità distintiva derivando questa solo dalla loro combinazione.

Infine, si ricorre alla definizione di marchio “semplice” quando vi è unicità del segno distintivo.

Sez. 1, n. 09769/2018, Iofrida, Rv. 648121-01, ha così precisato, in continuità con la giurisprudenza precedente (Sez. 1, n. 18920/2004, Graziadei, Rv. 577273-01), che in caso di marchio forte (dall’origine o per vicende successive), la confondibilità si determina anche in presenza di consistenti varianti nel marchio successivamente registrato, ove vi sia appropriazione del nucleo centrale dell’ideativo messaggio individualizzante del marchio anteriore, con riproduzione od imitazione di esso nella parte atta ad orientare le scelte dei potenziali acquirenti; detto nucleo centrale, peraltro, non è identificabile nel mero riferimento a situazioni e contesti ricollegabili ad un determinato settore merceologico, ma riguarda quel “quid pluris” che connoti, all’interno di quel settore, una specifica offerta.

Nel caso concreto è stato escluso il pericolo di confusione nel caso di marchi complessi deboli divenuti notori, anche per effetto dei cospicui investimenti pubblicitari delle case produttrici.

Ciò ha indotto i giudici di merito ad escludere la ricorrenza della fattispecie di cui all’art. 20 comma 1 lett. b) d.lgs. 30 del 2005, che attribuisce al titolare di un marchio registrato il diritto di vietare ai terzi, salvo proprio consenso, di usare nell’attività economica un segno identico o simile al marchio registrato, per prodotti o servizi identici o affini, se a causa dell’identità o somiglianza fra i segni e dell’identità o affinità fra i prodotti o servizi, possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico, che può consistere anche in un rischio di associazione fra i due segni.

Infine, in applicazione dei principi sin qui descritti, Sez. 1, n. 15927/2018, Tricomi, Rv. 649528-01, ha deciso che in tema di marchi d’impresa, la qualificazione del segno distintivo come marchio cd. debole non incide sull’attitudine dello stesso alla registrazione, ma soltanto sull’intensità della tutela che ne deriva, nel senso che, a differenza del marchio cd. forte, in relazione al quale vanno considerate illegittime tutte le modificazioni, pur rilevanti ed originali, che ne lascino comunque sussistere l’identità sostanziale, ovvero il nucleo ideologico espressivo costituente l’idea fondamentale in cui si riassume, caratterizzandola, la sua attitudine individualizzante, per il marchio debole sono sufficienti ad escluderne la confondibilità anche lievi modificazioni o aggiunte.

È stata così confermata la sentenza di merito che aveva ritenuto sufficientemente differenziabili i due marchi in conflitto, in relazione al connotarsi del primo come solo denominativo e dell’altro alla stregua di marchio figurativo e complesso, segnatamente riconducibile nel novero dei cd. marchi d’insieme con la necessità, ai fini del giudizio di confondibilità, di effettuare anche una valutazione di tipo visivo e non solo fonetico.

Anche in questo caso si tratta di continuità rispetto alla giurisprudenza precedente; in particolare il riferimento è a Sez. 1, n. 13170/2016, Genovese, Rv. 640226-01.

Per completezza si deve comunque osservare che tale sentenza, pur essendo conforme a precedente Sez. 1, n. 14787/2007, Morelli, Rv. 597747-01, si era posta in contrasto rispetto alla più recente Sez. 1, n. 1861/2015, Lamorgese, Rv. 634265-01 con la quale era stato sostenuto che in tema di marchi di impresa, la qualificazione del segno distintivo come marchio debole non preclude la tutela nei confronti della contraffazione in presenza dell’adozione di mere varianti formali, in sé inidonee ad escludere la confondibilità con ciò che del marchio imitato costituisce l’aspetto caratterizzante, non potendosi, invero, limitare la tutela del marchio debole ai casi di imitazione integrale o di somiglianza prossima all’identità, cioè di sostanziale sovrapponibilità del marchio utilizzato dal concorrente a quello registrato anteriormente.

In applicazione di tale principio era stata cassata la sentenza di merito che aveva ritenuto insuscettibile di tutela il marchio costituito dalla combinazione di parole di uso comune “Divani & Divani” benché le stesse avessero assunto efficacia individualizzante del prodotto.

2. Decadenza e nullità del marchio.

La ricostruzione dell’acquisto dei diritti in materia di marchi è stata, da tempo, operata dalla Corte ricorrendo alla figura della fattispecie complessa.

Sin da Sez. 1, n. 4090/1980, Bologna, Rv. 407992-01, è stato evidenziato che la fattispecie brevettuale è costituita dalla creazione del segno distinitivo, dalla registrazione (che ha natura costitutiva) e, eventualmente, dal trasferimento del marchio (che presenta funzione traslativa).

Il marchio è oggetto della fattispecie e, quando si evoca la figura della relativa nullità, s’intende fare riferimento al venir meno degli effetti della sua registrazione a seguito della relativa declaratoria.

A tale evenienza è collegata la perdita dei diritti derivanti dalla registrazione che, in ipotesi, può riguardare anche un marchio illegale.

Sez. 1, n. 04771/2018, Nazzicone, Rv. 647634-01, ha dunque precisato che la nullità riguarda la registrazione, non la privativa in sé in quanto la prima è idonea a dispiegare i suoi effetti sino alla declaratoria di nullità fino a quando un giudice non accerti che essa è avvenuta al di fuori dei presupposti previsti dalla legge.

Il marchio nullo, pertanto, fino a quando non viene dichiarato tale, gode di una relativa stabilità e ciò ha portato la giurispirudenza di legittimità ad evocare la figura della presunzione semplice di validità ed efficacia della registrazione del marchio (sin da Sez. 1, n. 3109/1983, Lipari, Rv. 428021-01 fino alla più recente Sez. 1, n. 13090/2013 cit. nel paragrafo precedente).

Si tratta di un’ipotesi di “nullità” del tutto peculiare (tanto da indurre taluno a parlare di efficacia precaria del marchio nullo) rispetto all’analogo vizio riferito al contratto.

Le cause di nullità del marchio sono descritte negli artt. 14, comma 1, lett. a), e 25, lett. b), del d.lgs. 30 del 2005 (che indicano le ipotesi di illiceità), nonché dagli artt. 7, 8, 9, 10, 12, 13, 19, comma 2, e 118, comma 3, lett. b), del decreto menzionato.

La Corte è intervenuta sullo specifico tema della legittimazione attiva all’azione di nullità disciplinata dall’art. 122 d.lgs. 30 del 2005.

Al primo comma la norma prevede che l’azione di nullità e decadenza del marchio possa essere esercitata da chiunque vi abbia interesse e promossa d’ufficio dal pubblico ministero il cui intervento, in deroga all’art. 70 c.p.c., non è obbligatorio.

Al secondo comma, prevede, invece che la dichiarazione di nullità per la sussistenza di diritti anteriori oppure perché l’uso del marchio costituirebbe violazione di un altrui diritto di autore, di proprietà industriale o altro diritto esclusivo di terzi, oppure perché il marchio costituisce violazione del diritto al nome oppure al ritratto oppure perché la registrazione del marchio è stata effettuata a nome del non avente diritto, possa essere esercitata soltanto dal titolare dei diritti anteriori e dal suo avente causa o dall’avente diritto.

Dunque, la norma distingue le ipotesi di nullità assoluta (primo comma) da quelle di nullità relativa (secondo comma) definendo diversamente i soggeti legittimati ad agire nelle due ipotesi.

La ratio della diversa disciplina è stata ravvisata dalla Corte nel passaggio (pag. 11 della motivazione) in cui è stato evidenziato come la legittimazione e l’interesse ad escludere la possibile confusione spetti, in primo luogo, all’imprenditore che ha scelto il marchio secondo diritto.

La legittimazione spetta, invece, a chiunque vi abbia interesse ed al pubblico ministero, ogni volta in cui sia ravvisabile l’interesse degli altri imprenditori, dei consumatori e del mercato onde evitare che la concorrenza si svolga in modo scorretto determinando confusione tra i prodotti ed i servizi offerti dai diversi imprenditori o si ricorra a segni illeciti in contrasto con gli interessi della comunità.

Restano fermi e comuni alle due azioni i principi di cui agli artt. 121 e 123 d.l.gs. 30 del 2005, ossia che l’onere della prova incombe su chi impugna il titolo e che la declaratoria di nullità ha efficacia nei confornti di tutti.

La sentenza ha spiegato e giustificato la mancata previsione della rilevabilità d’ufficio della nullità (anche se derivante da illiceità della registrazione) riprendendo il concetto di presunzione relativa di legittimità del titolo evocato dalla giurisprudenza di legittimità (come visto) sin dagli anni ’80.

Infine, ha ricordato la coerenza della conclusione alla quale è pervenuta rispetto alla disciplina comunitaria rinvenibile nelle seguenti fonti: art. 95 Regolamento (CE) del Consiglio 20 dicembre 1993 n. 40/94, artt. 52 ss. del Regolamento (CE) n. 207/2009 del Consiglio 26 febbraio 2009, art. 76 medesimo Regolamento come modificato dal Regolamento 2424/2015 del 16 dicembre 2015, art. 85 Regolamento (CE) n. 6/2002 del Consiglio del 12 dicembre 2001.

Il principio di diritto affermato, dunque, dalla Corte è stato il seguente: in ragione della presunzione semplice di validità dell’avvenuta registrazione del marchio in presenza dei requisiti previsti dalla legge, il giudice non può rilevarne d’ufficio la nullità, conservando peraltro, nei casi previsti dall’art. 122, comma 1, del d.lgs. n. 30 del 2005 (codice della proprietà industriale), la facoltà di sollecitare il P.M. per le sue autonome determinazioni in ordine all’esercizio dell’azione.

In tema di azione per la dichiarazione di nullità della registrazione del marchio, la Corte ha risolto alcune questioni di natura processuale sulla legittimazione all’azione e sulla rilevabilità d’ufficio della nullità.

Gli interventi della giurisprudenza non hanno riguardato le cause di nullità del marchio (all’attualità descritte dall’art. 25 d.lgs. 30 del 2005 e disciplinate, quanto all’aspetto intertemporale, dall’art. 233 dello stesso decreto).

Tuttavia, è stato precisato che gli interventi che si sono succeduti nel tempo (in particolare per effetto di dd. lgss. nn. 480 del 1992 e 447 del 1999) in tema di legittimati a richiedere la dichiarazione di nullità del marchio hanno avuto incidenza sul profilo sostanziale, e non solo processuale, della disciplina.

È dunque al momento della registrazione del marchio che occorre avere riguardo non solo per l’individuazione delle cause della sua eventuale nullità, ma anche ai fini della legittimazione a farne valere il vizio.

Legittimazione che, per effetto del d.lgs. n. 447/1999, non spetta a chiunque vi abbia interesse, ma solo ai titolari di diritti anteriori con conseguente degradazione del vizio da nullità assoluta a nullità relativa.

Nella costante giurisprudenza della Corte, la modifica descritta è priva di retroattività (in tal senso Sez. 1, n. 24909/2008, Giusti, Rv. 605120-01) e, nel solco di tale orientamento si annovera anche Sez. 1, n. 05844/2018, Nazzicone, Rv. 647641-01, con la quale è stato deciso che la legittimazione attiva all’esperimento dell’azione di accertamento della nullità del marchio per difetto di novità del segno distintivo spetta, relativamente ai giudizi instaurati successivamente all’entrata in vigore del d.lgs. n. 447 del 1999 e concernenti marchi di impresa registrati successivamente all’entrata in vigore del d.lgs. n. 480 del 1992, ma anteriormente al cit. d.lgs. n. 447, a chiunque vi abbia interesse, ai sensi dell’originaria formulazione dell’art. 59 del r.d. n. 929 del 1942, e non ai soli titolari di diritti anteriori, come invece previsto dall’art. 233 del codice della proprietà industriale, in ragione della natura sostanziale dell’innovazione e del risolversi l’azione di nullità nell’accertamento, da parte di coloro che al momento della registrazione avevano la titolarità dell’azione stessa, del fatto che la registrazione sia avvenuta senza che ne sussistessero le condizioni di legge.

L’argomento dell’azione per la declaratoria di nullità del marchio è stato affrontato in un gruppo di sentenze nelle quali è stata affrontata la tematica del c.d. preuso la cui disciplina è contenuta negli artt. 12 e 28 d. d.lgs. 30 del 2005.

Rileva, in particolare, quanto statuito, in termini generali, da Sez. 1, n. 02499/2018, Genovese, Rv. 647143-01, che ha affermato il principio che in tema di marchi di impresa, il preuso di un marchio di fatto, tanto ai sensi dell’art. 18 del r.d. 21 giugno 1942, n. 929 (cd. legge marchi) applicabile “rationae temporis”, che degli artt. 12 e 28 del d.lgs. n. 30 del 2005 (cd. Codice della proprietà industriale) che l’hanno sostituito, comporta che il preutente abbia il diritto all’uso esclusivo del segno, ossia abbia il potere di avvalersene che è distinto da ogni successiva registrazione corrispondente alla denominazione da lui usata, la quale si pone su un piano diverso rispetto al diritto di preuso, sicché ben può una tale registrazione essere dichiarata nulla, anche per decettività, in rapporto ai segni confliggenti. Ne consegue che, ove la registrazione decettiva sia dichiarata nulla, non per questo il preutente che aveva provveduto a formalizzarla perde il diritto di continuare a far uso del segno, specie laddove, per la cessata interferenza con i diritti registrati da altro titolare di uno o più marchi, sia venuto meno anche il conflitto.

L’affermazione interseca il costante orientamento della Corte secondo cui la ragione della invalidità della registrazione successiva al preuso di un marchio di fatto con notorietà nazionale è ricollegata alla mancanza del carattere della novità che integra condizione necessaria per ottenere la valida registrazione, fatta salva l’ipotesi della convalidazione di cui all’art. 28 d.lgs. 30 del 2005 (Sez. 1, 22350/2015, Nappi, Rv. 637695-01 e Sez. 1, n. 14342/2003, Gilardi, Rv. 567192-01).

La ricaduta pratica del principio affermato nella sentenza 2499/2018 (che costituisce una sostanziale novità giurisprudenziale) è stata la cassazione della sentenza di merito con la quale era stato escluso il diritto al preuso a seguito della sopravvenuta dichiarazione di nullità di un marchio identico ritenuto decettivo in quanto idoneo ad ingannare il consumatore in ordine alla provenienza del prodotto contrassegnato.

Tale dichiarazione di nullità, nella valutazione dei giudici di merito, aveva, in sostanza, fatto venire meno il diritto di preuso in quanto travolto dalla valutazione circa la natura ingannevole del marchio registrato successivamente.

La Corte, invece, ha descritto il diritto al preuso come un vero e proprio diritto che perdura nel tempo ed “insensibile” rispetto all’accertamento della nullità (per decettività) della successiva registrazione, dovendosi delimitare gli effetti dell’accertata nullità al periodo di tempo in cui è avvenuta la registrazione posteriore.

La Corte ha avuto modo di soffermarsi anche sul preuso del marchio debole dando continuità, anche se solo in motivazione, al precedente Sez. 1, n. 13170/2016 ricordato al paragrafo precedente, a sua volta conforme a Sez. 1, n. 15927/2018 cit.

Sez. 1, n. 18725/2018, Tricomi, Rv. 649580-01, ha, sul punto, deciso che in tema di marchi di impresa, la debolezza del marchio non esclude che, al fine di poterlo mantenere ed opporsi alla registrazione altrui, se ne possa provare il preuso anche a mezzo della prova testimoniale, il cui valore dovrà essere apprezzato in comparazione alle complessive risultanze processuali ed in uno agli eventuali riscontri documentali offerti dalla parte.

Infine, va registrato un intervento della Corte in tema di convalidazione del marchio.

L’istituto è disciplinato dall’art. 28 d.lgs. 30 del 2005 che così recita: “1. Il titolare di un marchio d’impresa anteriore ai sensi dell’articolo 12 e il titolare di un diritto di preuso che importi notorietà non puramente locale, i quali abbiano, durante cinque anni consecutivi, tollerato, essendone a conoscenza, l’uso di un marchio posteriore registrato uguale o simile, non possono domandare la dichiarazione di nullità del marchio posteriore né opporsi all’uso dello stesso per i prodotti o servizi in relazione ai quali il detto marchio è stato usato sulla base del proprio marchio anteriore o del proprio preuso, salvo il caso in cui il marchio posteriore sia stato domandato in mala fede. Il titolare del marchio posteriore non può opporsi all’uso di quello anteriore o alla continuazione del preuso. 2. La disciplina del comma 1 si applica anche al caso di marchio registrato in violazione degli articoli 8 e 14, comma 1, lettera c)”.

Viene descritta, in sostanza un’ipotesi di preclusione all’esercizio dell’azione di nullità della registrazione del marchio posteriore in presenza di presupposti specificamente descritti.

In presenza di tali presupposti è escluso possa parlarsi di mancanza di novità del marchio o di contraffazione con conseguente decadenza dall’azione di nullità e liceità (per effetto di una sorta di “sanatoria”) della continuazione dell’uso del segno posteriore che convive con quello anteriore.

Con riferimento a tale qualificazione della convalidazione anche Sez. Un., n. 17927/2008, Salvago, Rv. 604118-01 ove, sebbene con riferimento a normativa previgente, è stata operata l’espressa qualificazione nel senso che l’istituto della c.d. convalidazione, previsto dall’art. 48 r.d. 21 giugno 1942 n. 929, nel testo anteriore alle modifiche introdotte dall’art. 45 d.lgs. 4 dicembre 1992 n. 480, non rappresenta né una perdita del diritto all’uso del proprio marchio, né una forma di acquisto del diritto all’uso del marchio da parte di chi lo abbia adottato di fatto senza contestazione, ma integra una ipotesi di decadenza dall’esercizio dell’azione di nullità o contraffazione.

Conseguentemente, secondo quella sentenza, la decadenza può essere impedita dal solo esercizio delle suddette azioni, mentre resta irrilevante a tal fine l’eventuale invio di diffide stragiudiziali.

Sul punto rileva la motivazione conforme di Sez. 1, n. 18736/2018, Iofrida, Rv. 649679-01, che ha statuito che ai fini della convalidazione del marchio posteriore ai sensi dell’art. 28 del d.lgs. n. 30 del 2005, la prova che grava sul titolare del secondo marchio, avente ad oggetto l’utilizzo quinquennale continuato, effettivo e senza contestazioni del segno posteriore in un ambito non meramente locale, deve essere rigorosa, essendo detta disposizione eccezionale e di stretta applicazione.

Nel caso esaminato la Corte ha ritenuto mancato tale rigoroso accertamento in ragione della mancata motivazione in ordine all’uso continuativo del marchio in quattro dei cinque anni rilevanti, non essendo sufficienti generici riferimenti alla presenza del segno distintitivo su buste, siti internet, cataloghi non esattamente databili.

Ulteriore passaggio significativo della decisione recentemente intervenuta è quello relativo alla cassazione della sentenza di merito che aveva ritenuto inammissibile l’azione di nullità del marchio registrato, in quanto non avanzata nell’atto introduttivo ma nella memoria ex art. 183, comma 5, c.p.c., benchè si fosse trattato di proposizione di domanda a seguito della eccezione di convalidazione formulata dalla controparte nella comparsa di costituzione e risposta.

In sostanza, una domanda di nullità formulata quale “reconventio reconventionis” che nel caso di specie si era così manifestata: la convenuta in un’azione di contraffazione di marchi e concorrenza sleale aveva invocato la titolarità di marchi posteriori registrati sostenendo la validità degli stessi anche per effetto della convalidazione; a questo punto l’attrice aveva domandato la declaratoria di nullità dei marchi.

Ciò aveva fatto essendosi trovata, rispetto alla domanda di accertamento della titolarità dei marchi posteriori e comunque della convalidazione, in posizione di convenuto.

Sul punto la motivazione ha richiamato quanto espressamente statuito da Sez. 1, n. 3639/2018, Tavassi, Rv. 606804-01 rispetto alla quale si è posta in consapevole (pag. 14 della motivazione) continuità.

3. Cessione del diritto d’autore e contratto di edizione.

In tema di contratto di edizione, definito dall’art. 118 l. n. 633 del 1941 come “il contratto con il quale l’autore concede ad un editore l’esercizio del diritto di pubblicare per le stampe, per conto e a spese dell’editore stesso, l’opera dell’ingegno”, la Corte ha emesso una sentenza contenente principi sostanzialmente inediti ma, senz’altro, coerenti rispetto ad altri precedenti attinenti casi non relativi a diritti di privativa.

In particolare, s’intende fare riferimento a Sez. 1, n. 18726/2018, Tricomi, Rv. 649581-01, con la quale, in primo luogo, è stato affrontato il tema della validità, della natura e delle modalità di approvazione della clausola di prelazione apposta al contratto di edizione.

L’art. 122 l. cit. prevede che tale contratto possa assumere la forma del “contratto di edizione per edizione” della durata prefissata dalla legge in venti anni lasciando alle parti la determinazione del numero degli esemplari e delle edizioni ed essendo previsto che, in mancanza di tale pattuizione, il contratto debba intendersi stipulato per una sola edizione per il numero massimo di duemila copie.

Altra tipologia di contratto e quella del “contratto di edizione a termine” in cui, nel termine stabilito dalle parti che non può superare, comunque, i venti anni, è attribuito all’editore un ampio potere dispositivo in ordine allo sfruttamento dell’opera, con il diritto di eseguire quel numero di edizioni e per il numero di esemplari per edizione che reputi necessario a sua discrezione, stabilendosi, in ragione della sua posizione egemonica ed a tutela del contraente debole, che sia indicato, a pena di nullità del contratto, il numero minimo di esemplari per ogni edizione.

In tal senso, espressamente, la norma di cui all’art. 122 cit. per come interpretata anche da Sez. 1, n. 25332/2017, Falabella, Rv. 645847-01.

L’individuazione del contratto di edizione come patto nel quale l’editore assume una posizione egemonica è la figura del contraente forte (editore) si somma a quella del contraente debole (autore) è affermata anche nella sentenza sopra citata.

Più nello specifico, a proposito della previsione del patto di prelazione, la Corte, ha sostenuto che nel contratto di edizione “per edizione”, l’eventuale previsione di un diritto di prelazione a favore dell’editore non preclude la libertà dell’autore, né comporta la violazione degli artt. 1379 c.c. e 122, comma 2, l. n. 633 del 1941, poiché, per effetto di essa, il titolare del diritto resta libero di disporre dei suoi beni ed alle condizioni che preferisce essendogli unicamente imposto, dopo la conclusione del contratto e qualora voglia instaurare un nuovo rapporto contrattuale con un terzo, di comunicare all’originario stipulante le condizioni dell’accordo per consentirgli di valutare la possibilità di assumere in proprio l’impegno.

Il patto di prelazione non è stato ritenuto tale da precludere la facoltà di disporre ed esercitare il diritto a chi ne sia titolare, integrando solo una limitazione a porre un limite relativo alla scelta della persona con cui negoziare tale diritto.

Limitazione che non determina alcuna sostanziale limitazione per il titolare del diritto.

Peraltro, richiamando altro risalente precedente (Sez. 2, n. 4116/1986, Rv. 446905-01), la Corte ha evidenziato come il patto non sia suscettibile di esecuzione in forma specifica ex art. 2932 c.c., potendo, in caso di sua violazione, dare luogo solo a responsabilità per risarcimento dei danni.

Ed allora, tenuto conto dei principi affermati, nel caso di specie, la Corte ha ritenuto che la clausola che prevedeva la prelazione a favore dell’editore, sub specie di obbligo di informazione dello stesso della volontà dell’autore di stipulare un contratto per la pubblicazione con altro editore, non era tale da limitare in maniera indiscriminata i diritti dello stesso.

Ulteriore passaggio argomentativo che ha consentito alla Corte di pervenire all’affermazione della validità del patto è quello relativo alla non necessità della specifica approvazione per iscritto della clausola ai sensi dell’art. 1341, comma 2, c.c. non potendosi qualificare il contratto di edizione quale contratto per adesione essendo riservata a tale categoria di contratti l’applicazione di tale norma.

Anche sul punto la Corte ha dato continuità ad altre conformi decisioni espressamente indicate (Sez. 1, n. 7605/2015, De Marzo, Rv. 634932-01 e Sez. 2, n. 7403/2016, Criscuolo, Rv. 639511-01).

La stessa sentenza ha preso altresì posizione, anche in questo caso con affermazione sostanzialmente inedita, sul contratto di edizione avente ad oggetto la traduzione di un testo.

Ha quindi affermato che, in tema di contratto di edizione avente ad oggetto la traduzione di un’opera originaria, è applicabile l’art. 119, comma 4, della l. n. 633 del 1941 che, nel disciplinare la portata del trasferimento dei diritti di utilizzazione spettanti all’autore, esclude che essa comprenda, salvo pattuizione espressa, i diritti di utilizzazione dipendenti da eventuali elaborazioni e trasformazioni di cui l’opera è suscettibile e la cui valutazione deve tener conto delle caratteristiche intrinseche della tipologia “di secondo livello” dell’opera e del rapporto strettissimo che la lega all’originale dai cui mutamenti, anche a seguito di nuove acquisizioni documentali, scientifiche, filologiche e/o critiche o da altro, può essere fortemente incisa.

Precisata, inoltre, l’ampiezza della cessione del diritto d’autore.

Il riconoscimento della traduzione come oggetto del diritto di autore è previsto dagli artt. 4 e 7, comma 2, l. n. 633 del 1941 e la tutela prescinde da quella prevista per l’opera in lingua originale.

L’oggetto del contratto di edizione che riguarda l’opera del traduttore è delimitato dall’art. 119, comma 4, l. n. 633 cit. che esclude l’utilizzazione di elaborazioni o trasformazioni che possono riguardare l’opera.

Nel caso specifico si trattava della stipula di un contratto di edizione tra una traduttrice ed una casa editrice diversa da quella che godeva di un diritto di prelazione in virtù di un precedente contratto.

Mentre il giudice di merito aveva ritenuto il nuovo contratto concluso in violazione del patto di prelazione, la Corte di legittimità ha valorizzato una serie di elementi per escludere che vi fosse identità tra l’opera oggetto del nuovo contratto di edizione e quella precedente per la quale era stata pattuita la prelazione.

La traduzione per la nuova casa editrice, infatti, era opera che era stata realizzata alla luce di nuove acquisizioni filologiche e critiche (erano stati scoperti nuovi testi), era stata prevista la realizzazione con un testo a fronte in lingua originale, si trattava di opera a quattro mani con la collaborazione di uno studioso di lingua originale.

Proprio in virtù di tali specificità, è stata eslcusa l’operatività del patto di prelazione.

4. Configurabilità dell’opera di ingegno.

La Corte ha avuto modo di soffermarsi sul tema della tutela del diritto al riconoscimento della paternità dell’opera, laddove se ne ravvisi il carattere creativo del progetto preliminare, perché dotato di originalità e novità oggettiva, frutto di elaborazione personale dell’autore.

In particolare, l’esame ha avuto riguardo alla autonoma tutelabilità della paternità del progetto preliminare di un’opera architettonica nel caso di sua sostituzione con quello definitivo.

Alla risposta negativa data dal giudice di merito, la Corte, pur dichiarando l’inammissibilità del ricorso, tenuto conto della particolare rilevanza della questione, ha enunciato il principio di diritto ai sensi dell’art. 363, comma 3, c.p.c..

Sul punto le norme rilevanti sono state individuate nell’art. 2, comma 1, n. 5, l. n. 633 del 1941 il quale assegna tutela a “disegni” (comprendendo il termine la fase progettuale) ed “opere dell’architettura”, nonché dall’art. 6 della medesima legge che individua nella creazione dell’opera, quale particolare espressione del lavoro intellettuale, il titolo originario dell’acquisto del diritto d’autore.

Ancora, l’autonoma tutelabilità del progetto, è stata individuata attraverso una lettura sistematica dei primi due commi dell’art. 20 l. cit. laddove è previsto il diritto dell’autore di rivendicare la paternità ed opporsi alle modifiche dell’opera, con la deroga nel caso di modificazioni che si rendessero necessarie nel corso della realizzazione dell’opera.

Tanto giustifica, nella lettura proposta dalla Corte, l’affermazione dell’autonoma tutelabilità della creazione costituita dalla progettazione che costituisce, nell’interpretazione proposta, fase autonoma (dotata, in quanto tale, di protezione).

Ciò accade, dunque, anche nel caso in cui il progetto preliminare venga ad essere inglobato o, anche, rielaborato, in quello definitivo nel caso in cui sia stato concretamente utilizzato (anche a fini meramente espositivi).

Sez. 1, n. 15158/2018, Tricomi, Rv. 649126-01, ha, dunque, affermato il principio di diritto secondo cui in tema di diritto di autore, il progetto architettonico preliminare che si connoti come opera dell’ingegno, in quanto frutto di creatività ed assistito da novità ed originalità, anche se successivamente trasfuso nel progetto definitivo, conserva il diritto ad essere tutelato quando venga utilizzato autonomamente, anche a fini meramente espositivi.

Anche in questo caso si tratta di principio inedito con il quale la Corte ha inteso precisare l’autonoma tutelabilità, quale opera dell’ingegno, di una particolare porzione dell’opera complessiva costituita dalla creazione artistica e consistente nel progetto preliminare successivamente trasfuso nell’opera conclusiva.

5. Divieto di concorrenza e concorrenza sleale.

La concorrenza sleale trova disciplina nell’art. 2598 c.c. che distingue tre categorie di atti che possono dare luogo all’azione risarcitoria ivi prevista.

Due (i numeri 1 e 2 della norma) comprendono atti tipici (atti di confusione e denigrazione), uno atipico costituito dagli atti contrari alle regole di correttezza professionale idonei a danneggiare l’altrui azienda.

Risale a Sez. 1, n. 4029/1985, Borruso, Rv. 441551-01, l’affermazione secondo cui la concorrenza sleale può essere configurata anche fra imprenditori operanti a livelli economici diversi purchè incidenti sulla medesima categoria di consumatori.

La giurisprudenza più recente ha sviluppato e dato seguito a tale affermazione.

Nel delineare uno dei requisiti per la configurabilità della condotta di concorrenza sleale, la Corte ha dato continuità all’orientamento di Sez. 3, n. 22332/2014, Carleo, Rv. 633113-01, secondo cui presupposto indefettibile dell’illecito è la comunanza di clientela, la cui sussistenza va verificata anche in una prospettiva potenziale, dovendosi esaminare se l’attività di cui si tratta, considerata nella sua naturale dinamicità, consenta di configurare, quale esito di mercato fisiologico e prevedibile, sul piano temporale e geografico, e quindi su quello merceologico, l’offerta dei medesimi prodotti, ovvero di prodotti affini e succedanei rispetto a quelli offerti dal soggetto che lamenta la concorrenza sleale.

È stato, dunque, posto l’accento sul dato fondamentale costituito dalla possibile interferenza delle condotte sanzionabili ai sensi dell’art. 2598 c.c. sul profilo del potenziale inganno del soggetto destinato all’acquisto o al consumo del prodotto individuando e specificando il concetto di “clientela”.

Sul punto la Corte aveva già precisato che la situazione di concorrenzialità deve essere valutata in chiave potenziale e dinamica (anche con riferimento all’ambito territoriale di commercializzazione dei prodotti) pur non potendo prescindere dallo svolgimento della identicità dell’attività commerciale o industriale.

Ed in tale prospettiva si era già sostenuto che la comunanza di clientela non è data dalla identità soggettiva degli acquirenti dei prodotti, bensì dall’insieme dei consumatori che sentono il medesimo bisogno di mercato e, pertanto, si rivolgono a tutti i prodotti che sono in grado di soddisfare quel bisogno.

Più precisamente, era stato affermato che la sussistenza di tale requisito va verificata anche in una prospettiva potenziale, dovendosi esaminare se l’attività di cui si tratta, considerata nella sua naturale dinamicità, consenta di configurare, quale esito di mercato fisiologico e prevedibile, sul piano temporale e geografico, e quindi su quello merceologico, l’offerta dei medesimi prodotti, ovvero di prodotti affini e succedanei rispetto a quelli offerti dal soggetto che lamenta la concorrenza sleale.

Nel caso esaminato in Sez. 1, n. 17144/2009, Tavassi, Rv. 609233-01 erano stati ritenuti irrilevanti, per escludere la sussistenza della condotta di concorrenza sleale, sia il diverso pregio dei prodotti delle parti che il diverso livello dei negozi presso cui erano reperibili, assumendo, piuttosto, principale rilevanza l’appartenenza degli stessi prodotti alla stessa categoria merceologica e l’utilizzazione di un marchio fortemente confondibile anche con riguardo all’origine dei relativi prodotti.

Con Sez. 1, n. 12364/2018, Nazzicone, Rv. 649030-01, è stato ribadito che in tema di concorrenza sleale, il rapporto di concorrenza tra due o più imprenditori, derivante dal contemporaneo esercizio di una medesima attività industriale o commerciale in un ambito territoriale anche solo potenzialmente comune, comporta che la comunanza di clientela non è data dall’identità soggettiva degli acquirenti dei prodotti, bensì dall’insieme dei consumatori che sentono il medesimo bisogno di mercato e, pertanto, si rivolgono a tutti i prodotti, uguali ovvero affini o succedanei a quelli posti in commercio dall’imprenditore che lamenta la concorrenza sleale, che sono in grado di soddisfare quel bisogno.

Nel caso concreto è stata ritenuta la concorrenza sleale tra imprenditori operanti uno a livello nazionale e l’altro a livello provinciale, considerando irrilevante, anche la natura pubblica (in un caso) e privata (nell’altro) della clientela di destinazione rimanendo identica, invece, la categoria dei consumatori destinatari della commercializzazione dei prodotti.

Peraltro, nel caso concreto, la condotta di concorrenza è stata ritenuta anche in capo all’importatore del prodotto chiamato in garanzia dal venditore evocato in giudizio con l’azione ex art. 2598 c.c..

Con ciò la Corte ha dichiaratamente applicato il principio di portata generale esplicitato con altro precedente con il quale ha avuto modo di precisare che la nozione di concorrenza sleale di cui all’art. 2598 c.c. va desunta dalla “ratio” della norma, che impone, alle imprese operanti nel mercato, regole di correttezza e di lealtà, in modo che nessuna si possa avvantaggiare, nella diffusione e collocazione dei propri prodotti o servizi, con l’adozione di metodi contrari all’etica delle relazioni commerciali; ne consegue che si trovano in situazione di concorrenza tutte le imprese i cui prodotti e servizi concernano la stessa categoria di consumatori e che operino quindi in una qualsiasi delle fasi della produzione o del commercio destinate a sfociare nella collocazione sul mercato di tali beni.

Infatti, quale che sia l’anello della catena che porta il prodotto alla stessa categoria di consumatori in cui si collochi un imprenditore, questi viene a trovarsi in conflitto potenziale con gli imprenditori posti su anelli diversi, proprio perché è la clientela finale quella che determina il successo o meno della sua attività, per cui ognuno di essi è interessato a che gli altri rispettino le regole di cui alla citata disposizione (Sez.1, n. 4739/2012, Ragonesi, Rv. 622174-01).

Anche con riguardo ai limiti di autotutela del danneggiato dagli atti di concorrenza sleale, la Corte, ha dato continuità, sia pure con qualche lieve precisazione, alla propria giurisprudenza.

In primo luogo, rileva l’affermazione secondo cui in tema di concorrenza sleale, l’attacco ingiusto diretto a ledere le posizioni ed i diritti tutelati dall’art. 2598 c.c., e, in particolare, idoneo a confondere il pubblico circa la qualità merceologica dei prodotti offerti, con evidente vantaggio conseguente ad una comparazione tra i prezzi di vendita che non dia conto, in virtù della confusione così ingenerata nel consumatore, della differente struttura del costo di produzione, legittima una reazione, da parte del soggetto leso, volta a ristabilire la verità dei fatti onde consentire al pubblico la conoscenza circa la intrinseca diversità tra i prodotti rispettivamente commercializzati, senza che l’autore della reazione possa essere considerato responsabile del danno conseguentemente arrecato all’aggressore, e senza che spieghi influenza, in contrario, la natura extracontrattuale dell’illecito di cui all’art. 2598 c.c. (Sez.1, n. 11047/1998, Berruti, Rv. 520344-01).

S’intende, inoltre, fare riferimento a Sez. 1, n. 22042/2016, Lamorgese, Rv. 642637-04 che ha avuto modo di delineare la portata della concorrenza sleale per denigrazione affermando, fra l’altro, che essa non postula la falsità dei fatti affermati, potendo configurarsi, quale comportamento non conforme alla correttezza professionale, ove idoneo a produrre discredito, anche la divulgazione di circostanze o di notizie vere ma, in quest’ultimo caso, solo quando e negli stretti limiti in cui siano contestualmente formulate vere e proprie invettive ed offese gratuite nei confronti del concorrente, che traggano cioè, nella diffusione delle notizie veritiere, mero spunto o pretesto e che la legittima difesa, quale reazione difensiva ad un’altrui offesa, non può consistere nella divulgazione di notizie false sui prodotti e l’attività del concorrente e non esclude, quindi, la responsabilità civile per l’illecito concorrenziale previsto dall’art. 2598, comma 1, n. 2, c.c..

Così, con Sez. 6-1, n. 12820/2018, Scaldaferri, Rv. 649643-01, è stato esplicitato il principio secondo cui la reazione dell’imprenditore che sia danneggiato dalla condotta sleale di un concorrente è legittima, e non causa un danno risarcibile, solo quando risponde ai parametri della continenza generale e della proporzionalità rispetto all’offesa ricevuta.

Laddove la reazione non sia assistita dalle descritte caratteristiche, essa integra, a sua volta, atto di concorrenza sleale con le conseguenti tutele risarcitorie per il danneggiato.

Il provvedimento si pone, così, in continuità con la sentenza precedentemente citata.

Nell’ambito degli atti contrari alla correttezza professionale, rientrano quelli di c.d. concorrenza parassitaria integrata dal continuo e sistematico operare sulle orme altrui attraverso il ricorso all’imitazione della condotta e della produzione imprenditoriale.

Proprio con riferimento all’inquadramento di tale forma di concorrenza sleale, la Corte, nel solco di una consolidata e risalente interpretazione, ha ricondotto la figura nell’alveo dell’art. 2598, comma 1, n. 3, c.c..

In tal senso già Sez. 1, n. 5852/1984, Borruso, Rv. 437528-01, aveva affermato il principio seguito da Sez. 1, n. 22118/2015, Genovese, Rv. 637722-01 rispetto alla quale la recente Sez. 1 , n. 25607/2018, Valitutti, Rv. 650828-02, è conforme.

In particolare, è stato affermato che la concorrenza sleale parassitaria, ricompresa fra le ipotesi previste dall’art. 2598, n. 3, c.c., consiste in un continuo e sistematico operare sulle orme dell’imprenditore concorrente attraverso l’imitazione non tanto dei prodotti ma, piuttosto, di rilevanti iniziative imprenditoriali di quest’ultimo, mediante comportamenti idonei a danneggiare l’altrui azienda con ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale; essa si riferisce a mezzi diversi e distinti da quelli relativi ai casi tipici di cui ai precedenti nn. 1 e 2 della medesima disposizione, sicché, ove si sia correttamente escluso nell’elemento dell’imitazione servile dei prodotti altrui il centro dell’attività imitativa (requisito pertinente alla sola fattispecie di concorrenza sleale prevista dal n. 1 dello stesso art. 2598 c.c.), debbono essere indicate le attività del concorrente sistematicamente e durevolmente plagiate, con l’adozione e lo sfruttamento, più o meno integrale ed immediato, di ogni sua iniziativa, studio o ricerca, contrari alle regole della correttezza professionale.

Conseguentemente è stata esclusa la ricorrenza di tale forma di concorrenza sleale nel caso di due isolati e non rilevanti episodi consistenti nella scelta delle caratteristiche del listino prezzi e del catalogo di vendita del prodotto.

Confermato il risalente orientamento secondo cui requisito della forma di concorrenza in esame è la continuità e la ripetitività dell’imitazione (Sez. 1, n. 4129/1976, Borruso, Rv. 382787-01).

Ancora, sempre sul medesimo punto, Sez. 1, n. 25607/2018, Valitutti, Rv. 650828-01, ha affermato che nella cosiddetta concorrenza parassitaria, l’imitazione può considerarsi illecita soltanto se effettuata a breve distanza di tempo da ogni singola iniziativa del concorrente (nella concorrenza parassitaria diacronica) o dall’ultima e più significativa di esse (in quella sincronica), là dove per “breve” deve intendersi quell’arco di tempo per tutta la durata del quale l’ideatore della nuova iniziativa ha ragione di attendersi utilità particolari (di incassi, di pubblicità, di avviamento) dal lancio della novità, ovvero fino a quando essa è considerata tale dai clienti e si impone, quindi, alla loro attenzione nella scelta del prodotto. Ciò in quanto la creatività è tutelata nel nostro ordinamento solo per un tempo determinato, fino a quando l’iniziativa può considerarsi originale, sicché quando l’originalità si sia esaurita, ovvero quando quel determinato modo di produrre e/o di commerciare sia divenuto patrimonio ormai comune di conoscenze e di esperienze di quanti operano nel settore, l’imitazione non costituisce più un atto contrario alla correttezza professionale ed idoneo a danneggiare l’altrui azienda.

Nel caso concreto l’affermazione di diritto ha condotto la Corte a ritenere corretta la motivazione del giudice di merito che aveva escluso qualsiasi ipotesi di concorrenza sleale avente ad oggetto un prodotto diffuso e standardizzato da tempo sia a livello nazionale che internazionale.

Si è data, anche in questo caso, continuità a quanto già affermato da Sez. 1, n. 13423/2004, Giuliani, Rv. 574698-01.

Peraltro, sull’elemento temporale, e quindi sulla configurabilità dell’illecito nel caso di sfruttamento immediato del lavoro altrui, anche Sez. 1, n. 22118/2015 cit. (par. 16.4).

Infine, va segnalato quanto deciso dalla Corte in materia di competenza per materia nel caso di concorrenza sleale c.d. interferente.

In base al combinato disposto degli artt. 3 d.lgs. n. 168 del 2003 e 134 d.lgs. 30 del 2005 sono devolute alle sezioni specializzate in materia di impresa, fra l’altro, i procedimenti giudiziari in materia di proprietà industriale e di concorrenza sleale, con esclusione delle sole fattispecie che non interferiscono, neppure indirettamente, con l’esercizio dei diritti di proprietà industriale.

Secondo Sez. 6-1, n. 21762/2013, Cristiano, Rv. 627813-01 (conforme, a sua volta a Sez. 1, n. 12153/2010, Zanichelli, Rv. 613661-01) in tema di competenza delle sezioni specializzate in materia di proprietà industriale ed intellettuale, ai sensi dell’art. 3 del d.lgs. 27 giugno 2003, n. 168, si ha interferenza tra fattispecie di concorrenza sleale e tutela della proprietà industriale o intellettuale sia nelle ipotesi in cui la domanda di concorrenza sleale si presenti come accessoria a quella di tutela della proprietà industriale e intellettuale, sia in tutte le ipotesi in cui, ai fini della decisione sulla domanda di repressione della concorrenza sleale o di risarcimento dei danni, debba verificarsi se i comportamenti asseritamente di concorrenza sleale interferiscano con un diritto di esclusiva. Ne consegue che la competenza delle sezioni specializzate va negata nei soli casi di concorrenza sleale c.d. pura, in cui la lesione dei diritti riservati non sia, in tutto o in parte, elemento costitutivo della lesione del diritto alla lealtà concorrenziale, tale da dover essere valutata, sia pure “incidenter tantum”, nella sua sussistenza e nel suo ambito di rilevanza.

Integra il principio ora ricordato quanto deciso da Sez. 6-1, n. 02680/2018, Marulli, Rv. 647334-01, che ha precisato, sul punto, che sussiste la competenza delle sezioni specializzate in materia di proprietà industriale ed intellettuale, ai sensi dell’art. 3 del d.lgs. n. 168 del 2003, allorché, ai fini della decisione sulla domanda di repressione della concorrenza sleale o di risarcimento dei danni, debba verificarsi se i comportamenti denunciati interferiscano con un diritto di esclusiva (concorrenza sleale c.d. interferente) avendo riguardo a tali fini alla prospettazione dei fatti da parte dell’attore ed indipendentemente dalla loro fondatezza.

In particolare, la competenza della sezione specializzata è stata affermata nel caso in cui, tra due società, era stato stipulato un articolato accordo che prevedeva il mantenimento dell’uso di un marchio in capo ad una di esse relativamente a determinati servizi ed il trasferimento di altri, unitamente allo stesso marchio ad altra società.

Secondo la prospettazione attorea, l’uso promiscuo del marchio da parte delle società aveva determinato uno sviamento di clientela con conseguente alterazione delle ordinarie regole della concorrenza che si era alterata, dunque, in stretta connessione, secondo la descritta prospettazione, con l’uso del diritto di privativa.

Si tratta di orientamento, anche in questo caso, in piena continuità con i precedenti citati rispetto ai quali, l’elemento di specificità è dato dalla descrizione dei criteri con i quali determinare la competenza.

6. L’azione di classe.

Con riferimento all’azione disciplinata dall’art. 140-bis d.lgs. 205 del 2006, la Corte è intervenuta con due arresti che consolidano quanto deciso da Sez. U, n. 2610/2017, Petitti, Rv. 642267-01 con la quale è stata esclusa la natura decisoria e, quindi, l’autonoma impugnabilità ex art. 111, comma 7, Cost. del provvedimento del giudice di merito che si pronuncia sull’ammissibilità di un’azione di natura processuale e, dunque, non su un diritto soggettivo quanto, piuttosto, sulle modalità di svolgimento dell’azione in giudizio.

In particolare, è stato precisato, se l’azione di classe ex art. 140-bis cit., è funzionale solo alla tutela risarcitoria di un pregiudizio subito dagli appartenenti alla classe e non anche a tutelare un interesse collettivo, l’ordinanza di inammissibilità dell’azione non è impugnabile con lo strumento indicato in quanto quel diritto è suscettibile di essere tutelato attraverso l’azione risarcitoria individuale.

Peraltro, la stessa azione di classe non è preclusa per quei soggetti che non hanno aderito a quella dichiarata inammissibile.

È stato, così, affermato da Sez. 3, n. 07244/2018, D’Arrigo, Rv. 647956-01, che l’ordinanza che decide sulla ammissibilità dell’azione di classe ex art. 140-bis del d.lgs. n. 206 del 2005 è priva del carattere di decisorietà, in quanto si pronuncia, pur in modo definitivo, solo sulle modalità di svolgimento dell’azione e non sulla situazione sostanziale dedotta in giudizio; contro di essa è pertanto inammissibile il ricorso straordinario per cassazione.

Inoltre è stato ribadito da Sez. 3, n. 26725/2018, Graziosi, Rv. 650908-01, che l’ordinanza di inammissibilità dell’azione di classe proposta ai sensi dell’art. 140-bis del d.lgs. n. 206 del 2005, adottata dalla corte di appello in sede di reclamo, non ha carattere decisorio e, quindi, non è impugnabile con il ricorso ex art. 111, comma 7, Cost., ove detta azione sia finalizzata ad ottenere la tutela risarcitoria di un pregiudizio subito dai singoli appartenenti alla classe e non anche di un interesse collettivo, essendo il medesimo diritto tutelabile attraverso l’ azione individuale.

È stato così escluso, in particolare, che fosse funzionale alla tutela di un interesse collettivo l’ azione promossa ai sensi dell’art. 140-bis del d.lgs. n. 206 del 2005 da un’associazione a tutela dei consumatori quale procuratore di un genitore in proprio e legale rappresentante della figlia minorenne contro una struttura sanitaria per avere con comportamento omissivo e violativo degli obblighi di legge e contratto, provocato il contatto della minore con persona malata di tubercolosi, costringendo la minore a continui controlli ed al rischio di sviluppare la malattia.

Lo scopo dell’azione era stato indicato nell’accertamento della responsabilità della struttura sanitaria e nella condanna della convenuta al risarcimento dei danni, oltre che allo scopo di proporre analoga domanda di accertamento e condanna per ogni neonato aderente e per i suoi genitori.

La ragione fattuale era stata indicata nel fatto che nel 2011 presso la struttura aveva prestato servizio nel reparto neonatale un’infermiera affetta da tubercolosi e quindi vi era stato un coinvolgimento potenziale di 1271 persone, ovvero i bambini nati nel periodo di servizio della dipendente.

7. Clausole vessatorie nel contratto tra consumatore e professionista.

In tema di tutela del consumatore ed, in particolare, di clausole vessatorie nel contratto stipulato tra questi ed il professionista, la disciplina si rinviene nell’art. 33 d.lgs. 206 del 2005 ove si specifica che nel contratto concluso tra il consumatore ed il professionista si considerano vessatorie le clausole che, malgrado la buona fede, determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto.

La norma prosegue indicando quelle clausole che si presumono vessatorie fino a prova contraria comprendendo, fra esse, quelle che hanno l’effetto di stabilire come sede del foro competente sulle controversie località diversa da quella di residenza o domicilio elettivo del consumatore (comma 2, lett. u).

Sul tema si rinvengono, così come avvenuto nell’anno 2017, diverse decisioni della Corte che, circa la derogabilità pattizia dei criteri di determinazione della competenza territoriale, ha statuito, in termini sostanzialmente conformi a precedenti decisioni, l’inderogabilità del foro del consumatore per come disciplinato dall’art. 66-bis d.lgs. 206 del 2005 (residenza o domicilio del consumatore) che attribuisce il diritto al consumatore a che il processo si svolga presso il giudice a lui più prossimo.

Sul punto, Sez. 6-2, n. 01951/2018, Picaroni, Rv. 647976-01, ha deciso che il foro del consumatore è esclusivo ed inderogabile, a meno che il professionista non dimostri che la clausola di deroga in favore di altri fori sia stata oggetto di trattativa individuale tra le parti.

In particolare, nel caso esaminato, relativo ad opposizione a decreto ingiuntivo ottenuto per il pagamento di prestazioni professionali a favore di un avvocato, la Corte ha escluso che la mancata proposizione dell’eccezione di incompetenza territoriale da parte del consumatore e la sua mancata presa di posizione di fronte al rilievo officioso dell’incompetenza del foro adito da parte del giudice potessero avere un valore equipollente al patto di deroga e alla trattativa individuale.

In motivazione è stato precisato che, sulla scorta della Direttiva 93/13/CE del Consiglio del 5.4.1993 relativa alle clausole abusive nei contratti stipulati dal consumatore, questi deve godere della medesima protezione nel contratto orale ed in quello scritto e, quindi, in assenza di una pattuizione scritta, il foro del consumatore non è derogabile a seguito del suo comportamento processuale che costituisce un posterius rispetto all’introduzione del giudizio e, pertanto, non può assumere valore equipollente alla trattativa

Si tratta di orientamento in sostanziale continuità con quanto già deciso dalla Corte in passato (fra le molte si ricordano Sez. 6-2, n. 181/2015, Giusti, Rv. 633968-01; Sez. 6-3, n. 5703/2014, Amendola, Rv. 630504-01; Sez. 6-3, n. 17083/2013, Ambrosio, Rv. 627671-01).

Quanto al momento al quale fare riferimento per l’individuazione del giudice competente, la Corte ha richiamato quanto previsto, in termini generali, dall’art. 5 c.p.c. secondo cui la competenza si determina con riguardo allo stato di fatto esistente al momento della domanda e, quindi, nel caso di opposizione a decreto ingiuntivo, al momento della notifica del decreto ai sensi dell’art. 643 c.p.c..

Sez. 6-3, n. 11389/2018, Positano, Rv. 648917-01, ha quindi precisato, anche su questo punto conformemente a quanto già deciso (fra le molte) da Sez. 6-3, n. 18523/2016, Scrima, Rv. 642123-01, che in tema di controversie tra consumatore e professionista, l’art. 33, comma 2, lett. u), cod. cons. va interpretato nel senso che la residenza del consumatore, cui la norma ha riguardo, è quella che lo stesso ha al momento della domanda e non quella che egli aveva al momento della conclusione del contratto, ma sull’individuazione del corrispondente foro esclusivo ivi previsto incide l’accertamento, devoluto al solo giudice del merito, del carattere fittizio dello spostamento di residenza del consumatore, compiuto per sottrarsi al radicamento della controversie, nonché quello relativo all’eventuale non coincidenza della residenza anagrafica (che instaura una mera presunzione) con quella effettiva.

Il caso ha visto contrapposta la tesi del creditore circa la residenza effettiva del consumatore nel luogo ove era stato notificato il decreto ingiuntivo a “familiare convivente” soccombere a fronte di elementi quali il luogo (coincidente con quello della residenza anagrafica) in cui aveva sede lo studio professionale del difensore incaricato di curare la fase precontenziosa e contenziosa della controversia.

La Corte ha avuto modo di pronunciarsi anche sul tema del rapporto tra l’eccezione di incompetenza per territorio derogabile e quella fondata sull’art. 33, comma 2, lett. u), d.lgs. 206 del 2005.

La vicenda esaminata è quella di un’opposizione a decreto ingiuntivo in cui l’opponente aveva eccepito l’incompetenza per territorio del giudice adito ma non anche la propria qualità di consumatore e, dunque, l’applicabilità dell’art. 33, comma 2, cit..

Il giudice di merito aveva ravvisato un’ipotesi di competenza territoriale inderogabile e rilevato l’incompetenza per territorio per ragione diversa da quella sollevata in via di eccezione dall’opponente.

Sez. 6-3, n. 23912/2018, Olivieri, Rv. 650885-01, ha deciso che la tempestiva e rituale eccezione di incompetenza territoriale derogabile, formulata dall’opponente con l’atto di opposizione a decreto ingiuntivo, non devolve automaticamente al “thema decidendum” la diversa questione relativa all’incompetenza fondata sul foro del consumatore, che, pur rilevabile d’ufficio, deve essere tuttavia esplicitamente sollevata dal giudice, entro il termine preclusivo dall’udienza di trattazione ex artt. 38, comma 3, e 183, comma 1, c.p.c., poiché non vi è alcuna fungibilità tra l’incompetenza territoriale derogabile, rimessa all’eccezione in senso stretto della parte, e il rilievo di parte od officioso dell’incompetenza territoriale inderogabile ex art. 33, comma 2, lett. u), del d.lgs. n. 2016/2005, né sul piano strutturale, essendo distinti i presupposti di fatto che fondano la competenza, né in relazione alla disciplina processuale, tenuto conto delle differenti preclusioni processuali previste per la contestazione della parte e per la rilevabilità officiosa.

La Corte ha negato che la mancata rilevazione da parte del giudice nei termini di cui all’art. 38, comma 3, c.p.c. non avesse determinato alcuna decadenza potendo applicare l’art. 33 d.lgs. 206 del 2005 in base al principio “iura novit curia”, dovendo la relativa questione essere introdotta ritualmente nel processo con idonea eccezione.

Ha, piuttosto, esplicitamente chiarito che l’eccezione tempestiva di incompetenza derogabile proposta con l’opposizione a decreto ingiuntivo non comporta la devoluzione nel “thema decidendum” anche della questione relativa alla incompetenza fondata sul foro del consumatore che, pur potendo essere rilevata d’ufficio, deve essere espressamente sollevata nei termini di cui al combinato disposto degli artt. 38, comma 3, e 183, comma 1, c.p.c..

La Corte ha affermato il principio in consapevole adesione a Sez. 6-2, n. 11128/2014, Giusti, Rv. 630742-01 con la quale era stato deciso che la formulazione tardiva dell’eccezione di incompetenza per territorio ex art. 33, comma 2, cit., non esonera il giudice dal rilevare d’ufficio la questione nei termini di cui all’art. 183 c.p.c., dovendosi sostenere che la formulazione tardiva dell’eccezione sia “tamquam non esset” e non consenta la dichiarazione di incompetenza dopo avere trattenuto in decisione la causa.

Pressochè inedita la questione decisa da Sez. 6-2, n. 18579/2018, Oricchio, Rv. 649657-01, in sede di regolamento di competenza.

Il caso riguardava compensi richiesti con ricorso per decreto ingiuntivo per procacciamento di acquirente di immobile di proprietà di soggetto deceduto, qualificato come “consumatore”.

Con l’opposizione a decreto ingiuntivo gli eredi del debitore avevano eccepito l’incompetenza per territorio ex art. 33, comma 2, lett. u), d.lgs. 206 del 2005 sostenendo, in pratica, la trasmissione agli stessi della qualifica di consumatore del “de cuius”.

La Corte ha affermato il principio per cui in tema di contratti tra professionista e consumatore, la qualità di quest’ultimo – ai fini della determinazione della competenza per territorio – si trasmette agli eredi, non venendo meno, per effetto del decesso, né il rapporto di consumo, né le ragioni del peculiare regime di tutela ad esso correlato.

Pertanto, in caso di morte del consumatore, il relativo foro di cui all’art. 33, comma 2, lett. u), del d.lgs. n. 206 del 2005 deve essere individuato sulla base del luogo di residenza o domicilio dei successori universali del defunto.

Nella motivazione ha manifestato l’intenzione di applicare il medesimo principio statuito da Sez. U, n. 11532/2009, Segreto, Rv. 608396-01 in punto di giurisdizione avendo la Corte, in quella sede, statuito l’analogo principio ai fini dell’individuazione del giudice al quale spetta la giurisdizione nei confronti dello straniero in riferimento alle controversie aventi ad oggetto contratti conclusi dai consumatori decidendo che il foro del consumatore deve essere determinato secondo i criteri stabiliti negli artt. 15 e 16 del Regolamento CE n. 44/01 del Consiglio, del 22 dicembre 2000, sulla base del domicilio del consumatore al momento della proposizione della domanda e non a quello della stipula del contratto.

Quindi, nel caso di domanda proposta da o nei confronti degli eredi del consumatore, la giurisdizione deve essere determinata con riferimento al domicilio e alla residenza di tali successori universali.

Ebbene, sulla scorta della richiamata univoca giurisprudenza di legittimità che assimila le questioni di competenza e giurisdizione (fra le altre Sez. U, n. 2067/2011, Macioce, Rv. 616102-01), la Corte ha affermato il principio di diritto sopra riportato.

Sul punto dell’ambito di applicabilità dei criteri di determinazione della competenza per territorio ex art. 33, comma 2, più volte citato, è intervenuta anche Sez. 3, n. 22810/2018, Rossetti, Rv. 650598-01, con particolare riferimento alla nozione di “professionista”.

Nel caso di controversia insorta tra avvocato e compagnia telefonica in relazione all’attivazione della linea per lo studio professionale, la Corte ha statuito che ai fini dell’applicazione della disciplina del foro del consumatore, di cui all’art. 33, comma 2, lett. u), del d.lgs. n. 206 del 2005, non può essere qualificato tale – e deve invece essere considerato “professionista” – l’avvocato che abbia stipulato un contratto per l’attivazione di una linea telefonica per il proprio studio professionale.

Nel pronunciare il principio riportato (cassando la contraria decisione di merito), la Corte ha richiamato i propri precedenti con i quali ha escluso che per assumere la qualità di professionista ai fini dell’art. 3 d.lgs 206 del 2005 “non è necessario stipulare un contratto che costituisca di per sé esercizio dell’attività propria dell’impresa o della professione, ma è sufficiente che il contratto sia stipulato al fine di soddisfare interessi anche solo connessi od accessori rispetto allo svolgimento dell’attività imprenditoriale o professionale”.

Ha dunque richiamato, oltre al proprio precedente conforme rispetto a quanto statuito (Sez. 3, n. 11933/2006, Trifone, Rv. 589986-01), le altre decisioni di legittimità con le quali ha escluso che possano ritenersi consumatori (e possano, dunque, invocare il foro del proprio domicilio) i seguenti soggetti: l’avvocato che abbia acquistato riviste o programmi per la gestione dello studio legale, la persona fisica che abbia concluso un contratto di apertura di credito in nome proprio ma in favore di società della quale era amministratore, l’imprenditore o il professionista che abbia stipulato un contratto di assicurazione in favore della società di cui era amministratore, il fideiussore garante di imprenditore per debito d’impresa.

Merita di essere segnalato il passaggio in cui la Corte ha negato la rilevanza della eventuale “debolezza contrattuale ed economica” (criterio invece utilizzato dal giudice di merito per addivenire alla conclusione cassata) dell’avvocato rispetto alla compagnia telefonica allo scopo di qualificare il primo come “consumatore”.

Sul punto, ha evidenziato come la definizione di “consumatore o utente” contenuta nell’art. 3, comma 1, lett. a), d.lgs. 206 del 2005 faccia riferimento a “persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale eventualmente svolta” e che, quindi, “dal precetto normativo esula qualunque riferimento alle condizioni economiche delle parti, al loro potere commerciale, alla loro forza o capacità di imporre all’altra condizioni più o meno svantaggiose per l’aderente”.

Anche la “ratio” della legge esclude la lettura censurata dalla Corte che ha ricordato come la Direttiva 93/13 CEE (della quale il d.lgs. 205 del 2006 costituisce attuazione) trova la sua giustificazione nell’evitare “distorsioni di concorrenza nel mercato dei beni e dei servizi rivolti ai consumatori, distorsioni in precedenza derivanti dalle grandi differenze esistenti tra le legislazioni degli Stati membri in merito alla tutela del consumatore”.

Conclusivamente, la Corte ha ricordato come non esista nell’ordinamento alcuna corrispondenza biunivoca tra la nozione di professionista e quella di soggetto forte del rapporto contrattuale.

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  • società di capitali
  • società di persone
  • diritto delle società

CAPITOLO XIV

IL DIRITTO DELLE SOCIETÀ

(di Eleonora Reggiani )

Sommario

1 Le società in generale. - 1.1 Società e comunione a scopo di godimento. - 1.2 La clausola compromissoria statutaria. - 1.3 Le vicende estintive e modificative delle società. - 2 Le società di persone. - 2.1 I diritti patrimoniali del socio. - 2.2 La responsabilità del socio per i debiti della società. - 2.3 Il socio accomandante nella società in accomandita semplice. - 2.4 Lo scioglimento del rapporto sociale limitatamente a un socio. - 3 Le società di capitali. - 3.1 L’acquisto e il trasferimento delle partecipazioni societarie. - 3.2 Il recesso del socio di società a responsabilità limitata. - 3.3 Finanziamenti e conferimenti a vario titolo dei soci. - 3.4 L’amministrazione delle società di capitali. - 3.5 Le azioni di responsabilità. - 4 Particolari società di capitali. - 4.1 Le società con azioni quotate in borsa. - 4.2 Le società cooperative.

1. Le società in generale.

Nel corso del 2018 la S.C. ha adottato alcune pronunce che hanno interessato in generale le società, senza operare distinzioni tra le diverse tipologie, in particolare esaminando le differenze rispetto alla comunione a scopo di godimento, la validità della clausola compromissoria statutaria e le vicende modificative ed estintive.

Vengono di seguito esaminate le decisioni appena menzionate, unitamente a quelle adottate sulle medesime questioni, o su questioni connesse, con riferimento alle particolari tipologie di società, in modo tale da esaltare, insieme agli aspetti comuni, anche quelli propri di ciascuna categoria, ove esistenti.

1.1. Società e comunione a scopo di godimento.

Si deve in proposito menzionare Sez. 1, n. 23952/2018, Iofrida, Rv. 650823-01, ove la S.C. ha evidenziato che il criterio di discriminazione tra società e comunione a scopo di godimento deve essere ravvisato nel fatto che, mentre quest’ultima postula una situazione giuridica di contitolarità, presupponendo la comproprietà del bene in capo a tutti coloro che vi partecipano, e si caratterizza per il fatto che ha ad oggetto il godimento del bene comune, nella società viene in rilievo l’esercizio in comune di un’attività svolta a fine di lucro da parte di più soggetti, per l’esercizio della quale non è necessaria alcuna comunione di beni, che sono soltanto lo strumento attraverso il quale la società viene ad operare (nello stesso senso, Sez. 1, n. 6361/2004, Piccininni, Rv. 571687-01).

Si consideri che Sez. 2, n. 3028/2009, Mazzacane, Rv. 606476-01, ha precisato che, nel caso in cui oggetto della comunione sia un’azienda, ove il godimento di questa si realizzi mediante il diretto sfruttamento della medesima da parte dei partecipanti alla comunione, non è configurabile una comunione di godimento, ma l’esercizio di un’impresa collettiva (nella forma della società regolare oppure della società irregolare o di fatto), non ostandovi il disposto dell’art. 2248 c.c., che assoggetta alle norme degli artt. 1100 e ss. c.c. la comunione costituita o mantenuta al solo scopo di godimento, posto che l’elemento discriminante tra comunione a scopo di godimento e società è costituito dal fine lucrativo perseguito tramite un’attività imprenditoriale che, come nel caso di specie, si sostituisce al mero godimento ed in funzione della quale vengono utilizzati beni comuni (nello stesso senso, Sez. L, n. 13291/1999, Evangelista, Rv. 531591-01).

1.2. La clausola compromissoria statutaria.

In argomento, Sez. 1, n. 25610/2018, Falabella, Rv. 650591-01, ha confermato la nullità della clausola compromissoria contenuta nello statuto societario, che non preveda la nomina degli arbitri da parte di un soggetto estraneo alla società, come stabilito dall’art. 34, comma 2, del d.lgs. n. 5 del 2003, ma ha anche precisato che la medesima clausola non può convertirsi in una pattuizione di arbitrato di diritto comune, non potendo accettarsi la tesi del “doppio binario”, posto che l’articolo sopra menzionato commina la nullità per garantire il principio di ordine pubblico dell’imparzialità della decisione.

Tale soluzione, già adottata da Sez. 1, n. 17287/2012, Salmè, Rv. 623736-01, si pone sulla stessa linea di Sez. 3, n. 15892/2011, Frasca, Rv. 619415-01, ove, la S.C. ha affermato chiaramente che l’art. 34 del d.lgs. 17 gennaio 2003 n. 5 contempla l’unica ipotesi di clausola compromissoria che possa essere introdotta negli atti costitutivi delle società (ad eccezione di quelle che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio a norma dell’art. 2325-bis c.c.), restando escluso il ricorso in via alternativa o aggiuntiva alla clausola compromissoria di diritto comune, prevista dall’art. 808 c.p.c., con la conseguenza che se, in violazione di tale prescrizione, l’atto costitutivo prevede una clausola compromissoria che non rispetta i requisiti indicati dalla norma speciale in punto di nomina degli arbitri, la nullità di tale pattuizione comporta che la controversia societaria può essere introdotta soltanto davanti all’autorità giudiziaria ordinaria.

Si consideri peraltro che la medesima Corte ha ritenuto che la clausola compromissoria preesistente all’entrata in vigore del d.lgs. n. 5 del 2003, non adeguata al dettato dell’art. 34, comma 2, d.lgs. cit., è affetta da nullità (sopravvenuta) rilevabile d’ufficio, se prevede la nomina di arbitri ad opera delle parti, e non di un terzo estraneo alla società (Sez. 6-1, n. 23485/2017, Nazzicone, Rv. 646763-01), perché, come già evidenziato, a seguito dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 5 del 2003, tale clausola non può essere convertita in clausola di arbitrato di diritto comune (Sez. 1, n. 21422/2016, Mercolino, Rv. 642061-02).

Più in generale, con riferimento all’operatività della clausola compromissoria statutaria, Sez. 6-1, n. 28533/2018, Rv. 651499-02, ha rilevato che tale clausola è applicabile ai giudizi iniziati dal curatore del consorzio fallito, per far valere diritti preesistenti alla procedura concorsuale, ma non all’azione di responsabilità proposta dallo stesso curatore contro gli amministratori del consorzio, perché, in questo caso, si tratta di azione volta alla reintegrazione del patrimonio sociale nell’interesse dei soci e dei creditori, nei confronti dei quali detta clausola non opera, essendo questi ultimi estranei al soggetto fallito (nella specie la S.C. ha confermato la decisione di merito, che aveva declinato la propria competenza in favore dell’arbitro, in un caso in cui il curatore aveva fatto valere, nei confronti di alcuni enti consorziati, il diritto al pagamento di una somma di denaro preesistente alla data della dichiarazione di fallimento).

In tema, si deve richiamare anche Sez. 6-1, n. 27736/2018, Sambito, Rv. 651460-01, ove la Corte ha stabilito che attengono a diritti indisponibili, non suscettibili di essere compromessi in arbitri, soltanto le controversie relative alle impugnazioni di deliberazioni assembleari di società aventi ad oggetto illecito o impossibile, le quali danno luogo a nullità rilevabili anche d’ufficio dal giudice, cui sono equiparate, ai sensi dell’art. 2479-ter c.c., quelle prese in assoluta mancanza di informazione, sicché la lite che abbia ad oggetto l’invalidità della relativa delibera per omessa convocazione del socio, essendo soggetta al regime di sanatoria previsto dall’art. 2379-bis c.c., può essere deferita ad arbitri.

1.3. Le vicende estintive e modificative delle società.

Si deve tenere presente che, nei casi in cui la cancellazione dal registro delle imprese dipenda dal trasferimento della società all’estero, alla cancellazione non segue l’estinzione della società, che infatti continua a svolgere la sua attività altrove (per un’applicazione di tale principio, cfr. Sez. 1, n. 10793/2018, Vella, Rv. 648450-01).

A parte tali ipotesi eccezionali, in applicazione dell’art. 2495 c.c., alla cancellazione dal registro delle imprese segue l’estinzione delle società, siano esse di persone o di capitali.

Qualora all’estinzione non corrisponda il venir meno di ogni rapporto giuridico facente capo alla società estinta, si determina un fenomeno di tipo successorio, in virtù del quale: a) l’obbligazione della società non si estingue, ma si trasferisce ai soci, i quali ne rispondono, nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione o illimitatamente, a seconda che durante la vita della società fossero limitatamente o illimitatamente responsabili per i debiti sociali; b) i diritti e i beni non compresi nel bilancio di liquidazione della società estinta si trasferiscono ai soci, in regime di contitolarità o comunione indivisa, con esclusione delle mere pretese, ancorché azionate o azionabili in giudizio, e dei crediti ancora incerti o illiquidi, la cui inclusione in detto bilancio avrebbe richiesto un’attività ulteriore (giudiziale o extragiudiziale) e il cui mancato espletamento consente di ritenere che la società vi abbia rinunciato a favore di una più rapida conclusione del procedimento estintivo (così Sez. U, n. 6070/2013, Rordorf, Rv. 625323-01).

Con riguardo ai debiti della società di persone estinta, Sez. L, n. 18465/2018, Berrino, Rv. 649871-01, ha precisato che, in virtù del menzionato fenomeno successorio, sono trasferite ai soci anche le obbligazioni contributive rimaste inadempiute, aggiungendo che, di conseguenza, hanno effetto interruttivo della prescrizione le iniziative di recupero avviate nei confronti dei soci subentranti, come pure l’accertamento dei crediti promosso in sede giudiziale nei confronti degli stessi, dalla definitività del quale, ai sensi dell’art. 2495, comma 2, c.c., comincia a decorrere ex novo il termine prescrizionale.

Anche in tema di debiti tributari, Sez. 6-T, n. 33087/2018, Luciotti, Rv. 652173-01, ha affermato che il socio accomandatario, solidalmente ed illimitatamente responsabile per le obbligazioni della società in accomandita semplice estinta, subentra dal lato passivo nel rapporto d’imposta, aggiungendo che non vi è necessità per quest’ultimo di provare la propria legittimazione ad causam, a differenza di quanto accade per il socio accomandante e per il socio delle società di capitali, responsabili limitatamente a quanto riscosso a seguito della liquidazione.

La Corte ha poi precisato che, nel contenzioso tributario, in presenza di contestazioni in ordine alla legittimazione ad causam dei soci limitatamente responsabili, spetta a questi ultimi provare la loro qualità di successori dal lato passivo nel rapporto di imposta, nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione, dimostrazione che possono fornire per la prima volta anche in sede di legittimità ai sensi dell’art. 372 c.p.c. (con riguardo a quest’ultimo aspetto, negli stessi termini, v. Sez. T, n. 2444/2017, Iannello, Rv. 642885-01).

Si consideri che, con riferimento al contenzioso ordinario, e sempre in tema di successione nei debiti della società estinta da parte dei soci limitatamente responsabili, Sez. 1, n. 15474/2017, Falabella, Rv. 644762-02, ha invece affermato che grava sul creditore, che agisce nei loro confronti, l’onere di provare la distribuzione dell’attivo sociale e la riscossione da parte del socio di una quota di esso in base al bilancio finale di liquidazione, trattandosi di elemento della fattispecie costitutiva del diritto da lui azionato nei confronti del socio.

Con riferimento ai crediti della società di persone estinta a seguito di cancellazione immediata (senza messa in liquidazione), Sez. 1, n. 19302/2018, Tricomi, Rv. 649904-01, nel ribadire il principio enunciato da Sez. U, n. 6070/2013, Rordorf, Rv. 625323-01, sopra riportato, ha escluso la successione dei soci nella titolarità di mere pretese della società estinta, anche se da quest’ultima azionate in giudizio, stante la totale assenza della fase di liquidazione, che deve far ritenere la rinuncia a tali pretese da parte della società in vista di una celere conclusione del procedimento estintivo.

Si deve tuttavia tenere presente che, come rilevato da Sez. 1, n. 08582/2018, Iofrida, Rv. 647770-01, non può presumersi che la società abbia tacitamente rinunciato al proprio credito, preferendo di concludere il procedimento estintivo della società, nel caso in cui il liquidatore abbia coltivato l’azione giudiziaria, intrapresa per tutelare la pretesa creditoria della società, e la cancellazione non sia stata volontaria, ma sia intervenuta d’ufficio ex art. 2490 c.c. a seguito della mancata presentazione per oltre tre anni consecutivi del bilancio annuale. In questo caso infatti, non emerge un’inequivoca volontà abdicativa della società (nello stesso senso, cfr. Sez. 1, n. 21517/2016, Mercolino, Rv. 642790-01, con riferimento ad una società di capitali che aveva promosso un’azione di risarcimento danni prima dell’estinzione a seguito di cancellazione d’ufficio dal registro delle imprese).

In generale, una volta ritenuta l’esistenza di rapporti giuridici facenti capo alla società di capitali estinta, Sez. 1, n. 17492/2018, Fraulini, Rv. 649892-01, ha precisato che, qualora si tratti di un debito, la successione interessa tutti i soci esistenti al momento della cancellazione, sussistendo un litisconsorzio di natura processuale degli stessi, ciascuno in qualità di successore della società nei limiti della quota di partecipazione, mentre, qualora si tratti di un credito, pur rimanendo immutato il meccanismo successorio, la mancata liquidazione comporta soltanto l’instaurazione di un regime di contitolarità o di comunione indivisa, che esclude il litisconsorzio (nella specie, la S.C. ha rimesso le parti innanzi al giudice di primo grado per l’integrazione del contraddittorio, avendo il socio agito individualmente per un credito della società estinta, ma condizionato al pagamento di un debito della stessa).

Con riguardo alle vicende modificative delle società, si deve menzionare Sez. 2, n. 31313/2018, Scarpa, Rv. 651601-01, ove è stato qualificato giuridicamente il fenomeno della scissione parziale di una società (nello stesso senso, Sez. 1, n. 5874/2012, Mercolino, Rv. 622343-01 e Sez. U, n. 23225/2016, Chiarini, Rv. 641764-01).

In particolare, la Corte ha rilevato che la scissione parziale, disciplinata dagli artt. 2506 e ss. c.c. (come modificati dal d.lgs. n. 6 del 2003), si sostanzia nel trasferimento di parte del patrimonio di una società ad una o più società preesistenti, o di nuova costituzione, contro l’assegnazione delle azioni, o delle quote di queste ultime, ai soci della società scissa, traducendosi in una fattispecie traslativa, che comporta l’acquisizione in capo alla nuova società di valori patrimoniali prima non presenti nel suo patrimonio, senza che ciò determini l’estinzione della società scissa ed il subingresso di quella risultante dalla scissione nella totalità dei rapporti giuridici della prima, configurandosi piuttosto una successione a titolo particolare nel diritto controverso.

La medesima Corte ha poi esaminato i risvolti processuali di tale ricostruzione, precisando che, ove la scissione parziale intervenga nel corso di un giudizio, deve darsi applicazione della disciplina dell’art. 111 c.p.c., con la conseguente facoltà del successore di spiegare intervento pure nel giudizio di appello, al di fuori dei limiti dell’art. 344 c.p.c., e di impugnare la sentenza eventualmente pronunciata nei confronti del dante causa, fermo restando che spetta comunque al successore allegare la propria qualità e offrire la prova delle circostanze che costituiscono i presupposti della sua legittimazione mediante riscontri documentali, la cui mancanza, attenendo alla regolare instaurazione del contradditorio, è rilevabile anche d’ufficio.

2. Le società di persone.

Vengono di seguito riportate le decisioni adottate dalla Corte di cassazione nel corso 2018 in tema di società di persone. Riguardano in particolare i diritti patrimoniali del socio, la responsabilità di quest’ultimo per i debiti della società, la figura del socio accomandante nella società in accomandita semplice ed alcune ipotesi di scioglimento del rapporto sociale limitatamente a un socio.

2.1. I diritti patrimoniali del socio.

Com’è noto, l’art. 2262 c.c. (applicabile a tutte le tipologie di società di persone, in virtù del rinvio di cui agli artt. 2293 e 2315 c.c.) prevede che, salvo patto contrario, ciascun socio ha diritto di percepire la sua parte di utili dopo l’approvazione del rendiconto.

Mentre nelle società di capitali l’assemblea che approva il bilancio delibera anche sulla distribuzione degli utili, nelle società di persone il socio gode di un vero e proprio diritto alla immediata percezione degli stessi, ove siano esistenti all’esito dell’approvazione del rendiconto (Sez. 1, n. 4454/1995, Rovelli, Rv. 491935-01).

Ovviamente gli utili devono essere realmente conseguiti, sicché in presenza di perdite pregresse, relative ai rendiconti precedenti, l’utile deve essere destinato a coprire il passivo che si è determinato e solamente in caso di eccedenza può essere distribuito ai soci, posto che, opinando in senso contrario, si darebbe luogo ad un’inammissibile depauperamento del patrimonio della società, operando in sostanza un rimborso mascherato dei conferimenti.

Assume pertanto fondamentale rilievo il rendiconto, in relazione al quale la Corte di cassazione ha di recente ribadito che esso è costituito da una situazione contabile, equivalente, quanto ai criteri di valutazione, a quella di un bilancio e che non è surrogabile dalle dichiarazioni fiscali della società (Sez. 1, n. 17489/2018, Iofrida, Rv. 649518-01; conf. Sez. 1, n. 28806/2013, Bisogni, Rv. 629467-01).

Una particolare rilevanza, nei rapporti esterni alla società, è stata attribuita al diritto agli utili del socio da Sez. 3, n. 29829/2018, Travaglino, Rv. 651843-01, ove la S.C., collocando la fattispecie esaminata nella figura generale della lesione del credito da fatto illecito altrui, ha affermato che, in caso di illecito commesso da un terzo nei confronti di una società in accomandita semplice, che abbia determinato l’impossibilità per quest’ultima di proseguire nell’attività sociale, è possibile ravvisare un pregiudizio al diritto del socio di percepire utili futuri (distinto dal diritto di conseguire gli utili già prodotti), configurabile come perdita di chance, non consistente nella perdita di un vantaggio economico ma nella perdita della concreta possibilità di conseguirlo, da provare anche in via presuntiva in termini di “possibilità perduta”.

Si consideri inoltre che, tra i diritti a contenuto patrimoniale del socio di società di persone (o dei suoi eredi, in caso di morte), è senza dubbio compreso il diritto alla liquidazione della quota di partecipazione, in conseguenza dello scioglimento del rapporto sociale nei suoi confronti, che, ai sensi dell’art. 2289, comma 2, c.c., deve essere effettuata in base alla situazione patrimoniale della società al momento in cui si verifica lo scioglimento.

La giurisprudenza di legittimità ha più volte evidenziato che, in questo caso non può tenersi conto, come avviene in caso di recesso da una società per azioni, dell’ultimo bilancio o, comunque, dei criteri di redazione del bilancio annuale di esercizio, dovendo invece essere considerata l’effettiva consistenza della società al momento della uscita del socio, comprendente anche l’avviamento, quale elemento del patrimonio sociale che si proietta nel futuro, traducendosi nella probabilità, pur fondata su elementi presenti e passati, di maggiori profitti per i soci superstiti, tant’è che devono essere considerati non solo i risultati economici della gestione passata ma anche le prudenti previsioni della futura redditività aziendale (così Sez. 1, n. 3671/2001, Criscuolo A., Rv. 544737-01, Sez. 1, n. 8470/1995, Delli Priscoli M., Rv. 493534-01 e Sez. 1, n. 5448/2015, Didone, Rv. 634708-01).

La S.C. è di recente pervenuta ad analoghe conclusioni (Sez. 1, n. 24769/2018, Dolmetta, Rv. 650912-01), evidenziando che, nel valutare la quota sociale, occorre tener conto anche del valore dell’avviamento e, secondo una stima di ragionevole prudenza, della futura redditività dell’azienda, considerato che la norma, facendo riferimento allo scioglimento del rapporto nei confronti di un solo socio, presuppone la continuazione dell’attività sociale che non può riferirsi solo ad un compendio statico e disaggregato di beni, ma deve essere valutata anche avuto riguardo alla sua fisiologica e naturale propensione verso il futuro.

D’altronde, il principio stabilito al comma 2 dell’art. 2289 c.c. deve essere coordinato con la precisazione contenuta nel successivo comma 3 dello stesso articolo, ove si chiarisce che, se vi sono operazioni in corso, il socio o i suoi eredi partecipano agli utili e alle perdite inerenti alle operazioni medesime, dovendo quindi darsi rilievo alle sopravvenienze (attive e passive), che trovino la loro fonte in situazioni già esistenti alla data dello scioglimento del rapporto sociale (cfr. da ultimo Sez. 6-1, n. 8233/2016, Genovese, Rv. 639465-01).

2.2. La responsabilità del socio per i debiti della società.

Com’è noto, i soci delle società di persone sono tutti solidalmente e illimitatamente responsabili dei debiti sociali (artt. 2267, 2291 e 2313, comma 1, prima parte, c.c.), ad eccezione dei soci accomandanti delle società in accomandita semplice, che rispondono nei limiti della quota conferita (2313, comma 1, seconda parte, c.c.).

Sul punto, una recente giurisprudenza di legittimità ha più volte affermato che i debiti assunti dalle società di persone non possono essere considerati debiti personali dei loro soci illimitatamente responsabili, perché si tratta di debiti propri della società, nei confronti dei quali i soci illimitatamente responsabili assumono piuttosto la posizione, e il trattamento, di garanti ex lege.

Nel sostenere tale opinione, Sez. 1, n. 06650/2018, Dolmetta, Rv. 647761-01, ha precisato che la menzionata soluzione è supportata dalla pacifica possibilità per il socio illimitatamente responsabile di prestare fideiussione a vantaggio della società a cui partecipa, circostanza, questa, all’evidenza predicabile solo nel dichiarato presupposto dell’“altruità” del debito garantito rispetto al socio stesso (conf., da ultimo, Sez. 1, n. 4528/2014, Didone, Rv. 629644-01 e Sez. 3, n. 8944/2016, Pellecchia, Rv. 639909-01).

In tale pronuncia, la S.C. ha anche aggiunto, in motivazione, un ulteriore argomento a sostegno della tesi sostenuta, richiamando il disposto dell’art. 2266 c.c., ove è precisato che la società assume obbligazioni a mezzo dei soci, così distinguendo le obbligazioni della società da quelle dei soci.

Anche Sez. 1, n. 07139/2018, Dolmetta, Rv. 648112-01, nel ribadire che il socio di una società di persone, ancorché illimitatamente responsabile, può validamente prestare fideiussione in favore della società, ha ritenuto che quest’ultima, pur se sprovvista di personalità giuridica, costituisce un distinto centro di interessi e d’imputazione di situazioni sostanziali e processuali, dotato di una propria autonomia e capacità rispetto ai soci stessi, specificando che la predetta garanzia rientra tra quelle prestate per le obbligazioni altrui secondo l’art. 1936 c.c. e che non si sovrappone alla garanzia fissata ex lege dalle disposizioni sulla responsabilità illimitata e solidale dei soci.

La Corte ha in particolare rilevato che possono sussistere particolari ragioni che giustificano l’ottenimento di una fideiussione del socio in capo al creditore sociale, quali, ad esempio, l’interesse a che il socio resti obbligato anche dopo la sua uscita dalla società, o quello di potersi avvalere di uno strumento di garanzia autonomo, svincolato dal limite, sia pure destinato ad operare solo in fase di esecuzione, del beneficium excussionis di cui all’art. 2304 c.c., aggiungendo inoltre che, a differenza di quanto avviene nel caso in cui il socio abbia adempiuto i debiti sociali in quanto socio, il medesimo che sia stato escusso quale fideiussore e, in tale qualità, abbia provveduto al pagamento del debito sociale, è legittimato all’esercizio dell’azione di regresso ex art. 1950 c.c. contro la società.

L’orientamento non è però consolidato. Si consideri che Sez. U, n. 3022/2015, Ragonesi, Rv. 634104-01, ha invece affermato che la responsabilità illimitata del socio di una società di persone per le obbligazioni sociali trae origine dalla sua qualità di socio e si configura come personale e diretta, anche se con carattere di sussidiarietà in relazione al preventivo obbligo di escussione del patrimonio sociale, con la conseguenza che l’atto con cui il socio illimitatamente responsabile di una società in nome collettivo rilascia garanzia ipotecaria per un debito della società non può considerarsi costitutivo di garanzia per un’obbligazione altrui ma per un’obbligazione propria.

Nella stessa linea si pone da ultimo Sez. 1, n. 279/2017, Falabella, Rv. 643246-02, ove si è ribadito che la responsabilità del socio è personale e diretta, anche se con carattere di sussidiarietà in relazione al preventivo obbligo di escussione del patrimonio sociale, sicché egli non può essere considerato terzo rispetto all’obbligazione sociale, ma debitore al pari della società per il solo fatto di essere socio (nella medesima pronuncia è comunque affermato che, ove il socio illimitatamente responsabile sia convenuto in giudizio per il pagamento dei debiti della società non nella sua qualità, ma in proprio, egli è carente di legittimazione, perché, in base alla stessa prospettazione dell’attore, il debito non è suo, ma della società).

Si deve tenere presente che la responsabilità dei soci per le obbligazioni della società di persone non opera nello stesso modo per tutte le società.

In particolare, a differenza di quanto previsto per la società semplice, nelle società in nome collettivo e nelle società in accomandita semplice la previa escussione del patrimonio sociale da parte del creditore procedente non forma una eccezione del socio, che può invocare il beneficio indicando i beni sui quali il creditore può agevolmente soddisfarsi, ma rappresenta una vera condizione dell’azione promossa dal creditore, che non può pretendere il pagamento dal socio se non dopo l’escussione del patrimonio sociale (così Sez. L, n. 11921/1990, Paolucci, Rv. 470157- 01).

Sul punto Sez. 3, n. 25378/2018, Ambrosi, Rv. 651164-01, ha di recente confermato un orientamento oramai consolidato, secondo il quale il beneficio d’escussione previsto dall’art. 2304 c.c. ha efficacia limitata alla fase esecutiva, nel senso che il creditore sociale non può procedere coattivamente a carico del socio se non dopo avere agito infruttuosamente sui beni della società, e pertanto non impedisce allo stesso creditore di agire in sede di cognizione, per munirsi di uno specifico titolo esecutivo nei confronti del socio, sia per poter iscrivere ipoteca giudiziale sugli immobili di quest’ultimo, sia per poter agire in via esecutiva contro il medesimo, senza ulteriori indugi, una volta che il patrimonio sociale risulti incapiente o insufficiente al soddisfacimento del suo credito (v. già Sez. 1, n. 1040/2009, Rordorf, Rv. 606371-01 e Sez. 2, n. 28146/2013, Matera, Rv. 629195-01).

2.3. Il socio accomandante nella società in accomandita semplice.

Come sopra evidenziato, il socio accomandante – a differenza del socio accomandatario – risponde dei debiti della società nei limiti della quota conferita (art. 2313, comma 1, c.c.). Tuttavia vi sono alcune eccezioni a tale regola.

In particolare, ai sensi dell’art. 2314, comma 2, c.c., l’accomandante, che consente che il suo nome sia compreso nella ragione sociale, risponde illimitatamente e solidalmente con i soci accomandatari per le obbligazioni sociali.

Inoltre, in applicazione dell’art. 2320, comma 1, c.c., l’accomandante che contravvenga al divieto di ingerirsi nell’amministrazione della società assume responsabilità illimitata e solidale verso i terzi, alla stregua dei soci accomandatari, per tutte le obbligazioni sociali e la sua condotta può essere una giusta causa di esclusione dalla società.

È evidente che entrambe le norme sono ispirate alla stessa ratio legis, riconducibile alla esigenza di tutela dei terzi che entrano in contatto con la società.

In proposito, con riferimento al disposto dell’art. 2314, comma 2, c.c., assume rilievo Sez. 1, n. 30882/2018, Pazzi, Rv. 651887-01, ove la S.C. ha evidenziato che la norma mira a tutelare i terzi creditori che fanno affidamento sulla responsabilità illimitata del socio, il quale, pur non essendolo, si è presentato (o ha consentito che venisse presentato) alla stessa stregua di un socio illimitatamente responsabile e cioè di un socio accomandatario.

La S.C. ha così evidenziato che intanto ci può essere confusione – e conseguente affidamento – in quanto l’indicazione dell’accomandante sia posta sullo stesso piano di quella dell’accomandatario. In altri termini, la confusione si verifica se l’accomandante viene indicato come se fosse un accomandatario. Da ciò deriva che, posto che la norma intende disciplinare una forma di esteriorizzazione della designazione della compagine sociale potenzialmente ingannevole, è evidente che ai fini della sua applicazione è necessario avere riguardo al solo dato formale costituito dal contenuto della ragione sociale, dovendo essere esclusa da tale valutazione ogni considerazione relativa ad elementi estrinseci rispetto all’aspetto formale della ragione sociale come, ad esempio, il comportamento tenuto dall’accomandante.

Con riferimento invece al disposto dell’art. 2320, comma 1, c.c., si deve menzionare Sez. 6-1, n. 04498/2018, Terrusi, Rv. 647888-01, ove si precisa che, per aversi ingerenza dell’accomandante nell’amministrazione della società in accomandita semplice – vietata dall’art. 2320 c.c. e idonea a giustificare l’esclusione del socio ex art. 2286 c.c. – è necessario che l’accomandante contravvenga al divieto di trattare o concludere affari in nome della società o di compiere atti di gestione che abbiano tuttavia influenza rilevante sull’amministrazione della stessa (nella specie, la S.C. ha escluso che la mera “presa di contatto” del socio con un’altra società, tesa a sondarne le intenzioni transattive, comportasse violazione del divieto di ingerenza).

2.4. Lo scioglimento del rapporto sociale limitatamente a un socio.

Il codice civile disciplina espressamente l’esclusione, quale causa di scioglimento del rapporto sociale limitatamente a un socio, prevedendo all’art. 2287, comma 1, c.c. che essa sia deliberata dalla maggioranza dei soci.

È assolutamente prevalente l’orientamento della giurisprudenza che ritiene che l’esclusione possa essere deliberata senza la preventiva convocazione dei soci, non essendo necessario che tutti debbano essere consultati, in quanto nella disciplina delle società di persone non è previsto il metodo assembleare, mancando, anzi, proprio la previsione dell’assemblea come organo sociale (così, tra le altre, Sez. 1, n. 153/1998, Rovelli, Rv. 511421-01).

Tale orientamento è stato confermato da Sez. 1, n. 17490/2018, Iofrida, Rv. 649900-01, ove la S.C. ha ribadito che delibera di esclusione, per la cui validità è richiesta la maggioranza dei soci, non deve necessariamente esprimersi attraverso una delibera unitaria, né è necessario che siano consultati tutti i soci, essendo sufficiente che siano raccolte le singole volontà idonee a formare la richiesta maggioranza e che tale delibera sia comunicata al socio escluso, in modo tale che egli possa esercitare la facoltà di proporre opposizione davanti al tribunale.

Con riferimento invece alla morte del socio, anch’essa causa di scioglimento del rapporto sociale ai sensi dell’art. 2284 c.c., la Corte ha precisato che, ove la società sia composta da due soli soci, per effetto del coordinamento tra l’art. 2284 c.c. e l’art. 2272 n. 4 c.c., la mancata ricostituzione della pluralità dei soci nel termine di sei mesi va considerata come condicio iuris, priva di efficacia retroattiva, sicché in difetto di tale ricostituzione, lo scioglimento della società si verifica alla scadenza del semestre, in pendenza del quale il socio superstite può decidere se ricostituire la pluralità dei soci oppure sciogliere la società o continuarla con gli eredi che a ciò acconsentano (Sez. 6-1, n. 09346/2018, Di Marzio M., Rv. 648576-01).

3. Le società di capitali.

Le pronunce di seguito riportate sono state adottate nel corso dell’anno 2018 con specifico riferimento alle società di capitali. Trattano in particolare l’acquisto e il trasferimento delle partecipazioni societarie, il recesso del socio, i finanziamenti e i conferimenti a vario titolo di quest’ultimo, l’amministrazione e le azioni di responsabilità. In alcuni casi, la Corte di cassazione ha affrontato le singole questioni, riferendosi in generale alle società di capitali, mentre, in altri casi, come di volta in volta precisato, ha esaminato in particolare la disciplina propria della società per azioni o delle società a responsabilità limitata.

3.1. L’acquisto e il trasferimento delle partecipazioni societarie.

Si deve in primo luogo richiamare Sez. 1, n. 17498/2018, Nazzicone, Rv. 649519-01, che ha valutato la liceità e la meritevolezza di un accordo intercorso tra soci di una s.p.a., con il quale, in occasione dell’acquisto di azioni da parte di uno di essi, gli altri si sono obbligati a manlevare il primo dalle eventuali conseguenze negative del conferimento, mediante attribuzione a quest’ultimo del diritto di vendere (c.d. put), entro un determinato termine, e assunzione da parte degli altri dell’obbligo di acquistare, entro lo stesso termine, le azioni acquistate a un prezzo prefissato, pari a quello iniziale, con l’aggiunta di interessi sull’importo dovuto e del rimborso dei versamenti operati nelle more in favore della società.

La Corte ha escluso la nullità di tale accordo per violazione del divieto del patto leonino di cui all’art. 2265 c.c. (pacificamente operante anche nelle società di capitali), perché la ratio del divieto consiste nella necessità della suddivisione tra soci dei risultati positivi o negativi dell’impresa economica, quale espressione tipica della scelta di svolgere insieme l’attività imprenditoriale, mentre un accordo come quello in esame ha solo l’effetto di trasferire il rischio interno fra un socio e un altro socio (ma potrebbe trattarsi di un terzo), senza alterare la struttura e la funzione del contratto sociale, né modificare la posizione del socio in seno alla società, e dunque senza avere alcun effetto sulla società stessa, che continua ad imputare perdite ed utili alle proprie partecipazioni.

La Corte ha così evidenziato che la ragion pratica dell’acquisto delle azioni con opzione put, oramai frequente nel mondo degli affari, è quella di finanziamento dell’impresa, realizzata indirettamente per il tramite di operazioni di alleanza strategica tra vecchi e nuovi soci. Accanto alle molteplici forme di finanziamento, che il legislatore e la pratica prospettano, vengono così delineati accordi atipici, in cui la causa concreta è mista, associativa e di finanziamento, con la connessa funzione di garanzia, assolta dalla titolarità azionaria e dalla facoltà di uscita dalla società, senza necessità di pervenire, a tal fine, alla liquidazione della quota.

Secondo la medesima Corte, tali accordi non solo non sono vietati, ma rispondono anche a un interesse meritevole di tutela, volto al finanziamento dell’intrapresa societaria, ove la meritevolezza è dimostrata dall’essere il finanziamento partecipativo correlato a un’operazione strategica di potenziamento ed incremento del valore societario. Interesse che, si noti, potrebbe addirittura reputarsi latamente generale, in quanto coerente con i fini d’incentivazione economica perseguiti dal legislatore, quale strumento efficiente della finanza d’impresa.

La stessa Corte ha peraltro evidenziato che l’atipicità non attiene alla causa del contratto di società, che resta intatta, ma al finanziamento, operato in forma partecipativa, il quale si pone a rafforzare l’impresa societaria con modalità atipiche, escogitate dalla pratica degli affari e sovente perorate proprio dal soggetto finanziato.

Del tutto diversa dalla fattispecie appena descritta, che, come rilevato, riguarda accordi intercorsi tra soci di una società di capitali, è quella esaminata da Sez. 3, n. 10583/2018, Fiecconi, Rv. 648597-01, che attiene all’attribuzione convenzionale di diritti e poteri a un socio da parte della stessa società.

La pronuncia riguarda una ricognizione di debito, effettuata da una società a responsabilità limitata a favore di un socio, con la quale la prima ha attribuito al secondo il diritto di recedere e di ottenere la restituzione del conferimento in conto capitale, nonché del sovrapprezzo, versati al tempo della sottoscrizione della partecipazione sociale.

In questo caso, la Corte ha inevitabilmente affermato la nullità della ricognizione di debito, per contrarietà alle norme imperative che regolano il contratto sociale, perché, in assenza di poste debitorie corrispondenti a crediti del socio verso la società, tale atto mira a neutralizzare il rischio imprenditoriale, a cui il socio si sottopone incondizionatamente con la sottoscrizione del capitale sociale.

In motivazione, la stessa Corte ha affermato che il socio non può vantare nei confronti della società il diritto di restituzione del conferimento in conto capitale versato al tempo della sottoscrizione della partecipazione sociale, perché il conferimento fa parte del capitale di rischio della società e non costituisce un finanziamento su cui il socio può vantare un diritto di restituzione, evidenziando che tale diritto non emerge neanche nel caso di recesso (nelle ipotesi, diverse da quella in esame, consentite per legge o statuto), perché il socio che si avvale di tale diritto può ottenere solo la liquidazione della propria quota.

La medesima Corte ha evidenziato che, nella specie, la ricognizione di debito ha, nei fatti, consentito al socio di uscire dalla compagine sociale e di liberarsi del rischio d’impresa, assunto con la sottoscrizione del capitale sociale, in ciò intaccando la stessa ragion d’essere del contratto di società. Ha così richiamato la previsione di nullità del patto con il quale uno o più soci sono esclusi da ogni partecipazione agli utili o alle perdite (art. 2265 c.c.), applicabile ad ogni tipo di società e posta a tutela della natura dell’attività economica svolta dall’ente e dello scopo comune perseguito dai soci, aggiungendo che un patto che consenta al socio di recedere dalla società, ottenendo in restituzione il conferimento in conto capitale versato, allo stesso modo del menzionato patto leonino, tradisce la stessa ragion d’essere del contratto di società.

Come già evidenziato, a differenza dalla fattispecie per prima esaminata, nell’ipotesi appena descritta si tratta di attribuzione di diritti e poteri, effettuata dalla società in favore del socio, e non di attribuzione di diritti e di poteri derivanti da patti parasociali.

Ancora diversa è la fattispecie esaminata Sez. 3, n. 27444/2018, Scarano, Rv. 651334-01, ove la S.C. si è occupata della qualificazione di un contratto con il quale il socio ha ceduto la propria partecipazione sociale, pattuendo un’opzione di riacquisto, da esercitarsi entro un termine prefissato e mediante il pagamento di un prezzo da determinarsi (entro un limite minimo e massimo) in base all’andamento della società al momento dell’adesione all’opzione.

In questo caso infatti, non vengono in rilievo accordi tra soci, né obblighi assunti dalla società nei confronti del socio, ma patti tra il venditore e l’acquirente di partecipazioni sociali.

La Corte ha ritenuto corretto l’uso dei criteri ermeneutici effettuati dal giudice di merito, che non ha qualificato il menzionato contratto come una compravendita con patto di riscatto (il cui patto di restituzione del prezzo avrebbe dovuto essere dichiarato nullo per violazione dell’art. 1500, comma 2, c.c.), affermando che si è trattato piuttosto di un contratto aleatorio, in cui l’alea, che ha interessato entrambe le parti, era insita nella variazione di valore che la partecipazione poteva subire entro il termine pattuito per l’esercizio del diritto di opzione.

3.2. Il recesso del socio di società a responsabilità limitata.

Si deve tenere presente che il novellato art. 2473 c.c. prevede la possibilità di individuare nell’atto costitutivo i casi di recesso del socio e le modalità di esercizio dello stesso, contemplando, al verificarsi di determinate circostanze, ipotesi legali di recesso, compresa quella del cambiamento del tipo di società, a cui il socio non abbia prestato il consenso.

Proprio con riferimento a quest’ultima ipotesi, Sez. 1, n. 28987/2018, Acierno, Rv. 651801-01, nel dare rilievo al rafforzamento della tutela del diritto al disinvestimento del socio di minoranza, in conseguenza della connotazione personalistica assunta dalla s.r.l. a seguito della riforma del 2003, ha affermato che al recesso del socio di s.r.l., esercitato dopo la trasformazione della società in s.p.a., è applicabile la sola disciplina prevista dal comma 2 dell’art. 2473 c.c., che non prevede termini di decadenza, ritenendo contrario alla lettera del comma 1 del medesimo articolo, nonché alla ratio legis e alla buona fede, assoggettare il socio dissenziente ai ridotti termini di esercizio del recesso fissati per le s.p.a. dall’art. 2437-bis c.c., che infatti non è ritenuto applicabile analogicamente.

La Corte di cassazione ha precisato che, in questi casi, il diritto di recesso del socio deve essere esercitato nel termine previsto nello statuto della s.r.l. al tempo della trasformazione (art. 2373, comma 1, c.c.) e, in assenza di tale previsione, secondo buona fede e correttezza, quali fonti di integrazione della regolamentazione contrattuale, dovendo il giudice del merito valutare di volta in volta le modalità concrete di esercizio del diritto di recesso e, in particolare, la congruità del termine entro il quale il recesso può essere esercitato, tenuto conto della pluralità degli interessi coinvolti (nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto legittimo il recesso dei soci della s.r.l., trasformata in s.p.a., il cui statuto sociale era stato approvato nel 1987, senza previsione delle modalità di recesso, anche se era stato comunicato oltre il termine di 15 giorni, previsto per le s.p.a. dall’art. 2437-bis c.c.).

In motivazione, la Corte ha esaltato la natura della s.r.l. post riforma, svincolata dal ruolo ancillare, che aveva avuto in passato rispetto alla s.p.a., e strutturata in modo molto simile ad una società di persone che, pur godendo del beneficio della responsabilità limitata, è sottratta alla rigida disciplina richiesta per le s.p.a., stante il riconoscimento di una vasta autonomia statutaria e l’introduzione di un’apposita disciplina, diversa e autonoma da quella delle s.p.a., che oramai rende difficile il ricorso all’applicazione analogia di quest’ultima.

Con particolare riferimento al diritto di recesso, la stessa Corte ha rilevato che la riforma ha potenziato tale diritto, quale contropartita per i soci di minoranza alle ampie facoltà attribuite alla maggioranza (che esercita il controllo sulla società), prevedendo un incremento delle cause di recesso previste ex lege, ma soprattutto attribuendo, anche in questo caso, un ruolo centrale all’autonomia statutaria. Ha quindi evidenziato che l’istituto del recesso nelle s.r.l. si atteggia in modo del tutto diverso da quello previsto per le s.p.a., perché mira a tutelare il diritto del singolo partecipante al disinvestimento, nei casi in cui i soci di maggioranza compiano scelte a lui pregiudizievoli, e non ad assicurare alla maggioranza dei soci la stabilità del vincolo associativo e la libertà di riorganizzazione dell’assetto societario.

In questo quadro, la medesima Corte ha concluso ritenendo che la disciplina da applicare al recesso del socio di s.r.l., dissenziente rispetto alla decisione di trasformazioni in un altro tipo di società, non può che essere quella prevista dalla società prima della trasformazione (e dunque, nella specie, quella delle s.r.l.) e, nel caso in cui l’atto costitutivo taccia sulle modalità e sui tempi di esercizio, non potendo richiamarsi analogicamente la disciplina dettata per le s.p.a., che oramai non risponde più alla medesima ratio, deve farsi ricorso ai principi propri del diritto comune, riguardanti l’interpretazione e l’esecuzione dei contratti secondo buona fede ex artt. 1366 e 1375 c.c..

3.3. Finanziamenti e conferimenti a vario titolo dei soci.

Oramai da anni è invalsa la prassi del versamento da parte dei soci di somme alla società senza obbligo di restituzione, al fine di munire la società di fondi propri, che dal punto di vista giuridico non costituiscono né finanziamenti, né conferimenti, né atti di liberalità.

Si tratta in sostanza di un tertium genus di apporti dei soci, in posizione intermedia tra i finanziamenti e i conferimenti in capitale, attuati mediante forme negoziali atipiche, variamente qualificate in sede di bilancio, che si caratterizzano per l’effetto di rendere disponibili alla società in modo duraturo le somme di denaro, pur senza l’osservanza delle formalità richieste per l’aumento del capitale sociale.

Come evidenziato da attenta giurisprudenza di legittimità, tali apporti hanno in comune la “formazione del patrimonio fuori del capitale”, dal momento che accrescono direttamente il patrimonio della società senza aumentarne il capitale (così Sez. 1, n. 12539/1998, Di Amato, Rv. 521614-01 e Sez. 1, n. 8587/1995, Bibolini, Rv. 493575-01).

In particolare, i versamenti “in conto capitale” (o versamenti a fondo perduto) hanno ad oggetto somme erogate dai soci, per le quali non sussiste alcun obbligo di rimborso, rappresentano invece versamenti a fondo perduto e confluiscono nel patrimonio aziendale come riserve di capitale. Come rilevato da attenta giurisprudenza, in questo caso le dazioni di denaro hanno una causa diversa da quella propria del contratto di mutuo, assimilabile a quella del conferimento capitale di rischio, non danno luogo a crediti esigibili nel corso della vita della società, ma possono essere chiesti in restituzione soltanto per effetto dello scioglimento della medesima società, nei limiti dell’eventuale attivo del bilancio di liquidazione (cfr. Sez. 1, n. 2758/2012, Rordorf, Rv. 621560-01 e Sez. 1, n. 24861/2015, Didone, Rv. 637899-01). Ovviamente, l’eventuale credito alla restituzione segue la sorte della partecipazione sociale, con la conseguenza che tale credito può essere vantato solo da colui che è socio al momento dello scioglimento della società.

I versamenti “in conto aumento di capitale” e “in conto di futuro aumento di capitale” sono invece operati in previsione di aumenti di capitale sociale a pagamento. Quando si è in presenza di una delibera assembleare per aumento di capitale già approvata, ma non ancora presentata al registro delle imprese, si parla di versamenti in conto aumento di capitale, mentre nel caso in cui sia assente l’approvazione dell’assemblea straordinaria, sebbene ormai prossima, si hanno versamenti in conto futuri aumenti di capitale. Questi ultimi hanno lo scopo di vincolare dei fondi destinati a uno specifico progetto, l’aumento di capitale, che si realizzerà nel futuro. Qualora la procedura di aumento non giunga a perfezionamento, i soci hanno diritto alla loro restituzione. I versamenti in conto aumenti di capitale sono dei fondi patrimoniali indisponibili, in attesa di “conversione” in capitale sociale.

Com’è noto, è questione di interpretazione della volontà delle parti stabilire a quale titolo e con quali condizioni un trasferimento o un versamento sia stato effettuato, se cioè, o meno, a titolo di definitivo apporto del socio al patrimonio di rischio dell’impresa collettiva, ed egualmente è questione di interpretazione della volontà stabilire se il trasferimento (o anche in genere il versamento) sia stato in qualche modo condizionato a un evento futuro e incerto, come può essere quello della successiva deliberazione di aumento del capitale nominale della società entro un termine stabilito nella prospettata situazione di risanamento aziendale e della conservazione del patrimonio produttivo attraverso la prosecuzione, riattivazione o riconversione dell’attività imprenditoriale (tra le ultime, v. Sez. 1, n. 7471/2017, Falabella, Rv. 644825-02).

In tema di “versamenti in conto capitale”, Sez. 1, n. 15035/2018, Mercolino, Rv. 649557-01, ha ribadito che essi palesano una natura che dipende dalla ricostruzione della comune intenzione delle parti, la cui prova va desunta in via principale dal modo in cui il rapporto ha trovato concreta attuazione, dalle finalità pratiche cui si mostra diretto e dagli interessi ad esso sottesi, chiarendo che solo in subordine si può considerare la qualificazione che i versamenti hanno ricevuto in bilancio, senza che assuma rilevanza alcuna la circostanza che non abbiano dato luogo a pretese restitutorie da parte dei soci, neppure in sede concorsuale, trattandosi di una scelta che, in quanto successiva all’effettuazione delle predette operazioni, e comunque revocabile in qualsiasi momento, non appare di per sé sintomatica dell’intento di rinunciare definitivamente al rimborso delle erogazioni compiute.

Con riguardo invece ai versamenti “in conto di futuro aumento di capitale”, condizionati all’adozione della relativa delibera di aumento del capitale entro un determinato termine, Sez. 1, n. 31186/2018, Terrusi, Rv. 652065-01, ha evidenziato che, nel caso di mancata adozione della delibera di aumento del capitale (nella specie, per l’intervenuto fallimento della società sottoposta ad amministrazione straordinaria), sorge a carico della società l’obbligo di restituzione di quanto erogato dal socio a tale titolo, poiché in tal caso l’erogazione determina un aumento di capitale solo potenziale, destinato a divenire effettivo a seguito della delibera di aumento.

La S.C. ha precisato che a questa fattispecie non è applicabile l’art. 2467 c.c., anche se si tratta di s.r.l., poiché tale disciplina riguarda solo i versamenti effettuati a titolo di finanziamento o di mutuo, ai quali è possibile associare un obbligo di rimborso, in considerazione della diversità della causa che contraddistingue i versamenti “in conto di futuro aumento del capitale”, assimilabile a quella di capitale di rischio piuttosto che a quella delle obbligazioni creditorie.

In motivazione, la Corte ha precisato che la disciplina dell’art. 2467 c.c. richiede pur sempre che si sia dinanzi a una dazione a titolo di credito, alla quale associare l’obbligo di rimborso, per quanto effettuata “in qualsiasi forma”, posto che quest’ultima espressione, che compare nell’articolo menzionato, non esclude che si debba essere al cospetto di un finanziamento, seppure anomalo (perché effettuato dal socio in situazione tale da imporre, invece, un conferimento), tenuto conto che la ratio della norma pacificamente consiste nel contrastare, giustappunto, i fenomeni di sottocapitalizzazione nominale delle società “chiuse”.

La medesima Corte ha così desunto che i versamenti o i trasferimenti eseguiti “in conto di un futuro aumento di capitale” non possono rimanere attratti dal principio di cui all’art. 2467 c.c., in considerazione della mera circostanza della provvisorietà dell’apporto, che consegue al mancato perfezionamento della fattispecie in funzione della quale l’erogazione è fatta.

La stessa Corte ha rilevato che, nella pratica, possono verificarsi commistioni tra le fattispecie, e in queste eventualità certamente la provvisorietà della dazione potrebbe rilevare ai fini di cui all’art. 2467 c.c., ove emerga che la dissimulata ragion pratica della dazione sia stata in effetti quella del finanziamento (ad esempio, per evidenze probatorie attestanti l’implausibilità originaria dell’ipotesi di prospettato aumento di capitale). Salvo ciò, una funzione oggettiva di credito è da escludere dinanzi a versamenti (o a trasferimenti) “in conto di un futuro aumento di capitale”, visto che essi, ove l’aumento intervenga, vanno a confluire automaticamente in esso, mentre, ove non intervenga, vanno sì restituiti, ma non perché eseguiti a titolo di finanziamento, ma semplicemente perché la fattispecie in effetti programmata – l’aumento di capitale – non si è perfezionata.

Proprio con riferimento alla disciplina dei finanziamenti dei soci, si deve richiamare, Sez. 1, n. 16291/2018, Terrusi, Rv. 649534-01, che, confermando un orientamento già espresso (Sez. 1, n. 14056/2015, Nappi, Rv. 635830-01) ha ritenuto estensibile ad altri tipi di società di capitali il disposto di cui all’art. 2467 c.c. che, nelle s.r.l., prevede la postergazione del rimborso del finanziamento del socio concesso in situazioni che renderebbero necessario un conferimento, perché la ratio della norma consiste nel contrastare i fenomeni di sottocapitalizzazione nominale delle società “chiuse”, specificando che tale disciplina trova in particolare applicazione anche al finanziamento del socio di una s.p.a., qualora le condizioni della società siano a quest’ultimo note, per lo specifico assetto dell’ente o per la posizione da lui concretamente rivestita, in modo tale da far ritenere che le sue condizioni siano equivalenti a quelle del socio di una s.r.l. (nella specie, la S.C. ha ritenuto applicabile la previsione di cui all’art. 2467 c.c. nel caso in cui il socio, azionista di maggioranza di una s.p.a. ed anche presidente del consiglio d’amministrazione, aveva sottoscritto un prestito obbligazionario non convertibile e garantito da ipoteca).

La disciplina dell’art. 2467 c.c. è stata esaminata anche con riferimento ai risvolti applicativi nell’ambito delle procedure concorsuali.

In particolare, Sez. 1, n. 18489/2018, Fichera, Rv. 649678-01, ha affermato che, in tema di prededuzione in sede fallimentare, il credito derivante dal finanziamento del socio in funzione della presentazione della domanda di concordato (cd. “finanziamento-ponte”), erogato in favore di una s.r.l. ammessa al concordato preventivo e poi fallita, concesso prima dell’entrata in vigore della novella all’art. 182 quater l. fall. (introdotta con il d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., in l. n. 134 del 2012), non può essere ammesso al passivo in prededuzione, in mancanza di una norma espressa, che consenta l’estensione ai crediti dei soci la prededucibilità, come quella successivamente introdotta dalla novella sopra menzionata, non potendo operare per tali finanziamenti il disposto dell’art. 111, comma 2, l. fall., in quanto, in assenza di una deroga espressa, deve trovare comunque applicazione la disciplina dell’art. 2467 c.c., in base alla quale il rimborso dei finanziamenti dei soci a favore della società è postergato rispetto alla soddisfazione degli altri crediti.

Allo stesso modo, Sez. 1, n. 16348/2018, Fichera, Rv. 649566-01, ha precisato che, nel concordato preventivo, la proposta del debitore di suddivisione dei creditori in classi, può prevedere il riconoscimento del diritto di voto a quei creditori che siano stati inseriti in apposita classe e postergati, perché titolari di crediti inerenti il rimborso ai soci di finanziamenti a favore della società nelle ipotesi previste dall’art. 2467 c.c., purché il trattamento previsto per detti creditori sia tale da non derogare alla regola del loro soddisfacimento sempre posposto rispetto a quello, integrale, degli altri chirografari.

3.4. L’amministrazione delle società di capitali.

Si deve in primo luogo richiamare Sez. 1, n. 30542/2018, Dolmetta, Rv. 651881-01, che ha chiarito il momento a partire dal quale colui che è stato nominato amministratore può ritenersi in carica, precisando che, in caso di revoca dell’amministratore di una società a responsabilità limitata e contestuale nomina di un nuovo amministratore, la legittimazione a proporre istanza di fallimento in proprio ex art. 6 l. fall., spetta a quest’ultimo, e non al primo, a prescindere dall’iscrizione della nomina e della revoca nel registro delle imprese, che costituisce un adempimento di natura dichiarativa e non costitutiva.

In motivazione la S.C. ha prima di tutto rilevato che, trattandosi di fattispecie riguardante un caso di revoca (assembleare) dell’amministratore unico e contestuale nomina di un nuovo amministratore, con connessa cognizione della revoca da parte del vecchio amministratore (visto il carattere unilaterale di tale negozio) e accettazione della carica da parte del nuovo (posta qui la natura contrattuale dell’atto), deve escludersi la configurabilità di una eventuale prorogatio dell’amministratore revocato.

La medesima Corte ha quindi richiamato l’opinione consolidata, secondo la quale la norma dell’art. 2448 c.c. assegna all’iscrizione nel registro delle imprese una forza non già costitutiva (del significato giuridico del fatto di cui all’iscrizione), ma meramente dichiarativa, nel senso appunto che la positiva iscrizione di un fatto nel registro viene a rendere in ogni caso opponibile lo stesso anche nei confronti dei terzi (secondo quanto è proprio, del resto, della regola generale per la materia di cui al registro delle imprese, come stabilita dalla norma dell’art. 2193 c.c.).

Secondo la Corte, la rilevanza del fatto non iscritto (c.d. efficacia negativa della pubblicità del registro) non solo si limita unicamente a investire la posizione dei terzi, ma pure lo fa sempre a condizione che questi ultimi non possano essere considerati, nel concreto della situazione volta a volta esaminata, quali soggetti di buona fede (in modo non dissimile, quanto alla sostanza ultima, dalla disciplina dettata nella norma generale dell’art. 1396 c.c.). Da ciò deriva che l’area di efficacia della nomina e della revoca dell’amministratore dipendente dall’iscrizione nel registro delle imprese, si manifesta – oltre che intrinsecamente relativa (sia perché limitata al profilo dell’opponibilità nei confronti di terzi, sia, e più ancora, per la riconosciuta possibilità di provare l’effettiva conoscenza di questi terzi) – espressione di una regola circoscritta e non di carattere generale.

Con riguardo ai poteri degli amministratori di società per azioni, Sez. L, n. 08147/2018, Lorito, Rv. 648265-01, ha ribadito che l’inopponibilità ai terzi delle limitazioni al potere di rappresentanza di cui all’art. 2384, comma 2, c.c., riguarda unicamente il contenuto di tale potere, come avviene allorquando, ad esempio, nell’atto costitutivo sia previsto che i poteri degli amministratori siano limitati agli atti di ordinaria gestione, ovvero che gli atti comportanti disposizioni al di là di un determinato valore (o prezzo) o di un determinato tipo vengano preventivamente deliberati dall’assemblea dei soci, potendo invece la società opporre ai terzi il mancato rispetto della clausola statutaria, che prescrive la firma congiunta dei rappresentanti della società, sul presupposto che tale clausola riguarda l’esistenza stessa del potere di rappresentanza e non il suo contenuto.

La S.C. ha affermato che tale assunto rinviene fondamento nel combinato disposto di cui agli artt. 2383 e 2457-ter c.c. (articolo, quest’utimo, non riproposto nell’ambito della sostituzione completa del capo cui apparteneva, in virtù di quanto stabilito dall’art. 2 del d.lgs. n. 6 del 2003), atteso che, con tali disposizioni, il legislatore italiano ha mostrato di volersi avvalere della facoltà attribuitagli dall’art. 9 della direttiva 68/151/CEE, che consente agli Stati membri di rendere opponibili ai terzi la disposizione statutaria che attribuisce la rappresentanza congiuntamente a più persone, sempre che siano rispettati gli adempimenti di pubblicità previsti dall’art. 3 della stessa direttiva (così Sez. L, n. 16376/2004, Celentano, Rv. 576007-01).

In tema di diritti dei soci amministratori di società a responsabilità limitata, si deve menzionare Sez. 1, n. 02038/2018, Nazzicone, Rv. 647054-02, ove è precisato che compete anche al socio amministratore di s.r.l. il diritto, previsto dall’art. 2476, comma 2, c.c. di ricevere notizie sullo svolgimento degli affari sociali e di consultare i libri e i documenti relativi alla gestione societaria compiuta dagli altri amministratori, cui egli non abbia in tutto o in parte partecipato.

In motivazione, viene evidenziato che questo diritto, concesso al socio, dà per scontata l’appartenenza a chi amministra la società di simili ed ancor più intensi diritti, essendo l’amministratore diretto artefice di quegli affari, nonché redattore e custode di quei libri e documenti. Se dunque il legislatore ha sentito l’esigenza di attribuire espressamente al socio di s.r.l. (a differenza che a quello di s.p.a.) i diritti di ispezione e di informazione sulle vicende e sulla documentazione societaria, ciò lo ha fatto in vista della natura personalistica del tipo, nonché dell’automatica appartenenza di tali diritti ai soci che abbiano pure la gestione sociale. Ma ciò non esclude affatto, ed anzi conferma, che non potrà essere negato il diritto di ispezione e di informazione a questi ultimi, quale diritto-dovere costituente implicito portato delle prerogative della carica, con la conseguenza che, qualora l’esercizio di tale diritto-dovere sia precluso da altri, in ispecie coamministratori o componenti del consiglio di amministrazione, essi potranno agire a loro tutela, facendo valere anche l’impossibilità di diligente adempimento dell’incarico gestorio, ove lasciati all’oscuro delle vicende sociali e, dunque, per la stessa esigenza di adempiervi fedelmente e non incorrere in responsabilità.

D’altronde, come rilevato dalla stessa Corte di cassazione nella decisione appena illustrata, la trasparenza interna nelle società è di tale importanza, che il legislatore ha previsto il presidio della sanzione penale all’art. 2625 c.c. nei confronti degli amministratori che, occultando documenti o con altri idonei artifici, impediscano o comunque ostacolino lo svolgimento delle attività di controllo legalmente attribuite ai soci o ad altri organi sociali.

Con riferimento ai diritti patrimoniali degli amministratori di società di capitali, si deve richiamare Sez. 6-1, n. 24139/2018, Dolmetta, Rv. 650610-01, ove la S.C. ha affermato che l’amministratore di una società, con l’accettazione della carica, acquisisce il diritto ad essere compensato per l’attività svolta in esecuzione dell’incarico affidatogli, aggiungendo che tale diritto è disponibile e può anche essere oggetto di rinuncia, attraverso una remissione del debito anche tacita, la quale però può desumersi soltanto da un comportamento concludente del titolare, che riveli in modo univoco una sua volontà abdicativa, senza che abbia rilievo la mera inerzia o il silenzio (nella specie, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza della corte d’appello, la quale aveva ritenuto che l’amministratore avesse tacitamente rinunciato al suo compenso, soltanto perché durante tutta la durata dell’incarico e anche nell’anno successivo alla cessazione dalla carica non ne aveva mai richiesto il pagamento).

Sez. L, n. 28148/2018, Negri della Torre, Rv. 651686-01, ha inoltre precisato che l’amministratore di s.p.a., a cui sia demandato lo svolgimento di attività estranee al rapporto di amministrazione, ha, per queste, diritto (ai sensi dell’art. 2389 c.c.) ad una speciale remunerazione, sempre che tali prestazioni siano effettuate in ragione di particolari cariche che allo stesso siano state conferite e che esulino dal normale rapporto di amministrazione, ossia dal potere di gestione della società il cui limite deve individuarsi nell’oggetto sociale, talché rientrano tra le prestazioni tipiche dell’amministratore tutte quelle che siano inerenti all’esercizio dell’impresa, senza che rilevi (salvo che sia diversamente previsto dall’atto costitutivo o dallo statuto) la distinzione tra atti di amministrazione straordinaria ed ordinaria.

Particolare rilevanza, in tema di doveri degli amministratori di società per azioni, assume Sez. 2, n. 33047/2018, Oliva, Rv. 652048-01, ove viene affermato che la disposizione di cui al comma primo dell’art. 2391 c.c. pone a carico dell’amministratore in conflitto di interessi un obbligo generale e preventivo di esplicitare la sua condizione soggettiva, al duplice scopo di assicurare che essa sia nota a tutti gli altri componenti dell’organo di gestione e di controllo della società, e che non incida, neanche in via indiretta, sui processi valutativi e deliberativi interni all’organizzazione aziendale e segnatamente del consiglio di amministrazione o degli altri organismi e articolazioni cui è affidata in concreto la gestione della società.

La S.C. ha attribuito alla norma una portata applicativa generale, che prescinde dall’effettiva incidenza del conflitto di interessi sulle delibere in concreto assunte dal consiglio di amministrazione e impone sempre e comunque all’amministratore di dare notizia agli altri amministratori e al collegio sindacale di ogni interesse che, per conto proprio o di terzi, abbia in una determinata operazione della società.

In particolare, la Corte ha rilevato che l’influenza della situazione di conflitto sulle deliberazioni assunte dal consiglio di amministrazione non viene considerata nel comma primo dell’art. 2391 c.c., ma solo nei successivi commi secondo e terzo dell’art. 2391 c.c., nella parte in cui sono previsti, rispettivamente, l’obbligo di adeguata motivazione sulle ragioni e la convenienza dell’operazione, che la delibera del consiglio di amministrazione assunta in condizioni di conflitto di interesse deve presentare (secondo comma), e l’obbligo degli amministratori non in conflitto e dei sindaci di impugnare le delibere del consiglio di amministrazione eventualmente adottate in violazione del secondo comma (terzo comma). Ha poi aggiunto che anche i commi quarto e quinto dell’art. 2391 c.c. – che prevedono la responsabilità dell’amministratore per i danni derivati alla società dalla sua azione od omissione (quarto comma) e per i danni derivati alla società dalla utilizzazione a vantaggio proprio o di terzi di dati, notizie o opportunità di affari appresi nell’esercizio del suo incarico (quinto comma) – prescindono, come già il comma primo, dalla vicenda deliberativa e individuano l’area del pregiudizio risarcibile connesso alla mera condotta illecita dell’amministratore.

Sulla scorta di tali osservazioni, la Corte ha pertanto ritenuto che la mancata informativa della situazione di conflitto dell’amministratore, prevista dall’art. 2391, comma 1, c.c., costituisce già una irregolarità, che il collegio sindacale delle società con azioni quotate in borsa deve segnalare alla Consob, in applicazione dell’art. 149 del d.lgs. n. 58 del 1998, a prescindere da ogni verifica degli effetti di tale situazione di conflitto sull’operato dell’organo gestorio (v. infra).

Devono a questo punto essere menzionate due pronunce, adottate nel 2018, che, in tema di responsabilità degli amministratori, hanno dato applicazione alle norme in vigore prima della riforma del 2003, con riferimento a particolari modelli gestori, riguardanti anche le società a responsabilità limitata (cui si applicava gran parte della disciplina prevista per le società per azioni, in virtù del rinvio operato dal previgente art. 2487 c.c.).

Come espressamente affermato dalla Corte di cassazione infatti, il d.lgs. n. 6 del 2003 ha introdotto in materia una nuova normativa di diritto sostanziale, come tale non applicabile retroattivamente, con la conseguenza che alle condotte anteriori alla sua entrata in vigore continua ad applicarsi la disciplina previgente (cfr. Sez. 1, n. 13907/2014, Nazzicone, Rv. 631510-01).

In particolare, in tema di società a responsabilità limitata, Sez. 6-1, n. 27761/2018, Dolmetta, Rv. 651356-01, ha affermato che, nel regime anteriore alla riforma di cui al d.lgs. n. 6 del 2003 il modello organizzativo dell’amministrazione disgiuntiva non era incompatibile con la contemporanea presenza di un consiglio di amministrazione, potendo tale organo utilmente svolgere funzioni di trasmissione e raccolta delle informazioni, coordinamento decisionale e controllo sull’operato dei singoli amministratori, salva la possibilità, in caso di divergenza di opinioni, di riportare le decisioni in assemblea o di far operare misure di tutela esterna, quale la denunzia all’autorità giudiziaria ex art. 2409 c.c. (in particolare, in una fattispecie in cui la s.r.l. prevedeva la presenza di un consiglio di amministrazione in un regime di amministrazione disgiuntiva, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva ravvisato la responsabilità per culpa in vigilando di uno dei due amministratori per omesso controllo sull’operato illecito dell’altro).

Analogamente, in tema di società per azioni, Sez. 6-1, n. 06998/2018, Scaldaferri, Rv. 647899-01, ha rilevato che l’art. 2392 c.c., nel testo antecedente alle modifiche introdotte dal d.lgs. n. 6 del 2003, poneva a carico di tutti gli amministratori di società per azioni un dovere di vigilanza sul generale andamento della gestione, che non veniva meno nella ipotesi di attribuzioni proprie di uno o più amministratori, restando anche in tal caso a carico dei medesimi l’onere della prova di essersi diligentemente attivati per porre rimedio alle illegittimità rilevate (o che avrebbero dovuto rilevare), precisando tuttavia che, anche in base alla disciplina previgente, la responsabilità solidale per le conseguenze delle illegittimità contabili e di gestione altrui non poteva estendersi agli amministratori rimasti in carica per un periodo di tempo troppo breve, che non poteva consentire loro di rendersi conto della situazione e di intervenire con utili strumenti correttivi.

Come precisato dalla stessa S.C., tale impostazione non è più valida a seguito della riforma del 2003, posto che, in virtù del novellato art. 2392 c.c., gli amministratori delle società per azioni privi di deleghe (cd. non operativi) non sono più sottoposti ad un generale obbligo di vigilanza, tale da trasmodare di fatto in una responsabilità oggettiva, per le condotte dannose degli altri amministratori, ma rispondono solo se non hanno impedito fatti pregiudizievoli di quest’ultimi in virtù della conoscenza – o della possibilità di conoscenza, per il loro dovere di agire informati ex art. 2381 c.c. – di elementi tali da sollecitare il loro intervento alla stregua della diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze (Sez. 1, n. 17441/2016, Di Marzio M., Rv. 641165-01).

Allo stesso modo, Sez. 1, n. 02038/2018, Nazzicone, Rv. 647054-01, ha ritenuto che la responsabilità solidale degli amministratori della società a responsabilità limitata per i danni derivanti dall’inosservanza dei doveri imposti dalla legge e dall’atto costitutivo in tema di amministrazione della società non costituisce una forma di responsabilità oggettiva e l’esonero da responsabilità previsto dall’art. 2476, comma 1, ultima parte, c.c. non è ancorato al mero procedimento di rituale verbalizzazione del dissenso in occasione del consiglio di amministrazione deliberante, ma all’effettiva mancanza di qualsiasi profilo di colpa.

In tema di revoca dell’amministratore di società per azioni, e considerata l’ipotesi cessazione del rapporto gestorio prima della naturale scadenza, Sez. 1, n. 02037/2018, Nazzicone, Rv. 647624-01, ha precisato che le ragioni che integrano la giusta causa, ai sensi dell’art. 2383, comma 3, c.c. devono essere specificamente enunciate nella delibera assembleare, senza che vi sia la possibilità di una successiva deduzione in sede giudiziaria di ragioni ulteriori, aggiungendo inoltre che spetta alla società dimostrarne l’esistenza, trattandosi di un fatto costitutivo della facoltà di recedere senza conseguenze risarcitorie.

La stessa pronuncia (Sez. 1, n. 02037/2018, Nazzicone, Rv. 647624-02) ha peraltro evidenziato che, nel caso in cui la revoca dell’amministratore risulti senza giusta causa, alla responsabilità contrattuale della società di cui all’art. 2383 c.c. relativa al lucro cessante per i compensi residui non percepiti, derivante dal fatto stesso del recesso senza giusta causa dal rapporto di amministrazione, può aggiungersi la responsabilità, sempre di natura contrattuale, per violazione delle regole di buona fede e correttezza, oppure una responsabilità extracontrattuale della società, o di soggetti in concorso con essa, ma solo in presenza di condotte che costituiscano un quid pluris, diverso ed ulteriore, rispetto alla revoca in sé, allorché le stesse ragioni della revoca, oltre ad essere semplicemente insussistenti o inidonee a fondare il potere di recesso, oppure le concrete modalità della cessazione del rapporto, connotate da colpa o dolo, siano tali da ledere un diritto della persona distinto dal diritto dell’amministratore alla prosecuzione della carica sino alla sua naturale scadenza.

3.5. Le azioni di responsabilità.

Con riferimento all’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori di società a responsabilità limitata, e con particolare riguardo a quella esercitata dal socio ex art. 2476, comma 3, c.c., si deve menzionare Sez. 1, n. 17493/2018, Fraulini, Rv. 649893-01, ove la S.C. ha ribadito che, nel caso in cui venga esperita tale azione, sussiste il litisconsorzio necessario della società, in quanto l’autonoma iniziativa del socio, riconosciuta senza vincolo di connessione con la quota di capitale dallo stesso posseduta, non toglie che si tratti pur sempre di un’azione sociale di responsabilità, rifluendo l’eventuale condanna dell’amministratore unicamente nel patrimonio sociale e potendo solo la società (e non il socio) rinunciare all’azione e transigerla (nello stesso senso, v. già Sez. 1, n. 10936/2016, Bernabai, Rv. 639796-01).

In linea con la pronuncia appena richiamata, Sez. 1, n. 19745/2018, Falabella, Rv. 650162-03, ha precisato che la legittimazione individuale straordinaria, di cui all’art. 2476, comma 3, c.c., che consente al socio di proporre l’azione sociale di responsabilità, essendo riconducibile a una ipotesi di sostituzione processuale di cui all’art. 81 c.p.c., permane in sede di gravame, quand’anche la società abbia omesso di impugnare la sentenza reiettiva della domanda risarcitoria, salva la sola ipotesi in cui l’azione sia stata fatta oggetto di rinuncia o di transazione da parte dell’ente, nel rispetto delle prescrizioni di cui all’art. 2476, comma 5, c.c., in materia di maggioranza deliberativa e potere di veto.

Con riferimento all’azione di responsabilità per mancata osservanza degli obblighi inerenti alla conservazione del patrimonio sociale, esperita nei confronti di amministratori e sindaci di società per azioni ex artt. 2394 e 2407 c.c., assume invece rilievo Sez. 1, n. 21662/2018, Nazzicone, Rv. 649960-01, ove la S.C. ha evidenziato che l’insufficienza del patrimonio sociale al soddisfacimento dei crediti, rilevante ai fini del decorso della prescrizione quinquennale, può risultare dal bilancio sociale che costituisce, per la sua specifica funzione, il documento informativo principale sulla situazione della società non solo nei riguardi dei soci, ma anche dei creditori e dei terzi in genere. Ha quindi aggiunto che spetta al giudice di merito, con un apprezzamento in fatto insindacabile in cassazione, accertare se la relazione dei sindaci al bilancio, che abbia evidenziato l’inadeguatezza della valutazione di alcune voci – a fronte della quale l’assemblea abbia comunque deliberato la distribuzione di utili ai soci, senza rilievi da parte degli organi di controllo – sia idonea ad integrare di per sé l’elemento della oggettiva percepibilità per i creditori circa la falsità dei risultati attestati dal bilancio sociale.

In tema di azione di responsabilità ex art. 146 l. fall., e in continuità con la statuizione di recente adottata dalle Sezioni Unite (Sez. U, n. 1641/2017, Nappi, Rv. 642008-01), Sez. 1, n. 25610/2018, Falabella, Rv. 650591-02, ha ribadito che il curatore fallimentare è legittimato, tanto in sede penale, quanto in sede civile, all’esercizio di qualsiasi azione di responsabilità ammessa contro gli amministratori di società, anche per i fatti di bancarotta preferenziale commessi mediante pagamenti eseguiti in violazione della par condicio creditorum.

Richiamando la menzionata pronuncia a Sezioni Unite, la S.C. ha, in particolare, evidenziato che il pagamento preferenziale in una situazione di dissesto può comportare la riduzione del patrimonio sociale in una misura anche di molto superiore a quella che si determinerebbe nel rispetto del principio del pari concorso dei creditori, giacché la destinazione di tale patrimonio alla garanzia dei creditori va considerata nella prospettiva della prevedibile procedura concorsuale, che espone i creditori alla falcidia fallimentare, sicché, anche dal punto di vista strettamente contabile, il pagamento di un creditore in misura superiore a quella che otterrebbe in sede concorsuale comporta per la massa dei creditori una minore disponibilità patrimoniale, cagionata appunto dall’inosservanza degli obblighi di conservazione del patrimonio della società in funzione di garanzia dei creditori.

In applicazione del principio enunciato, la Corte ha ritenuto rilevante ai fini della proposizione dell’azione di responsabilità ex art. 146 l. fall. la condotta dell’amministratore che abbia trattenuto, a soddisfazione di un proprio credito per il rimborso di un finanziamento nei confronti della società, la somma ricevuta in rappresentanza della società, quale corrispettivo della vendita di una partecipazione societaria, così effettuando un pagamento preferenziale a proprio favore.

Sempre in tema di azione ex art. 146 l. fall., ma con riferimento alla liquidazione del danno, Sez. 1, n. 02500/2018, Didone, Rv. 647230-01, ha ritenuto che, nel caso di esperimento di tale azione, il giudice può ricorrere alla liquidazione equitativa, nella misura corrispondente alla differenza tra il passivo accertato e l’attivo liquidato in sede fallimentare, qualora il ricorso a tale parametro si palesi, in ragione delle circostanze del caso concreto, logicamente plausibile, in quanto l’attore abbia allegato inadempimenti dell’amministratore – nella specie consistiti nella cessione a sé stesso, a prezzo vile, di rami d’azienda e nella pluriennale mancata tenuta delle scritture contabili – astrattamente idonei a porsi quali cause del danno lamentato, indicando le ragioni che gli hanno impedito l’accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell’amministratore medesimo.

La pronuncia si pone sulla stessa linea di altre statuizioni, adottate a seguito di Sez. U, n. 9100/2015, Rordorf, Rv. 635451-01, ove il giudice di legittimità ha affermato che la liquidazione del danno risarcibile nella misura corrispondente alla differenza tra il passivo accertato e l’attivo liquidato in sede fallimentare non può essere giustificata dalla sola mancata (o irregolare) tenuta delle scritture contabili, pur se addebitabile all’amministratore convenuto, ma può costituire un criterio utilizzato quale parametro per una liquidazione equitativa, ove ne sussistano le condizioni, sempre che il ricorso ad esso sia, in ragione delle circostanze del caso concreto, logicamente plausibile e, comunque, l’attore abbia allegato un inadempimento almeno astrattamente idoneo a porsi come causa del danno lamentato, indicando le ragioni che gli hanno impedito l’accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dei predetti soggetti (v., da ultimo, Sez. 1, n. 17794/2015, Nazzicone, Rv. 636637-01 e Sez. 1, n. 38/2017, Falabella, Rv. 643014-01).

Con riferimento all’azione di responsabilità promossa dal terzo direttamente danneggiato da atti colposi o dolosi degli amministratori, si deve infine menzionare Sez. 1, n. 03656/2018, Nazzicone, Rv. 647146-01, ove la S.C. ha affermato che, in presenza di intestazione fiduciaria di partecipazioni sociali, sussiste in capo al fiduciante la titolarità dell’azione di responsabilità contro gli amministratori, ai sensi dell’art. 2395 c.c., per il danno diretto che lamenti di avere subìto, consistente nella perdita del diritto al ritrasferimento delle partecipazioni intestate fiduciariamente, a seguito dell’uscita dalla società del fiduciario, che non ha esercitato il diritto di opzione, dopo l’azzeramento del capitale sociale ex art. 2447 cod. civ., deliberato dall’assemblea sulla base di una situazione patrimoniale, redatta dagli amministratori, falsa e recante perdite insussistenti.

In motivazione, la Corte ha evidenziato che l’azzeramento del capitale sociale comporta lo scioglimento del rapporto sociale limitatamente al socio-fiduciario e nel contempo l’impossibilità per quest’ultimo di ritrasferire al fiduciante le partecipazioni oggetto dell’intestazione fiduciaria. Se dunque il fiduciante non può esperire l’azione ex art. 2395 c.c. quale socio, non rivestendo tale qualità, egli può comunque agire ex art. 2395 c.c. quale terzo titolare di un diritto di credito (al ritrasferimento delle partecipazioni) direttamente leso dalla condotta degli amministratori, così ottenendo il ristoro del pregiudizio subito, corrispondente alla perdita del valore delle azioni, di cui non può più ottenere il ritrasferimento.

4. Particolari società di capitali.

Vengono di seguito riportate le pronunce adottate nel 2018, che hanno affrontato questioni del tutto peculiari, relative alla particolare disciplina riservata ad alcune società. Si tratta delle società con azioni quotate in borsa e delle società cooperative. A tali figure vanno aggiunte le società a partecipazione pubblica, comprese le società in house, a cui, proprio per l’accentuata specificità, è stata dedicato un intero capitolo nella parte riservata ai rapporti con i pubblici poteri, cui si rinvia (v. infra Capitolo XXVI).

4.1. Le società con azioni quotate in borsa.

Alcune decisioni hanno riguardato l’ambito operativo dell’art. 149, comma 3, del d.lgs. n. 58 del 1998, ove, a seguito della specificazione dei doveri di vigilanza del collegio sindacale, è previsto che quest’ultimo debba comunicare senza indugio alla Consob le irregolarità riscontrate e trasmettere i verbali delle riunioni, degli accertamenti svolti e ogni altra utile documentazione.

In particolare, Sez. 2, n. 12110/2018, Cosentino, Rv. 648504-01, ha affermato che il collegio sindacale deve comunicare alla Consob tutte le irregolarità riscontrate nell’attività di vigilanza che ha il compito di svolgere, senza che l’adempimento sia subordinato ad una valutazione discrezionale circa la rilevanza delle stesse, spiegando che depongono in tal senso la formulazione letterale della norma, che fa riferimento alle “irregolarità” senza ulteriori qualificazioni, e anche la ratio della norma medesima, finalizzata a scongiurare le incertezze operative, che deriverebbero dalla opposta soluzione (nello stesso senso, Sez. 2, n. 3251/2009, Oddo, Rv. 606596-01).

Anche Sez. 2, n. 33047/2018 (già cit.), dopo avere affermato che l’art. 2291, comma 1, c.c. pone a carico dell’amministratore in conflitto di interessi un obbligo generale e preventivo di esplicitare tale condizione, a prescindere dall’incidenza della stessa sulle decisioni assunte dagli organi gestori (v. sul punto supra), ha confermato la sanzione amministrativa comminata a un sindaco, per omessa vigilanza sul mancato rispetto dell’art. 2391, comma 1, c.c. da parte di un amministratore, senza dare rilievo ad alcuna valutazione sulla influenza o meno del conflitto d’interessi non denunciato sulle decisioni assunte dal consiglio di amministrazione.

Con riferimento invece alla disciplina dell’acquisto di azioni di società quotate, si deve richiamare Sez. 1, n. 19741/2018, Di Marzio M., Rv. 650161-01, ove è stabilito che, qualora sia inadempiuto l’obbligo di offerta pubblica di acquisto totalitaria di cui all’art. 106 del d.lgs. n. 58 del 1998, gravante a carico dell’acquirente del pacchetto azionario di società quotate che superi la soglia del 30%, compete agli azionisti, cui l’offerta avrebbe dovuto essere rivolta, il risarcimento del danno patrimoniale che dimostrino di avere sofferto in conseguenza della perdita di chance di disinvestimento che l’OPA avrebbe assicurato loro, da determinarsi raffrontando il prezzo di rimborso delle azioni in caso di OPA con il loro valore effettivo, ritratto dalle risultanze di borsa, secondo il successivo andamento del titolo nell’arco temporale intercorrente tra il giorno in cui si è consumato l’inadempimento dell’obbligo e quello del disinvestimento, se vi è stato, o, in caso contrario, della proposizione della domanda risarcitoria.

La pronuncia si pone peraltro sulla stessa linea di Sez. 1, n. 14392/2012, Rordorf, Rv. 623642-01, Sez. 1, n. 22099/2013, Lamorgese, Rv. 628108-01, e Sez. 1, n. 20560/2015, Valitutti, Rv. 637345-01, che hanno comunque riconosciuto lo stesso diritto al risarcimento.

4.2. Le società cooperative.

Occorre innanzi tutto richiamare Sez. L, n. 19090/2018, Ponterio, Rv. 649969-01, ove è precisato che, ai fini del decorso del termine per proporre opposizione contro la deliberazione di esclusione del socio ai sensi dell’art. 2533 c.c., non è necessaria la comunicazione di addebiti rigorosamente enunciati, dovendo l’esigenza di specificità della contestazione ritenersi soddisfatta allorquando le indicazioni fornite consentano di individuare le ragioni dell’esclusione, così da porre il socio in condizione di predisporre la difesa.

Sempre con riferimento al termine per proporre opposizione alla deliberazione di esclusione del socio, Sez. 1, n. 19304/2018, Tricomi, Rv. 649905-01, ha precisato che, qualora lo statuto preveda la facoltà del socio di ricorrere ad un collegio di probiviri, nell’ambito di un procedimento non arbitrale ma endosocietario, finalizzato non a decidere la controversia, ma a prevenirla, l’esercizio di tale facoltà comporta che il procedimento di esclusione si perfezioni con la determinazione del collegio dei probiviri, della cui comunicazione al socio è onerata la società, anche quando il collegio non abbia adottato nel termine perentorio assegnato ai probiviri alcun provvedimento. Ne consegue che solo dalla data della comunicazione riprende a decorrere il termine di cui all’art. 2533, comma 3, c.c. per l’impugnazione della delibera di esclusione da parte del socio davanti l’autorità giudiziaria, fermo restando che l’impugnazione non è preclusa nelle more del predetto procedimento endosocietario (conf. Sez. 1, n. 8429/2012, Scaldaferri, Rv. 622601-01).

Con riferimento al rapporto tra delibera di esclusione e licenziamento del socio, Sez. L, n. 21567/2018, Marchese, Rv. 650222-01, ha ribadito il principio enunciato da Sez. U, n. 27436/2017, Perrino, Rv. 646129-01, affermando che, ove per le medesime ragioni afferenti al rapporto lavorativo siano stati contestualmente emanati la delibera di esclusione ed il licenziamento, l’omessa impugnativa della delibera di esclusione non preclude la tutela risarcitoria contemplata dall’art. 8 della legge n. 604 del 1966, mentre esclude quella restitutoria della qualità di lavoratore.

Negli stessi termini, Sez. L, n. 21566/2018, Marchese, Rv. 650256-01, ha affermato che la delibera di esclusione del socio lavoratore dalla cooperativa costituisce presupposto costitutivo della tutela reintegratoria, sicché, ove il socio lavoratore impugni il licenziamento intimatogli dalla cooperativa, detta tutela resta preclusa, qualora non sia impugnata anche la delibera di esclusione fondata sulle medesime ragioni del licenziamento.

  • deposito bancario
  • diritto bancario
  • assegno

CAPITOLO XV

IL DIRITTO DEI MERCATI FINANZIARI

(di Paolo Fraulini )

Sommario

1 Conto corrente bancario. - 2 I contratti bancari. - 3 L’intermediazione finanziaria. - 4 I titoli di credito. - 4.1 Assegni. - 4.2 Azioni.

1. Conto corrente bancario.

In tema di contratti bancari, Sez. U, n. 16303/2018, De Chiara, Rv. 649294-01 e Rv. 649294-02, intervengono a chiarire una questione ancora controversia nel dibattito sezionale a distanza di dieci anni dall’entrata in vigore delle disposizioni di contrasto all’usura di cui al d.l. n. 185 del 2008, convertito dalla legge n. 2 del 2009: quella delle modalità di calcolo della commissione di massimo scoperto (CMS) nella determinazione del superamento del tasso soglia. La Corte chiarisce che l’art. 2 del citato decreto-legge, in forza del quale, a partire dal 1 gennaio 2010, la commissione di massimo scoperto (CMS) entra nel calcolo del tasso effettivo globale medio (TEGM) rilevato dai decreti ministeriali emanati ai sensi dell’art. 2, comma 1, della l. n. 108 del 1996, ai fini della verifica del superamento del tasso soglia dell’usura presunta, non è norma di interpretazione autentica dell’art. 644, comma 4, c.p., ma disposizione con portata innovativa dell’ordinamento e quindi si applica solo per il futuro e non ai contratti già stipulati al momento della sua entrata in vigore. La Corte detta anche le modalità operative del calcolo del tasso per i rapporti pendenti, prevedendo che al fine della verifica del superamento del tasso soglia dell’usura presunta va effettuata la separata comparazione del tasso effettivo globale (TEG) degli interessi praticati in concreto e della commissione di massimo scoperto (CMS) eventualmente applicata, rispettivamente con il “tasso soglia” – ricavato dal tasso effettivo globale medio (TEGM) indicato nei decreti ministeriali emanati ai sensi dell’art. 2, comma 1, della predetta l. n. 108 del 1996 – e con la “CMS soglia”, calcolata aumentando della metà la percentuale della CMS media pure registrata nei decreti ministeriali, compensandosi, poi, l’importo dell’eccedenza della CMS applicata, rispetto a quello della CMS rientrante nella soglia, con l’eventuale “margine” residuo degli interessi, risultante dalla differenza tra l’importo degli stessi rientrante nella soglia di legge e quello degli interessi in concreto praticati.

Ancora al centro delle pronunce della Corte è la questione dell’onere della prova della movimentazione del conto corrente bancario e delle conseguenze del suo mancato adempimento, con particolare riferimento alle conseguenze sul saldo: Sez. 1, n. 09365/2018, Terrusi, Rv. 648117-01, afferma che ove la banca, che ne è onerata, ometta di documentare integralmente le movimentazioni del rapporto con la produzione degli estratti conto, non può pretendere di vedersi azzerato il saldo del primo degli estratti conto utilizzabili. Sullo stesso tema, Sez. 1, n. 15148/2018, Nazzicone, Rv. 648898-01, precisa che l’onere probatorio documentale non ammette equipollenti e, in particolare, che è irrilevante, ai fini della prova, la circostanza che il correntista non abbia formulato rilievi in ordine alla documentazione prodotta dalla banca nel giudizio.

Ancora oggetto di pronuncia è la questione della natura delle rimesse sul conto, al fine di determinare il “dies a quo” della prescrizione dei relativi diritti delle parti. Sez. 1, n. 18144/2018, Caiazzo, Rv. 649902-01, affronta alcuni temi processuali affermando che ai fini della valida proposizione dell’eccezione non è necessario che la banca indichi specificamente le rimesse prescritte, né il relativo “dies a quo”, poiché tali elementi sono deducibili dal giudice sulla base dell’esame delle singole annotazioni contenute negli estratti conto periodici, della cui produzione in giudizio è onerato il cliente.

Sul tema Sez. 6-1, n. 21646/2018, Falabella, Rv. 650473-01, precisa che il correntista, anche qualora non deduca la sussistenza di rimesse solutorie sul conto, ha interesse ad agire per far depurare le annotazioni da eventuali clausole anatocistiche, atteso che tale effetto corrisponde a un interesse meritevole di tutela, individuato nell’esclusione, per il futuro, di annotazioni illegittime, nel ripristino di una maggiore estensione dell’affidamento concessogli e nella riduzione dell’importo che la banca, una volta rielaborato il saldo, potrà pretendere alla cessazione del rapporto.

Secondo Sez. 2, n. 00077/2018, Scarpa, Rv. 646663-01, i rapporti interni tra correntisti non sono regolati dall’art. 1854 c.c., riguardante i rapporti con la banca, bensì dall’art. 1298, comma 2, c.c. con la conseguenza che ciascun cointestatario, anche se avente facoltà di compiere operazioni disgiuntamente, non può disporre in proprio favore, senza il consenso espresso o tacito dell’altro, della somma depositata in misura eccedente la quota parte di sua spettanza, e ciò in relazione sia al saldo finale del conto, sia all’intero svolgimento del rapporto.

Sez. 3, n. 13068/2018, Fiecconi, Rv. 648616-01, afferma che l’onere della banca di identificazione del cliente prima di dar luogo all’operazione è assolto anche attraverso la dimostrazione dell’effettiva volontà del correntista di dare luogo alla disposizione bancaria, anche qualora la modalità formale prescelta per darvi corso sia irregolare.

In tema di prescrizione dell’azione di ripetizione Sez. 1, n. 27704/2018, Nazzicone, Rv. 651326-01, afferma che l’azione di ripetizione dell’indebito proposta dal cliente di una banca, il quale lamenti la nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi anatocistici maturati con riguardo ad un contratto di conto corrente, è soggetta all’ordinaria prescrizione decennale che decorre, in assenza di un’apertura di credito, dai singoli versamenti aventi natura solutoria, il cui relativo onere probatorio grava sul cliente.

In tema di onere e contenuto della prova delle annotazioni, secondo Sez. 1, n. 23313/2018, Dolmetta, Rv. 650905-01, la banca che intende far valere un credito derivante da un rapporto di conto corrente, deve provare l’andamento dello stesso per l’intera durata del suo svolgimento, dall’inizio del rapporto e senza interruzioni.

Secondo Sez. 3, n. 22551/2018, D’Arrigo, Rv. 650854-01, l’estratto conto non debitamente comunicato al correntista o dallo stesso tempestivamente contestato perde il valore probatorio privilegiato, previsto dall’art. 1832 c.c., ma è comunque prudentemente apprezzabile dal giudice come elemento di prova ex artt. 115 e 116 c.p.c..

2. I contratti bancari.

In tema di nullità Sez. 1, n. 04760/2018, Mercolino, Rv. 647633-01, afferma la nullità del contratto bancario concluso con un soggetto privo dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività bancaria prescritta dall’art. 14 del d.lgs. n. 385 del 1993 ma la possibilità di conversione del contratto in presenza delle condizioni previste dall’art. 1424 c.c..

L’influenza di Sez. U n. 898/2018 (vedi, infra, par. 3.) in tema di requisiti di validità dei contratti di intermediazione finanziaria sottoscritti solo dal cliente si estende anche ai contratti bancari: la giurisprudenza della Prima Sezione (Sez. 1, n. 14243/2018, Falabella, Rv. 649119-01, Sez. 1, n. 16070/2018, Iofrida, Rv. 649476-01, Sez. 1, n. 14646/2018, Tricomi, Rv. 648942-01), afferma che i contratti bancari, soggetti alla disciplina di cui all’art. 117 del d.lgs. n. 385 del 1993, non esigono ai fini della valida stipula del contratto la sottoscrizione del documento contrattuale da parte della banca, il cui consenso si può desumere alla stregua di atti o comportamenti alla stessa riconducibili.

In tema di diritti del cliente a ottenere copie della documentazione bancaria Sez. 1, n. 13277/2018, De Marzo, Rv. 649155-01, afferma che la richiesta di copia può essere avanzata anche dal successore dell’originario titolare del contratto e che, ai fini della sua validità, non è richiesta alcuna specificazione degli estremi del rapporto a cui si riferisce la documentazione richiesta in copia, essendo sufficiente fornire alla banca gli elementi minimi indispensabili per consentire l’individuazione dei documenti richiesti.

Sempre in tema di diritto di copia, Sez. 1, n. 22118/2018, Fraulini, Rv. 650400-01, puntualizza che legittimato alla richiesta non è solo il possessore del libretto di deposito a risparmio, ma anche il sottoscrittore del relativo contratto.

In tema di utilizzo di carte di debito, secondo Sez. 1, n. 15500/2018, Dolmetta, Rv. 649134-01, la revoca all’autorizzazione dell’uso del bancomat da parte della banca intermediaria integra un’ipotesi di recesso dal rapporto contrattuale intercorrente tra le parti e, pertanto, quale atto unilaterale recettizio, ex art. 1334 c.c., produce i suoi effetti solo se preventivamente comunicata al cliente.

Secondo Sez. 1, n. 21521/2018, Bisogni, Rv. 642056-01, la garanzia fideiussoria prestata, in favore di una banca, in relazione ad un contratto di mutuo, caratterizzata dalla coincidenza tra il capitale garantito e quello mutuato e dalla determinabilità degli interessi, nonché degli eventuali accessori, in base ai tassi ufficiali ed alle previsioni contrattuali, deve qualificarsi come ordinaria, perché avente ad oggetto un credito individuato (diversamente dalla fideiussione cd. “omnibus”, dove, invece, il credito garantito dipende dallo svolgimento futuro del rapporto tra banca creditrice e cliente), la cui eventuale, successiva quantificazione, per interessi ed accessori, dipende esclusivamente da parametri predeterminati dai contraenti e non soggetti alla loro discrezionalità, dovendosi così escludere la caducazione della garanzia o la sua limitazione all’importo del capitale mutuato.

3. L’intermediazione finanziaria.

In tema di forma scritta del contratto-quadro di intermediazione finanziaria Sez. U, n. 00898/2018, Di Virgilio, Rv. 646965-01, chiarisce che il requisito di forma di cui all’art. 23 del d.lgs. n. 58 del 1998, deve ritenersi rispettato ove il contratto sia redatto per iscritto e ne sia consegnata una copia al cliente, ed è sufficiente che vi sia la sottoscrizione di quest’ultimo, e non anche quella dell’intermediario, il cui consenso può desumersi alla stregua di comportamenti concludenti dallo stesso tenuti.

Sul tema va ricordato che l’ordinanza interlocutoria n. 23927/2018, Valitutti, ha rimesso al Primo Presidente, per la valutazione dell’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, la questione di massima di particolare importanza concernente la possibilità per l’investitore di fare un uso selettivo della nullità del contratto quadro, limitandone gli effetti solo ad alcune delle operazioni poste in essere in esecuzione del rapporto dichiarato nullo.

Sez. 1, n. 08751/2018, Valitutti, Rv. 648543-01, precisa che la forma scritta è rispettata anche quando le parti richiamino per iscritto elementi contenuti in un diverso atto, cui espressamente e specificamente si riportano.

Secondo Sez. 1, n. 14243/2018, Falabella, Rv. 649119-01, la conclusione del contratto non deve necessariamente coincidere con la data della scrittura privata che lo documenta, ben potendo il comportamento concludente delle parti determinare la conclusione del negozio in epoca anteriore.

Sez. 1, n. 03087/2018, Genovese, Rv. 646881-01, reputa che, in ipotesi di pattuita validità di ordini telefonici per i singoli investimenti, le relative modalità di documentazione non attengano alla validità del rapporto, ma alla prova del suo svolgimento.

Sez. 1, n. 03261/2018, Lamorgese, Rv. 647233 – 01, nel ribadire la possibilità di risoluzione del singolo ordine di acquisto e non necessariamente del contratto-quadro, estende tale facoltà anche all’ipotesi in cui il primo preceda la stipulazione del secondo, purché con esso appaia contenutisticamente in linea.

In tema di riparto dell’onere probatorio in materia di obblighi informativi, Sez. 1, n. 10111/2018, Di Marzio M., Rv. 648553-01, specifica che l’investitore deve individuare le informazioni che l’intermediario avrebbe omesso di somministrare, nonché fornire la prova del danno e del nesso di causalità tra inadempimento e danno che sussiste se, ove adeguatamente informato, l’investitore avrebbe desistito dall’investimento rivelatosi poi pregiudizievole mentre incombe sull’intermediario provare che tali informazioni sono state fornite, ovvero che esse esulavano dall’ambito di quelle dovute; e precisa che la sottoscrizione da parte del cliente della avvenuta segnalazione di inadeguatezza dell’investimento fa presumere che le informazioni siano state fornite.

Sempre sul tema, posizione diversa assume Sez. 1, n. 04727/2018, Acierno, Rv. 647617-01, secondo cui l’onere di provare il grado di rischiosità dell’investimento grava sempre e comunque sull’intermediario, a prescindere dalle allegazioni del cliente, dovendo all’uopo considerarsi irrilevante l’elevata propensione al rischio di quest’ultimo (su quest’ultimo aspetto, in senso conforme, Sez. 1, n. 08333/2018, De Chiara, Rv. 648142-01).

Sez. 1, n. 10112/2018, Di Marzio M., Rv. 648554-02, ritiene che, al di fuori del caso del contratto di gestione e di consulenza, la durata degli obblighi informativi ricadenti sull’intermediario si esaurisca con l’investimento.

In tema di conseguenze dell’inadempimento, Sez. 1, n. 03912/2018, Nazzicone, Rv. 647058-01, precisa che la risoluzione del contratto per inadempimento dell’intermediario non determina automaticamente l’accertamento della relativa mala fede ai fini del riconoscimento degli interessi sulla somma determinata per il risarcimento del relativo danno.

Sez. 1, n. 08343/2018, Nazzicone, Rv. 648143-01, puntualizza che la sottoscrizione da parte dell’investitore della dichiarazione di operatore qualificato esonera l’intermediario dall’obbligo di ulteriori verifiche al riguardo, salvo che il cliente non alleghi e provi specifiche circostanze dalle quali emerga che l’intermediario conosceva, o avrebbe dovuto conoscere con l’ordinaria diligenza, l’assenza delle competenze dichiarate.

Sez. 1, n. 03658/2018, Nazzicone, Rv. 646885-01, precisa che il danno da violazione dell’obbligo di astensione per l’intermediario in conflitto di interesse, è limitato alle sole conseguenze direttamente imputabili alla mancata astensione e non si estende alle modalità con cui l’operazione è stata in concreto realizzata o avrebbe potuto esserlo da altro intermediario.

Secondo Sez. 1, n. 13994/2018, Marulli, Rv. 649165-01, l’adesione dei risparmiatori all’offerta pubblica di scambio di obbligazioni del Governo argentino comporta la ricezione in concambio di nuove obbligazioni e la conseguente novazione del relativo rapporto preesistente, cui consegue la sopravvenuta carenza di interesse in capo ai risparmiatori rispetto alla domanda risolutoria delle pregresse operazioni di investimento, ancorché in relazione ad esse sia accertata l’avvenuta violazione degli obblighi informativi.

Secondo Sez. 3, n. 25374/2018, Scarano, Rv. 651163-01, in tema di contratti di intermediazione finanziaria, la responsabilità dell’intermediario ai sensi dell’art. 31, comma 3, del d.lgs. n. 58 del 1998, per i danni arrecati ai terzi dai propri promotori finanziari, deve essere esclusa ove il danneggiato ponga in essere una condotta agevolatrice che presenti connotati di anomalia, vale a dire, se non di collusione, quanto meno di consapevole acquiescenza alla violazione delle regole gravanti sul promotore, verificandosi in tal caso l’interruzione del nesso di occasionalità necessaria tra il fatto produttivo di danno e l’esercizio delle mansioni cui il promotore finanziario è adibito.

Secondo Sez. 1, n. 29354/2018, Falabella, Rv. 651479-01, non è improponibile l’azione intrapresa dall’investitore italiano nei confronti della banca intermediaria nell’acquisto di “bond” argentini, e fondata sulla nullità, l’annullamento o la risoluzione per inadempimento, del contratto di intermediazione finanziaria, oppure sulla responsabilità risarcitoria dell’intermediario in conseguenza degli obblighi che ad esso fanno carico, per effetto della mera pendenza del giudizio arbitrale, precedentemente intrapreso dall’investitore innanzi all’“International Centre for the Settlement of Investiment Disputes” (ICSID), ai sensi dell’art. 8, comma 4, della l. n. 334 del 1993, di ratifica dell’Accordo di Buenos Aires tra il Governo della Repubblica italiana ed il Governo della Repubblica argentina del 22 maggio 1990, perché le due azioni si differenziano riguardo ai soggetti, al petitum ed alla causa petendi.

4. I titoli di credito.

4.1. Assegni.

In tema di responsabilità nell’incasso di assegni bancari non trasferibili Sez. U, n. 12477/2018, Cristiano, Rv. 648275-01, ha stabilito che ai sensi dell’art. 43, comma 2, del r.d. n. 1736 del 1933 (c.d. legge assegni), la banca negoziatrice chiamata a rispondere del danno derivato – per errore nell’identificazione del legittimo portatore del titolo – dal pagamento dell’assegno bancario, di traenza o circolare, munito di clausola non trasferibilità a persona diversa dall’effettivo beneficiario, è ammessa a provare che l’inadempimento non le è imputabile, per aver essa assolto alla propria obbligazione con la diligenza richiesta dall’art. 1176, comma 2, c.c.

Applica tale principio Sez. 6-1, n. 16178/2018, Nazzicone, Rv. 649786-01, secondo cui nel caso di pagamento da parte di una banca di un assegno con sottoscrizione apocrifa, l’ente creditizio può essere ritenuto responsabile non a fronte della mera alterazione del titolo, ma solo nei casi in cui tale alterazione sia rilevabile “ictu oculi”, in base alle conoscenze del bancario medio, il quale non è tenuto a disporre di particolari attrezzature strumentali o chimiche per rilevare la falsificazione, né è tenuto a mostrare le qualità di un esperto grafologo.

Sez. 2, n. 14372/2018, Scarpa, Rv. 648974-01, precisa che in tema di adempimento di obbligazioni pecuniarie mediante il rilascio di assegni bancari, l’estinzione del debito si perfeziona soltanto nel momento dell’effettiva riscossione della somma portata dal titolo, poiché la consegna dello stesso deve considerarsi effettuata, salva diversa volontà delle parti, “pro solvendo”.

Sempre in tema di effetto estintivo del rilascio del titolo, Sez. 3, n. 05648/2018, Scarano, Rv. 648410-01, nel caso in cui il debitore eccepisca l’estinzione del debito per effetto dell’emissione di un assegno bancario negoziato in favore del creditore prenditore in una data significativamente anteriore a quella in cui il credito fatto valere in giudizio sia divenuto esigibile, la diversità di data, facendo venire meno la verosimiglianza del collegamento tra il credito azionato e il titolo di credito, fa sì che resti a carico del debitore l’onere di dimostrare la causale dell’emissione dell’assegno e, conseguentemente, che il rilascio del titolo di credito fosse volto ad estinguere in via anticipata il debito oggetto del processo.

Sotto diversa prospettiva si pone Sez. 1, n. 03255/2018, Genovese, Rv. 647145-01, secondo cui nel caso in cui il beneficiario di un assegno, fatto valere come promessa di pagamento, sostenga che l’obbligazione non sia stata assunta in proprio dal soggetto che ha emesso l’assegno, firmandolo esclusivamente con il suo nome, ma per la società di cui era socio, è a carico del beneficiario dell’assegno l’onere della prova della spendita del nome della società, senza che sia invocabile l’inversione dell’onere probatorio prevista dall’art. 1988 c.c. per le promesse di pagamento, non dovendosi provare il rapporto sottostante, bensì individuare a quale soggetto sia riferibile la promessa di pagamento.

In via più generale Sez. 1, n. 05889/2018, Dogliotti, Rv. 647435-01, identifica il “dies a quo” della prescrizione decennale per il diritto di ripetizione dell’importo dell’assegno circolare non incassato con quello di scadenza del termine di tre anni previsto dall’art. 84 del r.d. n. 1736 del 1934, entro cui si prescrive l’azione del beneficiario dell’assegno contro l’istituto bancario emittente.

Secondo Sez. 1, n. 27932/2018, Dolmetta, Rv. 651328-01, è applicabile la causa di estinzione della fideiussione prevista dall’art. 1956 c.c. nel caso in cui la banca anticipi al correntista l’importo di un assegno bancario presentato all’incasso in difetto di una sufficiente provvista del conto, in quanto tale operazione consiste nel “far credito” e nell’aumentare l’esposizione di rischio corrente del debitore obbligato alla restituzione dell’anticipazione ove l’incasso del titolo non vada a buon fine.

4.2. Azioni.

Sez. 1, n. 03656/2018, Nazzicone, Rv. 647146-01, afferma che in tema di intestazione fiduciaria delle partecipazioni sociali, il fiduciante, il quale lamenti che la definitiva uscita della società del fiduciario, a seguito del mancato esercizio del diritto di opzione, sia dipesa dalla falsità della situazione patrimoniale, redatta dagli amministratori e sottoposta all’assemblea per l’abbattimento e la ricostituzione del capitale sociale ex art. 2447 c.c., è legittimato ad esperire l’azione individuale del terzo di cui all’art. 2395 c.c., per il risarcimento del danno a lui direttamente cagionato dalla lesione al diritto al ritrasferimento della partecipazione sociale.

Secondo Sez. 3, n. 10583/2018, Fiecconi, Rv. 648597-01, la ricognizione di debito formulata dalla società di capitali a favore del socio, attraverso cui la prima intenda attribuire al secondo il diritto di recedere dalla società e di ottenere la restituzione del conferimento in conto capitale, nonché del sovrapprezzo versati al tempo della sottoscrizione della partecipazione sociale, è nulla per contrarietà alle norme imperative che regolano il contratto sociale in quanto, non avendo a oggetto poste debitorie corrispondenti a crediti esigibili del socio verso la società, tende a neutralizzare il rischio imprenditoriale cui il primo si sottopone incondizionatamente con la sottoscrizione del capitale sociale.

Sez. 1, n. 17498/2018, Nazzicone, Rv. 649519-01 (già cit. al par. 3.1. del Cap. XIV) afferma la liceità e la meritevolezza di tutela dell’accordo negoziale concluso tra i soci di una società azionaria, con il quale l’uno, in occasione del finanziamento partecipativo così operato, si obblighi a manlevare l’altro dalle eventuali conseguenze negative del conferimento effettuato in società, mediante l’attribuzione del diritto di vendita (c.d. “put”) entro un termine dato ed il corrispondente obbligo di acquisto della partecipazione sociale a prezzo predeterminato, pari a quello dell’acquisto, pur con l’aggiunta di interessi sull’importo dovuto e del rimborso dei versamenti operati nelle more in favore della società.

Sez. 1, n. 23950/2018, Nazzicone, Rv. 650822-01, afferma che ai sensi dell’art. 2357 ter, comma 2, c.c., come modificato dal d.lgs. n. 224 del 2010, nelle società che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio le azioni proprie sono incluse nel computo sia del quorum costitutivo che di quello deliberativo.

  • codice civile
  • fallimento

CAPITOLO XVI

LE PROCEDURE CONCORSUALI

(di Angelo Napolitano, Salvatore Leuzzi * )

Sommario

1 Il fallimento dell’imprenditore: i presupposti. - 1.2 Le società cancellate e l’estensione del fallimento. - 1.3 Il procedimento. - 1.4 I reclami avverso la sentenza di fallimento e il decreto di rigetto. - 2 Gli organi delle procedure concorsuali. - 2.1 I reclami endoconcorsuali. - 3 Le azioni di inefficacia in generale. - 3.1 Le revocatorie fallimentari: i presupposti. - 3.2 La revocatoria dei pagamenti. - 4 I rapporti pendenti. - 5 La formazione dello stato passivo. - 5.1 Le prove documentali. - 5.2 Le prelazioni. - 5.3 Le prededuzioni. - 6 Le impugnazioni dei crediti, le opposizioni allo stato passivo, le revocazioni. - 7 La liquidazione dell’attivo. - 8 La chiusura del fallimento e l’esdebitazione. - 9 Il concordato fallimentare. - 10 Il concordato preventivo in generale. - 10.1 L’ammissione alla procedura e la sua revoca. - 10.2 L’omologa e le impugnazioni. - 11 La liquidazione coatta amministrativa e l’amministrazione straordinaria. - 12 Il sovraindebitamento.

1. Il fallimento dell’imprenditore: i presupposti.

Come ogni anno, la S.C. si è confrontata con numerosi ricorsi in tema di dichiarazione di fallimento, tutti incentrati sul mancato superamento delle c.d. soglie dimensionali dell’impresa di cui all’art. 1 l. fall., nel testo come da ultimo novellato dal d.lgs. n. 169 del 2007.

Con riferimento al requisito, ex art. 1, comma 2, lett. c), l. fall., concernente l’indebitamento complessivo almeno pari ad euro 500.000, Sez. 1, n. 03158/2018, Lamorgese, Rv. 647341-01, ha chiarito che esso deve essere valutato, stando al tenore letterale della norma, confrontato con quello delle lettere a) e b) dello stesso comma, solo con riferimento al momento della dichiarazione di fallimento, non anche con riferimento al periodo di tempo corrispondente ai tre esercizi antecedenti la data di deposito dell’istanza di fallimento.

Sempre in tema di requisiti dimensionali per l’esonero dalla fallibilità dell’imprenditore commerciale, i “tre esercizi” antecedenti la data di deposito dell’istanza di fallimento, ai sensi dell’art. 1, comma 2, lett. a) e b), l. fall., devono intendersi come esercizi aventi ciascuno durata annuale, avendo il legislatore ritenuto congrua una valutazione ancorata sempre a tale lasso temporale, salvo che non sia trascorso un periodo inferiore dall’inizio dell’attività d’impresa (Sez. 1, n. 12963/2018, Pazzi, Rv. 648567-01).

I bilanci di esercizio, poi, pur essendo uno strumento privilegiato per la verifica della fallibilità di un imprenditore commerciale, alla stregua delle soglie di cui all’art. 1 l. fall., non escludono l’utilizzabilità di ulteriore e diversa documentazione. Tuttavia, ai fini della prova del requisito relativo all’indebitamento, di cui all’art. 1, comma 2, lett. c), l. fall., le sole dichiarazioni dei redditi non sono sufficienti (Sez. 1, n. 30541/2018, Dolmetta, Rv. 651880-01).

Con riferimento alla tipologia di imprese soggette al fallimento, di cui all’art. 1 l. fall., Sez. 1, n. 15285/2018, Terrusi, Rv. 649127-01, ha ritenuto che, ai fini della dichiarazione di fallimento, l’esercizio in forma organizzata di un’attività di intermediazione o di consulenza finanziaria determina la soggezione alla procedura concorsuale, poiché l’art. 1 l. fall. rimanda alla nozione di imprenditore commerciale di cui all’art. 2195 c.c., in cui sono compresi, tra gli altri, coloro che esercitano un’attività industriale diretta alla produzione di beni o servizi, un’attività intermediaria nella circolazione dei beni (comprese quindi le imprese finanziarie), un’attività bancaria o assicurativa e in genere le “altre attività ausiliarie delle precedenti”.

D’altro canto, le società commerciali a totale o parziale partecipazione pubblica, quale che sia la composizione del loro capitale sociale, le attività in concreto esercitate, ovvero le forme di controllo cui risultano effettivamente sottoposte, restano assoggettate al fallimento, essendo loro applicabile l’art. 2221 c.c., in forza del rinvio alle norme del codice civile, contenuto prima nell’art. 4, comma 13, del d.l. n. 95 del 2012, conv., con modif., dalla legge n. 135 del 2012 e poi nell’art. 1, comma 3, del d.lgs. n. 175 del 2016 (Sez. 1, n. 17279/2018, Fichera, Rv. 649517-01).

Quanto allo stato di insolvenza richiesto ai fini della dichiarazione di fallimento dell’imprenditore, esso non è escluso dalla circostanza che l’attivo superi il passivo e che non esistano conclamati inadempimenti esteriormente apprezzabili. In particolare, il significato oggettivo dell’insolvenza, che è quello rilevante ai fini dell’art. 5 l. fall., deriva da una valutazione circa le condizioni economiche necessarie all’esercizio dell’attività d’impresa (secondo un criterio di normalità), si identifica con uno stato di impotenza funzionale non transitoria a soddisfare le obbligazioni inerenti all’impresa e si esprime, secondo una tipicità desumibile dai dati dell’esperienza economica, nell’incapacità di produrre beni, con margini di redditività da destinare alla copertura delle esigenze d’impresa (prima fra tutte l’estinzione dei debiti), nonché nell’impossibilità di ricorrere al credito a condizioni normali, senza rovinose decurtazioni del patrimonio (Sez. 1, n. 30827/2018, Di Virgilio, Rv. 651884-01).

Con riferimento al momento in cui deve essere valutata la situazione di insolvenza, Sez. 1, n. 18137/2018, Ceniccola, Rv. 649895-01, ha statuito che l’accertamento degli elementi attivi del patrimonio sociale, idonei a consentire l’eguale ed integrale soddisfacimento dei creditori sociali, non può prescindere dalla valutazione della concretezza ed attualità di tali elementi, sicché non possono assumere rilievo le attribuzioni patrimoniali, in favore della società, condizionate all’ammissione di questa alla procedura di liquidazione coatta amministrativa: quelle attribuzioni, da un lato, non sono ancora efficaci, e dunque non rilevano, al momento della valutazione dell’insolvenza; dall’altro, presuppongono l’insolvenza, nel senso che non sarebbero state fatte se la società non fosse stata insolvente.

Infine, di sicuro interesse appare Sez. 1, n. 16683/2018, Pazzi, Rv. 649571-01, che occupandosi del limite oggettivo di fallibilità, introdotto dalla riforma del 2006 attraverso l’art. 15, comma 9, l. fall., ne ha chiarito la ratio, la quale risiede nell’esentare dal concorso fallimentare le crisi d’impresa di modeste dimensioni oggettive, e si configura alla stregua di una condizione per la declaratoria di fallimento e non già quale fatto impeditivo, sicché non è oggetto di un onere probatorio a carico del debitore attinto da una richiesta di fallimento, ex art. 2697, comma 2, c.c., dovendo il superamento del limite, piuttosto, essere riscontrato d’ufficio dal tribunale sulla base degli atti dell’istruttoria prefallimentare. Ne consegue che ogni incertezza in merito al ricorrere di detta condizione, ove non risolvibile alla stregua di tali atti, non nuoce al convenuto, escludendone la dichiarazione di fallimento.

1.2. Le società cancellate e l’estensione del fallimento.

Sez. 1, n. 20957/2018, Campese, Rv. 650229-01, ha ribadito che la previsione di cui all’art. 10 l. fall., per il quale una società cancellata dal registro delle imprese può essere dichiarata fallita entro l’anno dalla cancellazione, implica che il procedimento prefallimentare e le eventuali successive fasi impugnatorie continuano a svolgersi, per fictio iuris, nei confronti della società estinta, non perdendo quest’ultima, in ambito concorsuale, la propria capacità processuale: ne consegue che, in una fattispecie soggetta al testo dell’art. 15 l. fall. anteriore alla modifica apportata, al suo comma 3, dal d.l. n. 179 del 2012, conv., con modificazioni, dalla legge n. 221 del 2012, il ricorso per la dichiarazione di fallimento può essere validamente notificato alla società cancellata alla stregua di quanto sancito dall’art. 145, comma 1, c.p.c., in base al quale la notifica alla persona giuridica può avvenire, in alternativa alla sua esecuzione presso la sede, a norma degli artt. 138, 139 e 141 c.p.c., alla persona fisica che rappresenta l’ente. Se, però, l’udienza prefallimentare fissata per l’audizione del debitore sia rinviata d’ufficio, senza che risulti annotato sul ruolo d’udienza alcun provvedimento di rinvio, allo stesso deve essere data comunicazione della nuova udienza stabilita per l’audizione, dovendo ritenersi inapplicabile l’art. 82 disp. att. c.p.c. al procedimento camerale per la dichiarazione di fallimento, improntato a regole procedurali diverse dal rito ordinario di cognizione, cui non può essere assimilato in toto avendo proprie e specifiche caratteristiche tuttora improntate alla massima celerità e speditezza.

Ne consegue che se la nuova udienza, non comunicata al debitore, si tiene oltre l’anno dalla cancellazione della società dal registro delle imprese, il tribunale non può più pronunciare la dichiarazione di fallimento.

Sempre con riferimento all’art. 10 l. fall., ed in particolare al suo secondo comma, il termine annuale per la dichiarazione di fallimento dell’imprenditore individuale cancellato dal registro delle imprese decorre comunque dal compimento, nel periodo di riferimento, dell’ultima operazione intrinsecamente corrispondente a quelle poste normalmente in essere nell’esercizio dell’impresa. Gli elementi di fatto soggetti all’apprezzamento del giudice del merito non potranno essere oggetto del sindacato di legittimità della Suprema Corte, se quell’apprezzamento sia sorretto da sufficiente e congrua motivazione (Sez. 6-1, n. 10319/2018, Di Marzio M., Rv. 649103-01).

Sez. 1, n. 10793/2018, Vella, Rv. 648450-01, ha ritenuto che la previsione dell’art. 10 l. fall., in forza della quale gli imprenditori individuali e collettivi possono essere dichiarati falliti entro un anno dalla cancellazione dal registro delle imprese, non trova applicazione laddove la cancellazione di una società venga effettuata non a compimento del procedimento di liquidazione dell’ente o a seguito del verificarsi di altra situazione che implichi la cessazione dell’attività, ma in conseguenza del trasferimento all’estero della sede, e quindi sull’assunto che detta società continui l’esercizio dell’impresa, sia pure in un altro Stato, atteso che un siffatto trasferimento, almeno nelle ipotesi in cui la legge applicabile nella nuova sede concordi, sul punto, con i princìpi desumibili dalla legge italiana, non determina il venir meno della continuità giuridica della società trasferita, come è desumibile dal disposto degli artt. 2437, comma 1, lett. c), e 2473, comma 1, c.c.

In tema di rapporti tra l’estensione di fallimento al socio receduto e il principio della consecuzione delle procedure concorsuali, Sez. 6-1, n. 14069/2018, Terrusi, Rv. 649143-01, ha stabilito che il termine annuale entro cui il fallimento può essere esteso al socio illimitatamente responsabile, che sia receduto dalla società dopo la presentazione della proposta di concordato preventivo, dichiarata inammissibile, e prima della conseguente dichiarazione di fallimento, inizia a decorrere dalla data di scioglimento del rapporto sociale, e trova il suo limite finale nella data di estensione della dichiarazione del fallimento nei confronti del socio. L’estensione ai soci del fallimento della società, infatti, è istituto eccezionale, sicché non può operare il c.d. principio di consecuzione tra le procedure concorsuali.

Ancora, sempre in tema di estensione del fallimento ai soci, Sez. 1, n. 16984/2018, Fichera, Rv. 649676-01, ha precisato che, nella società in accomandita semplice, il socio accomandante che pone in essere atti propri della gestione sociale incorre, a norma dell’art. 2320 c.c., nella decadenza dalla limitazione di responsabilità, sicché, ai sensi dell’art. 147 l. fall., deve essergli esteso il fallimento. La decisione, pur collocandosi in un solco già tracciato da precedenti arresti della Corte, si segnala tuttavia perché conferma l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale l’accomandante che si ingerisce dell’amministrazione della società in accomandita viene equiparato, agli effetti del fallimento, ad un accomandatario.

1.3. Il procedimento.

Di sicuro interesse gli interventi della Corte in tema di iniziativa del P.M. per la dichiarazione di fallimento.

In particolare Sez. 1, n. 12010/2018, Campese, Rv. 649108-01, afferma che la rinuncia alla proposta di concordato preventivo, formulata dal debitore nel corso del procedimento di revoca del concordato medesimo, non determina di per sé, prima di una formale dichiarazione di improcedibilità ad opera del tribunale, la chiusura della procedura, sicché il P.M., che, a seguito della comunicazione ex art. 173 l. fall., partecipa ordinariamente al procedimento, nel rispetto del contraddittorio e del diritto di difesa delle altre parti, ben può rassegnare le proprie conclusioni che comprendono, oltre alla valutazione negativa della proposta concordataria, anche l’eventuale richiesta di fallimento in ragione della ritenuta insolvenza dell’imprenditore di cui sia venuto a conoscenza a seguito di tale partecipazione. La pronuncia ribadisce il principio poco prima espresso da Sez. 1, n. 06649/2018, Di Marzio, Rv. 647760-01, secondo cui alla richiesta di fallimento formulata dal P.M. a seguito della dichiarazione di improcedibilità della domanda di concordato preventivo per rinuncia del proponente, non si applica il disposto dell’art. 7 l. fall., in quanto la parte pubblica, una volta informata della proposta di concordato preventivo ai sensi dell’art. 161, comma 5, l. fall., partecipa ordinariamente al procedimento, rassegnando in udienza le proprie conclusioni orali, che possono comprendere anche l’eventuale richiesta di fallimento dell’imprenditore in ragione della sua ritenuta insolvenza, di cui ha avuta conoscenza per effetto di detta partecipazione. Il principio in parola, già sancito da Sez. 1, n. 09574/2017, De Chiara, Rv. 643731-01, è giunto, pertanto, ad ulteriore sedimentazione.

Giova sottolineare che il P.M. può rinvenire la sua legittimazione alla richiesta di fallimento, ai sensi dell’art. 7 l. fall., anche da una segnalazione del tribunale adito per la dichiarazione di fallimento, nel caso in cui il relativo procedimento non si concluda con una decisione nel merito. In tal caso, infatti, non sussisterebbe alcuna violazione del principio di terzietà del giudice, di cui all’art. 111 Cost., per il solo fatto che il tribunale sia chiamato una seconda volta a decidere sul fallimento dell’imprenditore (Cass., Sez. U, n. 09409/2013, Piccininni, Rv. 626429-01,).

Sempre in tema di legittimazione alla richiesta di fallimento, Sez. 1, n. 30542/2018, Dolmetta, Rv. 651881-01, ha affermato che, nel caso di revoca assembleare dell’amministratore di una società a responsabilità limitata, con contestuale nomina di un nuovo amministratore, spetta a quest’ultimo, e non già al primo, proporre istanza di fallimento in proprio ex art. 6 l. fall., nonostante che la nomina e la revoca non siano ancora state iscritte nel registro delle imprese. Tale approdo potrebbe entrare in frizione con l’art. 2475-bis c.c.: se, nonostante la pubblicazione delle limitazioni dei poteri di rappresentanza degli amministratori, queste non sono opponibili ai terzi che vengono in contatto con la società, se non si provi che essi abbiano intenzionalmente agito a danno della società, non si vede per quale motivo una limitazione (o una revoca) non ancora iscritta possa essere opposta ai fini della deduzione della assenza di legitimatio ad processum in capo all’amministratore revocato che abbia chiesto (ed ottenuto) la dichiarazione di fallimento. È vero che l’arresto in questione ha affermato che l’organo giudiziario adìto per la dichiarazione di fallimento non possa essere ritenuto “terzo”; ma è altrettanto indubitabile che così opinando si rischia di sottrarre al giudice il controllo sulla sussistenza della legitimatio ad processum, considerato che l’amministratore già revocato potrebbe avanzare istanza di autofallimento in nome della società da lui in precedenza rappresentata, limitandosi ad omettere di produrre la delibera della sua revoca dalla carica.

Sulla natura del procedimento per la dichiarazione di fallimento, si è ormai chiarito che esso non ha natura esecutiva, ma cognitiva, in quanto, prima della dichiarazione di fallimento, non può dirsi iniziata l’esecuzione collettiva, così come, prima del pignoramento, non può ritenersi cominciata l’esecuzione individuale. Ne consegue che può trovare conferma l’ormai consolidato orientamento della S.C., a tenore del quale il procedimento per la dichiarazione di fallimento non è soggetto alla sospensione dei procedimenti esecutivi prevista dall’art. 20, comma 4, della l. n. 44 del 1999 in favore delle vittime di richieste estorsive e dell’usura (Sez. 6-1, n. 29245/2018, Terrusi, Rv. 651502-01).

Il procedimento prefallimentare, inoltre, non ha caratteristiche impugnatorie, sicché il principio della ragionevole durata del processo, nel caso in cui nel termine assegnato dal giudice il ricorrente non effettui la notificazione del ricorso e del decreto, non ha il valore assoluto che riveste invece nelle sedi di gravame, dove la naturale aspirazione del provvedimento impugnato alla stabilizzazione dei suoi effetti determina la non concedibilità di un ulteriore termine per la notifica del ricorso alla parte che, senza addurre un impedimento assoluto, non abbia rispettato il termine ad essa assegnato dal giudice (Sez. 1, n. 30538/2018, Campese, Rv. 651803-01).

Sez. 1, n. 3083/2018, Terrusi, Rv. 646879-01, dal canto suo, ha ben delineato le differenze tra il procedimento prefallimentare e il processo di cognizione ordinaria, analizzandole con riferimento sia all’abbreviazione dei termini di comparizione del debitore, sia con riferimento, in generale, alla natura dell’istruttoria che il tribunale deve compiere ai fini della dichiarazione di fallimento.

Ebbene, con riferimento all’instaurazione del contraddittorio, la S.C. ha chiarito che, ai sensi dell’art. 15, comma 5, l. fall., la valutazione della ricorrenza delle particolari ragioni di urgenza che giustificano l’abbreviazione del termine di comparizione del debitore può essere compiuta anche d’ufficio dal presidente del tribunale, a differenza dell’art. 163-bis, comma 2, c.p.c., che richiede necessariamente l’istanza di parte.

La lettera della norma fallimentare troverebbe conforto, sul piano sostanziale, nell’interesse pubblicistico all’ordinata gestione dell’insolvenza dell’impresa secondo le regole della concorsualità, oltre che nella natura dell’istruttoria prefallimentare, non limitata alla verifica della fondatezza della domanda in un normale processo contenzioso tra parti contrapposte, in quanto idonea a dar luogo ad un accertamento costitutivo con efficacia “erga omnes”.

Quanto alle modalità di instaurazione del contraddittorio, sembra che la Corte abbia “depotenziato” la portata dell’art. 15, comma 3, l. fall., che prevede, nel caso di impossibilità o di mancato buon fine della notificazione del ricorso di fallimento al debitore a mezzo pec a cura della cancelleria, la notifica ad istanza del ricorrente eseguita di persona dall’ufficiale giudiziario presso la sede risultante dal registro delle imprese o, in caso di impossibilità, mediante il deposito dell’atto nella casa comunale dove ha sede la società.

Sez. 1, n. 16864/2018, Campese, Rv. 649541-01, infatti, nel caso di ricorso per la dichiarazione di fallimento di una società di persone, ha statuito che la notifica eseguita dall’ufficiale giudiziario a mezzo del servizio postale nei confronti del socio illimitatamente responsabile, nonché legale rappresentante della società, è ammissibile ex art. 145 c.p.c. (che richiama gli artt. 140 e 143 c.p.c.), e deve perciò ritenersi valida, nei riguardi tanto del socio che dell’ente da lui rappresentato, rilevando in tal senso, da un lato, l’idoneità della notifica in parola all’instaurazione del contraddittorio con la persona giuridica e, dall’altro, la connotazione non esclusiva, ma meramente alternativa, del procedimento notificatorio semplificato di cui all’art. 15, comma 3, l. fall., che non esclude, sussistendone i presupposti, l’impiego delle forme ordinarie.

Tuttavia, a ben vedere, la Corte regolatrice non ha affermato, in via di principio, la fungibilità tra la speciale notifica del ricorso di fallimento ai sensi dell’art. 15, comma 3, l. fall., e le altre forme di notificazione previste dal codice di rito, limitandosi ad affermare, anche in un’ottica di strumentalità delle forme e di conservazione degli atti processuali idonei al raggiungimento dello scopo, che: 1) la specialità della notifica prevista dall’art. 15, comma 3, l. fall. si riferisce agli imprenditori e non anche ai soci illimitatamente responsabili dei soggetti imprenditoriali costituiti in forma di società; 2) la notificazione secondo le ordinarie regole del c.p.c. eseguita a mezzo posta nei confronti del socio illimitatamente responsabile e legale rappresentante di società di persona è idonea sia ad instaurare il contraddittorio nei confronti di lui, sia ad instaurare il contraddittorio nei confronti della società, in quanto l’utilizzazione di una forma di notifica meno rapida di quella prevista dalla legge nei confronti del debitore (art. 15, comma 3, l. fall.) non esclude l’utilizzazione di una forma meno celere ma parimenti, se non maggiormente, garantista nei confronti dell’ente imprenditoriale collettivo.

Ancora con riguardo alle modalità di instaurazione del contraddittorio in tema di dichiarazione di fallimento, Sez. 1, n. 16365/2018, Campese, Rv. 649668-01, ha chiarito che la notifica telematica eseguita all’indirizzo pec dichiarato da una società si perfeziona in virtù dell’attestazione di avvenuta consegna alla formale intestataria, indipendentemente dalla circostanza che quell’indirizzo di posta elettronica sia stato, di fatto, reso disponibile a vantaggio di altra società.

La ricevuta di avvenuta consegna (RdAC) rilasciata dal gestore di posta elettronica certificata dal destinatario costituisce documento idoneo a dimostrare, fino a prova contraria, che il messaggio informatico è pervenuto nella casella di posta elettronica del destinatario, senza tuttavia assurgere a quella “certezza pubblica” propria degli atti facenti fede fino a querela di falso, atteso che, da un lato, atti dotati di siffatta speciale efficacia, incidendo sulle libertà costituzionali e sull’autonomia privata, costituiscono un numero chiuso e non sono suscettibili di estensione analogica e, dall’altro, l’art. 16 del d.m. n. 44 del 2011 si esprime in termini di opponibilità “ai terzi” ovvero di semplice “prova” dell’avvenuta consegna del messaggio, e ciò tanto più che le attestazioni rilasciate dal gestore del servizio di posta elettronica certificata, a differenza di quelle apposte sull’avviso di ricevimento dell’agente postale nelle notifiche a mezzo posta, aventi fede privilegiata, non si fondano su un’attività allo stesso delegata dall’ufficiale giudiziario (Sez. 1, n. 29732/2018, Caiazzo, Rv. 651485-01).

Ogni imprenditore, individuale o collettivo che sia, iscritto al registro delle imprese, è tenuto a dotarsi di un indirizzo di posta elettronica certificata ex art. 16 del d.l. n. 185 del 2008, conv., con mod., dalla legge n. 2 del 2009; come già chiarito dalla S.C., tale indirizzo costituisce l’indirizzo “pubblico informatico” che i predetti hanno l’obbligo di attivare, tenere operativo e rinnovare nel tempo sin dalla fase di iscrizione nel registro delle imprese, fino ai dodici mesi successivi alla eventuale cancellazione da esso (Sez. 1, n. 30532/2018, Di Virgilio, Rv. 651876-01).

Con riferimento al procedimento di notificazione di cui all’art. 15 l. fall. ed in particolare ai presupposti legittimanti la modalità di notifica mediante deposito del ricorso e del decreto presso la casa comunale, Sez. 1, n. 28803/2018, Campese, Rv. 651456-01, ha affermato che il presupposto dell’irreperibilità della società presso la sua sede legale può essere accertato dall’ufficiale giudiziario anche se in esito a precedenti notificazioni la stessa società sia stata ivi rinvenuta, purché il buon esito di precedenti procedimenti notificatori sia stata la conseguenza di circostanze “fortunate e non sempre ripetibili”. Nella specie, la S.C. ha ritenuto legittimo il deposito del ricorso di fallimento presso la casa comunale da parte dell’ufficiale giudiziario che aveva ritenuto irreperibile la società destinataria, la quale aveva indicato presso il registro delle imprese una sede legale coincidente con uno studio professionale, senza che sul citofono vi fosse alcuna indicazione della società.

In tema di effetti della sentenza di fallimento, Sez. 1, n. 01073/2018, Cristiano, Rv. 647333-01, ha precisato che gli effetti della sentenza di fallimento, la cui provvisoria esecutività, ai sensi dell’art. 16, comma 2, l. fall., non è suscettibile di sospensione, come statuito dall’art. 18, comma 3, l. fall., vengono meno solo con il passaggio in giudicato della decisione che, accogliendo il reclamo ex art. 18 l. fall., la revoca. La fattispecie ha riguardato una domanda di revocazione di un credito ammesso, dichiarata inammissibile da un tribunale sulla scorta del rilievo che la revoca del fallimento, disposta dalla Corte di appello in sede di accoglimento del reclamo, con la conseguente cessazione dell’ufficio del curatore, avesse determinato la chiusura, quanto meno virtuale, della procedura fallimentare, travolgendo anche gli esiti della verifica del passivo effettuata.

Il principio, in realtà, non è mai stato in contestazione (cfr. Sez. 1, n. 17191/2014, Di Virgilio, Rv. 632550-01).

1.4. I reclami avverso la sentenza di fallimento e il decreto di rigetto.

Con riferimento all’impugnazione della sentenza dichiarativa di fallimento e ai vizi deducibili tramite essa, Sez. 1, n. 01893/2018, Genovese, Rv. 646857-01, chiarisce che, nel caso di sentenza dichiarativa di fallimento che faccia seguito ad un provvedimento di inammissibilità della domanda di concordato, l’effetto devolutivo pieno che caratterizza il reclamo avverso tale sentenza riguarda anche la decisione sull’inammissibilità del concordato, sicché, ove il debitore abbia impugnato la declaratoria fallimentare, censurando, altresì, la sua mancata ammissione al concordato, il giudice adìto ai sensi degli artt. 18 e 162 l. fall., che dichiari la nullità della dichiarazione di fallimento, è tenuto a riesaminare le questioni concernenti l’ammissibilità della procedura concorsuale minore, avuto riguardo alla preferenza manifestata dall’ordinamento per le soluzioni concordate della crisi d’impresa e al coincidente interesse del reclamante a perseguirle.

L’arresto testé citato è coerente con il recente approdo della S.C. in merito ai rapporti tra concordato preventivo e giudizio prefallimentare; già Sez. U, n. 09146/2017, Nappi, Rv. 643777-01, aveva stabilito che la sopravvenuta dichiarazione di fallimento comporta l’inammissibilità delle impugnazioni autonomamente proponibili contro il diniego di omologazione del concordato preventivo e, comunque, l’improcedibilità del separato giudizio di omologazione in corso, perché l’eventuale giudizio di reclamo ex art. 18 l. fall. assorbe l’intera controversia relativa alla crisi dell’impresa, mentre il giudicato sul fallimento preclude in ogni caso il concordato.

La dichiarazione di fallimento, dunque, assorbe in sé ogni questione relativa all’inammissibilità, alla revoca e al diniego di omologazione del concordato. D’altronde, già Sez. U, n. 09935 del 2015, Di Amato, Rv. 646857-01, aveva chiarito i rapporti tra il procedimento di concordato preventivo e il processo per la dichiarazione di fallimento.

Sez. 1, n. 05907/2018, Fichera, Rv. 647437-01, ha evidenziato che, in caso di sentenza dichiarativa di fallimento, il reclamo, ai sensi dell’art. 18, comma 6, l. fall., nel testo novellato, prima, dal d.lgs. n. 5 del 2006 e poi dal d.lgs. n. 169 del 2007, deve essere notificato al curatore e alle altre parti che abbiano partecipato al giudizio innanzi al tribunale, prefigurando, in tal modo, un’ipotesi di litisconsorzio necessario, sicché, nel caso di mancata notifica del ricorso nei confronti di una di esse, la corte di appello deve disporre l’integrazione del contraddittorio ai sensi dell’art. 331 c.p.c. La violazione della richiamata norma da parte del giudice del reclamo comporta la cassazione, anche d’ufficio, della sentenza impugnata e la rimessione della causa al primo giudice, perché provveda all’integrazione del contraddittorio e alla rinnovazione del giudizio.

Sez. 1, n. 30107/2018, Terrusi, Rv. 651492-01, ha osservato che, ai sensi dell’art. 18 l. fall. “qualunque interessato” è legittimato ad impugnare la declaratoria in questione e, perciò, ogni soggetto che possa riceverne un pregiudizio specifico, di qualsiasi natura, anche solo morale, attesa la natura dichiarativa erga omnes della sentenza, la quale comporta l’esistenza di un interesse giuridicamente rilevante e non di mero fatto in capo a chi possa ottenere una qualche utilità giuridica semplicemente per effetto della sua rimozione. Nella specie, la Corte ha cassato con rinvio la sentenza della corte d’appello che aveva escluso la legittimazione dei lavoratori dipendenti di una società fallita a proporre reclamo avverso la sentenza di fallimento; e ciò avuto riguardo alla circostanza che già con l’apertura della procedura ai rapporti di lavoro subordinato in corso si applica l’art. 72 l. fall..

Dal canto suo, Sez. 6-1, n. 28096/2018, Dolmetta, Rv. 651497-01, ha rilevato che coloro che non sono stati parti del giudizio di reclamo avverso la sentenza dichiarativa del fallimento non sono legittimati a ricorrere per cassazione avverso la sentenza della corte d’appello confermativa della menzionata dichiarazione, atteso che la legittimazione a proporre impugnazione, o a resistere ad essa, spetta solo a chi abbia assunto la veste di parte nel giudizio di merito, né la specialità del reclamo fallimentare prevale sul sistema impugnatorio ordinario in materia di ricorso per cassazione. Nella specie, la Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto da alcuni dipendenti dell’impresa fallita che in qualità di creditori sarebbero dovuti intervenire ex art. 18, comma 9, l. fall. nel giudizio reclamo innanzi alla corte d’appello.

Di interesse, sul piano dei corollari della declinazione procedimentale che contrassegna il giudizio di reclamo in parola, è la puntualizzazione, espressa da Sez. 1, n. 09563/2018, Falabella, Rv. 648118-01, secondo cui, poiché la connotazione del procedimento ha natura contenziosa, per la liquidazione del compenso del legale si applicano gli onorari di cui ai paragrafi I, II, e IV della tabella A del d.m. n. 127 del 2004, ai sensi dell’art. 11, comma 2, del medesimo d.m., il quale, con riferimento ai procedimenti camerali, prevede l’applicabilità delle tariffe relative ai procedimenti contenziosi, qualora sorgano contestazioni il cui esame è devoluto al giudice di cognizione.

Sez. 6-1, n. 01073/2018, Cristiano, Rv. 647333-01, ha posto in rilievo che gli effetti della sentenza di fallimento – la cui provvisoria esecutività, disposta dall’art. 16, comma 2, l. fall., non è suscettibile di sospensione – vengono meno solo con il passaggio in giudicato della decisione che, accogliendo il reclamo ex art. 18 l. fall., la revoca.

A differenza della sentenza dichiarativa di fallimento, il provvedimento di rigetto dell’istanza di fallimento è privo di attitudine al giudicato, né è configurabile preclusione di sorta. Ne consegue che, dopo il rigetto della domanda, è possibile dichiarare il fallimento, ad istanza dello stesso creditore come di altri creditori, sulla base della medesima situazione dedotta nel procedimento conclusosi con il rigetto dell’istanza di fallimento, di fatti sopravvenuti e di fatti preesistenti ma non dedotti (Sez. 1, n. 16411/2018, Falabella, Rv. 649645-01).

Il citato arresto si pone sul solco consolidato della giurisprudenza di legittimità: già Sez. 1, n. 05069/2017, Terrusi, Rv. 644455-02, aveva ritenuto, proprio per la mancanza in capo al decreto di rigetto dell’istanza di fallimento, al pari di quello, reso in sede di reclamo, confermativo del rigetto reso in prime cure, di qualsiasi efficacia preclusiva, inammissibile il ricorso straordinario per cassazione proposto contro di esso, attesa la natura di provvedimento non definitivo né decisorio del decreto di rigetto.

2. Gli organi delle procedure concorsuali.

Numerose le pronunce che hanno riguardato, sotto varie sfaccettature, ruolo, compiti e prerogative degli organi concorsuali.

In tema di gratuito patrocinio, essenziale è giunta la precisazione contenuta in Sez. 1, n. 29747/2018, Dolmetta, Rv. 651490-01, in base alla quale, qualora il fallimento sia parte di un processo, è il curatore ad essere legittimato in via esclusiva a proporre l’istanza di ammissione al patrocinio a spese dello Stato, non potendo il giudice delegato procedere d’ufficio all’attestazione della mancata disponibilità del «denaro necessario per le spese» di cui all’art. 144 del d.lgs. n. 115 del 2002, atteso che, da un lato è al curatore che è assegnata in via esclusiva la gestione della procedura ex art. 31 l. fall., mentre dall’altro, a seguito della riforma del 2006, è mutata la funzione assegnata al g.d., passato da una posizione di sostanziale direzione della procedura a quella di mera vigilanza e controllo sulla regolarità della stessa.

In materia di impugnazioni, Sez. 1, n. 27123/2018, Dolmetta, Rv. 651308-01, ha puntualizzato che il termine di sessanta giorni per la proposizione del ricorso straordinario per cassazione, avverso i provvedimenti definitivi di contenuto decisorio adottati dal tribunale fallimentare, tra cui il decreto che pronuncia sul compenso dovuto al curatore, non decorre dalla data del deposito in cancelleria del decreto, bensì dalla data della comunicazione o notificazione d’ufficio dello stesso agli interessati, eseguita esclusivamente dall’organo competente, ossia dal cancelliere. Ne consegue che, in quanto funzionale alla individuazione del momento di decorrenza di un termine perentorio, essa non può trovare un equipollente nella conoscenza di fatto, aliunde acquisita, del provvedimento stesso, ad esempio perché comunicato dal curatore.

Un limitato ambito di legittimazione diretta del fallito alla proposizione dell’azione ex art. 38 l. fall. contro il curatore revocato è stato delineato da Sez. 2, n. 25687/2018, Scarpa, Rv. 650833-02, che detta legittimazione ha circoscritto al solo caso di ingiustificata inerzia del nuovo curatore, essendo di regola legittimata a tale azione solo la massa dei creditori. Nei confronti del curatore, anche non revocato, il fallito è, tuttavia, sempre legittimato a richiedere, per fatti illeciti che non incidano sul patrimonio fallimentare, il risarcimento dei danni ex art. 2043 c.c., il cui termine prescrizionale decorre dalla produzione del danno e non resta sospeso ai sensi dell’art. 2941 n. 6 c.c., poiché tale disposizione si riferisce a fattispecie di responsabilità nascente dall’amministrazione del patrimonio altrui, non applicabile al rapporto in questione non compreso nell’attività fallimentare. Nella specie, la Corte ha confermato la decisione della corte d’appello che, ritenuta improponibile l’azione ex art. 38 l. fall. da parte del fallito nei confronti del curatore revocato, non avendo ravvisato inerzia da parte del nuovo curatore – che aveva assunto tale decisione dopo avere valutato le risultanze di un parere legale – diversamente qualificando l’azione proposta quale domanda ex art. 2043 c.c., ne aveva dichiarato la prescrizione, ritenendo non applicabile alla specie l’ipotesi di sospensione prevista dall’art. 2941 n. 6 c.c..

Dei provvedimenti urgenti ex art. 25, comma 1, n. 2, l. fall. a tutela del patrimonio si è occupata Sez. 6-1, n. 17648/2018, De Chiara, Rv. 649525-01, la quale ha esplicitato che la facoltà del giudice delegato di adottarli implica il potere di emettere decreti di acquisizione alla procedura concorsuale di eventuali sopravvenienze attive, in possesso del fallito o del coniuge o di altri soggetti che non ne contestino la spettanza al fallimento, ma non anche di disporre l’acquisizione di beni o somme di un terzo dissenziente, che si pretendano dovute al fallimento. In tale seconda ipotesi, il provvedimento di acquisizione del giudice delegato deve ritenersi giuridicamente inesistente, per carenza assoluta del relativo potere, con la conseguenza che avverso il medesimo, non suscettibile di acquistare autorità di giudicato, non è esperibile il ricorso per cassazione, a norma dell’art. 111 Cost., restando in facoltà di qualsiasi interessato di farne valere, in ogni tempo ed in ogni sede, la radicale nullità ed inidoneità a produrre effetti giuridici.

Sulla regolazione delle ipotesi di successione fra curatori nella relativa carica si è soffermata Sez. 6-1, n. 16739/2018, Bisogni, Rv. 649546-01, chiarendo che il decreto di liquidazione degli emolumenti, spettanti a costoro, deve contenere l’enunciazione dei criteri di quantificazione e ripartizione del compenso, in relazione alle attività rispettivamente svolte ed ai risultati conseguiti. Nella specie, la Corte ha cassato con rinvio il decreto di liquidazione del compenso spettante a due curatori, succedutisi nella funzione, emesso dal tribunale senza l’indicazione dei criteri di calcolo adottati, nonchè privo di riferimento all’esame della documentazione rilevante nella procedura fallimentare, delle esplicazioni fornite dagli interessati e della eventuale relazione del giudice delegato.

Sempre in tema di liquidazione dei compensi in favore del curatore fallimentare ai sensi dell’art. 39 l. fall., Sez. 1, n. 14631/2018, Ceniccola, Rv. 648939-02, ha significativamente posto in risalto che non può ricomprendersi nel concetto di “attivo realizzato”, alla cui entità ragguagliare le percentuali previste dal d.m. n. 30 del 2012, il valore dell’immobile liquidato nella procedura esecutiva promossa dal creditore fondiario, a meno che il curatore non sia intervenuto nell’esecuzione svolgendo un’attività diretta a realizzare una concreta utilità per la massa dei creditori, anche mediante la distribuzione a questi ultimi di una parte del ricavato della vendita. Nella medesima pronuncia (Rv. 648939-01), si chiarisce che, in tema di liquidazione del compenso spettante al curatore del fallimento e di suddivisione della somma tra i soggetti succedutisi nella funzione, nel rispetto del principio del contraddittorio è necessaria la partecipazione al procedimento camerale di tutti coloro che hanno ricoperto l’incarico. Pertanto, nel caso in cui due o più curatori si siano avvicendati, occorre che, qualora dall’esame della memoria depositata dall’ultimo emergano elementi suscettibili di incidere negativamente sulla determinazione del compenso del precedente curatore, a quest’ultimo sia consentito il deposito di un’ulteriore memoria di replica.

Del compenso del commissario giudiziale di un concordato afferente ad una società partecipata dalla pubblica amministrazione, si cura di offrire utili coordinate Sez. 1, n. 01448/2018, Ceniccola, Rv. 646874-01, evidenziando che, nella relativa determinazione, in forza del rinvio operato dall’art. 165 l. fall., all’art. 39 l. fall. ed al d.m. n. 30 del 2012, non trova applicazione la disciplina pubblicistica limitativa dei compensi a carico delle finanze pubbliche che opera esclusivamente in relazione ai rapporti di lavoro subordinati o autonomi con le amministrazioni pubbliche.

Di interesse anche Sez. 6-1, n. 15958/2018, Terrusi, Rv. 649544-03, che ha riconosciuto in capo al tribunale ordinario, anziché a quello fallimentare, ai sensi dell’art. 24 l. fall., la competenza relativamente all’azione restitutoria ex art. 1526 c.c. conseguente alla risoluzione del contratto di leasing finanziario intervenuta prima della dichiarazione di fallimento e, in quanto tale, ricompresa tra quelle già esistenti nel patrimonio del fallito. Solo ove l’azione sia stata proposta a seguito di dichiarazione di scioglimento dal contratto operata dal curatore, ai sensi dell’art. 72 della stessa legge, essa deriva dal fallimento e non osta all’attrazione al foro fallimentare la circostanza che, sul piano sostanziale, il credito restitutorio, operando lo scioglimento con effetti “ex tunc”, abbia quale fatto costitutivo il venir meno del contratto “ab origine”.

Ancora in un quadro definitorio della competenza funzionale di cui al mentovato art. 24 l. fall., si iscrive Sez. 6-3, n. 15982/2018, Olivieri, Rv. 649507-01, nel mettere in luce che, in materia di procedure concorsuali, detta competenza inderogabile – che per le amministrazioni straordinarie si rinviene nella norma omologa di cui all’art. 13 del d.lgs. n. 270 del 1999 – opera con riferimento non solo alle controversie che traggono origine e fondamento dalla dichiarazione dello stato d’insolvenza, ma anche a quelle destinate ad incidere sulla procedura concorsuale in quanto l’accertamento del credito verso il fallito costituisca premessa di una pretesa nei confronti della massa. Nella specie, la Corte, non ravvisando la finalità recuperatoria del bene oggetto dell’atto dispositivo a vantaggio della massa dei creditori, ha escluso la competenza funzionale inderogabile del tribunale fallimentare in ordine alla causa di revocazione ordinaria proposta, ex art. 66 l. fall., dall’amministrazione straordinaria e riferita ad atto dispositivo – donazione – compiuto non dalla società poi dichiarata insolvente bensì dal debitore di essa, su bene proprio, in forza di obbligazione risarcitoria fondata su fatti commessi anteriormente alla dichiarazione di insolvenza.

Di rilievo anche la precisazione recata da Sez. 2, n. 10513/2018, Criscuolo, Rv. 648438-01, secondo cui il coadiutore della curatela fallimentare, nominato ai sensi del secondo comma dell’art. 32 legge fall., svolge prestazioni d’opera integrative dell’attività del curatore, in posizione subordinata rispetto a tale organo della procedura concorsuale; il curatore, pertanto, risponde a titolo di culpa in vigilando degli eventuali errori commessi dal coadiutore nell’espletamento delle attività affidategli. Nella specie, la Corte ha ritenuto sussistente la responsabilità della curatela per il mancato assolvimento da parte del tecnico incaricato della redazione dell’inventario degli obblighi di comunicazione in materia ambientale.

Di tratteggiare il piano complessivo entro cui gli organi concorsuali operano in ambito contrattuale si occupa altra interessante pronuncia. Sez. 1, n. 09017/2018, Pazzi, Rv. 648434-01, ha sottolineato che l’affittuario di azienda di impresa assoggettata a fallimento, che eserciti il diritto di prelazione ex art. 104-bis, quinto comma, c.c., non si trova, rispetto alle vicende della procedura, in una posizione di terzietà, tale da non subire l’incidenza delle offerte presentate secondo le modalità previste dall’art. 584 c.p.c. poiché, per effetto dell’esercizio del diritto di prelazione, egli subentra nella posizione dell’aggiudicatario, non essendo scindibili gli effetti favorevoli di tale sua posizione, quale l’aspettativa al trasferimento del bene, da quelli sfavorevoli, tra cui anche l’eventualità che un terzo presenti un’offerta in aumento.

2.1. I reclami endoconcorsuali.

Interessanti, per la prospettiva che veicolano, si mostrano alcune pronunce in tema di reclamo ex artt. 26 e 36 l. fall..

D’impatto è la considerazione svolta da Sez. 6-1, n. 11711/2018, Di Virgilio, Rv. 649104-01, secondo cui il decreto emesso dal tribunale, a seguito del reclamo avverso il provvedimento con il quale il giudice delegato autorizza il curatore al riscatto di polizze assicurative sulla vita già stipulate dal fallito, ha natura ordinatoria, essendo emesso in relazione all’esercizio della funzione di vigilanza e direzione, svolta dal giudice delegato all’interno della procedura, sull’amministrazione attiva cui è preposto il curatore; ne consegue che è inammissibile il ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 111 Cost., nei confronti del menzionato decreto, non incidendo esso, se non in modo indiretto e mediato, sui diritti dei terzi, suscettibili di lesione solo per effetto della condotta illegittima del curatore nei rapporti con i medesimi terzi. In precedenza, Sez. 6 - 1, n. 11217/2018, Terrusi, Rv. 648579-01, aveva posto in rilievo che il decreto con il quale il tribunale fallimentare provvede, ai sensi dell’art. 36 l. fall., sul reclamo avverso il decreto del giudice delegato adito contro gli atti di amministrazione del curatore non ha natura decisoria, in quanto non risolve una controversia su diritti soggettivi, ma rientra tra i provvedimenti di controllo circa l’utilizzo dei poteri di amministrazione del patrimonio del fallito da parte del curatore. Da ciò è tratta la conseguenza della non impugnabilità di detto provvedimento con il ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost.

Il recinto delle prerogative del Pubblico Ministero nel contesto dei reclami endofallimentari ex art. 26 l. fall. è disegnato da Sez. 1, n. 06093/2018, Fichera, Rv. 647755-01, secondo cui, poichè al di fuori delle ipotesi tassativamente previste dalla legge processuale la parte pubblica non ha potere di azione e tanto meno di impugnazione, deve negarsi la sua legittimazione ad impugnare mediante il reclamo endofallimentare un provvedimento del giudice delegato, in quanto l’art. 26 l. fall., che indica con precisione i soggetti che sono legittimati all’impugnazione, non la include. Nella specie, la Corte ha confermato la decisione con la quale il Tribunale aveva dichiarato l’inammissibilità del reclamo proposto dal Procuratore della Repubblica avverso un decreto con il quale il giudice delegato aveva autorizzato l’affitto dell’azienda fallita.

In tema di revocatorie fallimentari soggette al rito camerale, ai sensi dell’art. 24, comma 2, l. fall., nel testo novellato dal d.lgs. n. 5 del 2006, poi soppresso dal d.lgs. n. 169 del 2007, Sez. 1, n. 12972/2018, Falabella, Rv. 649154-01, ha ritenuto che l’art. 739 c.p.c., venendo a chiarire che il provvedimento emesso in camera di consiglio dal tribunale, se pronunciato in confronto di più parti, è reclamabile entro dieci giorni dalla notificazione, non deroga alla regola generale dettata dall’art. 326 c.p.c., con la conseguenza che anche il termine per proporre ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 111 Cost., avverso i decreti pronunciati in camera di consiglio, decorre dalla notificazione del provvedimento. A tal riguardo occorre che la notificazione sia eseguita ad istanza di parte, non essendo sufficiente che sia stata effettuata a cura della cancelleria del giudice, nel qual caso il ricorso per cassazione resta soggetto al termine ordinario di cui all’art. 327 c.p.c. Nella specie, la Corte ha disatteso l’eccezione avanzata da un fallimento, tesa a far constare la tardività del ricorso per cassazione, sul presupposto che il termine di proposizione decorresse dalla comunicazione di cancelleria del decreto di rigetto del reclamo ex art. 739 c.p.c., proposto da un istituto di credito, avverso il decreto di accoglimento della domanda di revocatoria avanzata dalla procedura concorsuale, ex art. 67, comma 2, l. fall., in relazione a rimesse bancarie eseguite su conto corrente intrattenuto dalla società fallita.

3. Le azioni di inefficacia in generale.

Com’è noto, a differenza della domanda revocatoria, nella prospettiva della declaratoria ex art. 64 l. fall., l’inefficacia dell’atto ha carattere necessario e oggettivo e opera automaticamente. Ne consegue che, dichiarata l’inefficacia, il debito restitutorio non corrisponde a un credito del fallito, ma della massa, con la conseguenza dell’inopponibilità in compensazione al fallimento, attore per la restituzione, di crediti nei confronti del fallito.

Ai sensi dell’art. 66 l. fall., il curatore può domandare che siano dichiarati inefficaci gli atti compiuti dal debitore in pregiudizio dei suoi creditori, secondo le norme del codice civile.

Al curatore spetta l’onere di provare in giudizio l’eventus damni, cioè l’effetto pregiudizievole dell’atto di cui si chiede la revoca.

Tale onere, infatti, non può gravare sul debitore, che, oltre a non avere legitimatio ad processum, non ha introdotto lui la causa; né può essere posto a carico del beneficiario dell’atto, in quanto, per le regole su cui si fonda la ripartizione in giudizio dell’onere della prova, i fatti costitutivi del diritto fatto valere in giudizio devono essere provati dall’attore (Sez. 3, n. 02336/2018, Graziosi, Rv. 647928-01; Cass., Sez. 1, n. 09565/2018, Falabella, Rv. 648449-01).

Peraltro, la dichiarazione di fallimento del debitore comporta dei mutamenti non solo nella titolarità della legitimatio ad processum, in quanto in luogo del debitore sta in giudizio il curatore, ex art. 43, comma 1, l. fall., ma anche della legitimatio ad causam, in quanto il curatore, dopo la dichiarazione di fallimento, subentra al creditore nel potere di agire in revocatoria secondo gli artt. 2901 e ss. c.c..

Già Sez. 1, n. 29112/2017, Mercolino, Rv. 646485-01, aveva statuito che il sopravvenuto fallimento del debitore non determina l’improcedibilità dell’azione revocatoria ordinaria promossa dal singolo creditore qualora il curatore non manifesti la volontà di subentrarvi, né risulti aver intrapreso, con riguardo al medesimo atto di disposizione già impugnato ex art. 2901 c.c., altra analoga azione a norma dell’art. 66 l. fall..

D’altra parte, nel caso di accoglimento di un’azione revocatoria ordinaria promossa dal singolo creditore nei confronti del debitore poi fallito, al quale in corso di causa sia subentrato il curatore ex art. 66 l. fall., la refusione delle spese processuali spetta anche al creditore che sia rimasto in giudizio sino alla sentenza definitiva emessa nei confronti del fallimento, atteso che non costituisce forma di soccombenza, né la sopravvenuta improcedibilità della sua domanda in ragione del subentro del curatore (in quanto evento non attribuibile all’originario attore, che aveva fondatamente incardinato il giudizio), né la sua mancata estromissione da parte del giudice (che avrebbe comunque dovuto comportare una refusione delle spese fino ad allora sostenute). In tal caso, tuttavia, la liquidazione delle spese a favore del singolo creditore deve essere correlata al periodo antecedente alla sopravvenuta improcedibilità della domanda che era stata da lui proposta (Sez. 3, n. 21013/2018, Graziosi, Rv. 650185-01).

In sostanza, dunque, la legitimatio ad causam del singolo creditore con riferimento all’azione revocatoria ordinaria, nei confronti del debitore fallito, permane solo a condizione che il curatore si disinteressi dell’azione perché non la ritenga funzionale agli interessi della procedura; per converso, nel caso in cui il curatore intervenga nel processo di revocatoria ordinaria in corso, iniziato dal creditore, egli implicitamente lo accetta nello stato in cui si trova al momento del suo intervento e ha l’onere di coltivarlo, divenendo così l’unico titolato all’esercizio dell’azione.

Ne consegue che, in caso di accoglimento della domanda di revocatoria ordinaria, anche se al creditore “rimasto” formalmente nel giudizio non vanno rimborsate le spese da parte del convenuto soccombente (terzo beneficiario dell’atto revocato), tuttavia il giudice, in base al principio della soccombenza, deve condannare il soccombente al rimborso delle spese nei confronti del creditore originario attore in relazione all’attività processuale da lui compiuta fino all’intervento del curatore.

L’azione del curatore ex art. 66 l. fall. si identifica, dunque, in quella che i creditori avrebbero potuto esperire prima della dichiarazione di fallimento, sicché, per un verso, la prescrizione decorre anche nei confronti della curatela, ai sensi dell’art. 2903 c.c., dalla data dell’atto impugnato e, per altro verso, l’interruzione della prescrizione, ad opera di uno dei creditori a mezzo della notificazione della domanda giudiziale introduttiva del giudizio nel quale sia subentrato il curatore, giova alla massa fallimentare (Sez. 6-3, n. 17544/2018, Dell’Utri, Rv. 649659-01).

Sez. U, n. 30416/2018, Genovese, Rv. 651808-01, chiamata a pronunciarsi su una questione di massima di particolare importanza, ha affermato che non è ammissibile un’azione revocatoria – non solo fallimentare, ma anche ordinaria –, nei confronti di un fallimento, stante il principio di cristallizzazione del passivo alla data di apertura del concorso ed il carattere costitutivo delle dette azioni. Il patrimonio del fallito, infatti, è insensibile alle pretese di soggetti che vantino diritti formatisi in epoca posteriore alla dichiarazione di fallimento e, dunque, poiché l’effetto giuridico favorevole all’attore si produce solo a seguito della sentenza di accoglimento, tale effetto non può essere invocato contro la massa dei creditori ove l’azione sia stata esperita dopo l’apertura della procedura stessa.

Com’è noto, una delle cause più frequenti di perdita da parte del curatore della legittimazione processuale con riferimento alle azioni revocatorie in corso, è l’omologazione del concordato fallimentare con assunzione.

Infatti, se la relativa proposta contempli la cessione delle azioni revocatorie, la perdita della legitimatio ad causam del curatore si verifica solo con l’emissione del decreto previsto dall’art. 136 l. fall., non determinandosi peraltro l’interruzione del processo sino a quando tale evento non sia stato dichiarato o notificato ai sensi dell’art. 300 c.p.c. (Sez. 1, n. 15793/2018, Campese, Rv. 649473-01).

Altro arresto ha ritenuto, invece, che sia l’omologazione del concordato fallimentare a produrre l’improponibilità o l’improseguibilità delle azioni revocatorie promosse dalla curatela ai sensi degli artt. 64 e 67 l. fall., a condizione che il presupposto dell’impedimento all’esercizio o alla prosecuzione delle stesse sia dichiarato nel processo e reso operativo attraverso lo strumento processuale dell’interruzione ex art. 300 c.p.c., ovvero attraverso la produzione in giudizio dei documenti attestanti l’intervenuta omologazione del concordato (Sez. 1, n. 15012/2018, Terrusi, Rv. 649555-01).

Non si tratta, a ben vedere, di un contrasto, ma di una specificazione doverosa compiuta dall’ordinanza n. 15793/2018: l’omologazione del concordato fallimentare è certamente l’atto conclusivo del procedimento di concordato, ed esso costituisce il presupposto per la successiva consequenziale chiusura del fallimento; ma è solo con la cessazione del curatore dal suo ufficio, connessa al decreto di chiusura del fallimento, che si determina quella perdita di legitimatio ad causam che poi determina a sua volta, secondo i meccanismi processuali previsti dal codice di rito civile, l’interruzione del processo.

Per quanto riguarda, infine, i requisiti delle domande di inefficacia, Sez. 6-1, n. 09610/2018, Ferro, Rv. 648278-01, ha escluso che sia affetta da nullità per indeterminatezza dell’oggetto o della causa petendi, ai sensi degli artt. 163, comma 3, nn. 3 e 4, e 164, comma 4, c.p.c., la citazione con cui si chiede la revoca di pagamenti costituiti da rimesse in conto corrente bancario, benché priva dell’indicazione dei singoli versamenti solutori, qualora siano specificamente indicati i conti correnti e la domanda si riferisca a tutte le rimesse operate su quei conti in un determinato periodo di tempo, con indicazione anche dell’importo globale delle stesse, essendo sufficientemente specificati gli elementi idonei a consentire alla banca l’individuazione delle domande contro di essa proposte.

Infine, va ricordato che nell’ambito dell’attività recuperatoria di attivo fallimentare posta in essere dal curatore, si assiste spesso all’esercizio congiunto dell’azione revocatoria e dell’azione di simulazione. Al riguardo Sez. 1, n. 15077/2018, Terrusi, Rv. 649568-01, chiarisce opportunamente che l’azione di simulazione (assoluta o relativa) e quella revocatoria, pur diverse per contenuto e finalità, possono essere proposte entrambe nello stesso giudizio in forma alternativa tra loro o, anche, eventualmente in via subordinata l’una all’altra, senza che la possibilità di esercizio dell’una precluda la proposizione dell’altra.

3.1. Le revocatorie fallimentari: i presupposti.

È noto che nell’ambito della disciplina delle azioni revocatorie relative agli effetti del fallimento sugli atti pregiudizievoli ai creditori, l’art. 69-bis, comma 2, l. fall., come introdotto dal d.l. n. 83 del 2012, conv. con modif. dalla l. n. 134 del 2012, prevede che nel caso in cui alla domanda di concordato preventivo segua la dichiarazione di fallimento, il c.d. “periodo sospetto” decorre dalla data di pubblicazione della domanda di concordato nel registro delle imprese.

In tema, Sez. 1, n. 09290/2018, Dolmetta, Rv. 648445-01, ha affermato che, nel caso in cui, dopo la revoca dell’ammissione del debitore al concordato preventivo, si frapponga un intervallo di tempo prima della sua dichiarazione di fallimento, non è esclusa la consecuzione delle procedure concorsuali e, quindi, la retrodatazione del termine iniziale del periodo sospetto al momento del deposito della domanda di ammissione (rectius dalla sua pubblicazione, stando al tenore letterale dell’art. 69-bis, comma 2, l. fall.), purché si tratti di un intervallo di tempo non irragionevole, tale cioè da non costituire esso stesso elemento dimostrativo dell’intervenuta variazione dei presupposti delle due procedure.

Sez. 1, n. 18728/2018, Ceniccola, Rv. 649582-01, ha chiarito invece che qualora la sentenza dichiarativa dello stato di insolvenza sia successiva al provvedimento amministrativo che dispone la liquidazione coatta, il “periodo sospetto” ai fini dell’esercizio dell’azione revocatoria fallimentare decorre (a ritroso) necessariamente dalla data del provvedimento amministrativo, perché è in relazione a tale momento che viene accertato – ancorché con sentenza successiva – lo stato di insolvenza.

Fuori dal tema della consecuzione delle procedure, Sez. 1, n. 18729/2018, Ceniccola, Rv. 649583-01, ha affermato che, poiché gli effetti del decreto di apertura del concordato preventivo retroagiscono alla data di presentazione della domanda di ammissione alla procedura, in caso di successivo fallimento, i pagamenti eseguiti dall’imprenditore dopo il deposito della domanda di ammissione al concordato, ma prima del decreto di apertura della procedura, sono inefficaci ai sensi dell’art. 167 l. fall. e non sono soggetti a revocatoria.

Tale arresto si fonda su Sez. 1, n. 22601/2017, Terrusi, Rv. 645521-01.

È tuttavia lecito dubitare che lo strumento giuridico di cui il curatore può disporre per far dichiarare l’inefficacia dei pagamenti di debiti anteriori al decreto di apertura del concordato, avvenuti successivamente al deposito della detta domanda, sia l’azione dichiarativa dell’inefficacia dei detti pagamenti avvenuti in violazione della regola della par condicio, ai sensi del combinato disposto degli artt. 167 e 168 l. fall., anziché la revocatoria fallimentare.

L’inefficacia di cui discorre il comma 2 dell’art. 167 l. fall., infatti, è prevista riguardo ai creditori anteriori al concordato, non ai creditori anteriori alla dichiarazione di fallimento, ed è funzionale a rendere gli atti ivi previsti inopponibili ai creditori anteriori alla domanda di concordato, non a quelli (potenzialmente diversi e più numerosi) anteriori alla successiva dichiarazione di fallimento.

Inoltre, il sistema emergente dalla legge fallimentare autorizza a ritenere che nei casi in cui il debitore sia autorizzato (ad esempio, ex art. 182-quinquies, comma 5, l. fall.) a pagare debiti anteriori alla domanda di concordato, l’eccezione prevista a tutela dei creditori è l’esenzione dalla revocatoria di cui all’art. 67 l. fall.; sicché, in mancanza di tale autorizzazione, sopravvenuto il fallimento, si riespanderà la regola della revocabilità dei pagamenti effettuati nel periodo sospetto, computato ovviamente ai sensi del richiamato art. 69-bis, comma 2, l. fall..

Sez. 1, n. 15495/2018, Vella, Rv. 649446-01, ha puntualizzato che i pagamenti effettuati in seno al concordato preventivo sono ripetibili nella successiva procedura fallimentare se abbiano violato il principio della par condicio creditorum, allorché emergano crediti di grado uguale o poziore nella procedura fallimentare, secondo una valutazione da parametrare ai canoni del soddisfacimento concordatario avuto riguardo, in primo luogo, alle regole fissate dal decreto di omologazione e, per gli aspetti ivi eventualmente non disciplinati, alle regole legali, prime fra tutte quelle riguardanti il rispetto dell’ordine delle cause di prelazione. Nella specie, la Corte ha cassato con rinvio la sentenza che, senza verificare la violazione del principio della par condicio creditorum, aveva ritenuto ripetibile il pagamento effettuato durante la vigenza di un concordato preventivo sorto anteriormente all’entrata in vigore del d.l. n. 35 del 2005, conv. con modif., dalla l. n. 80 del 2005.

Con riferimento al disposto di cui all’art. 69 l. fall., nella sua formulazione originaria della legge del ’42 – che disciplinava espressamente la sorte degli atti negoziali compiuti tra coniugi – Sez. 1, n. 14681/2018, Pazzi, Rv. 649123-01, precisa come il presupposto dell’effettivo esercizio di un’impresa commerciale all’epoca del compimento dell’atto della cui inefficacia si tratti, non poteva essere desunto dal possesso in capo al fallito, all’epoca, della qualità di socio illimitatamente responsabile, dovendo essere oggetto di specifica prova da parte del curatore.

Quanto al momento rilevante della conoscenza dello stato d’insolvenza, Sez. 1, n. 14001/2018, Ferro, Rv. 649166-01, ha affermato che l’elemento soggettivo della scientia decoctionis non è necessario che preesista all’atto revocabile, dovendo, piuttosto, essere concomitante alla sua realizzazione, in quanto è da tale momento che l’operazione depauperativa, producendo il proprio effetto, fonda l’esigenza di ripristino della par condicio creditorum alterata.

D’altronde, Sez. 1, n. 3081/2018, Ceniccola, Rv. 646870-01, ha ribadito, sempre in tema di elemento soggettivo, che la scientia decoctions in capo al terzo, come effettiva conoscenza dello stato d’insolvenza, è oggetto di apprezzamento del giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità se correttamente motivato, potendo egli formarsi il relativo convincimento anche attraverso il ricorso alle presunzioni, alla luce del parametro della comune prudenza ed avvedutezza e della normale ed ordinaria diligenza, con rilevanza peculiare della condizione professionale dell’ “accipiens” e del contesto nel quale gli atti solutori sono realizzati.

Dalla stessa struttura dell’art. 67 l. fall., che prevede, ai fini dell’azione revocatoria fallimentare, dei periodi sospetti calibrati in base a diverse tipologie negoziali variamente idonee ad incidere negativamente sul patrimonio del debitore successivamente fallito, Sez. 1, n. 06575/2018, Cristiano, Rv. 647758-01, ha argomentato che lo stato di insolvenza di quest’ultimo anteriore alla dichiarazione di fallimento, nell’ambito dell’estensione temporale dei periodi sospetti, sia oggetto di una presunzione iuris et de iure derivante dalla stessa apertura della procedura concorsuale, sicché il giudice di merito, ai fini della prova in questione, deve soltanto verificare se, nei periodi rilevanti e con riguardo al tempo degli atti revocandi, si siano manifestati all’esterno i sintomi del dissesto e come tali siano stati percepiti dall’accipens.

3.2. La revocatoria dei pagamenti.

La S.C. si è occupata ancora una volta dell’individuazione del soggetto passivo dell’azione revocatoria fallimentare nel caso di cessione dell’azienda bancaria, statuendo che, in caso di revocatoria di rimesse su conto corrente, la legittimazione ad essere convenuta in giudizio spetta alla banca cessionaria nel caso in cui risulti che con l’azienda bancaria siano state trasferite tutte le attività e tutte le passività aziendali, e dunque anche i debiti futuri derivanti dall’azione revocatoria, in quanto obbligazioni ad oggetto determinabile, visto che all’atto della convenzione di cessione erano identificabili gli eventuali debiti, risultanti dalla contabilità, in relazione ai pagamenti eseguiti dai debitori poi falliti (Sez. 1, n. 13308/2018, Pazzi, Rv. 649161-01).

Ancora, in tema di legittimazione passiva nella revocatoria fallimentare di pagamenti, Sez. 1, n. 03086/2018, Campese, Rv. 646880-01, ha affermato che, in tema di contratti bancari, il “bonifico” (ossia l’incarico del terzo dato alla banca di accreditare al cliente correntista la somma oggetto della provvista) costituisce un ordine (delegazione) di pagamento che la banca delegata, se accetta, si impegna ad eseguire verso il delegante; da tale accettazione non discende, dunque, un’autonoma obbligazione della banca verso il correntista delegatario, trovando lo sviluppo ulteriore dell’operazione la sua causa nel contratto di conto corrente di corrispondenza che implica un mandato generale conferito alla banca dal correntista ad eseguire e ricevere pagamenti per conto del cliente, con autorizzazione a far affluire nel conto le somme così acquisite in esecuzione del mandato.

Ne deriva che, secondo il meccanismo proprio del conto corrente, la banca, facendo affluire nel conto passivo il pagamento ricevuto dall’ordinante, non esaurisce il proprio ruolo in quello di mero strumento di pagamento del terzo, ma diventa l’effettiva beneficiaria del pagamento della rimessa, con l’effetto ad essa imputabile (se l’accredito intervenga nell’anno precedente la dichiarazione di fallimento, ricorrendo il requisito soggettivo della revocatoria fallimentare) di avere alterato la par condicio creditorum.

Quanto alla natura “solutoria” di una rimessa effettuata su un conto corrente scoperto, Sez. 1, n. 13287/2018, Terrusi, Rv. 648902-01, ha chiarito che essa è sempre revocabile, anche se la somma provenga da un negozio di finanziamento concluso con la stessa banca allo scopo di ripianare lo scoperto di quel conto, in quanto la funzione solutoria non è nella fonte della provvista utilizzata, ma nella sua concreta destinazione.

Sez. 6-1, n. 24137/2018, Dolmetta, Rv. 650609-01, ha stabilito che le “date valuta” risultanti dagli estratti conto bancari non sono idonee a provare il tempo in cui le relative operazioni sono state realmente effettuate sul conto, né a conferire data certa alle stesse, essendo nella prassi bancaria utilizzate dette date in maniera convenzionale per postergare il tempo di effettuazione dei versamenti ed antergare quello dei prelievi.

Sez. 1, n. 06575/2018, Cristiano, Rv. 647758-02, ha affrontato il tema assai frequente nella prassi giudiziaria concernente la revocabilità dei versamenti affluiti sui cc.dd. “conti anticipi”, chiarendo che questi ultimi non hanno natura solutoria e non sono revocabili, costituendo essi una mera evidenza contabile dei finanziamenti per anticipazioni su crediti concessi dalla banca al cliente, ove vengono annotati in “dare” le anticipazioni erogate al correntista e in “avere” l’esito positivo della riscossione del credito, sottostante agli effetti commerciali presentati dal cliente. Il rapporto tra banca e cliente viene invece rappresentato esclusivamente dal saldo del conto corrente ordinario, ove affluiscono tutte le somme portate dai titoli, dalle ricevute bancarie o dalle carte commerciali presentate per l’incasso, che sono oggetto di revocatoria nei limiti in cui abbiano contribuito a ridurre lo scoperto del conto medesimo.

L’obbligazione restitutoria dell’accipiens, soccombente in seguito all’esperimento di un’azione revocatoria fallimentare, ha natura di debito di valuta e non di valore, in quanto l’atto posto in essere dal fallito è originariamente lecito e la sua inefficacia sopravviene solo in esito alla sentenza di accoglimento della domanda, che ha natura costitutiva, avendo ad oggetto un diritto potestativo e non un diritto di credito. Ne consegue che anche gli interessi sulla somma da restituirsi decorrono dalla data della domanda giudiziale, attesi gli effetti conservativi e prenotativi da questa prodotti, e che il risarcimento del maggior danno, conseguente al ritardo con cui sia stata restituita la somma di denaro oggetto della revocatoria, spetta solo ove l’attore lo alleghi e dimostri di averlo subìto (Sez. 1, n. 12850/2018, Pazzi, Rv. 648782-01).

Tra le obbligazioni restitutorie che sorgono come conseguenza all’accoglimento della domanda revocatoria fallimentare vi sono quelle del mandante relative a somme versate dal mandatario in esecuzione del mandato, in periodo sospetto.

Invero, benché l’art. 1705, comma 2 e l’art. 1706, comma 1, c.c. stabiliscano che, anche nel caso di mandato senza rappresentanza, il mandante è l’esclusivo titolare dei diritti di credito che sorgono dagli atti compiuti dal mandatario in esecuzione del mandato, oltre che il proprietario dei beni mobili acquistati per suo conto dal mandatario, tuttavia, una volta che il mandatario abbia riscosso i crediti pecuniari, sorge per il mandante non un diritto di rivendicare le somme, ma pur sempre un diritto di credito, sicché l’incasso di queste somme nel periodo sospetto, in presenza della conoscenza dello stato di insolvenza del mandatario debitore, può dar luogo ad una fondata azione di revoca da parte del curatore del fallimento del mandatario nei confronti del mandante accipiens (Sez. 6-1, n. 03047/2018, Di Marzio M., Rv. 647339-01).

L’esercizio dell’azione revocatoria fallimentare dei pagamenti presuppone che la solutio sia effettuata con mezzi rivenienti dal patrimonio del debitore successivamente fallito, o comunque con versamenti di denaro che, seppure indirettamente, abbiano un effetto depauperativo sul patrimonio del debitore (come nel caso di pagamento effettuato dal delegato debitore del delegante al delegatario creditore del delegante, idoneo ad incidere sia sul rapporto di provvista, estinguendo il debito del delegato verso il delegante, sia il rapporto di valuta, estinguendo il debito del delegante verso il delegatario).

In coerenza con tale principio, Sez. 1, n. 15082/2018, Campese, Rv. 649570-01, ha stabilito che, in tema di revocatoria fallimentare, non costituisce pagamento del terzo ma adempimento diretto del debitore (come tale revocabile nel concorso di tutti i necessari presupposti) il pagamento eseguito mediante l’invio, fatto da quest’ultimo al proprio creditore, di un assegno bancario tratto da un terzo, consegnato e trasferito al debitore poi dichiarato insolvente, il quale, divenutone titolare, ha legittimamente esercitato i diritti incorporati nel titolo.

Sempre in caso di emissione di assegno bancario in pagamento, Sez. 1, n. 02821/2018, Terrusi, Rv. 646868-01, ha ritenuto che il curatore del primo prenditore, già fallito al momento dell’emissione, può proporre sia l’azione di inefficacia ex art. 44, comma 2, l. fall. nei confronti dell’emittente, che non resta liberato a seguito del pagamento inefficace, sia l’azione di inefficacia, ex art. 44, comma 1, l. fall., nei confronti del terzo giratario del medesimo assegno, quale destinatario del pagamento posto in essere dal fallito e, quindi, inefficace rispetto ai creditori.

Sez. 1, n. 16565/2018, Campese, Rv. 649536-01, ha stabilito che la rimessa in conto corrente bancario effettuata con denaro proveniente dalla vendita di un bene costituito in pegno, ormai consolidatosi in favore della banca, è revocabile, ai sensi dell’art. 67 l. fall., non assumendo alcun rilievo la circostanza che il ricavato della vendita sia destinato a soddisfare un credito privilegiato, in quanto l’eventus damni deve considerarsi in re ipsa, consistendo nella lesione della par condicio creditorum ricollegabile all’uscita del bene dalla massa in forza dell’atto dispositivo, e non potendosi escludere a priori il pregiudizio delle ragioni di altri creditori privilegiati, insinuati in seguito al passivo.

Deve notarsi che la revocabilità del pagamento di un creditore pignoratizio avvenuto nel periodo sospetto pur dopo la legittima escussione del pegno consolidatosi prima del fallimento trova la sua giustificazione anche alla stregua degli artt. 111-bis e 111-ter l. fall.: il necessario assoggettamento del creditore al concorso fallimentare consentirebbe di fare in modo che anche il ricavato della vendita del bene costituito in pegno partecipi, in proporzione, alle spese della procedura fallimentare: così Sez. 6-1, n. 11652/2018, Terrusi, Rv. 648585-01, con riferimento alla revoca della vendita di beni ipotecati allo scopo di destinare il ricavato al pagamento dei creditori ipotecari.

La restituzione al venditore di merci acquistate e non ancora pagate, eseguita dal compratore al fine di estinguere ogni pregresso rapporto, costituisce una datio in solutum qualificabile come mezzo anormale di pagamento, ai sensi dell’art. 67, comma 1, n. 2, l. fall., con la conseguenza che incombe sul convenuto l’onere di provare la mancata conoscenza dello stato di insolvenza del solvens (Sez. 6-1, n. 03673/2018, Terrusi, Rv. 647884-01).

L’interesse della richiamata pronuncia emerge laddove essa esclude che la fattispecie possa essere inquadrata nella risoluzione consensuale con effetti retroattivi della compravendita di beni mobili, anziché come pagamento traslativo, e dunque anomalo mezzo di estinzione di un’obbligazione pecuniaria.

Tuttavia, occorre anche considerare che, quand’anche si voglia qualificare la fattispecie come risoluzione consensuale di un contratto di compravendita già stipulato, i suoi effetti non possono pregiudicare i diritti dei creditori concorsuali, tutelabili dal curatore, e tra questi rientra anche il diritto potestativo di ottenere la revoca della risoluzione quale mezzo estintivo, a titolo oneroso in quanto ottenuta con la restituzione di beni già entrati nel patrimonio del compratore, di una pregressa obbligazione pecuniaria.

Sempre in tema di mezzi anormali di pagamento, Sez. 1, n. 04202/2018, Ferro, Rv. 648106-01, ha ritenuto revocabile la rimessa conseguente alla concessione di un mutuo ipotecario destinato a ripianare uno scoperto di conto corrente, laddove il mutuo ipotecario e il successivo impiego della somma siano inquadrabili in un’operazione unitaria posta in essere in funzione dell’azzeramento della preesistente esposizione debitoria del mutuatario. Il curatore, pertanto, ricorrendone i presupposti, può impugnare l’intera operazione per farne dichiarare l’inefficacia, in quanto diretta, per un verso, a estinguere con mezzi anormali le precedenti obbligazioni gravanti sul beneficiario delle somme mutuate e, per altro verso, a costituire una garanzia per i debiti preesistenti, in quanto l’utilità per la banca consiste non nell’operazione in sé considerata del mutuo fondiario, ma nel suo impiego come fattore ristrutturativo di una esposizione debitoria in parte diversa. La causa sostanzialmente rafforzativa della pregressa esposizione debitoria deve essere precipuamente dimostrata dal curatore che agisce in giudizio.

Tuttavia, in una particolare fattispecie di somministrazione, Sez. 1, n. 14002/2018, Pazzi, Rv. 649167-01, ha affermato che la cessione di credito, se effettuata in funzione solutoria di un debito scaduto ed esigibile, si caratterizza come anomala rispetto al pagamento effettuato in denaro o con titoli di credito equivalenti, in quanto il relativo processo satisfattorio non è usuale, alla stregua delle ordinarie transazioni commerciali, tanto da sottrarsi alla revocabilità solo qualora il meccanismo estintivo tramite cessione sia stato previsto come mezzo di estinzione contestuale al sorgere del debito della cui estinzione si tratta. Orbene, se le parti pattuiscano ab origine, nell’ambito di un rapporto di durata, specifiche modalità di pagamento che prevedano il ricorso generalizzato alla cessione in parola, è alle regole di tale accordo contrattuale a monte e alle modalità seguite in concreto, che il giudice deve aver riguardo per apprezzare se l’accipiens sia stato effettivamente in grado di rendersi conto di un adempimento sintomatico del dissesto del debitore.

Il terzo comma dell’art. 67 l. fall. disciplina le cause di esenzione dalla revocatoria fallimentare; tra queste, com’è noto, non è contemplato l’aver contrattato con una impresa esercente in regime di monopolio legale. Sui rapporti tra revocatoria e monopolista legale, si era registrata in passato una certa fibrillazione all’interno della giurisprudenza della S.C.: mentre con Sez. U, n. 11350/1998, Finocchiaro, Rv. 520586-01, si era espressa per la incompatibilità, e dunque per la esenzione del monopolista dall’azione revocatoria fallimentare, seguita anche da altre successive pronunce delle sezioni semplici, con Sez. U, n. 01232/2004, Graziadei, Rv. 569633-01, si pronunciò a favore della compatibilità tra la revocatoria e il monopolio legale.

Sez. 1, n. 03085/2018, Campese, Rv. 647232-01, in assoluta continuità con il cennato ultimo arresto delle S.U., ha ritenuto che l’applicabilità alle imprese che operano in regime di monopolio delle disposizioni dettate a presidio del sinallagma nell’esecuzione dei contratti a prestazioni corrispettive comporta che il pagamento del debito liquido ed esigibile, ricevuto dal monopolista nell’anno anteriore alla dichiarazione di fallimento dell’utente con la consapevolezza del suo stato d’insolvenza, sia soggetto alla revocatoria di cui all’art. 67, comma 2, l. fall., non trovandosi il monopolista in una situazione differenziata rispetto agli altri creditori; ciò ad eccezione delle ipotesi nelle quali la prestazione sia obbligatoria, non potendo in tali casi l’impresa sottrarsi all’adempimento, neppure nella fase esecutiva del rapporto, ed essendo quindi la stessa priva del potere di scelta e di altra eventuale tutela rispetto al rischio di insolvenza della controparte.

Sul rapporto tra impresa esercente in regime di monopolio legale e revocatoria, successivamente Sez. 1, n. 10117/2018, Vella, Rv. 648895-01, ha assunto una posizione più rigida, statuendo che in favore di un imprenditore che somministri beni o presti servizi in regime di monopolio legale trovano applicazione, in assenza di espressa deroga, non solo l’art. 1460 c.c., sull’eccezione di inadempimento, ma anche l’art. 1461 c.c., sulla facoltà di sospendere la esecuzione della prestazione dovuta quando sussista un evidente pericolo di non ricevere il corrispettivo in ragione delle condizioni patrimoniali dell’altro contraente, trattandosi di previsioni compatibili con l’obbligo, posto dall’art. 2597 c.c., di contrattare e di osservare parità di trattamento. L’applicazione delle norme dettate a tutela del sinallagma, dunque, comporta che il pagamento del debito liquido ed esigibile, ricevuto dal monopolista nell’anno che precede la dichiarazione di fallimento del somministrato o dell’utente, con la consapevolezza del suo stato di insolvenza, resta soggetto alla revocatoria di cui all’art. 67, comma 2, l. fall., non trovandosi il monopolista in una situazione differenziata rispetto agli altri creditori, e difettando di conseguenza i presupposti per cogliere nell’art. 2597 c.c. una implicita previsione di esenzione dalla revocatoria stessa.

Altra questione, infine, che si è posta all’attenzione della Suprema Corte, è la natura del credito che sorge dopo il positivo esperimento dell’azione revocatoria fallimentare di pagamenti.

In particolare, Sez. 6-1, n. 24627/2018, Dolmetta, Rv. 650612-01, ha ritenuto che, in caso di condanna del creditore pignoratizio, che abbia escusso la garanzia incamerando il ricavato della vendita dei titoli ottenuti in pegno, a restituire l’importo, lo stesso ha diritto ad insinuarsi al passivo solo in via chirografaria nella misura del pagamento revocato, senza che possa rivivere l’originaria garanzia, dal momento che il credito che può essere insinuato ai sensi dell’art. 70, comma 2, l. fall., non è quello originario, ma un credito nuovo che nasce dall’effettiva restituzione e trova fonte direttamente nella legge.

In realtà, sembra che l’effettiva ratio decidendi dell’esclusione della garanzia del credito che sorge dopo il vittorioso esperimento dell’azione revocatoria da parte del fallimento non sia nella diversità della fonte del credito (convenzionale, nel caso del credito originario assistito da pegno; legale, nel caso del credito che nasce dopo il fruttuoso esercizio della revocatoria), ma nella circostanza dirimente che, una volta escussa la garanzia pignoratizia e soddisfatto il credito originario, quella garanzia specifica, sebbene dotata della caratteristica della rotatività, su quei beni determinati, benché fungibili, non esiste più essendo stato estinto, tramite la loro vendita, il credito cui la garanzia accedeva; sicché se si volesse dotare il credito nascente dal vittorioso esperimento dell’azione revocatoria della stessa garanzia che assisteva il credito originario, non di riviviscenza della stessa si dovrebbe parlare, quanto di costituzione di nuova garanzia.

4. I rapporti pendenti.

Di considerevole importanza alcune delucidazioni specifiche nella materia eterogenea dei rapporti pendenti.

La connotazione “regolatrice” delle norme sulla trascrizione è messa in risalto da Sez. 1, n. 29459/2018, Caiazzo, Rv. 651459-01, ove si evidenzia che, ai fini dell’opponibilità, nei confronti del fallimento del venditore, dell’acquisto di un bene mobile iscritto nel pubblico registro automobilistico, non è sufficiente che la trascrizione della vendita sia stata richiesta prima della dichiarazione di fallimento, essendo invece necessario che l’atto di vendita sia stato trascritto nel pubblico registro prima della data di dichiarazione del fallimento, trovando applicazione il principio fissato dall’art. 45 della legge fallimentare. Di analoga impostazione, pur nell’ambito delle vendite immobiliari, si mostra Sez. 6-1, n. 22419/2018, Scaldaferri, Rv. 650474-01, nel rilevare che l’opponibilità al fallimento del venditore di un contratto di cessione immobiliare presuppone la trascrizione del contratto stesso in data antecedente alla dichiarazione di fallimento, la cui prova può essere fornita esclusivamente a mezzo della produzione in giudizio, in originale o in copia conforme, della nota di trascrizione, in quanto solo le indicazioni in essa riportate consentono di individuare, senza possibilità di equivoci, gli elementi essenziali del negozio.

Sez. 6-1, n. 28533/2018, Mercolino, Rv. 651499-02, illustra che la clausola compromissoria contenuta nello statuto di un consorzio dichiarato fallito è applicabile ai giudizi iniziati dal curatore per far valere diritti preesistenti alla procedura concorsuale, a differenza di quanto accade per l’azione di responsabilità proposta dallo stesso curatore verso gli amministratori del consorzio, trattandosi di azione volta alla reintegrazione del patrimonio sociale nell’interesse dei soci e dei creditori per i quali la clausola non può operare trattandosi di soggetti terzi rispetto alla società. Nella specie, la Corte ha confermato la decisione del tribunale che aveva declinato la propria competenza in favore dell’arbitro in quanto il curatore aveva fatto valere, nei confronti di alcuni enti consorziati, il diritto al pagamento di una somma di denaro preesistente alla data della dichiarazione di fallimento.

Del tema ricorrente, nel contesto concorsuale, del leasing traslativo si è occupata Sez. 6-1, n. 15975/2018, Terrusi, Rv. 649693-01, secondo la quale l’azione ordinaria di risoluzione del contratto promossa dal locatore, per inadempimento dell’utilizzatore assoggettato a concordato preventivo, è disciplinata dall’art. 1526 c.c.; deve essere esclusa, pertanto, l’applicazione analogica dell’art. 72 quater l. fall., che ha natura di norma eccezionale e non riguarda la risoluzione del contratto di leasing bensì il suo scioglimento quale conseguenza del fallimento dell’utilizzatore.

Ancora nella medesima cornice si colloca Sez. 1, n. 13687/2018, Falabella, Rv. 648784-01, la quale ha considerato che il curatore fallimentare del promittente venditore di un immobile non può sciogliersi dal contratto preliminare ai sensi dell’art. 72 l. fall. con effetto verso il promissario acquirente, se quest’ultimo abbia trascritto prima del fallimento la domanda ex art. 2932 c.c. e successivamente anche la sentenza di accoglimento della stessa, in quanto, a norma dell’art. 2652, n. 2, c.c., detta trascrizione prevale sull’iscrizione della sentenza di fallimento nel registro delle imprese. Tuttavia, come precisato da Sez. 6-1, n. 11365/2018, Ferro, Rv. 649063-01, il curatore del fallimento del promittente venditore può nondimeno esercitare la facoltà di scelta ex art. 72 l. fall. allorché, pur essendo stata la sentenza di fallimento trascritta dopo la trascrizione della domanda ex art. 2932 c.c., quest’ultima sia stata preceduta dalla trascrizione del pignoramento sull’immobile, in quanto le azioni esecutive individuali pendenti al momento della sentenza dichiarativa di fallimento sono assorbite dalla procedura concorsuale, ma gli effetti anche sostanziali degli atti già compiuti che non siano incompatibili con il sistema dell’esecuzione fallimentare, tra i quali anche il vincolo d’indisponibilità dei beni derivante dal pignoramento, restano salvi in favore della massa dei creditori.

Sez. 1, n. 00836/2018, Ferro, Rv. 646797-01, ha esposto che nella vendita con riserva di proprietà in corso al momento della dichiarazione di fallimento del compratore, il venditore può richiedere la restituzione della cosa nell’ipotesi di scioglimento del contratto, quando ancora il curatore non si sia avvalso della facoltà di subentrare nel rapporto negoziale, oppure può proseguire l’azione di risoluzione già intrapresa nei confronti dell’acquirente successivamente fallito; non può, invece, dopo la dichiarazione di fallimento e ove il curatore si sia avvalso della facoltà di subentrare nel contratto in corso, chiedere la risoluzione dello stesso – ancorché fondata su clausola risolutiva espressa – per il pregresso inadempimento del fallito, perché il fallimento determina la destinazione del patrimonio di quest’ultimo al soddisfacimento paritario di tutti i creditori, con l’effetto che la pronunzia di risoluzione non può produrre gli effetti restitutori e risarcitori suoi propri, i quali sarebbero lesivi della par condicio creditorum.

Il tema problematico dei rapporti di lavoro nel contesto fallimentare è stato affrontato da Sez. 1, n. 13693/2018, Campese, Rv. 648785-01, la quale ha posto in risalto che, fallito il datore di lavoro, salvo che sia autorizzato l’esercizio provvisorio, il rapporto lavorativo entra in una fase di sospensione, sicché il lavoratore non ha diritto di insinuarsi al passivo per le retribuzioni spettanti nel periodo compreso tra l’apertura del fallimento e la data in cui il curatore abbia effettuato la dichiarazione ex art. 72, comma 2, l. fall., in quanto il diritto alla retribuzione non sorge in ragione dell’esistenza e del protrarsi del rapporto di lavoro ma presuppone, in conseguenza della natura sinallagmatica del contratto, la corrispettività delle prestazioni. Nel medesimo orizzonte di vedute, Sez. L, n. 00522/2018, Amendola, Rv. 647371-01, ha affermato che, in caso di fallimento del datore di lavoro, ove consti esercizio provvisorio di impresa, il rapporto di lavoro attraversa detta fase di sospensione, con conseguente venir meno dell’obbligo di corrispondere la retribuzione in difetto dell’esecuzione della prestazione lavorativa, sino a quando il curatore non decida la prosecuzione o lo scioglimento del rapporto ex art. 72 l. fall., ratione temporis applicabile, nell’esercizio di una facoltà comunque sottoposta al rispetto delle norme limitative dei licenziamenti individuali e collettivi; ne deriva che, qualora sia accertata la illegittimità del licenziamento intimato dal curatore, il lavoratore ha diritto all’ammissione al passivo fallimentare per il credito risarcitorio che ne consegue, corrispondente alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quella della reintegra.

Infine, secondo Sez. 1, n. 08503/2018, Di Marzio M., Rv. 648116-01, quando la dichiarazione di fallimento sia intervenuta a seguito di revoca del concordato preventivo per occultamento della reale entità del debito dichiarato nella proposta concordataria ed avente a oggetto un contratto di leasing (scioltosi con il fallimento del debitore) garantito da fideiussione, il computo del debito effettivo del fideiussore deve essere commisurato a quello del debitore garantito e la sua determinazione deve avvenire applicando i parametri previsti dall’art. 72-quater l. fall..

5. La formazione dello stato passivo.

L’art. 52, comma 1, l. fall. dispone che il fallimento apre il concorso dei creditori sul patrimonio del fallito; per poter partecipare al concorso fallimentare, dunque, l’istante deve essere titolare di un credito già esistente al tempo della dichiarazione di fallimento.

Di assoluto rilievo in tema appare Sez. L, n. 16443/2018, Lorito, Rv. 649397-01, che si è pronunciata sull’annosa questione della ripartizione tra giudice del lavoro e giudice del concorso, della cognizione sulle domande di un lavoratore tese all’impugnazione di un licenziamento disciplinare e alle condanne reintegratorie e risarcitorie nei confronti del datore di lavoro.

Dopo aver precisato che il problema investe non il profilo della competenza del tribunale ex art. 24 l. fall., quanto piuttosto il principio di esclusività che vuole che il giudice dell’ammissione al passivo sia l’unico a poter stabilire, salvo eccezioni tassative (nella fattispecie non rilevanti), quali soggetti e per quali crediti siano titolati a partecipare al concorso, la Suprema Corte ha stabilito che quando la tutela richiesta in giudizio è funzionale al mantenimento di una posizione all’interno dell’impresa, e non limitata alla sollecitazione di una cognizione solo strumentale all’ottenimento di un diritto patrimoniale (indennizzo, risarcimento), la competenza a decidere è del giudice del lavoro.

Con riferimento alla domanda risarcitoria consequenziale a quella di impugnazione del licenziamento e di reintegrazione nel posto di lavoro, invece, nel nuovo regime di tutela introdotto dalla cd. “legge Fornero” (art. 1, comma 42, l. n. 92 del 2012, che ha novellato il testo dell’art. 18 l. n. 300 del 1970), la Corte ha evidenziato che la sanzione pecuniaria applicabile non è più, come nel “vecchio” regime, automatica e predeterminata per ogni ipotesi di violazione del rapporto di lavoro da parte del datore, bensì soggetta ad un’applicazione “selettiva” a seconda del tipo di violazione accertata nell’ambito del rapporto di lavoro, nonché commisurata a parametri e ad indici che solo il giudice del rapporto di lavoro potrebbe adeguatamente conoscere e ponderare.

Ne consegue che anche la richiesta di indennizzo o di risarcimento deve essere conosciuta dal giudice del lavoro, con la pronuncia di una sentenza non di condanna, bensì di accertamento, considerato che il giudice del concorso è l’unico ad avere la competenza a conoscere i crediti da ammettere al passivo della procedura concorsuale.

Tuttavia, il lavoratore potrebbe presentare al giudice del concorso una domanda di ammissione con riserva, come se avesse ad oggetto un credito condizionale, ai sensi dell’art. 55, comma 3, l. fall., allo scopo di partecipare al riparto mediante accantonamento.

Tranne ipotesi particolari, come quella appena ricordata, la competenza funzionale del giudice delegato, con riferimento all’accertamento dei crediti pecuniari da far valere nel concorso, è pressoché illimitata, ed in alcune fattispecie tale accertamento può anche assumere la natura di una pronuncia determinativo-costitutiva.

Così Sez. 1, n. 11962/2018, Nazzicone, Rv. 648457-01, ha statuito che in materia di insinuazione allo stato passivo dei crediti derivanti da un contratto di leasing che sia stato risolto prima della dichiarazione di fallimento, rientra nei poteri del giudice delegato, ai sensi degli artt. 25, comma 1, n. 8, e 92 e ss. l. fall., provvedere alla determinazione dell’equo compenso per l’uso della cosa ex art. 1526, comma 1, c.c.

Sez. 1, n. 04510/2018, Fichera, Rv. 647430-01, ha stabilito che, in sede di accertamento dello stato passivo, la revoca dei contributi pubblici in favore di un’impresa, disposta dall’amministrazione a causa della dichiarazione di fallimento, ha natura di mero accertamento del venir meno di una delle condizioni per la permanenza del beneficio stesso, sicché detta revoca resta opponibile alla massa anche se intervenuta dopo la pubblicazione della sentenza di fallimento.

Nell’ambito di una procedura di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, ma con ragionamento estensibile a tutte le procedure concorsuali, Sez. 1, n. 11966/2018, Fichera, Rv. 648458-01, ha statuito che l’atto di costituzione in mora proveniente dal creditore è inefficace, sia se diretto nei confronti dell’impresa già ammessa alla procedura, sia se indirizzato al suo commissario straordinario. La prima, infatti, ai sensi dell’art. 49 del d.lgs. n. 270 del 1999, che richiama l’art. 44 l. fall., non può eseguire pagamenti; il secondo, dal canto suo, non ha la libera disponibilità dei diritti e degli obblighi dell’impresa in pendenza di procedura, sicché solo la domanda di insinuazione al passivo è atto idoneo a determinare l’interruzione della prescrizione del credito.

Con riferimento precipuo alla procedura fallimentare, del resto, l’inettitudine dell’atto di costituzione in mora sia nei confronti del fallito che nei confronti del curatore non crea vuoti di tutela per il creditore, in quanto con la sentenza dichiarativa di fallimento è fissata l’udienza di verifica dei crediti dinanzi al giudice delegato e quindi, sin dalla dichiarazione di fallimento, il creditore è messo nella possibilità di presentare istanza per l’ammissione al passivo, determinando in tal modo l’interruzione del corso della prescrizione.

Sez. 3, n. 9638/2018, Cirillo, Rv. 648427-01, ha aggiunto che la presentazione dell’istanza di insinuazione al passivo fallimentare, equiparabile alla domanda giudiziale, determina, ai sensi dell’art. 2945, comma 2, c.c., l’interruzione della prescrizione del credito, con effetti permanenti fino alla chiusura della procedura concorsuale, anche nei confronti del fideiussore fallito, ex art. 1310, comma 1, c.c..

Valorizzando la sfera di competenza funzionale del giudice delegato, in tema di verifica del passivo, ad accertare i crediti da ammettere al concorso, Sez. 1, n. 09010/2018, Ceniccola, Rv. 648255-01, con riferimento all’azione esperita dal promissario acquirente ex art. 2932 c.c., ha escluso che essa diventi improcedibile a seguito della dichiarazione di fallimento del promittente venditore. Tale azione, infatti, non ha ad oggetto il soddisfacimento diretto ed immediato di un credito pecuniario, ed inoltre, malgrado il tenore appartenente alla rubrica della disposizione e la sua collocazione all’interno di una sedes materiae dedicata all’esecuzione forzata, si differenzia dalle azioni esecutive individuali, sicché non può configurarsi alcun profilo di inammissibilità originaria della domanda o di improcedibilità successiva della stessa ai sensi degli artt. 51 e 52 l. fall..

Con riferimento all’azione di rivendica immobiliare, anch’essa proponibile sub specie di istanza di ammissione al passivo ai sensi dell’art. 93 l. fall., Sez. 1, n. 01190/2018, Terrusi, Rv. 647228-01, ha precisato che essa presuppone che la vendita sia opponibile al fallimento del venditore, richiedendosi a tal fine che l’atto abbia data certa e che le formalità necessarie a renderlo opponibile ai terzi, cioè la trascrizione, siano state compiute, ex art. 45 l. fall., in data anteriore all’apertura del fallimento, sicché il procedimento de quo non può essere instaurato, ai sensi degli artt. 93 e 103 l. fall., in dichiarata pendenza del giudizio ordinario di accertamento dell’autenticità delle sottoscrizioni della scrittura privata di vendita, in quanto, fino al suo positivo esaurimento, e fino alla trascrizione dell’atto, difetta il presupposto cui associare il titolo di legittimazione nei confronti del fallimento.

In particolare, la Corte ha escluso che il giudice delegato possa essere competente ad accertare incidenter tantum l’autenticità delle sottoscrizioni della scrittura privata di compravendita, in quanto l’autenticità è un accertamento pregiudiziale all’azione di rivendica spiegata con l’istanza di ammissione al passivo, il cui esito è opponibile alla massa nei limiti in cui la domanda, introduttiva di uno specifico giudizio di cognizione ordinaria, sia stata trascritta in data anteriore alla dichiarazione di fallimento.

A tal proposito, in tema di beni mobili registrati, è stato chiarito che la sola trascrizione dell’atto di acquisto nel PRA ne determina l’opponibilità al fallimento, a nulla rilevando il deposito della richiesta di trascrizione in data anteriore alla dichiarazione di fallimento (Sez. 1, n. 29459/2018, Caiazzo, Rv. 651459-01).

Ancora in tema di domande di rivendicazione, ma con specifico riferimento ai beni mobili, Sez. 1, n. 01891/2018, Acierno, Rv. 646856-01, ha chiarito che il requisito di ammissibilità dell’istanza di rivendicazione di beni mobili richiede che le cose mobili oggetto dell’istanza siano determinate nella loro specifica e precisa individualità, perché, con riferimento alle cose fungibili, lo strumento tipizzato dal legislatore è l’istanza di ammissione al passivo di un credito e non l’istanza di rivendicazione.

Altro tema sensibile con riferimento all’ammissione al passivo fallimentare è l’individuazione della causa non imputabile che rende ammissibili le domande tardive e la ripartizione dell’onere probatorio tra il creditore istante e il curatore.

A tal proposito Sez. 1, n. 16103/2018, Campese, Rv. 649477-01, ha precisato che il mancato avviso al creditore da parte del curatore, previsto dall’art. 101, ultimo comma, l. fall., integra sì una causa non imputabile del ritardo da parte del creditore, ma il curatore ha facoltà di provare, ai fini dell’ammissibilità della domanda, che il creditore abbia avuto notizia del fallimento indipendentemente dalla ricezione dell’avviso predetto, ed il relativo giudizio implica un accertamento di fatto rimesso alla valutazione del giudice di merito che, se congruamente e logicamente motivato, sfugge al sindacato di legittimità. Nella fattispecie, la Corte ha ritenuto che l’intervento di un creditore fondiario in un processo di espropriazione immobiliare contro un debitore, poi fallito, nel quale era intervenuto anche il curatore, lo avesse messo in condizione di conoscere, tramite il suo difensore, l’apertura della procedura fallimentare con il conseguente onere di depositare tempestivamente la domanda di ammissione al passivo.

In tema di domande cd. ultratardive, Sez. 1, n. 01179/2018, Cristiano, Rv. 646852-01, ha avuto modo di chiarire che il decorso dell’anno di cui all’art. 101 l. fall., al fine di ritenere inammissibili (appunto, per “ultratardività”) le domande di ammissione al passivo di un fallimento, deve essere computato a partire dal dì della dichiarazione di esecutività dello stato passivo emessa a chiusura dell’esame di tutte le domande tempestivamente depositate, anche se esso non si concluda in una sola udienza.

Il procedimento di ammissione al passivo può essere condizionato, nei suoi esiti, da iniziative giudiziarie intraprese dal debitore fallito.

Si tratta, quest’ultima, di un’affermazione che può apparire dissonante rispetto al chiaro tenore dell’art. 43 l. fall., che al comma 1 dispone che: «Nelle controversie, anche in corso, relative a rapporti di diritto patrimoniale del fallito compresi nel fallimento sta in giudizio il curatore».

Tuttavia, tale affermazione è coerente con il principio di derivazione giurisprudenziale in base al quale la capacità processuale del fallito, anche in relazione a rapporti di diritto patrimoniale, si riespande nel caso in cui il curatore abbia fatto una valutazione di non convenienza rispetto a quella determinata azione giudiziale.

Così Sez. 2, n. 31313/2018, Scarpa, Rv. 651601-03, ha ritenuto che quando è in giudizio il curatore e il suo potere di impugnazione sia stato oggetto di uno specifico esame e di determinazione in sede fallimentare, non è concepibile che il fallito conservi per lo stesso rapporto la legittimazione ad impugnare, dato che il curatore sta in giudizio sia per la massa dei creditori, sia per il fallito, e il suo comportamento processuale vincola l’uno e l’altro.

Il difetto di legittimazione ad impugnare una sentenza in capo al fallito è rilevabile d’ufficio dal giudice dell’impugnazione.

Simmetricamente, nel campo delle pretese tributarie, Sez. 1, n. 12854/2018, Pazzi, Rv. 648887-01, ha affermato che il contribuente fallito è legittimato ad impugnare l’accertamento tributario, nell’inerzia degli organi fallimentari, e, nel caso di esito favorevole dell’azione promossa, il curatore può eccepire il relativo giudicato, limitando in tal modo la pretesa del concessionario, insinuatosi al passivo per il recupero dell’intero credito contestato, che dovrà essere ammesso al passivo nei limiti della minor somma accertata in via definitiva in sede contenziosa.

Specularmente, Sez. T, n. 28707/2018, Nonno, Rv. 651274-01, sostiene che il curatore fallimentare non ha interesse ad impugnare la cartella di pagamento, notificata al fallito e non a lui, riguardante tributi dovuti in epoca antecedente alla dichiarazione di fallimento, ove la cartella non sia stata preceduta dalla notifica, anche nei confronti del curatore, dell’atto impositivo che ne costituisce il presupposto. In vero, non essendo la cartella opponibile alla curatela fallimentare, egli può sempre far valere l’inefficacia relativa davanti al GD o al tribunale fallimentare in sede di accertamento del passivo.

Con riferimento, poi, ai crediti previdenziali, Sez. 1, n. 11954/2018, Pazzi, Rv. 648930-01, ha precisato che nel caso in cui la cartella di pagamento sia notificata al curatore e i termini per l’impugnazione di cui all’art. 24, comma 5, del d.lgs. n. 46 del 1999 non siano ancora scaduti alla data della dichiarazione di fallimento, così come, del resto, nel caso in cui la cartella di pagamento sia notificata al curatore dopo la dichiarazione di fallimento, la pretesa creditoria deve essere ammessa al passivo, ex art. 87 del d.P.R. n. 602 del 1973, sulla base del solo ruolo, essendo il concessionario tenuto ad aggiungere ulteriori documenti giustificativi solo nel caso in cui il curatore, in sede di accertamento concorsuale, contesti l’esistenza del credito cui il ruolo si riferisce.

Sempre in tema di crediti previdenziali, Sez. 1, n. 29195/2018, Vella, Rv. 651458-01, ha affermato che nel caso di impugnazione di una cartella portante crediti previdenziali, l’agente della riscossione non è esonerato dal proporre, tempestivamente o tardivamente, la domanda di ammissione al passivo del fallimento del contribuente, visto che nella descritta fattispecie non opera il meccanismo dell’ammissione con riserva previsto per i crediti tributari dagli artt. 88 e 90, comma 2, del d.P.R. n. 602 del 1973, bensì le altre distinte ipotesi di ammissione condizionata di cui all’art. 96 l. fall..

Con riferimento all’ammissione al passivo con riserva, di cui all’art. 96 l. fall., Sez. 6-1, n. 11362/2018, Terrusi, Rv. 648583-01, in consonanza con un suo precedente arresto del 2010 (Sez. 1, n. 26041/2010, Mercolino, Rv. 615853-01), ha stabilito che la disposizione del comma 2, n. 3, secondo la quale «sono ammessi al passivo con riserva i crediti accertati con sentenza del giudice ordinario o speciale non passata in giudicato, pronunciata prima della dichiarazione di fallimento», deve essere interpretata estensivamente, in modo da ricomprendere anche i crediti oggetto di accertamento negativo da parte di una sentenza non passata in giudicato e pronunciata prima della dichiarazione di fallimento.

Ne consegue che se il fallimento del debitore viene dichiarato dopo la pronuncia di una sentenza che rigetta, totalmente o parzialmente, una domanda di condanna ad una prestazione pecuniaria spiegata da un creditore, il credito fatto valere in via ordinaria deve essere, su istanza del creditore, ammesso al passivo con riserva, in attesa che il processo ordinario si chiuda con una sentenza passata in giudicato.

Sez. 1, n. 6258/2018, Ceniccola, Rv. 647757-01, d’altro canto, ha escluso che l’ambito applicativo dell’ammissione con riserva, disegnato dall’art. 96, comma 3, n. 3, l. fall., ricomprenda anche il credito risultante da una sentenza passata in giudicato ma oggetto di un giudizio di revocazione, potendosi in tal caso porre rimedio, in ipotesi di caducazione della sentenza, mediante lo strumento della revocazione del credito ammesso, di cui all’art. 98, comma 4, l. fall., allo scopo di ottenere la corrispondente modifica dello stato passivo.

5.1. Le prove documentali.

Con riguardo all’efficacia probatoria dei documenti depositati nell’ambito del procedimento di ammissione al passivo, Sez. 1, n. 11197/2018, Pazzi, Rv. 648453-01, afferma che l’elenco dei creditori previsto dall’art. 161, comma 2, lett. b), l. fall., che sia stato depositato dall’imprenditore unitamente alla domanda di concordato preventivo, non può assumere valore confessorio nel successivo fallimento, in quanto gli effetti di una dichiarazione avente valore di confessione stragiudiziale si producono se e nei limiti in cui essa sia fatta valere nella controversia in cui siano parti, anche in senso processuale, gli stessi soggetti, rispettivamente, autore e destinatario della dichiarazione.

Tuttavia, i dati evincibili da quell’elenco possono assumere il valore di indizi idonei a corroborare altri elementi prodotti dal soggetto che intende insinuarsi al passivo del fallimento assumendo di essere creditore.

Con riferimento, poi, al valore probatorio dell’estratto conto bancario, sempre in tema di accertamento del passivo, Sez. 1, n. 22208/2018, Pazzi, Rv. 650403-01, ha ribadito il suo orientamento secondo cui la banca, ove prospetti una ragione di credito verso il fallito derivante da un rapporto obbligatorio regolato in conto corrente, chiedendone l’ammissione al passivo, ha l’onere, nel giudizio di opposizione allo stato passivo, di dare piena prova del suo credito, assolvendo al relativo onere secondo il disposto della norma di cui all’art. 2697 c.c. attraverso la documentazione relativa allo svolgimento del conto, senza poter pretendere di opporre al curatore, stante la sua posizione di terzo, gli effetti che, ai sensi dell’art. 1832 c.c., derivano, ma soltanto tra le parti del contratto, dall’approvazione anche tacita del conto da parte del correntista, poi fallito, e dalla di lui decadenza dalle impugnazioni (cfr. già Sez. 1, n. 01543/2006, Celentano, Rv. 586587-01). Tuttavia, la Corte ha anche precisato che ciò non significa che, in ambito di insinuazione al passivo, l’estratto conto debba essere considerato in via generalizzata come privo di qualsiasi valore probatorio.

Fermo restando, infatti, che il creditore, per soddisfare l’onere della prova a suo carico, deve produrre, innanzitutto, la documentazione relativa allo svolgimento del conto, la Suprema Corte ha precisato che il giudice dell’opposizione allo stato passivo non può, nella sua valutazione di idoneità probatoria degli estratti conto depositati dalla banca, prescindere dalla loro completezza ed esaustività e dal comportamento processuale del curatore in relazione ad essi.

Infatti, l’ammissibilità di prove atipiche, generalmente riconosciuta sia in dottrina che in giurisprudenza, impone all’organo giudicante di tener conto di documenti che, per la loro qualità tecnica, il loro contenuto o la loro provenienza, sebbene provenienti da una parte in causa, forniscano una rappresentazione esaustiva di fatti giuridicamente rilevanti ai fini della decisione, se altri elementi estrinseci ad essi contribuiscono a corroborarne la attendibilità probatoria.

La Corte, nell’arresto in parola, ha accostato il meccanismo probatorio su cui si fonda l’estratto conto al procedimento, in generale, di resa dei conti (artt. 263 e ss. c.p.c.): la parte onerata procede alla rendicontazione tramite la precisa indicazione dell’evoluzione storica del rapporto, mentre la controparte ha l’onere, entro un determinato termine, di sollevare contestazioni, specificando le partite che intende porre in contestazione; allo stesso modo la banca rende il conto dell’integrale svolgimento del rapporto, rispetto al quale è rilevante il comportamento che assume il curatore.

Ne consegue che se il curatore non svolge alcuna contestazione rispetto alle risultanze dell’estratto conto integrale, il tribunale non potrà che prendere atto dell’evoluzione storica del rapporto contrattuale così come rappresentato nell’estratto conto, né potrà pretendere dalla banca ulteriore documentazione a suffragio dei fatti storici da esso risultanti, pur mantenendo il potere di sollevare d’ufficio le eccezioni, non rilevabili ad esclusiva istanza di parte, giustificate in base ai fatti acquisiti in tal modo nella causa.

Sez. 6-1, n. 16404/2018, Falabella, Rv. 649545-01, ha ribadito il suo ormai consolidato orientamento sulla scorta del quale la mancanza di data certa nelle scritture prodotte dal creditore, che proponga istanza di ammissione, si configura come fatto impeditivo all’accoglimento della domanda ed oggetto di eccezione in senso lato, come tale rilevabile d’ufficio dal giudice.

Infine, merita sicuramente di essere segnalata Sez. 1, n. 22785/2018, Campese, Rv. 650930-01, la quale ha precisato che il professionista al quale sia stato negato, a causa di carenze nella dovuta diligenza, il compenso per la redazione della relazione di cui all’art. 161, comma 3, l. fall., non può invocare, a fondamento del proprio credito, l’ammissione del debitore (poi fallito) che lo ha designato alla procedura concordataria. Infatti, il decreto emesso dal tribunale ex art. 163, comma 1, l. fall. non costituisce approvazione della relazione, né ponderazione di competenza esclusiva del tribunale in ambito concordatario, in quanto l’ammissione a detta procedura non assevera definitivamente, con valore di giudicato, l’esattezza dell’adempimento del professionista, potendo la valutazione essere, in seguito, smentita dal medesimo tribunale, in sede di procedura fallimentare, all’esito di un più approfondito controllo da parte del commissario giudiziale.

5.2. Le prelazioni.

In tema di ammissione al passivo di crediti assistiti da cause legittime di prelazione, Sez. 1, n. 11955/2018, Pazzi, Rv. 648931-01, ha precisato che, a fronte di un contratto di mutuo ipotecario, il curatore del fallimento del mutuatario, che eccepisca l’illiceità dell’operazione per essere stato il contratto utilizzato al solo fine di promuovere un preesistente credito chirografario a credito ipotecario, ha l’onere ex art. 2697 c.c. di fornire la prova di tale assunto, trattandosi non di una mera contestazione della tesi avversa ma di un fatto modificativo del diritto vantato dal creditore.

In sede di domanda di insinuazione di un credito prelatizio, il creditore non deve necessariamente chiedere in forma espressa il riconoscimento della prelazione, ma è sufficiente che la volontà di collocazione privilegiata nel passivo dell’imprenditore fallito risulti dalla chiara esposizione della causa del credito, dovendosi determinare l’oggetto della domanda giudiziale alla stregua delle complessive indicazioni contenute nell’istanza di ammissione e dei documenti ad essa allegati (Sez. 6-1, n. 08636/2018, Scaldaferri, Rv. 649501-01).

Ancora, da un punto di vista formale, ai fini dell’insinuazione al passivo fallimentare di un credito privilegiato è sufficiente che l’istante indichi la causa del credito, non essendo prescritta, a pena di decadenza, l’indicazione degli estremi delle norme di legge che fondano il diritto fatto valere, in base al principio “iura novit curia”. (Sez. 1, n. 12467/2018, Vella, Rv. 649114-01).

Sul privilegio artigiano, ai sensi dell’art. 2751-bis, n. 5, c.c., nel testo applicabile a seguito della novella introdotta dal d.l. n. 5 del 2012, conv., con modif., dalla legge n. 35 del 2012, Sez. 1, n. 18723/2018, Ceniccola, Rv. 649579-01, ribadisce che non è sufficiente l’iscrizione all’albo delle imprese artigiane in quanto essa, pur avendo natura costitutiva, costituisce un elemento necessario ma non sufficiente ai fini del riconoscimento del suddetto privilegio dovendo concorrere con gli altri presupposti previsti dalla legge n. 443 del 1985, cui la norma codicistica rinvia.

Ancora in tema di privilegio ai sensi dell’art. 2751-bis, n. 5, c.c., Sez. 1, n. 22210/2018, Falabella, Rv. 650404-01, ha precisato che la richiamata disposizione, che persegue lo scopo di agevolare le cooperative di produzione e lavoro nella realizzazione dei crediti collegati prevalentemente alla prestazione di un’attività lavorativa diretta da parte dei soci, attribuisce privilegio generale sui mobili a favore non di tutti i crediti delle società od enti cooperativi di produzione e di lavoro, ma soltanto di quelli per i corrispettivi dei servizi prestati e della vendita dei manufatti, senza possibilità di interpretazione analogica (Sez. 1, n. 17396/2005, Panzani, Rv. 582923-01).

E di nuovo in tema di ammissione al passivo del fallimento di crediti privilegiati, Sez. 1, n. 01192/2018, Ceniccola, Rv. 646957-02, ha stabilito che il rapporto tra il consorzio stabile e l’impresa consorziata, assegnataria ed esecutrice delle opere pubbliche appaltate al consorzio, non può essere ricostruito secondo lo schema del mandato, in quanto l’assegnazione dei lavori alla consorziata da parte del consorzio, essendo successiva alla costituzione del rapporto consortile e riguardando il momento esecutivo del rapporto, non può essere considerata un contratto (né di subappalto, né di mandato), ma solo un atto unilaterale recettizio, sicché non può riconoscersi alla consorziata il privilegio ex art. 1721 c.c. sulle somme incamerate dal consorzio fallito in esecuzione dell’appalto.

Sempre in tema di crediti prelatizi, ed in particolare con riferimento ai crediti pignoratizi o privilegiati sui mobili di cui all’art. 2756 e 2761 c.c., per i quali la garanzia che li assiste legittima il creditore all’esercizio del diritto di ritenzione e alla vendita secondo le norme che disciplinano il pegno, Sez. 1, n. 02818/2018, Ferro, Rv. 647144-02, ha chiarito che l’art. 53 l. fall., in deroga parziale all’art. 42 l. fall. che attribuisce alla sentenza di fallimento un effetto di spossessamento dei beni del debitore a favore del curatore, se pure riconosce ai creditori privilegiati assistiti dal diritto di ritenzione la possibilità di procedere, pendente la procedura concorsuale, alla vendita del bene, non la configura come esplicazione di autotutela in senso proprio, come avviene al di fuori del fallimento, perché tale facoltà presuppone l’accertamento del credito nelle forme dell’insinuazione allo stato passivo e perché assoggetta la vendita del bene gravato dal privilegio all’autorizzazione e ai criteri direttivi del giudice delegato, senza escludere la concorrente legittimazione del curatore; sicché il ricavato dalla vendita, quand’anche il bene gravato sia venduto direttamente dal creditore, non viene direttamente incassato in via autosatisfattiva dal medesimo, ma diviene oggetto del piano di riparto, nel rispetto delle cause legittime di prelazione.

Con riferimento all’estensione della garanzia ipotecaria dei crediti nei confronti di un imprenditore fallito, e dunque con riguardo all’ambito di applicazione dell’art. 54 l. fall., il cui terzo comma richiama l’art. 2855 c.c., Sez. 3, n. 04927/2018, Olivieri, Rv. 647364-01, ha chiarito che, nell’ambito della detta disposizione, devono essere tenuti distinti gli ambiti applicativi del secondo e del terzo comma dell’art. 2855 c.c.: il secondo comma disciplina i limiti di estensione della garanzia ipotecaria agli “interessi corrispettivi”, individuandoli nel triennio ivi considerato (biennio precedente ed anno in corso al momento del pignoramento) e sanzionando con la nullità gli accordi non conformi ai limiti legali, mentre il terzo comma ha per oggetto la disciplina dei limiti di estensione della garanzia ipotecaria agli “interessi moratori”, i quali, successivamente all’anno del pignoramento e fino alla data della vendita beneficiano dell’estensione del medesimo grado della originaria garanzia ipotecaria, ma solo nella misura ridotta “ex lege” al tasso legale. Il riferimento cronologico “alla data del pignoramento” contenuto nelle disposizioni citate dell’art. 2855 c.c., poi, trova applicazione anche ai crediti ipotecari fatti valere nelle procedure concorsuali ed a quelli azionati dai creditori intervenuti nella procedura esecutiva individuale, e deve intendersi riferito, ai sensi dell’art. 54 l. fall., alla data della dichiarazione di fallimento e, nel caso di intervento spiegato nella procedura esecutiva, per un titolo fruttifero, ai sensi degli artt. 499 e 500 c.p.c., all’atto della concreta aggressione esecutiva del patrimonio debitore posto in essere dal creditore privilegiato, cioè al ricorso per intervento.

Nel regime normativo antecedente alla riforma di cui al d.lgs. n. 5 del 2006, invece, con riferimento ai crediti assistiti da privilegio generale, ai sensi del combinato disposto degli artt. 2749 c.c. e 54, comma 3, l. fall., gli interessi decorrono anche dopo la dichiarazione di fallimento e fino a quando sia stata liquidata una massa attiva sufficiente al soddisfacimento integrale del credito privilegiato ammesso (Sez. 1, n. 06587 del 2018, Fichera, Rv. 647759-01).

Nel regime posteriore al d.lgs. n. 5 del 2006, invece, si è scelto di anticipare il momento di cessazione di produzione degli interessi sui crediti muniti di privilegio generale, ancorandolo al deposito del progetto di riparto nel quale il credito è soddisfatto, anche se solo parzialmente (art. 54, ultimo comma, l. fall.).

Sempre in tema di crediti privilegiati, Sez. U, n. 06928/2018, Tria, Rv. 647568-01, ha statuito che il trattamento pensionistico erogato dai fondi pensione integrativi ha natura previdenziale, fin dalla loro istituzione, ma, non essendo esso corrisposto da enti gestori di forme di previdenza obbligatoria, ad esso non è applicabile il divieto di cumulo di rivalutazione monetaria ed interessi previsto dall’art. 16, comma 6, della l. n. 412 del 1991 e, nell’ipotesi in cui il credito sia stato ammesso allo stato passivo del fallimento o della liquidazione coatta amministrativa del datore di lavoro, esso non è assistito da privilegio.

Ancora in tema di cause legittime di prelazione, Sez. 1, n. 09926/2018, Valitutti, Rv. 648259-01, ai fini del riconoscimento del privilegio al credito da restituzione delle somme concesse a sostegno pubblico delle imprese, ai sensi dell’art. 9, comma 5, del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 123, nel caso in cui si sia proceduto da parte degli organi competenti a revocare il beneficio economico, ha precisato che la causa di prelazione sorge non solo in caso di revoca disposta per patologie attinenti alla fase genetica dell’erogazione pubblica, ma si estende anche a quella successiva di gestione del rapporto di credito insorto per effetto della concessione.

I privilegi, d’altro canto, costituendo una deroga alla par condicio creditorum, non possono essere estesi a fattispecie non previste dalla legge, sicché, in caso di insinuazione al passivo di una società semplice agricola, il suo credito non è assistito dal privilegio di cui all’art. 2751-bis, n. 4, c.c., che può essere riconosciuto solo a crediti vantati da persona fisica e in particolare dal coltivatore diretto, la cui qualifica si desume dall’art. 1647 e 2083 c.c. ed il cui elemento caratterizzante si rinviene nella coltivazione del fondo da parte del titolare, con prevalenza del lavoro proprio e di persone della sua famiglia (Sez. 6-1, n. 11917/2018, Ferro, Rv. 648587-01).

La S.C. ha avuto, nel corso dell’anno, l’occasione di tornare sul privilegio generale spettante ai professionisti, di cui all’art. 2751-bis n. 2 c.c.; il problema è quello della individuazione degli indici rivelatori della “personalità” della prestazione.

A tal proposito, Sez. 1, n. 09927/2018, Valitutti, Rv. 648551-01, ha stabilito che la domanda di insinuazione al passivo fallimentare proposta da uno studio associato fa presumere l’esclusione della personalità del rapporto d’opera professionale da cui quel credito è derivato e, dunque, l’insussistenza dei presupposti per il riconoscimento del privilegio ex art. 2751-bis, n. 2, c.c., salvo che l’istante dimostri che il credito si riferisca ad una prestazione svolta personalmente dal professionista, in via esclusiva o prevalente, e sia di pertinenza dello stesso professionista, pur se formalmente richiesto dall’associazione professionale.

5.3. Le prededuzioni.

I limiti in cui è riconosciuta la prededuzione rappresentano uno dei punti più problematici del diritto delle procedure concorsuali.

La norma di chiusura è nell’art. 111, comma 2, l. fall. che dispone che sono considerati prededucibili i crediti così qualificati da una specifica disposizione di legge, e quelli sorti in occasione o in funzione delle procedure concorsuali disciplinate dalla legge fallimentare.

Sul punto Sez. 1, n. 01895/2018, Dolmetta, Rv. 647053-01, ha chiarito che il credito del professionista che abbia svolto attività di assistenza e consulenza funzionali alla predisposizione di un piano attestato di risanamento, ex art. 67, comma 3, lett. d), l. fall., non riveste carattere prededucibile nel successivo fallimento a norma dell’art. 111, comma 2, l. fall., poiché il detto piano non costituisce una procedura concorsuale, rientrando nel novero degli atti di programmazione dell’impresa finalizzati al suo risanamento, che possono dar luogo a convenzioni stragiudiziali sottratte alla valutazione o al controllo da parte di organi giurisdizionali.

Viene così confermato l’orientamento, diffuso in dottrina, secondo il quale la procedura concorsuale presuppone l’intervento, in funzione di garanzia e di controllo, del giudice; premessa dalla quale discende l’estraneità, al detto genus, dei piani attestati, con la conseguente inapplicabilità della disciplina sui crediti prededucibili di cui all’art. 111, comma 2, l. fall..

Invece, in tema di concordato preventivo, il credito del professionista che abbia predisposto l’attestazione prevista dall’art. 161, comma 3, l. fall. rientra tra quelli sorti “in funzione” della procedura e, come tale, ai sensi dell’art. 111, comma 2, l. fall., va soddisfatto in prededuzione nel successivo fallimento, senza che, ai fini di tale collocazione, debba essere accertato, con valutazione “ex post”, se la prestazione resa sia stata concretamente utile per la massa in ragione dei risultati raggiunti (Sez. 1, n. 12017/2018, Pazzi, Rv. 649109-01).

Occupandosi per la prima volta del tema del conferimento del carattere della prededucibilità dei finanziamenti ponte concessi alla società dai soci di s.r.l. in funzione della presentazione della domanda di concordato, prima della novella all’art. 182 quater l. fall., recata con il d.l. n. 83 del 2012, conv. con modif. dalla l. n. 134 del 2012, Sez. 1, n. 18489/2018, Fichera, Rv. 649678-01, ha stabilito che senza la “copertura” di una norma espressa la quale, nel momento in cui era sorto, conferisse al credito da restituzione del finanziamento del socio il carattere prededucibile, non è possibile riconoscere quel carattere, nel successivo fallimento della società, sulla base della norma generale di cui all’art. 111, comma 2, l. fall., in quanto deve trovare applicazione la norma derogatoria di cui all’art. 2476 c.c., secondo la quale il rimborso dei finanziamenti dei soci a favore della società è postergato rispetto alla soddisfazione degli altri crediti.

Altro problema inerente alla prededuzione riguarda la natura dei crediti rivenienti da contratti stipulati dal debitore dopo l’omologazione del concordato, in sede di esecuzione dello stesso. Da un lato, infatti, si avverte l’esigenza di riconoscere il carattere prededucibile ai crediti dotati di nesso funzionale rispetto all’esecuzione del concordato, che, cioè, siano sorti da contratti conclusi allo scopo di dare esecuzione al concordato; dall’altra parte, si pone, a mo’ di limite, l’esigenza di non estendere a dismisura il nesso di funzionalità tra i crediti sorti a valle dell’omologazione del concordato e l’esecuzione dello stesso, con il rischio che, in un concordato con continuità aziendale, diventi impossibile selezionare i contratti funzionali all’esecuzione del concordato distinguendoli da quelli conclusi nell’ordinaria gestione aziendale.

In più, il problema interpretativo è aggravato dal tenore ambiguo dell’art. 181 l. fall., secondo il quale «la procedura di concordato preventivo si chiude con il decreto di omologazione ai sensi dell’art. 180», sicché, stando alla lettera della citata disposizione, i crediti sorti a valle dell’omologazione non potrebbero essere funzionali al compimento di una procedura ormai conclusa.

In questo panorama si colloca Sez. 1, n. 00380/2018, Cristiano, Rv. 646316-01, che ha stabilito che i crediti nascenti da nuovi contratti che, pur se non espressamente contemplati nel piano concordatario, siano stipulati dal debitore, in corso di esecuzione del concordato preventivo omologato, ai fini del raggiungimento degli obiettivi previsti dal piano medesimo e dell’adempimento della proposta, devono ritenersi sorti in funzione della procedura e vanno ammessi in prededuzione allo stato passivo del fallimento consecutivo, dichiarato per effetto della risoluzione del concordato.

A norma del penultimo comma dell’art. 104 l. fall., i crediti sorti nel corso dell’esercizio provvisorio sono soddisfatti in prededuzione ai sensi dell’art. 111, comma 1, n. 1), l. fall..

I presupposti dell’esercizio provvisorio sono interpretati in modo rigido dalla giurisprudenza della Suprema Corte.

Infatti, sebbene in una fattispecie particolare, Sez. 1, n. 01192/2018, Ceniccola, Rv. 646957-01, ha stabilito che i consorzi stabili con rilevanza esterna, previsti dalla legge n. 109 del 1994, sono enti collettivi dotati di autonomia soggettiva, organizzativa e patrimoniale rispetto alle imprese consorziate, sicché è il consorzio l’unico soggetto legittimato ad agire nei confronti del committente e titolare delle somme riscosse in esecuzione del contratto. Pertanto, non ha fondamento la pretesa della società consorziata, assegnataria ed esecutrice dei lavori appaltati, al riconoscimento della prededuzione dei relativi crediti sulle somme incamerate dal consorzio fallito, sul presupposto della maturazione dei detti crediti in epoca posteriore alla dichiarazione di fallimento.

Nell’ambito di tale pronuncia, la Corte ha colto l’occasione per precisare che l’esercizio provvisorio dell’impresa fallita ha come suo indefettibile presupposto la disposizione in tal senso del tribunale nell’ambito della sentenza dichiarativa di fallimento o, in alternativa, l’autorizzazione del giudice delegato (disposizione ed autorizzazione previste, rispettivamente, dai commi 1 e 2 dell’art. 104 l. fall.); sicché, in assenza di tali presupposti alternativi fra loro, la prededuzione di cui al penultimo comma dell’art. 104 l. fall. non opera.

Anche gli accordi di ristrutturazione dei debiti, secondo la Suprema Corte, rientrano tra le procedure concorsuali, sicché Sez. 1, n. 01182/2018, Terrusi, Rv. 646798-02, ha esteso ad essi, quanto alla prededucibilità dei crediti sorti in occasione degli stessi o ad essi funzionali, gli stessi principi validi per il concordato preventivo, affermando che il credito del professionista che abbia svolto attività di assistenza e consulenza funzionali all’omologazione di un accordo di ristrutturazione, rientra “de plano” tra i crediti sorti “in funzione” di quest’ultima procedura e, come tale, a norma dell’art. 111, comma 2, l. fall., va soddisfatto in prededuzione nel successivo fallimento, senza che ai fini di tale collocazione debba essere accertato, con valutazione “ex post”, che la prestazione resa sia stata concretamente utile per la massa in ragione dei risultati raggiunti.

In tema di concordato preventivo, analogamente, Sez. 1, n. 12017/2018, Pazzi, Rv. 649109-01, pone in luce che il credito del professionista che abbia predisposto l’attestazione prevista dall’art. 161, comma 3, l. fall. rientra tra quelli sorti “in funzione” della procedura e, come tale, ai sensi dell’art. 111, comma 2, l. fall. – norma che, in relazione al previsto criterio della strumentalità o funzionalità delle attività professionali rispetto alle procedure concorsuali, introduce un’eccezione al principio della par condicio creditorum al fine di favorire il ricorso a forme di soluzione concordata della crisi d’impresa –, va soddisfatto in prededuzione nel successivo fallimento, senza che, ai fini di tale collocazione, debba essere accertato, con valutazione “ex post”, se la prestazione resa sia stata concretamente utile per la massa in ragione dei risultati raggiunti.

Anche quanto alla prededucibilità dei crediti sorti da finanziamenti eseguiti, ai sensi dell’art. 182 quater, comma 1, l. fall., in esecuzione di un accordo di ristrutturazione dei debiti omologato, quest’ultimo si conforma alla disciplina vigente del concordato preventivo: tali crediti, infatti, qualsiasi sia la forma dei finanziamenti dai quali derivano, sono prededucibili nel successivo fallimento, senza che il tribunale debba svolgere una nuova verifica di funzionalità del finanziamento rispetto all’accordo, già insita nell’omologazione (Sez. 1., n. 02627/2018, Terrusi, Rv. 647231-01; Sez. 1, n. 16347/2018, Terrusi, Rv. 649535-02).

Infine, Sez. 1, n. 18488/2018, Fichera, Rv. 649577-01, sottolinea che, in tema di prededuzione in sede fallimentare, l’art. 111, comma 2, l. fall. considera prededucibili i crediti “sorti in occasione o in funzione” delle procedure concorsuali, individuandoli, alternativamente, sulla base di un duplice criterio, cronologico e teleologico. Tuttavia, affinché un credito sia ammesso in prededuzione, non è sufficiente che lo stesso venga a maturare durante la pendenza di una procedura concorsuale, essendo presupposto indefettibile, per il riconoscimento della prededucibilità, che la genesi dell’obbligazione sia temporalmente connessa alla pendenza della procedura medesima e che, comunque, l’assunzione di tale obbligazione risulti dal piano o dalla proposta. Nella specie, la Corte ha rigettato il ricorso proposto contro il decreto del tribunale che, in sede di opposizione allo stato passivo, aveva escluso la prededucibilità del credito di una società di leasing avente ad oggetto somme dovute a titolo di penale per la mancata immediata restituzione del bene dopo lo scioglimento del rapporto, essendosi la risoluzione del contratto verificata in epoca antecedente alla procedura di concordato.

6. Le impugnazioni dei crediti, le opposizioni allo stato passivo, le revocazioni.

Si sono registrate significative pronunce in punto di tempestività della proposizione del ricorso di opposizione allo stato passivo. Sez. 1, n. 28430/2018, Pazzi, Rv. 651578-01, ha affermato che, per valutare detto profilo, qualora la comunicazione dell’accertamento del passivo sia avvenuta a mezzo di posta elettronica ai sensi dell’art. 97 l. fall., nella versione anteriore al d.lgs. n. 179 del 2012, è necessario, in caso di contestazione, verificare il raggiungimento dello scopo e la data della conoscenza, incombendo sul curatore l’onere della relativa prova. Nella specie, la Corte ha cassato con rinvio la decisione della corte d’appello che aveva giudicato tardiva l’opposizione ad uno stato passivo comunicato mediante e-mail, per come richiesto dal creditore, e ritenuto tale modalità sufficiente ad assolvere l’obbligo di comunicazione, stante la sostanziale affidabilità del protocollo che lasciava presumere la ricezione dell’atto, in assenza di deduzioni contrarie da parte del destinatario.

Sez. 6-1, n. 04787/2018, Ferro, Rv. 647892-01, ha rilevato che il ricorso deve essere proposto entro trenta giorni dalla comunicazione del decreto di esecutività dello stato passivo, mediante deposito presso la cancelleria del tribunale, ai sensi dell’art. 99, comma 1, l. fall. Ne deriva che, in caso di deposito telematico, ai fini della verifica della tempestività, il ricorso in opposizione deve intendersi proposto nel momento in cui viene generata la ricevuta di consegna da parte del gestore di posta elettronica certificata del Ministero della giustizia, ai sensi dell’art. 16-bis, comma 7, del d.l. n. 179 del 2012, conv. con modif. dalla l. n. 221 del 2012, insufficiente essendo la sua mera notifica, entro detto termine, all’indirizzo PEC del curatore.

Sez. 6-1, n. 11366/2018, Ferro, Rv. 648584-01, ha evidenziato che l’opposizione allo stato passivo può essere proposta entro sei mesi dal deposito del decreto che lo dichiara esecutivo. A tal fine, la Corte ha ritenuto l’applicabilità, in via analogica, dell’art. 327 c.p.c., preclusa nel solo caso in cui l’opponente provi di non aver avuto conoscenza dell’esistenza della procedura concorsuale. In tal senso, l’assimilazione dell’istituto in parola ai rimedi impugnatori cede il passo solo a fronte di ulteriori esigenze di specialità e di autonomia della procedura concorsuale che trovino nella relativa disciplina apposita e distinta regolamentazione. Nella specie, è stato, in quest’ottica, rigettato il ricorso avverso il decreto del tribunale che aveva dichiarato inammissibile l’opposizione allo stato passivo di un creditore poiché proposta oltre il termine semestrale di cui all’art. 327 c.p.c., ritenendo irrilevante che la comunicazione formale della sua esclusione fosse pervenuta a due anni di distanza dal deposito in cancelleria del decreto di esecutività dello stato passivo, essendo il creditore già a conoscenza della procedura concorsuale.

Ha ricevuto ulteriore conferma – ad opera di Sez. 6-1, n. 21583/2018, Falabella, Rv. 650469-01 – il rettilineo avviso di legittimità che ritiene inopponibile alla procedura fallimentare il decreto ingiuntivo non munito, prima della dichiarazione di fallimento, di esecutorietà ex art. 647 c.p.c..

Nella prospettiva in discorso, solo in virtù della dichiarazione giudiziale di esecutorietà, il decreto passa in giudicato, non rilevando, per converso, l’avvenuta concessione della provvisoria esecutorietà ex art. 642 c.p.c. o la mancata tempestiva opposizione alla data della dichiarazione di fallimento. La pronuncia segnala come detta impostazione – ribadita soltanto qualche mese prima da Sez. L, n. 01774/2018, Cavallaro, Rv. 647239-01 –, non violi l’art. 1, protocollo n. 1, della CEDU (che tutela sia i “beni” che i valori patrimoniali, compresi i crediti) poiché l’aspettativa dell’ingiungente di tutela del diritto di credito in via privilegiata non ha base legale di diritto interno alla luce della suddetta consolidata giurisprudenza. Nella specie, l’ingiungente aveva proposto opposizione all’ammissione del proprio credito in chirografo allegando proprio l’aspettativa di tutela indotta dall’opponibilità al debitore del decreto ingiuntivo e dal riconoscimento della prelazione ipotecaria.

Di rilievo quanto espresso da Sez. 1, n. 09928/2018, Fichera, Rv. 648890-01, secondo cui, in tema di verificazione dello stato passivo, ove il credito dell’istante sia stato ammesso al concorso solo parzialmente, il curatore che intenda contestare il relativo accertamento del giudice delegato deve impugnare lo stato passivo nel termine di rito, non essendo sufficiente la proposizione di una mera eccezione sul punto nel giudizio di opposizione promosso dal medesimo creditore istante. Sez. 1, n. 22784/2018, Campese, Rv. 650929-02, ha, peraltro, chiarito che, nel giudizio di opposizione allo stato passivo, il curatore può proporre per la prima volta l’eccezione revocatoria, anche se non formulata in sede di verifica dello stato passivo, e nonostante la corrispondente azione non sia stata inserita nel programma di liquidazione e neppure effettivamente proposta, anche in via riconvenzionale, nel medesimo giudizio, potendo il giudice delegato ed il tribunale escludere il credito in conseguenza della semplice contestazione del curatore.

Ancora il tema delle possibili condotte del curatore nell’ambito dei giudizi di opposizione allo stato passivo è affrontato da Sez. 1, n. 04453/2018, Ceniccola, Rv. 647426-01, secondo cui la titolarità del credito in capo all’opponente rappresenta un elemento costitutivo della domanda, sicché, se, per un verso, grava sull’attore l’onere della sua allegazione e della relativa prova, per altro verso, il fallimento opposto è legittimato a prendere posizione su tale profilo e a contestarlo anche in un momento successivo alla tempestiva costituzione in giudizio, non trattandosi di eccezione in senso stretto da sollevare, a pena di decadenza, nella memoria difensiva ex art. 99, comma 7, della l. fall..

In linea di continuità con il principio già affermato da Sez. 6-1, n. 20363/2011, Cultrera, Rv. 619899-01, Sez. 1, n. 01900/2018, Dolmetta, Rv. 646860-01, ha ribadito che, in tema di opposizione, il termine di sessanta giorni entro il quale il collegio deve provvedere sull’opposizione in via definitiva, previsto dall’art. 99 l. fall. nel testo come sostituito dall’art. 6 del d.lgs. n. 169 del 2007, ratione temporis applicabile, in difetto di espressa previsione di perentorietà, deve considerarsi ovviamente ordinatorio.

Ha dato risposta ad una questione pratica di crescente rilievo nel contesto della “digitalizzazione” delle procedure concorsuali, Sez. 1, n. 31474/2018, Pazzi, Rv. 651929-02, la quale, muovendo dal presupposto per cui, in tema di opposizione allo stato passivo, secondo i principi generali dei procedimenti che iniziano con ricorso, il deposito del ricorso e del fascicolo di parte contenente i documenti prodotti deve essere contestuale, stante il disposto dell’art. 99, comma 2, n. 4, l. fall., ha evidenziato che, qualora la costituzione avvenga mediante l’invio di un messaggio di posta elettronica certificata eccedente la dimensione massima stabilita nelle relative specifiche tecniche, il deposito degli atti o dei documenti può avvenire mediante gli invii di più messaggi, purché gli stessi siano coevi – cioè strettamente consecutivi – al deposito del ricorso ed eseguiti entro la fine del giorno di scadenza. Nella specie, il Tribunale aveva tenuto conto soltanto della documentazione depositata dall’opponente lo stesso giorno della costituzione in giudizio, escludendo invece quella trasmessa a distanza di uno o due giorni.

Nel contiguo ambito delle impugnazioni dei crediti ammessi, di cui all’art. 98 l.fall, incisiva si palesa la decisione assunta da Sez. 1, n. 25066/2018, Ceniccola, Rv. 650765-01, che – nel solco di quanto affermato da Sez. 1, n. 10613/1994, Luccioli, Rv. 489140-01, nel regime anteriore all’entrata in vigore del d.lgs. n. 5 del 2006 – ha reputato pienamente applicabile il principio dell’onere della prova, tanto da escludere che il creditore ammesso debba dimostrare nuovamente il suo credito, già assistito dalla favorevole valutazione espressa dal giudice delegato in sede di verifica, ritenendo, per converso, che sia l’impugnante a dover provare la fondatezza della sua contestazione. Nella specie la Corte ha, in tal guisa, cassato con rinvio il decreto del tribunale che aveva accolto l’impugnazione proposta dal curatore fallimentare, giacchè il creditore ammesso non aveva riprodotto in giudizio le prove documentali su cui si fondava il provvedimento impugnato.

Della materia delle spese processuali, infine, si è occupata Sez. 1, n. 03956/2018, Di Virgilio, Rv. 647235-02, precisando come, a seguito delle modifiche apportate all’art. 101 l. fall. dall’art. 86 del d.lgs. n. 5 del 2006, non si ponga più il problema dell’estensione ai giudizi de quibus del principio desumibile dal previgente art. 101, comma 4, l. fall. (non riproposto nella nuova formulazione della norma), che, in tema di dichiarazione tardiva di credito, poneva a carico del creditore le spese conseguenti al ritardo della domanda. In tal senso, anche nei giudizi di cui all’art. 98 l. fall., si applica la regola generale di cui all’art. 91 c.p.c. ed è in questa prospettiva che la Corte ha confermato il decreto del tribunale che, sul punto della regolazione delle spese, aveva accolto l’opposizione del creditore e condannato la curatela al pagamento delle spese di lite.

7. La liquidazione dell’attivo.

Sez. 1, n. 27938/2018, Campese, Rv. 651330-01, ha affermato l’importante principio secondo cui, quand’anche anteriormente alla procedura esecutiva universale in cui si sostanzia il fallimento, il debitore in bonis abbia stipulato un comodato di immobile per uso abitativo a tempo determinato, il successivo fallimento del comodante, determina, ai sensi dell’art. 1809, comma 2, c.c., l’obbligo del comodatario di restituire immantinente il bene al curatore, avuto riguardo alla sua necessità di procedere alla liquidazione del cespite libero da persone e cose, per il migliore soddisfacimento dei creditori concorsuali. Detto principio, enunciato nell’interesse della legge, muove da una duplice constatazione: quella del subentro ope legis del curatore del soggetto comodante nel contratto di comodato, in virtù dello spossessamento patrimoniale generalizzato e dell’efficacia di pignoramento generale dei beni del debitore connessi alla declaratoria fallimentare; quello della facoltà del curatore-comodante, ai sensi dell’art. 1809 c.c., anche anteriormente al maturare del termine di scadenza del negozio e prima che il comodatario abbia cessato di servirsi della cosa, di esigerne la restituzione immediata, qualora colto da un bisogno urgente e imprevisto che, nel caso dell’organo concorsuale, si lega all’esercizio della sua stessa funzione, coincidente con la «necessità … di riottenere subito quel cespite, libero da persone e cose, per il migliore soddisfacimento (attraverso una locazione o la vendita dello stesso) dei creditori concorsuali: situazione, quest’ultima, da ritenersi, prevalente rispetto ad eventuali necessità abitative del comodatario, e, come tale, idonea a giustificare il recesso esercitato dalla prima». D’altronde, la natura essenzialmente gratuita del comodato postula che al detentore dell’immobile non possa ricondursi una tutela omologa, nei confronti del fallimento, rispetto a quella attribuita al conduttore, tenuto, invero, al pagamento di un canone.

Di notevole impatto anche il principio espresso da Sez. 1, n. 09017/2018, Pazzi, Rv. 648434-02, che postula la netta scissione tra il novero delle regole applicabili alle vendite endofallimentari effettuate ai sensi del primo comma dell’art. 107 l. fall., rispetto alle regole valide, in via esclusiva ed assorbente, per le alienazioni che il curatore ritenga di svolgere ai sensi del secondo comma della norma richiamata. Qualora, infatti, l’organo che dirige la liquidazione opti per il ricorso al paradigma operativo delle esecuzioni forzate immobiliari, come consentitogli dal predetto comma secondo, rimane esclusa, secondo l’arrêt in commento, la possibilità di applicare sia l’istituto della sospensione della vendita che l’art. 107, quarto comma, l. fall., in capo al curatore, sia quello della sospensione delle operazioni di vendita che l’art. 108, primo comma, l. fall. riconosce al giudice delegato. In buona sostanza, gli unici precetti – e i soli istituti – suscettibili di venire in rilievo nel quadro delle vendite “codicistiche” del curatore sono quelli del libro III del codice di rito, con le quali non interferiscono, né si sovrappongono, le disposizioni proprie della legge fallimentare.

Una puntualizzazione utile è stata, infine, resa da Sez. 1, n. 11957/2018, Campese, Rv. 648565-01, secondo cui, nella fase di liquidazione dell’attivo fallimentare, al curatore è riconosciuta la possibilità di incamerare la cauzione prestata da colui che, scelto tramite procedura competitiva, non addivenga, poi, alla stipula del contratto di affitto di azienda cui quest’ultima era propedeutica, così venendo meno al rispetto della suddetta proposta, a condizione che non venga fornita la prova che l’inadempimento sia giustificato da ragioni idonee a compromettere gli interessi dell’aggiudicatario.

8. La chiusura del fallimento e l’esdebitazione.

In tema sono giunte opportune e coerenti alcune precisazioni afferenti alle conseguenze della cessazione degli organi fallimentari a seguito del provvedimento di chiusura della procedura.

Sez. 1, n. 29466/2018, Pazzi, Rv. 651482-01, ha sancito l’inammissibilità del ricorso per cassazione ex art. 111 Cost. avverso il decreto con il quale il tribunale fallimentare, in sede di reclamo, abbia confermato il decreto del giudice delegato, adottato dopo la chiusura della procedura, di rigetto della domanda di restituzione delle somme accantonate in favore dei creditori irreperibili proposta dal debitore; ha considerato che l’atto giudiziale si palesasse assunto al di fuori delle competenze ormai venute meno del tribunale fallimentare, quindi privo dei connotati della decisorietà e definitività, potendo le istanze del fallito in relazione alle somme accantonate e mai riscosse dai creditori irreperibili essere fatte valere solo mediante l’introduzione di un giudizio a cognizione ordinaria avanti al giudice competente. Nella specie, la Corte ha, peraltro, dichiarato inammissibile il ricorso proposto dagli eredi del fallito avverso il provvedimento con cui il giudice delegato aveva rigettato la richiesta di restituzione dei libretti di deposito intestati ai creditori irreperibili, ai sensi dell’art. 117, c. 3, l. fall. nel testo applicabile ratione temporis.

Il tema delle implicazioni correlate alla chiusura del fallimento è attraversato anche da Sez. 1, n. 25603/2018, Caiazzo, Rv. 650770-01, la quale ha ritenuto che, in tema di procedimento civile, detta chiusura, proprio in quanto determina la cessazione degli organi concorsuali e il rientro del fallito nella disponibilità del (suo) patrimonio residuo, faccia venir meno la legittimazione processuale del curatore, comportando il subentro del fallito medesimo, tornato in bonis, al curatore nei procedimenti pendenti all’atto della chiusura.

La valenza di tale principio è stata, peraltro, specificamente esclusa con riferimento al giudizio di cassazione, in quanto contrassegnato da un impulso d’ufficio idoneo a segnare l’inapplicabilità delle norme di cui agli artt. 299 e 300 c.p.c. ed ad escludere che, ai sensi dell’art. 372 c.p.c., si possa procedere al deposito di documenti attestanti la chiusura del fallimento. È da dire che, detto precedente, nel porsi in linea di continuità con Sez. 2, n. 08959/2006, Cioffi, Rv. 587596-01, sembra segnare il superamento del difforme avviso compendiato da Sez. 3, n. 21729/2013, Scrima, Rv. 628147-01, secondo cui, nel giudizio di cassazione, così come è consentito al successore a titolo universale di una delle parti già costituite di proseguire il procedimento (atteso che l’applicazione della disciplina di cui all’art. 110 c.p.c. non è espressamente esclusa per il processo di legittimità, né appare incompatibile con le forme proprie dello stesso), a maggior ragione sarebbe da ritenere possibile la prosecuzione del processo iniziato dal curatore fallimentare da parte dell’imprenditore tornato in bonis, sulla premessa che la chiusura del fallimento, pur privando il curatore della capacità di stare in giudizio, non comporta una successione nel processo, bensì il mero riacquisto della capacità processuale in capo al soggetto già dichiarato fallito.

Alla fisiologica necessità di contemperare al meglio l’urgenza della chiusura del fallimento e la tutela dei crediti in corso di accertamento, ha fornito un’interessante risposta Sez. 2, n. 20225/2018, Criscuolo, Rv. 649911-01, secondo cui la chiusura del fallimento di una società, disposta a seguito dell’integrale avvenuto pagamento dei creditori ammessi, ai sensi dell’art. 118 l. fall., nel testo applicabile ratione temporis, non preclude l’adozione discrezionale di appositi accantonamenti in favore di creditori non ancora ammessi al passivo – per essere pendenti i relativi giudizi di opposizione allo stato passivo – mediante modalità di deposito stabilite dal giudice delegato che il curatore è tenuto ad attuare, avvalendosi, ove in tal senso disposto dal magistrato, degli strumenti contrattuali ritenuti più idonei. Nella specie, il fallimento era stato dichiarato chiuso nel 1984 ed il curatore aveva stipulato un contratto di deposito in garanzia.

Di una chiave d’approccio tesa a restringere al minimo le appendici del processo fallimentare successive alla sua chiusura, ha fatto uso Sez. 1, n. 05892/2018, Campese, Rv. 647436-01, osservando che la cognizione rimessa al giudice in sede di reclamo avverso il decreto di chiusura del fallimento, ai sensi dell’art. 119, comma 2, l. fall., è circoscritta alla sola verifica della sussistenza di uno dei casi di chiusura di cui ai numeri da 1) a 4) dell’art. 118 l. fall., potendo il fallito o chiunque altro ne abbia interesse far valere in sedi a quel punto esterne alla procedura ogni doglianza, per quanto riferita alla conduzione stessa del fallimento da parte dei suoi organi. Significativo che, nella specie, la Corte abbia confermato il provvedimento reiettivo del reclamo avverso il decreto di chiusura della procedura fallimentare, con il quale il fallito lamentava l’omesso avviso nei suoi confronti con riferimento sia al piano di riparto approvato che all’avvenuto deposito del rendiconto finale del curatore.

Dell’esdebitazione conseguente alla chiusura della procedura – tema reso attualissimo dall’attenzione invalsa, in ambito comunitario, avuto riguardo agli interconnessi profili della second chance e del fresh restart. – si è occupata Sez. 1, n. 07550/2018, Campese, Rv. 648253-01, che, in linea di perfetta continuità con l’ottica fatta propria da Sez. U, n. 24214/2011, Piccininni, Rv. 619470-01, ha precisato che la valutazione del presupposto di cui al comma 2 dell’art. 142 l. fall. (per il quale tale beneficio non può essere concesso «qualora non siano stati soddisfatti, neppure in parte, i creditori concorsuali»), pur rimessa al prudente apprezzamento del giudice di merito, deve essere operata secondo un’interpretazione coerente con il favor debitoris che ispira la norma, sicché, ove ricorrano i presupposti di cui al comma 1, il beneficio esdebitatorio deve essere concesso a meno che i creditori siano rimasti totalmente insoddisfatti o siano stati soddisfatti in percentuale affatto irrisoria.

9. Il concordato fallimentare.

Di considerevole incidenza appare Sez. U, n. 17186/2018, De Chiara, Rv. 649300-02, avendo osservato che, in tema di votazione nel concordato fallimentare, devono ritenersi escluse dal voto e dal calcolo delle maggioranze le società che controllano la società proponente o sono da essa controllate o sottoposte a comune controllo, poiché l’art. 127, comma 6, l. fall. contiene una disciplina applicabile in via estensiva a tutte le ipotesi di conflitto tra l’interesse comune della massa e quello del singolo creditore. Nella stessa pronuncia – (Rv. 649300-01) – si evidenzia, sotto contiguo angolo di visuale, che nel concordato fallimentare manca una previsione di carattere generale sul conflitto di interessi, come succede invece nell’ambito delle società (art. 2373 c.c. per la società per azioni e art. 2479-ter per quella a responsabilità limitata), essendo indicate, all’art. 127, commi 5 e 6, l. fall., soltanto alcune ipotesi di esclusione dal voto, dettate dall’esigenza di neutralizzare un conflitto in atto tra l’interesse comune della massa e quello del singolo, sicché il divieto di voto va esteso anche agli altri casi, pure non espressamente disciplinati, in cui sussiste il detto contrasto, come accade tra chi abbia formulato la proposta di concordato e i restanti creditori del fallito.

Il decisum investe, dunque, la questione cruciale della legittimazione al voto del creditore proponente il concordato o dei creditori a questi correlati. Le Sezioni Unite chiariscono che tra detto proponente e i creditori che sulla proposta sono chiamati ad esprimersi sussiste un contrasto di interessi immanente alle rispettive qualità di controparti contrattuali, interessate, l’una, a concludere il contratto al minor costo possibile, gli altri, a massimizzare la soddisfazione ritraibile dalla soluzione pattizia. In tal senso, benchè il diritto di voto non sia espressamente negato al proponente, la sua esclusione deve stimarsi implicita. In caso contrario, infatti, a constare sarebbe una lesione dell’autonomia privata dei creditori, confliggente con la stessa nozione di contratto, in quanto i creditori verrebbero fatti sottostare alla volontà, astrattamente idonea a rivelarsi finanche decisiva, della loro stessa controparte, per di più in difetto di un apprezzamento di compatibilità in concreto fra l’esercizio di siffatta volontà e l’interesse comune dei creditori medesimi, nel cui esclusivo quadro si giustifica l’applicazione della regola maggioritaria.

L’altra questione attinta dalla pronuncia afferisce alla legittimazione al voto concordatario delle società correlate alla società proponente. In tema di voto nel concordato fallimentare manca una previsione di carattere generale come quella dettata sul conflitto di interessi dei soci, ex art. 2373 c.c.. La problematica, d’altronde, non era venuta in essere anteriormente alla riforma del diritto fallimentare introdotta con il d.lgs. n. 5 del 2006, in quanto solo tale riforma a attribuito ai creditori la legittimazione a proporre un concordato fallimentare. Le Sezioni Unite evidenziano come l’esclusione dal voto delle società correlate si imponga in ragione del condizionamento che gli stessi in via mediata fisiologicamente scontano, influenzati, come sono, nelle loro determinazioni, dagli stessi soggetti che si trovano, in via diretta, in situazione di conflitto. Detta regola vale, non soltanto per le società correlate a società creditrici, ma anche per tutte le società creditrici correlate a società che versano in una situazione di conflitto d’interesse senza essere creditrici. È il caso perspicuo, sebbene non esplicitamente contemplato dall’art. 127 l. fall. della società fallita: le società ad essa correlate vanno assoggettate alla stessa regola di esclusione dal voto che rileva, in forza dell’espresso disposto dei commi quinto e sesto della norma in parola, per le società correlate ai congiunti del fallito. Una lettura restrittiva del sesto comma dell’art. 127, l. fall., rigidamente circoscritta alle ipotesi menzionate, varrebbe a rendere contraddittoriamente ingiustificata la disciplina del conflitto d’interesse nel voto concordatario. È in quest’ottica, che la Corte ritiene di escludere dal voto sulla proposta di concordato fallimentare e dal calcolo delle maggioranze le società che controllano la società proponente o sono da essa controllate o sono sottoposte a comune controllo.

La pronuncia delle Sezioni Unite – tesa a sterilizzare a trecentosessanta gradi le situazioni di cointeressenza pregiudizievole fra i soggetti coinvolti nella vicenda concordataria – segna, pertanto, un incisivo superamento dell’orientamento espresso da Sez. 1, n. 03274/2011, Zanichelli, Rv. Rv. 617051-01, che aveva scorto nelle esclusioni dal voto un catalogo chiuso.

Una chiara puntualizzazione si rinviene in Sez. 1, n. 22771/2018, Vella, Rv. 650756-01, la quale ha affermato che qualora il decreto di omologazione del concordato fallimentare abbia riconosciuto ad un credito un grado privilegiato, in applicazione di una norma attributiva di prelazione successivamente travolta da dichiarazione di illegittimità costituzionale con efficacia ex tunc, detta efficacia retroattiva non si estende ai rapporti ormai definitivamente esauriti, per essersi verificato uno degli eventi cui l’ordinamento collega il loro consolidamento, tra i quali rientra la definitività del riparto fallimentare al pari di quella dell’omologazione in parola, trattandosi in entrambi i casi della cristallizzazione del passaggio dalla posizione di creditore concorsuale (sulla base dello stato passivo) a creditore concorrente (sulla base della regolazione giudiziale, nel primo caso, o consensuale nel secondo).

Del compenso del professionista asseveratore del concordato fallimentare si è incaricata di fornire specifiche puntualizzazioni Sez. 6-1, n. 16934/2018, Terrusi, Rv. 649698-01, la quale ha osservato che la liquidazione di detto compenso non deve avvenire secondo i criteri di cui all’art. 27 d. m. n. 140 del 2012, che riguarda le attività di complessiva assistenza al debitore nel periodo preconcorsuale, trovando, di converso, applicazione i parametri fissati dall’art. 21 dello stesso decreto per le attività di “valutazioni, perizie e pareri”, essendo l’incarico funzionale alla redazione di un “parere motivato”, ovvero a “relazioni di stima richiesta da disposizioni di legge o di regolamenti”.

I corollari di matrice processuale del concordato con assunzione sono perspicui in Sez. 1, n. 15793/2018, Campese, Rv. 649473-01, avendo essa ritenuto che qualora la proposta concordataria abbia contemplato la cessione delle azioni revocatorie, la perdita della legittimazione processuale del curatore si verifichi soltanto con l’emissione del decreto previsto dall’art. 136 l. fall., non determinandosi peraltro l’interruzione del processo sino a quando tale evento non sia stato dichiarato o notificato ai sensi dell’art. 300 c.p.c. La pronuncia reca, in tal senso, un’utile riaffermazione del principio già espresso da Sez. 1, n. 04766/2008, Di Amato, Rv. 595007-01.

Sempre dei riverberi del concordato fallimentare omologato sul quadro delle azioni revocatorie esperite insiste Sez. 1, n. 15012/2018, Terrusi, Rv. 649555-01, secondo cui l’omologazione produce l’improponibilità o l’improseguibilità delle revocatorie promosse dalla curatela ai sensi degli artt. 64 e 67 l. fall., sul presupposto, peraltro, che l’impedimento all’esercizio o prosecuzione delle azioni sia dichiarato nel processo e reso operativo, o attraverso lo strumento processuale dell’interruzione ex art. 300 c.p.c., o attraverso la produzione in giudizio dei documenti attestanti l’intervenuta omologazione del concordato. La pronuncia rivela un fil rouge di conformità con Sez. 1, n. 05369/2001, Celentano, Rv. 545816-01.

D’indole chiarificatoria si mostra Sez. 1, n. 06983/2018, Pazzi, Rv. 648111-01, secondo la quale deve ritenersi inammissibile il ricorso per cassazione proposto ex art. 111 Cost. avverso il decreto del tribunale fallimentare che, in sede di esecuzione del concordato fallimentare, si sia pronunciato su di una questione attinente alla misura di un credito da soddisfare, in quanto tale provvedimento, non potendo avere ad oggetto questioni decise con la sentenza di omologazione, le quali devono trovare la loro soluzione in sede contenziosa nelle forme ordinarie, non è idoneo a pregiudicare in modo definitivo e con carattere decisorio i diritti soggettivi delle parti. Nella specie la Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso per cassazione proposto avverso il provvedimento del tribunale fallimentare in merito alla misura dei crediti da soddisfare e delle somme da attribuire all’assuntore. Nella pronuncia anzidetta si rinviene la conferma del principio già esplicitato da Sez. 1, n. 03921/2008, Salvato, Rv. 606598-01.

10. Il concordato preventivo in generale.

In tema di concordato in bianco, Sez. 1, n. 15435/2018, Fichera, Rv. 649132-01, chiarisce che allorché il concordato preventivo con riserva sia proposto in pendenza di istanza di fallimento, i termini concessi dal giudice per il deposito della proposta, del piano e della documentazione non sono soggetti alla sospensione feriale, in forza di quanto previsto dall’art. 3 della l. n. 742 del 1969 che, attraverso il richiamo all’art. 92 del r.d. n. 12 del 1941, la esclude per i procedimenti relativi alla dichiarazione e revoca dei fallimenti. Più che la formale qualificazione del procedimento nel cui ambito sono concessi alle parti i termini per le loro attività difensive, rileva il procedimento sul quale il primo va ad incidere. Sicché, costituendo la pendenza del procedimento di concordato un “ostacolo” alla dichiarazione di fallimento, nel senso che quest’ultima può pronunciarsi solo se il concordato non va “in porto”, le esigenze acceleratorie sottese al procedimento per la dichiarazione di fallimento si comunicano al procedimento di concordato iniziato in pendenza di quello, impedendo che i relativi termini che ne scandiscono il corso siano soggetti alla sospensione feriale.

Del decorso del termine ex art. 161, comma 6, l. fall., per il deposito della proposta, del piano e della documentazione di cui ai commi 2 e 3, Sez. 1, n. 29740/2018, Di Virgilio, Rv. 651487-01, ha avuto cura di osservare il decorso a far data dalla presentazione della relativa domanda, non già da quella dell’emissione del provvedimento con cui il giudice concede il termine, né dalla comunicazione di tale provvedimento da parte della cancelleria.

A sua volta, Sez. 1, n. 09087/2018, Vella, Rv. 648889-02, ha precisato che la concessione del termine “di recupero” funzionale alle integrazioni delle lacune riscontrate, di cui all’art. 162, comma 1, l. fall., può essere disposta anche in favore del debitore che, sciogliendo la riserva formulata con il ricorso ex art. 161, comma 6, l. fall., alla scadenza del termine opti per il deposito non già della proposta di concordato preventivo, bensì della domanda di omologazione di un accordo di ristrutturazione ai sensi dell’art. 182-bis, comma 1, l. fall., in quanto detta ultima procedura riveste carattere concorsuale e si pone, nell’impianto normativo, in termini di interscambiabilità con il concordato.

Sez. 1, n. 14671/2018, Falabella, Rv. 649255-01, ha messo in risalto che l’inefficacia delle ipoteche giudiziali iscritte nei novanta giorni precedenti la pubblicazione della domanda di concordato preventivo, ai sensi dell’art. 168, comma 3, l. fall. – come novellato dal d.l. n. 83 del 2012, conv. con modif. in I. n. 134 del 2012 – opera esclusivamente con riferimento alla singola domanda di concordato ed in funzione del suo buon esito, sicché non può essere invocata nell’ambito dell’eventuale successiva domanda di concordato presentata dal medesimo debitore, non trovando applicazione il principio della cd. “consecuzione delle procedure” che opera soltanto nel caso di successione tra concordato preventivo e fallimento. Nella medesima pronuncia si chiarisce (Rv. 649255-02) che l’inefficacia delle ipoteche giudiziali iscritte nei novanta giorni precedenti la pubblicazione della domanda di concordato preventivo, ai sensi dell’art. 168, comma 3, l. fall., – come novellato dal d.l. n. 83 del 2012, conv. con modif. in l. n. 134 del 2012 – opera esclusivamente con riferimento alla singola domanda di concordato ed in funzione del suo buon esito, sicché non può essere invocata nell’ambito dell’eventuale successiva domanda di concordato presentata dal medesimo debitore, non trovando applicazione il principio della cd. “consecuzione delle procedure” che opera soltanto nel caso di successione tra concordato preventivo e fallimento.

Di considerevole impatto si mostra la decisione assunta da Sez. 1, n. 27301/2018, Di Virgilio, Rv. 651445-01, nel suo chiarire come, in pendenza di procedimento concordatario, il fallimento dell’imprenditore proponente possa essere dichiarato contestualmente al decreto di inammissibilità della relativa domanda, ancorché non siano ancora decorsi i termini per impugnare quest’ultimo provvedimento; ciò sul presupposto per cui l’effetto devolutivo pieno che caratterizza il reclamo avverso la sentenza di fallimento riguarda anche la decisione sull’inammissibilità del concordato.

A parere di Sez. 1, n. 16348/2018, Fichera, Rv. 649566-01, nel concordato preventivo la proposta del debitore, di suddivisione dei creditori in classi, può prevedere il riconoscimento del diritto di voto a quei creditori che siano stati inseriti in apposita classe e postergati, perché titolari di crediti inerenti il rimborso ai soci di finanziamenti a favore della società, nelle ipotesi previste dall’art. 2467 c.c., purché il trattamento previsto per detti creditori sia tale da non derogare alla regola del loro soddisfacimento sempre posposto rispetto a quello, integrale, degli altri chirografari.

La decisione si è, in tal guisa, collocata su un angolo di visuale difforme rispetto a Sez. 1, n. 02706/2009, Panebianco, Rv. 606617-01, che aveva espresso il diverso principio secondo cui, in tema di suddivisione dei creditori in classi nell’ambito della domanda di ammissione del debitore alla procedura di concordato preventivo, i crediti di rimborso dei soci per finanziamenti a favore della società – in quanto postergati rispetto al soddisfacimento degli altri creditori, se i finanziamenti sono stati effettuati verso una società in eccessivo squilibrio dell’indebitamento rispetto al patrimonio netto o in una situazione che avrebbe giustificato un conferimento di capitale, e da restituire, se percepiti nell’anno anteriore all’eventuale fallimento, ai sensi dell’art. 2467, primo comma, c.c. – non possono essere inseriti in un piano di cui facciano parte anche altri creditori chirografari, violando tale collocazione la necessaria omogeneità degli interessi economici alla cui stregua, ex art. 160, primo comma, lett. c), l. fall., vanno formate le classi. Tuttavia, trattandosi pur sempre di creditori, da soddisfare dopo l’estinzione degli altri crediti, è ammessa la deroga al principio della postergazione, se risulta il consenso della maggioranza di ciascuna classe e non già il solo consenso della maggioranza assoluta del totale dei crediti chirografari.

Sez. 1, n. 05906/2018, Fichera, Rv. 648137-01, ha ritenuto che nel concordato preventivo con transazione fiscale ai sensi dell’art. 182-ter l. fall. – nel testo vigente prima della novella introdotta dall’art. 81, della l. n. 232 del 2016 – il proponente, fermo restando l’obbligo del versamento integrale dell’IVA e delle ritenute non versate, ricorrendo i presupposti di cui all’art. 160, comma 2, l. fall., può inserire i restanti crediti in classi diverse, applicando una falcidia anche a quelli muniti di privilegio di grado anteriore rispetto ai suddetti tributi.

10.1. L’ammissione alla procedura e la sua revoca.

Pur avendo la S.C. posto la regola giurisprudenziale in base alla quale la dichiarazione di fallimento è succedanea rispetto alla inammissibilità o, comunque, al mancato buon esito del concordato preventivo, tuttavia Sez. 1, n. 30539/2018, Campese, Rv. 651878-01, ha chiarito che è inammissibile una domanda di concordato preventivo presentata dal debitore non per regolare la crisi dell’impresa, ma per procrastinare la dichiarazione di fallimento. In questo caso, infatti, la domanda integra gli estremi dell’abuso del processo, che ricorre quando, con violazione dei canoni generali di correttezza e buona fede e dei princìpi di lealtà processuale e del giusto processo, si utilizzano strumenti processuali per perseguire finalità deviate od eccedenti rispetto a quelle per le quali l’ordinamento le ha predisposte.

All’ulteriore consolidamento del principio, già espresso da Sez. 1, n. 05677/2017, Terrusi, Rv. 644656-01, conduce anche Sez. 6-1, n. 25210/2018, Terrusi, Rv. 651350-01, ribadendo che la domanda di concordato preventivo presentata dal debitore, non per regolare la crisi dell’impresa attraverso un accordo con i suoi creditori, ma con il palese scopo di differire la dichiarazione di fallimento, è inammissibile in quanto integra gli estremi di un abuso del processo, figura che ricorre quando, con violazione dei canoni generali di correttezza e buona fede, nonché dei principi di lealtà processuale e del giusto processo, si utilizzano strumenti processuali per perseguire finalità eccedenti o deviate rispetto a quelle per le quali l’ordinamento li ha predisposti. Nella specie, la Corte ha confermato la decisione di merito che aveva ravvisato gli estremi dell’abuso nella riproposizione, pochi giorni dopo la risoluzione del concordato inizialmente omologato ma rimasto inadempiuto, di una ulteriore domanda di concordato, priva di ogni elemento di novità.

Il tema “sensibile” del vaglio giudiziale sull’ammissibilità domanda concordataria è attraversato da Sez. 1, n. 09378/2018, Pazzi, Rv. 648447-01, la quale ha posto in evidenza che, ove intenda prevedere la suddivisione in classi, la proposta debba necessariamente conformarsi ai due criteri fissati dal legislatore nell’art. 160, comma 1, lett. c), l. fall., costituiti dall’omogeneità delle posizioni giuridiche (che riguardano la natura del credito, le sue qualità intrinseche, il carattere chirografario o privilegiato, l’eventuale esistenza di contestazioni, ovvero la presenza o meno di garanzie prestate da terzi o di un titolo esecutivo) e degli interessi economici (riferiti alla fonte e alla tipologia socio-economica del credito, ovvero al peculiare tornaconto vantato dal suo titolare). Rientra tra i compiti del tribunale – con un accertamento in fatto che non è sindacabile in sede di legittimità ove adeguatamente motivato – valutare congiuntamente i detti criteri al fine di verificare l’omogeneità dei crediti raggruppati, che non può essere affermata in termini di assoluta identità, essendo sufficiente la presenza di tratti principali comuni di importanza preponderante, che rendano di secondario rilievo quelli differenzianti, in modo da far apparire ragionevole una comune sorte satisfattiva per le singole posizioni costituite in classe.

La latitudine del giudizio di ammissibilità della domanda viene in evidenza anche in Sez. 6-1, n. 05825/2018, Terrusi, Rv. 648570-02, ove è specificato che nel valutare l’ammissibilità della domanda, il giudice ha il compito di controllare la corretta predisposizione dell’attestazione del professionista, in termini di completezza dei dati e di comprensibilità dei criteri di giudizio, rientrando tale attività nella verifica della regolarità della procedura, indispensabile a garantire la corretta formazione del consenso dei creditori. Nella specie, la Corte ha rigettato il ricorso avverso il decreto che aveva dichiarato l’inammissibilità della proposta di concordato per un vizio di attestazione del professionista, il quale non aveva indicato i criteri di valutazione seguiti nel condividere i valori immobiliari riportati in una perizia di parte, allegata alla domanda, ma aveva recepito acriticamente le risultanze di tale perizia. Nella stessa pronuncia (Rv. 648570-01) è icasticamente evidenziato che il tribunale è tenuto ad una verifica della fattibilità del piano per poter ammettere il debitore alla relativa procedura, che comprende, non solo la fattibilità giuridica, ma anche quella economica, ove il piano si riveli “prima facie” irrealizzabile.

L’estensione dei poteri valutativi del tribunale è materia trattata anche da Sez. 1, n. 05479/2018, Genovese, Rv. 647748-01, la quale ha posto in risalto che il tribunale può emettere, nell’ambito del procedimento ex art. 162 l. fall., provvedimenti di rigetto o di improcedibilità della proposta formulata dal debitore anche al di fuori delle ipotesi di violazione dei requisiti formali di cui agli art. 160, commi 1 e 2, e 161, l. fall., ogniqualvolta venga a conoscenza di atti che costituiscono violazione di regole di natura sostanziale (nella specie, pagamenti ritenuti lesivi della “par condicio creditorum”); in tal caso, il decreto di rigetto o di improcedibilità, in assenza della contestuale dichiarazione di fallimento, non ha carattere decisorio e non è pertanto suscettibile di ricorso straordinario per cassazione ax art. 111, comma 7, Cost.

Sez. 1, n. 23315/2018, Di Marzio M., Rv. 650759-01, in linea di continuità con Sez, 1, n. 09061/2017, Terrusi, Rv. 644960-01, torna sul tema cruciale del sindacato di fattibilità, chiarendo una volta di più che la previsione dell’art. 186-bis, ultimo comma, l. fall., attributiva al tribunale del potere di revocare l’ammissione al “concordato con continuità aziendale” qualora l’esercizio dell’attività di impresa risulti manifestamente dannoso per i creditori, non conferisce all’organo giudicante il compito di procedere apprezzamento della convenienza economica della proposta che, quando non sia implausibile, resta riservata al giudizio dei creditori; piuttosto la richiamata previsione suggella la prerogativa giudiziale di verificare che l’andamento dei flussi di cassa, ed il conseguente indebitamento, non siano tali da erodere le prospettive di soddisfazione dei creditori.

Sempre nella cornice frastagliata della fattibilità e dei limiti di giudizio ascrivibili alle prerogative del tribunale si inserisce Sez. 1, n. 21175/2018, Pazzi, Rv. 650169-01, a parere della quale, in sede di omologa del concordato preventivo, rientra nell’alveo delle valutazioni giurisdizionali concernenti la fattibilità giuridica, la ponderazione dell’effettiva realizzabilità della causa concreta della proposta concordataria attraverso la previsione di una soddisfazione in tempi di realizzazione ragionevolmente contenuti; viceversa, rimangono rimessi all’apprezzamento dei creditori la verosimiglianza dei termini di adempimento prospettati e i rischi temporali connessi alla liquidazione dell’attivo, trattandosi di aspetti concernenti la mera convenienza economica. Nella specie, la Corte ha confermato la sentenza di rigetto del reclamo avverso il provvedimento con cui il giudice, nel dichiarare l’inammissibilità di un concordato preventivo liquidatorio, aveva valorizzato – ritenendolo incluso nel quadro delle valutazioni giuridiche consentite al collegio – l’aspetto dell’incompatibilità tra il tipo di procedura concordataria prescelto e la programmata persistenza di un contratto d’affitto di azienda alberghiera per ulteriori sei anni al cui spirare era procrastinata la dismissione del complesso di beni.

L’esigenza di distillare, all’interno della fattibilità, il profilo giuridico da quello squisitamente economico, ritorna anche in Sez. 6-1, n. 04790/2018, Ferro, Rv. 648788-01, ove si evidenzia che, mentre il sindacato del giudice relativo alla fattibilità giuridica, intesa come verifica della non incompatibilità dello stesso con norme inderogabili, non incontra particolari limiti, il controllo sulla fattibilità economica, quale realizzabilità in concreto del piano proposto dal debitore, può essere svolto solo nei limiti nella verifica della sussistenza o meno di una manifesta sua inettitudine a raggiungere gli obiettivi prefissati. Nella specie, la Corte ha confermato la sentenza di merito che aveva dichiarato inammissibile la proposta di concordato preventivo, rilevando la manifesta inidoneità dell’attivo, come stimato dal medesimo proponente, a consentire il pagamento dei creditori nella percentuale proposta, a causa dell’elevato ammontare delle spese di procedura.

Ad avviso di Sez. 1, n. 18729/2018, Ceniccola, Rv. 649583-01, poichè gli effetti del decreto di apertura del concordato preventivo retroagiscono alla data di presentazione della domanda di ammissione alla procedura, in caso di successivo fallimento, i pagamenti eseguiti dall’imprenditore dopo il deposito della domanda di ammissione al concordato, ma prima dell’emissione del decreto di apertura della procedura, sono inefficaci ai sensi dell’art. 167 l. fall. e non risultano soggetti a revocatoria fallimentare pur se rientranti nel c.d. periodo sospetto.

Una significativa pronuncia ha riguardato l’ambito, poco battuto, delle operazioni straordinarie in ambito concordatario: segnatamente a parere di Sez. 1, n. 01181/2018, Terrusi, Rv. 647227-01, nel caso in cui il piano presentato preveda la fusione per incorporazione di una società in quella che abbia presentato la proposta di concordato, la relazione del professionista attestatore deve valutarne la fattibilità anche tenendo conto della platea dei creditori dell’incorporata, i quali possono fare opposizione alla fusione ex art. 2503 c.c., sicché il tribunale può dichiarare inammissibile la domanda di concordato ove detta relazione ometta del tutto di prendere in considerazione questa eventualità.

Un opportuno chiarimento è stato svolto da Sez. 1, n. 26646/2018, Dolmetta, Rv. 651306-01, secondo cui le azioni giudiziali promosse dall’imprenditore senza l’autorizzazione del giudice delegato, nel corso della procedura di concordato preventivo, non costituiscono di per sé atti di straordinaria amministrazione, idonei a giustificare di per sé la revoca dell’ammissione alla procedura ai sensi dell’art. 173 l. fall., presupponendo che il tribunale valuti, piuttosto, caso per caso la specifica finalità che l’atto posto in essere risulta aver perseguito rispetto all’obbiettivo incomprimibile del miglior soddisfacimento dei creditori. Nella specie, la Corte ha cassato con rinvio il decreto della corte d’appello che aveva confermato il rigetto della domanda di omologa del concordato preventivo, sul presupposto del mero avvio da parte della proponente, senza autorizzazione e in pendenza della procedura, di talune cause volte ad ottenere la restituzione di somme indebitamente trattenute da alcuni istituti di credito.

Sez. 1, n. 16856/2018, Terrusi, Rv. 649538-01, ha ritenuto che, tema di revoca dell’ammissione al concordato preventivo, si configurino come atti di frode le condotte del debitore idonee ad occultare situazioni di fatto suscettibili di influire sul giudizio dei creditori, ossia tali che qualora conosciute avrebbero presumibilmente comportato una valutazione diversa e negativa della proposta e che siano state “accertate” dal commissario giudiziale, cioè da lui “scoperte”, essendo in precedenza ignorate dagli organi della procedura o dai creditori. Rientrano, peraltro, tra i fatti “accertati” dal commissario giudiziale, ai sensi dell’art. 173 l. fall., non solo quelli “scoperti” perché prima del tutto ignoti nella loro materialità, ma anche quelli non adeguatamente e compiutamente esposti nella proposta concordataria e nei suoi allegati, i quali, ancorché annotati nelle scritture contabili, rivelino una valenza decettiva per i creditori. Nella specie, la Corte ha confermato la pronuncia della corte territoriale, che aveva qualificato come atto di frode il silenzio serbato nella proposta concordataria e nel piano annesso – ancorché essa fosse annotata nelle scritture contabili – su una operazione di scissione patrimoniale, effettuata dalla debitrice già insolvente e consistita nel conferimento di immobili a una società controllata e nella successiva cessione di quote ad un terzo.

Sez. 1, n. 11958/2018, Ferro, Rv. 648456-01, ha ritenuto che il pagamento non autorizzato di un debito scaduto eseguito in data successiva al deposito della domanda di concordato preventivo, non integra in via automatica, ai sensi dell’art. 173, comma 3, l. fall., una causa di revoca del concordato, la quale consegue solo alla verifica, da compiersi ad opera del giudice di merito, che tale pagamento, non essendo ispirato al criterio della migliore soddisfazione dei creditori, sia diretto a frodare le ragioni di questi ultimi, così pregiudicando le possibilità di adempimento della proposta formulata con la domanda di concordato. Nella decisione si ritrova, pertanto, la riaffermazione del principio già rinvenibile in Sez. 1, n. 03324/2016, Cristiano, Rv. 638668-01.

Sempre in tema di revoca del concordato preventivo, Sez. 1, n. 15695/2018, Fichera, Rv. 649137-01, ha ritenuto di annoverare tra gli atti di frode, rilevanti ai fini della procedura ex art. 173 l. fall., anche i fatti non adeguatamente e compiutamente esposti in sede di proposta concordataria o nei suoi allegati, indipendentemente dal voto espresso dai creditori in adunanza. Nella specie, la Corte ha affermato che, l’avere la società proponente omesso di fornire una plausibile spiegazione circa il rilevante scostamento di valore delle rimanenze di magazzino riportato nella proposta di concordato rispetto a quello indicato nell’ultimo bilancio, costituisce atto di frode.

Ancora in tema si colloca Sez. 1, n. 15013/2018, Terrusi, Rv. 649556-01, ove è affermato che gli atti di frode vanno intesi, sul piano oggettivo, come le condotte volte ad occultare situazioni di fatto idonee ad influire sul giudizio dei creditori, aventi valenza potenzialmente decettiva per l’idoneità a pregiudicare il consenso informato degli stessi sulle reali prospettive di soddisfacimento in caso di liquidazione, in quanto inizialmente ignorate dagli organi della procedura e dai creditori e successivamente accertate nella loro sussistenza o anche solo nella loro completezza ed integrale rilevanza, a fronte di una precedente rappresentazione del tutto inadeguata, purché siano caratterizzati, sul piano soggettivo, dalla consapevole volontarietà della condotta, di cui, invece, non è necessaria la dolosa preordinazione. Nella specie, il giudice d’appello, con statuizione confermata sul punto dalla Corte, aveva revocato l’ammissione al concordato preventivo per essersi accertata una situazione debitoria di gran lunga superiore a quella emergente dalla domanda, escludendo potessero riscontrarsi al riguardo “mere irregolarità contabili”. In tal senso, è stato confermato un principio già esposto da Sez. 1, n. 17191/2014, Di Virgilio, Rv. 632548-01.

Sez. 1, n. 31477/2018, Campese, Rv. 651894 – 01, si sofferma sui rapporti fra giudizio di omologazione del concordato preventivo e contestuale procedimento di revoca dell’ammissione alla procedura, di cui all’art. 173 l. fall., per chiarire che non si tratta di due subprocedimenti, separati ed autonomi, ma di due fasi di un unico procedimento, ricavandone la conseguenza per cui il provvedimento di revoca dell’ammissione alla procedura concorsuale, giustificato dall’accertamento di condotte fraudolente del debitore e non seguito dalla dichiarazione di fallimento della società proponente il concordato, qualora sia adottato nel corso del giudizio di omologazione ex art. 180 l.fall, instaurato all’esito della votazione favorevole dei creditori ed in assenza di opposizioni di quelli dissenzienti, importa anche il sostanziale diniego dell’omologazione, avverso il quale può essere proposto il reclamo di cui all’art. 183, comma 1, l. fall..

Sul piano del rito applicabile, Sez. 1, n. 05273/2018, Fichera, Rv. 647746-01, ha evidenziato che nel procedimento di revoca dell’ammissione, il tribunale non è tenuto, con il decreto di convocazione delle parti, a concedere il termine a difesa non inferiore a quindici giorni previsto dall’art. 15, comma 3, l. fall., sia in quanto il rinvio a tale disposizione contenuto nell’art. 173 l. fall. deve intendersi nei limiti della compatibilità, sia in quanto in tale ipotesi il contraddittorio tra creditore istante e debitore si è già instaurato, cosicché quest’ultimo è già a conoscenza della necessità di preparare la propria difesa anche in relazione alla possibile dichiarazione di fallimento, di cui la revoca del concordato costituisce uno dei presupposti. La stessa pronuncia (Rv. 647746-02) ritiene che il commissario giudiziale, ancorché non rivesta né in senso formale, né in senso sostanziale la qualità di parte, possa partecipare al procedimento ex art. 173 l. fall., peraltro instaurato su sua segnalazione, nelle forme che reputi più efficaci, eventualmente anche depositando una memoria difensiva e avvalendosi dell’assistenza tecnica di un difensore.

10.2. L’omologa e le impugnazioni.

Sulla portata giuridica del decreto di omologazione della domanda di concordato preventivo con cessione dei beni si è soffermata Sez. 1, n. 29741/2018, Campese, Rv. 651488-01, rinvenendo in esso una natura immediatamente esecutiva, tale da investire da subito il liquidatore nominato dal tribunale delle sue funzioni; dal che viene tratto il corollario per cui, qualora detto organo concorsuale, ancorché privo di legittimazione processuale, intervenga nel giudizio di opposizione all’omologa medesima, innanzi alla corte d’appello, non si determina alcuna nullità del relativo procedimento di reclamo. La medesima pronuncia (Rv. 651488-02) ha rilevato che nel concordato preventivo di una società di capitali la decisione di presentare la domanda di ammissione, salvo diversa previsione dello statuto, spetta all’organo amministrativo che delibera sempre con verbale notarile per esigenze di certezza della decisione in considerazione della sua importanza; nel caso di organo amministrativo monocratico, tuttavia, siffatta certezza è assicurata anche nel caso di una generica determina di proporre il concordato, in quanto il contenuto effettivo della proposta risulterà comunque dal ricorso sottoscritto dal medesimo legale rappresentante della società proponente. Ancora, nella decisione in parola (Rv. 651488-03), si evidenzia che nel concordato preventivo le modifiche alla proposta presentata possano intervenire anche in pendenza del procedimento teso alla revoca dell’ammissione al concordato ex art. 173 l. fall., poiché l’art. 175, comma 2, l. fall. – nel testo applicabile ratione temporis prima della sua soppressione disposta dal d.l. n. 83 del 2015, conv. con modif. dalla l. n. 132 del 2015 –, riconosce espressamente tale facoltà fino all’inizio delle operazioni di voto, al fine di evitare che il calcolo delle maggioranze si fondi su voti espressi in riferimento ad una proposta diversa da quella oggetto di omologa. Nella specie, la Corte ha ritenuto che il proponente potesse modificare la proposta in pendenza del procedimento teso alla revoca della sua ammissione al concordato e prima del voto, mediante la presentazione di fideiussioni tese a migliorarla senza necessità di ulteriori attestazioni in ordine al piano concordatario rimasto immutato.

Dell’omologazione tratta anche Sez. 1, n. 04192/2018, Genovese, Rv. 647421-01, la quale precisa che l’esclusione del diritto di voto di un creditore, ai sensi dell’art. 176, comma 2, l. fall., non determina l’invalidità della deliberazione di approvazione della proposta concordataria, se si accerta, tramite la c.d. prova di resistenza, che, quand’anche quel creditore fosse stato ammesso al voto, la proposta sarebbe risultata comunque approvata dalla maggioranza dei crediti.

Sulla valutazione degli esiti del voto dei creditori da parte del tribunale, si registra Sez. 1, n. 13295/2018, Vella, Rv. 648903-01, ove è esplicitato che dal combinato disposto degli articoli 175, comma 4 e 176, comma 1, l. fall., discende che i crediti oggetto di specifica contestazione da parte del debitore possono essere computati, ai fini del calcolo della maggioranze, solo se il giudice delegato, che è tenuto a provvedere per dirimere il contrasto, abbia adottato la decisione di provvisoria ammissione al voto (totale o parziale) dei titolari dei crediti.

Altre due le pronunce salienti relative alla fase dell’omologa e della sua impugnazione. Sez. 1, n. 15414/2018, Nazzicone, Rv. 649130-01, ha evidenziato che in tema di omologazione della proposta di concordato preventivo ex art. 180 l. fall., il tribunale esercita un sindacato incidentale circa la sussistenza dei crediti facenti capo ai creditori contestati, condizionali o irreperibili ai fini di disporre i relativi accantonamenti; diversamente, in presenza di crediti tributari oggetto di contestazione, per effetto della norma speciale di cui all’art. 90 d.p.r. n. 602 del 1973, il suindicato accantonamento è obbligatorio essendo rimesso al tribunale esclusivamente il potere di determinarne le relative modalità. Nella specie, la Corte ha accolto il ricorso proposto da Equitalia e cassato il decreto di omologazione del concordato preventivo emesso senza che fossero state accantonate le somme relative al credito tributario oggetto di contenzioso tra le parti.

Sez. 1, n. 16065/2018, Pazzi, Rv.649475-01, ha ritenuto che, in tema di legittimazione all’opposizione nel giudizio di omologazione del concordato preventivo, la locuzione “qualunque interessato”, di cui all’art. 180, comma 2, l. fall., comprenda anche i creditori che non raggiungono la soglia minima prevista dall’art. 180, comma 4, l. fall. Se uno dei creditori solleva formale opposizione all’omologa, pertanto, il Tribunale è tenuto a pronunciarsi nelle forme previste dal quarto e dal quinto comma dell’art. 180 l. fall., indipendentemente dal contenuto della contestazione, verificando dapprima l’ammissibilità dell’opposizione e poi la sua fondatezza. Nella specie la Corte ha cassato con rinvio il decreto del tribunale che aveva omesso di decidere sulla contestazione circa la convenienza del concordato, proposta da un creditore che non raggiungeva la soglia del venti per cento dei crediti ammessi al voto.

Nell’ambito dei rimedi impugnatori, Sez. 1, n. 21122/2018, Nazzicone, Rv. 650401-01, ha sancito l’inammissibilità del ricorso per cassazione ex art. 111, comma 7, Cost. avverso il decreto con cui il tribunale, in sede di reclamo, abbia confermato il decreto del giudice delegato di rigetto della domanda di restituzione delle somme accantonate per il soddisfacimento dei creditori irreperibili, trattandosi di atto giudiziale privo dei connotati della decisorietà e della definitività, potendo essere, su richiesta della stessa parte istante o d’ufficio, modificato e revocato in ogni tempo. La pronuncia ha così rafforzato l’identico principio già espresso da Sez. 1, n. 12265/2016, Cristiano, Rv. 640038-01.

Secondo Sez. 1, n. 05271/2018, Ferro, Rv. 647745-01, in tema di concordato preventivo con cessione dei beni, il richiamo, da parte dell’art. 182 l. fall., all’art. 108 l. fall. comporta che il potere di sospensione delle operazioni di vendita in capo al giudice delegato trovi piena esplicazione, senza che la clausola di compatibilità contenuta nel citato art. 182 l. fall. possa indurre a limitarne interpretativamente la portata. Ne consegue, pertanto, che l’esercizio di esso nel concordato preventivo è ancorato ai presupposti di cui all’art. 108 l. fall., senza che la mancata impugnazione di atti estranei e prodromici al subprocedimento di vendita possa precludere ai soggetti legittimati l’impugnazione del diniego di sospensione delle operazioni di vendita. Nella specie, la Corte ha cassato con rinvio il decreto del tribunale che aveva dichiarato inammissibile il reclamo spiegato da un creditore contro il diniego di sospensione delle operazioni di vendita pronunciato dal giudice delegato a un concordato preventivo con cessione dei beni, in mancanza di impugnazione del programma di liquidazione sulla base del quale l’ordinanza di vendita era stata emessa.

Di notevole incidenza appare Sez. 1, n. 18738/2018, Pazzi, Rv. 649584-01, la quale ha statuito che il concordato preventivo deve essere risolto, a norma dell’art. 186 l. fall., qualora emerga che esso sia venuto meno alla sua funzione di soddisfare i creditori nella misura promessa, a meno che l’inadempimento non abbia scarsa importanza, a prescindere da eventuali profili di colpa del debitore, non trattandosi di un contratto a prestazioni corrispettive ma di un istituto avente una natura negoziale contemperata da una disciplina che persegue interessi pubblicistici e conduce, all’esito dell’omologa, alla cristallizzazione di un accordo di natura complessa ove una delle parti (la massa dei creditori) ha consistenza composita e plurisoggettiva.

Di sicuro interesse, infine, è anche Sez. 1, n. 26002/2018, Lamorgese, Rv. 651321-01, ad avviso della quale, qualora il fallimento sia stato dichiarato quando è ancora possibile instare per la risoluzione ex art. 186 l. fall. della procedura concordataria, i creditori non sono tenuti a sopportare gli effetti esdebitatori e definitivi del concordato omologato, a norma dell’art. 184 l. fall., posto che l’attuazione del piano è resa impossibile per l’intervento di un evento come il fallimento che, sovrapponendosi al concordato medesimo, inevitabilmente lo rende irrealizzabile.

11. La liquidazione coatta amministrativa e l’amministrazione straordinaria.

Nell’ambito della liquidazione coatta amministrativa, di ampio respiro sistemico la statuizione contenuta in Sez. 1, 05116/2018, Dolmetta, Rv. 647635-01, secondo cui, la responsabilità, per debiti del cedente, dell’istituto di credito cessionario d’azienda di altro istituto di credito posto in liquidazione coatta amministrativa può farsi valere solo con l’insinuazione nello stato passivo del cedente, ex art. 90, comma 2, del d.lgs. n. 385 del 1993. Nella specie, la Corte ha ritenuto correttamente respinta l’azione di responsabilità perché proposta nei confronti dell’istituto cessionario mediante riassunzione del giudizio interrotto a seguito della messa in liquidazione coatta amministrativa dell’istituto cedente.

A tenore di Sez. 1, n. 10383/2018, Terrusi, Rv. 648555-01, nel contesto della liquidazione coatta, l’accertamento preventivo e l’accertamento successivo dello stato di insolvenza restano ancorati, per effetto delle disposizioni della legge fallimentare, ai medesimi presupposti sostanziali, sicché l’accertamento successivo è ammissibile soltanto nei confronti di quegli enti per i quali risulti ammissibile l’accertamento preventivo, anche se in concreto non compiuto, con conseguente esclusione in entrambi i casi degli enti pubblici.

Sez. 2, n. 05937/2018, Oricchio, Rv. 647877-01, ha osservato che l’assoggettamento di una impresa a liquidazione coatta amministrativa in corso di giudizio, comporta, con riguardo alla controversia promossa contro detta impresa per l’accertamento e il soddisfacimento di un credito, l’improponibilità della domanda stessa anche quando venga proposta come domanda riconvenzionale avente ad oggetto un credito opposto in compensazione.

Sez. 1, n. 04452/2018, Ceniccola, Rv. 647425-01, ha puntualizzato che la sentenza di revoca della dichiarazione dello stato di insolvenza è appellabile, ex art. 195 l. fall., nella formulazione anteriore alla modifica apportata dal d.lgs. n. 169 del 2007, e non ricorribile per cassazione, trovando applicazione, nel silenzio serbato dall’art. 10 del d.lgs. n. 270 del 1999 sul relativo regime impugnatorio, il rinvio “fisso”, contenuto nell’art. 36 del d.lgs. n. 270, alle disposizioni sulla liquidazione coatta amministrativa, nella versione precedente alla riforma di cui al cit. d.lgs. n. 169.

Nel contesto dell’amministrazione straordinaria disciplinata dal d.l. n. 26 del 1979, conv. con modif. dalla l. n. 95 del 1979 (cd. legge Prodi), Sez. 1, n. 27117/2018, Cristiano, Rv. 651307-01, ha chiarito che, ai sensi dell’art. 8, comma 3, lett. b), del d.l. n. 70 del 2011, conv. con modif. dalla l. n. 106 del 2011, in caso di mancata individuazione dell’assuntore del concordato fallimentare, il tribunale può disporre la conversione dell’amministrazione straordinaria in fallimento, ex artt. da 69 a 77 del richiamato d.lgs. n. 270 del 1999, senza dover attendere il decorso del termine di sei mesi dalla conclusione del detto procedimento di individuazione, trattandosi di norma tesa ad accelerare la chiusura di procedure aventi ormai funzioni esclusivamente liquidatorie, salvo che entro detto termine il commissario liquidatore abbia posto in essere tutte le operazioni prodromiche alla loro chiusura in via ordinaria, ovvero liquidato integralmente l’attivo residuo e chiuso le liti pendenti. La pronuncia sedimenta un principio già espresso, nei mesi immediatamente precedenti, da Sez. 1, n. 10384/2018, Terrusi, Rv. 648556-01, e da Sez. 1, n. 07971/2018, Pazzi, Rv. 648114-01.

Della prosecuzione ope legis dei contratti in corso si è occupata anche Sez. 1, n. 01195/2018, Campese, Rv. 647229-01, traendo da detta prosecuzione il corollario per cui il contratto ineseguito o parzialmente eseguito continua ad avere esecuzione sia dopo la dichiarazione di insolvenza, sia a seguito dell’apertura dell’amministrazione straordinaria, finché il commissario non eserciti, formalmente ed inequivocabilmente, la facoltà di sciogliersi dal contratto, sia perché a ciò appositamente provocato dall’altro contraente mediante l’interpello previsto dal comma 3 dell’art. 50, sia perché in tal senso spontaneamente determinatosi a prescindere dalla detta intimazione della controparte. Ne consegue che durante la parentesi di esecuzione “inerziale” del contratto, di cui al citato comma 2, il contraente in bonis deve attendere le scelte del commissario – salvo metterlo in mora mediante l’interpello e sempre che prima non sia intervenuta la scadenza naturale del contratto – senza che l’esecuzione del contratto ad opera della procedura possa essere interpretata come tacito subentro per facta concludentia del commissario, preclusivo della sua facoltà di scioglimento. Nella specie, la Corte ha ritenuto non opponibile alla procedura la disdetta del contratto annuale di somministrazione di gas all’unità produttiva, comunicata dal somministrante, al fine di impedirne il rinnovo tacito, prima dell’autorizzazione ministeriale del programma e senza che il commissario si fosse espresso circa il subentro o meno nel contratto.

Ancora sulla prosecuzione ex art. 50, comma 2, del d.lgs. n. 270 del 1999, come interpretato dall’art. 1-bis del d.l. n. 134 del 2008, conv., con modif., dalla l. n. 166 del 2008, dei contratti in corso in funzione della conservazione dell’impresa ammessa alla procedura, si sofferma Sez. 1, n. 28797/2018, Iofrida, Rv. 651472-01, precisando, ancora una volta, che i detti contratti continuano ad avere esecuzione fino a quando il commissario non eserciti la facoltà di sciogliersi e, dall’altro, i crediti maturati dal contraente in bonis dopo l’apertura della procedura devono essere ammessi al passivo in prededuzione, essendo le relative prestazioni finalizzate alla continuazione dell’attività d’impresa ex art. 52 del d.lgs. n. 270 del 1999. Nella specie, la Corte ha confermato la sentenza di merito che aveva ammesso in prededuzione il credito per la rata del premio relativo ad un contratto di assicurazione sulla responsabilità civile pendente all’apertura della procedura, maturato tra quest’ultima data e la dichiarazione del commissario di scioglimento dal detto contratto.

Sotto altro aspetto, di sicuro interesse il rilievo operato da Sez. 1, n. 18151/2018, Pazzi, Rv. 649898-01, secondo cui, in applicazione dell’art. 40 d.lgs. n. 270 del 1999, a seguito del conferimento dell’incarico, il Commissario dell’amministrazione straordinaria non è tenuto soltanto all’attuazione del programma di cui all’art. 54 d.lgs. citato, ma anche alla gestione dell’impresa e all’amministrazione dei beni dell’imprenditore dapprima in attesa dell’autorizzazione all’esecuzione di tale programma e poi, una volta intervenuta l’autorizzazione, in funzione della migliore attuazione dello stesso, sicché, essendo il rapporto equiparabile a un mandato nell’interesse del ceto creditorio, in caso di violazione del dovere di corretta e regolare amministrazione secondo i generali principi della materia, è configurabile una responsabilità di natura contrattuale, regolata dall’art. 1218 c.c..

Sez. 1, n. 03948/2018, Ceniccola, Rv. 647416-01, ha precisato che l’art. 50 del d.lgs. n. 270 del 1999 – anche alla stregua dell’interpretazione autentica fornitane dall’art. 1-bis del d.l n. 134 del 2008, conv., con modif., dalla l. n. 166 del 2008 – prevede la continuazione dei contratti preesistenti all’amministrazione straordinaria a condizione che il commissario straordinario manifesti espressamente la volontà di subingresso. A tal fine la pronuncia sottolinea la sufficienza di una manifestazione di volontà del commissario diretta in modo non equivoco a profittare del medesimo programma negoziale già pendente tra le parti, desumibile anche dal rinvio, operato dal commissario, alle condizioni contrattuali contenute in un accordo tra le parti anteriore all’apertura della procedura, risultando con ciò integrata la condizione dalla quale la legge fa dipendere il riconoscimento della prededuzione in ordine alle prestazioni già eseguite.

12. Il sovraindebitamento.

Le pronunce salienti in tema si collocano tutte sul versante processualistico e indagano la natura dei provvedimenti di rigetto assunti, a vario livello, dal giudice investito dalla procedura.

Sez. 6-1, n. 04497/2018, Terrusi, Rv. 647887-01, ha evidenziato che il decreto reiettivo del reclamo avverso il provvedimento, successivo alla nomina del professionista ex art. 15, comma 9, l. n. 3 del 2012, di archiviazione della procedura di accordo di composizione della crisi da sovraindebitamento, non è un provvedimento avente carattere decisorio, sicché non è ricorribile per cassazione.

Un’ottica analoga si ritrova in Sez. 6-1, n. 04500/2018, Terrusi, Rv. 647890-01, secondo cui il decreto reiettivo del reclamo avverso il provvedimento che ha dichiarato inammissibile la proposta di accordo di composizione della crisi da sovraindebitamento, non decidendo nel contraddittorio tra le parti su diritti soggettivi e non escludendo, pertanto, la reiterabilità della proposta medesima, è privo dei caratteri della decisorietà e definitività e non è ricorribile per cassazione.

Prospettiva identica si rinviene in Sez. 6-1, n. 04499/2018, Terrusi, Rv. 647889-01, ove è affermato che il provvedimento reiettivo del reclamo proposto avverso il decreto di rigetto di una proposta di accordo di composizione della crisi da sovraindebitamento è privo dei caratteri della decisorietà e definitività, sicché non è ricorribile per cassazione.

Una visuale differente sembra contrassegnare, invece, Sez. 1, n. 04451/2018, Dolmetta, Rv. 647424-01, secondo cui è ammissibile il ricorso per cassazione avverso il decreto di rigetto del reclamo proposto nei confronti del provvedimento con cui il Tribunale, in composizione monocratica, abbia respinto l’istanza di omologazione del piano proposto dal consumatore nell’ambito della procedura di sovraindebitamento disciplinata dalla legge n. 3 del 2012, come integrata dalla legge n. 221 del 2012, in quanto provvedimento dotato del requisito della definitività – non essendo revocabile in dubbio che lo stesso sia «non altrimenti impugnabile» – e di quello della decisorietà. La decisione si pone in evidente difformità rispetto a n. 19117 del 2017, Terrusi, Rv. 645686-01.

PARTE QUINTA IL DIRITTO DEL LAVORO E DELLA PREVIDENZA --- SEZIONE PRIMA - IL RAPPORTO DI LAVORO PRIVATO (coordinata da Ileana Fedele e Milena D'Oriano)

  • retribuzione del lavoro
  • datore di lavoro
  • condizioni di lavoro

CAPITOLO XVII

OBBLIGHI, RESPONSABILITÀ E DIRITTI DEL DATORE E DEL PRESTATORE DI LAVORO

(di Antonella Filomena Sarracino )

Sommario

1 Premessa. - 2 Gli obblighi di protezione del datore di lavoro e la tutela delle condizioni di lavoro. - 2.1 Il limite del rischio cd. elettivo. - 2.2 Il riparto degli oneri della prova in tema di responsabilità datoriale ex art. 2087 c.c. nonché in tema di comportamenti datoriali discriminatori. - 2.3 La tutela dei lavoratori, risarcitoria ed in forma specifica. La decorrenza del termine di prescrizione. - 2.4 La clausola della buona fede anche a latere praestatoris. - 3 Il mobbing e lo straining. - 4 Le novità legislative in tema di ius variandi e di demansionamento. - 4.1 I limiti all’esercizio dello ius variandi. - 4.2 L’onere della prova e gli effetti del demansionamento. - 4.3 Il rifiuto del lavoratore di eseguire la prestazione in caso di demansionamento. - 5 L’assegnazione del dipendente a mansioni superiori: gli obblighi datoriali (corresponsione del trattamento retributivo corrispondente e riconoscimento del superiore livello). - 5.1 La complessità delle mansioni parametro di valutazione della diligenza del lavoratore. - 5.2 Il tratto distintivo fra redattore e collaboratore fisso nell’impresa giornalistica. Il grafico redattore ordinario. - 5.3 Le conseguenze dell’assegnazione a mansioni diverse da quelle previste nel patto di prova e la verifica della legittimità del patto. - 6 Il trasferimento del lavoratore. - 6.1 Il trasferimento per incompatibilità ambientale ed i limiti al sindacato giurisdizionale su detto atto. - 6.2 La forma del provvedimento di trasferimento ed il mancato rispetto del termine di preavviso. - 6.3 La libertà datoriale di operare lo spostamento dei lavoratori nell’ambito della unità produttiva. - 6.4 La posizione del lavoratore raggiunto da un trasferimento o da un distacco illegittimi. - 6.5 Gli emolumenti retributivi in caso di trasferimento. - 7 La retribuzione ed il TFR. L’imputazione dei pagamenti. - 7.1 La presunzione di onerosità della prestazione. - 7.1.1 L’inesistenza di un principio generale di omnicomprensività della retribuzione. - 7.1.2 Il principio dell’assorbimento in materia di retribuzione. - 7.2 Il riparto degli oneri della prova in tema di retribuzione con riguardo al lavoro straordinario ed alla indennità di rischio da radiazioni. - 7.3 I trattamenti economici per servizio estero e per il caso di trasferimento. - 7.4 La ripetibilità da parte del datore delle ritenute fiscali in caso di riforma della sentenza di condanna. - 7.4.1 L’esclusione dalla retribuzione imponibile delle somme di incentivazione all’esodo. - 7.5 La derogabilità del principio di immodificabilità in peius della retribuzione in materia di società cooperative. - 7.6 La determinazione del compenso in tema di lavoro giornalistico. - 7.7 La natura retributiva della indennità sostitutiva delle ferie. - 7.8 La retribuzione e la contrattazione collettiva. - 7.9 Il TFR. - 8 L’eterodirezione, ai fini della delimitazione del “tempo lavoro” e quindi della subordinazione. - 8.1 I controlli datoriali allo svolgimento della prestazione lavorativa. - 8.2 L’inadempimento datoriale delle forniture di vestiario. - 9 La forma dei negozi giuridici in materia di lavoro. - 10 Le dimissioni del lavoratore: la rilevanza della incapacità naturale e gli effetti ai fini retributivi. La tempestività del recesso del lavoratore in caso di giusta causa.

1. Premessa.

Obblighi, responsabilità e diritti del datore di lavoro e del prestatore, ovvero l’essenza del rapporto di lavoro subordinato, di quel rapporto contrattuale di durata, presidiato da peculiari garanzie a favore del prestatore, ma nello stesso tempo connotato dalla subordinazione e dalla eterodirezione, sono il filo conduttore di questo breve excursus in cui si è cercato di esaminare in un quadro di riferimento organico, partendo dagli obblighi di protezione datoriale, tutte le pronunzie della S.C. dell’anno appena trascorso relative ai temi innanzi indicati, ivi includendo anche la forma del contratto e dei provvedimenti datoriali in genere.

Ebbene, ad onta delle recenti novelle legislative, non va sottaciuto che l’imprinting del contratto di lavoro, quanto alla posizione del datore, è ancora la sussistenza dell’obbligo di protezione del lavoratore.

Nel contratto di lavoro, sul datore infatti incombe non solo l’obbligo di pagamento della retribuzione a fronte della esecuzione della prestazione lavorativa, ma anche quello, autonomo, e del pari primario, di protezione del prestatore.

In tutti i contratti, è vero, vi è l’obbligo di rispetto della controparte che trova fonte nell’art. 1375 c.c.; trattasi, però, di un obbligo cd. secondario, distinto, seppur connesso agli obblighi primari di prestazione. Non così nel contratto di lavoro, in cui il legislatore ha ritenuto indispensabile, attesa la peculiarità del rapporto contrattuale, imporre all’imprenditore non solo l’obbligo di prevenzione generale, allo scopo di elidere i rischi derivanti dallo svolgimento delle mansioni, ma anche quello più pregnante di valorizzazione della personalità morale e della professionalità del prestatore, solo in parte affievolito (cfr. infra) dalla novella dell’art. 2103 c.c..

Ai sensi dell’art. 2087 c.c., infatti, il datore ha l’obbligo di protezione della persona fisica e della personalità morale del lavoratore, attraverso l’adozione di tutte le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie ai fini sopraindicati. In altri termini, sul datore incombe, per un verso, l’attivazione di tutte le garanzie atte ad impedire qualsivoglia rischio nell’ambiente di lavoro, per altro verso la tutela e la promozione della professionalità dei dipendenti.

Nel corso del 2018 la giurisprudenza di legittimità su questi temi ha avuto modo di ribadire, in continuità con le posizioni già assunte negli anni precedenti, che gli obblighi di protezione datoriale cedono tuttavia il passo di fronte alla sussistenza di ipotesi cd. di rischio elettivo, nonché di occuparsi della delimitazione del riparto degli oneri della prova tra datore e prestatore di lavoro in tema di responsabilità ex art. 2087 c.c., ma anche in tema di comportamenti antidiscriminatori, riaffermando l’insussistenza di un’ipotesi di responsabilità oggettiva datoriale, ed infine di indagare le forme di tutela apprestate ai lavoratori, anche con riguardo al decorso del termine di prescrizione.

Le brevissime notazioni compiute con riguardo all’art. 2087 c.c. fanno emergere con evidenza la illiceità del mobbing ovvero di quelle condotte datoriali, protratte nel tempo, aventi un intento persecutorio del lavoratore; si pensi ad un progressivo e del tutto ingiustificato svuotamento delle mansioni, in un clima di estrema tensione in azienda.

Il fondamento della illegittimità delle condotte di mobbing, quindi, è da ravvisare proprio nell’obbligo datoriale, ex art. 2087 c.c., di adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità psicofisica e la personalità morale del prestatore.

Del mobbing si è occupata la S.C. nell’anno da poco trascorso, sia con riguardo alla enucleazione dell’essenza delle condotte a tal fine rilevanti, ravvisata, anche in questo caso sulla scia del pregresso insegnamento, nell’intento persecutorio che deve sorreggere i singoli comportamenti datoriali, sia con riferimento alla delimitazione di detta figura da quella adiacente dello straining.

In consonanza con la previsione dell’art. 2087 c.c., e dunque con il doveroso rispetto della personalità morale e della stessa professionalità del lavoratore, l’art. 2103 c.c. disciplina l’esercizio del cosiddetto ius variandi ossia i limiti del potere datoriale di adibizione a mansioni differenti ed inferiori rispetto a quelle per le quali era stato assunto, limiti peraltro non più così stringenti in quanto dilatati a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 3 del d.lgs. 15 giugno del 2015, n. 81, che ha novellato l’art. 2103 c.c..

La dequalificazione professionale va peraltro distinta dal mobbing perché nella prima, pur avendo il datore adibito il prestatore a mansioni inferiori, difetta la sussistenza di un intento persecutorio.

Sebbene con riguardo al testo anteriore al d.lgs. 81 del 2015, la S.C. ha avuto modo di soffermarsi sul demansionamento, indagando i limiti all’esercizio dello ius variandi oltre che il riparto dell’onere della prova ed i suoi effetti con particolare riferimento al danno risarcibile, per verificare, poi, le conseguenze del rifiuto del lavoratore di eseguire la prestazione per il caso di assegnazioni a mansioni inferiori.

Sul fronte opposto, com’è noto, il datore di lavoro ha l’obbligo (ed il prestatore il diritto), al ricorrere delle condizioni previste dall’art. 2103 c.c., di inquadrare il lavoratore nella qualifica corrispondente allo svolgimento di mansioni superiori dopo che sia trascorso il periodo di tempo determinato dalla contrattazione collettiva o dalla legge. Anche di detti aspetti si è occupata la S.C., in sintonia con le posizioni già espresse negli anni precedenti, delimitando la nozione di dipendente avente diritto alla conservazione del posto, affermando l’applicazione dell’art. 2103 c.c. anche alle ipotesi in cui la sostituzione del dipendente con mansioni superiori rientri tra quelle tipiche, ma la sistematicità della sostituzione sia indice di una scelta datoriale, delineando il contenuto delle mansioni dirigenziali ed occupandosi della ultrattività della contrattazione collettiva nella materia in esame, oltre che della enucleazione delle mansioni di redattore nell’impresa giornalistica.

Per affinità con le questioni di cui innanzi, si darà altresì brevemente conto delle conseguenze dell’assegnazione del lavoratore a mansioni diverse da quelle previste nel patto di prova e delle riflessioni del giudice di legittimità per il caso dell’apposizione della clausola di prova ad un contratto a tempo indeterminato, successivo alla plurima reiterazione di contratti a termine (ed avente ad oggetto le medesime mansioni), da ultimo, delle riflessioni della S.C. in tema di rapporti tra prova e periodo di comporto.

Del pari, va ricordato che le mansioni assumono rilevanza ai fini della valutazione della diligenza del lavoratore che deve essere effettuata avendo riguardo sia alla natura della prestazione che all’interesse dell’impresa.

Quanto al contemperamento delle esigenze personali del lavoratore e di quelle aziendali, infine, va rilevato che il datore, a norma dell’art. 2103 c.c., che non è stato inciso dalla novella sotto questo profilo, può provvedere al trasferimento del prestatore, ma solo in presenza di comprovate ragioni tecniche, produttive ed organizzative.

La giurisprudenza di legittimità ha delimitato la nozione del trasferimento, approfondendola con riguardo a quello disposto per incompatibilità ambientale, ribadendo che si è in presenza di un provvedimento che nemmeno latamente assume i connotati della sanzione disciplinare, puntualizzando i limiti del sindacato giurisdizionale su detto atto, a forma libera, salvo che sia diversamente previsto dalla contrattazione collettiva.

Il trend di maggiore interesse in questo ambito è, ad ogni modo, la valutazione del rifiuto del lavoratore di ottemperare al trasferimento illegittimo.

Alla prestazione lavorativa da eseguirsi nel cd. “tempo lavoro” ovvero nell’arco temporale in cui si estrinseca l’eterodirezione datoriale, sul piano sinallagmatico si contrappone quella corrispettiva del datore di erogazione della retribuzione, ivi compreso il TFR che matura in corso di rapporto, ma deve essere erogato solo alla cessazione (per qualsivoglia motivo) dello stesso.

Ebbene, in relazione alle questioni retributive emergerà una sostanziale omogeneità nella linea tendenziale con riferimento alle pronunzie degli anni precedenti, sia con riguardo alla presunzione di onerosità della prestazione, che con riferimento alla delimitazione del riparto degli oneri della prova (sia per il lavoro straordinario che per la indennità di rischio da radiazioni), sia per quanto concerne il principio di assorbimento in materia di retribuzione che per quello che riguarda la rinnovata affermazione della inesistenza di un principio generale di omnicomprensività della retribuzione, oltre che per le regole che sovraintendono l’imputazione dei pagamenti eseguiti dal datore.

La rassegna darà inoltre conto degli ultimi approdi in tema di indennità di servizio estero, di compensi per lavoro giornalistico, di ripetibilità delle trattenute da parte del datore per il caso di riforma della sentenza di condanna, di esclusione dalla retribuzione imponibile delle somme di incentivazione all’esodo, soffermandosi infine sulla natura retributiva della indennità per ferie non godute e dei rapporti tra ferie e comporto.

In conclusione, verranno esaminate le pronunzie della S.C. che hanno determinato un approfondimento delle questioni che attengono al recesso del lavoratore, dalle quali -ancora una volta – emerge, in un’ottica costituzionalmente orientata, l’attenzione della giurisprudenza alla parte debole del rapporto.

Nel dettaglio, la S.C. ha indagato la nozione di incapacità naturale da valorizzare per ritenere annullabile il negozio di dimissioni, nonché gli effetti ai fini retributivi per il caso di annullamento del recesso del lavoratore e la nozione di tempestività in caso di giusta causa.

In limine, verrà dato atto dell’approfondimento condotto dalla S.C. in relazione al significato di eterodirezione datoriale, sia con riguardo alla distinzione tra lavoro autonomo e subordinato, sia con riferimento alla delimitazione del cd. “tempo lavoro”, anche al fine di verificare poteri e limiti al controllo datoriale sulla prestazione, oltre che gli effetti dell’inadempimento alla fornitura di capi di vestiario, per concludere si rammenteranno gli ultimi approdi relativi alla forma dei negozi giuridici in detta materia.

2. Gli obblighi di protezione del datore di lavoro e la tutela delle condizioni di lavoro.

2.1. Il limite del rischio cd. elettivo.

Allo scopo di delimitare l’ambito applicativo degli obblighi di protezione del datore nei confronti del lavoratore, Sez. L, n. 16026/2018, Bellè, Rv. 649356-02, ha ribadito che il datore di lavoro è tenuto a prevenire anche le condizioni di rischio insite nella possibile negligenza, imprudenza o imperizia del lavoratore, dimostrando di aver messo in atto a tal fine ogni mezzo preventivo idoneo, con l’unico limite, però, del cd. rischio elettivo, da intendere come condotta personalissima del dipendente, intrapresa volontariamente e per motivazioni personali, al di fuori delle attività lavorative ed in modo da interrompere il nesso eziologico tra la prestazione e attività assicurata. Nello specifico la Suprema Corte ha ritenuto non potesse essere esclusa la responsabilità del datore, in caso di infortunio mortale occorso ad un lavoratore investito dal treno mentre operava un controllo degli scambi ferroviari, per il sol fatto che detto intervento era stato effettuato in anticipo rispetto all’orario prefissato, vieppiù in considerazione del rilievo che era emerso dall’istruttoria che lo stesso datore gli aveva consegnato le chiavi per accedere al luogo dell’intervento anteriormente all’orario, pur prefissato nell’ordine di servizio.

La pronunzia innanzi indicata si pone dunque in assoluta armonia con quanto affermato dalla Cassazione anche negli anni precedenti, basti a tal uopo ricordare, tra le più recenti, Sez. L, n. 798/2017, Manna, Rv. 642508-02, con cui è stato affermato, in tema di infortuni sul lavoro e di cd. rischio elettivo, che la responsabilità esclusiva del lavoratore sussiste soltanto ove questi abbia posto in essere un contegno abnorme, inopinabile ed esorbitante rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, cosi da porsi come causa esclusiva dell’evento e creare condizioni di rischio estranee alle normali modalità del lavoro da svolgere. In assenza di tale contegno, l’eventuale coefficiente colposo del lavoratore nel determinare l’evento è irrilevante sia sotto il profilo causale che sotto quello dell’entità del risarcimento dovuto, perché la ratio di ogni normativa antinfortunistica è quella di prevenire le condizioni di rischio insite negli ambienti di lavoro e finanche nella possibile negligenza, imprudenza o imperizia degli stessi lavoratori.

2.2. Il riparto degli oneri della prova in tema di responsabilità datoriale ex art. 2087 c.c. nonché in tema di comportamenti datoriali discriminatori.

La S.C. ha inoltre affrontato il tema del riparto degli oneri della prova in tema di responsabilità datoriale ex art. 2087 c.c., negando che essa costituisca una ipotesi di responsabilità oggettiva.

Sul punto, ponendosi in linea di continuità con Sez. L, n. 2038/2013, Arienzo, Rv. 624863-01, Sez L, n. 18626/2013, Napoletano, Rv. 628377-01, nonché con Sez. L, n. 2209/2016, Esposito, Rv. 638608-01, la recentissima Sez. L, n. 24742/2018, De Gregorio, Rv. 650725-01, ribadisce che l’art. 2087 c.c. non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro – di natura contrattuale – va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento.

Ne consegue che incombe sul lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare, oltre all’esistenza di tale danno, la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’uno e l’altra. Solo se il lavoratore avrà fornito tale prova, il datore dovrà a sua volta provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e/o che quella che la malattia del dipendente non è ricollegabile alla inosservanza degli obblighi di protezione. Nell’ultima delle sentenze indicate, in particolare, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva rigettato la pretesa risarcitoria della lavoratrice – caduta in ufficio scivolando su di una carpetta di plastica trasparente portadocumenti – sul presupposto che non era stata provata la nocività dell’ambiente di lavoro, non emergendo quale misura organizzativa fosse adottabile per evitare l’infortunio.

L’orientamento del giudice di legittimità appare consolidato sul punto, tant’è che viene sostanzialmente ribadito anche da Sez. L, n. 26495/2018, Marchese, Rv. 651196-01, che ancora sottolinea come l’art. 2087 c.c. non configuri un’ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro – di natura contrattuale – va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento, sicché grava sul lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare, oltre all’esistenza di tale danno, la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’uno e l’altra, e solo se il lavoratore abbia fornito tale prova sussiste per il datore di lavoro l’onere di dimostrare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non è ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi. La S.C., in applicazione del suddetto principio, ha quindi confermato la sentenza di merito che aveva escluso la responsabilità datoriale per il danno subito da un lavoratore durante un’operazione di taglio a mezzo di una macchina troncatrice, avendo il datore messo a disposizione del lavoratore una macchina in perfetto stato di manutenzione, dotata di dispositivi di protezione atti a evitare il contatto con la lama ed avendo formato e informato periodicamente il lavoratore sui rischi connessi al suo utilizzo.

Va peraltro segnalato e sottolineato come sul tema in esame vi sia una sinergia delle sezioni della corte che si muovono all’unisono verso la medesima direzione.

Nello stesso senso, infatti, nel corso di quest’anno, si è altresì pronunziata anche Sez. 3, n. 20889/2018, Travaglino, Rv. 650436-01, affermando con riferimento a una controversia relativa ai danni patiti da un lavoratore in conseguenza di un’infezione contratta per causa di servizio, che, ove sia stata accertata in sede di equo indennizzo la derivazione causale della patologia dall’ambiente di lavoro, e tale accertamento venga ritenuto utilizzabile dal giudice di merito, opera a favore del lavoratore l’inversione dell’onere della prova prevista dall’art. 2087 c.c., di modo che grava sul datore di lavoro l’onere di dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi dell’evento dannoso. Nemmeno va taciuto che anche in tale specifico ambito l’orientamento della Corte appare consolidato. Nello stesso senso, infatti, si era già espressa, sempre con riguardo ad una infezione contratta da un medico per causa di servizio e specificamente a cagione dell’ambiente di lavoro, Sez. L, n. 17017/2007, D’Agostino, Rv. 59964-01.

Nella delimitazione degli obblighi di sicurezza datoriali, Sez. L, n. 05957/2018, Lorito, Rv. 647503-01, ha ulteriormente precisato però che, nel caso in cui un danno sia stato causato al lavoratore da cosa che il datore di lavoro ha in custodia – con il correlato obbligo di vigilanza e controllo su di essa – e sia accertato il nesso eziologico tra il danno stesso e l’ambiente ed i luoghi di lavoro, sussiste la una responsabilità del datore di lavoro, salvo che lo stesso provi il caso fortuito, ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 2051 c.c. (danno cagionato da cose in custodia) e 2087 c.c. (tutela delle condizioni di lavoro).

Per l’evidente contiguità con i temi qui trattati va pure ricordata Sez. L, n. 25543/2018, Rv. 650734-01, che, in tema di comportamenti datoriali discriminatori, del pari si occupa degli oneri probatori.

Ebbene, la pronunzia innanzi richiamata, ritiene che l’art. 40 del d.lgs. 11 aprile 2006, n. 198 – nel fissare un principio applicabile sia nei casi di procedimento speciale antidiscriminatorio che di azione ordinaria, promossi dal lavoratore ovvero dal consigliere di parità – non stabilisce un’inversione dell’onere probatorio, ma solo un’attenuazione del regime probatorio ordinario in favore del ricorrente, prevedendo a carico del datore di lavoro, in linea con quanto disposto dall’art. 19 della Direttiva CE n. 2006/54 (come interpretato dalla Corte di Giustizia Ue 21 luglio 2011, C-104/10), l’onere di fornire prova dell’inesistenza della discriminazione, ma a condizione che il lavoratore (o il consigliere di parità) abbia previamente fornito al giudice elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, anche se non gravi, la presunzione dell’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso.

2.3. La tutela dei lavoratori, risarcitoria ed in forma specifica. La decorrenza del termine di prescrizione.

Qualora l’imprenditore abbia violato gli obblighi di protezione sullo stesso incombenti ex art. 2087 c.c., il lavoratore avrà diritto sia al risarcimento dei danni (patrimoniali e non), sia alla tutela in forma specifica.

Ed infatti, in tema di obblighi di protezione ex art. 2087 c.c. trova applicazione il medesimo principio espresso in riferimento al demansionamento illegittimo, nel senso che il giudice di merito, oltre a sanzionare l’inadempimento dell’obbligo da parte del datore di lavoro con la condanna al risarcimento del danno, può emanare una pronuncia di adempimento in forma specifica, di contenuto satisfattorio dell’interesse leso, che condanni il datore ad affidare al lavoratore mansioni confacenti alle condizioni di salute e riconducibili a quelle già assegnate ovvero di contenuto equivalente. Tale obbligo, precisa il giudice di legittimità, è derogabile solo nel caso in cui il datore provi l’impossibilità di ricollocare utilmente il lavoratore nell’azienda, secondo l’assetto organizzativo insindacabilmente stabilito dall’imprenditore. In tal senso si veda, Sez. L, n. 20080/2018, De Gregorio, Rv. 650044-01.

In relazione al danno non patrimoniale risarcibile, ai criteri di prova ed al quantum dello stesso, si è affermato che il decesso di un lavoratore a seguito di infortunio sul lavoro fa presumere, ai sensi dell’art. 2727 c.c., la sofferenza morale e quindi il danno non patrimoniale degli stretti congiunti, sicché, nei casi suddetti, incomberà sul danneggiante l’onere di dimostrare l’inesistenza di tale pregiudizio ovvero che i rapporti tra vittima e superstiti fossero di indifferenza, insufficiente ai fini indicati la mera mancanza di convivenza (circostanza quest’ultima che potrà però essere valutata ai fini del quantum debeatur). In tal senso si è espressa, Sez. L, n. 29784/2018, Marotta, Rv. 651673-01.

Quanto alla individuazione del termine da cui decorre la prescrizione del diritto al risarcimento del danno da fatto illecito, che si tratti di una ipotesi di violazione degli obblighi di protezione o della diversa ipotesi di demansionamento, Sez. L, n. 09318/2018, Pagetta, Rv. 648725-01, ha distinto l’illecito istantaneo, caratterizzato da un’azione che si esaurisce in un lasso di tempo definito, lasciando permanere i suoi effetti, ipotesi in cui la prescrizione incomincia a decorrere con la prima manifestazione del danno, dall’illecito permanente in cui, protraendosi la verificazione dell’evento in ogni momento della durata del danno e della condotta che lo produce, la prescrizione ricomincia a decorrere ogni giorno successivo a quello in cui il danno si è manifestato per la prima volta, fino alla cessazione della predetta condotta dannosa. In applicazione di detto principio, peraltro affermato in consonanza con quanto già ritenuto da Sez. U, n. 23763/2011, Massera, Rv. 619392-01, la S.C. ha cassato la decisione di merito, che, in una controversia per demansionamento, aveva individuato come dies a quo di decorrenza della prescrizione la data di manifestazione del danno invece che quella di cessazione della condotta illecita da parte del datore di lavoro.

2.4. La clausola della buona fede anche a latere praestatoris.

La buona fede, si è visto, è clausola che presidia ogni rapporto contrattuale e dunque anche lo svolgimento della prestazione da parte del lavoratore.

Al riguardo, in relazione al caso in cui il lavoratore svolga altra attività lavorativa durante lo stato di malattia, si è affermato che detta ipotesi configura la violazione degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà nonché dei doveri generali di correttezza e buona fede, non solo quando tale attività esterna sia, di per sé, sufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia, ma anche nel caso in cui la medesima attività, valutata con giudizio ex ante in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione o il rientro in servizio.

In applicazione di tale principio, la S.C. ha infatti confermato la decisione di merito, la quale aveva ritenuto legittimo il licenziamento di un lavoratore – addetto al lavaggio di automezzi – che, nel periodo di malattia conseguente a “dolenzia alla spalla destra determinata da un lipoma”, aveva svolto presso un cantiere attività di sbancamento di terreno con mezzi meccanici e manuali. Si veda in tal senso Sez. L, n. 26496/2018, Marchese, Rv. 650900-01, conforme a Sez. L, n. 10416/2017, Leo, Rv. 644037-01 (v. sul punto anche capitolo sul licenziamento individuale e collettivo, § 2.10).

3. Il mobbing e lo straining.

Come si è anticipato in premessa, l’obbligo di protezione di cui all’art. 2087 c.c. fonda anche il divieto di comportamenti lesivi della personalità morale (oltre che della integrità fisica) dei lavoratori e dunque anche dei comportamenti mobbizzanti, ovvero quei comportamenti datoriali protratti nel tempo, con intento persecutorio del lavoratore.

Quanto alla definizione della figura, Sez. L, n. 12437/2018, Patti, Rv. 648956-01, ha ribadito che è configurabile il mobbing lavorativo ove ricorra l’elemento obiettivo, integrato da una pluralità di comportamenti del datore di lavoro, e quello soggettivo dell’intendimento persecutorio del datore medesimo, confermando, dunque, la decisione di merito che aveva ravvisato entrambi gli elementi, individuabili, il primo, nello svuotamento progressivo delle mansioni della lavoratrice e, il secondo, nell’atteggiamento afflittivo del datore di lavoro, all’interno di un procurato clima di estrema tensione in azienda.

La pronunzia si pone in linea di continuità con l’orientamento della Corte, Sez. L, n. 26684/2017, Di Paolantonio, Rv. 646150-01, che ha valorizzato proprio la presenza dell’intento persecutorio, quale elemento qualificante del fenomeno ed unificatore delle condotte datoriali.

Così definito il mobbing, il giudice di legittimità ha avuto altresì modo, nel corso dell’anno 2018, di tratteggiare l’actio finium regundorum, tra la figura in esame e lo straining.

In tema, Sez. L, n. 18164/2018, Marotta, Rv. 649817-01, ha precisato che lo straining è una forma attenuata di mobbing, cui difetta la continuità delle azioni vessatorie, sicché la prospettazione solo in appello di tale fenomeno, se nel ricorso di primo grado gli stessi fatti erano stati allegati e qualificati come mobbing, non integra la violazione dell’art. 112 c.p.c., costituendo entrambi comportamenti datoriali ostili, atti ad incidere sul diritto alla salute.

Dunque, secondo quanto affermato dal giudice di legittimità nella sopraindicata pronunzia, il mobbing e lo straining condividono la stessa natura, pur essendo il primo caratterizzato da una continuità nelle azioni vessatorie che manca nel secondo.

La pronunzia innanzi citata, peraltro, si colloca nell’attività di delimitazione delle due figure inaugurate con Sez. L, n. 03291/2016, Tria, Rv. 639004-01, in cui viene sottolineato che l’art. 2087 c.c. è norma di chiusura del sistema antinfortunistico, suscettibile di interpretazione estensiva in ragione sia del rilievo costituzionale del diritto alla salute, sia dei principi di correttezza e buona fede cui deve ispirarsi lo svolgimento del rapporto di lavoro, con la conseguenza che il datore è tenuto ad astenersi da qualsivoglia iniziativa che possa ledere i diritti fondamentali del dipendente mediante l’adozione di condizioni lavorative “stressogene” (cd. straining). Pertanto, pur in carenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare gli episodi in modo da potersi configurare una condotta di mobbing, va comunque valutato se, dagli elementi dedotti – per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, altre circostanze del caso concreto – possa anche presuntivamente risalirsi al comportamento datoriale illecito generatore di questo più tenue danno.

4. Le novità legislative in tema di ius variandi e di demansionamento.

Il demansionamento è, come si è anticipato, la condotta datoriale con la quale il prestatore viene, in assenza di un intento persecutorio caratterizzante invece il mobbing, adibito alla esecuzione di mansioni inferiori.

Sul piano legislativo va dato atto della novella dell’art. 2103 c.c. che, come si è già accennato, ha ampliato i poteri datoriali in ordine allo jus variandi, prevedendo deroghe al divieto di demansionamento in caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incidano sulla posizione del lavoratore, nonché nell’ipotesi di espressa previsione contenuta nei contratti collettivi. In detti casi, è tuttavia fatto salvo il diritto del prestatore demansionato alla conservazione del trattamento retributivo in godimento (fatta eccezione per gli elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della precedente prestazione) oltre che del livello di inquadramento.

A conferma di quanto si è innanzi accennato, ovvero il permanere, pur dopo la novella dell’art. 2103 c.c. dell’obbligo datoriale di promozione della professionalità del dipendente, va notato come il legislatore abbia previsto l’indispensabile assolvimento, pena la nullità della assegnazione alle nuove mansioni, dell’obbligo formativo del prestatore da parte dell’imprenditore.

Il novellato comma 6 dell’art. 2103 c.c. introduce, poi, la possibilità di stipula tra le parti, nelle sedi cd. assistite, di un patto cd. di demansionamento ovvero un accordo individuale di modifica della categoria legale e del livello di inquadramento e della retribuzione, sempre che, però, detto patto sia funzionalizzato alla conservazione del posto di lavoro, alla acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita del lavoratore.

Ancor più a monte ed in via generale, va rilevato che la novella dell’art. 2103 c.c. ha determinato, ad ogni modo, il contenuto degli obblighi datoriali con riguardo alla assegnazione delle mansioni al prestatore.

La norma citata, infatti, nella attuale formulazione prevede che il lavoratore debba essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti all’inquadramento superiore acquisito o ancora a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime mansioni svolte.

La piana analisi del testo normativo introdotto dal d.lgs. n. 81 del 2015 rende immediatamente evidente, dunque, la novità del testo novellato, nella vigenza del quale è attribuita all’imprenditore la facoltà di modificare unilateralmente le mansioni del prestatore a patto che le nuove siano riconducibili allo stesso livello e categoria legale di quelle di inquadramento, laddove, per converso, il testo storico imponeva, a maggior tutela della professionalità del lavoratore, che le nuove mansioni fossero equivalenti a quelle svolte in precedenza, sia sul piano oggettivo, avuto riguardo, quindi, al contenuto professionale delle stesse, sia sul piano soggettivo, non solo con riferimento al bagaglio professionale acquisito dal lavoratore, ma anche al suo potenziamento e sviluppo futuro.

4.1. I limiti all’esercizio dello ius variandi.

Nonostante le corpose novità in tema di demansionamento, la giurisprudenza di legittimità nel corso di quest’anno non ha ancora avuto modo di pronunziarsi su di esse.

Piuttosto, ha fatto ancora applicazione del previgente art. 2103 c.c., applicabile ratione temporis, allorquando ha affermato, Sez. L, n. 28240/2018, Arienzo, Rv. 651518-01, che l’esercizio dello ius variandi datoriale trova il suo limite nella salvaguardia del livello professionale raggiunto dal prestatore, sicché – pur in presenza dell’accorpamento convenzionale delle mansioni in una medesima qualifica – l’equivalenza deve essere valutata in concreto dal giudice di merito, nell’ottica della valorizzazione e dell’accrescimento delle capacità professionali.

La pronunzia si colloca in continuità rispetto al consolidato orientamento maturato anteriormente alla novella dell’art. 2103 c.c. che ha sempre postulato la necessità di accertare in concreto che le nuove mansioni siano aderenti alla specifica competenza tecnico professionale del dipendente e siano tali da salvaguardarne il livello professionale acquisito, perché il baricentro dell’art. 2103 c.c., anteriormente alle modifiche allo stesso apportate dal d.lgs. n. 81del 2015, è sempre stato la protezione della professionalità acquisita dal prestatore. In tal senso, Sez. U, n. 25033/2006, Amoroso, Rv. 593512-01, e successivamente, Sez. L, n. 25897/2009, Meliadò, Rv. 610930-01, Sez. L, n. 15010/2013, Marotta, Rv. N. 626942-01, Sez. L, n. 04989/2014, Maisano, Rv. 630286-01, Sez. L, n. 19037/2015, Amendola F., Rv. 637025-01, e da ultimo Sez. L, 04090/2016, Torrice, Rv. 639144-01.

In tema di esercizio dello ius variandi da parte del datore, precisa altresì la Corte nel corso di quest’anno, riprendendo l’insegnamento di Sez. L, n. 01575/2010, Curzio, Rv. 611195-01, che l’equivalenza delle mansioni deve essere valutata anche nel caso in cui quelle in precedenza assegnate non siano state affidate ad altro dipendente, ma si siano esaurite, con la conseguenza che anche in tale caso può aversi demansionamento, allorché le nuove mansioni siano inferiori a quelle proprie della qualifica o alle ultime svolte (si veda Sez. L, n. 07435/2018, Arienzo, Rv. 647612-01).

Si è occupata, invece, dell’ambito dell’istituto Sez. L, n. 21515/2018, Paolo Negri della Torre, Rv. 650215-01, precisando che non rientra nella nozione di demansionamento, l’assegnazione al prestatore di compiti rientranti nel precedente livello di inquadramento se lo stesso lavoratore, per effetto di automatismi previsti dalla contrattazione collettiva, abbia conseguito una progressione economica, ma la stessa contrattazione collettiva preveda la possibilità di utilizzare il lavoratore promosso, anche in via promiscua, nelle mansioni corrispondenti alla qualifica o al grado originari. Tale scelta datoriale, in presenza di espressa pattuizione convenzionale che lo consenta, non costituisce esercizio dello ius variandi e non dà luogo, pertanto, a demansionamento, avendo detta progressione il limitato fine di riconoscere al lavoratore un più favorevole trattamento economico. Nella specie, la S.C. ha cassato la decisione impugnata che aveva ravvisato una dequalificazione professionale nei confronti di un dipendente bancario, le cui mansioni erano rimaste invariate dopo il riconoscimento di un superiore livello d’inquadramento in virtù di un automatismo convenzionale, in quanto il c.c.n.l. di settore contemplava la possibilità di assegnare il lavoratore promosso anche alle mansioni precedenti.

4.2. L’onere della prova e gli effetti del demansionamento.

La S.C. ha inoltre riaffermato, in tema di riparto degli oneri della prova, un principio già più volte ribadito: nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato, qualora il lavoratore alleghi un demansionamento professionale riconducibile ad un inesatto adempimento dell’obbligo posto dall’art. 2103 c.c. a carico del datore di lavoro, è su quest’ultimo che incombe l’onere di provare l’esatto adempimento, dimostrando l’inesistenza, all’interno del compendio aziendale, di altro posto di lavoro disponibile, equiparabile al grado di professionalità in precedenza raggiunto dal lavoratore.

Sul punto si veda Sez. L, n. 26477/2018, De Gregorio, Rv. 651236-01, che riprende Sez. L, n. 4211/2016, De Gregorio, Rv. 639195-01, che, a sua volta, richiama il principio già affermato da Sez. L, n. 4766/2006, Nobile, Rv. 587351-01.

Il danno derivante da demansionamento e dequalificazione professionale, come si è già accennato, non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale, sicché deve essere allegato e provato dal lavoratore, anche ai sensi dell’art. 2729 c.c., attraverso l’allegazione di elementi presuntivi gravi, precisi e concordanti, potendo a tal fine essere valutati la qualità e quantità dell’attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento, la diversa e nuova collocazione lavorativa assunta dopo la prospettata dequalificazione (così Sez. L, n. 25743/2018, Cinque, Rv. 651145-01).

Quanto agli effetti dell’accertato demansionamento, con riguardo alla tutela del lavoratore, Sez. L, n. 20080/2018, De Gregorio, Rv. 650044-01, ha precisato che nell’ipotesi di assegnazione a mansioni inferiori (ferma restando la possibilità per il lavoratore di richiedere, come già si è detto, anche la tutela in forma specifica), il danno non patrimoniale è risarcibile ogni qual volta la condotta illecita del datore di lavoro abbia violato, in modo grave, i diritti del lavoratore oggetto di tutela costituzionale, in rapporto alla persistenza del comportamento lesivo, alla durata e reiterazione delle situazioni di disagio professionale e personale, nonché all’inerzia del datore di lavoro rispetto alle istanze del lavoratore, anche a prescindere da uno specifico intento di declassarlo o svilirne i compiti. Nel dettaglio, il giudice di legittimità ha affermato il suddetto principio in una ipotesi in cui ha ravvisato una violazione dell’art. 2087 c.c., con conseguente obbligo di risarcimento del danno biologico, nella condotta tenuta dal datore di lavoro nei confronti di una lavoratrice alla quale, dopo il rientro dalla cassa integrazione, non erano stati assegnati compiti da svolgere, era stato disattivato il telefono e non era stato consentito di sostituire personale assente per maternità, nonostante le reiterate richieste.

4.3. Il rifiuto del lavoratore di eseguire la prestazione in caso di demansionamento.

Strettamente connessa al tema in analisi è la statuizione (cfr. Sez. L, n. 00836/2018, Boghetich, Rv. 646270-01) con la quale si verifica la possibilità per il lavoratore, in caso di assegnazione a mansioni non corrispondenti alla qualifica, di rifiutarsi di eseguire la prestazione richiesta.

A tal riguardo, la Suprema Corte ha precisato che il lavoratore adibito a mansioni non rispondenti alla qualifica può chiedere giudizialmente la riconduzione della prestazione nell’ambito della qualifica di appartenenza, ma non può rifiutarsi, senza avallo giudiziario, di eseguirla, essendo tenuto a osservare le disposizioni per l’esecuzione del lavoro impartite dall’imprenditore, ai sensi degli artt. 2086 e 2104 c.c., da applicarsi alla stregua del principio sancito dall’art. 41 Cost., e potendo egli invocare l’art. 1460 c.c. solo in caso di totale inadempimento del datore di lavoro o di un inadempimento che sia tanto grave da incidere in maniera irrimediabile sulle esigenze vitali del lavoratore medesimo.

In applicazione del principio in esame, peraltro più volte affermato dalla giurisprudenza di legittimità (si vedano in senso conforme, Sez. L, n. 12696/2012, Stile, Rv. 623285-01, e la più recente Sez. L, n. 831/2016, Balestrieri, Rv. 638335-01), la S.C. ha cassato la sentenza di appello di accertamento dell’illegittimità del licenziamento del lavoratore che, adibito a mansioni inferiori per circa due mesi, aveva eccepito l’inadempimento datoriale e si era assentato per oltre quattro giorni dal posto di lavoro (cfr. paragrafo 6.4. per il rifiuto di ottemperare alla disposizione datoriale di trasferimento o distacco).

5. L’assegnazione del dipendente a mansioni superiori: gli obblighi datoriali (corresponsione del trattamento retributivo corrispondente e riconoscimento del superiore livello).

Il vigente art. 2103 c.c. prevede che in caso di assegnazione del lavoratore a mansioni superiori questi ha diritto al trattamento corrispondente alla attività svolta, oltre che alla qualifica, sempre che detta assegnazione sia durata il tempo fissato dai contratti collettivi o, in mancanza, più di sei mesi continuativi.

Il diritto al riconoscimento della superiore qualifica non compete, puntualizza la norma novellata, quando la assegnazione delle superiori mansioni sia stata funzionale alla sostituzione di altro lavoratore in servizio o lo stesso prestatore abbia espresso la volontà di segno contrario.

Le più rilevanti modifiche del novellato testo dell’art. 2103 c.c. concernono, quindi, la facoltà per i lavoratori di esprimere la propria volontà contraria alla assegnazione definitiva alle superiori mansioni, nonché l’impossibilità di riconoscimento delle stesse per tutte le ipotesi di sostituzioni di lavoratori in servizio (e non soltanto per il caso di sostituzione di lavoratori assenti con diritto alla conservazione del posto), oltre che l’allungamento a sei mesi (prima erano tre) del tempo minimo previsto dal legislatore (in assenza di diversa previsione nella contrattazione collettiva) per l’acquisizione del diritto al riconoscimento della superiore qualifica.

Ebbene, con specifico riferimento alla configurazione del diritto alla promozione ex art. 2103 c.c., avuto riguardo al tessuto normativo anteriore alla novella, Sez. L, n. 06793/2018, Manna, Rv. 647539-01, ha delineato la nozione di lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, la cui sostituzione non attribuisce il diritto alla promozione. Ebbene, la S.C. ha qualificato lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto solo quello che non sia presente in azienda a causa di una delle ipotesi di sospensione legale (sciopero, adempimento di funzioni pubbliche elettive, infortunio, malattia, gravidanza, puerperio, chiamata alle armi) o convenzionale del rapporto di lavoro, e non anche quello destinato, per scelta organizzativa del datore, a lavorare fuori dell’azienda ovvero in un’altra unità o altro reparto.

La Cassazione, nel sopracitato arresto, ha affermato, inoltre, il principio, per cui, quando tra le mansioni tipiche della qualifica di appartenenza del lavoratore siano compresi compiti di sostituzione del dipendente di grado più elevato, la sostituzione del dipendente con qualifica superiore non attribuisce al primo alcun diritto ai sensi del citato art. 2103 c.c., sempreché si tratti di sostituzione occasionale, in relazione ad impedimenti temporanei. Nel caso in cui la funzione vicaria sia travalicata in ragione del carattere permanente della stessa e della persistenza solo formale della titolarità in capo al superiore delle mansioni proprie della relativa qualifica, per effetto di una stabile scelta organizzativa del datore di lavoro, invece, troverà applicazione l’art. 2103, comma 6.

La innanzi indicata pronunzia si pone in chiave di continuità con Sez. L, n. 21021/2006, Cuoco, Rv. 592161-01, che già aveva ritenuto che la sostituzione, da parte di un lavoratore avente una qualifica inferiore, di altro prestatore avente diritto alla conservazione del posto non attribuisce al primo – in relazione al disposto dell’art. 2103 c.c. – il diritto alla promozione, precisandosi, quanto alla nozione di lavoratori aventi diritto alla conservazione del posto che in detta categoria rientrano solo quelli che non siano presenti in azienda a causa di una delle ipotesi di sospensione legale o convenzionale del rapporto di lavoro, e non anche quelli destinati, per scelta organizzativa del datore di lavoro, al di fuori dell’azienda od in un’altra unità produttiva.

Tali pronunzie delimitano, quindi, per un verso la nozione di dipendente avente diritto alla conservazione del posto, per altro verso sottolineano come la previsione, tra le mansioni tipiche di un dipendente, della sostituzione di altro dipendente che svolga mansioni superiori attribuisca comunque il diritto alla qualifica tutte le volte in cui la sostituzione non sia occasionale, ma piuttosto frutto di una scelta datoriale e funzionale all’attività d’impresa, sicché si riespandono le regole applicative di cui all’art. 2103 c.c..

Riafferma la necessità di valutare se vi sia stato o meno lo svolgimento di mansioni superiori con l’occhio rivolto alle scelte organizzative datoriali, anche Sez. 6 – L, n. 27129/2018, Spena, Rv. 651003-01, con riferimento ai criteri da utilizzare per valutare la pluralità di assegnazioni reiterate allo svolgimento di mansioni superiori.

Nella decisione viene ribadito che la mera reiterazione delle assegnazioni di un lavoratore allo svolgimento di mansioni superiori non è sufficiente alla acquisizione del diritto alla qualifica, essendo invece necessaria una programmazione iniziale della molteplicità degli incarichi ed una predeterminazione utilitaristica di siffatto comportamento, se non un vero e proprio intento fraudolento del datore di lavoro.

La decisione riguardava un’ipotesi in cui la prova della preordinazione delle assegnazioni e dell’intento utilitaristico è stata poi ritenuta e desunta dall’esigenza strutturale del datore di lavoro di sopperire alla carenza in organico della qualifica superiore attraverso reiterate assegnazioni infra-trimestrali.

La decisione si colloca peraltro in linea di assoluta continuità nella giurisprudenza di legittimità, atteso che si era già espressa nel senso indicato Sez. L, n. 12785/2003, Filadoro, Rv. 566476-01, cui hanno fatto seguito le pronunzie del medesimo tenore Sez. L, n. 11997/2009, Lamorgese, Rv. 698164-01, e, da ultimo, Sez. L, n. 17870/2014, Arienzo, Rv. 32025-01.

In ordine al periodo di svolgimento di mansioni superiori necessario ai fini della promozione, deve rilevarsi che Sez. L, n. 21188/2018, Curcio, Rv. 650085-01, anche in questo caso in continuità con quanto già ritenuto da Sez. L, n. 18011/2014, Bronzini, Rv. 631912-01, si è occupata di verificare se il più lungo termine previsto dalla contrattazione collettiva debba trovare applicazione anche alla scadenza del contratto o se in detta ipotesi debba, invece, trovare applicazione il termine previsto per legge. Ebbene, sempre con riguardo ad una fattispecie disciplinata dal previgente art. 2103 c.c., la S.C. ha precisato che poiché l’art. 87 del c.c.n.l. 26 novembre 1994 per i dipendenti dell’Ente Poste Italiane, stabilisce il vigore della suddetta disciplina collettiva fino al 31 dicembre 1997 e l’applicazione, per il periodo successivo, delle ordinarie disposizioni di diritto privato, non essendo emersa alcuna pattuizione, nemmeno per fatti concludenti, in senso contrario, va esclusa qualsiasi ultrattività del detto c.c.n.l. nel periodo di vacanza contrattuale, sicché in caso di impiego del lavoratore in mansioni superiori successivamente alla scadenza del contratto collettivo del 1994 e prima dell’entrata in vigore del successivo, ai fini della maturazione del diritto all’acquisizione della qualifica superiore (nella specie, alla categoria dei quadri), deve trovare applicazione l’art. 2103 c.c. (che nella formulazione vigente ratione temporis prevedeva il decorso di tre mesi) e non è necessario lo svolgimento della prestazione per la durata di sei mesi, come richiesto dalla disposizione contrattualcollettiva.

La Suprema Corte si è poi pronunziata anche con riguardo alla interpretazione di specifiche norme della contrattazione collettiva, al fine di verificare quale sia l’essenza dell’inquadramento codificato dalle parti sociali e dunque se sia maturato o meno il diritto al superiore inquadramento.

Ebbene, Sez. L, n. 08952/2018, Marchese, Rv. 648633-01, ha ritenuto che ai fini del diritto all’inquadramento nella quinta categoria prevista dall’art. 11 del c.c.n.l. metalmeccanici piccola e media industria, il riferimento alle attività inerenti alla laurea, ivi contenuto, concerne esclusivamente l’esistenza di un collegamento tra la prestazione lavorativa e le materie del corso di laurea e del titolo di studio universitario conseguito dal lavoratore, restando irrilevante che le mansioni svolte abbiano un particolare grado di complessità e responsabilità.

Da ultimo va segnalato, perché connesso al tema trattato, che la giurisprudenza della Suprema Corte, Sez. L, n. 07295/2018, Tricomi, Rv. 647543-01, ponendosi in linea con l’orientamento già espresso da Sez. L, n. 18165/2015, Blasutto, Rv. 636422-01, ha delimitato quali caratteristiche debba avere l’attività svolta dal lavoratore per essere qualificata come dirigenziale e, quindi, a contrario, il contenuto delle mansioni che il lavoratore con mansioni inferiori deve svolgere per reclamare il superiore inquadramento. Ebbene, chiarisce il giudice di legittimità, la qualifica di dirigente spetta soltanto al prestatore di lavoro che, come alter ego dell’imprenditore, sia preposto alla direzione dell’intera organizzazione aziendale ovvero ad una branca o settore autonomo di essa, e sia investito di attribuzioni che, per la loro ampiezza e per i poteri di iniziativa e di discrezionalità che comportano, gli consentono, sia pure nell’osservanza delle direttive programmatiche del datore di lavoro, di imprimere un indirizzo ed un orientamento al governo complessivo dell’azienda, assumendo la corrispondente responsabilità ad alto livello (cd. dirigente apicale); da questa figura si differenzia quella dell’impiegato con funzioni direttive, che è invece preposto ad un singolo ramo di servizio, ufficio o reparto e che svolge la sua attività sotto il controllo dell’imprenditore o di un dirigente, con poteri di iniziativa circoscritti e con corrispondente limitazione di responsabilità (cd. pseudo-dirigente).

5.1. La complessità delle mansioni parametro di valutazione della diligenza del lavoratore.

Sez. L, n. 00663/2018, Negri della Torre, Rv. 647389-01, si occupa delle mansioni sotto altro profilo, ovvero con riguardo alla verifica dell’obbligo di diligenza imposto al prestatore che deve valutarsi attraverso la ponderata valutazione di due parametri: la natura della prestazione e l’interesse datoriale.

In tema di rapporto di lavoro subordinato privato, il grado di diligenza dovuto dal lavoratore, variabile secondo le peculiarità del singolo rapporto, deve essere apprezzato, infatti, secondo i due distinti sopraindicati parametri, costituiti dalla natura della prestazione, ovvero dalla complessità delle mansioni svolte anche con riferimento all’assunzione di responsabilità alle stesse collegata e dall’interesse dell’impresa ovvero dal raccordo della prestazione con la specifica organizzazione imprenditoriale in funzione della quale è resa. In applicazione dell’indicato principio, è stato rigettato il ricorso avverso una sentenza che, in relazione ad un responsabile di un ufficio postale in cui era avvenuta una rapina, aveva ravvisato la negligenza della condotta nella violazione delle disposizioni aziendali in materia di giacenza di fondi ed utilizzo di casseforti, essendo evidente che nella fattispecie la valutazione congiunta dei due parametri innanzi indicati (la complessità delle mansioni e l’interesse dell’impresa) deponeva nel senso che l’obbligo di diligenza del prestatore non fosse stato rispettato.

In qualche misura correlata al tema in esame anche la questione relativa alla interpretazione dell’art. 24 del c.c.n.l. del comparto consorzi ed enti di sviluppo industriale, recante le declaratorie di categoria e di posizione economica. Detta norma prevede, ai fini dell’inquadramento nella posizione Q2 dell’area quadri, tra gli altri requisiti, che il preposto abbia maturato un’esperienza specifica “in ambienti e contesti che richiedano funzioni professionali e scientifiche di grande complessità di strutture tecnico organizzative”. Ebbene, la S.C. ha incentrato la sua attenzione sulla interpretazione della locuzione “grande complessità” che, seppur sintatticamente congiunta alle “funzioni professionali e scientifiche”, va altresì correlata all’entità della “struttura tecnico-organizzativa” e, dunque, all’elemento dimensionale dell’apparato, e ciò in virtù dell’espresso richiamo, nella unitaria composizione lessicale della proposizione, agli “ambienti e contesti” in cui l’attività professionale è stata esercitata.

Si veda sul punto, Sez. L, n. 28442/2018, Blasutto, Rv. 651718-01.

5.2. Il tratto distintivo fra redattore e collaboratore fisso nell’impresa giornalistica. Il grafico redattore ordinario.

In tema di lavoro giornalistico, ai fini della integrazione della qualifica di redattore e della sua distinzione dalla figura del collaboratore, rileva, ha precisato la S.C., il requisito della quotidianità della prestazione, in contrapposizione alla continuità, caratterizzante invece, la figura del collaboratore fisso. Ulteriore tratto identificativo della qualifica di redattore è poi l’elevato livello di integrazione nell’impresa, che si esprime nella compartecipazione alla programmazione dell’attività informativa per linee generali ed alla formazione del prodotto finale, a fronte del mero vincolo di dipendenza che connota l’attività del collaboratore fisso, il quale si limita ad offrire servizi inerenti, di regola, un settore informativo specifico di competenza. Nello specifico, Sez. L, n. 29182/2018, Ponterio, Rv. 651745-01, ha ritenuto indici significativi della natura redazionale della prestazione, oltre a quelli in premessa indicati, il vincolo ad un orario di lavoro, ancorché ridotto, e la retribuzione su base oraria e non commisurata alla tipologia del contributo offerto.

Sempre in tema di mansioni nell’ambito della attività giornalistica, va ricordata Sez. L, n. 29411/2018, Marotta, Rv. 651722-01, secondo il cui insegnamento, spetta, poi, la qualifica di redattore ordinario al grafico che svolga presso una testata giornalistica multimediale (nella specie Rai News 24) attività giornalistica in piena autonomia, attraverso le modalità di presentazione della notizia, la predisposizione di messaggi, di titoli, di sigle e di fillers, consistenti in immagini con funzione di riempitivo di spazi vuoti del palinsesto ovvero di autopromozione del canale accompagnate da testi scritti e da brani musicali.

Nel paragrafo 7.6., cui si rinvia, verranno esaminate le pronunzie dell’anno 2018 relative alla determinazione del compenso in tema di lavoro giornalistico.

5.3. Le conseguenze dell’assegnazione a mansioni diverse da quelle previste nel patto di prova e la verifica della legittimità del patto.

Per ragioni di completezza va qui ricordata anche la recentissima pronunzia Sez. L, n. 31159/2018, Amendola F., Rv. 652007-01, in cui, dopo aver precisato il tratto distintivo tra illegittima apposizione del patto di prova e assegnazione di mansioni diverse da quelle previste nella clausola, si ritiene che l’illegittima apposizione determini, stante la nullità della clausola, la “conversione” del rapporto in prova in rapporto ordinario, con la conseguenza che il licenziamento illegittimo sarà assoggettato alla disciplina dei licenziamenti individuali. Per converso, si soggiunge, l’assegnazione al prestatore di mansioni diverse da quelle previste nella clausola è un vizio funzionale della pattuizione accessoria, sicché ridonda in un inadempimento datoriale, con la conseguenza che in tale ipotesi troverà applicazione lo speciale regime del recesso in periodo di prova e, conseguentemente, il lavoratore avrà diritto o alla esecuzione del patto (e dunque alla prosecuzione della prova) o al risarcimento del danno, ma giammai alla reintegra, non essendosi instaurato tra le parti un rapporto di lavoro a tempo indeterminato.

Sempre con riferimento al patto di prova, in assoluta sintonia, Sez. L, n. 28252/2018, Leone, Rv. 651740-01, e Sez. L, n. 28930/2018, Patti, Rv. 651731-01, hanno ritenuto che va esclusa l’illegittimità dell’apposizione del patto di prova ad un contratto di lavoro a tempo indeterminato, successivo ad uno o più contratti di lavoro a termine tra le stesse parti, anche quando il contratto a tempo indeterminato abbia ad oggetto le stesse mansioni dei contratti a termine, purché la clausola risponda alla causa tipica di detta pattuizione: quella di consentire ad entrambe le parti di sperimentare la convenienza del rapporto e, quanto al datore di lavoro, di verificare non solo le qualità professionali, ma anche il comportamento e la personalità del lavoratore in relazione all’adempimento della prestazione, quali elementi suscettibili di modificarsi nel tempo per l’incidenza di svariati fattori attinenti alle esigenze di vita.

Per la vicinanza con i temi trattati, va pure ricordata Sez. L, n. 23898/2018, Lorito, Rv. 650575-01, in cui si afferma che la disposizione del contratto collettivo che, attribuendo rilevanza sospensiva del periodo di prova alla malattia, stabilisca un periodo di comporto più breve rispetto a quello previsto per la generalità dei lavoratori, è legittima, poiché, da un lato, è coerente con la causa del contratto in prova, connotata dalla reciproca verifica di convenienza del rapporto – in cui rileva anche l’esigenza datoriale di vagliare i tempi coessenziali all’esercizio delle sue attività e la possibilità di proseguire nel rapporto stesso -, e, dall’altro tutela sia il diritto alla salute che quello alla conservazione del posto del lavoratore, salvaguardando, in un’ottica di equo bilanciamento di interessi, il diritto al lavoro e quello al libero esercizio dell’impresa.

6. Il trasferimento del lavoratore.

Il datore di lavoro può disporre il trasferimento del lavoratore, l’esercizio di detta facoltà datoriale impinge, tuttavia, con la vita del lavoratore e con le sue scelte personali e familiari.

È perciò vincolata alla sussistenza di comprovate ragioni tecniche e produttive. Detto altrimenti, deve essere frutto di una scelta di riorganizzazione della attività di impresa, va insomma ricondotto alle esigenze tecniche, organizzative e produttive e non alle istanze punitive e disciplinari del datore.

6.1. Il trasferimento per incompatibilità ambientale ed i limiti al sindacato giurisdizionale su detto atto.

Tale aspetto è stato ulteriormente lumeggiato (in armonia con un consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, si vedano Sez. L, n. 04265/2007, De Matteis, Rv. 594785-01, e, nello stesso senso, anche la precedente Sez. L, n. 17786/2002, De Luca, Rv. 559206-01) da Sez. L, n. 27226/2018, Marotta, Rv. 651259-01, in cui viene evidenziato che il trasferimento del dipendente, dovuto ad incompatibilità ambientale, trovando la sua ragione nello stato di disorganizzazione e disfunzione dell’unità produttiva, va ricondotto alle esigenze tecniche, organizzative e produttive, di cui all’art. 2103 c.c., piuttosto che, sia pure atipicamente, a ragioni punitive e disciplinari, con la conseguenza che la legittimità del provvedimento datoriale di trasferimento prescinde dalla colpa (in senso lato) dei lavoratori trasferiti, come dall’osservanza di qualsiasi altra garanzia sostanziale o procedimentale che sia stabilita per le sanzioni disciplinari. La Corte, nella decisione, approfondisce anche i poteri ed i limiti del controllo giurisdizionale sulle comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive che legittimano il trasferimento del lavoratore subordinato, precisando che il giudice deve verificare e accertare soltanto se vi sia corrispondenza tra il provvedimento datoriale e le finalità tipiche dell’impresa atteso che il controllo stesso non può essere esteso al merito della scelta imprenditoriale, rinvenendosi il fondamento di detto limite al sindacato giurisdizionale nel principio di libertà dell’iniziativa economica riconosciuto dalla nostra Carta costituzionale, all’art. 41.

Quanto alla legittimità della scelta operata dal datore, viene sottolineato, quindi, in consonanza con quanto si è innanzi detto, che essa non deve presentare necessariamente i caratteri della inevitabilità, essendo sufficiente che il trasferimento concreti una tra le scelte ragionevoli che il datore di lavoro può adottare sul piano tecnico, organizzativo o produttivo, esplicandosi in detta scelta proprio la libertà imprenditoriale sancita dalla nostra carta costituzionale.

Nella specifica fattispecie esaminata dal giudice di legittimità nel 2018, in sintonia con i principi innanzi affermati, è stato pertanto ritenuto legittimo il trasferimento del lavoratore disposto per risolvere la conflittualità con altra dipendente, sfociata in denunce penali reciproche, sebbene non strettamente inerenti all’ambito lavorativo, in quanto suscettibile di determinare disservizi all’interno della piccola unità produttiva ove prestavano servizio.

6.2. La forma del provvedimento di trasferimento ed il mancato rispetto del termine di preavviso.

Quanto alla forma della disposizione riorganizzativa datoriale che dispone il trasferimento, riprendendo un consolidato orientamento giurisprudenziale (cfr. Sez. L, n. 11400/1998, Celentano, Rv. 520629-01, nonché Sez. L, n. 11984/2010, Picone, Rv. 613695-01), Sez. L, n. 807/2017, est. Lorito, Rv. 642511-01, ha ribadito che nonostante sia sottoposta al controllo della sussistenza dei presupposti innanzi indicati, non deve essere impartita in forma scritta, essendo rimesso il vaglio, in caso di contestazione, alla sede giudiziaria.

In tema di mutamento della sede di lavoro del lavoratore, scrive infatti il giudice di legittimità, il provvedimento di trasferimento non è soggetto ad alcun onere di forma e non deve necessariamente contenere l’indicazione dei motivi, né il datore di lavoro ha l’obbligo di rispondere al lavoratore che li richieda ma, ove sia contestata la legittimità del trasferimento, ha l’onere di allegare e provare in giudizio le fondate ragioni che lo hanno determinato e, se può integrare o modificare la motivazione eventualmente enunciata nel provvedimento, non può limitarsi a negare la sussistenza dei motivi di illegittimità oggetto di allegazione, dovendo allegare e provare le reali ragioni tecniche, organizzative e produttive che giustificano il provvedimento.

Se dunque, in via generale, l’art. 2103 c.c. non impone la forma scritta per la comunicazione del trasferimento, tuttavia essa può essere prevista convenzionalmente.

Sul punto, Sez. L. n. 11643/2018, Garri, Rv. 648907-01, ha ricordato che l’art. 1352 c.c., che prescrive che la forma stabilita convenzionalmente dalle parti in vista della conclusione di un contratto si presume voluta per la validità dello stesso, è applicabile anche nel caso in cui la forma scritta sia stata stabilita in sede di contrattazione collettiva, sicché in tema di trasferimento essa deve essere adottata non solo per la comunicazione, ma anche per la motivazione del trasferimento stesso, di modo che il lavoratore viene reso pienamente edotto delle ragioni organizzative per effetto delle quali il suo rapporto di lavoro viene modificato. Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza d’appello che aveva ritenuto illegittimo il trasferimento di una lavoratrice perché non motivato per iscritto, in violazione dell’onere di forma ad substantiam prescritto dall’art. 37 del c.c.n.l. per i dipendenti di Poste Italiane s.p.a. dell’11 luglio 2003.

A diverse conclusioni, invece, la S.C. è giunta per il caso in cui la contrattazione collettiva preveda un termine di preavviso, perché il disposto trasferimento diventi operativo, e detto termine non venga rispettato.

Ebbene, con riferimento a detta ipotesi la Cassazione ha puntualizzato che il trasferimento non è nullo, perché la legittimità dello stesso va valutata solo alla luce della verifica della sussistenza delle ragioni giustificative previste nel 2103 c.c..

Nello specifico, Sez. L, n. 13968/2018, est. Garri, Rv. 648957-01, ha affermato che in tema di trasferimento del lavoratore, al mancato rispetto dell’obbligo di accordare un termine di preavviso, previsto dalla contrattazione collettiva, non consegue la nullità del trasferimento – la cui legittimità dipende esclusivamente dall’esistenza delle ragioni giustificative di cui all’art. 2103 c.c. – ma solo il diritto del lavoratore ad essere tenuto indenne dal pregiudizio conseguente al maggior disagio sopportato.

6.3. La libertà datoriale di operare lo spostamento dei lavoratori nell’ambito della unità produttiva.

Il contemperamento degli interessi del datore e del lavoratore operato attraverso la verifica della sussistenza delle ragioni tecniche ed organizzative, ai fini della legittimità del trasferimento, trova ulteriore bilanciamento nella nozione di unità produttiva, all’interno della quale il datore di lavoro può liberamente spostare i dipendenti, salvo che l’unità non comprenda uffici notevolmente distanti sul territorio.

Detto principio è stato affermato da Sez. L, n. 17246/2018, Negri della Torre, Rv. 649604-01, conforme alla precedente Sez. L, n. 12097/2010, Di Nubila, Rv. 613528-01, che ha ritenuto che la nozione di trasferimento del lavoratore, che comporta il mutamento definitivo del luogo geografico di esecuzione della prestazione, ai sensi dell’art. 2103, comma 1 (ultima parte), c.c., e alla stregua delle disposizioni collettive applicabili nella specie (artt. 37 e 74 del c.c.n.l. per i dipendenti postali), non è configurabile quando lo spostamento venga attuato nell’ambito della medesima unità produttiva, salvo i casi in cui l’unità produttiva comprenda uffici notevolmente distanti tra loro.

6.4. La posizione del lavoratore raggiunto da un trasferimento o da un distacco illegittimi.

Quanto alla posizione del lavoratore che venga raggiunto da un trasferimento illegittimo, va rilevato che Sez. L, n. 11408/2018, Pagetta, Rv. 648189-01, ha negato che in caso di trasferimento adottato in violazione dell’art. 2103 c.c., l’inadempimento datoriale legittimi in via automatica il rifiuto del lavoratore di eseguire la prestazione lavorativa, in quanto, vertendosi in ipotesi di contratto a prestazioni corrispettive, trova applicazione il disposto dell’art. 1460, comma 2, c.c., alla stregua del quale la parte adempiente può rifiutarsi di eseguire la prestazione a proprio carico solo ove tale rifiuto, avuto riguardo alle circostanze concrete, non risulti contrario alla buona fede.

Questa ricostruzione della posizione del lavoratore colpito da trasferimento illegittimo e della impossibilità di rifiutare la prestazione lavorativa, segna una nuova linea di tendenza nell’orientamento della giurisprudenza di legittimità, atteso che nella sentenza Sez. L, n. 18178/2017, Negri della Torre, Rv. 645003-01 (peraltro conforme alla precedente Sez. L., n. 26920/2008, Stile, Rv. 605455-01) si giungeva invece ad una soluzione di segno opposto, affermandosi che il provvedimento del datore di lavoro avente ad oggetto il trasferimento di sede di un lavoratore, non adeguatamente giustificato ex art. 2103 c.c., è nullo ed integra un inadempimento parziale del contratto di lavoro, con la conseguenza che la mancata ottemperanza allo stesso provvedimento da parte del lavoratore trova giustificazione sia quale attuazione di un’eccezione di inadempimento (art. 1460 c.c.), sia sulla base del rilievo che gli atti nulli non producono effetti, non potendosi ritenere che sussista una presunzione di legittimità dei provvedimenti aziendali che imponga l’ottemperanza agli stessi fino ad un contrario accertamento in giudizio. Nello specifico, la S.C. aveva affermato il principio in esame, confermando la pronuncia impugnata che aveva ritenuto illegittimo il licenziamento del lavoratore che aveva sempre prestato la propria attività presso una determinata stazione ferroviaria per varie e successive aziende appaltatrici anche dopo l’accertamento della sussistenza del rapporto di lavoro in capo a Trenitalia e non aveva ottemperato all’ordine di trasferimento presso una diversa sede del datore di lavoro.

L’orientamento inaugurato da Sez. L, n. 11408/2018, Pagetta, Rv. 648189-01 sembra segnare quindi un mutamento tendenziale della giurisprudenza di legittimità, atteso che in senso sostanzialmente omologo, come precedentemente abbiamo già visto (cfr. par. 4.3), si è mossa la Suprema Corte con riguardo al demansionamento. Anche in tale ipotesi, Sez. L, n. 00836/2018, Boghetich, Rv. 646270-01, per il caso di assegnazione del lavoratore a mansioni non corrispondenti alla qualifica, ha precisato che il prestatore può chiedere giudizialmente la riconduzione della prestazione nell’ambito della qualifica di appartenenza, ma non può rifiutarsi, senza avallo giudiziario, di eseguire la prestazione richiestagli, essendo egli tenuto a osservare le disposizioni per l’esecuzione del lavoro impartite dall’imprenditore, ai sensi degli artt. 2086 e 2104 c.c., da applicarsi alla stregua del principio sancito dall’art. 41 Cost., e potendo egli invocare l’art. 1460 c.c. solo in caso di totale inadempimento del datore di lavoro o di un inadempimento che sia tanto grave da incidere in maniera irrimediabile sulle esigenze vitali del lavoratore medesimo.

Con riguardo però al distacco, Sez. L, n. 32330/2018, Negri della Torre, in corso di massimazione, ha confermato la sentenza di merito che aveva annullato (con le conseguenze di cui all’art. 18, comma 4, della l. 20 maggio 1970, n. 300) il licenziamento per giusta causa del lavoratore che aveva rifiutato di recarsi in India.

L’incedere argomentativo della pronunzia fa leva sulla interpretazione dell’art. 30 del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276, che prevede quale elemento costitutivo della fattispecie legale e sola condizione di legittimità del provvedimento di distacco che comporti un mutamento, anche parziale, purché sostanziale, delle mansioni, il consenso del lavoratore. La necessità del consenso, atteso il mutamento delle mansioni, costituisce infatti presidio della professionalità acquisita dal prestatore.

Tale scelta di campo ha quale conseguenza che il lavoratore distaccato debba solo rifiutare il distacco e non rendere note le ragioni che lo sorreggono, in tutti i casi in cui il mutamento delle mansioni sia conseguenza oggettiva dell’attuazione dell’ordine, irrilevante che il datore abbia prospettato nella comunicazione che lo svolgimento delle mansioni avrebbe avuto analogo contenuto.

Si veda, inoltre, Sez. L, n. 20745/2018, Marotta, Rv. 650125-01, relativa alla assegnazione della sede a seguito di riassunzione conseguente alla dichiarazione giudiziale di illegittima apposizione del termine (v. infra, capitolo sul lavoro flessibile, § 4.8.).

In limine, va ricordato che Sez. L, n. 15885/2018, Negri della Torre, Rv. 649311-01, ha pure indagato i rapporti tra un disposto trasferimento ed il rifiuto di aderire ad una conciliazione. La pronunzia è rilevante al fine di verificare i confini della figura dell’abuso del diritto. Sul punto, nella sentenza soprarichiamata la Suprema Corte ha chiarito che l’abuso del diritto non è ravvisabile nel solo fatto che una parte del contratto abbia tenuto una condotta non idonea a salvaguardare gli interessi dell’altra, quando tale condotta persegua un risultato lecito attraverso mezzi legittimi, essendo, invece, configurabile allorché il titolare di un diritto soggettivo, pur in assenza di divieti formali, lo eserciti con modalità non necessarie ed irrispettose del dovere di correttezza e buona fede, causando uno sproporzionato ed ingiustificato sacrificio della controparte contrattuale, ed al fine di conseguire risultati diversi ed ulteriori rispetto a quelli per i quali quei poteri o facoltà sono attribuiti. Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva escluso configurasse un abuso il trasferimento in sedi lontane e disagiate di alcuni lavoratori, che avevano scelto di non aderire ad una proposta di conciliazione per l’accettazione della mobilità in una condizione di libera autodeterminazione e nella consapevolezza delle conseguenze di ciascuna delle opzioni esistenti. La pronunzia, peraltro, si pone in linea tendenziale con l’orientamento costante della Suprema Corte in relazione alla delimitazione dei confini dell’abuso del diritto (si veda, infatti, del medesimo tenore Sez. L, n. 13483/2013, Napoletano, Rv. 626199-01, in cui viene affermato lo stesso principio in relazione ad una ipotesi in cui veniva in rilievo il recesso da un contratto di agenzia).

Con riguardo alla posizione del lavoratore raggiunto dal trasferimento, va pure ricordata Sez. L, n. 29630/2018, Curcio, Rv. 651725-01, nella quale si precisa che la procedura che, ai sensi dell’art. 38 del c.c.n.l. per i dipendenti di Poste Italiane s.p.a. del 2001, consente al lavoratore trasferito di sollecitare, entro cinque giorni dalla comunicazione del provvedimento, il riesame delle ragioni dello stesso, ha una mera rilevanza interna, cosicché la sua mancata attivazione non può essere interpretata quale comportamento indicatore di acquiescenza del lavoratore allo spostamento di sede.

6.5. Gli emolumenti retributivi in caso di trasferimento.

(rinvio al par. 7.3).

7. La retribuzione ed il TFR. L’imputazione dei pagamenti.

L’obbligo tipico incombente sul datore di lavoro, a fronte della esecuzione della prestazione da parte del lavoratore, è il pagamento della retribuzione, ivi compreso il TFR, al pari avente natura retributiva, corrispettivo, quest’ultimo, che matura in corso del rapporto, ma è dovuto alla cessazione dello stesso.

Ebbene, nel corso del 2018 la Suprema Corte ha avuto modo di interessarsi ai profili retributivi del rapporto di lavoro, sotto una pluralità di aspetti: 1) la presunzione di onerosità della prestazione; 2) il riparto dell’onere della prova in tema di lavoro straordinario oltre che in relazione all’esposizione non occasionale, né temporanea a rischio “analogo” ai fini della percezione della indennità di rischio da radiazioni; 3) i criteri in virtù dei quali ritenere la natura retributiva o, per converso, riparatoria dei trattamenti economici per servizio estero; 4) la ripetibilità da parte del datore nei confronti del lavoratore delle ritenute fiscali, per il caso di riforma della sentenza di condanna e l’esclusione dalla retribuzione imponibile delle somme di incentivazione all’esodo; 4) la derogabilità temporanea al principio della immodificabilità in peius della retribuzione in materia di società cooperative; 5) le modalità di determinazione del compenso in tema di lavoro giornalistico.

Non sono mancate, poi, una serie di pronunzie che riguardano l’applicazione di norme della contrattazione collettiva e – dunque – specifici settori, oltre quelle di ambito più generale, concernenti le regole sulla imputazione dei pagamenti, la riaffermazione del generale principio di assorbimento e, per converso, la negazione di un principio generale di omnicomprensività della retribuzione ed infine quelle in materia di TFR.

Vale la pena, quindi, ripercorrere le linee di tendenza della giurisprudenza della Corte di cassazione, in relazione a tutti detti aspetti, a partire dalle regole relative alla imputazione dei pagamenti che, secondo la norma generale dell’art. 1193 c.c., comma 1, costituisce una facoltà del debitore, al mancato esercizio della quale sopperiscono i criteri legali dettati dal comma 2 dello stesso articolo.

Ebbene, nel rapporto di lavoro subordinato, l’imputazione dei pagamenti ha ribadito la S.C., in continuità con le pregresse pronunzie, costituisce un obbligo del datore di lavoro, essendo questi tenuto alla consegna delle buste-paga previste dalla l. n. 4 del 1953. La previsione dell’imputazione predetta, che ha la funzione di consentire al lavoratore di controllare la corrispondenza fra quanto a vario titolo dovutogli e quanto effettivamente corrispostogli, non vale, tuttavia, a snaturare l’imputazione stessa, in quanto quest’ultima, fatta facoltativamente o in esecuzione di un obbligo, presuppone pur sempre l’esistenza del debito e non può sostituirsi ad un valido titolo costitutivo del medesimo (in tal senso si veda, Sez. L, n. 11632/2018, Arienzo, Rv. 648387-01, conforme all’insegnamento di Sez. L, n. 22872/2010, Picone, Rv. 615603-01).

7.1. La presunzione di onerosità della prestazione.

In primo luogo, avuto riguardo alla natura retributiva degli emolumenti percepiti con continuità, Sez. L, n. 22387/2018, Bellè, Rv. 650537-01, ha precisato che, nell’ipotesi di erogazione continuativa di un emolumento nell’ambito del rapporto di lavoro, spetta al datore che abbia dedotto la cessazione della causa debendi dimostrare, ai fini dell’accertamento della non spettanza dell’attribuzione, la natura non retributiva delle somme erogate, dovendo escludersi che gravi sul lavoratore – a seguito di tale deduzione – l’onere di provare la sussistenza di altra fonte di debito. Pertanto, se il datore di lavoro eroga con continuità una determinata somma al prestatore, la stessa si presume volta a compensare la prestazione lavorativa e dunque avente natura retributiva, incombendo sul datore di lavoro la prova contraria.

Sostanzialmente nel medesimo solco, quanto al riparto degli oneri della prova, si segnala anche altra pronunzia, Sez. L, n. 07703/2018, Marotta, Rv. 648261-01, sebbene in essa l’angolo prospettico nel quale viene in rilievo la presunzione di onerosità della prestazione e dunque il diritto alla retribuzione del lavoratore è differente.

La Corte osserva, invero, che le attività oggettivamente configurabili come lavoro subordinato si presumono onerose e tale presunzione è rafforzata allorché la prestazione sia resa in favore di un’organizzazione di tendenza religiosa o culturale a cui l’art. 4 della l. n. 108 del 1990, attribuendo la qualifica di “datori di lavoro non imprenditori”, implicitamente riconosce la possibilità dell’instaurazione di un rapporto di lavoro subordinato. La prova idonea a superare tale presunzione, che grava su colui che contesta l’onerosità, è tanto più rigorosa quante volte siano provate erogazioni periodiche di denaro o di altre utilità in favore del prestatore, per le quali quest’ultimo non è tenuto a dimostrare l’insussistenza di un titolo di altra natura, spettando all’altra parte la prova di una causa solvendi diversa da quella retributiva.

In armonia con l’orientamento innanzi segnalato, va ricordata anche Sez. L, n. 01644/2018, Patti, Rv. 647486-01, riaffermandosi in essa che si presume che i compensi corrisposti dal datore siano volti a compensare, quale corrispettivo, la sola prestazione ordinaria di lavoro. La sentenza, peraltro, afferma anche un principio di maggior ampiezza, quello secondo il quale, il patto di conglobamento nella retribuzione di corrispettivi ulteriormente dovuti al lavoratore subordinato per legge o per contratto (quali la tredicesima mensilità, il compenso per le ferie e per le festività) è valido solo se dal patto risultino gli specifici titoli cui è riferibile la prestazione patrimoniale complessiva, poiché solo in tal caso è superabile la presunzione che il compenso convenuto è dovuto quale corrispettivo della sola prestazione ordinaria e si rende possibile il controllo giudiziale circa l’effettivo riconoscimento al lavoratore dei diritti inderogabilmente spettanti per legge o per contratto, senza che sia tuttavia necessario che il datore provveda ad una specificazione anche degli importi corrispondenti ai singoli istituti conglobati.

7.1.1. L’inesistenza di un principio generale di omnicomprensività della retribuzione.

L’inesistenza di un principio di onnicomprensività della retribuzione comporta che un certo emolumento non possa, in mancanza di una previsione esplicita di legge o di contratto collettivo, essere incluso nella base di computo dei vari istituti indiretti, salvo diversa previsione legislativa o pattizia.

In armonia con la sopraindicata affermazione, Sez. L, n. 28937/2018, Patti, Rv. 651705-01, ha ribadito che in tema di retribuzione nel lavoro subordinato, ai fini della determinazione della base di calcolo degli istituti indiretti (tredicesima mensilità, ferie, festività, ex festività soppresse e permessi retribuiti), non vige nell’ordinamento un principio di omnicomprensività, sicché il compenso per lavoro straordinario va computato, a tali fini, solo ove previsto da norme specifiche o dalla disciplina collettiva. Ne consegue che, laddove l’art. 14 del c.c.n.l. per i lavoratori addetti all’industria metalmeccanica del 7 maggio 2003 prevede che le ferie e la tredicesima mensilità siano retribuite con la retribuzione globale di fatto e con esclusione dei compensi accidentali per prestazioni svolte in particolari condizioni di ambiente, luogo e tempo, va computato il lavoro straordinario reso con continuità, restando irrilevante il richiamo al moltiplicatore 173 – contenuto nell’art. 12 del citato c.c.n.l. – in quanto afferente al criterio contabile di proporzionamento della retribuzione.

7.1.2. Il principio dell’assorbimento in materia di retribuzione.

In linea con l’insegnamento ormai granitico della S.C., nell’anno in corso Sez. L, n. 26017/2018, De Gregorio, Rv. 650897-01, ha ribadito che il cosiddetto superminimo, ossia l’eccedenza retributiva rispetto ai minimi tabellari, individualmente pattuito tra datore di lavoro e lavoratore, è soggetto al principio dell’assorbimento, nel senso che, in caso di riconoscimento del diritto del lavoratore a superiore qualifica, l’emolumento è assorbito dai miglioramenti retributivi previsti per la qualifica superiore, a meno che le parti abbiano convenuto diversamente o la contrattazione collettiva abbia altrimenti disposto, restando a carico del lavoratore l’onere di provare la sussistenza del titolo che autorizza il mantenimento del superminimo, escludendone l’assorbimento. La pronunzia, come si è ricordato in apertura, si pone nella scia del consolidato ordinamento della S.C. che ha più volte ribadito il principio dell’assorbimento (salva diversa previsione delle parti o collettiva). In tal senso, si vedano, tra le più note e recenti, Sez. L, n. 14689/2012, Filabozzi, Rv. 623623-01, nonché Sez. L, n. 19750/2008, Stile, Rv. 604545-01 e, in materia di lavoro pubblico, Sez. L, n. 169/2017, Blasutto, Rv. 642443-01 che afferma il principio del riassorbimento dell’assegno ad personam nel caso di mobilità tra Ministeri.

7.2. Il riparto degli oneri della prova in tema di retribuzione con riguardo al lavoro straordinario ed alla indennità di rischio da radiazioni.

Del riparto degli oneri di allegazioni e prova, la S.C. si è ulteriormente interessata con riguardo all’espletamento di lavoro straordinario. Sez. L, n. 01644/2018, Patti, Rv. 647486-01, ha infatti puntualizzato che sul lavoratore che chiede in via giudiziale il compenso per lavoro straordinario grava un onere probatorio rigoroso, che presuppone a monte la specifica allegazione del fatto costitutivo, senza che al mancato assolvimento di entrambi (allegazione e prova) possa supplire la valutazione equitativa del giudice.

Nello stesso senso, anche Sez. L, n. 04076/2018, Negri della Torre, Rv. 647446-01, in cui si riafferma lo stesso principio. Il lavoratore che chieda in via giudiziale il compenso per il lavoro straordinario ha l’onere di dimostrare di aver lavorato oltre l’orario normale di lavoro, senza che l’assenza di tale prova possa essere supplita dalla valutazione equitativa del giudice, utilizzabile solo in riferimento alla quantificazione del compenso. Sotto questo profilo, la Cassazione si pone, quindi, sulla scia di un orientamento granitico e consolidato (si vedano in tema, Sez. L, n. 1389/2003, Capitanio, Rv. 560141-01, ma anche l’ancor più datata Sez. L, n. 8006/1998, Capitanio, Rv. 518048-01).

Per l’evidente connessione con il tema che qui si sta esaminando, va ricordato che la Suprema Corte (cfr. Sez. L, n. 18161/2018, Balestrieri, Rv. 649816-01) ha approfondito il tema dei criteri da utilizzare per verificare il diritto o meno al pagamento dello straordinario in relazione alla posizione dei funzionari direttivi, precisando che questi ultimi, esclusi dalla disciplina legale delle limitazioni dell’orario di lavoro, hanno diritto al compenso per lavoro straordinario solo se la disciplina collettiva delimiti anche per essi l’orario normale e tale orario venga in concreto superato oppure se la durata della loro prestazione valichi il limite di ragionevolezza in rapporto alla necessaria tutela della salute e dell’integrità fisiopsichica garantita dalla Costituzione a tutti i lavoratori. Per questa seconda ipotesi deve essere valutato non tanto l’elemento quantitativo del numero delle ore lavorate, quanto l’elemento qualitativo relativo all’impegno fisico ed intellettuale, richiesto al lavoratore. Nella specie, la S.C., nella decisione il cui contenuto si sta esaminando, ha cassato la sentenza di merito che aveva condannato Poste italiane s.p.a. al pagamento dello straordinario, benché le norme del c.c.n.l. applicabili non prevedessero un preciso orario di lavoro, in assenza di prova del carattere usurante ed irragionevole della prestazione.

Sempre con riguardo alla delimitazione dell’onere della prova, in ordine alla spettanza di determinati emolumenti, i giudici di legittimità, in armonia con i criteri di riparto codificati nell’art. 2697 c.c., hanno affermato che l’indennità di rischio da radiazioni, prevista dall’art. 1 della l. 27 ottobre del 1988, n. 460, spetta in maniera automatica e nella misura più elevata, unitamente alle connesse provvidenze del congedo biologico, della sorveglianza dosimetrica e delle visite periodiche di controllo, al personale medico e tecnico di radiologia per il quale sussiste una presunzione assoluta di esposizione a rischio, inerente alle mansioni naturalmente connesse alla qualifica rivestita; al contrario, ricade sui lavoratori che non appartengano al settore radiologico e ne domandino l’attribuzione, l’onere di dimostrare l’esposizione non occasionale, né temporanea, a rischio analogo, in base ai criteri tecnici dettati dal d.lgs. 17 marzo del 1995, n. 230 (cfr. Sez. L, n. 14836/2018, Tria, Rv. 648998-01).

7.3. I trattamenti economici per servizio estero e per il caso di trasferimento.

Con riguardo, poi, ai criteri che l’interprete deve utilizzare per verificare se un determinato emolumento ha natura retributiva o meno, la Cassazione puntualizza nuovamente che hanno natura retributiva i trattamenti economici che compensano il lavoro (e la sua eventuale maggiore gravosità), mentre hanno natura riparatoria quelli volti al ristoro di spese.

In tal senso, si è espressa la Suprema Corte, affermando che il trattamento economico per servizio estero ha natura retributiva se compensa la maggiore gravosità del lavoro ovvero se è correlato alla professionalità necessaria per svolgere la prestazione fuori dai confini nazionali, mentre ha natura riparatoria se reintegra le spese sopportate dal lavoratore per la permanenza all’estero nell’esclusivo interesse del datore, con accertamento demandato al giudice di merito.

Nella specie, Sez. L, n. 20011/2018, Curcio, Rv. 649873-01, ha pertanto confermato la sentenza che aveva ritenuto risarcitoria la natura dell’indennità di alloggio corrisposta da un istituto bancario, perché erogata per esigenze abitative del dipendente e non collegata all’espletamento della prestazione lavorativa.

Come si è già accennato, i criteri che presidiano il tratto distintivo tra l’emolumento retributivo e quello riparatorio erano peraltro già stati delimitati da Sez. L, n. 15217/2016, Manna, Rv. 640736-01, proprio con riguardo al trattamento economico per servizio estero. Ebbene, anche in quella ipotesi, i giudici di legittimità hanno sostenuto che il trattamento estero ha natura retributiva, tanto in presenza di una funzione compensativa della maggiore gravosità del disagio morale e ambientale, quanto nel caso in cui sia correlato alle qualità e condizioni personali concorrenti a formare la professionalità indispensabile per prestare lavoro fuori dai confini nazionali, mentre ha natura riparatoria e dunque di rimborso spese per la permanenza all’estero, quando costituisca la reintegrazione della diminuzione patrimoniale derivante da una spesa effettiva sopportata dal lavoratore nell’esclusivo interesse del datore, collegato ad una modalità della prestazione lavorativa richiesta per esigenze straordinarie, priva dei caratteri della continuità e determinatezza (o determinabilità) e fondata su una causa autonoma rispetto a quella retributiva.

Applica gli stessi criteri distintivi, Sez. L, n. 22197/2018, Marotta, Rv. 650499-01, in tema di emolumenti percepiti in caso di trasferimento ad altra sede. In tal caso, afferma, infatti, il giudice di legittimità, alle somme erogate a tale titolo deve riconoscersi natura retributiva qualora si tratti di importi compensativi della maggiore gravosità e del disagio morale ed ambientale dell’attività lavorativa prestata presso la nuova sede per adempiere, sia pure indirettamente, gli obblighi della prestazione lavorativa; il collegamento sinallagmatico con detta prestazione rende, infatti, tali importi un adeguamento della retribuzione ai maggiori esborsi sopportati in considerazione delle mutate condizioni ambientali in cui il lavoratore svolge la propria attività.

7.4. La ripetibilità da parte del datore delle ritenute fiscali in caso di riforma della sentenza di condanna.

In correlazione con il tema in oggetto, va segnalata anche Sez. L, n. 19735/2018, Balestrieri, Rv. 650039-01, che tocca il connesso profilo del diritto del datore di ripetere dal lavoratore le ritenute fiscali in conseguenza della riforma della sentenza di condanna al pagamento di somme in favore del prestatore.

I giudici di legittimità hanno in tal caso affermato che, in caso di riforma, totale o parziale, della sentenza di condanna, il datore ha diritto a ripetere solo quanto il lavoratore abbia effettivamente percepito e non può pertanto pretendere la restituzione di importi al lordo di ritenute fiscali mai entrate nella sfera patrimoniale del dipendente.

Il caso del venir meno con effetto ex tunc dell’obbligo fiscale a seguito della riforma della sentenza da cui è sorto ricade, infatti, nel raggio di applicazione dell’art. 38, comma 1, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, secondo cui il diritto al rimborso fiscale nei confronti dell’amministrazione finanziaria spetta, in via principale, a colui che ha eseguito il versamento non solo nelle ipotesi di errore materiale e duplicazione, ma anche in quelle di inesistenza totale o parziale dell’obbligo.

Della questione, si era peraltro già interessata, ma con un angolo prospettico differente, Sez. L, n. 239/2006, Monaci, Rv. 587223-01, ritenendo che il diritto al rimborso dell’imposta che si assume indebita, riscossa in tutto o in parte mediante ritenuta alla fonte, spetta in prima istanza al sostituito, il quale, ai fini della ripetizione della stessa, deve fornire la prova di aver subito detta ritenuta, senza dovere, altresì, dimostrare che l’imposta è stata effettivamente incassata dall’erario, ma anche al datore di lavoro, come sostituto d’imposta, che ha facoltà di richiedere il rimborso dell’indebito, ed in questo caso dal calcolo di quanto il prestatore di lavoro dovrà restituire per importi retribuitivi indebitamente percepiti dovrà essere esclusa la ritenuta d’imposta già versata all’amministrazione finanziaria.

Le due pronunzie non si pongono in contrasto.

Ed infatti, come attentamente rilevato nella citata Sez. L, n. 19735/2018, Balestrieri, Rv. 650039-01, le cui parole si prendono a prestito, nella richiamata pronunzia del 2006, viene affermato il principio in virtù del quale il debitore principale verso il fisco è il percettore del reddito imponibile e non il sostituto che esegue la ritenuta ed il successivo versamento, cosicché è al medesimo debitore principale che compete il diritto di ripetere quanto pagato in eccesso, con la precisazione che questa affermazione riguarda i rapporti tra sostituto d’imposta, sostituito e fisco e non invece quelli tra datore e lavoratore. Dunque, quanto si è innanzi ricordato, non è affatto in contrasto con l’assunto in virtù del quale al lavoratore sostituito non può essere richiesto quanto versato dal sostituto al terzo. Con la sentenza dinnanzi citata, peraltro, la Suprema Corte si pone in linea di continuità con l’affermazione di principio più volte ribadita, anche con riguardo al tema in esame, secondo la quale il solvens non può ripetere dall’accipiens più di quanto da questi abbia percepito. Si veda, in termini, Sez. L, n. 1464/2012, Arienzo, Rv. 621079-01, in cui si ritiene che nel rapporto di lavoro subordinato, il datore di lavoro versa al lavoratore la retribuzione al netto delle ritenute fiscali e, quando corrisponde per errore una retribuzione maggiore del dovuto ed opera ritenute fiscali erronee per eccesso, salvi i rapporti col fisco, può ripetere l’indebito nei confronti del lavoratore solo nei limiti di quanto effettivamente percepito da quest’ultimo, restando esclusa la possibilità di chiedere la restituzione di importi al lordo di ritenute fiscali mai entrate nella sfera patrimoniale del dipendente.

7.4.1. L’esclusione dalla retribuzione imponibile delle somme di incentivazione all’esodo.

Evidente, nella lettura offerta dalla S.C., la finalità protettiva degli interessi del lavoratore perseguita dall’art. 4, comma 2-bis, del d.l. 30 maggio 1988, n. 173, convertito dalla legge n. 291 del 26 febbraio 1988.

A tal riguardo, Sez. L, n. 27949/2018, Calafiore, Rv. 651359-01, ha infatti affermato che, in caso di cessazione del rapporto di lavoro di singoli lavoratori, in virtù della norma innanzi ricordata, rientrano tra le somme che vanno escluse dalla retribuzione imponibile in quanto corrisposte, in occasione della cessazione del rapporto di lavoro, al fine di incentivare l’esodo dei lavoratori, non solo quelle conseguite con un apposito accordo per l’erogazione dell’incentivazione anteriore alla risoluzione del rapporto, ma tutte quelle che risultino erogate in occasione della cessazione del rapporto di lavoro per incentivare l’esodo, potendo risultare ciò sia da una indicazione in tal senso dell’atto unilaterale di liquidazione delle spettanze finali, sia da elementi presuntivi.

7.5. La derogabilità del principio di immodificabilità in peius della retribuzione in materia di società cooperative.

Particolare rilevanza, in tema di trattamenti economici assume, inoltre, l’affermazione che in tema di società cooperative, la deliberazione, nell’ambito di un piano di crisi aziendale, di una riduzione temporanea dei trattamenti economici integrativi del socio lavoratore e di forme di apporto anche economico da parte di questi, ex art. 6, comma 1, lett. d) ed e), della l. 3 aprile del 2001, n. 142, in deroga al principio generale del divieto di immodificabilità in peius del trattamento economico minimo previsto dalla contrattazione collettiva, di cui all’art. 3 della predetta legge, è condizionata alla necessaria temporaneità dello stato di crisi e, quindi, all’essenziale apposizione di un termine finale ad esso.

È stato peraltro ribadito che il principio generale della immodificabilità in peius del trattamento retributivo può però essere derogato solo quando è il legislatore a consentirlo, in presenza di particolari condizioni, come accade appunto in materia di società cooperative. È d’uopo, quindi, operare una precisazione: sotto l’ombrello protettivo del legislatore il lavoratore presta, comunque, alla ricorrenza dei presupposti di legge e negli stretti limiti della stessa, un consenso anticipato a detta riduzione, nel caso di specie, con la sottoscrizione del contratto associativo.

In tema ed in armonia con quanto si è accennato, Sez. L, n. 19096/2018, Arienzo, Rv. 649882-01.

La pronunzia, peraltro, è in linea con quanto già dalla Corte statuito (cfr. Sez. L, n. 19832/2013, Arienzo, Rv. 628844-01) in cui già si affermava che in tema di società cooperativa, con l’avvenuta sottoscrizione del contratto associativo, il socio lavoratore aderisce alle disposizioni stabilite dal regolamento interno che sia stato adottato dalla società ai sensi dell’art. 6 della l. n. 142 del 2001, trovando conseguentemente applicazione le disposizioni di cui all’art. 6, comma 1, lett. d) ed e) della legge cit., che consentono alla società, in caso di crisi aziendale, di deliberare una riduzione temporanea dei trattamenti economici integrativi e di prevedere forme di apporto anche economico da parte del socio lavoratore, al solo scopo di superare la difficoltà economica in cui versa l’impresa.

In conclusione, il principio generale dell’inderogabilità in peius del trattamento economico minimo previsto dalla contrattazione collettiva può subire eccezioni esclusivamente nel caso di deliberazione del “piano di crisi aziendale”, che deve contenere elementi adeguati e sufficienti tali da esplicitare l’effettività della predetta crisi, la sua temporaneità, l’indicazione degli interventi previsti, evidenziando, infine, lo stretto nesso di causalità tra lo stato di crisi aziendale e l’applicabilità ai soci lavoratori di tali interventi.

7.6. La determinazione del compenso in tema di lavoro giornalistico.

Quanto agli aspetti retributivi del lavoro giornalistico, la Suprema Corte se ne è occupata nell’anno in corso in due pronunzie (cfr. innanzi par. 5.2. sulla distinzione tra redattore e collaboratore fisso dell’impresa giornalistica).

Nella prima, Sez. L, n. 07575/2018, Garri, Rv. 647657-01, si è ritenuto che, la determinazione del compenso professionale relativo alle attività di collaborazione giornalistica, in mancanza di un accordo tra le parti e della possibilità di fare ricorso alle tariffe o agli usi, è demandata al giudice, che deve tuttavia obbligatoriamente acquisire il parere dell’associazione professionale a cui il professionista appartiene, ai sensi dell’art. 2233, comma 1, c.c..

Sull’utilità delle tabelle elaborate dal consiglio dell’ordine, peraltro, aveva già avuto modo di soffermarsi Sez. L, n. 11412/2016, Berrino, Rv. 639836-01, sottolineando come in tema di compensi per prestazioni giornalistiche, le tabelle elaborate dal Consiglio dell’ordine, pur non vincolanti, rappresentano un valido criterio orientativo in sede di determinazione giudiziale ex art. 2233 c.c., in quanto forniscono elementi utili ai fini della individuazione dei minimi inderogabili a garanzia dell’attività svolta dal professionista.

Nella seconda pronunzia, Sez. L, n. 26676/2018, Marchese, Rv. 651237-01, si indagano, invece, le modalità di commisurazione del compenso del giornalista collaboratore fisso, ossia quel giornalista, addetto ai quotidiani, alle agenzie di informazioni quotidiane per la stampa, ai periodici, alle emittenti radiotelevisive private e agli uffici stampa collegati alle aziende editoriali, che, pur non svolgendo la professione quotidianamente, assicura la continuità della propria prestazione, è soggetto a un vincolo di dipendenza ed assume la responsabilità di un servizio. Ebbene, in ordine al compenso del collaboratore fisso, afferma la Cassazione, l’operazione di quantificazione deve essere operata tenendo conto dei parametri indicati nell’art. 2, del c.c.n.l. del 10 gennaio 1959, norma applicabile ratione temporis, resa efficace erga omnes con d.P.R. 16 gennaio 1961, n. 153, e cioè l’importanza delle materie trattate, il tipo, la qualità e quantità delle collaborazioni, sicché rientrerà poi nei poteri di apprezzamento discrezionale del giudice di merito individuare un criterio logico per commisurare il compenso di un numero di collaborazioni maggiore della soglia minima di quattro o otto pezzi al mese, tenendo conto di tutti i parametri innanzi evidenziati.

Nello stesso senso, sostanzialmente si era già espressa, Sez. L, n. 00290/2014, Balestrieri, Rv. 629669-01, ritenendo che in materia di lavoro giornalistico, il collaboratore fisso di una agenzia di informazioni quotidiane (nella specie, l’Ansa), da identificarsi nel giornalista che, pur non assicurando una attività giornaliera, fornisca con continuità ai lettori un flusso di notizie attraverso la redazione sistematica di articoli o la tenuta di rubriche, ha diritto, ai sensi dell’art. 2, comma 4, del c.c.n.l. lavoro giornalistico (applicabile ratione temporis), ad una retribuzione che sia collegata al numero di collaborazioni fornite, ossia al numero di articoli redatti o rubriche tenute, nonché all’impegno di frequenza e alla natura e all’importanza delle materie trattate, ferma restando la soglia minima di quattro od otto collaborazioni al mese. Partendo da tali premesse, ha dunque affermato che ove il numero delle collaborazioni sia particolarmente elevato e superiore a quello pattuito, il giudice, ai fini della equa determinazione della retribuzione, non può limitarsi ad un aumento proporzionale della stessa in rapporto al maggior numero di articoli o rubriche redatti rispetto a quelli concordati, dovendo anche tenere conto di tutti gli altri parametri previsti dalla disposizione collettiva.

7.7. La natura retributiva della indennità sostitutiva delle ferie.

La fruizione delle ferie ed il periodo di comporto. In linea di continuità con l’orientamento della Suprema Corte, si pone anche Sez. L, n. 02496/2018, Tricomi, Rv. 647301-01, nella quale si ribadisce che dal mancato godimento delle ferie deriva – una volta divenuto impossibile per l’imprenditore, anche senza sua colpa, adempiere l’obbligazione di consentire la loro fruizione – il diritto del lavoratore al pagamento dell’indennità sostitutiva, che ha natura retributiva, in quanto rappresenta la corresponsione a norma degli artt. 1463 e 2037 c.c., del valore di prestazioni non dovute e non restituibili in forma specifica.

Sul punto la Cassazione precisa altresì che l’assenza di un’espressa previsione contrattuale non esclude l’esistenza del diritto alla erogazione di detta indennità sostitutiva, che peraltro non sussiste se il datore di lavoro dimostra di avere offerto un adeguato tempo per il godimento delle ferie, di cui il lavoratore non abbia usufruito, venendo ad incorrere, così, nella “mora del creditore”. Lo stesso diritto, costituendo un riflesso contrattuale del diritto alle ferie, non può essere condizionato, nella sua esistenza, alle esigenze aziendali. Come si anticipava, la pronunzia innanzi esaminata, ribadendo la natura retributiva della indennità sostitutiva delle ferie, si pone in assoluta continuità con quanto dalla Corte già ritenuto in Sez. L, n. 13860/2000, Cuoco, Rv. 541065-01 e prima ancora da Sez. L, n. 4339/1998, Mileo, Rv. 515408-01.

Quanto alla possibilità di fruizione delle ferie alla fine della interruzione del periodo di comporto Sez. L, n. 27392/2018, Marotta, Rv. 651049-01, ha ritenuto che il lavoratore assente per malattia ha la facoltà di domandare la fruizione delle ferie maturate e non godute, allo scopo di sospendere il decorso del periodo di comporto, non sussistendo una incompatibilità assoluta tra malattia e ferie, senza che a tale facoltà corrisponda comunque un obbligo del datore di lavoro di accedere alla richiesta, ove ricorrano ragioni organizzative di natura ostativa. In un’ottica di bilanciamento degli interessi contrapposti, nonché in ossequio alle clausole generali di correttezza e buona fede, è necessario, tuttavia, che le dedotte ragioni datoriali siano concrete ed effettive. In applicazione del sopraindicato principio, quindi, la S.C. ha confermato la decisione di merito che aveva ritenuto privo di giustificazione, in quanto fondato su ragioni vaghe ed inconsistenti, il rifiuto di concessione delle ferie motivato dalla società datrice solo con un generico riferimento a non meglio precisate esigenze organizzative dell’ufficio.

7.8. La retribuzione e la contrattazione collettiva.

Non ci si può poi esimere dal ricordare una serie di decisioni che, come si è anticipato, riguardano le previsioni di specifici contratti collettivi in materia di retribuzione.

Sez. L, n. 09955/2018, Marotta, Rv. 648948-01, in tema di trattamento economico dei dirigenti, ritiene che le indennità previste dall’art. 18 del c.c.n.l. agricoltura dell’11 maggio 2005 spettano tanto nel caso di intervenuto trasferimento dell’azienda o di un ramo di essa, sia nella diversa ipotesi di mutamento della titolarità aziendale, da intendersi, con riferimento alle società di capitali, quale variazione della titolarità del pacchetto azionario di maggioranza che, in quanto sufficiente a garantire la nomina dei componenti dell’organo amministrativo, pur non incidendo sulla soggettività giuridica dell’ente, si riverbera sugli assetti societari, con possibili ripercussioni sul rapporto dirigenziale e sulla permanenza del profilo fiduciario che tipicamente innerva tale rapporto, così da giustificare la possibilità di recesso garantita dalla corresponsione delle indennità di cui all’art. 18 cit.

Quanto al trattamento economico dei dipendenti delle imprese esercenti i servizi di pulizia, l’art. 22 del c.c.n.l. del 25 maggio 2001, con riferimento agli “incrementi automatici biennali” riguardanti gli assunti dopo il 1° giugno 2001, afferma Sez. L, n. 07717/2018, Amendola F., Rv. 647820-01, va interpretato nel senso che, dopo un primo periodo triennale di sospensione degli aumenti, riprende il decorso del tempo ai fini dello scatto per ogni biennio successivo alla prima fase di neutralizzazione.

In relazione al trattamento economico del personale di Poste Italiane s.p.a., va inoltre rammentata, Sez. L, n. 19272/2018, Arienzo, Rv. 649934-01, che, con riguardo agli addetti ai servizi viaggianti, ha indagato i rapporti tra il ticket di cui all’art. 82 del c.c.n.l. dell’11 luglio del 2007 ed il supplemento forfettario dell’indennità prevista dall’art. 71 dello stesso c.c.n.l., affermando la cumulabilità dei due emolumenti. Nello specifico, la S.C. ha ritenuto che il supplemento forfettario dell’indennità di cui al citato art. 71, corrisposto in forma di ticket, compensi l’aggravio connesso al superamento dell’ordinario orario della prestazione, sicché non può intendersi ricompreso nel diverso ticket di cui all’art. 82 dello stesso c.c.n.l., collegato, invece, al nuovo sistema di refezione previsto per tutti i dipendenti della società.

In tema di retribuzione dei dipendenti delle Ferrovie dello Stato, con Sez. L, n. 07690/2018, Curcio, Rv. 647665-01, in piena conformità con quanto già ritenuto da Sez. L, n. 13581/2016, Ghinoy, Rv. 640470-01, la S.C. ha nuovamente ribadito che la finalità dell’istituto dell’elemento distinto di retribuzione (EDR), previsto dall’accordo nazionale dell’8 novembre 1995, successivamente modificato dall’accordo del 6 febbraio 1998, come risultante dall’interpretazione dell’art. 73, comma 3, del c.c.n.l. del 6 febbraio 1998, per i dipendenti delle Ferrovie dello Stato, è quella di trasferire una parte degli importi delle competenze accessorie nella retribuzione base, in modo da renderli pensionabili, senza, tuttavia, creare una lievitazione del costo del lavoro e, dunque, con il meccanismo del “riassorbimento”, sicché il 14° rateo EDR, pur determinando un incremento della retribuzione base e quindi anche dell’assegno personale pensionabile, è destinato ad essere riassorbito in varie indennità accessorie decurtate nella stessa misura e non deve essere effettivamente erogato.

Quanto al premio fedeltà, previsto dagli accordi aziendali applicabili ai dipendenti di Unicredit s.p.a., Sez. L, n. 26663/2018, Ponterio, Rv. 651197-01, ha ritenuto che nel periodo di “effettivo servizio”, ai fini del riconoscimento del premio innanzi citato, va computato il congedo facoltativo per maternità. Detta interpretazione deriva non solo dalla lettura delle clausole contrattuali in armonia con i canoni ermeneutici di cui agli artt. 1362 e 1369 c.c. ma è soprattutto imposta dal principio di non discriminazione, sicché solo tale lettura è atta ad evitare la nullità delle predette clausole, secondo il disposto dell’art. 1367 c.c..

Da ultimo, Sez. L, n. 29399/2018, Arienzo, Rv. 651707-01, si è occupata della retribuzione spettante ai dipendenti Anas allorché il prestatore con qualifica di quadro partecipi quale membro interno alle commissioni per l’affidamento dei lavori pubblici. Nello specifico, in detta pronunzia si è affermato che non è dovuto alcun compenso aggiuntivo al dipendente ANAS con qualifica di quadro che partecipi alle commissioni per l’affidamento di lavori pubblici come membro interno, quale attività rientrante fra quelle previste per la categoria di riferimento dalla contrattazione collettiva (fatta salva la prova che l’attribuzione di mansioni molteplici comporti per il lavoratore un maggiore impegno qualitativo o quantitativo rispetto a quello caratteristico della qualifica rivestita), dovendosi ritenere che l’art. 21 della l. n. 109 del 1994, in base ad un’interpretazione logica e sistematica della norma e del relativo regolamento di attuazione, si limiti a disciplinare la previsione di spese di funzionamento, definite solo eventuali, senza riferire necessariamente il compenso collegato all’incarico a tutti i membri della commissione indistintamente.

7.9. Il TFR.

Quanto alla erogazione del trattamento di fine rapporto, diverse le tematiche indagate dai giudici di legittimità nel corso del 2018.

In primo luogo, va segnalato che in piena conformità con l’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità (cfr. sul punto Sez. L, n. 9695/2009, Bandini, Rv. 607981-01, nonché Sez. L, n. 11995/2009, De Renzis, Rv. 573959-01 e, prima ancora, Sez. L, n. 8820/2018, Vaccaro, Rv. 483515-01), Sez. L, n. 02728/2018, Blasutto, Rv. 647400-02, ha riconfermato che il diritto al trattamento di fine rapporto (TFR) sorge con la cessazione del rapporto di lavoro, con la conseguenza che solo in quel momento può essere azionato, non essendo di ostacolo a tal fine la sussistenza, di una controversia tra le parti in ordine all’ammontare delle retribuzioni spettanti al lavoratore (la cui pendenza può, semmai, determinare soltanto la sospensione del giudizio diretto al conseguimento nel TFR). Ne consegue che il termine iniziale di decorso della prescrizione del diritto al TFR va individuato nel momento in cui il rapporto di lavoro subordinato è cessato e non già in quello in cui sia stato accertato giudizialmente l’effettivo ammontare delle retribuzioni spettanti.

Quanto alla natura del trattamento di fine rapporto, si è ribadito che trattasi un debito liquido e determinato nel suo ammontare ovvero agevolmente determinabile mediante criteri stringenti sulla base di prefissate operazioni di calcolo (così Sez. L, 25716/2018, Marchese, Rv. 650945-02), sicché va ricompreso nella categoria delle obbligazioni cosiddette “portabili”, da adempiere, quindi, ai sensi dell’art. 1182 c. c., presso il domicilio del creditore.

Quanto al trattamento di fine rapporto dei dipendenti degli enti creditizi, la Corte ha verificato la natura retributiva della “elargizione per abitazione”, quando tale emolumento, riconosciuto al funzionario trasferito con i familiari conviventi, ha carattere continuativo e periodico e finalità di contributo corrisposto, in misura fissa e senza documentazione giustificativa, in relazione alle esigenze abitative personali del lavoratore, da computarsi quindi, in mancanza di espressa deroga pattizia, nella base del calcolo prevista dall’art. 2120 c.c. per la determinazione del trattamento di fine rapporto. Tale il principio affermato è da Sez. L, n. 20505/2018, Marotta, Rv. 650122-01.

Agli stessi fini, i giudici di legittimità hanno vagliato la natura retributiva dell’emolumento aggiuntivo corrisposto al lavoratore per lo svolgimento del lavoro all’estero e – sulla questione specifica – Sez. L, n. 21519/2018, Marotta, Rv. 650143-01, ha osservato che, ai fini della determinazione della base di computo del trattamento di fine rapporto, ai sensi dell’art. 2120, comma 2, c.c. e in mancanza di una deroga espressa contenuta nella contrattazione collettiva, la natura di retribuzione di un emolumento aggiuntivo corrisposto al lavoratore per lo svolgimento di lavoro all’estero o in altra sede lavorativa è desumibile da indici sintomatici, inclusi quelli emergenti in sede di conclusione del contratto individuale, che denotino la non occasionalità dell’emolumento, dovendosi invece attribuire natura non retributiva alle voci che abbiano la finalità di tenere indenne il lavoratore da spese che non avrebbe incontrato se non fosse stato trasferito, sostenute nell’interesse dell’imprenditore. La S.C., nell’affermare detto principio, ha quindi confermato la sentenza impugnata che aveva attribuito natura retributiva all’elargizione per abitazione corrisposta ad un funzionario bancario trasferito con familiari conviventi, desumendola dal carattere periodico dell’erogazione, dalla sua corresponsione in misura fissa e senza documentazione giustificativa.

Si è già avuto modo di ricordare (supra pragrafo 7.3.: Sez. L, n. 20011/2018, Curcio, Rv. 649873-01), che i giudici di piazza Cavour, avevano avuto modo di segnalare ad altri fini che hanno natura retributiva i trattamenti economici per servizio all’estero che compensano il lavoro (e la sua eventuale maggiore gravosità), mentre hanno natura riparatoria quelli volti al ristoro di spese.

Infine, Sez. L, n. 04352/2018, Tricomi, Rv. 647453-01, in piena conformità con la pronunzia delle S.U., n. 21553/2009, Morcavallo, Rv. 609708-01, ha ritenuto che in materia di indennità di fine rapporto, la normativa di cui alla l. 29 maggio 1982, n. 297, non preclude che possano essere corrisposte, alla cessazione del rapporto, erogazioni integrative aventi natura e funzioni diverse dal trattamento di fine rapporto, purché ricollegate al contratto di lavoro, nel quale devono trovare una giustificazione causale idonea ad escludere che si sia in presenza di disposizioni derogatorie alla disciplina legale. Va pertanto negato che siano da corrispondere ai lavoratori le maggiori somme maturate per l’effetto di una polizza assicurativa stipulata dal datore di lavoro, allorché, in ragione della struttura della provvista e della modalità di erogazione degli importi, risulti che essa sia stata costituita per finalità proprie del datore di lavoro, nello specifico per assicurare la corresponsione dell’indennità di fine rapporto ai dipendenti, sicché non va erogata a favore di questi ultimi alcuna utilità economica ulteriore.

8. L’eterodirezione, ai fini della delimitazione del “tempo lavoro” e quindi della subordinazione.

Il contratto di lavoro è, come è noto, un contratto di durata che, pertanto, prevede l’adempimento di obbligazioni continuative nel tempo (in via principale, effettuazione della prestazione da parte del lavoratore ed erogazione della retribuzione da parte del datore).

Il “tempo lavoro” è pertanto l’orario di lavoro che il prestatore deve rispettare, disciplinato dalla legge oltre che dalla contrattazione collettiva.

Esso segna il limite temporale oltre il quale il datore non ha più alcun potere di supremazia gerarchica e di eterodirezione del lavoratore.

Insomma, il “tempo lavoro”, da un lato, segna – in via generale – il confine invalicabile per il datore regolando lo sbarramento verso la sfera privata del prestatore, dall’altro, invece, delimita l’area temporale in cui datore e prestatore sono tenuti all’adempimento delle rispettive obbligazioni, con la conseguenza che è importante l’individuazione del “tempo lavoro” anche allo scopo di delimitare lo spatium temporis in cui il prestatore deve espletare la prestazione ed il datore deve erogare la retribuzione.

Proprio di tale ultimo aspetto, la individuazione del “tempo lavoro”, si è occupata Sez. L, n. 07738/2018, Pagetta, Rv. 647676-01, affermando che il tempo per indossare la divisa aziendale rientra nell’orario di lavoro, ove, attraverso la regolazione contrattuale, venga accertato che tale operazione è diretta dal datore con riguardo al tempo e al luogo di esecuzione della vestizione. L’eterodirezione, insomma, può derivare dall’esplicita disciplina d’impresa o risultare implicitamente dalla natura degli indumenti o della specifica funzione che devono assolvere, quando gli stessi siano diversi da quelli utilizzati o utilizzabili secondo un criterio di normalità sociale dell’abbigliamento. Per rendere più chiara l’affermazione della Corte, vale la pena esemplificare. Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di appello che aveva riconosciuto come lavoro effettivo il tempo impiegato dai dipendenti, addetti al servizio mensa, per indossare gli abiti di lavoro prima dell’inizio del turno, in appositi spogliatoi, messi a disposizione all’interno dell’azienda, per ragioni di igiene pubblica.

La pronunzia è conforme, peraltro, all’orientamento inaugurato da Sez. L, n. 1352/2016, Rv. 638332-01, in cui già si riteneva, anche alla luce della giurisprudenza comunitaria in tema di orario di lavoro di cui alla direttiva n. 2003/88/CE (Corte di Giustizia UE del 10 settembre 2015 in C-266/14), che il tempo necessario ad indossare la divisa aziendale rientrasse nell’orario di lavoro se è assoggettato al potere di conformazione del datore.

Quanto agli oneri probatori, non va sottaciuto che incombe sul lavoratore allegare e provare che nell’orario di lavoro vadano incluse anche le pause.

In tal senso, Sez. L, 21562/2018, Garri, Rv. 650219-01, ha ritenuto che in tema di rapporto di lavoro subordinato privato, ove sia prevista una pausa nello svolgimento dell’attività lavorativa, in difetto di una previsione di legge o contrattuale che ricomprenda il tempo da dedicare alla pausa nell’orario di lavoro, è onere del lavoratore allegare e dimostrare, ai fini della sua remunerazione, che tale tempo, connesso o collegato alla prestazione, è eterodiretto e non lasciato, per la sua durata, nella disponibilità autonoma del lavoratore medesimo.

Nell’alveo della delimitazione del “tempo lavoro”, può ricondursi, poi, sebbene con riguardo ad un profilo completamente diverso, Sez. L, n. 12095/2018, Patti, Rv. 648822-01, che affronta il tema del tempo in cui il prestatore è assoggettato alla eterodirezione del lavoratore, con riguardo al regime delle assenze e dei permessi brevi, come disciplinati dall’art. 13 del c.c.n.l. per l’industria meccanica privata del 20 gennaio 2008. Ebbene, a tal riguardo, la S.C. afferma che l’art. 13 cit. va interpretato nel senso che i lavoratori sono tenuti a giustificare tempestivamente le assenze, perché altrimenti prive di ragione verificabile dal datore di lavoro, a differenza dei permessi brevi, per i quali la ricorrenza di una giustificazione e la compatibilità con le esigenze di servizio sono state previamente vagliate dal datore in virtù del consenso accordato alla richiesta.

Dimensione temporale del “tempo lavoro” è anche l’anzianità di servizio.

In tal senso, Sez. L, n. 10131/2018, De Gregorio, Rv. 648729-01, che afferma che l’anzianità di servizio non è uno status o un elemento costitutivo di uno status del lavoratore subordinato, né un distinto bene della vita oggetto di un autonomo diritto, rappresentando piuttosto la dimensione temporale del rapporto di lavoro, sicché integra il presupposto di fatto di specifici diritti, quali quelli all’indennità di fine rapporto o agli scatti di anzianità e, conseguentemente, non può essere oggetto di atti di disposizione, traslativi o abdicativi.

Va infine ricordata, Sez. L, n. 29646/2018, Arienzo, Rv. 651750-01, nella quale si sottolinea che, ai fini della distinzione tra rapporto di lavoro subordinato e rapporto di lavoro autonomo, occorre avere riguardo al concreto atteggiarsi del potere direttivo del datore, il quale, affinché assurga ad indice rivelatore della subordinazione, non può manifestarsi in direttive di carattere generale, le quali sono compatibili con i poteri di etero-conformazione sussistenti anche nel rapporto libero professionale, ma deve esplicarsi in ordini specifici, reiterati ed intrinsecamente inerenti alla prestazione lavorativa. Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di appello che aveva qualificato in termini di contratto d’opera professionale il rapporto di lavoro intercorso tra una terapista ed una casa di cura nel quale l’ingerenza del titolare dell’azienda sanitaria era finalizzata esclusivamente al raccordo delle prestazioni libero professionali con la struttura aziendale.

L’assoggettamento del lavoratore alle altrui direttive è però configurabile anche quando il potere di direzione venga esercitato dal datore di lavoro attraverso l’emanazione di indicazioni di carattere programmatico de die in diem. Dette direttive costituiscono, infatti, indici rivelatori del vincolo di subordinazione cd. attenuata, rivelando l’accettazione dell’esercizio della programmazione quotidiana e l’inserimento delle prestazioni lavorative nell’organizzazione imprenditoriale, sotto il vincolo della eterodirezione datoriale.

Facendo applicazione di detto principio, consolidato nella giurisprudenza di legittimità (cfr., fra le altre, Sez. L, n. 8364/2014, Mancino, Rv. 630241-01, Sez. L, n. 4500/2007, Stile, Rv. 595235-01), Sez. L, n. 29640/2018, Riverso, Rv. 651749-01, ha confermato la sentenza di merito che, valorizzando la sussistenza di indicazioni programmatiche, indici rivelatori della subordinazione, aveva qualificato come subordinato il rapporto di lavoro di collaboratori che avevano svolto l’attività di messi notificatori con le medesime modalità in un primo momento come dipendenti, poi come collaboratori co.co.co. e successivamente come collaboratori co.co.pro..

8.1. I controlli datoriali allo svolgimento della prestazione lavorativa.

Corollario della subordinazione è ovviamente il potere datoriale di controllo (nei limiti delineati dallo st.lav.) dell’esatta esecuzione della prestazione che può condurre, in caso di inadempimenti, all’esercizio del potere disciplinare e alla (eventuale) conseguente applicazione delle sanzioni disciplinari.

Trattasi di un potere di controllo, come si è già in parte evidenziato, niente affatto assoluto, perché va contemperato con i diritti fondamentali di libertà del prestatore, in primo luogo dignità e riservatezza.

La S.C. si è occupata dei controlli nel corso del 2018 in due pronunzie, la prima relativa a quelli cd. a distanza, la seconda a quelli effettuati a mezzo agenzia investigativa e riguardanti attività lavorativa svolta fuori dai locali aziendali.

Nello specifico, Sez. L, n. 13266/2018, Patti, Rv. 649009-01, ha affermato che i controlli a distanza esulano dall’ambito applicativo dell’art. 4, comma 2, st. lav. (nel testo anteriore alle modifiche di cui all’art. 23, comma 1, del d.lgs. n. 151 del 2015) e non richiedono l’osservanza delle garanzie ivi previste, se diretti ad accertare comportamenti illeciti e lesivi del patrimonio e dell’immagine aziendale. Insomma, detti controlli difensivi da parte del datore sono legittimi, se disposti ex post, ossia dopo l’attuazione del comportamento in addebito, così da prescindere dalla mera sorveglianza sull’esecuzione della prestazione lavorativa.

Nella specie, è stata ritenuta legittima la verifica successivamente disposta sui dati relativi alla navigazione in internet di un dipendente sorpreso ad utilizzare il computer di ufficio per finalità extra-lavorative.

Sez. L, n. 15094/2018, Amendola F., Rv. 649245-01, ha avuto modo, invece, di interessarsi del controllo datoriale dell’attività lavorativa svolta fuori sede e – operando un indispensabile contemperamento degli interessi – ha statuito che i controlli del datore di lavoro a mezzo di agenzia investigativa, riguardanti l’attività lavorativa del prestatore svolta anche al di fuori dei locali aziendali, sono legittimi solo ove finalizzati a verificare comportamenti che possano configurare ipotesi penalmente rilevanti od integrare attività fraudolente, fonti di danno per il datore medesimo, non potendo, invece, avere ad oggetto l’adempimento della prestazione lavorativa, in ragione del divieto di cui agli artt. 2 e 3 st.lav..

8.2. L’inadempimento datoriale delle forniture di vestiario.

Corollario della subordinazione, sul fronte opposto, è l’obbligo datoriale di fornitura dei mezzi e degli strumenti indispensabili allo svolgimento della prestazione.

In consonanza, l’imprenditore dovrà adempiere anche all’obbligo previsto per legge (per gli indumenti che possano qualificarsi dispositivi di protezione) o contrattualmente di fornire ai dipendenti i capi di vestiario (si pensi a quelle particolari attività per le quali è necessario indossare una divisa).

Evidentemente, afferma la S.C., l’inadempimento dell’obbligo, contrattualmente assunto, di fornitura ai dipendenti dei capi di vestiario, può determinare il diritto al risarcimento dei danni dei lavoratori a cui non sia stata consegnata la divisa, qualora sia dimostrato il pregiudizio economico conseguente, quale l’usura dei propri abiti utilizzati in sostituzione, ovvero il costo sostenuto per l’acquisto che, altrimenti, non sarebbe stato affrontato, senza che alla mancata prova possa sopperire la liquidazione equitativa dello stesso.

Il principio innanzi riportato è stato fatto proprio da Sez. 6 – L., n. 21986/2018, Ghinoy, Rv. 650500-01.

Del resto, per la vicinanza con il tema trattato, va pure ricordato, come più volte negli anni passati, la S.C. aveva puntualizzato, in tema di tutela delle condizioni di igiene e sicurezza dei luoghi di lavoro, che gli indumenti con funzione protettiva dal contatto con sostanze nocive o patogene rientrano tra i dispositivi di protezione individuale, previsti dall’art. 40 della l. n. 626 del 1994 (applicabile ratione temporis), sicché rispetto ad essi è configurabile un obbligo a carico del datore di lavoro di continua fornitura e di mantenimento in stato di efficienza. Nella specie, di recente il principio è stato affermato da Sez. L, n. 18674/2015, D’Antonio, Rv. 631899-01 in relazione ad una lavoratrice addetta ad attività di pulizia delle vetture dei treni.

Conseguentemente, i lavoratori hanno diritto al rimborso delle spese sostenute, per la pulizia degli indumenti di protezione forniti dal datore di lavoro (qualora questi non vi otttemperi), risultando affetta da nullità parziale, per contrasto con norme imperative (artt. 377 e 379 del d.P.R. 27 aprile 1955, n. 547, fino alla data di entrata in vigore del d.lgs. 19 settembre 1994, n. 626, a sua volta abrogato dal d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81), la contraria clausola del contratto collettivo che, sostituita di diritto dalle stesse norme inderogabili, concorre a conformare i contratti individuali di lavoro, sui quali si fondano i diritti alla retribuzione ed al rimborso spese dei lavoratori (cfr. Sez. L, n. 16495/2014, D’Antonio, Rv. 637148-01).

9. La forma dei negozi giuridici in materia di lavoro.

In ambito lavoristico vige il principio di libertà della forma; in via generale, infatti, il legislatore non prescrive la forma scritta per la stipula dei rapporti di lavoro subordinato.

E tuttavia, la forma scritta, nel settore pubblico è imposta per legge, in quello privato da numerosi contratti collettivi, senza dimenticare che, sempre il legislatore, la prevede per alcune tipologie di rapporti lavorativi (ad es. quelli a termine).

In assenza di deroghe, ad ogni modo, il principio di libertà della forma si applica anche all’accordo o al contratto collettivo di lavoro di diritto comune, che pertanto – a meno di eventuale diversa pattuizione scritta precedentemente raggiunta ai sensi dell’art. 1352 c.c. dalle medesime parti stipulanti – ben possono stipularsi anche verbalmente o per fatti concludenti; la libertà della forma dell’accordo o del contratto collettivo di lavoro concerne anche i negozi ad esso connessi, come il recesso unilaterale ex art. 1373, comma 2, c.c. Questa la posizione assunta da Sez. L, n. 02600/2018, Manna, Rv. 646732-01, in armonia con quanto già ritenuto da Sez. U., n. 3318/1995, Amirante, Rv. 491331-01.

Insomma, in mancanza di norme che prevedano per i contratti collettivi la forma scritta, in applicazione del principio generale della libertà di forma – in base al quale le norme che prevedono che determinati negozi debbano essere realizzati con determinate forme sono di stretta interpretazione ed altresì insuscettibili di applicazione analogica – l’accordo aziendale è valido anche se non stipulato per iscritto.

Se quindi il contratto collettivo può non essere stipulato per iscritto, così anche il recesso unilaterale può essere posto in essere oralmente.

A tal riguardo, si precisa nella medesima pronunzia, è però la parte che eccepisce l’avvenuto recesso unilaterale da un accordo o da un contratto collettivo di diritto comune ad essere onerata, ex art. 2697, comma 2, c.c. della prova relativa e, ove alla manifestazione orale segua, su richiesta dell’altro o degli altri contraenti, una dichiarazione scritta del medesimo tenore, è altresì onerata della prova del carattere meramente confermativo – anziché innovativo – di tale successiva dichiarazione.

Come si anticipava, la forma scritta è altresì prevista per i contratti a termine, rinviando all’apposito capitolo su detta tipologia di rapporti, giova qui precisare che in tema di contratto di lavoro a tempo determinato, l’atto scritto contenente, a norma dell’art. 1, comma 2, del d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368, l’indicazione del termine iniziale del rapporto lavorativo, deve essere precedente o almeno contestuale all’inizio della prestazione lavorativa, con conseguente invalidità di eventuali limitazioni temporali contenute in pattuizioni successive all’inizio del rapporto, sicché in tali ipotesi il contratto di lavoro dovrà intendersi stipulato e voluto dalle parti nella forma ordinaria a tempo indeterminato (così, Sez. L, n. 27974/2018, Leone, Rv. 651054-01: v. pure capitolo sul lavoro flessibile, § 4.1.).

Si rinvia inoltre a quanto si è detto innanzi al par. 6.2 in relazione alla forma del provvedimento di trasferimento.

In limine, va pure ricordato che, ai fini della qualificazione del rapporto di lavoro, la prolungata esecuzione ed il nomen iuris, pur essendo elementi necessari di valutazione, non costituiscono fattori assorbenti, occorrendo dare prevalenza alle concrete modalità di svolgimento del rapporto. In applicazione di tale principio, Sez. L, n. 04884/2018, Ponterio, Rv. 647475-01, ha confermato la sentenza di appello che aveva riconosciuto la subordinazione in un rapporto di lavoro iniziato di fatto, successivamente formalizzato come contratto di agenzia e protrattosi per oltre dieci anni, attribuendosi rilevanza preminente, anche sulla forma, alle sue modalità di esecuzione.

10. Le dimissioni del lavoratore: la rilevanza della incapacità naturale e gli effetti ai fini retributivi. La tempestività del recesso del lavoratore in caso di giusta causa.

La particolare tutela del lavoratore, parte debole del rapporto, ha stimolato un approfondimento del giudice di legittimità, anche con riguardo alle ipotesi in cui occorra verificare se il recesso dal rapporto di lavoro ad opera del prestatore sia stato reso in stato di incapacità naturale.

A tal proposito, Sez. L, n. 30126/2018, Tria, Rv. 651694-01, ha precisato che ai fini della sussistenza della incapacità naturale ex art. 428 c.c., quale causa di annullamento del negozio giuridico, non occorre la totale privazione delle facoltà intellettive e volitive, essendo sufficiente un turbamento psichico che impedisca la formazione di una volontà cosciente, purché tale da escludere od ostacolare la capacità di autodeterminazione del soggetto ovvero la capacità di valutare l’importanza dell’atto che si sta per compiere. Laddove si controverta, quindi, della sussistenza di una simile condizione in riferimento alle dimissioni del lavoratore subordinato, il relativo accertamento deve essere particolarmente rigoroso, comportando le dimissioni la rinunzia al posto di lavoro, ossia ad un diritto garantito ex artt. 4 e 36 Cost.; onde è necessario verificare che sia stata manifestata in modo univoco dal dimissionario l’incondizionata e genuina volontà di porre fine al rapporto. Del resto, già Sez. L, n. 2500/2017, Balestrieri, Rv. 622872-01, aveva precisato che, ai fini dell’annullamento delle dimissioni, oltre il grave pregiudizio, il lavoratore deve offrir solo prova di uno stato di turbamento psichico, anche parziale, idoneo però ad impedire od ostacolare una seria valutazione dei fatti e quindi la formazione della volontà di rassegnare le dimissioni.

In caso di annullamento delle dimissioni rassegnate dal lavoratore subordinato, nella specie perché in stato di incapacità naturale, Sez. L, n. 21701/2018, De Felice, Rv. 650257-01, ha inoltre puntualizzato che le retribuzioni spettano dalla data della sentenza che dichiara l’illegittimità delle stesse, in quanto il principio secondo cui l’annullamento di un negozio giuridico ha efficacia retroattiva non comporta anche il diritto del lavoratore alle retribuzioni maturate dalla data delle dimissioni a quella della riammissione al lavoro, stante la natura sinallagmatica del rapporto, sicché, salvo espressa diversa previsione di legge, la retribuzione non è dovuta in mancanza della prestazione.

Sempre con riferimento ad una ipotesi di dimissioni per incapacità naturale, Sez. L., n. 01159/2018, Lorito, Rv. 647195-01, ha confermato la sentenza del giudice di merito che, rispetto alla azione costitutiva di annullamento delle dimissioni per incapacità naturale, aveva ritenuto inidonea ad interrompere il corso della prescrizione la richiesta di tentativo di conciliazione avente ad oggetto l’annullamento di verbale di conciliazione sindacale, restando irrilevante l’eventuale collegamento negoziale tra i due atti impugnati.

La pronunzia si pone nella scia dell’orientamento di legittimità, secondo il quale gli atti interruttivi della prescrizione riconducibili alla previsione dell’art. 2943, comma 4, c.c., consistono in atti recettizi, con i quali il titolare del diritto manifesta al soggetto passivo la sua volontà non equivoca, intesa alla realizzazione del diritto stesso. Essi, pertanto, possono produrre tale effetto limitatamente ai diritti ai quali corrisponde nel soggetto passivo un dovere di comportamento e non anche per i diritti potestativi, ai quali fa riscontro una situazione di mera soggezione, anziché di obbligo, nel soggetto controinteressato (ex plurimis, si veda, Sez. L., n. 25861/2010, Bandini, Rv. 615408-01).

Rinviando poi per le questioni che attengono alla verifica della sussistenza di ipotesi di licenziamento o piuttosto di dimissioni al capitolo della rassegna che si occupa specificamente del tema dei licenziamenti, va comunque ricordata anche in questa sede Sez. L, n. 31999/2018, Garri, in corso di massimazione. Nella pronunzia si sottolinea che il principio della immediatezza delle dimissioni del lavoratore per giusta causa, che ne condiziona tempestività e validità, va inteso in senso relativo e può essere in determinate ipotesi compatibile con un lasso di tempo ragionevole, la cui valutazione è rimessa al giudice di merito ed insindacabile in sede di legittimità se adeguatamente motivata.

Del resto, l’effetto temperato della tempestività del recesso per giusta causa del lavoratore emerge dalla complessiva lettura di plurime pronunzie del giudice di legittimità, anche risalenti (cfr. Sez. L, n. 5146/1998, Castiglione, Rv. 515739-01 ed anche Sez. L, n. 24477/2011, La Terza, Rv. 619823-01, solo apparentemente difforme).

  • contratto di lavoro
  • lavoro
  • flessibilità del lavoro

CAPITOLO XVIII

IL LAVORO FLESSIBILE

(di Ileana Fedele )

Sommario

1 Premessa. - 2 Le innovazioni del cd. “decreto dignità”. - 3 Lavoro flessibile e precario. - 4 Il contratto di lavoro a tempo determinato. - 4.1 Gli oneri di forma. - 4.2 L’indicazione e la valutazione delle causali per la legittima apposizione del termine. - 4.3 L’assunzione a termine nel settore postale. - 4.4 Rilevabilità d’ufficio delle cause di nullità. - 4.5 Decadenza dall’impugnazione del termine. - 4.6 Azione di nullità del termine e precedente giudizio di impugnazione del licenziamento. - 4.7 Conversione giudiziale del rapporto e novazione. - 4.8 Vicende successive all’accertamento giudiziale dell’illegittima apposizione del termine ed alla conseguente trasformazione del rapporto a tempo indeterminato. - 4.9 Regime prescrizionale dei crediti. - 4.10 Contratto di arruolamento. - 4.11 Il lavoro a tempo determinato nel rapporto di lavoro pubblico privatizzato. - 5 La somministrazione di lavoro. - 5.1 La verifica circa l’effettività della causale indicata. - 5.2 Frode alla legge. - 5.3 Conseguenze della mancata comunicazione alle OO.SS. - 5.4 Decadenza dall’impugnazione della serie dei contratti. - 5.5 Obblighi di prevenzione e protezione del lavoratore. - 6 L’indennità ex art. 32 della l. n. 183 del 2010. - 6.1 Natura. - 6.2 Ambito di applicazione. - 7 Risoluzione del rapporto per mutuo consenso. - 8 Contratto di lavoro a tempo parziale. - 9 Altre forme contrattuali flessibili. - 10 Appalto genuino e fenomeni interpositori. - 10.1 La responsabilità solidale del committente ex art. 29 del d.lgs. n. 276 del 2003. - 11 Cessione ed affitto di azienda, codatorialità e successione nel rapporto lavorativo.

1. Premessa.

La disciplina del lavoro flessibile – considerato nell’ottica del d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81, come uno strumento atto a favorire le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione – è stata nuovamente oggetto dell’attenzione del legislatore per rivisitare, in senso più vincolistico, le principali forme contrattuali, vale a dire il contratto a tempo determinato e la somministrazione di lavoro.

Premessi, dunque, brevi cenni sulle modifiche introdotte con il cd. “decreto dignità”, si procederà alla disamina delle pronunce emesse nell’anno sul lavoro a termine – per contiguità verranno qui trattate anche quelle riferite al rapporto di lavoro pubblico privatizzato – ed interinale. Si darà pure conto delle decisioni intervenute sulle ulteriori forme contrattuali flessibili, fra queste includendo anche quelle in tema di lavoro a tempo parziale, nel quale la flessibilità concerne l’orario di lavoro. Nell’ambito del presente capitolo verranno altresì trattate le pronunce relative all’appalto di manodopera – come flessibilità che attiene all’organizzazione imprenditoriale – ed alla individuazione della linea di discrimine rispetto ai fenomeni (vietati) di interposizione. Infine, si procederà alla disamina delle decisioni in tema di cessione di azienda e successione nel rapporto lavorativo, per verificare la legittimità delle vicende circolatorie del rapporto e la corretta individuazione del datore di lavoro.

2. Le innovazioni del cd. “decreto dignità”.

Il d.l. 12 luglio 2018, n. 87, conv. con modif. in l. 9 agosto 2018, n. 96, ha apportato significative modifiche all’assetto dei contratti flessibili (con particolare riferimento al lavoro a tempo determinato ed alla somministrazione di lavoro), quale da ultimo delineato con il d.lgs. n. 81 del 2015. Rispetto alla linea evolutiva in senso liberalizzante, che ha caratterizzato i ripetuti interventi del legislatore in materia, il cd. “decreto dignità” rappresenta una decisa inversione di tendenza, con la previsione di limiti temporali più stringenti e la re-introduzione del requisito della causalità (sia pure non per il primo contratto).

Infatti, le principali innovazioni consistono nella: 1) riduzione del termine massimo di durata complessiva del contratto o di una successione di contratti, da trentasei a ventiquattro mesi; 2) re-introduzione del requisito della causalità per il contratto a termine superiore a dodici mesi, nel senso che i contratti di durata superiore ad un anno possono essere stipulati solo in presenza delle causali indicate nel primo comma dell’art. 19 riformulato («a) esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività, ovvero esigenze di sostituzione di altri lavoratori; b) esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria); 3) re-introduzione delle medesime causali anche per il caso di rinnovo, qualunque sia la durata del contratto iniziale e del contratto rinnovato (e, dunque, anche nel caso di durata complessiva inferiore ai dodici mesi); 4) riduzione del numero di proroghe consentite, da cinque a quattro, e re-introduzione del requisito della causalità in caso di proroga che comporta una durata superiore al limite dei dodici mesi. La re-introduzione del requisito della causalità ha comportato la conseguente modifica del requisito di forma, di cui all’art. 19, comma 4, del d.lgs. n. 81 del 2015, nel senso della necessaria specificazione delle ragioni, laddove prescritte, anche se, in maniera singolare, non è stato espressamente previsto l’onere di indicazione delle causali nell’ipotesi di primo contratto della durata ultrannuale.

In sede di conversione del d.l. è stata espressamente prevista la sanzione della trasformazione a tempo indeterminato in caso di stipulazione del contratto della durata superiore a dodici mesi ovvero di rinnovo o proroga in assenza delle specifiche causali prescritte dalle nuove disposizioni (art. 19, comma 1-bis, d.lgs. n. 81 del 2015).

È prevista una deroga, sia dai limiti temporali che dal requisito della causalità, per le attività stagionali, di cui all’art. 21, comma 2, del d.lgs. n. 81 del 2015. È stata mantenuta la possibilità, già prevista dall’art. 19, comma 3, del medesimo d.lgs., di superare il termine massimo complessivo di durata – ormai ridotto a ventiquattro mesi – nel caso di ulteriore contratto stipulato presso la direzione territoriale del lavoro e di durata non superiore a dodici mesi nonché la possibilità di una apposita deroga da parte della contrattazione collettiva (potere derogatorio limitato alla durata e non esteso anche all’individuazione di nuove causali).

Infine, è stato aumentato – da 120 a 180 giorni – il termine di decadenza per l’impugnazione stragiudiziale del contratto a termine.

Le modifiche si applicano ai contratti stipulati successivamente all’entrata in vigore del d.l. (14 luglio 2018). Una particolare disposizione transitoria è stata introdotta per i rinnovi e le proroghe, con applicazione della pregressa disciplina sino al 31 ottobre 2018.

Significative anche le innovazioni apportate alla somministrazione di lavoro a termine, come la scelta di equipararne la disciplina pressoché integralmente a quella del contratto a tempo determinato, con le uniche eccezione del periodo di intervallo in caso di rinnovo, della percentuale di contingentamento e del diritto di precedenza (art. 34, comma 2, del d.lgs. n. 81 del 2015, come modificato dal d.l. n. 87 del 2018, conv. con modif. in l. n. 96 del 2018).

Di conseguenza, anche per la somministrazione a termine vale il limite massimo di durata complessiva di ventiquattro mesi così come è richiesta l’indicazione di una delle causali ormai prescritte per il contratto a tempo determinato per il caso di contratto di durata ultrannuale ovvero in caso di rinnovo o di proroga che comporti una durata superiore a dodici mesi. È stata pure introdotta normativamente una percentuale di contingentamento per i lavoratori assunti con contratto di somministrazione a termine, percentuale che non può essere superiore al 30% del numero dei lavoratori a tempo indeterminato (art. 31, comma 2, del d.lgs. n. 81 del 2015, come modificato dal d.l. n. 87 del 2018, conv. con modif. in l. n. 96 del 2018); non è stata però richiamata la disposizione prevista per il contratto a tempo determinato, che sanziona questa violazione esclusivamente con una sanzione amministrativa, sicché deve ritenersi che il superamento della percentuale determina nell’ambito della somministrazione la costituzione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato direttamente alle dipendenze dell’utilizzatore (art. 38, comma 2).

Inoltre, in sede di conversione del d.l. n 87 del 2018, è stata nuovamente introdotta la figura della somministrazione fraudolenta, nei termini già previsti dall’art. 28 del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276 e poi abrogata con il d.lgs. n. 81 del 2015 (art. 38-bis del d.lgs. n. 81 del 2015, introdotto dal d.l. n. 87 del 2018, conv. con modif. in l. n. 96 del 2018).

Infine, le modifiche introdotte con il d.l. n. 87 del 2018 non si applicano ai contratti a tempo determinato e di somministrazione di lavoro stipulati dalle pubbliche amministrazioni, per le quali valgono le previgenti disposizioni (art. 1, comma 3, del d.l. n. 87 del 2018, conv. con modif. in l. n. 96 del 2018). Proprio in ordine al rapporto di pubblico impiego privatizzato, è stata introdotta una particolare disposizione per il settore scolastico (art. 4-bis), con la quale è stato abrogato il limite di durata massima complessiva di trentasei mesi per la copertura di posti vacanti e disponibili già stabilito dall’art. 1, comma 131, della l. 13 luglio 2015, n. 107, a seguito della nota sentenza della Corte di giustizia UE del 26 novembre 2014, C-22/13, da C-61/13 a C-63/13 e C-418/13, Mascolo ed altri. Sempre in riferimento al settore scolastico, il cd. “decreto dignità” (art. 4) ha disposto il differimento di efficacia delle sentenze che avrebbero comportato la decadenza dai contratti stipulati con i docenti in possesso del titolo di diploma magistrale conseguito nell’anno scolastico 2001-2002 e la trasformazione dei contratti di lavoro a tempo indeterminato stipulati con i medesimi docenti ovvero delle supplenze annuali conferite agli stessi in contratti a tempo determinato con scadenza al 30 giugno 2019, prevedendo altresì procedure concorsuali riservate, al fine di favorirne la stabilizzazione.

Il cd. “decreto dignità” ha apportato alcune modifiche anche alla disciplina del lavoro occasionale, come re-introdotto in sede di conversione del d.l. 24 aprile 2017, n. 50, nella l. 21 giugno 2017, n. 96. Infatti, in sede di conversione del d.l. n. 87 del 2018 (art. 2-bis), il limite di accesso alle prestazioni occasionali per i datori di lavoro che abbiano alle proprie dipendenze più di cinque lavoratori è stato elevato ad otto lavoratori per le aziende alberghiere e le strutture ricettive che operano nel settore del turismo. Inoltre, per facilitare l’utilizzo del lavoro occasionale nel settore agricolo, il decreto ha disposto che i prestatori, al momento della registrazione nella piattaforma informatica gestita dall’INPS, debbano autocertificare di trovarsi nelle condizioni richieste dalla norma (titolari di pensione di vecchiaia o invalidità, giovani con meno di 25 anni di età, purché iscritti ad un ciclo di studio, disoccupati, beneficiari di trattamento di integrazione salariale o di reddito di inclusione, purché non iscritti nell’anno precedente negli elenchi anagrafici dei lavoratori agricoli). Sempre per favorire l’utilizzo del lavoro occasionale nei settori agricolo e alberghiero, il decreto ha ampliato da tre a dieci giorni l’arco temporale previsto per la comunicazione di inizio della prestazione.

3. Lavoro flessibile e precario.

La maggior parte delle pronunce concerne, in linea di continuità con i dati registrati negli anni passati, la tipologia del contratto a tempo determinato. Rispetto alle modalità di trattazione delle rassegne precedenti, si è ritenuto di procedere ad una trattazione autonoma delle decisioni relative all’indennità già prevista dall’art. 32 della l. 4 novembre 2010, n. 183, considerato che, secondo l’interpretazione giurisprudenziale invalsa, trattasi di istituto applicabile a qualsiasi ipotesi di riconoscimento di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato in sostituzione di un’altra fattispecie contrattuale a tempo determinato.

4. Il contratto di lavoro a tempo determinato.

Nel corso del 2018 è tendenzialmente aumentato il cd. “contenzioso di ritorno”, vale a dire che sono state affrontate alcune questioni conseguenti alla declaratoria di illegittima apposizione del termine ed al ripristino del rapporto, sia con riferimento all’individuazione della sede lavorativa, sia, in più in generale, alle condizioni di ripresa della prestazione, oltre che agli effetti della caducazione della pronuncia favorevole al lavoratore in grado di appello ovvero a seguito di ricorso in cassazione.

4.1. Gli oneri di forma.

Quanto ai requisiti di forma, è stata ritenuta insufficiente a soddisfare la forma scritta ad substantiam, a norma dell’art. 1 del d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368, la consegna al lavoratore del contratto, sottoscritto dal solo datore di lavoro, seguita dall’espletamento di attività lavorativa, atteso che la sottoscrizione del contratto da parte del lavoratore deve avvenire in un momento antecedente o contestuale all’inizio del rapporto (Sez. 6 – L, n. 02774/2018, Di Paola, Rv. 646943-01). Di conseguenza, sono state ritenute invalide eventuali limitazioni temporali contenute in pattuizioni successive all’inizio del rapporto, che dovrà intendersi voluto dalle parti nella forma ordinaria a tempo indeterminato (Sez. L, n. 27974/2018, Leone, Rv. 651054-01).

È invece ammissibile (Sez. L, n. 19860/2018, Marotta, Rv. 649991-01) l’indicazione del termine per relationem, come nel caso di assunzione a termine per la sostituzione di lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto di lavoro, benché non predeterminato, con riferimento alla data di rientro del lavoratore sostituito (cd. termine incertus quando); pertanto, la prosecuzione del rapporto in occasione del mutamento del titolo dell’assenza (nella specie: sostituzione di una lavoratrice in maternità anche in relazione alle assenze per ferie e malattia del bambino successive ai periodi di astensione obbligatoria e facoltativa) è legittima e non determina la trasformazione in rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sempreché anche per la nuova causale sia consentita la stipula del contratto a termine.

D’altro canto, Sez. L, n. 10084/2018, Marchese, Rv. 648054-01, ha escluso che ricorra l’ipotesi del rapporto puramente occasionale – per il quale non è richiesta la forma scritta – in presenza di plurimi contratti a termine, alcuni anteriori e altri posteriori a quello oggetto del giudizio, sottoscritti dal lavoratore nell’anno con il medesimo datore.

4.2. L’indicazione e la valutazione delle causali per la legittima apposizione del termine.

In continuità con precedenti pronunce (v. in particolare, Sez. L, n. 343/2015, Tricomi I., Rv. 634276-01), è stata ritenuta ammissibile l’indicazione delle ragioni per relationem, con rinvio ad altri testi accessibili alle parti, tra i quali gli accordi collettivi, non trovando ostacolo tale possibilità nei limiti dimensionali dell’impresa datrice di lavoro (Sez. L, n. 24590/2018, Negri della Torre, Rv. 650678-01).

Con riferimento alla causale sostitutiva, Sez. L, n. 20388/2018, Negri della Torre, Rv. 650120-02, ha affermato che la verifica della sussistenza delle ragioni addotte dal datore di lavoro per la necessità di assicurare l’espletamento del servizio durante le assenze per ferie del personale stabile può essere svolta attraverso la correlazione tra il numero di assenze per ferie dei lavoratori dipendenti a tempo indeterminato ed il numero di giornate lavorate dal personale assunto a termine nel periodo di esecuzione del contratto dedotto in giudizio.

In materia di assunzioni per l’esecuzione di speciali servizi nei settori del turismo e dei pubblici esercizi, Sez. L, n. 14198/2018, Cinque, Rv. 648990-01, ha confermato la sentenza di merito, che aveva ritenuto illegittimo il termine apposto a “contratti extra” della durata di un giorno, sul rilievo – ritenuto valido anche nella vigenza dell’art. 10, comma 3, del d.lgs. n. 368 del 2001 e degli artt. 78 del c.c.n.l. settore turismo 2002/2005 e 62 del c.c.n.l. AICA, riproduttivi dell’art. 23, comma 3, della l. 28 febbraio 1987, n. 56 – che l’assunzione diretta di manodopera prevista dalla contrattazione collettiva in base al citato art. 23 è ammessa per l’esecuzione di speciali servizi che, pur prevedibili e programmabili in quanto resi soprattutto in determinati periodi dell’anno e con particolare frequenza, specie in aziende di grandi dimensioni, non siano tuttavia né quotidiani né abbiano caratteristiche sempre uguali, così da richiedere personale aggiuntivo rispetto a quello impiegato ogni giorno per i servizi ordinari.

4.3. L’assunzione a termine nel settore postale.

La S.C. ha continuato ad occuparsi della speciale fattispecie di cui all’art. 2, comma 1-bis, del d.lgs. n. 368 del 2001, chiarendo gli ultimi aspetti controversi, con particolare riferimento alla percentuale di contingentamento ed alle conseguenze dell’omessa comunicazione alle OO.SS..

In particolare, Sez. L, n. 12801/2018, Bellé, Rv. 648764-01, ha affrontato la questione relativa alle modalità di prova del rispetto dei limiti quantitativi, affermando che costituisce elemento probatorio liberamente valutabile il documento prodotto dall’ente e sottoscritto da un dirigente nominativamente indicato, attestante i numeri dei dipendenti assunti e dei contratti a tempo determinato stipulati nel periodo di riferimento, senza la necessità di una conferma testimoniale ovvero di una diversa verifica.

Ancor più rilevante il principio affermato da Sez. L, n. 09726/2018, Bronzini, Rv. 647778-01, in tema di computo dei lavoratori a tempo parziale ai fini del calcolo della percentuale di contingentamento: è stato chiarito che l’art. 2, comma 1-bis, del d.lgs. n. 368 del 2001, nel prevedere che il numero dei lavoratori assunti a termine dalle imprese concessionarie di servizi nei settori delle poste non può superare il limite percentuale del 15% dell’organico aziendale, si riferisce al numero complessivo dei lavoratori assunti, in base ad un criterio quantitativo “per teste”, dovendosi escludere il computo dei contratti a tempo determinato part-time fino alla concorrenza dell’orario pieno, ossia secondo il criterio cd. full time equivalent, previsto dall’art. 6, comma 1, del d.lgs. 25 febbraio 2000, n. 61, al fine di facilitare il calcolo dell’organico in sede di recepimento della direttiva 1997/81/CE ed in vista della prevedibile estensione del lavoro a tempo parziale, ma non anche ai fini della disciplina dei limiti di utilizzo del contratto a tempo determinato, che ha una specifica ratio, riconducibile alla finalità antiabusiva della direttiva 1999/70/CE.

D’altro canto, è stata esclusa l’incidenza della mancata comunicazione alle OO.SS. sulla legittimità del termine, atteso che l’obbligo previsto a carico del datore non è prescritto come requisito di validità del negozio, non essendo ravvisabile, pertanto, né una nullità testuale, né una cd. virtuale, ai sensi dell’art. 1418, comma 1, c.c., per violazione di norma imperativa di legge, in quanto le modalità del controllo sindacale – come normativamente previste nella specie – mirano soltanto ad agevolare una verifica eseguibile anche altrimenti e che resta fondamentalmente garantita dall’onere probatorio (della legittimità del termine) incombente sul datore di lavoro, oltre che dalla possibilità di far valere l’inosservanza dell’obbligo come condotta antisindacale reprimibile ex art. 28 st.lav. (Sez. L, n. 05718/2018, Manna A., Rv. 647511-01).

È stata, poi, confermata l’irrilevanza delle mansioni, già sostenuta da Sez. L, n. 13609/2015, Bandini, Rv. 635723-01, atteso che l’art. 2, comma 1-bis, del d.lgs. n. 368 del 2001, fa riferimento esclusivamente alla tipologia di imprese presso cui avviene l’assunzione – quelle concessionarie di servizi e settori delle poste – e non anche alle mansioni del lavoratore assunto, in coerenza con la ratio della disposizione, ritenuta legittima dalla Corte cost. con sentenza del 14 luglio 2009, n. 214, individuata nella possibilità di assicurare al meglio lo svolgimento del cd. “servizio universale” postale, ai sensi dell’art. 1, comma 1, del d.lgs. 22 luglio 1999 n. 261, di attuazione della direttiva 1997/67/CE, mediante il riconoscimento di una certa flessibilità nel ricorso allo strumento del contratto a tempo determinato, pur sempre nel rispetto delle condizioni inderogabilmente fissate dal legislatore (Sez. L, n. 09726/2018, Garri, Rv. 647778-01).

Infine, ai fini del rispetto del limite massimo di durata di trentasei mesi, Sez. L, n. 09727/2018, Spena, Rv. 647779-01, ha chiarito, in linea con l’interpretazione resa da Sez. U, n. 11374/2016, Curzio, Rv. 639828-01, che vanno inclusi anche i contratti già conclusi, stipulati prima dell’aggiunta – effettuata dall’art. 1, comma 40 della l. 24 dicembre 2007, n. 247 – al testo dell’art. 5 del d.lgs. n. 368 del 2001, del comma 4--bis, in quanto il comma 43 del medesimo art. 1 della l. cit. attrae nel conteggio della durata complessiva, al fine della suddetta verifica, anche i contratti a termine già conclusi, con la conseguenza che anche per questi ultimi non v’è necessità di indicare le ragioni di apposizione del termine.

4.4. Rilevabilità d’ufficio delle cause di nullità.

A seguito del principio affermato da Sez. U, n. 26242/2014, Travaglino, Rv. 633505-01, è stata ribadita l’interpretazione resa da Sez. 6 – L, n. 16977/2017, Doronzo, Rv. 645039-01, secondo cui il giudice innanzi al quale sia stata proposta domanda di accertamento della nullità di un contratto o di una singola clausola contrattuale ha il potere-dovere di rilevare d’ufficio – previa instaurazione del contraddittorio sul punto – l’esistenza di una causa di nullità diversa da quella prospettata, che abbia carattere portante ed assorbente e che emerga dai fatti allegati e provati o comunque dagli atti di causa, salvo che non si tratti di nullità a regime speciale (Sez. L, n. 20388/2018, Negri della Torre, Rv. 650120-01, di conferma della sentenza di merito che, pur in assenza di contestazione specifica della lavoratrice, aveva dichiarato la nullità del termine apposto al contratto per mancata prova delle ragioni tecnico-organizzative e sostitutive addotte dal datore di lavoro).

4.5. Decadenza dall’impugnazione del termine.

Ai fini dell’individuazione della decorrenza del termine di decadenza già previsto dall’art. 32 della l. n. 183 del 2010, Sez. L, n. 30691/2018, Marchese, Rv. 651714-01, ha chiarito che, ove il rapporto di lavoro sia proseguito oltre la scadenza originariamente fissata, il termine decorre dalla data di effettiva cessazione del rapporto stesso.

4.6. Azione di nullità del termine e precedente giudizio di impugnazione del licenziamento.

In proposito, è stato escluso il giudicato implicito sulla validità del termine. Infatti, Sez. L, n. 09409/2018, Marchese, Rv. 648183-01, ha ritenuto che non può dirsi formato il giudicato implicito sulla questione della validità del termine per il solo fatto che, in un precedente giudizio di impugnativa del recesso datoriale dal medesimo contratto, il giudice abbia ritenuto inapplicabile l’art. 18 st.lav. in ragione della natura a tempo determinato del contratto, atteso che può costituire oggetto di giudicato implicito soltanto la situazione di fatto che si pone come antecedente logico necessario della pronuncia resa sul fatto costitutivo fatto valere e non anche la questione pregiudiziale in senso tecnico, disciplinata dall’art. 34 c.p.c., che indica una situazione distinta e indipendente dal fatto costitutivo dedotto e che è oggetto, tranne che una decisione con efficacia di giudicato sia richiesta per legge o per apposita domanda di una delle parti, solo di un accertamento incidentale.

4.7. Conversione giudiziale del rapporto e novazione.

In presenza di una pluralità di contratti a tempo determinato, Sez. L, n. 05714/2018, Amendola F., Rv. 647524-01, in continuità con Sez. L, n. 903/2014, Tria, Rv. 629258-01, ha affermato che, qualora il primo contratto della serie sia dichiarato illegittimo, con conseguente trasformazione del rapporto a termine in rapporto a tempo indeterminato, la stipulazione dei successivi contratti non incide sulla già intervenuta trasformazione del rapporto, salva la prova di una novazione ovvero di una risoluzione anche tacita del medesimo, sicché, una volta accertata con sentenza passata in giudicato la sussistenza tra le parti di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, ogni successiva stipulazione di contratti a termine intervenuta medio tempore, così come il contenzioso giudiziale pendente relativo ad essi, non può incidere su detto accertamento. Peraltro, secondo Sez. L, n. 16022/2018, Cinque, Rv. 649354-01, la sopravvenuta conversione giudiziale del rapporto a tempo indeterminato full time non travolge la pattuizione dell’orario a tempo parziale già convenuta tra datore e lavoratore in virtù di autonomo atto negoziale, non subordinato, sul piano della gerarchia delle fonti dell’obbligazione, a quello etero-integrato in virtù della norma imperativa sull’illegittima apposizione del termine, occorrendo piuttosto accertare – con valutazione riservata al giudice di merito – se la nuova pattuizione sia caratterizzata dalla volontà di far sorgere un nuovo rapporto obbligatorio in sostituzione di quello precedente.

4.8. Vicende successive all’accertamento giudiziale dell’illegittima apposizione del termine ed alla conseguente trasformazione del rapporto a tempo indeterminato.

In caso di assegnazione ad una sede di lavoro diversa da quella che sarebbe spettata in sede di riassunzione, per effetto della conversione del rapporto a tempo indeterminato in conseguenza della nullità del termine, è giustificato il rifiuto del lavoratore di prendere servizio in assenza di ragioni tecniche, organizzative e produttive giustificative (nella specie, a fronte della mancanza di prova circa l’assenza di posti disponibili presso la sede di iniziale assegnazione), dovendosi qualificare grave l’inadempimento datoriale in quanto lesivo degli interessi anche personali e familiari del lavoratore (Sez. L, n. 20745/2018, Marotta, Rv. 650125-01).

Peraltro, la verifica sulla eccedentarietà presso la sede di provenienza, di cui all’accordo sindacale del 29 luglio 2004, non può essere condotta semplicemente sulla base dell’inclusione del comune di precedente adibizione negli elenchi dei comuni definiti eccedentari dal datore di lavoro, ma va effettuata, per ciascuno di detti comuni, sulla base di informazioni relative al numero dei posti in organico, al personale impiegato ed alla relativa percentuale di copertura, sì da consentire al dipendente di conoscere ed eventualmente contestare tali dati ed al giudice di valutarli (Sez. L, n. 23595/2018, Lorito, Rv. 650545-02). Inoltre, secondo Sez. L, n. 09725/2018, Curcio, Rv. 647777-01, la verifica circa l’adeguatezza dei tempi tecnici della riammissione in servizio, rispetto alla pronuncia della sentenza, ai fini dell’individuazione del momento cui riferire la situazione di eccedentarietà, costituisce un accertamento di fatto.

Di rilievo Sez. 6 – L, n. 21947/2018, Spena, Rv. 650302-01, che, a seguito del principio espresso, sia pure con riferimento alla diversa fattispecie di interposizione fittizia di manodopera, da Sez. U, n. 02990/2018, D’Antonio, Rv. 647561-01 (su cui v. infra § 10.), ha affermato che, nell’ipotesi in cui, per fatto imputabile al datore di lavoro, non sia possibile ripristinare il rapporto a seguito di accertamento giudiziale dell’invalidità del termine per violazione di norme imperative, la conseguente conversione in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato determina l’obbligo per il datore di corrispondere le retribuzioni al lavoratore a partire dalla messa in mora decorrente dall’offerta della prestazione lavorativa, in virtù dell’interpretazione costituzionalmente orientata delle norme generali in tema di contratti a prestazioni corrispettive.

4.9. Regime prescrizionale dei crediti.

Nel caso di una serie di contratti di lavoro a tempo determinato, poi convertiti in un unico contratto a tempo indeterminato in conseguenza della ritenuta nullità dell’apposizione del termine, la prescrizione dei crediti derivanti dal rapporto non decorre dalla scadenza dei singoli contratti a termine e resta sospesa sino alla cessazione del rapporto lavorativo, non rilevando che a seguito della conversione il rapporto medesimo risulti assistito dalla garanzia della stabilità reale (Sez. L, n. 14827/2018, Di Paolantonio, Rv. 648911-01).

4.10. Contratto di arruolamento.

Con riferimento alla fattispecie prevista dal codice della navigazione, la successione di contratti di arruolamento a termine in favore dello stesso armatore determina, ai sensi dell’art. 326 c.nav., la conversione in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, ove la prestazione sia stata resa per un tempo superiore ad un anno e purché, ai sensi dell’ultimo comma del predetto articolo, fra la cessazione di un contratto e la stipulazione di quello successivo non sia intercorso un periodo superiore ai sessanta giorni (Sez. L, n. 17988/2018, Amendola F., Rv. 649795-01).

Pertanto, va esclusa l’applicabilità della disciplina di diritto comune integrata dal d.lgs. n. 368 del 2001, mentre rileva la disposizione speciale di cui all’art. 326 c.nav. che nel porre, all’ultimo comma, una presunzione legale di natura indeterminata del rapporto nel caso in cui fra la cessazione di un contratto e la stipulazione di quello successivo intercorra un periodo non superiore ai sessanta giorni, costituisce – in via generale e astratta – una misura adeguata ed idonea a prevenire abusi nel susseguirsi di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato; ove, però, in concreto, attraverso ripetute assunzioni a tempo determinato, sia configurabile una condotta che integri una frode alla legge sanzionabile ai sensi dell’art. 1344 c.c., il giudice di merito dovrà desumere l’uso deviato e fraudolento del contratto a termine da elementi quali il numero dei contratti di lavoro a tempo determinato stipulati, l’arco temporale complessivo in cui si sono succeduti e da ogni altra circostanza fattuale che emerga dagli atti (Sez. L, n. 14828/2018, Amendola F., Rv. 648997-02).

Quanto, poi, al contratto di arruolamento “a viaggio”, la mancata indicazione del viaggio o dei viaggi da compiere, come previsto dal n. 4) del comma 1 dell’art. 332 c.nav., ne determina la trasformazione “di diritto” in contratto a tempo indeterminato (Sez. L, n. 15020/2018, Amendola, Rv. 649261-01).

4.11. Il lavoro a tempo determinato nel rapporto di lavoro pubblico privatizzato.

Con riferimento alla speciale disciplina prevista per il rapporto di lavoro pubblico privatizzato, caratterizzata dal divieto di trasformazione in contratto a tempo indeterminato, va segnalata Sez. L, n. 25728/2018, Tria, Rv. 651143-01, secondo cui il principio generale di assunzione tramite concorso, di cui all’art. 97, comma 3, Cost., cui è correlato il divieto di conversione ex art. 36 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, comporta il necessario superamento di una procedura di selezione che sia tale da essere compresa nell’ambito concettuale e giuridico del “concorso”, caratterizzato dall’emanazione di un bando iniziale, dalla fissazione dei criteri valutativi, dalla presenza di una commissione incaricata della valutazione dei candidati e dalla formazione di una graduatoria finale, mentre non rilevano la presenza di margini di discrezionalità nella valutazione dei titoli dei candidati ovvero la previsione, quale requisito di partecipazione al concorso, dell’iscrizione alle liste di collocamento o dell’attribuzione di punti in relazione alla durata di tale iscrizione. In applicazione di tale principio, la Corte ha cassato la sentenza impugnata che, in un caso di numerose assunzioni a termine, protratte nell’arco di un decennio, aveva escluso la conversione del rapporto senza valutare se le procedure selettive superate dalla lavoratrice con riferimento ad alcuni contratti della serie potessero rientrare tra le procedure concorsuali pubbliche.

Inoltre, per quel che concerne le assunzioni a termine da parte di FORMEZ PA, Sez. L, n. 27228/2018, Garri, Rv. 651260-02, ha affermato che il divieto di conversione del rapporto a tempo indeterminato introdotto dall’art. 19 del d.lgs. 19 agosto 2016, n. 175, non ha efficacia retroattiva, in difetto di una espressa disposizione in tal senso. La medesima pronuncia (Sez. L, n. 27228/2018, Garri, Rv. 651260-01) ha inoltre precisato che il contratto di lavoro sottoscritto successivamente al 7 marzo 2002, data di stipulazione del nuovo c.c.n.l., non rientra nella disciplina transitoria prevista dall’art. 11, comma 2, del d.lgs. n. 368 del 2001, applicabile fino alla naturale scadenza dei contratti collettivi stipulati ex art. 23 della l. n. 56 del 1987, ed è pertanto assoggettato integralmente al nuovo regime normativo.

Quanto, invece, alla tutela risarcitoria, che costituisce di regola l’unica riconoscibile per il caso di illegittima apposizione del termine, Sez. 6 – L, n. 19454/2018, De Marinis, Rv. 650154-01, ha precisato, in conformità al principio già espresso da Sez. U, n. 5072/2016, Amoroso, Rv. 639065-01 e 639065-01, che il ricorso alla disciplina di cui all’art. 32, comma 5, della l. n. 183 del 2010, al fine di agevolare l’onere probatorio del danno conseguente all’illegittima reiterazione di rapporti a termine, si giustifica con la necessità di garantire efficacia dissuasiva alla clausola 5 dell’Accordo quadro, allegato alla direttiva 1999/70/CE, che concerne la prevenzione degli abusi derivanti dalla successione di contratti a termine e, pertanto, non può trovare applicazione nelle ipotesi in cui l’illegittimità concerna l’apposizione del termine ad un unico contratto di lavoro.

La legittimità del parametro indicato da Sez. U n. 5072 del 2016, cit., è stata riaffermata da Sez. 6 – L, n. 31174/2018, Spena, Rv. 651917-01, secondo cui, ai fini della determinazione del danno da precarizzazione può farsi riferimento alla fattispecie omogenea di cui all’art. 32, comma 5, della l. n. 183 del 2010, quale danno presunto, con valenza sanzionatoria e qualificabile come “danno comunitario”, determinato tra un minimo ed un massimo, salva la prova del maggior pregiudizio sofferto, parametro conforme ai principi di effettività ed equivalenza di cui alla direttiva n. 1999/70/CE, così come da ultimo interpretati dalla Corte di giustizia UE (sentenza 7 marzo 2018, in C-494/2016).

Sempre in ordine alla tutela risarcitoria, Sez. L, n. 10951/2018, Di Paolantonio, Rv. 648195-01, ha affermato che, qualora la P.A. faccia ricorso a successivi contratti formalmente qualificati di collaborazione coordinata e continuativa e il lavoratore ne alleghi l’illegittimità anche sotto il profilo del carattere abusivo della reiterazione del termine, il giudice è tenuto ad accertare se di fatto si sia instaurato un rapporto di lavoro subordinato a tempo determinato e a riconoscere al lavoratore, in assenza dei presupposti richiesti dalla legge per la reiterazione, il risarcimento del danno, alle condizioni e nei limiti necessari a conformare l’ordinamento interno al diritto dell’Unione europea.

5. La somministrazione di lavoro.

Diverse interessanti pronunce sono intervenute nel 2018 per meglio definire ovvero ribadire alcuni aspetti ancora controversi in ordine alla somministrazione.

5.1. La verifica circa l’effettività della causale indicata.

Sul tema, Sez. L, n. 26018/2018, Curcio, Rv. 651047-01, ha affermato che è censurabile in sede di legittimità, perché viola il “minimo costituzionale” richiesto per la motivazione, la decisione che affermi la legittimità del contratto di somministrazione di lavoro sulla base di asserzioni apodittiche, che non consentano di apprezzare la effettività della causale dedotta a fondamento dell’assunzione e la sua correlazione con la situazione lavorativa del dipendente.

5.2. Frode alla legge.

Secondo Sez. L, n. 07702/2018, Arienzo, Rv. 647671-01, in continuità con Sez. L, n. 23684/2010, Bandini, Rv. 615634-01, anche in assenza di un espresso divieto di reiterazione dei contratti di fornitura di prestazioni di lavoro temporaneo conclusi con lo stesso lavoratore avviato presso la medesima impresa, tanto ai sensi della l. 24 giugno 1997, n. 196, quanto del d.lgs. n. 276 del 2003, è configurabile lo schema ex art. 1344 c.c., quando il lavoro interinale costituisca il mezzo per eludere la regola della temporaneità dell’occasione di lavoro che connota la relativa disciplina; tale finalità fraudolenta può essere desunta anche dalla reiterazione di assunzioni per un prolungato periodo di tempo, indipendentemente dal rispetto, per ciascuno dei singoli contratti, delle indicazioni relative alla sussistenza di esigenze tecniche, produttive e organizzative.

Anche in ordine alla disciplina della proroga, stabilita dalla contrattazione collettiva nel numero massimo di sei proroghe nell’arco di trentasei mesi, (art. 42 del c.c.n.l. del 2008 per la categoria delle agenzie di somministrazione di lavoro), è ipotizzabile una condotta fraudolenta, elusiva del limite attraverso la stipulazione, senza soluzione di continuità, di più contratti di somministrazione, spettando al lavoratore l’onere di dimostrare la natura fittizia della scissione tra un contratto e l’altro (Sez. L, n. 29629/2018, Curcio, Rv. 651724-01, di conferma della sentenza di merito, che aveva escluso la frode per avere il datore provato la sussistenza delle ragioni giustificative indicate nei contratti di somministrazione stipulati successivamente al primo, prorogato sei volte).

5.3. Conseguenze della mancata comunicazione alle OO.SS.

In conformità all’interpretazione resa in ordine al contratto a termine nel settore postale (v. supra § 4.3.), Sez. L, n. 26670/2018, Amendola F., Rv. 651199-01, ha escluso che la violazione dell’obbligo di comunicare alle OO.SS. il numero dei lavoratori somministrati ed i motivi del ricorso alla somministrazione, prescritto a carico dell’utilizzatore dall’art. 24, comma 4, del d.lgs. n. 276 del 2003 (applicabile ratione temporis), possa ridondare in termini di nullità, né genetica, né funzionale, del contratto di somministrazione, in quanto la citata disposizione non assume il carattere di norma imperativa e si limita a configurare un mero obbligo informativo, sanzionato esclusivamente in sede amministrativa ex art. 18, comma 3-bis, del predetto d.lgs..

5.4. Decadenza dall’impugnazione della serie dei contratti.

Sul delicato tema della decadenza dall’impugnazione, Sez. L, n. 30134/2018, Leone, Rv. 651695-01, ha affermato il principio per cui l’impugnazione stragiudiziale dell’ultimo contratto della serie non si estende ai contratti precedenti, neppure ove tra un contratto e l’altro sia decorso un termine inferiore a quello di sessanta giorni utile per l’impugnativa, poiché l’inesistenza di un unico continuativo rapporto di lavoro – il quale potrà determinarsi solo ex post, a seguito dell’eventuale accertamento della illegittimità del termine apposto – comporta la necessaria conseguenza che a ciascuno dei predetti contratti si applichino le regole inerenti la loro impugnabilità.

5.5. Obblighi di prevenzione e protezione del lavoratore.

In proposito, Sez. L, n. 11170/2018, Leone, Rv. 648815-01, ha chiarito che il rispetto degli obblighi di prevenzione e protezione nei confronti del lavoratore grava sull’utilizzatore, residuando in capo al somministratore la responsabilità di informazione e formazione, che tuttavia può essere oggetto di specifica traslazione all’utilizzatore, ai sensi dell’art. 23, comma 5, del d.lgs. n. 276 del 2003, applicabile ratione temporis, e del vigente art. 35 del d.lgs. n. 81 del 2015; tuttavia, l’ampliamento dell’obbligazione assunta dall’utilizzatore e la esclusione della responsabilità del somministratore è opponibile al lavoratore solo se risultante dal contratto individuale da questi stipulato.

6. L’indennità ex art. 32 della l. n. 183 del 2010.

Come chiarito in premessa, si è ritenuto di procedere ad una autonoma trattazione dell’indennità in questione perché, nell’evoluzione giurisprudenziale consolidatasi nel corso del 2018, la stessa rappresenta costituisce ormai il parametro generalizzato di applicazione per la liquidazione del danno nelle vicende in cui si venga a riconoscere un rapporto a tempo indeterminato in sostituzione di un’altra fattispecie contrattuale a tempo determinato.

6.1. Natura.

È stata ribadita (Sez. L, n. 29949/2018, Lorito, Rv. 651675-01) la natura risarcitoria ed onnicomprensiva dell’indennità, esaustiva di tutti i danni che sono conseguenza, sul piano retributivo e contributivo, della perdita del lavoro. Pertanto, la S.C. ha confermato la sentenza di merito con la quale – in relazione a vicenda in cui, dopo l’estromissione del lavoratore, l’azienda aveva provveduto alla riassunzione a tempo indeterminato di quest’ultimo in epoca anteriore alla instaurazione del giudizio – l’azienda medesima era stata condannata al pagamento dell’indennità, liquidata in misura minima proprio per la riassunzione. In ragione della natura risarcitoria ed omnicomprensiva dell’indennità, è stato pure confermata l’interpretazione già resa da Sez. 6 – L, n. 262/2015, Marotta, Rv. 634071-01, nel senso che l’indennità è esaustiva di tutti i danni, retributivi e contributivi, subiti dal lavoratore nei periodi, ripetuti, di allontanamento dal lavoro per effetto della indebita frammentazione del rapporto, mentre, con riferimento ai periodi lavorati, il lavoratore ha diritto ad essere regolarmente retribuito ed al computo unitario di tali periodi ai fini della anzianità di servizio e della maturazione degli scatti di anzianità (Sez. L, n. 17248/2018, Negri della Torre, Rv. 649489-01).

Sez. L, n. 5953/2018, Ponterio, Rv. 647514-01, ha invece evidenziato che l’indennità, pur avendo funzione risarcitoria, rientra tra i crediti di lavoro; di conseguenza, su di essa spettano, ai sensi dell’art. 429, comma 3, c.p.c., la rivalutazione monetaria e gli interessi legali dalla data della pronuncia giudiziaria dichiarativa della illegittimità della clausola appositiva del termine al contratto di lavoro subordinato, indipendentemente dall’epoca di entrata in vigore della legge, posto che il comma 7 del citato art. 32 ne ha sancito l’applicabilità anche ai giudizi pendenti; in tal modo la pronuncia in commento si è discostata – sull’ultimo profilo – da Sez. L, n. 3062/2016, Mammone, Rv. 639081-01, che, in presenza di una decisione di primo grado emessa prima dell’entrata in vigore della l. n. 183 del 2010, aveva riconosciuto gli accessori dalla data della pronuncia di secondo grado che si era espressa sul danno.

6.2. Ambito di applicazione.

È stata confermata l’applicabilità dell’indennità in questione, già sancita da Sez. L, n. 17540/2014, Manna A., Rv. 632006-01, anche nell’ipotesi di conversione in contratto a tempo indeterminato tra lavoratore ed utilizzatore della prestazione in virtù di contratto di somministrazione ex art. 20 e ss. del d.lgs. n. 276 del 2003 (Sez. L, n. 08148/2018, Arienzo, Rv. 647619-01).

Più in generale, Sez. L, n. 16435/2018, Negri della Torre, Rv. 649394-01, ha affermato che, ai fini dell’applicazione dell’indennità in questione, rileva il duplice presupposto della natura a tempo determinato del contratto di lavoro dedotto in giudizio e della “conversione” del contratto medesimo, da estendere all’accertamento di ogni ragione che comporti la stabilizzazione del rapporto, anche se derivante da una deviazione dalla causa o funzione che gli è propria, come nell’ipotesi di nullità del termine finale apposto al contratto di formazione e lavoro per mancato adempimento dell’obbligo formativo.

Sulla stessa linea, Sez. L, n. 20500/2018, Leone, Rv. 650093-01, ha ritenuto applicabile l’indennità anche nel caso di condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore a causa dell’illegittimità di un contratto di lavoro autonomo a termine, convertito in contratto a tempo indeterminato, poiché la predetta indennità consegue a qualsiasi ipotesi di riconoscimento di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato in sostituzione di un’altra fattispecie contrattuale a tempo determinato.

7. Risoluzione del rapporto per mutuo consenso.

Può ormai dirsi consolidato il principio della incensurabilità della valutazione del giudice di merito, se congruamente motivata, così massimato: «l’accertamento della sussistenza di una concorde volontà delle parti diretta allo scioglimento del vincolo contrattuale costituisce apprezzamento di merito, sindacabile nei limiti consentiti dall’art. 360, n. 5, c.p.c., tempo per tempo vigente.».

La disamina, dunque, si incentra sulla casistica che emerge dalle pronunce emesse dalla S.C., nella sostanziale invarianza del medesimo principio di diritto, sia con riferimento al contratto a termine che alla somministrazione di lavoro.

Infatti, nel caso esaminato da Sez. L, n. 13660/2018, Curcio, Rv. 648629-01, è stato ritenuto immune da vizi logico giuridici l’accertamento della risoluzione per mutuo consenso a fronte del comportamento del lavoratore che, cessato il rapporto a termine, aveva prestato la propria attività alle dipendenze di altro datore per oltre quattro anni e, solo all’esito di questo ulteriore rapporto, aveva costituito in mora la società Poste.

Invece, Sez. L, n. 13661/2018, Curcio, Rv. 648630-01, ha ritenuto incensurabile la decisione con la quale il giudice di merito aveva escluso che il tempo trascorso – poco più di tre anni – potesse di per sé costituire elemento significativo ai fini dell’accertamento dello scioglimento del rapporto per fatti concludenti.

Ancora, nel caso affrontato da Sez. L, n. 13958/2018, Curcio, Rv. 648774-01, è stata confermata la decisione del giudice di merito che ha dichiarato la risoluzione per mutuo consenso del rapporto di lavoro in considerazione, oltre che del tempo trascorso – circa cinque anni – anche di altri elementi, quali il ritiro del libretto di lavoro e l’accettazione del TFR senza riserve.

Infine, Sez. L, n. 16948/2018, Boghetich, Rv. 649602-01, ha confermato la decisione di merito che aveva dichiarato la risoluzione per mutuo consenso del rapporto in considerazione, oltre che del tempo trascorso – superiore a tre anni – anche di altri elementi, quali la mancanza di deduzione di eventuali impedimenti rispetto ad una iniziativa di tutela in sede giurisdizionale e di messa a disposizione delle energie lavorative e l’avvenuto reperimento di ulteriori attività lavorative per gran parte dei periodi di inerzia.

Sotto altro profilo, va menzionata Sez. L, n. 23586/2018, De Gregorio, Rv. 650542-01, che ha confermato il principio – già affermato da Sez. 2, n. 10201/2012, Vincenti, Rv. 623126-01 – secondo cui la risoluzione consensuale del contratto non costituisce oggetto di eccezione in senso stretto, essendo lo scioglimento per mutuo consenso un fatto oggettivamente estintivo dei diritti nascenti dal negozio bilaterale, desumibile dalla volontà in tal senso manifestata, anche tacitamente, dalle parti, che può essere accertato d’ufficio dal giudice anche in sede di legittimità, ove non vi sia necessità di effettuare indagini di fatto. Nel caso di specie, è stato rilevato d’ufficio lo scioglimento per mutuo consenso di un contratto di lavoro a tempo determinato sulla base dell’ampio intervallo temporale tra la scadenza del contratto e la data di deposito del ricorso introduttivo del giudizio nonché del fatto, riconosciuto dal lavoratore nel corso dell’interrogatorio libero, dello svolgimento medio tempore di un’altra attività lavorativa.

8. Contratto di lavoro a tempo parziale.

Sul piano della prova della valida pattuizione dell’orario ridotto, Sez. L, n. 1375/2018, Patti, Rv. 647204-02, ha affermato che il rapporto di lavoro subordinato, in assenza della prova di un rapporto part-time, nascente da atto scritto, si presume a tempo pieno; è, pertanto, onere del datore di lavoro, che alleghi la durata limitata dell’orario, fornire la prova della riduzione della prestazione lavorativa, né la sua diminuzione può essere unilateralmente disposta dal datore di lavoro, potendo conseguire soltanto ad accordo tra le parti, la cui prova, tuttavia, può essere data per facta concludentia, anche se il contratto sia stato stipulato per iscritto.

Con riferimento alle cd. clausole elastiche, che consentono al datore di lavoro di richiedere “a comando” la prestazione lavorativa dedotta in un contratto a tempo parziale, Sez. L, n. 6900/2018, Amendola F., Rv. 647507-01, ne ha ribadito l’illegittimità, in continuità con Sez. L, n. 1721/2009, Napoletano, Rv. 606871-01, stante la ratio dell’art. 5 del d.l. 30 ottobre 1984, n. 726, conv. con modif. in l. 19 dicembre 1984, n. 863, che richiede la pattuizione per iscritto della collocazione temporale dell’orario ridotto. Tuttavia, da tale illegittimità non consegue l’invalidità del contratto di lavoro a tempo parziale, né la trasformazione in contratto a tempo pieno, ma solo l’integrazione del trattamento economico (ex artt. 36 Cost. e 2099, comma 2, c.c.), atteso che la disponibilità alla chiamata del datore di lavoro, di fatto richiesta al lavoratore, pur non potendo essere equiparata a lavoro effettivo, deve comunque trovare adeguato compenso, da liquidare con valutazione equitativa, tenendo conto della maggiore penosità ed onerosità che di fatto viene ad assumere la prestazione lavorativa per la messa a disposizione delle energie lavorative per un tempo maggiore di quello effettivamente lavorato, a tal fine rilevando la difficoltà di programmazione di altre attività, l’esistenza e la durata di un termine di preavviso, la percentuale delle prestazioni a comando rispetto all’intera prestazione, l’eventuale quantità di lavoro predeterminata in misura fissa, la convenienza del lavoratore medesimo a concordare di volta in volta le modalità della prestazione.

Particolari applicazioni del principio di non discriminazione sono rese da Sez. L, n. 8966/2018, Marotta, Rv. 648634-01, di conferma della sentenza di appello che aveva ritenuto discriminatoria l’applicazione ad una lavoratrice part-time di un divisore meno favorevole su tutte le voci stipendiali, non utilizzato sulle voci fisse dei dipendenti in regime di full-time impegnati in turni continui e avvicendati, nonché da Sez. L, n. 26824/2018, Bellé, Rv. 651242-01, che, in tema di anzianità contributiva dei lavoratori a tempo parziale, ha affermato, in continuità con Sez. L, n. 8565/2016, Balestrieri, Rv. 639588-01, che l’art. 7, comma 1, del d.l. 12 settembre 1983, n. 463, conv. con modif. in l. 11 novembre 1983, n. 638, in conformità al principio di non discriminazione di cui all’art. 4 della direttiva n. 97/81/CE, come applicato dalla Corte di Giustizia UE nella sentenza del 10 giugno 2010 C-395/08 e C-396/08, va interpretato nel senso che, ai fini dell’acquisizione del diritto alla pensione, i lavoratori con orario part-time verticale ciclico hanno diritto all’inclusione anche dei periodi non lavorati.

In ordine alla modalità di alternanza dell’orario di lavoro, con specifico riferimento al c.c.n.l. per il personale dipendente da società e consorzi concessionari di autostrade e trafori, secondo Sez. L, n. 19014/2018, Patti, Rv. 649920-01, non costituisce variazione dell’orario di lavoro, assimilabile alla trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale, l’utilizzazione del lavoratore dipendente di Autostrade per l’Italia s.p.a., che, dopo essere stato impiegato in turni continui di cinque giorni lavorativi e due di riposo su trentasette ore settimanali, lo sia in turni continui ed avvicendati di quattro giorni lavorativi e due di riposo su quaranta ore settimanali, integrando detta modificazione di orario, una diversa modalità di prestazione lavorativa sempre a tempo pieno.

9. Altre forme contrattuali flessibili.

In tema di contratto di lavoro intermittente, Sez. L, n. 4223/2018, Bronzini, Rv. 647269-02, ha affermato che l’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, l’art. 2, par. 1 e par. 2, lett. a), nonché l’art. 6, par. 1, della direttiva 2000/78/CE del Consiglio, devono interpretarsi nel senso che essi non ostano ad una disposizione, quale l’art. 34, comma 2, del d.lgs. n. 276 del 2003, che autorizza il datore di lavoro a concludere contratti di lavoro intermittente con lavoratori con meno di venticinque anni, qualunque sia la natura delle prestazioni da eseguire, e a licenziare detti lavoratori al compimento del venticinquesimo anno, in quanto tale disposizione, perseguendo una finalità legittima di politica del lavoro e del mercato del lavoro, non determina una discriminazione in ragione dell’età.

Con riferimento, invece, al contratto di inserimento, regolato dagli artt. 54 e ss. del d.lgs. n. 276 del 2003 (applicabile ratione temporis), Sez. L, n. 22687/2018, Lorito, Rv. 650559-01, ne ha evidenziato la finalità formativa, qualificandolo come contratto a causa mista, risultante dallo scambio tra lavoro retribuito e addestramento finalizzato alla acquisizione di una più definita professionalità, per l’inserimento (o reinserimento) nel mondo del lavoro. Di conseguenza, è stato affermato che la carenza del progetto individuale, preordinato a garantire l’adeguamento delle competenze professionali del lavoratore, come pure l’articolazione del rapporto secondo moduli esecutivi incompatibili con le finalità di formazione, integrano un vizio genetico della causa contrattuale, tale da determinare la conversione in contratto di lavoro a tempo indeterminato. Sempre in ordine al contratto di inserimento, Sez. L, n. 23037/2018, Marchese, Rv. 650393-01, ha ritenuto ammissibile l’indicazione del progetto anche per relationem, attraverso il richiamo ad un documento esterno al contratto, purché specificamente individuato.

Quanto, poi, al contratto di formazione e lavoro, concluso ex art. 16 della l. n. 196 del 1997, secondo Sez. L, n. 8564/2018, Riverso, Rv. 648340-01, la decadenza dalle agevolazioni contributive può ritenersi realizzata, e per tutto il periodo di durata del contratto, solo nel caso in cui, sulla base della concreta vicenda, l’inadempimento abbia un’obiettiva rilevanza, concretizzandosi nella totale mancanza di formazione, teorica e pratica, ovvero in una attività formativa carente o inadeguata rispetto agli obiettivi indicati nel progetto di formazione e quindi trasfusi nel contratto; in questa seconda ipotesi il giudice dovrà valutare la gravità dell’inadempimento, giungendo a dichiarare la decadenza dalle agevolazioni in tutti i casi di inosservanza degli obblighi di formazione di non scarsa importanza.

Infine, con riferimento ai contratti di collaborazione coordinata e continuativa, per effetto della sentenza della Corte cost. n. 399 del 5 dicembre 2008 – che ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 86, comma 1, del d.lgs. n. 276 del 2003, nella parte in cui stabiliva la cessazione dei contratti privi di progetto stipulati prima della sua entrata in vigore – Sez. L, n. 27659/2018, Curcio, Rv. 651057-01, ha affermato che il collaboratore ha diritto al risarcimento del danno derivato dalla mancata percezione dei compensi mensili maturati sino alla scadenza naturale del rapporto, se anteriore alla richiamata pronuncia demolitiva; tale diritto decorre, tuttavia, dall’atto di messa in mora, perché, se è vero che la declaratoria di illegittimità ha effetti retroattivi, è dalla offerta della prestazione da parte del collaboratore che si realizza un inadempimento imputabile a colpa del committente, colpa che non è ipotizzabile con riguardo ad un recesso intimato in conformità a norme all’epoca non ancora espunte dall’ordinamento.

10. Appalto genuino e fenomeni interpositori.

In tema di appalto avente ad oggetto prestazioni lavorative, Sez. L, n. 30694/2018, Marotta, Rv. 651753-01, ha affermato che il requisito della “organizzazione dei mezzi necessari da parte dell’appaltatore”, previsto dall’art. 29 del d.lgs. n. 276 del 2003, può essere individuato, in presenza di particolari esigenze dell’opera o del servizio, anche nell’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nel contratto. Nel caso esaminato, la S.C. ha ritenuto genuino un appalto concernente la gestione e l’assistenza tecnica di archivi informatici, sul rilievo che, in una tale ipotesi, gli strumenti e le macchine forniti dall’appaltante non costituiscono il mezzo attraverso il quale il servizio viene reso, ma, piuttosto, l’oggetto sul quale l’attività appaltata si esercita, sì da risultare predominante la mera organizzazione dei dipendenti.

In ordine alla disciplina ex art. 1 della l. n. 1369 del 1960, secondo Sez. L, n. 15292/2018, Marotta, Rv. 649321-01, in conformità all’interpretazione resa da Sez. L, n. 4181/2006, Monaci, Rv. 587026-01, al fine di ritenere operante la presunzione di cui all’art. 1, comma 3, della predetta legge, occorre verificare che l’utilizzazione da parte dell’appaltatore di mezzi dell’appaltante sia significativa e non marginale, e dunque non occasionale, né temporanea, né legata all’oggetto dell’appalto; la valutazione di questi aspetti rientra nei compiti del giudice del merito ed è, pertanto, incensurabile in sede di legittimità se adeguatamente motivata. In particolare, è stata confermata la decisione del giudice di merito che aveva ritenuto marginale l’utilizzazione degli autobus forniti dall’appaltante da parte della appaltatrice, in quanto la stessa si era assunta gli oneri di tutte le altre attività necessarie allo svolgimento del servizio, quali manutenzione degli automezzi, rifornimenti, premi assicurativi, revisioni, fornitura divise.

In continuità con l’indirizzo già espresso da Sez. L, n. 7820/2013, Pagetta, Rv. 625912-01, Sez. L, n. 27105/2018, Pagetta, Rv. 651256-01, ha ribadito che il divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro, previsto dall’art. 1 della l. n. 1369 del 1960 (applicabile ratione temporis), opera tutte le volte in cui l’appaltatore metta a disposizione del committente una prestazione lavorativa mantenendo i soli compiti di gestione amministrativa del rapporto (quali la retribuzione, la pianificazione delle ferie, l’assicurazione della continuità della prestazione), senza una reale organizzazione della prestazione finalizzata al conseguimento di un risultato produttivo autonomo. Da rilevare che il caso esaminato dalla S.C. concerneva un appalto per la gestione del servizio di help desk presso un Ministero, rispetto al quale la Corte territoriale aveva accertato il carattere vietato dell’appalto riscontrando, in base ad un apprezzamento in fatto insindacabile in sede di legittimità, l’assenza di un effettivo potere direttivo della società appaltatrice nei confronti dei lavoratori, a fronte dell’intervento della committente nella predisposizione dei manuali operativi, oltre che nella formazione del personale, sul quale esercitava un sostanziale potere di direzione in relazione ad aspetti non secondari della prestazione lavorativa, quale la determinazione del periodo di ferie. Nello stesso senso, Sez. L, n. 27213/2018, Ponterio, Rv. 651206-01, secondo cui, il divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro in riferimento agli appalti “endoaziendali”, caratterizzati dall’affidamento ad un appaltatore esterno di attività strettamente attinenti al complessivo ciclo produttivo del committente, opera tutte le volte in cui l’appaltatore metta a disposizione del committente una prestazione lavorativa, rimanendo in capo all’appaltatore-datore di lavoro i soli compiti di gestione amministrativa del rapporto (quali retribuzione, pianificazione delle ferie, assicurazione della continuità della prestazione), ma senza che da parte sua ci sia una reale organizzazione della prestazione stessa, finalizzata ad un risultato produttivo autonomo, né una assunzione di rischio economico con effettivo assoggettamento dei propri dipendenti al potere direttivo e di controllo. Nel caso esaminato dalla Corte, relativo a servizi di inserimento della documentazione bancaria gestita dalla committente nella piattaforma informatica, è stata confermata la decisione di merito, che aveva riconosciuto il carattere vietato dell’appalto in ragione dell’estraneità dell’appaltatrice all’organizzazione dell’attività svolta presso la committente nonché della fungibilità delle mansioni dei dipendenti dell’appaltante e di quelli dell’appaltatrice, i quali avevano reso una prestazione diversa e più ampia rispetto a quella indicata nel contratto di appalto, senza soluzione di continuità per oltre cinque anni.

Tuttavia, secondo Sez. L, n. 9139/2018, Calafiore, Rv. 648626-01, ai fini della configurabilità di un appalto fraudolento, non è sufficiente la circostanza che il personale dell’appaltante impartisca disposizioni agli ausiliari dell’appaltatore, occorrendo verificare se esse siano riconducibili al potere direttivo del datore di lavoro, in quanto inerenti a concrete modalità di svolgimento delle prestazioni lavorative, oppure al solo risultato di tali prestazioni, il quale può formare oggetto di un genuino contratto di appalto.

Di particolare rilievo, anche per le connesse implicazioni, il principio affermato da Sez. U, n. 2990/2018, D’Antonio, Rv. 647561-01, secondo cui la declaratoria di nullità dell’interposizione di manodopera per violazione di norme imperative e la conseguente esistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato determina, nell’ipotesi in cui per fatto imputabile al datore di lavoro non sia possibile ripristinare il predetto rapporto, l’obbligo per quest’ultimo di corrispondere le retribuzioni al lavoratore a partire dalla messa in mora decorrente dal momento dell’offerta della prestazione lavorativa, in virtù dell’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 29 del d.lgs n. 276 del 2003, che non contiene alcuna previsione in ordine alle conseguenze del mancato ripristino del rapporto di lavoro per rifiuto illegittimo del datore di lavoro e della regola sinallagmatica della corrispettività, in relazione agli artt. 3, 36 e 41 Cost..

Le Sezioni Unite erano state investite della questione relativa alla natura – retributiva o risarcitoria – delle somme spettanti al lavoratore non riammesso in servizio in esito a sentenza che ha accertato l’illecita interposizione di manodopera, nonostante la rituale offerta della prestazione. In particolare, i ricorrenti lavoratori – che avevano posto la questione – avevano evidenziato come la giurisprudenza di legittimità avesse tradizionalmente attribuito all’obbligazione che grava sul datore di lavoro, nelle ipotesi di accertata continuità giuridica del rapporto di lavoro e di difetto della prestazione lavorativa, natura risarcitoria. Questo orientamento discendeva dal principio, consolidato nell’elaborazione della S.C., in base al quale il contratto di lavoro è riconducibile alla tipologia di contratti a prestazioni corrispettive, nei quali l’erogazione del trattamento economico, in assenza di lavoro, rappresenta un’eccezione che, come tale, necessita di una espressa previsione di legge o di contratto che la legittimi (il principio era stato affermato, tra l’altro, in tema di dichiarazione di nullità della cessione di ramo d’azienda). Applicando il principio alla specifica fattispecie dell’interposizione fittizia di manodopera quale «fattispecie assimilabile» a quella della nullità della cessione di ramo di azienda, la S.C. aveva già affermato che, ove ne venga accertata l’illegittimità e dichiarata l’esistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, l’omesso ripristino del rapporto di lavoro ad opera del committente determina unicamente conseguenze di natura risarcitoria con detraibilità dell’aliunde perceptum.

Le Sez. U, con la sentenza in commento, hanno espressamente dichiarato di compiere una “rivisitazione” dei principi posti dall’orientamento tradizionale “al fine di valutarne la loro attuale applicabilità, alla luce di una necessaria interpretazione costituzionalmente orientata delle norme, nell’ipotesi considerata del rifiuto del datore di lavoro di ricevere la prestazione offerta dal lavoratore, negando la riammissione in servizio”. In motivazione, innanzitutto, si dà atto che in tema di declaratoria di nullità della cessione di ramo di azienda, la Corte di appello di Roma aveva rimesso la questione alla Corte costituzionale. Prendendo spunto, poi, dalle affermazioni pronunciate dalla Corte cost. con la sentenza dell’11 novembre 2011, n. 303, le Sez. U hanno ritenuto che, nel momento successivo alla declaratoria di nullità dell’interposizione di manodopera, a fronte della messa in mora (offerta della prestazione lavorativa) e dell’impossibilità della prestazione per fatto imputabile al datore di lavoro (il quale rifiuti illegittimamente di ricevere la prestazione), debba gravare sull’effettivo datore di lavoro un obbligo non più meramente risarcitorio, bensì di carattere retributivo. Pertanto, involgendo la questione l’individuazione di un punto di equilibrio tra principi opposti (quello della incoercibilità del comportamento datoriale e quello della necessaria effettività della tutela processuale e della piena attuazione dei diritti del lavoratore), le Sez. U – secondo una interpretazione costituzionalmente orientata – hanno ritenuto di dover superare la regola sinallagmatica della corrispettività, in quanto inidonea a fornire al lavoratore una tutela effettiva, soprattutto con riferimento ad ipotesi, come quella esaminata, nelle quali, al mancato svolgimento della prestazione lavorativa, si faccia corrispondere l’automatica non debenza della corrispondente obbligazione retributiva, comportando la mancata cooperazione del datore di lavoro una impossibilità definitiva della prestazione; sicché il debitore non avrà diritto alla controprestazione, bensì al mero risarcimento del danno, secondo le regole di diritto comune, subendo, dunque, le ulteriori conseguenze sfavorevoli derivanti dalla condotta omissiva del datore di lavoro rispetto all’esecuzione dell’ordine giudiziale.

Le Sez. U conclusivamente hanno affermato che il datore di lavoro il quale, nonostante la sentenza che accerti il vincolo giuridico, non ricostituisca il rapporto di lavoro, senza alcun giustificato motivo, dovrà sopportare il peso economico delle retribuzioni, pur senza ricevere la prestazione lavorativa corrispettiva, sebbene offerta dal lavoratore.

10.1. La responsabilità solidale del committente ex art. 29 del d.lgs. n. 276 del 2003.

Sul piano dell’ambito soggettivo di applicazione, Sez. L, n. 16259/2018, Boghetich, Rv. 649359-01, ha confermato l’interpretazione già resa da Sez. L, n. 24368/2017, Riverso, Rv. 646345-01, ribadendo che la tutela speciale prevista dall’art. 29 del d.lgs. n. 276 del 2003, così come modificato dall’art. 6, commi 1 e 2, del d.lgs. 6 ottobre 2004, n. 251, e dall’art. 1, comma 911, della l. 27 dicembre 2006, n. 296, si applica anche ai dipendenti del subappaltatore nei confronti del subcommittente o subappaltante, sia in base al criterio di interpretazione letterale, dacché il subappalto è un contratto meramente derivato dall’appalto, sia in considerazione della ratio della norma, intesa a garantire i lavoratori dal rischio di inadempimento dell’appaltatore, esigenza che ricorre identica nell’appalto e nel subappalto. Quanto, invece, al profilo oggettivo, Sez. L, n. 27678/2018, Leone, Rv. 651264-01, ha precisato che il regime della responsabilità solidale del committente con l’appaltatore di servizi opera con riguardo agli emolumenti, al cui pagamento il datore di lavoro risulti tenuto in favore dei propri dipendenti, aventi natura strettamente retributiva e concernenti il periodo del rapporto lavorativo coinvolto dall’appalto, dovendosi pertanto escludere dal predetto regime le somme liquidate a titolo di risarcimento del danno da licenziamento illegittimo.

Infine, quanto alla disciplina prevista dalla versione dell’art. 29 del d.lgs n. 276 del 2003 anteriore alle modifiche apportate dalla l. 28 giugno 2012, n. 92, Sez. L, n. 31768/2018, Boghetich, in corso di massimazione, ha affermato che la norma prevede non una mera garanzia sussidiaria ma la responsabilità solidale del committente con l’appaltatore per il pagamento dei trattamenti retributivi e contributivi maturati dal lavoratore, come si evince dal tenore letterale nonché dalla ratio stessa della disposizione, finalizzata ad incentivare un utilizzo più virtuoso dei contratti di appalto, inducendo il committente a selezionare imprenditori affidabili nonché ad evitare che i meccanismi di decentramento e di dissociazione tra titolarità del contratto di lavoro e utilizzazione della prestazione vadano a danno del lavoratore.

11. Cessione ed affitto di azienda, codatorialità e successione nel rapporto lavorativo.

In continuità con i precedenti in materia (v. Sez. L, n. 12771/2012, Stile, Rv. 624109-01) Sez. L, n. 26808/2018, Curcio, Rv. 651204-01, ha ribadito che la disciplina ex art. 2112 c.c., è applicabile ogni qualvolta, rimanendo immutata l’organizzazione aziendale, vi sia la sostituzione della persona del titolare del rapporto di lavoro ed il suo subentro nella gestione del complesso dei beni ai fini dell’esercizio dell’impresa, indipendentemente dallo strumento tecnico giuridico adottato e dalla sussistenza di un vincolo contrattuale diretto tra cedente e cessionario. In effetti, nel caso di specie, la stessa concedente aveva concluso due successivi contratti d’affitto della medesima azienda con due diversi affittuari e la S.C. ha ritenuto applicabile la disciplina in questione al rapporto di lavoro di una lavoratrice, impiegata presso il primo affittuario e poi, dopo la cessazione anticipata dell’attività di questi, passata alle dipendenze del secondo.

In ordine ai criteri per stimare la legittimità della cessione del ramo di azienda, Sez. L, n. 28593/2018, Patti, Rv. 651688-01, ha consolidato l’orientamento già invalso (v. Sez. L, n. 19034/2017, Spena, Rv. 645262-01), che individua nell’autonomia funzionale del ramo ceduto l’elemento costitutivo della fattispecie, vale a dire la sua capacità, già al momento dello scorporo dal complesso cedente, di provvedere ad uno scopo produttivo con i propri mezzi funzionali ed organizzativi e quindi di svolgere, autonomamente dal cedente e senza integrazioni di rilievo da parte del cessionario, il servizio o la funzione cui risultava finalizzato nell’ambito dell’impresa cedente, situazione ravvisabile (quando non occorrano particolari mezzi patrimoniali per l’esercizio dell’attività economica) anche rispetto ad un complesso stabile organizzato di persone, addirittura in via esclusiva, purché dotate di particolari competenze e stabilmente coordinate ed organizzate tra loro, così da rendere le loro attività interagenti e idonee a tradursi in beni e servizi ben individuabili. Nella specie, è stata ritenuta illegittima l’esternalizzazione dei servizi di gestione della corrispondenza e dell’archivio perché si era risolta in una mera parcellizzazione di attività dell’originaria cedente, in assenza di alcuna effettiva consistenza aziendale.

D’altro canto, la validità della cessione dell’azienda non è condizionata alla prognosi della continuazione dell’attività produttiva e, di conseguenza, all’onere del cedente di verificare le capacità e potenzialità imprenditoriali del cessionario, poiché, se il legislatore ha predisposto, a garanzia dei lavoratori, una serie di cautele che vanno dalla previsione della responsabilità solidale del cedente e del concessionario in relazione ai crediti maturati dai dipendenti all’intervento delle organizzazioni sindacali, nondimeno, nessun limite, neppure implicito, sanzionato con l’invalidità e inefficacia dell’atto, è stato posto alla libertà dell’imprenditore di dismettere l’azienda, nel rispetto dell’art. 41 Cost. (Sez. L, n. 6184/2018, Lorito, Rv. 647535-01).

In ordine alle conseguenze della dichiarata illegittimità della cessione, Sez. L, n. 16694/2018, Leone, Rv. 649247-01, ha affermato che il cedente, che non provveda al ripristino del rapporto di lavoro, è tenuto a risarcire il danno secondo le ordinarie regole civilistiche, sicché la retribuzione, corrisposta dal cessionario al lavoratore, deve essere detratta dall’ammontare del risarcimento.

Sul piano dei limiti all’operatività della disciplina ex art. 2112 c.c., Sez. L, n. 1383/2018, Boghetich, Rv. 646367-01, ha precisato che in caso trasferimento di imprese assoggettate a procedura concorsuale o di rami di esse, l’art. 47, comma 5, della l. 29 dicembre 1990, n. 428, ha previsto ampia facoltà, per l’impresa subentrante, di concordare condizioni contrattuali per l’assunzione ex novo dei lavoratori, in deroga a quanto dettato dall’art. 2112 c.c. nonché la possibilità di escludere parte del personale eccedentario dal passaggio, in quanto tale derogabilità, laddove prevista dall’accordo sindacale, anche se peggiorativa del trattamento dei lavoratori, si giustifica con lo scopo di conservare i livelli occupazionali; ne consegue che i principi dettati dagli artt. 4 e ss. della l. 23 luglio 1991, n. 223, ed, in particolare, quelli relativi alla obbligatoria indicazione dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare e delle modalità di applicazione di tali criteri, non si estendono analogicamente alla fattispecie disciplinata dall’art. 47 cit., stante la diversità di ratio dei due istituti e l’assoluta diversità di disciplina.

D’altro canto, nell’ipotesi di beni confiscati alla criminalità organizzata ai sensi della l. 31 maggio 1965, n. 575, deve escludersi che lo Stato assuma la veste di cessionario d’azienda e trovi applicazione il regime giuridico di cui all’art. 2112 c.c. per effetto del provvedimento ablatorio definitivo, che determina la devoluzione dei beni allo Stato, con un vincolo di destinazione a finalità pubblicistiche assimilabile a quello che insiste sui beni demaniali (e sui beni compresi nel patrimonio indisponibile), evocato dal richiamo che l’art. 2-decies della l. cit. opera al regime giuridico di cui all’art. 823 c.c. (Sez. L, n. 15085/2018, Blasutto, Rv. 649353-02).

Peraltro, come chiarito da Sez. L, n. 11410/2018, Patti, Rv. 648819-01, l’alienante conserva il potere di recesso attribuitogli dalla normativa generale, sicché il trasferimento, sebbene non possa esserne l’unica ragione giustificativa, non può impedire il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, sempre che abbia fondamento nella struttura aziendale autonomamente considerata e non nella connessione con il trasferimento o nella finalità di agevolarlo; né deve ritenersi – qualora, nell’imminenza del trasferimento dell’azienda, l’imprenditore alienante receda dal rapporto di lavoro nei casi in cui detta facoltà gli sia attribuita – che nel suo esercizio in concreto l’imprenditore ponga in essere un atto emulativo o in frode alla legge, oppure in violazione dei principi di correttezza e buona fede a norma degli artt. 1175 e 1375 c.c. Il principio è di rilievo, anche per le implicazioni sul piano del regime di impugnazione, in quanto nel caso esaminato la S.C. ha confermato la sentenza di appello che aveva ritenuto prescritta l’azione di impugnativa del licenziamento, proposta a distanza di otto anni dalla relativa intimazione ad opera dell’azienda cedente, sul presupposto della annullabilità del recesso e non della sua nullità ex art. 2112, comma 4 c.c. Sul piano processuale, la medesima pronuncia (Sez. L, n. 11420/2018, Patti, Rv. 648950-01) ha chiarito che nel giudizio promosso dal lavoratore illegittimamente licenziato prima della vicenda traslativa sussiste la legittimazione passiva del cedente che ha intimato il recesso, la cui posizione, in tema di responsabilità, non è inscindibile da quella del cessionario, che, tuttavia, può essere chiamato in causa dal cedente, in quanto soggetto effettivamente e direttamente obbligato alla prestazione pretesa dal lavoratore, con effetto di estensione automatica della domanda nei suoi confronti. Di conseguenza, è stata confermata la sentenza di appello che, ricorrendo i presupposti della tutela obbligatoria, aveva ritenuto la legittimazione passiva della società cedente, con riferimento ai crediti riconosciuti di spettanza della lavoratrice.

Quanto, poi, all’individuazione del datore di lavoro, nel caso di collegamento economico-funzionale tra le imprese, Sez. L, n. 7704/2018, Marotta, Rv. 647672-01, ha affermato che ove l’utilizzazione della prestazione lavorativa sia contemporanea e indistinta da parte delle diverse società si è in presenza di un unico centro di imputazione dei rapporti di lavoro, con la conseguenza che tutti i fruitori dell’attività devono essere considerati responsabili delle obbligazioni che scaturiscono da quel rapporto, in virtù della presunzione di solidarietà prevista dall’art. 1294 c.c., in caso di obbligazione con pluralità di debitori, qualora dalla legge o dal titolo non risulti diversamente. Nel caso di specie, la S.C. ha cassato la sentenza di appello che, accertata l’esistenza di un unico centro di imputazione tra le società convenute nonché l’illegittimità del licenziamento, aveva disposto la sanzione della reintegra nei confronti della società formalmente datrice del rapporto di lavoro, condannandola anche al risarcimento del danno, con esclusione dell’obbligo solidale dell’altra società che aveva usufruito ugualmente della prestazione lavorativa.

Infine, con riferimento alla peculiare fattispecie dei gruppi parlamentari, Sez. L, n. 92/2018, Amendola F., Rv. 646570-01, ha affermato che a norma dei regolamenti parlamentari, il gruppo parlamentare è costituito all’inizio di ogni legislatura e non può, quindi, ritenersi continuazione o prosecuzione di un gruppo della precedente legislatura, con la cui fine si verifica la sua estinzione, sicché va escluso ogni fenomeno di successione nel debito in capo al diverso soggetto venuto ad esistenza successivamente.

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CAPITOLO XIX

IL CONTRATTO DI AGENZIA

(di Ileana Fedele )

Sommario

1 Premessa. - 2 Configurabilità del rapporto di agenzia. - 3 Obblighi e diritti dell’agente e del preponente. - 4 Recesso e preavviso. - 5 Indennità di fine rapporto.

1. Premessa.

Nel corso dell’anno sono state rese diverse pronunce intese a meglio definire i tratti individuanti del rapporto di agenzia, gli obblighi ed i diritti dell’agente e del preponente nonché, soprattutto, le competenze di fine rapporto, nell’ambito di una disciplina non sempre di agevole interpretazione.

2. Configurabilità del rapporto di agenzia.

Sul piano dell’inquadramento dell’attività svolta in termini di rapporto di agenzia, Sez. L, n. 20453/2018, De Gregorio, Rv. 650089-01, ha affermato che la prestazione dell’agente consiste in atti di contenuto vario e non predeterminato che tendono tutti alla promozione della conclusione di contratti in una zona determinata per conto del preponente, quali il compito di propaganda, la predisposizione dei contratti, la ricezione e la trasmissione delle proposte al preponente per l’accettazione; l’attività tipica dell’agente di commercio non richiede, quindi, necessariamente la ricerca del cliente ed è sempre riconducibile alla prestazione dedotta nel contratto di agenzia anche quando il cliente, da cui proviene la proposta di contratto trasmessa dall’agente, non sia stato direttamente ricercato da quest’ultimo ma risulti acquisito su indicazioni del preponente (o in qualsiasi altro modo), purché sussista nesso di causalità tra l’opera promozionale svolta dall’agente nei confronti del cliente e la conclusione dell’affare cui si riferisce la richiesta di provvigione. Nel caso di specie, è stata esclusa la sussistenza di un contratto di agenzia tra le parti, atteso che la ricorrente aveva l’incarico di creare una rete commerciale mediante il reclutamento e la formazione di agenti, nonché di svolgere attività di propaganda e supporto nei loro confronti, senza tuttavia incidere in alcun modo sui singoli affari conclusi dagli agenti stessi con i clienti.

3. Obblighi e diritti dell’agente e del preponente.

In ordine il diritto dell’agente di ricevere dal preponente le informazioni previste dall’art. 1749 c.c., Sez. L, n. 20707/2018, Bellé, Rv. 649926-02, in continuità con Sez. L, n. 19319/2016, Ghinoy, Rv. 641387-01, ha affermato che esso può essere fatto valere in giudizio in via autonoma, a prescindere dall’azione giudiziale con cui si facciano valere i diritti patrimoniali cui esso è strumentale, restando viceversa assorbito dalle regole sull’istruzione probatoria quando tale azione sia già iniziata. In particolare, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, con cui era stata respinta la richiesta di un agente che, avendo agito per le provvigioni e l’indennità di fine rapporto, pretendeva ex art. 1749 c.c. informazioni sul rapporto sulla base di una generica deduzione dell’inadempimento del preponente.

Quanto, invece, alle competenze di ordine economico, Sez. L, n. 25544/2018, Di Paolantonio, Rv. 650735-01, ha precisato che l’inserimento della provvigione nel conto provvigionale, il cui diritto sorge allorquando l’affare sia andato a buon fine o la mancata conclusione del contratto sia imputabile al preponente, non costituisce fonte autonoma di obbligazione ma mera ricognizione di debito, avente effetto confermativo di un preesistente rapporto fondamentale, che comporta l’inversione dell’onere della prova dell’esistenza di quest’ultimo ma non impedisce al preponente di sottrarsi al pagamento, dimostrando che al contratto non è stata data esecuzione per fatti a lui non imputabili.

Più in generale, è stata affermata (Sez. L, n. 18266/2018, Lorito, Rv. 649965-01) l’applicabilità della disciplina generale della ripetizione dell’indebito di cui all’art. 2033 c.c – ed il conseguente regime prescrizionale decennale – al diritto del preponente alla restituzione degli anticipi provvigionali corrisposti all’agente, in caso di risoluzione anticipata del contratto d’agenzia.

Infine, è stato chiarito il rapporto intercorrente fra tra contratto di agenzia ed incarico accessorio di supervisione, ricostruito attraverso lo schema del collegamento negoziale, con vincolo di dipendenza unilaterale; in questo senso, sul rilievo che i contratti accessori, seguono la sorte dei contratti principali cui accedono, ma non ne mutuano la disciplina (onde ciascuno di essi rimane assoggettato alle proprie regole ed il vincolo di collegamento, vale a dire l’interdipendenza esistente tra i due rapporti negoziali, rileva solo nel senso che le vicende del rapporto principale si ripercuotono sul rapporto accessorio, condizionandone la validità e l’efficacia), è stato affermato che la revoca dell’incarico accessorio, proprio in quanto riferito ad un rapporto contrattuale distinto da quello di agenzia, non può dispiegare alcun effetto su quest’ultimo, né sotto il profilo della pretesa inadempienza del preponente revocante agli obblighi discendenti dal contratto di agenzia, né dall’angolo visuale di una pretesa carenza di interesse del medesimo preponente alla prosecuzione del rapporto di agenzia (Sez. L, n. 16940/2018, Ponterio, Rv. 649597-01).

4. Recesso e preavviso.

In proposito, Sez. L, n. 16940/2018, Ponterio, Rv. 649597-02, ha affermato che non è configurabile nell’ordinamento una regola generale di sistema che, nei rapporti contrattuali a durata indeterminata, imponga la concessione di un periodo di preavviso (ovvero la corresponsione dell’indennità sostitutiva del preavviso stesso) in ogni caso di recesso di una delle parti, salvo che non si rinvenga una deroga convenzionale che preveda un siffatto obbligo per il recedente. Di conseguenza, nel caso esaminato dalla Corte, in mancanza di previsione negoziale contemplante un obbligo di preavviso, o di indennità sostitutiva, per l’ipotesi di cessazione automatica del rapporto accessorio in conseguenza della risoluzione del rapporto principale di agenzia, ha cassato la sentenza di merito che, includendo nel computo dell’indennità sostituiva anche le provvigioni maturate dall’agente nel rapporto accessorio, aveva di fatto applicato a quest’ultimo la disciplina dettata per quello di agenzia.

Inoltre, secondo Sez. L, n. 20821/2018, Curcio, Rv. 650132-01, l’inadempimento dell’agente dimissionario, verificatosi nel periodo di preavviso lavorato, non comporta l’insorgenza del diritto alla restituzione della relativa indennità in favore del preponente non inadempiente, che può recedere per giusta causa dal rapporto ancora in atto in quel periodo, e formulare la domanda di risarcimento del danno, assolvendo al relativo onere di allegazione e prova.

Quanto, poi, al recesso per giusta causa, è stato precisato che nel rapporto di agenzia, la regola dettata dall’art. 2119 c.c. deve essere applicata tenendo conto della diversa natura del rapporto rispetto a quello di lavoro subordinato nonché della diversa capacità di resistenza che le parti possono avere nell’economia complessiva dello stesso; in tale ambito, il giudizio circa la sussistenza, nel caso concreto, di una giusta causa di recesso deve essere compiuto dal giudice di merito, tenendo conto delle complessive dimensioni economiche del contratto e dell’incidenza dell’inadempimento sull’equilibrio contrattuale, assumendo rilievo, in proposito, solo la sussistenza di un inadempimento colpevole e di non scarsa importanza che leda in misura considerevole l’interesse dell’agente, tanto da non consentire la prosecuzione, “anche provvisoria”, del rapporto (Sez. L, n. 1376/2018, Garri, Rv. 646888-01).

5. Indennità di fine rapporto.

Sul tema, Sez. L, n. 21377/2018, Cinque, Rv. 650212-01, ha affermato che l’art. 1751 c.c., applicabile ratione temporis, ne individua i presupposti nel fatto che l’agente abbia procurato nuovi clienti al preponente o abbia sensibilmente sviluppato gli affari con quelli già esistenti e prevede, senza tipizzarla, che essa sia equa; la determinazione di tale requisito funzionale va effettuata valutando le sole “circostanze del caso”, intendendosi per tali tutti gli elementi, ulteriori e diversi rispetto a quelli costitutivi, che siano idonei a pervenire ad una adeguata personalizzazione del quantum spettante all’agente (nella specie, era stata considerata sia la lunga durata del rapporto di agenzia sia la circostanza che l’agente fosse plurimandatario).

Quanto ai presupposti per il riconoscimento dell’indennità, Sez. L, n. 25740/2018, Negri della Torre, Rv. 651144-01, ha precisato che è necessario che l’agente abbia procurato al preponente nuovi clienti ovvero abbia sensibilmente sviluppato gli affari con i contraenti già acquisiti, restando conseguentemente esclusa dall’ambito di applicabilità di tale norma l’attività di reclutamento e coordinamento degli agenti, in quanto quest’ultima, pur rilevante sul piano organizzativo, si pone come strumentale ed accessoria rispetto a quella, direttamente volta alla promozione della clientela, che l’indennità di cessazione del rapporto è specificamente finalizzata a premiare.

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CAPITOLO XX

IL LICENZIAMENTO INDIVIDUALE E COLLETTIVO

(di Luigi Di Paola )

Sommario

1 Potere disciplinare. - 2 Licenziamento individuale. - 2.1 Riconoscimento di un atto quale licenziamento o meno. - 2.2 La comunicazione del licenziamento. - 2.3 La rinnovazione e la reiterazione del licenziamento. - 2.4 La revoca del licenziamento. - 2.5 Non necessità di un nuovo licenziamento in caso di rimozione del titolo giudiziale di ricostituzione del rapporto. - 2.6 L’impugnazione del licenziamento e la decadenza. - 2.7 La tempestività del licenziamento. - 2.8 La motivazione per relationem. - 2.9 L’onere della prova concernente la sussistenza del licenziamento. - 2.10 Giusta causa e giustificato motivo soggettivo di licenziamento. - 2.11 Giustificato motivo oggettivo di licenziamento. - 2.12 Licenziamento discriminatorio, ritorsivo o in frode alla legge. - 2.13 Periodo di comporto e licenziamento. - 2.14 Divieti di licenziamento. - 2.15 Le conseguenze del licenziamento illegittimo. - 2.16 Licenziamento del socio di società cooperativa di produzione e lavoro. - 2.17 Il licenziamento del dirigente. - 2.18 Il licenziamento del lavoratore in età pensionabile. - 2.19 Il preavviso. - 2.20 Applicazioni della legge “Fornero”. - 12 Licenziamenti collettivi.

1. Potere disciplinare.

Significative le pronunce intervenute nell’anno, qui esaminate secondo la scansione cronologica del procedimento, a partire dalla fase di predeterminazione e pubblicità del codice disciplinare, fino a quella dell’irrogazione della sanzione conservativa (non di quella espulsiva, della quale si tratterà, per comodità di trattazione, al § 2.7).

In adesione ad un risalente indirizzo, Sez. L, n. 6893/2018, Marchese, Rv. 647505-01, ha ribadito che ai fini della validità del licenziamento intimato per ragioni disciplinari non è necessaria la previa affissione del codice disciplinare, in presenza della violazione di norme di legge e comunque di doveri fondamentali del lavoratore, riconoscibili come tali senza necessità di specifica previsione; pertanto ha giudicato irrilevante la mancata affissione del codice disciplinare nel caso di utilizzo di un congedo familiare per lo svolgimento di altra attività lavorativa, in violazione dell’art. 4 della l. n. 53 del 2000 oltre che dei fondamentali doveri di lealtà e fedeltà del lavoratore.

In analoga prospettiva, Sez. L, n. 11412/2018, Marchese, Rv. 648872-01, ha ritenuto che per il soggetto preposto ad una filiale di un istituto di credito, le regole dell’organizzazione aziendale equivalgono, quanto all’onere del lavoratore di conoscerle, alle norme della comune prudenza ed a quelle del codice penale sicché, ai fini della legittimità del provvedimento espulsivo, non ne è necessaria l’indicazione nel codice disciplinare, così come è sufficiente la previa contestazione dei fatti che implichino la loro violazione, anche in difetto di una specificazione delle norme violate.

È stata ribadita la legittimità delle “indagini preliminari”; Sez. L, n. 30679/2018, Ponterio, Rv. 651697-01, ha al riguardo affermato che in tema di licenziamenti (come di altre sanzioni) disciplinari, non sono illegittime le indagini preliminari del datore di lavoro – volte ad acquisire elementi di giudizio necessari per verificare la configurabilità, o meno, di un illecito disciplinare e per identificarne il responsabile – purché all’esito delle stesse il datore proceda, ai sensi dell’art. 7, commi 2 e 3, st.lav., alla rituale contestazione dell’addebito, con possibilità per il lavoratore di difendersi anche con l’assistenza dei rappresentanti sindacali.

Con riguardo alla specifica fase di avvio del procedimento, Sez. L, n. 09590/2018, Garri, Rv. 648656-01, ha evidenziato – in linea con un solido orientamento – che la previa contestazione dell’addebito, necessaria nei licenziamenti qualificabili come disciplinari, ha lo scopo di consentire al lavoratore l’immediata difesa e deve conseguentemente rivestire il carattere della specificità, che è integrato quando sono fornite le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti nei quali il datore di lavoro abbia ravvisato infrazioni disciplinari o comunque comportamenti in violazione dei doveri di cui agli artt. 2104 e 2105 c.c..

Molto rilevante la precisazione, contenuta nella sentenza in questione, che per ritenere integrata la violazione del principio di specificità è necessario che si sia verificata una concreta lesione del diritto di difesa del lavoratore e la difesa esercitata in sede di giustificazioni è un elemento concretamente valutabile per ritenere provata la non genericità della contestazione.

Sulla base della predetta precisazione la S.C. ha giudicato specifica la contestazione con cui era stato addebitato al lavoratore di aver svolto “attività extralavorativa in pendenza di malattia” anche sul rilievo che le giustificazioni rese nell’immediatezza dallo stesso erano state puntuali e finalizzate a privare di rilevanza disciplinare la condotta.

Sempre in tema, Sez. L, n. 06889/2018, Garri, Rv. 647500-01, ha ricordato che nell’apprezzare la sussistenza del requisito della specificità della contestazione il giudice di merito deve verificare, al di fuori di schemi rigidi e prestabiliti, se la contestazione offre le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti addebitati tenuto conto del loro contesto e verificare altresì se la mancata precisazione di alcuni elementi di fatto abbia determinato un’insuperabile incertezza nell’individuazione dei comportamenti imputati, tale da pregiudicare in concreto il diritto di difesa.

Peraltro, l’apprezzamento del requisito della specificità – da condurre secondo i canoni ermeneutici applicabili agli atti unilaterali – è riservato al giudice di merito, la cui valutazione è sindacabile in cassazione solo mediante precisa censura, senza limitarsi a prospettare una lettura alternativa a quella svolta nella decisione impugnata (così Sez. L, n. 13667/2018, Tricomi, Rv. 648786-01).

Sul profilo della rilevanza del nesso di correlazione tra contestazione e la motivazione del licenziamento, Sez. L, n. 19023/2018, Lorito, Rv. 649966-01, ha precisato che il principio di necessaria corrispondenza tra addebito contestato e addebito posto a fondamento della sanzione disciplinare, il quale vieta di infliggere un licenziamento sulla base di fatti diversi da quelli contestati, non può ritenersi violato qualora, contestati atti idonei ad integrare un’astratta previsione legale, il datore di lavoro alleghi, nel corso del procedimento disciplinare, circostanze confermative o ulteriori prove, in relazione alle quali il lavoratore possa agevolmente controdedurre.

In applicazione di tale principio è stata confermata la sentenza con la quale era stata accertata la legittimità del licenziamento disciplinare per assenza prolungata del lavoratore dalla sede di lavoro, escludendosi che costituissero fatti estranei alla contestazione l’irreperibilità telefonica del dipendente e la mancata redazione, da parte dello stesso, dei rapporti sull’attività svolta, allegate dal datore nel corso del procedimento e valorizzate dal giudice di merito quali elementi di fatto idonei a definire il contenuto della condotta addebitata.

Quanto alla immediatezza (o tempestività) della contestazione, Sez. L, n. 16841/2018, Boghetich, Rv. 649317-01, ha affermato, sulla scorta di un tradizionale indirizzo, che essa va intesa in senso relativo, dovendosi dare conto delle ragioni che possono cagionare il ritardo (quali il tempo necessario per l’accertamento dei fatti o la complessità della struttura organizzativa dell’impresa), con valutazione riservata al giudice di merito ed insindacabile in sede di legittimità, se sorretta da motivazione adeguata e priva di vizi logici.

Nella specie, è stata ritenuta tardiva la contestazione intervenuta dopo cinque mesi dalla ricezione degli atti del procedimento penale, considerato che i medesimi dati, benché non utilizzabili prima di tale ufficiale acquisizione, erano di fatto già da anni nella disponibilità della società.

Sez. L, n. 29627/2018, Curcio, Rv. 651748-01, ha rimarcato che lede il principio di immediatezza la condotta del datore di lavoro che, a fronte della sostanziale ammissione dei fatti da parte del lavoratore, senza che sussista la necessità di ulteriore istruttoria, glieli contesti a distanza di tre mesi dall’accertamento, poiché il datore di lavoro deve procedere alla contestazione non appena abbia acquisito una compiuta e meditata conoscenza dei fatti oggetto di addebito.

E, con riferimento alla ricorrente fattispecie dell’infrazione disciplinare avente al contempo rilevanza penale, Sez. 6-L, n. 27069/2018, Fernandes, Rv. 651290-01, ha precisato che il principio dell’immediatezza non è violato qualora il datore abbia scelto di attendere l’esito degli accertamenti svolti in sede penale per giungere a contestare l’addebito solo quando i fatti a carico del lavoratore gli appaiano ragionevolmente sussistenti.

Costituisce questione di diritto, sindacabile in sede di legittimità, determinare se l’arco temporale intercorso tra la scoperta dell’illecito disciplinare e la sua contestazione dia luogo, o meno, a violazione del diritto di difesa del lavoratore (Sez. L, n. 23346/2018, Negri Della Torre, Rv. 650566-01).

In relazione al tema dello svolgimento del procedimento disciplinare, Sez. L, n. 07581/2018, Spena, Rv. 647659-01, ha ribadito, in linea con un classico insegnamento, che il datore di lavoro, pur non essendovi obbligato dall’art. 7 st.lav., è tenuto a offrire in consultazione al lavoratore incolpato i documenti aziendali laddove l’esame degli stessi sia necessario al fine di consentirgli un’adeguata difesa, in base ai princìpi di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto, indipendentemente dalla comprensibilità dell’addebito.

Analogamente, Sez. L, n. 27093/2018, De Gregorio, Rv. 651252-01, ha affermato che l’art. 7 della l. n. 300 del 1970 non prevede, nell’ambito del procedimento disciplinare, l’obbligo per il datore di lavoro di mettere a disposizione del lavoratore, nei cui confronti sia stata elevata una contestazione di addebiti di natura disciplinare, la documentazione aziendale relativa ai fatti contestati, restando salva la possibilità per il lavoratore medesimo di ottenere, nel corso del giudizio ordinario di impugnazione del licenziamento irrogato all’esito del procedimento suddetto, l’ordine di esibizione della documentazione stessa. Il datore di lavoro è tenuto, tuttavia, ad offrire in consultazione all’incolpato i documenti aziendali solo in quanto e nei limiti in cui l’esame degli stessi sia necessario al fine di una contestazione dell’addebito idonea a permettere alla controparte un’adeguata difesa; ne consegue che, in tale ultima ipotesi, il lavoratore che lamenti la violazione di tale obbligo ha l’onere di specificare i documenti la cui messa a disposizione sarebbe stata necessaria al predetto fine.

Sempre sul profilo dell’esercizio del diritto di difesa da parte del lavoratore nell’ambito del procedimento disciplinare, Sez. L, n. 32607/2018, Lorito, Rv. 651988-01 ha evidenziato che viola l’art. 7 st. lav., e dunque il diritto del lavoratore alla difesa ed al contraddittorio, non solo il datore che lasci inevasa la richiesta del prestatore di essere personalmente ascoltato, ma anche quello che consideri erroneamente tardive le giustificazioni scritte da questi rese, in realtà tempestive.

In punto di prova della legittimità della sanzione disciplinare, Sez. L, n. 10086/2018, Garri, Rv. 648055-01, ha escluso che la produzione di documentazione medica insufficiente ad attestare la malattia sia elemento da solo idoneo a dimostrare la simulazione, essendo onere della parte che eccepisce la condotta simulata allegare e provare le circostanze di fatto a sostegno di tale assunto.

In merito alla questione dell’idoneità, o meno, di alcune condotte – incidenti sulla altrui riservatezza ed onore – ad integrare illecito disciplinare, si segnalano due significative sentenze.

Sez. L, n. 11322/2018, Marotta, Rv. 648816-01, ha affermato che l’utilizzo a fini difensivi di registrazioni di colloqui tra il dipendente e i colleghi sul luogo di lavoro non necessita del consenso dei presenti, in ragione dell’imprescindibile necessità di bilanciare le contrapposte istanze della riservatezza da una parte e della tutela giurisdizionale del diritto dall’altra e pertanto di contemperare la norma sul consenso al trattamento dei dati con le formalità previste dal codice di procedura civile per la tutela dei diritti in giudizio; ne consegue che è legittima, ed inidonea ad integrare un illecito disciplinare, la condotta del lavoratore che abbia effettuato tali registrazioni per tutelare la propria posizione all’interno dell’azienda e per precostituirsi un mezzo di prova, rispondendo la stessa, se pertinente alla tesi difensiva e non eccedente le sue finalità, alle necessità conseguenti al legittimo esercizio di un diritto.

Sez. L, n. 18176/2018, Balestrieri, Rv. 649797-01, ha evidenziato che l’esercizio da parte del rappresentante sindacale del diritto di critica, anche aspra, sebbene garantito dagli artt. 21 e 39 Cost., incontra i limiti della correttezza formale, imposti dall’esigenza, anch’essa costituzionalmente assicurata (art. 2 Cost.), di tutela della persona umana; ne consegue che, ove tali limiti siano superati con l’attribuzione all’impresa datoriale o a suoi dirigenti di qualità apertamente disonorevoli e di riferimenti denigratori non provati, il suo comportamento può essere legittimamente sanzionato in via disciplinare.

Sul diverso versante della recidiva, Sez. L, n. 13265/2018, Patti, Rv. 649008-01, ha affermato la previsione di essa, in relazione a precedenti mancanze, come ipotesi di recesso datoriale, di cui all’art. 225, comma 4, c.c.n.l. commercio-terziario del 18 luglio 2008, si interpreta nel senso che, per la rilevanza degli episodi pregressi, è necessaria l’irrogazione delle sanzioni, mentre non è sufficiente la mera contestazione, come si desume dall’esegesi letterale della disposizione contrattuale, oltre che dalla previsione dell’art. 7, ultimo comma, st.lav., risolvendosi la diversa opzione ermeneutica in una condizione peggiorativa riservata ai lavoratori dalla contrattazione collettiva.

Peraltro, la contestazione di precedenti provvedimenti sanzionatori del datore di lavoro non richiede – secondo Sez. L, n. 17685/2018, Boghetich, Rv. 649744-01 – che gli stessi siano divenuti definitivi (ossia che siano stati confermati con sentenza passata in giudicato), atteso che la recidiva a fini disciplinari presenta caratteri autonomi rispetto all’omologo istituto regolato dal diritto penale, costituendo espressione di autonomia privata del datore di lavoro, in relazione alla quale l’impugnazione da parte del lavoratore sanzionato è solo eventuale e, in ogni caso, non è causa di sospensione della sua efficacia.

Con riferimento alla rilevante problematica dei rapporti tra sospensione cautelare dal servizio e successiva sanzione disciplinare, Sez. L, n. 16027/2018, Arienzo, Rv. 649357-01, ha precisato, con riguardo a fattispecie peculiare, che all’autoferrotranviere sospeso, ai sensi dell’art. 46, comma 6, all. A, del r.d. n. 148 del 1931, per procedimento disciplinare o per arresto dovuto a causa di servizio, in caso di assoluzione per non aver commesso il fatto, per inesistenza del reato o perché il fatto non costituisce reato, è corrisposto un indennizzo in misura pari alla differenza tra l’assegno alimentare erogato durante la sospensione e lo stipendio maturato nello stesso periodo, mentre non trova applicazione il regime di cui agli artt. 96 e 97 del d.P.R. n. 3 del 1957, avente un differente un ambito soggettivo ed oggettivo.

Sempre in tema, con riferimento al diritto alla restitutio in integrum previsto dal c.c.n.l. Poste del 26 novembre 1993, Sez. L, n. 05060/2018, Garri, Rv. 647477-02, ha affermato che l’art. 33, comma 4, del predetto c.c.n.l., va interpretato nel senso che il diritto in questione – che si perfeziona, sia nella vigenza del d.P.R. n. 3 del 1957 sia a norma della sopravvenuta disciplina collettiva, nel momento in cui interviene l’assoluzione del lavoratore con sentenza passata in giudicato (così Sez. L, n. 05060/2018, Garri, Rv. 647477-01) – è pieno e non soffre condizionamenti quando l’assoluzione del lavoratore non lascia spazio alla valutazione del suo comportamento in sede disciplinare (il che si verifica ove si accerti che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o, ancora, che il fatto è stato compiuto nell’adempimento di un dovere o nell’esercizio di una facoltà legittima) mentre rimane comunque condizionato all’esercizio o meno dell’azione disciplinare in caso di sentenza di proscioglimento per intervenuta amnistia, che non rientra essa tecnicamente tra quelle di assoluzione e non avendo alcuna efficacia extrapenale.

In tema di consumazione del potere disciplinare, Sez. L, n. 27657/2018, Ponterio, Rv. 650993-01, ha affermato che l’avvenuta irrogazione al dipendente di una sanzione conservativa per condotte aventi rilevanza penale esclude che, a seguito del passaggio in giudicato della sentenza di condanna per i medesimi fatti, possa essere intimato il licenziamento disciplinare; non è difatti consentito, per il principio di consunzione del potere disciplinare ed in linea con quanto affermato dalla Corte EDU, nella sentenza 4.3.2014, Grande Stevens ed altri c. Italia (che ha sancito la portata generale, estesa a tutti i rami del diritto “punitivo”, del divieto di ne bis in idem), che una identica condotta sia sanzionata più volte a seguito di una diversa valutazione o configurazione giuridica.

Analogamente, Sez. L, n. 26815/2018, Marchese, Rv. 651238-01, ha affermato che qualora il datore di lavoro abbia esercitato validamente il potere disciplinare nei confronti del prestatore di lavoro in relazione a determinati fatti, complessivamente considerati, non può esercitare, una seconda volta, per quegli stessi fatti singolarmente considerati, il detto potere ormai consumato anche sotto il profilo di una sua diversa valutazione o configurazione giuridica, essendogli consentito soltanto di tener conto delle sanzioni eventualmente applicate, entro il biennio, ai fini della recidiva.

2. Licenziamento individuale.

Nel corrente anno è stato portato a compimento, da un lato, quel necessario processo di consolidamento di orientamenti in precedenza non sufficientemente delineati, le cui più significative linee di fondo si colgono soprattutto in riferimento alle numerose questioni poste dalla disciplina introdotta dalla cd. “legge Fornero”; dall’altro, sono stati maggiormente definiti gli indirizzi volti al superamento, mediante la rivisitazione in chiave evolutiva di alcuni istituti, di insegnamenti da tempo cristallizzati ma ritenuti non più in sintonia con l’assetto complessivo del diritto del lavoro.

Molte sono state, pertanto, le pronunzie di interesse concernenti i vari profili della materia, mentre non si registrano ancora pronunce della Suprema Corte concernenti la disciplina posta dal d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, recante “Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183”.

A tale ultimo riguardo va segnalata la rivelante modifica – apportata, di recente, all’art. 3, comma 1, del predetto d.lgs., ad opera dell’art. 3, comma 1, del cd. “Decreto dignità” (d.l. n. 87 del 2018, recante “Disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese”, conv. in legge n. 96 del 2018) – concernente l’innalzamento della misura dell’indennità risarcitoria, correlata alla declaratoria di illegittimità del licenziamento nell’area della tutela “indennitaria forte”, da quattro a sei mensilità nel minimo e da ventiquattro a trentasei mensilità nel massimo.

Va inoltre fatta menzione della nota sentenza del Giudice delle leggi (Corte cost. 8 novembre 2018, n. 194), che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo il citato art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23 del 2015, n. 23 – sia nel testo originario sia nel testo modificato – limitatamente alle parole «di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio», in tal modo eliminando dal sistema il criterio automatico, fondato sull’anzianità di servizio, di determinazione della predetta indennità, la cui liquidazione resta, pertanto, attualmente affidata al giudice sulla base di parametri concorrenti ricavabili dal sistema (imperniati, oltre che sulla stessa anzianità di servizio, sulle dimensioni dell’azienda, sul numero dei lavoratori occupati e sul comportamento delle parti).

2.1. Riconoscimento di un atto quale licenziamento o meno.

Con riguardo al settore del lavoro nautico, non è stata riconosciuta efficacia risolutiva alla comunicazione di sbarco in un caso in cui, successivamente alla comunicazione in questione, il datore di lavoro aveva preannunciato la cancellazione del lavoratore dal turno particolare. Infatti – secondo Sez. L, n. 10279/2018, Arienzo, Rv. 648761-01 – lo sbarco del marittimo per avvicendamento non costituisce necessariamente un atto di risoluzione del rapporto, in quanto il contratto di arruolamento a tempo indeterminato può essere caratterizzato da sbarchi e successivi nuovi imbarchi, con sospensione, negli intervalli, della prestazione lavorativa.

Neppure la comunicazione effettuata alla Direzione territoriale del lavoro, ai sensi dell’art. 7 della l. n. 604 del 1966, come novellato dall’art. 1, comma 40, della l. n. 92 del 2012, inviata per conoscenza al lavoratore, costituisce atto di recesso, perché contiene solo la manifestazione dell’intenzione del datore di lavoro di procedere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, con l’indicazione dei motivi, essendo finalizzata all’espletamento della procedura conciliativa, in esito alla quale il recesso non è la soluzione obbligata (così Sez. L, n. 21676/2018, Leone, Rv. 650251-01).

2.2. La comunicazione del licenziamento.

Con una significativa pronuncia, Sez. L, n. 23589/2018, Curcio, Rv. 650543-01, ha precisato che, ove il licenziamento sia intimato con lettera raccomandata a mezzo del servizio postale, non consegnata al lavoratore per l’assenza sua e delle persone abilitate a riceverla, la stessa si presume conosciuta alla data in cui, al suddetto indirizzo, è rilasciato l’avviso di giacenza del plico presso l’ufficio postale, restando irrilevante il periodo legale del compimento della giacenza e quello intercorso tra l’avviso di giacenza e l’eventuale ritiro da parte del destinatario.

2.3. La rinnovazione e la reiterazione del licenziamento.

Sulla delicata questione della distinzione tra rinnovazione e convalida del licenziamento orale, Sez. L, n. 22662/2018, Patti, Rv. 650385-01, ha affermato che l’accertamento del giudice di merito, volto a stabilire se una lettera, inviata dal datore di lavoro al lavoratore già licenziato oralmente, configuri una (illegittima) convalida del precedente licenziamento o una nuova manifestazione di recesso, è sindacabile in sede di legittimità non sotto il profilo della ricostruzione della volontà delle parti, o dell’unica parte, in quanto accertamento di fatto non consentito, ma soltanto sul piano della individuazione dei criteri ermeneutici del processo logico del quale il giudice di merito si sia avvalso per assolvere i compiti a lui riservati, al fine di riscontrare errori di diritto o vizi del ragionamento.

Sul tema della reiterazione, Sez. L, n. 19089/2018, Arienzo, Rv. 649968-02, ha ribadito, in conformità ad un orientamento attualmente consolidato, che in tema di licenziamento in regime di tutela reale, ove il datore di lavoro abbia intimato al lavoratore un licenziamento individuale, è ammissibile una successiva comunicazione di recesso dal rapporto da parte del datore medesimo, purché il nuovo licenziamento si fondi su una ragione o motivo diverso, sopravvenuto o, comunque, non conosciuto in precedenza dal datore, e la sua efficacia resti condizionata all’eventuale declaratoria di illegittimità del primo.

Aspetto saliente della sentenza è la ritenuta inefficacia del licenziamento disciplinare irrogato al lavoratore in forza di condotte già note al datore all’epoca di intimazione del primo recesso, sulla scorta del principio di “consumazione del potere”.

Profilo altresì rilevante, emergente dal corpo della motivazione, è che, a fronte dell’inefficacia, è stata applicata la tutela reintegratoria attenuata ex art. 18, comma 4, st.lav.

2.4. La revoca del licenziamento.

Sez. L., n. 12448/2018, Pagetta, Rv. 648969-01, ha chiarito che la previsione della possibilità di revoca del licenziamento, nei termini e con gli effetti di cui all’art. 18, comma 10, st.lav., introdotto dalla l. n. 92 del 2012, è finalizzata a favorire il ripensamento del datore di lavoro, così da sottrarlo alle conseguenze sanzionatorie per il caso di recesso illegittimo, senza che il dato testuale della norma ovvero la sua ratio consentano di configurare un divieto generale di revoca del licenziamento oltre i limiti temporali ivi indicati.

2.5. Non necessità di un nuovo licenziamento in caso di rimozione del titolo giudiziale di ricostituzione del rapporto.

Sez. L, n. 14103/2018, Manna, Rv. 649238-01, ha precisato che l’atto di ricostituzione del rapporto lavorativo, avvenuto in esecuzione di sentenza (ad esempio di reintegra ex art. 18 st.lav.) successivamente riformata o cassata, viene travolto insieme con quest’ultima, in applicazione dell’effetto espansivo esterno di cui all’art. 336, comma 2, c.p.c., che priva di titolo il prosieguo del rapporto dopo che ne sia venuta meno, a monte, l’originaria statuizione di ripristino, senza che sia necessario un atto di recesso da parte del datore di lavoro.

Ne consegue che va respinta l’impugnazione del licenziamento intimato in relazione al rapporto di lavoro ripristinato, che risulta oramai privo del suo titolo costitutivo (così Sez. L, n. 28918/2018, Amendola F., Rv. 651703-01).

2.6. L’impugnazione del licenziamento e la decadenza.

Con riguardo alle questioni concernenti la natura dell’impugnativa stragiudiziale di licenziamento, ex art. 6 della l. n. 604 del 1966, e l’individuazione dei soggetti legittimati alla relativa proposizione, Sez. L, n. 23603/2018, Marotta, Rv. 650623-01, ha affermato che l’impugnativa in questione costituisce un atto negoziale dispositivo e formale che può essere posto in essere unicamente dal lavoratore (oltre che dall’associazione sindacale, cui quest’ultimo aderisca, in forza del rapporto di rappresentanza ex lege), da un suo rappresentante munito di specifica procura scritta o da un terzo, ancorché avvocato o procuratore legale, sprovvisto di procura, il cui operato venga successivamente ratificato dal lavoratore medesimo, sempre che la ratifica rivesta la forma scritta e sia portata a conoscenza del datore di lavoro prima della scadenza del termine di sessanta giorni per impugnare; ne consegue l’inammissibilità della prova testimoniale in ordine all’esistenza dell’atto, ai sensi dell’art. 2725, comma 2, c.c., se non nel caso in cui il documento sia andato perduto senza colpa.

Sulla seconda questione, Sez. L, n. 14212/2018, Marchese, Rv. 648994-01, ha precisato che il termine di decadenza per l’impugnazione del licenziamento può essere interrotto con atto scritto anche di un’organizzazione sindacale, senza che sia necessario il conferimento di una procura ex ante – o la ratifica successiva – da parte del lavoratore. Nella stessa pronunzia è stato altresì puntualizzato che l’art. 6 cit. deve essere interpretato nel senso che l’impugnativa di licenziamento è soddisfatta con l’esercizio, nel termine di sessanta giorni, dell’azione ex art. 28 st.lav. avverso il licenziamento del dipendente. Peraltro, l’impugnazione stragiudiziale – per Sez. L, n. 11416/2018, Pagetta, Rv. 648873-01 -, costituisce, ove contenente l’offerta di prestazioni lavorative, valido atto di costituzione in mora.

Resta fermo che l’impugnativa non è necessaria – v. Sez. 6-L, n. 25561/2018, Esposito, Rv. 650996-01 – avverso il licenziamento verbale, e ciò anche a seguito delle modifiche apportate dall’art. 32 della l. n. 183 del 2010 all’art. 6 della l. n. 604 del 1966, mancando l’atto scritto da cui la norma fa decorrere il termine di decadenza.

Quanto al (secondo) termine di decadenza di cui all’art. 6, comma 2, della l. n. 604 del 1966, come sostituito dall’art. 32, comma 1, della l. n. 183 del 2010 e modificato dall’art. 1, comma 38, della l. n. 92 del 2012, Sez. L, n. 20666/2018, Cinque, Rv. 650124-01, ha affermato, conformemente ad un indirizzo che può oramai dirsi consolidato, che il termine stesso decorre dalla data di trasmissione dell’atto scritto d’impugnazione del licenziamento, di cui al comma 1 del citato art. 6, e non dal perfezionamento dell’impugnazione stessa per effetto della sua ricezione da parte del datore di lavoro.

È stato ribadito – da Sez. L, n. 29429/2018, Ponterio, Rv. 651711-01 – che l’art. 6, comma 2, della l. n. 604 del 1966, come modificato dall’art. 32, comma 1, della l. n. 183 del 2010, va interpretato nel senso che, ai fini della conservazione dell’efficacia dell’impugnazione stragiudiziale del licenziamento, sono da considerare idonei il deposito del ricorso ai sensi dell’art. 414 c.p.c. (poi sostituito, per le domande di impugnativa dei licenziamenti, dal ricorso di cui all’art. 1, commi 48 e ss., della l. n. 92 del 2012) nella cancelleria del giudice del lavoro ovvero, alternativamente, la comunicazione alla controparte della richiesta di conciliazione o arbitrato; non è invece idoneo a tale scopo il ricorso proposto ai sensi dell’art. 700 c.p.c., perché, da un lato, la proposizione di una domanda di provvedimento d’urgenza è incompatibile con il previo tentativo di conciliazione e, dall’altro lato, perché l’assenza, nel sistema della strumentalità attenuata di cui all’art. 669 octies, comma 6, c.p.c., di un termine entro il quale instaurare il giudizio di merito all’esito del procedimento cautelare vanificherebbe l’obiettivo della disciplina introdotta dalla l. n. 183 del 2010, di provocare in tempi ristretti una pronuncia di merito sulla legittimità del licenziamento.

Sempre in tema, Sez. L, n. 14108/2018, Balestrieri, Rv. 649239-01, ha puntualizzato che solo qualora la conciliazione richiesta sia rifiutata o non sia raggiunto l’accordo necessario al relativo espletamento il ricorso al giudice deve essere depositato, a pena di decadenza, entro i sessanta giorni successivi; ove, invece, il tentativo di conciliazione sia stato regolarmente espletato, sia pure con esito negativo, si applica il termine di centottanta giorni per il deposito del ricorso giudiziale, decorrente dalla data dell’impugnazione stragiudiziale, ma il termine rimane sospeso per la durata del tentativo di conciliazione e per i venti giorni successivi alla sua conclusione.

Sez. L, n. 27948/2018, Amendola F., Rv. 651389-01, ha, sul punto, precisato che ove alla richiesta, effettuata dal lavoratore, di tentativo di conciliazione o arbitrato consegua un esplicito rifiuto datoriale – che si perfeziona senza necessità di una sua comunicazione alla DTL -, il lavoratore medesimo è tenuto a depositare, ai sensi dell’ultima parte del comma 2 del citato art. 6, il ricorso al giudice entro il termine di decadenza, decorrente dal rifiuto in questione, di 60 giorni, il quale assume, per la specifica regola che lo prevede, un evidente connotato di specialità che lo rende insensibile alla disciplina generale della sospensione dei termini di decadenza di cui all’art. 410, comma 2, c.p.c.; ne consegue che al predetto termine di sessanta giorni non possono sommarsi i venti giorni previsti in tale ultima disposizione.

Peraltro, la questione di legittimità costituzionale della previsione del predetto (terzo) termine decadenziale è stata ritenuta – da Sez. L, n. 29620/2018, Negri della Torre, Rv. 651723-01 – manifestamente infondata.

Con una pronunzia che non fa registrare precedenti, Sez. L, n. 16591/2018, Cinque, Rv. 649242-01, ha puntualizzato che, in presenza di impugnativa proveniente da un’organizzazione sindacale, ove anche il lavoratore – personalmente o a mezzo di difensore munito di procura speciale – abbia tempestivamente avanzato autonoma impugnativa, il successivo termine decadenziale per la proposizione del ricorso giurisdizionale decorre da quest’ultima impugnazione, rispetto alla quale vi è la certezza della cognizione dell’atto da parte dell’interessato, in una prospettiva di pienezza ed effettività della tutela giudiziaria.

Quanto al profilo della rinunzia all’impugnativa, Sez. L, n. 26674/2018, Patti, Rv. 651200-01, ha affermato che la presentazione di una domanda di impiego presso l’amministrazione dello Stato, ai sensi dell’art. 1, comma 1, della l. n. 98 del 1971, da parte del lavoratore NATO, licenziato a causa di provvedimenti di ristrutturazione, seguita dall’assunzione, costituisce rinuncia implicita alla impugnativa del licenziamento, perché requisito costitutivo della nuova assunzione è la cessazione del pregresso rapporto di lavoro.

Sempre in tema, Sez. L, n. 29922/2018, Leone, Rv. 651642-01, ha precisato che ove il contratto collettivo preveda, per l’ipotesi di cessazione dell’appalto cui sono adibiti i dipendenti, un sistema di procedure idonee a consentire l’assunzione degli stessi, con passaggio diretto e immediato, alle dipendenze dell’impresa subentrante, a seguito della cessazione del rapporto instaurato con l’originario datore di lavoro e mediante la costituzione ex novo di un rapporto di lavoro con un diverso soggetto, la scelta effettuata per la predetta costituzione non implica, di per sé, rinuncia all’impugnazione dell’atto di recesso, dovendosi escludere che si possa desumere la rinuncia del lavoratore ad impugnare il licenziamento o l’acquiescenza al medesimo dal reperimento di una nuova occupazione, temporanea o definitiva, non rivelandosi, in tale scelta, in maniera univoca, ancorché implicita, la sicura intenzione del lavoratore di accettare l’atto risolutivo.

2.7. La tempestività del licenziamento.

Sez. L, n. 6937/2018, Arienzo, Rv. 647541-01, ha affermato che, in tema di licenziamento disciplinare per fatti estranei al rapporto lavorativo aventi rilevanza penale, qualora la contrattazione collettiva tipizzi la condotta idonea a giustificare la sanzione espulsiva collegandola al passaggio in giudicato della sentenza penale di condanna, il differimento del licenziamento a una data successiva a tale evento non si configura come rinuncia all’esercizio del potere disciplinare e non lo rende intempestivo, anche in considerazione del fatto che una condotta estranea al rapporto di lavoro non può dirsi determinante ai fini del venir meno della fiducia del datore di lavoro nel corretto espletamento della prestazione lavorativa fino a che non sia accertata con sentenza penale passata in giudicato.

Quanto al diverso ma connesso profilo dell’interpretazione delle previsioni della contrattazione collettiva che fissano un termine, previa indicazione del momento di decorrenza di quest’ultimo, entro il quale il lavoratore può procedere al licenziamento, Sez. L, n. 18823/2018, Cinque, Rv. 649917-01, ha puntualizzato che la comunicazione del licenziamento é tempestiva, ai sensi dell’art. 55 del c.c.n.l. per i dipendenti di Poste Italiane s.p.a., se inoltrata entro il trentesimo giorno dal termine di scadenza della presentazione delle giustificazioni, come risulta già dal tenore letterale della disposizione – ove si fa riferimento all’invio e non alla ricezione – oltre che dalla natura decadenziale del termine ivi previsto, sicché l’effetto impeditivo di essa va collegato al compimento, da parte del soggetto onerato, unicamente dell’attività necessaria ad avviare il procedimento di comunicazione, purché demandato ad un servizio idoneo a garantire un adeguato affidamento.

Sempre su tale ultimo profilo, Sez. L, n. 09596/2018, Ponterio, Rv. 648184-01, ha precisato che ai sensi dell’art. 8 del c.c.n.l. dell’industria metalmeccanica privata del 20 gennaio 2008, il termine di sei giorni per l’irrogazione del licenziamento decorre dalla consumazione del diritto di difesa, coincidente con la data delle giustificazioni o con quella dell’audizione del lavoratore; ciò in applicazione del principio per cui il lavoratore è libero di discolparsi nelle forme da lui prescelte e, ove chieda espressamente di “essere sentito a difesa”, il datore di lavoro ha l’obbligo della sua audizione.

2.8. La motivazione per relationem.

Sez. 6-L, n. 28471/2018, Ghinoy, Rv. 651735-01, ha precisato che nel procedimento disciplinare a carico del lavoratore, l’essenziale elemento di garanzia in suo favore è dato dalla contestazione dell’addebito, mentre la successiva comunicazione del recesso ben può limitarsi a richiamare quanto in precedenza contestato, non essendo tenuto il datore di lavoro, neppure nel caso in cui la legge o il contratto collettivo prevedano espressamente l’indicazione dei motivi, a descrivere nuovamente i fatti in contestazione, per rendere puntualmente esplicitate le ragioni del provvedimento di irrogazione della sanzione e per manifestare come i rilievi a suo tempo mossi non possano ritenersi abbandonati o superati.

2.9. L’onere della prova concernente la sussistenza del licenziamento.

Sulla nota problematica concernente l’onere della prova circa la riconducibilità – al datore o al prestatore – dell’iniziativa volta a porre fine al rapporto, Sez. L, n. 12552/2018, Garri, Rv. 648982-01, ha affermato che il datore che eccepisca le dimissioni del lavoratore è tenuto a provare le circostanze di fatto indicative dell’intento recessivo e non può limitarsi ad allegare l’allontanamento del lavoratore; ne consegue che, in assenza di atti formali di licenziamento o di dimissioni, a fronte di contrapposte tesi circa la causa di cessazione del rapporto, il giudice di merito è tenuto ad indagare, sulla base delle evidenze istruttorie, il comportamento tenuto dalle parti da cui sia desumibile l’intento consapevole di voler porre fine al rapporto.

Nella fattispecie, la S.C. ha confermato la decisione che aveva ravvisato tale intento nel lavoratore, il quale, dopo essersi allontanato dal servizio senza dare notizie per diversi giorni, era stato contattato dalla società ed aveva dichiarato di non voler proseguire l’attività, sottoscrivendo l’ultima busta paga senza nulla osservare.

Sempre in tema, Sez. L, n. 14202/2018, Arienzo, Rv. 648992-01, ha ribadito, in conformità ad un non recente precedente, che la mancata prova del licenziamento, il cui onere incombe sul lavoratore, non comporta di per sé l’accoglibilità della tesi – eventualmente sostenuta dal datore di lavoro – della sussistenza delle dimissioni o di una risoluzione consensuale, e, ove manchi la prova adeguata anche di tali altri atti estintivi, deve darsi rilievo agli effetti della perdurante sussistenza del rapporto di lavoro, oltre che, in difetto di prestazioni lavorative, anche al principio della non maturazione del diritto alla retribuzione, salvi gli effetti della eventuale mora credendi del datore di lavoro rispetto alla stessa, sul rilievo che, quando è chiesta la tutela cd. reale di cui all’art. 18 st.lav. o all’art. 2 della l. n. 604 del 1966, l’impugnativa del licenziamento comprende la richiesta di accertamento di inesistenza di una valida estinzione del rapporto di lavoro, della vigenza del medesimo e di condanna del datore di lavoro alla sua esecuzione e al pagamento di quanto dovuto per il periodo di mancata attuazione.

Sez. L, n. 25847/2018, Negri della Torre, Rv. 650989-01, ha affermato che qualora il lavoratore deduca di essere stato licenziato oralmente e faccia valere in giudizio la inefficacia o invalidità di tale licenziamento, mentre il datore di lavoro deduca la sussistenza di dimissioni del lavoratore, il materiale probatorio deve essere raccolto, da parte del giudice di merito, tenendo conto che, nel quadro della normativa limitativa dei licenziamenti, la prova gravante sul lavoratore è limitata alla sua estromissione dal rapporto, mentre la controdeduzione del datore di lavoro assume la valenza di un’eccezione in senso stretto, il cui onere probatorio ricade sull’eccipiente ai sensi dell’art. 2697, comma 2, c.c.

Sulla base di tale premessa la S.C. ha confermato la decisione del giudice di merito che aveva ritenuto che il lavoratore non avesse dimostrato la mancata accettazione della propria prestazione lavorativa da parte del datore di lavoro, risultando unicamente una missiva inviata dal difensore del lavoratore oltre un mese dopo l’interruzione del rapporto, nella quale non vi era alcun riferimento a un pregresso licenziamento o a un recesso da parte del lavoratore stesso).

Quanto al profilo della comunicazione del recesso in ipotesi di impiego del servizio postale, Sez. 6-L, n. 19232/2018, Esposito, Rv. 649874-01, ha evidenziato che, ove sia stato contestato il pervenimento a destinazione dell’atto, è necessaria, attraverso l’avviso di ricevimento o l’attestazione di compiuta giacenza, la dimostrazione del perfezionamento del procedimento notificatorio. È così stata esclusa l’operatività della presunzione legale di conoscenza ex art. 1335 c.c. in assenza delle attestazioni circa le attività svolte dall’agente postale incaricato della consegna, con conseguente declaratoria di inefficacia del recesso datoriale.

Ed è stato aggiunto, in materia – da Sez. L, n. 18823/2018, Cinque, Rv. 649917-02 – che la prova dell’arrivo a destinazione dell’atto deve essere particolarmente rigorosa e, se non viene data mediante l’avviso di ricevimento della raccomandata o con l’attestazione del periodo di giacenza di questa presso l’ufficio postale, deve essere fornita con mezzi idonei, anche mediante presunzioni, purché caratterizzate dai requisiti legali della gravità, della precisione e della concordanza.

2.10. Giusta causa e giustificato motivo soggettivo di licenziamento.

Una particolare attenzione va riservata, in ragione del cospicuo numero di pronunce intervenute nell’anno, alla casistica sottoposta al vaglio della Corte come ipotesi di giusta causa e giustificato motivo di licenziamento.

Sul profilo dell’idoneità della condotta del lavoratore a ledere l’elemento fiduciario, Sez. L, n. 23605/2018, Amendola F., Rv. 650624-01, ha affermato che è legittimo il licenziamento disciplinare dell’impiegato di banca che, nell’istruire la pratica di concessione di un fido, appone firme apocrife del cliente e modifica un elemento essenziale dell’accordo contrattuale, quale la scadenza, trattandosi di azioni che violano i doveri di diligenza e fedeltà incidendo irreversibilmente sull’elemento fiduciario del rapporto di lavoro.

Sez. L, n. 01631/2018, Balestrieri, Rv. 646368-01, ha evidenziato che il consapevole utilizzo da parte del lavoratore di un falso certificato, al fine di poter usufruire di un giorno di riposo altrimenti non spettante, può concretare il concetto di giusta causa previsto dall’art. 2119 c.c., derogabile in senso più favorevole al lavoratore solo ove una specifica norma contrattuale collettiva preveda espressamente simile caso come meritevole di una sanzione meno grave.

Costituisce, altresì – per Sez. 6-L, n. 27082/2018, Esposito, Rv. 651291-01 – giusta causa di licenziamento, ai sensi dell’art. 54, comma 6, lett. c), del c.c.n.l. del 2011 per i dipendenti postali, la condotta della dipendente con mansioni di portalettere, che attesti falsamente di avere consegnato l’atto giudiziario al suo destinatario, benché l’avesse effettivamente recapitato alla moglie di costui che ne aveva contraffatto la firma, trattandosi di comportamento connotato da gravità avuto riguardo al dolo della falsità in atto pubblico, alla responsabilità dell’agente postale (la cui affidabilità è garantita con attribuzione di efficacia di piena prova fino a querela di falso), al grave pregiudizio derivante dalla falsità in notificazione di atto giudiziario, alla pericolosità della condotta ed alla sua idoneità a ledere il vincolo fiduciario.

Anche la condotta del direttore di ufficio postale che attesti falsamente di avere verificato l’identità del contraente costituisce, secondo Sez. L, n. 20083/2018, Marotta, Rv. 650117-01, giusta causa di recesso, trattandosi di comportamento connotato da gravità per il ruolo apicale ricoperto dal lavoratore e per il grado di affidamento correlato alle mansioni dallo stesso svolte, a nulla rilevando l’assenza di concreto pregiudizio per la parte datoriale a fronte della potenzialità lesiva delle operazioni irregolarmente compiute, quale elemento costitutivo dell’ipotesi di cui all’art. 54, comma 6, lett. c), del c.c.n.l. del 2011.

Ove si accerti che il periodo di congedo viene utilizzato dal padre per svolgere una diversa attività lavorativa, si configura un abuso per sviamento dalla funzione del diritto, idoneo ad essere valutato dal giudice ai fini della sussistenza di una giusta causa di licenziamento, non assumendo rilievo che lo svolgimento di tale attività contribuisca ad una migliore organizzazione della famiglia (in tal senso Sez. L, n. 00509/2018, Amendola F., Rv. 647192-01).

Con riguardo al diritto di critica da parte del lavoratore nei confronti del datore di lavoro, Sez. L, n. 14527/2018, Boghetich, Rv. 648996-01, ha ritenuto che può essere considerato comportamento idoneo a ledere definitivamente la fiducia che è alla base del rapporto di lavoro l’esercizio del diritto in questione, ove esso avvenga con modalità tali che, superando i limiti della continenza formale, si traduca in una condotta gravemente lesiva della reputazione, con violazione dei doveri fondamentali alla base dell’ordinaria convivenza civile.

Nella specie, la S.C. ha annullato la sentenza che aveva ritenuto esercizio legittimo del diritto di critica la condotta di alcuni lavoratori che, di fronte all’ingresso del fabbricato aziendale, avevano inscenato una macabra rappresentazione del suicidio in effigie dell’amministratore delegato della società, attribuendogli la responsabilità della morte di alcuni dipendenti.

È stata inoltre ritenuta idonea – da Sez. L, n. 10280/2018, Arienzo, Rv. 648762-01 – a ledere il vincolo fiduciario nel rapporto lavorativo la diffusione su facebook di un commento offensivo nei confronti della società datrice di lavoro, integrando tale condotta gli estremi della diffamazione, per la attitudine del mezzo utilizzato a determinare la circolazione del messaggio tra un gruppo indeterminato di persone.

In analoga direzione, Sez. L, n. 19092/2018, Arienzo, Rv. 649921-01, ha confermato la sentenza di appello che aveva ritenuto legittimo il licenziamento disciplinare intimato dall’impresa al proprio dipendente per avere proferito a voce alta, alla presenza del direttore generale e di un lavoratore, frasi ingiuriose all’indirizzo del primo, percepite anche da altri dipendenti e da due ospiti esterni.

Invece, secondo Sez. L, n. 21965/2018, Ponterio, Rv. 650497-01, non costituiscono giusta causa di recesso, in quanto inidonei a ledere il vincolo fiduciario nel rapporto lavorativo, i messaggi contenuti in una chat chiusa o privata contenenti commenti offensivi nei confronti della società datrice di lavoro, in quanto essi, diretti unicamente agli iscritti ad un determinato gruppo e non ad una moltitudine indistinta di persone, realizzano una corrispondenza privata, chiusa e inviolabile e, dunque, inidonea a realizzare una condotta diffamatoria.

Anche il contenuto di uno scritto difensivo che attribuisca al proprio datore di lavoro, in sede di giustificazioni per pregressa contestazione, atti o fatti, pur non rispondenti al vero ma concernenti in modo diretto ed immediato l’oggetto della controversia, ancorché contenga espressioni sconvenienti od offensive (soggette solo alla disciplina prevista dall’art. 89 c.p.c.), non costituisce – secondo Sez. L, n. 16590/2018, Arienzo, Rv. 649314-01 – illecito disciplinare né fattispecie determinativa di danno ingiusto, trattandosi di condotta scriminata dall’art. 598, comma 1, c.p., con portata generale, espressiva del legittimo esercizio del diritto di difesa nell’ambito di procedimento disciplinare ex artt. 24 Cost. e 51 c.p.

Rimanendo in tema di scriminante, Sez. L, n. 23600/2018, Ponterio, Rv. 650621-01, ha affermato che l’esecuzione di un ordine illegittimo impartito dal superiore gerarchico non basta di per sé ad impedire la configurabilità di una giusta causa di recesso, non trovando applicazione nel rapporto di lavoro privato l’art. 51 c.p. in assenza di un potere di supremazia, inteso in senso pubblicistico, del superiore riconosciuto dalla legge.

Sulla rilevante tematica del rilievo da attribuirsi alle condotte poste in essere in ambito extra-lavorativo, è stato ritenuto – da Sez. 6-L, n. 12994/2018, Di Paola, Rv. 649066-01 – che, in materia di licenziamento disciplinare, viola certamente il “minimo etico” la condotta di consumo di sostanze stupefacenti ad opera di un lavoratore adibito a mansioni di conducente di autobus, definite “a rischio”, a prescindere dal mancato riferimento, nell’ambito del r.d. n. 148 del 1931, alla descritta condotta; ed è stato aggiunto che il mancato riferimento in questione non è significativo, avuto riguardo all’epoca di emanazione del detto testo normativo, contemplante l’unico modo, allora in uso, di alterazione della psiche, integrato dallo stato di ubriachezza.

Lo svolgimento di attività extra-lavorativa durante lo stato di malattia configura, secondo Sez. L, n. 26496/2018, Marchese, Rv. 650900-01, la violazione degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, nonché dei doveri generali di correttezza e buona fede, oltre che nell’ipotesi in cui tale attività esterna sia, di per sé, sufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia, anche, nel caso in cui la medesima attività, valutata con giudizio ex ante in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione o il rientro in servizio.

In applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la decisione di merito, la quale aveva ritenuto legittimo il licenziamento di un lavoratore – addetto al lavaggio di automezzi – che, nel periodo di malattia conseguente a “dolenzia alla spalla destra determinata da un lipoma”, aveva svolto presso un cantiere attività di sbancamento di terreno con mezzi meccanici e manuali.

Sempre in tema, Sez. L, n. 01173/2018, Garri, Rv. 647202-01, ha affermato che lo svolgimento in questione contrasta con gli obblighi di buona fede e correttezza nell’esecuzione del rapporto di lavoro, qualora si riscontri, con onere della prova a carico del datore di lavoro, che tale attività costituisce indice di scarsa attenzione del lavoratore alla propria salute e ai relativi doveri di cura e non ritardata guarigione. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva dichiarato illegittimo il licenziamento del lavoratore, in malattia per una distorsione al ginocchio, che durante il periodo di recupero si era dedicato a una moderata attività fisica, consistente in brevi passeggiate e bagni di mare).

Il richiamo ai doveri di buona fede e correttezza é presente anche in Sez. 6-L, n. 14138/2018, Spena, Rv. 649248-01, ove è stato accertato il rispetto dei doveri in questione da parte del lavoratore che, in caso di trasferimento adottato in violazione dell’art. 2103 c.c., abbia opposto il rifiuto di assumere servizio presso la sede di destinazione, con conseguente declaratoria di illegittimità del licenziamento intimato per assenza ingiustificata dal servizio, in ragione dell’offerta della prestazione presso l’ufficio originario e delle addotte esigenze familiari di assistenza dei genitori inabili conviventi, avuto riguardo alla distanza del luogo di nuova destinazione (cfr. anche il capitolo XXVIII, § 6.4, sul tema del rifiuto del dipendente di ottemperare alla disposizione datoriale di trasferimento).

Non è stata considerata – da Sez. L, n. 01374/2018, Manna A., Rv. 647203-01 – idonea a giustificare la misura espulsiva la condotta del lavoratore che, dopo essere stato adibito a mansioni meno gravose in ragione di una patologia non professionale (nella specie, artropatia degenerativa vertebrale), abbia svolto un’attività ludico-sportiva (nella specie, tennis) al di fuori dell’orario lavorativo, senza aver mentito al proprio datore di lavoro, aggravato o esposto al rischio di aggravamento le proprie condizioni di salute, contravvenuto a prescrizioni mediche o omesso di comunicare una guarigione o uno stabile miglioramento della patologia, tale da farlo tornare idoneo alle precedenti più gravose mansioni.

Sul tema dell’accertamento della giusta causa di licenziamento sulla base dell’interpretazione delle clausole collettive contemplanti le infrazioni si registrano significative sentenze.

Sez. L, n. 17513/2018, Marotta, Rv. 649606-01, ha affermato che ai sensi dell’art. 54, comma 6, lett. c), del c.c.n.l. del 14 aprile 2011 per i dipendenti postali, la nozione di pregiudizio alla società o a terzi è costituita non soltanto dal danno patrimoniale ma anche dall’imminente pericolo per l’interesse dei soggetti coinvolti; pertanto comprende la mera compromissione del particolare affidamento riposto dai cittadini in ordine al servizio degli invii raccomandati, scandito da precisi e rilevanti adempimenti.

Nel caso, la S.C. ha ritenuto fortemente pregiudizievole per la società la condotta del dipendente che non aveva recapitato undici avvisi di ricevimento, relativi a raccomandate già consegnate giorni prima, e due di giacenza, di cui risultava, invece, l’avvenuto inserimento nelle cassette dei destinatari.

Sez. L, n. 13265/2018, Patti, Rv. 649008-01 (già citata al § 1) ha puntualizzato che la previsione della recidiva, in relazione a precedenti mancanze, come ipotesi di recesso datoriale, di cui all’art. 225, comma 4, del c.c.n.l. commercio-terziario del 18 luglio 2008, si interpreta nel senso che, per la rilevanza degli episodi pregressi, è necessaria l’irrogazione delle sanzioni, mentre non è sufficiente la mera contestazione.

Sempre in tema, Sez. L, n. 20931/2018, Marchese, Rv. 650095-01, ha affermato che l’art. 64 del c.c.n.l. Settore Mobilità Area «Attività Ferroviarie» del 20 luglio 2012 prevede la sanzione disciplinare del licenziamento senza preavviso per una condotta di mero pericolo che, sul piano soggettivo dell’elemento psicologico, è integrata dal dolo generico, ovvero dalla consapevole scelta di violare la legge, i regolamenti o i doveri scaturenti dal rapporto di lavoro, non essendo, invece, richiesto che il comportamento sia dettato dallo scopo specifico di arrecare un forte pregiudizio all’azienda o a terzi (esprimendo tale principio, la S.C. ha ritenuto legittimo il licenziamento intimato al lavoratore per “abbandono della postazione di conduzione di un treno viaggiante”, ritenendo sufficiente la consapevole inosservanza del divieto di allontanarsi dalla predetta postazione).

E, ancora, Sez. 6-L, n. 16965/2018, Spena, Rv. 649634-01, ha evidenziato che le condotte di uso del telefono cellulare e della sigaretta elettronica durante l’orario di lavoro non sono equiparabili, anche ai fini della recidiva, alla fattispecie di “sospensione dell’attività lavorativa senza giustificato motivo”, prevista come infrazione passibile di licenziamento – se reiterata – dall’art. 192 del c.c.n.l. pubblici esercizi del 20 febbraio 2010, in relazione alle lett. a) e b) del precedente art. 138, comma 7, dello stesso c.c.n.l.; ciò perché la sospensione del lavoro postula una totale (e transitoria) assenza della prestazione da parte del lavoratore, laddove tanto l’uso del telefono cellulare, quanto quello della sigaretta, non sono in sé incompatibili con lo svolgimento, in tutto o in parte, dell’attività lavorativa, deponendo in tal senso, altresì, l’individuazione della contravvenzione al divieto di fumare quale illecito disciplinare suscettibile di sanzione conservativa nel citato art. 138, comma 7, lett. e), c.c.n.l. cit..

Sez. L, n. 23602/2018, Cinque, Rv. 650622-01, ha affermato che qualora il grave nocumento morale e materiale sia parte integrante della fattispecie prevista dalle parti sociali come giusta causa di recesso, occorre accertarne la relativa sussistenza, quale elemento costitutivo che osta alla prosecuzione del rapporto di lavoro, restando preclusa, in caso contrario, la sussunzione del caso concreto nell’astratta previsione della contrattazione collettiva.

In applicazione di tale principio, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che – nell’ipotesi di lavoratore cui erano stati contestati i reati di maltrattamenti in famiglia ed estorsione verso prossimi congiunti, facendo riferimento all’art. 32 del c.c.s.l. del 29 dicembre 2010 – si era limitata a richiamare l’“oggettiva gravità ed odiosità dell’episodio contestato ed il discredito cagionato all’azienda anche al suo interno”, senza indicare elementi concreti idonei a dimostrare l’esistenza di un grave danno all’impresa.

Con riguardo alla delicata tematica dell’insubordinazione, Sez. L, n. 12094/2018, Marotta, Rv. 648390-01, ha evidenziato che il rifiuto opposto dal lavoratore alla richiesta, avanzata dal datore, di svolgimento di compiti aggiuntivi, incompatibili con l’adibizione costante del prestatore ad un impegno lavorativo gravoso nonché ostativi al recupero delle energie psicofisiche ed alla cura degli interessi familiari del medesimo, è legittimo, sicché va esclusa una condotta di insubordinazione, non essendo i provvedimenti datoriali assistiti da una presunzione di legittimità che ne imponga l’ottemperanza fino a contrario accertamento in giudizio.

Ciò posto, la S.C. ha ritenuto legittimo il rifiuto di una guardia giurata – con turni quotidiani di lavoro, mantenuti nel tempo pur in assenza di comprovate esigenze aziendali, con orario dalle 23,55 alle 6.00 e dalle 16.00 alle 22.00 – di eseguire, al di fuori dell’orario di lavoro ordinario, il compito aggiuntivo di riscossione delle fatture.

Sempre in tema, Sez. L, n. 22382/2018, Marotta, 650539-01, ha precisato che l’insubordinazione può risultare da una somma di diverse condotte, e non necessariamente da un singolo episodio, tali da integrare una giusta causa di licenziamento, poiché il comportamento reiteratamente inadempiente posto in essere dal lavoratore – come l’uscita dal lavoro in anticipo e la mancata osservanza delle disposizioni datoriali e delle prerogative gerarchiche – è contraddistinto da un costante e generale atteggiamento di sfida e di disprezzo nei confronti dei vari superiori gerarchici e della disciplina aziendale tale da far venir meno il permanere dell’indispensabile elemento fiduciario.

Ciò posto, è stato ritenuto legittimo il licenziamento intimato al lavoratore che aveva abbandonato in plurime occasioni il proprio posto di lavoro prima della fine del turno, invocando un diritto al “tempo tuta”, si era rifiutato di riprendere il lavoro nonostante l’espresso invito a farlo ed aveva rivolto minacce al capo reparto.

Sul tema dell’accertamento del requisito della proporzionalità della sanzione, Sez. L, n. 12798/2018, Cinque, Rv. 648983-02, ha ribadito, in conformità ad un indirizzo consolidato, che per stabilire se sussiste la giusta causa di licenziamento con specifico riferimento al predetto requisito, occorre accertare in concreto se – in relazione alla qualità del singolo rapporto intercorso tra le parti, alla posizione che in esso abbia avuto il prestatore d’opera e, quindi, alla qualità e al grado del particolare vincolo di fiducia che quel rapporto comportava – la specifica mancanza commessa dal dipendente, considerata e valutata non solo nel suo contenuto obiettivo, ma anche nella sua portata soggettiva, risulti obiettivamente e soggettivamente idonea a ledere in modo irreparabile la fiducia del datore di lavoro.

Su tale premessa la S.C. ha cassato la decisione di merito che aveva ritenuto sproporzionato il licenziamento intimato ad un lavoratore che si era appropriato di due paia di scarpe che l’azienda deteneva per avviarle alla distruzione in quanto corpo del reato, senza considerare il discredito derivatone all’azienda ed il disvalore giuridico e sociale del fatto, a prescindere dalla tenuità del valore del bene sottratto ed indipendentemente dall’esito del procedimento penale.

Invece, Sez. L, n. 23878/2018, Pagetta, Rv. 650552-01, ha chiarito che è corretta la valutazione del giudice di merito circa la non proporzionalità della sanzione espulsiva irrogata al dipendente che abbia attuato – sulla base di specifiche direttive e pressioni dei superiori – pratiche commerciali irregolari (finalizzate all’incremento di fatturato), assumendo rilevanza, quale elemento destinato ad escludere la stessa ipotizzabilità del grave inadempimento, la consapevolezza in capo ai massimi vertici della società datrice nonché la estrema diffusività, in ambito aziendale, delle pratiche in questione

Sul tema, di carattere generale, dei limiti del sindacato di legittimità sui profili attinenti al licenziamento disciplinare, si registrano molteplici, significative pronunzie.

Sez. L, n. 26010/2018, Curcio, Rv. 650899-01, ha specificato che l’accertamento dei fatti ed il successivo giudizio in ordine alla gravità ed alla proporzione della sanzione espulsiva adottata, oltre che alla riconducibilità di detti fatti alle pattuizioni del c.c.n.l. di diritto comune, sono demandati all’apprezzamento del giudice di merito, che deve valutare – anche quando si riscontri l’astratta corrispondenza dell’infrazione contestata alla fattispecie tipizzata contrattualmente -, attraverso un accertamento in concreto, la legittimità e congruità della sanzione inflitta, tenendo conto di ogni aspetto concreto della vicenda, con valutazione che, se sorretta da adeguata e logica motivazione, si sottrae a censure in sede di legittimità.

Sulla stessa linea è Sez. L, n. 27238/2018, Ponterio, Rv. 651262-01, secondo cui il risultato della valutazione cui è pervenuto il giudice di merito in ordine alla riconducibilità, in concreto, della condotta contestata nel paradigma di cui all’art. 2119 c.c., è sindacabile in sede di legittimità sotto il profilo della violazione del parametro integrativo della clausola generale costituito dalle previsioni del codice disciplinare. Al riguardo è stato censurato l’errore di sussunzione nella previsione di cui all’art. 54, comma 6, lett. a) del c.c.n.l. del personale dipendente di Poste Italiane s.p.a., essendo la connivenza, richiesta da tale disposizione, logicamente incompatibile con l’affermazione, contenuta nella sentenza impugnata, di non consapevolezza dell’altrui abuso.

Sez. L, n. 07426/2018, Marotta, Rv. 647669-01, ha ribadito che i concetti di giusta causa di licenziamento e di proporzionalità della sanzione disciplinare costituiscono clausole generali, vale a dire disposizioni di limitato contenuto, che richiedono di essere concretizzate dall’interprete tramite valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi tacitamente richiamati dalla norma, quindi mediante specificazioni che hanno natura giuridica e la cui disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, a condizione però che la contestazione in tale sede contenga una specifica denuncia di incoerenza del giudizio rispetto agli standards esistenti nella realtà sociale e non si traduca in una richiesta di accertamento della concreta ricorrenza degli elementi fattuali che integrano il parametro normativo, accertamento che è riservato ai giudici di merito.

Nello stesso senso, Sez. L, n. 31155/2018, Cinque, in corso di massimazione, ha evidenziato che la sussunzione della fattispecie concreta nella clausola elastica della giusta causa deve essere effettuata secondo standards, conformi ai valori dell’ordinamento, che trovino conferma nella realtà sociale. Detta operazione di sussunzione costituisce specificazione del parametro normativo ed è sindacabile con giudizio nomofilattico quando difetti di coerenza e pertinenza e non rispetti i suddetti standards (nella specie, la S.C. ha ritenuto apodittica ed apparente la motivazione della Corte territoriale che escludeva la gravità della minaccia di morte profferita nei confronti di un superiore peraltro al di fuori di una conversazione animata).

Sez. L, n. 07305/2018, Blasutto, Rv. 647544-01, ha puntualizzato che l’attività di integrazione del precetto normativo di cui all’art. 2119 c.c. (norma cd. elastica), compiuta dal giudice di merito – ai fini della individuazione della giusta causa di licenziamento – non può essere censurata in sede di legittimità allorquando detta applicazione rappresenti la risultante logica e motivata della specificità dei fatti accertati e valutati nel loro globale contesto, mentre rimane praticabile il sindacato di legittimità ex art. 360, n. 3, c.p.c. nei casi in cui gli standards valutativi, sulla cui base è stata definita la controversia, finiscano per collidere con i principi costituzionali, con quelli generali dell’ordinamento, con precise norme suscettibili di applicazione in via estensiva o analogica, o si pongano in contrasto con regole che si configurano, per la costante e pacifica applicazione giurisprudenziale e per il carattere di generalità assunta, come diritto vivente.

Sempre in materia, Sez. 6-L, n. 09396/2018, Ghinoy, Rv. 647874-01, ha evidenziato che rientra nell’attività sussuntiva e valutativa del giudice di merito la verifica della sussistenza della giusta causa, con riferimento alla violazione dei parametri posti dal codice disciplinare del c.c.n.l., le cui previsioni, anche quando la condotta del lavoratore sia astrattamente corrispondente alla fattispecie tipizzata contrattualmente, non sono vincolanti per il giudice, dovendo la scala valoriale ivi recepita costituire uno dei parametri cui fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale di cui all’art. 2119 c.c., attraverso un accertamento in concreto della proporzionalità tra sanzione ed infrazione sotto i profili oggettivo e soggettivo; ne consegue che le parti ben potranno sottoporre il risultato della valutazione cui è pervenuto il giudice di merito all’esame della S.C., sotto il profilo della violazione del parametro integrativo della clausola generale costituito dalle previsioni del codice disciplinare.

Sez. 6-L, n. 28492/2018, Ghinoy, Rv. 651737-01, ha aggiunto che il giudizio di gravità e proporzionalità della condotta rientra nell’attività sussuntiva e valutativa del giudice, purché vengano valorizzati elementi concreti della fattispecie, di natura oggettiva e soggettiva, coerenti con la scala valoriale del contratto collettivo, oltre che con i principi radicati nella coscienza sociale, idonei a ledere irreparabilmente il vincolo fiduciario.

Tanto premesso, la S.C. ha ritenuto legittima la sanzione espulsiva irrogata al lavoratore, resosi responsabile di aggressione fisica ai danni di un collega, pur non essendo tale condotta riconducibile al delitto di rissa, per il quale il c.c.n.l. di settore espressamente la contempla, stante il disvalore concreto di essa, accentuato dalle modalità realizzative, dalla entità delle lesioni unilateralmente cagionate, dal clamore suscitato dalla vicenda nell’ambiente di lavoro.

Resta fermo che è censurabile come violazione di legge la mancata sussunzione nel concetto di giusta causa, quale elaborato dalla giurisprudenza di legittimità, di un comportamento – i.e.: acceso diverbio con il superiore gerarchico, seguito da vie di fatto e lesioni personali – contrario al cd. minimo etico (così Sez. L, n. 19013/2018, Balestrieri, Rv. 649919-01).

Del pari è principio acquisito che non può essere irrogato un licenziamento per giusta causa quando questo costituisca una sanzione più grave di quella prevista dal contratto collettivo in relazione ad una determinata infrazione (così Sez. L, n. 27004/2018, Garri, Rv. 651246-01).

Di una indubbia rilevanza anche le pronunzie concernenti l’onere della prova della giusta causa o del giustificato motivo.

Sez. L, n. 07830/2018, Arienzo, Rv. 647821-01, ha puntualizzato che l’art. 5 della l. n. 604 del 1966 pone il predetto onere, inderogabilmente, a carico del datore di lavoro, sicché il giudice non può avvalersi del criterio empirico della vicinanza alla fonte di prova, il cui uso è consentito solo quando sia necessario dirimere un’eventuale sovrapposizione tra fatti costitutivi e fatti estintivi, impeditivi o modificativi, oppure quando, assolto l’onere probatorio dalla parte che ne sia onerata, sia l’altra a dover dimostrare, per prossimità alla suddetta fonte, fatti idonei ad inficiare la portata di quelli dimostrati dalla controparte (nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di appello secondo cui, in un’ipotesi di licenziamento disciplinare fondato sulla produzione di certificati medici falsi, fosse onere del lavoratore dimostrare la veridicità di detti documenti).

Sez. 6-L, n. 16597/2018, Ghinoy, Rv. 649500-01, ha affermato che il datore di lavoro può limitarsi, nel caso in cui l’addebito sia costituito dall’assenza ingiustificata del lavoratore, a provare il fatto nella sua oggettività, mentre grava sul lavoratore l’onere di provare elementi che possano giustificarlo.

Sul tema specifico della prova indiziaria del licenziamento per giusta causa, Sez. L, n. 18822/2018, Lorito, Rv. 649915-01, ha affermato che è censurabile in sede di legittimità la decisione in cui il giudice si sia limitato a negare valore indiziario agli elementi acquisiti in giudizio senza accertare se essi, quand’anche singolarmente sforniti di valenza indiziaria, non fossero in grado di acquisirla ove valutati nella loro convergenza globale, accertandone la pregnanza conclusiva.

2.11. Giustificato motivo oggettivo di licenziamento.

Nel corrente anno le principali questioni attengono al tema dell’obbligo di repechage.

Al riguardo, Sez. L, n. 21715/2018, Pagetta, Rv. 650261-01, ha affermato che l’ambito del sindacato giurisdizionale, con riferimento all’obbligo del repechage, non può estendersi alla valutazione delle scelte gestionali ed organizzative dell’impresa, espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall’art. 41 Cost.; ne consegue che il detto obbligo non può ritenersi violato quando l’ipotetica possibilità di ricollocazione del lavoratore nella compagine aziendale non è compatibile con il concreto assetto organizzativo stabilito dalla parte datoriale (in applicazione di tale principio, la S.C. ha ritenuto giustificato il recesso datoriale per il fatto che la ricollocazione del dipendente, già inquadrato nell’organico a tempo indeterminato di un ente consortile, sarebbe potuta avvenire in sostituzione di lavoratori impegnati in attività aventi carattere meramente stagionale).

Sul versante degli oneri di allegazione e prova, Sez. L, n. 12794/2018, Balestrieri, Rv. 649007-01, ha affermato che sebbene non sussista un onere del lavoratore di indicare quali siano i posti disponibili in azienda ai fini del repêchage, gravando la prova della impossibilità di ricollocamento sul datore di lavoro, una volta accertata, anche attraverso presunzioni gravi, precise e concordanti, tale impossibilità, la mancanza di allegazioni del lavoratore circa l’esistenza di una posizione lavorativa disponibile vale a corroborare il descritto quadro probatorio.

Sulla base di tale principio, la S.C. ha confermato la legittimità del licenziamento intimato in un contesto occupazionale minimale, di soli sei o sette dipendenti, per soppressione dell’unico posto corrispondente alla qualifica del lavoratore estromesso, senza che quest’ultimo fosse stato in grado di indicare una collocazione alternativa.

Sempre in un’ottica di attenuazione dell’onere probatorio gravante sul datore, Sez. L, n. 30259/2018, Balestrieri, 651677-01, ha precisato che ove il lavoratore, in un contesto di accertata e grave crisi economica ed organizzativa dell’impresa, indichi le posizioni lavorative a suo avviso disponibili e queste risultino insussistenti, tale verifica ben può essere utilizzata dal giudice al fine di escludere la possibilità del repêchage.

Resta fermo che grava sul datore di lavoro l’obbligo di provare – in base a circostanze oggettivamente riscontrabili – che il lavoratore non abbia la capacità professionale richiesta per occupare la diversa posizione libera in azienda, altrimenti il rispetto dell’obbligo di repechage risulterebbe sostanzialmente affidato ad una mera valutazione discrezionale dell’imprenditore (in tal senso Sez. L, n. 23340/2018, Amendola F., Rv. 650564-01).

È stato inoltre – da Sez. L, n. 11166/2018, Amendola F., Rv. 648814-01 – precisato, con riguardo alle forme datoriali, per così dire, complesse, che solo la figura della “codatorialità” ovvero la sussistenza di un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro, impone che l’assolvimento dell’obbligo di repechage sia valutato in relazione a tutte le società del gruppo; pertanto, ai fini di tale estensione, non è sufficiente la mera deduzione dell’esistenza di un gruppo di imprese.

Per il resto, le pronunce investono temi vari, quali quello dell’individuazione della platea dei lavoratori da licenziare, quello dell’impossibilità di svolgimento della prestazione nonché quello dell’infermità sopravvenuta del lavoratore.

Quanto al primo tema, Sez. L, n. 22672/2018, Lorito, Rv. 650388-01, ha affermato che qualora la ristrutturazione aziendale sia riferita ad una specifica unità produttiva, contestualmente soppressa, non è illegittima la decisione aziendale di limitare agli addetti della predetta unità la platea dei lavoratori colpiti da licenziamento, ove risulti l’effettiva impossibilità di utile collocazione nell’assetto organizzativo dell’impresa, non sussistendo alcun automatismo nell’applicazione dei criteri di scelta previsti dall’art. 5 della l. n 223 del 1991 – e non essendo il datore tenuto a motivare al riguardo -, laddove manchi una effettiva scelta tra personale omogeneo e fungibile.

Sulla questione del licenziamento intimato per impossibilità di svolgimento della prestazione, Sez. L, n. 13662/2018, Negri della Torre, Rv. 648823-01, ha puntualizzato che il ritiro del tesserino di accesso all’area aeroportuale determina per l’operatore addetto l’impossibilità di svolgere la prestazione, giustificando la risoluzione del rapporto; la sussistenza dell’impedimento va verificata al momento del recesso, a nulla rilevando l’eventuale successivo superamento della causa di revoca del tesserino e senza che il giudice del lavoro possa sindacare i motivi posti a base del provvedimento amministrativo ovvero disapplicarlo.

In tema di licenziamento intimato per sopravvenuta infermità permanente del lavoratore, Sez. L, n. 20497/2018, Pagetta, Rv. 649924-01, ha sottolineato due importanti principi: in primo luogo, che l’impossibilità della prestazione lavorativa, quale giustificato motivo di recesso del datore di lavoro, viene meno ove il lavoratore medesimo possa essere adibito ad una diversa attività, compatibile con il suo stato di salute, che sia riconducibile – alla stregua di un’interpretazione del contratto secondo buona fede – alle mansioni attualmente assegnate o a quelle equivalenti o, se ciò è impossibile, a mansioni inferiori, purché tale diversa attività sia utilizzabile nell’impresa, in base all’assetto organizzativo insindacabilmente stabilito dall’imprenditore; in secondo, che la verifica dell’esistenza nell’organico aziendale di posizioni adeguate allo stato di salute del dipendente, al fine della corretta applicazione del repechage, deve essere contestuale all’intimazione del licenziamento, cioè al momento nel quale il datore di lavoro decide di recedere dal rapporto in ragione della rilevata incompatibilità del dipendente con le mansioni di originaria adibizione.

In relazione alla analoga problematica dell’inidoneità fisica sopravvenuta del lavoratore, derivante da una condizione di handicap, Sez. L, n. 6798/2018, Spena, Rv. 647606-02, ha affermato che sussiste l’obbligo della previa verifica, a carico del datore di lavoro, della possibilità di adattamenti organizzativi ragionevoli nei luoghi di lavoro ai fini della legittimità del recesso, che discende, pur con riferimento a fattispecie sottratte ratione temporis all’applicazione dell’art. 3, comma 3-bis, del d.lgs. n. 216 del 2003, di recepimento dell’art. 5 della Dir. 2000/78/CE, dall’interpretazione del diritto nazionale in modo conforme agli obiettivi posti dal predetto art. 5.

Facendo applicazione di tali principi, Sez. L, n. 27243/2018, Boghetich, Rv. 651263-01, ha confermato la decisione di merito, che, dopo aver vagliato analiticamente anche la serie di mansioni indicate dal lavoratore inabile, aveva ritenuto assolto l’obbligo datoriale in considerazione dell’accertata insussistenza di mansioni equivalenti o inferiori da affidare al lavoratore stesso, perché incompatibili con l’inabilità ovvero occupate da altri lavoratori con posizioni intangibili.

Con riferimento alla questione specifica del sindacato del giudice sul giudizio di inidoneità al servizio – nella specie degli autisti dipendenti da aziende concessionarie di servizi di linea automobilistica di pubblico trasporto -, Sez. L, n. 21620/2018, Marotta, Rv. 650223-01, ha puntualizzato che il parere della Commissione medica di cui all’art. 29 del r.d. n. 148 del 1931, all. A), non è vincolante per il giudice di merito adito per l’accertamento dell’illegittimità del licenziamento disposto a seguito di giudizio di inidoneità, avendo egli, anche in riferimento ai principi costituzionali di tutela processuale, il potere-dovere di controllare l’attendibilità degli accertamenti sanitari effettuati dalla predetta Commissione.

Quanto, infine, alla nota problematica dello “scarso rendimento”, Sez. L, n. 31763/2018, Cinque, in corso di massimazione, ha affermato che lo scarso rendimento in questione e l’eventuale disservizio aziendale determinato dalle assenze per malattia del lavoratore non possono legittimare, prima del superamento del periodo massimo di comporto, il licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Sulla questione v. anche il § 2.13.

2.12. Licenziamento discriminatorio, ritorsivo o in frode alla legge.

La tematica del licenziamento nullo, in passato relegata in ambito dottrinario, ha fatto registrare, progressivamente, interventi alquanto significativi della S.C..

Sez. L, n. 28926/2018, Patti, Rv. 651392-01, ha affermato che, in tema di divieto di licenziamento per causa di matrimonio, la limitazione alle sole lavoratrici madri della nullità prevista dall’art. 35 del d.lgs. n. 198 del 2006 non ha natura discriminatoria, in quanto la diversità di trattamento non trova la sua giustificazione nel genere del soggetto che presta l’attività lavorativa, ma è coerente con la realtà sociale, che ha reso necessarie misure legislative volte a garantire alla donna la possibilità di coniugare il diritto al lavoro con la propria vita coniugale e familiare, ed è fondata su una pluralità di principi costituzionali posti a tutela dei diritti della donna lavoratrice.

Sul delicato tema della prova della discriminazione, Sez. L, n. 23338/2018, Ponterio, Rv. 650563-01, ha affermato che incombe sull’attore, in forza della attenuazione del regime probatorio ordinario introdotta dalle direttive n. 2000/78/CE, n. 2006/54/CE e n. 2000/43/CE, così come interpretate dalla Corte di Giustizia UE, l’onere di allegare e dimostrare circostanze di fatto dalle quali possa desumersi per inferenza che la discriminazione abbia avuto luogo mentre incombe sul datore di lavoro dimostrare l’insussistenza della stessa. Ne consegue che il lavoratore deve provare il fattore di rischio, il trattamento che assume come meno favorevole rispetto a quello riservato a soggetti in condizioni analoghe, deducendo al contempo una correlazione significativa tra questi elementi mentre il datore di lavoro deve dedurre e provare circostanze inequivoche, idonee ad escludere, per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria del recesso.

Sulla base di tale principio, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva escluso la configurabilità di una condotta discriminatoria nel licenziamento della ricorrente, in forza della dimostrata necessità di riduzione del personale di un’unità e del divieto di recesso nei confronti dell’unica altra dipendente ex art. 54, comma 9, del d.lgs. n. 151 del 2001.

La scissione societaria in frode alla legge determina la nullità dei licenziamenti intimati per giustificato motivo oggettivo se vi è collegamento negoziale tra l’operazione societaria ed i plurimi recessi datoriali, perché in tal modo viene elusa la normativa sui licenziamenti collettivi; ciò posto, Sez. L, n. 19863/2018, Patti, Rv. 650087-01, ha confermato la sentenza di merito che aveva ravvisato la frode sul rilevo che, pur dopo la scissione societaria, tutti i dipendenti continuavano a lavorare per il medesimo soggetto indistinto, nei medesimi luoghi e per la medesima commessa.

Sempre in tema, Sez. L, n. 23042/2018, Marotta, Rv. 650448-01, in riferimento a vicenda peculiare, ha affermato che il licenziamento per giustificato motivo oggettivo disposto per gli stessi motivi già addotti a fondamento di un precedente licenziamento collettivo dichiarato illegittimo (nella specie, soppressione della posizione lavorativa) realizza uno schema fraudolento ex art. 1344 c.c., il cui accertamento deve essere condotto dal giudice di merito in base ad una valutazione unitaria e non atomistica di ulteriori indici sintomatici dell’intento elusivo, quali la mancata ottemperanza del datore all’ordine giudiziale di reintegra e la contiguità temporale del secondo recesso.

Quanto, poi, al delicato tema della prova del licenziamento ritorsivo, Sez. L, n. 20742/2018, De Felice, Rv. 649930-01, ha precisato che il lavoratore deve indicare e provare i profili specifici da cui desumere l’intento ritorsivo quale motivo unico e determinante del recesso, atteso che in tal caso la doglianza ha per oggetto il fatto impeditivo del diritto del datore di lavoro di avvalersi di una giusta causa, o di un giustificato motivo, pur formalmente apparenti (nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata che aveva ritenuto l’intento ritorsivo sulla base di generici riferimenti alle modalità temporali della contestazione e all’inconsistenza degli addebiti).

Sez. L, n. 26035/2018, Ponterio, Rv. 651192-01, ha precisato che l’allegazione, da parte del lavoratore, del carattere ritorsivo del licenziamento intimatogli non esonera il datore di lavoro dall’onere di provare, ex art. 5 della l. n. 604 del 1966, l’esistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo del recesso; solo ove tale prova sia stata almeno apparentemente fornita incombe sul lavoratore l’onere di dimostrare l’illiceità del motivo unico e determinante del recesso.

In applicazione di tale principio, la S.C. ha ritenuto esente da critiche la sentenza che aveva dichiarato nullo un licenziamento collettivo effettuato nei confronti di alcuni dipendenti, desumendone il carattere ritorsivo da gravi e concordanti elementi presuntivi, quali la persistenza nella struttura aziendale dell’unità nella quale lavorava il personale licenziato, l’illegittimità della procedura di mobilità che lo aveva coinvolto e l’adozione di criteri di scelta atti a consentire una selezione assolutamente discrezionale dei lavoratori da licenziare.

Sez. L, n. 30429/2018, Arienzo, Rv. 651751-01, ha affermato che nel nuovo testo dell’art. 18 st.lav. il motivo illecito determinante, ai sensi dell’art. 1345 c.c., rende nullo il licenziamento e giustifica l’applicazione della tutela reintegratoria anche quando non sia unico; inoltre, affinché ne resti escluso il carattere determinante non è sufficiente che il datore di lavoro alleghi l’esistenza di un giustificato motivo oggettivo, essendo necessario che ne provi l’esistenza e l’idoneità a sorreggere da solo il licenziamento, malgrado il concorrente motivo illecito.

Sul tema della diversa distribuzione dell’onere probatorio nelle ipotesi di licenziamento ritorsivo e discriminatorio, è stato affermato – da Sez. L, n. 28453/2018, Leone, Rv. 651701-01 – che la differente natura del licenziamento ritorsivo e di quello discriminatorio comporta quale conseguenza che l’allegazione da parte del lavoratore del carattere ritorsivo del licenziamento intimatogli non esonera il datore di lavoro dall’onere di provare, ai sensi dell’art. 5 della l. n. 604 del 1966, l’esistenza della giusta causa o del giustificato motivo del recesso; solo ove tale prova sia stata almeno apparentemente fornita, incombe sul lavoratore l’onere di dimostrare l’intento ritorsivo e, dunque, l’illiceità del motivo unico e determinante del recesso. Diversamente, nel caso in cui il lavoratore alleghi il carattere discriminatorio del licenziamento, non deve provarsi l’illeceità del motivo unico e determinante del recesso potendo la natura discriminatoria del predetto accompagnarsi ad altro motivo legittimo e comunque rendere nullo il licenziamento.

2.13. Periodo di comporto e licenziamento.

Molte le sentenze di rilievo, in materia, nel corso del corrente anno.

Sul delicato tema dell’onere di specificazione dei giorni di assenza, Sez. L, n. 21042/2018, Patti, Rv. 650160-01, ha affermato che il datore di lavoro non deve individuare, nella motivazione del recesso, i singoli giorni di assenza, potendosi ritenere sufficienti indicazioni più complessive; tuttavia, anche sulla base del novellato art. 2 della l. n. 604 del 1966 che impone la comunicazione contestuale dei motivi, la motivazione deve essere idonea ad evidenziare il superamento del comporto in relazione alla disciplina contrattuale applicabile, dando atto del numero totale di assenze verificatesi in un determinato periodo – essendo invece priva di sufficiente specificazione la mera indicazione del termine finale di maturazione del comporto -, fermo restando l’onere, nell’eventuale sede giudiziaria, di allegare e provare, compiutamente, i fatti costitutivi del potere esercitato.

Sulla questione della tempestività del licenziamento, Sez. L, n. 25535/2018, Marotta, Rv. 650733-01, ha evidenziato che a differenza del licenziamento disciplinare, che postula l’immediatezza del recesso a garanzia della pienezza del diritto di difesa all’incolpato, nel licenziamento per superamento del periodo di comporto per malattia, l’interesse del lavoratore alla certezza della vicenda contrattuale va contemperato con quella del datore di lavoro a disporre di un ragionevole spatium deliberandi, in cui valutare convenientemente la sequenza di episodi morbosi del lavoratore, ai fini di una prognosi di sostenibilità delle sue assenze in rapporto agli interessi aziendali; ne consegue che, in tale caso, il giudizio sulla tempestività del recesso non può conseguire alla rigida applicazione di criteri cronologici prestabiliti, ma costituisce valutazione di congruità che il giudice deve compiere caso per caso, apprezzando ogni circostanza al riguardo significativa.

Sulla base di tale premessa, la S.C. ha confermato la decisione della Corte di merito, che aveva evinto la volontà abdicativa del diritto di recesso da parte del datore, oltre che dal ritardo nella comunicazione del licenziamento, dall’accettazione del rientro in servizio e della prestazione lavorativa per un breve lasso di tempo, nonché dal riconoscimento di un ulteriore periodo di ferie e dalla fissazione della visita di sorveglianza sanitaria del dipendente.

Sul tema specifico del preavviso, Sez. L, n. 18820/2018, Boghetich, Rv. 649916-01, ha precisato che dal combinato disposto dei commi 9 e 10 dell’art. 58 c.c.n.l. del settore credito si desume, avuto riguardo ai canoni esegetici di cui all’art. 1363 c.c., che il preavviso in prossimità della scadenza del periodo di comporto non è dovuto ai lavoratori in possesso dei requisiti pensionistici, in quanto lo stesso è funzionale all’opzione per l’aspettativa non retribuita di cui i predetti lavoratori non possono fruire.

Sull’analogo tema dell’onere di comunicazione dell’imminente scadenza del comporto, Sez. L, n. 20761/2018, De Gregorio, Rv. 650127-01, ha ribadito che la risoluzione del rapporto costituisce la conseguenza di un caso di impossibilità parziale sopravvenuta dell’adempimento, in cui il dato dell’assenza dal lavoro per infermità ha una valenza puramente oggettiva; non rileva, pertanto, la mancata conoscenza da parte del lavoratore del limite cd. esterno del comporto e della durata complessiva delle malattie e, in mancanza di un obbligo contrattuale in tal senso, non costituisce violazione da parte del datore di lavoro dei principi di correttezza e buona fede nella esecuzione del contratto la mancata comunicazione al lavoratore dell’approssimarsi del superamento del periodo di comporto, in quanto tale comunicazione servirebbe in realtà a consentire al dipendente di porre in essere iniziative, quali richieste di ferie o di aspettativa, sostanzialmente elusive dell’accertamento della sua inidoneità ad adempiere l’obbligazione.

In relazione alla problematica del computo, Sez. 6-L, n. 19927/2018, Spena, Rv. 650205-01, ha puntualizzato che per la computabilità nel periodo di comporto delle assenze successive alla scadenza del periodo di aspettativa per malattia previsto dal contratto collettivo è necessario accertare, anche in via presuntiva, che il mancato rientro in servizio del lavoratore – o la sua successiva assenza – siano dovuti ad una condizione di malattia, non essendo invece rilevanti le assenze imputabili ad una scelta volontaria del lavoratore medesimo (nella specie, di non riprendere servizio per mancata accettazione della proposta di trasferimento), fattispecie suscettibile, ove del caso, di valutazione sul diverso piano disciplinare.

Sempre in tema, Sez. L, n. 23877/2018, Garri, Rv. 650551-01, ha affermato che l’art. 32 del c.c.n.l. Mobilità Attività ferroviaria – il quale prevede che qualora l’ultimo evento morboso in atto al termine del periodo di comporto risulti di durata superiore a quaranta giorni il periodo ordinario di dodici mesi si prolunga fino a quindici mesi – utilizza quale parametro la “gravità” della malattia, la cui valutazione, avuto riguardo all’espressione “risulti” adottata dalle parti sociali, va effettuata ex post, non essendo invece necessario che già al momento dello scadere del comporto ordinario la malattia debba essere così grave da richiedere un’assenza di almeno quaranta giorni.

Quanto alla determinazione del comporto per sommatoria, Sez. L, n. 23596/2018, Ponterio, Rv. 650618-02, ha evidenziato che ove la contrattazione non preveda il comporto in questione e non vi siano usi utilmente richiamabili, esso va determinato dal giudice con impiego della cosiddetta equità integrativa. In tal caso le determinazioni del giudice circa i termini cosiddetti interni ed esterni del comporto – durata complessiva delle assenze tollerate e ampiezza del relativo periodo di riferimento – sono censurabili in sede di legittimità solo sotto il profilo della logicità e della congruità della motivazione.

Sugli oneri di allegazione e prova, Sez. L, n. 23596/2018, Ponterio, Rv. 650618-01, ha evidenziato che in difetto di specifica contestazione ovvero in assenza di una chiara e precisa presa di posizione del lavoratore sull’esistenza delle assenze per malattia incluse nel computo del comporto, le stesse risulteranno non controverse e, come tali, non bisognevoli di prova.

Sulla questione dell’ammissibilità di un licenziamento durante la malattia del lavoratore prima della scadenza del comporto, Sez. L, n. 31763/2018, Cinque, Rv. 651924-01, ha chiarito che le regole dettate dall’art. 2110 c.c. per le ipotesi di assenze da malattia del lavoratore prevalgono, in quanto speciali, sulla disciplina dei licenziamenti individuali e si sostanziano nell’impedire al datore di lavoro di porre fine unilateralmente al rapporto sino al superamento del limite di tollerabilità dell’assenza (cosiddetto comporto) predeterminato dalla legge, dalle parti o, in via equitativa, dal giudice, nonché nel considerare quel superamento unica condizione di legittimità del recesso, nell’ottica di un contemperamento tra gli interessi confliggenti del datore di lavoro (a mantenere alle proprie dipendenze solo chi lavora e produce) e del lavoratore (a disporre di un congruo periodo di tempo per curarsi, senza perdere i mezzi di sostentamento); ne deriva che lo scarso rendimento e l’eventuale disservizio aziendale determinato dalle assenze per malattia del lavoratore non possono legittimare, prima del superamento del periodo massimo di comporto, il licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

Quanto, infine, alle conseguenze del licenziamento intimato per superamento del periodo di comporto prima della scadenza di questo, Sez. U, n. 12568/2018, Manna, Rv. 648651-01, ha statuito, a composizione di un contrasto, che il licenziamento in questione è nullo per violazione della norma imperativa di cui all’art. 2110, comma 2, c.c..

In precedenza, all’orientamento convalidato dalle Sezioni Unite, già comunque maggioritario, si opponeva l’indirizzo riconducibile a Sez. L, n. 9037/2001, Putaturo Donati M., Rv. 547888-01 (conforme ad un unico precedente, ovvero a Sez. L, n. 1657/1993, Ravagnani, Rv. 480827-01), secondo cui l’inosservanza del divieto di licenziamento del lavoratore in malattia, fino a quando non sia decorso il cosiddetto periodo di comporto (art. 2110, comma secondo, c.c.), non determina di per sé la nullità della dichiarazione di recesso del datore di lavoro, ma implica, in applicazione del principio della conservazione degli atti giuridici (art. 1367 c.c.), la temporanea inefficacia del recesso stesso fino alla scadenza della situazione ostativa.

Le Sezioni unite hanno ritenuto maggiormente persuasiva la soluzione incentrata sulla nullità, atteso il carattere imperativo dell’art. 2110, comma 2, c.c., che, in combinata lettura con l’art. 1418 stesso codice, non consente soluzioni diverse, essendo il valore della tutela della salute “sicuramente prioritario all’interno dell’ordinamento – atteso che l’art. 32 Cost. lo definisce come «fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività»”. Ed hanno rilevato come la salute non possa essere adeguatamente protetta se non all’interno di tempi sicuri entro i quali il lavoratore, ammalatosi o infortunatosi, possa avvalersi delle opportune terapie senza il timore di perdere, nelle more, il proprio posto di lavoro.

2.14. Divieti di licenziamento.

Sez. L, n. 9736/2018, Blasutto, Rv. 648728-01, ha affermato che il licenziamento della lavoratrice nel periodo compreso tra la data della richiesta delle pubblicazioni e l’anno successivo alla celebrazione delle nozze non può presumersi disposto per causa di matrimonio, con conseguente nullità ai sensi dell’art. 1 della l. n. 7 del 1963, qualora il licenziamento giunga all’esito di un procedimento disciplinare avviato anteriormente alla richiesta delle pubblicazioni, non essendo ravvisabile alcun nesso tra la volontà datoriale di avviare il procedimento e la richiesta di pubblicazioni di matrimonio che intervenga nel corso dello stesso.

2.15. Le conseguenze del licenziamento illegittimo.

Con riguardo al tema della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, Sez. L, n. 16136/2018, Garri, Rv. 649287-02, ha affermato che la predetta reintegrazione può essere disposta anche nei confronti di una società posta in liquidazione (nella specie, in concordato preventivo liquidatorio), allorché l’attività sociale non sia definitivamente cessata e non vi sia stato l’azzeramento effettivo dell’organico del personale.

La reintegra è invece stata esclusa nell’ipotesi in cui al lavoratore in prova siano state assegnate mansioni diverse da quelle previste nel patto; al riguardo Sez. L, n. 31159/2018, Amendola F., in corso di massimazione, ha puntualizzato che, nella predetta ipotesi, il patto non è affetto da alcuna nullità, onde non si determina una conversione – solo per effetto della quale il licenziamento illegittimo é assoggettato alla disciplina dei licenziamenti individuali – del rapporto in prova in rapporto ordinario, poiché si è in presenza di un vizio funzionale della pattuizione accessoria, che ridonda in un inadempimento datoriale; troverà quindi applicazione lo speciale regime del recesso in periodo di prova, sicché il lavoratore avrà diritto o alla esecuzione del patto (e dunque alla prosecuzione della prova) o al risarcimento del danno.

Sulla questione delle organizzazioni di tendenza, non assoggettate al rimedio reintegratorio, Sez. L, n. 16031/2018, Marchese, Rv. 649358-01, ha affermato che é sottratta all’applicazione dell’art. 4 della l. n. 108 del 1990 l’associazione (nella specie, una onlus avente come scopo sociale l’assistenza socio-sanitaria) che, per statuto, non persegue un fine ideologicamente orientato di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto ed operi con criteri di economicità, ossia non semplicemente rivolti al perseguimento dei fini sociali dell’ente ma finalizzati al tendenziale pareggio tra costi e ricavi, restando, a tal fine, irrilevante la distribuzione di utili.

Sempre sul tema della possibilità di “reintegrazione”, Sez. L, n. 16136/2018, Garri, Rv. 649287-01, ha affermato che il conseguimento della pensione di anzianità non integra una causa di impossibilità della reintegrazione nel posto di lavoro del lavoratore illegittimamente licenziato, atteso che la disciplina legale dell’incompatibilità (totale o parziale) tra trattamento pensionistico e percezione di un reddito da lavoro dipendente si colloca sul diverso piano del rapporto previdenziale, determinando la sospensione dell’erogazione della prestazione pensionistica, ma non comporta l’invalidità del rapporto di lavoro.

Quanto al credito risarcitorio conseguente alla declaratoria di illegittimità del licenziamento intimato dal curatore, in caso di fallimento del datore di lavoro, Sez. L, n. 00522/2018, Amendola F., Rv. 647371-01, ha affermato che il lavoratore ha diritto all’ammissione al passivo fallimentare per il credito in questione, corrispondente alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quella della reintegra.

In presenza di un unico centro di imputazione dei rapporti di lavoro, il credito risarcitorio grava in via solidale su tutti i fruitori dell’attività, i quali devono essere considerati responsabili delle obbligazioni che scaturiscono da quel rapporto, in virtù della presunzione di solidarietà prevista dall’art. 1294 c.c., in caso di obbligazione con pluralità di debitori, qualora dalla legge o dal titolo non risulti diversamente; tanto premesso, Sez. L, n. 07704/2018, Marotta, Rv. 647672-01, ha cassato la sentenza di appello che, accertata l’esistenza di un unico centro di imputazione tra le società convenute nonché l’illegittimità del licenziamento, aveva disposto la sanzione della reintegra nei confronti della società formalmente datrice del rapporto di lavoro, condannandola anche al risarcimento del danno, con esclusione dell’obbligo solidale dell’altra società che aveva usufruito ugualmente della prestazione lavorativa (v. sul punto anche il capitolo sul lavoro flessibile, § 11.).

Sulla questione dell’aliunde perceptum e percipiendum, Sez. L, n. 17683/2018, Arienzo, Rv. 649596-01, ha affermato che il datore di lavoro che affermi la detraibilità dall’indennità risarcitoria prevista dal nuovo testo dell’art. 18, comma 4, st.lav., a titolo di aliunde percipiendum, di quanto il lavoratore avrebbe potuto percepire dedicandosi alla ricerca di una nuova occupazione, ha l’onere di allegare le circostanze specifiche riguardanti la situazione del mercato del lavoro in relazione alla professionalità del danneggiato, da cui desumere, anche con ragionamento presuntivo, l’utilizzabilità di tale professionalità per il conseguimento di nuovi guadagni e la riduzione del danno.

Il risarcimento del danno spettante ex art. 18, st.lav. non può essere diminuito degli importi che il lavoratore abbia ricevuto a titolo di pensione, in quanto può considerarsi compensativo del danno arrecatogli dal licenziamento (quale aliunde perceptum) non qualsiasi reddito percepito, bensì solo quello conseguito attraverso l’impiego della medesima capacità lavorativa (così Sez. L, n. 16136/2018, Garri, Rv. 649287-01, cit.).

È stato peraltro precisato – da Sez. L, n. 32330/2018, Negri della Torre, Rv. 652031-02 – che la detrazione dell’aliunde perceptum non può prescindere dal periodo dell’estromissione dal rapporto di lavoro sicché, operando le dodici mensilità come mero limite quantitativo imposto dal legislatore nell’ambito di una operazione di bilanciamento dei contrapposti interessi, il computo va effettuato, entro il limite legale, tenuto conto della decorrenza del risarcimento dalla data del recesso, dovendosi escludere che tale diritto possa essere ridotto o annullato in conseguenza della durata del giudizio.

Quanto al vecchio testo dell’art. 18 st.lav., Sez. L, n. 06895/2018, Leone, Rv. 647506-01, ha affermato che esso – prevedendo, in caso di invalidità del licenziamento, la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore per effetto del licenziamento stesso, mediante corresponsione di una indennità commisurata alla retribuzione non percepita – stabilisce una presunzione iuris tantum di lucro cessante il cui presupposto è l’imputabilità al datore di lavoro dell’inadempimento, fatta eccezione per la misura minima del risarcimento, consistente in cinque mensilità di retribuzione, la quale è assimilabile ad una sorta di penale; né la misura del risarcimento può essere ridotta con riguardo alle conseguenze dannose riferibili al tempo impiegato per la tutela giurisdizionale, stante l’esistenza di norme che consentono ad entrambe le parti del rapporto di promuovere il giudizio ed interferire nell’attività processuale.

Sempre con riferimento alla disciplina previgente, è stato affermato – da Sez. L, n. 33379/2018, Lorito, in corso di massimazione – che l’illegittimo licenziamento è fonte di responsabilità contrattuale e non extracontrattuale, con la conseguenza che il diritto del lavoratore al risarcimento del danno resta assoggettato all’ordinaria prescrizione decennale, anziché a quella quinquennale.

Sul tema del diritto di opzione per l’indennità sostitutiva della reintegra, Sez. L, n. 02139/2018, Curcio, Rv. 646401-01, ha specificato che il diritto in questione sorge con la sentenza dichiarativa dell’illegittimità del licenziamento e permane fino alla scadenza del termine di decadenza, decorrente dall’invito del datore alla ripresa del servizio o dalla comunicazione del deposito della sentenza contenente l’ordine di reintegrazione, ex art. 18, comma 5, st.lav. ratione temporis vigente; fino a tale momento il diritto del lavoratore di ottenere l’indennità fa parte del patrimonio giuridico del medesimo e risulta insensibile alle cause sopravvenute impeditive del concreto ripristino del rapporto, quali ad esempio l’intimazione di un nuovo licenziamento.

Sempre in tema, Sez. 6-L, n. 19480/2018, De Marinis, Rv. 64998-01, ha precisato che ai fini del decorso del termine di decadenza per l’esercizio dell’opzione (nel testo anteriore alle modifiche apportate dalla l. n. 92 del 2012), assume rilevanza la conoscenza effettiva e completa da parte del lavoratore della sentenza dichiarativa dell’illegittimità del licenziamento, a prescindere dalla comunicazione di avvenuto deposito della stessa da parte della cancelleria, situazione che ricorre nell’ipotesi di lettura integrale in udienza della sentenza con motivazione contestuale.

Inoltre, ai fini del predetto esercizio del diritto di opzione, l’ordinanza di reintegrazione pronunziata all’esito della fase sommaria del cd. rito Fornero è equipollente alla sentenza, testualmente prevista in detta norma, trattandosi di provvedimento immediatamente esecutivo e suscettibile di passaggio in giudicato in assenza di opposizione, avuto anche riguardo alla finalità dell’istituto del diritto di opzione, quale strumento di semplificazione dei rapporti in funzione transattiva della controversia (in tal senso Sez. L, n. 16024/2018, Amendola F., Rv. 649355-01).

Quanto alla prova delle dimensioni dell’azienda, Sez. L, n. 19729/2018, De Gregorio, Rv. 649989-01, ha affermato, pur con riferimento alla questione del regime di prescrizione applicabile ai crediti retributivi, che il presupposto della stabilità del rapporto di lavoro può essere accertato dal giudice anche mediante ricorso al fatto notorio, costituito dalla comune conoscenza a livello nazionale o locale delle dimensioni di un’azienda e del conseguente numero di lavoratori occupati alle sue dipendenze, eccedente il limite stabilito dall’art. 18 st.lav..

Infine, in materia di computo dei prestatori di lavoro ai fini dell’applicabilità dell’art. 18 st.lav. (nel testo anteriore alle modifiche di cui alla l. n. 92 del 2012), Sez. L, n. 31653/2018, Ponterio, in corso di massimazione, ha precisato che non devono essere considerati i lavoratori con contratto di inserimento, atteso che l’art. 59, comma 2, del d.lgs. n. 276 del 2003 esclude specificamente detti lavoratori dal computo dei limiti numerici previsti dalla legge e dalla contrattazione collettiva per l’applicazione di particolari normative e istituti, con conseguente impossibilità di estensione analogica della disciplina dettata dal comma 2 dello stesso art. 18 cit. per i contratti di formazione e lavoro.

2.16. Licenziamento del socio di società cooperativa di produzione e lavoro.

Il tema più rilevante rimane quello dei limiti e delle condizioni per la ricostituzione del rapporto.

Al riguardo, Sez. L, n. 21566/2018, Marchese, Rv. 650256-01, ha affermato, sulla linea della nota pronuncia delle sezioni unite emanata lo scorso anno, che la delibera di esclusione del socio lavoratore dalla cooperativa costituisce presupposto costitutivo della tutela reintegratoria di cui all’art. 18 st.lav. sicché, ove il socio lavoratore impugni il licenziamento intimatogli dalla cooperativa, detta tutela resta preclusa qualora non sia impugnata anche la delibera di esclusione fondata sulle medesime ragioni del licenziamento.

Sul tema del momento di decorrenza del termine per proporre opposizione avverso la delibera di esclusione ai sensi dell’art. 2533 c.c., Sez. L, n. 19090/2018, Ponterio, Rv. 649969-01, ha evidenziato che non è necessaria la comunicazione di addebiti rigorosamente enunciati, dovendo l’esigenza di specificità della contestazione ritenersi soddisfatta allorquando le indicazioni fornite consentano di individuare le ragioni dell’esclusione, così da porre il socio in condizione di predisporre la difesa.

Inoltre, con una rilevante pronuncia, Sez. L, n. 17989/2018, Ponterio, Rv. 649810-01, ha precisato che il rapporto di lavoro del socio lavoratore di cooperativa è assistito dalla garanzia di stabilità (onde il decorso della prescrizione in costanza di rapporto), poiché, in caso di licenziamento, la maggiore onerosità per il conseguimento della tutela restitutoria, legata, oltre che all’impugnativa del licenziamento stesso, anche alla tempestiva opposizione alla contestuale delibera di esclusione, non può, di per sé, definirsi equivalente ad una condizione di metus caratterizzante lo svolgimento del rapporto lavorativo, tale da indurre il socio lavoratore a non esercitare i propri diritti per timore di perdere il posto di lavoro.

2.17. Il licenziamento del dirigente.

Il tema di spicco è sempre quello concernente l’individuazione del concetto di “giustificatezza”.

Sez. L, n. 23894/2018, Amendola F., Rv. 650549-01, ha ribadito che ai fini dell’indennità supplementare prevista dalla contrattazione collettiva in caso di licenziamento del dirigente, la “giustificatezza” – la cui nozione contrattuale, al fine della legittimità del licenziamento, si discosta da quella di giustificato motivo di licenziamento contemplata dall’art. 3 della l. n. 604 del 1966 – non deve necessariamente coincidere con l’impossibilità della continuazione del rapporto di lavoro e con una situazione di grave crisi aziendale tale da rendere impossibile o particolarmente onerosa tale prosecuzione.

Analogamente Sez. 6-L, n. 27199/2018, Ghinoy, Rv. 651292-01, ha affermato che la nozione contrattuale di giustificatezza della risoluzione si discosta, sia sul piano soggettivo che oggettivo, da quella di giustificato motivo, trovando la sua ragion d’essere, da un lato, nel rapporto fiduciario che lega il dirigente al datore di lavoro in virtù delle mansioni affidate, e, dall’altro, nello stesso sviluppo delle strategie di impresa che rendano nel tempo non pienamente adeguata la concreta posizione assegnata al dirigente nella articolazione della struttura direttiva dell’azienda.

2.18. Il licenziamento del lavoratore in età pensionabile.

Le sentenze meritevoli di segnalazione riguardano la nota questione relativa alle modalità di risoluzione del rapporto.

Sez. L, n. 06157/2018, Garri, Rv. 647529-01, ha affermato che, nell’ambito del rapporto di lavoro privato, il compimento dell’età pensionabile da parte del lavoratore non ha effetti risolutivi automatici, ma determina l’inizio del regime di recedibilità ad nutum, attribuendo al datore di lavoro il potere di far cessare immediatamente il rapporto, purché il lavoratore, fuori dall’ipotesi di recesso per giusta causa, abbia avuto la possibilità di giovarsi del periodo di preavviso grazie a una tempestiva intimazione del licenziamento ai sensi dell’art. 2118 c.c., valida anche se intervenuta durante il periodo di recedibilità causale; è pertanto legittimo, e non dà diritto all’indennità sostitutiva del preavviso, il licenziamento intimato prima del raggiungimento dell’età pensionabile, ma destinato a produrre effetto solo a decorrere da tale data.

Inoltre, è stato puntualizzato – da Sez. L, n. 13181/2018, Amendola F., Rv. 648984-01 – che la possibilità del recesso ad nutum, con sottrazione del datore all’applicabilità del regime dell’art. 18 st.lav., è condizionata non alla mera maturazione dei requisiti anagrafici e contributivi idonei per la pensione di vecchiaia, ma al momento in cui la prestazione previdenziale è giuridicamente conseguibile dall’interessato, ai sensi dell’art. 12, comma 1, del d.l. n. 78 del 2010, conv. con modif. in l. n. 122 del 2010.

Ancora, Sez. L, n. 13181/2018, Amendola F., Rv. 648984-02, ha precisato che il compimento dell’età pensionabile, come il possesso dei requisiti per la pensione di vecchiaia, non determinano l’automatica estinzione del rapporto di lavoro, ma solo la cessazione del relativo regime di stabilità; conseguentemente, nel caso in cui tali condizioni si perfezionino nel periodo intercorrente tra la data del licenziamento e quella della sentenza con cui venga accertata l’insussistenza di una sua idonea giustificazione, non è preclusa l’emanazione del provvedimento di reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro ex art. 18 l. n. 300 del 1970, mentre il rapporto di lavoro è suscettibile di essere estinto solo per effetto di valido (diverso) negozio di recesso.

Quanto alla cessazione del rapporto per raggiunti limiti di età dei lavoratori dello spettacolo appartenenti alle categorie dei tersicorei e ballerini, Sez. L, n. 12108/2018, Lorito, Rv. 649001-01, ha affermato che l’art. 3, comma 7, del d.l. n. 64 del 2010, conv., con modif., in l. n. 100 del 2010, nel determinare in quarantacinque anni l’età pensionabile, ha previsto, per coloro che abbiano maturato tale condizione nel biennio successivo all’entrata in vigore della legge di conversione, la facoltà di esercitare opzione, rinnovabile annualmente, per restare in servizio nei previgenti limiti di età; dopo il rituale esercizio dell’opzione, il licenziamento motivato con il compimento dell’età e il possesso dei requisiti pensionistici è nullo per contrarietà a norma imperativa, ai sensi dell’art. 1418 c.c., con conseguente applicazione della tutela reintegratoria di cui all’art. 18, comma 1, st.lav..

Con la stessa pronuncia – Sez. L, n. 12108/2018, Lorito, Rv. 649001-02 – è stato puntualizzato che la disciplina transitoria di cui alla sopra richiamata disposizione introduce una discriminazione fondata sul sesso laddove diversifica il limite massimo di età pensionabile previsto per le donne (quarantasette anni) e per gli uomini (cinquantadue); ne consegue la diretta disapplicabilità della norma in contrasto con l’art. 14, par. 1, lett. c) della direttiva 2006/54/CE, senza necessità di promuovere incidente di costituzionalità, sia per la natura non obbligante della sentenza del 14 dicembre 2018, n. 269 della Corte cost., sia perché nella specie la questione è già stata sottoposta alla Corte di Giustizia UE, che, con ordinanza del 7 febbraio 2018 (proc. riuniti C-142/17 e C-143/17) si è espressa nel senso della violazione della direttiva, in assenza di richiami alla Carta di Nizza.

2.19. Il preavviso.

Sez. 6-L, n. 27294/2018, Spena, Rv. 651295-01, dopo aver riaffermato che, in tema di contratto di lavoro a tempo indeterminato, l’art. 2118 c.c. attribuisce al preavviso di licenziamento efficacia meramente obbligatoria e non reale, ha puntualizzato che il giudice di merito deve considerare l’eventuale diversa disciplina pattizia, come l’art. 35, comma 6, del c.c.n.l. dei Dirigenti Terziario Commercio, in base al quale il preavviso, anche se non lavorato, riveste efficacia reale, con la conseguenza che, durante tale periodo, si applicano le disposizioni relative ai trattamenti economici e previdenziali ed eventuali modifiche di legge o di contratto incidenti sui trattamenti retributivi posti a base dell’indennità sostitutiva (art. 2118, comma 2, c.c.) e continuano ad avere rilievo eventi sopravvenuti, quali la malattia.

2.20. Applicazioni della legge “Fornero”.

Le questioni innescate, in materia, dalla riforma del 2012, hanno nel corrente anno trovato, in buona parte, definitiva soluzione.

Per comodità di trattazione verranno dapprima esaminate quelle concernenti il licenziamento disciplinare e, successivamente, le altre, relative al recesso per giustificato motivo oggettivo.

Con riferimento alla nozione di “insussistenza del fatto contestato”, di cui all’art. 18, comma 4, st.lav., Sez. L, n. 25717/2018, Marchese, Rv. 650946-02, ha puntualizzato che essa include l’ipotesi della mancata prova della commissione del fatto controverso da parte del datore di lavoro ex art. 5 l. n. 604 del 1966.

Sul piano descrittivo la nozione stessa – per Sez. L, n. 14192/2018, Pagetta, Rv. 648989-01 – si configura, ove la contestazione abbia avuto ad oggetto una pluralità di addebiti o un’unica articolata condotta, solo qualora sul piano fattuale possa escludersi la realizzazione di un nucleo minimo di condotta – fra i fatti oggetto di contestazione – di per sé solo astrattamente idoneo a giustificare la sanzione espulsiva.

Sez. 6-L, n. 25949/2018, Spena, Rv. 651001-01, ha puntualizzato che qualora il fatto accertato rientri fra la le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili, è corretta l’individuazione del regime sanzionatorio nel comma 4 dell’art. 18 st.lav. (nel caso specifico, è stata esclusa la prova della condotta di appropriazione indebita di merce e la contestata insubordinazione è stata derubricata in “esecuzione con negligenza del lavoro affidato”, fattispecie sanzionata con la multa dall’art. 215 del c.c.n.l. terziario).

Ove il datore di lavoro contesti un fatto non sanzionabile, per essere già stato esercitato in relazione ad esso il potere punitivo mediante l’irrogazione di una sanzione conservativa, quel fatto deve ritenersi privo del carattere dell’antigiuridicità; sulla base di tale premessa Sez. L, n. 27657/2018, Ponterio, Rv. 650993-02, ha ritenuto che, in tal caso, spetta al lavoratore la tutela reintegratoria ex art. 18, comma 4, st.lav., novellato.

L’ipotesi del difetto di proporzionalità non è riconducibile al comma 4 dell’art. 18 st.lav. (in tal senso Sez. L, n. 12102/2018, Balestrieri, Rv. 648979-01).

Nel senso che il difetto di proporzionalità non codificato dalla contrattazione collettiva rientri tra le “altre ipotesi” per le quali l’art. 18, comma 5, st.lav., riconosce la tutela indennitaria forte, si è espressa anche Sez. L, n. 18823/2018, Cinque, Rv. 649917-03, che ha cassato la sentenza di merito che, ritenuta l’insussistenza della giusta causa, perché il rifiuto della lavoratrice di prendere possesso presso la nuova sede, in pendenza di contenzioso sul trasferimento, non poteva essere considerato un inadempimento grave, aveva applicato la tutela reintegratoria in luogo di quella indennitaria cd. forte. (sul tema del rifiuto del dipendente di ottemperare alla disposizione datoriale di trasferimento cfr. anche il capitolo sugli obblighi e diritti del prestatore di lavoro, § 6.4).

Analogamente, Sez. L, n. 25534/2018, Marchese, Rv. 650732-01, ha evidenziato che qualora vi sia sproporzione tra sanzione e infrazione, va riconosciuta la tutela risarcitoria se la condotta in addebito non coincida con alcuna delle fattispecie per le quali i contratti collettivi ovvero i codici disciplinari applicabili prevedono una sanzione conservativa; in tal caso il difetto di proporzionalità ricade tra le “altre ipotesi” di cui all’art. 18, comma 5, st.lav., ed è accordata la tutela indennitaria cd. forte.

Sulla base di tale principio, la S.C. ha cassato la decisione di merito che aveva ordinato la reintegra, a fronte dell’accertato svolgimento da parte del lavoratore, in periodo di malattia certificata, di attività lavorativa a titolo oneroso presso altro datore di lavoro, trattandosi di condotta non rientrante tra quelle tipizzate e punite con sanzione conservativa dal c.c.n.l..

Sempre in tema è stato ritenuto – da Sez. L, n. 26013/2018, Curcio, Rv. 651037-02 – che l’accesso alla tutela reale di cui all’art. 18, comma 4, st.lav., presuppone una valutazione di proporzionalità della sanzione conservativa al fatto in addebito, tipizzata dalla contrattazione collettiva, mentre nei casi in cui il c.c.n.l. operi una riserva per le infrazioni di maggiore gravità, rimettendo al giudice di valutare l’esistenza di un simile rapporto di proporzione in connessione al contesto, spetta la tutela indennitaria, ricadendosi nell’ambito applicativo di cui all’art. 18, comma 5. st.lav. (fattispecie in cui la S.C. ha cassato la decisione di merito che aveva disposto la reintegra a fronte della previsione, contenuta nel c.c.n.l., della sanzione conservativa per la condotta illecita consistente nel “rivolgere a colleghi o terzi frasi offensive”, senza considerare il carattere esemplificativo dell’indicazione né la clausola di salvezza per i casi di maggiore gravità).

Sulla stessa linea, Sez. L, n. 32500/2018, Ponterio, Rv. 652034-01, ha ribadito che la tutela reintegratoria attenuata è applicabile in presenza di una valutazione di non proporzionalità attraverso il parametro della riconducibilità della condotta accertata ad una ipotesi punita con sanzione conservativa dalla contrattazione collettiva.

La tutela indennitaria forte è altresì riconoscibile nell’ipotesi di violazione del principio di tempestività (od immediatezza) della contestazione che si traduca in un ritardo notevole ed ingiustificato.

Al riguardo Sez. 6-L, n. 12231/2018, Di Paola, Rv. 648683-01, ha ribadito, in conformità alla soluzione cui è pervenuta lo scorso anno la S.C a sezioni unite (Sez. U, n. 30985/2017, Berrino, Rv. 646738-01), che la predetta violazione comporta l’applicazione della tutela indennitaria “forte” nella misura prevista dal comma 5 dello stesso art. 18.

E a tale ultimo riguardo è stato precisato – da Sez. 6-L, n. 12231/2018, Di Paola, Rv. 648683-02 – che il riconoscimento della violazione del principio di tempestività, avente natura sostanziale, presuppone l’avvenuto accertamento di un ritardo notevole ed ingiustificato nella formulazione della contestazione, con la conseguenza che tale ritardo, unitamente alla lesione del diritto di difesa che ne deriva, non è suscettibile di autonoma valutazione rispetto alla suddetta violazione, al preteso fine di escludere l’applicabilità della tutela indennitaria “forte” prevista dall’art. 18, comma 5, st.lav..

La tutela indennitaria “debole” di cui al comma 6 resta invece limitata all’ipotesi, integrante violazione di natura procedurale, di contestazione avvenuta oltre i termini previsti dalla legge o dal contratto collettivo (così Sez. 6-L, n. 12231/2018, Di Paola, Rv. 648683-01, cit., in conformità a Sez. U, n. 30985/2017, Berrino, Rv. 646738-02).

L’applicabilità della tutela indennitaria forte è stata ravvisata – da Sez. L, n. 19632/2018, Garri, Rv. 649985-01 – in un caso in cui la contestazione era stata formulata in modo specifico soltanto per una parte dell’addebito, sulla cui base la sanzione del licenziamento era stata poi ritenuta sproporzionata; il passo rilevante della pronunzia è quello in cui si afferma che ove la contestazione sia stata formulata in maniera generica per una parte dell’addebito, è corretto l’operato del giudice di merito che abbia valutato, ai fini della verifica circa la legittimità, o meno, della sanzione, solo i fatti specificamente contestati, senza tener conto dei fatti genericamente indicati.

Il che ha come naturale implicazione che la contestazione totalmente generica equivale ad assenza di contestazione.

La violazione del termine di cui all’art. 21, n. 2, comma 3, del c.c.n.l. gas e acqua del 2011, secondo cui, se il provvedimento disciplinare non viene emanato nei dieci giorni lavorativi successivi al quinto giorno dal ricevimento della contestazione, le giustificazioni si riterranno accolte, non integra una mera violazione di natura procedimentale ma comporta la totale mancanza della giusta causa per effetto dell’ammissione del datore di lavoro dell’insussistenza della condotta illecita sanzionata; ne deriva – secondo Sez. L, n. 21569/2018, Marotta, Rv. 650246-01 – che, in tale ipotesi, la tutela applicabile è quella di cui all’art. 18, comma 4, della l. n. 300 del 1970 e non quella di cui al comma 6 della predetta norma.

In tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo sono intervenute sentenze significative sulla portata dell’espressione “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento” di cui all’art. 18, comma 7, st.lav..

Sez. L, n. 10435/2018, Boghetich, Rv. 648343-01, ha affermato che la verifica del requisito della “manifesta insussistenza del fatto”, concerne entrambi i presupposti di legittimità del recesso e, quindi, sia le ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa sia l’impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore (cd. repêchage); fermo l’onere della prova che grava sul datore di lavoro ai sensi dell’art. 5 della l. n. 604 del 1966, la “manifesta insussistenza” va riferita ad una evidente, e facilmente verificabile sul piano probatorio, assenza dei suddetti presupposti, che consenta di apprezzare la chiara pretestuosità del recesso.

Su tale ultimo aspetto, in senso analogo, Sez. L, n. 16702/2018, Balestrieri, Rv. 649488-01, ha chiarito che il predetto requisito è da intendersi come chiara, evidente e facilmente verificabile assenza dei presupposti di legittimità del recesso, cui non può essere equiparata una prova meramente insufficiente.

Nell’alveo della manifesta insussistenza del fatto è sussumibile – per Sez. L, n. 31496/2018, Cinque, Rv. 652015-01 – l’assenza di nesso causale fra recesso datoriale e motivo addotto a suo fondamento, stante la connotazione di particolare evidenza che assume, in tal caso, la mancanza di un elemento oggettivo della fattispecie.

Peraltro, è stato puntualizzato – da Sez. L, n. 10435/2018, Boghetich, Rv. 648343-02 – che ove il giudice accerti il requisito della “manifesta insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento”, può scegliere di applicare la tutela reintegratoria di cui al comma 4 del medesimo art. 18, salvo che, al momento di adozione del provvedimento giudiziale, tale regime sanzionatorio non risulti incompatibile con la struttura organizzativa dell’impresa e dunque eccessivamente oneroso per il datore di lavoro; in tal caso, nonostante l’accertata manifesta insussistenza di uno dei requisiti costitutivi del licenziamento, potrà optare per l’applicabilità della tutela indennitaria di cui al comma 5.

La violazione dei criteri di correttezza e buona fede nella scelta tra lavoratori adibiti allo svolgimento di mansioni omogenee dà luogo alla tutela indennitaria, dovendosi escludere che ricorra, in tal caso, la manifesta insussistenza delle ragioni economiche poste a fondamento del recesso (in tal senso Sez. L, n. 19732/2018, Amendola F., Rv. 649990-01).

Quanto alle conseguenze derivanti dal licenziamento intimato per inidoneità fisica o psichica in difetto di verifica circa la mancanza di posti di lavoro con mansioni idonee, Sez. L, n. 26675/2018, Lorito, Rv. 651201-01, ha affermato che, in applicazione dell’art. 18, comma 7, st.lav., la tutela del lavoratore è quella reintegratoria attenuata.

12. Licenziamenti collettivi.

I temi di maggior rilievo affrontati nell’anno vertono sulle questioni: a) dei limiti del sindacato giudiziale sull’iniziativa datoriale; b) del rispetto delle procedure, soprattutto sul versante degli obblighi di comunicazione; c) della delimitazione del criterio di scelta dei lavoratori da porre in mobilità.

Quanto alla prima questione, Sez. L, n. 30550/2018, Patti, Rv. 651696-01, ha riaffermato, in conformità ad un indirizzo consolidato, che la l. n. 223 del 1991, nel prevedere agli artt. 4 e 5 la puntuale, completa e cadenzata procedimentalizzazione del provvedimento datoriale di messa in mobilità, ha introdotto un significativo elemento innovativo consistente nel passaggio dal controllo giurisdizionale, esercitato ex post nel precedente assetto ordinamentale, ad un controllo dell’iniziativa imprenditoriale concernente il ridimensionamento dell’impresa, devoluto ex ante alle organizzazioni sindacali, destinatarie di incisivi poteri di informazione e consultazione secondo una metodica già collaudata in materia di trasferimenti di azienda. I residui spazi di controllo devoluti al giudice in sede contenziosa non riguardano più, quindi, gli specifici motivi della riduzione del personale, ma la correttezza procedurale dell’operazione (ivi compresa la sussistenza dell’imprescindibile nesso causale tra il progettato ridimensionamento e i singoli provvedimenti di recesso), con la conseguenza che non possono trovare ingresso, in sede giudiziaria, tutte quelle censure con le quali, senza contestare specifiche violazioni delle prescrizioni dettate dai citati artt. 4 e 5 e senza fornire la prova di maliziose elusioni dei poteri di controllo delle organizzazioni sindacali e delle procedure di mobilità al fine di operare discriminazioni tra i lavoratori, si finisce per investire l’autorità giudiziaria di un’indagine sulla presenza di “effettive” esigenze di riduzione o trasformazione dell’attività produttiva.

Quanto alla seconda, Sez. L, n. 07837/2018, Marchese, Rv. 648191-01, ha affermato che la sufficienza e l’adeguatezza della comunicazione di avvio della procedura vanno valutate in relazione alla finalità della corretta informazione delle organizzazioni sindacali, che può ritenersi in concreto raggiunta nel caso venga successivamente stipulato l’accordo di cui all’art. 4, comma 5, della l. n. 223 del 1991; quest’ultimo, tuttavia, non costituisce una sanatoria dei vizi della procedura, restando per il giudice l’obbligo della verifica in sede di merito circa l’effettiva completezza della comunicazione.

Sez. L, n. 22178/2018, Garri, Rv. 650535-01, ha specificato che qualora il progetto di ristrutturazione si riferisca in modo esclusivo ad un’unità produttiva, le esigenze di cui all’art. 5, comma 1, della legge n. 223 del 1991, riferite al complesso aziendale, possono costituire criterio esclusivo nella determinazione della platea dei lavoratori da licenziare, purché il datore indichi nella comunicazione ex art. 4, comma 3, della legge n. 223 citata, sia le ragioni che limitino i licenziamenti ai dipendenti dell’unità o settore in questione, sia le ragioni per cui non ritenga di ovviarvi con il trasferimento ad unità produttive vicine, ciò al fine di consentire alle organizzazioni sindacali di verificare l’effettiva necessità dei programmati licenziamenti. Ne consegue che, qualora, nella comunicazione, si faccia generico riferimento alla situazione generale del complesso aziendale, senza alcuna specificazione delle unità produttive da sopprimere, i licenziamenti intimati sono illegittimi per violazione dell’obbligo di specifica indicazione delle oggettive esigenze aziendali.

Sez. L, n. 21906/2018, Ponterio, Rv. 650305-01, ha precisato che qualora il datore di lavoro abbia proceduto a recessi differiti, il termine di sette giorni per la comunicazione alle organizzazioni sindacali e agli organi amministrativi, di cui all’art. 4, comma 9, della l. n. 223 del 1991, come modificato dall’art. 1, comma 44, della l. n. 92 del 2012, è unico e decorre dall’invio della comunicazione del primo recesso, poiché solo in tal modo è possibile garantire, rispetto a tutti i licenziamenti via via intimati, quella contestualità tra la comunicazione del recesso al lavoratore e la comunicazione ex art. 4, comma 9, che consente il controllo sulla correttezza nell’applicazione da parte del datore di lavoro dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare.

Analogamente, Sez. L, n. 23034/2018, Ponterio, Rv. 650392-01, ha affermato che la predetta comunicazione, per assolvere alla funzione cui è normativamente preordinata, non può essere parcellizzata in tante comunicazioni – ciascuna limitata ai lavoratori fino a quel momento licenziati ed effettuata entro sette giorni dai singoli licenziamenti – ma deve essere unica, cioè tale da esprimere l’assetto definitivo sull’elenco dei lavoratori da licenziare e sulle modalità di applicazione dei criteri di scelta; ed è stato rimarcato – da Sez. L, n. 23034/2018, Ponterio, Rv. 650392-02 – che il termine di sette giorni per la comunicazione di cui all’art. 4, comma 9, della l. n. 223 del 1991, decorre dalla comunicazione del primo licenziamento, come risulta dal tenore letterale della disposizione, che fa espresso riferimento alla “comunicazione” dei recessi e non già alla data di ricezione degli stessi.

Sempre in tema, Sez. L, n. 28461/2018, Leone, Rv. 651391-01, ha evidenziato che il mancato rispetto del predetto termine di sette giorni (che, per Sez. L, n. 29183/2018, Leone, Rv. 651746-01, deve intendersi come perentorio) determina l’invalidità dei recessi intimati, restando irrilevante che il licenziamento dipenda dalla totale cessazione dell’attività aziendale e che il criterio di scelta sia unico per tutti i lavoratori, dal momento che la gradualità delle operazioni di chiusura e la permanenza, sia pur temporanea, di taluni lavoratori, finalizzata al completamento delle operazioni ultimative, richiede l’applicazione di criteri di scelta predeterminati, controllabili da tutti i soggetti interessati e finalizzati all’individuazione dei tempi di operatività del licenziamento.

Quanto alle ipotesi in relazione alle quali non sono applicabili le procedure per i licenziamenti collettivi per riduzione di personale, Sez. L, n. 12439/2018, Leone, Rv. 648968-01, ha affermato che l’esclusione dell’obbligo di osservare dette procedure, prevista dall’art. 24, comma 4, della l. n. 223 del 1991, per “fine lavoro nelle costruzioni edili”, opera anche nel caso di esaurimento di una singola fase di lavoro, che abbia richiesto specifiche professionalità, non utilizzabili successivamente, fattispecie che integra un giustificato motivo di licenziamento individuale, anche se plurimo, ai sensi dell’art. 3 della l. n. 604 del 1966.

Al datore di lavoro – secondo Sez. L, n. 23022/2018, Pagetta, Rv. 650391-01 -, nella vigenza del contratto di solidarietà cd. difensivo, previsto dall’art. 1 del d.l. n. 726 del 1984, conv. con modif. in l. n. 863 del 1984, è precluso il licenziamento collettivo – che presuppone necessariamente la riduzione stabile dell’attività economica – proprio in ragione delle specifiche finalità cui è preordinata la stipula del contratto di solidarietà, in connessione al sacrificio richiesto ai lavoratori con la riduzione dell’orario lavorativo e quindi della retribuzione, mentre è ammissibile il ricorso al recesso individuale, ancorché plurimo, per giustificato motivo oggettivo, che risponde all’esigenza di adottare misure organizzative che consentono una più intensa e funzionale organizzazione della forza lavoro, con accorpamento di funzioni e soppressione di posti di lavoro.

Con riferimento all’ipotesi di licenziamento per cessazione dell’appalto, Sez. L, n. 20772/2018, Arienzo, Rv. 650130-01, ha chiarito che l’esclusione dell’applicazione della procedura di cui all’art. 24 della l. n. 223 del 1991, espressamente prevista dall’art. 7, comma 4-bis, del d.l. n. 348 del 2007, introdotto dalla legge di conversione n. 31 del 2008, presuppone la necessaria riassunzione del lavoratore nell’azienda subentrante, a parità di condizioni economiche e normative previste dai contratti collettivi nazionali di settore stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative, o a seguito di accordi collettivi con le predette organizzazioni.

Sulla terza questione, Sez. L, n. 7710/2018, Manna, Rv. 647674-01, ha specificato che è legittima l’adozione concordata dalle parti sociali del criterio di scelta fondato sul possesso dei requisiti per il trattamento pensionistico a.g.o., essendo quest’ultimo astrattamente oggettivo e in concreto verificabile.

Nella specie, è stato ritenuto legittimo il licenziamento collettivo avviato dalle parti sociali solo all’esito di un programma di esodo volontario, sulla base dell’unico criterio del possesso dei requisiti pensionistici, ritenendo che non ne inficiasse la determinatezza ed oggettività la norma pattizia che attribuiva al datore di posticipare la data di risoluzione del rapporto degli aderenti per esigenze organizzative aziendali.

È stato inoltre evidenziato – da Sez. L, n. 31872/2018, Balestrieri, Rv. 652013-01 – che i criteri di scelta previsti dall’accordo sindacale raggiunto all’esito della procedura di cui all’art. 4, commi 5-7 della l. n. 223 del 1991, prevalgono, nella individuazione dei licenziandi, su quelli fissati dalla legge (carichi di famiglia, anzianità ecc.), tanto più quando, per la peculiarità dell’attività aziendale, detti criteri consentano di salvaguardare la prosecuzione dell’attività produttiva e l’occupazione dell’intero complesso industriale.

Sulla base di tale premessa la S.C. ha cassato la sentenza di merito che aveva giudicato generico, con riferimento a un’azienda operante nel settore della bonifica bellica e ambientale, il criterio della maggiore competenza e dell’alta specializzazione fissato in sede di accordo sindacale per individuare i lavoratori da mantenere in servizio.

Sez. L, n. 02694/2018, Balestrieri, Rv. 647399-01, ha affermato che la determinazione negoziale dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare (che si traduce in accordo sindacale che ben può essere concluso dalla maggioranza dei lavoratori direttamente o attraverso le associazioni sindacali che li rappresentano, senza che occorra l’unanimità) adempie – come evidenziato dalla sentenza 22 giugno 1994, n. 268 della Corte Cost. – ad una funzione regolamentare delegata dalla legge e, pertanto, deve rispettare non solo il principio di non discriminazione, ex art. 15 della l. n. 300 del 1970, ma anche il principio di razionalità, alla stregua del quale i criteri concordati devono avere i caratteri dell’obiettività e della generalità ed essere coerenti con il fine dell’istituto della mobilità dei lavoratori: il rispetto di tali criteri obiettivi – la prova della cui inosservanza grava sul lavoratore – esclude che possa discutersi di discriminazione.

Ai fini dell’applicazione del criterio di scelta dei carichi familiari, per consentire una graduatoria rigida e controllabile in sede applicativa, va utilizzata come riferimento temporale la data di sottoscrizione del verbale sindacale di individuazione negoziale dei criteri (in tal senso Sez. L, n. 07990/2018, Patti, Rv. 648263-02).

Sempre con riferimento al criterio dei carichi di famiglia, Sez. L, n. 20464/2018, Cinque, Rv. 650091-01, ha evidenziato che il datore di lavoro deve tenere conto del predetto criterio, cui fa riferimento l’art. 5 della l. n. 223 del 1991, anche quando, in assenza di comunicazioni da parte del lavoratore, sia comunque a conoscenza della sua condizione familiare e della presenza di persone a suo carico sulla base di circostanze ufficiali, atteso che la norma ha lo scopo di individuare i lavoratori da licenziare tra quelli meno deboli socialmente, avuto riguardo alla situazione economica effettiva.

Si determina violazione dei criteri di scelta – secondo Sez. L, n. 20502/2018, Cinque, Rv. 650114-01 -, anche ove vi sia errata applicazione delle modalità con cui sono attribuiti i punteggi assegnati. Al riguardo, la S.C. ha ritenuto illegittimo il licenziamento collettivo intimato per chiusura del punto di ristorazione – reputato inidoneo ad integrare una “singola unità produttiva” – allocato in un’area di servizio autostradale, poiché non erano stati esplicitati i criteri di scelta con riferimento al complesso aziendale o quanto meno alle altre unità produttive facenti parte del medesimo territorio.

Con una significativa sentenza – Sez. L, n. 23041/2018, Arienzo, Rv. 650560-01 – è stato evidenziato che il criterio delle esigenze tecnico produttive può essere utilizzato per la creazione di graduatorie anche trasversali tra i vari settori, in considerazione delle professionalità fungibili, ma il medesimo parametro non può essere poi invocato nuovamente, in relazione alle singole graduatorie, nello specifico attraverso l’utilizzo di sottocriteri variabili fra una graduatoria e l’altra – come il titolo di studio e la coerenza del profilo professionale con la riorganizzazione post ristrutturazione – perché la selezione dei lavoratori da licenziare verrebbe effettuata senza il rispetto dei criteri di oggettività e trasparenza.

È stato peraltro puntualizzato – da Sez. L, n. 21705/2018, Garri, Rv. 650258-01 – che in caso di intervento straordinario della cassa integrazione guadagni, la connessione della procedura con quella di mobilità non esime dal rispetto dei criteri di scelta di cui alla l. n. 223 del 1991, né esonera dagli oneri di comunicazione indicati nell’art. 1 comma 7, della stessa legge, essendo diverse le finalità cui assolvono i criteri per individuare i lavoratori da sospendere in CIGS (nella prospettiva del superamento della crisi aziendale, all’esito di un programma mirato di ristrutturazione, riorganizzazione e conversione), ovvero da licenziare, qualora l’attuazione del programma suddetto non ne consenta un integrale reimpiego nell’assenza di misure alternative.

Con riferimento al licenziamento dei dirigenti, Sez. L, n. 05513/2018, Pagetta, Rv. 647663-01, ha affermato che la lettura consolidata degli artt. 4, commi 1 e 9, e 24, comma 1, della l. n. 223 del 1991, nel testo antecedente alla l. n. 161 del 2014 (che, a seguito della sentenza della CGUE del 13 febbraio 2014, in causa C-596/12, ha esteso, con disposizione dichiaratamente integrativa e non di interpretazione autentica, l’applicabilità della procedura di mobilità anche ai dirigenti, in adempimento degli obblighi comunitari derivanti dalla direttiva n. 98/59/CE), comporta l’esclusione dei dirigenti dall’ambito di applicazione della disciplina in esame, in virtù del dato testuale costituito dal richiamo operato dall’art. 24, comma 1, alla complessiva procedura di mobilità di cui ai commi da 2 a 12 dell’art. 4 e, quindi, anche al comma 9, il quale stabilisce che l’impresa ha facoltà di collocare in mobilità “gli impiegati, gli operai ed i quadri eccedenti”, senza che tale specifico riferimento possa essere inteso come limitato alle sole categorie di lavoratori destinatari, ai sensi del comma 1 dell’art. 4, dell’intervento di integrazione salariale, tra i quali non rientrano i dirigenti.

Con la stessa sentenza (Sez. L, n. 05513/2018, Pagetta, Rv. 647663-02) è stato affermato che l’impianto normativo di cui alla l. n. 223 del 1991 – nel testo vigente prima delle modifiche recate dall’art. 16 della l. n. 161 del 2014 – che esclude i dirigenti dalle relative procedure, non è disapplicabile, per contrasto con la Direttiva n. 98/59/CE, atteso che, in accordo con la giurisprudenza della CGUE che esclude l’efficacia diretta delle direttive prima della loro attuazione nei rapporti cd. orizzontali (sentenza 26 febbraio 1986, in causa C-152/84, Marshall), la disciplina dei licenziamenti collettivi è destinata a regolare interessi che attengono esclusivamente a situazioni soggettive private (del datore di lavoro e del lavoratore), né tale caratteristica viene meno in considerazione dell’impatto economico e sociale normalmente connesso all’adozione di dette procedure, per le quali è previsto il coinvolgimento delle organizzazioni sindacali, anch’esse soggetti privati, ovvero del mero obbligo di comunicazione all’autorità pubblica del progetto di licenziamento, insuscettibile di evidenziare l’esistenza di uno specifico e diretto interesse collettivo distinto da quello degli altri soggetti privati coinvolti.

Quanto al regime di decadenza previsto dall’art. 32 della l. n. 183 del 2010, Sez. L, n. 31992/2018, Balestrieri, in corso di massimazione, ha evidenziato che il predetto regime si applica – fin dalla data di entrata in vigore di detta norma – anche ai licenziamenti collettivi, avendo l’art. 1, comma 46, della l. n. 92 del 2012, portata ricognitiva e non innovativa. Tale ricostruzione è imposta sia dalla lettura storico-sistematica dell’art. 5, comma 3, della l. 223 del 1991 che riproduce, pur non citandolo, l’art. 6 della l. n. 604 del 1966, sia dalla lettera dell’art. 32, che prevede l’applicazione del regime di decadenza a tutti i licenziamenti, senza distinguere tra gli individuali ed i collettivi.

In ordine, infine, ai regimi di tutela, Sez. L, n. 02587/2018, Amendola F., Rv. 647407-01, ha precisato che la non corrispondenza al modello legale della comunicazione di cui all’art. 4, comma 9, della l. n. 223 del 1991, costituisce “violazione delle procedure” e dà luogo alla tutela indennitaria (ex art. 18, comma 7, terzo periodo, della l. n. 300 del 1970), quantificabile tra dodici e ventiquattro mensilità, previa dichiarazione di risoluzione del rapporto alla data del licenziamento; viceversa, la violazione dei criteri di scelta, illegittimi per violazione di legge ovvero illegittimamente applicati in difformità dalle previsioni legali o collettive, dà luogo all’annullamento del licenziamento, con condanna alla reintegrazione nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria in misura non superiore alle dodici mensilità (ex art. 18, comma 4, della legge citata).

Ed è stato precisato – da Sez. L, n. 19010/2018, Marotta, Rv. 649918-01 – che quando la comunicazione ex art. 4, comma 9, l. n. 223 del 1991, carente sotto il profilo formale delle indicazioni relative alle modalità di applicazione dei criteri di scelta, si sia risolta nell’accertata illegittima applicazione di tali criteri vi è annullamento del licenziamento, con condanna alla reintegrazione nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria in misura non superiore alle dodici mensilità ai sensi dell’art. 18, comma 4, st.lav.

Peraltro, Sez. L, n. 2587/2018, Amendola F., Rv. 647407-02, ha chiarito che alla reintegra dei lavoratori illegittimamente licenziati per violazione dei criteri di scelta può seguire la decisione dell’impresa di procedere alla risoluzione del rapporto di lavoro di un numero di dipendenti pari a quello dei lavoratori reintegrati, senza dovere esperire una nuova procedura, ai sensi dell’art. 17 della l. n. 223 del 1991; in tale ipotesi, tuttavia, il lavoratore reintegrato non può essere incluso nel novero dei lavoratori licenziati, mentre in caso di violazione dell’obbligo procedurale lo stesso potrà, comunque, essere destinatario di un licenziamento che lo selezioni sulla base di criteri di scelta in concreto correttamente applicati.

SEZIONE SECONDA IL RAPPORTO DI LAVORO PUBBLICO CONTRATTUALIZZATO

  • rapporti di lavoro e diritto del lavoro
  • lavoro
  • pubblica amministrazione

CAPITOLO XXI

IL RAPPORTO DI LAVORO PUBBLICO CONTRATTUALIZZATO

(di Stefania Billi )

Sommario

1 Il rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni. Brevi premesse. Giurisdizione e lavoro a tempo determinato: rinvio. - 2 La costituzione del rapporto di lavoro: assunzioni, reclutamenti, stabilizzazioni e altri tipi di contratti. - 3 Vicende del rapporto di lavoro. - 3.1 Classificazione del personale, categorie, qualifiche e mansioni. - 3.2 Retribuzione e altri trattamenti economici. - 3.3 Infermità, equo indennizzo ed applicazioni della l. n. 104 del 1992. - 4 Passaggio del personale tra amministrazioni. - 5 Diritti sindacali. - 6 Patologie del rapporto di lavoro: responsabilità del lavoratore e procedimento disciplinare. - 7 La cessazione del rapporto di lavoro. - 8 La dirigenza. - 9 Il personale docente.

1. Il rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni. Brevi premesse. Giurisdizione e lavoro a tempo determinato: rinvio.

In materia di impiego pubblico privatizzato il lavoro della S.C. è stato molto intenso, soprattutto, con riferimento alle vicende del rapporto lavorativo, alla disciplina del procedimento disciplinare ed alle ipotesi di passaggio di personale tra le amministrazioni. Numerose, inoltre, le pronunce in tema di dirigenza e nel settore del personale docente.

Per la disamina delle pronunce riguardanti le questioni di giurisdizione si rinvia al capitolo sul processo del lavoro, § 1.1. e 1.2., mentre si rinvia al capitolo sul lavoro flessibile, § 4.11., per le decisioni in tema di lavoro a termine.

2. La costituzione del rapporto di lavoro: assunzioni, reclutamenti, stabilizzazioni e altri tipi di contratti.

Con riguardo alla genesi del rapporto di lavoro la S.C. è intervenuta su alcuni profili delle procedure concorsuali soggette alla cognizione del giudice ordinario, ma anche sulla disciplina del rapporto del personale delle società a partecipazione pubblica.

In particolare, Sez. L, n. 04436/2018, Tria, Rv. 647455-01, ha precisato che la domanda proposta dai lavoratori pubblici, al fine di ottenere il completamento di una procedura selettiva, dalla quale sono stati illegittimamente esclusi dopo esservi stati regolarmente ammessi, è di competenza del giudice ordinario, in quanto investe atti negoziali, consistenti nel dare la possibilità ai dipendenti di completare la selezione alle cui prime fasi avevano legittimamente partecipato. In tal caso il giudice ha anche il potere di adottare nei confronti della P.A. qualsiasi tipo di sentenza, ivi compresa quella di condanna ad un facere. Sussiste, infatti, in capo ai lavoratori interessati il diritto soggettivo al rispetto da parte della P.A. medesima, non solo del generale obbligo di correttezza e buona fede, ma anche dei criteri predeterminati nel bando per l’ammissione alla selezione, allo svolgimento delle prove, alla selezione dei promovendi.

Le procedure concorsuali previste dall’art. 28 del d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, ratione temporis applicabile, secondo Sez. L, n. 00742/2018, Di Paolantonio, Rv. 646730-01, costituiscono forme di reclutamento eccezionali e temporanee e sono escluse, quindi, dall’applicazione delle norme generali successive che, a decorrere dal 2002, hanno prorogato i termini di validità ed efficacia delle graduatorie finali.

Un importante limite al divieto di conversione in contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato previsto dall’art. 36 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 è stato fissato da Sez. L, n. 25728/2018, Tria, Rv. 651143-01; in particolare, esso non opera nel caso in cui l’assunzione a termine sia avvenuta mediante procedure concorsuali pubbliche, intendendosi per tali quelle caratterizzate da un bando iniziale, dalla fissazione dei criteri valutativi, dalla presenza di una commissione incaricata della valutazione dei candidati e dalla formazione di una graduatoria finale (v. anche il capitolo sul lavoro flessibile, § 4.11).

Le assunzioni nell’ambito del pubblico impiego privatizzato, anche se precedute da un contratto di lavoro a termine per il quale sia stata superata la prova, ad avviso di Sez. L, n. 21376/2018, Torrice, Rv. 650211-01, restano assoggettate all’esito positivo di un periodo di prova, in forza di quanto previsto dall’art. 70, comma 13, del d.lgs. n. 165 del 2001 e dall’art. 28 del d.P.R. 9 maggio 1994, n. 487. L’autonomia contrattuale è abilitata, infatti, esclusivamente alla determinazione della durata del periodo di prova, nei limiti di quanto previsto dalla contrattazione collettiva ex art. 2, comma 3, del d.lgs. n. 165 del 2001.

Con riferimento alla fase successiva al superamento della procedura concorsuale, Sez. L, n. 11324/2018, Bellè, Rv. 648199- 01, ha chiarito che, qualora il vincitore di concorso sia stato convocato e non si presenti il giorno stabilito per la stipula del contratto di assunzione e ricorra un giustificato motivo, non è necessaria, in difetto di specifica previsione del bando, una formale istanza dell’interessato finalizzata alla successiva sottoscrizione. Ne consegue che sarà solo necessario procedere o a riconvocazione in forme regolari o all’immediata sottoscrizione del contratto nel primo momento utile possibile, deponendo in tal senso anche l’art. 9 del d.P.R. del 10 gennaio 1957, n. 3.

Con riferimento ai profili risarcitori derivanti dal danno subìto dal lavoratore nell’ipotesi di contratto di lavoro nullo per violazione delle disposizioni che regolano le assunzioni alle dipendenze delle Pubbliche Amministrazioni, di cui sia chiesto il risarcimento ai sensi dell’art. 36, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001, Sez. L, n. 06046/2018, Torrice, Rv. 647516-01, pone a carico del lavoratore un onere di allegazione e prova, specificando che il ristoro non può coincidere con le retribuzioni ed i correlati oneri contributivi e previdenziali, dal momento che tali voci sono comunque dovute, in virtù del principio di corrispettività di cui all’art. 2126 c.c., per le prestazioni eseguite durante lo svolgimento in via di fatto del rapporto di lavoro.

In conformità a quanto sostenuto da Sez. U, n. 05072/2016, Amoroso, Rv. 639066-01, nell’ipotesi di abusiva reiterazione di contratti a termine, è stata ulteriormente chiarita da Sez. 5, n. 25471/2018, Crucitti, Rv. 650718-01, la natura risarcitoria degli importi conseguiti dal lavoratore del pubblico impiego privatizzato, ai sensi dell’art. 36, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001, a causa della mancata conversione dei rapporti di lavoro a tempo determinato illegittimi in rapporti di lavoro a tempo indeterminato. Si tratta, infatti, di danno emergente, rispetto alla perdita della chance di un’occupazione alternativa migliore, con la conseguenza che non sono assoggettabili a tassazione ai sensi dell’art. 6, comma 1, del d.P.R. del 22 dicembre 1986, n. 917. La pronuncia delle Sezioni Unite è stata, poi, ulteriormente confermata da Sez. 6 - L, n. 31174/2018, Spena, Rv. 651917-01, nella parte in cui si ritiene, ai fini della determinazione del danno da precarizzazione, che costituisca idoneo parametro da utilizzarsi quello previsto dall’art. 32 della l. n. 183 del 2010, in quanto è conforme ai principi di effettività ed equivalenza di cui alla direttiva n.1999/70/CE, così come interpretati dalla CGUE nella decisione 7 marzo 2018 in causa C-494/2016.

Per le società a partecipazione pubblica, cd. in house, secondo Sez. L, n. 21378/2018, Torrice, Rv. 650213-01, il reclutamento del personale avviene secondo i criteri stabiliti dall’art. 35 del d.lgs. n. 165 del 2001, che impongono l’esperimento di procedure concorsuali o selettive, a seguito dell’entrata in vigore del d.l. 25 giugno 2008 n. 112, conv. con modif. in l. 6 agosto 2008, n. 133, nel testo risultante dalle modifiche apportate dalla l. 3 agosto 2009, n. 102 di conversione del d.l. 1° luglio 2009, n. 78. Ne consegue che la violazione di tali disposizioni, aventi carattere imperativo, impedisce la conversione dei rapporti di lavoro a tempo determinato in rapporti a tempo indeterminato.

Con specifico riguardo al reclutamento del personale da parte di società a partecipazione pubblica avente ad oggetto la gestione del servizio pubblico locale, Sez. L, n. 03621/2018, Di Paolantonio, Rv. 647442-01, ha chiarito che l’omissione delle procedure concorsuali e selettive delle amministrazioni pubbliche di cui all’art. 18 del d.l. n. 112 del 2008, conv. in l. n. 133 del 2008, nel testo applicabile ratione temporis determina la nullità del contratto di lavoro, ai sensi dell’art. 1418, comma 1, c.c.; tale nullità è ora espressamente prevista dall’art. 19, comma 4, del d.lgs. 19 agosto 2016, n. 175, di cui va, tuttavia, esclusa la portata innovativa, avendo la citata disposizione reso esplicita una conseguenza già desumibile dai principi in tema di nullità virtuali.

Per le predette società a partecipazione pubblica, Sez. L, n. 13480/2018, De Felice, Rv. 648740-01, ha precisato che il reclutamento di personale effettuato nel periodo antecedente all’entrata in vigore dell’art. 18 del d.l. n. 112 del 2008, conv. con mod. in l. n. 133 del 2008 è regolato dal regime giuridico proprio dello strumento privatistico adoperato.

Con riguardo, invece alla regolamentazione del rapporto di lavoro, Sez. L, n. 07222/2018, Cinque, Rv. 647609-01, ha chiarito che le vicende dei rapporti di lavoro del personale delle società cd. in house providing sono disciplinate dalla normativa del lavoro privato e a tale regolamentazione deve aversi riguardo per valutare, sia gli aspetti funzionali ed estintivi, sia quelli genetici degli stessi. La sussistenza di un contratto di appalto cd. in house non comporta, infatti, di per sé l’unicità di titolarità dell’organizzazione produttiva comune alla società-organismo di diritto pubblico e società da essa partecipata al cento per cento, in quanto il rapporto tra i due enti resta di assoluta autonomia.

Restando in materia di assunzioni, Sez. L, n. 07054/2018, Di Paolantonio, Rv. 647607-01, ha chiarito che l’utilizzo dello scorrimento della graduatoria, nel rispetto dei principi fissati dall’art. 35 del d.lgs. n. 165 del 2001, presuppone l’esistenza di posti vacanti disponibili in riferimento alla specifica posizione lavorativa alla quale si riferisce la procedura concorsuale già espletata, nonché ai requisiti attitudinali e professionali che la stessa richiede.

Sotto il profilo processuale, secondo Sez. L, n. 18807/2018, De Felice, Rv. 649876-01, ove si contesti la legittimità del procedimento di selezione concorsuale, sussiste litisconsorzio necessario, solo se il soggetto pretermesso domandi l’accertamento giudiziale del suo diritto ad essere inserito nel novero dei prescelti per il conseguimento di una determinata utilità, quali promozioni, livelli retributivi, trasferimenti, assegnazioni di sede. Non è, invece, necessaria l’integrazione del contraddittorio quando l’attore si limiti a domandare il risarcimento del danno, o comunque faccia valere pretese compatibili con i risultati della selezione, dei quali non deve attuarsi la rimozione. Nello stesso senso Sez. L, n. 28766/2018, Di Paolantonio, Rv. 651690-01.

Con riguardo ai processi di stabilizzazione Sez. L, n. 23019/2018, De Felice, Rv. 650390-01, ha affermato che sono effettuati, in presenza dei requisiti soggettivi previsti, nei limiti delle disponibilità finanziarie e nel rispetto delle disposizioni in tema di dotazioni organiche e di programmazione triennale del fabbisogno; di conseguenza, in assenza dei presupposti, non è configurabile un diritto soggettivo alla stabilizzazione. Va esclusa, pertanto, l’esistenza di qualsivoglia diritto di natura risarcitoria in capo ai potenziali destinatari e non è configurabile neanche un diritto alla proroga dei contratti a termine in scadenza, ammissibile solo nell’ipotesi di concreta possibilità di definire utilmente la procedura finalizzata alla trasformazione del rapporto a tempo indeterminato.

La disposizione di cui all’art. 8 della l. della Regione Sicilia 14 aprile 2006, n. 16, ove prevede che il personale precario in servizio presso le aziende del turismo rientri nei processi di stabilizzazione attivati dalla Regione, non consente che i lavoratori ammessi a tali processi possano vantare diritti al mantenimento della qualifica conseguita durante il precedente rapporto di lavoro a tempo determinato intercorso con le aziende in questione, in quanto il legislatore regionale non ha previsto la successione della Regione nel predetto rapporto, ma solo la conclusione di un nuovo contratto a tempo determinato tra la Regione stessa e il dipendente (Sez. L, n. 8134/2018, Miglio, Rv. 647677-01).

In tema di lavori socialmente utili, per Sez. L, n. 09599/2018, Torrice, Rv. 648726-01 in caso di attivazione delle procedure per la stabilizzazione va escluso il diritto all’assunzione, in quanto la previsione di una quota di riserva di posti di cui all’art. 12 del d.lgs. 1 dicembre 1997, n. 468, determina solo il diritto dei lavoratori utilizzati ad essere avviati alla selezione e ad essere richiesti dalle amministrazioni pubbliche con chiamata nominativa, nel rispetto dei criteri fissati dall’art. 16 della l. 28 febbraio 1987, n. 56, per la verifica del possesso dei requisiti per l’accesso al pubblico impiego.

Passando alla disamina di altre tipologie di rapporti instaurati con la P.A., Sez. L, n. 09591/2018, Tricomi, Rv. 648657-01, ha fissato il principio per cui, la stipulazione di un contratto di collaborazione coordinata e continuativa con una P.A., al di fuori dei presupposti di legge, non può mai determinare la conversione del rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. Il lavoratore, tuttavia, può conseguire una tutela nei limiti dell’art. 2126 c.c., se il contratto di collaborazione abbia la sostanza di rapporto di lavoro subordinato, con conseguente diritto anche alla ricostruzione della posizione contributiva previdenziale.

Nella medesima direzione Sez. L, n. 10951/2018, Di Paolantonio, Rv. 648195-01, ha affermato che, ove la P.A. faccia ricorso a successivi contratti formalmente qualificati di collaborazione coordinata e continuativa e il lavoratore ne alleghi l’illegittimità anche sotto il profilo del carattere abusivo della reiterazione del termine, il giudice è tenuto ad accertare se di fatto si sia instaurato un rapporto di lavoro subordinato a tempo determinato e a riconoscere al lavoratore, in assenza dei presupposti richiesti dalla legge per la reiterazione, il risarcimento del danno, alle condizioni e nei limiti necessari a conformare l’ordinamento interno al diritto dell’Unione europea.

Sez. L, n. 31502/2018, Blasutto, Rv. 652016-01, ha chiarito la natura privatistica del rapporto del medico che svolge attività in regime di convenzione con il Servizio Sanitario Nazionale, precisando che riveste i connotati della collaborazione coordinata e continuativa, tipici della parasubordinazione, esulando dall’ambito del pubblico impiego. Ne consegue che al medico sospeso dalla carica in pendenza di un procedimento penale e successivamente assolto, con conseguente revoca della misura cautelare, non è applicabile l’art. 97 del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, laddove prevede la corresponsione del trattamento economico non percepito nel periodo di sospensione, stante il carattere eccezionale della disposizione non suscettibile di applicazione estensiva o analogica.

Per altro verso è stato affermato da Sez. L, n. 04227/2018, De Felice, Rv. 647450-01, che l’incarico di esperto tributario per le specifiche attività antievasione dell’amministrazione finanziaria, previsto dall’art. 9 della l. 24 aprile 1980, n. 146, istitutiva del servizio consultivo e ispettivo tributario, si configura come un servizio di studio e di consulenza, indipendente dall’eventuale rapporto di impiego a tempo indeterminato; con conseguente inapplicabilità della regola secondo la quale il periodo di durata dell’incarico è computato ai fini della anzianità di servizio.

Sul versante delle sanzioni conseguenti all’impiego di lavoratori non regolarmente denunciati Sez. L, n. 24107/2018, Leone, Rv. 650553-01, ha chiarito che l’art. 3, comma 3, della l. 23 aprile 2002, n. 73 del 2002, letto in combinato disposto con l’art. 9-bis del d.l. 1° ottobre 1996, n. 510 (conv. con modif. in l. 28 novembre 1996, n. 608 del 1996), impone che l’iscrizione del lavoratore nel libro paga e matricola avvenga contestualmente all’atto di assunzione. L’omissione determina automaticamente il presupposto per l’irrogazione della sanzione, senza che possa avere valenza alternativa la risultanza del nominativo del lavoratore nel contratto di lavoro, redatto in forma di scrittura privata, in quanto atto regolativo degli interessi inter partes, privo di valenza pubblica.

3. Vicende del rapporto di lavoro.

In tema di ferie, Sez. L, n. 20091/2018, De Felice, Rv. 650118-01, ha confermato, in linea con Sez. L, n. 04855/2014, Manna A., Rv. 630379-01, che il mero fatto del mancato godimento delle stesse non dà titolo ad un corrispondente ristoro economico, in quanto occorre la prova da parte dell’interessato che esso è stato cagionato da eccezionali e motivate esigenze di servizio o da cause di forza maggiore.

Sul contenuto e i limiti del dovere di obbedienza Sez. L, n. 31086/2018, Tria, Rv. 651682-02, ha chiarito che la facoltà del dipendente di non eseguire un ordine, previa rimostranza a chi lo ha impartito, prevista dall’art. 17 del d.P.R. n. 3 del 1957 e dalla contrattazione collettiva di vari comparti, presuppone che la palese illegittimità sia oggettiva. Essa non necessariamente deve consistere in un atto vietato dalla legge penale o costituente illecito amministrativo, potendo anche derivare dalla violazione dei generali principi di buona fede e correttezza di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c. alla stregua dei principi di imparzialità e di buon andamento di cui all’art. 97 Cost. L’illegittimità dell’ordine ricevuto può essere, inoltre, percepita anche soltanto dal destinatario dell’ordine medesimo, ma non per finalità, ragioni e percezioni meramente personali, quanto, invece, esclusivamente nel suo ruolo di collaboratore volto ad assicurare la legalità dell’Amministrazione, che gli deriva dall’art. 54, comma 2, Cost..

La S.C. ha avuto più di un’occasione, poi, di pronunciarsi sul regime delle incompatibilità. In materia, Sez. L, n. 20880/2018, Di Paolantonio, Rv. 650094- 01, per i medici dipendenti della Croce Rossa Italiana che operano anche presso gli istituti di prevenzione e pena, ai sensi della l. 9 ottobre 1970, n. 740, ha accertato l’obbligo al rispetto dell’art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001, che richiama il regime delle incompatibilità ed il divieto di cumulo di impieghi di cui al d.P.R. n. 3 del 1957.

Quanto, poi, al rapporto di lavoro del personale delle Agenzie fiscali, Sez. L, n. 11160/2018, Torrice, Rv. 648813-02, ha ritenuto applicabile la disciplina prevista dal d.P.R. 16 gennaio 2002, n. 18, che ne individua gli specifici compiti, al precipuo scopo di garantirne l’indipendenza e terzietà, prevedendo un regime di incompatibilità più rigoroso rispetto a quello generale degli altri dipendenti pubblici, e costituisce disciplina speciale rispetto al Regolamento di cui al d.P.R. 16 aprile 2013, n. 62, che contiene i codici di comportamento di tutti i dipendenti pubblici.

Nello stesso senso, Sez. L, n. 03622/2018, Tria, Rv. 646891-01, secondo cui la disciplina prevista dall’art. 4 del d.P.R. n. 18 del 2002 è di carattere speciale, diretta a tutelare interessi di rango costituzionale, la cui applicazione nei confronti dei suddetti lavoratori è particolarmente severa in quanto dette Agenzie rappresentano lo Stato nell’esercizio di una delle sue funzioni più autoritative, il prelievo fiscale.

3.1. Classificazione del personale, categorie, qualifiche e mansioni.

In generale in tema di classificazione del personale, Sez. L, n. 02829/2018, Blasutto, Rv. 647401-01 e Sez. L, n. 28247/2018, Torrice, Rv. 651732-01 hanno affermato che l’omessa istituzione, ad opera della contrattazione collettiva nazionale di comparto, della categoria della vicedirigenza non determina la violazione di un interesse dei dipendenti tutelabile in forma risarcitoria, in quanto l’art. 17-bis del d.lgs. n. 165 del 2001, oggi abrogato, si è limitato ad individuare il livello della contrattazione collettiva facoltizzata ad introdurre tale figura professionale, senza configurare alcuna posizione tutelata, a livello di interesse legittimo, dei dipendenti predetti.

Sotto il profilo dell’inquadramento Sez. L, n. 23757/2018, De Gregorio, Rv. 650569-01, resta sulla traccia segnata da Sez. U, n. 21744/2009, Picone, Rv. 609710-01, laddove ribadisce il principio per cui l’atto di inquadramento in deroga, anche in melius, alle disposizioni del contratto collettivo è affetto da nullità per violazione di norma imperativa, rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio. Essendo, infatti, il rapporto regolato esclusivamente dai contratti collettivi e dalle leggi sul rapporto di lavoro privato, il datore di lavoro pubblico ha solo la possibilità di adattare i profili professionali, indicati a titolo esemplificativo, alle sue esigenze organizzative, senza modificare la posizione giuridica ed economica stabilita dalle norme pattizie.

In proposito, Sez. L, n. 00214/2018, Torrice, Rv. 646158-01, ha chiarito che la disciplina delle procedure selettive interne finalizzate alla mera progressione economica o professionale all’interno della medesima area o fascia, in quanto rientrante nella materia degli inquadramenti, è affidata alla contrattazione collettiva che può derogare alle disposizioni contenute nel d.P.R. 20 settembre 1994, n. 487 nel rispetto del principio di selettività. Diversamente, la contrattazione integrativa è solo abilitata a disciplinare le materie delegate dai contratti nazionali nei limiti da questi stabiliti.

Per l’accesso a posti superiori vacanti, anche ai fini della selezione interna, Sez. L, n. 03332/2018, De Felice, Rv. 647410-01, ha affermato che, analogamente a quanto accade per le procedure concorsuali preordinate all’assunzione di dipendenti, la scelta dell’amministrazione di utilizzare le graduatorie degli idonei per scorrimento non costituisce un diritto soggettivo degli stessi, ma postula sempre l’esercizio prioritario di una discrezionalità della P.A. nel coprire il posto o la posizione disponibile. È sempre fatta salva, tuttavia, la previsione di un obbligo in tal senso da parte della contrattazione collettiva o del bando.

Con riguardo al blocco delle assunzioni, introdotto già con l’art. 19, comma 1, della l. 28 dicembre 2001, n. 448 ed applicabile anche alle procedure selettive per passaggi di area, Sez. L, n. 12435/2018, De Felice, Rv. 648954-01, esclude la configurabilità di una responsabilità extracontrattuale a carico dell’ente per il ritardo nell’espletamento del concorso.

In generale in materia di classificazione professionale dei lavoratori Sez. L, n. 12334/2018, Blasutto, Rv. 648967-01, ha finalmente chiaramente affermato che il principio di non discriminazione di cui all’art. 45 del d.lgs. n. 165 del 2001 opera come limite per la P.A., che deve garantire ai propri dipendenti parità di trattamento contrattuale nell’ambito delle previsioni dei contratti collettivi. Tale norma, infatti, non costituisce parametro per giudicare le differenziazioni operate in quella sede dalle parti sociali nella loro autonomia, né per sindacare le scelte operate dalla contrattazione collettiva, restando irrilevante l’eventuale assimilabilità contenutistica delle mansioni svolte.

In tema si segnala anche Sez. L, n. 31087/2018, Tria, Rv. 651683-01, secondo cui il vincolo di invarianza della spesa, che comporta una ponderazione globale ed aggregata degli effetti positivi e negativi in termini di spesa delle nuove disposizioni che lo prevedano non può mai determinare, nell’ambito dell’impiego pubblico contrattualizzato, un potenziale vulnus al principio di parità di trattamento tra dipendenti che svolgono le stesse funzioni.

Per il personale avventizio dei servizi pubblici di trasporto, Sez. L, n. 04636/2018, Torrice, Rv. 647474-01, confermando un principio consolidato, espresso da Sez. L, n. 24735/2008, Balletti, Rv. 604970-01, ha affermato che la delegificazione dei rapporti di lavoro disposta dalla l. 12 luglio 1988, n. 270 si applica anche a detti dipendenti; ne consegue che la disciplina delle relative qualifiche è rimessa alla sola contrattazione collettiva nazionale e non anche a quella aziendale.

Con specifico riferimento al personale della ex VIII qualifica funzionale, comparto Ministeri, Sez. L, n. 03615/2018, Torrice, Rv. 647440-01, ha escluso che possa essere riconosciuto il diritto all’inquadramento nella categoria superiore C3 per effetto dell’art. 1, comma 1, del d.l. 29 dicembre 2003, n. 356, conv. con modif. nella l. 27 febbraio 2004, n. 48, in quanto la norma rimanda la definizione della posizione del personale interessato a successivi accordi, da definirsi tra l’ARAN e le OO.SS. maggiormente rappresentative, senza prevedere precise cadenze temporali.

Nel predetto comparto per Sez. L, n. 30685/2018, Blasutto, Rv. 651729-01, l’attività di assistenza ai collegi giudicanti nelle udienze delle commissioni tributarie e quella collaterale del rilascio di copie delle decisioni, estratti e certificati relativi allo svolgimento delle attività decisionali di dette commissioni, è riconducibile alla declaratoria che connota i lavoratori inquadrati nell’Area II dell’all. A del c.c.n.l. comparto Ministeri del 2007.

In tema di mansioni Sez. L, n. 18817/2018, De Felice, Rv. 649878-01, ha chiarito che l’art. 52 del d.lgs. n. 165 del 2001, assegna rilievo solo al criterio dell’equivalenza formale delle mansioni, con riferimento alla classificazione prevista in astratto dai contratti collettivi, indipendentemente dalla professionalità in concreto acquisita, senza che il giudice possa sindacare la natura equivalente della mansione, non potendosi avere riguardo alla norma generale di cui all’art. 2103 c.c..

Il citato art. 52 trova, altresì, applicazione nelle ipotesi in cui il lavoratore, assunto con contratto di formazione e lavoro, venga assegnato a mansioni diverse e superiori rispetto a quelle indicate nel contratto. In proposito Sez. L, n. 00157/2018, Di Paolantonio, Rv. 646514-01, ha chiarito che, ferma la nullità dell’assegnazione, il lavoratore avrà diritto a percepire il trattamento retributivo fondamentale previsto dal contratto collettivo per la qualifica corrispondente alla prestazione resa, ai sensi del combinato disposto degli artt. 36 del d.lgs. n. 165 del 2001 (nel testo antecedente alle modifiche apportate dall’art. 3, comma 79, della l. 24 dicembre 2007, n. 244), e 3, comma 5, del d.l. 30 ottobre 1984, n. 726, conv. con modif., in l. 19 dicembre 1984, n. 863.

Sotto il profilo della distribuzione dell’onere probatorio Sez. L, n. 06039/2018, Tria, Rv. 647504-01, ha chiarito che, in caso di accertato esercizio di mansioni superiori da parte dei dipendenti del Ministero degli Affari Esteri nello svolgimento di servizi effettuati all’estero, l’indennità di servizio all’estero, di cui all’art. 171 del d.P.R. 5 gennaio 1967, n. 18, in ragione della sua natura non retributiva, può essere corrisposta all’interessato, con riferimento al posto corrispondente alle mansioni di fatto esercitate, solo previa allegazione e prova da parte del dipendente della sussistenza in concreto delle situazioni indicate dai commi 3 e 5 dell’art. 171 citato, avuto riguardo alla sede e al posto-funzione che vengono specificamente in considerazione. La pronuncia ha chiarito che tale indennità è costituta da un compenso di base, oggi indicato nella tabella A allegata al d.lgs. del 27 febbraio 1998, n. 62, e da una parte variabile più cospicua, determinata in ragione delle caratteristiche proprie delle diverse sedi e dei singoli posti-funzione occupati.

Restando sul personale non diplomatico del Ministero degli affari esteri in servizio all’estero, Sez. L, n. 22081/2018, Di Paolantonio, Rv. 650533-01, ha chiarito che l’art. 93, comma 4, del d.P.R. n. 18 del 1967, applicabile ratione temporis, consente che tali dipendenti, pur promossi ad una qualifica superiore, possano essere temporaneamente mantenuti, in presenza di necessità di servizio, nella sede già occupata e nelle mansioni pregresse. Ne consegue che, a fronte di accertate esigenze di servizio, la P.A. può conservare nel posto originario il dipendente, favorevolmente scrutinato per una qualifica superiore, ove lo stesso, pur interpellato, non abbia espresso la volontà di essere assegnato ad altra sede per la qualifica conseguita, rispondendo a criteri di corretta amministrazione graduare le nuove assegnazioni tenendo conto delle preferenze dei singoli aspiranti.

Una disciplina particolare, invece, è stata affermata da Sez. L, n. 08690/2018, De Felice, Rv. 648622-01, in caso di svolgimento di fatto di mansioni superiori nell’ambito di professioni sanitarie, in carenza del titolo abilitativo specifico e della relativa iscrizione all’albo. In particolare, in tale ipotesi, non sorge il diritto alla corrispondente maggiore retribuzione, ai sensi dell’art. 2126 c.c., poiché l’assenza di titolo non integra, a differenza che per altre professioni a rilevanza pubblicistica, una forma di illegalità derivante dalla carenza di un requisito estrinseco, ma produce la totale illiceità dell’oggetto e della causa dell’obbligazione. L’attività del personale infermieristico risulta, infatti, regolata da specifiche norme di legge attinenti a profili di ordine pubblico, attesa l’incidenza dell’attività sanitaria sulla salute e sicurezza pubblica, nonché sulla tutela dei diritti fondamentali della persona.

Nel diverso caso di riconoscimento di un livello superiore di professionalità, successivamente revocato, per Sez. L, n. 21523/2018, Di Paolantonio, Rv. 650218-01, sono irripetibili le differenze retributive erogate in favore del lavoratore durante il periodo di effettivo servizio prestato nella predetta qualifica, trovando applicazione l’art. 2126 c.c., da reputarsi compatibile con il regime del lavoro pubblico.

Lo svolgimento di fatto mansioni proprie di una posizione organizzativa ha fornito a Sez. L, n. 08141/2018, Di Paolantonio, Rv. 647618-01, l’occasione per chiarire che la posizione organizzativa si distingue dal profilo professionale e individua nell’ambito dell’organizzazione dell’ente funzioni strategiche e di alta responsabilità che giustificano il riconoscimento di un’indennità aggiuntiva. In particolare, la sentenza precisa che, qualora il dipendente venga assegnato a svolgere le mansioni proprie di una posizione organizzativa, previamente istituita dall’ente e ne assuma tutte le connesse responsabilità, sussiste il diritto a percepire l’intero trattamento economico corrispondente alle mansioni di fatto espletate, ivi compreso quello di carattere accessorio, che è diretto a commisurare l’entità della retribuzione alla qualità della prestazione resa. Tali importi sono comunque dovuti, a prescindere dalla mancanza o dall’illegittimità del provvedimento di formale di attribuzione.

3.2. Retribuzione e altri trattamenti economici.

Come principio generale Sez. L, n. 15902/2018, Di Paolantonio, Rv. 649391-01, ha affermato che, l’adozione da parte della P.A. di un atto negoziale di diritto privato di gestione del rapporto, con il quale venga attribuito al lavoratore un determinato trattamento economico, non è sufficiente, di per sé, a costituire una posizione giuridica soggettiva in capo al lavoratore medesimo. In materia di pubblico impiego privatizzato, infatti, la misura economica deve trovare necessario fondamento nella contrattazione collettiva, con la conseguenza che il diritto si stabilizza in capo al dipendente solo qualora l’atto sia conforme alla volontà delle parti collettive.

Nella medesima direzione, ad avviso di Sez. L, n. 13479/2018, Di Paolantonio, Rv. 648739-01, il riconoscimento al lavoratore di un trattamento economico maggiore di quello previsto dalla contrattazione collettiva risulta essere affetto da nullità, con la conseguenza che la P.A., anche nel rispetto dei principi sanciti dall’art. 97 Cost., è tenuta al ripristino della legalità violata mediante la ripetizione delle somme corrisposte senza titolo.

Nella diversa prospettiva delle risorse per i trattamenti economici Sez. L, n. 28452/2018, Arienzo, Rv. 651700-01, ha precisato che, ai sensi del combinato disposto degli artt. 40, comma 3, 40-bis, comma 3, e 48 del d.lgs. n. 165 del 2001, nella formulazione anteriore alle modifiche apportate dal d.lgs. n. 150 del 2009, sono nulle le clausole dei contratti collettivi integrativi riconosciute incompatibili con i vincoli di bilancio in base al controllo annualmente demandato al collegio dei revisori dei conti ovvero, laddove tale organo non sia previsto, dai nuclei di valutazione o dai servizi di controllo interno ai sensi del d.lgs. n.286 del 1999.

Ai fini della progressione economica verticale, secondo Sez. L, n. 10953/2018, De Felice, Rv. 648197-01, per effetto dell’art. 4 della l. 26 febbraio 1999, n. 42, norma di portata generale, alla laurea breve vanno equiparati i titoli conseguiti in virtù del precedente ordinamento, quando detti titoli abbiano consentito l’iscrizione agli albi professionali o lo svolgimento dell’attività professionale.

Sez. L, n. 13482/2018, Di Paolantonio, Rv. 648986-01, ha effettuato un’importante precisazione distinguendo l’ipotesi del cd. avvalimento dal comando. Il primo caso si verifica quando l’amministrazione, anziché dotarsi di una struttura propria per lo svolgimento della funzione ad essa assegnata, si avvale degli uffici di altro ente, a cui non viene delegata la funzione stessa; in tale ipotesi non si determina alcuna modifica del rapporto di impiego, perché il personale dell’ente che fornisce la struttura necessaria allo svolgimento del compito resta incardinato in quest’ultimo a tutti gli effetti e non si verifica scissione fra rapporto di impiego e rapporto di servizio. Nel comando, invece, si verifica una dissociazione fra titolarità del rapporto d’ufficio, che resta immutata, ed esercizio dei poteri di gestione. Il cd. rapporto di servizio si modifica, in quanto il dipendente è inserito, sia sotto il profilo organizzativo-funzionale, sia sotto quello gerarchico e disciplinare, nell’amministrazione di destinazione, a favore della quale egli presta esclusivamente la sua opera.

Facendo applicazione dei principi ora esposti Sez. L, n. 16584/2018, De Felice, Rv. 649480-01, con riferimento al comando di personale dell’Ente Poste Italiane all’Avvocatura dello Stato, ha ritenuto che la concreta disciplina del rapporto di lavoro compete alla P.A. di destinazione. A norma del d.P.C.M. del 2 ottobre 2001, infatti, essa deve procedere all’inquadramento in base alla qualifica ricoperta dal lavoratore presso l’ente di provenienza.

In riferimento a determinate categorie di dipendenti si segnala per il personale degli enti locali Sez. L, n. 16946/2018, Torrice, Rv. 649601-01. La pronuncia chiarisce la portata applicativa dell’art. 51, comma 3 ter, della l. 8 giugno 1990, n. 142 per la possibile assegnazione di una indennità di funzione in favore di dipendenti cui è attribuita la responsabilità di uffici e servizi nei comuni privi di personale con qualifica dirigenziale.

Nell’ipotesi di equiparazione stipendiale, riconosciuta per effetto di sentenza passata in giudicato, del personale della ex IX qualifica funzionale (ora C 3) al personale direttivo del soppresso ruolo ad esaurimento, secondo Sez. L, n. 27676/2018, Blasutto, Rv. 651340-01, l’equiparazione in questione non può comprendere le componenti del trattamento retributivo che presuppongono il possesso di una pregressa anzianità nella qualifica del ruolo ad esaurimento.

Per i segretari comunali e provinciali, Sez. L, n. 05284/2018, Miglio, Rv. 647478-01, ha fornito i criteri per la regola del cd. riallineamento della retribuzione di posizione del segretario a quella stabilita per la funzione dirigenziale più elevata dell’ente, ai sensi dell’art. 41, comma 5, del c.c.n.l. del 16 maggio 2001.

Ulteriori chiarimenti in materia sono stati apportati da Sez. L, n. 15090/2018, Tria, Rv. 648959-01.

Per i dipendenti delle unità sanitarie locali Sez. L, n. 28150/2018, Di Paolantonio, Rv. 651517-01 ha chiarito che i componenti delle commissioni invalidi civili, non hanno diritto a compensi aggiuntivi, dal momento che l’attività svolta non esula dal rapporto di impiego, la cui disciplina esclude che il datore possa riconoscere emolumenti ulteriori non previsti dalla disciplina contrattuale. Ne consegue che, in virtù della disapplicazione espressamente prevista prima dall’art. 72 del d.lgs. n. 29 del 1993 e poi dall’art. 69, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001, l’efficacia dell’art. 1 della l. della Regione Calabria n. 8 del 1994 è cessata già con la stipula del c.c.n.l. del 7 aprile 1999, dovendosi attribuire alla legge regionale n. 1 del 2009 un valore meramente ricognitivo dell’avvenuta abrogazione.

In tema di personale del servizio consultivo ed ispettivo tributario (SE.CI.T.), Sez. L, n. 18814/2018, Di Paolantonio, Rv. 649819-01, ha, invece, chiarito che la speciale indennità di funzione, ex art. 22 del d.P.R. del 26 marzo 2001, n. 107 è commisurata “al trattamento economico fondamentale previsto dal contratto collettivo nazionale per i dirigenti di prima fascia”.

Con riferimento all’indennità prevista dall’art. 7 della l. 14 ottobre 1999, n. 362 per i dipendenti del Ministero della Sanità, secondo Sez. L, n. 12804/2018, Torrice, Rv. 648735-01, la sua disapplicazione, disposta dall’art. 67, comma 2, del d.l. n. 112 del 2008, conv., con modif., in l. n. 133 del 2008, è legittima e rispettosa dei parametri costituzionali ex artt. 3 e 36 Cost., nonché dei principi di non discriminazione di cui agli artt. 20 e 21 della Carta di Nizza e della direttiva n. 2000/78/CE, in quanto funzionale alla stabilizzazione della finanza pubblica.

Nei giudizi promossi per il pagamento delle differenze retributive maturate dai dipendenti delle aziende confiscate alla criminalità organizzata ai sensi della l. n. 575 del 1965, nel periodo antecedente all’entrata in vigore del d.lgs. n. 173 del 2003, (29 luglio 2003), sussiste la legittimazione passiva del Ministero dell’Economia e delle Finanze. Ad avviso di Sez. L, n. 15085/2018, Blasutto, Rv. 649353-01, con il citato d.lgs. è stato disposto il trasferimento delle competenze relative alla gestione ed utilizzazione dei beni mobili, immobili e delle aziende confiscati che restano devoluti allo Stato a seguito della definitività dei provvedimenti ablatori; detto trasferimento è stato operato in favore dell’Agenzia del Demanio ed ha dato luogo ad un fenomeno di successione a titolo particolare in posizioni attive e passive specificamente determinate, regolato dall’art. 111 c.p.c..

Sulla corresponsione dell’indennità chilometrica spettante in caso di missioni effettate dal personale regionale con mezzo proprio, Sez. L, n. 31881/2018, De Felice, Rv. 652021-01, ha chiarito che il limite di spesa previsto dall’art. 6, comma 12, del d.l. 31 maggio 2010, n. 78, conv. con modif. dalla l. 30 luglio 2010, n. 122, consentendo alle Regioni di modulare in modo discrezionale le percentuali di riduzione delle singole voci di spesa, non impedisce che tale riduzione possa essere mantenuta, nel rispetto dei criteri generali di correttezza e buona fede, se la sua soppressione si rilevi contraria ai principi di buon andamento di cui all’art. 97 Cost..

Sez. L, n. 15022/2018, Di Paolantonio, Rv. 648958-01, ha, poi, fornito il criterio interpretativo sull’applicazione temporale dell’indennità di cui all’art. 37 del d.P.R. del 12 febbraio 1991, n. 171, prevista in favore del personale delle istituzioni e degli enti di ricerca e sperimentazione di cui all’art. 9 della legge 9 maggio 1989, n. 168.

In tema di personale della Regione Friuli Venezia Giulia, Sez. L, n. 11836/2018, Di Paolantonio, Rv. 648951-01, ha escluso, infine, la nullità dell’art. 6 del contratto collettivo regionale lavoro per il personale non dirigente del 25 maggio 2006 per contrasto con l’art. 17 della l. regionale Friuli Venezia Giulia n. 20 del 2002.

3.3. Infermità, equo indennizzo ed applicazioni della l. n. 104 del 1992.

Sez. L, n. 14208/2018, Tricomi, Rv. 648993-01, ha tracciato i criteri distintivi tra l’accertamento della dipendenza dell’infermità da causa di servizio, se effettuata ai fini del riconoscimento della pensione privilegiata oppure dell’equo indennizzo. Nella prima ipotesi occorre accertare il nesso eziologico tra evento e infermità ed il relativo grado di quest’ultima; viceversa, per il riconoscimento dell’equo indennizzo la verifica ha ad oggetto il rapporto tra infermità stessa e menomazione. Posto che i due istituti sono regolamentati da norme differenti, fondamenti, oggetto e disciplina difformi, la pronuncia ha concluso che alla sentenza definitiva della Corte dei conti che accerta la causa di servizio ai fini della pensione privilegiata non può attribuirsi valore di giudicato esterno vincolante ai fini del riconoscimento dell’equo indennizzo. Ne deriva che, in caso di liquidazione di quest’ultima prestazione, può essere adottato un provvedimento di segno contrario e contrastante con quello adottato in relazione alla pensione, non essendovi tra i predetti provvedimenti alcuna correlazione diretta, immediata ed automatica.

Con riguardo all’equo indennizzo, Sez. L, n. 00675/2018, Di Paolantonio, Rv. 646728-01, ha individuato il momento in cui sorge il diritto alla prestazione che si verifica alla stabilizzazione della malattia lamentata. In particolare, ciò si realizza quando risultano realizzati gli elementi costitutivi della fattispecie: nesso causale fra attività lavorativa e infermità e fra quest’ultima e la lesione permanente dell’integrità psico-fisica. Ne consegue che la normativa applicabile al procedimento di liquidazione è quella vigente in tale data e non in quella successiva in cui il diritto stesso venga accertato in sede amministrativa.

Con riferimento alla l. 5 febbraio 1992, n. 104, Sez. L, n. 07981/2018, Torrice, Rv. 648192-02, ha affermato che l’art. 33, comma 5, non obbliga il lavoratore che assiste una persona con handicap in situazioni di gravità a scegliere la sede che appaia più conveniente per l’assolvimento dei compiti di assistenza, ma gli attribuisce solo il diritto a scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al domicilio della persona da assistere e di non essere trasferito senza il suo consenso ad altra sede.

Sez. L, n. 07693/2018, De Felice, Rv. 647666-01, ha effettuato ulteriori precisazioni sull’applicazione del citato art. 33, comma 5. La pronuncia, in particolare, ne ha ammesso il ricorso anche nell’ipotesi di conferimento di incarico dirigenziale a un soggetto già dipendente dell’amministrazione che, pur non costituendo un trasferimento in senso tecnico, comporti lo spostamento del luogo di lavoro. Occorre, tuttavia, che la scelta della sede preferenziale sia manifestata al momento dell’accettazione dell’incarico e non come reazione alla conoscenza della destinazione, restando irrilevante che il dipendente già godesse dei benefici della legge in questione e che, pertanto, la P.A. fosse a conoscenza della sua condizione personale.

4. Passaggio del personale tra amministrazioni.

Sez. L, n. 23618/2018, Arienzo, Rv. 650567-01, ha chiarito che la disciplina dell’art. 2112 c.c. si applica anche in caso di passaggio di personale da ente pubblico a società di diritto privato, alla quale è stato attribuito l’esercizio di funzioni o servizi in precedenza esercitati direttamente dall’ente, a prescindere dalla preesistenza di un’azienda in senso tecnico, ex art. 2555 c.c., e dalle modalità con le quali il trasferimento d’azienda è stato attuato, essendo ininfluente che il trasferimento sia avvenuto per atto negoziale o a seguito di provvedimento autoritativo.

In materia Sez. L, n. 16941/2018, De Felice, Rv. 649598-01, ha ritenuto che l’art. 202, comma 6, del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, prevedendo, in caso di passaggio di personale al nuovo gestore del servizio integrato dei rifiuti urbani, l’applicabilità, ai sensi dell’art. 31 del d.lgs. n. 165 del 2001, della disciplina del trasferimento del ramo di azienda di cui all’art. 2112 c.c., configura una fattispecie legale tipica di passaggio di attività, da ente pubblico a gestore privato, per il quale è sancito ope legis un travaso diretto e immediato del personale, a prescindere da ogni accertamento sull’assimilabilità della vicenda traslativa ad una cessione di azienda in senso proprio.

Nello stesso senso Sez. L, n. 00341/2018, Tria, Rv. 646725-01, ha chiarito anche che il citato art. 202, comma 6, costituisce una norma speciale finalizzata alla riorganizzazione complessiva del servizio di gestione integrata dei rifiuti urbani, volta ad assicurare la continuità dei dipendenti in servizio, con conseguente applicabilità della disciplina del trasferimento del ramo d’azienda ex art. 2112 c.c..

Occorre precisare che secondo Sez. L, n. 19437/2018, Blasutto, Rv. 649883-01, in tema di mobilità va escluso il diritto alla percezione dell’assegno ad personam di cui agli artt. 202 del d.P.R. n. 3 del 1957, e 3, comma 57, della l. 24 dicembre 1993, n. 537, trattandosi di previsione riferita esclusivamente ai passaggi presso la stessa o altra amministrazione da parte dei dipendenti statali, ivi compresi i casi di accesso per concorso, non estensibile alle altre categorie di dipendenti pubblici.

Con riguardo, invece a specifiche amministrazioni Sez. L, n. 17686/2018, Torrice, Rv. 649745-01, ha chiarito in quali limiti deve essere inteso il mantenimento del trattamento economico in godimento presso l’ente di provenienza nelle ipotesi di passaggio di dipendenti dall’Ente Nazionale Tabacchi, già Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato, al Ministero delle finanze.

Sez. L, n. 20873/2018, Miglio, Rv. 650134-01, per i casi di passaggio dei segretari comunali e provinciali ad altra amministrazione pubblica, ha affermato che non trova applicazione l’art. 1, comma 49, della l. 30 dicembre 2004, n. 311, che disciplina la possibilità del reinquadramento e dell’accesso alla dirigenza a seguito del processo di mobilità.

Per il personale dipendente dell’Ipsema transitato all’Inail, Sez. L, n. 10528/2018, De Felice, Rv. 648345-01, ha ritenuto legittima una selezione indetta presso quest’ultimo Istituto, riservata a dipendenti in servizio ad una certa data con rapporto di lavoro a tempo indeterminato, con conseguente esclusione del personale transitato. È rilevante il principio affermato, secondo cui la prosecuzione giuridica del rapporto di lavoro non fa venir meno la diversità fra le due fasi di svolgimento del rapporto medesimo, sempre che il trattamento differenziato non implichi la mortificazione di un diritto già acquisito dal lavoratore.

Con riferimento al trasferimento di personale del settore viabilità, Sez. L, n. 15017/2018, Blasutto, Rv. 649244-01, ha affermato la legittimità delle norme di attuazione dello statuto speciale della Regione Friuli Venezia Giulia, di cui al d.lgs. 1 aprile 2004, n. 111, in quanto la Regione è stata solo delegata a strutturare in concreto il passaggio del personale ANAS da un ente ad un altro, attraverso l’individuazione di un nuovo datore di lavoro e secondo le procedure selettive, predefinite dallo stesso delegante, di cui al d.p.c.m. n. 22 dicembre 2000 n. 448.

Si segnala, poi, Sez. L, n. 09956/2018, Bellè, Rv. 648949-01, secondo cui il servizio pre-ruolo prestato dai lavoratori assunti ai sensi dell’art. 26 della l. 1° giugno 1977, n. 285, presso il Ministero del Lavoro, e transitati nei ruoli della Regione Sicilia ai sensi dell’art. 5, comma 7, della l. regionale 23 dicembre 1985, n. 53, è computabile, al ricorrere di determinate condizioni, ai fini del riconoscimento dell’indennità di buonuscita, senza oneri di riscatto a carico del dipendente.

Sez. L, n. 26476/2018, Tria, Rv. 651235-01 ha affermato per il personale dell’Agensud transitato ad altra amministrazione, che l’art. 14-bis del d.lgs. 3 aprile 1996, n. 96, introdotto dall’art. 9 del d.l. 8 febbraio 1995, n., conv. in l. 7 aprile 1995, n. 104, attribuisce un assegno personale pensionabile, riassorbibile con qualsiasi successivo miglioramento, mentre eventuali indennità spettanti presso l’amministrazione di destinazione sono corrisposte solo nella misura eccedente l’importo del predetto assegno, ad eccezione della indennità integrativa speciale, che, di conseguenza, non può essere inclusa in misura piena nella base retributiva in aggiunta al medesimo assegno.

Sez. L, n. 31148/2018, De Felice, Rv. 651698-01, ha da ultimo chiarito che l’indennità mensile di ente, prevista dai c.c.n.l. del comparto enti di ricerca e sperimentazione, in quanto emolumento legato al raggiungimento di specifici risultati o obiettivi, va esclusa dalla base di computo dell’assegno personale non riassorbibile, che va quantificato tenuto conto delle sole voci retributive corrisposte in misura fissa e continuativa presso l’ente di provenienza.

5. Diritti sindacali.

In tema di repressione della condotta antisindacale, ai fini del riconoscimento del carattere nazionale dell’associazione sindacale legittimata all’azione ex art. 28 st.lav., per Sez. L, n. 14402/2018, Blasutto, Rv. 650158-01, assume rilievo decisivo la capacità di stipulare con il datore di lavoro contratti collettivi che trovino applicazione su tutto il territorio nazionale in riferimento al settore produttivo di riferimento. Ne consegue che tale legittimazione sussiste anche per quelle organizzazioni sindacali cui l’ARAN abbia riconosciuto la rappresentatività a livello nazionale ai sensi dell’art. 43, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001.

Ai sensi dell’art. 43, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001, secondo Sez. L, n. 13982/2018, Torrice, Rv. 649000-01, ove manchi uno dei dati, associativo o elettorale, la misurazione della rappresentatività nel comparto o nell’area delle organizzazioni sindacali deve essere effettuata ricorrendo al solo dato esistente, associativo o elettorale, il quale dovrà attestare da solo che la rappresentatività non sia inferiore al cinque per cento nell’ambito del comparto o dell’area. La compiutezza e la specialità della disciplina contenuta nell’art. 43 cit. non consente, ove manchi uno dei dati indicati in tale disposizione, l’applicazione in via di analogia dell’art. 19 st.lav..

Sez. L, n. 03095/2018, Di Paolantonio, Rv. 647395-02, ha fornito criteri interpretativi dell’art. 2, comma 2, del contratto collettivo nazionale quadro sulle modalità di utilizzo di distacchi, aspettative e permessi, ed altre prerogative sindacali, per il personale dei comparti delle P.A., stipulato il 7 agosto 1998, in relazione a quanto stabilito dall’art. 10 dello stesso contratto e dagli artt. 5 e 8 dell’accordo collettivo quadro per la costituzione delle rappresentanze sindacali unitarie per il personale dei comparti delle P.A. e per la definizione del relativo regolamento elettorale stipulato in pari data.

In generale, Sez. L, n. 03095/2018, Di Paolantonio Rv. 647395-01, ha chiarito che le disposizioni degli artt. 42 e 43 del d.lgs. n. 165 del 2001, sull’esercizio dei diritti e delle prerogative sindacali nei luoghi di lavoro, si pongono in rapporto di specialità rispetto alle corrispondenti norme dettate dalla legge e dai contratti collettivi per il settore privato. La disciplina prevista per il pubblico impiego, infatti, non solo, valorizza un concetto di rappresentatività che tiene conto del dato associativo e della forza elettorale delle singole associazioni, ma anche prevede che alla competizione per l’elezione dell’organismo di rappresentanza unitaria del personale (r.s.u.), basata sul criterio proporzionale puro, siano ammesse anche le organizzazioni sindacali che non abbiano i requisiti per partecipare alla contrattazione collettiva, purché siano dotate di un proprio statuto e abbiano aderito agli accordi e ai contratti collettivi che disciplinano l’elezione e il funzionamento dell’organismo. Da tali principi consegue l’inapplicabilità a tali rapporti dell’Accordo interconfederale del 20 dicembre 1993.

6. Patologie del rapporto di lavoro: responsabilità del lavoratore e procedimento disciplinare.

In tema di responsabilità ex art. 2087 c.c. Sez. L, n. 07097/2018, Tricomi, Rv. 647608-01, ha chiarito che, ove un dipendente ponga in essere sul luogo di lavoro una condotta lesiva nei confronti di un altro dipendente, il datore di lavoro, rimasto colpevolmente inerte nella rimozione del fatto lesivo e chiamato a rispondere ai sensi dell’art. 2087 c.c. nei confronti del lavoratore oggetto della lesione, ha diritto a rivalersi a titolo contrattuale nei confronti del dipendente, per la percentuale attribuibile alla responsabilità del medesimo. L’affermazione si fonda sul presupposto che il dipendente, nel porre in essere la suddetta condotta lesiva, è venuto meno ai doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro, quali sono gli obblighi di diligenza e di fedeltà e ai principi generali di correttezza e di buona fede, letti anche in riferimento al principio di buon andamento della P.A. di cui all’art. 97 Cost., che devono conformare, non solo, lo svolgimento dell’attività lavorativa, ma anche i rapporti tra i dipendenti pubblici sul luogo di lavoro.

Nel rapporto di pubblico impiego privatizzato, cui si applicano, in ragione del rinvio operato dall’art. 2, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001, i princìpi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa, Sez. L, n. 09736/2018, Blasutto, Rv. 648728-02, ha contribuito a delineare la nozione di insubordinazione; in particolare, essa non è limitata al rifiuto di adempiere alle disposizioni dei superiori, ma comprende qualsiasi altro comportamento atto a pregiudicare l’esecuzione e il corretto svolgimento di dette disposizioni nel quadro dell’organizzazione datoriale. Il lavoratore non può, dunque, fuori dei casi di inadempimento totale del datore di lavoro e in mancanza di un eventuale avallo giudiziario, conseguibile anche in via d’urgenza, rifiutarsi di eseguire la prestazione richiesta.

La trasgressione, da parte del pubblico dipendente, del divieto di svolgere un’attività retribuita alle dipendenze dei privati può comportare sanzioni disciplinari, secondo Sez. L, n. 06600/2018, Riverso, Rv. 647537- 01, ma non implica l’invalidità del contratto di lavoro privato stipulato in violazione del divieto e non esclude quindi che tale contratto produca i suoi normali effetti anche sul piano previdenziale e assistenziale.

In materia di procedimento disciplinare, Sez. L, n. 27387/2018, Blasutto, Rv. 650987-01, partendo dal principio che l’esercizio dell’azione disciplinare è obbligatorio a tutela del buon andamento della P.A., chiarisce, tuttavia, che il suo mancato esercizio non vale a rendere legittimo il rifiuto di svolgere la prestazione lavorativa opposto da un dipendente. In tale ipotesi, occorrerà valutare la sussistenza di una responsabilità omissiva del dirigente preposto alla attivazione del procedimento disciplinare.

Sulle annose questioni di diritto intertemporale è intervenuta Sez. L, n. 21193/2018, Blasutto, Rv. 650142-01, chiarendo che, quando la notizia dell’infrazione sia stata acquisita prima dell’entrata in vigore del d.lgs. 27 ottobre 2009, n. 150, e l’amministrazione abbia optato per il differimento dell’iniziativa disciplinare all’esito del giudizio penale, la fattispecie resta regolata dalla disciplina previgente, in forza del generale principio per cui i procedimenti sono regolati dalla normativa del tempo in cui gli atti sono stati posti in essere. Ne consegue che non vi è alcun onere di riattivazione del procedimento in conseguenza della definitiva soppressione della regola della pregiudizialità penale ad opera della novella.

Ai fini della decorrenza del termine perentorio previsto per la conclusione del procedimento disciplinare dall’acquisizione della notizia dell’infrazione, ai sensi dell’art. 55-bis, comma 4, del d.lgs. n. 165 del 2001, Sez. L, n. 21193/2018, Blasutto, Rv. 650142-02, ha affermato che, in conformità con il principio del giusto procedimento, assume rilievo esclusivamente il momento in cui tale acquisizione sia tale da consentire all’ufficio competente di dare, in modo corretto, l’avvio al procedimento disciplinare, nelle sue tre fasi fondamentali della contestazione dell’addebito, dell’istruttoria e dell’adozione della sanzione. Tale principio va applicato anche nell’ipotesi in cui il procedimento predetto abbia ad oggetto, in tutto o in parte, fatti sui quali è in corso un procedimento penale, posta l’autonomia dei due procedimenti.

Sulla stessa linea, ad avviso di Sez. L, n. 16706/2018, Torrice, Rv. 649360-01, la contestazione può essere ritenuta tardiva solo quando la P.A. rimanga ingiustificatamente inerte, pur essendo in possesso degli elementi necessari per procedere. Il termine non può, viceversa, decorrere a fronte di una notizia che, per la sua genericità, non consenta la formulazione dell’incolpazione e richieda accertamenti di carattere preliminare volti ad acquisire i dati necessari per circostanziare l’addebito.

È legittima secondo Sez. L, n. 16706/2018, Torrice, Rv. 649360-02, la delega dei poteri disciplinari del direttore generale regionale dell’Agenzia delle entrate in favore del direttore aggiunto prevista in via preventiva dal relativo atto istitutivo dell’Ufficio per i procedimenti disciplinari, trattandosi di scelta organizzativa finalizzata ad evitare intralci o rallentamenti in caso di assenza temporanea del direttore generale. L’art. 55-bis, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001, nel prevedere che ciascuna P.A. debba individuare l’ufficio competente per le sanzioni più gravi, persegue, infatti, l’obiettivo di garantire che tutte le fasi del procedimento vengano condotte da un soggetto terzo rispetto al lavoratore ed al capo struttura.

Restando in tema di delega, per Sez. L, n. 14200/2018, Di Paolantonio, Rv. 648991-01, il titolare dell’ufficio dei procedimenti disciplinari può delegare a dipendenti esterni allo stesso il compimento di atti istruttori, facendone propri i risultati, purché detti atti non abbiano contenuto valutativo o decisorio ed il soggetto delegato offra garanzia di terzietà ed imparzialità.

Il titolare dell’ufficio dei procedimenti disciplinari può delegare, secondo Sez. L, n. 11160/2018, Torrice, Rv. 648813-01, il compimento di singoli atti ai dipendenti assegnati all’ufficio stesso, purché ne faccia propri i risultati provvedendo all’esame della istruttoria, alla contestazione dell’addebito ed alla irrogazione della sanzione.

Al fine di verificare la specificità della contestazione, per Sez. L, n. 23771/2018, Di Paolantonio, Rv. 650571-01, occorre verificare se la stessa offra le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare i fatti addebitati, valorizzando l’idoneità dell’atto a soddisfare il diritto di difesa dell’incolpato. In quest’ottica, il rinvio per relationem a fonti esterne è consentito solo qualora riguardi atti dei quali il dipendente incolpato abbia già conoscenza, restando irrilevante, per superare la genericità della contestazione, che il dipendente stesso abbia esercitato il diritto di accesso agli atti istruttori del procedimento, che gli è garantito dall’art. 5-bis, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001.

L’apprezzamento circa la specificità della contestazione ad avviso di Sez. L, n. 13667/2018, Tricomi, Rv. 648786-01, deve essere condotto secondo i canoni ermeneutici applicabili agli atti unilaterali ed è riservato al giudice di merito, la cui valutazione è sindacabile in cassazione solo mediante precisa censura, non essendo sufficiente la prospettazione di una lettura alternativa a quella svolta nella decisione impugnata.

Sez. L, n. 06994/2018, Tricomi, Rv. 647668-01, ha chiarito che, secondo la disciplina antecedente alle modifiche introdotte dalla l. n. 150 del 2009, ove il lavoratore, in sede di audizione, intenda farsi assistere da un avvocato è necessario il consenso del datore di lavoro, restando irrilevante la pendenza per gli stessi fatti di un processo penale.

Con riferimento al comma 4 dell’art. 55-bis del d.lgs. n. 165 del 2001, nel testo previgente alle modifiche apportate dal d.lgs. 25 maggio 2017, n. 75, Sez. L, n. 22075/2018, Di Paolantonio, Rv. 650556-01, ha fornito precise indicazioni sui termini procedimentali ed ha affermato la loro prevalenza, in quanto di fonte normativa inderogabile, sulla disciplina contrattuale.

Sez. L, n. 29188/2018, Blasutto, Rv. 651747-01 ha chiarito che il prolungato ed ingiustificato rifiuto, da parte del dipendente pubblico, di effettuare gli accertamenti medici richiesti, seppure tenuto nel corso anziché nella fase di avvio della procedura di verifica dell’idoneità al servizio, ma idoneo a renderne impossibile lo svolgimento, legittima la P.A. a procedere ai sensi dell’art. 55-bis del d.lgs. n. 165 del 2001 alla contestazione disciplinare, che innesta un procedimento autonomo rispetto a quello di verifica della idoneità al servizio, non più possibile a causa della mancata collaborazione del dipendente pubblico.

Sez. L, n. 04429/2018, Negri della Torre, Rv. 647454-01, tuttavia, ha affermato che, il procedimento disciplinare iniziato o proseguito dopo che nei confronti del dipendente sia stata pronunciata sentenza penale irrevocabile di condanna, deve concludersi, ai sensi dell’art. 5, comma 4, del d.lgs. 27 marzo 2001 n. 97, nel termine di centottanta giorni dalla data di inizio o prosecuzione, fatti salvi i termini diversi previsti dalla contrattazione collettiva, da considerarsi perentori per i procedimenti nei quali la notizia dell’infrazione risulti acquisita dagli organi dell’azione disciplinare prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 150 del 2009.

Sulle caratteristiche dell’ufficio per i procedimenti disciplinari è intervenuta Sez. L, n. 09314/2018, De Felice, Rv. 648655-01, secondo cui, benché l’art. 55-bis, comma 4, del d.lgs. n. 165 del 2001 abbia rimesso all’autonomia degli ordinamenti di ciascuna amministrazione l’individuazione dell’ufficio per i procedimenti disciplinari, questo deve avere carattere pluripersonale. Di qui la necessità di valutare caso per caso se sia stato attribuito a detto organo la natura di collegio perfetto per la validità delle deliberazioni.

La regola generale dell’autonomia del procedimento disciplinare da quello penale, introdotta dall’art. 55-ter del d.lgs. n. 165 del 2001, come modificato dal d.lgs. n. 150 del 2009, ad avviso di Sez. L, n. 08410/2018, Blasutto, Rv. 647660-01, comporta che la sospensione del procedimento disciplinare costituisca un’ipotesi eccezionale, facoltativa. Ciò può avvenire nei casi di illeciti di maggiore gravità, qualora ricorra il requisito della particolare complessità nell’accertamento.

Un importante chiarimento proviene da Sez. L, n. 29376/2018, Tricomi, Rv. 651706-01 secondo cui, l’art. 55 ter, commi 1, 2, e 4 del d.lgs. n. 165 del 2001, nel regolare i possibili conflitti tra esito del procedimento penale concluso con sentenza irrevocabile di assoluzione e quello del procedimento disciplinare concluso con l’irrogazione di una sanzione, prevede un procedimento unitario, articolato in due fasi, in cui il previsto rinnovo della contestazione dell’addebito deve essere effettuato pur sempre in ragione dei medesimi fatti storici già oggetto della prima contestazione disciplinare, in relazione ai quali, in tutto o in parte, è intervenuta sentenza irrevocabile di assoluzione. La determinazione di conferma o modifica della sanzione già irrogata ha effetto ex tunc come anche l’accertamento in sede giurisdizionale dell’illegittimità non può che operare ex tunc.

Per Sez. L, n. 20708/2018, Di Paolantonio, Rv. 649927-02, la sospensione facoltativa del dipendente sottoposto a procedimento penale, in quanto misura cautelare e interinale, è correlata alla definizione del procedimento disciplinare e diviene priva di titolo, con conseguente diritto alla restitutio in integrum, ove all’esito del procedimento penale, anche se conclusosi con la condanna dell’imputato, il procedimento disciplinare non venga attivato, restando irrilevanti le dimissioni del dipendente nel frattempo eventualmente rassegnate. Nello stesso senso Sez. L, n. 10137/2018, Di Paolantonio, Rv. 648057-01, con riferimento all’ipotesi in cui il procedimento penale sfoci nella irrogazione di una sanzione meno afflittiva rispetto alla sospensione patita dal dipendente. La pronuncia precisa che, tuttavia, la restitutio in integrum non compete in caso di sospensione obbligatoria conseguente a provvedimento restrittivo della libertà personale.

Restando in tema di sospensione cautelare dal servizio del dipendente, il recupero della differenza tra retribuzione e assegno alimentare è escluso secondo Sez. L, n. 06598/2018, Lorito, Rv. 647536-01, quando l’addebito sia stato comunque ritualmente e tempestivamente accertato all’esito del procedimento disciplinare, seppure poi in concreto la relativa sanzione non sia stata eseguita o sia stata revocata.

Sez. L, n. 20708/2018, Di Paolantonio, Rv. 649927-01, si è pronunciata sull’art. 30, comma 2, del c.c.n.l. 5 dicembre 1996 per l’area della dirigenza medica e veterinaria, chiarendo che la norma, nel disciplinare gli effetti del procedimento penale sul rapporto di lavoro, consente la sospensione facoltativa del dirigente non sottoposto a misura restrittiva della libertà personale nell’ipotesi di rinvio a giudizio per reati di gravità tale da essere incompatibili con la presenza in servizio. Ne consegue che la sospensione disposta in epoca antecedente al rinvio a giudizio è invalida e non solo temporaneamente inefficace fino al verificarsi di tale circostanza.

Con riferimento alla specifica ipotesi dell’autoferrotranviere sospeso, ai sensi dell’art. 46, comma 6, all. A, del r.d. 8 gennaio 1931, n. 148, per procedimento disciplinare o per arresto dovuto a causa di servizio, in caso di assoluzione per non aver commesso il fatto, per inesistenza del reato o perché il fatto non costituisce reato, per Sez. L, n. 16027/2018, Arienzo, Rv. 649357-01, è corrisposto un indennizzo in misura pari alla differenza tra l’assegno alimentare erogato durante la sospensione e lo stipendio maturato nello stesso periodo, mentre non trova applicazione il regime di cui agli artt. 96 e 97 del d.P.R. n. 3 del 1957, avente un differente un ambito soggettivo ed oggettivo.

Sotto il profilo delle sanzioni, ad avviso di Sez. L, n. 09314/2018, De Felice, Rv. 648655-02, l’art. 55 quater, comma 1, lett. d), del d.lgs. n. 165 del 2001, legittima il recesso dell’amministrazione per falsità commesse ai fini o in occasione dell’instaurazione del rapporto di lavoro per sanzionare un comportamento ritenuto ex ante di particolare disvalore, senza restringere il campo di applicazione della norma a fattispecie di reato che precludono l’accesso al pubblico impiego. Nella pronuncia è chiarito che, in ogni caso, la giusta causa di licenziamento tipizzata dalla legge non costituisce un’ipotesi di destituzione di diritto, rimanendo affidata al giudice di merito la verifica in concreto dei presupposti per il legittimo esercizio del potere di recesso, con esclusione di ogni automatismo, censurabile di incostituzionalità.

Con riguardo all’art. 67 del c.c.n.l. del comparto agenzie fiscali del 28 maggio 2004, secondo Sez. L, n. 28445/2018, Torrice, Rv. 651719-01 è ravvisabile la giusta causa di recesso, nell’ipotesi di detenzione di ingente quantità di materiale pedopornografico, in quanto condotta gravemente contraria al dovere del pubblico dipendente di osservare le leggi e le regole morali, anche nella sfera della vita privata, dovendosi considerare, quanto all’elemento soggettivo, che l’elevato numero delle riproduzioni detenute denotava un atteggiamento antidoveroso della volontà particolarmente pervicace.

Sez. L, n. 21260/2018, Torrice, Rv. 650207-01, ha fornito un’interpretazione dell’art. 67, comma 6, lett. d), del c.c.n.l. comparto Ministeri nel senso che è legittima l’irrogazione del licenziamento senza preavviso per la commissione di atti o fatti, dolosi o meno, anche nei confronti di terzi, che siano connotati da una gravità tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro, pur non costituendo, tali atti o fatti, illeciti di rilevanza penale.

Sotto il profilo del contributo da parte della P.A. alle spese per la difesa del proprio dipendente, imputato in un procedimento penale, il requisito richiesto da Sez. L, n. 20561/2018, Blasutto, Rv. 650116-01, è l’esistenza di uno specifico interesse, ravvisabile ove l’attività sia imputabile alla P.A che, dunque, si ponga in diretta connessione con il fine pubblico, nonché la sussistenza di un nesso di strumentalità tra l’adempimento del dovere ed il compimento dell’atto. Il diritto al rimborso costituisce, infatti, la manifestazione di un principio generale di difesa volto, non solo, a tutelare l’interesse personale del dipendente coinvolto nel giudizio, e l’immagine della P.A. per cui lo stesso abbia agito, ma anche, a riferire al titolare dell’interesse sostanziale le conseguenze dell’operato di chi agisce per suo conto. Sostanzialmente nello stesso senso Sez. L, n. 18256/2018, Miglio, Rv. 649818-01, ma con riguardo all’art. 28 del c.c.n.l. enti locali del 14 settembre 2000. In altri termini, ma nella medesima direzione Sez. L, n. 17874/2018, De Felice, Rv. 649747-01, secondo cui il diritto al rimborso delle stesse, a norma dell’art. 67, comma 1, del d.P.R. 13 maggio 1987, n. 268, presuppone che non vi sia un conflitto d’interessi, e quindi che la condotta addebitata non sia stata il frutto di iniziative autonome, contrarie ai doveri funzionali o in contrasto con la volontà del datore di lavoro, secondo una valutazione ex ante che prescinde dall’esito del giudizio penale e dalla formula di eventuale assoluzione.

In generale, secondo Sez. L, n. 28597/2018, De Felice, Rv. 651742-01, l’amministrazione è tenuta al rimborso delle spese legali sostenute dal dipendente assolto in esito ad un processo penale solo quando i fatti oggetto dell’imputazione siano connessi con l’espletamento del servizio o con l’assolvimento degli obblighi istituzionali, non quando il rapporto di lavoro abbia costituito una mera occasione per la commissione dei fatti a lui imputati.

Con particolare riguardo alla previsione di rimborso delle spese legali ai dipendenti regionali sottoposti al giudizio di responsabilità per atti e comportamenti connessi all’espletamento del servizio e dei compiti di uffici che successivamente siano stati dichiarati esenti da responsabilità, affermata nell’art. 39 della l. regionale Sicilia 29 dicembre 1980, n. 145, Sez. 6 - 3, n. 20729/2018, Vincenti, Rv. 650486-01, ha ritenuto che, in forza dell’art. 24 della l. regionale Sicilia 23 dicembre 2000, n. 30, tale previsione è stata estesa a tutti i soggetti, ivi compresi gli amministratori pubblici e cioè, sia ai dipendenti degli enti locali, sia ai pubblici amministratori, tra i quali deve includersi il commissario straordinario di ex USL, in quanto titolare di tutti i poteri di organizzazione e gestione dell’ente normalmente attribuiti all’organo ordinario.

In argomento Sez. L, n. 10952/2018, Di Paolantonio, Rv. 648196-01, ha chiarito la portata applicativa dell’art. 25 del c.c.n.l. area dirigenza sanitaria e veterinaria dell’8 giugno 2000, ritenuta norma di miglior favore sia rispetto alle previsioni di cui all’art. 41 del d.P.R. n. 270 del 1987 che alla previgente disciplina pattizia.

Sul tema si è pronunciata anche Sez. L, n. 31324/2018, De Felice, in corso di massimazione, con riferimento all’art. 28 del c.c.n.l. enti locali 14 settembre 2000, confermando Sez. L, n. 25976/2017, Di Paolantonio, Rv. 646118-01. In particolare, si è affermato che il diritto al rimborso, da parte dell’amministrazione pubblica, delle spese sostenute per la difesa postula la nomina di un difensore di comune gradimento e tale presupposto non può ritenersi integrato quando il dipendente, dopo avere unilateralmente provveduto alla scelta ed alla nomina del legale di fiducia, si sia limitato a comunicare all’ente la nomina già effettuata.

7. La cessazione del rapporto di lavoro.

In tema di recesso durante il periodo in prova Sez. L, n. 26679/2018, Amendola, Rv. 651202-01, ha ritenuto che, analogamente a quanto previsto nella disciplina privatistica, il lavoratore, dipendente di una pubblica amministrazione, ha l’onere di allegare e provare o che le modalità dell’esperimento non risultassero adeguate ad accertare la sua capacità lavorativa oppure il positivo esperimento della prova o, ancora, la sussistenza di un motivo illecito o estraneo all’esperimento stesso. È, tuttavia, da escludere che l’obbligo di motivazione possa far gravare l’onere della prova sul datore di lavoro e che il potere di valutazione discrezionale dell’amministrazione possa essere oggetto di un sindacato che omologhi la giustificazione del recesso per mancato superamento della prova alla giustificazione del licenziamento per giusta causa o giustificato motivo. Sostanzialmente nello stesso senso Sez. L, n. 22396/2018, Di Paolantonio, Rv. 650541-01.

Sul punto, ma con riferimento all’art. 14 del c.c.n.l. Dirigenza medica e veterinaria dell’8 giugno 2000 Sez. L, n. 15638/2018, Blasutto, Rv. 649324-01, ha chiarito che l’obbligo di motivazione è volto ad evitare che il recesso possa essere disposto per ragioni illecite o comunque estranee al rapporto e consentire al giudice l’adeguato controllo. In particolare, la motivazione deve essere contestuale all’atto di recesso e la possibilità di integrazione per relationem vale solo con riferimento ad atti e documenti già comunicati al lavoratore destinatario.

Per quanto riguarda il licenziamento, nel regime anteriore alle modifiche apportate all’art. 63 del d.lgs. n. 165 del 2001 dal d.lgs. n. 75 del 2017, secondo Sez. L, n. 19520/2018, Di Paolantonio, Rv. 650086-02, il risarcimento del danno spettante al dipendente illegittimamente licenziato va commisurato alle retribuzioni maturate nel periodo compreso fra la data del licenziamento e quella di estinzione automatica del rapporto, che si verifica al compimento dell’età massima prevista per il collocamento a riposo d’ufficio, salvo che prima di detta data il dipendente abbia rinunciato alla reintegrazione e manifestato la volontà di non riprendere servizio.

Sez. L, n. 19520/2018, Di Paolantonio, Rv. 650086-01, ha ritenuto che l’illegittimità del licenziamento di un dirigente comporta l’applicazione della disciplina di cui all’art. 18 st.lav., con conseguenze reintegratorie, a norma dell’art. 51, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001. Il risarcimento va commisurato, dunque, non al solo trattamento economico fondamentale, ma anche alla retribuzione di posizione prevista per l’incarico ricoperto al momento dell’illegittimo recesso dal rapporto.

Dal punto di vista sostanziale, ad avviso di Sez. L, n. 22683/2018, Torrice, Rv. 650558-01, legittima la sanzione espulsiva del licenziamento la condotta del dipendente, responsabile del procedimento amministrativo, il quale ometta di astenersi dalle attività di ufficio in caso di conflitto di interessi, ovvero ometta di segnalare situazioni di conflitto, anche solo potenziale, venendo in rilievo obblighi finalizzati a garantire la trasparenza ed imparzialità dell’azione amministrativa e, ad un tempo, a prevenire fenomeni corruttivi.

Costituisce violazione certamente del minimo etico, secondo Sez. 6 - L, n. 12994/2018, Di Paola, Rv. 649066-01, la condotta extralavorativa di consumo di sostanze stupefacenti ad opera di un lavoratore adibito a mansioni di conducente di autobus, definite a rischio, a prescindere dal mancato riferimento, nell’ambito del r.d. n. 148 del 1931, alla descritta condotta.

Restando nei servizi di trasporto pubblico, Sez. L, n. 21620/2018, Marotta, Rv. 650223-01, ha chiarito che, per l’accertamento dell’illegittimità del licenziamento disposto a seguito di giudizio di inidoneità, non è vincolante per il giudice di merito adito il parere della Commissione medica di cui all’art. 29 del r.d. n. 148 del 1931, all. A), avendo egli il potere-dovere di controllare l’attendibilità degli accertamenti sanitari effettuati dalla predetta Commissione.

Sotto un altro profilo Sez. L, n. 07586/2018, Torrice, Rv. 647664-01, ha affermato che, nel caso di impugnativa di licenziamento secondo il rito di cui all’art. 1, comma 48, della l. 28 giugno 2012, n. 92 del 2012, ove sia accertata la nullità del rapporto di impiego pubblico perché costituito, in violazione dell’art. 97 Cost., al di fuori della procedura del pubblico concorso e sia perciò rigettata la domanda diretta a ottenere i provvedimenti restitutori, reali ed economici, previsti dall’art. 18 st. lav., è comunque ammissibile la domanda volta al pagamento della retribuzione dovuta ai sensi dell’art. 2126 c.c. nell’arco temporale compreso tra il provvedimento espulsivo e la sua esecuzione, in quanto fondata sugli identici fatti costitutivi dedotti nel processo e dunque compatibile con le esigenze del rito speciale introdotto dalla l. n. 92 del 2012.

Nella specifica ipotesi di risoluzione del rapporto di lavoro del direttore tecnico scientifico dell’Agenzia Regionale per la Protezione dell’Ambiente (A.R.P.A), Sez. L, n. 25089/2018, Tricomi, Rv. 650790-01, ha ritenuto illegittima l’applicazione della causa di decadenza automatica entro i tre mesi successivi alla nomina di un nuovo direttore generale, contemplata dall’art. 9, comma 6, della l. Regione Friuli Venezia Giulia n. 6 del 1998, in caso di sopravvenuta nomina del Commissario straordinario di cui alla l.r. n. 9 del 2008.

Sul diverso versante dell’esercizio del diritto di opzione per la prosecuzione del servizio di cui all’art. 16 del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 503, Sez. L, n. 21449/2018, De Felice, Rv. 650217-01, ha individuato come unica conseguenza la posticipazione del termine dell’età pensionabile. Qualora, dunque, il lavoratore intenda recedere nel corso della prosecuzione volontaria del rapporto di lavoro, ha l’obbligo di darne preavviso ex art. 2118 c.c..

Un’importante precisazione proviene da Sez. L, n. 20555/2018, Tria, Rv. 650115-01, secondo cui l’istituto della decadenza dal rapporto di impiego, come disciplinato dagli artt. 60 e ss. del d.P.R. n. 3 del 1957, si applica ai dipendenti di cui all’art. 2, commi 2 e 3, del d.lgs. n. 165 del 2001, in forza dell’espressa previsione contenuta nell’art. 53, comma 1, dello stesso decreto. Detta norma disciplina, infatti, la materia delle incompatibilità ed è dunque estranea all’ambito delle sanzioni e della responsabilità disciplinare di cui all’art. 55 dello stesso testo normativo.

Con specifico riguardo agli avvocati dipendenti degli enti pubblici, iscritti all’albo speciale annesso a quello professionale Sez. 1, n. 27308/2018, Sambito, Rv. 651468-01 ha affermato che la a cessazione del rapporto di impiego determina il totale venir meno dello ius postulandi e l’automatica interruzione del processo, ancorché il giudice e le parti non ne abbiano avuto conoscenza, con la conseguente nullità di tutti gli atti successivamente compiuti e della sentenza eventualmente pronunciata, che può essere dedotta mediante l’impugnazione, in funzione di richiesta di prosecuzione del giudizio, solo dalla parte colpita dall’evento interruttivo, stante l’inapplicabilità dell’art. 85 c.p.c..

8. La dirigenza.

Con riferimento ad una controversia relativa al conferimento di un incarico dirigenziale, Sez. U, n. 33212/2018, Tria, Rv. 652081-01, ha ribadito il principio consolidato (tra le altre Sez. U, n. 04881/2017, Manna A., Rv. 643113-01), secondo cui è preluso al giudice ordinario disapplicare un atto autoritativo presupposto di macro organizzazione, laddove sulla base della prospettazione della domanda il privato non vanti una posizione di diritto soggettivo, ma di semplice interesse legittimo.

Sez. L, n. 21973/2018, Di Paolantonio, Rv. 650531-01, ha chiarito che al dipendente vincitore del concorso per dirigente spetta, sino al conferimento del primo incarico, la differenza fra il trattamento economico fisso riconosciuto al dirigente dal contratto collettivo, stipendio tabellare, RIA, maturato economico annuo, assegno ad personam o elemento fisso, ove acquisiti, e il trattamento economico effettivamente ricevuto, con esclusione di quello accessorio, retribuzione di posizione, che è, invece, correlato all’effettiva attribuzione delle funzioni dirigenziali e all’assunzione delle connesse responsabilità.

In via generale Sez. L, n. 04351/2018, De Felice, Rv. 647452-01, avuto riguardo al personale con qualifica dirigenziale, ha precisato che, ai fini della decorrenza della prescrizione dei crediti rileva il regime di stabilità proprio del rapporto fondamentale d’impiego e non la disciplina del contratto a tempo determinato applicabile all’incarico dirigenziale.

Sez. L, n. 32877/2018, Di Paolantonio, Rv. 652094, ha chiarito che nel corso del periodo di prova ex c.c.n.l. dell’8 giugno 2000 per la dirigenza non medica del servizio sanitario nazionale non è necessaria l’assegnazione di un incarico con la conseguente fissazione degli obiettivi, i quali seguiranno all’esito dell’esperimento, finalizzato a verificare l’idoneità dell’assunto ad assumere funzioni dirigenziali.

Con specifico riguardo al lavoro negli enti locali Sez. L, n. 31091/2018, Torrice, Rv. 651684-01 ha affermato che l’atto di risoluzione del rapporto per mancato superamento del periodo di prova adottato dalla Giunta municipale nei confronti del dirigente è affetto da inefficacia, poiché detto organo, in quanto titolare di poteri di indirizzo e controllo politico amministrativo, è estraneo all’apparato burocratico del Comune e, pertanto, è del tutto privo dei poteri di gestione dei rapporti di lavoro. Tale inefficacia, in applicazione dei principi generali in tema di pubblico impiego, non comporta la conversione del rapporto in prova in uno a tempo indeterminato.

Ai fini del computo della durata di un incarico dirigenziale, rileva la data di effettivo inizio del rapporto di lavoro. Ne consegue, secondo, Sez. L, n. 17369/2018, Boghetich, Rv. 649741-01, che è da quest’ultima che decorre il termine minimo di tre mesi, di cui all’art. 35 del d.P.R. 4 ottobre n. 902, per l’adozione della delibera di mancato rinnovo del contratto.

Sotto il profilo dell’esecuzione del contratto è intervenuta Sez. L, n. 02603/2018, Tria, Rv. 647373-01, precisando che se, illegittimamente, una P.A. dà esecuzione al contratto individuale di lavoro di un dirigente prima della registrazione del decreto di conferimento dell’incarico stesso da parte della Corte dei conti, si assume ogni responsabilità inerente e conseguente alla eventuale mancata registrazione e, qualora decida di procedere alla brusca revoca dell’incarico, anziché controdedurre ai rilievi formulati dalla Corte dei conti, in sede di controllo preventivo, deve farlo mettendo l’interessato in condizione di intervenire nel relativo procedimento decisionale e di conoscere adeguatamente le ragioni poste a base della scelta operata.

Con riguardo all’espletamento di fatto di mansioni dirigenziali Sez. L, n. 00752/2018, Di Paolantonio, Rv. 646269-01, ha precisato che, in assenza di un atto formale di preposizione all’ufficio momentaneamente sprovvisto di titolare, affinché si possa configurare il diritto al corrispondente trattamento economico, è necessario che le mansioni siano state svolte con le caratteristiche richieste dalla legge, ovvero con l’attribuzione in modo prevalente sotto il profilo qualitativo, quantitativo e temporale, dei compiti propri di tali mansioni.

Necessario presupposto, ai fini del riconoscimento del corrispondente trattamento economico, è, secondo Sez. L, n. 350/2018, Tricomi, Rv. 646564-01, l’esistenza del corrispondente posto nella pianta organica dell’ufficio. Nello stesso senso Sez. L, n. 28451/2018, Blasutto, Rv. 651699-01.

In tema Sez., n. 16698/2018, Tria, Rv. 649487-01, in conformità a quanto deciso da Sez. L, n. 9878/2017, Torrice, Rv. 643761-01, ha confermato che la reggenza di un ufficio dirigenziale è contraddistinta dalla straordinarietà e temporaneità; pertanto, ove tale situazione si protragga senza che, nei limiti temporali ordinari, sia stato aperto il procedimento di copertura del posto vacante, al dipendente che svolge mansioni dirigenziali va riconosciuta la corresponsione dell’intero trattamento economico previsto, nel quale sono da includere la retribuzione di posizione e quella di risultato.

In linea con tale orientamento, ma con specifico riguardo alle aziende sanitarie Sez. L, n. 30811/2018, Di Paolantonio, Rv. 651752-01, ha affermato che l’assegnazione di fatto del funzionario non dirigente ad una posizione dirigenziale, prevista dall’atto aziendale e dal provvedimento di graduazione delle funzioni, costituisce espletamento di mansioni superiori, rilevante ai fini e per gli effetti previsti dall’art. 52 del d.lgs. n. 165 del 2001, la cui applicazione non è impedita dal mancato espletamento della procedura concorsuale, dall’assenza di un atto formale e dalla mancanza della previa fissazione degli obiettivi, che assume rilievo, eventualmente, per escludere il diritto a percepire anche la retribuzione di risultato.

Nello stesso senso Sez. L, n. 04622/2018, Tricomi, Rv. 647472-01, che, tuttavia, precisa che la retribuzione di risultato nella sua parte fissa può essere in concreto erogata solo all’esito della positiva verifica dei risultati di gestione, come imposto dagli artt. 44, comma 3, del c.c.n.l. 5 aprile 2001 e 57, comma 3, del c.c.n.l. 21 aprile 2006.

Un importante chiarimento proviene da Sez. L, n. 3094/2018, Tricomi, Rv. 647408-01, secondo cui il dirigente ministeriale, cui sia stato conferito un incarico aggiuntivo di reggenza presso un altro ufficio pubblico, non ha diritto ad una maggiore remunerazione. L’affermazione si fonda sul principio di onnicomprensività della retribuzione dirigenziale, in ragione del quale il trattamento economico dei dirigenti remunera tutte le funzioni e i compiti loro attribuiti secondo il contratto individuale o collettivo, nonché qualsiasi incarico conferito dall’amministrazione di appartenenza o su designazione della stessa. Ne consegue che in caso di conferimento illegittimo di tale incarico, infatti, non può trovare applicazione l’art. 2126 c.c., riferibile alle ipotesi in cui la prestazione lavorativa sia eseguita in assenza di titolo per la nullità del rapporto di lavoro.

Più in particolare, Sez. L, n. 29408/2018, Blasutto, Rv. 651721-01, ha precisato che il servizio prestato da un dipendente di un ente locale a seguito di nomina a direttore generale dell’Agenzia Regionale per la Protezione Ambientale del Molise, il cui trattamento economico e normativo è equiparato a quello dei direttori generali delle aziende sanitarie della regione, ai sensi dell’art. 9 della l. regionale del Molise n. 38 del 1999, è utile ai fini del trattamento di quiescenza e previdenza, ai sensi dell’art. 3-bis del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502, come aggiunto dall’art. 3 del d.lgs. 19 giugno 1999, n. 229, e per esso le amministrazioni di appartenenza effettuano il versamento dei contributi previdenziali commisurati al trattamento economico corrisposto per l’incarico conferito. La pronuncia ha individuato i riflessi di tale principio sull’indennità premio di fine servizio, provvedendo a fornire criteri sulla sua quantificazione.

Sez. L, n. 25844/2018, De Felice, Rv. 650988-01, ha escluso, poi, che possa essere corrisposto trattamento economico differenziale per lo svolgimento di mansioni superiori di cui all’art. 52, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001 al funzionario inquadrato nella posizione economica C 3 super, che abbia esercitato le funzioni di dirigente amministrativo di un ufficio giudiziario.

In tema, ma con specifico riguardo alle case circondariali di livello dirigenziale non generale, per Sez. L, n. 27388/2018, Blasutto, Rv. 650991-01, lo svolgimento in fatto di funzioni direttive deriva dalla preposizione alla direzione di un istituto penitenziario che sia stato riconosciuto come tale da un apposito d.m. di classificazione che riveste carattere costitutivo. Dalla data di adozione di tale decreto, dunque, deve decorrere il diritto al superiore trattamento retributivo.

Sulla dirigenza penitenziaria Sez. L, n. 31166/2018, De Felice, Rv. 652010-01, si è pronunciata sulla norma transitoria di cui all’art. 4, comma 1, della l. 31 luglio 2005, n. 154, precisando che il requisito formale in esso previsto dell’accesso per concorso pubblico all’area C, profilo professionale C3, previsto per la nomina a dirigente non può essere equiparato l’avere acquisito la detta qualifica di inquadramento mediante procedura selettiva interna di riqualificazione, cd. corso-concorso. In proposito la pronuncia ribadisce che il modello concorsuale, basato sul metodo comparativo costituisce un vincolo per le amministrazioni pubbliche, ai sensi dell’art. 97 Cost., a meno che la legge non ne preveda espressamente la deroga.

Sul diverso versante delle mansioni, Sez. L, n. 04986/2018, Di Paolantonio, Rv. 647498-01, ha chiarito che i dirigenti medici non hanno il diritto soggettivo a svolgere interventi equivalenti per qualità e quantità a quelli affidati ad altri dirigenti della medesima struttura, né a quelli svolti nel passato. In ogni caso, nella distribuzione del lavoro e nell’assegnazione degli incarichi, il datore di lavoro è tenuto a non mortificare la personalità del dirigente con l’attribuzione di funzioni che esulino del tutto dal bagaglio di conoscenze specialistiche posseduto, fermo il rispetto delle esigenze superiori di tutela della salute dei cittadini.

Secondo Sez. L, n. 08674/2018, Tricomi, Rv. 648631-01, la cessazione di un incarico di funzione, e la successiva attribuzione di un incarico di studio ai sensi dell’art. 19, comma 10, del d.lgs. n. 165 del 2001, non determina un demansionamento, in quanto la qualifica dirigenziale esprime esclusivamente l’idoneità professionale del dipendente, senza che sia configurabile un diritto soggettivo a mantenere o a conservare un determinato incarico.

Più nello specifico, la sostituzione nell’incarico di dirigente medico del S.S.N., ai sensi dell’art. 18 del c.c.n.l. dirigenza medica e veterinaria dell’8 giugno 2000, ad avviso di Sez. L, n. 21565/2018, Di Paolantonio, Rv. 650221-01, non si configura come svolgimento di mansioni superiori poiché avviene nell’ambito del ruolo e livello unico della dirigenza sanitaria. Non trova applicazione, dunque, l’art. 2103 c.c. e al sostituto non spetta il trattamento accessorio del sostituito, ma solo la prevista indennità cd. sostitutiva. Irrilevante, poi, in tal senso è la prosecuzione dell’incarico oltre il termine di sei mesi, o di dodici, se prorogato, per l’espletamento della procedura per la copertura del posto vacante, dovendosi considerare adeguatamente remunerativa l’indennità sostitutiva.

Nel settore dei lavori pubblici Sez. L, n. 18274/2018, Blasutto, Rv. 649984-01, ha chiarito che il conferimento della funzione di responsabile unico del procedimento richiede, ai sensi dell’art. 7 della l. 11 febbraio 1994, n. 109, un formale atto di nomina, in assenza del quale il compenso previsto dall’art. 18 della stessa legge non spetta al dirigente dell’ufficio tecnico di un ente pubblico locale per il solo fatto che l’art. 5 della l. n. 241 del 1990 consideri responsabile del procedimento il funzionario preposto a ciascuna unità organizzativa.

Sotto il profilo del trattamento economico con particolare riferimento ai dirigenti della Regione Calabria, per Sez. 6 - L, n. 10307/2018, Esposito, Rv. 648206-01, nella retribuzione mensile lorda utile ai fini del calcolo dell’indennità incentivante all’esodo ex art. 7, comma 6, della l. regionale Calabria n. 8 del 2005, va inclusa anche la tredicesima mensilità, indipendentemente dalla relativa previsione nel contratto intercorso tra le parti, in ragione della sua natura retributiva ed in quanto dotata dei requisiti di fissità, continua attività, costanza e generalità.

Per quanto riguarda la determinazione dell’ammontare del fondo finalizzato a finanziare la retribuzione di posizione e di risultato, di cui all’art. 58 del c.c.n.l. del personale dirigente del comparto Ministeri del 21 aprile 2006, deve tenersi conto delle sole posizioni dirigenziali effettivamente coperte e non di tutte quelle contemplate nell’organico dell’ente, come affermato da Sez. L, n. 20618/2018, Di Paolantonio, Rv. 650159-01.

Sotto il profilo processuale, Sez. L, n. 15521/2018, Di Paolantonio, Rv. 64932-01, ha chiarito che l’azione volta alla rideterminazione del fondo per la retribuzione di risultato di cui all’art. 61 del c.c.n.l. del 1996 per i dirigenti non medici del comparto Sanità deve essere proposta nei confronti di tutti i dirigenti professionali, tecnici, amministrativi e, dunque, ricorre un’ipotesi di litisconsorzio necessario, in quanto la variazione in aumento chiesta da alcuni determina di necessità la riduzione del quantum spettante ad altri, posto che l’ammontare complessivo del fondo rappresenta il limite massimo non superabile dall’azienda sanitaria.

Sez. L, n. 19639/2018, Blasutto, Rv. 649987-01, ha chiarito in quali termini va interpretato l’art. 13, comma 4, del c.c.n.l. dirigenti Area 1, nella parte in cui fa riferimento ad un incarico equivalente. La norma va intesa nel senso che deve essere assicurata, non già l’equivalenza di mansioni, bensì solo quella economica, costituendo la percentuale massima di riduzione della retribuzione di posizione il limite di salvaguardia del trattamento economico equivalente.

Spetta ai componenti della Commissione tecnico-scientifica per la valutazione dei progetti di protezione e risanamento ambientale, di cui all’art. 14 della l. 28 febbraio 1986, n. 41, secondo Sez. L, n. 22189/2018, Blasutto, Rv. 650536-01, la speciale indennità di funzione, prevista dall’art. 12 della l. 24 aprile 1980, n. 146, in aggiunta al trattamento economico commisurato a quello del dirigente di prima fascia.

Sono stati meglio precisati, infine, da Sez. L, n. 29168/2018, Di Paolantonio, Rv. 651743-01, i limiti di applicazione della declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 161, del d.l. 3 ottobre 2006, n. 262, conv. con modif. in l. 24 novembre 2006, n. 286, applicativo del sistema del cd. spoil system. In particolare, il diritto del dirigente dichiarato decaduto alla reintegrazione nell’incarico per il tempo residuo, trova il limite della situazione esaurita al momento della pronuncia della Corte cost., per tale intendendo eventuali sentenze passate in giudicato ovvero altri fatti ed atti, parimenti rilevanti sul piano sostanziale o processuale, che producono il medesimo effetto giuridico. A tal fine, tuttavia, non è sufficiente lo spirare del termine originariamente apposto al contratto nei casi in cui il dirigente dichiarato decaduto, prima della scadenza di detto termine e della dichiarazione di incostituzionalità, abbia tempestivamente reagito alla rimozione ed abbia agito in giudizio per contestare la legittimità dell’atto adottato.

9. Il personale docente.

In tema di reclutamento del personale scolastico, secondo Sez. L, n. 10948/2018, Tria, Rv. 648628-01, la determinazione dei contingenti da destinare alle nomine in ruolo dei docenti e la definizione delle quote riservate ai docenti disabili, per ogni anno scolastico e per ciascun ambito territoriale, è di competenza esclusiva dell’amministrazione centrale, mentre le articolazioni territoriali devono limitarsi a procedere tempestivamente alle assunzioni, nel rigoroso rispetto dei contingenti e delle quote. L’amministrazione periferica, provinciale o regionale, pertanto, non ha competenza per modificare o annullare la procedura di reclutamento, sia pure con esclusivo riferimento all’ambito territoriale di rispettiva competenza.

Per il docente, dichiarato inidoneo alla propria funzione per motivi di salute e collocato d’ufficio in malattia, Sez. L, n. 01648/2018, Di Paolantonio, Rv. 647206-01, ha escluso che possa essere sottoposto agli accertamenti previsti dall’art. 35 della l. 27 dicembre 2002, n. 289, che presuppongono la dichiarazione della commissione medica presso l’ASL di inidoneità, per motivi di salute, all’insegnamento e di idoneità ad altri compiti e la richiesta del lavoratore di essere collocato fuori ruolo o di essere utilizzato in compiti diversi dall’insegnamento.

È intervenuta, poi, Sez. L, n. 26016/2018, De Felice, Rv. 651046-01, sul tema della compatibilità tra la professione di avvocato e l’impiego pubblico chiarendo che, per effetto della mancata disapplicazione del comma 58-bis dell’art. 1 del d.lgs. 23 dicembre 1996, n. 662, introdotto dal d.l. 28 marzo 1997, n. 79, conv. con modif. in l. 28 maggio 1997, n.140 del 1997, da parte dell’art. 1, comma 1, della l. 25 novembre 2003, n. 339, all’amministrazione scolastica compete la valutazione in concreto della legittimità dell’assunzione del patrocinio legale da parte dell’insegnante che ivi presti servizio, nonché l’individuazione delle attività che, in ragione dell’interferenza con i compiti istituzionali, non sono consentite ai dipendenti, con particolare riferimento all’assunzione della difesa in controversie di cui è parte la stessa amministrazione scolastica.

Sotto il profilo del trattamento economico Sez. L, n. 20015/2018, Di Paolantonio, Rv. 650043-01, ha fornito l’interpretazione dell’art. 7, comma 1, del c.c.n.l. per il personale del comparto scuola del 15 marzo 2001, che attribuisce la retribuzione professionale docenti a tutto il personale docente ed educativo, per la quale nella previsione vanno ricompresi anche tutti gli assunti a tempo determinato, a prescindere dalle diverse tipologie di incarico previste dalla l. 3 maggio 1999, n. 124 del 1999. In particolare, il successivo richiamo contenuto nel comma 3 alle modalità stabilite dall’art. 25 del c.c.n.i. del 31 agosto 1999 deve intendersi limitato ai soli criteri di quantificazione e di corresponsione del trattamento accessorio e non si estende all’individuazione delle categorie di personale richiamate dal predetto contratto collettivo integrativo.

Sez. L, n. 29637/2018, Blasutto, Rv. 651728-01 ha chiarito, poi, sulla base del principio dell’inderogabilità di quanto oggetto di contrattazione collettiva, che i docenti degli istituti di alta formazione, di specializzazione e di ricerca nel settore artistico e musicale (AFAM) hanno diritto al trattamento economico previsto dal c.c.n.l. del comparto di appartenenza, non potendosi applicare il c.c.n.l. del comparto scuola, né operare confronti tra le due regolamentazioni, in quanto non è consentito al datore di lavoro pubblico attribuire trattamenti diversi da quelli contrattualmente stabiliti.

In tema, ai fini della determinazione della cd. indennità di presidenza, prevista dall’art. 69 del c.c.n.l. del 4 agosto 1995 in favore dei docenti incaricati dell’ufficio di presidenza o di direzione, Sez. L, n. 17687/2018, Blasutto, Rv. 649746-01, ha indicato i criteri per la base di computo del differenziale.

Sez. L, n. 10145/2018, Di Paolantonio, Rv. 648733-01, ha chiarito, poi, i criteri per la determinazione dell’assegno ad personam nel caso di passaggio diretto dal Ministero dell’Istruzione al Ministero degli Affari Esteri, avvenuto nella vigenza della predetta formulazione del citato art. 30 del d.lgs. n. 165 del 2001, nella sua formulazione originaria, modificata dall’art. 16 della l. 28 novembre 2005, n. 246.

Per il periodo antecedente l’entrata in vigore del d.lgs. n. 150 del 2009, Sez. L, n. 31086/2018, Tria, Rv. 651682-01, con riguardo ai procedimenti disciplinari dei docenti della scuola pubblica ha chiarito che si applicano gli artt. da 100 a 123 del d.P.R. n. 3 del 1957, come confermato dall’assenza di disposizioni direttamente rinvenibili sia nel d.lgs. n. 165 del 2001, quale fonte generale, sia nella contrattazione collettiva di settore del periodo 1994-1997. La conseguenza è che non sussiste il diritto dell’incolpato ad essere sentito oralmente a propria difesa in caso di irrogazione di sanzioni più gravi del rimprovero orale.

In tema di sanzioni disciplinari nei confronti del personale docente, Sez. L, n. 00095/2018, Di Paolantonio, Rv. 646571-01, ha chiarito l’ambito di applicazione dell’art. 503, comma 5-bis, del d.lgs. 16 aprile 1994, n. 297, nel testo vigente ratione temporis, per l’individuazione del termine per la conclusione del procedimento disciplinare.

PARTE QUINTA IL DIRITTO DEL LAVORO E DELLA PREVIDENZA --- SEZIONE TERZA - IL DIRITTO DELLA PREVIDENZA SOCIALE

  • regime pensionistico

CAPITOLO XXII

LA PREVIDENZA SOCIALE

(di Annachiara Massafra )

Sommario

1 Premessa. - 2 L’obbligazione contributiva. - 2.1 Classificazione e qualificazione dei soggetti obbligati. - 2.2 La retribuzione imponibile. - 2.2.1 Inclusioni ed esclusioni. - 2.3 Il minimale contributivo. - 3 I benefici contributivi: l’esposizione all’amianto. - 4 Gli sgravi contributivi. - 4.1 Gli aventi diritto. - 4.2 L’incremento occupazionale e gli incentivi all’assunzione. - 4.3 L’onere della prova. - 4.4 La disciplina di dettaglio. - 5 Le esenzioni dal pagamento dei contributi. - 6 Le agevolazioni contributive. - 7 Accertamento e riscossione. - 7.1 Le condotte sanzionabili. - 7.2 Le sanzioni civili. - 8 La prescrizione dei crediti contributivi.

1. Premessa.

Il 2018 è stato caratterizzato da una copiosa produzione giurisprudenziale in tema di previdenza sociale: in breve tempo si sono susseguite numerose decisioni che hanno affrontato i diversi aspetti della materia, talvolta confermando i precedenti orientamenti, talvolta ponendo in luce nuovi profili.

2. L’obbligazione contributiva.

In linea generale Sez. L, n. 24109/2018, Riverso, Rv. 650554-01, ha ribadito che l’obbligazione contributiva a carico del datore di lavoro ha il suo presupposto nella sussistenza dell’obbligo retributivo. Ne consegue che la contribuzione, non solo deve essere commisurata alla retribuzione che al lavoratore spetta sulla base della contrattazione collettiva vigente (cd. “minimale contributivo”), a prescindere dall’importo, eventualmente inferiore, di fatto corrisposto, ma è dovuta anche nei casi di mancata esecuzione della prestazione lavorativa, quando dipesa da illegittima interruzione od unilaterale sospensione del rapporto da parte del datore, in tal caso quale effetto risarcitorio dell’inadempienza di costui; ciò comporta che in forza della natura sinallagmatica del rapporto di lavoro, che postula la corrispettività delle prestazioni, non è dovuta contribuzione nei casi di assenza del lavoratore o di sospensione concordata della prestazione stessa.

Tale principio è stato applicato dalla S.C., in fattispecie nella quale è stato respinto il ricorso proposto avverso l’accertamento i-spettivo di omissioni contributive operato dall’INPS, non essendo provato che la sospensione della prestazione lavorativa, motivata dalla contrazione delle commesse, avvenisse nella misura dedotta dal datore di lavoro e con l’accettazione delle lavoratrici.

Nell’ambito della determinazione degli elementi che costituiscono il rapporto previdenziale, Sez. L, n. 18159/2018, Mancino, Rv. 649814-01 ha affermato che dalla natura unitaria del rapporto previdenziale discende l’utilizzo di un criterio unico per l’accertamento della natura dell’attività espletata dall’impresa, da individuarsi in quello generale di cui all’art. 2195 c.c..

Pertanto, una volta accertata la natura di industria erogante servizi di un’impresa, in una controversia in tema di sgravi, all’unitarietà del criterio consegue che l’accertamento effettuato, fa stato in quella successiva di fiscalizzazione degli oneri sociali, avendo i due giudizi ad oggetto lo stesso rapporto giuridico e quale punto di diritto fondamentale comune la natura dell’attività esercitata dall’azienda. Il principio testé citato è stato affermato relativamente ad un giudizio sulla fiscalizzazione degli oneri sociali, nel quale il giudice di merito aveva qualificato l’attività esercitata dall’azienda come manifatturiera, anziché di servizi, disattendendo gli esiti della causa preesistente avente ad oggetto gli sgravi.

Sez. L, n. 02130/2018, Cavallaro, Rv. 646399-01, ha poi precisato che l’accertamento concernente una qualità soggettiva della parte obbligata, pur costituendo elemento costitutivo dell’obbligazione a carattere tendenzialmente permanente e comune a vari periodi del rapporto obbligatorio, non può assumere valore di giudicato rispetto ai periodi contributivi cronologicamente anteriori a quello oggetto di accertamento, ma esclusivamente rispetto a quelli successivi, in riferimento ai quali può ritenersi, salva prova contraria, la persistenza della medesima qualità.

2.1. Classificazione e qualificazione dei soggetti obbligati.

In tema di classificazione dei datori di lavoro a fini previdenziali, Sez. L, n. 03460/2018, Calafiore, Rv. 647411-01, ha ribadito che i provvedimenti di variazione adottati dall’Inps, d’ufficio o su richiesta dell’azienda, non hanno efficacia retroattiva e producono i loro effetti dal periodo di paga in corso alla data di notifica del provvedimento di variazione, con esclusione dei casi in cui l’inquadramento iniziale sia stato determinato da inesatte dichiarazioni del datore di lavoro, nei quali non è tuttavia compresa l’ipotesi di omessa comunicazione dei mutamenti intervenuti nell’attività. In applicazione del principio, la S.C. ha rigettato il ricorso di una società che, inizialmente inquadrata nel settore industriale, aveva poi ottenuto la variazione e la collocazione nel settore agricoltura e pretendeva la restituzione delle somme versate in eccedenza fino a tale data, sul presupposto della retroattività del provvedimento di variazione.

Il principio di cui innanzi era stato peraltro già applicato da Sez. L, n. 4521/2006, Di Cerbo, Rv. 588044-01, mentre Sez. L, Tria, n. 8558/2014, Rv. 630248-01, aveva diversamente affermato che la previsione di cui all’art. 3, comma 8, della l. n. 335 del 1995, in base alla quale le variazioni hanno effetto dal “periodo di paga in corso alla data di notifica del provvedimento di variazione, con esclusione dei casi in cui l’inquadramento iniziale sia stato determinato da inesatte dichiarazioni del datore di lavoro”, deve essere estesa, stante l’evidente identità di ratio, alle ipotesi in cui il datore di lavoro abbia omesso di comunicare, all’ente previdenziale, la variazione della propria attività in violazione di obbligo imposto sotto comminatoria di sanzione amministrativa, di cui all’art. 2 del d.l. 6 luglio 1978, n. 362, conv. dalla l. 4 agosto 1978, n. 467, in quanto, pur se in un momento successivo, si realizza una discrasia tra l’effettività della situazione e le dichiarazioni sulle quali la classi-ficazione iniziale era fondata.

Merita di essere segnalata anche Sez. L, n. 06601/2018, Calafiore, Rv. 647538-01, che ha affermato come in caso di impresa estera, sussista l’obbligo di contribuzione assicurativa per i lavoratori stranieri temporaneamente operanti in Italia, ai sensi dell’art. 27, comma 1, lett. i), del d.lgs. 27 luglio 1998 n. 286, in quanto detta norma ha l’esclusiva finalità di disciplinare l’ingresso di particolari tipi di lavoratori in territorio italiano senza incidere, neanche indirettamente, sul principio di territorialità dell’obbligo contributivo.

Sullo stesso tema Sez. L, n. 16244/2012, Berrino, Rv. 624121-01, aveva già affermato che, fatta salva l’ipotesi in cui un accordo tra uno Stato membro della Comunità europea ed uno Stato extracomunitario preveda espressamente una deroga al principio della territorialità dell’obbligo contributivo per effetto di una condizione di reciprocità, la società distaccataria è tenuta ai correlativi obblighi contributivi previdenziali e assistenziali ove risulti accertata la sua posizione di effettiva datrice di lavoro, ricevendone le prestazioni con carattere di stabilità e di esclusività, a prescindere dal fatto che gli stessi lavoratori siano sprovvisti della cittadinanza italiana, stante il principio della territorialità delle assicurazioni sociali.

In fattispecie relativa all’iscrizione d’ufficio alla gestione commercianti, Sez. L, n. 27009/2018, Calafiore, Rv. 651248-01, ha affermato, che l’accertamento sulla qualità soggettiva della parte obbligata contenuto in una sentenza passata in giudicato estende i propri effetti ai periodi contributivi cronologicamente successivi, in riferimento ai quali può ritenersi, salva prova contraria, la persistenza della medesima condizione.

Sullo stesso tema Sez. 6-L, n. 12981/2018, Spena, Rv. 648912-01, in continuità con Sez. 6-L, n. 27376/2016, Fernandes, Rv. 642301-01, ha escluso che ricorra il presupposto dello svolgimento di attività commerciale nel caso di una società di persone che eserciti un’attività limitata alla locazione di immobili di sua proprietà ed alla riscossione dei relativi canoni, non finalizzata alla prestazione di servizi in favore di terzi né ad atti di compravendita o di costruzione.

Poiché la dichiarazione dei redditi non ha carattere negoziale o dispositivo, Sez. 6-L, n. 21511/2018, Fernandez, Rv. 650300-01, ha invece chiarito che nel caso di redazione errata, non sussiste alcuna inversione dell’onere della prova a carico del contribuente, dovendo sempre l’INPS provare la sussistenza dei presupposti per l’iscrizione. La S.C. in applicazione del principio di cui innanzi ha cassato la decisione di merito che aveva ritenuto provata la partecipazione del socio accomandatario all’attività della società in forza della dichiarazione dei redditi presentata da quest’ultima, sebbene il socio avesse allegato la sussistenza di errori nella compilazione.

Sez. L, n. 19273/2018, Ponterio, Rv. 649935-01, sulla scia di Sez. L., n. 04440/2017, Cavallaro, Rv. 643265-01, ha ribadito che i requisiti congiunti di abitualità e prevalenza dell’attività di cui all’art. 1, comma 203, della l. n. 662 del 1996, necessari ai fini dell’iscrizione alla gestione commercianti, sono da riferire all’attività lavorativa espletata dal soggetto in seno all’impresa, al netto dell’attività eventualmente esercitata in quanto amministratore, indipendentemente dal fatto che il suo apporto sia prevalente rispetto agli altri fattori produttivi (naturali, materiali e personali), valorizzandosi, in tal modo, l’elemento del lavoro personale, in coerenza con la ratio della disposizione normativa. La S.C. ha pertanto ritenuto esente da critiche la sentenza impugnata che aveva ancorato l’obbligo contributivo alla verifica in fatto dello svolgimento da parte del socio di una s.r.l. di compiti esecutivi ed operativi, esulanti da quelli propri dell’amministratore, con impegno protratto per l’intera giornata lavorativa, in assenza di dipendenti.

Relativamente alla figura del socio amministratore di una società a responsabilità limitata, Sez. L, n. 10426/2018, Riverso, Rv. 648044-01, ha precisato che ove egli partecipi al lavoro aziendale con carattere di abitualità e prevalenza, ha l’obbligo di iscrizione alla gestione commercianti, mentre, qualora si limiti ad esercitare l’attività di amministratore, deve essere iscritto alla sola gestione separata. Ciò perché le due attività operano su piani giuridici differenti, in quanto la prima è diretta alla concreta realizzazione dello scopo sociale, attraverso il concorso dell’opera prestata dai soci e dagli altri lavoratori, e la seconda alla esecuzione del contratto di società sulla base di una relazione di immedesimazione organica volta, a seconda della concreta delega, alla partecipazione alle attività di gestione, di impulso e di rappresentanza.

In merito al contributo dovuto alla Cassa unica per gli assegni familiari, di cui all’art. 20, n. 1, del d.l. 2 marzo 1974, n. 30, conv. con modif. dalla l. 16 aprile 1974, n 114, dai datori di lavoro esercenti attività commerciali iscritti negli “elenchi nominativi per l’assicurazione di malattia”, Sez. Lav., n. 22665/2018, Riverso, Rv. 650387-01, ha affermato che l’aliquota ridotta ivi prevista va applicata, oltre che agli intermediari di beni, anche agli intermediari di servizi, atteso che, ai fini dell’iscrizione nei predetti elenchi nominativi, deve farsi riferimento non già alla definizione di commerciante contenuta nell’art. 1 della l. 11 giugno 1971, n. 426 – secondo cui è tale chi professionalmente acquista merci a nome e per conto proprio e le rivende – bensì alla disciplina dell’assicurazione obbligatoria contro le malattie per gli esercenti attività commerciali, introdotta dalla l.. 27 novembre 1960, n. 1397 la quale si riferisce alla più ampia ed indistinta categoria dei datori di lavoro ausiliari del commercio; né rileva, in contrario, la norma di interpretazione autentica di cui all’art. 2 del d.l. n. 338 del 1989, conv. con modif. dalla l. n. 389 del 1989, di stretta applicazione e riferita esclusivamente agli agenti di assicurazione.

In tema di inquadramento previdenziale dei produttori assi-curativi diretti, viene in considerazione Sez. L, n. 01768/2018, Calafiore, Rv. 646890-01, che ha escluso che l’obbligo di iscrizione di cui all’art. 44, comma 2, del d.lgs. n. 269 del 2003, conv. con modif. dalla l. n. 326 del 2003, includa la posizione dei produttori di assicurazione, i quali svolgono la loro attività direttamente per conto delle imprese assicurative, includendo solo quella dei produttori collegati ad agenti o subagenti, in quanto il richiamo della norma al contratto collettivo corporativo intercorrente tra produttori ed agenzie e sub agenzie e la qualità dei soggetti collettivi contraenti è, per la precisione del rinvio, un elemento significativo utilizzato dal legislatore per strutturare la disposizione che porta ad escludere la correttezza di interpretazioni analogiche.

In continuità Sez. L, n. 30554/2018, Mancino, Rv. 651713-01, dopo aver ricostruito il contenuto dell’attività svolta quale intermediazione direttamente in favore dell’impresa di assicurazione senza vincoli di stabilità né obblighi promozionali (che connotano, invece, i rapporti di agenzia e subagenzia) ha affermato che rilevano le modalità di esercizio dell’attività di ricerca del cliente assicurativo, evincendosi dal sistema complessivamente disegnato dal legislatore che hanno obbligo di iscrizione nella Gestione commercianti ordinaria quei soggetti che svolgano tale attività in forma di impresa, mentre sono tenuti ad iscriversi nella Gestione separata ex art. 2, comma 26, della l. n. 335 del 1995, coloro che collaborino nella ricerca della clientela mediante apporto personale, coordinato e continuativo, ma privo di carattere imprenditoriale, ovvero mediante attività autonoma occasionale (anch’essa non esercitata in forma di impresa, per carenza del requisito di professionalità ex art. 2082 c.c.), ma a condizione, in tale ultima ipotesi, che il reddito percepito superi la soglia di 5000,00 euro.

Interessanti pronunce hanno poi esaminato fattispecie particolari: Sez. L, n. 13485/2018, Calafiore, Rv. 648640-01, relativamente alla peculiare attività di consulenza aziendale ha chiarito che l’attività personale, di natura intellettuale, di consulenza aziendale, priva di rilievo imprenditoriale in quanto sfornita di qualsiasi organizzazione, non è assoggettata all’obbligo di iscrizione alla gestione commercianti, poiché il presupposto imprescindibile per tale iscrizione è che vi sia, ai sensi dell’art. 1, comma 203 della l. n. 662 del 1996, un esercizio commerciale, la gestione dello stesso come titolare o come familiare coadiuvante o, anche, come socio di s.r.l.

Relativamente alla professione di investigatore privato, volta alla produzione di un servizio di acquisizione di dati e di elaborazione degli stessi, Sez. L, n. 00669/2018, Calafiore, Rv. 646623-01, ne ha affermato l’inquadramento ai fini previdenziali ed assistenziali nel settore del commercio, con la conseguenza che chi esercita tale attività deve iscriversi non alla gestione separata di cui all’art. 2, comma 26, della l. n. 335 del 1995, non essendo le professioni intellettuali oggetto di detta normativa assimilabili all’attività professionale svolta dall’investigatore privato – ma nella gestione assicurativa degli esercenti le attività commerciali, in applicazione del disposto della lett. d) dell’art. 49 della l. n. 88 del 1989, che, nel classificare ai fini previdenziali ed assistenziali (in forza di una norma generale ed esaustiva della materia, come tale modificabile solo attraverso successive norme speciali) le diverse attività lavorative e nell’includere nel settore terziario quelle commerciali, comprende in esse anche le attività che si concretizzano in una prestazione di servizi.

2.2. La retribuzione imponibile.

Secondo Sez. L, n. 09601/2018, Calafiore, Rv. 648727-01, le nozioni di reddito rilevante ai fini fiscali e di base imponibile ai fini contributivi sono distinte, in quanto il sistema di determinazione della contribuzione previdenziale delimita un’area di più ridotte dimensioni rispetto a quanto forma oggetto di imponibile fiscale; l’imponibile previdenziale si determina, infatti, in forza del combinato disposto di cui agli artt. 48, oggi art. 51, del d.P.R. 22 dicembre 1987 n. 916 e 12 della l.. 8 agosto 1969, n. 513, con conseguente esclusione delle somme erogate materialmente dal datore di lavoro ma per conto terzi, che trovino nel rapporto di lavoro l’occasione e non la causa.

Questo principio è stato applicato in fattispecie nella quale la sentenza di appello aveva respinto la domanda di accertamento proposta da alcuni dipendenti dal Banco di Napoli volta ad includere nella base di calcolo della contribuzione anche le somme percepite a titolo di indennità per l’espletamento delle mansioni svolte all’interno della Camera dei Deputati e da quest’ultima erogate.

Assume rilievo inoltre Sez. L, n. 10516/2018, Calafiore, Rv. 648344-01, in cui si chiarisce che i lavoratori collocati in cassa integrazione guadagni, a seguito di illegittima sospensione del rapporto da parte del datore di lavoro, hanno diritto ad ottenere la retribuzione piena, e non già il minore importo delle integrazioni salariali. Ne consegue che la relativa somma liquidata a titolo di risarcimento del danno costituisce retribuzione imponibile ai fini contributivi (stante l’ampia nozione della stessa ai sensi dell’art. 12 della l.. n. 153 del 1969) e tributari (in base all’art. 6, comma 2, del d.P.R. 22 dicembre 1986 n. 917, secondo cui le indennità a titolo di risarcimento costituiscono redditi della stessa categoria di quelli perduti).

Infine Sez. L, n. 07695/2018, Berrino, Rv. 647649-01, ai fini dell’individuazione della retribuzione costituente la base di calcolo dei contributi previdenziali per il Fondo di solidarietà per il personale del credito, istituito presso l’INPS, ribadisce quanto già sancito da Sez. L., n. 06535/2017, Doronzo, Rv. 643445-01, secondo cui l’art. 10, comma 7, del d.m. 28 aprile 2000, n. 158 rinvia alle disposizioni contrattuali in vigore e, quindi, ad un concetto di retribuzione non comprensivo di emolumenti strettamente di-pendenti dall’effettività delle prestazioni lavorative (nella specie, un trecentosessantesimo della retribuzione annua per ogni giornata al momento della cessazione del rapporto), sicché il compenso per lavoro straordinario non concorre alla determinazione di detta base contributiva, come confermato dal disposto dell’art. 79 del c.c.n.l. del 11 luglio 1999 (“ratione temporis” applicabile), che non lo include tra le voci che compongono il trattamento economico).

2.2.1. Inclusioni ed esclusioni.

Per Sez. L, n. 05948/2018, Berrino, Rv. 647512-01, il cd. premio tre mensilità deve essere incluso nella retribuzione imponibile a fini contributivi, ai sensi dell’art. 12 della l. n. 153 del 1969, quale emolumento in denaro corrisposto ai dipendenti con la finalità di stimolarne la permanenza in azienda e, pertanto, erogato in dipendenza del rapporto di lavoro, risultando irrilevante che l’indennità in questione venga versata al momento di cessazione del rapporto.

Sez. L, n. 13473/2018, Berrino, Rv. 648985-01, ha confermato il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui l’indennità sostitutiva di ferie non godute è assoggettabile a contribuzione previdenziale a norma dell’art. 12 della l. n. 153 del 1969, sia perché, essendo in rapporto di corrispettività con le prestazioni lavorative effettuate nel periodo di tempo che avrebbe dovuto essere dedicato al riposo, ha carattere retributivo e gode della garanzia prestata dall’art. 2126 c.c. a favore delle prestazioni effettuate con violazione di norme poste a tutela del lavoratore, sia perché un eventuale suo concorrente profilo risarcitorio – oggi pur escluso dal sopravvenuto art. 10 del d.lgs. 8 aprile 2003, n. 66, come modificato dal d.lgs. 19 luglio 2004, n. 213 in attuazione della direttiva n. 93/104/CE – non escluderebbe la riconducibilità all’ampia nozione di retribuzione imponibile delineata dal citato art. 12, costituendo essa comunque un’attribuzione patrimoniale riconosciuta a favore del lavoratore in dipendenza del rapporto di lavoro e non essendo ricompresa nella elencazione tassativa delle erogazioni escluse dalla contribuzione.

Sez. L, n. 16579/2018, Marchese, Rv. 649395-01, in materia di trattamento contributivo dell’indennità di trasferta, ha chiarito che l’art. 51, comma 6, del d.P.R. n. 917 del 1986, secondo l’interpretazione autentica di cui all’art. 7 quinquies del d.l. 22 ottobre 2016, n. 193 (conv. con modif. dalla l. 1 dicembre 2016, n. 225) non si applica ai lavoratori che non svolgono fuori sede “in via continuativa” la loro prestazione ovvero che non ricevono “in misura fissa” un’indennità o maggiorazione di retribuzione in ragione delle modalità di svolgimento dell’attività lavorativa in luoghi sempre variabili e diversi, a prescindere dall’effettività della trasferta ed indipendentemente dal luogo ove essa si è svolta.

In tema di polizze assicurative stipulate dal datore di lavoro in favore dei dipendenti, Sez. L, n. 20709/2018, Ponterio, Rv. 649928-01, ha ffermato che rientrano nella base imponibile per il calcolo dei contributi previdenziali soltanto i premi versati per polizze riferibili alla copertura dei rischi extraprofessionali; ove pertanto l’ente previdenziale abbia azionato il credito in riferimento ai premi complessivamente versati dalla società per polizze cumulative, riferite cioè a rischi professionali e non, grava su di esso l’onere di provare il “quantum” della pretesa riferibile ai premi soggetti a contribuzione, alla luce del principio desumibile dall’art. 12 della l. n. 153 del 1969 secondo cui l’ente previdenziale deve provare che il lavoratore ha ricevuto dal datore di lavoro somme a qualunque titolo, purché in dipendenza del rapporto di lavoro, mentre il datore di lavoro deve provare che ricorre una delle cause di esclusione.

Sez. L, n. 10134/2018, Marchese, Rv. 648056-01, in tema di contribuzione dovuta dai datori di lavoro esercenti attività edile, ribadisce che l’art. 29 del d. l. n. 244 del 1995, conv. nella l. n. 341 del 1995, nel determinare la misura dell’obbligo contributivo previdenziale ed assistenziale in riferimento ad una retribuzione commisurata ad un numero di ore settimanali non inferiore all’orario normale di lavoro stabilito dalla contrattazione collettiva, prevede l’esclusione dall’obbligo contributivo di una varietà di assenze, tra di loro accomunate dal fatto che vengono in considerazione situazioni in cui è la legge ad imporre al datore di lavoro di sospendere il rapporto. Ne consegue che, ove la sospensione del rapporto derivi da una libera scelta del datore di lavoro e costituisca il risultato di un accordo tra le parti, continua a permanere intatto l’obbligo retributivo, dovendosi escludere, attesa l’assenza di una identità di ratio tra le situazioni considerate, la possibilità di una interpretazione estensiva o, comunque, analogica, e ciò tanto più che la disposizione ha natura eccezionale e regola espressamente la possibilità e le modalità di un ampliamento dei casi d’esonero da contribuzione, che può essere effettuato esclusivamente mediante decreti interministeriali.

2.3. Il minimale contributivo.

In tema di minimale contributivo, Sez. L, n. 11847/2018, Leone, Rv. 648875-01, ha affermato che l’applicazione della diversa disciplina prevista dall’art. 3 del d.lgs. 14 giugno 1996, n. 318, conv. con modif. dalla l. 29 luglio 1996 n. 402, che consente di assumere come base per il calcolo dei contributi i trattamenti pattuiti nei contratti collettivi, seppur stipulati anteriormente all’entrata in vigore di detta norma, è subordinata alle condizioni di pubblicità ed opponibilità ivi previste, conseguentemente, il mancato deposito dei suddetti contratti sia presso l’Ufficio Provinciale del Lavoro che le sedi degli Enti previdenziali ne esclude l’utilizzabilità ai fini indicati.

Premesso che ai fini dell’individuazione della base imponibile per il calcolo dei contributi previdenziali ex art. 1 del d.lgs. 9 agosto 1989 n. 338, conv. dalla l. 7 dicembre 1989 n. 389, occorre fare riferimento alla contrattazione collettiva nazionale, che è maggiormente di garanzia per una parità di trattamento tra lavoratori di un medesimo settore, Sez. L, n. 11650/2018, Leone, Rv. 648388-01 ha chiarito che, ove per uno specifico settore non risulti stipulato un contratto collettivo, legittimamente l’Istituto previdenziale può ragguagliare la contribuzione dovuta alla retribuzione prevista dalla contrattazione collettiva di un settore affine, restando a carico del datore di lavoro l’onere di dedurre l’esistenza di altro contratto affine che preveda retribuzioni tabellari inferiori rispetto a quello applicato dall’Istituto.

La citata decisione si è allineata all’orientamento sancito da Sez. L, n. 9967/2007, Di Nubilia, Rv. 596591-01, applicato in fattispecie nella quale un’impresa esercente attività di elaborazione dati, sprovvista di contratto collettivo per il periodo in controversia, aveva applicato la contrattazione per i dipendenti del settore commercio, e non quella relativa agli studi professionali, mancando l’iscrizione ad un albo e sul presupposto che l’attività di elaborazione dati rientrasse nello schema dei servizi al mercato, costituendo attività commerciale, prima che divenisse oggetto di separata contrattazione collettiva.

Sempre in tema, ma con specifico riferimento al settore edile, Sez. L, n. 11337/2018, Mancino, Rv. 648817-01, ha chiarito che è necessario scindere le due ipotesi previste dall’art. 29 del d.lgs. 23 giugno 1995, n. 244, conv. dalla l. 8 agosto 1995, n. 341, quella della sospensione dell’attività, per la quale sussiste il presupposto dell’obbligo della retribuzione corrispettivo, ad eccezione delle ipotesi di sospensione debitamente comunicate all’INPS in via preventiva ed oggettivamente accertabile, e quella della riduzione dell’attività, nella quale, sussistendo una retribuzione, seppure parziale, esprime tutto il suo vigore la regola del minimale e della tassatività delle ipotesi di esclusione; la predetta tassatività postula che il datore di lavoro, che pretenda la deroga, sia tenuto ad indicare la disposizione contrattuale che la prevede nel caso specifico.

Con ampia ricostruzione del complesso quadro normativo, Sez. L, n. 17257/2018, Riverso, Rv. 649605-01, ha poi affermato che il diritto alla ricostruzione della posizione assicurativa relativa ai periodi di lavoro, sia dipendente che autonomo, prestato in Albania dal 1° gennaio 1995 fino al 31 dicembre 1997, da cittadini italiani successivamente rimpatriati, ha natura previdenziale e non assistenziale, come emerge dalla lettera dell’art. 1, comma 1164, della l. 27 dicembre 2006, n. 296 e dell’art. 2 del d.m. 31 luglio 2007 che fanno riferimento all’effettivo lavoro e ai diversi settori lavorativi, sicché la disciplina applicabile per individuare il minimale contributivo, cui va parametrata la ricostruzione, è quella di volta in volta vigente nel tempo in Italia, nei diversi settori e per i periodi corrispondenti, senza che possa applicarsi un unico criterio normativo di riferimento.

3. I benefici contributivi: l’esposizione all’amianto.

In tema di benefici contributivi ex art. 13, comma 8, della legge 27 marzo 1992, n. 257, Sez. 6-L, n. 16445/2018, Cavallaro, Rv. 649497-01, ha dato risposta al quesito relativo alle modalità di quantificazione presuntiva nell’ipotesi di lavoratori esposti all’amianto in maniera non continuativa, ed ha affermato che in tal caso può farsi ricorso alla cd. formula “Verdel-Ripanucci” indicando al denominatore i giorni effettivi di esposizione e, qualora l’esposizione risulti inferiore all’orario lavorativo giornaliero, applicando al numeratore un coefficiente di riduzione proporzionale.

Quanto ai limiti soggettivi al riconoscimento della maggiorazione contributiva Sez. L, n. 21668/2018, Calafiore, Rv. 650249-01, ha affermato che l’art. 7 ter, commi 14 e 14-bis del d.l. 10 febbraio 1999, n. 5, conv. dalla l. 9 aprile 2009 n. 33, in quanto disposizione “in deroga”, eccezionale ed insuscettibile di interpretazione estensiva ed analogica, e stante il testuale riferimento “ai trattamenti pensionistici erogati”, è una norma di salvaguardia dagli effetti caducatori derivanti dall’attività di verifica dell’Inail sulle maggiorazioni applicabile solo nei confronti dei soggetti già percettori di pensione, e non anche a coloro che ne abbiano solo fatto domanda, senza che tale interpretazione ponga problemi di disparità di trattamento per la diversità delle situazioni.

Sul punto assume particolare rilevanza Sez. L, n. 32882/2018, Calafiore, in corso di massimazione. Tale decisione, relativa all’ambito di applicabilità della disciplina più favorevole di cui all’art. 3 della l. n. 350 del 2003, attraverso un articolato percorso motivazionale ha ricostruito il contrasto esistente in seno alla Corte in merito alla natura giuridica da attribuirsi al beneficio della rivalutazione contributiva di cui all’art. 13, comma 8, della l. n. 257 del 1997, così come evidenziate dalla ordinanza interlocutoria n. 17119/2008, Calafiore, non massimata (sul punto tra le varie indicate Sez. L. n. 28090/2017, Mancino, non massimata, che esclude la natura autonoma del beneficio e Sez. L. n. 07935/2014, Mancino, Rv. 630093-01 che, nell’applicare alla pretesa relativa alla rivalutazione l’istituto della decadenza riconosce la natura autonoma).

La Corte ha quindi affermato che il citato beneficio rappresenta una prestazione previdenziale non autonoma, rispetto al diritto alla pensione, esclusivamente con riferimento al beneficio contributivo originariamente previsto dal citato art. 13 ma non per la misura introdotta dall’art. 3 della stessa legge. La decisione ha quindi specificato quale sia la portata dell’espressione maturazione alla data del 2 ottobre 2003 del “diritto al conseguimento dei benefici previdenziali di cui alla legge 27 marzo 1997, n. 257, art. 13 comma 8” contenuta nell’art. 3 sopra citato affermando che “deve essere intesa come perfezionamento del diritto al trattamento pensionistico anche sulla base del beneficio di cui alla l. n. 257 del 1997 art. 13, comma 8; onde, per questa parte, la locuzione utilizzata dalla l. n. 350 del 2003, art. 3, comma 132, costituisce soltanto conferma di quanto già si era voluto significare con quella maturazione del diritto al trattamento pensionistico contenuta nel d.l. n. 269 del 2003, art. 47 comma 6 bis”.

Sotto il profilo processuale va invece richiamata Sez. L, n. 27384/2018, Bellè, Rv. 650990-01, che ha chiarito come la domanda di rivalutazione contributiva per esposizione all’amianto all’ente competente proposta solo nel corso del giudizio di primo grado non è idonea ad evitare l’inammissibilità di quella giudiziale, perché la domanda amministrativa, in quanto elemento costitutivo del diritto, deve precedere ed è condizione di ammissibilità di quella giudiziaria. Sez. L, n. 30438/2018, Riverso, Rv. 651679-01 ha inoltre affermato che ai sensi dell’art. 13, comma 7, della l. n. 257 del 1992, l’azione diretta all’accertamento della malattia professionale utile al conseguimento dei benefici previdenziali per i lavoratori esposti all’amianto, a seguito del rifiuto dell’INAIL di riconoscere la malattia e i periodi di esposizione, deve essere proposta nei confronti dell’INPS, che è il soggetto tenuto per legge ad accreditare la maggiorazione contributiva ed è dunque esclusivo titolare della legittimazione passiva.

In tema di presunzioni legali si è evidenziato che, qualora il giudice di merito sussuma erroneamente sotto i tre caratteri individuativi della presunzione stessa (gravità, precisione, concordanza) fatti concreti che, invece, non rispondano a quei requisiti, il relativo ragionamento è censurabile in base all’art. 360, n. 3, c.p.c. (e non già alla stregua del n. 5 dello stesso art. 360), dovendo la Corte di cassazione, nell’esercizio della funzione di nomofilachia, verificare se la norma dell’art. 2729 c.c., oltre ad essere esattamente interpretata in linea teorica, lo sia anche sotto il profilo dell’applicazione a fattispecie concrete che effettivamente risultino ascrivibili a quell’ambito previsionale. In applicazione del detto principio, la Corte ha cassato la sentenza di merito che aveva ritenuto di ravvisare il presupposto soggettivo di decorrenza della prescrizione del diritto alla rivalutazione contributiva ex art. 13, comma 8, della l. n. 257 del 1992, rappresentato dalla conoscenza o conoscibilità della propria pregressa esposizione ad amianto, in relazione a una nota inviata alla Contarp, ufficio tecnico dell’INAIL, dalla r.s.u. dell’azienda in cui il ricorrente aveva lavorato, nonostante tale nota fosse posteriore di circa sette anni rispetto al pensionamento del ricorrente medesimo (Sez. L, n. 29635/2018, Bellè, Rv. 652717-01).

4. Gli sgravi contributivi.

4.1. Gli aventi diritto.

In tema di sgravi contributivi a favore delle imprese industriali operanti nel mezzogiorno, Sez. L, n. 00042/2018, Calafiore, Rv. 646569-01, ha ribadito la possibilità per un istituto scolastico gestito da una congregazione religiosa di assumere la natura di impresa industriale e di usufruirne qualora svolga il servizio scolastico non per fini di religione e di culto ma per fini di lucro – alla cui integrazione può essere sufficiente l’idoneità almeno tendenziale dei ricavi a perseguire il pareggio di bilancio – e con organizzazione degli elementi personali e materiali necessari per il funzionamento del servizio stesso.

Sez. L, n. 05065/2018, Berrino, Rv. 647459-01, in tema di riconoscimento del beneficio della fiscalizzazione degli oneri sociali a favore di una “impresa artigiana” ha affermato che ai fini del rispetto del limite dimensionale fissato dall’art. 4 della l. 8 agosto 1985, n. 443, i lavoratori a domicilio di cui alla l. 18 dicembre 1973, n. 877 non sono computati, sempre che non superino il limite massimo di un terzo, calcolato non con riferimento ai soli lavoratori a domicilio estrapolati dal composito contesto aziendale, bensì con riguardo al numero complessivo dei dipendenti non apprendisti occupati presso l’impresa. Sez L, n. 01167/2018, Boghetich, Rv. 646887-01, ha poi confermato che i consorzi di imprese artigiane possono iscriversi nella separata sezione dell’albo delle imprese artigiane previsto dall’art. 5 della l. n. 443 del 1985 e possono godere delle agevolazioni contributive previste dall’art. 49, lett. b), della l. n. 88 del 1989, a differenza dei consorzi misti, composti da imprese artigiane e industriali, i quali possono usufruire delle sole agevolazioni eventualmente previste dalle Regioni, e a condizione che le imprese industriali presenti al loro interno non siano in numero superiore a un terzo.

Quanto alle imprese del settore della costituzione navale, Sez. L, n. 05296/2018, Perinu, Rv. 647481-01, ha escluso l’applicabilità dei benefici previsti dall’art. 44 della l. n. 448 del 2001 alle imprese esercenti attività cantieristica per imbarcazioni da diporto, da equiparare, a tal fine, alle aziende operanti nel settore delle “costruzioni navali”, in quanto categoria espressamente esclusa dalla Commissione europea con decisione C/4845 del 6 dicembre 2002, avuto anche riguardo alla natura eccezionale – come tale insuscettibile di interpretazione analogica – delle norme che, in presenza di determinate condizioni, esonerano specifici soggetti dal generale obbligo contributivo.

4.2. L’incremento occupazionale e gli incentivi all’assunzione.

Ulteriore e peculiare questione oggetto di approfondimento è quella relativa alle modalità attraverso le quali deve essere verificata la sussistenza di un incremento occupazionale rilevante ai fini del riconoscimento degli sgravi contributivi.

Sez. L, n. 08680/2018, Berrino, Rv. 648621-01, ha affermato che ai fini della concessione degli sgravi contributivi previsti dall’art. 3, comma 5, della l. n. 448 del 1998, nell’ipotesi di società facenti capo ad un unico titolare, l’incremento occupazionale di cui al comma 6, lett. d), dello stesso articolo, deve essere calcolato al netto delle diminuzioni occupazionali in società controllate ex art. 2359 c.c. o facenti capo, anche per interposta persona, allo stesso soggetto. L’onere di provare che il predetto incremento è avvenuto al netto delle diminuzioni occupazionali in questione è, anche in questo caso, a carico dell’impresa interessata. Questa decisione peraltro chiarisce ulteriormente quanto già affermato da, Sez. L., n. 25474/2017, Berrino, Rv. 646111-01, che in tema di individuazione dei presupposti per la concessione degli sgravi contributivi di cui all’art. 3, comma 6, della l. n. 448 del 1998, afferma la necessità che il livello di occupazione raggiunto a seguito delle nuove assunzioni non subisca riduzioni nel periodo agevolato, attesa la finalità della legge di favorirne l’incremento, sicché il venir meno di tale condizione determina la perdita integrale del diritto al beneficio, restando irrilevante la qualifica soggettiva della causa di contrazione del personale, in considerazione della natura eccezionale del beneficio disciplinato dalla norma, che, ove diversamente interpretata, si porrebbe in contrasto con i vincoli in materia di aiuti di Stato imposti dalla Commissione Europea. Tale principio è stato applicato dalla S.C. cassando la sentenza di merito che aveva riconosciuto il diritto della impresa appellante al mantenimento del beneficio perché la contrazione oggettiva dell’organico era stata determinata dalle dimissioni di alcuni lavoratori.

Sez. L, n. 20504/2018, D’Antonio, Rv. 649925-01, in un’ottica di continuità, ha quindi affermato che la concessione degli sgravi contributivi previsti dall’art. 3, comma 5, della l. n. 448 del 1998, va esclusa, ai sensi del comma 6, lett. d), del predetto articolo, nell’ipotesi di rapporti tra imprese concretizzanti forme di controllo e/o collegamento anche non contemplate dall’art. 2359 c.c., ove l’incremento della base occupazionale non sia stato valutato globalmente tenendo conto di tutti i dipendenti occupati presso le aziende collegate o controllate. In applicazione di tale principio, la S.C. ha quindi cassato la sentenza di merito che, a fronte della deduzione, ad opera dell’Inps, di elementi attestanti il collegamento tra aziende – quali l’identità di sede e di attività, nonché il comune riferimento soggettivo degli assetti proprietari -, non aveva considerato che era onere del richiedente lo sgravio fornire la prova dell’inesistenza di una posizione dominante o di collegamenti o controlli societari.

In questo contesto si colloca anche Sez. L., 26836/2018, Boghetich, Rv. 651243-01, che ha riconosciuto la fruibilità dei benefici contributivi previsti dall’art. 8, comma 4, della l. n. 223 del 1991 in favore dell’impresa cessionaria dei beni aziendali della ce-dente che ha proceduto ai licenziamenti perché – non essendo la “medesima azienda” che ha operato la riduzione di personale – non rientra fra le imprese tenute a riassumere ai sensi dell’art. 15 della l., 29 aprile 1949, n. 264. Tuttavia è stato chiarito che l’ammissione ai benefici deve comunque essere esclusa qualora, anche in base ad elementi indiziari (quali, nella specie, l’identità dell’attività produttiva, l’utilizzo della medesima forza lavoro nei medesimi locali nonché il mantenimento della stessa clientela) la cessionaria non configuri una realtà produttiva nuova ed autentica, emergendo piuttosto il carattere fittizio dell’operazione, preordinata esclusivamente a fruire indebitamente delle agevolazioni.

Sez. L, n. 08775/2018, Berrino, Rv. 648053-01, sempre in tema di sgravi ex art. 3, comma 5, della l. n. 448 del 1998, ha infine chiarito che essi sono applicabili a condizione che l’impresa, anche di nuova costituzione, eserciti attività che non assorbono neppure in parte attività di imprese giuridicamente preesistenti. Devono tuttavia escludersi le ipotesi previste dal comma 6, lett. b), ultima parte dello stesso articolo, e le attività sottoposte a limite numerico o di superficie, il cui esercizio, per le particolari condizioni di rilevanza pubblica, è sottoposto ad un elevato controllo degli organi amministrativi ed il cui avvio è subordinato ad un provvedimento amministrativo di tipo concessorio, dovendo intendersi limiti di superficie quelli di natura urbanistica e non semplicemente i limiti dei piani commerciali di carattere generale.

Si segnala anche Sez. L, n. 20867/2018, Leone, Rv. 650133-02, per aver ribadito che presupposto per l’applicabilità dello sgravio contributivo di cui all’art. 3, commi 5 e 6, della l. n. 488 del 1998 è che l’impresa abbia realizzato un incremento occupazionale mediante nuove assunzioni di personale che già risulti iscritto nelle liste di collocamento o di mobilità o fruitore della cassa integrazione guadagni, in coerenza con la finalità delle disposizioni in esame volte ad incentivare l’assunzione di soggetti che non abbiano o abbiano perduto l’occupazione in determinate zone d’Italia e a favorire, al contempo, la ripresa economica nelle stesse zone; ne consegue che il beneficio non compete nel caso di trasformazione di un contratto di lavoro a tempo parziale in contratto di lavoro a tempo pieno, trattandosi di una mera modificazione della quantità temporale della prestazione lavorativa già in essere e non di nuova assunzione avente le finalità ed i caratteri indicati dalla disposizione.

Con riferimento agli incentivi alle assunzioni, per Sez. L, n. 12554/2018, Mancino, Rv. 648659-01 lo sgravio contributivo previsto dall’art. 25, comma 9, della l. n. 223 del 1991 in favore delle imprese che procedono all’assunzione a tempo indeterminato di lavoratori iscritti nelle liste di mobilità non spetta al datore di lavoro che, in relazione agli stessi lavoratori, abbia in passato già beneficiato degli sgravi previsti per l’assunzione a tempo determinato ai sensi dell’art. 8, comma 2, della stessa l. n. 223 del 1991. Ciò in quanto le norme derogatorie delle obbligazioni contributive hanno carattere eccezionale e il cumulo dei due benefici si porrebbe in contrasto con l’ultimo periodo dello stesso comma 2, che prevede, per la fruizione del doppio sgravio contributivo, un requisito temporale imprescindibile, vale a dire la trasformazione del contratto nel corso di svolgimento del rapporto a termine.

Sez. L, n. 12092/2018, Perinu, Rv. 648876-01, ha specificato che gli sgravi contributivi, ai sensi degli artt. 10, comma 1, della l. 28 febbraio 1987, n. 56 (applicabile “ratione temporis”) e 8, comma 9, della l. 29 dicembre 1990, n. 407 in quanto previsti da norme di stretta interpretazione – possono essere concessi per occupati a tempo parziale con orario non superiore a venti ore settimanali per i quali si instauri un nuovo rapporto di lavoro, non per il caso di trasformazione del rapporto da part. time in full time (nella specie, presso la stessa azienda e con lo stesso inquadramento contrattuale).

Ai fini della fruizione del beneficio della riduzione dei contributi di cui all’art. 8, comma 9, della l. n. 407 del 1990, Sez. L, n. 02019/2018, Calafiore, Rv. 647265-01, ha ribadito la necessità che il datore di lavoro abbia assunto i lavoratori nel rispetto della norma su richiamata, difettando, in contrario, lo stato di disoccupazione, che deve essere non solo reale, ma anche certificato dalla iscrizione nella lista speciale regionale disciplinata dall’art. 2 del decreto ministeriale 22 marzo 1991 n. 1557, che conferisce certezza in ordine alla permanenza di tale stato per il tempo richiesto dalla norma; ne consegue che tale beneficio deve escludersi nel caso in cui il lavoratore assunto abbia prestato attività lavorativa, anche se irregolare, nei ventiquattro mesi precedenti.

Sez. L, n. 03219/2018, Berrino, Rv. 647439-01, ha inoltre affermato che le agevolazioni previste dall’art. 1, commi da 1202 a 1210, della l. n. 296 del 2006, presuppongono la conversione in rapporti di lavoro subordinato di rapporti lavorativi in essere, in quanto la “ratio legis” è quella di favorire la stabilizzazione di rapporti precari pendenti e non la costituzione “ex novo” di rapporti lavorativi stabili.

Tale decisione si colloca nel solco della precedente Sez. L, n. 24459/2017, Doronzo, Rv. 646140-01, che con riferimento all’ambito soggettivo della materia, ha affermato che l’accordo sindacale, da allegare all’istanza di regolarizzazione, deve riguardare i lavoratori ancora in servizio alla data della presentazione della relativa istanza e non quelli il cui rapporto sia cessato prima di tale data, atteso che la procedura è finalizzata all’emersione del lavoro cd. nero e all’incremento dell’occupazione. La concessione delle agevolazioni di cui all’art. 1, comma 1196, della l. n. 296 del 2006 è condizionata, infatti, al mantenimento in servizio del lavoratore per un periodo non inferiore a 24 mesi dalla regolarizzazione e le ipotesi di risoluzione, per dimissioni o licenziamento per giusta causa, successive alla regolarizzazione, configurano una deroga alla necessità di stabilizzazione del rapporto in essere e non autorizzano la sanatoria di rapporti cessati anteriormente all’istanza di regolarizzazione.

4.3. L’onere della prova.

Diverse le decisioni che nel 2018 hanno riguardato il riparto dell’onere della prova in tema di sgravi contributivi.

Tra queste assume particolare rilevanza, in forza della valenza generale del principio in essa contenuto, Sez. L, n. 01157/2018, Berrino, Rv. 646802-01, la quale, confermando la precedente Sez. L, n. 21898/2010, Marotta, Rv. 615078-01, ha affermato che grava sull’impresa che vanti il diritto al beneficio l’onere di provare la sussistenza dei necessari requisiti, in relazione alla fattispecie normativa di volta in volta invocata. Tale principio è stato affermato confermando la sentenza di merito che aveva negato il diritto della società ricorrente a beneficiare della detrazione del 40 per cento sugli importi dovuti per contributi, in relazione ai cd. contratti in replica, risultando indimostrato che i contratti avessero dette caratteristiche.

Un’applicazione particolare del principio di cui innanzi è stata effettuata in tema di sgravi contributivi in caso di trasferta dei dipendenti o di rimborso per spese di viaggio da Sez. L, n. 18160/2018, Mancino, Rv. 649815-01, la quale ha affermato, confermando la precedente Sez. L., n. 16639/2014, Lorito, Rv. 631898-01 ed allineandosi a quanto sancito da Sez. U, n. 06489/2012, Mammone, Rv. 622217-01, che spetta al datore di lavoro dimostrare il possesso dei requisiti legittimanti l’esonero.

In continuità Sez. L, n. 09140/2018, Boghetich, Rv. 648635-01, in tema di contributo collegato alla messa in mobilità del personale, ha affermato che incombe sul datore di lavoro che invochi la riduzione dell’onere economico su di sé gravante, in applicazione dell’art. 5, comma 5, della l. n. 223 del 1991, l’onere di provare la ricorrenza di tutte le condizioni richieste per averne diritto, inclusa l’assenza di collegamenti tra l’impresa che colloca in mobilità i dipendenti e quella che li assume, la quale, vantando un autonomo diritto a fruire di benefici contributivi, non è litisconsorte necessario nel giudizio promosso nei confronti dell’INPS.

Deve essere inoltre segnalata Sez L, n. 06324/2018, Calafiore, Rv. 647647-01, per aver chiarito che l’art. 5 del d.l. 1 ottobre 1996, n. 510, conv. con modif. dalla l. 26 novembre 1996, n. 608, concernente i contratti di riallineamento retributivo, è diretto ai soli soggetti che svolgono attività imprenditoriale. In conseguenza di ciò, ove i relativi benefici vengano invocati da un libero professionista, questi ha l’onere di allegare e dimostrare di aver esercitato una attività di coordinamento e controllo di fattori della produzione ulteriore rispetto alla tipica attività professionale, solo da ciò potendo discendere la natura imprenditoriale della relativa attività e, quindi, il diritto alla fruizione delle predette agevolazioni.

4.4. La disciplina di dettaglio.

Passando alle pronunce che hanno riguardato aspetti peculiari inerenti la materia degli sgravi, è di particolare interesse, Sez. L, n. 09418/2018, Riverso, Rv. 647774-01, che, con riferimento all’ambito di applicazione dell’art. 18 della l. n. 1089 del 1968, che prevede il diritto allo sgravio contributivo nella misura del dieci per cento delle retribuzioni, al netto di compensi per il lavoro “considerato straordinario dai contratti collettivi e, in mancanza, dalla legge”, ha statuito che permane la rilevanza della nozione di lavoro straordinario legale ove risulti che le parti collettive, nel fissare solo l’orario normale di lavoro, senza definire quello straordinario, abbiano voluto soltanto riconoscere, a fini contrattuali, un’uguale maggiorazione retributiva al lavoro supplementare, ossia quello prestato oltre l’orario normale e fino al limite legislativo; ne consegue che sono assoggettabili allo sgravio in questione i compensi corrisposti per il lavoro svolto entro i suddetti limiti temporali. In applicazione di tale principio, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza di appello, ritenendo applicabile lo sgravio con riferimento alle somme erogate per le ore di lavoro tra la quarantesima e la quarantottesima, imputabili a lavoro “supplementare” ed escludendolo per le ore eccedenti la definizione del lavoro straordinario La decisione di cui innanzi, inoltre si collega alla precedente Sez. L., n. 06628/2001, Celentano, Rv. 546625-01, che chiarisce come – nel caso in cui la contrattazione collettiva fissi per la giornata e la settimana lavorativa dei limiti più favorevoli di quelli di otto ore giornaliere e quarantotto settimanali – la qualificazione va effettuata sulla base dell’interpretazione delle disposizioni collettive, avendo la nozione legale una funzione meramente sussidiaria.

Sez. L, n. 10517/2018, Perinu, Rv. 648772-01, ha affermato che la disciplina degli sgravi contributivi di cui alla l. n. 407 del 1990 si applica anche ai lavoratori autonomi, per i quali il diritto è condizionato, oltre all’iscrizione nella prima classe delle liste di collocamento per un periodo non inferiore a ventiquattro mesi, analogamente a quanto previsto per i lavoratori subordinati, anche al mancato superamento del limite reddituale di £ 7.200.000 lorde, di cui all’art. 8, comma 4, d.lgs. n. 468 del 1997.

Assume poi rilievo, non constando precedenti in merito, Sez. L., 27107/2018, Bellé, Rv. 651258-01, che ha affermato che in tema di benefici contributivi per la cui fruizione è richiesto, ai sensi dell’art. 1, comma 1175, della l. n. 296 del 2006, il possesso del documento unico di regolarità contributiva (c.d. Durc), la mancata segnalazione dell’irregolarità ostativa al rilascio del Durc, da parte dell’Inps, non determina l’inesigibilità delle differenze contributive rispetto agli sgravi. Essa ha inoltre specificato che, in assenza dello specifico procedimento di cui all’art. 7 del d.m. 24 ottobre 2007, di natura eccezionale, non può consentirsi una regolarizzazione ex post ed in qualsiasi tempo, in contrasto con la ratio della norma, intesa ad assicurare la necessaria e costante regolarità contributiva, quale presupposto dell’applicazione degli sgravi.

Sotto altro profilo, Sez. L, n. 06428/2018, Calafiore, Rv. 647531-01, in tema di apprendistato, ha chiarito che l’art. 10 della l. 14 febbraio 2003, n. 30 laddove, sostituendo l’articolo 3 del d.lgs. 22 marzo 1993, n. 71 (conv. con modif. dalla l. 20 maggio 1993, n. 151) ha subordinato il riconoscimento di “benefici normativi e contributivi” previsti per le imprese artigiane, commerciali e del turismo rientranti nella sfera di applicazione degli accordi e contratti collettivi nazionali, regionali e territoriali o aziendali, si riferisce ai benefici derivanti da sgravi e da fiscalizzazione degli oneri sociali e non all’ipotesi di aliquota contributiva ridotta.

5. Le esenzioni dal pagamento dei contributi.

La disciplina delle società a capitale misto è stata oggetto di approfondimento da parte di Sez. 6-L, n. 11209/2018, Doronzo, Rv. 648682-01, che ha ribadito che le società partecipate a capitale misto, poiché erogatrici di servizi al pubblico in regime di concorrenza, non beneficiano del regime di esenzione dagli obblighi contributivi per cassa integrazione ordinaria, straordinaria e mobilità, già previsto per le imprese industriali degli enti pubblici dall’art. 3 del d.lgs. C.P.S., 12 agosto 1947, n. 869; essa ha inoltre evidenziato che in tal caso non può essere invocato in senso contrario il disposto di cui all’art. 10 del d.lgs. 14 settembre 2015, n. 148, recante disposizioni per il riordino della normativa in materia di ammortizzatori sociali, laddove prescrive che i correlati obblighi contributivi riguardano anche “le imprese industriali degli enti pubblici, salvo il caso in cui il capitale sia interamente di proprietà pubblica”, atteso che detta norma non ha introdotto disposizioni innovative rispetto al passato, ma ha valenza meramente ricognitiva dell’esistente e di sistemazione della materia.

La successiva Sez. 6-L, n. 25354/2018, Esposito, Rv. 650995-01, ha riaffermato che la gestione di servizi pubblici mediante società partecipate, anche in quota maggioritaria, dagli enti pubblici locali non può beneficiare dell’esonero del versamento dei contributi per cassa integrazione guadagni ordinaria e straordinaria, disoccupazione e mobilità. Tale esclusione, nel dettaglio, è determinata dalla finalità perseguita dal legislatore nazionale e comunitario, nella promozione di strumenti non autoritativi per la gestione dei servizi pubblici locali, di non ledere le dinamiche della concorrenza, assumendo rilevanza determinante, in ordine all’obbligo contributivo, il passaggio del personale addetto alla gestione del servizio dal regime pubblicistico a quello privatistico. Ne consegue che la finalizzazione della società per azioni, partecipata da ente pubblico locale, alla gestione di un servizio pubblico mediante affidamento cd. in house (ossia ad un soggetto che, giuridicamente distinto dall’ente pubblico conferente, sia legato allo stesso da una relazione organica) rileva ai fini della tutela del mercato e della concorrenza ma non ha alcun effetto ai fini dell’esonero del versamento dei contributi previdenziali per il finanziamento della cassa integrazione guadagni ordinaria e straordinaria, la disoccupazione e la mobilità.

Sez. 6-L, n. 16658/2018, Esposito, Rv. 649631-01, ribadendo quanto statuito da Sez. L., n. 15394/2017, Calafiore, Rv. 644787-01, ha poi affermato che le società derivanti dal processo di trasformazione dell’ENEL sono obbligate al pagamento della contribuzione per maternità anche per il periodo anteriore all’1.1.2009, nonostante il versamento diretto del trattamento dovuto alle lavoratrici madri ex art. 1 del d.P.R. n. 145 del 1965, non essendo estensibile a tali contributi l’esonero previsto dall’art. 20 del d.l. n. 112 del 2008, conv. con modif. dalla l. n. 133 del 2008, con riferimento ai contributi per malattia, in favore dei datori di lavoro che abbiano corrisposto direttamente ai lavoratori la relativa indennità.

6. Le agevolazioni contributive.

In tema di agevolazioni contributive di cui all’art. 4, comma 90, della l. n. 350 del 2003, che ha esteso in favore dei soggetti colpiti dagli eventi alluvionali del Piemonte del novembre 1994 i benefici di cui all’art. 9, comma 17, della l. n. 289 del 2002, Sez. L, n. 20740/2018, Mancino, Rv. 649929-01, ha affermato che il termine del 31 luglio 2007 per la presentazione delle domande costituisce un termine decadenziale di ordine pubblico, come tale perentorio e rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio, compreso quello di legittimità, senza che su tale disciplina incidano le disposizioni di cui all’art. 1, commi da 771 a 774, della l. 27 dicembre 2017 n. 205. Esse, nel dettaglio, infatti non introducono modifiche alla precedente normativa, né hanno la finalità di interpretarla autenticamente, ma si riferiscono alle sole imprese che non abbiano potuto ottenere tempestivamente la restituzione dei contributi o premi da esse versati in misura superiore al dovuto e per le quali però sussistano i requisiti definitivamente individuati dalla decisione UE n. 2016/195 della Commissione; Sez. L, n. 07834/2018, Boghetich, Rv. 648041-01, ha inoltre ribadito che le stesse agevolazioni, pur realizzando, secondo la decisione della Commissione Europea del 14 agosto 2015, aiuti di Stato, ai sensi dell’art. 107, paragrafo 1, del T.F.U.E., possono essere ugualmente concesse qualora l’aiuto individuale rientri nei limiti del regolamento UE de minimis applicabile, oppure possa beneficiare della deroga prevista dall’art. 107, paragrafo 2, del citato Trattato; in tal senso depone anche la successiva previsione di cui all’art. 1, commi 771-774, della l. n. 205 del 2017.

Sez. L, n. 10899/2018, Mancino, Rv. 648812-01, ha invece affermato che le agevolazioni previste dall’art. 9, comma 17, della l. n. 289 del 2002, che consentono alle imprese operanti nell’area colpita dal sisma che il 13 dicembre 1990 ha interessato la Sicilia, di cui all’ordinanza del Ministro per il coordinamento della protezione civile del 21 dicembre 1990, di assolvere il proprio obbligo contributivo mediante il versamento di una somma pari al dieci per cento del capitale dovuto, non spettano in riferimento ai lavoratori addetti a unità produttive non operanti in tale area, restando irrilevante che l’impresa abbia la sua sede legale in zona tutelata.

In tema di sospensione dei termini per l’adempimento degli obblighi contributivi a seguito degli eventi sismici del 31 ottobre 2002, Sez. L, n. 00202/2018, Mancino, Rv. 646563-01 ha chiarito che il pagamento integrale nel termine non realizza un indebito ripetibile, ma determina l’estinzione dell’obbligazione contributiva, nonostante l’effetto automatico delle misure sospensive adottate, precludendo la possibilità di avvalersi in epoca successiva del suddetto beneficio.

Mentre Sez. L, n. 0037/2018, Boghetich, Rv. 646621-01, in relazione ai benefici in favore dei soggetti colpiti dal sisma nella Regione Molise, ha affermato che l’art. 6, comma 4-bis, del d.lgs. 29 novembre 2008, n. 185, conv. con modif. dalla l. 28 gennaio 2009, n. 2, che prevede la possibilità di definizione della propria posizione previdenziale e tributaria con il pagamento del quaranta per cento del dovuto, ha una ratio diversa rispetto a quella che informa in generale i provvedimenti di sanatoria, in quanto diretta ad indennizzare i soggetti coinvolti in eventi calamitosi, sicché, in deroga al principio per cui la sanatoria non determina la possibilità di ottenere rimborsi dallo Stato, si deve ritenere, secondo una interpretazione costituzionalmente orientata, che chi ha interamente onorato il carico tributario o previdenziale possa ottenere l’eguale riduzione prevista per chi nulla ha pagato.

7. Accertamento e riscossione.

Con una decisione di carattere trasversale, e dunque applicabile a tutte le fattispecie, Sez. L, n. 16691/2018, Mancino, Rv. 649486-01 afferma che gli accertamenti ispettivi in materia previdenziale e assicurativa, anche in caso di attestata regolarità, devono risultare da apposti verbali da notificare alla parte, atteso che l’art. 3, comma 20, della l. n. 335 del 1995, integrato dal d.l. n. 318 del 1996, conv. con modif. dalla l. n. 402 del 1996, preclude, a tutela dell’affidamento del privato all’esito positivo del vaglio ispettivo, una diversa valutazione, di altro ispettore, per lo stesso periodo contributivo.

Si segnala inoltre Sez. L, n. 00678/2018, Riverso, Rv. 646729-01 che, in tema di riscossione coattiva, chiarisce l’ambito di applicazione dell’art. 13, comma 6, della l. n. 448 del 1998 affermando che tale articolo nell’individuare le eccezioni all’obbligo di riscossione dei crediti mediante ruolo da parte dell’INPS, fa riferimento a quelli già oggetto di procedimenti civili di cognizione e di esecuzione nel cui ambito rientrano anche quelli contenuti in un titolo esecutivo giudiziale definitivo, atteso che, in detta ipotesi, da un lato, non vi sarebbe ragione di ritardare l’inizio dell’azione esecutiva diretta dell’Istituto e, da un altro, l’iscrizione a ruolo di tali crediti determinerebbe la creazione di più titoli esecutivi per lo stesso credito.

Sempre in tema di riscossione Sez. 6-L, n. 28312/2018, Cavallaro, Rv. 651734-01, afferma che il datore di lavoro non ha titolo, né interesse a lamentare la mancata identificazione nominativa nella cartella esattoriale dei beneficiari dei contributi (nella specie lavoratori agricoli stagionali), in quanto nel rapporto contributivo con l’INPS tale omessa indicazione è irrilevante in quanto l’importo dovuto dal datore di lavoro si ricava dal numero dei lavoratori impiegati e dalla base imponibile dell’obbligazione contributiva per i periodi di utilizzazione.

In ordine al procedimento di riscossione a mezzo ruolo dei contributi previdenziali, come regolato dagli artt. 24 e ss. del d.lgs. n. 46 del 1999, Sez. L, n. 04225/2018, Calafiore, Rv. 647449-01, ha affermato che in difetto di espresse previsioni normative che condizionino la validità della riscossione ad atti prodromici, a differenza di quanto avviene in materia di applicazione di sanzioni amministrative, in forza di quanto previsto, segnatamente, dall’art. 14 della l. n. 689 del 1981, la notifica al debitore di un avviso di accertamento non costituisce atto presupposto necessario del procedimento, la cui omissione invalidi il successivo atto di riscossione, ben potendo l’iscrizione a ruolo avvenire pur in assenza di un atto di accertamento da parte dell’istituto.

Sez. L, n. 05963/2018, Calafiore, Rv. 647526-01, poi, in tema di decadenza dal potere di iscrizione a ruolo dei crediti contributivi ai sensi dell’art. 25 del d.lgs. n. 46 del 1999, ha affermato che la previsione di cui all’art. 38, comma 12, del d.l. n. 78 del 2010, conv. dalla l. n. 122 del 2010, stabilendo che le disposizioni contenute nel citato art. 25 non si applicano, limitatamente al periodo compreso tra l’1 gennaio 2010 e il 31 dicembre 2012, ai contributi non versati e agli accertamenti notificati successivamente alla data del 1° gennaio 2004 dall’ente creditore – si pone in chiave di raccordo temporale con le precedenti proroghe cosicché, utilizzando il meccanismo della sospensione di efficacia per un triennio dell’applicazione della regola della decadenza, consente il recupero coattivo di crediti non compresi nelle proroghe operative sino alla data suddetta. La S.C. ha quindi cassato con rinvio la sentenza di appello che aveva ritenuto l’INPS decaduto dal potere di iscrizione a ruolo di crediti contributivi relativi all’anno 2003, accertati con verbale ispettivo del maggio 2004.

Per Sez. L, n. 12001/2018, Calafiore, Rv. 648952-01, l’iscrizione di un lavoratore nell’elenco dei lavoratori agricoli assolve una funzione di agevolazione probatoria che viene meno qualora l’INPS, a seguito di un controllo, disconosca l’esistenza di un rapporto di lavoro esercitando una propria facoltà, che trova fondamento nell’art. 9 del d.lgs. n. 375 del 1993, con la conseguenza che, in tal caso, il lavoratore ha l’onere di provare l’esistenza, la durata e la natura onerosa del rapporto dedotto a fondamento del diritto di iscrizione e di ogni altro diritto consequenziale di carattere previdenziale fatto valere in giudizio.

Sez. L, n. 22388/2018, Bellè, Rv. 650538-01, ha ribadito che l’audizione del trasgressore, prevista dall’art. 18 della l. n. 689 del 1981, e la relativa convocazione, sono idonei a costituire in mora il debitore, ai sensi dell’art. 2943 c.c., atteso che ogni atto del procedimento previsto dalla legge per l’accertamento della violazione e per l’irrogazione della sanzione, ha la funzione di far valere il diritto dell’Amministrazione alla riscossione della pena pecuniaria, e costituisce esercizio della pretesa sanzionatoria.

Merita di essere segnalata altresì Sez. L, n. 21706/2018, Mancino, Rv. 650259-01, la quale ha chiarito, confermando la precedente Sez. 5. n. 17526/2009, Giacalone, Rv. 609101-01, che alla mancata previsione nella l. n. 689 del 1981 del termine per l’emissione dell’ordinanza-ingiunzione non si può ovviare applicando quello, peraltro non perentorio, previsto per la conclusione del procedimento amministrativo dall’art. 2 della l. n. 241 del 1990, in quanto la l. n. 689 del 1981 costituisce un sistema di norme organico e compiuto e delinea un procedimento di carattere contenzioso in sede amministrativa, scandito in fasi i cui tempi sono regolati in modo da non consentire, anche nell’interesse dell’incolpato, il rispetto di un termine così breve. È, quindi, applicabile il termine quinquennale di cui all’art. 28 della stessa legge, ancorché detta norma faccia letteralmente riferimento al termine per riscuotere le somme dovute per le violazioni.

7.1. Le condotte sanzionabili.

Sez. L, n. 10427/2018, Mancino, Rv. 648811-01, afferma che l’omessa o infedele de-nuncia mensile all’Inps, attraverso i Mod. DM 10, circa i rapporti di lavoro o le retribuzioni erogate, ancorché registrati nei libri di cui è obbligatoria la tenuta, concretizza l’evasione contributiva di cui all’art. 116, comma 8, lett. b) della l. n. 388 del 2000, e non la meno grave fattispecie dell’omissione contributiva di cui alla lett. a) della stessa legge, dovendosi presumere una finalità di occultamento dei dati allo specifico fine di non versare i contributi o i premi dovuti, sicché grava sul datore di lavoro inadempiente l’onere di provare l’assenza dell’intento fraudolento e, quindi, la sua buona fede; tale onere non può ritenersi assolto con la mera allegazione di un preteso fatto doloso del terzo (nella specie, indebita appropriazione, da parte del consulente, delle somme da versare all’Inps), in assenza di una tempestiva denuncia dello stesso all’autorità giudiziaria penale, atteso che la condotta silente del datore di lavoro è idonea a corroborare l’elemento intenzionale.

In tema di ritenute fiscali sui redditi e contributi previdenziali, Sez. L, n. 18259/2018, Mancino, Rv. 649848-01, ha invece affermato che ai sensi dell’art. 35, comma 28, del d.l. n. 233 del 2006, conv. con modif. dalla l. n. 248 del 2006, applicabile “ratione temporis”, sussiste la responsabilità solidale dell’appaltatore con il subappaltatore che va estesa alle sanzioni civili, benché la lettera della legge non lo preveda espressamente, attesa la natura accessoria, automatica e predeterminata delle stesse. La Corte ha inoltre chiarito che nella vigenza di tale regime non può trovare applicazione l’art. 21, comma 1, del d.l. 9 febbraio 2012, n. 5, conv. con modif. dalla l. 4 aprile 2012, n. 35, che, per l’omissione contributiva negli appalti ha previsto la responsabilità del solo inadempiente, poiché detta norma, avendo natura innovativa e non interpretativa, non è retroattiva.

7.2. Le sanzioni civili.

Sez. L, n. 04211/2018, Berrino, Rv. 647448-01, ha chiarito che in tema di sanzioni civili per omissione contributiva, ove la sentenza dichiarativa di illegittimità del licenziamento del dirigente contenga la condanna del datore di lavoro al pagamento, in favore del dirigente medesimo, dell’indennità sostitutiva del preavviso, il debito contributivo, rapportato alla predetta indennità, sorge nel momento in cui il giudice adito emette sentenza di condanna provvisoriamente esecutiva ex art. 431 c.p.c. e la parte datoriale è messa in condizione di poter adempiere esattamente, senza che prima sia configurabile un ritardo nel versamento.

Rilevante, stante la generale applicabilità del principio, quanto affermato da Sez. L, n. 03208/2018, Perinu, Rv. 647438-01, secondo cui in materia di sanzioni civili per la mancata iscrizione di lavoratori nel libro matricola, l’art. 36-bis, comma 7, del d.l. n. 223 del 2006, conv., con modif., dalla l. n. 248 del 2006, è inapplicabile, essendo stato dichiarato costituzionalmente illegittimo dalla Corte cost. con sentenza 13 novembre 2014, n. 254, nella parte in cui prevede che l’importo delle sanzioni civili connesse all’omesso versamento dei contributi e premi riferiti a ciascun lavoratore non può essere inferiore a euro 3.000,00, indipendentemente dalla durata della prestazione lavorativa accertata. In materia rileva altresì Sez. L, n. 26489/2018, Berrino, Rv. 650986-02, che, richiamando la sopra citata sentenza della Consulta, ha precisato che le sanzioni previste per l’impiego di lavoratori non risultanti dalle scritture o da altra documentazione obbligatoria, riguardano esclusivamente le sanzioni civili applicabili indipendentemente dalla durata della prestazione lavorativa accertata e non invece le sanzioni amministrative, la cui disciplina non è stata interessata dall’intervento del giudice delle leggi.

Sez. L, n. 12450/2018, Mancino, Rv. 648970-01, in tema di sgravi contributivi costituenti aiuti di Stato vietati dalla Commissione europea, ha affermato che sulle somme richieste dall’ente previdenziale, con l’azione di recupero, sono applicabili non solo gli interessi ma anche le sanzioni di cui all’art. 116, comma 8, lett. a), della l. n. 388 del 2000, al fine di rimarcare l’effettività del recupero dell’aiuto illegittimo. Sez. L, n. 25545/2018, Calafiore, Rv. 650736-01, ha invece specificato che l’obbligazione relativa alle somme aggiuntive che il datore di lavoro è tenuto a versare, in caso di decadenza dal diritto al versamento della contribuzione agevolata ex art. 53 del d.lgs. n. 276 del 2003, avendo natura di sanzione civile e carattere sussidiario, attesa la sussistenza di un vincolo di dipendenza funzionale tra la sanzione e l’omissione contributiva cui inerisce, consegue automaticamente al mancato o ritardato pagamento dei contributi dovuti. (Nella specie, la S.C. ha cassato la decisione di merito che aveva dichiarato dovuta l’intera contribuzione ma non applicabili le sanzioni relativamente ad un apprendista che non aveva partecipato alla formazione esterna).

Sez. L, n. 03751/2018, Mancino, Rv. 647443-01, ha poi chiarito che l’art. 1, comma 8-bis, del d.l. 2 dicembre 1985, n. 688, conv. con modif. dalla l. 31 gennaio 1986 n. 11, si interpreta nel senso che, nei confronti dei soggetti che alla data del 31 dicembre 1985 erano parte in procedimenti amministrativi o giudiziari in materia previdenziale o assistenziale, il termine per adempiere al versamento dei contributi dovuti fino al 31 dicembre 1985 deve essere fissato dall’istituto previdenziale successivamente alla definizione della vertenza; trascorso tale termine, trova applicazione la disposizione di cui al comma 4 del medesimo articolo, che subordina il beneficio dell’esonero dalla somma aggiuntiva non solo alla presentazione della tempestiva domanda di rateazione ma anche al rispetto delle ulteriori condizioni ivi previste.

8. La prescrizione dei crediti contributivi.

Le decisioni che hanno affrontato le questioni inerenti la prescrizione nel corso del 2018 hanno confermato orientamenti consolidati.

In questo contesto si colloca Sez. L, n. 02965/2018, Mancino, Rv. 647394-01, che in materia di prescrizione del diritto ai contributi di previdenza e di assistenza obbligatoria, si è allineata a quanto sancito da Sez. U, n. 06173/2008, Miani Canevari, Rv. 602255-01, affermando che la disciplina posta dall’art. 3, commi 9 e 10, della l. n. 355 del 1995 comporta che, per i contributi relativi a periodi precedenti alla data di entrata in vigore di detta legge – salvi i casi in cui il precedente termine decennale di prescrizione venga conservato per effetto di denuncia del lavoratore, o dei suoi superstiti, di atti interruttivi già compiuti o di procedure di recupero iniziate dall’Istituto previdenziale nel rispetto della normativa preesistente – il termine di prescrizione è quinquennale a decorrere dal 1° gennaio 1996, potendo, però, detto termine, in applicazione della regola generale di cui all’art. 252 disp. att. c.c., essere inferiore se tale è il residuo del più lungo termine determinato secondo il regime precedente.

Sez. 6-L, n. 12200/2018, Curzio, Rv. 648208-01, ribadisce l’orientamento sancito da Sez. U, n. 23397/2016, Tria, Rv. 641632-01 secondo il quale la scadenza del termine – pacificamente perentorio – per proporre opposizione a cartella di pagamento di cui all’art. 24, comma 5, del d.lgs. n. 46 del 1999, pur determinando la decadenza dalla possibilità di proporre impugnazione, produce soltanto l’effetto sostanziale della irretrattabilità del credito contributivo senza determinare anche la cd. “conversione” del termine di prescrizione breve (nella specie, quinquennale, secondo l’art. 3, commi 9 e 10, della l. n. 335 del 1995) in quello ordinario (decennale), ai sensi dell’art. 2953 c.c.. Tale ultima disposizione, infatti, si applica soltanto nelle ipotesi in cui intervenga un titolo giudiziale divenuto definitivo, mentre la suddetta cartella, avendo natura di atto amministrativo, è priva dell’attitudine ad acquistare efficacia di giudicato. Lo stesso vale per l’avviso di addebito dell’INPS, che, dall’1 gennaio 2011, ha sostituito la cartella di pagamento per i crediti di natura previdenziale di detto Istituto.

Sez. L, n. 01774/2018, Cavallaro, Rv. 647239-01 nel ribadire il consolidato orientamento della S.C. in tema di conversione del termine di prescrizione breve in quello decennale per effetto del giudicato, ex art. 2953 c.c., ha anche affermato che la predetta conversione non si verifica a seguito di decreto ingiuntivo non opposto ma privo della dichiarazione ex art. 647 c.p.c., bensì nel momento in cui il giudice, dopo aver controllato la notificazione del decreto, lo dichiari esecutivo, poiché il procedimento di cui all’art. 647 c.p.c. non ha una mera funzione di attestazione, analoga a quella della cancelleria circa l’avvenuto passaggio in giudicato della sentenza, bensì quella, assai più penetrante, di una verifica giurisdizionale della regolarità del contraddittorio, che si pone all’interno del procedimento monitorio e che conclude l’attività in esso riservata al giudice in caso di mancata opposizione. L’effetto di cui all’art. 2953 c.c. sul termine di prescrizione si collega, infatti, ad un provvedimento giurisdizionale passato in giudicato, e tale qualità non può che essere attribuita al decreto ingiuntivo dichiarato esecutivo ai sensi dell’art. 647 c.p.c., dal momento che solo per esso l’art. 656 c.p.c. prevede l’esperibilità dei mezzi straordinari d’impugnazione per la sentenza passata in giudicato.

Con riferimento alle singole fattispecie, Sez. L, n. 16139/2018, Amendola F., Rv. 649288-01, in tema di indennità spettanti al lavoratore al momento della cessazione del rapporto di lavoro ne ha ribadito la sottoposizione alla prescrizione quinquennale ex art. 2948, n. 5, c.c.. È stato quindi affermato che l’applicazione della predetta disciplina deve effettuarsi a prescindere dalla natura dell’indennità, sia essa retributiva o previdenziale, in ragione dell’esigenza di evitare le difficoltà probatorie derivanti dall’eccessiva sopravvivenza dei diritti sorti in occasione della chiusura del rapporto. Sicché anche per il versamento della contribuzione sull’indennità sostitutiva del preavviso di licenziamento si applica la prescrizione breve, con decorrenza dalla cessazione del rapporto, restando irrilevante l’epoca in cui tale diritto sia stato eventualmente accertato in giudizio.

Secondo Sez. L, n. 01166/2018, Calafiore, Rv. 646803-02, qualora il datore di lavoro abbia operato un conguaglio tra i crediti derivanti dalle anticipazioni di trattamento integrativo in favore di lavoratori indebitamente collocati in CIGS e i debiti contributivi relativi ai medesimi lavoratori, la pretesa dell’Inps, che consegua all’accertamento della illegittimità del conguaglio, non costituisce una ordinaria richiesta di ripetizione di somme, ma conserva natura contributiva ed è pertanto assoggettata al termine di prescrizione quinquennale previsto dall’art. 3 della l. n. 335 del 1995.

Inoltre Sez. L, n. 28605/2018, Mancino, Rv. 651689-01, ha ritenuto che il credito vantato dall’INPS nei confronti del datore di lavoro, relativo al rimborso delle somme erogate al lavoratore a titolo di indennità e di contribuzione figurativa afferenti al regime della c.d. mobilità lunga, va ascritto all’ampia categoria dei contributi previdenziali, e soggiace quindi al termine di prescrizione quinquennale, previsto dall’art. 3, comma 9, lett. b, della l. n. 335 del 1995.

Sez. L, n. 15893/2018, Bellé, Rv. 649389-01, in fattispecie nella quale la sentenza di merito aveva attribuito efficacia interruttiva della prescrizione ad un verbale di assemblea di un’associazione con cui si riconosceva l’omesso pagamento di contributi previdenziali, ha confermato il costante orientamento secondo cui il riconoscimento del diritto, al fine della interruzione della prescrizione, ex art. 2944 c.c., è configurabile in presenza non solo dei requisiti della volontarietà, della consapevolezza, della inequivocità e della recettizietà, ma anche di quello dell’esternazione, indispensabile al fine di manifestare anche alla controparte del rapporto quella portata ricognitiva che, con l’affidamento rispetto alla persistente esistenza del credito che ne deriva, sta a base dell’effetto interruttivo della prescrizione.

Sez. L, n. 01166/2018, Calafiore, Rv. 646803-01, si allinea alla precedente Sez. L, n. 24054/2015, Balestrieri, Rv. 637954-01, affermando che l’atto di interruzione della prescrizione, ai sensi dell’art. 2943, comma 4, c.c., non deve necessariamente consistere in una richiesta o intimazione, essendo sufficiente una dichiarazione che, esplicitamente o per implicito, manifesti l’intenzione di esercitare il diritto spettante al dichiarante; nel dettaglio la S.C. ha riconosciuto efficacia interruttiva alla lettera dell’Inps al contribuente, contenente la quantificazione del credito e l’avvertenza che in difetto di pagamento si sarebbe proceduto all’iscrizione a ruolo, ritenendo irrilevante che, nello stesso atto, si manifestasse disponibilità a rivedere la richiesta di pagamento in caso di contestazione.

Già in precedenza peraltro Sez. L, n. 24054/2015, Balestrieri, Rv. 637954-01, relativamente ad una fattispecie nella quale era stato richiesto all’INPS sulla base della ritenuta estensione di alcuni sgravi, il rimborso “di tutto quanto indebitamente corrisposto e indebitamente riscosso dall’Istituto in uno con interessi e danni”, aveva affermato ai fini interruttivi la sufficienza della mera comunicazione del fatto costitutivo della pretesa posto che si tratta di atto non soggetto a formule sacramentali, avendo l’esclusivo scopo di portare a conoscenza del debitore la volontà del creditore, chiaramente manifestata, di far valere il proprio diritto.

Si segnala ancora Sez. L, n. 09589/2018, D’Antonio, Rv. 648639-01, che con specifico riferimento alla domanda di accertamento negativo ex art. 24 del d.lgs. n. 46 del 1999, ha affermato che non è idonea a determinare la sospensione della prescrizione del diritto al conseguimento dei contributi, che non é prevista da alcuna disposizione specifica né trova fondamento nella normativa codicistica, essendo inammissibile l’interpretazione estensiva o l’applicazione analogica delle disposizioni previste dagli artt. 2941 e 2942 c.c.; tale domanda non comporta inoltre l’interruzione della prescrizione, che l’art. 2943 c.c. fa discendere soltanto da atti tipici e specificamente enumerati contenenti l’esplicitazione di una pretesa e l’intimazione o la richiesta scritta di adempimento, idonea a manifestare l’inequivocabile volontà del titolare del credito di far valere il proprio diritto nei confronti del soggetto obbligato, con l’effetto sostanziale di costituirlo in mora.

Sez. L, n. 31352/2018, Ghinoy, Rv. 651918-01, che ha poi chiarito come il subentro dell’Agenzia delle Entrate quale nuovo concessionario, pur comportando la novazione dell’obbligazione originaria non muti la natura del credito, che resta assoggettato per legge ad una disciplina specifica, né l’avvenuta novazione comporta una modifica del regime prescrizionale, in quanto incompatibile con il principio di ordine pubblico della irrinunciabilità della prescrizione; sicché, in assenza di un titolo giudiziale definitivo che accerti con valore di giudicato l’esistenza del credito, trova applicazione la speciale disciplina di cui all’art. 3 della l. n. 335 del 1995 e non quella di cui all’art. 2946 c.c..

Assume rilievo altresì Sez. L, n. 20867/2018, Leone, Rv. 650133-01, la quale ha affermato che la notifica della cartella di pagamento ha efficacia interruttiva della prescrizione ove intervenga entro il termine di cinque anni dalla data in cui è sorto il credito contributivo dell’INPS, che coincide con il ventunesimo giorno di ogni mese avuto riguardo alle somme maturate per il mese precedente in quanto, ai sensi dell’art. 1 del d.m. 24 febbraio 1984, emanato ai sensi dell’art. 1 del d.l. 12 settembre 1983 n. 463, conv. con modif. dalla l. 11 novembre 1983, n. 638, il datore di lavoro è tenuto al versamento dei contributi relativi al rapporto di lavoro entro il giorno venti del mese successivo a quello di riferimento.

Sez. L, n. 21371/2018, Calafiore, Rv. 650209-01, ha invece affermato che la sentenza che ordina la reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato, stante la sua immediata esecutività, attiva l’obbligo per il datore di lavoro di corrispondere i contributi maturati dalla data del licenziamento fino alla reintegra. Pertanto la prescrizione dei predetti inizia a decorrere dal termine di scadenza successivo alla riattivazione dell’obbligo, senza che diano luogo a sospensione della prescrizione l’impugnazione del licenziamento e lo svolgimento del relativo processo, rilevando rispetto alla possibilità per l’ente di far valere il credito contributivo, ai sensi dell’art. 2935 c.c., i soli impedimenti giuridici e non quelli fattuali. Nella specie, si è ritenuto ininfluente, ai fini del decorso del termine di prescrizione, il momento di effettiva conoscenza da parte dell’INPS dell’avvenuta impugnazione del licenziamento e della conseguente decisione.

Sez. L, n. 18465/2018, Berrino, Rv. 649871-01, in linea di continuità con Sez. 1, n. 23269/2016, Di Marzio, Rv. 642411-01, ha evidenziato che l’estinzione di una società di persone, conseguente alla sua cancellazione dal registro delle imprese, determina un fenomeno di tipo successorio in virtù del quale sono trasferite ai soci le obbligazioni contributive rimaste inadempiute; ne consegue che hanno effetto interruttivo della prescrizione le iniziative di recupero promosse nei confronti dei soci subentranti, e così pure rileva al medesimo fine l’accertamento dei crediti promosso in sede giudiziale nei confronti degli stessi, dalla definitività del quale, ai sensi dell’art. 2495, comma 2, c.c., comincia a decorrere ex novo il termine prescrizionale. In applicazione del principio la S.C. ha ritenuto che il termine di prescrizione del credito contributivo fosse stato interrotto dal passaggio in giudicato della decisione sul merito nonché dalla successiva notifica ai soci delle cartelle esattoriali per la sua riscossione.

Sez. L, n. 27660/2018, Ponterio, Rv. 651058-01, ha poi ribadito che il presupposto dell’azione risarcitoria attribuita al lavoratore dall’art. 2116 c.c. è costituito dall’intervenuta prescrizione del credito contributivo, poiché, una volta che si siano realizzati i requisiti per l’accesso alla prestazione previdenziale, tale situazione determina l’attualizzarsi per il lavoratore del danno patrimoniale risarcibile, consistente nella perdita totale del trattamento pensionistico ovvero nella percezione di un trattamento inferiore a quello altrimenti spettante.

  • regime pensionistico
  • sussidio di assistenza
  • infortunio sul lavoro

CAPITOLO XXIII

LE PRESTAZIONI PREVIDENZIALI E ASSISTENZIALI

(di Annachiara Massafra *, Stefania Riccio )

Sommario

1 Le prestazioni previdenziali a carico dell’INPS. - 1.1 La decadenza dall’azione giudiziaria. - 1.2 L’anzianità contributiva e la contribuzione figurativa. - 1.3 Le prestazioni pensionistiche. - 1.4 Riscatto e neutralizzazioni. - 1.5 CIG ed indennità di mobilità. - 1.6 Indennità di disoccupazione ed L.S.U. - 1.7 L’indennità di maternità. - 2 Le prestazioni assistenziali. - 2.1 Danni da trattamenti sanitari. - 2.1.1 Danni post-trasfusionali - 2.1.2 Danni irreversibili da vaccinazioni. - 2.1.3 Danni da somministrazione di talidomide. - 2.2 Le prestazioni di invalidità civile - 2.2.1 L’indennità di accompagnamento. - 2.2.2 Profili processuali. - 2.3 Prestazioni in favore delle vittime del dovere e degli ex combattenti. - 2.4 Le misure in favore dei soggetti portatori di disabilità. - 2.5 Prestazioni in materia di igiene e sanità pubblica - 3 La compensatio lucri cum damno: aspetti rilevanti nella materia previdenziale e assistenziale. - 3.1 Infortunio in itinere. - 3.2 Indennità di accompagnamento. - 3.3 Pensione di reversibilità.

1. Le prestazioni previdenziali a carico dell’INPS.

Le prestazioni previdenziali a carico dell’Inps presentano vaste problematiche di carattere sostanziale e processuali che verranno esaminate analiticamente.

1.1. La decadenza dall’azione giudiziaria.

Sez. L, n. 21039/2018, Calafiore, Rv. 650139-01, in tema di decadenza dall’azione giudiziaria ex art. 47 del d.P.R. 30 aprile 1970 n. 639, ha riaffermato che la riproposizione, successivamente alla maturazione della decadenza, di una nuova domanda diretta ad ottenere il medesimo beneficio previdenziale non fa venir meno gli effetti decadenziali già prodotti posto che l’istituto, di natura sostanziale e di ordine pubblico, tutela la certezza dei capitoli di spesa gravanti sul bilancio dello Stato, che verrebbe altrimenti vanificata; la S.C. ha quindi cassato senza rinvio la decisione di merito che aveva rigettato l’eccezione di decadenza in materia di rivalutazione contributiva per esposizione all’amianto, sul rilievo che era stata presentata una nuova istanza amministrativa.

Sez. 6-L, n. 28639/2018, Esposito, Rv. 651739-01, ha invece confermato l’orientamento consolidato secondo cui l’art. 47 del d.P.R. n. 639 del 1970 (nel testo modificato dall’art. 4 del d.l. 19 settembre 1992 n. 384, conv., con modif., dalla l. 14 novembre 1992, n. 438) disciplina una decadenza sostanziale “di ordine pubblico” in quanto annoverabile tra quelle dettate a protezione dell’interesse alla definitività e certezza delle determinazioni concernenti l’erogazione di spese gravanti su conti pubblici. Ciò comporta che essa sia rilevabile in ogni stato e grado del giudizio con il solo limite del giudicato, dovendosi escludere la possibilità, per l’ente previdenziale di rinunziare alla decadenza stessa ovvero di impedirne l’efficacia riconoscendo il diritto ad essa soggetto.

1.2. L’anzianità contributiva e la contribuzione figurativa.

In merito all’anzianità contributiva dei lavoratori a tempo parziale, Sez. L, n. 26824/2018, Bellè, Rv. 651242-01, ha affermato che l’art. 7, comma 1, del d.l. n. 463 del 1983 (conv. con modif. dalla l. n. 638 del 1983) in conformità al principio di non discriminazione di cui all’art. 4 della direttiva n. 97/81/CE, come applicato dalla Corte di Giustizia UE nella sentenza del 10 giugno 2010 C-395/08 e C-396/08, va interpretato nel senso che, ai fini dell’acquisizione del diritto alla pensione, i lavoratori con orario part-time verticale ciclico hanno diritto all’inclusione anche dei periodi non lavorati.

In tema di trattamento pensionistico, nel caso di opzione per la prosecuzione del rapporto di lavoro oltre i limiti originari di età pensionabile, ai sensi dell’art. 4 della l. 30 dicembre 1977, n. 903, Sez. L, n. 16955/2018, Calafiore, Rv. 649603-01 ha ritenuto che le maggiorazioni della percentuale annua di commisurazione della pensione per ogni anno di anzianità contributiva acquisita per effetto dell’opzione stessa, come previste dall’art. 1, comma 3, del d.lgs. 2 agosto 1990, n. 503, si applicano alle sole pensioni liquidate dall’Assicurazione Generale Obbligatoria dei lavoratori dipendenti (e dalle gestioni sostitutive, esonerative od esclusive della medesima), e non invece alle pensioni liquidate da altre gestioni, le quali esulano dall’ambito previsionale di detta norma, non rilevando, ai fini di un’eventuale interpretazione estensiva, la possibilità di cumulo dei contributi assicurativi versati in gestioni diverse e la ritenuta unitarietà del trattamento pensionistico a contribuzione mista. (Nella specie, la Corte ha escluso il diritto della pensionata ad ottenere il ricalcolo della pensione di vecchiaia che le era stata liquidata dalla gestione dei lavoratori autonomi INPS, in conseguenza dell’opzione esercitata per la permanenza in servizio oltre l’età pensionabile).

Per Sez. L, n. 03309/2018, Berrino, Rv. 647409-01, l’esercizio dell’opzione di cui all’art. 1, comma 12, della legge 23 agosto 2004, n. 243, che consente di ottenere in busta paga la somma corrispondente alla complessiva contribuzione per l’assicurazione generale obbligatoria per invalidità, vecchiaia e superstiti, previa rinuncia all’ordinario accredito dei contributi stessi, determina la cristallizzazione della posizione previdenziale e, conseguentemente, esclude che il periodo intercorrente tra il momento in cui l’interessato in possesso dei requisiti per la pensione di anzianità esercita l’opzione e quello della maturazione del diritto alla pensione di vecchiaia possa essere computato ai fini del trattamento pensionistico integrativo.

Sez. L. 20458/2018, Lorito, Rv. 650090-01, chiarendo la portata della disposizione dell’art. 24, comma 4, del d.l. n. 201 del 2011, conv. con modif. dalla l. n. 214 del 2011, ha affermato che essa non attribuisce al lavoratore il diritto potestativo di proseguire nel rapporto di lavoro fino al raggiungimento del settantesimo anno di età. Difatti la norma non crea alcun automatismo, ma si limita a prefigurare condizioni previdenziali di incentivo, sulla cui base le parti possano consensualmente stabilire la prosecuzione dello stesso rapporto; tuttavia, è stato ulteriormente affermato, che ove ricorrano dette condizioni e il lavoratore abbia chiesto la prosecuzione, l’assenso del datore di lavoro a tale proposta non deve necessariamente esprimersi in forma scritta, ma può trarsi anche dal comportamento concludente tenuto nella fase successiva al raggiungimento dell’età pensionabile, interpretato alla luce dei criteri di buona fede oggettiva e correttezza contrattuale.

Si segnalano inoltre Sez. L, n. 21899/2018, Riverso, Rv. 650262-01, secondo cui il pagamento dei contributi presuppone l’esistenza di un valido rapporto assicurativo pertanto, nell’ipotesi di versamento volontario dei contributi assicurativi e successivo annullamento del rapporto di lavoro sulla cui base era stato autorizzato detto versamento (nella specie, a seguito della cancellazione dagli elenchi dei lavoratori agricoli), il lavoratore ha diritto alla ripetizione di quanto pagato, non potendo essere acquisiti contributi relativi a rapporti di lavoro dichiarati inesistenti, nonché Sez. L, n. 02498/2018, Calafiore, Rv. 647372-01, che consolidando l’orientamento sancito dalla precedente Sez. L, n. 01660/2012, Ianniello, Rv. 621088-01, ribadisce che la responsabilità contrattuale dell’ente previdenziale per erronee informazioni fornite all’assicurato può configurarsi soltanto ove queste siano rese od omesse su specifica domanda dell’interessato, lo inducano in un errore scusabile e si riferiscano a dati di fatto concernenti la posizione assicurativa dell’interessato. secondo la quale la responsabilità contrattuale dell’ente previdenziale per erronee informazioni fornite all’assicurato.

In relazione ai contributi figurativi relativi ai periodi di godimento dell’indennità di mobilità, Sez. L, n. 06161/2018, Riverso, Rv. 647530-01, chiarisce che gli stessi, ai sensi dell’art. 7, comma 9, della l. n. 223 del 1991, si calcolano sulla base della retribuzione cui è riferito il trattamento straordinario di integrazione salariale, che coincide con quella dovuta nel periodo immediatamente precedente alla risoluzione del rapporto di lavoro per l’orario contrattuale ordinario, maggiorata degli eventuali elementi di carattere continuativo; sicché deve ritenersi irrilevante il richiamo alla retribuzione effettivamente percepita contenuto nell’art. 8, comma 1, della l. 23 aprile 1981, n. 155.

Del resto già Sez. L., n. 24203/2017, Riverso, Rv. 646137-01, aveva specificato sotto altro profilo le modalità attraverso le quali dovesse essere calcolata l’indennità di mobilità, da determinarsi cioè in base alla retribuzione dovuta per l’orario contrattuale ordinario, calcolando nel relativo importo complessivo non solo la paga base, l’indennità di contingenza e i ratei di mensilità aggiuntive, ma tutti gli elementi, come eventuali maggiorazioni che devono essere considerati quali componenti della normale retribuzione oraria stabilita come parametro di riferimento, in relazione a quanto spettante a tale titolo per il periodo immediatamente precedente alla risoluzione del rapporto di lavoro.

Secondo Sez. L, n. 21678/2018, Mancino, Rv. 650252-01, i contributi figurativi da mobilità acquisiti nell’ultimo quinquennio, che concorrano ad integrare il requisito contributivo minimo per l’accesso al trattamento pensionistico di vecchiaia, non possono essere neutralizzati solo perché compromissivi del livello di prestazione pensionistica già virtualmente maturata, non essendo consentito far valere detta contribuzione agli effetti dell’anticipata maturazione del diritto alla pensione e nello stesso tempo non tenerne conto ai fini del calcolo della retribuzione pensionabile.

In tema di lavoratori socialmente utili titolari di indennità a carico dell’Inps, Sez. L, n. 29942/2018, D’Antonio, Rv. 651674-01, ha chiarito che la contribuzione figurativa loro accreditata é valorizzabile, a far tempo dal 1° agosto 1995, ai soli fini dell’accesso al trattamento pensionistico e non anche ai fini della misura dello stesso, in virtù di quanto previsto dall’art. 1, comma 9, del d.l. n. 510 del 1996, conv. dalla l. n. 608 del 1996.

In tema di benefici previdenziali a favore dei perseguitati per motivi razziali, Sez. L, n. 24745/2018, Bellè, Rv. 650726-01 ha specificato che gli accessori del credito derivante dalla riliquidazione della pensione, per effetto del riconoscimento della contribuzione figurativa ex art. 5 della l. 10 marzo 1955, n. 96, decorrono dallo spirare del centoventunesimo giorno dalla data di presentazione al Ministero competente della domanda amministrativa volta al predetto riconoscimento, e non dal momento in cui quest’ultimo è stato comunicato all’I.N.P.S.

Per Sez. L, n. 28934/2018, Mancino, Rv. 651704-01, la contribuzione figurativa di cui all’art. 80, comma 3, della l. n. 388 del 2000 è prevista per l’attribuzione dei trattamenti pensionistici di anzianità e vecchiaia come testualmente chiarito dalla norma, e solo all’atto della presentazione della domanda di pensione. Da ciò ne discende l’esclusione in caso di richiesta di riliquidazione dell’assegno ordinario di invalidità, beneficio non pensionistico la cui erogazione è correlata ai contributi effettivamente erogati.

Con specifico riferimento alla determinazione del trattamento della pensione di vecchiaia liquidata a carico della gestione esercenti attività commerciali, Sez. L, n. 26818/2018, D’Antonio, Rv. 651240-01, ha invece escluso che i contributi figurativi per disoccupazione e maternità possano essere cumulabili in presenza di integrale copertura contributiva obbligatoria quale coltivatore diretto, colono o mezzadro, ribadendo il principio generale per cui non si fa luogo a contribuzione figurativa. quando il periodo sia comunque coperto da contribuzione.

1.3. Le prestazioni pensionistiche.

In generale Sez. L, n. 10432/2018, Calafiore, Rv. 648763-01, afferma che il diritto alla pensione sorge nel momento in cui si perfezionano tutti gli elementi previsti dalla singola fattispecie pensionistica, pur restando il legislatore libero di disciplinare i requisiti amministrativi ed anagrafici di accesso diversamente nel corso del tempo e di tutelare le aspettative formatesi nel vigore dell’assetto normativo precedente in modo discrezionale. Deve pertanto escludersi che l’opzione per il regime di liquidazione interamente contributivo ai sensi dell’art. 1, comma 23, della l. n. 335 del 1995 dia anche diritto di accedere alla pensione di anzianità sulla base di quanto previsto dalla normativa previgente, poiché i requisiti amministrativi ed anagrafici sono stati successivamente modificati in senso restrittivo, da ultimo con l’art. 1, comma 3, della l. n. 243 del 2004, che ha disposto, a salvaguardia delle posizioni assicurative esistenti, che potesse accedere a tale forma di pensione il lavoratore che avesse maturato entro il 31 dicembre 2007 i requisiti previsti dalle norme anteriori all’entrata in vigore della legge. Nel caso di specie, la S.C. ha escluso che avesse diritto alla pensione di anzianità il lavoratore privo del requisito anagrafico dei cinquantasette anni – cui la disciplina previgente condizionava l’accesso al trattamento pensionistico – pur avendo optato per il regime interamente contributivo già nel 2002, alla data del 31 dicembre 2007.

Sez. 6-L, n. 19337/2018, Spena, Rv. 650153-01, ha ribadito che l’articolo 22, comma 8, della l. n. 153 del 1969, (introdotto dall’art. 23 quinquies del d.l. 30 giugno 1972 n. 267, conv. con modif. dalla l. 11 agosto 1972 n. 485), che stabilisce la non applicabilità del divieto di cumulo tra pensione di anzianità e retribuzione lorda ai lavoratori agricoli salariati fissi giornalieri, non deroga a quanto previsto dall’art. 1, lett. c), della medesima legge, che prescrive il requisito dell’esistenza, all’atto della domanda di pensione, dello stato di disoccupazione. Ciò in quanto le due norme regolano due campi diversi quali il diritto a cumulare la pensione già conseguita con la retribuzione ed il diritto a conseguire la pensione. Ne deriva che il lavoro agricolo dipendente in atto alla data di presentazione della domanda di pensione di anzianità osta alla maturazione del diritto alla pensione.

Sez. L, n. 01170/2018, Mancino, Rv. 647201-01, nell’ipotesi di violazione del divieto di cumulo della pensione di anzianità con il reddito da lavoro autonomo, di cui all’art. 10, comma 6, del d.lgs. n. 503 del 1992, conferma invece che le maggiori somme erogate a titolo di pensione di anzianità, poi risultanti non dovute, sono recuperabili sotto forma di trattenuta sulla stessa pensione, poiché erogazione e trattenuta costituiscono eventi necessari della previsione normativa, che regola modalità e tempi per il completamento della fattispecie a struttura bifasica, senza che sia riscontrabile alcun errore dell’ente previdenziale e l’art. 10 cit. costituisce norma speciale volta a regolare un’ipotesi peculiare di indebito derivante dall’applicazione del detto divieto. Non trova, pertanto, applicazione la disciplina generale dell’indebito previdenziale di cui all’art. 52, comma 2, della l. n. 88 del 1989, che postula la diversa ipotesi dell’erogazione di un trattamento pensionistico in misura superiore a quella dovuta per errore, di qualsiasi natura, imputabile all’ente previdenziale.

In materia di cumulo della pensione con i redditi da lavoro, Sez. L, n. 05961/2018, Riverso, Rv. 647515-01, ha affermato che l’art. 44, comma 1, della l. n. 289 del 2002 – concernente il computo del requisito dell’anzianità contributiva pari a 37 anni che, unitamente all’età di 58 anni, consente la cumulabilità integrale della pensione di anzianità con i redditi da lavoro autonomo o dipendente – deve essere inteso nel senso che i contributi utili allo scopo siano costituiti dalla sola contribuzione effettiva in quanto, quando il suddetto articolo, ai fini della deroga al divieto di cumulo della pensione di anzianità con i redditi da lavoro, richiama un’anzianità contributiva di 37 anni non può che riferirsi ai contributi utili ai fini del conseguimento della stessa pensione di anzianità oggetto della norma, con esclusione pertanto della contribuzione figurativa utile soltanto per la misura della pensione, salvo le eccezioni previste dalla legge.

In tema di requisiti contributivi per la pensione di vecchiaia, Sez. L, n. 10272/2018, D’Antonio, Rv. 648042-01, ha affermato che la deroga stabilita dall’art. 2, comma 3, lett. b), del d.lgs. n. 503 del 1992, a favore dei lavoratori subordinati che, in possesso di un’anzianità assicurativa di almeno venticinque anni, siano stati occupati, per almeno dieci anni, per periodi di durata inferiore a cinquantadue settimane nell’anno solare, non può essere estesa ai lavoratori occupati per l’intero anno. In tal caso l’intento del legislatore è quello di proteggere, con il più favorevole regime previgente, i lavoratori non occupati per l’intero anno solare e non già i lavoratori che, sebbene occupati nell’intero anno solare, non possano far valere una contribuzione sufficiente.

La pensione di vecchiaia in regime internazionale è stata oggetto di esame da Sez. L, n. 21618/2018, Berrino, Rv. 650248-01, (nella specie convenzione con la Repubblica del Venezuela, ratificata con la l. n. 260 del 1991), che ha ribadito che l’integrazione al trattamento minimo va computata nel calcolo della pensione virtuale – e cioè dell’importo che sarebbe conseguito con l’applicazione della sola legge nazionale – se detta integrazione spetti al lavoratore ai sensi della legge italiana, atteso che la suddetta convenzione (art.8) dispone chiaramente che si deve tener conto di tutte le regole della legislazione propria dello Stato che provvede alla totalizzazione, restando irrilevante la mancata previsione espressa dell’applicazione della integrazione al minimo.

Sez. L, n. 29191/2018, Calafiore, Rv. 651692-01, sulla rilevante questione della pensione di vecchiaia anticipata ex art. 1, comma 8 della l. n. 503 del 1992 ha chiarito che il regime delle cd. “finestre” previsto dall’art. 12 del d.l. n. 78 del 2010, conv. con modif. dalla l. n. 122 del 2010, trova applicazione, in forza del chiaro tenore testuale della norma ed in base all’ampio ambito soggettivo di riferimento, non solo a coloro i quali a decorrere dal 2011 maturino il diritto di accesso alla pensione in 65 anni per l’uomo e 60 per la donna, ma anche nei confronti dei soggetti che “negli altri casi” maturino tale diritto alle età previste dagli specifici ordinamenti.

La successiva Sez. L, n. 32591/2018, Bellé, Rv. 652039, ha poi ulteriormente chiarito che la pensione di vecchiaia anticipata di cui innanzi è inclusa nel meccanismo delle cd. “finestre” ma esclusa dalla disciplina prevista dall’art. 24, comma 5, della legge 22 dicembre 2011, n. 214 (cd. Riforma Fornero). Tale intervento normativo, infatti, ha riguardato esclusivamente i soggetti i cui requisiti di pensionamento sono ridefiniti attraverso una dilazione dell’età pensionabile contestualmente disposta dai successivi commi della medesima disposizione che non menzionano i pensionati di vecchiaia per invalidità anticipata.

Sempre relativamente alla pensione anticipata Sez. L, n. 20466/2018, Blasutto, (in corso di rimassimazione per problemi tecnici sul sito), ha affermato che il divieto di cumulo tra pensione anticipata di anzianità ed incarichi di consulenza per l’amministrazione di provenienza, previsto dall’art. 25, comma 1, della l. n. 724 del 1994, non riguarda i contratti di lavoro subordinato, anche se a tempo determinato, ma esclusivamente le prestazioni di lavoro autonomo, riportabili al concetto di collaborazione continuativa e coordinata, prevalentemente personale.

In tema di pensione supplementare Sez. L, n. 21189/2018, Mancino, Rv. 650140- 01, ha invece chiarito i requisiti anagrafici e contributivi devono sussistere già al momento di presentazione della domanda, ne consegue che, in caso di compimento dell’età anagrafica in una data successiva, la relativa istanza va rigettata ed occorrendone una nuova solo da questa inizierà a decorrere la prestazione.

Quanto al trattamento pensionistico dei lavoratori autonomi privi di anzianità contributiva al 31 dicembre 1995, Sez. L, n. 12810/2018, Mancino, Rv. 648736-01 ha avuto il pregio di evidenziare che il parametro al quale agganciare la contribuzione a percentuale è quello fissato, anno per anno, dall’art. 2, comma 18, della l. n. 335 del 1995, il cui massimale opera sia per la base contributiva che per quella pensionabile.

Sez. L, n. 30267/2018, D’Antonio, Rv. 651644-01, ha affermato che il diritto alla pensione di reversibilità ex art. 13 del r.d. 14 aprile 1939 n. 636 (come modificato dall’art. 22, comma 3, della l. 21 luglio 1965 n. 903) non spetta al figlio superstite e a carico il quale sia iscritto ad un corso di studi presso un istituto italiano convenzionato con una Università inglese, ove quest’ultima abbia rilasciato un titolo che non sia stato riconosciuto in Italia secondo quanto stabilito dagli artt. 3 e VI 5 della Convenzione di Lisbona, ratificata con l. n. 148 del 2002.

Sez. 6-L, n. 22738/2018, Cavallaro, Rv. 650917-01, ribadisce che qualora la pensione (nella specie di reversibilità) sia stata conseguita con la totalizzazione dei periodi lavorativi pre-stati presso diversi Stati membri della Comunità Europea, le quote aggiuntive previste dall’art. 10, comma 3, della legge 3 giugno 1975, n. 160, spettano solo se il pro rata italiano sia superiore al trattamento minimo, non rilevando a tal fine il diverso regime previsto per la perequazione automatica di cui al comma 1 della medesima norma, il cui riconoscimento alle pensioni inferiori al trattamento minimo è stato esteso dal successivo art. 14 del d.l. n. 663 del 1979, conv. con modif. dalla l. n. 33 del 1980.

Sez. L, n. 13980/2018, Riverso, Rv. 648988-01, in materia di trattamento pensionistico dei dirigenti già assicurati presso l’INPDAI e trasferiti, a seguito della soppressione di tale ente, nella gestione previdenziale dell’INPS, chiarisce che il principio del pro rata, contenuto nell’art. 42, comma 3, della l. n. 289 del 2002, impone di determinare l’ammontare delle quote relative a ciascun periodo di assicurazione secondo tutte le disposizioni vigenti nel corrispondente regime normativo; ne consegue che, per la quota corrispondente alle anzianità contributive acquisite presso l’INPDAI fino alla sua soppressione, il calcolo va operato tenendo conto anche della cd. clausola di salvaguardia di cui all’art. 3, comma 4, del d.lgs. 24 aprile 2007 n. 181, che, già prima della soppressione dell’INPDAI, escludeva che il trattamento pensionistico complessivo degli iscritti a tale ente potesse risultare inferiore a quello previsto dall’assicurazione generale obbligatoria; sullo stesso tema Sez. L, n. 12944/2018, Mancino, Rv. 649061-01, ha evidenziato che le due quote che compongono la pensione unitaria riflettono i due distinti e peculiari regimi assicurativi, ai quali il lavoratore è stato assicurato, e la quota proporzionale al periodo di assicurazione presso l’INPDAI deve essere calcolata nel rispetto del massimale contributivo e pensionabile che caratterizza detta assicurazione, in base agli artt. 6 della l. 27 dicembre 1953 n. 967 e 2 del d.P.R. 17 agosto 1955 n. 914 computando tutte le retribuzioni che concorrono alla determinazioni della predetta quota, ancorché percepite successivamente al 31 dicembre 2002.

Quanto alla pensione di inabilità, per Sez. L, n. 01921/2018, Boghetich, Rv. 647243-01, la maggiorazione di cui all’art. 2, comma 3, della l. n. 222 del 1984 va calcolata in riferimento alla base pensionabile che sarebbe spettata al singolo iscritto avuto riguardo alle specifiche modalità lavorative del rapporto in essere alla data della domanda amministrativa di pensione; con la conseguenza che, nell’ipotesi di lavoro part-time, trova applicazione il sistema di riproporzionamento previsto dall’art. 9, comma 4, del d.lgs. n. 61 del 2000, con corrispondente incidenza della ridotta contribuzione sulla misura del trattamento previdenziale; Sez. L, n. 16141/2018, Ponterio, Rv. 649289-01, ha invece ribadito che ai fini del riconoscimento dell’assegno ordinario di invalidità, la sussistenza del requisito posto dall’art. 1 della l. n. 222 del 1984, concernente la riduzione a meno di un terzo della capacità di lavoro dell’assicurato in occupazioni confacenti alle sue attitudini, deve essere verificata operando una valutazione complessiva del quadro morboso dell’assicurato, con riferimento alla sua incidenza non solo sull’attività svolta in precedenza, ma su ogni altra che egli possa svolgere, in relazione alla sua età, capacità ed esperienza, senza esporre a ulteriore danno la propria salute. Nella specie la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza di merito che aveva valutato l’incidenza della malattia sulla sola precedente attività di tornitore svolta dall’assicurato senza considerare altre possibili occupazioni a lui confacenti.

Si segnala altresì Sez. L, n. 00844/2018, Mancino, Rv. 646960-01, che in tema di trasformazione della pensione d’invalidità in pensione di vecchiaia, al compimento dell’età pensionabile, afferma che la questione relativa alla sussistenza dei requisiti anagrafici e contributivi non costituisce un’eccezione in senso stretto ma una mera difesa, deducibile in ogni stato e grado, anche nel giudizio di cassazione, salvo l’onere di specifica contestazione dei fatti affermati dalla controparte e la formazione del giudicato.

I contenuti della sentenza di accoglimento della domanda di assegno di invalidità e le implicazioni in tema di giudicato sono oggetto di Sez. 6-L, n. 19249/2018, Doronzo, Rv. 650201-01, in cui la Corte ha specificato che l’accertamento contenuto nella sentenza di accoglimento della domanda di assegno di invalidità pensionabile si estende a tutti gli elementi che concorrono ad integrare, per legge, la fattispecie costitutiva del diritto all’assegno e, quindi, non solo al requisito sanitario, ma anche al requisito contributivo-assicurativo per l’accesso alla prestazione. Ne consegue che l’impugnazione, ove investa la sussistenza di uno solo dei due requisiti, non preclude la formazione del giudicato, quantomeno implicito, in relazione all’altro.

1.4. Riscatto e neutralizzazioni.

In tema di riscatto dei periodi corrispondenti all’astensione facoltativa per maternità fuori dal rapporto di lavoro, Sez. L, n. 13969/2018, Mancino, Rv. 648987-01, ha affermato che l’integrazione della pensione, ancorché avente decorrenza anteriore, spetta dalla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 151 del 2001 ove i contributi riscattati siano stati essenziali per la maturazione del diritto a pensione, senza che possa trovare applicazione la clausola di salvezza contenuta nell’art. 2, comma 504, della l. n. 244 del 2007, dettata con esclusivo riferimento a coloro che, alla predetta data, fossero già iscritti a una gestione assicurativa.

Secondo Sez. L, n. 20924/2018, Berrino, Rv. 650136-01 la domanda amministrativa di riscatto del corso di laurea rientra tra le prestazioni previdenziali previste a favore di determinati lavoratori subordinati, sicché è ad essa applicabile il termine di decadenza di cui all’art. 47 del d.P.R. n. 639 del 1970, la cui maturazione non esclude peraltro che il riscatto possa essere chiesto successivamente, con riferimento tuttavia ai parametri retributivi in atto alla data della nuova domanda, mentre per Sez. L, n. 23773/2018, Mancino, Rv. 650572-01, in seguito alla progressiva privatizzazione del rapporto di lavoro dei dipendenti del Banco di Napoli, il rinvio alla normativa sulle pensione per i dipendenti statali, operato dall’art. 11 dell’all. T all’art. 39 della l., 8 agosto 1895, n. 486, non riguarda le modalità procedurali per l’ottenimento del diritto alla pensione, ma opera solo come limite negativo, nel senso che il trattamento pensionistico di tali dipendenti non può essere inferiore a quello previsto dalla disciplina applicabile agli statali. Pertanto, ai fini del riconoscimento delle anzianità particolari indicate dall’art. 105 del regolamento del personale del Banco di Napoli, tra cui quella derivante dal riscatto degli anni di laurea, la denuncia dei titoli utili a tale riconoscimento deve avvenire nel termine di decadenza di novanta giorni dalla nomina in ruolo o dal conseguimento dei titoli, se successivo, previsto dall’art. 106 dello stesso regolamento, senza che tale disciplina convenzionale renda eccessivamente difficile l’esercizio del diritto, nel senso voluto dall’art. 2965 c.c..

Sez. L, n. 28025/2018, Riverso, Rv. 651493-01 ha affrontato la questione relativa all’applicabilità della c.d. neutralizzazione dei periodi a contribuzione ridotta relativamente ai trattamenti pensionistici liquidati dopo il 1° gennaio 1993. Nel dettaglio, ricostruendo la normativa ed essi applicabile, ha chiarito come essi sono determinati, avuto riguardo alla disciplina di cui alla l. 23 ottobre 1992 n. 421 e al d.lgs. n. 503 del 1992, sulla base di una progressiva estensione del periodo di calcolo della retribuzione pensionabile, tesa a rendere l’importo della pensione il più possibile aderente all’effettiva consistenza di quanto percepito dal lavoratore nel corso della sua vita lavorativa. Da ciò consegue che, rispetto ad essi, non opera, anche con riferimento ai lavoratori che, alla predetta data, abbiano maturato un’anzianità superiore a 15 anni, il rimedio, elaborato dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, della cd. “neutralizzazione” dei periodi a retribuzione ridotta, il quale ha la finalità di evitare un decremento della prestazione previdenziale nell’assetto legislativo delineato dall’art. 3 della l. n. 287 del 1982, incentrato sulla valorizzazione del maggior livello retributivo tendenzialmente raggiunto negli ultimi anni di lavoro.

In tema di pensione cd. indiretta, Sez. L, n. 25858/2018, Berrino, Rv. 650860-01, ha affermato che lo stato di disoccupazione del de cuius nel quinquennio antecedente al suo decesso non rientra fra le ipotesi tassative di neutralizzazione dei periodi di sospensione del rapporto assicurativo ex art. 37 del d.P.R. n. 818 del 1957, disposizione finalizzata alla protezione del lavoratore assicurato interessato da uno degli eventi ivi indicati; è stato inoltre evidenziato come sia ininfluente la posizione dei terzi, quali i superstiti, il cui diritto al trattamento di reversibilità matura “iure proprio” e non “iure successionis”.

Sempre in materia rileva Sez. L, n. 26667/2018, Riverso, Rv. 651198-01, per la quale la neutralizzazione dei periodi di sospensione del rapporto assicurativo previdenziale obbligatorio, che derivino da alcune obiettive situazioni impeditive (quali l’astensione facoltativa dal lavoro per maternità, la prestazione di lavoro all’estero, la malattia di una certa durata ed altre) – prevista dall’art. 37 del d.P.R. 26 aprile 1957 n. 818, ai fini dell’esclusione dei periodi medesimi in sede di verifica dei requisiti contributivi e, in particolare, del requisito del prescritto numero minimo di contributi nell’ultimo quinquennio ai fini del diritto alla pensione di invalidità – è espressione di un principio generale del sistema previdenziale, diretto ad impedire che il lavoratore perda il diritto alla prestazione previdenziale allorché il versamento contributivo sia carente per ragioni a lui non imputabili. Ne consegue che non è necessario che la causa impeditiva operi nel corso di un rapporto di lavoro, in atto sospeso; e che, in caso di mancata maturazione del requisito contributivo specifico, consistente nella contribuzione nell’ultimo quinquennio precedente la domanda per il pensionamento di invalidità imputabile ad infermità dell’assicurato, deve ritenersi sufficiente il requisito contributivo c.d. generico.

1.5. CIG ed indennità di mobilità.

In assenza di precedenti, Sez. L, n. 10139/2018, Mancino, Rv. 648730-01, ha chiarito che una cooperativa portuale inquadrata nel settore industria è tenuta al pagamento dell’integrazione salariale straordinaria anche per i lavoratori non temporanei, in applicazione dell’art. 5 della l. 13 agosto 1984, n. 469, che ha esteso l’ambito di applicazione della CIGS, individuato dalla l. 5 novembre 1968 n. 1115, anche in favore delle compagnie e dei gruppi portuali, e dell’art. 9 della legge 29 dicembre 1999 n. 407 che ne ha imposto definitivamente il relativo obbligo contributivo, trovando detta estensione il suo fondamento nella natura industriale della cooperativa, nella necessità di evitare una disparità di trattamento con i lavoratori temporanei, ed infine nella considerazione che le cooperative portuali altro non sono che una evoluzione delle concessionarie di servizi portuali, a nulla rilevando la venuta ad esistenza delle stesse in data successiva rispetto alla normativa innanzi richiamata.

Sez. L, n. 26028/2018, Riverso, Rv. 651190-01 ha invece chiarito che il requisito dimensionale previsto dall’art. 24, comma 1, della l. n. 223 del 1991, deve essere verificato non già in riferimento al momento della cessazione dell’attività e dei licenziamenti, ma con riguardo all’occupazione media dell’ultimo semestre, in analogia con quanto previsto dall’art. 1, comma 1, della medesima legge; sicché, il semestre va calcolato a ritroso dalla data di intimazione dei licenziamenti per cessazione dell’attività, comprendendovi, pertanto, anche il mese nel quale è intervenuto il recesso datoriale.

Per Sez. L, n. 05383/2018, Berrino, Rv. 647483-01 la normativa sulla mobilità, introdotta dalla l. n. 223 del 1991, con l’esplicito richiamo operato all’istituto della cassa integrazione guadagni straordinaria, prevista dall’art. 2 della l. n. 1115 del 1968, ha inteso riconoscere il diritto all’indennità di mobilità ai soli lavoratori di imprese industriali che occupino più di quindici dipendenti, restando invece esclusi da tale indennità i lavoratori di imprese svolgenti attività a carattere misto, nei confronti delle quali non è possibile un ampliamento o una modifica della sfera di operatività della cassa integrazione. Nella specie, la S.C. ha riformato la decisione di merito che aveva riconosciuto l’indennità di mobilità ad una dipendente addetta ad una attività produttiva computando, ai fini del requisito dimensionale, i dipendenti di altra unità operativa della stessa società addetti, tuttavia, ad una attività commerciale.

Si segnala inoltre Sez. L, n. 02497/2018, Calafiore, Rv. 647308-01 che, allineandosi all’orientamento sancito da Sez L, n. 20826/2014, De Renzis, Rv. 632572-01, afferma che la corresponsione anticipata dell’indennità di mobilità prevista dall’art. 7, comma 5, della l. n. 223 del 1991 ha la finalità di incentivare il disoccupato in mobilità verso attività autonome, riducendo la pressione sul mercato del lavoro subordinato, e in quanto contributo finanziario destinato a sopperire alle spese iniziali di un’attività che il lavoratore in mobilità svolgerà in proprio, perde la sua connotazione tipica di prestazione di sicurezza sociale. Mentre lo svolgimento di attività lavorativa autonoma, o anche di collaborazione coordinata e continuativa nelle forme del contratto a progetto fa cessare lo stato di bisogno connesso alla disoccupazione involontaria e determina il venire meno, sia del diritto all’indennità di disoccupazione, sia di quello all’indennità di mobilità.

In tema di concessione del beneficio di cui all’art. 7, comma 7, della l. n. 223/1991, vigente “ratione temporis”, Sez. L, n. 02697/2018, D’Antonio, Rv. 647391-01 ha ribadito che l’erogazione dell’indennità di cd. “mobilità lunga” spetta fino alla data di maturazione del diritto al pensionamento di anzianità e non fino alla data di effettiva decorrenza o percezione del trattamento pensionistico, che è condizionata alla presentazione della relativa domanda da parte dell’interessato, poiché altrimenti l’erogazione degli emolumenti verrebbe ad essere indebitamente prolungata oltre il periodo previsto dalla legge. Nella specie, la S.C., riformando la pronuncia di appello, ha negato la predetta indennità ad un lavoratore, che al momento dell’attribuzione non era ancora in possesso dei requisiti per la pensione di anzianità, ritenendo irrilevante che avesse maturato il diritto a pensione in forza del tardivo riconoscimento del beneficio derivante dall’esposizione all’amianto.

1.6. Indennità di disoccupazione ed L.S.U.

Sez. L, n. 26027/2018, Berrino, Rv. 651189-01, ha affermato che lo stato di disoccupazione normativamente rilevante non equivale alla totale mancanza di ogni attività lavorativa, ma piuttosto alla percezione di redditi di importo inferiore alla soglia legale del minimo imponibile. In applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato il riconoscimento dell’indennità in favore di una lavoratrice che, per effetto della cessazione di uno dei due rapporti dalla stessa stipulati per il tramite dell’agenzia somministratrice, era venuta a trovarsi incolpevolmente in una situazione economica inidonea a garantirle il raggiungimento della soglia minima reddituale.

In materia di indennità di disoccupazione ordinaria con re-quisiti ridotti, assume particolare rilievo Sez. L, n. 26218/2018, Riverso, Rv. 651194-01, che chiarisce come ai fini del raggiungimento del requisito contributivo dei 78 giorni, di cui all’art. 7, comma 3, del d.l. n. 86 del 1988, conv. con modif. dalla l. n. 160 del 1988, applicabile “ratione temporis”, vanno computate non soltanto le giornate di effettiva prestazione del lavoro, ma anche quelle non lavorate, qualora interne ad un periodo complessivamente considerato lavorativo e per le quali sussista l’obbligo di contribuzione, quali l’assenza per festività e per ferie, i periodi di maternità e di malattia nonché i riposi ordinari, tra i quali rientrano le domeniche in forza di quanto previsto dall’art. 9 del d.lgs. n. 66 del 2003, mentre non rileva quanto previsto dagli artt. 3 e 4 del d.P.R. n. 818 del 1957, che attengono all’individuazione del quantum della retribuzione giornaliera assoggettabile a contribuzione.

In tema di indennità di disoccupazione agricola, Sez. L, n. 10143/2018, Mancino, Rv. 648731-01, ha inoltre affermato che per le modalità di calcolo della prestazione – nella specie, percepita nel 2006 – si deve utilizzare, “ratione temporis”, la misura del salario medio convenzionale, fissato con decreto ministeriale, che continua ad operare per gli operai agricoli per i quali l’esclusione dall’ambito applicativo del d.l. n. 463 del 1983, conv. con modif. dalla l. n. 683 del 1983, è risultata confermata dalle successive disposizioni, introdotte con il d. l. n. 338 del 1989, conv. con modif. dalla l. n. 389 del 1989. È stato quindi chiarito che l’individuazione di regole diverse per la contribuzione dovuta dal datore di lavoro e per la contribuzione da valorizzare per la misura delle prestazioni spettanti ai lavoratori, specie quanto alle prestazioni temporanee, trova fondamento nelle basi fondanti del sistema previdenziale, di tutela del singolo lavoratore e di solidarietà di ciascun lavoratore nei confronti degli altri, con la conseguenza che il contemperamento della detta duplice esigenza è affidato alla discrezionalità del legislatore senza necessità alcuna che tutti i contributi versati dal datore di lavoro per ciascuna assicurazione sociale in favore del singolo lavoratore si tramutino, automaticamente, nell’importo della prestazione a questi dovuta.

Sez. 6-L, n. 28481/2018, De Marinis, Rv. 651736-01, nel precisare le modalità attraverso le quali deve essere determinato il trattamento economico spettante ai lavoratori socialmente utili, ha affermato che essendo estranea ex lege la disciplina dell’impiego subordinato, la determinazione dell’importo integrativo deve essere effettuata secondo quanto previsto dal solo art. 8, commi 2 e 3, del d.lgs. n. 468 del 1997, e dunque sulla base di una retribuzione oraria determinata in forza dello specifico criterio ivi indicato per il quale il divisore previsto ai fini dell’individuazione del valore della retribuzione oraria per i lavoratori impiegati presso il soggetto utilizzatore nelle medesime attività va applicato alla retribuzione base (minimo contrattuale e indennità integrativa speciale).

1.7. L’indennità di maternità.

Sez. L, n. 11414/2018, Marchese, Rv. 648906-01, ha affrontato un delicato aspetto relativo alle modalità di determinazione del trattamento economico spettante alla lavoratrice, distinguendo i presupposti relativi applicazione degli artt. 23 e 22 del d.lgs. n. 151 del 2001.

Nel dettaglio ha affermato che tale trattamento va de-terminato nel quantum con esclusivo riferimento alla “retribuzione-parametro” di cui all’art. 23 del d.lgs. n. 151 del 2001, mentre il rinvio dell’art. 22 dello stesso decreto ai criteri previsti per l’erogazione delle prestazioni dell’assicurazione obbligatoria contro le malattie deve essere limitato ai soli istituti che disciplinano tale indennità, quali ad esempio quelli in tema di domanda amministrativa o regime prescrizionale.

Si segnala Sez. L, n. 10283/2018, Calafiore, Rv. 648734-01, che in tema di indennità di maternità in caso di parto prematuro, ha chiarito che l’individuazione della data da cui decorre il periodo di astensione obbligatoria non goduto, in tutto o in parte, può ancorarsi, ai sensi dell’art. 16, lett. c), del d.lgs. n. 151 del 2001, come interpretato dalla Corte cost. con la sentenza additiva n. 116 del 7 aprile 2011, alla data di ingresso del neonato nella casa familiare, essendo la ratio della disposizione normativa ravvisabile nel contemperamento della tutela del diritto alla salute della madre con il fine di proteggere il rapporto tra madre e figlio nel periodo successivo alla nascita; qualora, tuttavia, il parto prematuro sia connesso alla necessità di ricovero oltremodo prolungato del neonato presso strutture sanitarie, tale ultimo fine rimane eluso se la madre, per ragioni di salute, non possa riprendere l’attività lavorativa e quindi debba avvalersi immediatamente di detto congedo, dovendosi escludere che in tal caso sussista il diritto al cumulo di un periodo ulteriore all’atto dell’uscita del bambino dall’ospedale.

In ampliamento delle tutele alla genitorialità Sez. L, n. 22177/2018, Riverso, Rv. 650534-01 ha affermato che l’utilizzo da parte del padre lavoratore dipendente dei riposi giornalieri previsti dall’art. 40 del d.lgs. n. 151 del 2001 non è alternativo alla fruizione dell’indennità di maternità della madre lavoratrice autonoma. Quest’ultima infatti, a differenza della lavoratrice dipendente, può rientrare al lavoro in qualsiasi momento dopo il parto, e dunque anche mentre sta godendo della suddetta indennità; pertanto potendo entrambi i genitori lavorare subito dopo l’evento della maternità, risulta maggiormente funzionale affidare agli stessi la facoltà di decidere le modalità di fruizione dei permessi al fine di garantire l’assistenza e protezione della prole, salvi i limiti temporali previsti dalla legge, senza che rilevi la sovrapposizione, in tutto o in parte, dei due benefici in capo ai distinti beneficiari.

In tema di indennità genitoriale Sez. L, n. 10282/2018, Calafiore, Rv. 648342-01, ha chiarito che la sentenza del 14 ottobre 2005 n. 385 della Corte cost., dichiarativa dell’illegittimità costituzionale degli artt. 70 e 72 del d.lgs. n. 151 del 2001, laddove non prevedono il principio che al padre adottivo libero professionista spetti, in alternativa alla madre, l’indennità genitoriale, pur avendo natura di pronuncia “additiva di principio”, è auto applicativa e non meramente dichiarativa, per cui consente di per sé, con l’efficacia stabilita dall’art. 136 Cost., l’immediato riconoscimento di tale indennità, in ragione del diritto alla parità di trattamento che ha determinato la decisione.

2. Le prestazioni assistenziali.

2.1. Danni da trattamenti sanitari.

Numerose le pronunce in cui viene il rilievo il tema della tutela assistenziale contro i danni irreversibili alla sfera della integrità psico-fisica derivati da vaccinazioni, trasfusioni e somministrazione di emoderivati.

2.1.1. Danni post-trasfusionali

Dando continuità ad un precedente orientamento, la Corte ha ribadito la natura dell’indennizzo aggiuntivo contemplato dall’art. 7 della l. 25 febbraio 1992, n. 210, per le ipotesi di insorgenza di più malattie professionali eziologicamente correlate al medesimo fatto generatore. In una vicenda relativa alla contrazione, da parte di soggetto emotrasfuso, delle epatopatie HBC e HCV, si è precisato come l’indennizzo in questione configuri una prestazione solidaristica accessoria rispetto a quella prevista dall’art. 1 della stessa legge per la prima malattia (che ne costituisce il necessario presupposto), ma al tempo stesso connotata da autonomia, necessitando di un ulteriore elemento costitutivo, che è dato dal distinto esito invalidante della patologia sopravvenuta – pur nella apparente comunanza del quadro nosologico – ed è condizionata alla proposizione di apposita domanda amministrativa. Dalla ritenuta autonomia dei benefici, pur se aventi la stessa genesi, nonché dal carattere eccezionale delle norme in tema di decadenza – insuscettibili di applicazione oltre i casi in esse considerati – discende l’ulteriore implicazione che non può interpretarsi in senso estensivo o analogico il termine di decadenza triennale di cui all’art. 3, comma 1, della l. n. 210 del 1992, previsto per la proposizione della domanda amministrativa per la patologia primaria da vaccinazioni o per effetti post-trasfusionali, con riferimento alla domanda di indennizzo aggiuntivo di cui al comma 7 (Sez. 6-L, n. 19704/2018, Ghinoy, Rv. 650204-01).

Sul versante della tutela processuale, la Corte si è allineata all’orientamento espresso da Sez. U. n. 15687/2015, Di Cerbo, Rv. 636078-01, in forza del quale il termine annuale per l’esercizio dell’azione giudiziale per danni irreversibili post-trasfusionali, previsto dall’art. 5 della l. n. 210 del 1992, ha natura perentoria, tanto evincendosi sia dalla formulazione della norma, nella parte in cui prevede che, dopo il decorso di esso termine, la tutela giurisdizionale non sia più esperibile, sia dalla “ratio legis”, che è quella di cadenzare rigidamente i tempi processuali, per l’esigenza della collettività alla sollecita definizione di controversie che scontano una complessa fase di valutazione, sia in sede amministrativa che in sede giudiziale. Corollario del carattere pubblicistico della decadenza è, inoltre, l’irrilevanza del comportamento delle parti rispetto al decorso del termine. In applicazione di tali enunciati, la Corte ha ritenuto l’inammissibilità dell’originaria domanda nella vicenda processuale al vaglio, inconferente essendo che, nelle more del giudizio di primo grado, il Ministero della salute avesse riconosciuto l’indennizzo, senza tuttavia corrispondere l’indennità integrativa e gli interessi legali, per il pagamento dei quali il dante causa del ricorrente insisteva sulla base dell’iniziale domanda giudiziale, tardivamente proposta. (Sez. L, n. 08959/2018, Torrice, Rv. 648624-01).

2.1.2. Danni irreversibili da vaccinazioni.

Sviluppando una linea evolutiva tesa ad ampliare la platea dei soggetti legittimati a fruire delle misure assistenziali ex l. n. 210 del 1992, con riferimento ai danni irreversibili da somministrazione di vaccini, Sez. L, n. 11339/2018, Mancino, Rv. 648188-01, ha riconosciuto il diritto all’indennizzo in favore dei soggetti danneggiati da vaccinazione antipoliomielite, ancorché somministrata in epoca antecedente all’entrata in vigore della l. 30 luglio 1959, n. 695, quando, pur non imposta come obbligatoria, essa era tuttavia incentivata dai coevi programmi di politica sanitaria (anche indirettamente, attraverso la previsione normativa che il trattamento costituisse condizione imprescindibile per l’accesso alle comunità di minori). Al fondo del ragionamento, la Corte pone la lettura, costituzionalmente orientata, dell’art. 1, comma 1, della legge cit., secondo cui il dovere di solidarietà di cui all’art. 2 Cost. impone l’erogazione di una misura di protezione specifica compensativa del sacrificio individuale che sia scaturito da trattamenti sanitari non solo imposti, ma anche semplicemente suggeriti in nome della salute collettiva, poi rivelatisi pregiudizievoli per il singolo. Dalle indicate premesse deriva l’operatività del termine triennale di cui all’art. 3, comma 1 della l. n. 210 del 1992, la cui decorrenza ha inizio nel momento in cui, sulla base della documentazione prescritta nella norma, l’avente diritto risulti aver avuto conoscenza del danno, a tal fine richiedendosi la consapevolezza dell’esistenza di una patologia causalmente ascrivibile alla vaccinazione, dalla quale sia derivato un danno irreversibile che possa essere inquadrato – pur alla stregua di un mero canone di equivalenza e non invece secondo un criterio di rigida corrispondenza tabellare – in una delle infermità classificate nelle otto categorie di cui alla tabella 13, annessa al T.U. approvato con d.P.R. 23 dicembre 1978, n. 915, come sostituita dalla tabella A allegata al d.P.R. 30 dicembre 1981, n. 834.

Da segnalare che in questa scia si inscrive il recente d.l. 7 giugno 2017 n. 73, conv. con modif. dalla l. 31 luglio 2017 n. 119, il quale, al dichiarato fine di assicurare la tutela della salute pubblica e il mantenimento di adeguate condizioni di sicurezza epidemiologica per i minori (anche se stranieri non accompagnati), in termini di profilassi e di copertura vaccinale, ha introdotto la disposizione di chiusura che estende la tutela prevista dalla legge n. 210 alle varie tipologie di vaccinazioni, tra le quali è inclusa la vaccinazione antipoliomielite.

Sempre in tema di indennizzi per i danni da vaccinazioni obbligatorie, quando siano esitati nel decesso del vaccinato, si è ritenuto che, pur a seguito della modifica apportata all’art. 2, comma 3, della l. n. 210 del 1992 ad opera dell’ art. 1, comma 3, della l. 25 luglio 1997 n. 238, il riconoscimento dell’assegno una tantum ai superstiti presupponga la sussistenza del requisito della “vivenza a carico” della vittima, quale elemento costitutivo del diritto a fruire della prestazione, pur se non riportato nella disposizione modificatrice, giacché tale diritto poggia su una concezione di famiglia intesa quale comunità di reciproco sostentamento, i cui appartenenti, nell’ordine stabilito dalla legge, risultano essere aventi diritto non tanto per il vincolo successorio con il de cuius, quanto piuttosto per una condivisione determinata proprio dallo speciale vincolo coabitativo, che rappresenta il cardine della legislazione e senza il quale la giustificazione stessa della misura assistenziale verrebbe a mancare (Sez. L, n. 11407/2018, De Felice, Rv. 648818-01).

Ancora con riferimento alla tematica del decesso del danneggiato da vaccinazioni obbligatorie, ovvero da trasfusione di sangue e somministrazione di emoderivati, la Corte distingue il caso in cui l’evento infausto sia causalmente connesso con il trattamento sanitario vaccinale ovvero con le infezioni indicate dalla l. n. 210 del 1992, in cui spettano ai familiari del de cuius ivi enumerati, iure proprio, le previste misure assistenziali (rendita mensile reversibile o, in alternativa, assegno una tantum), da quello in cui un tale nesso eziologico non vi sia; ipotesi, questa, in cui i predetti soggetti hanno diritto esclusivamente alla percezione dei ratei dell’assegno già istituito a favore del danneggiato, scaduti prima del suo decesso ma non riscossi, i quali si trasmettono iure hereditario, per essere stati acquisiti alla sfera giuridica del danneggiato prima dell’evento morte (Sez. 6-L, n. 19502/2018, Ghinoy, Rv. 650156-01).

Nelle controversie promosse per conseguire l’indennizzo per danni irreversibili da vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni e somministrazioni di emoderivati, ferma restando la legittimazione passiva del Ministero della salute – che fonda sulla previsione di cui all’art. 123 del d.lgs. 31 marzo 1998 n. 112 – la Corte ha tuttavia precisato che sussiste la legittimazione passiva della Regione, che abbia provveduto in via amministrativa al pagamento dell’indennizzo in linea capitale, nella causa promossa dal danneggiato per il pagamento degli accessori, nella specie costituiti dagli interessi maturati per la tardiva corresponsione di esso, alla stregua degli ordinari principi regolativi dell’inadempimento delle obbligazioni civili (Sez. L, n. 08957/2018, Torrice, Rv. 648623-01).

2.1.3. Danni da somministrazione di talidomide.

In tema di danni da somministrazione del farmaco talidomide, la Corte si è pronunciata in ordine alle modalità di calcolo del previsto indennizzo, quale misura assistenziale fondata sulla solidarietà collettiva, con riferimento all’entità delle sue diverse componenti.

Sulla premessa che l’art. 2, comma 363, della l. 24 dicembre 2007 n. 244, prevede l’erogazione, in favore dei soggetti che abbiano contratto la relativa sindrome, di un indennizzo equiparato a quello di cui all’art. 1 della l. 29 ottobre 2005 n. 229 (il cui importo è pari a sei volte l’indennizzo spettante in relazione ai danni da trasfusione e somministrazione di emoderivati ai sensi dell’art. 2 della l. n. 210 del 1992), occorre assumere a base di calcolo entrambe le componenti in cui tale provvidenza si articola, costituite: a) dall’assegno di cui alla tabella B), allegata alla l. 29 aprile 1976, n. 177, soggetto a rivalutazione per previsione di legge; b) dalla indennità integrativa speciale di cui alla legge 27 maggio 1959, n. 324. L’evoluzione normativa e giurisprudenziale che ha interessato tale ultima voce, che è ontologicamente preordinata a contenere gli effetti erosivi della svalutazione, ed alla quale è stata estesa la rivalutazione monetaria secondo il tasso di inflazione programmato (per effetto della pronuncia della Corte cost. 7 novembre 2011, n. 293), si riverbera, dunque, anche sull’indennizzo per i danni da talidomide, per le ragioni unificanti che sottendono la tecnica legislativa prescelta, la quale mira a fondare su basi omogenee il ristoro per i soggetti affetti da patologie originate da trattamenti sanitari pregiudizievoli (Sez. L, n. 28460/2018, Calafiore, Rv. 651390-01).

2.2. Le prestazioni di invalidità civile

Tra i presupposti dell’assegno mensile di invalidità civile rientra la “incollocazione al lavoro”, nozione che è stata ricostruita da Sez. L, n. 05294/2018, Calafiore, Rv. 647480-01. Secondo la Corte, nel regime anteriore alla sostituzione dell’art. 13 della l. 30 marzo 1971, n. 118, operata dall’art. 1, comma 35, della l. 24 dicembre 2007, n. 247, il requisito deve identificarsi nella condizione dell’invalido che, uomo o donna, essendo in età lavorativa per non avere ancora compiuto il sessantacinquesimo anno di età ed essendo iscritto (o avendo presentato domanda di iscrizione) nell’elenco dei disabili di cui all’art. 8 della l. 12 marzo 1999, n. 68, non abbia conseguito un’occupazione in mansioni compatibili.

Il focus di Sez. 6-L, n. 06054/2018, Cavallaro, Rv. 647377-01, cade sul diverso profilo del rapporto tra rendita vitalizia e assegno mensile di assistenza per invalidità parziale. La Corte osserva che l’art. 3, comma 1, della l. 29 dicembre 1990, n. 407, non consente, al di là delle eccezioni espressamente previste, il cumulo tra prestazioni a carattere diretto, concesse a seguito di invalidità contratte per causa di lavoro o servizio, e prestazioni assistenziali. A tal riguardo è irrilevante la diversità degli eventi invalidanti, non potendosi applicare in modo estensivo o analogico l’art. 1, comma 43, della l. n. 335 del 1995, laddove consente la contemporanea erogazione della rendita vitalizia liquidata ai sensi del d.p.r. n. 1124 del 1965 e della pensione di inabilità, quando siano originate da eventi differenti, giacché detta previsione attiene alle sole prestazioni previdenziali a carico dell’assicurazione generale obbligatoria e non anche alle prestazioni assistenziali.

Tra i soggetti aventi diritto alla pensione di inabilità civile rientra lo straniero, legalmente soggiornante nel territorio dello Stato da tempo apprezzabile e in modo non episodico, a prescindere dal superamento del limite temporale quinquennale che condiziona il rilascio della carta di soggiorno, ove lo stesso sia in possesso degli ulteriori requisiti di legge, rientrando tale prestazione tra le provvidenze destinate al sostentamento della persona, nonché alla salvaguardia di condizioni di vita accettabili per il contesto familiare in cui il disabile è inserito, che, alla luce della giurisprudenza costituzionale che ha espunto l’ulteriore condizione della necessità della carta di soggiorno, devono essere erogate senza alcuna distinzione tra cittadini e stranieri che hanno titolo alla permanenza nel territorio dello Stato, pena la violazione del principio di non discriminazione sancito dall’art. 14 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (Sez. L, n. 23763/2018, Riverso, Rv. 650547-01).

Sez. L, n. 21901/2018, Riverso, Rv. 650263-01, ha dato invece risposta negativa alla questione della esportabilità in ambito comunitario della pensione di inabilità civile, in virtù del principio, contemplato dall’art. 10-bis, comma 1, del Regolamento CEE 30 aprile 1992, n. 1247, secondo cui le prestazioni speciali in denaro, siano esse di natura assistenziale o previdenziale, quando non abbiano carattere contributivo, sono erogate esclusivamente nello Stato membro in cui i soggetti interessati risiedono ed ai sensi della sua legislazione, mentre non sono dovute all’assicurato residente fuori dal territorio nazionale.

Sez. L, n. 12323/2018, Mancino, Rv. 649005-01, ha puntualizzato che la compensazione impropria – che si verifica quando i coesistenti e contrapposti crediti e debiti delle parti abbiano origine da un unico rapporto – non è applicabile al trattamento pensionistico di invalidità civile, ai fini del recupero di somme indebitamente erogate a titolo di assegno sociale ex art. 3, comma 6, della l. n. 335 del 1995, costituendo, questa, una provvidenza avulsa dallo stato di invalidità, che non investe la tutela di condizioni minime di salute o gravi situazioni di urgenza.

Con riguardo alle misure assistenziali a favore dei minori mutilati o invalidi, o ipoacusici con rilevante perdita uditiva, la frequentazione effettiva dei corsi scolastici, di centri terapeutici o riabilitativi, ovvero di formazione o di addestramento professionale, rappresenta un elemento costitutivo dell’insorgenza del diritto all’indennità di frequenza ex art. 1 della l. 11 ottobre 1990, n. 289; sicché è necessario che il suddetto requisito sussista per tutto il tempo del giudizio e fino alla data di emissione della sentenza conclusiva (Sez. L, n. 05057/2018, Berrino, Rv. 647502-01).

Ai fini del riconoscimento del diritto all’incremento della maggiorazione sociale prevista dall’art. 38, comma 1, della l. n. 448 del 2001, Sez. L, n. 02714/2018, D’Antonio, Rv. 647392-01, ha chiarito come i limiti reddituali, fissati al comma 5 del medesimo articolo, si applichino anche agli aventi diritto di cui al comma 2 (nella specie, i titolari di trattamenti ex art. 19 della l. n. 118 del 1971), in quanto una diversa interpretazione darebbe luogo ad un’ingiustificata disparità di trattamento tra soggetti ammessi al beneficio. Già in precedenza, Sez. L., n. 04585/2012, Meliadò, Rv. 622117-01, aveva affrontato il tema del riconoscimento della citata maggiorazione, ma sotto il diverso profilo del limite massimo del reddito individuale del pensionato necessario ai fini del detto riconoscimento, individuando il presupposto che il reddito individuale del pensionato non superi il limite previsto nonché, ove tale requisito sia sussistente, che neppure il cumulo di esso con il reddito del coniuge superi l’importo complessivo della cifra rappresentata dal cumulo del reddito individuale con l’ammontare annuo dell’assegno sociale, giacché anche in difetto di uno solo di tali requisiti l’incremento non spetta; ciò è conforme alla lettera della norma, che tra i limiti di reddito pone la disgiuntiva “né” con ruolo additivo, ed è coerente, altresì, con lo scopo del beneficio, diretto a garantire a “soggetti disagiati” un reddito mensile pari ad euro 516,46 (cd. “incremento al milione”).

2.2.1. L’indennità di accompagnamento.

In continuità con risalente indirizzo, Sez. L, n. 20819/2018, Perinu, Rv. 650131-01, ha definito i presupposti richiesti, a norma dell’art. 1, comma 1, della l. 11 febbraio 1980, n. 18, ai fini della concessione dell’indennità di accompagnamento ai mutilati ed invalidi civili totalmente inabili, individuandoli, in via alternativa, nell’impossibilità di deambulazione ovvero nell’incapacità di attendere agli atti della vita quotidiana. Nella valutazione di quest’ultimo requisito, il giudice del merito deve tenere conto di un difetto di autosufficienza talmente grave da comportare una deambulazione particolarmente difficoltosa e limitata (nello spazio e nel tempo), tale da essere fonte di grave pericolo in ragione di un’incombente e concreta possibilità di caduta e, quindi, da richiedere il permanente aiuto di un accompagnatore.

In tema di prestazioni assistenziali indebitamente erogate, con particolare riferimento all’indennità di accompagnamento corrisposta in difetto del requisito relativo al mancato ricovero dell’assistibile in istituto di cura a carico dell’erario, Sez. L, n. 05059/2018, Berrino, Rv. 647458-01 ha affermato che trova applicazione non già la speciale disciplina dell’indebito previdenziale, bensì quella ordinaria dell’indebito civile di cui all’art. 2033 c.c., in quanto non è prevista, né imposta da un’esigenza costituzionale, un’identica disciplina per l’indebito previdenziale e per quello assistenziale. Da tanto consegue che l’assistito non può opporre all’ente erogatore dell’indennità, indebitamente percepita, la irripetibilità delle somme incamerate precedentemente alla data di accertamento della carenza dei requisiti per il riconoscimento della provvidenza, una volta che sia esclusa ogni sua responsabilità sulla erroneità del relativo provvedimento di erogazione, né invocare la tutela dell’affidamento.

I soggetti affetti da patologie irreversibili e di particolare gravità che abbiano ottenuto il riconoscimento dell’indennità di accompagnamento sono esonerati dall’obbligo di presentarsi alla visita medica finalizzata all’accertamento della permanenza della minorazione per l’invalidità civile – senza che sui medesimi incomba alcun onere di produzione documentale -, ai sensi degli artt. 80, comma 3, del d.l. 25 giugno 2008, n. 112, conv. in l. 6 agosto 2008, n. 133, e 1, comma 6, del decreto 29 gennaio 2009 del Ministro del lavoro e della previdenza sociale, la cui ratio è quella di evitare l’attivazione da parte dell’INPS di procedure di verifica onerose ed ultronee (Sez. L, n. 29919/2018, Perinu, Rv. 651521-01).

Con riferimento alla categoria dei ciechi civili assoluti, Sez. L, n. 10144/2018, Bellè, Rv. 648732-01, ha escluso che l’indennità di accompagnamento di cui all’art. 1 della l. 22 dicembre 1979, n. 682, possa essere equiparata all’assegno di superinvalidità previsto dal d.P.R. 23 dicembre 1978 n. 915 in favore dei ciechi di guerra, in quanto l’equiparazione contemplata dal predetto art. 1 ha per oggetto l’indennità di accompagnamento regolata per i ciechi di guerra dall’art. 21 dello stesso d.P.R., con misure fissate nel medesimo articolo, e non l’assegno previsto dall’art. 15.

Sempre con riferimento alle prestazioni in favore dei ciechi, l’indennità di accompagnamento ex art. 1 della l. n. 18 del 1980, ai sensi dell’art. 2 della l. 31 dicembre 1991, n. 429, è cumulabile con l’indennità speciale per cecità parziale di cui all’art. 3 della l. 21 novembre 1988, n. 508, a condizione che il requisito sanitario sia integrato da infermità diverse dalla cecità parziale (Sez. L, n. 22126/2018, Spena, Rv. 650501-01).

2.2.2. Profili processuali.

Sez. L, n. 08970/2018, Boghetich, Rv. 648386-01,ha sancito che il termine di decadenza semestrale fissato dall’art. 42, comma 3, del d.l. n. 30 settembre 2003, n. 269, conv., con modif., dalla l. 24 novembre 2003 n. 326, per la proposizione della domanda giudiziale di invalidità civile, decorre dalla data di comunicazione all’interessato del verbale della Commissione medica, e ciò anche nell’ipotesi in cui detto verbale accerti il venir meno dei requisiti sanitari per il beneficio in godimento, restando invece irrilevante la data del successivo provvedimento di revoca da parte dell’ente previdenziale, che ha carattere meramente ricognitivo di effetti già prodotti; Sez. L, n. 02119/2018, Berrino, Rv. 647266-01, ha invece stabilito la non applicabilità del termine di decadenza semestrale di cui all’art. 42 innanzi citato, al diverso caso di impugnazione del provvedimento di sospensione della erogazione della prestazione assistenziale, e tanto sul rilievo che tale atto non costituisce un provvedimento emesso all’esito della procedura di riconoscimento del beneficio, bensì un provvedimento di natura cautelare, con effetti sospensivi, adottato dall’ente erogatore in relazione ad un beneficio in precedenza concesso.

Ai fini del riconoscimento delle prestazioni da invalidità civili, il giudice ha il potere-dovere, ai sensi dell’art. 437 c.p.c., di acquisire d’ufficio la documentazione relativa al requisito reddituale, ove siano stati allegati, nell’atto introduttivo, i fatti costitutivi del diritto in contestazione e vi siano al riguardo significative “piste probatorie” emergenti dagli atti di causa, intese come complessivo materiale probatorio, anche documentale, correttamente acquisito agli atti del giudizio di primo grado. In applicazione del detto principio, la Corte ha cassato la decisione impugnata, che aveva ritenuto di non dover acquisire d’ufficio la documentazione necessaria a valutare il requisito reddituale per l’anno 2010, benché il ricorrente avesse depositato, nella fase di merito, la certificazione sostitutiva di atto notorio, quella dell’Agenzia delle entrate attestante l’impossibilità di certificare la situazione reddituale, per l’anno 2005, del ricorrente medesimo, nonché altra ancora, comprovante l’impossibilità di quest’ultimo di acquisire la certificazione reddituale (Sez. L, n. 28134/2018, Perinu, Rv. 651494-01).

Ancora, sulla possibile indeterminatezza dei contenuti della domanda giudiziale diretta all’ottenimento di una prestazione previdenziale, Sez. 6-L, n. 17964/2018, Esposito, Rv. 649868-01, ha affermato che non può essere dichiarata inammissibile la domanda, per la mancata indicazione del valore della prestazione dedotta in giudizio, atteso che l’art. 152 disp. att. c.p.c., per la parte che prevedeva, a pena di inammissibilità, la necessaria specificazione del relativo importo nell’atto introduttivo, è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo con sentenza della Corte cost. del 20 novembre 2017, n. 241.

2.3. Prestazioni in favore delle vittime del dovere e degli ex combattenti.

Sez. U n. 22753/2018, D’Antonio, Rv. 650606-01, con ampia motivazione, ha enucleato le categorie dei superstiti delle vittime del dovere, individuandole in quelle di cui all’art. 6 della l. 13 agosto 1980, n. 466 ed ha specificato, quanto ai fratelli e alle sorelle, che è richiesto il requisito della convivenza al fine dell’erogazione dei benefici, che hanno matrice assistenziale. La l. 23 dicembre 2005, n. 266, non ha provveduto all’unificazione della categoria delle vittime del dovere con quella delle vittime della criminalità organizzata, avendo solo fissato l’obiettivo di un progressivo raggiungimento di tale assimilazione, e l’ermeneusi prescelta non si pone in contrasto con l’art. 3 Cost., trattandosi di erogazioni speciali previste per categorie portatrici di diritti posti a presidio di differenti valori, sia pure tutti di rango costituzionale. Così, nel caso al vaglio, la Corte ha respinto la domanda delle sorelle non conviventi, né a carico, di un militare deceduto a causa di una sciagura aerea, diretta a far dichiarare il loro inserimento, quali superstiti di vittima del dovere, nell’apposito elenco di cui all’art. 3, comma 3, del d.p.r. 7 luglio 2006, n. 243, in vista della fruizione dei benefici previsti dalla normativa in discorso.

Anche lo spettro applicativo delle prestazioni assistenziali in favore delle cd. vittime del dovere è stato letto in senso ampliativo – sulla scia di Sez. U. n. 21969 del 2017, Rv. 645320-01 – in relazione alla nozione di “particolari condizioni ambientali ed operative”. Si è puntualizzato, al proposito, che l’art. 1, comma 1, del d.P.R. n. 243 del 2006, nella parte in cui disciplina i termini e le modalità per la corresponsione delle provvidenze in favore di tale categorie di persone, deve essere interpretato in modo da non esorbitare dai limiti indicati dall’art. 1, comma 565, della l. n. 266 del 2005, che non demanda alla fonte regolamentare anche il compito di precisare i concetti di cui al precedente comma 564; dal che consegue che per circostanze straordinarie devono essere intese, secondo il significato indicato dalla legge, condizioni ambientali ed operative “particolari” che si collochino, cioè, al di fuori del modo di svolgimento dell’attività “generale”, per le quali è dunque sufficiente che non siano contemplate in caso di normale esecuzione di una determinata funzione. (Sez. L, n. 15027/2018, Riverso, Rv. 649284-01).

Ancora in Sez. L, n. 28587/2018, Mancino, Rv. 651670-01, si è evidenziato che, secondo la più corretta opzione ricostruttiva, la tutela indennitaria ex art. 1, comma 258, della l. 24 dicembre 2012 n. 228, ai successori delle vittime del disastro aereo del Monte Serra, in funzione di ristoro del danno, non è alternativa al riconoscimento dei benefici assistenziali previsti in favore delle vittime del dovere, sulla constatazione che l’alternatività è stata limitata, dal legislatore, al solo risarcimento del danno.

Si deve a Sez. L, n. 18746/2018, Di Paolantonio, Rv. 649872-01, l’avere delimitato l’area di operatività dei benefici previsti dalla l. 24 maggio 1970 n. 336 (cd. “ex combattenti”). Le disposizioni di cui all’art. 1 della detta legge, inerenti all’attribuzione di aumenti periodici ed al conferimento di classi stipendiali successive, in favore, tra gli altri, dei “profughi per l’applicazione del trattato di pace e categorie equiparate”, vanno riconosciuti ai profughi italiani coinvolti in maniera immediata e diretta dagli effetti del trattato di pace seguito alla seconda guerra mondiale, nonché alle categorie di soggetti ad essi assimilate, le quali hanno ottenuto l’equiparazione in quanto interessate da eventi direttamente connessi a quel conflitto. Conseguentemente, deve escludersene la spettanza ai connazionali rimpatriati dalla Tunisia dal gennaio 1959, in ragione di vicende politiche e militari interne al continente africano, a vantaggio dei quali la l. 25 ottobre 1960, n. 1306, ha genericamente stabilito l’estensione delle provvidenze spettanti “ai profughi” come categoria indistinta, senza alcun riferimento ai profughi della legge “ex combattenti”; né rileva in senso contrario il venir meno della distinzione, a fini retributivi, tra categorie di profughi diverse per effetto della l. 26 dicembre 1981 n. 763, stante l’espressa salvezza, ivi prevista, delle provvidenze anteriori e della loro disciplina regolativa.

2.4. Le misure in favore dei soggetti portatori di disabilità.

Sez. L, n. 07981/2018, Torrice, Rv. 648192-02, ha sostenuto che l’art. 33, comma 5, della l. n. 104 del 1992 non fonda alcun obbligo a carico del lavoratore che assiste una persona con handicap in situazioni di gravità a scegliere la sede che appaia più conveniente per l’assolvimento dei compiti di assistenza, ma gli attribuisce esclusivamente il diritto a scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al domicilio della persona da assistere e di non essere trasferito senza il suo consenso ad altra sede. Nella vicenda alla sua attenzione, la Corte ha confermato la decisione di rigetto di un ricorso volto al riconoscimento del diritto all’assunzione in materia di pubblico impiego contrattualizzato, fondato sul rilievo che il controricorrente avrebbe potuto ottenere la sede prescelta in forza della l. n. 104 del 1992, e non una diversa, con lesione della posizione in graduatoria del ricorrente.

Le disposizioni di cui all’art. 33, comma 5, della l. n. 104 del 1992 sono state ritenute applicabili – nel pubblico impiego contrattualizzato – anche all’ipotesi di conferimento di incarico dirigenziale ad un soggetto già dipendente dell’amministrazione, quando, pur non configurando tale provvedimento un trasferimento in senso tecnico, in fatto comporti lo spostamento del luogo di svolgimento della prestazione lavorativa; è condizione, tuttavia, per l’operatività di una simile interpretazione estensiva, che la scelta della sede preferenziale sia manifestata al momento dell’accettazione dell’incarico e non come reazione alla conoscenza della destinazione, restando irrilevante che il dipendente già godesse dei benefici della l. n. 104 e che, pertanto, la Pubblica Amministrazione fosse a conoscenza della sua condizione personale (Sez. L, n. 07693/2018, De Felice, Rv. 64766- 01).

2.5. Prestazioni in materia di igiene e sanità pubblica

Qualora non siano erogabili dal servizio pubblico cure tempestive e, d’altro canto, siano prospettati motivi di urgenza suscettibili di esporre la salute a pregiudizi gravi ed irreversibili, ai sensi dell’art. 1, comma 7, del d.lgs. n. 502 del 1992, costituisce requisito imprescindibile, ai fini del riconoscimento del diritto alla erogazione da parte del S.S.N., l’evidenza scientifica dei benefici apportati alla salute dalla terapia o cura richiesta, che devono rispondere a criteri di appropriatezza ed efficacia. (Sez. L, n. 06775/2018, Mancino, Rv. 647648-01). La decisione aderisce al costante orientamento della giurisprudenza costituzionale secondo cui, ai fini dell’erogazione della terapia da parte del S.S.N., si tratta di apprezzare due requisiti concorrenti che coniugano, ragionevolmente, le esigenze concernenti la sfera della collettività e la tutela individuale, il necessario bilanciamento dei quali impone di far prevalere l’opzione di cura dell’interessato sui condizionamenti derivanti dalla limitatezza delle risorse finanziarie di cui lo Stato dispone per organizzare il Servizio sanitario, ma a condizione che ricorrano elementi dimostrativi di una potenziale compromissione del diritto alla salute, nel suo nucleo irriducibile di tutela (tra le altre, Corte cost. nn. 354 del 2008, 432 del 2005, 252 del 2001, 509 del 2000, 309 del 1999).

In materia di assistenza sanitaria indiretta, la Corte è poi intervenuta sul regime del rimborso delle spese per prestazioni fruite presso istituti o case di cura non convenzionate e sulla relativa scansione temporale, con particolare riferimento alle disposizioni regolative dei termini. Nel dettaglio, ha ritenuto che il termine di trenta giorni dalle dimissioni del paziente, previsto dal comma 4 dell’art. 4 della l.r. Puglia 20 gennaio 1975, n. 5, per la trasmissione della documentazione giustificativa ai fini del rimborso delle prestazioni dette, ha natura meramente ordinatoria, come si evince dalla lettura sistematica della disposizione che, nei successivi comma 5 e 6, da un lato contempla la possibilità di un inoltro tardivo nei casi di impedimento e, dall’altro, collega in termini inequivoci l’effetto estintivo del diritto al rimborso allo spirare del termine – questo sì perentorio – di novanta giorni dalle dimissioni (Sez. L, 14840/2018, Di Paolantonio, Rv. 649243-02).

3. La compensatio lucri cum damno: aspetti rilevanti nella materia previdenziale e assistenziale.

Con pronunce coeve, e fondate sul medesimo apparato logico argomentativo – che ne giustifica la disamina nel medesimo contesto – le Sezioni Unite hanno analizzato un tema generale, che attiene alla individuazione dell’attuale portata della compensatio lucri cum damno, principio implicitamente presupposto dall’art. 1123 c.c.. Le sentenze gemelle hanno dato risposta all’interrogativo del se, e a quali condizioni, nella determinazione del risarcimento del danno da fatto illecito, accanto alla poste negative, si debbano considerare, operando una somma algebrica, i vantaggi che la vittima abbia comunque ottenuto in conseguenza del fatto illecito; vantaggi che, nei casi sottoposti allo scrutinio della Corte – e rilevanti in ambito assistenziale/previdenziale – consistono, rispettivamente, nella prestazione degli assicuratori sociali per l’infortunio in itinere, della indennità di accompagnamento e della pensione di reversibilità.

3.1. Infortunio in itinere.

In una prima, articolatissima e limpida pronuncia, Sez. U, n. 12566/2018, Giusti, Rv. 648649-01, intervenute a dirimere un contrasto di giurisprudenza sul se dall’ammontare del danno risarcibile si debba scomputare la rendita INAIL riconosciuta per l’infortunio occorso al lavoratore nel percorso di andata e ritorno dall’abitazione al luogo di lavoro, lo hanno risolto nel senso della detraibilità, sul presupposto che detta misura assistenziale soddisfi, neutralizzandola in parte, la medesima perdita al cui integrale ristoro mira la disciplina della responsabilità risarcitoria del terzo al quale l’infortunio sia addebitabile.

La decisione considera che, in caso di infortunio sulle vie del lavoro, scaturito da un fatto illecito di un terzo estraneo al rapporto giuridico previdenziale, la vittima può contare su un sistema combinato di tutele, basato sul concorso delle regole del welfare, ossia della protezione sociale garantita dall’INAIL, e delle regole civilistiche in materia di responsabilità. Ne scaturisce un duplice rapporto bilaterale: a) del danneggiato verso l’ente gestore del sistema di assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro; b) del danneggiato verso il terzo autore del fatto illecito. Ed è in questo contesto che si tratta di stabilire se l’incremento patrimoniale realizzatosi in connessione con l’evento dannoso, per effetto del beneficio collaterale avente un proprio titolo e una relazione causale con un diverso soggetto, tenuto per legge o per contratto ad erogare quella provvidenza, debba restare nel patrimonio del danneggiato, cumulandosi in tal modo con il risarcimento del danno, o debba essere considerato ai fini della corrispondente diminuzione dell’ammontare del risarcimento.

Tanto premesso, e sul rilievo che non sia possibile attribuire rilevanza ad ogni vantaggio indiretto o mediato conseguito all’illecito, perché ciò condurrebbe ad un’eccessiva dilatazione delle poste imputabili al risarcimento, bensì solo ai vantaggi che rientrino nella serie causale dell’illecito secondo un criterio di regolarità causale, assumono valenza selettiva: a) la ragione giustificatrice dell’attribuzione patrimoniale entrata nel patrimonio del danneggiato; b) la funzione di cui il beneficio collaterale si rivela essere espressione. In particolare, rientrano tra le attribuzioni imputabili al risarcimento quelle erogate dal terzo in funzione di rimozione dell’effetto dannoso dell’illecito.

Le S.U. incentrano poi l’impianto motivazionale sul meccanismo di surroga o di rivalsa che, se da un lato valorizza il principio di cd. “indifferenza del risarcimento” (il quale deve restare un fatto neutro, nel senso che non deve impoverire, ma neppure arricchire, il patrimonio dell’assicurato), dall’altro permette di evitare che quanto erogato dal terzo al danneggiato si traduca in un (immeritato) vantaggio per l’autore dell’illecito.

In sintesi, i due presupposti essenziali per poter operare la decurtazione del vantaggio sarebbero, da un lato, il contenuto, “per classi omogenee o per ragioni giustificatrici”, del vantaggio; dall’altro, la previsione di un meccanismo di surroga, di rivalsa o di recupero, che instaurerebbe la correlazione tra classi attributive altrimenti disomogenee.

Impostata nei termini che precedono la questione, osserva la Corte come la rendita INAIL costituisca una prestazione economica a contenuto indennitario erogata in funzione di copertura del pregiudizio (l’inabilità permanente generica, assoluta o parziale, e, a seguito della riforma apportata dal d.lgs. n. 38 del 2000, anche il danno alla salute) occorso al lavoratore in caso di infortunio sulle vie del lavoro, la quale, pur potendo discostarsi, nei valori monetari, dall’entità del danno civilistico, nondimeno soddisfa, neutralizzandola in parte, la medesima perdita al cui integrale ristoro mira la disciplina della responsabilità risarcitoria del terzo cui sia addebitabile l’infortunio in itinere.

Quanto al secondo presupposto, il diritto di surroga spettante all’INAIL è meccanismo di riequilibrio idoneo a garantire che il terzo responsabile dell’infortunio sia collateralmente obbligato a restituire all’INAIL l’importo corrispondente al valore della rendita per inabilità permanente costituita in favore dell’assicurato. In virtù di un simile meccanismo si realizza un fenomeno di successione nel credito risarcitorio dell’assicurato-danneggiato, che consente all’ente gestore di conseguire il rimborso tanto dei ratei già versati, quanto del valore capitalizzato delle prestazioni future. La avvenuta successione, se impedisce al danneggiato di cumulare, per lo stesso danno, la somma già riscossa a titolo di rendita assicurativa con l’importo del risarcimento del danno dovutogli dal terzo (e di conseguire un arricchimento ingiustificato), nondimeno non gli impedisce di agire nei confronti del terzo responsabile per conseguire il danno differenziale, ossia l’ulteriore danno subito, ma non coperto dalla prestazione assicurativa. Simmetricamente, dalla prospettiva del responsabile del sinistro, il risarcimento resta dovuto per l’intero: nei confronti dell’ente gestore dell’assicurazione sociale cui egli deve rimborsare le spese sostenute per le prestazioni erogate al lavoratore; nei confronti del danneggiato per il maggior danno.

3.2. Indennità di accompagnamento.

Analogo percorso motivazionale caratterizza Sez. U, n. 12567/2018, Giusti, Rv. 648650-01, che hanno analizzato e risolto la questione del se, dall’ammontare del danno subito da un neonato in fattispecie di colpa medica, e consistente nelle spese da sostenere vita natural durante per l’assistenza personale, debba sottrarsi il valore capitalizzato della indennità di accompagnamento erogata dall’INPS in conseguenza di quel fatto. Sulla considerazione che siffatta indennità – riconosciuta dalla l. n. 18 del 1980 – è rivolta a compensare il pregiudizio patrimoniale causato dall’illecito, la soluzione adottata è a favore della detraibilità.

Assumono al riguardo rilievo assorbente sia la ragione giustificatrice dell’attribuzione patrimoniale erogata dal terzo, che la funzione assolta dal beneficio collaterale. La finalità solidaristica ed assistenziale dell’istituto, con cui lo Stato corrisponde ad un interesse della collettività, garantendo l’esistenza delle condizioni necessarie all’effettivo godimento dei diritti fondamentali della persona umana in situazione di difficoltà, non esclude il computo di quel beneficio ai fini della stima del danno, alla duplice condizione, che la Corte ha ritenuto essere integrata nella specie: a) che il vantaggio abbia la funzione di rimuovere le conseguenze negative prodottesi nel patrimonio del danneggiato per effetto dell’illecito; b) che sia legislativamente previsto un meccanismo di riequilibrio idoneo ad assicurare che il responsabile dell’evento dannoso sia collateralmente obbligato a restituire all’amministrazione pubblica l’importo corrispondente al beneficio erogato. In particolare, la misura in discorso è compensativa del pregiudizio patrimoniale correlato alla necessità di retribuire un collaboratore od assistente per le necessità della vita quotidiana del disabile e, sotto altro profilo, un meccanismo di riequilibrio è previsto dall’art. 41 della legge 4 novembre 2010 n. 183, laddove sancisce che sono recuperate dall’ente erogatore nei riguardi del responsabile civile e della compagnia di assicurazioni, fino a concorrenza dell’ammontare delle prestazioni erogate, le pensioni, gli assegni e le indennità, spettanti agli invalidi civili ai sensi della legislazione vigente, corrisposti in conseguenza del fatto illecito di terzi.

Mette conto evidenziare che, sebbene non si sia qui configurato un modello di successione a titolo particolare nel diritto di credito risarcitorio dell’assistito, quanto piuttosto un diritto di credito autonomo e distinto in capo all’Ente, la disposizione egualmente determina l’imputazione del beneficio collaterale al risarcimento, non potendo ammettersi che l’autore della condotta colposa sia tenuto a rispondere due volte per lo stesso fatto: una volta (verso il danneggiato) per un importo pari all’intero ammontare del danno risarcibile, l’altra (verso l’amministrazione pubblica) per un importo corrispondente al valore capitalizzato dell’indennità di accompagnamento. Il che significa che, dalla prospettiva dell’assistito-danneggiato, la percezione del beneficio ha la valenza di un anticipo della somma che potrà essere ottenuta dal terzo a titolo di risarcimento del danno, essendone impedito il cumulo.

3.3. Pensione di reversibilità.

Muovendo dalla medesima impostazione esegetica, ma con esiti opposti, Sez. U, n. 12564/2018, Giusti, Rv. 648647-01, hanno affrontato la questione del se, dal risarcimento del danno patrimoniale patito dal familiare superstite di persona deceduta per colpa altrui, debba essere detratto il valore capitale della pensione di reversibilità accordata dall’INPS. La soluzione accolta è contraria al diffalco – o detraibilità – sul presupposto che la tutela previdenziale che viene qui in rilievo è connessa ad un peculiare fondamento solidaristico e non geneticamente connotata dalla finalità di rimuovere le conseguenze prodottesi nel patrimonio del danneggiato per effetto dell’illecito del terzo.

Le Sez. U., dopo aver dato atto degli orientamenti contrastanti formatisi nella giurisprudenza della Corte, affidano il rovesciamento dell’indirizzo tradizionale, anzitutto, al rilievo che l’art. 1223 c.c. esige una lettura unitaria, e non asimmetrica, sia quando si tratta di accertare il danno, sia quando si tratta di accertare il vantaggio per avventura originato dal medesimo fatto illecito. Ancora una volta viene in rilievo il principio della compensatio lucri cum damno, con il tema della computabilità delle poste positive avutesi nel patrimonio del danneggiato, in conseguenza del fatto lesivo, ai fini della determinazione del risarcimento. Sulla premessa teorica che, se l’atto dannoso reca, accanto al danno, un vantaggio, quest’ultimo deve essere calcolato in diminuzione dell’entità del risarcimento, perché il danno non deve essere fonte di lucro per il danneggiato, e pur dovendosi verificare l’assorbimento del beneficio nel danno in base a un test eziologico unitario, le Sez. U ribadiscono come non sia dato attribuire rilevanza a ogni vantaggio indiretto o mediato, perché ciò condurrebbe ad un’eccessiva dilatazione delle poste imputabili al risarcimento. Dunque, le conseguenze vantaggiose, come quelle dannose, del fatto causativo dell’illecito, possono computarsi solo finché rientrino nella medesima serie causale, secondo un criterio di causalità adeguata. Anche in tal caso, piuttosto che procedere ad una mera operazione contabile, occorre incentrare l’indagine sulla ragione giustificatrice dell’attribuzione patrimoniale entrata nel patrimonio del danneggiato e sulla funzione di cui il beneficio collaterale si rivela essere espressione.

A giustificare il diffalco, bisogna che le prestazioni del terzo siano erogate in funzione di risarcimento del pregiudizio subito dal danneggiato e che, dunque, siano funzionalmente sovrapponibili. Ancora, bisogna che l’ordinamento abbia coordinato le diverse risposte istituzionali, del danno da una parte e del beneficio dall’altra, prevedendo un meccanismo di surroga o di rivalsa, capace di valorizzare l’indifferenza del risarcimento, ma nello stesso tempo di evitare che quanto erogato dal terzo al danneggiato si traduca in un vantaggio inaspettato per l’autore dell’illecito, vantaggio che costituirebbe una irrazionalità e, in definitiva, una sofferenza del sistema.

Peraltro, chiarisce la Corte, stabilire se e quando debba entrare in azione un simile meccanismo di surrogazione o di rivalsa, è una scelta rimessa al legislatore, al quale soltanto compete trasformare quel duplice, ma separato, rapporto bilaterale in una relazione trilaterale, così apprestando le condizioni per procedere allo scomputo.

In sintesi due sono i presupposti essenziali da indagare per affermare la detraibilità: a) il contenuto, “per classi omogenee o per ragioni giustificatrici”, del vantaggio; b) la previsione di un meccanismo di surroga, di rivalsa o di recupero, che instaura una correlazione tra classi attributive altrimenti disomogenee. Ciò detto – osserva la Corte – per un verso, la pensione di reversibilità appartiene al genus delle pensioni ai superstiti, nella quale l’evento protetto è un fatto naturale – la morte – che, secondo una presunzione legislativa, crea una situazione di bisogno per i familiari del defunto, i quali sono i soggetti protetti dal sistema previdenziale perché abbiano assicurate quelle minime condizioni economiche e sociali che consentono l’effettivo godimento dei diritti civili e politici (art. 3, comma 2, Cost.) con una riserva, costituzionalmente riconosciuta, a favore del lavoratore, di un trattamento preferenziale (art. 38, comma 2, Cost.) rispetto alla generalità dei cittadini (art. 38, comma 1, Cost.).

Anche nel caso della pensione di reversibilità, la finalità previdenziale “si raccorda a un peculiare fondamento solidaristico” (Corte cost., sentenza n. 174 del 2016), ove sussistano i due requisiti della vivenza a carico e dello stato di bisogno. Tuttavia, tale provvidenza non è geneticamente connotata dalla finalità di rimuovere le conseguenze prodottesi nel patrimonio del danneggiato per effetto dell’illecito del terzo e, dunque, da una logica indennitaria, ma costituisce piuttosto l’adempimento di una promessa rivolta dall’ordinamento al lavoratore-assicurato che, attraverso il sacrificio di una parte del proprio reddito lavorativo, ha contribuito ad alimentare la propria posizione previdenziale: la promessa che, a far tempo dal momento in cui, prima o dopo il pensionamento, egli avrà cessato di vivere, quale che sia la causa o l’origine dell’evento protetto, vi è la garanzia, per i suoi congiunti, di un trattamento diretto a tutelare la continuità del sostentamento e a prevenire o ad alleviare lo stato di bisogno. La causa attributiva più autentica di tale beneficio è, dunque, composita e va individuata nel rapporto di lavoro pregresso, nei contributi versati e nella previsione di legge: ossa in una serie causale indipendente e assorbente rispetto alla causa, umana o naturale che sia, determinativa del decesso.

Da ultimo la suddetta pronuncia sottopone a revisione critica un indirizzo non minoritario, secondo cui negare la compensatio tra risarcimento del danno patrimoniale da uccisione del congiunto e pensione di reversibilità avrebbe finito per abrogare in via di fatto l’azione di surrogazione spettante all’ente previdenziale, privando l’assicuratore sociale o l’ente previdenziale di un diritto loro “espressamente attribuito dalla legge”. In realtà, si chiarisce, nessuna norma lascia intendere la sussistenza di un subentro dell’Inps nei diritti del familiare superstite, percettore del trattamento pensionistico di reversibilità, verso i terzi responsabili del fatto illecito che ha determinato la morte del congiunto. Ciò perché la surrogazione dell’art. 1916, comma 4, c.c. si applica alle assicurazioni sociali contro gli infortuni sul lavoro; l’art. 14 della legge 12 luglio 1984, n. 222, prevede la surroga delle prestazioni in tema di invalidità pensionabile, che non sono assimilabili alla pensione di reversibilità ai superstiti; analogamente, l’art. 41 della l. n. 183 del 2010, stabilisce sì, a vantaggio dell’ente erogatore, il recupero, nei confronti del responsabile civile e della compagnia di assicurazioni, delle prestazioni erogate in conseguenza del fatto illecito di terzi, ma con riguardo alla particolare tipologia di prestazioni in essa prevista (pensioni, assegni e indennità, spettanti agli invalidi civili ai sensi della legislazione vigente).

  • assicurazione infortuni sul lavoro
  • infortunio sul lavoro

CAPITOLO XXIV

LA TUTELA INAIL

(di Stefania Riccio )

Sommario

1 Le malattie professionali. - 2 Gli infortuni sul lavoro - 3 La revisione della rendita. - 4 I contributi assicurativi INAIL. - 5 L’azione di regresso.

1. Le malattie professionali.

Ampia e variegata è risultata la produzione giurisprudenziale di legittimità con riferimento alle prestazioni assicurative erogate dall’INAIL ed agli istituti connessi.

Anzitutto, il concetto di malattia professionale è stato compiutamente definito da Sez. L, n. 05066/2018, Riverso, Rv. 647460-01, che ha chiarito come la tutela assicurativa INAIL vada estesa ad ogni forma di tecnopatia, fisica o psichica, che possa ritenersi conseguenza dell’attività lavorativa, sia che riguardi la lavorazione, l’organizzazione del lavoro ovvero le sue modalità di esplicazione, anche se non sia compresa tra le malattie e i rischi specificamente indicati in tabella; mentre sul lavoratore grava il solo onere di dimostrare l’esistenza del nesso di causalità tra la lavorazione patogena e la malattia diagnosticata. Nell’attuale sistema delle assicurazioni sociali, rileva, difatti, oltre al cd. rischio specifico proprio della lavorazione, anche il c.d. rischio specifico improprio, ossia non strettamente insito nell’atto materiale della prestazione di lavoro, ma in qualche modo correlato con essa, dovendo il fondamento della tutela esser rinvenuto, ai sensi dell’art. 38 Cost., non tanto in un meccanismo di traslazione del rischio assicurato, bensì nella protezione del bisogno di cui la persona del lavoratore diviene portatrice.

Si diffonde sul nesso di causalità della malattia professionale da lavorazione non tabellata o ad eziologia multifattoriale, Sez. L, n. 08773/2018, Calafiore, Rv. 648724-01, la quale, sulle premesse che il relativo onere gravi sul lavoratore e che lo standard valutativo debba essere quello della ragionevole certezza, sicché, escluso che possa rilevare la mera possibilità dell’origine professionale, deve apprezzarsi un rilevante grado di probabilità della sua sussistenza, ha affermato che il giudice deve consentire all’assicurato di esperire i mezzi di prova ammissibili e ritualmente dedotti, ed è tenuto altresì a valutare le conclusioni probabilistiche del consulente tecnico in tema di nesso causale, facendo ricorso ad ogni iniziativa ex officio, diretta ad acquisire ulteriori elementi in relazione all’entità dell’esposizione del lavoratore ai fattori di rischio. Con elevato grado di probabilità, la natura professionale della malattia è desumibile dalla tipologia della lavorazione, dalle caratteristiche dei macchinari presenti nell’ambiente di lavoro, dalla durata della prestazione stessa, nonché dall’assenza di altri fattori causali extralavorativi, alternativi o concorrenti. Facendo applicazione di tali enunciati, la Corte ha cassato con rinvio la sentenza del giudice di merito che aveva escluso l’origine professionale dell’ipoacusia contratta da un lavoratore subordinato, senza aver valutato la sussistenza del requisito di elevata probabilità sulla base di diversi elementi, compatibili con l’origine lavorativa della malattia, specificamente riferiti dai testimoni escussi e richiamati nella relazione del consulente tecnico di ufficio.

Sez. L, n. 27952/2018, Ponterio, Rv. 651052-01, pone in rilievo il principio di equivalenza delle condizioni, che ha il suo radicamento positivo nell’art. 41 c.p., e che, in materia di infortuni sul lavoro e malattie professionali, si ritiene governi il rapporto di causalità tra l’evento e il danno. Va pertanto riconosciuta efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito, anche in maniera indiretta e remota, alla produzione dell’evento, mentre va escluso il nesso eziologico richiesto dalla legge solo se possa essere ravvisato con certezza l’intervento di un fattore estraneo all’attività lavorativa, di per sé sufficiente a produrre l’infermità e tale da far degradare altre evenienze a semplici occasioni. Nella fattispecie scrutinata, la Corte ha confermato la sentenza di merito – fondata sull’accertamento che la riduzione dell’intensità di esposizione del lavoratore alle polveri di amianto avrebbe evitato o ritardato l’insorgere della patologia mortale – poiché tale circostanza implicava il determinismo causale tra l’esposizione in concreto verificatasi e l’insorgenza o la latenza della malattia.

Sez. L, n. 02966/2018, Perinu, Rv. 647405-01 ha poi affermato che le conseguenze morbose della silicosi assumono il ruolo di concausa della morte del lavoratore cagionata da malattia sopravvenuta ed indipendente dalla tecnopatia, nella ricorrenza di due specifiche condizioni: a) che la compromissione della funzionalità dell’organismo determinata dalla silicosi abbia agevolato, nel suo momento di causazione dell’exitus, la naturale carica aggressiva letale della nuova infermità; b) che la tecnopatia preesistente abbia negativamente inciso sulla gravità della malattia sopravvenuta, rendendo inutile la pratica terapeutica diretta a neutralizzarla, o anche solo a conservare nel tempo la vita del soggetto. Nella vicenda al vaglio, sulla scorta di tali assunti, la Corte ha confermato la sentenza di merito che, in adesione alle valutazioni espresse dal consulente tecnico di ufficio, aveva escluso l’incidenza della tecnopatia sul decorso della patologia del lavoratore (carcinoma gastrico), ad esito letale.

Nel solco di un orientamento ormai consolidato, Sez. L, n. 02842/2018, Riverso, Rv. 647404-01, ha rimarcato come, a seguito della sentenza della Corte cost. del 25 febbraio 1988, n. 206 (dichiarativa della illegittimità costituzionale dell’art. 135, comma 2, del d.P.R. n. 1124 del 1965, nella parte in cui poneva una presunzione assoluta di verificazione della malattia professionale nel giorno in cui fosse presentata all’istituto assicuratore la denuncia corredata da certificato medico), la manifestazione della malattia professionale, che rileva quale dies a quo per la decorrenza del termine triennale di prescrizione previsto dall’art. 112 del d.P.R. cit., possa ritenersi verificata quando la consapevolezza sia dell’esistenza della malattia, che della sua origine professionale, che del suo grado invalidante, siano desumibili da eventi obiettivi esterni alla persona dell’assicurato, i quali debbono costituire oggetto di accertamento specifico da parte del giudice di merito; tanto sul presupposto che non sia possibile identificare la conoscenza dell’origine professionale della patologia e del raggiungimento della soglia di indennizzabilità con l’esistenza della stessa ovvero con la sua diagnosi.

Sez. L, n. 10767/2018, Calafiore, Rv. 648346-01 ha ribadito, in relazione al termine triennale di prescrizione delle azioni dirette a conseguire le prestazioni assicurative per malattie professionali (ed infortunio sul lavoro), dettato dall’art. 112 del d.P.R. n. 1124 del 1965 e modificato dalla parziale declaratoria di illegittimità costituzionale (Corte cost., sentenza 23 maggio 1986, n. 129), il consolidato indirizzo per il quale ha valenza interruttiva del termine la proposizione del ricorso giurisdizionale, con effetto dalla data del suo deposito, e non invece dalla notifica, e ciò in deroga al tenore letterale dell’art. 2943, comma 1, c.c., ma coerentemente con la peculiarità del ricorso, rispetto alla citazione, quale atto introduttivo del giudizio di cognizione; mentre, in caso di estinzione del processo, in applicazione della regola di cui all’art. 2945, comma 3, c.c., l’effetto di interruzione ha natura istantanea ed il termine riprende a decorrere dalla data dell’atto interruttivo.

Sul piano della tutela processuale, i requisiti della domanda per l’accesso alla tutela indennitaria in tema di malattia professionale, sotto il profilo della causa petendi, sono definiti da Sez. L, n. 17684/2018, Bellè, Rv. 649743-01, secondo cui l’assicurato che convenga in giudizio l’INAIL può limitarsi a manifestare la sintomatologia accusata, o i fatti morbosi già accertati, ovvero ad addurre i possibili agenti patogeni cui il lavoro lo ha esposto, senza essere tenuto a una specifica indicazione del nomen della patologia derivata, che ben può essere definita attraverso le attività peritali e decisionali del processo.

Specularmente, si ribadisce che neppure è richiesto, ai fini dell’accoglimento della domanda, un giudizio di assoluta certezza della diagnosi, in quanto, in ambito civilistico, l’apprezzamento del nesso eziologico deve essere operato secondo il criterio probabilistico, ossia secondo la c.d. regola della preponderanza dell’evidenza, sintetizzata dalla locuzione del “più probabile che non”.

Sez. 6-L, n. 16619/2018, Ghinoy, Rv. 649630-01, ha puntualizzato come l’erronea applicazione delle tabelle relative alle malattie professionali da parte del consulente tecnico d’ufficio (nella specie, le previgenti tabelle di cui al d.P.R. n. 336 del 1994, in luogo di quelle introdotte dal successivo d.m. 9 aprile 2008) sia tale da inficiare l’accertamento giudiziale, poiché l’indagine dei fattori di rischio che connotano l’attività lavorativa deve essere compiuta con specifico riferimento alle sostanze espressamente individuate in tabella come causa tipica della malattia. In caso positivo, viene difatti ad operare la presunzione – pur non assoluta – di eziologia professionale. Poiché l’art. 3 del d.P.R. n. 1124 del 1965 dispone un rinvio recettizio alle previsioni tabellari, le quali, vengono periodicamente rinnovate sulla base dei lavori dell’apposita Commissione scientifica, tenendo conto delle migliori e più aggiornate acquisizioni della scienza medica, è evidente che dette tabelle debbano essere assunte nell’ultima formulazione utile.

Sez. L, n. 16149/2018, D’Antonio, Rv. 649481-01, ha escluso invece che il giudice possa emettere una pronuncia di mero accertamento, laddove la malattia professionale non raggiunga la soglia minima di inabilità permanente prevista per l’indennizzabilità (pari al 6 per cento), perché una simile decisione avrebbe ad oggetto soltanto uno degli elementi costitutivi del diritto alla prestazione economica, che non è assimilabile ad una questione pregiudiziale suscettibile di autonomo accertamento, con efficacia di giudicato, ai sensi dell’art. 34 c.p.c. Diversamente opinando, sarebbe snaturata la funzione stessa del processo, che, in quanto preordinato ad assicurare la tutela di diritti sostanziali, deve concludersi (salvo casi eccezionali) con il raggiungimento dell’effetto giuridico tipico, ossia con l’affermazione o la negazione del diritto dedotto in giudizio, mentre i meri fatti possono essere accertati dal giudice solo come fondamento del diritto azionato e non per se stessi e per gli effetti possibili e futuri che dal loro accertamento si vorrebbero ricavare.

In tema di responsabilità del datore di lavoro per il danno all’integrità psicofisica derivato dall’assegnazione del lavoratore a mansioni peggiorative, l’indennizzo erogato dall’INAIL, ai sensi dell’art. 13 del d.lgs. n. 38 del 2000, non copre il danno biologico da inabilità temporanea, atteso che sulla base di detta norma, letta in combinato disposto con l’art. 66, comma 1, n. 2, del d.P.R. n. 1124 del 1965, il danno biologico risarcibile dall’Istituto è esclusivamente quello relativo all’inabilità permanente (Sez. L, n. 04972/2018, De Gregorio, Rv. 647406-01).

Sul medesimo tema Sez. L, n. 20392/2018, Calafiore, Rv. 650088-01, ha condiviso l’impianto motivazionale della recente ed articolatissima Sez. L, n. 09166/2017, Amendola, Rv. 644028-01, che ha delimitato fasi del processo di valutazione e metodo di computo del danno all’integrità psicofisica patita dal lavoratore in conseguenza del demansionamento. La sentenza ribadisce come le somme eventualmente versate dall’INAIL a titolo di indennizzo, ex art. 13 del d.lgs. n. 38 del 2000, non possano considerarsi integralmente satisfattive del diritto al risarcimento del danno biologico in capo al soggetto infortunato o ammalato, sicché, a fronte della domanda del lavoratore, indirizzata al datore di lavoro, per conseguire il risarcimento dei danni, una volta che sia stato accertato l’inadempimento, dovrà verificarsi se, in relazione all’evento lesivo, ricorrano le condizioni soggettive ed oggettive per la tutela obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali stabilite dal d.P.R. n. 1124 del 1965. In tal caso, il giudice potrà procedere, anche di ufficio, a verificare l’ambito di applicabilità dell’art. 10 del decreto citato, ossia all’individuazione dei danni richiesti che non siano riconducibili alla copertura assicurativa (cd. “danni complementari”), i quali andranno risarciti secondo le comuni regole della responsabilità civile. Ove siano dedotte in fatto dal lavoratore anche circostanze integranti gli estremi di un reato perseguibile di ufficio, il giudice potrà pervenire alla determinazione dell’eventuale danno differenziale, valutando il complessivo valore monetario del danno civilistico secondo i criteri comuni, con le indispensabili personalizzazioni, dal quale detrarre quanto indennizzabile dall’INAIL, in base ai parametri legali, in relazione alle medesime componenti del danno, distinguendo, altresì, tra danno patrimoniale e danno non patrimoniale. A tale ultimo accertamento il giudice sarà tenuto pure dove non sia specificata la superiorità del danno civilistico in confronto all’indennizzo, ed anche se l’Istituto non abbia in concreto provveduto all’indennizzo stesso.

2. Gli infortuni sul lavoro

Prosegue la tendenza volta ad estendere l’ambito oggettivo della tutela previdenziale in materia infortunistica, anzitutto attraverso la lettura estensiva del concetto di “occasione di lavoro”.

Prevista dall’art. 2 del d.P.R. n. 1124 del 1965, l’occasione di lavoro non presuppone necessariamente che l’infortunio avvenga durante lo svolgimento delle mansioni lavorative tipiche in ragione delle quali è stabilito l’obbligo assicurativo, essendo indennizzabile anche l’infortunio determinatosi nell’espletamento dell’attività lavorativa connessa a tali mansioni, in relazione ad un rischio non proveniente dall’apparato produttivo ed insito in una attività prodromica e comunque strumentale allo svolgimento di esse, ancorché sia riconducibile a situazioni ed attività proprie del lavoratore, e purché permanga il rapporto di connessione con le mansioni lavorative. In quest’ultima ipotesi ricorre il solo limite del cd. “rischio elettivo”, dovendosi dare rilievo, in attuazione dell’art. 38 Cost., non già, restrittivamente, al cd. rischio professionale, come tradizionalmente inteso, ma a tutti gli infortuni in stretto rapporto di connessione con l’attività protetta. Facendo applicazione delle indicate coordinate ermeneutiche, la Corte ha cassato la decisione di merito che aveva ritenuto non indennizzabili i danni riportati da un lavoratore artigiano, rimasto vittima di un incidente stradale mentre si recava in un opificio per controllare i lavori di allacciamento della linea elettrica per il funzionamento di strumenti tecnologici necessari in rapporto alla tipologia dei lavori da eseguire (Sez. L, 2838/2018, D’Antonio, Rv. 647402-01).

Sez. L, n. 05391/2018, Perinu, Rv. 647510-01, ha analizzato la nuova formulazione dell’art. 2135 c.c. per desumerne che ne risulti ampliata la nozione di imprenditore agricolo, rilevante ai fini dell’inquadramento previdenziale nonché della tutela assicurativa (come desumibile dal rinvio alla norma citata operato dall’art. 207 del T.U. n. 1124 del 1965). Richiamando le attività dirette alla cura e allo sviluppo di un ciclo biologico, la disposizione ha ricompreso difatti, tra quelle complementari, anche le attività che non presentano una connessione necessaria tra produzione e utilizzazione del fondo, ma unicamente un collegamento funzionale e meramente strumentale con il terreno. Così, nella vicenda processuale scrutinata, la Corte ha ritenuto doversi ascrivere all’ambito delle attività agricole un’attività di allevamento equino finalizzata alla riproduzione, e di ravvisare l’occasione di lavoro che fa refluire l’infortunio occorso al lavoratore nell’alveo della tutela assicurativa.

Sulla stessa linea della precedente pronunzia si colloca Sez. L, n. 12549/2018, Leone, Rv. 648981-01, che, avuto riguardo alla figura dell’imprenditore artigiano, ha affermato che sono ricomprese nel concetto di “occasione di lavoro”, di cui all’art. 2 del d.P.R. n. 1124 del 1965, non solo le attività manuali tipicamente inerenti alla prestazione lavorativa, ma anche quelle preparatorie, accessorie o connesse, purché indispensabili alla sua esecuzione. Nella fattispecie concreta, si trattava dell’attività di sezionamento di un grosso tronco, per ricavarne travi utili per costruire il deposito dell’artigiano, che tuttavia non è stata ritenuta direttamente connessa a quella propria dell’artigiano costruttore edile per i molteplici passaggi tecnici e manuali tra il taglio dell’albero – richiedente una specifica professionalità – ed il concreto uso del materiale.

Simmetricamente a quanto stabilito in tema di malattie professionali, sul piano squisitamente processuale, si è ritenuta inammissibile la domanda giudiziale diretta all’accertamento della natura professionale dell’infortunio, volta a far dichiarare la sussistenza del determinismo causale tra infortunio e prestazione lavorativa, in assenza di una inabilità permanente residuata che sia indennizzabile, giacché essa si risolverebbe nella richiesta di accertamento di meri fatti, incompatibile con la funzione del processo – come più volte precisata dalla giurisprudenza di legittimità – quale strumento di tutela di diritti sostanziali, il cui epilogo naturale, salvo casi eccezionali, è una pronuncia di affermazione o negazione di tali diritti. Del resto, non può assumersi che la natura lavorativa dell’infortunio costituisca questione pregiudiziale rispetto al riconoscimento del diritto alla rendita, come tale suscettibile, a norma dell’art. 34 c.p.c., di accertamento incidentale con efficacia di giudicato separatamente dall’esame della domanda principale, essendo invece solo uno degli elementi costitutivi del diritto medesimo (Sez. L, n. 21903/2018, Mancino, Rv. 650264-01).

Sez. L, n. 21962/2018, Bellè, Rv. 650496-01, a proposito della natura di azione di ripetizione di indebito oggettivo della domanda proposta dall’INAIL per la restituzione delle somme indebitamente corrisposte, con cadenza mensile, a titolo di rendita per un infortunio sul lavoro, ha confermato che è soggetta alla ordinaria prescrizione decennale e non invece a quella quinquennale prevista dall’art. 2948 n. 4 c.c., in quanto la frequenza dei pagamenti mensili assume rilievo come occasionale conseguenza delle singole indebite percezioni, rispetto all’ipotesi, propria dell’art. 2948 c.c., in cui è stabilita ex ante, in ragione della causa dell’attribuzione patrimoniale, la necessità di pagamenti a cadenze temporali prefissate, trattandosi di rapporto di durata in cui la cadenza temporale risponde all’interesse del creditore.

3. La revisione della rendita.

Sez. L, n. 04441/2018, Berrino, Rv. 647456-01, ha affrontato il tema delle modalità di revisione della rendita INAIL, in conseguenza dell’aggravamento delle condizioni di salute dell’assicurato. La premessa logica della decisione riposa sul fondamento giustificativo del sistema dell’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, che è ispirato all’esigenza di adeguare la prestazione erogata in favore dell’assicurato all’effettiva misura della riduzione dell’attitudine al lavoro, senza che sia consentito ancorare tale adeguamento a una presunta volontà vincolativa dell’assicurato stesso; dal che si è argomentato che non incorre nel vizio di ultrapetizione la sentenza d’appello che, sulla base delle risultanze della consulenza tecnica d’ufficio, riduca la percentuale d’invalidità riconosciuta in primo grado con decorrenza dalla domanda amministrativa, ma che, contestualmente, e pur in assenza di esplicita richiesta dell’avente diritto, gli riconosca invece una percentuale superiore a decorrere da una data successiva, in conseguenza dell’intervenuto ulteriore deterioramento delle sue condizioni di salute.

Sul medesimo tema della revisione della rendita per infortunio sul lavoro, Sez. L, n. 01497/2018, Calafiore, Rv. 647205-01, ha sancito che il dies a quo del termine di dieci anni previsto dall’art. 83, comma 8, del d.P.R. n. 1124 del 1965, entro il quale può procedersi alla revisione, a domanda dell’assicurato o per disposizione dell’istituto assicuratore, è costituito dalla data di maturazione del diritto alla prestazione, e non già da quella del provvedimento di liquidazione o di inizio della materiale corresponsione della provvidenza, dal momento che l’atto formale a contenuto liquidativo ha natura meramente dichiarativa e ricognitiva del detto diritto.

Sez. L, n. 06048/2018, Riverso, Rv. 647485-01, è incentrata sui criteri di liquidazione, nell’ipotesi in cui il lavoratore sia affetto da una malattia professionale ovvero subisca un infortunio, che aggravi menomazioni preesistenti e determinate da uno o più eventi lesivi già indennizzati, in rendita o in capitale, secondo la previgente disciplina. La Corte ha stabilito che il nuovo grado di menomazione andrà valutato secondo il principio di non unificazione dei postumi che ispira il comma 6, seconda parte, dell’art. 13 del d.lgs. n. 38 del 2000, ossia senza tener conto delle preesistenze, e senza considerare se il nuovo danno sia concorrente, coesistente o riguardi lo stesso apparato inciso dalla precedente menomazione, avendo il lavoratore diritto alla erogazione di due autonome prestazioni.

4. I contributi assicurativi INAIL.

Il sistema tariffario dei premi per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali a carico dell’INAIL, e la sua correlazione con le caratteristiche tecniche delle lavorazioni, sono oggetto della pronuncia (Sez. L, n. 16942/2018, Bellè, Rv. 649599-01) con cui la Corte, in adesione a pregresso arresto giurisprudenziale (Sez. L, n. 5863/2017, Calafiore, Rv. 643435-01), ha affermato che, ai fini dell’applicazione dei premi di cui alla tariffa, debba tenersi conto delle caratteristiche tecniche delle lavorazioni svolte dall’impresa, cui afferisce il rischio per il lavoratore, mentre non assumono rilevanza il prodotto finale, con le sue caratteristiche merceologiche, se non nei limiti in cui esso sia suscettibile di influenzare il processo di lavorazione, e ciò in quanto, nella determinazione dei premi assicurativi, ciò che rileva sono i rischi connessi a mezzi e materiali lavorati e non invece le astratte classificazioni del sistema tabellare. In attuazione di tale enunciato, la Corte ha cassato la sentenza impugnata che, senza attribuire il dovuto rilievo al tipo di materiale utilizzato nonché alle modalità di produzione del prodotto finale, aveva ricondotto alla voce di tariffa n. 6212 una lavorazione avente ad oggetto “porte di sicurezza”, astrattamente assimilate, sulla base del mero dato lessicale, ai “serramenti anche corazzati”, contemplati nella predetta voce.

In applicazione del medesimo principio, di necessaria corrispondenza tra rischio delle lavorazioni dell’impresa assicurante e premio assicurativo, si è affermato, con specifico riferimento all’applicazione della tariffa n. 6300 del d.m. 6 giugno 1988, concernente l’attività di costruzione, trasformazione, riparazione di macchine e meccanismi con eventuale posa in opera, rilevano le caratteristiche tecniche delle lavorazioni e non il luogo in cui esse vengono svolte. Nella vicenda processuale, la S.C. ha confermato la sentenza di appello, che aveva ritenuto inapplicabile la voce di tariffa indicata dall’INAIL, in quanto l’attività di riparazione di motori marini era svolta in officina e non, come preteso dall’istituto assicuratore, a bordo di navi (Sez. L, n. 11991/2018, Mancino, Rv. 648909-01).

Merita poi segnalare Sez. L, n. 04530/2018, Berrino, Rv. 647471-01, secondo cui la riduzione del tasso medio di tariffa ai fini della determinazione del premio INAIL, prevista dall’art. 24 del d.m. 12 dicembre 2000, in relazione agli interventi effettuati per il miglioramento delle condizioni di sicurezza e di igiene nei luoghi di lavoro, nella misura fissa pari al cinque o al dieci per cento, e correlata al numero dei lavoratori anno-periodo, va effettuata sulla base del criterio fornito dall’art. 22 dello stesso d.m. – che disciplina l’oscillazione del tasso medio di tariffa in relazione all’andamento degli infortuni e delle malattie professionali dell’azienda – con riguardo all’arco temporale decorrente dal primo triennio del quadriennio precedente l’anno in cui è stata chiesta la riduzione. Le dette norme vanno lette, difatti, in connessione logico-sistematica, in quanto ispirate dalla unitaria finalità di incentivare il miglioramento delle condizioni di sicurezza e di igiene nei luoghi di lavoro.

Sez. L, n. 02839/2018, Riverso, Rv. 647403-01, con riguardo alla prescrizione del credito dell’INAIL verso il datore di lavoro, avente ad oggetto i premi di assicurazione, ai sensi dell’art. 112, comma 2, del d.P.R. n. 1124 del 1965, ha ritenuto – in discontinuità con Sez. L, n. 09114/2005, Cuoco, Rv. 581885-01, ma riagganciandosi a pregresso orientamento – che la relativa decorrenza coincide con l’inizio della lavorazione protetta, quanto alla prima rata, e con il decimo giorno successivo all’inizio di ciascun periodo lavorativo, per le rate successive, senza che rilevi la denunzia del datore di lavoro di un’attività diversa rispetto a quella effettivamente svolta; l’art. 2935 c.c., difatti, stabilendo che la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può esser fatto valere, esclude che possa darsi rilievo agli impedimenti soggettivi, ancorché determinati dal fatto del debitore, né è possibile rimettere la decorrenza della prescrizione alla mera volontà del soggetto onerato.

5. L’azione di regresso.

Da segnalare la pronuncia che ha analizzato i riflessi del giudicato penale di condanna, che abbia ritenuto la responsabilità del datore di lavoro nel determinismo causale dell’infortunio occorso al lavoratore, sull’azione di regresso promossa dall’INAIL. Si è al riguardo precisato che l’accertamento divenuto irrevocabile ha efficacia extrapenale e giova all’Istituto sotto il duplice profilo della sussistenza del fatto e dell’affermazione che l’imputato lo ha commesso, in applicazione degli artt. 651 e 654 c.p.p.. Tuttavia, nulla impedisce al chiamato in regresso di chiedere che nel giudizio civile sia sviluppata ogni indagine tralasciata in ambito penale, utile al fine di definire l’estensione e i contenuti della propria responsabilità risarcitoria, tra cui quella relativa all’eventuale concorso di colpa della vittima, qualora nel procedimento non sia stato oggetto di accertamento o non ne sia stato definito il grado (Sez. L, n. 21563/2018, Calafiore, Rv. 650220-01).

L’ambito oggettivo dell’azione di regresso, con riferimento alla responsabilità del datore di lavoro, è ulteriormente precisato da Sez. L, n. 05385/2018, Calafiore, Rv. 647484-01, secondo cui il datore di lavoro è obbligato nei confronti dell’INAIL nei limiti dei principi che informano la responsabilità per il danno civilistico subito dal lavoratore; ne consegue che il giudice del merito, senza considerare l’ammontare dell’indennizzo previdenziale erogato, deve calcolare il danno civilistico (determinato ai sensi degli artt. 1221 e 2056 c.c.), quale limite massimo del diritto di regresso dell’INAIL, per stabilire se l’importo richiesto dall’istituto vi rientri o meno. La sentenza precisa che, relativamente al sistema regolato dal d.P.R. n. 1124 del 1965, vigente ratione temporis, prima che venisse introdotta la modifica di cui al d.lgs. n. 38 del 2000 – a seguito della quale la copertura assicurativa è estesa al danno biologico – l’oggetto dell’azione di rivalsa ex art. 11 va identificato nel cd. danno patrimoniale in senso stretto, ed il relativo giudizio comporta la necessità di accertare che la percentuale d’inabilità permanente parziale, che rileva ai fini del riconoscimento della relativa rendita al lavoratore infortunato, sia determinata con riguardo al grado di riduzione dell’attitudine al lavoro (generico), secondo i criteri indicati dall’art. 78 del d.P.R. n. 1124 del 1965 e dalla tabella ivi richiamata, restando esclusa la possibilità di tener conto, ai fini anzidetti, del cosiddetto danno biologico o di quello estetico, e ciò in coerenza con la ratio dell’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, come assicurazione finalizzata al risarcimento della perdita o della riduzione della capacità lavorativa degli assicurati e non al risarcimento del danno secondo la nozione più ampia (e perciò comprensiva del danno biologico ed estetico) di cui agli artt. 2043 e ss. c.c..

Sez. L, n. 21961/2018, Mancino, Rv. 650495-01 in relazione alla surroga proposta dall’INAIL nei confronti del terzo responsabile di un infortunio, specifica come l’accoglimento della domanda, quanto agli importi pagati a titolo di incremento della rendita per danno patrimoniale presunto, presupponga l’accertamento che la vittima abbia effettivamente patito un danno civilistico alla capacità di lavoro, e che sia dimostrato – a fronte del ragionamento presuntivo, fondato sul superamento della soglia del 16% di invalidità, quale presupposto giustificativo ex se dell’erogazione di un incremento – che il lavoratore: a) effettivamente svolgesse, al momento dell’infortunio, un’attività produttiva di reddito; b) non abbia mantenuto, dopo il suo verificarsi, una capacità generica residua, che gli consenta di attendere ad altri lavori confacenti alle attitudini personali. Diversamente, quanto agli importi pagati dall’INAIL a titolo di indennità giornaliera e di anticipazione delle spese mediche, deve considerarsi che la loro corresponsione avviene esclusivamente in conseguenza dell’assenza dal lavoro e di una necessità di cura, e dunque di fatti che costituiscono danni civilisticamente rilevanti, dei quali il lavoratore ha diritto di essere risarcito, a nulla rilevando che, avendo continuato a ricevere la retribuzione durante l’assenza dal lavoro, non abbia richiesto il risarcimento al responsabile.

Ai fini del regresso dell’INAIL nei confronti del datore di lavoro, ulteriore statuizione ha ribadito – in continuità con quanto affermato da Sez. U n. 5160/2015, Nobile, Rv. 634460-01 – quali siano la natura e la decorrenza del termine triennale previsto dall’art. 112 del d.P.R. n. 1124 del 1965. Sulla premessa che detto termine rivesta natura prescrizionale alla luce del tenore letterale della disposizione, e stante anche il principio di stretta interpretazione delle norme in tema di decadenza (insuscettive di interpretazione estensiva od analogica), si è evidenziato come, laddove non sia stato intrapreso alcun procedimento penale, detto termine decorra dal momento in cui viene liquidato l’indennizzo al danneggiato (ovvero, in caso di rendita, dalla data della sua costituzione), il quale costituisce il fatto certo e costitutivo del diritto sorto dal rapporto assicurativo. Presupposto argomentativo del ragionamento della Corte è che l’azione con la quale l’Istituto fa valere in giudizio un proprio credito in rivalsa sia assimilabile a quella risarcitoria promossa dall’infortunato, atteso che il diritto viene esercitato nei limiti del complessivo danno civilistico ed è funzionale a sanzionare il datore di lavoro, consentendo, al contempo, di recuperare quanto corrisposto al danneggiato (Sez. L, n. 20611/2018, Ponterio, Rv. 649931-01).

  • regime pensionistico

CAPITOLO XXV

LA PREVIDENZA DI CATEGORIA

(di Stefania Riccio )

Sommario

1 Cassa Nazionale Forense. - 2 Cassa Dottori Commercialisti - 3 Cassa Ingegneri e Architetti. - 4 Cassa di previdenza Geometri liberi professionisti. - 5 ENPALS. - 6 ENPAF. - 7 La previdenza integrativa.

1. Cassa Nazionale Forense.

Plurime questioni interpretative sono venute all’attenzione della Corte in relazione alle prescrizioni contenute nel Regolamento della Cassa nazionale di previdenza ed assistenza forense.

Si è così ritenuto legittimo l’art. 4 del Regolamento della Cassa nazionale di previdenza ed assistenza forense laddove, prevedendo il divieto di rimborso dei contributi, principio generale dell’intero sistema previdenziale, ha abrogato l’art. 21 della l. 20 settembre 1980, n. 576; tale delegificazione trova, infatti, fondamento nell’art. 3, comma 12, della l. n. 335 del 1995, che, nella sua originaria formulazione, attribuisce agli enti previdenziali privatizzati il potere di adottare atti idonei ad incidere sui criteri di determinazione del trattamento pensionistico, purché ciò avvenga nel rispetto del principio di garanzia del pro rata. (Sez. L, n. 04980/2018, Calafiore, Rv. 647476-01).

La Corte ha valutato parimenti legittima la disposizione di cui all’art. 49 del Regolamento generale della Cassa nazionale forense del 28 settembre 1995 (nel testo modificato con delibera n. 133 del 2003), nella parte in cui, in deroga all’art. 16 della l. n. 576 del 1980, è stabilita la rivalutazione della pensione di vecchiaia solo a decorrere dal secondo anno dal pensionamento, poiché tale previsione rientra nel concetto di “determinazione del trattamento pensionistico” di cui all’art. 3, comma 12, della l. n. 335 del 1995 e, quindi, nei limiti della delegificazione operata da tale ultima disposizione in favore dell’autonomia regolamentare degli enti previdenziali privatizzati. (Sez. L, n. 03461/2018, Calafiore, Rv. 647412-01).

Sul piano contributivo, Sez. L, n. 05287/2018, Cavallaro, Rv. 647479-01, ha ritenuto la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 10, comma 1, lett. b), della l. n. 576 del 1980, inerente all’imposizione del cd. “contributo di solidarietà” senza la previa fissazione di alcun massimale, in quanto – come già osservato da Corte cost., con ordinanza 25 novembre 2016, n. 254, relativa alle disposizioni della stessa legge in tema di contribuzione erogata dai pensionati di vecchiaia per finalità solidaristica – si sarebbe dovuta risolvere nell’adozione di una pronuncia additiva, la quale, essendo possibile solo allorché esista un’unica soluzione costituzionalmente obbligata (cd. a “rime obbligate”), non è nella specie praticabile, in considerazione «dell’ampia discrezionalità spettante al legislatore in materia previdenziale».

La quota annuale di iscrizione all’elenco speciale annesso all’albo degli avvocati per l’esercizio della professione forense nell’interesse esclusivo del datore di lavoro è da questi rimborsabile, non essendo compresa né nella disciplina dell’indennità di toga (di cui all’art. 14, comma 17, del d.P.R. 13 gennaio 1990 n. 43), che assolve a funzione essenzialmente retributiva ed è soggetta ad un regime tributario incompatibile con il rimborso spese, e non attenendo neppure all’ambito delle spese nell’interesse della persona, quali quelle sostenute per gli studi universitari e per l’acquisizione dell’abilitazione alla professione forense. (Sez. L, n. 02285/2018, Cavallaro, Rv. 647267-01).

L’esercizio della professione forense in diversi stati appartenenti all’Unione Europea – pure venuto all’attenzione della Corte – ha posto problematiche di carattere ermeneutico, in ordine alla individuazione della legislazione previdenziale in concreto applicabile. Sez. L, n. 06776/2018, Mancino, Rv. 647604-01, ha stabilito che, a tali fini, va data prevalenza al criterio del luogo di residenza del legale, indicato dall’art. 14-bis, par. 2, del Regolamento CEE n. 1408 del 1971, richiamato dall’art. 13 del Regolamento CEE del Parlamento europeo e del Consiglio n. 883 del 2004, nel caso in cui una parte sostanziale dell’attività sia esercitata in tale Stato membro, mentre, qualora il professionista non risieda in uno degli Stati membri nel quale esercita una parte significativa e pregnante della sua attività, deve trovare applicazione quello del luogo in cui si trova il centro di interessi, e ciò al fine di garantire l’effettività dell’obbligo di comunicazione reddituale alla Cassa di previdenza di tale luogo, funzionale alla determinazione dei contributi dovuti da chi sia già iscritto nonché all’accertamento dei requisiti reddituali o del volume di affari in presenza dei quali sorge l’obbligo di iscrizione. La Corte ne ha dedotto, con riferimento al caso sottopostole, che dovesse essere cassata senza rinvio la sentenza di appello, che aveva accolto la domanda di restituzione di contributi – versati dal 2005 in poi a seguito di iscrizione d’ufficio – alla Cassa Nazionale Forense da avvocato di nazionalità tedesca, ma avente residenza, domicilio e centro dei propri affari in Italia.

In tema di obblighi comunicativi, la sanzione pecuniaria comminata dall’art. 17, comma 4, primo periodo, della l. n. 576 del 1980 – attuativa della riforma del sistema previdenziale forense – per inottemperanza all’obbligo di comunicazione alla Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense dell’ammontare del reddito professionale entro trenta giorni dalla data prescritta per la presentazione della dichiarazione annuale dei redditi, riveste natura amministrativa. Detta natura non è venuta meno per effetto della privatizzazione della Cassa voluta dal d.lgs. n. 509 del 1994; ne consegue che tale sanzione è soggetta a termine di prescrizione quinquennale, decorrente dal giorno in cui è stata commessa la violazione, e non a quello decennale prescritto dall’art. 19, comma 1, della l. n. 576 del 1980, che si riferisce esclusivamente ai contributi e ai relativi accessori. (Sez. L, n. 17258/2018, Riverso, Rv. 649594-01).

Sulla scia della recente Sez. L, n. 30344/2017, Cavallaro, (Rv. 646559 – 01), di cui ha ulteriormente sviluppato le linee motivazionali, Sez. L, n. 32167/2018, Calafiore, Rv. 652030-01, ricusando la richiesta di rimessione alle Sezioni Unite, ha enucleato un principio generale in tema di gestioni separate INPS, applicabile alle differenti categorie professionali. La decisione ha stabilito che gli avvocati iscritti ad altre forme di previdenza obbligatorie i quali, svolgendo attività libero professionale priva del carattere dell’abitualità, non hanno – secondo la disciplina vigente “ratione temporis”, antecedente l’introduzione dell’automatismo della iscrizione – l’obbligo di iscriversi alla Cassa Forense, alla quale versano esclusivamente un contributo integrativo di carattere solidaristico in quanto iscritti all’albo professionale, a cui non segue la costituzione di alcuna posizione previdenziale a loro beneficio, sono tenuti comunque ad iscriversi alla gestione separata presso l’INPS. Ciò perché, secondo la ratio dell’art. 2, comma 26, della l. n. 335 del 1995, l’unico versamento contributivo rilevante ai fini dell’esclusione di detto obbligo di iscrizione è quello suscettibile di costituire in capo al lavoratore autonomo una correlata prestazione previdenziale. Nell’ottica della “universalizzazione” delle tutele, l’obbligazione contributiva è collegata, difatti, alla produzione dei redditi di cui all’art. 49 T.U.I.R., comma 1 e 2, rivenienti da attività di lavoro autonomo e da attività di collaborazione continuativa e coordinata, in tal modo assolvendo, l’istituzione della gestione separata, a funzione di chiusura del sistema, siccome diretta ad estendere la copertura assicurativa non già a categorie determinate di lavoratori autonomi che ne siano prive, bensì a chi, svolgendo due attività, già ne fruisca limitatamente ad una di esse.

Ai fini della determinazione dell’entità del trattamento di pensione di vecchiaia erogato a favore degli avvocati e procuratori rileva il reddito professionale dichiarato ai fini fiscali e non già quello definito per effetto del cd. “accertamento con adesione” di cui all’art. 2, comma 3, del d.lgs. 19 giugno 1997 n. 218, dovendosi avere riguardo al reddito professionale effettivo e non a quello “fittizio” conseguente alla definizione concordata della vertenza tributaria (Sez. L, n. 05380/2018, D’Antonio, 647482-01).

2. Cassa Dottori Commercialisti

Riprendendo il medesimo iter argomentativo di Sez. U., n. 02612/2017, D’Antonio, Rv. 642437-01, Sez. L, n. 19638/2018, Bellè, Rv. 649986-01, ha riaffermato il principio di diritto secondo il quale la Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza a favore dei Dottori Commercialisti è titolare del potere di accertare, sia all’atto dell’iscrizione ad essa, sia periodicamente, e comunque prima dell’erogazione di qualsiasi trattamento previdenziale, ed a tale limitato fine, che l’esercizio della corrispondente professione non sia stato svolto nelle situazioni di incompatibilità di cui all’art. 3 del d.P.R. 27 ottobre 1953 n. 1067 (ora art. 4 del d.lgs. 28 giugno 2005, n. 139), ancorché quest’ultima non sia stata accertata dal Consiglio dell’Ordine competente. In particolare, detto autonomo potere di accertamento sussiste nel momento della verifica dei presupposti per l’erogazione del trattamento previdenziale, al quale si associa naturalmente la cessazione dell’iscrizione all’Ordine, non potendosi ravvisare ostacolo alcuno nella carenza di una procedura specifica per l’esercizio di esso, risultando le garanzie procedimentali suscettibili di essere in ogni caso assicurate dall’osservanza delle norme generali di cui alla l. n. 241 del 1990.

In tema di obblighi di contribuzione, Sez. L, n. 32508/2018, Calafiore, Rv. 652038-01, sulla scia della recente Sez. L, n. 30344/2017, Cavallaro, (Rv. 646559-01), di cui ha ulteriormente sviluppato le linee motivazionali, ha poi esteso alla categoria dei dottori commercialisti un principio generale in tema di gestioni separate INPS. Nel dettaglio, la decisione ha stabilito che i dottori commercialisti iscritti ad altre forme di previdenza obbligatorie i quali, non avendo raggiunto la soglia reddituale che rende obbligatoria l’iscrizione alla Cassa dei dottori commercialisti, alla stessa versino esclusivamente un contributo integrativo di carattere solidaristico, a cui non segue la costituzione di alcuna posizione previdenziale a loro beneficio, sono tenuti comunque ad iscriversi alla gestione separata presso l’INPS. Ciò perché, secondo la ratio dell’art. 2, comma 26, della l. n. 335 del 1995, l’unico versamento contributivo rilevante ai fini dell’esclusione di detto obbligo di iscrizione è quello suscettibile di costituire in capo al lavoratore autonomo una correlata prestazione previdenziale. Nell’ottica della “universalizzazione” delle tutele, l’obbligazione contributiva è collegata, difatti, alla produzione dei redditi di cui all’art. 49 T.U.I.R., comma 1 e 2, rivenienti da attività di lavoro autonomo e da attività di collaborazione continuativa e coordinata, in tal modo assolvendo, l’istituzione della gestione separata, a funzione di chiusura del sistema, siccome diretta ad estendere la copertura assicurativa non già a categorie determinate di lavoratori autonomi che ne siano prive, bensì a chi, svolgendo due attività, già ne fruisca limitatamente ad una di esse.

3. Cassa Ingegneri e Architetti.

In tema di previdenza di ingegneri e architetti, l’imponibile contributivo va determinato alla stregua dell’oggettiva riconducibilità alla professione dell’attività concreta, ancorché questa non sia riservata per legge alla professione medesima, rilevando che le cognizioni tecniche di cui dispone il professionista influiscano sull’esercizio dell’attività. La limitazione dell’imponibile contributivo ai soli redditi da attività professionali tipiche non trova difatti fondamento nell’art. 7 della l. 24 giugno 1923, n. 1395 e negli artt. 51, 52 e 53 del r.d. 23 ottobre 1925 n. 2537, che riguardano soltanto la ripartizione di competenze tra ingegneri e architetti, mentre l’art. 21 della l. n. 6 del 1981 stabilisce unicamente che l’iscrizione alla Cassa è obbligatoria per tutti gli ingegneri e gli architetti che esercitano la libera professione con carattere di continuità. Nella specie, sulla scorta della proposta opzione ricostruttiva, la Corte ha respinto il ricorso avverso la decisione di merito che aveva incluso nell’imponibile contributivo di un ingegnere nucleare i redditi percepiti dall’attività di consulenza nel settore del marketing aziendale (Sez. L, n. 20389/2018, Leone, Rv. 650121-01).

Merita poi segnalare Sez. L, n. 32166/2018, Calafiore, Rv. 652029-01, che, in linea di continuità con la recente Sez. L, n. 30344/2017, Cavallaro, Rv. 646559-01, e simmetricamente a quanto affermato a proposito delle categorie degli avvocati e dei dottori commercialisti, ha ritenuto che gli ingegneri e gli architetti ai quali è preclusa l’iscrizione ad INARCASSA (essendo iscritti ad altre forme di previdenza obbligatorie, in ragione del concomitante esercizio di attività dipendente), alla quale versano esclusivamente un contributo integrativo di carattere solidaristico in quanto iscritti agli albi professionali, a cui non segue la costituzione di alcuna posizione previdenziale a loro beneficio, sono tenuti comunque ad iscriversi alla gestione separata presso l’INPS. Ciò perché, secondo la ratio dell’art. 2, comma 26, della l. n. 335 del 1995, l’unico versamento contributivo rilevante ai fini dell’esclusione di detto obbligo di iscrizione è quello suscettibile di costituire in capo al lavoratore autonomo una correlata prestazione previdenziale. Nell’ottica della “universalizzazione” delle tutele, l’obbligazione contributiva è collegata, difatti, alla produzione dei redditi di cui all’art. 49 T.U.I.R., comma 1 e 2, rivenienti da attività di lavoro autonomo e da attività di collaborazione continuativa e coordinata, in tal modo assolvendo, l’istituzione della gestione separata, a funzione di chiusura del sistema, siccome diretta ad estendere la copertura assicurativa non già a categorie determinate di lavoratori autonomi che ne siano prive, bensì a chi, svolgendo due attività, già ne fruisca limitatamente ad una di esse.

In tema di trattamento pensionistico degli ingegneri ed architetti liberi professionisti iscritti alla Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza, le verifiche del requisito della continuità nell’esercizio della professione, valevole ai fini dell’anzianità dell’iscrizione, soggiacciono al termine di decadenza di cinque anni, decorrenti dalla presentazione delle dichiarazioni sostitutive di notorietà – funzionali all’esercizio del potere di verifica – cui gli iscritti sono tenuti a norma dell’art. 7 dello Statuto, approvato con d.m. 28 novembre 1995 (Sez. L, n. 16252/2018, Calafiore, Rv. 649392-01).

Sempre ai fini della verifica della sussistenza dell’esercizio continuativo della professione, requisito indispensabile per l’iscrizione ad INARCASSA, ai sensi dell’art. 7 del relativo Statuto, non ha alcun rilievo la circostanza che il professionista iscritto sia stato sospeso per motivi disciplinari dal servizio per sei mesi, dovendosi tener conto del principio di autonomia tra l’ordinamento previdenziale e quello dell’ordine professionale e di quanto previsto dalla l. n. 6 del 1981e dal r.d. n. 2537 del 1925, che non collegano a tale sanzione disciplinare alcun effetto sul requisito della continuità. (Sez. L, n. 10281/2018, Ponterio, Rv. 648043-01).

4. Cassa di previdenza Geometri liberi professionisti.

Numerosi anche i contributi di nomofilachia relativi ai trattamenti pensionistici dei geometri.

Tra questi merita evidenziare che, in materia di pensione di invalidità, la Corte ha ritenuto essere il riscatto dei periodi pregressi, esercitato ai sensi dell’art. 23 della l. 20 ottobre 1982, n. 773, idoneo esclusivamente a rendere utilizzabili ai fini dell’anzianità contributiva periodi di lavoro non coperti da contribuzione, sicché esso non rileva ai fini della ricostituzione ex post del requisito della continuità dell’iscrizione da data anteriore al compimento del quarantesimo anno di età, richiesto dagli artt. 4 e 5 del Regolamento per l’attuazione delle attività della Cassa. In applicazione di tale enunciato, la Corte ha confermato, nella specie, il rigetto della domanda di ricalcolo della pensione di invalidità con eliminazione della riduzione dei tre quindicesimi prevista dall’art. 3 della l. 4 agosto 1990 n. 236 in caso di insussistenza dei requisiti di cui ai citati artt. 4 e 5. (Sez. L, n. 15030/2018, Ponterio, Rv. 649241-01).

Ancora, in diversa pronuncia, si è affermato il principio in materia di pensione di anzianità in regime di totalizzazione, secondo cui, ove il titolare abbia maturato, alla data del pensionamento, un’anzianità inferiore a 35 anni presso la Cassa Geometri, la determinazione dell’importo della pensione nella quota riguardante la Cassa va effettuata con esclusione dei coefficienti di riduzione di cui all’art. 3 del “Regolamento per l’attuazione delle attività di previdenza ed assistenza” ex d.lgs. 30 giugno 1994 n. 509, poiché l’articolo in questione riconnette i coefficienti di abbattimento ai criteri di accesso alla pensione di anzianità, nel senso che, ove non sia raggiunta l’anzianità di quarant’anni, la pensione soggiace a riduzioni in ragione dell’anzianità effettiva e dell’età, ma prevede poi tali abbattimenti solo in relazione ad anzianità comprese tra 35 e 39 anni (Sez. L, n. 15892/2018, Bellè, Rv. 649285-01).

In materia di pensione di vecchiaia, poi, anche gli anni non coperti da integrale contribuzione concorrono a formare l’anzianità contributiva, e vanno inseriti nel calcolo della stessa, in quanto l’aggettivo “effettiva”, di cui all’art. 2 della l. n. 773 del 1982, che non è sinonimo di “integrale”, si riferisce alla contribuzione, senza alcun riferimento alla misura della stessa, sancendo la commisurazione della pensione alla contribuzione effettivamente versata, con esclusione di ogni automatismo delle prestazioni in assenza di contribuzione. (Sez. L, n. 15643/2018, Ponterio, Rv. 649345-01).

5. ENPALS.

In tema di tutela previdenziale dei lavoratori dello spettacolo, ad avviso di Sez. L, n. 16253/2018, Boghetich, Rv. 649485-01 anche i deejay producers e i tecnici del suono sono soggetti all’obbligo di iscrizione all’ ENPALS in quanto le loro prestazioni, pur rese negli studi di incisione senza presenza di pubblico e consistenti nella realizzazione di supporti registrati destinati alla commercializzazione, si traducono in produzioni di carattere artistico destinate alla fruizione del pubblico attraverso le nuove tecnologie, da ricomprendere nella nozione di spettacolo, come evolutasi nel tempo, ai sensi dell’art. 3 del d.lgs. 16 luglio 1947 C.p.s. n. 708, nel testo modificato dalla l. 27 dicembre 2002 n. 289.

In passato Sez. L, n. 4882/2013, Bandini, Rv. 625335-01, aveva già chiarito che sono soggetti a contribuzione in favore dell’Ente nazionale di previdenza e assistenza per i lavoratori dello spettacolo, anche i compensi corrisposti – ai lavoratori appartenenti alle categorie di cui all’art. 3, primo comma, numeri da 1 a 14 del d.lgs. C.p.S. n. 708 del 1947 e successive modificazioni -, per le prestazioni dirette a realizzare, senza la presenza del pubblico che ne è il destinatario finale, registrazioni (fonografiche, come nella specie, o in altra forma) di manifestazioni musicali o di altre manifestazioni a carattere e contenuto (artistico, ricreativo o culturale) di spettacolo. La disposizione sopravvenuta, introdotta con l’art. 43 della l. n. 289 del 2002 allo scopo dichiarato di ridurre il contenzioso e concernente, direttamente, il compenso imponibile, conferma tale interpretazione, presupponendo l’assoggettamento all’obbligo contributivo dei compensi corrisposti a titolo di cessione dello sfruttamento del diritto d’autore, d’immagine e di replica.

Anche Sez. L, n. 21829/2014, Arienzo, Rv. 632884-01 aveva poi affermato che l’obbligo di iscrizione all’ENPALS sussiste, ai sensi del d.lg. C.p.s. 16 luglio 1947, n. 708, per i lavoratori impiegati a svolgere un’attività artistico o tecnica correlata alla realizzazione di uno spettacolo destinato al pubblico con carattere di stabilità e professionalità, con esclusione dei lavoratori che prestino tale attività in via meramente occasionale, senza che rilevi la circostanza che le prestazioni, benché professionali, siano saltuarie, o di breve durata, né che tale attività lavorativa non sia esclusiva per il soggetto che la espleti.

6. ENPAF.

In tema di pensione di vecchiaia dei farmacisti, il requisito dell’esercizio almeno ventennale dell’attività professionale, introdotto dall’art. 8, comma 4, del Regolamento di previdenza dell’ENPAF, come modificato dal d.m. 15 novembre 1994, per coloro che si iscrivono o si reiscrivono all’ente dopo il 31 dicembre 1994, non è richiesto per gli assicurati che, pur reiscritti dopo tale data, ricadano nel regime transitorio previsto dai commi 2 e 3 dello stesso art. 8. Facendo applicazione di tale principio, la Corte ha confermato la sentenza di merito che aveva riconosciuto il diritto alla pensione di vecchiaia in favore di un assicurato che, cancellato dall’ente nel 1991 e reiscritto nel 2003, non aveva esercitato la professione per almeno venti anni, ma al momento della domanda aveva compiuto sessantacinque anni e poteva far valere ventotto anni di iscrizione ed effettiva contribuzione, come previsto dalla disciplina transitoria. (Sez. L, n. 10761/2018, Riverso, Rv. 648773-01).

7. La previdenza integrativa.

In riferimento alla base di calcolo della pensione integrativa dei dipendenti INPS, si segnala, non constando peraltro precedenti in merito, Sez. L, n. 16019/2018, Mancino, Rv. 649325-01, la quale ha escluso che rientri nella base di calcolo della pensione integrativa prevista in loro favore l’indennità di ente, che è stata introdotta soltanto con l’art. 26 del c.c.n.l. per il personale del comparto enti pubblici non economici sottoscritto il 9 ottobre 2003, e, quindi, in epoca successiva alla l. 17 maggio 1999, n. 144, la quale ha operato la cristallizzazione della prestazione pensionistica integrativa alle voci retributive utili erogate alla data del 30 settembre 1999.

Sempre con riferimento alla base di calcolo della pensione integrativa dei dipendenti dell’INAIL, ai sensi dell’art. 5 del Regolamento di previdenza e quiescenza del relativo personale, Sez. L, n. 22389/2018, Bellè, Rv. 650540-01 ha ritenuto che, ai fini della computabilità nella pensione integrativa già erogata dal fondo istituito dall’ente (e ancora transitoriamente prevista a favore dei soggetti già iscritti al fondo, nei limiti dettati dall’art. 64 della l. 17 maggio 1999, n. 144) è sufficiente che le voci retributive siano fisse e continuative. Nel caso al vaglio, la S.C., cassando la sentenza di merito ed enunciando il suddetto principio, ha ritenuto inclusa nella base pensionabile in questione l’indennità di “toga”, benché definita dalla norma istitutiva quale emolumento di carattere “non stipendiale”.

In merito al trattamento pensionistico integrativo previsto per i dipendenti dell’Istituto bancario San Paolo, Sez. L, n. 23598/2018, Bellè, Rv. 650620-01, ha affermato che l’art. 3 del d.lgs. n. 124 del 1993 trova applicazione anche nei contratti e negli accordi collettivi del 30 novembre 1998 e del 31 maggio 1999, che pertanto sono opponibili al personale in pensione alla data del 31 dicembre 1997 nella parte in cui prevedono la facoltà di scelta tra percepire una quota individuale in un’unica soluzione o versarla ad un’assicurazione per la costituzione di una rendita vitalizia, da liquidare secondo lo studio attuariale acquisito con i medesimi accordi; ciò in quanto il trattamento previdenziale aggiuntivo al quale i pensionati avrebbero avuto diritto prima delle modifiche apportate dalle parti sociali era certo nell’”an”, ma non nel “quantum”, perché costituito da una quota limitata del reddito prodotto dalla gestione di pertinenza della prestazione stessa, individuata secondo i criteri previsti dallo Statuto dell’ente.

In altro ambito, e sul presupposto che vada ritenuta la natura di fondazione del Fondo Pensioni per il Personale della Banca di Roma, la Corte ne ha disegnato la disciplina regolativa, che si evince dalle correlate disposizioni codicistiche. Da tali norme si deduce che l’azione per far valere eventuali violazioni di norme imperative, da parte di una delibera assembleare modificativa dello statuto, è assoggettata a prescrizione quinquennale, trattandosi, ai sensi dell’art. 23, comma 1, c.c., di una speciale forma di annullabilità, derogatoria rispetto al principio generale dell’art. 1418 c.c., il quale detta, per i negozi contrari a norme imperative, il diverso regime della nullità. La medesima pronuncia ha stabilito, sul tema dei Fondi pensionistici integrativi aventi natura di persona giuridica privata, che il provvedimento di approvazione della COVIP non rientra tra gli elementi costitutivi degli atti di adozione o modifica dello statuto da parte del Fondo, ma è solo integrativo della loro efficacia con effetto ex tunc, in quanto finalizzato al controllo circa la correttezza e la trasparenza delle condizioni contrattuali di tutte le forme pensionistiche complementari. (Sez. L, n. 20764/2018, Berrino, Rv. 650129-01 e Rv. 650129-02).

Di particolare interesse, poi, sul piano applicativo, Sez. U, n. 06928/2018, Tria, Rv. 647568-01, la quale ha affermato che il trattamento pensionistico erogato dai fondi pensione integrativi ha natura previdenziale, fin da quando tali fondi sono stati istituiti, ma ad esso non è applicabile il divieto di cumulo di rivalutazione monetaria ed interessi previsto dall’art. 16, comma 6, della l. n. 412 del 1991, in quanto non corrisposto da enti gestori di forme di previdenza obbligatoria, ma da datori di lavoro privati.

Dalla affermata natura previdenziale, tuttavia, deriva, da un lato, che agli accessori da cumulare non si applica il regime giuridico proprio delle obbligazioni pecuniarie, sicché il pagamento del solo credito originario si configura come adempimento parziale di una prestazione unitaria, da cui consegue che gli interessi devono essere calcolati sul capitale rivalutato con scadenza periodica, dal momento dell’inadempimento al soddisfacimento del credito, e, d’altro canto, che nell’ipotesi in cui il credito sia stato ammesso allo stato passivo del fallimento o della liquidazione coatta amministrativa del datore di lavoro, esso non risulta assistito da privilegio.

Quanto alla previdenza del personale di volo dipendente dalle aziende di navigazione aerea, Sez. L, n. 19275/2018, Bellè, Rv. 649922-01, ha sancito che, per effetto dell’abrogazione dell’art. 27 della l. 13 luglio 1965 n. 859 – incompatibile con l’entrata in vigore del d.lgs. 24 aprile 1997 n. 164 – la regola del cumulo tra la pensione erogata dal Fondo Volo costituito presso l’INPS e la retribuzione da lavoro dipendente è quella che vige per l’AGO, di modo che si deve individuare se la pensione in godimento sia di anzianità o di vecchiaia in base alla legge vigente al momento del pensionamento, a tal fine combinando il principio sulla rilevanza del requisito anagrafico con quello del necessario raggiungimento, in concreto, di una anzianità contributiva pari o superiore a venti anni.

In tema di previdenza integrativa degli Agenti Professionisti di Assicurazione, l’erogazione della pensione anticipata di anzianità da parte dei Fondi pensione preesistenti alla l. delega 23 ottobre 1992 n. 421 è subordinata, secondo il regime transitorio ricavabile dal combinato disposto dell’art. 20, comma 2, del d.lgs. 5 dicembre 2005 n. 252 e del decreto ministeriale di attuazione, alla sussistenza dei requisiti e con la decorrenza prevista dalla disciplina obbligatoria di appartenenza, senza possibilità di un accesso anticipato ex art. 11, comma 4, del d.lgs. n. 252 del 2005, riservato ai Fondi di istituzione successiva alla legge delega. Nella specie, la Corte ha corretto la motivazione della sentenza d’appello che aveva escluso il diritto di un agente assicurativo alla pensione integrativa anticipata di anzianità erogata dal Fondo pensione agenti professionisti di assicurazione, sull’erroneo presupposto che l’art. 11, comma 4, cit. non si applicasse ai lavoratori autonomi (Sez. L, n. 9740/2018, Calafiore, Rv. 648186-01).

In riferimento agli impiegati esattoriali, Sez. L, n. 28775/2018, Mancino, Rv. 651702-01 ha infine ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della l. 2 aprile 1958 n. 377, come modificata dalla l. 22 luglio 1971 n. 587, in relazione agli artt. 3, 36 e 38, comma 2, Cost., nella parte in cui prevedono che l’iscritto al Fondo di Previdenza per tale categoria – Fondo speciale obbligatorio che conferisce all’iscritto una pensione che integra quella prevista dall’AGO, costituendo un sistema previdenziale autonomo ed autosufficiente – una volta che abbia trasferito la propria posizione previdenziale nell’AGO, non possa richiedere le prestazione integrativa riconosciuta dal Fondo, non comportando tale previsione alcun indebito arricchimento a favore dell’INPS.

PARTE SESTA I RAPPORTI CON I PUBBLICI POTERI (coordinata da Roberto Mucci)

  • indennizzo
  • espropriazione

CAPITOLO XXVI

ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITÀ

(di Roberto Mucci )

Sommario

1 Premessa. - 2 La giurisdizione. - 3 Effetti dell’espropriazione per i terzi. - 4 La determinazione dell’indennità di espropriazione. A) La qualificazione delle aree. - 4.1 (segue). B) La stima. - 4.2 (segue). C) Le aree agricole. - 5 L’indennizzo per la reiterazione dei vincoli. - 6 L’opposizione alla stima. - 7 La determinazione consensuale dell’indennità. - 8 La retrocessione. - 9 Le espropriazioni illegittime. - 9.1 (segue). L’acquisizione “sanante”.

1. Premessa.

Anche nel 2018 è proseguita l’opera di consolidamento e sistemazione dei principi in materia di espropriazione per pubblica utilità propria della Prima Sezione. Non mancano però novità di rilievo, segnatamente in tema di indennizzabilità per reiterazione del vincolo, in un quadro giurisprudenziale complessivamente orientato all’effettività del ristoro riconoscibile al privato espropriato. Per altro verso, non pare inutile rimarcare l’emersione di più di una sottolineatura in tema di sollecita definizione dei procedimenti amministrativi, quasi un canone generale suscettibile di conformare le condotte tanto della P.A. quanto, soprattutto in sede di giudizio di opposizione alla stima, del privato.

Come per la precedente Rassegna, si procederà dunque alla segnalazione delle pronunce massimate maggiormente significative, secondo l’intavolazione della materia posta dal d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 (T.U. espropriazioni).

2. La giurisdizione.

In tema di risarcimento dei danni derivanti dall’illecita occupazione del bene, dopo Corte cost. 28 aprile 2006, n. 204 e 8 marzo 2006, n. 191, e le successive pronunce di legittimità, è fermo il criterio discretivo (su cui già Sez. U, n. 17110/2017, Manna F., Rv. 644919-01) fondato sul collegamento causale tra il comportamento lesivo ed un precedente provvedimento, conformativo degli interessi incisi, predicato come espressivo di un potere amministrativo pur sussistente ed esercitato almeno “mediatamente”. In tal caso vi è la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo: Sez. U, n. 09334/2018, Bisogni, Rv. 648266-01 e Sez. U, n. 02145/2018, Giusti, Rv. 647038-01 (quest’ultima relativa ad ordinanza, costituente anche dichiarazione di pubblica utilità, di approvazione di un progetto esecutivo di un impianto per lo smaltimento dei rifiuti e di occupazione d’urgenza del sito senza tempestiva immissione in possesso).

Declina tale criterio in termini generali Sez. U, n. 14434/2018, De Stefano, Rv. 648946-01: ove vengano in evidenza pretese restitutorie, risarcitorie o ripristinatorie del privato coinvolto dall’attività ablativa della P.A. o della sua concessionaria, sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo quante volte il comportamento della P.A., cui si ascrive la lesione, sia la conseguenza diretta di un assetto di interessi conformato da un originario provvedimento ablativo, legittimo o illegittimo, ma comunque espressione di un potere amministrativo (in concreto) esistente, cui la condotta successiva si ricollega in senso causale, mentre «sussiste la giurisdizione del giudice ordinario per quelle condotte connesse per mera occasionalità a quelle indispensabili per la realizzazione dell’opera pubblica, compiute su immobili fin dall’origine esclusi dall’oggetto di questa»; in altri termini, l’insussistenza dell’esercizio – nemmeno “mediato” – del potere amministrativo rende allora recessiva l’esigenza di concentrazione davanti ad un unico giudice (amministrativo) dell’intera tutela del cittadino avverso le modalità di esercizio della pubblica funzione.

In tema di cd. acquisizione sanante ex art. 42-bis T.U. espropriazioni, Sez. U, n. 15343/2018, Manna A., Rv. 649624-01, ribadisce la recente Sez. U, n. 15283/2016, De Chiara, Rv. 640702-01, affermando che, ove si discuta unicamente della quantificazione dell’importo dovuto in applicazione della citata norma, sussiste la giurisdizione del giudice ordinario e le relative controversie sulla determinazione e corresponsione dell’indennizzo, globalmente inteso, sono devolute, in unico grado, alla corte di appello, «secondo una regola generale dell’ordinamento di settore per la determinazione giudiziale delle indennità, dovendosi interpretare in via estensiva l’art. 29 del d.lgs. n. 150 del 2011, tanto più che tale norma non avrebbe potuto fare espresso riferimento a un istituto – quale quello della acquisizione sanante – introdotto nell’ordinamento solo in epoca successiva». Ma il pendolo della giurisdizione torna verso il plesso amministrativo se la domanda risarcitoria e ripristinatoria attenga ad aree estranee al decreto di acquisizione sanante, atteso il rapporto “mediato” con l’esercizio del pubblico potere (espresso dalla dichiarazione di pubblica utilità dell’opera in relazione all’intera area), residuando la giurisdizione del giudice ordinario per le domande relative alle aree oggetto del decreto ex art. 42-bis, ed in particolare alla corte d’appello in unico grado, non ostandovi la preclusione ex art. 38 c.p.c. (così Sez. U, n. 33539/2018, Di Virgilio, Rv. 652238-01).

3. Effetti dell’espropriazione per i terzi.

Sull’estensione degli obblighi propriamente indennitari si segnala l’interessante Sez. 1, n. 25551/2018, Marulli, Rv. 650767-01: nel ribadire un risalente orientamento (Sez. 1, n. 14205/2009, Salvago, Rv. 608667-01) la pronuncia afferma che non è dovuto alcun risarcimento o indennità al terzo che, in virtù di un diritto personale di godimento sull’immobile legittimamente espropriato, vi svolga un’attività imprenditoriale, in quanto gli obblighi indennitari si rivolgono esclusivamente all’espropriato, non essendo previsto dalla legge alcun ristoro per le conseguenze economiche derivanti dalla dissoluzione dell’attività aziendale dovuta al provvedimento ablativo, le quali risultano, pertanto, regolate esclusivamente dal rapporto negoziale tra proprietario espropriato e terzo titolare del diritto di godimento estinto.

Analogamente – sia pure con riferimento alla posizione del proprietario coltivatore diretto – Sez. 1, n. 19753/2018, Sambito, Rv. 649952-01, secondo cui, nel caso di attribuzione della vocazione edificatoria al suolo sul quale è esercitata un’impresa agricola, la liquidazione dell’indennità di esproprio deve essere rapportata esclusivamente al valore venale del bene espropriato, sicché al proprietario coltivatore diretto spetta l’indennità aggiuntiva ex art. 37, comma 9, T.U. espropriazioni, non già il ristoro per la perdita subita a causa della cessazione o riduzione dell’attività d’impresa, che non è in sé mai oggetto del provvedimento ablatorio.

4. La determinazione dell’indennità di espropriazione. A) La qualificazione delle aree.

In generale, sul tema centrale dell’incidenza dei vincoli urbanistici, le pronunce intervenute nel corso del 2018 ribadiscono e consolidano ricevuti principi. Costante, in particolare, il richiamo alle caratteristiche fattuali e giuridiche del bene alla data del decreto di esproprio, nonché all’esatta considerazione della natura del vincolo, conformativo ovvero espropriativo, ai fini della corretta determinazione dell’indennizzo fondata su dati concreti e non inficiata da astrattezza (Sez. 1, n. 04100/2018, Iofrida, Rv. 648135-01; Sez. 1, n. 16084/2018, Sambito, Rv. 649574-01; Sez. 1, n. 21914/2018, Mercolino, Rv. 650581-01).

Più in particolare, sull’incidenza, ai fini della determinazione dell’indennità di espropriazione, dell’inclusione dell’area ablata in un piano di insediamento industriale (P.I.P.) o di edilizia economica e popolare (P.E.E.P.), sia consentito menzionare Sez. 1, n. 14632/2018, Mucci, Rv. 648940-01, confermativa, sulla scorta di Sez. 1, n. 25718/2011, Salvago, Rv. 620710-01, dell’inedificabilità del terreno espropriato ricadente in una fascia di rispetto stradale, in quanto limitazione legale della proprietà a carattere generale, prescindente dalla collocazione del terreno all’interno di un P.I.P. o di un P.E.E.P. A sua volta, Sez. 1, n. 15693/2018, Lamorgese, Rv. 649136-01, ribadendo l’insegnamento di Sez. 1, n. 13958/2006, Benini, Rv. 590694-01, e (sul tema degli oneri di urbanizzazione) di Sez. 1, n. 16750/2013, Ceccherini, Rv. 627265-01, afferma che nell’espropriazione di terreni edificabili inseriti in un P.I.P., la detrazione degli oneri di urbanizzazione dal valore del fondo assume rilevanza esclusivamente se la valutazione sia stata effettuata applicando il metodo analitico-ricostruttivo, che è volto a determinare il valore di trasformazione dell’area espropriata, mentre non rileva se la stima sia stata effettuata applicando il metodo sintetico-comparativo, che si avvale di indicazioni di mercato concernenti il prezzo pagato per immobili omogenei. Sez. 1, n. 29873/2018, Marulli (in corso di rimassimazione per problemi tecnici del sito), ribadisce nuovamente, con riferimento ai P.I.P., il principio affermato da Sez. 1, n. 22421/2008, Del Core, Rv. 604607-01, relativamente ai P.E.E.P.: nella determinazione dell’indennità di espropriazione di un fondo edificabile inserito in un P.I.P., la valutazione delle possibilità legali ed effettive di edificazione va fatta, analogamente a quanto avviene per i terreni inclusi in un P.E.E.P., tenendo presente che i volumi realizzabili non possono essere quantificati applicando senz’altro l’indice fondiario di edificabilità, il quale è riferito alle singole aree specificamente destinate alla edificazione privata dallo strumento urbanistico attuativo, ma, poiché ai fini dell’esercizio concreto dello ius aedificandi è necessario che l’area sia urbanizzata, occorre tener conto dell’incidenza degli spazi riservati (secondo le prescrizioni dello strumento urbanistico attuativo) ad infrastrutture e servizi di interesse generale, ciò può anche essere espresso ricorrendo a indici medi di edificabilità riferiti all’intera zona omogenea, con la conseguenza che tutti i terreni espropriati in ambito P.I.P. (o P.E.E.P., secondo il precedente citato) percepiscono la stessa indennità, calcolata su una valutazione del fondo da formulare sulla potenzialità edificatoria media di tutto il comprensorio, vale a dire dietro applicazione di un indice di fabbricabilità (territoriale) che sia frutto del rapporto fra spazi destinati agli insediamenti residenziali e spazi liberi o, comunque, non suscettibili di edificazione per il privato, mentre l’indice fondiario trova piena applicazione ove l’area da valutare sia collocata in comprensorio già totalmente urbanizzato, per il quale, dunque, non è necessario lo strumento urbanistico attuativo, ancorché previsto dal P.R.G.

Infine, per un’interessante fattispecie relativa alla determinazione della volumetria complessivamente edificabile con inclusione dei parcheggi ulteriori rispetto a quelli pertinenziali obbligatori previsti dal P.E.E.P., si v. Sez. 1, n. 25999/2018, Mercolino, Rv. 651446-01.

4.1. (segue). B) La stima.

Sui metodi di stima e, più in generale, sul criterio del valore di mercato, Sez. 1, n. 04711/2018, Iofrida, Rv. 647742-01, ribadisce che l’adozione del metodo analitico-ricostruttivo comporta l’accertamento dei volumi realizzabili sull’area basato non sull’indice fondiario di edificabilità, bensì su quello che individua la densità territoriale della zona, poiché solo mediante la sua applicazione si include nel calcolo la percentuale degli spazi riservati ad infrastrutture e servizi a carattere generale, oltre che le spese di urbanizzazione relative alle opere poste in essere dalla P.A. le quali assicurino l’immediata utilizzazione edificatoria dell’area.

Quanto al metodo sintetico-analitico, Sez. 1, n. 11196/2018, Lamorgese, Rv. 648452-01, evidenzia (rifacendosi al remoto precedente di cui a Sez. 1, n. 02392/1990, Ruggiero, Rv. 466122-01) come detto metodo sia quello che meglio di ogni altro risponde alla finalità dell’accertamento del “giusto prezzo in una libera contrattazione di compravendita” poiché si basa sull’effettiva realtà del mercato per immobili di caratteristiche identiche o similari alla data di riferimento, venendone il valore desunto da dati economici concreti, a prescindere dalla condizione giuridica del bene (sul criterio generale del valore venale pieno anche in relazione alle possibilità di utilizzazione “intermedie” tra l’agricola e l’edificatoria, ad esempio quali parcheggi, depositi, attività sportive e ricreative, chioschi per la vendita, si v. Sez. 1, n. 19295/2018, Mercolino, Rv. 649681-01).

Sullo specifico profilo del valore venale della casa di abitazione mette conto segnalare la peculiare Sez. 1, n. 27934/2018, Mercolino, Rv. 651450-01: detto valore, ossia il valore di mercato del bene, deve essere determinato attraverso indagini e sulla base dei criteri della scienza estimativa, i quali non tengono conto della maggiore spesa che l’espropriato dovrebbe sostenere per l’acquisto e la sistemazione di un altro bene conforme alle proprie esigenze abitative, trattandosi di elementi soggettivi di valutazione, forieri di disparità di trattamento tra proprietari di beni aventi caratteristiche omogenee e comunque idonei a far sorgere complicazioni nel procedimento di stima, ispirato invece a finalità di semplificazione ed accelerazione.

4.2. (segue). C) Le aree agricole.

Possono segnalarsi due pronunce in tema di indennità aggiuntiva ex art. 17 l. n. 865 del 1971. Sez. 1, n. 20523/2018, Lamorgese, Rv. 651296-01, collega il requisito della coltivazione diretta del fondo, a far data da almeno un anno prima del giorno in cui è stato reso noto il programma espropriativo, alla dichiarazione di pubblica utilità attinente alla procedura espropriativa effettivamente giunta a compimento, rimanendo irrilevanti precedenti procedure espropriative mai portate a termine, con riferimento alle quali l’affittuario coltivatore diretto non possedeva ancora i requisiti per accedere all’indennità. A sua volta, Sez. 1, n. 28788/2018, Bisogni, Rv. 651508-01, ribadisce, sulla scorta di Sez. 1, n. 04784/2012, Salvago, Rv. 621972-01, che, ai fini dell’erogazione concreta dell’indennità aggiuntiva in questione, spetta al richiedente provare l’utilizzazione diretta agraria del terreno, ravvisabile in tutte quelle ipotesi in cui la coltivazione del fondo da parte del titolare avviene con prevalenza del lavoro proprio e di persone della sua famiglia, nonché l’esistenza di uno dei rapporti agrari tipici.

5. L’indennizzo per la reiterazione dei vincoli.

Come anticipato in premessa, sul tema è intervenuta l’importante Sez. 1, n. 12468/2018, Lamorgese, Rv. 648780-01, così massimata: «La reiterazione dei vincoli scaduti preordinati all’esproprio o sostanzialmente espropriativi, oltre il limite temporale consentito, è riconducibile a un’attività legittima della P.A., la quale è tenuta a svolgere una specifica ed esaustiva indagine sulle aree incise, tenendo conto delle loro caratteristiche in concreto, al fine di determinare nell’atto medesimo, quantomeno in via presuntiva, e poi di liquidare, un indennizzo in misura non simbolica, che ripaghi il proprietario della diminuzione del valore di mercato o delle possibilità di utilizzazione dell’area rispetto agli usi o alle destinazioni ai quali essa era concretamente, o anche solo potenzialmente, vocata; a tali accertamenti provvede il giudice del merito nei casi in cui la liquidazione sia omessa dalla P.A., o sorgano contestazioni sulla misura dell’indennizzo liquidato in favore del proprietario ma al privato non si richiede di fornire la prova di aver subito un danno ingiusto, competendogli un indennizzo per il sacrificio sofferto in conseguenza di un atto lecito della P.A., e non il risarcimento del danno conseguente ad un atto illecito». Si tratta, in buona sostanza, della prima pronuncia di legittimità che, muovendo da Corte cost., 20 maggio 1999, n. 179 (con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale delle disposizioni della legge urbanistica che consentivano alla P.A. di reiterare i vincoli urbanistici scaduti, preordinati all’espropriazione o comportanti l’inedificabilità, senza la previsione di indennizzi), propone (a differenza delle rare pronunce di legittimità intervenute in argomento, eccezion fatta per l’isolato precedente di cui a Sez. 1, n. 8530/2010, Panebianco, Rv. 613180-01) un’interpretazione dell’art. 39 T.U. espropriazioni sciolta dalla necessità per il privato di provare, sia in sede amministrativa che giudiziale, il pregiudizio in caso di reiterazione del vincolo espropriativo, così superando una lettura della norma sostanzialmente “protettiva” delle esigenze di finanza pubblica – fin qui prevalsa – in favore di una maggiore attenzione (che sembra essere condivisa dal Consiglio di Stato: Ad. plen., 4 maggio 2018, n. 5; Sez. VI, 6 marzo 2018, n. 1457) per le conseguenze economiche dell’agire amministrativo che, con la reiterazione del vincolo, verosimilmente arreca al privato un pregiudizio non tollerabile – e, come tale, indennizzabile – quanto meno sul versante della concreta commerciabilità del bene e dunque del suo valore di scambio. In attesa di verificare le future concrete ricadute di tale innovativo orientamento, sembra invece collocarsi in una prospettiva di meno immediata tutela del privato la successiva Sez. 1, n. 15162/2018, De Marzo, Rv. 649562-01.

Ancora sull’indennizzabilità della reiterazione del vincolo, Sez. 1, n. 26644/2018, Caiazzo, Rv. 651444-01, puntualizza – ribadendo il principio già affermato da Sez. 1, n. 22992/2014, Benini, Rv. 632687-01 – che nell’ipotesi in cui l’originario vincolo di in edificabilità, scaduto per decorso del termine quinquennale, sia stato reiterato, ciò può dare diritto alla corresponsione di una speciale indennità, peraltro distinta da quella di espropriazione, restando invece inapplicabile il criterio dell’edificabilità di fatto che resta riservato all’ipotesi in cui, conclusasi la vicenda ablatoria, persista una situazione di carenza di pianificazione dell’area.

6. L’opposizione alla stima.

Numerose, come di consueto, le pronunce che si diffondono sui temi più squisitamente processuali.

Sulla competenza della corte d’appello in unico grado per i giudizi in questione, Sez. 6-1, n. 2693/2018, Mercolino, Rv. 647367-01, ribadisce il principio, già affermato da Sez. 1, n. 18450/2011, Macioce, Rv. 619562-01, secondo cui detta speciale competenza si estende anche alla domanda avente ad oggetto il riconoscimento dell’indennità aggiuntiva in favore del fittavolo, colono, mezzadro o compartecipante, indennità pur autonoma rispetto alla prima (in quanto caratterizzata da una funzione compensativa del sacrificio sopportato a causa della definitiva perdita del terreno), ancorché avente anch’essa titolo diretto nel provvedimento ablatorio.

Sulla legittimazione ad agire, Sez. 1, n. 05900/2018, Marulli, Rv. 648779-01, afferma, nella particolare fattispecie dell’espropriazione di beni condominiali, la legittimazione dell’amministratore del condominio, se autorizzato a maggioranza dall’assemblea condominiale, a costituirsi nel relativo giudizio di opposizione alla stima; l’assemblea condominiale è infatti organo dotato di competenza decisoria a carattere generale nella gestione dei beni facenti parte del patrimonio comune, con conseguente potestà deliberativa (a maggioranza) anche in ordine all’assunzione delle liti processuali che li riguardano, non richiedendo in tal caso la legge la maggioranza qualificata o l’unanimità dei condomini. Ancora sulla legittimazione, ma in termini generale, Sez. 1, n. 11546/2018, Cirese, Rv. 648927-01, afferma che, ai sensi dell’art. 57 T.U. espropriazioni, non sussiste la legittimazione passiva dell’ente espropriante qualora la dichiarazione di pubblica utilità sia intervenuta anteriormente all’entrata in vigore (30 giugno 2003) del medesimo T.U. Infine, per Sez. 1, n. 04198/2018, De Marzo, Rv. 647423-01, il proprietario del bene espropriato, mentre non ha azione nei confronti dell’espropriante per il pagamento dell’indennità di esproprio versata a chi appariva proprietario apparente, potendo in tal caso agire per l’indebito esclusivamente nei confronti dell’accipiens, ha invece legittimazione attiva nei confronti dell’espropriante per domandare la determinazione dell’indennità medesima, al fine di conseguire la differenza tra quanto giudizialmente riconosciuto e quanto già erogato in favore del proprietario apparente.

Sulla domanda, Sez. 1, n. 19758/2018, Campanile, Rv. 649907-01, riprendendo l’insegnamento di Sez. 1, n. 3909/2011, Di Virgilio, Rv. 616823-01, chiarisce che le opposizioni alla stima dell’indennità di occupazione e quelle all’indennità di espropriazione contengono domande distinte ed autonome, avuto riguardo alle diversità delle relative causae petendi (privazione del godimento del bene occupato; ablazione di quello espropriato), sicché nei rapporti tra i due giudizi può assumere efficacia di cosa giudicata esclusivamente la qualificazione giuridica del terreno, quale antecedente logico-giuridico della statuizione sull’indennità di occupazione legittima, non l’accertamento del suo valore di mercato.

Sul termine di decadenza di trenta giorni per proporre l’opposizione alla stima, Sez. 1, n. 03074/2018, Sambito, Rv. 646722-01 – sviluppando le premesse poste da Sez. 1, n. 10446/2017, Lamorgese, Rv. 644974-01, e Sez. 1, n. 05517/2017, Marulli, Rv. 644652-01, circa il generale rilievo del diritto del proprietario di percepire il giusto indennizzo ex art. 42 Cost. – afferma che detto termine di decadenza, postulando la determinazione dell’indennità definitiva con il decreto di esproprio o con l’eventuale stima peritale a questo successiva, non può operare per la diversa ipotesi di azione giudiziale per la determinazione dell’indennità in assenza di stima definitiva. In argomento sovviene anche Sez. 1, n. 28791/2018, Bisogni, Rv. 651452-01, che, conformandosi a Sez. 6-1, n. 4880/2011, Forte, Rv. 617034-01, ribadisce la diversa natura, rispettivamente dilatoria e perentoria, dei due termini ex artt. art. 27, comma 2, e 54, comma 2, del T.U. espropriazioni, imponendo il primo termine alle parti del procedimento di agire per la determinazione giudiziale dell’indennità almeno trenta giorni dopo la comunicazione del deposito della relazione di stima, fermo restando tale potere di agire fino alla scadenza dell’altro termine (perentorio), decorrente dalla notificazione del decreto di esproprio o della relazione di stima, se successiva all’atto ablatorio.

Sulla decisione, Sez. 6-1, n. 13248/2018, Valitutti, Rv. 649543-01, puntualizza, in accordo con il suo carattere meramente determinativo dell’indennità (su cui già Sez. 1, n. 19323/2013, Giancola, Rv. 627631-01, e Sez. 1, n. 10785/1997, Papa, Rv. 509450-01), che il dispositivo, qualora sia privo dell’ordine di deposito delle somme, può essere integrato in via di correzione dell’errore materiale ex art. 287 c.p.c., avendo appunto tale pronuncia natura non discrezionale, bensì necessaria ed accessoria al decisum, la cui utilità verrebbe del tutto frustrata senza il detto ordine di deposito.

7. La determinazione consensuale dell’indennità.

Tratteggia la natura dell’accordo sull’ammontare dell’indennità di espropriazione Sez. 1, n. 15159/2018, De Marzo, Rv. 649561-01: tale accordo, come la cessione volontaria, ha natura negoziale pubblica, derivante dall’inserimento dell’accettazione nel procedimento ablatorio, integrandolo ed essendone condizionate alla sua conclusione o alla stipulazione della cessione volontaria ovvero all’emanazione del decreto di esproprio, ciò che implica altresì l’inderogabilità dei criteri di liquidazione dell’ammontare del corrispettivo.

Da tale complessa natura consegue, secondo Sez. 1, n. 27303/2018, Mercolino, Rv. 651466-01, che all’espropriato è ben vero accordata una facoltà di scelta tra l’accettazione dell’indennità offerta e la contestazione giudiziaria della stessa, ma non gli è consentito d’invocare il pagamento dell’acconto e di rifiutare o contestare l’indennizzo offerto dall’espropriante, non tollerando l’accettazione l’apposizione di termini o condizioni, intrinsecamente incompatibili non solo con la portata vincolante dell’accordo nei rapporti tra l’espropriante e l’espropriato, sia pure condizionatamente all’emissione del decreto di espropriazione, ma anche con la finalità pubblicistica della sollecita conclusione del procedimento ablatorio.

8. La retrocessione.

Al riguardo, Sez. 1, n. 05574/2018, Sambito, Rv. 647750-01, nel ribadire il principio già affermato da Sez. 1, n. 9899/2004, Salvago, Rv. 573057-01, afferma che il prezzo di retrocessione va determinato con riferimento al momento della pronuncia di retrocessione, integrando da tale data un debito di valuta, in relazione al quale non opera il meccanismo automatico della rivalutazione, giacché gli eventuali effetti negativi della mora restano regolati dall’art. 1224 c.c.; ciò in quanto la retrocessione dei beni espropriati attua un nuovo trasferimento di proprietà, con efficacia ex nunc, del bene espropriato e non utilizzato dall’espropriante, in conseguenza dell’esercizio del diritto potestativo di ritrasferimento del bene da parte dell’espropriato.

9. Le espropriazioni illegittime.

Sul tema, l’indirizzo complessivamente espresso dalla Prima Sezione appare orientato a garantire pienezza di tutela alle situazioni dominicali illegittimamente incise da provvedimenti ablatori esorbitanti dalla «buona e debita forma» inderogabilmente richiesta dalla giurisprudenza sovranazionale della CEDU.

In particolare, Sez. 1, n. 12846/2018, Marulli, Rv. 648781-01, muovendo dalle fondamentali acquisizioni a suo tempo fissate da Sez. U, n. 0735/2015, Di Amato, Rv. 634017-01 – e pur richiamando la distinzione (ormai solamente descrittiva, alla luce del cennato arresto delle Sezioni Unite) tra occupazione appropriativa (irreversibile trasformazione del fondo in assenza del decreto di esproprio) e occupazione usurpativa (trasformazione in mancanza, originaria o sopravvenuta, della dichiarazione di pubblica utilità) – afferma che, nel caso di proposizione dell’azione di risarcimento del danno da occupazione usurpativa, è ammissibile la riqualificazione della domanda, anche da parte del giudice, come relativa ad una occupazione appropriativa, in quanto entrambe fonte di responsabilità risarcitoria della P.A. ex art. 2043 c.c. In tal modo la pronuncia in esame, intervenendo nel dissidio manifestatosi tra Sez. 1, n. 13515/2014, Benini, Rv. 631518-01 (sulla diversità di causa petendi tra le due domande) e Sez. 1, n. 07137/2015, Di Amato, Rv. 634947-01 (sull’assimilabilità delle causae petendi in relazione alla comune “illegittimità” dell’occupazione; si v. anche, in tal senso, Sez. 1, n. 22929/2017, Sambito, Rv. 645525-02), opta coerentemente per quest’ultimo più recente indirizzo consolidandolo.

Su analoga linea si pone la pressoché coeva Sez. 1, n. 13681/2018, Lamorgese, Rv. 648904-01, secondo cui la domanda tesa ad ottenere il risarcimento del danno per l’occupazione illegittima in difetto del decreto di occupazione o di esproprio non è una domanda nuova, essendo implicitamente compreso, nell’originaria domanda risarcitoria, sia il danno per la perdita della proprietà sia quello per l’illegittima occupazione anche delle aree non irreversibilmente trasformate.

Sulle modalità di liquidazione del danno Sez. 1, n. 12961/2018, Sambito, Rv. 648566-01, rifacendosi anch’essa alle linee giurisprudenziali sopra richiamate, sussume occupazione acquisitiva e usurpativa sotto il comune denominatore dell’illecito a carattere permanente (inidoneo a comportare l’acquisizione autoritativa alla mano pubblica del bene occupato), che cessa tuttavia in caso di rinunzia del proprietario al suo diritto, implicita nella richiesta di risarcimento dei danni per equivalente, sicché il danno va ristorato con riferimento al valore del bene al momento della domanda – che segna appunto la perdita della proprietà – «e la somma risultante, trattandosi di debito di valore, sarà sottoposta a rivalutazione monetaria fino alla data della sentenza, con possibilità di riconoscere sulla medesima somma rivalutata, quale lucro cessante, gli interessi decorrenti dalla data del fatto illecito, non necessariamente commisurati al tasso legale, ma ispirati a criteri equitativi, e computati con riferimento ai singoli momenti riguardo ai quali la somma equivalente al bene perduto si incrementa nominalmente, per effetto dei prescelti indici di valutazione, ovvero in base ad un indice medio».

La pienezza del ristoro è al centro anche di Sez. 1, n. 24101/2018, Lamorgese, Rv. 650763-01: al proprietario di terreni legittimamente occupati, poi irreversibilmente trasformati ed acquisiti illegittimamente dalla P.A., il quale abbia chiesto di essere indennizzato per l’indisponibilità dei beni per l’intera durata dell’occupazione, deducendone l’illegittimità, è dovuta, in aggiunta al risarcimento del danno per l’occupazione illegittima, anche l’indennità di occupazione legittima (si v. già, in argomento, Sez. 1, n. 16162/2007, Benini, Rv. 600777-01).

Nella medesima prospettiva può infine citarsi anche Sez. 1, n. 29992/2018, Sambito, Rv. 651802-01, la quale, riprendendo quanto da ultimo affermato da Sez. 1, n. 06296/2014, Di Virgilio, Rv. 630506-01, ribadisce che, dovendosi parametrare il risarcimento del danno da illegittima occupazione di suoli non edificabili al valore di mercato del bene, non occorre che l’espropriato alleghi anche le possibilità di sfruttamento intermedio tra quello agricolo e quello edificatorio, perché, nel pretendere tale prova, si finirebbe con l’introdurre un inammissibile fattore di correzione del criterio del valore di mercato, con l’effetto indiretto di ripristinare l’applicazione di astratti e imprecisati valori agricoli. Del resto, Sez. 6-1, n. 08645/2018, Marulli, Rv. 649502-01, ha in precedenza affermato che, in materia di liquidazione del danno da occupazione appropriativa, è comunque necessario il previo accertamento della natura dell’area occupata, rurale o edificatoria, con la conseguenza che la relativa questione è sempre ricompresa nell’oggetto del giudizio, sicché non si dà extrapetizione ove il giudice del merito abbia deciso sulla natura dei suoli in assenza di esplicita domanda.

9.1. (segue). L’acquisizione “sanante”.

Al riguardo, oltre alle pronunce in tema di giurisdizione, mette conto segnalare Sez. 1, n. 13988/2018, Marulli, Rv. 649163-02): qualora venga emanato un provvedimento di acquisizione sanante delle aree oggetto di occupazione illegittima, sono improponibili separate domande per l’indennità da occupazione illegittima e il risarcimento del danno, poiché l’indennità di indebita occupazione non può andare disgiunta dall’indennità spettante per la materiale perdita del bene in ragione della sua irreversibile trasformazione in difetto di dichiarazione di pubblica utilità o in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio, essendo ambedue le indennità contemplate dal comma 3 dell’art. 42-bis T.U. espropriazioni e costituendo esse altrettante voci del complessivo indennizzo per il pregiudizio patrimoniale. Tanto è stato affermato a mente del principio enunciato da Sez. 1, n. 11258/2016, Lamorgese, Rv. 639787-01, secondo cui l’emanazione di un provvedimento di acquisizione sanante delle aree oggetto di occupazione illegittima determina l’improcedibilità delle domande di restituzione e di risarcimento del danno proposte in relazione ad esse, «salva la formazione del giudicato non solo sul diritto del privato alla restituzione del bene, ma anche sulla illiceità del comportamento della P.A. e sul conseguente diritto del primo al risarcimento del danno. Invero, il provvedimento ex art. 42-bis è volto a ripristinare (con effetto ex nunc) la legalità amministrativa violata – costituendo, pertanto, una extrema ratio per la soddisfazione di attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico e non già il rimedio rispetto ad un illecito –, sicché è necessario che venga adottato tempestivamente e, comunque, prima che si formi un giudicato anche solo sull’acquisizione del bene o sul risarcimento del danno, venendo altrimenti meno il potere attribuito dalla norma all’Amministrazione».

  • appalto pubblico

CAPITOLO XXVII

APPALTI PUBBLICI

(di Stefano Pepe )

Sommario

1 Appalto pubblico, premessa. - 1.1 Il quadro normativo. - 1.2 La giurisdizione: cenni. - 2 Appalto pubblico e rilevanza degli atti estranei al contenuto del contratto adottati dalla P.A. Responsabilità dell’ente appaltante: natura e limiti. - 3 Esecuzione del contratto. Le patologie del rapporto contrattuale. Riserve, sospensioni, risoluzione e recesso. - 4 Appalto di opere pubbliche, subappalto. Disciplina applicabile.

1. Appalto pubblico, premessa.

Prima di passare all’esame dei principi affermati dalla Corte di cassazione nel corso dell’anno 2018 in materia di appalti pubblici, in ragione della particolarità e complessità della materia non può non tenersi conto, da un lato, che il quadro normativo di riferimento è stato nel tempo oggetto di successive e articolate modificazioni e, dall’altro, dei limiti entro i quali opera la giurisdizione del giudice ordinario rispetto a quella del giudice amministrativo.

1.1. Il quadro normativo.

Quanto al primo aspetto va osservato che alla prima legge sulle opere pubbliche, l. n. 2248 del 1865, ha fatto seguito la legge quadro sui lavori pubblici, l. n. 109 del 1994, che aveva lo scopo di creare una disciplina omogenea in materia di lavori pubblici. A seguito di tale legge, il d.m. n. 145 del 2000 ha introdotto il nuovo capitolato generale d’appalto e il d.P.R. n. 34 del 2000 ha definito il sistema di qualificazione delle imprese e altre normative di carattere tecnico.

Nel 2004 l’Unione Europea ha, poi, adottato la direttiva 2004/18/CE (abrogata dalla nuova direttiva 2014/24/UE) che riunisce le procedure per l’aggiudicazione degli appalti nei tre settori dei lavori, dei servizi e delle forniture quale obiettivo di semplificazione e snellimento delle procedure; direttive che il d.lgs. 163 del 2006 (codice dei contratti pubblici di lavori, servizi, forniture) ha recepito nel nostro ordinamento. Con l’entrata in vigore del d.P.R. n. 207 del 2010, di esecuzione e attuazione del d.lgs. n. 163 del 2006, si è abrogato il d.P.R. n. 554 del 1999 e il d.P.R. 34 del 2000 di attuazione della l. n. 109 del 1994, e gran parte del d.m. 145 del 2000. In ultimo, il legislatore ha adottato il d.lgs. n. 50 del 2016 che costituisce la fonte normativa di riferimento per quanto riguarda la disciplina di qualsiasi tipo di contratto pubblico di lavori, servizi e forniture. Discende come logica conseguenza da quanto sopra che le sentenze di seguito riportate, seppur riferite a fattispecie in cui risultano applicabili norme formalmente non più attuali, in quanto abrogate da ultimo dal d.lgs. n. 50 del 2016 assumono, comunque, valore di piena attualità, nei casi in cui il loro contenuto è stato sostanzialmente riprodotto in tale ultimo testo normativo.

1.2. La giurisdizione: cenni.

Quanto al secondo aspetto, relativo al reparto di giurisdizione, esso assume rilievo ai fini di comprendere entro quale ambito è riconosciuto al giudice ordinario il potere di decidere le controversie in materia di appalti pubblici.

Sul punto, si riportano in estrema sintesi, in quanto riportate nella specifica parte di questa rassegna dedicata al riparto di giurisdizione, due sentenze con le quali le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno indicato i limiti entro i quali il giudice ordinario è competente a decidere le controversie in materia di appalti pubblici

Con una prima sentenza (Sez. U, n. 13191/2018, Petitti, Rv. 648652-01) si afferma che in tema di appalti pubblici, qualora alla deliberazione di aggiudicazione non sia seguita la stipula della convenzione tra le parti, la controversia introdotta dall’aggiudicatario per ottenere l’accertamento del preteso inadempimento della P.A. ed il risarcimento del danno appartiene alla giurisdizione del giudice amministrativo, avendo pur sempre ad oggetto atti o provvedimenti della procedura concorsuale obbligatoria, nonché relativi all’individuazione del contraente a seguito dell’aggiudicazione. Precisa la sentenza che detta giurisdizione si estende anche a tutti i comportamenti ed atti assunti prima della aggiudicazione e nella successiva fase compresa tra l’aggiudicazione e la stipula del contratto, tra tali atti essendo compreso anche quello di revoca della aggiudicazione stessa.

La giurisdizione del giudice ordinario, quale giudice dei diritti, diviene operativa solo nella successiva fase contrattuale afferente l’esecuzione del rapporto, che si apre con la stipula ovvero con l’inizio della esecuzione del contratto, quale alternativa allo stipula dello stesso. In applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che aveva dichiarato la giurisdizione del giudice amministrativo con riferimento ad una azione risarcitoria proposta, sia a titolo di responsabilità contrattuale che precontrattuale, in un caso in cui, a distanza di sei anni dalla formale aggiudicazione della gara, deliberata e comunicata all’interessato, non era seguita né la stipula né la consegna dei lavori.

Le Sezioni Unite, con una successiva pronuncia (Sez. U, n. 24411/2018, Frasca, Rv. 651341-01), nel riaffermare la giurisdizione del giudice ordinario sulla controversia avente ad oggetto il provvedimento di decadenza dall’aggiudicazione di un pubblico appalto (per inadempimento contestato in sede di anticipata esecuzione del contratto), operano una generale ricognizione dei criteri di riparto di giurisdizione nella materia degli appalti pubblici, giungendo alla conclusione che la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo arriva fino all’atto di aggiudicazione definitiva, non potendo estendersi al segmento procedimentale successivo che precede la stipula del contratto. In particolare, viene precisato che in tema di affidamento di un pubblico servizio, nella vigenza del d.lgs. n. 163 del 2006, la giurisdizione amministrativa esclusiva indicata dall’art. 133, comma 1, lett. e), n. 1, del d.lgs. n. 104 del 2010 concerne solo le controversie relative al procedimento di scelta del contraente fino al momento in cui acquista efficacia l’aggiudicazione definitiva, mentre le controversie vertenti sull’attività successiva, anche se precedente alla stipula del contratto, seguono l’ordinario criterio di riparto, imperniato sulla distinzione tra diritto soggettivo ed interesse legittimo, da individuare con riferimento alla posizione che la domanda è diretta a tutelare sotto il profilo del petitum sostanziale. Ne consegue che la controversia vertente su un provvedimento di “decadenza dall’aggiudicazione” adottato dalla P.A. dopo l’efficacia dell’aggiudicazione definitiva e prima della stipula del contratto, è soggetta alla giurisdizione del giudice ordinario, atteso che quel provvedimento, non essendo riconducibile all’esercizio di un potere autoritativo, può qualificarsi, alternativamente, come atto dichiarativo dell’intervenuta risoluzione per inadempimento di un accordo concluso mediante esecuzione anticipata, ovvero, in difetto di quest’ultima, come recesso dalle trattative dirette alla stipula del contratto dopo l’aggiudicazione, rimanendo comunque espressione di un potere di natura privatistica.

2. Appalto pubblico e rilevanza degli atti estranei al contenuto del contratto adottati dalla P.A. Responsabilità dell’ente appaltante: natura e limiti.

Fatte le sopra riportate premesse, la Corte di cassazione si è occupata di un tema rilevante in materia di appalti pubblici e, in particolare, della rilevanza di atti estranei al contenuto del contratto di appalto adottati dalla P.A. rispetto all’assetto di interessi oggetto del contratto stesso. Sez. 1, n. 11190/2018, Mercolino, Rv. 649029-01, ha ribadito un principio secondo cui, in tema di contratti degli enti pubblici, stante il requisito della forma scritta imposto a pena di nullità per la stipulazione di tali contratti, la volontà degli enti predetti dev’essere desunta esclusivamente dal contenuto dell’atto, interpretato secondo i canoni ermeneutici di cui agli artt. 1362 ss. c.c., non potendosi fare ricorso alle deliberazioni degli organi competenti, le quali, essendo atti estranei al documento contrattuale, assumono rilievo ai soli fini del procedimento di formazione della volontà, attenendo alla fase preparatoria del negozio e risultando pertanto prive di valore interpretativo o ricognitivo delle clausole negoziali, a meno che non siano espressamente richiamate dalle parti; né può aversi riguardo, per la determinazione della comune intenzione delle parti ex art. 1362, comma 2, c.c., alle deliberazioni adottate da uno degli enti successivamente alla conclusione del contratto ed attinenti alla fase esecutiva del rapporto, in quanto aventi carattere unilaterale.

Sempre con riferimento alla rilevanza degli atti e della condotta della P.A. nella fase antecedente alla stipula del contratto, assume rilievo Sez. 1, n. 19775/2018, Cirese, Rv. 649953-01, con la quale la Corte di cassazione ha affrontato il tema della natura della responsabilità della P.A. nel caso in cui essa abbia individuato in modo erroneo il contraente di un contratto di appalto. Sul punto la Corte, ha affermato che per effetto dell’annullamento dell’aggiudicazione da parte del giudice amministrativo del contratto di appalto, questo diviene inefficace e tamquam non esset e perciò espone la P.A. a dover corrispondere il risarcimento dei danni per le perdite e i mancati guadagni subiti dal privato aggiudicatario. In ordine alla natura di tale responsabilità la Corte ha precisato che essa non è qualificabile né come aquiliana, né come contrattuale in senso proprio, sebbene a questa si avvicini poiché consegue al contatto tra le parti nella fase procedimentale anteriore alla stipula del contratto, ed ha origine nella violazione del dovere di buona fede e correttezza. Alla luce di quanto sopra, conclude il collegio affermando che il risarcimento del danno dovuto all’appaltatore va parametrato non già alla conclusione del contratto, bensì al cd. interesse contrattuale negativo che copre sia il danno emergente, ovvero le spese sostenute, che il lucro cessante, da intendersi, però, non come mancato guadagno rispetto al contratto non eseguito ma in riferimento ad altre occasioni di contratto che la parte allega di avere perso.

Rilevante ai fini della delimitazione della responsabilità dell’amministrazione che si presta a concludere un contratto di appalto per opera pubblica è, poi, Sez. 1, n. 28799/2018, Iofrida, Rv. 651454-01, con la quale la Corte ha precisato che incombe sulla P.A. l’obbligo di predisporre un contratto esecutivo immediatamente “cantierabile”, cioè concernente un’opera che non necessita di ulteriori specificazioni per essere realizzata, in quanto contenente la puntuale e dettagliata descrizione e rappresentazione dell’opera stessa, discendendo tale obbligo da una fonte legale (l., n. 109 del 1994, artt. 16, 17 e 19, nel testo modificato dalla l. n. 415 del 1998) che, rispondendo a finalità pubblicistiche, sono state ritenute, in linea di principio, imperative e non derogabili dai contraenti, se non nei casi e nei modi da esse previsti (Sez. 1, n. 18644/2010, Di Palma, Rv. 614098-01). La Corte ha chiarito che sul piano civilistico esse hanno valore integrativo delle pattuizioni contrattuali concernenti l’individuazione degli obblighi primari di prestazione propri del committente (ex art. 1374 c.c.). Alla luce di tali principi la sentenza in esame ha affermato che l’amministrazione committente, al di fuori dei casi e dei modi specificamente previsti, ha l’obbligo pubblicistico, integrativo delle pattuizioni contrattuali e intrasferibile all’appaltatore, di predisporre un progetto esecutivo immediatamente “cantierabile”, non bisognoso cioè di ulteriori specificazioni, in quanto già contenente la puntuale e dettagliata rappresentazione dell’opera. Deve osservarsi che le norme oggetto di scrutino sono state abrogate dal d.lgs. n. 163 del 2006 e sostanzialmente riprodotte agli artt. 93 ss., norme anch’esse successivamente abrogate dal d.lgs. n. 50 del 2016 che ne ha modificato il contenuto (art. 23).

3. Esecuzione del contratto. Le patologie del rapporto contrattuale. Riserve, sospensioni, risoluzione e recesso.

La Corte di cassazione è intervenuta numerose volte al fine di dirimere controversie nate dall’andamento patologico del contratto di appalto dovuto a riserve, sospensioni dei lavori, varianti di progetto, tutti eventi che determinano un andamento “anomalo” del contratto.

In particolare, le controversie tra appaltatore e amministrazione traggono essenzialmente origine dalle cd. riserve dell’appaltatore e cioè dalle domande di maggiori compensi che l’appaltatore, se non vuole decadere dal relativo diritto (e pertanto dalla possibilità di far valere in qualsiasi tempo e modo la sua pretesa), è tenuto a formulare, secondo le formalità previste, inizialmente dagli artt. 164 ss. del d.P.R. n. 554 del 1999 e, successivamente, dagli artt. 190 e 191 del d.P.R. n. 207 del 2010 (abrogato dal d.m. n. 49 del 2018), nel corso dell’appalto.

In particolare, prima di passare ad esaminare le sentenze che si sono occupate delle controversie relative alle maggior pretese richieste dall’appaltatore nel corso del contratto di appalto e iscritte in apposite riserve, va rilevato che il d.m. 7 marzo 2018, n. 49 all’art. 9 (Contestazioni e riserve) prevede che «il direttore dei lavori, per la gestione delle contestazioni su aspetti tecnici e delle riserve, si attiene alla relativa disciplina prevista dalla stazione appaltante e riportata nel capitolato d’appalto». In ragione di tale disposizione gli enti appaltanti dovranno prevedere (e per loro il progettista dell’opera) nel capitolato d’appalto la disciplina per la gestione delle contestazioni su aspetti tecnici e delle riserve.

Fatte tali necessarie premesse, Sez. 1, n. 11188/2018, Mercolino, Rv. 648925-01, ha precisato che in materia di appalti pubblici, ai sensi degli artt. 164 ss. del d.P.R. n. 554 del 1999, l’appaltatore, il quale pretenda un maggior compenso o rimborso rispetto al prezzo contrattualmente pattuito, a causa di pregiudizi o maggiori esborsi sopportati per l’esecuzione dei lavori, ha l’onere d’iscrivere apposite riserve nella contabilità entro il momento della prima annotazione successiva all’insorgenza della situazione integrante la fonte delle vantate ragioni (e ciò anche con riferimento a quelle situazioni di non immediata portata onerosa, la cui potenzialità dannosa si presenti, fin dall’inizio, obbiettivamente apprezzabile secondo criteri di media diligenza e di buona fede), nonché di esplicarle nel termine di quindici giorni e poi di confermarle nel conto finale, dovendosi altrimenti intendere definitivamente accertate le risultanze della contabilità; ciò per ragioni di tutela della P.A. committente, che, nell’esercizio dei suoi poteri discrezionali, deve essere messa in grado di provvedere immediatamente ad ogni necessaria verifica, al fine di poter valutare, in ogni momento, l’opportunità del mantenimento in vita o del recesso dal rapporto di appalto in relazione al perseguimento dei propri fini d’interesse pubblico (conf. Sez. 1, n. 04718/2018, Mucci, Rv. 647629 – 01). Sez. 1, n. 28801/2018, Iofrida, Rv. 651473-01 ha, poi, affermato che la necessaria iscrizione della riserva contestualmente o immediatamente dopo l’insorgenza del fatto lesivo trova applicazione anche in relazione ai fatti produttivi di un danno continuativo, potendo il quantum essere successivamente indicato. Ne consegue che, ove l’appaltatore non abbia la necessità di attendere la concreta esecuzione dei lavori per avere consapevolezza del preteso maggior onere che tale fatto dannoso comporta, è tardiva la riserva formulata solo nel s.a.l. successivo.

A fronte delle necessarie formalità dal cui rispetto dipende la valida apposizione di riserve, Sez. 6-1, n. 07805/2018, Marulli, Rv. 647902-01, ha precisato che qualora l’appaltatore abbia provveduto ad iscrivere la riserva tardivamente, detta tardività deve essere contestata dall’amministrazione appaltante in quanto, trattandosi di diritto patrimoniale disponibile della P.A., diversamente, è configurabile il tacito riconoscimento dell’altrui pretesa.

La Corte ha, poi, affrontato i limiti posti al potere da parte della P.A. di risolvere un contratto di appalto per inadempimento dell’appaltatore. Sez. 1, n. 04454/2018, Genovese, Rv. 647427-01, dopo aver premesso che gli artt. 340, 341 e 345 della l. n. 2248 del 1865, all. F, si limitano ad attribuire alla P.A. appaltante il potere di risolvere il contratto nei casi in cui, a suo discrezionale giudizio, ritenga che l’appaltatore sia inadempiente, ha, poi, precisato che tali disposizioni non possono ritenersi applicabili senz’altro nell’ipotesi di fallimento dell’appaltatore, salvo che non si sia verificato un precedente inadempimento dello stesso che legittimi l’esercizio del detto potere. In applicazione di tale principio, la S.C. ha ritenuto che, in ipotesi di fallimento dell’appaltatore, il curatore fallimentare, anche se nominato successivamente alla delibera di risoluzione in danno, possa chiedere giudizialmente l’accertamento della preminenza, rispetto a tale vicenda, dello scioglimento del vincolo contrattuale in conseguenza del fallimento.

Diversamente, per quanto attiene ai limiti del potere dell’appaltatore di agire per la risoluzione del contratto per inadempimento della P.A. e, in particolare, in presenza di sospensioni dei lavori disposte da quest’ultima, Sez. 1, n. 15700/2018, Sambito, Rv. 649276-01, ha affermato che tale sospensione giustifica l’applicazione delle norme sull’inadempimento delle obbligazioni e sulla risoluzione del contratto quando essa dipenda da fatto imputabile alla stazione appaltante. Da ciò, nell’ipotesi in cui invece la sospensione sia ab initio legittima e si sia protratta altrettanto legittimamente, perché dipendente da ragioni oggettive, si applica la disciplina dell’art. 30, comma 2, d.P.R. n. 1063 del 1962, in base alla quale l’appaltatore, trascorso il periodo massimo di sospensione, variabile in proporzione alla durata complessiva dei lavori, ha solo la facoltà di chiedere lo scioglimento del contratto e, nel caso in cui l’ amministrazione si sia opposta, ha diritto alla rifusione dei maggiori oneri.

4. Appalto di opere pubbliche, subappalto. Disciplina applicabile.

Altra fattispecie comune in materia di appalto di lavori pubblici è quella in cui l’appaltatore subappalta parte delle opere pubbliche a lui affidate dalla P.A. ad altra impresa.

La facoltà di procedere alla stipulazione di tale tipo di contratto è oggi espressamente prevista dall’art. 105 del d.lgs. n. 50 del 2016, il quale fissa ne fissa i limiti e i contenuti.

In proposito Sez. 1, n. 19296/2018, Mercolino, Rv. 649682-01, secondo un consolidato principio giurisprudenziale, ha affermato che il contratto di subappalto è strutturalmente distinto dal contratto principale, restando sottoposto alla disciplina del codice civile e del negozio voluto dalle parti, non essendo ad esso applicabili, se non attraverso gli eventuali richiami espressi inseriti nell’accordo, le disposizioni pubblicistiche tipiche dell’appalto di opere pubbliche.

Con altra pronuncia (Sez. 1, n. 15786/2018, Cirese, Rv. 649472-01) si è, poi, affermato che deve ritenersi che l’assenso al subappalto dato dal committente all’appaltatore, qualora la stazione appaltante non si sia avvalsa della facoltà di provvedere direttamente al pagamento del corrispettivo al subappaltatore, valga come mera autorizzazione volta a consentire all’appaltatore di soddisfare un interesse ritenuto non in contrasto con le finalità del contratto di appalto e con gli interessi pubblici perseguiti, senza però costituire un nuovo e diverso rapporto tra committente e subappaltatore. Pertanto, deve escludersi la sussistenza di un rapporto diretto tra la committenza e la ditta subappaltatrice avendo l’autorizzazione al subappalto comportato solo la legittimità del consentito contratto di subappalto, senza far sorgere un nuovo soggetto nel rapporto originario. Tale pronuncia, avente ad oggetto quanto disposto dall’art. 18 della l. n. 55 del 1990, riporta, a fondamento del suindicato iter argomentativo, la determinazione n. 7 del 28 aprile 2004 dell’ANAC, avente ad oggetto il mancato pagamento ai subappaltatori, ove si precisa che nessun rapporto giuridico sorge in virtù del contratto di subappalto o della sua autorizzazione tra stazione appaltante e subappaltatore posto che la suddetta autorizzazione comporta solo che il subappalto e` consentito e null’altro: nessuna azione diretta compete, pertanto, alla P.A. nei confronti del subappaltatore e viceversa.

  • società in partecipazione
  • Centro europeo delle imprese a partecipazione pubblica

CAPITOLO XXVIII

LE SOCIETÀ IN HOUSE PROVIDING

(di Eleonora Reggiani )

Sommario

1 Intervento pubblico nell’economia e società a partecipazione pubblica in generale. - 2 Il T.U. in materia di società a partecipazione pubblica. - 3 I tratti distintivi della società in house providing prima e dopo il recepimento delle direttive UE del 2014. - 4 L’azione di responsabilità contro i componenti degli organi sociali e i dipendenti delle società in house. - 5 Il fallimento delle società in house. - 6 L’azione di responsabilità ex art. 146 l. fall. - 7 Altre questioni. Rinvio.

1. Intervento pubblico nell’economia e società a partecipazione pubblica in generale.

Nel periodo compreso tra l’ultimo decennio del XIX secolo e i primi venti anni del XX secolo, la P.A. è intervenuta nell’economia svolgendo attività d’impresa per il tramite delle cd. imprese-organo, qualificabili come organi speciali incardinati nell’ente di appartenenza, dotati di autonomia gestionale e contabile, ma privi di personalità giuridica (salvo eccezionali previsioni di legge). Le figure più diffuse, in ambito statale, sono state quelle delle amministrazioni autonome e, in ambito locale, quelle delle aziende municipalizzate.

Nel secondo dopoguerra, si sono diffusi gli enti pubblici economici, dotati di personalità giuridica e appositamente costituiti per compiere direttamente l’attività imprenditoriale.

Il superamento anche di questa modalità di intervento pubblico nell’economia è stato determinato sia dalla mancanza di una struttura organizzativa in grado di funzionare in modo efficiente, a volte accompagnata da un grave deterioramento dei conti, e sia dalla necessità di adattare le forme di gestione alle prescrizioni imposte dai trattati di Maastricht e di Roma.

Com’è noto infatti, il diritto europeo, pur essendo neutrale in ordine alla natura pubblica o privata dell’attività economica, non ammette, per assicurare la concorrenza nel mercato, riserve di attività in favore della P.A., ovvero l’attribuzione di finanziamenti e di risorse pubbliche, idonee ad alterare il principio del pari trattamento con le imprese private.

È così stato avviato il processo di privatizzazione degli enti pubblici economici.

In particolare, il d.l. n. 333 del 1992 (recante misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), conv., con modif., in l. n. 359 del 1992, ha disposto la trasformazione in s.p.a. di taluni enti pubblici economici (tra gli altri, le Ferrovie dello Stato e le Poste) e ha previsto, che, con delibera del CIPE, potessero essere privatizzati altri.

La permanenza delle partecipazioni in mano pubblica ha per lungo tempo connotato il processo di privatizzazione soltanto in senso formale. La fase che avrebbe dovuto seguire, e cioè quella di dismissione delle partecipazioni mediante la loro collocazione nel libero mercato, ha avuto molte difficoltà, dovute soprattutto al fatto che gli enti presentavano realtà molto diverse tra loro. Con andamento incostante nel tempo, la realizzazione del programma di privatizzazione è proseguito, ma non è ancora terminato, operando in modo graduale e diversificato per ciascun ente coinvolto in tale processo.

Le pubbliche amministrazioni hanno comunque fatto ricorso al modello delle società a partecipazione pubblica anche al di fuori degli ambiti delle leggi di privatizzazione, mediante la creazione di società operanti nei più variegati settori, ovvero acquistando la partecipazione in società già costituite.

In conseguenza dei fenomeni appena descritti (privatizzazione e costituzione di società o partecipazione in società già costituite), si sono così formate società a partecipazione pubblica totalitaria o mista (maggioritaria o minoritaria), in cui sono presenti anche privati, e società che hanno partecipazioni di amministrazioni statali insieme ad altri enti pubblici (territoriali o non territoriali) o il concorso di partecipazioni di diversi enti pubblici.

Il legislatore, nel corso degli anni, ha introdotto una serie di deroghe mediante la previsione di norme imperative di diritto privato e di diritto pubblico, che hanno determinato un regime giuridico peculiare, riservato a tali tipologie di società, soprattutto con riferimento all’organizzazione interna e all’attività svolta.

Proprio con riguardo a quest’ultimo aspetto, si deve tenere presente che le società a partecipazione pubblica svolgono comune attività di impresa, ma soprattutto erogano servizi pubblici di interesse generale (economico e non).

L’esistenza di mercati non pienamente liberalizzati, ovvero di mercati caratterizzati da monopoli o oligopoli naturali, ha infatti comportato la necessità di prevedere l’obbligo di fornire di “servizi pubblici di interesse economico generale” a tutela, in particolare, degli utenti che, in assenza dell’intervento regolatorio dello Stato, non potrebbero ottenere quella determinata prestazione.

In questi casi, l’attività della società a partecipazione pubblica non è riconducibile alla pura e semplice attività di impresa, dovendo necessariamente svolgersi nel rispetto di predeterminati obblighi di servizio. In tale contesto, si inserisce la disciplina pubblicistica e la giustificazione dell’attribuzione di compensazioni economiche (v. infatti l’art. 106 del TFUE, nella parte in cui è stabilito che le imprese incaricate della gestione di servizi di interesse economico generale sono sottoposte alle norme dei trattati, e in particolare alle regole di concorrenza, nei limiti in cui l’applicazione di tali norme non osti all’adempimento, in linea di diritto e di fatto, della specifica missione loro affidata).

Come anticipato, le società partecipate possono anche erogare “servizi pubblici di interesse generale”, che, a differenza dei servizi pubblici di interesse economico generale, non sono neppure suscettibili di essere gestiti in regime di impresa e ineriscono ai bisogni primari del cittadino (quale, ad esempio, la scuola, la sanità e l’assistenza sociale).

Deve infine tenersi presente che nella categoria delle società a partecipazione pubblica sono comprese le società in house providing (di seguito, anche società in house), che, in ragione delle loro peculiari caratteristiche (v. infra), possono essere chiamate a realizzare opere pubbliche o a gestire determinati servizi pubblici senza sottoporsi alla procedura di scelta del contraente, essendo ritenute soggetti “interni” alla compagine organizzativa dell’autorità pubblica.

2. Il T.U. in materia di società a partecipazione pubblica.

Com’è noto, con il d.lgs. n. 175 del 2016, modificato dal d.lgs. n. 100 del 2017, è stato adottato il Testo Unico in materia di società a partecipazione pubblica (di seguito anche TUSP) in attuazione della delega conferita al governo dagli artt. 16 e 18 della l. n. 124 del 2015.

Si è già evidenziato che, in questa materia, erano già intervenute numerose disposizioni normative, volte ad adattare lo statuto societario alle caratteristiche e alle finalità di tali peculiari forme societarie. Al fine di assicurare la corrispondenza della partecipazione societaria alle finalità istituzionali dell’ente partecipante, il contenimento della spesa pubblica e il soddisfacimento delle esigenze di tutela della concorrenza, sono stati anche previsti limiti alla capacità delle pubbliche amministrazioni di costituire società o di acquisire (e detenere) partecipazioni societarie,

Tali norme non sono state tuttavia adeguatamente coordinate tra loro e non hanno fornito una disciplina unitaria e organica della materia. Si è trattato piuttosto di interventi frammentari, adottati in contesti storici diversi, al fine di perseguire finalità di volta in volta imposte da esigenze contingenti senza un disegno coerente di lungo periodo.

L’art. 16 della l. n. 124 del 2015 ha così delegato il governo ad emanare «il decreto legislativo per il riordino della disciplina in materia di partecipazioni societarie delle amministrazioni pubbliche» con l’obiettivo prioritario «di assicurare la chiarezza della disciplina» e «la semplificazione normativa».

Lo scopo dell’intervento è stato quello di semplificare e razionalizzare le regole vigenti in materia, attraverso il riordino delle disposizioni nazionali e di creare una disciplina generale organica, senza mutare totalmente il quadro di riferimento, ma favorendo fenomeni già in atto che, in certi casi, avevano trovato ostacoli proprio nella mancanza di norme adeguate o non adeguatamente coordinate.

Le disposizioni del T.U. hanno così assunto per oggetto «la costituzione di società da parte di amministrazioni pubbliche, nonché l’acquisto, il mantenimento e la gestione di partecipazioni, da parte di tali amministrazioni, in società a totale o parziale partecipazione pubblica, diretta o indiretta» (art. 1, comma 1, TUSP).

Specifico rilievo è stato dato ai profili del “mantenimento” e della “gestione” delle partecipazioni, perché la stretta rispondenza all’interesse pubblico deve permanere per tutta la durata della partecipazione alla società.

E in effetti, il testo normativo disciplina le misure di razionalizzazione della partecipazione, che non si esprimono soltanto con la riduzione del numero delle società partecipate, ma intervengono anche sui sistemi di governance e sui modelli organizzativi.

La regolamentazione è stata impostata prevedendo come, genus, la figura delle società a partecipazione pubblica, che contiene al suo interno, come species, sia le società controllate sia le società in house.

Si rinviene infatti una disciplina comune, applicabile a tutte le società a partecipazione pubblica. Vi sono poi norme che riguardano solo le società a controllo pubblico (in particolate gli artt. 6, 11 e 13 TUSP) e altre che regolano solo le società in house (l’art. 16 del medesimo TUSP). Le società quotate a partecipazione pubblica hanno poi una disciplina tutta particolare (artt. 3 e 18 dello stesso TUSP).

In tale quadro, assume rilievo fondamentale il disposto dell’art. 1, comma 3, TUSP, “norma di chiusura” del T.U., perché evidenzia l’impostazione che ha scelto il legislatore delegato nell’attuare la delega.

In tale disposizione, e salve le deroghe poi indicate, si legge infatti che «Per tutto quanto non derogato dalle disposizioni del presente decreto, si applicano alle società a partecipazione pubblica le norme sulle società contenute nel codice civile e le norme generali di diritto privato».

La norma, di fatto, sostituisce il disposto dell’art. 4, comma 13, del d.l. n. 95 del 2012, conv., con modif., in l. n. 135 del 2012 (abrogato dall’art. 28 TUSP), ove era previsto che per quanto non diversamente stabilito e salvo deroghe espresse, si applica comunque (alle società a partecipazione pubblica) la disciplina del codice civile in materia di società di capitali.

Nell’intento del legislatore delegato, la riconduzione a sistema, che costituisce primario interesse della delega, passa, in assenza di disposizioni contrarie, attraverso il rinvio alla disciplina privatistica.

In altre parole, salve espresse deroghe previste dalla legge, il TUSP rappresenta la disciplina generale di tutte le società a partecipazione pubblica e, ove sia carente, viene integrato dalla disciplina privatistica comune.

3. I tratti distintivi della società in house providing prima e dopo il recepimento delle direttive UE del 2014.

La figura della società in house è nata nel diritto europeo, per descrivere le ipotesi in cui si può eccezionalmente derogare alle regole della concorrenza per il mercato, mediante il ricorso a forme di affidamento diretto di compiti relativi alla realizzazione di opere pubbliche o alla gestione di servizi pubblici, senza che siano avviate le procedure di evidenza pubblica di scelta del contraente.

Com’è noto, la direttiva 2006/123/CE, relativa ai servizi nel mercato interno, lascia liberi gli Stati membri di decidere le modalità organizzative della prestazione dei servizi d’interesse economico generale (art. 1, par. 6). È perciò certamente consentito che, in conformità ai principi generali del diritto comunitario, gli enti pubblici scelgano se espletare tali servizi direttamente o tramite terzi e che, in quest’ultimo caso, individuino diverse possibili forme di esternalizzazione, ivi compreso l’affidamento a società partecipate dall’ente pubblico medesimo.

In tale ambito, si possono dare ipotesi ben distinte: l’affidamento a società totalmente estranee alla P.A., l’affidamento a società con azionariato misto (in parte pubblico ed in parte privato) e l’affidamento a società in house.

Solo in quest’ultimo caso la Corte di giustizia U.E. ha escluso la necessità del preventivo ricorso a procedure di evidenza pubblica, muovendo dal presupposto che non sussistono esigenze di tutela della concorrenza, quando la società affidataria sia interamente partecipata dall’ente pubblico, eserciti in favore del medesimo la parte più importante della propria attività e sia soggetta al suo controllo in termini analoghi a quelli in cui si esplica il controllo gerarchico dell’ente sui propri stessi uffici (Corte di giustizia, 18 novembre 1999, causa C-107/98, Teckal).

Pur trattandosi di una figura di origine eminentemente giurisprudenziale, la società in house, come sopra delineata, non ha tardato ad acquisire cittadinanza anche nella legislazione nazionale. Se ne trova menzione in molteplici sparse disposizioni normative, talvolta con mero richiamo alle caratteristiche richieste dalla citata giurisprudenza europea, altre volte con più specifica indicazione dei requisiti occorrenti perché sia integrata tale figura.

Particolare risalto ha assunto, in questo contesto, il disposto dell’art. 113, comma 4, del d.lgs. n. 267 del 2000 (T.U. delle leggi sull’ordinamento degli enti a locali), come riformulato dall’art. 14 del d.l. n. 269 del 2003, n. 269 (conv., con modif., in l. n. 326 del 2003), che, in presenza di determinate condizioni, consente espressamente l’affidamento di servizi pubblici (anziché ad imprese terze, da individuare mediante procedure di evidenza pubblica) a società di capitali, costituite per quello scopo e partecipate totalitariamente da soci pubblici, purché tali società realizzino la parte più importante della loro attività con gli enti che le controllano e purché questi ultimi esercitino sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui loro servizi.

Le caratteristiche della società in house, come delineate dalla sopra menzionata giurisprudenza della Corte di giustizia, sono dunque: i) la natura esclusivamente pubblica dei soci; ii) l’esercizio dell’attività in prevalenza a favore dei soci stessi; iii) la sottoposizione ad un controllo corrispondente a quello esercitato dagli enti pubblici sui propri uffici.

In ordine alla prima di esse giova ricordare come la giurisprudenza europea abbia ammesso la possibilità che il capitale sociale faccia capo ad una pluralità di soci, purché si tratti sempre di enti pubblici (Corte di giustizia, 10 settembre 2009, causa C-573/07, Sea, e Corte di giustizia, 13 novembre 2008, causa C-324/07, Coditel Brabant). È quasi superfluo aggiungere che, secondo tale ricostruzione, occorre pur sempre che lo statuto inibisca in modo assoluto la possibilità di cessione a privati delle partecipazioni societarie di cui gli enti pubblici siano titolari.

La prevalente destinazione dell’attività in favore dell’ente o degli enti partecipanti alla società, pur presentando innegabilmente un qualche margine di elasticità, postula in ogni caso che l’attività accessoria non sia tale da implicare una significativa presenza della società quale concorrente con altre imprese sul mercato di beni o servizi. Come puntualizzato da Corte cost. 23 dicembre 2008, n. 439, anche sulla scorta della giurisprudenza comunitaria (Corte di giustizia, 11 maggio 2006, causa C-340/04, Carbotermo), non si tratta di una valutazione solamente di tipo quantitativo, da operare con riguardo esclusivo al fatturato ed alle risorse economiche impiegate, dovendosi invece tener conto anche dei profili qualitativi e della prospettiva di sviluppo in cui l’attività accessoria eventualmente si ponga. In definitiva, quel che soprattutto importa è che l’eventuale attività accessoria, oltre ad essere marginale, rivesta una valenza meramente strumentale rispetto alla prestazione del servizio d’interesse economico generale svolto dalla società in via principale.

Per quanto riguarda il controllo analogo, quel che rileva è che l’ente pubblico partecipante abbia statutariamente il potere di dettare le linee strategiche e le scelte operative della società in house, i cui organi amministrativi vengono pertanto a trovarsi in posizione di vera e propria subordinazione gerarchica. L’espressione “controllo” non allude infatti all’influenza dominante che il titolare della partecipazione maggioritaria (o totalitaria) è di regola in grado di esercitare sull’assemblea della società e, di riflesso, sulla scelta degli organi sociali, come avviene in base al diritto comune. Si tratta piuttosto di un potere di comando direttamente esercitato sulla gestione dell’ente con modalità e con un’intensità non riconducibili ai diritti ed alle facoltà che normalmente spettano al socio (fosse pure un socio unico) in base alle regole dettate dal codice civile, che si spinge sino a punto che agli organi della società non resta affidata nessuna autonoma rilevante autonomia gestionale.

Siffatte indicazioni sono state pienamente recepite, in ambito nazionale, dalla giurisprudenza amministrativa, contabile ed anche dalla giurisprudenza della Corte di cassazione.

Deve, in proposito, richiamarsi Sez. U, n. 22409/2018, Virgilio, Rv. 650605-01, nella parte in cui ha ribadito che, ai fini della configurazione di una società in house è necessaria la contemporanea presenza dei sopra menzionati requisiti, risultanti da precise disposizioni statutarie, e in particolare: a) il capitale sociale deve essere integralmente detenuto da uno o più enti pubblici per l’esercizio di pubblici servizi e lo statuto deve vietare la cessione delle partecipazioni a soci privati; b) la società deve esplicare statutariamente la propria attività prevalente in favore degli enti partecipanti, in modo che l’eventuale attività accessoria non implichi una significativa presenza sul mercato e rivesta una valenza meramente strumentale; c) la gestione deve essere per statuto assoggettata a forme di controllo analoghe a quelle esercitate dagli enti pubblici sui propri uffici (nella specie, la S.C. ha escluso che una società, pur essendo interamente partecipata dalla Regione, potesse essere qualificata come in house, dal momento che l’oggetto sociale descritto nello statuto contemplava l’esercizio di molteplici attività diversificate, con la massima libertà gestionale e la possibilità di coordinare le iniziative con altri enti e aziende fornitrici di servizi pubblici, lasciando spazio all’operatività in regime di libero mercato).

Con l’entrata in vigore delle direttive 2014/23/UE (sull’aggiudicazione dei contratti di concessione), 2014/24/UE (sugli appalti pubblici) e 2014/25/UE (sulle procedure d’appalto degli enti erogatori nei settori dell’acqua, dell’energia, dei trasporti e dei servizi postali), la materia ha trovato una espressa disciplina normativa a livello europeo.

I requisiti qualificanti la società in house non sono tuttavia identici a quelli finora descritti.

In particolare, l’art. 12 della direttiva 2014/24/UE (ma analoghe disposizioni si trovano nell’art. 17 della direttiva 2014/23/UE e nell’art. 28 della direttiva 2014/25/UE) ha modificato tali requisiti, perché, ferma la necessità del controllo analogo: 1) ha ammesso eccezionalmente forme di partecipazione di capitali privati, che non comportano controllo o potere di veto, che siano prescritte dalle disposizioni legislative nazionali in conformità dei trattati, e che non esercitino un’influenza determinante sulla persona giuridica controllata; 2) ha indicato in modo puntuale, nel limite superiore all’80 per cento, l’entità dell’attività che deve essere svolta a favore dell’amministrazione pubblica.

Il mutamento delle condizioni per la qualificazione di una società come società in house risulta in modo chiaro da quanto, sul punto, è previsto nel sopra richiamato d.lgs. n. 175 del 2016, che sostanzialmente riproduce quanto stabilito nel d.lgs. n. 50 del 2016 (codice dei contratti pubblici), con il quale è stata data attuazione alle sopra menzionate direttive.

La definizione di società in house è contenuta all’art. 2, comma 1, lett. o) TUSP, laddove si legge «Ai fini del presente decreto si intendono: … o) “società in house”: le società sulle quali un’amministrazione esercita il controllo analogo o più amministrazioni esercitano il controllo analogo congiunto, nelle quali la partecipazione di capitali privati avviene nelle forme di cui all’articolo 16, comma 1, e che soddisfano il requisito dell’attività prevalente di cui all’articolo 16, comma 3».

Il richiamato art. 16 TUSP al comma 1 stabilisce che la società non deve prevedere la partecipazione di capitali privati, ad eccezione di quella prescritta da norme di legge, che avvenga in forme che non comportino controllo o potere di veto, né l’esercizio di un’influenza determinante sulla società controllata, e al comma 3 precisa che gli statuti delle società devono prevedere che oltre l’80 per cento del loro fatturato sia effettuato nello svolgimento dei compiti a esse affidati dall’ente pubblico o dagli enti pubblici soci.

Si deve tenere presente che al successivo comma 3-bis del medesimo articolo è stabilito che «La produzione ulteriore rispetto al limite di fatturato di cui al comma 3, che può essere rivolta anche a finalità diverse, è consentita solo a condizione che la stessa permetta di conseguire economie di scala o altri recuperi di efficienza sul complesso dell’attività principale della società.»

È evidente che, in questo modo, il legislatore delegato ha consapevolmente previsto una disciplina più rigorosa rispetto al diritto europeo (che non impone alcune condizioni allo svolgimento delle attività ulteriori, ma neppure impedisce che tali condizioni vengano poste dal singolo Stato membro), riducendo l’ambito operativo delle società in house e, per l’effetto, espandendo le regole della concorrenza per il mercato.

Ovviamente il requisito dell’attività prevalente deve permanere durante lo svolgimento dell’attività sociale, tant’è che ai successivi commi 4, 5, e 6 dello stesso articolo è prevista una disciplina dettagliata, per i casi in cui tale requisito non venga mantenuto.

Proprio sul tema delle nuove caratteristiche della società in house, assume grande rilievo una pronuncia della Corte di cassazione a Sezioni Unite (Sez. U, n. 17188/2018, Cirillo E., Rv. 651804-01), ove si è precisato che la direttiva 2014/24/UE, che, come appena evidenziato, ha sensibilmente modificato i requisiti propri della società in house, non si applica alle fattispecie precedenti alla sua pubblicazione sulla G.U. dell’U.E. (e cioè non è retroattiva) e non è neppure immediatamente esecutiva, perché contiene la previsione di un termine per il suo recepimento, che lo Stato italiano ha pienamente rispettato mediante l’adozione del d.lgs. n. 50 del 2016 (codice dei contratti pubblici).

4. L’azione di responsabilità contro i componenti degli organi sociali e i dipendenti delle società in house.

Quest’argomento è stato tra i più controversi soprattutto in dottrina, sebbene la giurisprudenza di legittimità (non sempre in accordo con quella contabile) abbia adottato soluzioni interpretative oramai consolidate, che ora dovranno essere riesaminate alla luce delle norme introdotte dal TUSP.

La questione è quella della sussistenza o meno della giurisdizione della Corte dei conti, ove venga prospettata la responsabilità dei componenti degli organi di amministrazione e di controllo o anche dei dipendenti, per danni cagionati a società a partecipazione pubblica o a società in house.

Si tratta, in altre parole, di accertare se in queste ipotesi è configurabile un danno erariale oppure no.

Le soluzioni interpretative, offerte dalla giurisprudenza di legittimità, ruotano intorno a due pronunce fondamentali.

In primo luogo si deve richiamare Sez. U, n. 26806/2009, Rordorf, Rv. 610656-01, ove si è affermato che spetta al giudice ordinario la giurisdizione in ordine all’azione di risarcimento dei danni subiti da una società a partecipazione pubblica per effetto di condotte illecite degli amministratori o dei dipendenti (nella specie, consistenti nell’avere accettato indebite dazioni di denaro, al fine di favorire determinate imprese nell’aggiudicazione e nella successiva gestione di appalti), perché non è in tal caso configurabile, avuto riguardo all’autonoma personalità giuridica della società, né un rapporto di servizio tra l’agente e l’ente pubblico titolare della partecipazione, né un danno direttamente arrecato allo Stato o ad altro ente pubblico, idonei a radicare la giurisdizione della Corte dei conti.

In tale decisione, le Sezioni Unite hanno anche precisato che sussiste invece la giurisdizione contabile, quando l’azione di responsabilità trovi fondamento nel comportamento di chi, quale rappresentante dell’ente partecipante o comunque titolare del potere di decidere per esso, abbia colpevolmente trascurato di esercitare i propri diritti di socio, in tal modo pregiudicando il valore della partecipazione, ovvero nel caso in cui i comportamenti degli amministratori o dei sindaci siano tali da compromettere la ragione stessa della partecipazione sociale dell’ente pubblico o tali da arrecare direttamente pregiudizio al patrimonio del medesimo ente, con la precisazione che in quest’ipotesi l’azione erariale concorre con l’azione civile prevista dagli artt. 2395 e 2476 c.c..

Tranne pronunce isolate, la successiva giurisprudenza di legittimità si è conformata a tale opzione interpretativa, ravvisando però ipotesi che costituiscono eccezioni alla regola e perciò consentono la (concorrente) giurisdizione erariale.

Si tratta, in particolare delle decisioni che hanno riguardato il danno cagionato a società-enti pubblici (in proposito, v. Sez. U, n. 27092/2009, Bucciante, Rv. 610699-01 e Sez. U, n. 15594/2014, Rordorf, Rv. 631592-01, nonché Sez. U, n. 24737/2016, Frasca, Rv. 641770-01 con riferimenti alle società assimilabili agli enti pubblici) e quelle relative al pregiudizio subito dalle società in house.

Proprio con riferimento a questa ultima tipologia di società, occorre richiamare la seconda delle pronunce fondamentali sopra menzionate (Sez. U, n. 26283/2013, Rordorf, Rv. 628437-01), che, appunto, ha per la prima volta esaminato il problema della verifica della giurisdizione contabile nel caso dell’esperimento dell’azione di responsabilità contro amministratori e sindaci di società in house.

In tale sentenza, si è prima di tutto precisato che l’orientamento avviato da Sez. U n. 26806/2009 deve essere, in via generale, tenuto fermo, anche alla luce della normativa sopravvenuta, che è stata richiamata ed esaminata.

È stata poi analizzata la figura della società in house nel contesto normativo e interpretativo in cui è sorta e, esaminati i requisiti qualificanti già illustrati (all’epoca, la natura esclusivamente pubblica dei soci, l’esercizio dell’attività in prevalenza a favore dei soci stessi e la sottoposizione ad un controllo corrispondente a quello esercitato dagli enti pubblici sui loro uffici), si è rilevato che ciò che davvero è difficile conciliare con la figura della società di capitali, intesa quale persona giuridica autonoma e distinta dai soggetti che in essa agiscono, è la totale assenza, in tale tipologia di società, di un potere decisionale suo proprio, in conseguenza del totale assoggettamento dei suoi organi al potere gerarchico dell’ente pubblico titolare della partecipazione sociale (del tutto distinta dal potere di direzione e di coordinamento di cui all’art. 2497 ss. c.c. e dai particolari diritti riguardanti l’amministrazione, che possono essere conferiti al socio di s.r.l. ai sensi dell’art. 2468, comma 3, c.c.).

Le Sezioni Unite hanno così affermato che la società in house non sembra in grado di collocarsi come un’entità posta al di fuori dell’ente pubblico, che infatti ne dispone come di una propria articolazione interna, aggiungendo che il velo che normalmente nasconde il socio dietro la società è in questi casi squarciato. Non si realizza dunque la distinzione tra socio (pubblico) e società (in house) in termini di alterità soggettiva. L’uso del vocabolo società serve solo a significare che, ove manchino più specifiche disposizioni di segno contrario, il paradigma organizzativo va desunto dal modello societario, ma non può parlarsi di una società di capitali, intesa come persona giuridica autonoma, cui corrisponda un autonomo centro decisionale e di cui sia possibile individuare un interesse suo proprio.

In conseguenza di ciò, le medesime Sezioni Unite hanno ritenuto che le conclusioni a cui è in precedenza pervenuta, nell’individuare i limiti della giurisdizione del giudice contabile, nelle cause riguardanti la responsabilità degli organi di società a partecipazione pubblica, non possono valere per le società in house, perché – quanto meno ai limitati fini del riparto di giurisdizione – queste ultime hanno della società solo la forma esteriore, ma costituiscono in realtà delle articolazioni della P.A., da cui promanano, e non dei soggetti giuridici ad essa esterni e autonomi. Ne consegue che gli organi di tali società, assoggettati come sono a vincoli gerarchici facenti capo alla pubblica amministrazione, neppure possono essere considerati, a differenza di quanto accade per gli amministratori delle altre società a partecipazione pubblica, come investiti di un mero munus privato, inerente ad un rapporto di natura negoziale instaurato con la medesima società. Essendo preposti ad una struttura corrispondente ad un’articolazione interna alla stessa P.A., è da ritenersi che essi siano personalmente a questa legati da un vero e proprio rapporto di servizio, non altrimenti di quel che accade per i dirigenti preposti ai servizi erogati direttamente dall’ente pubblico. L’impossibilità di configurare un rapporto di alterità tra l’ente pubblico e la società in house si riflette anche sulla qualificazione del patrimonio, da intendersi in termini di mera separazione e non di distinta titolarità, con conseguente affermazione della natura erariale del danno cagionato dagli atti illegittimi dei suoi amministratori.

Tale soluzione è stata seguita dalla giurisprudenza successiva (Sez. U, n. 05491/2014, Nobile, Rv. 629863-01 e Sez. U, n. 26643/2016, D’Ascola, Rv. 641801-01).

In particolare, nel corso dell’anno 2018 la già menzionata Sez. U, n. 22409/2018, Virgilio, Rv. 650605-01, ha ribadito che sussiste la giurisdizione contabile in materia di azione di responsabilità nei confronti degli organi di gestione e di controllo di società di capitali partecipata da enti pubblici solo se vi siano i requisiti sopra illustrati, perché la società possa essere qualificata come società in house, aggiungendo che detti requisiti devono sussistere tutti contemporaneamente e risultare da precise disposizioni statutarie in vigore al momento in cui risale la condotta ipotizzata come illecita.

Anche Sez. U, n. 17188/2018, Cirillo E., Rv. 651804-01, ha affermato che si deve verificare la sussistenza degli elementi caratterizzanti la società in house in base ai requisiti esistenti e richiesti al momento del fatto illecito, aggiungendo, come supra evidenziato, che la direttiva 2014/24/UE, che ha sensibilmente modificato tali requisiti, non può essere applicata, al fine di affermare la giurisdizione contabile, non solo nei casi in cui i fatti generatori di danno si siano verificati prima della sua pubblicazione sulla G.U. dell’U.E. (24 marzo 2014), ma anche prima del suo recepimento in Italia, trattandosi di direttiva non immediatamente esecutiva, da attuarsi entro il termine di recepimento dalla stessa previsto (18 aprile 2016), pienamente rispettato dallo Stato italiano con l’adozione del d.lgs. n. 50 del 2016.

Come già accennato, in materia è ora intervenuta l’espressa disciplina introdotta dall’art. 12 TUSP.

Tale articolo, al comma 1, stabilisce che i componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società partecipate sono soggetti alle azioni civili di responsabilità previste dalla disciplina ordinaria delle società di capitali, ma fa salva la giurisdizione della Corte dei conti per il danno erariale causato dagli amministratori e dai dipendenti delle società in house.

Si deve precisare che il medesimo articolo, ai commi 1 e 2, contiene anche la espressa previsione della giurisdizione contabile con riguardo alle controversie riguardanti il danno erariale cagionato agli enti partecipanti dai loro rappresentanti (o da coloro che comunque hanno agito per conto degli enti partecipanti), che, nell’esercizio dei diritti di socio, abbiano provocato con dolo o colpa grave un pregiudizio al valore della partecipazione, così sostanzialmente riproducendo in una disposizione normativa quanto, come sopra evidenziato, è stato già affermato dalla giurisprudenza di legittimità.

Tornando alle azioni sociali di responsabilità, è invece importante rilevare che, sebbene siano diverse e contrastanti le interpretazioni offerte, la S.C., sia pure in un obiter dictum, ha mostrato di aderire alla tesi che legge tale disposizione in continuità con l’orientamento interpretativo fino ad allora da lei stessa espresso.

Il riferimento è a Sez. 1, n. 3196/2017, Ferro, Rv. 643865-01, ove, nel ritenere la fallibilità delle società in house in una fattispecie non disciplinata ratione temporis dal TUSP (v. infra), la Corte ha ribadito che a tali figure societarie è stata attribuita la natura di articolazioni interne dell’ente partecipante, ai soli fini della verifica della sussistenza della giurisdizione della Corte dei conti, precisando che in questo modo si è venuta a determinare una responsabilità aggiuntiva (contabile) rispetto a quella comune – secondo i dettami della richiamata sentenza a Sezioni Unite n. 26283/2013, che, si afferma, sono stati ripresi dall’art. 12 del d.lgs. n. 175 del 2016 – ma senza l’effetto di far perdere l’applicazione dello statuto dell’imprenditore.

Due sono le affermazioni importanti: da un lato, si afferma che l’art. 12 TUSP ha ripreso i dettami della sentenza a Sezioni Unite n. 26283/2013 e, da un altro lato, si precisa che la responsabilità contabile è aggiuntiva a quella ordinaria.

Nella stessa linea, si pone Sez. U, n. 22406/2018, Campanile, Rv. 650453-01, ove viene dichiarata la giurisdizione ordinaria in relazione a un’azione di responsabilità esercitata ex art. 146 l. fall. dal curatore del fallimento nei confronti dei componenti degli organi di gestione e di controllo di una società in house (v. infra). In motivazione è infatti ribadita, in via generale, la possibilità del concorso fra la giurisdizione ordinaria e quella contabile, stante la tendenziale diversità di oggetto e di funzione fra i due giudizi, e viene richiamato, solo a fini ermeneutici, proprio il disposto dell’art. 12 TUSP, anche in questo caso non direttamente applicabile ratione temporis, posto che, è affermato, la specifica attribuzione alla giurisdizione contabile delle azioni relative al danno erariale lascia chiaramente intendere la configurabilità anche di un danno non erariale, sul cui ristoro, soprattutto con riferimento alla posizione dei creditori sociali, deve provvedere il giudice ordinario.

5. Il fallimento delle società in house.

La giurisprudenza di legittimità, già prima dell’entrata in vigore del TUSP aveva affermato la soggezione a fallimento delle società a partecipazione pubblica (Sez. 1, n. 21991/2012, Didone, Rv. 624544-013 e Sez. 1, n. 22209/2013, Cristiano, Rv. 628660-01) e ha poi ribadito tale principio anche con riferimento alle società in house, in fattispecie comunque non disciplinate dal TUSP ratione temporis (Sez. 1, n. 3196/2017, Ferro, Rv. 643865-01).

Detto orientamento è stato di recente confermato da Sez. 1, n. 17279/2018, Fichera, Rv. 649517-01, sempre con riguardo a controversie a cui il TUSP è sopravvenuto, ove si ribadisce che tutte le società commerciali a totale o parziale partecipazione pubblica (quale che sia la composizione del loro capitale sociale, le attività in concreto esercitate, ovvero le forme di controllo cui risultano effettivamente sottoposte) sono soggette a fallimento, essendo loro applicabile l’art. 2221 c.c. in forza del rinvio alle norme del codice civile, contenuto prima nell’art. 4, comma 13, del d.l. n. 95 del 2012, conv. con modif. dalla l. n. 135 del 2012 e poi nell’art. 1, comma 3, del d.lgs. n. 175 del 2016.

In motivazione, la S.C. ha rilevato che, secondo l’orientamento più recente di questa Corte, appare oramai del tutto irrilevante ogni indagine in ordine alla natura in house o meno della società che sia in mano pubblica, poiché la scelta del legislatore di consentire l’esercizio di determinate attività a società di capitali – e dunque di perseguire l’interesse pubblico attraverso lo strumento privatistico – comporta che queste assumano i rischi connessi alla loro insolvenza, pena la violazione dei principi di uguaglianza e di affidamento dei soggetti che con esse entrano in rapporto ed attesa la necessità del rispetto delle regole della concorrenza, che impone parità di trattamento tra quanti operano all’interno di uno stesso mercato con identiche forme e medesime modalità.

Dando continuità a tale soluzione interpretativa, la Corte ha così affermato, da un lato, che l’art. 1 l. fall. esclude dall’area della concorsualità soltanto gli enti pubblici e non anche le società pubbliche, per le quali trovano applicazione le norme del codice civile e, dall’altro lato, che esiste ancora nell’ordinamento una disposizione (l’art. 4 della l. n. 70 del 1975), che vieta seccamente l’istituzione di enti pubblici se non in forza di un atto normativo.

La medesima Corte ha rilevato che il legislatore più recente ha mostrato in maniera evidente la precisa volontà di ritenere senz’altro applicabile anche alle società pubbliche la normativa codicistica, compreso quindi l’art. 2221 c.c., che detta la regola di carattere generale della fallibilità di tutti gli imprenditori che esercitano attività commerciale. E invero, prima l’art. 4, comma 13, del d.l. n. 95 del 2012, conv., con modif., in l. n. 135 del 2012, ha stabilito che le altre disposizioni, anche di carattere speciale, in materia di società a totale o parziale partecipazione pubblica si interpretano nel senso che, per quanto non diversamente stabilito e salvo deroghe espresse, si applica comunque la disciplina del codice civile in materia di società di capitali. Successivamente, la medesima volontà è stata ribadita dall’art. 1, comma 3, TUSP e, in maniera inequivoca, dall’art. 14 TUSP, che assoggetta tutte le società a partecipazione pubblica alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo, nonché, ove ne ricorrano i presupposti, a quelle in materia di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza.

In effetti, il disposto dell’art. 14 TUSP, coma appena richiamato, è senza dubbio dirimente, essendo chiaro che si applica a tutte le società a partecipazione pubblica, comprese le società soggette a controllo pubblico e quelle in house.

Nella relazione illustrativa al TUSP si legge peraltro che il legislatore delegato non ha ritenuto di accogliere le osservazioni del Consiglio di Stato e della Commissione V Bilancio della Camera, che miravano a differenziare la disciplina delle crisi aziendali rispetto a diverse tipologie di società (in house o strumentali), ritenendo tale soluzione contraria all’impostazione privatistica della disciplina delle crisi, attribuita al testo normativo.

6. L’azione di responsabilità ex art. 146 l. fall.

Come sopra evidenziato, la giurisprudenza di legittimità, prima ancora della formulazione dell’art. 12 TUSP, aveva già riservato uno spazio alla giurisdizione contabile in caso di azione sociale di responsabilità nei confronti di componenti degli organi di gestione e di controllo (o anche dei dipendenti) delle società in house, sia pure precisando che, in questi casi, la giurisdizione contabile non è esclusiva, ma concorre con quella ordinaria.

La stessa giurisprudenza ha di recente affrontato la questione della possibilità di pervenire o meno alle medesime conclusioni, nel caso in cui, fallita la società in house, l’azione di responsabilità sia esperita dal curatore ex art. 146 l. fall., in una fattispecie a cui, ratione temporis, non era applicabile il TUSP.

Nella pronuncia menzionata (Sez. U, n. 22406/2018, Campanile, Rv. 650453-01), le Sezioni Unite hanno ritenuto sussistente la giurisdizione del giudice ordinario originariamente adito.

Senza porsi in contrasto con le precedenti pronunce n. 26806 del 2009 e n. 26283 del 2013, sopra illustrate, le Sezioni Unite hanno richiamato le precisazioni successivamente operate dalla stessa giurisprudenza di legittimità, attribuendo rilievo fondamentale alla clausola ermeneutica generale, in senso privatistico, prevista dall’art. 4, comma 13, del d.l. n. 95 del 2012, conv., con modif., in l. n. 135 del 2012, e al principio successivamente stabilito dall’art. 1, comma 3, del d.lgs. n. 175 del 2016, a tenore del quale, per tutto quanto non derogato dalle relative disposizioni, tutte le società a partecipazione pubblica (e perciò anche le società in house) sono disciplinate dalle norme sulle società contenute nel codice civile.

Secondo le Sezioni Unite, una volta scelto il paradigma privatistico societario, deve ritenersi naturale che quella scelta, ove non vi siano specifiche disposizioni in contrario o ragioni ostative di sistema, comporti l’applicazione del regime giuridico proprio dello strumento adottato.

Ribadita quindi la possibilità, in via generale, del concorso fra la giurisdizione ordinaria e quella contabile, stante la tendenziale diversità di oggetto e di funzione fra le diverse azioni (anche richiamando, come già evidenziato, a fini ermeneutici il disposto dell’art. 12 TUSP), le stesse Sezioni Unite hanno esaltato la necessità di ricondurre l’azione esercitata dalla curatela fallimentare alla giurisdizione del giudice ordinario, considerata la natura prettamente civilistica delle norme azionate, alle quali la società, per le ragioni sopra indicate, non poteva sottrarsi. Inoltre, sotto un altro profilo, hanno dato rilievo all’esigenza di tutela degli interessi dei creditori concorsuali, che altrimenti verrebbero frustrati.

Con riguardo a quest’ultimo aspetto, le Sezioni Unite hanno, in particolare, considerato che l’azione di responsabilità esercitata dal curatore ai sensi dell’art. 146, comma 2, l. fall., che cumula le diverse azioni previste dagli artt. 2393 e 2394 c.c., assumendo un contenuto inscindibile e una connotazione autonoma, costituisce uno strumento di reintegrazione del patrimonio sociale unitariamente considerato, a garanzia sia dei soci che dei creditori sociali, ed è la necessaria conseguenza dell’ammissione della società in house al fallimento.

7. Altre questioni. Rinvio.

La S.C. si è anche occupata degli effetti del cd. spoils system e cioè dell’automatica decadenza, prevista ex lege, degli amministratori delle società a partecipazione pubblica (e dunque anche delle società in house), nominati dalla Regione, a seguito del rinnovo degli organi politici regionali, ritenendo che la cognizione delle relative controversie spetti al giudice ordinario, e non al giudice amministrativo, perché, a fronte della menzionata decadenza, la P.A. non ha alcun potere discrezionale e, trattandosi di diritti soggettivi, non vi è alcuna previsione di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (Sez. U, n. 16961/2018, Petitti, Rv. 649494-01).

D’altronde, anche con riferimento ai giudizi concernenti la nomina o la revoca ex art. 2449 c.c. di amministratori e sindaci di tali società, le Sezioni Unite hanno più volte affermato la giurisdizione del giudice ordinario, e non quella del giudice amministrativo, ritenendo trattarsi di controversie che investono atti compiuti dall’ente pubblico uti socius, e non iure imperii, posti in essere a valle della scelta dell’impiego del modello societario (così Sez. U, n. 01237/2015, Di Palma, Rv. 633757-01, Sez. U, n. 19676/2016, Frasca, Rv. 641090-01 e Sez. U, n. 21299/2017, Scarano, Rv. 645313-01, nonché, con riferimento specifico alle società in house, Sez. U, n. 24591/2016, Spirito, Rv. 641767-01),

La riconduzione delle società a partecipazione pubblica in generale e delle società in house in particolare alla disciplina privatistica, in assenza di diverse disposizioni normative o di ragioni ostative di sistema, influenza anche il settore dei rapporti di lavoro del personale di tali società (che pure, alla presenza di determinate condizioni, ha una particolare disciplina in tema di reclutamento) e quello riguardante gli obblighi contributivi, in relazione ai quali si rinvia ai rispettivi capitoli di questa Rassegna.

  • sanzione amministrativa

CAPITOLO XXIX*

SANZIONI AMMINISTRATIVE

(di Dario Cavallari, Maria Elena Mele, Aldo Natalini** )

Sommario

1 Principi generali in materia di opposizioni a sanzioni amministrative. - 2 Struttura impugnatoria del giudizio e regole processuali generali. - 3 Giurisdizione, pregiudiziale amministrativa e connessione obiettiva a reato. - 4 Competenza ed incompetenza. - 5 Altri vizi procedurali: difetto di motivazione, inosservanza del termine e mancata audizione. - 6 Elemento psicologico e cause di giustificazione. - 7 Prescrizione. - 8 Sanzioni in ambito bancario e finanziario: cd. doppio binario e sua compatibilità con il principio del ne bis in idem convenzionale ed euro unitario. - 9 Sanzioni in ambito bancario e finanziario: onere della prova degli elementi costitutivi dell’illecito. - 10 Sanzioni amministrative e responsabilità dei sindaci e dei consiglieri di amministrazione delle società. - 11 Decorrenza e natura del termine per contestare l’illecito amministrativo in ambito finanziario. - 12 Le sanzioni in ambito bancario e finanziario e la loro generale compatibilità con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo ed il diritto euro unitario. - 13 Sanzioni in ambito bancario e finanziario e principio del contraddittorio. - 14 Illeciti attinenti al riciclaggio e relativo obbligo di denuncia. - 15 Ulteriori pronunce riguardanti le sanzioni in ambito bancario e finanziario. - 16 Sanzioni amministrative previste dal codice della strada: profili processuali. - 16.1 Competenza e rapporto fra giudizio penale, giudizio civile e opposizione a sanzione amministrativa. - 16.2 La rappresentanza in giudizio. - 16.3 L’opposizione, i suoi effetti, il termine di proposizione ed i poteri del giudice. - 16.4 L’appello: legittimazione, termini e rito. - 17 L’obbligo del proprietario del veicolo di comunicare i dati del conducente. - 18 La sospensione della patente di guida. - 19 L’accertamento e la contestazione delle infrazioni al codice della strada. - 19.1 Le modalità. - 19.2 L’individuazione del destinatario delle sanzioni e del responsabile solidale.  - 20 Il pagamento delle sanzioni inflitte per infrazioni al codice della strada e la loro riscossione. - 21 Le sanzioni diverse da quelle comminate per infrazioni al codice della strada. - 21.1 I dispositivi medici. - 21.2 I prodotti alimentari. - 21.3 Le altre sanzioni.

1. Principi generali in materia di opposizioni a sanzioni amministrative.

Le pronunce del 2018 da cui sono estrapolabili principi comuni in materia di opposizioni ad ordinanza-ingiunzione per l’irrogazione di sanzioni amministrative danno continuità agli orientamenti di legittimità già affermatisi in passato.

Muovendo dai principi generali, un interessante arresto si rinviene in Sez. 2, n. 10893/2018, Criscuolo, Rv. 648178-01, che ha ritenuto illegittima e, quindi, disapplicato, la delibera del Presidente dell’Ente Parco Nazionale della Maiella che, in assenza di delega del titolare della potestà legislativa primaria, aveva autonomamente introdotto ipotesi di sanzioni pecuniarie proporzionali a carico di chi avesse effettuato uno scavo vietato. Secondo la Cassazione, dette sanzioni amministrative contrastano col principio di legalità (della sanzione) – recepito nell’art. 1 della l. n. 689 del 1981 – il quale vieta alle norme primarie di demandare a fonti secondarie la determinazione (del precetto e, per l’appunto) della sanzione, in ossequio alle medesime garanzie sottostanti la materia penale.

In riferimento ad uno dei corollari del principio di legalità, Sez. 2, n. 09269/2018, Picaroni, Rv. 648084-01, ha ribadito l’esclusione in subiecta materia della retroattività della legge successiva più favorevole, posto che, come ribadito dalla Corte costituzionale con sentenza n. 193 del 2016, nel quadro delle garanzie sovranazionali apprestato dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, non si rinviene l’affermazione di un vincolo di matrice convenzionale in ordine alla previsione generalizzata del principio di retroattività da parte degli ordinamenti interni dei singoli Stati aderenti, da trasporre dal sistema penale a quello delle sanzioni amministrative, né è dato rinvenire un vincolo costituzionale nel senso dell’applicazione in ogni caso della legge successiva più favorevole, rientrando nella discrezionalità del legislatore (interno) modulare le proprie determinazioni secondo criteri di maggiore o minore rigore in base alle materie oggetto di disciplina.

D’altro canto, la giurisprudenza di legittimità, anche lavoristica, è costante nell’escludere, in tema di illeciti amministrativi, la retroattività della norma più favorevole ed il divieto di applicazione analogica – corollari del principio di legalità (penale) – attesa la differenza qualitativa delle situazioni qui considerate rispetto ai principi ricavabili dall’art. 2, commi 2 e 3, c.p., i quali, recando una deroga alla regola generale dell’irretroattività della legge, possono, al di fuori della materia penale, trovare applicazione solo nei limiti in cui siano espressamente richiamati dal legislatore (Sez. 6-2, n. 29411/2011, Carrato, Rv. 620859-01). Un autorevole avallo di detto indirizzo, nel campo dei giudizi disciplinari, è espresso da Sez. U, n. 09558/2018, Perrino, Rv. 648104-01, che, annettendo natura amministrativa alle sanzioni disciplinari contenute nel codice deontologico forense, trae l’inapplicabilità dello ius superveniens, ove più favorevole all’incolpato, rispetto al regime giuridico della prescrizione, quando la contestazione dell’addebito sia avvenuta anteriormente all’entrata in vigore della nuova disciplina normativa.

Con riferimento, ancora, ai viciniori istituti penalistici, Sez. 2, n. 10890/2018, Criscuolo, Rv. 648176-01, ha confermato l’indirizzo di Sez. 6-2, n. 26434/2014, D’Ascola, Rv. 633932-01, che esclude l’applicabilità in via analogica della continuazione ex art. 81 cpv. c.p., allorché siano poste in essere più condotte realizzatrici della medesima violazione, trovando applicazione in tema di sanzioni amministrative esclusivamente la disciplina del concorso formale, l’unica che è stata recepita dall’art. 8 della l. n. 689 del 1981, il quale richiede l’unicità dell’azione od omissione produttiva della pluralità di violazioni. Peraltro, secondo la S.C. detta disciplina non subisce deroghe neppure in base al successivo art. 8-bis della medesima legge che, salve le ipotesi eccezionali del comma 2, ha escluso, sussistendo determinati presupposti, la computabilità delle violazioni amministrative successive alla prima solo al fine di rendere inoperanti le ulteriori conseguenze sanzionatorie della reiterazione.

2. Struttura impugnatoria del giudizio e regole processuali generali.

La struttura del giudizio di opposizione a sanzioni amministrative è di tipo impugnatorio. Come rammentano, da ultimo, Sez. 2, n. 12503/2018, Carrato, Rv. 648753-01, e Sez. 2, n. 09286/2018, Criscuolo, Rv. 648150-01, in continuità con l’indirizzo nomofilattico (Sez. U, n. 1686/2010, Goldoni, Rv. 611243), detto giudizio non ha, però, ad oggetto l’atto amministrativo di irrogazione della sanzione, bensì l’esistenza, o meno, della pretesa sanzionatoria che esso esprime, cioè il rapporto giuridico sotteso, avente fonte legale in un’obbligazione di tipo sanzionatorio. Ne consegue la piena cognizione del giudice dell’opposizione che – come si dirà infra – potrà (e dovrà) valutare le deduzioni difensive proposte in sede amministrativa (eventualmente non esaminate o non motivatamente respinte), in quanto riproposte nei motivi di opposizione i quali, come rimarca Sez. 2, n. 09538/2018, Varrone, Rv. 648090-01, costituiscono l’unica ed esclusiva causa petendi della domanda coinvolgente la pretesa sanzionatoria della P.A..

Al descritto paradigma impugnatorio è annesso un rigido sistema preclusivo, sicché tutte le ragioni poste alla base della richiesta di nullità (o di annullamento) dell’atto devono essere prospettate nel ricorso introduttivo, entro i termini di legge, con precise conseguenze – da ultimo efficacemente sintetizzate da Sez. 2, n. 27909/2018, Picaroni, Rv. 651033-01 – valevoli per tutti i soggetti coinvolti nel giudizio di opposizione. Infatti, mentre al ricorrente non è consentito di integrare in corso di causa i motivi originariamente addotti, non potendo egli ampliare il thema decidendum mediante domande nuove, l’Amministrazione resistente non può dedurre, a sostegno della pretesa sanzionatoria, motivi o circostanze diversi da quelli enunciati con l’ordinanza, stante, peraltro, il carattere vincolato del provvedimento di irrogazione della sanzione amministrativa, in conformità al principio di tassatività dettato dall’art. 1 della l. n. 689 del 1981, ribadito da ultimo da Sez. 1, n. 06965/2018, Mercolino, Rv. 648110-01, al quale consegue l’immodificabilità del relativo contenuto (in termini anche Sez. 1, n. 13433/2016, Bernabai, Rv. 640355-01). Infine, il giudice non può rilevare d’ufficio vizi diversi da quelli dedotti dal ricorrente (così anche Sez. 2, n. 232/2016, Matera, Rv. 638385-01; Sez. 2, n. 656/2010, Giusti, Rv. 611248-01) o ragioni di nullità del provvedimento opposto o del procedimento che l’ha preceduto, salve le ipotesi di inesistenza.

Regola processuale comune ai procedimenti di opposizione nella vigenza del d.lgs. n. 150 del 2011 (che ha previsto misure di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione) è l’applicazione delle previsioni di cui agli artt. 429, comma 1, e 437, comma 1, c.p.c., giustificata, secondo quanto precisato da Sez. 2, n. 00072/2018, Bellini, Rv. 646662-01, dal rinvio generale contenuto nell’art. 2, comma 1, del medesimo d.lgs. n. 150. Ne deriva che anche in secondo grado il giudice, nel pronunciare la sentenza, deve, a pena di nullità insanabile, dare lettura del dispositivo all’esito dell’udienza di discussione (contra Sez. 2, n. 12954/2015, Picaroni, Rv. 635706-01, che, invece, ha escluso, in mancanza di un’espressa disciplina, l’automatica estendibilità delle regole speciali dettate per il giudizio di primo grado).

Legittimato passivo del giudizio di opposizione ad ordinanza emanata ai sensi della l. n. 689 del 1981 è esclusivamente il destinatario dell’ingiunzione al quale è addebitata la violazione e ciò anche in caso di eventuale responsabilità sanzionatoria col vincolo di solidarietà, come ha precisato Sez. 2, n. 09286/2018, Criscuolo, Rv. 648150-01, in quanto tale giudizio ha struttura formalmente impugnatoria rispetto ad un atto amministrativo, benché abbia ad oggetto un rapporto giuridico, sicché non è consentita la partecipazione di soggetti differenti dall’Amministrazione ingiungente e dall’ingiunto.

Qualora l’oggetto dell’unico provvedimento sanzionatorio sia costituito da più condotte di più soggetti, Sez. 2, n. 21347/2018, Gorjan, Rv. 650036-01, ha escluso che il giudicato relativo all’accoglimento dell’opposizione proposta da taluni di essi spieghi i suoi effetti nei riguardi dei concorrenti rimasti estranei al giudizio, stante la diversità delle parti e delle condotte addebitate.

In tema di sanzione amministrativa concernente il disboscamento non autorizzato di un fondo, consistente nell’ordine di rimessione in pristino emesso nei confronti dei comproprietari del terreno e dell’autore materiale della condotta, Sez. 2, n. 30767/2018, Dongiacomo, Rv. 651535-01, in continuità con l’indirizzo in materia di obblighi di facere, ha ravvisato un’ipotesi di litisconsorzio necessario, sancendo che al relativo giudizio di opposizione debbano prendere parte tutti i soggetti verso i quali l’obbligo (nella specie, di ripiantumazione) debba esser fatto valere, risultando, altrimenti, la pronuncia di riduzione in pristino inutiliter data, siccome non eseguibile in danno dei comproprietari esclusi o solo di quelli presenti.

3. Giurisdizione, pregiudiziale amministrativa e connessione obiettiva a reato.

In tema di giurisdizione, Sez. U, n. 22426/2018, Scrima, Rv. 650456-01, ribadisce il radicamento innanzi al giudice ordinario della materia delle opposizioni ad ordinanza-ingiunzione di pagamento per violazione della normativa urbanistica ed edilizia (nella specie, per l’erezione di un muro in assenza di titolo abilitativo), sulla base di un duplice rilievo argomentativo tratto, da ultimo, da Sez. U, n. 11388/2016, Giusti, Rv. 639955-01, che pare opportuno richiamare perché espressivo di un indirizzo consolidato.

Anzitutto, il massimo Consesso valorizza l’art. 22 bis, comma 2, lett. c), della l. n. 689 del 1981 – abrogato dall’art. 34, comma 1, lett. c), del d.lgs. n. 150 del 2011 (ma, nel caso in esame, vigente all’epoca di introduzione della causa di primo grado) – che attribuisce al tribunale ordinario le opposizioni alle sanzioni in materia urbanistica.

In secondo luogo, in piena aderenza all’orientamento nomofilattico (fra le ultime Sez. U, n. 8076/2015, D’Ascola, Rv. 634939-01; Sez. U, n. 1528/2014, Spirito, Rv. 628859-01), la S.C. sottolinea che, pur essendo la materia urbanistica compresa in quella per cui l’art. 34 del d.lgs. n. 80 del 1998 prevede la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, l’opposizione a sanzione amministrativa non genera una controversia nascente da atti della P.A. relativi alla gestione del territorio, costituendo i provvedimenti sanzionatori la reazione a condotte del privato illegittime. Infatti, in presenza di tali provvedimenti, non sorge la necessità, alla base della previsione di giurisdizione esclusiva, di distinguere gli aspetti concernenti diritti soggettivi da quelli riguardanti interessi legittimi, poiché la situazione giuridica di chi deduce di essere stato sottoposto ingiustamente a sanzione ha consistenza di diritto soggettivo.

Analogamente Sez. U, n. 10268/2018, Giusti, Rv. 648133-01, in tema di sanzioni pecuniarie relative alla tutela ed uso del suolo (nella specie, ex art. 69, commi 1 e 2, della l.r. n. 56 del 1977), ha confermato la devoluzione alla giurisdizione ordinaria della controversia concernente la procedura di riscossione coattiva del credito ai sensi del r.d. n. 639 del 1910. La motivazione valorizza ut supra il diritto soggettivo di chi affermi di essere stato assoggettato a sanzione amministrativa. Essa richiama gli argomenti esposti dalla citata Sez. U, n. 11388/2016, Giusti, Rv. 648133-01, circa l’irrilevanza del nuovo quadro normativo conseguente all’emanazione del d.lgs. n. 150 del 2011 (modificativo dell’art. 22 della l. n. 681 del 1981 ed abrogativo del successivo art. 22 bis), nonché l’art. 133, comma 1, lett. f), del c.p.a., che ha mantenuto ferma la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo per le cause in materia urbanistica ed edilizia riguardanti “tutti gli aspetti del territorio”, non essendo discusse nei giudizi di opposizione le modalità di governo del territorio bensì solo provvedimenti adottati dalla P.A. per reagire a condotte pretesamente abusive dei privati.

Passando alla questione della connessione obiettiva a reato di cui all’art. 24 della l. n. 689 del 1981, la S.C., in fattispecie relativa ad illecito trattamento di dati personali, ha enunciato due interessanti principi di diritto. Sez. 6-2, n. 05341/2018, Orilia, Rv. 647990-01, ha, anzitutto, escluso il nesso di pregiudizialità qualora la stessa condotta materiale integri sia una violazione penale che una amministrativa – in ipotesi, quindi, di bis in idem sostanziale, su cui infra, in tema di sanzioni amministrative in ambito bancario e finanziario – con la conseguenza che, se l’esistenza del reato in questo caso non dipende dall’accertamento della violazione amministrativa, non si verifica una connessione obiettiva per pregiudizialità che radica la competenza del giudice penale nella verifica della responsabilità per l’illecito amministrativo. In secondo luogo, Sez. 6-2, n. 05341/2018, Orilia, Rv. 647990-02, ha precisato che, allorché il giudice civile, ai sensi dell’art. 24, ravvisi la connessione obiettiva per pregiudizialità della violazione amministrativa con l’accertamento dell’esistenza di un reato, non sussistono, comunque, i presupposti per la sospensione del processo ex art. 295 c.p., dovendo egli limitarsi a trasmettere gli atti al giudice penale, innanzi al quale penda il processo per l’imputazione (obiettivamente) connessa, il quale è competente a decidere (anche) sulla predetta violazione amministrativa e, nell’eventualità di una condanna, ad irrogare la relativa sanzione.

Proprio in tema di sospensione del giudizio di opposizione a sanzione amministrativa, ma in riferimento alla cd. pregiudizialità amministrativa, Sez. 2, n. 08796/2018, Correnti, Rv. 648013-01, ha escluso la sospendibilità ex art. 295 c.p.c. del giudizio di opposizione a sanzioni amministrative in ragione della pendenza, davanti al giudice amministrativo, dell’impugnazione dell’atto presupposto, laddove il vizio asseritamente invalidante l’ordinanza-ingiunzione concerna tale atto del suo procedimento formativo, ben potendo il giudice dell’opposizione decidere – con efficacia di giudicato – pure le questioni di legittimità dell’atto presupposto, ovvero disapplicarlo se ritenuto illegittimo.

Al di fuori dell’ipotesi di connessione per pregiudizialità penale, qualora gli elementi di prova di un illecito amministrativo emergano da indagini penali, Sez. 2, n. 09881/2018, Varrone, Rv. 648157-01, ha individuato la decorrenza del termine per la contestazione mediante notifica stabilito dall’art. 14 della l. n. 689 del 1981 dalla ricezione degli atti trasmessi dall’autorità giudiziaria a quella amministrativa, posto che, se fosse consentito agli agenti accertatori di contestare immediatamente all’indagato la violazione amministrativa, l’autorità non sarebbe messa in condizione di valutare la ricorrenza o meno della vis attractiva della fattispecie penale e, nel contempo, sarebbe frustrato il segreto istruttorio imposto, in costanza di preliminari indagini, dall’art. 329 c.p.p.

4. Competenza ed incompetenza.

Si segnalano molte pronunce della Corte regolatrice in tema di competenza.

Con riguardo alla competenza per materia, in controversia relativa a sanzioni elevate per violazione degli artt. 3 e 16 del d.lgs. n. 109 del 1992 relative all’etichettatura, presentazione e pubblicità dei prodotti alimentari, Sez. 6-2, n. 05242/2018, Orilia, Rv. 648217-01, ha riconosciuto la competenza del giudice di pace, avuto riguardo alla disciplina commerciale finalizzata ad assicurare la correttezza e la completezza delle indicazioni riportate dai produttori e, con esse, a tutelare l’affidamento dei consumatori, escludendo, quindi, la riconducibilità della materia all’igiene degli alimenti e bevande, riservata ex art. 6, comma 4, del d.lgs. n. 150 del 2011 alla competenza del tribunale.

Relativamente alla competenza per valore, un principio di portata generale è espresso da Sez. 6-3, n. 20191/2018, Cirillo, Rv. 650293-01, secondo cui, come già affermato in passato, ai fini dell’attribuzione al giudice di pace delle opposizioni alle sanzioni amministrative pecuniarie di valore fino ad euro 15.493, ai sensi dell’art. 6, comma 5, lett. a), del d.lgs. n. 150 del 2011, occorre avere riguardo al massimo edittale della sanzione prevista per ciascuna violazione, non rilevando che il provvedimento sanzionatorio abbia ad oggetto una pluralità di contestazioni e che, per effetto della sommatoria dei relativi importi, venga superato il suddetto limite di valore. Con specifico riferimento alle infrazioni al codice della strada – su cui, in generale, infra – Sez. 2, n. 12517/2018, Penta, Rv. 648756-01, in conformità ad un precedente arresto (Sez. 6-2, n. 13598/2014, Giusti, Rv. 631240-01) ha chiarito che, nel giudizio di opposizione a sanzione amministrativa, il cumulo della sanzione pecuniaria di valore determinato alla sanzione accessoria della decurtazione dei punti della patente non rende la causa di valore indeterminabile ai fini dell’individuazione del giudice competente (e neppure per la liquidazione delle spese processuali).

Quanto, poi, alla competenza per territorio, Sez. 6-2, n. 04840/2018, Abete, Rv. 647985-01, in ordine alla determinazione del giudice di pace territorialmente competente a pronunciarsi sull’opposizione ad ordinanza-ingiunzione per emissione di assegno bancario (o postale) senza autorizzazione (o senza provvista) ex artt. 1 e 2 della l. n. 386 del 1990, ha identificato il “luogo in cui è stata commessa la violazione” non con quello di emissione, bensì con quello ove è pagabile il suddetto assegno; ciò in continuità ad un precedente di legittimità (Sez. 1, n. 16205/2006, Petitti, Rv. 592309-01) che aveva individuato nel Prefetto di tale luogo (che, per l’assegno postale, coincide con la sede dell’ufficio postale di radicamento del conto corrente postale) l’autorità territorialmente competente ad emettere l’ordinanza-ingiunzione ai sensi dell’art. 4 della l. n. 386 del 1990.

In relazione ai procedimenti di appello avverso le sentenze emesse dal giudice di pace in materia di opposizione a sanzioni amministrative, Sez. 6-2, n. 04426/2018, Scalisi, Rv. 647983-01, Sez. 6-2, n. 05249/2018, Cosentino, Rv. 647987-01, e Sez. 6-2, n. 30647/2018, Grasso G., Rv. 651631-01, hanno confermato l’esenzione dalla regola del “foro erariale” stabilita nell’art. 7 del r.d. n. 1611 del 1933 per le controversie in cui sia parte un’Amministrazione dello Stato, dando continuità alla statuizione di Sez. U, n. 23285/2010, Bucciante, Rv. 615040-01.

Sul fronte patologico del vizio di incompetenza, la sedimentata giurisprudenza di legittimità, da ultimo compendiata in Sez. 2, n. 28108/2018, Picaroni, Rv. 651188-01, ravvisa l’incompetenza assoluta dell’Amministrazione – con conseguente inesistenza del provvedimento sanzionatorio, l’unico vizio, come visto supra, rilevabile d’ufficio dal giudice – laddove l’atto emesso concerna una materia del tutto estranea alla sfera degli interessi pubblici attribuiti alla cura dell’Amministrazione alla quale l’organo emittente appartiene. Si ha, invece, incompetenza relativa – deducibile esclusivamente col ricorso introduttivo, unitamente alle ragioni poste alla base dello stesso – nel rapporto tra organi od enti nelle cui attribuzioni rientra, sia pure a fini ed in casi diversi, una determinata materia (sul punto, Sez. 1, n. 12555/2012, Didone, Rv. 623311-01, che richiama, in parte motiva, il risalente indirizzo nomofilattico espresso da Sez. U, n. 8987/1990, Lipari, Rv. 469141-01).

Nella casistica giurisprudenziale è stata sovente eccepita l’incompetenza del funzionario delegato all’emissione dell’ordinanza-ingiunzione (in sostituzione, nella prassi, del prefetto o viceprefetto vicario) per assenza della delega di firma. In proposito, Sez. 2, n. 20972/2018, Federico, Rv. 650028-01, in continuità col consolidato indirizzo di legittimità (da ultimo, Sez. 2, n. 23073/2016, Valitutti, Rv. 642652-02), ha ribadito che incombe sull’opponente l’onere di provare detto fatto negativo, con la conseguenza che, nel caso non riesca a procurarsi la pertinente attestazione da parte dell’Amministrazione, egli è tenuto, comunque, a sollecitare il giudice ad acquisire informazioni ex art. 213 c.p.c., ovvero ad avvalersi dei poteri istruttori di cui all’art. 23, comma 6, della l. n. 689 del 1981 presso l’Amministrazione medesima, la quale non può esimersi dalla relativa risposta. Qualora, invece, l’opponente rimanga del tutto inerte processualmente, resta ferma la presunzione di legittimità che assiste il provvedimento sanzionatorio.

In fattispecie di eccepita incompetenza (relativa) per ordinanza sanzionatoria emessa dal sindaco in luogo del competente dirigente comunale (il quale, nel caso in esame, aveva poi emanato una seconda ordinanza identica alla prima), Sez. 2, n. 04059/2018, Carrato, Rv. 647810-01, ha ritenuto legittimamente applicabili gli artt. 21 nonies, comma 2, della l. n. 241 del 1990, e 6 della l. n. 249 del 1968 – che consentono la ratifica (o convalida) con efficacia ex tunc degli atti amministrativi viziati da incompetenza – anche in pendenza dell’impugnazione del provvedimento davanti al giudice ordinario, con la sola esclusione dell’ipotesi in cui sia intervenuta sentenza passata in giudicato. Alla base di tale pronuncia vi è la considerazione che il diritto di difesa del destinatario non è in alcun modo limitato dalla ratifica dell’autorità amministrativa competente, la quale determina esclusivamente la modifica dell’imputazione soggettiva dell’atto, restando invariati i profili conoscitivi, valutativi e volitivi dello stesso.

5. Altri vizi procedurali: difetto di motivazione, inosservanza del termine e mancata audizione.

Passando alla disamina della giurisprudenza sugli altri vizi procedurali dell’ordinanza-ingiunzione diversi dall’incompetenza (assoluta e relativa), per quanto attiene al difetto di motivazione, Sez. 2, n. 12503/2018, Carrato, Rv. 648753-01, ha confermato l’indirizzo nomofilattico che esclude la nullità del provvedimento e, quindi, l’insussistenza del diritto di credito derivante dalla violazione commessa in caso di eccepiti vizi di motivazione in ordine alle difese presentate all’interessato in sede amministrativa. Tale conclusione si basa – come visto supra – sulla concezione del giudizio di opposizione come esteso al rapporto, con conseguenti ampi poteri riconosciuti al giudice dell’opposizione, tenuto a valutare le deduzioni difensive proposte in sede amministrativa (eventualmente non esaminate o non motivatamente respinte), siccome riproposte nei motivi di opposizione, decidendo su di esse con pienezza di poteri, sia in fatto che in diritto. Ciò perché il principio costituzionale del giusto processo – nella pienezza della sua esplicazione – deve intendersi riferito al solo procedimento giurisdizionale, mentre, ove il destinatario della sanzione lamenti una violazione del principio del contraddittorio nell’ambito del procedimento amministrativo presupposto, è tenuto, comunque, a dimostrare una concreta ed effettiva lesione del diritto di difesa specificamente conculcato o compresso dall’azione amministrativa.

Circa il vizio di inosservanza del termine previsto per la conclusione del procedimento sanzionatorio, Sez. 1, n. 06965/2018, Mercolino, Rv. 648110-01, ha ritenuto parimenti applicabile il principio generale stabilito dall’art. 21 octies, comma 2, della l. n. 241 del 1990, anche in riferimento alle sanzioni disciplinate dalla legislazione regionale, con esclusione dell’illegittimità dell’ordinanza-ingiunzione, attesa la natura vincolata del provvedimento di irrogazione della sanzione amministrativa – espressione, come già anticipato supra, del principio di tassatività ex art. 1 della l. n. 689 del 1981 – che impedisce la modificabilità del relativo contenuto.

Concludendo la rassegna dei vizi procedurali, Sez. 2, n. 11300/2018, Scalisi, Rv. 648098-01, ha sancito che il mutamento di giurisprudenza introdotto da Sez. U, n. 1786/2010, Goldoni, Rv. 611244-01, per la quale, in tema di ordinanza-ingiunzione, la violazione del diritto ad essere ascoltati ex art. 18, comma 2, della l. n. 689 del 1981 non comporta la nullità del provvedimento, non integra un’ipotesi di cd. prospective overruling, poiché tale diritto non ha carattere processuale, inserendosi nell’ambito di un procedimento di formazione di un atto amministrativo e, comunque, dalla sua violazione non consegue l’effetto preclusivo del diritto di azione e di difesa dell’interessato, il quale ha la possibilità di fare valere nel processo a cognizione piena le ragioni che avrebbe potuto rappresentare in fase di audizione.

6. Elemento psicologico e cause di giustificazione.

Con riguardo all’elemento psicologico della violazione amministrativa, è necessaria ed al tempo stesso sufficiente la semplice colpa, identificata dalla giurisprudenza come mera suitas della condotta inosservante, cioè come coscienza e volontà della azione od omissione, senza che occorra la concreta dimostrazione del dolo o della colpa, giacché l’art. 3 della l. n. 689 del 1981 pone una presunzione di colpa in ordine al fatto vietato a carico di colui che l’abbia commesso.

Coerentemente, nell’ipotesi di illecito ascrivibile a società di persone, secondo Sez. 2, n. 30766/2018, Petitti, Rv. 651534-01, non possono essere chiamati automaticamente a rispondere della violazione i soci amministratori, essendo indispensabile accertare che essi abbiano tenuto una condotta positiva o omissiva che abbia dato luogo all’infrazione, sia pure soltanto sotto il profilo del concorso morale. Nella specie, la S.C. ha escluso che i singoli soci di una società in nome collettivo, ancorché amministratori, potessero, per ciò solo, essere colpiti dalla sanzione applicata in conseguenza dell’affissione, da parte di soggetti rimasti ignoti, di materiale pubblicitario riguardante la società, in assenza della prescritta autorizzazione.

Al fine di escludere la responsabilità amministrativa dell’autore dell’infrazione, come ricorda Sez. 2, n. 00720/2018, Bellini, Rv. 647152-01, non basta uno stato di ignoranza circa la sussistenza dei relativi presupposti, ma occorre che tale ignoranza sia incolpevole, cioè non superabile dall’interessato con l’uso dell’ordinaria diligenza. La S.C. ha ritenuto, nella controversia de qua, l’assenza di buona fede in capo ad una società titolare di un impianto per la radiodiffusione in relazione allo spostamento non autorizzato dell’impianto in questione ad opera di un incaricato alla manutenzione, ricorrendo una violazione colposa del dovere di vigilanza. È radicato, infatti, l’indirizzo di legittimità, ripreso da Sez. 2, n. 20219/2018, Bellini, Rv. 649910-01, che dà rilievo all’esimente della buona fede come causa di esclusione della responsabilità amministrativa, al pari di quanto avviene per quella penale in materia di contravvenzioni ex art. 5 c.p., (solo) in presenza di elementi positivi idonei ad ingenerare nell’autore della violazione il convincimento della liceità della sua condotta e purché risulti che il trasgressore abbia fatto il possibile per conformarsi al precetto di legge, onde nessun rimprovero possa essergli mosso, neppure sotto il profilo della negligenza omissiva.

L’errore scusabile determinato dall’interpretazione di norme giuridiche, per Sez. 2, n. 12110/2018, Cosentino, Rv. 648504-02, può assumere rilievo qualora non attinga l’interpretazione giuridica del precetto, ma verta sui presupposti della violazione e sia stato determinato da un elemento positivo, estraneo all’autore, idoneo ad ingenerare in quest’ultimo l’incolpevole opinione di liceità del proprio agire. Perciò, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che, in riferimento ad una sanzione amministrativa irrogata ai sindaci di una società per azioni per l’omessa segnalazione delle irregolarità riscontrate nell’attività di vigilanza, aveva escluso la scusabilità dell’errore addotto dai ricorrenti, in considerazione del livello di qualificazione professionale che la carica ricoperta doveva fare presumere.

Un caso di esclusione dell’elemento psicologico per difetto (anche) di colpa è trattato da Sez. 2, n. 04866/2018, Carrato, Rv. 647643-01, in tema di esercizio abusivo dell’attività di autotrasporto, che ha negato la responsabilità del proprietario della merce (escludendo la legittimità dell’applicazione della sanzione amministrativa accessoria della confisca) in una vicenda in cui egli non aveva partecipato all’affidamento del trasporto al vettore abusivo e non erano emerse negligenze rispetto all’accertamento della regolarità del trasportatore, non essendo esigibile, a carico del suddetto proprietario, un obbligo di vigilanza avente ad oggetto anche la verifica del possesso, da parte dell’autotrasportatore, delle prescritte autorizzazioni.

Per quel che concerne le cause di giustificazione – adempimento di un dovere, esercizio di una facoltà legittima, stato di necessità e legittima difesa – in mancanza di ulteriori precisazioni contenute nell’art. 4 della l. n. 689 del 1981, che si limita ad enumerarle, è regola costante il riferimento ai corrispondenti istituti penalistici, esigendosi un rigoroso accertamento di fatto, rimesso al giudice di merito.

Coerentemente a questa impostazione, ai fini del riconoscimento dello stato di necessità, Sez. 6-2, n. 04834/2018, Manna F., Rv. 648209-01, richiede, in conformità ai requisiti strutturali dettati dall’art. 54 c.p., la sussistenza di un’effettiva situazione di pericolo imminente di un grave danno alla persona, non altrimenti evitabile, ovvero l’erronea convinzione (che, comunque, ridonda in favore del trasgressore, purché provocata da circostanze oggettive), di trovarsi in tale situazione (art. 59 c.p.); ne consegue che l’esimente de qua, come affermato in passato, non è invocabile quando la situazione di pericolo riguardi un animale.

Infine, per Sez. 2, n. 03740/2018, Carrato, Rv. 647801-01, l’esercizio di una facoltà legittima non è ravvisabile se il contravventore, pur abilitato con autorizzazione amministrativa allo svolgimento dell’attività (nella specie, di emissione di campi elettromagnetici), ha violato i limiti tabellari previsti dalla normativa primaria in materia.

7. Prescrizione.

La prescrizione del diritto a riscuotere le somme dovute a titolo di sanzione amministrativa decorre, in ossequio all’art. 2935 c.c., dal momento in cui il diritto può essere fatto valere.

In particolare, nell’ipotesi di fatti già sanzionati penalmente e successivamente depenalizzati, Sez. 6-2, n. 19897/2018, Falaschi, Rv. 650067-01, ha escluso che il dies a quo rilevante a fini prescrizionali possa identificarsi col giorno di commissione della violazione, dovendosi avere riguardo all’epoca di ricezione, da parte della competente autorità amministrativa, degli atti inviati da quella giudiziaria, ai sensi dell’art. 41 della l. n. 689 del 1981, poiché solo dopo tale ricezione l’Amministrazione è in grado di esercitare il diritto di riscuotere la somma stabilita dalla legge a titolo di sanzione amministrativa.

Con specifico riferimento alla pena pecuniaria in caso di inottemperanza all’obbligo di comunicazione alla Cassa nazionale di previdenza ed assistenza forense dell’ammontare del reddito professionale ex art. 17, comma 4, della l. n. 576 del 1980, Sez. L, n. 17258/2018, Riverso, Rv. 649594-01, nel considerare detta sanzione tuttora amministrativa, anche all’indomani della privatizzazione della Cassa per effetto del d.lgs. n. 509 del 1994, l’ha assoggettata a prescrizione quinquennale, a partire dal giorno di commissione della violazione, e non a quella decennale prevista dall’art. 19, comma 1, della l. n. 576 del 1980, che si riferisce solo ai contributi e ai relativi accessori.

Riguardo agli atti interruttivi della prescrizione, Sez. 3, n. 01550/2018, D’Arrigo, Rv. 647596-01, ha chiarito che l’atto notificato ad uno dei coobbligati, in ipotesi di solidarietà tra questi ai sensi dell’art. 6 della l. n. 689 del 1981, determina effetti interruttivi verso gli altri, in virtù dell’art. 1310 c.c., stante il richiamo generale contenuto nell’art. 29 della medesima l. n. 689 del 1981 alla disciplina del codice civile anche quanto all’interruzione della prescrizione. La Corte ha ritenuto irrilevante che il soggetto nei confronti del quale è stata interrotta la prescrizione sia il materiale esecutore della violazione (o colui al quale la legge estende la corresponsabilità nel pagamento della relativa sanzione), non potendosi distinguere, ai fini dell’art. 1310 c.c., fra coobbligati solidali. L’estensione degli effetti interruttivi non si verifica, invece, nella diversa ipotesi, prevista dall’art. 5 della l. n. 689 del 1981, del concorso di più persone nella commissione della violazione, difettando il vincolo della solidarietà fra i coobbligati, ciascuno dei quali è tenuto al pagamento della sanzione amministrativa per intero.

8. Sanzioni in ambito bancario e finanziario: cd. doppio binario e sua compatibilità con il principio del ne bis in idem convenzionale ed euro unitario.

Una serie di decisioni di altissimo rilievo sistematico hanno affrontato la tematica della natura amministrativa o penale di alcuni illeciti in ambito bancario e finanziario e della compatibilità con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo ed il diritto euro unitario dell’esistenza del cd. doppio binario, concretantesi nella possibilità che uno stesso soggetto sia sottoposto per un identico fatto ad un procedimento penale e ad uno amministrativo.

Innanzitutto, Sez. 2, n. 31632/2018, Cosentino, Rv. 651762-01, ha affermato che la sanzione di cui all’art. 187 bis T.U.F., pur se formalmente amministrativa, va considerata, alla stregua sia della Convenzione europea dei diritti dell’uomo sia del diritto euro unitario, sostanzialmente penale; né tale natura è mutata a seguito dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 107 del 2018, che ha mitigato il relativo trattamento sanzionatorio, atteso che il massimo edittale “ordinario” è rimasto severo, che è possibile aumentare la sanzione la quale risulti inadeguata, benché applicata nella misura massima, e che sono previste, altresì, la confisca e le sanzioni accessorie della perdita temporanea dei requisiti di onorabilità e della incapacità temporanea ad assumere incarichi direttivi.

Di conseguenza, Sez. 2, n. 31632/2018, Cosentino, Rv. 651762-02, ha sottolineato che, in base alla sentenza della Grande Sezione della Corte di giustizia dell’Unione europea del 20 marzo 2018, resa nelle cause riunite C-596/16 e C-597/16, non è compatibile con il principio del ne bis in idem di diritto convenzionale ed euro unitario e, in particolare, con l’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, l’instaurazione di un procedimento amministrativo sanzionatorio o la sua prosecuzione – eventualmente anche in sede di opposizione giurisdizionale – in relazione alla commissione dell’illecito amministrativo ex art. 187 bis T.U.F. qualora, con riferimento ai medesimi fatti storici, l’incolpato sia stato definitivamente assolto in sede penale con formula piena dal delitto previsto dall’art. 184 T.U.F.

Per rendere più evidente la portata del principio del ne bis in idem euro unitario sopracitato Sez. 2, n. 31632/2018, Cosentino, Rv. 651762-03, ha precisato ulteriormente che, se un procedimento amministrativo sanzionatorio, concernente i medesimi fatti oggetto di un procedimento penale definito con sentenza passata in giudicato di condanna, si è concluso, a sua volta, con l’irrogazione di una sanzione, il giudice deve valutare la compatibilità fra il cumulo delle due sanzioni, amministrativa e penale, ed il divieto di ne bis in idem stabilito dall’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e dall’art. 4 del VII Protocollo della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, tenendo conto dell’interpretazione datane dalla Corte di giustizia dell’Unione europea, che valorizza principalmente la presenza di norme di coordinamento a garanzia della proporzionalità del trattamento sanzionatorio complessivo, e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, per la quale rileva, soprattutto, la vicinanza cronologica dei diversi procedimenti e la loro complementarità nel soddisfacimento di finalità sociali differenti. Ove, invece, il procedimento penale sia terminato con una pronuncia definitiva di assoluzione “perché il fatto non sussiste”, il divieto del ne bis in idem è pienamente efficace e, pertanto, l’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea non incontra alcuna limitazione ai sensi dell’art. 52 della stessa Carta. Ne derivano l’impossibilità di continuare nell’accertamento dell’illecito amministrativo e la necessità di interrompere il relativo procedimento e l’eventuale successivo giudizio di opposizione, con conseguente non applicazione della disposizione sanzionatoria di diritto interno, circostanza che esclude ogni problema di disapplicazione di disposizioni nazionali in ragione del primato del diritto dell’Unione europea e la rilevanza di questioni di legittimità costituzionale in relazione all’art. 117 Cost. Sulla base di questi principi è stata decisa una fattispecie ove il ricorrente era una persona fisica che era stata assoggettata alla sanzione amministrativa stabilita dall’art. 187 bis T.U.F., ma era stata assolta, per gli stessi fatti, in via definitiva e con formula piena dal reato previsto dall’art. 184 T.U.F. all’esito di un giudizio nel quale la CONSOB era parte civile.

La decisione da ultimo menzionata contiene una completa disamina dell’evoluzione del principio del ne bis in idem negli ordinamenti sovranazionali, con specifici riferimenti alla giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea – su tutte la sentenza della Grande Sezione del 26 febbraio 2013, resa nella causa C-617/10, e le tre statuizioni della Grande Sezione del 20 marzo 2018, rese nelle cause C-524/15 e C-537/16 e nelle cause riunite C-596/16 e C-597/16 – ed a quella della Corte europea dei diritti dell’uomo, in primo luogo alla pronuncia della Grande Sezione del 10 febbraio 2009, emessa all’esito del caso Zolotukhin v. Russia.

Le conclusioni della S.C. si ricollegano ad un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea disposto, in precedenza, da Sez. 2, n. 23232/2016, Falabella, non massimata, e, in particolare, sono conseguenza di considerazioni che hanno condotto la medesima Corte di cassazione, nella specie Sez. 2, n. 03831/2018, Cosentino, Rv. 647802-01, e Sez. 2, n. 3831/2018, Cosentino, Rv. 647802-02, entrambe citate infra, ad interessare la Corte costituzionale di alcune problematiche inerenti ai rapporti con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e con il diritto euro unitario.

Sez. 2, n. 31635/2018, Carrato, Rv. 651764-02, ha applicato, quindi, i principi di cui sopra sancendo che, in tema di sanzioni a carico degli enti per violazione delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria previste dagli artt. 5 e 25 sexies del d.lgs. n. 231 del 2001 e dall’art. 187 quinquies T.U.F., il fatto oggettivo per il quale l’ente può essere chiamato a rispondere deve identificarsi con la stessa condotta ascritta all’autore dell’illecito presupposto, in tutte le sue componenti costitutive. Pertanto, la differenza soggettiva degli autori del reato e dei responsabili dell’illecito amministrativo presupposti comporta la diversità del fatto materiale ricondotto alla sfera di responsabilità del suddetto ente nei due casi, con la conseguenza che dall’esito degli stessi non può derivare alcuna violazione del principio del ne bis in idem in danno dell’ente medesimo. Nella controversia esaminata, la S.C. ha escluso ogni violazione del principio del ne bis in idem poiché la sentenza penale di assoluzione invocata, peraltro non ancora definitiva, non concerneva le stesse persone fisiche imputate degli illeciti per i quali era stata emessa la sanzione in esame e, comunque, la specifica statuizione che aveva riguardato l’ente de quo in un ulteriore giudizio, avendolo interessato quale responsabile civile, non aveva natura sanzionatoria e, perciò, non era idonea a costituire il presupposto per l’applicazione del menzionato principio.

Inoltre, Sez. 2, n. 31634/2018, Carrato, Rv. 651763-01, ha specificato che, in caso di contemporanea pendenza di un procedimento amministrativo per l’applicazione di una sanzione, formalmente amministrativa, ma di natura sostanzialmente penale (ovvero dell’opposizione avverso tale sanzione) e di un procedimento penale sui medesimi fatti, l’art. 187 duodecies del d.lgs. n. 58 del 1998 vieta la sospensione del primo (e dell’opposizione), ma la decisione definitiva e sfavorevole all’incolpato di uno dei procedimenti impone la rimodulazione della sanzione di quello ancora pendente se, cumulata a quella già applicata, essa ecceda i criteri di efficacia, proporzionalità e dissuasività indicati dalla Corte di giustizia dell’Unione europea come condizioni per la limitazione, da parte delle normative nazionali, del principio del ne bis in idem sancito dall’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Nella specie, la S.C. ha ritenuto ininfluente, ai fini della sospensione del giudizio di opposizione avverso le sanzioni amministrative inflitte dalla CONSOB al legale rappresentante di una società assicurativa per l’illecito previsto dall’art. 187 ter del d.lgs. n. 58 del 1998 in conseguenza della diffusione di false informazioni, la contemporanea pendenza, in relazione agli stessi fatti, di un procedimento penale per il reato di manipolazione del mercato ex art. 185 del d.lgs. citato, precisando che l’eventuale successiva sentenza di condanna penale avrebbe potuto valorizzare i parametri di cui all’art. 133 c.p. per commisurare la pena alla gravità del fatto in base ai summenzionati criteri, tenendo conto anche della definitività della sanzione applicata in sede amministrativa.

Si tratta di una interessante prima applicazione in ambito processuale (e procedimentale) dei principi contenuti nella giurisprudenza finora esaminata, che probabilmente condurrà in futuro ad ulteriori sviluppi.

Le decisioni de quibus sono state di poco anticipate da Sez. 5, n. 27564/2018, Chindemi, Rv. 651068-02, la quale ha fatto proprie le conclusioni delle Corte di giustizia dell’Unione europea, concludendo che il principio del ne bis in idem ex art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea non impedisce che a un soggetto, già penalmente condannato con sentenza irrevocabile per il reato previsto dall’art. 185 del d.lgs. n. 58 del 1998, sia successivamente irrogata la sanzione di natura penale, benché formalmente amministrativa, di cui all’art. 187 ter del citato d.lgs., purché siano garantiti: 1) il rispetto del principio di proporzionalità delle pene sancito dall’art. 49, par. 3, della richiamata Carta, secondo il quale le sanzioni complessivamente inflitte devono corrispondere alla gravità del reato commesso; 2) la prevedibilità di tale doppia risposta sanzionatoria in forza di regole normative chiare e precise; 3) il coordinamento tra i procedimenti sanzionatori in modo che l’onere, per il soggetto interessato da tale cumulo, sia limitato allo stretto necessario.

9. Sanzioni in ambito bancario e finanziario: onere della prova degli elementi costitutivi dell’illecito.

Con una pronuncia che ha ribadito l’orientamento tradizionale e si ricollega alla problematica della colpevolezza nel campo degli illeciti amministrativi trattata supra, Sez. 2, n. 01529/2018, Varrone, Rv. 647782-02, ha confermato che, in tema di sanzioni amministrative per violazione delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, l’onere di dimostrare i fatti costitutivi della pretesa sanzionatoria è posto a carico dell’Amministrazione la quale, pertanto, è tenuta a fornire la prova della condotta illecita. Tuttavia, nel caso dell’illecito omissivo di pura condotta, essendo il giudizio di colpevolezza ancorato a parametri normativi estranei al dato puramente psicologico, è sufficiente la prova dell’elemento oggettivo dell’illecito comprensivo della “suità” della condotta inosservante, in assenza di elementi tali da rendere inesigibile la condotta o imprevedibile l’evento. Così intesa la presunzione di colpa non si pone in contrasto con gli artt. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e 27 Cost. anche ove la sanzione abbia natura sostanzialmente penale in quanto afflittiva.

Nella stessa ottica, con riferimento alle sanzioni pecuniarie irrogate dalla Banca d’Italia ex art. 144 del d.lgs. n. 385 del 1993 ai soggetti che svolgono funzioni di direzione, amministrazione o controllo di istituti bancari, Sez. 2, n. 09546/2018, Scarpa, Rv. 648049-01, ha chiarito che il legislatore ha individuato una serie di fattispecie, destinate a salvaguardare procedure e funzioni ed incentrate sulla mera condotta, in base ad un criterio di agire o di omettere doveroso, ricollegando il giudizio di colpevolezza a parametri normativi estranei al dato puramente psicologico e limitando l’indagine sull’elemento oggettivo dell’illecito all’accertamento della “suità” della condotta inosservante sicché, integrata e provata dall’autorità amministrativa la fattispecie tipica dell’illecito, grava sul trasgressore, in virtù della presunzione di colpa posta dall’art. 3 della l. n. 689 del 1981, l’onere di provare di avere agito in assenza di detta colpevolezza.

Secondo, poi, Sez. 2, n. 31635/2018, Carrato, Rv. 651764-01, in tema di sanzioni amministrative a carico degli enti per violazione delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, per andare esente dalla responsabilità di cui all’art. 187 quinquies del d.lgs. n. 58 del 1998, l’ente è tenuto provare di avere adottato adeguati modelli organizzativi e gestionali, idonei a prevenire illeciti della specie di quello verificatosi, e che gli stessi siano stati fraudolentemente elusi da parte degli autori materiali del cd. “illecito presupposto”.

10. Sanzioni amministrative e responsabilità dei sindaci e dei consiglieri di amministrazione delle società.

Con riferimento all’elemento oggettivo dell’illecito, Sez. 2, n. 05357/2018, Federico, Rv. 647847-01, ha affermato che la violazione contestata dalla CONSOB risulta pienamente integrata quando risulti l’omesso o l’inadeguato esercizio dell’attività di controllo da parte dei sindaci delle società quotate, non essendo il danno un elemento costitutivo dell’illecito, quanto, invece, parametro per la determinazione della sanzione. La responsabilità dei sindaci sussiste, dunque, indipendentemente dall’esito delle singole operazioni ed anche a fronte di insufficienti informazioni da parte degli amministratori, potendo gli stessi avvalersi della vasta gamma di strumenti informativi ed istruttori prevista dall’art. 149 del d.lgs. n. 58 del 1998.

Inoltre, rimanendo nel settore dell’intermediazione finanziaria, Sez. 2, n. 05357/2018, Federico, Rv. 647847-02, ha precisato che la responsabilità dei sindaci sussiste pure con riguardo ad operazioni con “parti correlate o in situazioni di potenziale conflitto di interessi degli amministratori” realizzate al di fuori dell’oggetto sociale, essendo insufficiente, in tal senso, il controllo del comitato interno volto, viceversa, alla verifica del contenuto economico dell’operazione.

Con una pronuncia che si caratterizza per il fatto di affrontare una tematica poco esaminata, Sez. 2, n. 27365/2018, Abete, Rv. 651173-01, ha chiarito che, in tema di sanzioni amministrative previste dall’art. 191, comma 2, del d.lgs. n. 58 del 1998, nella formulazione applicabile ratione temporis, il consigliere di amministrazione non esecutivo di società per azioni, in conformità al disposto dell’art. 2392, comma 2, c.c., che concorre a connotare le funzioni gestorie tanto dei consiglieri non esecutivi, quanto di quelli esecutivi, è solidalmente responsabile per omessa vigilanza allorché, venuto a conoscenza di fatti pregiudizievoli, non abbia fatto ciò che poteva per impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose. Nel caso giunto all’esame della S.C. il ricorrente era stato sanzionato, quale consigliere di amministrazione non esecutivo di una società per azioni, per l’omessa vigilanza sull’operato dei consiglieri esecutivi, in relazione a condotte poste in essere anteriormente all’entrata in vigore del d.lgs. n. 72 del 2015.

Infine, per Sez. 2, n. 33047/2018, Oliva, Rv. 652048-01, l’art. 2391, comma 1, c.c., pone a carico dell’amministratore in conflitto di interessi un obbligo generale e preventivo di esplicitare tale sua condizione, allo scopo di assicurare che essa sia nota a tutti gli altri componenti dell’organo di gestione ed agli organi di controllo societario e che non incida, neppure in via indiretta, sui processi valutativi e deliberativi interni all’azienda. La disposizione ha, quindi, una portata applicativa generale, che prescinde dall’effettiva incidenza del menzionato conflitto d’interessi sulle delibere assunte in concreto dal consiglio di amministrazione. In base a questo principio, la S.C. ha sanzionato un componente del collegio sindacale per l’omessa vigilanza del collegio medesimo sul mancato rispetto dell’art. 2391 c.c. da parte dell’amministratore di una società per azioni.

11. Decorrenza e natura del termine per contestare l’illecito amministrativo in ambito finanziario.

In materia di intermediazione finanziaria Sez. 2, n. 09254/2018, Falaschi, Rv. 648081-01, ha specificato, ricollegandosi ad un indirizzo interpretativo risalente a Sez. 2, n. 25836/2011, Giusti, Rv. 620363-01, che il momento dell’accertamento, dal quale decorre il termine di decadenza per la contestazione, non coincide necessariamente e automaticamente né con la fine dell’attività ispettiva né con la data di deposito della relazione né con quella in cui la Commissione si è riunita per prenderla in esame, poiché la pura constatazione dei fatti non coincide necessariamente con il suddetto accertamento. Ne consegue che occorre individuare, secondo le caratteristiche e la complessità della situazione concreta, quando ragionevolmente la contestazione avrebbe potuto essere tradotta in accertamento, momento dal quale deve computarsi il termine per la contestazione stessa. In particolare, la S.C. ha cassato la sentenza gravata che aveva ritenuto tardiva la contestazione assumendo come rilevante, ai fini della decorrenza del detto termine, la data di pubblicazione in internet della relazione sulla remunerazione riconosciuta ai componenti del collegio, ritenendo, in base ad un giudizio ex post, ultronee le ulteriori verifiche effettuate dalla CONSOB.

Coerentemente con i principi de quibus, Sez. 2, n. 09521/2018, Varrone, Rv. 648152-01, ha sottolineato che il termine di 180 giorni, entro il quale il Ministero dell’economia e delle finanze deve emanare il decreto di determinazione della sanzione e di ingiunzione del pagamento ai sensi dell’art. 8, comma 2, del d.lgs. n. 195 del 2008, decorre dalla data di ricezione, da parte del suddetto Ministero, del verbale di contestazione dell’addebito, come risultante dal registro del protocollo informatico, nel quale vengono annotate in ordine cronologico le corrispondenze in arrivo e in partenza, costituendo il protocollo informatico un atto pubblico di rilevanza esterna che fa fede fino a querela di falso della data di ricezione in questione.

Più nel dettaglio, Sez. 2, n. 09517/2018, Falaschi, Rv. 648151-01, ha affermato che, nel procedimento di irrogazione delle sanzioni amministrative previste in tema di intermediazione finanziaria, il termine di 240 giorni di cui all’art. 145 del d.lgs. n. 385 del 1993 non ha natura perentoria e, pertanto, non può determinare alcuna decadenza dall’esercizio della potestà sanzionatoria, attesa la inidoneità del regolamento interno a modificare le disposizioni sul procedimento di irrogazione delle sanzioni amministrative dettate dalla l. n. 689 del 1981. Ne consegue che il regime decadenziale e prescrizionale applicabile può essere desunto esclusivamente dall’art. 14 della citata l. n. 689 del 1981, che prescrive un termine perentorio soltanto per la contestazione differita.

Sempre in ambito processuale, Sez. 2, n. 09545/2018, Scarpa, Rv. 648048-01, ha precisato che, in tema di procedimento di opposizione a sanzione amministrativa per violazione della normativa antiriciclaggio disciplinato dall’art. 6 del d.lgs. n. 150 del 2011, il termine fissato dal comma 8 del citato art. 6 per il deposito di copia del rapporto, con gli atti relativi all’accertamento nonché alla contestazione o alla notificazione della violazione, non è, in difetto di espressa previsione, perentorio, a differenza di quello contemplato dall’art. 416 c.p.c., che si applica, in virtù del richiamo operato dall’art. 2, comma 1, del medesimo d.lgs. n. 150 del 2011, per gli altri documenti depositati dalla P.A.

12. Le sanzioni in ambito bancario e finanziario e la loro generale compatibilità con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo ed il diritto euro unitario.

Secondo Sez. 2, n. 03734/2018, Sabato, Rv. 647799-01, che si ricollega a Sez. 2, n. 770/2017, Giusti, Rv. 642217-01, il fatto che la regolamentazione secondaria dell’organizzazione della CONSOB preveda in capo alla stessa, nell’ambito del procedimento di accertamento e contestazione di illeciti nell’attività soggetta alla sua vigilanza, un cumulo successivo di funzioni decisorie (cautelari e nel merito), non comporta, per ciò solo, una violazione dell’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo in tema di garanzia del giusto processo. Infatti, per un verso, detta garanzia è realizzata, alternativamente rispetto alla fase amministrativa, con l’assoggettamento del provvedimento sanzionatorio ad un sindacato giurisdizionale pieno e, per altro verso, il semplice fatto che siano già state assunte decisioni prima della deliberazione finale non è sufficiente a generare un ragionevole timore di mancanza di imparzialità, dovendosi avere riguardo, in tal senso, alla portata ed alla natura delle decisioni, da valutarsi caso per caso.

Con dei provvedimenti di notevole rilievo sistematico Sez. 2, n. 03831/2018, Cosentino, Rv. 647802-01, e Sez. 2, n. 03831/2018, Cosentino, Rv. 647802-02, hanno affermato che è rilevante e non manifestamente infondata – in relazione agli artt. 24, 111 e 117 Cost., quest’ultimo con riferimento all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e all’art. 14, comma 3, lett. g), del Patto internazionale sui diritti civili e politici adottato a New York il 16 dicembre 1966, reso esecutivo in Italia con la l. n. 881 del 1977, nonché in relazione agli artt. 11 e 117 Cost., con riferimento all’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, ed avuto riguardo al principio generale nemo tenetur se detegere – la questione di legittimità costituzionale dell’art. 187 quinquiesdecies T.U.F. – nel testo originariamente introdotto dall’art. 9, comma 2, lett. b), della l. n. 62 del 2005 – nella parte in cui detto articolo sanziona la condotta consistente nel non ottemperare tempestivamente alle richieste della CONSOB o nel ritardare l’esercizio delle sue funzioni anche nei confronti di colui al quale la medesima CONSOB, nell’espletamento delle sue funzioni di vigilanza, ascriva illeciti amministrativi relativi all’abuso di informazioni privilegiate. In particolare, è stata considerata rilevante e non manifestamente infondata – in relazione agli artt. 3, 42 e 117 Cost., quest’ultimo con riferimento all’art. 1 del Primo Protocollo addizionale alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, nonché agli artt. 11 e 117 Cost., con riferimento agli artt. 17 e 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea – la questione di legittimità costituzionale dell’art. 187 sexies T.U.F., previsto dall’art. 9, comma 2, lett. a), della l. n. 62 del 2005, nella parte in cui assoggetta a confisca l’equivalente della somma del profitto dell’illecito e dei mezzi impiegati per commetterlo, ossia l’intero prodotto dell’illecito.

Diversamente, Sez. 2, n. 20689/2018, Criscuolo, Rv. 650004-02, ha specificato che, in tema di opposizione in sede giurisdizionale al provvedimento sanzionatorio emesso dalla CONSOB, è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 195 T.U.F. in relazione all’art. 117 Cost., nella parte ove prevede che si svolga in camera di consiglio il procedimento dinanzi alla Corte di appello, dovendosi considerare quest’ultima un giudice indipendente e imparziale, dotato di giurisdizione piena e davanti al quale sono garantite la pienezza del contraddittorio e la pubblicità dell’udienza.

Coerentemente, Sez. 2, n. 20689/2018, Criscuolo, Rv. 650004-03, ha confermato che, in materia di intermediazione finanziaria, le modifiche alla parte V del d.lgs. n. 58 del 1998 apportate dal d.lgs. n. 72 del 2015 si applicano alle violazioni commesse dopo l’entrata in vigore delle disposizioni di attuazione adottate dalla CONSOB, in tal senso disponendo l’art. 6 del medesimo d.lgs. n. 72 del 2015, e che non è possibile ritenere l’applicazione immediata della legge più favorevole, atteso che il principio cd. del favor rei, di matrice penalistica, non si estende, in assenza di una specifica disposizione normativa, alla materia delle sanzioni amministrative, che risponde, invece, al distinto principio del tempus regit actum. Né tale impostazione viola i principi convenzionali enunciati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza 4 marzo 2014 (Grande Stevens ed altri c/o Italia), secondo la quale l’avvio di un procedimento penale a seguito delle sanzioni amministrative comminate dalla CONSOB sui medesimi fatti violerebbe il principio del ne bis in idem, atteso che detti principi vanno considerati nell’ottica del giusto processo, che costituisce l’ambito di specifico intervento della Corte, ma non possono portare a ritenere sempre sostanzialmente penale una disposizione qualificata come amministrativa dal diritto interno, con conseguente irrilevanza di un’eventuale questione di costituzionalità ai sensi dell’art. 117 Cost.

13. Sanzioni in ambito bancario e finanziario e principio del contraddittorio.

Con riferimento alla nota questione della natura delle sanzioni amministrative pecuniarie irrogate dalla CONSOB ai sensi dell’art. 190 del d.lgs. n. 58 del 1998, Sez. 1, n. 09561/2018, Tricomi, Rv. 648544-01, ha chiarito che tali sanzioni non hanno natura sostanzialmente penale, onde il principio del contraddittorio è rispettato con la contestazione dell’addebito e la valutazione delle controdeduzioni dell’interessato, non essendo necessarie ai fini indicati né la trasmissione all’interessato medesimo delle conclusioni dell’Ufficio sanzioni amministrative né la sua audizione innanzi alla Commissione, non dovendo trovare applicazione i principi del giusto processo e del diritto alla difesa, riferibili solo al procedimento giurisdizionale.

Più specificamente, Sez. 2, n. 09517/2018, Falaschi, Rv. 648151-02, ha affermato che nel procedimento di irrogazione delle sanzioni amministrative previste in tema di intermediazione finanziaria, il principio del contraddittorio deve modellarsi in concreto, in funzione dello stato in cui si trova la procedura al momento dell’acquisizione delle prove, senza imporne l’assunzione alla costante presenza della parte interessata, essendo sufficiente che l’autorità decidente ponga a base della sanzione il nucleo del fatto contestato, in tutte le circostanze che valgano a caratterizzarlo e che siano rilevanti ai fini della pronuncia del provvedimento finale.

Coerentemente, quindi, secondo Sez. 2, n. 20689/2018, Criscuolo, Rv. 650004-01, il procedimento amministrativo sanzionatorio della CONSOB, ai sensi dell’art. 195 T.U.F., non viola, nella parte ove non prevede l’obbligo di comunicazione all’incolpato della proposta dell’Ufficio Sanzioni, l’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo né il principio del contraddittorio nella fase decisoria, atteso che l’assoggettamento del provvedimento applicato dall’autorità amministrativa ad un successivo sindacato giurisdizionale pieno assicura le garanzie del giusto processo. Poiché le sanzioni amministrative pecuniarie irrogate dalla CONSOB diverse da quelle ex art. 187 ter T.U.F. non sono equiparabili, quanto a tipologia, severità ed incidenza patrimoniale e personale, a quelle appunto irrogate dalla CONSOB per manipolazione del mercato, esse non hanno la natura sostanzialmente penale che appartiene a queste ultime, né pongono, quindi, un problema di compatibilità con le garanzie riservate ai processi penali dall’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, agli effetti, in particolare, della violazione del ne bis in idem in ipotesi di sanzione penale ed amministrativa comminata sui medesimi fatti.

Sez. 5, n. 27564/2018, Chindemi, Rv. 651068-01, ha ribadito, allora, che il procedimento di irrogazione di sanzioni amministrative previsto dall’art. 187 septies del d.lgs. n. 58 del 1998 postula solo che, prima dell’adozione della sanzione, sia effettuata la contestazione dell’addebito e siano valutate le eventuali controdeduzioni dell’interessato. Pertanto, non violano il principio del contraddittorio l’omessa trasmissione all’interessato delle conclusioni dell’ufficio sanzioni amministrative della CONSOB e la sua mancata audizione innanzi alla Commissione, non trovando, d’altronde, applicazione, in tale fase, i principi del diritto di difesa e del giusto processo, riferibili esclusivamente al procedimento giurisdizionale.

Con riguardo all’instaurazione del giudizio di opposizione a sanzione amministrativa, Sez. 2, n. 15049/2018, Federico, Rv. 649071-01, sviluppando una tematica che già Sez. 2, n. 4826/2016, Cosentino, Rv. 639176-01, aveva iniziato ad affrontare, ha rilevato che la tempestiva proposizione del ricorso e l’espressa riserva ivi contenuta in ordine all’eventuale predisposizione di ulteriori motivi di opposizione, fondati su documenti resi accessibili dalla CONSOB oltre il termine utile per presentare il detto ricorso, sono idonee a legittimare una pronuncia di rimessione in termini per la formulazione di tali ulteriori motivi, purché siano basati sui documenti tardivamente messi a disposizione. Infatti, in sede giurisdizionale deve essere garantito il pieno recupero delle facoltà difensive in concreto pregiudicate nella precedente fase, ancorché non sia equiparabile il principio del “giusto procedimento” a quello del “giusto processo”.

14. Illeciti attinenti al riciclaggio e relativo obbligo di denuncia.

In tema di sanzioni amministrative per violazione della normativa antiriciclaggio, ai sensi dell’art. 3 del d.l. n. 143 del 1991, conv. dalla l. n. 197 del 1991, sostituito dall’art. 1 del d.lgs. n. 153 del 1997, Sez. 2, n. 20647/2018, Criscuolo, Rv. 650003-01, riprendendo e sviluppando la precedente giurisprudenza (soprattutto, Sez. 5, n. 23017/2009, Magno, Rv. 610701-01), ha affermato che il potere di valutare le segnalazioni e (in caso di ritenuta fondatezza delle medesime) trasmetterle al questore, spetta soltanto al “titolare dell’attività”, mentre il “responsabile della dipendenza”, cui è attribuito un margine di discrezionalità ridotto, è tenuto a indicare al suo superiore ogni operazione che lo induca a ritenere che il suo oggetto possa provenire dai reati previsti dagli artt. 648 bis e 648 ter c.p. Risponde, pertanto, della sanzione ex art. 5, comma 5, d.l. n. 143 del 1991, l’amministratore della società fiduciaria che, quale responsabile di primo livello alla stregua del precedente art. 3, comma 1, abbia omesso di inoltrare la suddetta segnalazione all’organo direttivo della banca.

In particolare, per Sez. 2, n. 20647/2018, Criscuolo, Rv. 650003-02, l’amministratore della società fiduciaria, quale “responsabile della dipendenza”, deve segnalare al “titolare dell’attività” (ossia all’organo direttivo della banca) ogni operazione che ritenga provenire da reati attinenti al riciclaggio sulla base di elementi oggettivi riferibili all’operazione stessa o alla capacità economica e all’attività del cliente, non essendo sufficiente, ai fini dell’esonero dall’obbligo di segnalazione, la mera conoscenza, da parte sua, dei soggetti coinvolti e della provenienza del denaro utilizzato.

Inoltre, secondo Sez. 2, n. 28888/2018, Gorjan, Rv. 651383-01, e Sez. 2, n. 20647/2018, Criscuolo, Rv. 650003-03, in materia di prevenzione dell’uso del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività criminose e di finanziamento del terrorismo, gli illeciti commessi anteriormente all’entrata in vigore del d.lgs. n. 90 del 2017, che ha modificato il d.lgs. n. 231 del 2007, e, in specie, quelli consistiti nella violazione dell’obbligo di segnalazione delle operazioni sospette, sono soggetti alla disciplina sanzionatoria più favorevole, se ancora pendenti, in considerazione dell’espresso richiamo al principio del favor rei contenuto nell’art. 69 del citato d.lgs. n. 231 del 2007, come introdotto dal d.lgs. n. 90 del 2017, in deroga a quello del tempus regit actum proprio delle sanzioni amministrative.

15. Ulteriori pronunce riguardanti le sanzioni in ambito bancario e finanziario.

Con riguardo agli assegni bancari e postali, Sez. 6-1, n. 003451/2018, Di Marzio M., Rv. 647051-01, ha chiarito, come già Sez. 2, n. 10417/2010, Giusti, Rv. 612876-01, che gli illeciti amministrativi di cui agli artt. 1 e 2 della l. n. 386 del 1990 possono essere commessi da chiunque emetta assegni bancari o postali senza l’autorizzazione del trattario o nonostante il difetto di provvista, indipendentemente dalla titolarità di un rapporto di conto corrente. Ne consegue che soggetto attivo può essere anche colui il quale, pur non essendo titolare del conto corrente, intestato ad una società, abbia emesso l’assegno in forza di delega alla firma conferitagli dall’amministratore della società stessa.

Per Sez. 1, n. 08590/2018, Fraulini, Rv. 648548-01, in tema di abuso di informazioni privilegiate, il cui accertamento “importa sempre la confisca del prodotto o del profitto dell’illecito” (art. 187 sexies, comma 1, d.lgs. n. 58 del 1998), quando il trasgressore utilizza strumenti finanziari per realizzare l’illecito, il prodotto della condotta vietata si identifica con lo strumento stesso che, per effetto della violazione, ha mutato artificialmente il proprio valore divenendo non già solo un profitto, ma proprio il prodotto dell’infrazione commessa, sicché, ai fini della confisca, non è possibile distinguere un valore legittimo iniziale dello strumento finanziario utilizzato per commettere l’illecito da un valore finale che si identificherebbe nel plusvalore illegittimamente acquisito, dovendosi escludere la sussistenza di alcuna duplicazione della sanzione irrogata.

Sez. 1, n. 08583/2018, Iofrida, Rv. 647771-01, si è occupata, nel solco del precedente rappresentato da Sez. 2, n. 9997/2017, Federico, Rv. 643747-01, del potere di vigilanza e sanzione afferente l’attività di revisione contabile, sancendo che, nelle more della completa attuazione della riforma prevista dall’art. 43 del d.lgs. n. 39 del 2010, permane la competenza esclusiva della CONSOB al relativo esercizio, in base alla disciplina anteriormente vigente.

Inoltre, secondo Sez. 2, n. 20697/2018, Cosentino, Rv. 650011-01, in tema di illecito trasferimento di denaro contante, nell’individuazione del trattamento sanzionatorio più favorevole, ex art. 69 del d.lgs. n. 231 del 2007, come introdotto dal d.lgs. n. 90 del 2017, tra la disciplina – vigente al momento della commessa violazione – di cui al d.l. n. 143 del 1991 e al d.lgs. n. 231 del 2007, nella formulazione anteriore alle modifiche introdotte dal d.lgs. n. 90 del 2017, e quella derivante da tali modifiche, non è sufficiente prendere in considerazione i minimi e i massimi edittali contemplati dalle diverse normative, occorrendo, al contrario, un apprezzamento di fatto delle circostanze di commissione dell’illecito, ex art. 67, d.lgs. n. 231 del 2007, nel testo riformulato dal d.lgs. n. 90 del 2017. Infatti, la comparazione deve fondarsi – alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 68 del 2017 – “sull’individuazione in concreto del regime complessivamente più favorevole per la persona, avuto riguardo a tutte le caratteristiche del caso specifico”.

Infine, Sez. 2, n. 31634/2018, Carrato, Rv. 651763-02, ha toccato un argomento raramente affrontato dalla S.C., affermando che, nella valutazione della consistenza delle riserve tecniche di cui all’art. 37 del d.lgs. n. 209 del 2005 (nel testo previgente e, nella specie, applicabile ratione temporis), necessarie all’impresa esercente l’attività nei rami relativi all’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile dei veicoli e dei natanti per fare fronte alla liquidazione dei sinistri, all’attuario spetta un ruolo di ausiliario tecnico, dotato di cognizioni e competenze specifiche, degli organi rappresentativi e gestionali dell’impresa che, essendo titolari di poteri di indirizzo e di controllo perché effettivi destinatari degli obblighi imposti dalla normativa di settore che regola la determinazione delle menzionate riserve, sono responsabili – indipendentemente dagli specifici addebiti che possano ascriversi al suddetto attuario, il quale non agisce in maniera del tutto autonoma ed in via esclusiva – per le violazioni commesse nell’ambito di tale ultima attività.

16. Sanzioni amministrative previste dal codice della strada: profili processuali.

Molte sono state le statuizioni che, con riferimento alle sanzioni amministrative inflitte per violazioni del codice della strada, hanno riguardato profili processuali. Fra le principali vanno annoverate quelle concernenti la tematica della competenza, la rappresentanza in giudizio, l’opposizione contro le sanzioni in questione e l’appello.

16.1. Competenza e rapporto fra giudizio penale, giudizio civile e opposizione a sanzione amministrativa.

Riveste particolare interesse la decisione delle Sez. U, n. 10261/2018, Armano, Rv. 648267-01, che ha preso posizione sulla natura giuridica della competenza del giudice di pace. Si registravano, infatti, incertezze in ordine alla necessità o meno di distinguere, ai fini in parola, tra l’opposizione all’ordinanza ingiunzione ex art. 6 del d.lgs. n. 150 del 2011 e quella contro il verbale di accertamento di cui all’art. 7 del decreto citato, nonché sui criteri applicabili riguardo all’impugnativa del preavviso di fermo.

Le S.U. hanno precisato che, nelle controversie aventi ad oggetto l’opposizione a sanzioni amministrative emesse per violazioni del codice della strada, la competenza del giudice di pace ex art. 6 del d.lgs. n.150 del 2011 è da qualificare come competenza per materia con limite di valore nelle ipotesi indicate alle lettere a) e b) del comma 5, dello stesso art. 6 mentre, relativamente alle controversie aventi ad oggetto l’opposizione al verbale di accertamento ai sensi dell’art. 7 del d.lgs. n. 150 del 2011, la competenza de qua è per materia. La S.C. ha, altresì, specificato che gli stessi criteri devono essere applicati anche con riferimento all’impugnativa del preavviso di fermo in quanto – come già chiarito da Sez. U, n. 15354/2015, Amendola A., Rv. 635989-01 – si tratta di azione di accertamento negativo.

Hanno dato seguito a tale pronuncia alcune decisioni in materia di opposizione cd. recuperatoria.

Così, con riguardo all’opposizione proposta avverso il preavviso di iscrizione ipotecaria emesso sulla base di cartelle di pagamento concernenti crediti per sanzioni irrogate per violazioni del codice della strada, Sez. 6-3, n. 20489/2018, Olivieri, Rv. 650299-01, ha affermato che, ove la parte deduca che questo atto costituisce il primo con il quale è venuta a conoscenza della sanzione irrogata in ragione della nullità o dell’omissione della notificazione del verbale di accertamento presupposto e contesti il fatto costitutivo del credito sanzionatorio, l’azione deve qualificarsi come opposizione cd. recuperatoria avverso il verbale di accertamento della violazione e rientra, pertanto, nella competenza per materia del giudice di pace ex art. 7, comma 2, del d.lgs. n. 150 del 2011.

Sez. 6-3, n. 24091/2018, Olivieri, Rv. 651363-01, ha, poi, affermato che l’opposizione “al sollecito di pagamento”, perché diretta a contestare gli stessi presupposti della pretesa sanzionatoria e, dunque, dei crediti fatti valere dalle diverse Amministrazioni, deve essere considerata come “opposizione cd. recuperatoria”, volta a negare i presupposti della formazione del titolo esecutivo, e, perciò, come opposizione tardiva ai verbali di accertamento ovvero alle ordinanze-ingiunzione, con la conseguenza che è rimessa alla competenza per materia, solo in taluni casi completata da un limite di valore, del giudice di pace ai sensi degli artt. 6 e 7 del d.lgs. n. 150 del 2011.

In tema di opposizione a preavviso di fermo amministrativo, in piena aderenza alla pronuncia delle citate S.U, Sez. 6-3, n. 24092/2018, Olivieri, Rv. 651364-01, ha statuito che l’opposizione al preavviso di fermo per crediti relativi a violazioni del codice della strada, qualificabile come “opposizione cd. recuperatoria”, ove sia diretta a contestare (anche) i presupposti della stessa pretesa sanzionatoria, si sostanzia in una azione di accertamento negativo della pretesa creditoria e rientra nella competenza per materia del giudice di pace, salvo il limite di valore contemplato in alcune ipotesi, secondo la disciplina prevista per le opposizioni a sanzioni amministrative dal d.lgs. n. 150 del 2011.

Sempre con riguardo all’opposizione a fermo amministrativo, Sez. 6-2, n. 22150/2018, Cosentino, Rv. 650356-01, pur ribadendo che le opposizioni avverso gli atti di contestazione o di notificazione delle violazioni del codice della strada si sostanziano in azioni di accertamento negativo della pretesa creditoria, ha sottolineato (richiamando in motivazione la precedente Sez. 6-2, n. 23564/2016, Falaschi, Rv. 641677-01) che essa rientra nella competenza per materia del giudice di pace senza limiti di valore.

Per quanto concerne le opposizioni proposte avverso le sanzioni conseguenti alla violazione delle norme sui limiti temporali di guida degli automezzi dettata dagli artt. 6 e 7, Reg. CEE n. 3820/85, in continuità con la precedente giurisprudenza, Sez. 6-2, n. 21990/2018, Cosentino, Rv. 650081-01, ha confermato la competenza del giudice di pace. Nella pronuncia si rileva che, benché la previsione regolamentare sia finalizzata a ragioni, oltre che di sicurezza dei trasporti su strada, anche di tutela dei lavoratori del settore, tuttavia il superamento di quei limiti è previsto e punito come illecito amministrativo dall’art. 174 codice della strada. Pertanto, questa essendo la materia regolata dalla norma che prevede l’illecito, non può trovare applicazione la deroga in favore del tribunale prevista dall’art. 22 bis, comma 2, lett. a), l. n. 689 del 1981, allorché la sanzione sia stata applicata per una violazione concernente disposizioni in materia di tutela del lavoro e di prevenzione degli infortuni sul lavoro, ma sussiste la generale competenza del giudice di pace in tema di opposizioni ai sensi dell’art. 22 della stessa legge (nello stesso senso si era espressa Sez. 1, n. 5977/2005, De Chiara, Rv. 580827-01).

Non incide, invece, sulla competenza il cumulo della sanzione pecuniaria, di valore determinato, e della sanzione accessoria della decurtazione dei punti dalla patente di guida il quale, dunque, non rende la causa di valore indeterminabile ai fini dell’individuazione del giudice da adire. È quanto statuito da Sez. 2, n. 12517/2018, Penta, Rv. 648756-01, che ha dato seguito all’indirizzo di Sez. 6-2, n. 13598/2014, Giusti, Rv. 631240-01, entrambe menzionate supra.

È stata affrontata, poi, la questione dei rapporti tra processo penale e giudizio civile in tema di sanzioni amministrative da Sez. 6-2, n. 05229/2018, Grasso G., Rv. 648214-01, la quale ha chiarito che non sussiste pregiudizialità tra il giudizio penale, instaurato contro colui che è accusato di avere falsificato o contraffatto documenti assicurativi, e il giudizio civile relativo all’impugnazione della sospensione della patente di guida, inflitta ai sensi dell’art. 193 del codice della strada. Infatti, tale sanzione, la quale è prevista a carico di chi abbia falsificato o contraffatto i documenti assicurativi, è correlata anche alla violazione dell’obbligo di circolare con valida assicurazione, sicché, non integrando detta condotta una specifica figura di reato, in assenza di espressa deroga, deve essere salvaguardato il principio dell’autonomia dei giudizi, che non importa alcuna menomazione del diritto di difesa.

16.2. La rappresentanza in giudizio.

Nell’anno in corso sono intervenute delle pronunce concernenti la rappresentanza in giudizio.

Innanzitutto, va richiamata Sez. 2, n. 26990/2018, Criscuolo, Rv. 650788-01, che ha considerato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 9, del d.lgs. n. 150 del 2011, in relazione all’art. 76 Cost., nella parte in cui prevede, nei giudizi di opposizione ad ordinanza-ingiunzione ex art. 205 del codice della strada, che il Prefetto, quale autorità che ha emesso il provvedimento, possa farsi rappresentare in giudizio dall’amministrazione di appartenenza dell’organo accertatore, la quale vi provvede a mezzo di funzionari delegati, laddove sia destinataria dei proventi della sanzione. La S.C. ha ritenuto che tale previsione realizzi il coordinamento con le disposizioni vigenti, assicurando una possibilità di rappresentanza in giudizio da parte degli enti che, in quanto beneficiari dei proventi della sanzione, sono, nella sostanza, titolari di un interesse concreto alla affermazione della legittimità del provvedimento opposto, conformandosi così ai principi e ai criteri di delega contenuti nella l. n. 69 del 2009.

Ancora in tema di rappresentanza in giudizio, Sez. 6-2, n. 15263/2018, Scalisi, Rv. 649213-01, ha statuito che, nel giudizio di opposizione a sanzione amministrativa per violazione del codice della strada, la facoltà concessa all’amministrazione resistente, in deroga alla disciplina ordinaria, di avvalersi di funzionari appositamente delegati, è limitata al solo giudizio di primo grado mentre, per quelli successivi, trovano applicazione le norme generali in materia di rappresentanza e difesa per mezzo dell’Avvocatura dello Stato, ai sensi dell’art. 11, comma 1, r.d. n. 1611 del 1933, nel testo modificato dall’art. 1, l. n. 260 del 1958, con la conseguenza che la notifica dell’appello contro la sentenza di prime cure deve essere effettuata, a pena di nullità, presso la suddetta Avvocatura dello Stato.

Infine, Sez. 3, n. 28528/2018, D’Arrigo, Rv. 651657-01, ha affrontato la questione concernente l’individuazione del soggetto cui deve essere notificata l’impugnazione del preavviso di fermo amministrativo previsto dall’art. 86 del d.P.R. n. 602 del 1973. Essa ha chiarito che, venendo in rilievo una ordinaria azione di accertamento negativo, si applica il combinato disposto dell’art. 144, comma 1, c.p.c., e dell’art. 11, comma 1, del r.d. n. 1611 del 1933, in forza del quale l’atto introduttivo del giudizio nei confronti di un’amministrazione dello Stato deve essere notificato presso l’ufficio dell’Avvocatura dello Stato del distretto ove ha sede l’autorità giudiziaria competente. In tale situazione, infatti, non opera la deroga prevista dagli artt. 6, comma 9, e 7, comma 8, del d.lgs. n. 150 del 2011, per la quale nei soli giudizi di opposizione ad ordinanza-ingiunzione e di opposizione al verbale di accertamento di violazione del codice della strada il ricorso introduttivo è notificato all’autorità amministrativa che ha emanato l’atto impugnato che, a sua volta, può stare in giudizio personalmente o tramite propri funzionari delegati.

16.3. L’opposizione, i suoi effetti, il termine di proposizione ed i poteri del giudice.

La S.C. è nuovamente intervenuta in tema di notificazione, dando seguito ad un orientamento consolidato. Sez. 6-2, n. 10185/2018, Falaschi, Rv. 648228-01, ha ribadito che, in materia di sanzioni amministrative per violazioni del codice della strada, la proposizione di tempestiva e rituale opposizione ex art. 22 della l. n. 689 del 1981 sana la nullità della notificazione del processo verbale di accertamento, giacché l’art. 18, comma 4, della stessa legge dispone che la notificazione è eseguita nelle forme dell’art. 14 che, richiamando le modalità previste dal codice di rito, rende applicabile l’art. 156 c.p.c. sull’irrilevanza della nullità nel caso di raggiungimento dello scopo (nel medesimo senso si erano già espresse Sez. 6-2, n. 20975/2014, Parziale, Rv. 632666-01, e Sez. 2, n. 11548/2007, Trombetta, Rv. 597562-01).

Sez. 6-2, n. 31139/2018, Correnti, Rv. 651633-01, ha statuito che, in tema di opposizione a cartella di pagamento, emessa ai fini della riscossione di una sanzione amministrativa pecuniaria, comminata per violazione del codice della strada, ove la parte deduca che la cartella costituisce il primo atto con il quale è venuta a conoscenza della sanzione irrogata, in ragione della nullità o dell’omissione della notificazione del processo verbale di accertamento della violazione, l’opposizione deve essere proposta ai sensi dell’art. 7 del d.lgs. n. 150 del 2011, e non nelle forme dell’opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c. e, pertanto, entro trenta giorni dalla notificazione della cartella. Ne consegue che, qualora l’amministrazione dia prova della validità di tale notificazione, l’opposizione dovrà essere dichiarata inammissibile, senza che sia possibile mutare il titolo dell’opposizione in corso di causa, ogni difesa essendo preclusa perché avrebbe dovuto essere presentata nel termine di trenta giorni dalla suddetta notificazione.

Quanto ai poteri del giudice avanti al quale sia proposta opposizione ad ordinanza-ingiunzione, Sez. 2, n. 01524/2018, Sabato, Rv. 647075-01, ha affermato che il giudice che disponga l’annullamento di detta ordinanza non può contestualmente dichiarare esecutivi i verbali di accertamento posti a fondamento dell’ordinanza medesima.

Infine, Sez. 2, n. 14366/2018, Federico, Rv. 648971-01, ha precisato che l’accertamento dell’illegittimità della confisca del veicolo comporta l’annullamento soltanto di tale misura accessoria e non dell’intera ordinanza-ingiunzione.

16.4. L’appello: legittimazione, termini e rito.

Innanzitutto, Sez. 2, n. 22885/2018, Carrato, Rv. 650375-01, in adesione alla giurisprudenza precedente, ha confermato che, nel giudizio di opposizione avverso l’ordinanza ingiunzione prefettizia per infrazione accertata dalla polizia municipale, legittimata passiva, a norma dell’art. 23 della l. n. 689 del 1981 (ratione temporis applicabile), come precedentemente richiamato dall’art. 205 del codice della strada (nel testo vigente anteriormente alla sua sostituzione sopravvenuta per effetto del d.lgs. n. 150 del 2011), è unicamente l’autorità amministrativa che ha irrogato la sanzione, ovvero il Prefetto, sicché è inammissibile l’appello proposto successivamente dal Comune, per difetto di legittimazione dello stesso. In applicazione di questo principio, in una fattispecie di opposizione contro un’ordinanza-ingiunzione emessa dal Prefetto, la S.C. ha dichiarato inammissibile l’appello presentato dal solo Comune, e non anche dal Prefetto, che, invece, non risultava avere partecipato al giudizio di secondo grado.

Sempre in riferimento alle modalità e ai termini di proposizione del giudizio di appello, Sez. 6-2, n. 16390/2018, Scarpa, Rv. 649234-01, ha statuito che, in tema di opposizione al verbale di accertamento di violazione del codice della strada, il giudizio di appello, in quanto regolato dal rito del lavoro ai sensi degli artt. 6 e 7 del d.lgs. n. 150 del 2011, deve essere proposto con le modalità e nei termini previsti dall’art. 434 c.p.c..

Ne deriva che, se il ricorrente, nonostante la rituale comunicazione dell’udienza di discussione fissata ex art. 435 c.p.c., non provvede a notificare l’atto di appello o, partecipando a tale udienza, non adduce alcun giustificato impedimento al fine di essere rimesso in termini ex art. 153 c.p.c., va dichiarata anche d’ufficio l’improcedibilità dell’impugnazione.

Infine, Sez. 2, n. 27340/2018, Picaroni, Rv. 651020-01, ha affrontato il problema del mutamento del rito in appello. Nel caso di opposizione a verbale di accertamento instaurato dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 150 del 2011, il giudice non è tenuto alla fissazione del termine perentorio ex art. 4 del citato decreto per consentire l’eventuale integrazione degli atti introduttivi, né a fare notificare la relativa ordinanza alla parte contumace. A questa conclusione la Corte è addivenuta sia perché, ai sensi dell’art. 2 del menzionato decreto, trovano applicazione le disposizioni del codice di procedura civile concernenti la disciplina dell’appello, ad eccezione, fra gli altri, dell’art. 439 c.p.c., che regola proprio il cambiamento del rito in appello, sia in quanto, in tale grado, sono già intervenute le decadenze a carico delle parti, costituite o contumaci, sicché non è ravvisabile la stessa ratio sottesa all’art. 426 c.p.c..

17. L’obbligo del proprietario del veicolo di comunicare i dati del conducente.

In primo luogo, Sez. 2, n. 18027/2018, Oliva, Rv. 649590-02, ha ribadito il principio (già formulato in termini identici da Sez. 2, n. 15542/2015, Bianchini, Rv. 636027-01) per cui il termine entro il quale il proprietario del veicolo è tenuto, ai sensi dell’art. 126 bis, comma 2, codice della strada, a comunicare all’organo di polizia che procede i dati del conducente, non decorre dalla definizione dell’opposizione avverso il verbale di accertamento dell’infrazione presupposta, ma dalla richiesta rivolta al proprietario dall’autorità, trattandosi di un’ipotesi di illecito istantaneo posto a garanzia dell’interesse pubblicistico relativo alla tempestiva identificazione del responsabile, del tutto autonomo rispetto all’effettiva commissione di un precedente illecito.

Quindi, Sez. 2, n. 09555/2018, Criscuolo, Rv. 648094-01, ha affrontato la questione relativa alla sanzione pecuniaria inflitta per l’illecito amministrativo previsto dal combinato disposto degli artt. 126 bis, comma 2, penultimo periodo, e 180, comma 8, del codice della strada, in relazione alla violazione dell’obbligo del proprietario del veicolo di comunicare i dati personali e della patente del conducente. La pronuncia (discostandosi da Sez. 2, n. 12842/2009, Correnti, Rv. 608469-01) ha precisato che occorre distinguere la condotta – di per sé meritevole di sanzione – del proprietario che semplicemente non ottemperi all’invito a comunicare i dati personali e della patente del conducente al momento della commessa violazione da quella del proprietario che, invece, abbia fornito una dichiarazione di contenuto negativo adducendo giustificazioni, la cui idoneità ad escludere la presunzione di responsabilità a carico del dichiarante deve essere valutata dal giudice di merito con apprezzamento in fatto non sindacabile dal giudice di legittimità.

Alla luce di questa giurisprudenza e del contrasto che sembrava essere sorto all’interno della sezione II, la S.C. è intervenuta per risolvere definitivamente la problematica del rapporto fra dovere del proprietario di sapere chi detiene il suo veicolo e limiti della diligenza da lui esigibile.

Infatti, con riguardo alle violazioni del codice della strada regolate dal combinato disposto degli artt. 126 bis, comma 2 – nel testo successivo alla modifica di cui al d.l. n. 262 del 2006, convertito con modif. dalla l. n. 286 del 2006 – e 180, comma 8, dello stesso codice, Sez. 2, n. 30939/2018, Cosentino, Rv. 651600-01, ha statuito che il motivo addotto dal proprietario del veicolo per giustificare la non conoscenza dell’identità del guidatore, a fini di esonero dalla relativa responsabilità, deve essere “documentato” e che tale aggettivo va interpretato teleologicamente in senso estensivo quale sinonimo di “provato”, non necessariamente con prove di natura documentale, ma anche mediante l’acquisizione di prove costituende.

Fornendo, poi, una importante interpretazione della normativa de qua, Sez. 2, n. 30939/2018, Cosentino, Rv. 651600-03, ha risolto l’apparente contrasto da ultimo menzionato, chiarendo, in accordo con la citata Sez. 2, n. 9555/2018, Criscuolo, Rv. 648094-01, che nella nozione normativa di “giustificato motivo” rilevante ai fini dell’esonero da responsabilità del proprietario del veicolo per la mancata comunicazione dei dati personali e della patente del soggetto che lo guidava all’epoca del compimento di una infrazione possono rientrare soltanto il caso di cessazione della detenzione del detto veicolo da parte del proprietario o la situazione imprevedibile e incoercibile che impedisca allo stesso di sapere chi conducesse il mezzo in un determinato momento, nonostante egli abbia dimostrato di avere adottato misure idonee, esigibili secondo criteri di ordinaria diligenza, a garantire la concreta osservanza del dovere di conoscere e ricordare nel tempo l’identità di chi si avvicendi nella guida. In applicazione del principio, la S.C. ha indicato, come esempi di “giustificato motivo”, la sottrazione illecita del mezzo o la sua dazione in comodato a terzi, prima della commissione dell’illecito, con contratto regolarmente registrato e con assunzione, da parte del comodatario, dell’obbligo di comunicare l’identità del conducente in presenza di una infrazione.

Inoltre, con un’ulteriore ed opportuna specificazione, Sez. 2, n. 30939/2018, Cosentino, Rv. 651600-02, ha affermato che l’accertamento dell’esistenza del “giustificato motivo” de quo compete, con riferimento alla ricostruzione del relativo fatto storico, al giudice di merito e che la qualificazione, operata da quest’ultimo, di tale fatto storico quale “giustificato motivo” è censurabile in sede di legittimità, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3), c.p.c., sotto il profilo della sua coerenza con i principi dell’ordinamento e con gli standard valutativi esistenti nella realtà sociale che concorrono, unitamente a detti principi, a comporre il diritto vivente. Pertanto, sancendo che il “giustificato motivo” rientrava nella tipologia delle clausole generali, la S.C. ha statuito che il giudice di appello aveva trascurato di assumere tra i menzionati standard il dovere del proprietario del veicolo di conoscere l’identità del conducente.

18. La sospensione della patente di guida.

Nel corso dell’anno la Corte di cassazione è nuovamente intervenuta a ribadire la diversità dei presupposti della sanzione della sospensione della patente di guida di cui all’art. 186 del codice della strada, connessa alla guida in stato di ebbrezza, rispetto a quelli ex art. 223 del medesimo codice.

Infatti, Sez. 2, n. 09539/2018, Varrone, Rv. 648091-01, ha statuito che, nel primo caso, si è in presenza di un fatto penalmente rilevante e la sospensione può conseguire, a titolo di sanzione accessoria, a seguito dell’accertamento del reato, mentre, nel secondo, la misura ha carattere preventivo e natura cautelare e trova giustificazione nella necessità di impedire che, nell’immediato, prima ancora che sia accertata la responsabilità penale, il conducente del veicolo, nei confronti del quale sussistano fondati elementi di un’evidente responsabilità in ordine ad eventi lesivi dell’incolumità altrui, continui a tenere una condotta che possa arrecare pericolo ad altri soggetti. Conseguentemente, ove sia stata accertata, a carico del conducente, la contravvenzione prevista dall’art. 186 del codice della strada, la sospensione della patente di guida, con contestuale obbligo di sottoporsi a visita medica, in tanto può essere irrogata in quanto solo ricorrano le condizioni indicate al comma 9 del predetto articolo, ossia previo accertamento di un valore alcolemico superiore a 1,5 grammi per litro (in senso conforme si era già pronunciata Sez. 2, n. 21447/2010, Mazzacane, Rv. 615162-01).

19. L’accertamento e la contestazione delle infrazioni al codice della strada.

Le modalità con le quali devono essere accertate e contestate le infrazioni al codice della strada sono state oggetto di alcune pronunce. Inoltre, ha sempre maggiore rilievo la problematica dell’individuazione del destinatario delle sanzioni de quibus e del responsabile solidale.

19.1. Le modalità.

In ordine all’accertamento delle violazioni al codice della strada, Sez. 6-2, n. 30664/2018, Carrato, Rv. 652008-01, con una decisione di notevole importanza pratica, ha chiarito che le segnalazioni fisse delle postazioni mobili di rilevamento elettronico della velocità devono essere ripetute ogni volta che, fra tali segnalazioni ed il luogo ove si trovano le suddette postazioni, vi siano intersezioni stradali.

Secondo Sez. 2, n. 18023/2018, Correnti, Rv. 649588-01, è necessario che, fuori dalle ipotesi tipizzate dal legislatore, la contestazione sia immediata e che, ove sia differita, il verbale notificato agli interessati contenga la specificazione dei motivi che hanno reso impossibile detta contestazione immediata. Essa ha precisato che sulla motivazione è ammissibile il sindacato giurisdizionale il quale, però, incontra il limite della non contestabilità delle modalità di organizzazione del servizio (tale è stata ritenuta, nella decisione esaminata, la scelta di redigere il verbale nei locali della polizia municipale a seguito del verificarsi di un sinistro).

Qualora, poi, sia impossibile procedere alla menzionata contestazione immediata, Sez. 6-2, n. 07066/2018, Picaroni, Rv. 648219-01, ha sottolineato che il termine previsto dall’art. 201 codice della strada per la notifica del verbale di accertamento, nell’ipotesi residuale in cui non sia individuabile il luogo dove la stessa deve essere eseguita per mancanza dei relativi dati nel PRA o nell’Archivio nazionale dei veicoli o negli atti di stato civile, decorre da quando l’Amministrazione è posta in condizione di identificare il trasgressore o il suo luogo di residenza e purché la difficoltà di accertamento sia addebitabile al trasgressore medesimo (il quale abbia tardivamente trascritto il trasferimento di proprietà del veicolo, ovvero abbia omesso di comunicare il mutamento di residenza), questa regola non trovando applicazione, al contrario, nell’eventualità che la difficoltà in questione sia connessa all’attività dell’Amministrazione.

19.2. L’individuazione del destinatario delle sanzioni e del responsabile solidale. 

Innanzitutto, Sez. 2, n. 20436/2018, Oliva, Rv. 649962-01, ha affrontato il problema della individuazione del destinatario delle sanzioni amministrative connesse alla circolazione stradale e, ponendosi in continuità con la precedente giurisprudenza che riconosce alla trascrizione dell’atto di vendita del veicolo nel PRA il valore di “pubblicità notizia” finalizzata soltanto a dirimere conflitti tra più acquirenti di uno stesso mezzo di trasporto da un unico dante causa (in tal senso, Sez. 3, n. 22605/2009, Ambrosio, Rv. 609972-01), ha affermato che la mancanza di detta annotazione determina una mera presunzione del fatto che la vettura sia rimasta nella disponibilità dell’alienante e che questa presunzione è recessiva rispetto alla prova fondata sul certificato di proprietà il quale, ancorché non trascritto, dimostra l’avvenuto trasferimento del bene in capo all’acquirente.

Sulla individuazione del responsabile delle sanzioni amministrative pecuniarie per infrazioni stradali è intervenuta, altresì, Sez. 6-2, n. 01845/2018, Scalisi, Rv. 647384-01, la quale, aderendo all’orientamento già seguito da Sez. 6-2, n. 18988/2015, Parziale, Rv. 636528-01, ha ribadito che, nel caso di vetture date in noleggio, il locatore del veicolo è responsabile in solido con il locatario ed il conducente, giacché l’art. 196 codice della strada, pur menzionando esclusivamente il locatario, intende assicurare il pagamento di un soggetto agevolmente identificabile, mentre l’identità del locatario, di regola, è nota esclusivamente al locatore.

20. Il pagamento delle sanzioni inflitte per infrazioni al codice della strada e la loro riscossione.

In tema di versamento tardivo delle sanzioni amministrative conseguenti a violazioni del codice della strada, Sez. 2, n. 14368/2018, Federico, Rv. 648973-01, ha chiarito che, poiché il pagamento in misura ridotta è consentito, ai sensi dell’art. 202, comma 1, del codice stesso, entro i sessanta giorni dalla contestazione, ove l’adempimento avvenga in data successiva allo spirare del termine indicato, il verbale costituisce titolo esecutivo per una somma pari alla metà del massimo della sanzione ex art. 203, comma 3, del medesimo codice, mentre l’importo pagato in ritardo va trattenuto come acconto sul totale.

Con specifico riferimento alla fase della riscossione delle sanzioni, in continuità con l’orientamento precedente di Sez. 6-3, n. 19377/2011, Barreca, Rv. 619869-01, Sez. 2, n. 10372/2018, Orilia, Rv. 648175-01, ha nuovamente escluso che le disposizioni dello Statuto del contribuente operino in relazione all’azione dei concessionari, in ragione del fatto che le norme dell’ordinamento tributario sono applicabili solo se espressamente richiamate e nei limiti di tale richiamo.

Sez. 2, n. 10372/2018, Orilia, Rv. 648175-02, ha, quindi, confermato che alla riscossione delle somme dovute a titolo di sanzioni amministrative per violazioni del codice della strada non è applicabile la decadenza stabilita dall’art. 17 del d.P.R. n. 602 del 1973, per l’iscrizione a ruolo dei crediti tributari, ma unicamente la prescrizione quinquennale dettata in via generale dall’art. 28 della l. n. 689 del 1981 e, con specifico riferimento alle sanzioni conseguenti alle infrazioni stradali, dall’art. 209 codice della strada.

A rafforzare la convinzione che si sia formato un indirizzo destinato a durare, analogo principio è stato formulato da Sez. 3, n. 28529/2018, D’Arrigo, Rv. 651635-01, pur se in una controversia concernente la decadenza di cui all’art. 25 del d.P.R. n. 602 del 1973.

21. Le sanzioni diverse da quelle comminate per infrazioni al codice della strada.

Nel corso dell’anno molteplici pronunce hanno precisato presupposti, struttura e ambito applicativo delle sanzioni amministrative non riconducibili ad infrazioni al codice della strada. In particolare, hanno assunto rilievo le decisioni che si sono occupate di dispositivi medici e prodotti alimentari.

21.1. I dispositivi medici.

In tema di pubblicità di dispositivi medici, Sez. 2, n. 10892/2018, Criscuolo, Rv. 648177-01, ha statuito che dell’illecito amministrativo previsto dall’art. 15, comma 3, l. n. 14 del 2003 – che rinvia alle sanzioni imposte dall’art. 201 r.d. n. 1265 del 1934, relativo alla pubblicità di dispositivi medici in assenza della prescritta autorizzazione ministeriale – risponde non solo il produttore del dispositivo, ma anche il “fornitore di contenuti” di cui all’art. 2, comma 1, lett. d), d.lgs. n. 177 del 2005, nel testo vigente dal 1° dicembre 2007 al 29 marzo 2010, prima delle modifiche apportate dal d.lgs. n. 44 del 2010. La S.C. ha ritenuto che, nella fattispecie in esame, tale soggetto doveva identificarsi nel direttore responsabile dell’emittente televisiva che aveva trasmesso la pubblicità in questione.

Sempre in materia di dispositivi medici, ma con riguardo alla loro esportazione, Sez. 2, n. 09544/2018, Scarpa, Rv. 648047-01, ha ritenuto che non trovi applicazione il divieto di atti di disposizione e transazioni concernenti beni “comunque appartenenti” alla Repubblica dell’Iraq, stabilito dall’art. 1, del d.l. n. 220 del 1990, conv. dalla l. n. 278 del 1990, interpretato conformemente alla disciplina comunitaria contenuta nel Reg. CE n. 2465 del 1996, laddove dette esportazioni siano state preventivamente autorizzate dall’autorità competente di uno Stato membro, ovvero altrimenti approvate dal comitato istituito a norma della risoluzione n. 661 del 1990 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. La S.C. ha, infatti, precisato che si deve avere riguardo all’autorizzazione concessa all’operazione commerciale unitariamente intesa e non ai singoli soggetti partecipanti individualmente, pure in via indiretta, agli atti altrimenti vietati.

21.2. I prodotti alimentari.

La Corte si è occupata, altresì, di sanzioni amministrative conseguenti alla commercializzazione di prodotti alimentari preconfezionati destinati al consumatore.

In proposito, Sez. 2, n. 15330/2018, Varrone, Rv. 649174-01, ha evidenziato come finalità dell’obbligo di apporre sulle confezioni le indicazioni previste dalle lettere e) ed f) dell’art. 3 del d.lgs. n. 109 del 1992 (nella formulazione applicabile ratione temporis) sia quella di consentire al consumatore di conoscere, al momento dell’acquisto, ogni elemento atto ad individuare la ditta produttrice e il luogo di produzione. Tale obbligo non può ritenersi assolto nel caso in cui risultino il numero di iscrizione nel registro delle ditte della Camera di commercio e il numero cd. AIA, ma manchino il nome del produttore e la sede dello stabilimento. L’assenza di questi ultimi dati, infatti, non può considerarsi priva di offensività, essendone imposta la specificazione dalla legge, né rileva la possibilità di risalire agli stessi mediante il ricorso ad elementi esterni, quale una ricerca sulla rete internet, occorrendo, al contrario, che il consumatore ne venga a conoscenza prima dell’acquisto con la sola lettura dell’etichetta.

Ancora in tema di prodotti alimentari, ma con riguardo al profilo dell’igiene dei medesimi, Sez. 6-2, n. 10412/2018, Carrato, Rv. 648230-01, ha stabilito che l’illecito amministrativo ex art. 3, comma 3, del d.lgs. n. 155 del 1997, in virtù del combinato disposto dei commi 1 e 2 dell’art. 8, ha una struttura a formazione complessa e progressiva poiché la condotta sanzionata non consiste nella omessa tenuta del cd. “documento di autocontrollo”, ma nel mancato o inidoneo adeguamento, da parte dell’esercente commerciale, alle prescrizioni ordinate dall’autorità amministrativa all’atto del primo controllo. Conseguentemente, la S.C. ha ritenuto che l’illecito può dirsi consumato solo a seguito dell’inottemperanza alla precedente diffida ad adempiere con l’indicazione delle necessarie prescrizioni alle quali conformarsi e la fissazione del termine per la regolarizzazione.

21.3. Le altre sanzioni.

Sez. 2, n. 19553/2018, Criscuolo, Rv. 649995-01, è intervenuta sulla nozione di rifiuto rilevante ai fini della configurazione delle violazioni amministrative in materia di rifiuti, nella specie, quella prevista dall’art. 15 del d.lgs. n. 22 del 1997. La Corte di cassazione ha precisato che, in base al disposto degli artt. 6 e 7 del citato d.lgs., l’attività di sbancamento, movimentazione terra e riutilizzo di materiali inerti provenienti da costruzioni rientra tra quelle da cui origina la produzione di un rifiuto, non essendo sufficiente l’astratta destinazione del materiale di risulta ad una successiva utilizzazione che, invece, deve avvenire in concreto e nello stesso ciclo produttivo e, dunque, nel medesimo luogo di produzione. Neppure rileva, in senso contrario, l’art. 14 del d.l. n. 138 del 2002, convertito in l. n. 178 del 2002, che – ai sensi della sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea dell’11 novembre 2004, in causa C-457/02 – deve essere disapplicato, in quanto contrastante con l’art. 1, lett. a), della direttiva CEE n. 442 del 1975, recepito dal citato art. 6, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 22 del 1997, nella parte ove sottrae dalla categoria dei rifiuti le sostanze che possono essere riutilizzate in un diverso ciclo produttivo le quali, secondo la direttiva de qua, devono considerarsi rifiuti fino alla loro effettiva riutilizzazione. Pertanto, la S.C. ha qualificato come rifiuti i residui delle lavorazioni, anche se sottoposti a trattamento di macinatura e vagliatura, poiché tale trattamento era stato svolto da impresa non autorizzata e in un cantiere differente da quello di provenienza.

In tema di pesca marittima, Sez. 6-2, n. 14454/2018, Carrato, Rv. 649090-01, ha specificato la portata delle previsione sanzionatoria dell’art. 11 bis del regolamento CE n. 894 del 1997, come modificato dall’art. 1 del regolamento CE n. 1239 del 1998, chiarendo che esso vieta la semplice disponibilità di fatto di una rete da posta derivante destinata alla cattura di specie di pesci elencate nell’allegato VIII, tra le quali il pesce spada, mentre non rileva la circostanza che il soggetto controllato sia proprietario di tale rete e che al suo interno sia stato effettivamente rinvenuto del pescato.

In materia di caccia, Sez. 2, n. 10888/2018, Criscuolo, Rv. 648242-01, ha affrontato la questione degli effetti del pagamento in misura ridotta, ai sensi dell’art. 16 della l. n. 689 del 1981, della sanzione pecuniaria conseguente alla illecita uccisione di un capo diverso, per specie o sesso, rispetto a quello assegnato nella caccia di selezione degli ungulati di cui alla fattispecie contenuta nell’art. 53, comma 1, lett. p), l.r. Piemonte n. 70 del 1996, poi abrogata dalla l.r. Piemonte n. 5 del 2012. La S.C. ha precisato che detto pagamento non comporta che il responsabile della violazione amministrativa acquisti la proprietà dell’animale abbattuto, il quale continua a fare parte del patrimonio indisponibile dello Stato.

Con riguardo alle misure sanzionatorie previste dall’art. 709 ter c.p.c. e, in particolare, alla condanna al pagamento di sanzione amministrativa pecuniaria, Sez. 1, n. 16980/2018, Lamorgese, Rv. 649673-01, ha affermato che la loro applicazione è disposta facoltativamente dal giudice nei confronti del genitore responsabile di gravi inadempienze e di atti “che comunque arrechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento delle modalità dell’affidamento”. Tuttavia, tali sanzioni non presuppongono l’accertamento in concreto di un pregiudizio subito dal minore, poiché l’uso della congiunzione disgiuntiva “od” evidenzia che l’avere ostacolato il corretto svolgimento delle prescrizioni giudiziali è un fatto che giustifica di per sé l’irrogazione della condanna, coerentemente con la funzione deterrente e sanzionatoria intrinseca alla norma richiamata.

Nell’ambito della disciplina dei servizi di telecomunicazioni, Sez. 2, n. 10889/2018, Criscuolo, Rv. 648174-01, si è occupata delle sanzioni amministrative applicabili al soggetto già abilitato a trasmettere in virtù di concessione rilasciata ai sensi dell’art. 32 l. n. 223 del 1990, che esegua modifiche all’impianto di radiodiffusione in assenza di autorizzazione ex art. 28 d.lgs. n. 177 del 2005. In tal caso, in forza del principio di tassatività della fattispecie sanzionatoria, la S.C. ha ritenuto applicabile la sanzione della disattivazione degli impianti prevista dall’art. 32, comma 5, l. n. 223 del 1990, in luogo della diversa sanzione amministrativa pecuniaria di cui all’art. 98, comma 8, d.lgs. n. 259 del 2003, poiché quest’ultima sanzione è correlata all’obbligo di procedere alla denuncia di inizio attività stabilito dall’art. 25, comma 4, d.lgs. n. 259 del 2003, che non è imposto nell’ipotesi di precedente abilitazione.

Infine, in tema di elezioni amministrative, Sez. 1, n. 15038/2018, Mercolino, Rv. 649124-01, ha escluso che costituisca misura sanzionatoria, secondo i principi elaborati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, la dichiarazione di incandidabilità degli amministratori che “hanno dato causa allo scioglimento dei consigli comunali o provinciali” prevista dall’art. 143, comma 11, del d.lgs. n. 267 del 2000. Infatti, essa non impone la verifica della commissione di un illecito penale o dell’esistenza dei presupposti per l’applicazione di una misura di prevenzione, né l’adozione, nel corso del relativo procedimento, delle garanzie previste per l’applicazione delle sanzioni penali. Ciò perché si tratta di una misura interdittiva di carattere preventivo – i cui presupposti di applicazione sono ben individuati e, quindi, prevedibili – che è disposta all’esito di un procedimento svolto nel pieno contraddittorio delle parti, tutelando l’interesse costituzionalmente protetto al ripristino delle condizioni di legalità ed imparzialità nell’esercizio delle funzioni pubbliche ed incidendo sul diritto fondamentale all’elettorato passivo solo in modo spazialmente e temporalmente limitato, all’esclusivo fine di ristabilire il rapporto di fiducia tra i cittadini e le istituzioni, indispensabile per il corretto funzionamento dei compiti demandati all’ente (sulla natura della dichiarazione di incandidabilità si era già pronunciata Sez. U, n. 1747/2015, Giusti, Rv. 634130-01).

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CAPITOLO XXX

EQUA RIPARAZIONE PER L’IRRAGIONEVOLE DURATA DEL PROCESSO

(di Rosaria Giordano )

Sommario

1 Premessa. - 2 Legittimazione attiva - 3 Termine di decadenza per la proposizione del ricorso. - 4 Condizioni di proponibilità della domanda di equa riparazione. - 5 Procedimento monitorio e fase di opposizione. - 6 Determinazione e durata “ragionevole” del giudizio presupposto. - 7 Diritto all’indennizzo. - 8 Altre questioni processuali.

1. Premessa.

Il diritto all’equa riparazione per l’irragionevole durata dei processi è stato oggetto, nei suoi presupposti sostanziali e processuali, di attenta elaborazione nella giurisprudenza della Corte, anche nel corso del 2018, in ragione delle numerose questioni problematiche tradizionalmente poste dalla l. n. 89 del 2001, cd. legge Pinto, più volte modificata, e le cui disposizioni devono essere costantemente coordinate con i principi sanciti dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per evitare la cd. “ineffettività” del rimedio interno.

2. Legittimazione attiva

La legittimazione a proporre domanda di equa riparazione compete a ciascun soggetto che assuma di aver subito un pregiudizio dall’irragionevole durata di un processo del quale è stato parte.

Su un piano generale, occorre ricordare Sez. 6-2, n. 22975/2017, Cosentino, Rv. 645571-01, per la quale il diritto all’equa riparazione del danno non patrimoniale da irragionevole durata di un processo non può essere fatto valere in via surrogatoria, rientrando nella categoria dei diritti che, per loro natura o per disposizione di legge, non possono essere esercitati se non dal loro titolare, in quanto l’esistenza di detto danno non può essere predicata in difetto di allegazione del danneggiato.

Quanto ai limiti temporali entro i quali può essere rilevato il difetto di legitimatio ad causam, si segnala Sez. 2, n. 12122/2018, Picaroni, Rv. 648499-01, la quale, traendo le mosse dal più generale assunto secondo cui il giudizio di opposizione ex art. 5-ter della l. n. 89 del 2001 non ha natura di impugnazione, limitata dai motivi di censura, e, quindi, non è configurabile il meccanismo che governa il fenomeno del giudicato interno, ha affermato che, nella fase dell’opposizione, il giudice può rilevare d’ufficio il difetto della legitimatio ad causam dei ricorrenti, senza che assuma valore la circostanza che la loro legittimazione attiva non sia stata contestata dalla controparte, poiché il principio di non contestazione mira a selezionare i fatti bisognosi di istruzione probatoria in un ambito dominato dalla disponibilità delle parti, al quale è estranea la legitimatio ad causam, che attiene al contraddittorio e deve essere verificata anche d’ufficio. Nella specie, la S.C., in applicazione del principio, ha confermato la decisione della corte d’appello che, rigettando la domanda di equo indennizzo dei ricorrenti, aveva accertato d’ufficio, nella fase di opposizione e nonostante l’assenza di contestazioni della controparte sul punto, che essi erano privi di legittimazione attiva perché avevano agito in proprio in tale sede e, invece, quali rappresentanti legali della figlia minorenne nel giudizio presupposto. Resta infatti fermo il consolidato assunto, ribadito da Sez. 2, n. 12123/2018, Picaroni, Rv. 648399-01, per il quale il pregiudizio non patrimoniale conseguente all’irragionevole durata del processo può essere subìto solo dal minore, nel cui esclusivo interesse si è celebrato il processo presupposto, e non dal genitore che, avendo agito come rappresentante processuale del primo, non subisce alcun danno quale sostituto della parte rappresentata,).

Con più specifico riferimento alla prova della qualità di erede della parte costituita nel cd. processo presupposto nell’ambito del giudizio di equa riparazione, la Corte ha precisato che la stessa deve essere desunta da tutti gli elementi ritualmente prodotti dalle parti ricorrenti, avendosi riguardo anche agli atti notori corredati dai certificati di morte dei danti causa e alle inequivoche risultanze documentali desumibili dagli atti del giudizio presupposto ove gli stessi ricorrenti si siano costituiti in proprio per effetto del sopravvenuto decesso delle parti originarie, così agendo nel suddetto procedimento per l’ottenimento dell’equo indennizzo sia iure successionis che iure proprio (Sez. 2, n. 07195/2018, Rv. 647865-01).

3. Termine di decadenza per la proposizione del ricorso.

L’art. 4 della l. n. 89 del 2001, come sostituito dall’art. 55, comma 1, lett. d), del d.l. n. 83 del 2012, conv. con modif. dalla l. n. 134 del 2012, prevedeva che la domanda di riparazione dovesse essere proposta, a pena di decadenza, entro sei mesi dal momento in cui la decisione che conclude il procedimento è divenuta definitiva.

Diversamente, la medesima disposizione, nella formulazione originaria, contemplava espressamente la possibilità di proporre la domanda di equa riparazione anche durante la pendenza del cd. processo presupposto, una volta maturata la ragionevole durata dello stesso.

La novellazione normativa era stata giustificata nella Relazione illustrativa dall’esigenza di evitare la frammentazione di domande di equa riparazione relative ad un unico evento generatore del danno ingiusto, ossia ad un unico processo.

Sulla disposizione riformata è peraltro intervenuta, con una decisione di carattere additivo, la Corte costituzionale (Corte cost. n. 88 del 2018), dichiarando costituzionalmente illegittimo l’art. 4 della l. n. 89 del 2001 – come sostituito dall’art. 55, comma 1, lett. d), del d.l. n. 83 del 2012, conv. con modif. nella l. n. 134 del 2012 – nella parte in cui non prevede che la domanda di equa riparazione, una volta maturato il ritardo, possa essere proposta in pendenza del procedimento presupposto. La Corte costituzionale ha evidenziato, al riguardo, che la previsione impugnata viola gli artt. 3, 111, comma 2, e 117, comma 1, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 6, par. 1, e 13 CEDU, in quanto, se i parametri evocati presidiano l’interesse a veder definite in un tempo ragionevole le proprie istanze di giustizia, rinviare alla conclusione del procedimento presupposto l’attivazione dello strumento – l’unico disponibile, fino all’introduzione di quelli preventivi – volto a rimediare alla sua lesione, seppur a posteriori e per equivalente, significa inevitabilmente sovvertire la ratio per la quale è concepito, connotando di irragionevolezza la relativa disciplina.

Nella medesima pronuncia citata, la Corte costituzionale ha sottolineato che, peraltro, la posizione affermata mediante la stessa non collide con le peculiarità con le quali la legge cd. Pinto conforma il diritto all’equa riparazione, collegandolo, nell’an e nel quantum, all’esito del giudizio in cui l’eccessivo ritardo è maturato, atteso che, posta di fronte ad un vulnus costituzionale, non sanabile in via interpretativa, tanto più se attinente a diritti fondamentali, la Corte costituzionale è tenuta comunque a porvi rimedio e ciò, indipendentemente dal fatto che la lesione dipenda da quello che la norma prevede o, al contrario, da quanto la norma omette di prevedere, restando, da un lato, demandato ai giudici comuni trarre dalla decisione i necessari corollari sul piano applicativo, avvalendosi degli strumenti ermeneutici a loro disposizione e, da un altro, al legislatore provvedere eventualmente a disciplinare, nel modo più sollecito e opportuno, gli aspetti bisognevoli di apposita regolamentazione.

La Corte di cassazione ha quindi affermato il principio per il quale, a seguito della richiamata sentenza della Corte costituzionale n. 88 del 2018 la definitività del provvedimento che ha definito il procedimento presupposto non costituisce condizione di proponibilità della domanda, potendo quest’ultima essere presentata, qualora sia già maturato il ritardo, in pendenza del procedimento nel cui ambito la violazione della ragionevole durata si assume essersi verificata (Sez. 2, n. 26162/2018, Federico, Rv. 650838-01).

A seguito dell’intervento additivo della Corte costituzionale, che ha, in concreto, riportato il sistema allo status quo ante rispetto alle modifiche introdotte dal d.l. n. 83 del 2012, conv. in l. n. 134 del 2012, sull’art. 4 della l. cd. Pinto, si ripropone il problema del frazionamento della domanda di equa riparazione oggetto di attenzione – pur con riguardo all’assetto antecedente, ma di fatto equivalente a quello di nuovo vigente nell’anno 2018 – da parte di Sez. 2, n. 04693/2018, Scarpa, Rv. 650829-01. Tale decisione ha sottolineato, in particolare, che il divieto di frazionamento della domanda indennitaria ex lege n. 89 del 2001 deve essere inteso con riferimento alla possibilità che la durata più che ragionevole di un grado o di una fase compensi quella eccedente di un altro, ma non preclude all’interessato la possibilità di ridurre la propria pretesa, fornendo al giudice tutti gli elementi necessari a ponderare la durata della causa presupposta nel suo intero svolgimento, con la conseguenza che, purché indichi ed illustri la durata dei segmenti processuali per i quali non avanza istanza, la parte può frazionare la pretesa indennitaria in separate domande giudiziali, dovendo in tal caso il giudice, valutato globalmente il giudizio e stimata la durata ragionevole di ciascun grado, liquidare esclusivamente l’indennizzo spettante in relazione al grado per cui la domanda è stata avanzata. (Fattispecie nella quale la S.C., in applicazione del principio, ha annullato la decisione di merito, che aveva dichiarato inammissibile la domanda indennitaria, perché limitata al solo grado di appello del processo presupposto, senza valutare se dalle memorie integrative depositate dalla parte istante emergesse la durata complessiva del giudizio medesimo ed il momento a partire dal quale si fosse registrata una durata eccedente il limite della ragionevolezza).

4. Condizioni di proponibilità della domanda di equa riparazione.

Con riguardo all’istanza di prelievo da presentarsi nel processo amministrativo presupposto, quale condizione di procedibilità della domanda di equa riparazione, Sez. 2, n. 26221/2017, Manna F., Rv. 645956-01, aveva ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 54, comma 2, del d.l. n. 112 del 2008, conv. con modif. dalla l. n. 133 del 2008, come modificato dall’art. 3, comma 23, dell’all. 4 al d.lgs. n. 104 del 2010 e dall’art. 1, comma 3, lett. a), n. 6), del d.lgs. n. 195 del 2011, per contrasto con l’art. 117, comma 1, Cost. in relazione agli artt. 6 e 46 della CEDU, nella parte in cui, relativamente ai giudizi pendenti alla data del 16 settembre 2010 e per la loro intera durata, subordina la proponibilità della domanda di equa riparazione alla previa presentazione dell’istanza di prelievo. Come evidenziato in motivazione, la questione si correla alla sentenza emessa dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nel caso Olivieri c./Italia del 22 dicembre 2016, nel quale in una fattispecie relativa a giudizi amministrativi iniziati nel 1990, per i quali non era stata presentata anche l’istanza di prelievo, era stata dichiarata, dalle giurisdizioni nazionali, l’inammissibilità del ricorso per equa riparazione, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha affermato che: a) né dal contenuto della norma né dalla relativa prassi giudiziaria si evince che l’istanza di prelievo possa efficacemente accelerare la decisione in merito alla causa sottoposta all’esame del tribunale; b) la condizione di ammissibilità di un ricorso “Pinto” previsto dall’articolo 54, comma 2 della l. n. 112 del 2008, risulta essere una condizione formale che produce l’effetto di ostacolare l’accesso alla procedura interna; c) l’inammissibilità automatica dei ricorsi per equa riparazione, basata unicamente sul fatto che i ricorrenti non abbiano presentato l’istanza di prelievo, priva questi ultimi della possibilità di ottenere una riparazione adeguata e sufficiente. Pertanto, richiamata la propria giurisprudenza sul principio di effettività della tutela giurisdizionale, la Corte ha concluso nel senso che «la procedura per lamentare la durata eccessiva di un giudizio dinanzi al giudice amministrativo, risultante dalla lettura dell’articolo 54, comma 2 del d.l. n. 112 del 2008 in combinato disposto con la legge Pinto, non possa essere considerata un ricorso effettivo ai sensi dell’articolo 13 della Convenzione».

In attesa dell’intervento della Corte costituzionale, Sez. 2, n. 11149/2018, Varrone, Rv. 648244-01, ha ribadito che l’innovazione introdotta dall’art. 54, comma 2, del d.l. n. 112 del 2008, conv. in l. n. 133 del 2008, secondo cui la domanda non è proponibile se nel giudizio davanti al giudice amministrativo, nel quale si assume essersi verificata la violazione, non sia stata presentata l’istanza di prelievo ex art. 51 del r.d. n. 642 del 1907, determina la vanificazione del diritto all’equa riparazione per l’irragionevole durata del processo con riferimento al periodo successivo alla sua entrata in vigore (avvenuta il 25 giugno 2008), mentre lascia sussistere la irragionevole durata del processo presupposto, qualora ricorra la violazione delle norme della citata l. n. 89 del 2001, con riguardo al periodo anteriore.

Su un piano più generale, Sez. 2, n. 30930/2018, Gorjan, Rv. 651756-01, ha chiarito che l’istanza di prelievo ex art. 71 del d.lgs. n. 104 del 2010, da presentare ai fini della proponibilità della domanda, non è tipizzata, diversamente da quella di fissazione dell’udienza, quanto alla forma, ma ne è esclusivamente indicata la funzione, consistente nel segnalare l’urgenza della definizione del procedimento pendente, con la conseguenza che il giudice non deve limitarsi a recepire la formale denominazione dell’istanza, bensì ha l’onere di verificarne in concreto, attraverso l’esame diretto, l’effettiva destinazione a sollecitare la decisione della causa.

In senso analogo a quanto evidenziato in relazione al processo amministrativo, occorre considerare che Sez. 2, n. 02438/2018, Criscuolo, Rv. 647155-01, ha ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2 quinquies, lett. e), della l. n. 89 del 2001, come introdotto dall’art. 55, comma 1, lett. a), n. 2, del d.l. n. 83 del 2012, conv. con modif. dalla l. n. 134 del 2012, per contrasto con l’art. 117, comma 1, Cost. in relazione agli artt. 6, 13 e 46, della CEDU, nella parte in cui, relativamente ai giudizi penali nei quali il termine di durata ragionevole ex art. 2-bis della l. n. 89 del 2001 sia superato in epoca successiva alla sua entrata in vigore, e per la loro intera durata, subordina la proponibilità della domanda di equa riparazione alla presentazione dell’istanza di accelerazione.

Peraltro, secondo quanto statuito da Sez. 2, n. 20583/2018, D’Ascola, Rv. 650000-01, la predetta disposizione non è applicabile in relazione alle domande di equa riparazione relative a procedimenti penali che, alla data di entrata in vigore della legge stessa, abbiano già superato la durata ragionevole di cui all’art. 2-bis della medesima legge, mancando una norma transitoria che lo preveda espressamente, sicché, diversamente, il termine di presentazione della suddetta istanza decorrerebbe, in tali giudizi, non dal superamento della durata ragionevole, ma dalla data di entrata in vigore della citata l. n. 134, con mutamento dei presupposti applicativi della previsione normativa.

5. Procedimento monitorio e fase di opposizione.

A seguito della novellazione normativa introdotta dal più volte richiamato d.l. n. 83 del 2012, conv. in l. n. 134 del 2012, il procedimento di equa riparazione per irragionevole durata del processo è stato strutturato nella previsione di una prima fase di carattere monitorio, ma a contradditorio integro, che si conclude con l’emanazione di un decreto da parte della corte d’appello, cui la parte interessata (ossia anche l’Amministrazione, nell’ipotesi di accoglimento parziale della domanda del ricorrente) può proporre opposizione, che sarà decisa dalla medesima corte d’appello nelle consuete forme camerali, con decisione ricorribile per cassazione.

Peraltro, il procedimento di equa riparazione nella prima fase è strutturato quale procedimento monitorio solo sui geniris, essendo molteplici le differentenze rispetto al modello generale delineato dal codice di procedura civile.

In questa prospettiva si legge Sez. 2, n. 10879/2018, Manna F., Rv. 648095-01, la quale ha sottolineato che nel procedimento di equa riparazione per irragionevole durata del processo regolato dalla l. n. 89 del 2001, la tardiva notifica del decreto emanato ai sensi dell’art. 3, comma 5, comporta l’inefficacia dello stesso e l’improponibilità della domanda indennitaria ex art. 5, comma 2, a differenza di quanto previsto dal sistema di cui agli artt. 633 ss. c.p.c., nell’ambito del quale, mancando un divieto di riproponibilità della domanda, l’eventuale inefficacia del decreto impone, comunque, per ragioni di economia processuale, l’esame nel merito della pretesa.

Per altro verso, tuttavia, in senso consonante all’elaborazione compiuta dalla stessa Corte con riferimento al procedimento per ingiunzione di cui agli artt. 633 ss. c.p.c., è stato ribadito il principio secondo cui non può essere proposta opposizione al decreto di ingiunzione ai sensi dell’art. 5-ter della l. n. 89 del 2001, al fine di ottenere la declaratoria di inefficacia del decreto in conseguenza della nullità della sua notificazione, essendo tale procedimento assoggettato allo stesso principio affermato con riguardo al procedimento monitorio, secondo il quale la nullità della notificazione del decreto ingiuntivo rileva unicamente per consentire la proposizione dell’opposizione tardiva (art. 650 c.p.c.) e non anche per conseguire la declaratoria d’inefficacia del decreto (artt. 644 c.p.c. e 188 disp. att. c.p.c.), la quale può essere pronunciata solo in caso di mancata notifica o di notifica giuridicamente inesistente del menzionato decreto (Sez. 2, n. 21420/2018, Dongiacomo, Rv. 650310-01).

Su questione rilevante a tali fini, è stato poi precisato, ad opera di Sez. 2, n. 11154/2018, Manna F., Rv. 648032-01, che, in tema di notificazione degli atti processuali nei confronti dell’Avvocatura di Stato, l’uso dell’indirizzo PEC deputato alle comunicazioni istituzionali in luogo di quello destinato alle comunicazioni processuali è causa di nullità della notifica, la quale è sanata, con efficacia ex tunc, dall’opposizione del Ministero ex art. 5-ter della l. n. 89 del 2001, non ostando alla produzione di questo effetto l’affermazione per cui la parte pubblica non disporrebbe di altro mezzo per fare valere l’inefficacia del decreto prevista dall’art. 5, comma 2, della l. n. 89 cit., atteso che detta norma concerne la diversa e non assimilabile ipotesi della mancata notificazione.

Quanto all’individuazione del dies ad quo per la proposizione dell’opposizione al provvedimento monitorio ex lege Pinto, è stato precisato che il termine di trenta giorni per proporre opposizione avverso il decreto che decide sulla domanda di equa riparazione decorre, ai sensi dell’art. 5-ter di tale legge, per il Ministero dalla notificazione allo stesso del provvedimento fatta eseguire, entro trenta giorni dal deposito, dal ricorrente e, per quest’ultimo, dalla comunicazione del medesimo decreto a cura della cancelleria, a nulla rilevando che il giudice del monitorio abbia disposto la detta comunicazione anche al Ministero (Sez. 2, n. 10878/2018, Manna F., Rv. 648494-01).

Come per il procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo incardinato ai sensi degli artt. 645 ss. c.p.c., l’opposizione contro il decreto di equa riparazione dà luogo ad un giudizio ordinario di accertamento sulla sussistenza della pretesa creditoria e non ad un’impugnazione del provvedimento, senza che sia pertanto configurabile un giudicato interno (Sez. 2, n. 12122/2018, Picaroni, Rv. 648499-01).

La Corte è intervenuta, infine, sulla portata dell’obbligo di motivazione del provvedimento reso all’esito del procedimento camerale incardinato con l’opposizione, ribadendo, nel solco di Sez. 6-2, n. 18118/2015, Petitti, Rv. 636527-01, che il decreto che provvede sulla domanda di equa riparazione, in caso di violazione del termine ragionevole del processo, necessita, per esigenze di concisione e speditezza, di motivazione anche soltanto in forma sintetica, potendo il giudice limitarsi ad indicare i criteri alla base del proprio giudizio, con riguardo all’art. 2, comma 2, della l. n. 89 del 2001 (Sez. 2, n. 28109/2018, Fortunato, Rv. 651180-01).

6. Determinazione e durata “ragionevole” del giudizio presupposto.

Nell’anno in rassegna, rispetto all’individuazione del termine dal quale decorre il computo della ragionevole durata di una procedura fallimentare, si è osservato, da parte di Sez. 2, n. 07864/2018, Dongiacomo, Rv. 648001-01, che ciò avviene, per i creditori ammessi al passivo, dal decreto di ammissione, in via tempestiva o tardiva (artt. 97, 101 e 99 l. fall.), poiché solo da questo momento i medesimi creditori subiscono gli effetti della irragionevole durata dell’esecuzione fallimentare nella quale si sono insinuati, rimanendo, per gli stessi, irrilevante la durata pregressa della procedura, alla quale sono rimasti, fino a quella data, estranei, salvo che per gli accantonamenti nei riparti parziali, a norma dell’art. 113 l. fall., i quali, tuttavia, richiedono o una misura cautelare in sede di opposizione ovvero l’accoglimento dell’opposizione con decreto non ancora definitivo.

Rispetto all’equa riparazione per violazione della durata ragionevole del processo penale, Sez. 2, n. 07998/2018, D’Ascola, Rv. 648002-01, ha chiarito che il dies a quo in relazione al quale valutare la durata del processo deve essere individuato nel momento in cui l’indagato ha conoscenza legale dello svolgimento di indagini nei suoi confronti. Ne consegue che, qualora l’azione penale sia stata esercitata con l’emissione del decreto penale di condanna senza che l’indagato abbia avuto precedente notizia della pendenza delle indagini, il termine per valutare se il procedimento sia stato definito entro un tempo ragionevole decorre dalla notifica del decreto).

Quanto alle condotte imputabili alle stesse parti in causa che possono rendere in concreto ragionevole la durata del procedimento presupposto, interpretando l’art. 2, comma 2 quater, della l. n. 89 del 2001, la Corte ha precisato che la richiesta congiunta di rinvio del giudizio di legittimità è assimilabile a quella di sospensione concordata del giudizio di merito, di cui all’art. 296 c.p.c., sicché la durata del processo di cassazione dal momento della formulazione della richiesta a quello della successiva trattazione a seguito di sollecitazione delle parti, deve ritenersi imputabile alle parti stesse le quali, avendola provocata, non possono dolersene, pur restando impregiudicata ogni questione sulla durata pregressa (Sez. 3, n. 03568/2018, Frasca, Rv. 647944-01).

Rispetto alla valutazione come “ragionevole” o meno della durata di un processo nel quale vi sia stata una fase conclusasi con una declaratoria di incompetenza, Sez. 2, n. 20534/2018, D’Ascola, Rv. 649997-01, ha ribadito, ponendosi nel solco di Sez. 6-2, n. 26208/2016, Falaschi, Rv. 641917-01, che il giudice dell’equa riparazione non può limitarsi a ritenere ragionevole, per ogni singola fase, la durata che corrisponde al grado (un anno per la durata del giudizio di equa riparazione), avendo invece l’onere di determinare quale avrebbe dovuto essere la durata ragionevole per il giudizio presupposto sulla base della sua complessità, comprensiva, tenuto conto della struttura unitaria del processo, anche della fase necessaria alla pronuncia di incompetenza e sottraendo dalla durata complessiva del giudizio tutto il tempo (solitamente il periodo ultroneo rispetto a trenta giorni) non strettamente necessario alla sua riassunzione davanti al giudice dichiarato competente.

Sez. 6-2, n. 05768/2017, Abete, Rv. 643259-01, ha affermato, poi, che, in tema di equa riparazione, va escluso dalla durata del processo esecutivo il periodo in cui esso resta sospeso ex art. 624 c.p.c., atteso, da un lato, che l’ampiezza della formula dell’art. 2, comma 2 quater, della l. n. 89 del 2001, include nella sua previsione, oltre a quella regolata dall’art. 295 c.p.c., anche tale ipotesi di sospensione, e, dall’altro, che quest’ultima si correla ai rimedi oppositivi ex artt. 615 e 619 c.p.c., i quali, rispetto alla vicenda esecutiva cui ineriscono e che li occasiona, conservano un’indubitabile autonomia strutturale, sicché la parte, che ritenga di avere subito un pregiudizio anche per la loro eccessiva durata, deve azionare due differenti pretese – pur cumulabili nello stesso ricorso, ex art. art. 104 c.p.c. – volte a conseguire l’indennizzo per l’irragionevole durata, rispettivamente, del processo di esecuzione e di quello, distinto ed autonomo, di opposizione all’esecuzione.

Per altro verso, Sez. 2, n. 28268/2018, Oliva, Rv. 651043-01, ha ribadito il principio, già espresso da Sez. 1, n. 26421/2009, Macioce, Rv. 611955-01, per il quale, in tema di equa riparazione da durata irragionevole di una procedura fallimentare, il mancato esperimento, da parte del lavoratore creditore del fallito, dell’azione nei confronti del Fondo di garanzia gestito dall’INPS per il conseguimento delle prestazioni previdenziali di cui alla l. n. 297 del 1982 ed al d.lgs. n. 80 del 1992 non condiziona l’insorgenza del diritto all’indennizzo, ai fini della quale è sufficiente la prova del fallimento del datore di lavoro e dell’ammissione del credito al passivo, potendo, invece, rilevare in sede di liquidazione dell’indennizzo, così da giustificare una eventuale decurtazione del minimo annuo indicato dalla CEDU.

7. Diritto all’indennizzo.

Su un piano generale, è stato ribadito il consolidato assunto – che permea il rapporto tra il rimedio “interno” ex lege Pinto e la tutela che può, esauriti i mezzi di ricorso nazionali, essere richiesta alla Corte europea dei diritti dell’uomo in una concezione “positiva” del principio di sussidiarietà ex art. 35, comma 1, CEDU – per il quale la valutazione equitativa dell’indennizzo a titolo di danno non patrimoniale è soggetta, in conseguenza dello specifico rinvio, contenuto nell’art. 2 della l. n. 89 del 2001, all’art. 6 CEDU, al rispetto della CEDU medesima, nell’interpretazione giurisprudenziale resa dalla Corte di Strasburgo, fermo restando che, tuttavia, il giudice nazionale è tenuto a liquidare solo il danno riferibile al periodo eccedente il termine ragionevole, non toccando tale diversità di calcolo la complessiva attitudine della citata l. n. 89 del 2001 ad assicurare l’obiettivo di un serio ristoro per la lesione del diritto alla ragionevole durata del processo (Sez. 2, n. 28109/2018, Fortunato, Rv. 651180-02).

Costituendo jus receptum nella giurisprudenza della Corte il richiamato principio per il quale, ai fini della liquidazione del danno non patrimoniale, il giudice nazionale deve, in linea di principio, uniformarsi ai parametri elaborati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per i casi simili, salvo il potere di discostarsene, in misura ragionevole, qualora, avuto riguardo alle peculiarità della singola fattispecie, ravvisi elementi concreti di positiva smentita di detti criteri, dei quali deve dare conto, la parte che si dolga, in sede di legittimità, della inadeguatezza della liquidazione del danno non patrimoniale in termini di irragionevole divario rispetto ai criteri adottati dalla giurisprudenza della Corte europea ha, comunque, l’onere di allegare sia i fatti ritenuti rilevanti per fondare la censura di malgoverno della valutazione equitativa da parte del giudice di merito sia i concreti elementi di analogia con i casi consimili in cui, in sede europea, sono stati applicati i parametri più favorevoli (Sez. 2, n. 27352/2018, Rv. 651023-01).

Altro principio consolidato è quello, ribadito anche nel corso del 2018, in virtù del quale, in tema di equa riparazione ai sensi dell’art. 2 della l. n. 89 del 2001, il danno non patrimoniale, in quanto conseguenza normale, ancorché non automatica e necessaria, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, si presume sino a prova contraria. Ne ha quindi desunto la S.C., almeno con riferimento all’assetto antecedente all’intervento della l. n. 134 del 2012, che nessun onere di allegazione può essere addossato al ricorrente, essendo semmai l’Amministrazione resistente a dovere fornire elementi idonei a farne escludere la sussistenza in concreto, sicché la mancata specificazione, ad opera del ricorrente, degli elementi costitutivi del danno non patrimoniale lamentato non rileva al fine di escludere l’indennizzabilità del pregiudizio, dallo stesso pur sempre presuntivamente sofferto. (Sez. 2, n. 10858/2018, D’Ascola, Rv. 648170-01, in una fattispecie nella quale la S.C. ha cassato la decisione impugnata che aveva rigettato la domanda subordinando la configurabilità del diritto all’equa riparazione all’assolvimento, da parte del ricorrente, dell’onere di provare specificamente l’entità del danno da irragionevole durata del processo).

Più in particolare, secondo Sez. 2, n. 11829/2018, Criscuolo, Rv. 648497-01, in tema di equa riparazione per la non ragionevole durata del processo, la natura indennitaria dell’obbligazione esclude la necessità dell’accertamento soggettivo della violazione, ma non l’onere del ricorrente di provare la lesione della sua sfera patrimoniale quale conseguenza diretta e immediata di detta violazione, esulando il pregiudizio dalla fattispecie del “danno evento”. Pertanto, anche qualora sopravvengano l’insolvenza del debitore o delle difficoltà dettate dalla necessità di un accertamento concorsuale, sono risarcibili solo i danni, ricollegabili ad una normale sequenza causale, per i quali si dimostri il nesso tra il ritardo ed il pregiudizio sofferto. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza che aveva ritenuto non provato il danno patrimoniale conseguente al sopravvenuto sequestro di prevenzione della società debitrice nelle more della definizione del processo presupposto, dovendosi dimostrare che, anteriormente all’adozione della misura, il patrimonio della società fosse capiente).

Per altro verso, è stato ribadito il fondamentale principio, ai fini di una tutela giurisprudenziale effettiva del ricorrente, per il quale l’esiguità del valore monetario del giudizio presupposto non esclude la tutela indennitaria di cui alla l. n. 89 del 2001 se l’apprezzamento concreto della fattispecie, anche alla stregua della condizione socio-economica dell’istante, faccia emergere un effettivo interesse alla decisione (come quando il giudizio presupposto attenga ad una pretesa connessa al trattamento di fine lavoro: Sez. 2, n. 11667/2018, Picaroni, Rv. 648324-01; conf., con riguardo ad una prestazione di carattere assistenziale, Sez. 6-2, n. 11936/2015, Manna F., Rv. 635510-01).

Nell’analoga prospettiva di una valutazione concreta, Sez. 2, n. 14281/2018, Correnti, Rv. 648835-01, ha ribadito l’assunto secondo cui, in tema di equa riparazione per violazione del diritto alla ragionevole durata di un processo innanzi alle giurisdizioni amministrative, la proposizione collettiva del ricorso, se di per sé non integra una presunzione di affievolimento del danno, può, tuttavia, nell’ambito di una valutazione complessiva del giudizio, costituire ragione di scostamento dai parametri di liquidazione indicati dalla giurisprudenza di legittimità e della Corte europea dei diritti dell’uomo, purché la determinazione dell’indennizzo annuo resti, comunque, con questi compatibile.

Né, di per sé, l’infondatezza della posizione assunta dalla parte in giudizio fa venir meno il diritto all’equa riparazione per l’irragionevole durata dello stesso, atteso che la valutazione della sussistenza del patema d’animo per la durata del processo deve essere rapportata ad ogni singolo procedimento, tenuto conto, quanto alla prevedibilità dell’esito del giudizio di equa riparazione, anche dell’opinabilità delle decisioni di merito sull’equo indennizzo, esposte alle variabili interpretative ingenerate dalle modifiche alla l. n. 89 del 2001 apportate dal d.l. n. 83 del 2012, convertito con modifiche in l. n. 134 del 2012, e della conseguente portata innovativa della giurisprudenza di legittimità (Sez. 2, n. 10506/2018, Manna F., Rv. 648392-01).

Il patema d’animo derivante dalla situazione di incertezza per l’esito della causa è, per converso, da escludersi nell’ipotesi di “temerarietà sopravvenuta”, ovvero quando la consapevolezza dell’infondatezza delle proprie pretese sia derivata, rispetto al momento di proposizione della domanda, da circostanze nuove che rendano manifesto il futuro esito negativo del giudizio prima che la sua durata abbia superato il termine di durata ragionevole (Sez. 2, n. 09552/2018, Carrato, Rv. 648093-01, la quale ha confermato la decisione di merito che aveva escluso l’indennizzo in quanto la domanda nel giudizio presupposto era stata rigettata in primo grado – entro il termine triennale ritenuto ragionevole per legge – per infondatezza dell’azionata pretesa e l’appello era stato proposto avanzando doglianze soltanto in fatto, anziché in diritto, circostanza che aveva condotto alla dichiarazione di inammissibilità del gravame).

Di rilevante interesse è, altresì, la posizione assunta da Sez. 2, n. 11151/2018, Manna F., Rv. 648319-01, secondo cui, ai fini della liquidazione dell’indennizzo per violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, l’eccessivo protrarsi di un accertamento tecnico preventivo non può valutarsi autonomamente, ove la parte si limiti ad instaurare – o a resistere ad – una fase giudiziale prodromica, rinunciando a quella successiva dell’accertamento nel merito del diritto, atteso che gli artt. 6, comma 1, CEDU e 4 della l. n. 89 del 2001 rimandano al risultato normalmente utile, complessivo e finale dell’esercizio della giurisdizione domandato dalla parte privata.

Quanto agli interessi sull’indennizzo liquidato per l’irragionevole durata dei processi, è stato precisato, da parte di Sez. 2, n. 28409/2018, Gorjan, Rv. 651183-01, che non può operare il tasso previsto dall’art. 1284, comma 4, c.c., che trova applicazione esclusivamente nell’ipotesi di obbligazioni contrattuali.

8. Altre questioni processuali.

In tema di potere del giudice del procedimento di equa riparazione di compensazione delle spese processuali, Sez. 2, n. 22021/2018, Grasso G., Rv. 650070-01, ha chiarito che la liquidazione dell’indennizzo in misura inferiore a quella richiesta dalla parte, per l’applicazione, da parte del giudice, di un moltiplicatore annuo diverso da quello invocato dall’attore, non integra un’ipotesi di accoglimento parziale della domanda che legittima la compensazione delle spese, ai sensi dell’art. 92, comma 2, c.p.c., poiché, in assenza di strumenti di predeterminazione anticipata del danno e del suo ammontare, spetta al giudice individuare in maniera autonoma l’indennizzo dovuto, secondo criteri che sfuggono alla previsione della parte, la quale, nel precisare l’ammontare della somma domandata a titolo di danno non patrimoniale, non completa il petitum della domanda sotto il profilo quantitativo, ma soltanto sollecita, a prescindere dalle espressioni utilizzate, l’esercizio di un potere ufficioso di liquidazione. Al contempo, nella medesima decisione la Corte ha sottolineato che, peraltro, la differenza fra il quantum richiesto e quello ottenuto può assurgere a sintomo di quelle “gravi ed eccezionali ragioni” che giustificano la compensazione totale o parziale. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto che il riconoscimento di pochi mesi di esubero rispetto alla durata standard del processo rientrasse tra le “gravi ed eccezionali ragioni” rilevanti ex art. 92, comma 2, c.p.c., nel testo ratione temporis applicabile).

Non appare, inoltre, trascurabile la precisazione, coerente con i principi generali, per la quale all’estinzione del procedimento di equa riparazione per tardiva riassunzione a seguito di cassazione con rinvio consegue la decadenza dal diritto all’indennizzo per irragionevole durata del processo presupposto, non essendo tale decadenza esclusa dalla tempestiva proposizione della domanda introduttiva ex art. 4 della l. n. 89 del 2001 del processo di merito successivamente estintosi, considerando, da un lato, l’inefficacia, non limitabile ai soli aspetti processuali, degli atti compiuti in quest’ultimo, ex art. 310, comma 2, c.p.c. e, dall’altro, la non estensione alla decadenza, ex art. 2964 c.c., dell’effetto interruttivo della domanda giudiziale, al contrario previsto dalle norme sulla prescrizione (Sez. 2, n. 06230/2018, Grasso G., Rv. 647958-01).

Si segnala, altresì, Sez. 2, n. 24362/2018, Cosentino, Rv. 650649-01, la quale ha precisato che, nell’ipotesi di violazione del termine di ragionevole durata del processo di esecuzione, il valore della causa va identificato, in analogia con il disposto dell’art. 17 c.p.c., con quello del credito azionato con l’atto di pignoramento.

  • trattamento crudele e degradante
  • carcerazione
  • regime penitenziario
  • detenzione preventiva

CAPITOLO XXXI

LA RIPARAZIONE DEL DANNO DA DETENZIONE DISUMANA E DEGRADANTE

(di Giovanni Armone )

Sommario

1 La sentenza Torreggiani c. Italia della Corte EDU e i rimedi introdotti dal d.l. n. 92 del 2014. - 2 La natura del rimedio riparatorio. - 3 La prescrizione del diritto. - 4 Oneri di allegazione e prova. - 5 I presupposti per l’attivazione del rimedio riparatorio. - 6 Il quantum del rimedio compensativo.

1. La sentenza Torreggiani c. Italia della Corte EDU e i rimedi introdotti dal d.l. n. 92 del 2014.

Con sentenza dell’8 gennaio 2013, nella causa Torreggiani e altri c. Italia, la Corte EDU ha accertato l’inadeguatezza del sistema carcerario italiano rispetto al diritto dei detenuti a non subire trattamenti disumani e degradanti, sancito dall’art. 3 della CEDU, nonché l’inidoneità dei rimedi giurisdizionali allora esistenti nel nostro ordinamento a far cessare le condizioni detentive pregiudizievoli.

Al fine di dare attuazione a tale sentenza, e porre così rimedio alla situazione di sovraffollamento carcerario e alla conseguente violazione dell’art. 3, accertata dalla Corte EDU, nel corso del 2014 lo Stato italiano ha varato alcune misure legislative.

In questa sede, meritano di essere considerate le misure compensative, disciplinate nell’art. 35-ter ord. pen., dal d.l. n. 92 del 2014 e consistenti sia in misure di riparazione in forma specifica, cioè in una riduzione della pena detentiva ancora da espiare, sia in misure di ristoro economico, in base alle quali il detenuto ha diritto a una somma di denaro, pari a otto euro per ogni giorno di detenzione pregiudizievole.

Presupposti, giudice competente e procedimento da seguire variano a seconda che la domanda sia proposta dal danneggiato ancora detenuto o che abbia già cessato di espiare la pena. Lo stesso rimedio compensativo può essere dunque accordato sia dal giudice penale (magistrato di sorveglianza) sia dal giudice civile (tribunale). Inoltre, è prevista una disciplina transitoria per coloro che abbiano subito il pregiudizio in epoca anteriore all’entrata in vigore della nuova disciplina.

Tale apparato normativo ha già dato luogo a un ricco dibattito giurisprudenziale, che ha raggiunto nel 2018 alcuni importanti approdi.

2. La natura del rimedio riparatorio.

Dopo lunghe incertezze in dottrina e giurisprudenza, le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno preso posizione sulla natura del rimedio compensativo previsto dall’art. 35-ter ord. pen.

Con due sentenze sul punto pienamente consonanti, le Sezioni Unite civili (Sez. U, n. 11018/2018, Curzio, Rv. 648270-01) e penali (Sez. U, n. 03775/2017, dep. 26/1/2018, imp. Tuttolomondo, Rv. 271649) hanno affermato che la forfettizzazione della somma che il danneggiato può ottenere e dunque l’assenza di ogni rapporto tra specificità del danno e quantificazione economica, devono far propendere, nonostante la legge parli di rimedio risarcitorio, per la natura indennitaria del diritto. La responsabilità trae origine dalla violazione «di obblighi gravanti ex lege sull’amministrazione penitenziaria nei confronti dei soggetti sottoposti alla custodia carceraria».

Secondo le Sezioni Unite, tale diritto non era preesistente alla novella del 2014, ma è di nuovo conio, come ricavabile dai tratti del tutto peculiari e autonomi dell’azione introdotta dall’art. 35-ter ord. pen.. La nuova disposizione peraltro opera retroattivamente, consentendo di ristorare i danni anteriori all’entrata in vigore del d.l. n. 92 del 2014, come dimostrabile dalla disposizione transitoria che estende il rimedio ai pregiudizi precedenti, pur sottoponendone il concreto esercizio a un termine di decadenza.

3. La prescrizione del diritto.

La ricostruzione del diritto al rimedio compensativo ex art. 35-ter ord. pen. in termini indennitari e innovativi ha indotto la citata Sez. U, Curzio, n. 11018/2018, Rv. 648270-01 a trarre alcune importanti conclusioni in tema di prescrizione del diritto stesso.

Dalla natura indennitaria deriva anzitutto che il diritto si prescrive in dieci anni, applicandosi le regole generali sulla prescrizione ordinaria. Trattandosi poi di un pregiudizio a carattere permanente, per il quale l’indennizzo è commisurato all’unità temporale del giorno di detenzione, il termine di prescrizione decorre de die in diem, dal compimento di ciascuna giornata trascorsa in condizioni detentive disumane e degradanti.

Tale ultima soluzione rischiava tuttavia di travolgere tutte le azioni riparatorie riguardanti pregiudizi anteriori di più di dieci anni rispetto all’entrata in vigore della novella, con probabili nuove reprimende da parte della Corte EDU. Essa è stata così temperata dalla S.C., che ha tratto dalla innovatività del rimedio la conclusione della impossibilità di far decorrere il termine prescrizionale prima del 28 giugno 2014, data di entrata in vigore del d.l. n. 92 del 2014, salvo l’operare del termine di decadenza previsto dalla disciplina transitoria.

4. Oneri di allegazione e prova.

In linea con la prima giurisprudenza penale di legittimità, Sez. 1, n. 05255/2018, Acierno, Rv. 647743-01, ha ritenuto che l’applicazione al procedimento del modello processuale camerale e la natura giuridica dei diritti coinvolti inducano a ritenere sufficiente, da parte del detenuto, l’allegazione specifica dell’avvenuta detenzione e della sua durata, potendo il giudice, nel caso in cui ritenga il quadro probatorio incompleto, assumere informazioni, in applicazione dell’art. 738, ultimo comma, c.p.c.

In senso conforme, ma con alcune precisazioni derivanti dalla natura della responsabilità come individuata dalle Sezioni Unite, Sez. 3, n. 31556/2018, Fiecconi, Rv. 651946-01, ha affermato che la responsabilità in parola è di tipo contrattuale, derivante dallo stretto rapporto che si instaura tra lo Stato e il detenuto, la quale dà luogo ad una obbligazione indennitaria ex lege; pertanto, sotto il profilo del riparto dell’onere probatorio, spetta all’amministrazione penitenziaria, chiamata a rispondere della violazione di obblighi di protezione e di norme di comportamento, provare l’adempimento conforme ai principi della Convenzione, mentre compete al detenuto fornire la dimostrazione del danno lamentato e del nesso causale tra quest’ultimo e il dedotto inadempimento, salva la possibilità di avvalersi, oltre che delle presunzioni e del principio di non contestazione, dei poteri integrativi ed officiosi del giudice propri del rito camerale prescelto dal legislatore, quali, in particolare, il potere di assumere informazioni previsto dall’art. 738, comma 3, c.p.c., che costituisce – in funzione della salvaguardia del principio di effettività della tutela giurisdizionale di diritti di indubbia matrice costituzionale e convenzionale – utile meccanismo riequilibratore nell’ambito di un procedimento caratterizzato da una situazione di squilibrio tra la parte pubblica, titolare della potestà punitiva, e il soggetto privato che la subisce.

5. I presupposti per l’attivazione del rimedio riparatorio.

Il terreno che, anche nel 2018, ha visto i giudici di legittimità maggiormente impegnati è quello della individuazione dei presupposti per l’attivazione del rimedio riparatorio.

Anzitutto, va rimarcato che l’azione deve essere proposta davanti al giudice civile (e non davanti al magistrato di sorveglianza) quando il danneggiato non si trovi più in stato di detenzione al momento della domanda, dovendosi intendere con tale espressione la restrizione carceraria propriamente detta, potenzialmente produttiva delle condizioni disumane e degradanti che giustificano l’indennizzo. Ciò sia per ragioni letterali (l’art. 35-ter ord. pen. prevede la competenza del giudice civile per le domande di coloro che «hanno cessato di espiare la pena detentiva in carcere»), sia perché il rimedio compensativo è esperibile solo quando non sia possibile la riparazione in forma specifica, della riduzione della pena residua.

Sez. 3, n. 31552/2018, Di Florio, Rv. 651945-02, ne ha tratto la conclusione che la competenza appartiene al giudice civile anche quando, al momento della domanda, l’attore si trovi in stato di detenzione domiciliare.

Quanto alle condizioni detentive, sulla scorta della giurisprudenza della Corte di Strasburgo, la S.C. ha espresso una posizione che sembra essersi ormai cristallizzata. Come chiarito da Sez. 1, n. 04096/2018, Lamorgese, Rv. 647236-01 e da Sez. 1, n. 12955/2018, Cristiano, Rv. 649116-01, lo Stato incorre nella violazione del divieto di trattamenti inumani o degradanti quando, in una cella collettiva, il detenuto non possa disporre singolarmente di almeno 3 mq. di superficie, calcolati detraendo l’area destinata ai servizi igienici e agli armadi appoggiati, o infissi, stabilmente alle pareti o al suolo ed anche lo spazio occupato dai letti (sia a castello che singoli), che riducono lo spazio libero necessario per il movimento, senza che, invece, abbiano rilievo gli altri arredi facilmente amovibili, come sgabelli o tavolini; quando ciò accade sussiste la “forte presunzione” della violazione del divieto di trattamenti inumani o degradanti, che può essere superata attraverso la valutazione di adeguati fattori compensativi – che si individuano nella brevità della restrizione carceraria, nell’offerta di attività in ampi spazi all’esterno della cella, nell’assenza di aspetti negativi relativi ai servizi igienici e nel decoro complessivo delle condizioni di detenzione – la cui esistenza è onere dello Stato, convenuto in giudizio, provare.

La citata Sez. 3, n. 31556/2018, ha peraltro evidenziato, anche alla luce della giurisprudenza della Corte EDU che i giudici di merito godono di un ampio margine di valutazione «nel considerare la sussistenza o meno di una violazione dell’art. 3 della Convezione che, certamente, non è limitato alla misura dei metri quadri pro capite di superficie nelle celle occupate da più detenuti, ma all’esame, comparato, di altri elementi ancora più importanti, attinenti all’intero programma di sconto di pena applicato al detenuto e all’idoneità della struttura e dei servizi correlati a garantire un trattamento a salvaguardia della dignità umana. Pertanto, il fattore “spazio” è un elemento necessario per misurare, con diverso peso e in misura inversamente proporzionale, gli altri fattori inerenti al complessivo trattamento. Oltre a tale test, indicato dalla Corte EDU, si aggiunge quello, indicato dall’art. 27 Costituzione, sulla finalità rieducativa della pena: concetto che, ovviamente, riconduce alla questione della sufficiente e idonea offerta di attività “riabilitative” interne, confacenti alla personalità del detenuto, in rapporto al tempo di permanenza nella struttura».

6. Il quantum del rimedio compensativo.

L’unità di misura prevista dalla legge per la riparazione del pregiudizio (otto euro per ciascun giorno di detenzione in condizioni disumane e degradanti) ha suscitato, per la sua modesta entità, dubbi di adeguatezza negli interpreti.

Le corti superiori non hanno tuttavia sinora condiviso tali preoccupazioni.

Chiamata a valutare le misure adottate dallo Stato italiano per dare attuazione alla sentenza pilota nella causa Torreggiani, la Corte EDU, nella sentenza Stella c. Italia del 18 settembre 2014, ha espresso un provvisorio giudizio positivo sul nuovo art. 35-ter ord. pen., giudicandolo tendenzialmente e astrattamente adeguato.

La S.C. da parte sua, ha giudicato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 35-ter, comma 3, della l. n. 354 del 1975, in relazione agli artt. 3 e 117 Cost. – quest’ultimo con riferimento all’art. 46, comma 1, CEDU – nella parte in cui, prevedendo un diritto al risarcimento del danno di soli otto euro giornalieri ai fini della riparazione per ingiusta detenzione, valuterebbe in termini diversi il valore giornaliero della detenzione rispetto a quello previsto per il ragguaglio fra pene pecuniarie e pene detentive e non distinguerebbe tra i diversi gradi di gravità nei quali la lesione dell’art. 3 CEDU può manifestarsi (Sez. 1, n. 17274/2018, Di Marzio M., Rv. 649514-01).

Sempre in tema di quantificazione del pregiudizio, va poi segnalata Sez. 1, n. 17277/2018, Di Marzio M., Rv. 649515-01, la quale ha escluso che il Ministero della giustizia, convenuto dal detenuto per il risarcimento dei danni patiti a causa delle condizioni di detenzione, possa opporre in compensazione il credito maturato verso il medesimo detenuto per le spese di mantenimento fintanto che non si sia consumata la facoltà dell’interessato di chiedere la remissione del debito, posto che prima della definizione del procedimento previsto dall’art. 6 del d.P.R. n. 115 del 2002, il controcredito della P.A. non è certo ed esigibile.

  • magistrato
  • notaio
  • procedura disciplinare
  • avvocato

CAPITOLO XXXII

I PROCEDIMENTI DISCIPLINARI

(di Gianluca Grasso )

Sommario

1 Premessa. - 2 La responsabilità disciplinare dei magistrati. - 2.1 Gli illeciti disciplinari. - 2.1.1 La consapevole inosservanza dell’obbligo di astensione nei casi previsti dalla legge. - 2.1.2 I comportamenti abitualmente o gravemente scorretti nell’ambito dell’ufficio giudiziario. - 2.1.3 La grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile. - 2.1.4 L’adozione di provvedimenti non previsti da norme vigenti ovvero sulla base di un errore macroscopico o di grave e inescusabile negligenza. - 2.1.5 Il reiterato, grave e ingiustificato ritardo nel compimento degli atti relativi all’esercizio delle funzioni. - 2.1.6 La violazione del dovere di riservatezza. - 2.2 La condotta disciplinare irrilevante. - 2.3 La misura cautelare del trasferimento ad altra sede e funzione o la destinazione ad altre funzioni. - 2.4 La revisione della sentenza disciplinare divenuta irrevocabile. - 2.5 Rapporti tra procedimento disciplinare e giudizio penale. - 3 La responsabilità disciplinare degli avvocati. - 3.1 Gli illeciti disciplinari. - 3.2 Il procedimento disciplinare. - 3.3 Il ricorso per cassazione. - 3.4 Il nuovo codice deontologico e il principio del favor rei. - 4 La responsabilità disciplinare dei notai. - 4.1 Gli illeciti disciplinari. - 4.2 Il procedimento disciplinare.

1. Premessa.

La rassegna sulla responsabilità disciplinare racchiude le pronunce rese in tale ambito dalla S.C. nei riguardi dei magistrati, degli avvocati e dei notai.

2. La responsabilità disciplinare dei magistrati.

Sul tema della responsabilità disciplinare degli appartenenti all’ordine giudiziario si distinguono le pronunce rese sugli illeciti commessi nell’esercizio delle funzioni mentre, riguardo al procedimento, va richiamata la questione della revisione della sentenza divenuta irrevocabile.

In via generale, ha trovato conferma il principio secondo cui, essendo l’illecito disciplinare dei magistrati riconducibile al genus di quelli amministrativi, non trova applicazione il principio del favor rei, di cui all’art. 2 c.p., in forza del quale, in deroga al principio tempus regit actum, l’eventuale abolitio criminis opera retroattivamente (Sez. U, n. 22407/2018, De Chiara, Rv. 650454-01; in precedenza, conformi: Sez. U, n. 15314/2010, Merone, Rv. 613974-01; Sez. U, n. 25815/2007, Finocchiaro, Rv. 601080-01). Tale principio non è desumibile neanche dalla norma transitoria contenuta nell’art. 32-bis, comma 2, del d.lgs. n. 109 del 2006, che non prevede un sistema di regole omologo all’art. 2 c.p., valido sia per la riforma della fattispecie dell’illecito, sia per le modifiche del trattamento sanzionatorio, ma si limita a stabilire, per i fatti commessi anteriormente all’entrata in vigore del decreto legislativo, l’applicazione delle disposizioni di cui all’art. 18 del r.d.l. n. 511 del 1946 “se più favorevoli”. La S.C. ha così confermato la decisione del CSM che aveva respinto la richiesta ex art. 673 c.p.p. di revoca della sentenza disciplinare con la quale era stata inflitta la sanzione dell’ammonimento in relazione al delitto di ingiuria commesso ai danni di un vigile urbano, nonostante la depenalizzazione del reato per effetto del d.lgs. n. 7 del 2016.

2.1. Gli illeciti disciplinari.

Riguardo alle diverse fattispecie, vanno menzionate le pronunce delle Sezioni Unite in merito alle ipotesi di illecito che discendono dall’esercizio delle funzioni, con particolare riguardo all’inosservanza dell’obbligo di astensione, ai comportamenti abitualmente o gravemente scorretti nell’ambito dell’ufficio giudiziario, alla grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile, all’adozione di provvedimenti abnormi, al reiterato, grave e ingiustificato ritardo nel compimento degli atti relativi all’esercizio delle funzioni e alla violazione del dovere di riservatezza.

2.1.1. La consapevole inosservanza dell’obbligo di astensione nei casi previsti dalla legge.

Con riferimento alla consumazione dell’illecito previsto dall’art. 2, comma 1, lett. c), del d.lgs. n. 109 del 2006, le Sezioni Unite (Sez. U, n. 21974/2018, Bisogni, Rv. 650281-01) hanno confermato il precedente orientamento che esclude qualsiasi rilievo alla circostanza che il magistrato abbia avuto uno specifico intento di favorire o danneggiare una delle parti del processo, essendo sufficiente che egli fosse a conoscenza di circostanze di fatto che lo obbligavano ad astenersi (Sez. U, n. 10502/2016, Didone, Rv. 639678-01; Sez. U, n. 05942/2013, Piccialli, Rv. 625535-01).

È infatti ritenuta sufficiente la consapevolezza nell’agente di quelle situazioni di fatto, in presenza delle quali l’ordinamento esige, al fine della tutela dell’immagine del singolo magistrato e dell’ordine di appartenenza nel suo complesso, che lo stesso non compia un determinato atto, versando in una situazione tale da ingenerare, se non il rischio, quantomeno il sospetto di parzialità di chi lo compie. Ne consegue che a integrare l’elemento psicologico dell’illecito non è necessaria la “coscienza dell’antigiuridicità” del comportamento integrante la violazione del precetto, ma è sufficiente la conoscenza di quelle circostanze di fatto in presenza delle quali, in considerazione della ricorrenza dell’interesse proprio o di un proprio congiunto, sussista l’obbligo di astensione, nonché l’adozione, cosciente e volontaria, dell’atto medesimo, pur versandosi in quella situazione.

Nella specie, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza disciplinare di assoluzione di un giudice delegato, il quale aveva omesso di astenersi dalla trattazione di procedure fallimentari, il cui curatore aveva ceduto un appartamento alla convivente del magistrato a un prezzo inferiore a quello di mercato e con denaro proveniente in parte da quest’ultimo.

2.1.2. I comportamenti abitualmente o gravemente scorretti nell’ambito dell’ufficio giudiziario.

Riguardo all’illecito di cui all’art. 2, comma 1, lett. d), del d.lgs. n. 109 del 2006 sui comportamenti abitualmente o gravemente scorretti nell’ambito dell’ufficio giudiziario, si ribadisce che il magistrato, nell’esercizio delle funzioni, deve improntare al canone di leale collaborazione il proprio comportamento con i superiori, i colleghi e il personale dell’ufficio di appartenenza.

Nella specie, Sez. U, n. 19873/2018, Tria, Rv. 649944-01 ha ritenuto non conforme al dovere di leale collaborazione il comportamento di un sostituto procuratore generale che, richiesto dall’avvocato generale di notizie sul funzionamento del settore demolizioni, cui era assegnato, con riferimento a due procedure, aveva risposto, con tono polemico e irridente, in modo oggettivamente reticente. La S.C. ha considerato tale comportamento non giustificabile dall’ipotizzata notorietà della situazione del settore e delle procedure, né da presunte esigenze “difensive” del magistrato. Il canone di leale collaborazione, secondo le Sezioni Unite, concerne tutte le funzioni giudiziarie e per coloro che sono in servizio presso gli uffici requirenti esso trova una specifica previsione nell’art. 2, Circolare sulla organizzazione degli uffici di procura, delibera CSM del 16 novembre 2017.

Sul concetto di “funzione”, cui si riferisce il comma 1 dell’art. 2 del d.lgs. n. 109 del 2006, Sez. U, n. 28653/2018, Conti, Rv. 651439-01 ha specificato che esso vada inteso in senso dinamico, in quanto connesso allo status di magistrato. Secondo l’apprezzamento delle Sezioni Unite, deve essere considerata una grave scorrettezza funzionale, ai sensi della lett. d) della predetta norma, anche quella correlata a comportamenti che, pur se non compiuti direttamente nell’esercizio delle funzioni, sono inscindibilmente collegati a contegni precedenti o anche solo in fieri, riguardanti l’esercizio delle funzioni giudiziarie, al punto da divenire tutti parte di un comportamento contrario ai doveri del magistrato. La fattispecie riguardava la condotta di un magistrato che dopo aver intimato ad un c.t.u. di seguirlo nel suo ufficio, al termine di un’animata discussione, gli aveva detto «lei ha chiuso», alludendo evidentemente a ripercussioni pregiudizievoli in relazione al mancato conferimento di incarichi professionali. In precedenza, Sez. U, n. 07042/2013, Petitti, Rv. 625506-01 aveva ritenuto configurabile l’illecito in oggetto anche in relazione a condotte, a danno di un collega, integranti gli estremi del reato di atti persecutori ex art. 612-bis c.p., specificando che nella nozione di “comportamenti abitualmente e gravemente scorretti” tenuti nei confronti, tra i diversi soggetti menzionati, anche “di altri magistrati”, rientrano anche i rapporti personali tra colleghi all’interno dell’ufficio, atteso che la formulazione normativa appare prescindere del tutto dalla funzionalità della scorrettezza.

Con riferimento alla medesima fattispecie, Sez. U, n. 20029/2018, Garri, Rv. 649979-01 consolida l’orientamento in base al quale le “manifestazioni espressive” poste in essere nell’esercizio del diritto di difesa nell’ambito di un processo si sottraggono all’area delle condotte sanzionabili, stante il tenore dell’art. 598, comma 1, c.p. che esclude la punibilità per le offese contenute in scritti presentati davanti all’autorità giudiziaria (Sez. U, n. 01794/2013, Piccininni, Rv. 624894-01 riguardante l’ipotesi di un ricorso per cassazione, proposto da due P.M. avverso un’ordinanza del tribunale del riesame, contenente espressioni lesive della onorabilità e della professionalità del collegio giudicante. In senso contrario, ma sotto il vigore della precedente disciplina di cui al r.d.l. n. 511 del 1946, Sez. U, n. 12167/2008, Mazziotti Di Celso, Rv. 603018-01 secondo cui l’esimente di cui all’art. 598 c.p. non preclude l’intervento disciplinare nei confronti del professionista che, con tali comportamenti, abbia violato i doveri di correttezza, dignità e decoro professionale, in quanto la funzione del procedimento disciplinare è rivolta ad accertare se con il proprio comportamento il magistrato sia venuto meno alle regole deontologiche connesse all’esercizio delle proprie funzioni).

La S.C., nel cassare con rinvio la decisione del CSM che aveva ritenuto insussistenti i presupposti per applicare l’esimente di cui all’art. 598 c.p. nel caso di requisitoria orale svolta dal P.M. ha altresì escluso il contrasto con la riconducibilità all’esercizio di una pubblica funzione dell’attività svolta da quest’ultimo.

2.1.3. La grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile.

Diverse sono state le fattispecie riguardanti la grave violazione di legge, sanzionabile ai sensi dell’art. 2, comma 1, lett. g), del d.lgs. n. 109 del 2006 in caso di ignoranza o negligenza inescusabile.

Sez. U, n. 26373/2018, Bronzini, Rv. 650875-01 ha ritenuto responsabile il magistrato del P.M. che, in spregio al combinato disposto di cui agli artt. 359 c.p.p., 321 c.p.p. e 70 disp. att. c.p.p., nonché in violazione dei doveri di diligenza di cui all’art. 1 del d.lgs. n. 109 del 2006, abbia omesso di adottare qualsiasi provvedimento inteso a sollecitare, in caso di ritardo, il deposito della relazione tecnica da parte del consulente nominato, anche al fine di valutare l’opportunità della sua sostituzione. Nella specie, in presenza di un procedimento per omicidio con imputato in stato di detenzione, l’assenza di qualunque sollecito protratta per tredici mesi aveva reso necessaria la richiesta di proroga dei termini custodiali di fase, il cui rigetto, in sede di riesame, aveva determinato la scarcerazione della persona sottoposta a indagine. Le Sezioni Unite hanno ritenuto che la condotta posta in essere abbia compromesso inevitabilmente l’immagine e la reputazione del magistrato e, quindi, dell’organizzazione della giustizia, trasmettendo l’impressione di una carenza di correttezza e di rigore nel rispetto dei tempi processuali anche in presenza di reati di estrema rilevanza e di esigenze cautelari già riscontrate dall’autorità giudiziaria procedente, escludendo che il fatto possa ritenersi di scarsa rilevanza.

Sempre riguardo alle funzioni requirenti, Sez. U, n. 22402/2018, Campanile, Rv. 650604-01 ha ritenuto integrare l’illecito in questione il comportamento del P.M. che non abbia proceduto all’iscrizione immediata nel registro delle notizie di reato, prevista dall’art. 335 c.p.p., della notizia stessa e della persona a cui il reato sia attribuito, trattandosi di adempimento per il quale non sussiste alcun margine di discrezionalità (in senso conforme, Sez. U, n. 20936/2011, Bucciante, Rv. 618833-01 e, sotto la previgente disciplina, Sez. U, n. 20505/2006, Mensitieri, Rv. 592134-01). Acquisita la notizia di reato in termini di configurabilità oggettiva (ovverosia di base fattuale idonea a configurare un fatto come sussumibile in una determinata fattispecie di reato), il P.M. è tenuto a procedere, senza soluzione di continuità e senza alcuna sfera di discrezionalità, alla relativa iscrizione nel registro. Allo stesso modo, e sul versante dell’attribuibilità soggettiva, una volta conseguiti obiettivi elementi d’identificazione del soggetto indagabile (tali, dunque, da superare la soglia del generico e personale sospetto), con altrettanta tempestività il P.M. deve procedere all’iscrizione del nominativo.

La S.C. ha nella specie confermato la decisione del CSM che aveva ritenuto integrato l’illecito disciplinare commesso da sostituti procuratori i quali, a fronte della morte di una persona, sottoposta a controllo delle forze dell’ordine, avvenuta in ospedale la mattina successiva alla notte trascorsa in caserma, avevano trascurato la denuncia presentata dalla persona che vi era stata condotta insieme all’individuo poi deceduto, senza procedere ad alcuna determinazione in ordine all’esercizio dell’azione penale e persistito nell’omissione successivamente al deposito della sentenza che aveva disposto la trasmissione degli atti al P.M. per verificare quanto accaduto tra l’intervento degli agenti operanti e l’accesso all’ospedale, avendo provveduto all’adempimento solo un anno dopo la sentenza e per il solo reato di lesioni, allo scopo di consentire la citazione degli indagati alla “possibile udienza di opposizione” alla richiesta di archiviazione.

Parimenti è stato ritenuto colpevole dell’illecito di cui agli articoli artt. 1 e 2, comma 1, lett. g) del d.lgs. n. 109 del 2006, il sostituto procuratore che, in presenza di astratti indizi di reità a carico della persona informata sui fatti, non ne abbia interrotto immediatamente l’esame, al fine di consentire l’esercizio delle garanzie difensive previste dalla legge (Sez. U, n. 09557/2018, Cirillo E., Rv. 648128-01). Secondo l’apprezzamento compiuto dalla S.C., nella fase iniziale delle indagini, non ha rilievo la verifica della precisa connotazione dell’elemento psicologico della persona sottoposta a interrogatorio, trattandosi di elemento che può assumere rilievo nella fase successiva di una puntuale imputazione cautelare o di rinvio a giudizio, dovendosi impedire, in tale prima fase, che la persona informata sui fatti subisca, mediante sollecitazioni investigative e attività invasive della sua sfera privata, intercettazioni, contestazioni, sostanziali perquisizioni con repertazione e sequestro.

In merito alle funzioni giudicanti, Sez. U, n. 09156/2018, Chindemi, Rv. 647917-02 ha ritenuto affetta da grave violazione di legge, dovuta a negligenza inescusabile, la condotta del giudice che, essendo a conoscenza dello stato di detenzione dell’imputato per altra causa, in quanto dichiarato dal difensore, abbia omesso, per colpa inescusabile, di rinviare la trattazione del processo, al fine di disporre la traduzione del detenuto, senza delibare la sussistenza di una causa di legittimo impedimento a comparire. L’imputato, già citato a giudizio in stato di libertà e successivamente tratto in arresto e detenuto per altra causa, versa in stato di legittimo impedimento qualora non ne sia stata ordinata la traduzione, per cui non può procedersi in sua assenza, ove non vi sia espressa rinuncia a presenziare al giudizio, conseguendone altrimenti la nullità di tutti gli atti compiuti senza che egli abbia avuto modo di partecipare allo stesso. È stata altresì ritenuta la responsabilità del magistrato per aver rinviato, dopo averla trattata, la causa davanti ad altro giudice impedito a conoscere il processo, in quanto di prima nomina ex art. 13, comma 2, d.lgs. 160 del 2006, in violazione di previsioni tabellari e del principio di immutabilità del giudice (riguardo alla violazione delle regole tabellari, Sez. U, n. 23320/2009, Macioce, Rv. 609391-01, sotto la previgente disciplina del r.d.l. n. 511 del 1946, aveva ritenuto sanzionabile la ripetuta, significativa e ingiustificata violazione delle disposizioni in tema di assegnazione di ricorsi in materia di lavoro).

Con riferimento al medesimo giudizio disciplinare, è stata ritenuta riconducibile alla violazione delle lett. a) g) ed f), comma 1, art. 2 d.lgs n. 109 del 2006, in quanto violazione grave e inescusabile, la revoca di una una misura cautelare (nella specie divieto di avvicinamento alla persona offesa ex art. 182-bis c.p.p., per il reato di stalking) ancora efficace, “per la mancanza del fascicolo d’ufficio”, non essendo scaduto il relativo termine, senza acquisire il parere del P.M. per poi ripristinarla a seguito del ritrovamento del fascicolo, su istanza della parte civile, sia pure richiedendo il parere all’ufficio di procura (Sez. U, n. 09156/2018, Chindemi, Rv. 647917-01).

Secondo l’apprezzamento delle Sezioni Unite, si tratta di comportamenti abnormi non previsti da alcuna normativa (revoca di una misura cautelare per indisponibilità del fascicolo e misura cautelare personale di natura penale adottata su istanza di una parte privata) e connotati da inescusabile negligenza, non risultando neanche che il giudice avesse disposto presso la cancelleria le dovute ricerche, costringendo la parte offesa a chiedere all’incolpata il ripristino della misura cautelare, segnalando che il fascicolo era stato rinvenuto in cancelleria.

Si conferma così il principio per cui l’insindacabilità del provvedimento giurisdizionale in sede disciplinare viene meno nei casi in cui il provvedimento sia abnorme, in quanto adottato al di fuori di ogni schema processuale, ovvero allorquando sia stato assunto sulla base di un errore macroscopico o di grave e inescusabile negligenza, nel qual caso l’intervento disciplinare ha per oggetto non già il risultato dell’attività giurisdizionale ma il comportamento deontologicamente deviante posto in essere dal magistrato nell’esercizio della sua funzione (Sez. U, n. 20159/2010, D’Alonzo, Rv. 614115-01).

2.1.4. L’adozione di provvedimenti non previsti da norme vigenti ovvero sulla base di un errore macroscopico o di grave e inescusabile negligenza.

Con riferimento ai provvedimenti abnormi, Sez. U, n. 19041/2018, Virgilio, Rv. 649685-01 ha escluso che rientri in tale ambito il provvedimento con cui, in tema di intercettazioni ambientali, il magistrato del P.M. indichi alla polizia giudiziaria regole di condotta sulle modalità di intrusione nei luoghi destinati all’attività di captazione in quanto, pur incidendo su atti materiali rientranti nella contingente valutazione della polizia, esse non formano oggetto di alcun divieto per il magistrato che può, pertanto, dettare quelle indicazioni nell’esercizio della sua discrezionalità. La fattispecie riguardava l’autorizzazione alla p.g. a compiere ogni atto necessario all’installazione degli apparati tecnici sull’automobile dell’indagato e, in particolare, a simulare l’illecita sottrazione dell’autovettura e il suo successivo rinvenimento.

2.1.5. Il reiterato, grave e ingiustificato ritardo nel compimento degli atti relativi all’esercizio delle funzioni.

In tema di ritardo ultrannuale nel deposito di provvedimenti ex art. 2, lett. q), del d.lgs. n. 109 del 2006 e scusabilità della condotta, Sez. U, n. 24136/2018, Lamorgese, Rv. 650467-01 ha confermato l’orientamento delle Sezioni Unite per cui, qualora l’incolpato giustifichi i gravi e reiterati ritardi nel compimento degli atti relativi alle funzioni invocando l’inesigibilità dell’attività lavorativa, il giudice disciplinare deve valutare in concreto la fondatezza e serietà della giustificazione addotta, non potendo quei ritardi essere imputati al magistrato a titolo di responsabilità oggettiva, fermo restando l’onere dell’interessato di fornire al giudice disciplinare tutti gli elementi per valutare la fondatezza e serietà della giustificazione addotta (Sez. U, n. 02948/2016, Di Iasi, Rv. 638358-01). L’esimente della giustificabilità del ritardo reiterato nel deposito dei provvedimenti oltre la soglia di illiceità prevista dalla norma ricorre ove l’attività lavorativa dell’incolpato risulti inesigibile con riferimento alla gravosità del complessivo carico di lavoro nell’ufficio, alla qualità dei procedimenti trattati e definiti, agli indici di laboriosità e allo sforzo profuso per l’abbattimento dell’arretrato (Sez. U., n. 21624/2017, Barreca, Rv. 645656-01).

Nella specie, la S.C. ha respinto il ricorso del Ministro della giustizia, confermando l’assoluzione dall’incolpazione per plurimi ritardi ultrannuali nel deposito di sentenze e ordinanze civili, determinati dal sovraccarico del ruolo del magistrato, che svolgeva contemporaneamente le funzioni di giudice civile e dell’esecuzione, celebrando un numero di udienze superiore alla media e comunque garantendo una produttività adeguata, avendo la sezione disciplinare congruamente motivato in ordine alle ragioni del ritardo, non dovute né a neghittosità né a incapacità organizzativa del magistrato, ma al carico di lavoro nell’ufficio particolarmente gravoso.

2.1.6. La violazione del dovere di riservatezza.

Sul tema della violazione del dovere di riservatezza sugli affari in corso di trattazione (art. 2, comma 1, lett. u) del d.lgs. n. 109 del 2006) Sez. U, n. 17187/2018, D’Ascola, Rv. 649830-01 ha chiarito che la fattispecie costituisce un illecito di pericolo poiché la norma non esige l’accertamento di un danno a terzi, ma l’attitudine (idoneità) della violazione a ledere indebitamente i diritti altrui. La S.C. ha così rigettato il ricorso avverso la sentenza della sezione disciplinare del CSM che aveva condannato un magistrato del P.M. per avere comunicato all’indagata, prima che fosse depositata, la richiesta di archiviazione contenente i nominativi di persone destinatarie dell’avviso di conclusione indagini ex art. 415-bis c.p.p., ritenendo irrilevante, ai fini dell’esclusione dell’illecito, che queste ultime potessero aver già ricevuto l’avviso in oggetto, trattandosi di atti e notizie che dovevano rimanere riservati.

2.2. La condotta disciplinare irrilevante.

Sull’esimente della scarsa rilevanza del fatto di cui all’art. 3-bis del d.lgs. n. 109 del 2006, Sez. U, n. 24672/2018, Bronzini, Rv. 650468-01 ha specificato che questa deve essere accertata in relazione all’interesse tutelato dalla norma da individuarsi nella “giustizia” in senso lato e, in particolare, nell’immagine del magistrato e nel prestigio di cui il medesimo deve godere nell’ambiente in cui lavora (in senso conforme, Sez. U, n. 06468/2015, Bandini, Rv. 634767-01 secondo cui l’esimente della scarsa rilevanza del fatto deve essere accertata con giudizio globale diretto a riscontrare se l’immagine del magistrato sia stata effettivamente compromessa dall’illecito e Sez. U, n. 25091/2010, D’Alessandro, Rv. 615495-01 per cui la condotta disciplinare irrilevante, una volta accertata la realizzazione della fattispecie tipica, va identificata in quella che non compromette l’immagine del magistrato).

La S.C., in applicazione di tale principio, ha cassato la sentenza della sezione disciplinare del CSM che, pur qualificando come “ontologicamente non ortodosso” il comportamento del magistrato che era stato incolpato di aver pronunciato in udienza frasi potenzialmente ingiuriose per le persone presenti, lo aveva prosciolto, per scarsa rilevanza del fatto, sulla base di considerazioni riguardanti solo la reale offensività della condotta rispetto alle parti private e non già della lesività dell’interesse tutelato.

2.3. La misura cautelare del trasferimento ad altra sede e funzione o la destinazione ad altre funzioni.

In relazione alla misura cautelare del trasferimento ad altra sede o la destinazione ad altre funzioni del magistrato incolpato (art. 13, comma 2, del d.lgs. n. 109 del 2006), che può essere disposta nei casi di procedimento disciplinare per addebiti punibili con una sanzione diversa dall’ammonimento, su richiesta del Ministro della giustizia o del Procuratore generale presso la Corte di cassazione, ove sussistano gravi elementi di fondatezza dell’azione disciplinare e ricorrano motivi di particolare urgenza, Sez. U, n. 16017/2018, Lombardo, Rv. 649139-01 ha ritenuto viziato da carenza motivazionale il provvedimento di rimodulazione della misura cautelare che abbia omesso di valutare le circostanze di fatto alla base della contestazione disciplinare e, in particolare, di illustrare la ricorrenza di “fatti nuovi” che, apprezzati congiuntamente a quelli precedentemente esaminati, potessero essere idonei a giustificare il mutamento del quadro cautelare (analogamente, Sez. U, n. 15152/2015, Cappabianca, Rv. 636367-01 aveva ritenuto ammissibile la revoca della misura cautelare disciplinare inflitta al magistrato, in forza del generale richiamo alle norme del codice di procedura penale contenuto negli artt. 16, comma 2, e 18, comma 4, del d.lgs. n. 109 del 2006, solo in presenza di “fatti nuovi” che, pur congiuntamente apprezzati a quelli originariamente esaminati, siano in grado di evidenziare un mutamento in melius del quadro cautelare).

Nella specie, il CSM aveva modificato la misura cautelare attribuendo all’incolpato le funzioni requirenti di magistrato distrettuale presso la Procura generale della stessa sede nella quale prestava originariamente servizio, omettendo, fra l’altro, di rivalutare il giudizio, originariamente formulato, di inidoneità allo svolgimento di quelle funzioni e di motivare sulla destinazione allo svolgimento delle stesse in un ufficio superiore della stessa sede nella quale erano stati commessi i fatti contestatigli.

Riguardo al potere riconosciuto alla sezione disciplinare, Sez. U, n. 02804/2018, D’Antonio, Rv. 647162-01, nel respingere le censure relative all’assegnazione al settore civile del magistrato, il quale affermava che tale possibilità non fosse normativamente prevista, ha ribadito che il CSM può individuare la sede e le funzioni dell’ufficio di destinazione del magistrato, poiché la natura e lo scopo della misura cautelare impongono una celere definizione, risultando intrinsecamente contraddittorio un sistema che vedesse “diviso”, con diverse attribuzioni di competenze, il potere cautelare di trasferimento e quello di indicazione della sede e delle funzioni, dando luogo a un aggravio procedurale capace di rendere concretamente “inutile” il trasferimento (conforme, Sez. U, n. 21112/2012, Botta, Rv. 624357-01).

2.4. La revisione della sentenza disciplinare divenuta irrevocabile.

In tema di revisione delle sentenze della sezione disciplinare del CSM divenute irrevocabili, Sez. U, n. 11179/2018, Di Virgilio, Rv. 649180-01 ha ritenuto inammissibile la richiesta di revisione finalizzata all’applicazione dell’esimente della scarsa rilevanza del fatto (art. 3-bis del d.lgs. n. 109 del 2006), ove il “fatto nuovo” ex art. 25, comma 1, lett. b), del d.lgs. n. 109 del 2006, allegato dall’istante come idoneo a escludere la lesività della condotta ascrittagli, non sia rilevante alla stregua del quadro istruttorio e dell’impianto decisorio della statuizione impugnata al fine di ribaltare il giudizio disciplinare di condanna (in senso conforme, in precedenza, Sez. U, n. 15288/2016, Di Iasi, Rv. 640694-01 secondo cui, diversamente, si finirebbe per consentire di rinnovare completamente le valutazioni espresse e di rimettere in discussione, ben oltre i limiti sanciti dalla norma, una decisione ormai irrevocabile).

Le Sezioni Unite hanno così confermato la sentenza disciplinare che aveva ritenuto irrilevante il fatto nuovo addotto dal condannato, P.G. all’epoca dei fatti, consistente nell’ipotizzato dovere di impedire con il contro-sequestro l’esecuzione di ulteriori reati da parte dei P.M. sequestranti, in quanto elemento ininfluente rispetto all’abnormità dell’esercizio dei poteri istituzionali del P.G. Il caso riguardava il conflitto tra due uffici inquirenti manifestatosi con il sequestro di atti processuali disposto da una Procura della Repubblica, cui era seguito un contro-sequestro dei medesimi atti da parte della Procura generale.

2.5. Rapporti tra procedimento disciplinare e giudizio penale.

Sez. U, n. 24673/2018, Bronzini, Rv. 650870-01 ha ritenuto estinta per prescrizione l’azione disciplinare nei confronti del magistrato, sospesa per la pendenza del giudizio penale, essendo stato quest’ultimo assolto perché il fatto non sussiste ed essendo stato promosso, nei suoi confronti, oltre il termine decennale di cui all’art. 15, comma 1-bis, d.lgs. n. 109 del 2006, un procedimento disciplinare con un capo di incolpazione del tutto modificato rispetto all’originaria contestazione.

Secondo l’apprezzamento compiuto, nel caso di specie gli elementi costitutivi della seconda incolpazione risultavano radicalmente diversi dalla prima perché mettevano in primario rilievo le modalità indebite di spendita della qualifica di magistrato, neppure accennate nella prima incolpazione. È stata così respinta la tesi del P.G. secondo cui la prima incolpazione per fatti penalmente rilevanti avrebbe assorbito la seconda (dopo l’assoluzione) in quanto gli addebiti in sede disciplinare apparivano esterni e separati da quelli mossi in sede penale e quindi andavano contestati da subito e non dopo il termine decennale.

3. La responsabilità disciplinare degli avvocati.

Riguardo alla responsabilità disciplinare degli avvocati, vanno richiamate le pronunce delle Sezioni Unite su alcune fattispecie di illecito, nonché su taluni profili procedurali, con particolare menzione delle questioni attinenti al ricorso per cassazione e al principio del favor rei.

3.1. Gli illeciti disciplinari.

Sulle fattispecie di illecito, Sez. U, n. 08038/2018, Campanile, Rv. 648102-01 ha ritenuto l’art. 3, comma 2, l. 31 dicembre 2012, n. 247, recante Nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense, una norma di chiusura, intesa a individuare le condotte che hanno rilevanza disciplinare fra quelle, contenute nel nuovo codice deontologico forense e attinenti ai doveri di probità, dignità, decoro, indipendenza, fedeltà, diligenza, segretezza e riservatezza, che rispondono alla tutela del pubblico interesse al corretto esercizio della professione.

È stata così confermata la decisione con cui il Consiglio nazionale forense aveva ravvisato la sussistenza dell’illiceità della condotta posta in essere da un avvocato, consistita nell’avere minacciato un collega di denuncia penale, ove non gli avesse rivelato delle informazioni coperte da segreto professionale. La pronuncia si pone in continuità con la costante giurisprudenza delle Sezioni Unite, formatasi sotto la previgente disciplina (art. 38 del r.d.l. 27 novembre 1933 n. 1578 e codice deontologico forense v., in particolare, Sez. U, n. 27996/2013, Piccialli, Rv. 628894-01; Sez. U, n. 37/2007, Finocchiaro, Rv. 594110-01), secondo cui il principio di stretta tipicità dell’illecito, proprio del diritto penale, non trova applicazione nella materia disciplinare forense, nell’ambito della quale non è prevista una tassativa elencazione dei comportamenti illeciti non conformi, ma solo quella dei doveri fondamentali, tra cui segnatamente quelli di probità, dignità e decoro, lealtà e correttezza, ai quali l’avvocato deve improntare la propria attività, sia professionale, sia non professionale, la cui violazione, da accertarsi secondo le concrete modalità del caso, dà luogo a procedimento disciplinare.

Come ribadito da Sez. U, n. 04994/2018, Scarano, Rv. 647317-01, l’illecito contemplato dall’art. 5 del previgente codice deontologico rimane integrato in ogni ipotesi di violazione dell’obbligo di probità, dignità e decoro, sia quando l’avvocato agisca in qualità diversa da quella professionale sia – e a fortiori – nell’esercizio del suo ministero. È stata così confermata la sanzione della censura a un legale per avere usato in una memoria difensiva, quale coimputato con la moglie, un’espressione riferita letteralmente all’incurabilità del male da cui era affetta la persona con cui aveva rapporti conflittuali, originati da sfratto per morosità e da cui era derivata anche la causa penale.

Secondo Sez. U, n. 17534/2018, Tria, Rv. 649752-01, sia nel codice deontologico relativo alla professione forense previgente, sia in quello attualmente in vigore, l’elencazione delle eccezioni al divieto di inviare direttamente corrispondenza alla controparte ha una portata meramente esemplificativa, rientrandovi anche le ipotesi, non specificamente previste, nelle quali il collega della controparte sia stato informato o la corrispondenza sia stata inviata anche a lui e non siano rilevabili elementi idonei a denotare una mancanza di lealtà e correttezza nell’operato del mittente o nel contenuto della corrispondenza. Tra dette eccezioni, pertanto, va ricondotto l’invio di una lettera raccomandata alla controparte, nella quale – senza richiedersi alla stessa il compimento di determinati comportamenti – siano fornite informazioni di fatti significativi nell’ambito dei rapporti intercorsi tra le parti, come l’avvenuto pagamento del debito da parte dei propri assistiti (si trattava nella specie dell’invio, non solo direttamente al legale della parte antagonista, ma anche per conoscenza a quest’ultima, insieme con l’assegno circolare a essa intestato a estinzione del debito dei propri assistiti, una lettera raccomandata, contenente alcune contestazioni a un conteggio asseritamente non corrispondente al tariffario forense effettuato dal collega avversario). Secondo le Sezioni Unite, una simile corrispondenza ha contenuto di natura sostanziale e risulta diretta a evitare l’inizio di procedure esecutive o altre iniziative pregiudizievoli, rivelando una finalità di prevenzione non dissimile da quella di molte delle eccezioni annoverate nella predetta elencazione non tassativa.

Sez. U, n. 16977/2018, Vincenti, Rv. 649297-01 ha infine ritenuto integrare un illecito disciplinare la condotta dell’avvocato d’ufficio del minore che richieda ai genitori, in qualità di legali rappresentanti, il pagamento dei compensi per l’attività difensiva svolta senza attivare la procedura di liquidazione prevista dall’art. 82 del d.P.R. n. 115 del 2002 che, ai sensi dell’art. 118 d.P.R. cit., costituisce l’unico necessario strumento per ottenere il compenso, indipendentemente dalla circostanza che il minore possieda, o meno, i requisiti per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato.

3.2. Il procedimento disciplinare.

Riguardo alle funzioni esercitate in materia disciplinare dai Consigli dell’Ordine degli avvocati, così come il relativo procedimento, Sez. U, n. 19652/2018, Scarano, Rv. 649831-01 ribadisce la loro natura amministrativa e non giurisdizionale (Sez. U, n. 23540/2015, Ambrosio, Rv. 637295-01). Ne consegue che i Consigli dell’Ordine non hanno il potere di conoscere dell’esecuzione delle sanzioni irrogate nei confronti degli iscritti, non potendosi in senso contrario invocare l’art. 35 del regolamento CNF n. 2 del 2014, la cui disciplina attiene – salva l’ipotesi della sospensione (su cui Sez. U, n. 22358/2017, Cirillo E., Rv. 645466-02) – agli aspetti meramente amministrativi dell’esecuzione.

Con riferimento alle comunicazioni nell’ambito del procedimento disciplinare a carico di avvocato, secondo la disciplina anteriore a quella di cui all’art. 31 del regolamento CNF 21 febbraio 2014, n. 2, Sez. U, n. 20685/2018, De Stefano, Rv. 650275-01 ha ritenuto che la normativa di cui agli artt. 50 e 46, comma 2, del r.d. n. 37 del 1934 vada integrata con le evoluzioni di quella in tema di notificazioni e comunicazioni da parte di enti pubblici non economici. Pertanto, il termine per l’impugnazione inizia validamente a decorrere per il destinatario della comunicazione integrale a mezzo PEC della decisione disciplinare da parte del Consiglio dell’ordine, qualora egli non deduca in concreto alcuna violazione del diritto di difesa ma si limiti a lamentarne l’irritualità perché sostitutiva della notificazione a mezzo ufficiale giudiziario o per carenza di un’attestazione di conformità o altri requisiti formali previsti invece per gli atti del processo civile. In base alla disciplina vigente non si pone più la questione sulla piena legittimità di una trasmissione a mezzo PEC della decisione che definisce la fase amministrativa del procedimento disciplinare, attesa l’espressa previsione di tale forma di comunicazione nel testo dall’art. 31 del regolamento 21 febbraio 2014, n. 2, adottato dal Consiglio nazionale forense ai sensi dell’art. 50, comma 5, l. n. 247 del 2012, in materia di «procedimento disciplinare», ai sensi del quale (rubricato «notificazione della decisione») «copia integrale del provvedimento è notificata, anche via pec, a cura della segreteria del Consiglio distrettuale di disciplina: a) all’incolpato nel domicilio professionale o in quello eventualmente eletto; ...».

3.3. Il ricorso per cassazione.

Sull’impugnabilità delle decisioni del Consiglio nazionale forense in materia disciplinare dinanzi alle Sezioni Unite della S.C, Sez. U, n. 20344/2018, Armano, Rv. 650268-01 ha ribadito i margini di apprezzamento riservati in sede di giudizio di legittimità. Ai sensi dell’art. 56, comma 3, del r.d.l. n. 1578 del 1933, infatti, le pronunce del CNF possono essere impugnate soltanto per incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge, nonché, ai sensi dell’art. 111 Cost., per vizio di motivazione per cui, salva l’ipotesi di sviamento di potere, in cui il potere disciplinare sia usato per un fine diverso rispetto a quello per il quale è stato conferito, l’accertamento del fatto e l’apprezzamento della sua gravità ai fini della concreta individuazione della condotta costituente illecito disciplinare e della valutazione dell’adeguatezza della sanzione irrogata non può essere oggetto del controllo di legittimità, se non nei limiti di una valutazione di ragionevolezza (Sez. U, n. 24647/2016, De Stefano, Rv. 641769-01).

Sui profili procedurali va altresì richiamata Sez. U, n. 19526/2018, Cirillo E., Rv. 649758-01 secondo cui la proposizione del ricorso per cassazione è soggetta al termine cd. lungo di cui all’art. 327 c.p.c., ove non vi sia stata valida notificazione d’ufficio della decisione impugnata e nessuna delle parti interessate abbia provveduto alla notificazione di propria iniziativa (in senso conforme Sez. U., n. 19565/2011, Goldoni, Rv. 618748-01). Si tratta pertanto di un’eccezione alla regola secondo cui la proposizione del ricorso per cassazione contro le decisioni del Consiglio nazionale forense è soggetta – ai sensi dell’art. 36, comma 6, l. n. 247 del 2012, così come dell’art. 56, comma 3, del r.d.l. n. 1578 del 1933 – al termine breve di trenta giorni, decorrente dalla notificazione d’ufficio della pronuncia contestata (Sez. U., n. 16993/2017, Cirillo E., Rv. 644918-01).

Nella specie, mancando l’elezione di domicilio in Roma e risultando il solo domicilio in altro comune, la notificazione d’ufficio della decisione all’avvocato è stata, effettivamente, eseguita mediante deposito presso il Consiglio nazionale forense. Tuttavia, a seguito dell’introduzione del domicilio digitale, corrispondente all’indirizzo PEC che ciascun avvocato ha indicato al Consiglio dell’ordine di appartenenza, previsto dall’art. 16-sexies d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, come modificato dal d.l. 24 giugno 2014, n. 90, non è più possibile effettuare le comunicazioni o le notificazioni presso la cancelleria dell’ufficio giudiziario procedente (se munito di PEC), anche se l’avvocato destinatario ha omesso di eleggere il domicilio nel comune in cui ha sede quest’ultimo, a meno che, oltre a tale omissione, non ricorra altresì la circostanza che l’indirizzo di posta elettronica certificata non sia accessibile per cause imputabili al destinatario (Sez. 3, n. 17048/2017, D’Arrigo, Rv. 644961-01)

La S.C. ha esteso tale principio di diritto, enunciato riguardo al processo civile, al processo dinanzi al Consiglio nazionale forense, al quale si applicano norme e principi del codice di rito civile (art. 37, l. n. 247 del 2012; Sez. U, n. 13975/2004, Mensitieri, Rv. 575670-01), i quali unicamente per il giudizio di cassazione (art. 366, comma 2, c.p.c.; art. 16-sexies, d.l. n. 179/2012) prescrivono che, in mancanza di espresse indicazioni, le notificazioni devono essere effettuate in cancelleria (Sez. 6-3, n. 23289/2017, Frasca, Rv. 646756-01). Consequenzialmente, non risultando dagli atti l’inaccessibilità dell’indirizzo di posta elettronica certificata dell’avvocato, non era consentita la notificazione della sentenza presso gli uffici del Consiglio nazionale forense, per cui risultava operante il termine “lungo” di cui all’art. 327 c.p.c.

Sul vizio di motivazione e l’apprezzamento della rilevanza disciplinare e della gravità del fatto Sez. U, n. 30868/2018, Armano, Rv. 651817-01 ha escluso che sia affetta da anomalia motivazionale – ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., come riformulato dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv. in l. n. 134 del 2012 (applicabile ratione temporis) – la sentenza del CNF che, a fronte di una condotta del professionista consistente nella proposizione di più azioni esecutive fondate su titoli emessi nei confronti del medesimo debitore, e da questi già regolarmente adempiuti, abbia applicato la sanzione della radiazione dall’albo, avuto riguardo, per un verso, alla accertata violazione dei fondamentali doveri professionali connessa con l’assunzione di iniziative connotate da malafede e colpa grave e, per altro verso, alla rilevante entità delle somme concretamente incassate, alla pluralità delle azioni poste in essere in esecuzione di un medesimo disegno criminoso nel corso degli anni, alla gravità del pregiudizio provocato alla controparte e all’immagine della categoria, nonché, al contegno successivo all’illecito, tradottosi nella restituzione di una parte soltanto del denaro indebitamente ricevuto.

Sez. U, n. 09558/2018, Perrino, Rv. 648104-02 ha confermato l’orientamento consolidato secondo cui al rigetto e alla declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione per cassazione avverso le decisioni in materia disciplinare del Consiglio nazionale forense consegue il raddoppio del contributo unificato, sussistendo i presupposti per l’applicabilità dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 (in tal senso, tra le più recenti pronunce non massimate, Sez. U, 23 novembre 2017, n. 27897; Sez. U, 18 luglio 2017, n. 17720; Sez. U, 11 luglio 2017, nn. 17109 e 17108. Viene dunque superata la lettura di Sez. U, n. 26280/2013 D’Ascola, Rv. 628422-01).

3.4. Il nuovo codice deontologico e il principio del favor rei.

L’art. 65, comma 5, della nuova legge professionale prevede nella sua ultima parte: «l’entrata in vigore del codice deontologico determina la cessazione di efficacia delle norme pre vigenti anche se non specificamente abrogate. Le norme contenute nel codice deontologico si applicano anche ai procedimenti disciplinari in corso al momento della sua entrata in vigore, se più favorevoli per l’incolpato».

Sez. U, n. 09558/2018, Perrino, Rv. 648104-01, ricollegandosi alla giurisprudenza più antica e prevalente delle Sezioni Unite (inaugurata da Sez. U, n. 11025/2014, Cappabianca, Rv. 630847-01), chiarisce che le sanzioni disciplinari contenute nel codice deontologico forense hanno natura e sostanza amministrativa con la conseguenza che, con riferimento al regime giuridico della prescrizione, non è applicabile lo jus superveniens, ove più favorevole all’incolpato, quando la contestazione dell’addebito sia avvenuta anteriormente all’entrata in vigore della nuova disciplina normativa.

Al di là dell’indirizzo, rimasto isolato, che riferisce anche alla prescrizione la norma del nuovo codice deontologico (Sez. U, n. 21829/2015, Petitti, Rv. 637128-01), la pronuncia in esame esclude che possa essere riconosciuta alle sanzioni disciplinari natura punitiva in base ai criteri elaborati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza 23 novembre 1976, relativa al caso Engel, costantemente seguiti dalla giurisprudenza, anche costituzionale (da ultimo, Corte cost. 2 marzo 2018, n. 43) in virtù dei quali la natura della misura va qualificata in base: a) alla sua qualificazione in base al diritto nazionale; b) alla natura stessa della misura; c) alla natura e al grado di severità della sanzione (come ribadito dalla Corte EDU, grande camera, 15 novembre 2016, A e B. contro Norvegia).

Le Sezioni Unite chiariscono, nella specie, che la sanzione disciplinare è provvedimento amministrativo in base al diritto nazionale (criterio sub a) e lo stesso deve ritenersi in relazione al criterio sub b. (ritenuto il più importante, in base a Corte EDU, grande camera, 23 novembre 2006, Jussila c. Finlandia, n. 73053/01, par. 38), perché la sanzione non è inflitta dall’autorità giudiziaria, ma da un organo amministrativo. Si evidenzia, inoltre, che la sanzione non risponde, almeno direttamente, a una funzione deterrente e repressiva, bensì a una funzione inibitoria, a tutela sia degli utenti del servizio reso, dal professionista, sia del prestigio dell’ente di appartenenza. In relazione anche al criterio sub c, si sottolinea che la Corte EDU ha negato natura penale alla sanzione della cancellazione di un avvocato dall’albo professionale, facendo leva sulla considerazione che il suo scopo è ristabilire la fiducia del pubblico mostrando che in casi di violazioni gravi del codice di condotta l’associazione di categoria può vietare al professionista di svolgere la sua attività (Corte EDU 19 febbraio 2013, Mueller-Hartburg c. Austria). A maggior ragione, pertanto, può ritenersi nell’ipotesi in esame, in cui si discute della sanzione disciplinare della sospensione di sei mesi.

Ad analoga soluzione è già giunta la giurisprudenza della Cassazione con riguardo alle sanzioni disciplinari irrogate ai notai (Sez. 2, n. 02927/2017, Migliucci, Rv. 643161-01, ripresa, a proposito di quelle inflitte ai lavoratori pubblici con rapporto contrattuale, da Sez. L, n. 25485/2017, Di Paolantonio, Rv. 646112-01), nonché, in ambito penale, in riferimento alla sanzione disciplinare della sospensione dalla professione per un periodo determinato di un medico in relazione a una falsità in un’autocertificazione (Sez. 5, n. 35554/2016, Labate non massimata).

L’orientamento seguito da Sez. U, n. 09558/2018, Perrino, Rv. 648104-01 evidenzia che il precetto della disposizione è dedicato unicamente al nuovo codice deontologico, sicché, lungi dall’investire l’intero impianto dell’ordinamento professionale disciplinare, esso è improntato a regolare esclusivamente la successione nel tempo delle norme del previgente e di quelle dell’(allora) emanando nuovo codice deontologico (e delle ipotesi incriminatrici a esse rispettivamente correlate).

Di qui si trae la conseguenza che per tutti gli ulteriori profili dell’ordinamento disciplinare che non trovano la relativa fonte regolamentare nel codice deontologico (e, quindi, per la prescrizione, che è regolata da disposizione legale), resta operante il criterio generale dell’irretroattività delle norme in tema di sanzioni amministrative.

Criterio generale che risente della qualificazione degli illeciti, in particolare di quelli sanzionati in via amministrativa, espressione della discrezionalità legislativa, la quale giustifica, sul piano sistematico, la pretesa di potenziare l’efficacia dissuasiva della sanzione, eliminando per il trasgressore ogni aspettativa di evitare la sanzione grazie a possibili mutamenti legislativi (Corte cost. 20 luglio 2016, n. 193).

Alla medesima conclusione giunge altra parte della giurisprudenza sulla base una diversa prospettiva (Sez. U, 16 luglio 2015, n. 14905, seguita da 7 dicembre 2016, n. 25054) che richiama la sentenza con la quale la Corte costituzionale (Corte cost. 22 luglio 2011, n. 236) ha stabilito che il principio di retroattività in mitius, riconosciuto dalla Corte europea di Strasburgo sulla base dell’art. 7 CEDU, non può riguardare le norme sopravvenute che modificano, in senso favorevole al reo, la disciplina della prescrizione, con la riduzione del tempo occorrente perché si produca l’effetto estintivo del reato.

L’inapplicabilità del principio postula quindi un diverso presupposto, ossia l’idoneità della misura, benché qualificata come amministrativa in base all’ordinamento interno, ad acquisire caratteristiche punitive alla luce dell’ordinamento convenzionale della CEDU. Ciò perché la Corte costituzionale ha stabilito che il principio di retroattività in mitius consacrato dall’art. 7 della CEDU concerne le sole norme che prevedono i reati e le relative sanzioni e non già quelle che regolano la prescrizione; laddove il principio regolato dall’art. 2, comma 4, c.p., «riguarda ogni disposizione penale successiva alla commissione del fatto, che apporti modifiche in melius di qualunque genere alla disciplina di una fattispecie criminosa, incidendo sul complessivo trattamento riservato al reo», ivi compresa, quindi, quella concernente la disciplina della prescrizione.

In senso conforme a Sez. U, n. 09558/2018, Perrino, Rv. 648104-01, Sez. U, n. 19653/2018, Scarano, Rv. 649977-01 ha ribadito che l’art. 65, comma 5, della l. n. 247 del 2012, nella parte in cui detta la disciplina transitoria in base al principio del favor rei – stabilendo che si applicano le norme più favorevoli per l’incolpato anche ai procedimenti in corso al momento della sua entrata in vigore –, si riferisce solamente alle norme del nuovo codice deontologico forense. Laddove si tratti, invece, di un atto d’impugnazione, la norma applicabile, con riferimento ai relativi termini, è quella vigente al momento della sua proposizione, in base al principio tempus regit actum. La S.C. ha nella specie stabilito che il termine perentorio d’impugnazione della decisione del Consiglio dell’ordine degli avvocati era quello stabilito dalla previgente disciplina – di venti giorni ex art. 50, comma 2, r.d.l. n. 158 del 1933 all’epoca ancora vigente – anziché quello di trenta giorni dalla data di notifica della decisione ex art. 33 del regolamento CNF 21 febbraio 2014 n. 2.

Nell’escludere che il CNF si sia sottratto al compito di verificare se le norme introdotte dal nuovo codice deontologico risultassero più favorevoli all’incolpato (imposto dall’art. 65, comma 5, della l. n. 247 del 2012), Sez. U, n. 08038/2018, Campanile, Rv. 648102-02 ha affermato che il “comportamento complessivo dell’incolpato” contenuto nell’art. 21, comma 2, del nuovo codice deontologico forense, in riferimento alla congruità, nel merito, della sanzione, assume una valenza autonoma tale da prescindere dall’ipotesi relativa ad una pluralità di violazioni poiché, al fine di determinare la sanzione in concreto, non possono non venire in considerazione la gravità dell’infrazione, il grado di responsabilità, i precedenti dell’incolpato e il suo comportamento successivo al fatto.

4. La responsabilità disciplinare dei notai.

In materia di responsabilità disciplinare dei notai, si segnala, sul piano generale, la pronuncia Sez. 2, n. 29906/2018, Oliva, Rv. 651527-01 secondo cui, ai sensi dell’art. 146 l. n. 146 del 1913, nel testo modificato e integrato dal d.lgs. n. 249 del 2006, la prescrizione dell’illecito disciplinare del notaio è interrotta, analogamente a quanto avviene per la prescrizione del reato ai sensi dell’art. 160 c.p., da tutte le sentenze emesse nel corso del procedimento, siano esse confermative o modificative dell’entità della pena, posto che in ogni caso ribadiscono l’interesse dell’ordinamento alla persecuzione dell’illecito di carattere disciplinare.

La Corte ha considerato atto interruttivo della prescrizione, in quanto modificativa della sanzione, la sentenza con la quale la S.C. aveva cassato con rinvio la decisione del giudice d’appello perché, ai fini della determinazione della sanzione disciplinare concretamente irrogata al notaio incolpato, aveva fatto erroneamente riferimento a una legge estranea alla fattispecie, così incidendo sul trattamento sanzionatorio.

4.1. Gli illeciti disciplinari.

Sul piano sostanziale, Sez. 2, n. 10872/2018, Grasso, Rv. 648829-01 conferma la piena legittimità della previsione dell’art. 147, comma 1, lett. a), l. n. 89 del 1913 che punisce con la censura o con la sospensione fino ad un anno o, nei casi più gravi, con la destituzione, il notaio che compromette, in qualunque modo, con la propria condotta, nella vita pubblica o privata, la sua dignità e reputazione o il decoro e prestigio della classe notarile. La S.C., al riguardo, pone in evidenza che la norma individua con chiarezza l’interesse meritevole di tutela (dignità e reputazione del notaio, decoro e prestigio della classe notarile) e la condotta sanzionata (comportamenti che compromettono tale interesse), il cui contenuto, sebbene non tipizzato, si ricava dalle regole di etica professionale e, quindi, dal complesso dei principi di deontologia oggettivamente enucleabili dal comune sentire di un dato momento storico (in senso conforme, sulla legittimità della individuazione in concreto rimessa agli organi di disciplina, Sez. 2, n. 17266/2015, Petitti, Rv. 636221-01).

Secondo l’apprezzamento compiuto, la norma rispetta gli artt. 3, 25 e 117 Cost. e l’art. 7 CEDU, tenuto conto che il principio di tipicità attiene, nella sua assolutezza, alla sola sanzione penale e che detta norma viene integrata dal codice deontologico, il quale è rivolto ad una platea di soggetti perfettamente in grado, per qualificata professionalità, di coglierne perimetro e valenza ed è elaborato dalla loro stessa categoria professionale.

Con riferimento all’illecito disciplinare della violazione in modo non occasionale delle norme deontologiche elaborate dal Consiglio nazionale del notariato (art. 147, comma 1, lett. b), della l. n. 89 del 1913, come modificato dall’art. 30 del d.lgs. n. 249 del 2006), Sez. 2, n. 29211/2018, Scarpa, Rv. 651386-01 ha ritenuto integrare la fattispecie la condotta del notaio che, in modo non occasionale, ometta di provvedere agli adempimenti che per disposizione di legge sono strumentali all’efficienza dei poteri di vigilanza amministrativa preordinati all’irrogazione di sanzioni, in quanto contraria al disposto di cui all’art. 14 del codice deontologico, approvato dal Consiglio nazionale del notariato, perché frettolosa, compiacente e inadeguata alla diligenza imposta ai notai.

Nel caso portato all’attenzione della S.C., il notaio aveva reiteratamente omesso di inviare alla Regione Liguria copia degli atti di vendita per i quali non era stato esibito l’attestato di prestazione energetica, in violazione dell’obbligo posto a carico dei notai, quali garanti del rispetto delle norme sulla certificazione energetica, dall’art. 33, comma 11 novies, della legge regionale Liguria n. 22 del 2007, vigente ratione temporis, restando irrilevanti eventuali giustificazioni delle parti interessate e l’incidenza dell’omissione sul rapporto contrattuale intercorrente tra esse.

Sulla medesima violazione dell’art. 147, comma 1, lett. b), l. n. 89 del 1913, in correlazione con gli artt. 40, 41, 42 e 28 del codice deontologico, Sez. 2, n. 29456/2018, Carrato, Rv. 651387-01 ha specificato che l’illecito in questione integra gli estremi di una fattispecie plurioffensiva, per cui non può ritenersi connotato dall’occasionalità il comportamento posto in essere con una pluralità di condotte protrattesi in un ampio lasso temporale, che di per sé escludono il verificarsi di un fatto propriamente episodico.

In merito al ruolo dei collaboratori del notaio si segnalano due pronunce che contribuiscono a definire i confini dell’attività che può essere delegata ad altri.

Sez. 2, n. 10872/2018, Grasso, Rv. 648829-02, in relazione all’art. 47, comma 2, l. n. 89 del 1913, come modificato dall’art. 12, comma 1, lett. b), della l. n. 246 del 2005, chiarisce che la norma consente al notaio, al quale resta attribuito il compito non delegabile di indagare la volontà delle parti, di avvalersi della collaborazione di personale di fiducia nella compilazione degli atti che, tuttavia, si devono svolgere in sua presenza e sotto la sua direzione. Di conseguenza non risulta lecita, ai fini disciplinari, una gestione mediata e indiretta dello studio, perché il notaio “deve apparire” e non solo “parlare” con i propri atti, in quanto a lui, e non a non meglio individuati collaboratori, è affidato il sigillo dell’attestazione facente fede fino a querela di falso, unitamente al compito di alta consulenza dei contraenti. La S.C. ha così confermato la sanzione comminata per violazione del principio della personalità della prestazione, provata dalla abnorme attività di stipula svolta nel periodo considerato.

Sez. 2, n. 29456/2018, Carrato, Rv. 651387-02 ha evidenziato che l’art. 28 del codice deontologico dei notai, che vieta agli stessi – salva la ricorrenza di esigenze di carattere eccezionale – di far intervenire negli atti i propri dipendenti come procuratori, non trova applicazione nell’ipotesi in cui in cui questi ultimi si limitino alla mera attestazione di circostanze relative ad atti di notorietà riguardanti gli aventi diritto alla successione. La S.C., nel riformare la decisione di merito, ha così escluso la violazione dell’art. 28 cit, avendo, nella specie, il collaboratore del notaio svolto un’attività di testimonianza riferita ad atti notori attinenti ad una vicenda successoria, su circostanze dallo stesso conosciute per esperienza diretta.

4.2. Il procedimento disciplinare.

Riguardo alle specificità del procedimento disciplinare, Sez. 2, n. 28905/2018, Scarpa, Rv. 651384-02 ha chiarito che gli atti che siano acquisiti dal Consiglio notarile distrettuale in virtù delle funzioni ispettive e di vigilanza sul regolare esercizio dell’attività notarile, oltreché di promovimento dell’azione disciplinare, attribuitegli dall’art. 93-bis, comma 2, della l. n. 89 del 1913 (legge notarile), trovano disciplina in quest’ultima disposizione. Tali potestà ispettive sono espressamente funzionali alle attribuzioni, ad essi spettante per legge, di controllo del regolare esercizio dell’attività notarile, nonché di eventuale promovimento dell’azione disciplinare, esplicandosi in attività sottoposte al sindacato del giudice ordinario (Sez. 3, n. 20054/2013, Frasca, Rv. 628095-01).

Si tratta, quindi, di un’attività istruttoria preliminare, affidata al Consiglio notarile, volta ad individuare il fatto oggetto dell’addebito, le norme che si assumono violate e a formulare le conclusioni, senza che si ponga l’esigenza di garanzie di difesa, non essendo ancora pendente un procedimento disciplinare. Di conseguenza, gli atti acquisiti dal Consiglio notarile ai sensi dell’art. 93-bis legge notarile, quali quelli, nelle specie, trasmessi dall’Agenzia delle entrate, trovano in tale norma la loro speciale e compiuta disciplina, e, seppur derivanti da indagini preliminari svolte in sede penale, possono essere utilizzati come elementi di giudizio dalla Commissione regionale di disciplina, dopo che siano stati sottoposti in contraddittorio all’incolpato. La S.C. ha escluso che rilevino sull’efficacia probatoria dei documenti trasmessi, e tanto meno sulla validità del provvedimento disciplinare emesso, né i limiti del segreto istruttorio imposto dall’art. 329 c.p.p., i quali sono dettati a tutela della riservatezza delle indagini penali, e non già dei soggetti coinvolti nel procedimento medesimo o di terzi, né i limiti generali stabiliti dalla l. n. 241 del 1990 in materia di diritto di accesso ai documenti amministrativi.

È stato inoltre affermato che la dispensa per rinuncia ex art. 31 della l. 16 febbraio 1913, n. 89 (legge notarile) del notaio sottoposto a procedimento disciplinare, sopravvenuta in pendenza del giudizio di impugnazione di un provvedimento disciplinare emesso dalla Commissione amministrativa regionale di disciplina e prima del passaggio in giudicato della pronuncia sulla sanzione disciplinare, non comporta la cessazione della materia del contendere e, quindi, l’inammissibilità, per sopravvenuto difetto d’interesse, del ricorso per cassazione proposto contro l’ordinanza emessa in sede di reclamo dalla corte di appello, in quanto incidente sul concreto esercizio delle funzioni e non sullo status del notaio, il quale permane seppure in condizione di quiescenza (Sez. 2, n. 28905/2018, Scarpa, Rv. 651384-01).

La pronuncia richiama al riguardo l’orientamento consolidato della Corte di cassazione – già costantemente seguito con riferimento al procedimento disciplinare nei confronti di magistrati e applicato, con gli opportuni adattamenti, anche al procedimento disciplinare notarile – secondo cui la cessazione dal servizio per collocamento a riposo, dovuto al raggiungimento del limite di età, del notaio sottoposto a procedimento disciplinare, sopravvenuta prima del passaggio in giudicato della pronunzia che applica la sanzione disciplinare, comporta la cessazione della materia del contendere e, quindi, anche l’inammissibilità, per sopravvenuto difetto di interesse, del ricorso per cassazione proposto contro la sentenza emessa in sede di reclamo dalla Corte di appello, con conseguente caducazione della sentenza stessa (Sez. 6-3, n. 04001/2012, Segreto, Rv. 621628-01). Tale interpretazione trae origine dalla considerazione che la definitiva cessazione dal servizio, prima del passaggio in giudicato della pronuncia che ha applicato la sanzione disciplinare, impedisce alla decisione di incidere sulle vicende di un rapporto ormai esaurito, in quanto il potere disciplinare, coordinato alla necessità di mantenere l’ordine nell’istituzione, non ha ragione di esplicarsi se non in costanza del rapporto di servizio (riguardo al procedimento disciplinare nei riguardi dei magistrati, Sez. U, n. 3245/2010, Tirelli, Rv. 611406-01).

Diversa è l’ipotesi della dispensa per rinuncia dalle funzioni, poiché ai sensi dell’articolo unico della legge 18 febbraio 1983, n. 45, i notai che siano stati dispensati ex art. 31 della l. n. 89 del 1913 sono, a loro domanda, riammessi all’esercizio della professione con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Ministro della giustizia, a condizione che non abbiano compiuto il 65° anno di età, e vengono ammessi a concorrere alle sedi vacanti secondo i criteri previsti dalla citata legge 30 aprile 1976, n. 197.

La pronuncia in esame condivide l’indirizzo della giurisprudenza amministrativa secondo cui la dispensa per rinuncia dalle funzioni, ex art. 31 legge notarile, incide unicamente sul concreto esercizio di dette funzioni e non sullo status di notaio, che, una volta conseguito, permane seppure in uno stato di quiescenza, tant’è che la riammissione ex l. n. 45 del 1983 all’esercizio professionale dei notai dichiarati decaduti o dispensati non corrisponde ad una vera e propria nuova nomina (Consiglio di Stato, Sez. IV, 25 maggio 1996, n. 788). In sede di riammissione nel notaio già dispensato per rinuncia, la P.A., quindi, non ha gli stessi poteri previsti per l’ammissione, allorché il potere dell’Amministrazione può evitare l’assegnazione della funzione notarile a persona senza requisiti; invece, dopo l’ammissione all’esercizio dell’attività professionale, il relativo iniziale interesse del soggetto si trasforma in un vero e proprio diritto soggettivo ad esercitare la funzione notarile, essendo tipicamente disciplinate dalla legge le fattispecie di cessazione, destituzione, riammissione (Consiglio di Stato, Sez. IV, 22 marzo 2007, n. 1392).

  • contenzioso elettorale
  • elezione
  • elettorato

CAPITOLO XXXIII

ELEZIONI E GIUDIZI ELETTORALI

(di Roberto Mucci )

Sommario

1 Premessa. - 2 I diritti di elettorato. A) Elettorato passivo. - 2.1 (segue). B) Elettorato attivo. - 3 Il contenzioso elettorale.

1. Premessa.

Le non numerose pronunce intervenute, nel corso del 2018, nella materia elettorale confermano pregressi orientamenti sforzandosi di dare coerenza e certezza al complesso quadro disciplinare anche ricorrendo a chiavi interpretative per lo più teleologiche, pervenendo così a soluzioni “a rime obbligate” rispetto ai principi sovranazionali ed al bilanciamento degli interessi rinvenibile dai precetti costituzionali.

2. I diritti di elettorato. A) Elettorato passivo.

Con riferimento alle incompatibilità riguardanti i consiglieri regionali e sui rapporti tra la potestà legislativa statale e quella regionale in tema di incompatibilità alle cariche elettive, Sez. 1, n. 14235/2018, Cristiano, Rv. 648935-01 – nel dichiarare l’incompatibilità, ai sensi dell’art. 65 d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 (T.U.E.L.), di un consigliere regionale alla carica di sindaco di un Comune campano con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti – afferma che la disciplina delle incompatibilità alle cariche elettive comunali derivanti da cariche elettive regionali resta riservata alla potestà legislativa esclusiva dello Stato, ai sensi dell’art. 117, comma 2, lett. p), Cost. Deve infatti escludersi una potestà concorrente delle singole regioni, cui compete di stabilire, ex art. 122, comma 1, Cost., soltanto le eventuali cause di incompatibilità alle cariche regionali derivanti da quelle comunali.

Chiarisce al riguardo la pronuncia ora in discorso che l’art. 117, comma 2, lett. p), Cost. riserva allo Stato la potestà legislativa esclusiva in materia di legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di comuni, province e città metropolitane, sicché la legge statale non può essere derogata od integrata dalla legge regionale, né può essere interpretata alla luce di quest’ultima, neppure nei casi di potestà legislativa primaria esclusiva delle regioni a statuto autonomo, secondo l’insegnamento di Corte cost. 21 ottobre 2011, n. 277; una potestà legislativa concorrente sussiste nella sola materia elettorale regionale, ai sensi dell’art. 122, comma 1, Cost., secondo cui il sistema di elezione ed i casi di ineleggibilità e di incompatibilità del presidente e degli altri componenti della giunta regionale, nonché dei consiglieri regionali, sono disciplinati con legge regionale nei limiti dei principi fondamentali stabiliti con legge dello Stato.

È dunque consentito alle regioni, nel rispetto dei principi fondamentali fissati dalla legge 2 luglio 2004, n. 165 (attuativa della citata norma costituzionale), disciplinare le cause di incompatibilità alle cariche elettive regionali derivanti da cariche elettive comunali, individuando cause non irragionevoli di affievolimento del divieto assoluto di cumulo previsto dalla legge statale, ma ciò non significa che nella materia di legislazione concorrente regionale possa essere ricompresa la speculare disciplina delle cause di incompatibilità a cariche elettive comunali derivanti da cariche elettive regionali, che resta appunto riservata alla potestà legislativa esclusiva dello Stato. Altrimenti si finirebbe per attribuire alla legge regionale, mercé una non consentita interpretazione “sistematica”, valenza abrogatrice o modificatrice della legge statale, tra l’altro male applicando il principio del “naturale carattere bilaterale della cause di ineleggibilità” pur affermato in via additiva dalla Corte costituzionale (sentenze n. 277/2011 cit. e successiva 5 giugno 2013, n. 120), ma in un’ipotesi in cui, in presenza di un’identica situazione di incompatibilità, la regola dell’esclusione operava in via unidirezionale e non reciproca, non potendo aversi alcuna sovrapposizione o confusione fra le diverse discipline relative alle distinte situazioni di incompatibilità, come già argomentato da Sez. 1, n. 16218/2007, Salvato, Rv. 598927-01.

La pronuncia in esame spiega poi la ragionevolezza della conclusione cui perviene: la ratio della detta incompatibilità fra due diverse cariche elettive é ispirata al principio di imparzialità e di efficienza della P.A. (art. 97 Cost.), stante l’esigenza non solo di evitare possibili conflitti di interesse, ma anche di non compromettere il libero ed efficiente espletamento dell’una carica in danno dell’altra; secondo il collegio, mentre lo svolgimento della funzione di consigliere regionale non è compromessa dalle modeste incombenze derivanti dal mandato di sindaco di un piccolo Comune, l’espletamento di tale mandato ben può essere compromesso dai più gravosi impegni cui è tenuto a far fronte il consigliere regionale.

Sempre relativamente alla posizione degli amministratori locali, ma in fattispecie di infiltrazione o condizionamento mafioso dell’ente territoriale, per le ipotesi di amministratori locali che hanno dato causa allo scioglimento dei consigli comunali o provinciali, Sez. 1, n. 15038/2018, Mercolino, Rv. 649124-01, puntualizza la peculiare sistematica di tale causa di incandidabilità affermando che la relativa dichiarazione ex art. 143, comma 11, T.U.E.L. non impone la verifica della commissione di un illecito penale o dell’esistenza dei presupposti per l’applicazione di una misura di prevenzione, né l’adozione, nel corso del relativo procedimento, delle garanzie previste per l’applicazione delle sanzioni penali.

Non si tratta infatti di una misura sanzionatoria, secondo i principi elaborati dalla Corte EDU, bensì di una misura interdittiva di carattere preventivo, i cui presupposti di applicazione sono ben individuati e prevedibili, disposta all’esito di un procedimento che si svolge nel pieno contraddittorio delle parti, che tutela l’interesse costituzionalmente protetto al ripristino delle condizioni di legalità ed imparzialità nell’esercizio delle funzioni pubbliche, incidendo sul diritto fondamentale all’elettorato passivo solo in modo spazialmente e temporalmente limitato, all’esclusivo fine di ristabilire il rapporto di fiducia tra i cittadini e le istituzioni, indispensabile per il corretto funzionamento dei compiti demandati all’ente locale.

Ribadendo pertanto la compatibilità della misura con le prescrizioni sovranazionali di derivazione convenzionale e con il quadro costituzionale delle garanzie dei diritti di elettorato, la pronuncia in commento si riallaccia esplicitamente all’insegnamento di Sez. U, n. 01747/2015, Giusti, Rv. 634129-01 e 634130-01, che già aveva escluso i dubbi di costituzionalità dell’art. 143 cit. evidenziando il carattere di rimedio di extrema ratio della temporanea incandidabilità dell’amministratore che ha dato causa allo scioglimento del consiglio dell’ente locale, in quanto volto ad evitare il ricrearsi delle situazioni cui la misura dissolutoria ha inteso ovviare, salvaguardando beni primari della collettività nazionale.

Sui pubblici dipendenti in generale e con riferimento all’eleggibilità degli stessi al consiglio regionale, Sez. 1, n. 18150/2018, Pazzi, Rv. 649950-02 – richiamando l’insegnamento di Sez. 1, n. 00382/2002, Vitrone, Rv. 552791-01 – afferma che ai fini della tempestiva rimozione della causa di ineleggibilità dei pubblici dipendenti di cui all’art. 2 della legge 23 aprile 1981, n. 154, da effettuarsi non oltre il giorno fissato per la presentazione delle candidature, non è sufficiente la presentazione della domanda di collocamento in aspettativa, ancorché seguita dall’astensione effettiva dalle attività inerenti all’ufficio rivestito, ma è necessario, ove l’amministrazione non provveda all’espressa accettazione di tale domanda, che sia trascorso il termine di cinque giorni successivi a quello di presentazione della domanda, previsto dal comma 5 della medesima norma.

Si tratta – come non manca di rammentare la decisione in rassegna richiamando Corte cost. 10 marzo 2017, n. 56 – di disciplina intesa a garantire in modo rigoroso l’operatività sia delle dimissioni che del collocamento in aspettativa mediante la previsione di un termine brevissimo, allo scadere del quale, se la P.A. non ha adottato l’atto di sua competenza, si produce ugualmente l’effetto del venir meno della causa di ineleggibilità. Il contemperamento dell’esercizio del diritto di elettorato passivo e dell’esigenza di garantire il buon funzionamento della P.A. viene raggiunto attraverso l’emissione di un provvedimento di presa d’atto di carattere doveroso il cui unico margine di discrezionale consiste nel procrastinare la cessazione dalla funzione per un termine massimo di cinque giorni onde consentire all’amministrazione di organizzarsi altrimenti.

Infine, quanto ai legali rappresentanti e dirigenti di strutture sanitarie e nel solco dell’indirizzo già affermato da Sez. 1, n. 08772/1990, Saggio, Rv. 469073-01, in riferimento alla disciplina istitutiva del servizio sanitario nazionale (legge 23 dicembre 1978, n. 833), Sez. 1, n. 19752/2018, Sambito, Rv. 650165-01, scrutinando il caso di un legale rappresentante di struttura sanitaria privata siciliana in regime di accreditamento, afferma che il riordino del sistema sanitario recato dal d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502 con la sostituzione delle unità sanitarie locali (articolazioni del Comune) con le aziende sanitarie locali (enti strumentali regionali; in Sicilia, aziende sanitarie su base provinciale) non ha comportato l’abrogazione della causa di ineleggibilità ai consigli comunali prevista per i legali rappresentanti delle strutture sanitarie private in regime di accreditamento poiché permane la ratio legis di prevenire la lesione della par condicio tra i candidati alla competizione elettorale, mediante la captatio voti da parte del titolare della struttura privata, il quale, trovandosi in una posizione di prestigio, ha la facile possibilità di condizionare il voto di un rilevante settore dell’elettorato.

2.1. (segue). B) Elettorato attivo.

Ribadisce Sez. 1, n. 20952/2018, Di Marzio M., Rv. 650227-01, decidendo in fattispecie di interdizione perpetua dai pubblici uffici e conformandosi a Sez. 1, n. 25896/2008, Salvago, Rv. 605293-01, che la sanzione accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici conseguente ad una condanna penale, dalla quale deriva la cancellazione del condannato dalle liste elettorali, ai sensi dell’art. 2, comma 1, lett. e), del d.P.R. 20 marzo 1967, n. 223, non si estingue a seguito dell’esito positivo dell’affidamento in prova al servizio sociale, poiché, ai sensi dell’ordinamento penitenziario (art. 47, comma 12, della legge 26 luglio 1975, n. 354), il giudice di sorveglianza pronuncia ordinanza dichiarativa dell’estinzione della “pena detentiva e di ogni altro effetto penale”, espressione che non può interpretarsi come ricomprendente le pene accessorie.

La decisione in commento non manca poi di rammentare che la perdita del diritto di voto prevista dall’ordinamento italiano in caso di condanna penale è stata giudicata conforme alla CEDU dalla sentenza della Grande Camera 22 maggio 2011, n. 126/05, Scoppola c. Italia, 3, in quanto la legislazione italiana lega il provvedimento alla gravità dei reati, sicché la misura non ha carattere generale ed automatico e non è applicata in modo indiscriminato (sul punto si v. anche Sez. 1, n. 00788/2006, Salvago, Rv. 588432-01).

3. Il contenzioso elettorale.

Sono due i temi toccati in argomento. Sull’azione popolare, Sez. 1, n. 18150/2018, Pazzi, Rv. 649950-01, ribadisce la consolidata giurisprudenza di legittimità affermando che il giudizio introdotto per mezzo dell’azione popolare, involgendo posizioni di diritto soggettivo perfetto, non è sottoposto al rispetto di termini perentori, in ragione della sua natura non impugnatoria, a differenza del caso in cui la materia controversa sia stata oggetto di un tempestivo e specifico esame da parte dell’organo amministrativo competente, perché, in tale ipotesi, il ricorso deve essere proposto, a pena di inammissibilità, entro trenta giorni dalla data di pubblicazione della deliberazione di convalida degli eletti, ovvero dalla data della notificazione di essa, quando necessaria.

Una volta esperita l’azione popolare, vengono attribuiti pieni poteri di cognizione al giudice ordinario, comprensivi anche di quello di correzione del risultato elettorale, non influenzabili dall’adozione di provvedimenti sopravvenuti del menzionato organo amministrativo, il cui procedimento non può, infatti, incidere sulla proponibilità e sugli esiti dell’azione giudiziaria.

Quanto al secondo tema, ancora relativo all’incandidabilità degli amministratori locali per condizionamento mafioso dell’ente e relativo procedimento, la già citata Sez. 1, n. 15038/2018, Mercolino, Rv. 649124-02, afferma che non vi è pregiudizialità in senso tecnico-giuridico tra il giudizio amministrativo di impugnazione del decreto di scioglimento del consiglio comunale o provinciale ed il procedimento per la dichiarazione di incandidabilità ex art. 143, comma 11, T.U.E.L., trattandosi di giudizi aventi oggetto diverso, del tutto autonomi tra loro, che tuttavia possono presentare comunanza di questioni su aspetti probatori riguardanti le irregolarità commesse nella gestione dell’ente territoriale.

Entro tali limiti, la sussistenza dei presupposti per l’adozione del decreto di scioglimento può costituire oggetto di autonomo accertamento da parte del giudice adito per la dichiarazione di incandidabilità, non essendo la pronuncia di quest’ultimo subordinata alla definizione del giudizio di impugnazione del decreto di scioglimento dinanzi al giudice amministrativo. Del resto – nota la pronuncia in commento – attendere la definizione di tale ultimo giudizio si tradurrebbe inevitabilmente nella vanificazione delle finalità di prevenzione perseguite dal legislatore.