PARTE INTRODUTTIVA (coordinata da Rosaria Giordano)

  • giurisdizione civile

I)

L’EFFETTIVITÀ DELLA TUTELA GIURISDIZIONALE

(di Stefano Giaime Guizzi )

Sommario

1 Premessa. - 2 Effettività della tutela e giudizio civile: una questione non solo processuale. - 3 Fondamento e contenuto dell’effettività della tutela: un “personaggio in cerca di autore”? - 4 La conformazione del fatto al diritto come questione “metodologica”.

1. Premessa.

Anche nell’anno 2018 la Suprema Corte, in talune sue pronunce, ha fatto applicazione del principio della “effettività della tutela giurisdizionale”.

Si prenderà pertanto spunto da esse, in questo scritto, allo scopo – più che di procedere ad una loro particolareggiata analisi – di interrogarsi sul fondamento di tale principio e, soprattutto, sul suo esatto contenuto. Infatti, gli esiti, per così dire, “variabili” ai quali ha dato luogo il ricorso ad esso (ora per supportare il richiamo al cd. prospective overruling, e dunque la mancata operatività di una decadenza processuale (1), ora invece per corroborare la necessaria “stabilità” di una decisione, e con essa dei rapporti giuridici sottostanti (2)) rivelano l’interesse non puramente teorico della domanda sollevata. Stabilire, infatti, quale sia la scaturigine e la portata del principio (nonché, come si vedrà, la correlazione esistente tra l’effettività dell’ordinamento e quella della tutela giurisdizionale), è funzionale a comprenderne la ratio e quindi, in definitiva, le sue stesse condizioni di operatività.

In quest’ottica, dunque, non sembra inutile rammentare come l’espressione “effettività della tutela” sia stata introdotta dal legislatore, in un primo tempo, nell’ambito solo di alcune discipline di settore e – quel che forse è di maggiore interesse – “con riferimento alla sola definizione di alcune controversie stragiudiziali, come quelle previste dall’oggi abrogato art. 8, comma 2, del d.lgs. 28 luglio 2000, n. 25316, in materia di bonifici transfrontalieri, e dall’art. 29 della l. n. 262 del 2005, che ha introdotto il nuovo art. 128-bis del T.U.B., relativo alle controversie tra i clienti e le banche o gli intermediari finanziari” (3).

È stato, dunque, “con la legge di delegazione che ha poi condotto al codice del processo amministrativo che il paradigma è stato esteso alle controversie giudiziali”, essendo stato “l’art. 44, comma 2, lett. a), della l. 18 giugno 2009, n. 69, infatti, a prevedere tra i principi e i criteri direttivi vincolanti per il legislatore delegato quello di «assicurare la snellezza, concentrazione ed effettività della tutela, anche al fine di garantire la ragionevole durata del processo»”, previsione poi tradotta nell’art. 1 del suddetto codice. Si tratta – come nota la medesima dottrina – di un’evenienza, forse, non casuale, al pari di quella per cui “gli indirizzi più ricchi” in ordine all’applicazione del principio “siano maturati nella giurisprudenza amministrativa”; che sia così, infatti, lo spiega soprattutto la storia, visto che “è stato il giudice amministrativo a dover emanciparsi dal compito di assicurare la giustizia «nella» amministrazione e crearsi il compito di imporre la giustizia «alla» amministrazione)”, e dunque a porsi alla ricerca di strumenti che consentissero quella “massimizzazione della tutela” (giacché in ciò, come si vedrà, viene per lo più identificata l’essenza del principio in esame). Risultando, tra l’altro, in ciò “facilitato” dalla peculiare natura del rapporto giuridico processuale oggetto del giudizio amministrativo, giacché nello stesso vengono in rilievo “conflitti binari, che oppongano la situazione soggettiva del singolo al pubblico interesse” (4).

Un ulteriore riferimento alla “effettività” della tutela – in una prospettiva che, questa volta, viene a congiungere l’attività “giudiziale” e quella “stragiudiziale” – è contenuta nell’art. 2, comma 2, della l. 31 dicembre 2012, n. 247 (recante “Nuova disciplina della professione forense”), che conferisce all’avvocato, qualunque sia la giurisdizione in cui esplichi la propria attività, “la funzione di garantire al cittadino l’effettività della tutela dei diritti”.

Ma quid iuris, specificamente, per il processo civile e, soprattutto, all’interno di esso, per l’utilizzazione che di esso può farne il giudice?

2. Effettività della tutela e giudizio civile: una questione non solo processuale.

É stato di recente osservato, in dottrina, che “indipendentemente da qualsiasi norma espressa, è immanente al processo il principio per cui l’interesse della parte ad una forma di tutela rende ammissibile la stessa – salva la necessità di previsioni esplicite in tema di tutela costitutiva – nei limiti della massima strumentalità tra diritto sostanziale e processo: in ciò consistendo il principio di atipicità delle forme di tutela, correlato a quello dell’atipicità dell’azione ricavato dall’art. 24, Cost.” (5). Riecheggia in questa impostazione, che identifica l’essenza del principio qui in esame nel “diritto ad un rimedio effettivo”, l’idea, di ascendenza chiovendiana, secondo cui “il processo deve dare al titolare di una situazione soggettiva «tutto quello e proprio quello» che il diritto sostanziale riconosce” (6).

Un’impostazione, a ben guardare, che ha trovato rispondenza nella giurisprudenza costituzionale, se è vero che essa, ancora prima dell’enunciazione legislativa del principio, ha ritenuto che effettività della tutela “vuol dire che la pretesa fatta valere in giudizio deve trovare, se fondata, la sua concreta soddisfazione” (7). Ma è soprattutto nell’ambito della giurisprudenza sovranazionale – e segnatamente in quella della Corte di Giustizia, oggi dell’Unione europea – che il diritto “ad un rimedio effettivo” ha trovato il suo più compiuto riconoscimento, quale diritto del singolo a che il giudizio concretamente instaurato trovi il suo sbocco in un provvedimento di tutela idoneo ad assicurare la piena soddisfazione dell’interesse azionato. Una linea direttrice, questa, che dal diritto “al processo” ha condotto al diritto ad un “rimedio adeguato”, facendo così della correlazione tra diritto sostanziale e processo, “pur con una pluralità di espressioni diverse, un punto ormai fermo nelle tradizioni di civil e di common law” (8).

Ma già in questa sua “derivazione” sovranazionale, il principio di effettività della tutela disvela, nuovamente, la sua natura “bifronte”.

Difatti, se è stato “in nome e in ragione dell’effettività che si è data gran parte della storica giurisprudenza della Corte di giustizia, ossia quella da cui sono derivati i principi ormai ritenuti fondanti un ordinamento autonomo ed articolato come quello dell’Unione” (ed il pensiero va “alle pronunce in materia di interpretazione conforme; a quelle attributive di effetti diretti alle direttive inattuate; o ancora a quelle relative alla responsabilità risarcitoria degli Stati”), non può sottacersi la circostanza che l’effettività è risultata “stretta tra la sua funzione di parametro di valutazione del corretto funzionamento dell’ordinamento giuridico dell’Unione, e quella di strumento di protezione dei diritti individuali anche sul versante domestico” (9).

Si conferma, così, già in tale ambito, quella relazione dialettica tra effettività dell’ordinamento ed effettività della tutela che questo scritto – sebbene nei suoi contenuti limiti – ha l’ambizione di indagare.

Invero, già nel contesto comunitario (oggi, più propriamente, “eurounitario”), “suole distinguersi il criterio dell’effettività del diritto tout court, da quello dell’effettività della tutela giurisdizionale”, ove il primo dei criteri considerati “risulta finalisticamente orientato al perseguimento dell’obiettivo di assicurare l’uniformità nell’interpretazione e nell’applicazione del diritto dell’Unione presso tutti i sistemi giuridici nazionali”, mentre il secondo “mira a garantire che gli interessi sottesi alle posizioni giuridico-soggettive attribuite ai singoli da norme promananti dall’ordinamento giuridico dell’Unione ricevano adeguata soddisfazione” (10).

Una “tensione” non dissimile, a ben vedere, si registra – per volgere nuovamente lo sguardo alla realtà del giudizio civile – anche nell’ordinamento interno, ove l’effettività della tutela rischia di entrare in conflitto con altri principi cui deve ispirarsi lo svolgimento del processo (e la sua disciplina), potendo alla lunga – per tale via – collidere addirittura con l’effettività del diritto, o meglio con quel suo attributo indefettibile che ne è la “certezza”.

Si è detto, infatti, icasticamente che il principio di effettività della tutela è “corredato, oltre che da un antecedente logico, il diritto di accesso ad un giudice, da un profilo successivo, quello per cui la durata del processo non deve andare a danno dell’attore che ha ragione: il che postula, astrattamente, una coincidenza di prospettive tra effettività della tutela ed efficienza della giurisdizione, quando invece le due istanze possono entrare in contrasto qualora, in nome del rilievo per cui la giustizia è una risorsa scarsa, o per il timore dell’abuso del processo, la ricerca di soluzioni che consentano al processo di funzionare nel modo migliore e più rapido pregiudichi l’aspirazione del singolo ad una tutela giudiziale «incondizionata», articolata su tre gradi di giudizio, senza limitazioni o filtri di sorta”. Ed è, a ben vedere, proprio in questa “tensione” tra effettività della tutela ed efficienza della giurisdizione – giacché l’una “muove essenzialmente da una prospettiva individuale”, mentre l’altra “opera soprattutto sul piano dell’interesse generale” – che possono essere lette talune scelte del legislatore di questi anni, con riferimento al processo civile, “scelte volte a potenziare il ruolo delle forme alternative di risoluzione delle controversie, a contrastare l’abuso del processo con sanzioni di carattere economico o di tipo processuale, a trasformare l’appello in un giudizio sempre più a carattere impugnatorio, a ridurre gli spazi per il ricorso in cassazione, e via dicendo” (11).

Tentare, dunque, se non di “sciogliere” tale contraddizione, almeno di definirne la portata, ci riporta all’interrogativo iniziale, ovvero alla necessità di definire il fondamento “extralegislativo” – nel caso del giudizio civile – del principio dell’effettività della tutela, ed il suo contenuto.

3. Fondamento e contenuto dell’effettività della tutela: un “personaggio in cerca di autore”?

L’individuazione del fondamento costituzionale del principio in esame non è compito agevole, ma soprattutto esso non è – naturalmente – privo di conseguenze pratiche.

Difatti, sebbene costituisca “diritto vivente” della giurisprudenza costituzionale l’affermazione secondo cui “il legislatore può regolare in modo non rigorosamente uniforme i modi della tutela giurisdizionale a condizione che non siano vulnerati i principi fondamentali di garanzia ed effettività della tutela medesima”, essa appare piuttosto ondivaga – secondo la ricognizione fattane dalla già citata autorevole dottrina (12) – nell’individuare il fondamento di tale principio. Difatti, il Giudice delle leggi, “dopo aver affermato, in un primissimo tempo (e molto prima della positivizzazione del principio) che l’effettività della tutela giurisdizionale sarebbe «garantita dall’art. 24 Cost. in via generale e dall’art. 113 Cost. nei confronti degli atti della pubblica amministrazione»” (13), ha poi “oscillato tra il fondarla sugli artt. 3 e 24 Cost. (14), se non sul solo art. 2 (15) o sul solo art. 113 (16)”, ovvero sul “plesso normativo” di cui “agli artt. 24, 101, 103 e 113 Cost.” (17).

Nondimeno, come non si è mancato di sottolineare da parte del medesimo studioso (18) – “fondare il principio sull’uno o sull’altro parametro ne condiziona – ovviamente – il regime”.

Invero, “postularne un radicamento costituzionale piuttosto che eurounitario o convenzionale implica – a tacer d’altro – la conseguenza che il principio potrebbe essere inserito fra quelli (“fondamentali” o “supremi”) che caratterizzano la nostra forma di Stato in modo così profondo da sottrarsi alla revisione costituzionale, il che è logicamente impossibile nell’ipotesi in cui si preferisca la sua fondazione extracostituzionale”. D’altra parte, non priva di effetti è anche “la scelta fra i trattati UE o la CEDU, almeno se si continua a ritenere (come sarebbe doveroso, per rispettare l’art. 11 Cost.) che i rapporti fra ordinamento eurounitario e ordinamento nazionale siano retti ancora dal principio di competenza e non da quello gerarchico”. Analogamente, “innocente” non è nemmeno “la scelta dell’uno o dell’altro parametro costituzionale: agganciarsi all’art. 97 o all’art. 3, specie al suo comma 2”, significa “postulare una fondazione del principio su esigenze oggettive e generali dell’ordinamento”, mentre “agganciarsi agli artt. 24, 103 o 113, invece, vuol dire postularne la fondazione su esigenze soggettive, nel senso che il principio viene legato alla condizione dei singoli e non si connette direttamente a quelle dell’ordinamento nel suo complesso”. Né risolutivo, infine, appare “il richiamo all’art. 111, perché il principio del giusto processo, ivi formalizzato, presidia allo stesso tempo un interesse oggettivo dell’ordinamento e una pluralità di diritti soggettivi delle parti del processo”.

È, dunque, in questa prospettiva – si passi il paragone – che il principio dell’effettività della tutela appare, ancora oggi, alla stregua di un pirandelliano “personaggio in cerca di autore”. Ciò che rileva, peraltro, sul piano non solo della dommatica, ma delle stesse conseguenze pratiche, visto che l’alternativa tra la fondazione del principio su esigenze soggettive, piuttosto che oggettive, non è evidentemente priva di effetti, sol che “si pensi alle diverse soluzioni che, nei due casi, sono implicate a fronte, ad esempio, dell’estensione e delle modalità della tutela cautelare”, ovvero “del risarcimento del danno patito in ragione dell’eccessiva durata dei giudizi”, visto “che quanto più viene assicurato al singolo tanto più costa in termini di efficienza della macchina”, sovraccaricata di ulteriori domande giurisdizionali (valgono, sul punto, le note vicende della cd. legge Pinto)” (19).

Non meno ardua, del resto, è la stessa definizione “contenutistica” del principio, essendo l’effettività “una parola densa se riferita a fatti che possono far sorgere certe posizioni giuridiche soggettive” (20), il cui rilievo, peraltro, non è ignorato neanche nelle dottrine “più pure” del diritto, anch’esse, infatti, inclini a ritenere che siano “presupposte come effettivamente valide solo le norme giuridiche le cui rappresentazioni siano efficaci”, in quanto se “le norme – e in particolar modo le norme giuridiche – hanno un contenuto tale che le relative rappresentazioni rimangono completamente inefficaci, allora anche la teoria del diritto non presuppone tali norme come valide” (21).

Si tratta, allora, di riconoscere nella effettività – come sostenuto dalla dottrina qui già più volte citata – la “asseverazione della forza legittimante del fatto”, ovvero un attributo “dell’ordinamento nel suo complesso”, sicché quando “si parla di «effettività della tutela giurisdizionale»”, in realtà, si “opera un parziale scarto”, giacché “ci si riferisce ad un elemento singolo” dell’ordinamento, rispetto al quale, pertanto, sarebbe più corretto parlare di “efficacia”. Così ridefinita la nozione appare, almeno potenzialmente idonea, a “ricomporre” quella “tensione” di cui si diceva, se è vero che l’efficacia – in senso giuridico – è stata anche intesa come attitudine “a realizzare lo scopo specifico dell’atto normativo stesso nel modo più «economico» possibile (vale a dire con l’uso ottimale delle risorse disponibili” (22). In questa prospettiva, dunque, “una tutela può dirsi tanto più efficace quanto più è idonea a modellare il fatto al diritto ottenendo un risultato «pratico»”, ma con la conseguenza che “quanto più la tutela è efficace e il modellamento del fatto opera nei singoli casi, tanto più è effettivo l’ordinamento, visto che la sua effettività complessiva altro non è che il risultato di una pluralità di singole conformazioni del fatto al diritto”: sicché, in definitiva, il “nodo, teorico e pratico assieme, allora, è in cosa debba risolversi questa conformazione del fatto al diritto” (23).

4. La conformazione del fatto al diritto come questione “metodologica”.

Sotto questo profilo, dunque, il punto cruciale – in ciò non condividendosi del tutto la posizione dottrinaria, qui pure largamente illustrata (e fatta propria) – non sembra essere costituito dall’individuazione del soggetto che di tale processo debba farsi, in via di principalità, l’artefice, quanto piuttosto la definizione di un metodo.

Non si tratta, infatti, né di affermare un “primato” del diritto giurisprudenziale, fondato ora sul rilievo che “chi, se non il giurista di professione, può formulare norme univoche, coerenti, certe insomma nel contenuto” (24), ora sulla ripulsa di quella che viene ritenuta, ormai, una “stucchevole idealizzazione della legge” (25). Si tratta, piuttosto, di riconoscere – come è stato affermato con grande nitidezza – il cambio di “paradigma” conseguente al passaggio dallo stato “di diritto” a quello “costituzionale”, giacché “il costituzionalismo per valori, innestandosi su assetti sociali fortemente pluralizzati sul piano morale e religioso, tende in prospettiva a traslare in misura crescente la funzione di innovazione normativa dal diritto di produzione politica al diritto di fonte giurisprudenziale e a ridurre sensibilmente lo scarto fra produzione e applicazione del diritto, fino a corrodere uno dei postulati degli ordinamenti di civil law: l’idea che la decisione collettiva pubblica esibisca una forza razionale e possieda un valore morale superiori rispetto alla scelta individuale concreta (la sentenza, in primo luogo, ma anche il contratto)” (26).

In questo quadro, tuttavia, in cui “il ruolo della fattualità nella ricognizione delle premesse delle decisioni giudiziarie” può indurre “a tollerare una dose non lieve di incertezza e imprevedibilità delle pronunce giurisdizionali per garantire il più rapido e flessibile adattamento della legalità alle aspettative di tutela che si levano dal caso concreto” (27), ciò che va – anche ad avviso di chi qui scrive – rifiutata è l’idea che la certezza del diritto, come categoria concettuale (e, dunque, come “specifica manifestazione giuridica del raccordo pace-sicurezza-statualità” dell’ordinamento (28)) possa cedere il passo ad una “indeterminazione controllata” o ad una “incertezza programmata”, che consenta di “modulare ogni decisione sulla situazione contingente” (29), giacché davvero ciò equivarrebbe a “decretare” l’avvento di quella “decisione incalcolabile” (30), nella quale tanta (ed autorevolissima) dottrina civilistica coglie il segno di quel “nichilismo giuridico”, se non di quella “ecclissi del diritto” (31), che costituirebbe uno dei tratti distintivi – sul piano dell’esperienza giuridica – del “post-modernismo”.

Va, invece, ribadito con forza che la funzione del processo è, certo, la soddisfazione della parte vittoriosa, ma “lo è solo dal punto di vista individuale e soggettivo, mentre dal punto di vista generale ed oggettivo non è altro che il ripristino della certezza, che la stessa esistenza di una controversia ha messo in discussione”, e, dunque, pretendere su tali basi, dal giudice – proprio perché il giudizio non si esaurisca nella sola prestazione di un “rimedio effettivo”, trascurando le esigenze di effettività dell’ordinamento tutto – rigore concettuale nell’elaborazione dei propri dicta e, parimenti, coerenza nella loro applicazione. Difatti – come del resto riconosce proprio la dottrina qui più volte citata (32) – se “la certezza esige conoscibilità, chiarezza e comprensibilità dei precetti normativi”, che è quanto deve ancora pretendersi dal potere legislativo (pur in epoca di “diritto liquido”, basato essenzialmente su una soft-law, ovvero su una legislazione per principi), essa impone, d’altra parte, che “le pronunce giurisdizionali siano sistematicamente coerenti, perché anche questa esigenza si connette alla certezza”.

In definitiva, “effettività” del diritto ed “efficacia” della tutela giurisdizionale richiedono, in eguale misura, una “Potestà legislativa (art.117, Cost.) espressione di un Potere di indirizzo politico, una Magistratura Indipendente (art. 101, Cost.) capace di un’effettiva nomofilachia e una Scienza Libera (art. 33, Cost.), dotata di un’effettiva Auctoritas: elementi, tutti, alla “base di un ordine conforme ai valori espressi dal patto costituente” (33).

A ciascuno di tali soggetti spetta – certo, nel rispetto dei rispettivi ruoli (34) – inverare quell’antico ammonimento secondo cui “legis tantum interest ut certa sit, ut absque hoc nec iusta esse possit” (35).

  • giurisdizione civile

II)

LA NULLITÀ DEGLI ATTI PROCESSUALI

(di Laura Mancini )

Sommario

1 Il principio di strumentalità delle forme processuali alla luce dei canoni di proporzionalità, ragionevolezza ed effettività della tutela giurisdizionale. - 2 La sanatoria dell’atto nullo per raggiungimento dello scopo. - 3 Nullità degli atti digitali e scopo della disciplina del processo civile telematico. - 4 Principio di conservazione degli atti e inammissibilità del ricorso per cassazione per manifesta infondatezza delle censure relative alla violazione dei principi regolatori del giusto processo ex art. 360-bis, n. 2, c.p.c. - 5 Principio di conservazione e inesistenza dell’atto processuale. - 6 Inammissibilità, improcedibilità e sanatoria.

1. Il principio di strumentalità delle forme processuali alla luce dei canoni di proporzionalità, ragionevolezza ed effettività della tutela giurisdizionale.

Dal sistema delle norme di diritto processuale civile è possibile trarre una nozione di forma dell’atto processuale connotata da significativa ampiezza rispetto a quella degli atti del diritto sostanziale, in quanto in essa è compreso l’insieme dei requisiti estrinseci che partecipano alla formazione della fattispecie dell’atto, ad esclusione di ciò che lo precede, ovvero il processo di formazione della volontà, e di ciò che lo segue, ovvero i suoi effetti tipici (Mandrioli, Diritto processuale civile, I, Torino, 2011, 533).

La forma non costituisce, dunque, uno dei requisiti dell’atto processuale, ma rappresenta il modo stesso in cui viene esercitato il potere di cui esso è estrinsecazione.

In forza della rilevanza “contenutistica” delle forme processuali – in ragione della quale la disciplina degli atti processuali, ancorché formale, viene definita di forma-contenuto (Redenti, Atti processuali civili, in Enc. dir., IV, Milano, 1959, 113) – gli effetti tipici dell’atto, i quali, unitariamente considerati, coincidono con la stessa tutela giurisdizionale, sono del tutto indipendenti dalla volontà in esso manifestata perché discendono dalla sola conformità al paradigma legale.

Il ruolo primario che assume la forma nella dinamica effettuale degli atti processuali civili non va, tuttavia, confuso con il formalismo, termine che ha acquisito nella cultura europea un’accezione ricca e polivalente, di natura filosofica, epistemologica, interpretativa e pratica, ma anche una connotazione negativa, essendo talora impiegato per evidenziare un’eccessiva o esclusiva importanza della forma rispetto alla funzionalità (Ruosi, Commento sub art. 156 c.p.c., in Commentario al codice di procedura civile, diretto da Comoglio, Consolo, Sassani, Vaccarella, II, Torino, 2012, 1063 e ss.).

L’intero ordinamento processuale civile è, infatti, permeato dal principio di strumentalità o di congruità delle forme allo scopo, per il quale la forma degli atti del processo deve costituire uno strumento idoneo per il raggiungimento di un determinato risultato, il quale va individuato nell’attuazione del diritto sostanziale, posto che la funzione del processo è quella di dare al titolare di una situazione giuridica soggettiva tutto quello e proprio quello che ha diritto di conseguire (Chiovenda, Istituzioni di diritto processuale, I, Napoli, 1933, 42).

Tale principio ha ottenuto una significativa rivitalizzazione in conseguenza dell’enunciazione costituzionale dei principi regolatori del giusto processo di cui all’art. 111 Cost. riformato dalla l. cost. 23 novembre 1999, n. 2 e, in particolare, del canone di effettività della tutela giurisdizionale, alla luce del quale deve essere esclusa la legittimità di soluzioni interpretative che attribuiscano rilevanza a formalismi non giustificati da effettive e concrete esigenze difensive.

Attraverso una lettura costituzionalmente orientata degli artt. 121, 131 e 156, comma 2 e 3, c.p.c. (da cui principalmente si trae la regola della congruità delle forme allo scopo) è possibile rilevare che lo scopo obiettivo degli atti processuali è, in verità, duplice posto che, accanto al risultato tipico cui è inteso il singolo atto, si colloca il fine ultimo della definizione del giudizio attraverso una pronuncia di merito, ovvero, in altre parole, la stessa tutela giurisdizionale dei diritti dedotti in giudizio e, quindi, in definitiva, il giusto processo (Picardi, Manuale del processo civile, Milano, 2013, §§ 125 e 182.2).

Ne discende che il giudice chiamato ad accertare l’invalidità degli atti processuali deve verificare se alla deviazione della forma-contenuto rispetto al paradigma legale sia effettivamente conseguito il mancato raggiungimento del risultato pratico avuto di mira dal legislatore in relazione alla fattispecie concreta, nonché allo scopo generale del processo che è rappresentato dalla definizione del giudizio mediante una pronuncia di merito.

Corollario del principio di strumentalità delle forme è il principio di conservazione degli effetti giuridici degli atti, il quale si manifesta attraverso le cause di sanatoria disseminate nel codice di rito, ovvero di meccanismi finalizzati, con modalità ed effetti differenti, a rimediare agli errori commessi dalle parti nel compimento degli atti processuali, affinché lo stesso processo originariamente avviato possa raggiungere il suo scopo. Solo quando non operi alcuno di detti istituti per assenza dei presupposti di legge o per l’inerzia della parte interessata e il procedimento rimanga viziato, la nullità si pone al giudice come una questione pregiudiziale di rito idonea a definire il giudizio per absolutio ab instantia (Poli, L’invalidità degli atti processuali, in Riv. dir. proc., 2016, 2, 353 e ss.).

I rimedi predisposti dal legislatore al fine di recuperare gli atti processuali che si discostano dal paradigma legale vanno, in particolare, identificati nelle ipotesi di convalidazione oggettiva e soggettiva in cui la nullità dell’atto, pur sussistente, è inopponibile (come nel caso di raggiungimento dello scopo ai sensi dell’art. 156, comma 3, c.p.c., di decadenza dall’eccezione di nullità ai sensi dell’art. 157, comma 2 e 3, c.p.c., di ratifica dell’atto viziato e del passaggio in giudicato della sentenza che definisce il giudizio in cui si inserisce l’atto viziato); nelle cause di sanatoria vere e proprie (come la translatio iudicii, la rinnovazione, l’integrazione del contraddittorio ex art. 102 c.p.c., il meccanismo correttivo di cui all’art. 182 c.p.c.; le misure di correzione della nullità con funzione reintegrativa ed efficacia ex nunc (art. 162, comma 1, c.p.c., art. 354, comma 4); nella rimessione in termini ex art. 153, comma 2, c.p.c..

I principi di strumentalità e di conservazione degli atti del processo assolvono, altresì, alla funzione di canoni interpretativi che il giudice deve osservare nell’applicazione delle norme sulla nullità processuale.

Anche tale importante valenza ermeneutica riceve linfa vitale dai canoni sovranazionali di effettività, funzionalità e celerità dei modelli processuali, oltre che dal principio, di matrice eurounitaria, di proporzionalità e di ragionevolezza.

Come recentemente evidenziato dalla stessa giurisprudenza di legittimità (Sez. U, n. 22438/2018, Vincenti, Rv. 650462-01-02-03), il principio di effettività della tutela giurisdizionale sancito dall’art. 6 della CEDU assume primaria rilevanza anche in materia di nullità processuali in quanto impone di valorizzare l’orientamento teleologico del processo verso la decisione di merito in sede di scrutinio sull’adeguatezza delle forme degli atti rispetto al paradigma normativo.

Il principio di proporzionalità previsto ai paragrafi 3 e 4 dell’art. 5 TUE, nonché agli artt. 49, paragrafo 325, e 52, paragrafo 1, della Carta dei diritti fondamentali viene, invece, in rilievo in quanto, in forza di esso, la legittimità di qualsiasi norma implicante il sacrificio di altri diritti ed interessi è subordinata alla verifica di una rigorosa e proporzionale corrispondenza tra lo scopo perseguito e quanto sia strettamente necessario per raggiungerlo.

In applicazione del principio di proporzionalità la Corte di Strasburgo ha, infatti, stabilito che, alla luce dell’art. 6 della CEDU, la nullità deve essere limitata ai soli casi in cui sussista un rapporto di proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo avuto di mira (Corte EDU, 16 giugno 2015, ric. n. 20485/06; Corte EDU, 15 settembre 2016, ric. 32610/07; Corte EDU, 21 febbraio 2008, C-426/05; Corte EDU, 24 aprile 2008, ric. n. 15349/06).

In tale rinnovato contesto culturale, anche la Corte di cassazione ha mostrato una sempre maggiore sensibilità rispetto all’obiettivo costituzionale del giusto processo, così confermando una tendenza ad allontanarsi dall’approccio formalistico che aveva caratterizzato le pronunce in materia di nullità processuale degli ultimi decenni.

Sempre più consapevole appare, infatti, il convincimento dei giudici di legittimità secondo il quale i parametri normativi di cui all’art. 6 della CEDU e all’art. 47 della Carta di Nizza impongono di valutare in termini di ragionevolezza e di proporzionalità gli impedimenti al pieno dispiegarsi della tutela giurisdizionale attraverso la valorizzazione dell’assetto teleologico delle forme del processo, nel convincimento che le norme processuali costituiscono solo lo strumento per garantire la giustizia della decisione, così che devono essere interpretate in modo funzionale alla statuizione sul merito piuttosto che ad esiti abortivi del processo (paradigmatiche, a riguardo, sono Sez. 3, n. 10916/2017, Rossetti, Rv. 644015-01; Sez. U, n. 25513/2016, Manna, 641784-02; Sez. U, n. 10648/2017, D’Ascola, Rv. 643945-01; Sez. U, n. 10266/2018, Cirillo E. Rv. 648132-02; Sez. 2, n. 30927/2018, Giannaccari, Rv. 651536-01).

2. La sanatoria dell’atto nullo per raggiungimento dello scopo.

La fattispecie di cui all’art. 156, comma 3, c.p.c. costituisce una delle espressioni più significative dei principi di strumentalità delle forme e di conservazione degli atti invalidi, ma non integra un’ipotesi di sanatoria in senso proprio – la quale postula una declaratoria di nullità che, nella specie, è, invece, scongiurata proprio dal raggiungimento dello scopo dell’atto -, ma, piuttosto, di convalidazione, che si verifica ove all’imperfetta formulazione dell’atto sopravvenga il risultato materiale al quale lo stesso è preordinato ex lege. L’evento sopravvenuto si somma all’atto imperfetto e dà luogo ad una fattispecie sussidiaria rispetto alla corrispondente fattispecie perfetta, i cui effetti retroagiscono al momento del compimento dell’atto invalido (Martinetto, Della nullità degli atti processuali, in Commentario del codice di procedura civile, diretto da Allorio, Torino, 1973, 1576 e ss.; in giurisprudenza, si veda Sez. 5, n. 1184/2001, Marziale, Rv. 543497-01) delineando, accanto alla fattispecie conforme allo schema legale dell’atto, una fattispecie equipollente o conforme agli scopi produttiva degli stessi effetti della prima.

In dottrina è ancora controversa la nozione di scopo rilevante ai fini dell’art. 156 c.p.c. Esso è stato identificato da alcuni con gli effetti giuridici propri dell’atto (Andrioli, Diritto processuale civile, I, Napoli, 1979, I, 538), da altri con la soddisfazione dell’interesse per il quale il legislatore prescrive un determinato modello formale (Tarzia, Profili della sentenza civile impugnabile, Milano 1967, 26 ss).

Altra opinione lo individua nelle conseguenze puramente materiali dell’atto che, secondo alcuni autori (Denti, Volontarietà e volontà nel trattamento degli atti processuali, in Dall’azione al giudicato: temi del processo civile, Padova, 1983, 189 ss.; Proto Pisani, Violazione di norme processuali, sanatoria «ex nunc» o «ex tunc» e rimessione in termini, in Foro it., 1992, I, 1720), coincide con l’evento fisico che l’atto invalidamente posto in essere è inteso a provocare, dovendosi, in particolare, ritenere raggiunto quando la controparte assolve all’onere o esercita il potere la cui costituzione è prevista quale effetto dell’atto; e secondo altri (Satta-Punzi, Diritto processuale civile, Padova, 2000, 243) consiste nella funzione concreta dell’atto che l’osservanza delle formalità prescritte assicura. Per altra dottrina occorre, invece, fare riferimento allo scopo oggettivo assegnato dalla legge (Mandrioli, Diritto processuale civile, I, Torino, 2011, 533), mentre un Autore (Giovanardi, Sullo scopo dell’atto processuale in relazione alla disciplina della nullità, in Riv. dir. civ., 1987, II, 281 e ss.) ritiene che occorre avere riguardo alla ratio della norma che regola l’atto, alle sue finalità e all’interesse perseguito dalla legge nel prevedere una determinata disciplina.

Nella giurisprudenza di legittimità l’esigenza di conservazione che pervade il sistema delle norme codicistiche sulla nullità interpretate alla luce dei principi di effettività della tutela giurisdizionale e di proporzionalità di matrice costituzionale e sovranazionale si è tradotta in un sempre più ricorrente del meccanismo della convalidazione oggettiva per raggiungimento dello scopo.

Con specifico riferimento all’anno in rassegna, occorre, a riguardo, considerare Sez. 2, n. 19264/2018, Varrone, Rv. 649706-01, per un’applicazione del principio ex art. 156, comma 3, c.p.c. in materia di giuramento decisorio e Sez. L, n. 02827/2018, Blasutto, Rv. 647400-01, la quale ha ritenuto infondata l’eccezione di inammissibilità o improcedibilità del ricorso per cassazione, per recare una errata intestazione della parte contro cui è proposto, qualora esso sia stato notificato proprio al soggetto che era stato parte in causa nel giudizio conclusosi con la sentenza impugnata e che, resistendo nel grado di giudizio di legittimità, dopo avere proposto l’eccezione per il motivo sopra esposto, si sia difeso nel merito.

Occorre, inoltre, segnalare Sez. 1, n. 11193/2018, Caiazzo, Rv. 648451-01, la quale ha chiarito che la nullità dell’atto di riassunzione non deriva dalla mancanza di uno o più dei requisiti di cui all’art. 125 disp. att. c.p.c., bensì dall’impossibilità del raggiungimento dello scopo a causa della carenza di elementi essenziali quali il riferimento esplicito alla precedente fase processuale, l’indicazione delle parti e di altri elementi idonei a consentire l’identificazione della causa riassunta, le ragioni della cessazione della pendenza della causa stessa; il provvedimento del giudice che legittima la riassunzione; la manifesta volontà di riattivare il giudizio attraverso il ricongiungimento delle due fasi in un unico processo.

Un’altra interessante applicazione della sanatoria ex art. 156, comma 3, c.p.c. si rinviene in Sez. L, n. 14840/2018, Di Paolantonio, Rv. 649243-01, la quale ha affermato che la notificazione eseguita dall’avvocato domiciliatario abilitato alla sola ricezione degli atti, e non anche al compimento dell’attività di impulso processuale, in quanto proveniente da soggetto astrattamente dotato di ius postulandi, e potenzialmente idonea ad assolvere alla funzione conoscitiva che le è propria, deve ritenersi nulla e non inesistente, ai sensi dell’art. 11 della l. 21 gennaio 1994, n. 53, e, dunque, suscettibile di sanatoria ex tunc per conseguimento dello scopo, in quanto i principi di strumentalità delle forme degli atti processuali e del giusto processo impongono di circoscrivere l’inesistenza della notificazione alle sole ipotesi in cui venga posta in essere un’attività che sia priva degli elementi costitutivi essenziali idonei a rendere riconoscibile il suo prodotto come notificazione, mentre va ricondotta alla categoria delle nullità ogni altra ipotesi di difformità dal modello legale. Sulla stessa linea si sono collocate Sez. L, n. 14100/2018, Rv. 649236-01, Cinque, Rv. 640603-01, secondo cui non è inesistente, ma nulla, e, quindi, è sanabile per raggiungimento dello scopo, ovvero attraverso la costituzione del destinatario, la notificazione dell’impugnazione presso il procuratore domiciliatario deceduto; Sez. 2, n. 11154/2018, Manna F., Rv. 648032-01, secondo cui la nullità della notificazione degli atti processuali nei confronti dell’Avvocatura di Stato derivante dall’uso dell’indirizzo PEC deputato alle comunicazioni istituzionali in luogo di quello destinato alle comunicazioni processuali è causa di nullità della notifica, la quale è sanata, con efficacia ex tunc, dall’opposizione del Ministero ex art. 5-ter della l. 24 marzo 2001, n. 89, non ostando alla produzione di tale effetto l’affermazione per cui la parte pubblica non disporrebbe di altro mezzo per fare valere l’inefficacia del decreto prevista dall’art. 5, comma 2, della legge citata, atteso che detta norma concerne la diversa e non assimilabile ipotesi della mancata notificazione; e Sez. 6-3, n. 01063/2018, Cirillo F.M., Rv. 647350-01, che, in linea con Sez. U, n. 16598/2016, Frasca, Rv. 640829-01, ha affermato che la tempestiva costituzione dell’appellante con la copia dell’atto di citazione (cd. velina) in luogo dell’originale non determina l’improcedibilità del gravame ai sensi dell’art. 348, comma 1, c.p.c., ma integra una nullità per inosservanza delle forme indicate dall’art. 165 c.p.c., sanabile, anche su rilievo del giudice, entro l’udienza di comparizione di cui all’art. 350, comma 2, c.p.c., salva la possibilità per l’appellante di chiedere la remissione in termini ex art. 153 c.p.c., dovendosi ritenere, in difetto, consolidato il vizio e improcedibile l’appello.

In materia di esecuzione, merita, altresì, di essere segnalata Sez. 3, n. 25170/2018, Tatangelo, Rv. 651161-01, secondo la quale l’atto introduttivo dell’opposizione esecutiva successiva all’inizio dell’esecuzione (ex artt. 615, comma 2, 617, comma 2, e 618, nonché 619, c.p.c..) che eventualmente si discosti dal modello è nullo, ma la nullità resta sanata, per raggiungimento dello scopo, se l’atto sia depositato nel fascicolo dell’esecuzione o, comunque, pervenga nella sfera di conoscibilità del giudice dell’esecuzione, anche su disposizione di un giudice diverso, che ne rilevi la suddetta nullità, o su richiesta della parte opponente.

Occorre, inoltre, richiamare Sez. 10185/2018, Falaschi, Rv. 648228-01, la quale ha affermato l’operatività dell’art. 156 c.p.c. in materia di opposizione avverso il verbale di accertamento di violazioni del codice della strada, assumendo che la nullità del procedimento di notificazione del verbale è sanata dalla rituale opposizione ex art. 22 della l. 24 novembre 1981, n. 689.

Numerose sono, infine, le pronunce che nel 2018 hanno fatto applicazione del precetto di cui all’art. 156, comma 3, c.p.c. in relazione alla fattispecie della nullità della notificazione (si vedano, a riguardo, Sez. 3, n. 05663/2018, Rubino, Rv. 648293-01; Sez. L, n. 26489/2018, Berrino, Rv. 650986-01; Sez. U, n. 23620/2018, Campanile, Rv. 650466-02; Sez. L, n. 22166/2018, Esposito L., Rv. 650502-01; Sez. L, 09735/2018, Marotta, Rv. 648185-01).

3. Nullità degli atti digitali e scopo della disciplina del processo civile telematico.

Il settore nel quale l’applicazione giurisprudenziale dei principi di strumentalità delle forme e di conservazione degli atti processuali sta conducendo ad esiti ermeneutici connotati da più spiccata innovatività è senz’altro quello della riforma digitale del processo civile.

In tale ambito viene in rilievo la fondamentale questione del contemperamento tra l’obiettivo di conseguire la dematerializzazione del giudizio attraverso una rigorosa conformazione dell’atto al modello digitale delineato dalle prescrizioni normative di carattere tecnico, con il principio di effettività della tutela giurisdizionale e con il diritto di accesso al giudizio di matrice costituzionale e sovranazionale.

La giurisprudenza di merito che per prima è stata chiamata a risolvere le questioni di nullità degli atti in forma digitale si è mostrata ondivaga, talora riconoscendo l’applicabilità dell’art. 156, comma 3, c.p.c., e talaltra concludendo per la nullità insanabile dell’atto non conforme al modello digitale, sul presupposto che l’attuazione del processo telematico postula necessariamente l’adesione degli operatori agli standard tecnici stabiliti dalle regole di settore in assenza del rispetto dei quali la riforma processuale digitale risulterebbe inattuabile.

Tale ricostruzione si fonda sull’assunto per il quale esiste un nuovo scopo telematico dell’atto processuale che non è soltanto quello di creare una presa di contatto tra l’ufficio giudiziario e la parte, ma anche quello di veicolare le richieste della stessa parte al giudice mediante un supporto smaterializzato e decentralizzato (in tal senso si vedano, tra le altre, Tribunale di Vasto, 15 aprile 2016, in Dejure; Tribunale di Roma, 13 luglio 2014, in Dejure; Tribunale di Livorno, 25 luglio 2014, in Questionegiustizia.it).

Tanto la dottrina, quanto la giurisprudenza di legittimità hanno, invece, ricercato la soluzione del problema tra le norme generali in materia di nullità degli atti processuali e, in particolare, nella sanatoria per raggiungimento dello scopo.

È stato, in particolare, evidenziato che, sebbene la disciplina del processo civile telematico, attraverso la prescrizione di forme digitali, abbia introdotto una nuova tipizzazione degli atti processuali, la nullità derivante dalla loro inosservanza non può, a rigore, essere inquadrata nella previsione dell’art. 156, comma 1, c.p.c., ma bensì in quella di cui al secondo comma di tale disposizione, posto che la fonte del nuovo regime giuridico è rappresentata per lo più da norme secondarie, senza che alle stesse possa essere riconosciuto rango primario in ragione del generico rinvio alla regolamentazione secondaria contenuto nel d.l. 29 dicembre 2009, n. 193 e nel d.l. 18 ottobre 2012, n. 179. A ciò va aggiunto che nessuna delle norme primarie di cui al d.l. n. 179 del 2012 commina espressamente la nullità in caso di violazione delle prescrizioni tecniche ivi stabilite (Bonafine, Annotazioni sullo scopo dell’atto processuale e la sua essenza: tra insegnamenti tramandati e nuove pressanti esigenze, in www.judicium.it).

In termini analoghi la Corte di Cassazione ha già da tempo affermato l’operatività nel processo telematico del principio generale di cui all’art. 156, comma 3, c.p.c., sul presupposto che lo scopo dell’atto digitale, come quello dell’atto in forma cartacea, debba essere individuato nella presa di contatto fra la parte e l’ufficio giudiziario dinanzi al quale la controversia è instaurata e nella messa a disposizione dell’atto alle altre parti processuali (Sez. 2, n. 09772/2016, Giusti, Rv. 639888-01). Ne consegue che l’atto telematico difforme rispetto alle prescrizioni tecniche è un atto inficiato da un vizio formale, ma il giudizio sulla sua validità non può che passare attraverso un accertamento rapportato alle caratteristiche del caso concreto e della sua idoneità a raggiungere lo scopo suo proprio, il quale non va individuato in quello della legge che ha introdotto il processo digitale, ma in quello ricollegabile al singolo atto, coincidente con l’idoneità dello stesso di inserirsi, comunque, nella sequenza procedimentale, permettendone la prosecuzione.

In questa prospettiva diverse altre pronunce hanno risolto questioni di nullità dell’atto processuale in forma digitale facendo applicazione dei principi di strumentalità delle forme e di conservazione e dei canoni di effettività della tutela giurisdizionale, di proporzionalità e di ragionevolezza.

Tra le decisioni più rappresentative del nuovo indirizzo interpretativo va nuovamente richiamata Sez. U, n. 22438/2018, Vincenti, Rv. 650462-01-02-03, la quale, in materia di notificazione a mezzo p.e.c. del ricorso per cassazione in forma di documento informatico, ha sancito il principio di diritto secondo il quale l’atto nativo digitale deve essere ritualmente sottoscritto con firma digitale, potendo la mancata sottoscrizione determinare la nullità dell’atto stesso, fatta salva la possibilità di ascriverne comunque la paternità certa in applicazione del principio del raggiungimento dello scopo.

Operando una parziale revisione dell’orientamento giurisprudenziale secondo il quale il deposito analogico quale mera copia di quello informatico priva della necessaria attestazione di conformità sottoscritta dal difensore non è idoneo ad integrare quanto richiesto dall’art. 369, comma 1, c.p.c. ed è quindi improcedibile, la Corte ha, inoltre, stabilito che, ove il ricorso predisposto in originale digitale e sottoscritto con firma digitale sia notificato in via telematica, ai fini della prova della tempestività della notificazione del ricorso, è

onere del controricorrente disconoscere, ai sensi della disciplina di cui all’art. 23, comma 2, del d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82, la conformità agli originali dei messaggi di p.e.c. e della relata di notificazione depositati in copia analogica non autenticata dal ricorrente.

Invocando i principi di effettività della tutela giurisdizionale, di proporzionalità e di ragionevolezza, le Sezioni Unite hanno ritenuto che, ai fini della verifica della procedibilità del ricorso depositato in copia analogica in assenza di attestazione di conformità al file nativo ricevuto mediante notificazione a mezzo p.e.c., possa essere valorizzato il contegno di non contestazione serbato dal controricorrente, il quale esprime “una saldatura concettuale in termini di affidamento nella verifica della condizione di procedibilità, con la condotta asseverativa imposta al notificante”. Ciò in quanto il destinatario della notificazione è in possesso dell’originale del ricorso in formato digitale e, quindi, è in grado di valutarne a pieno la conformità alla copia analogica informe, in quanto priva di attestazione ex art. 9 della legge 21 gennaio 1994, n. 53, che sia stata tempestivamente depositata dal ricorrente, attestando l’esito di una siffatta verifica tramite il mancato disconoscimento di detta conformità.

Tra le pronunce che nell’anno in rassegna hanno fatto applicazione dei suddetti principi merita, altresì, di essere menzionata Sez. 5, n. 03805/2018, La Torre, Rv. 647092-01, secondo la quale l’irritualità della notificazione di un atto (nella specie, ricorso per cassazione) a mezzo di posta elettronica certificata non ne comporta la nullità se la consegna telematica ha, comunque, prodotto il risultato della conoscenza dell’atto e determinato così il raggiungimento dello scopo legale dello stesso, in omaggio alla regola generale sancita dall’art. 156, comma 3, c.p.c.: ne deriva che è inammissibile l’eccezione con la quale si lamenti esclusivamente detto vizio procedimentale, senza prospettare un concreto pregiudizio per l’esercizio del diritto di difesa.

Con specifico riferimento alle firme digitali di tipo CAdES e di tipo PAdES, Sez. U, n. 10266/2018, Cirillo E., Rv. 648132-02 ha, invece, chiarito che in materia di notificazioni al difensore, a seguito dell’introduzione del “domicilio digitale”, corrispondente all’indirizzo p.e.c. che ciascun avvocato ha indicato al Consiglio dell’Ordine di appartenenza, previsto dall’art. 16 sexies del d.l. n. 179 del 2012, conv. con modif. in l. 17 dicembre 2012, n. 221, come modificato dal d.l. 24 giugno 2014, n. 90, conv., con modif., in l. 11 agosto 2014, n. 114, la notificazione dell’atto di appello va eseguita all’indirizzo PEC del difensore costituito risultante dal ReGIndE, pur non indicato negli atti dal difensore medesimo, sicché è nulla la notificazione effettuata – ai sensi dell’art. 82 del r.d. 22 gennaio 1934, n. 37 – presso la cancelleria dell’ufficio giudiziario innanzi al quale pende la lite, anche se il destinatario abbia omesso di eleggere il domicilio nel Comune in cui ha sede quest’ultimo, a meno che, oltre a tale omissione, non ricorra anche la circostanza che l’indirizzo di posta elettronica certificata non sia accessibile per cause imputabili al destinatario (il principio è stato ribadito da Sez. 2, n. 30927/2018, Giannaccari, Rv. 651536-01).

Il principio della sanabilità ex tunc per raggiungimento dello scopo della nullità dell’atto processuale in forma digitale è stato, infine, affermato da Sez. 2, n. 11154/2018, Manna F., Rv. 648032-01, da Sez. 2, n. 14818/2018, Cosentino, Rv. 648851-01 e da Sez. 3, n. 17022/2018, D’Arrigo, Rv. 649442-02.

4. Principio di conservazione degli atti e inammissibilità del ricorso per cassazione per manifesta infondatezza delle censure relative alla violazione dei principi regolatori del giusto processo ex art. 360-bis, n. 2, c.p.c.

Parte della dottrina (Picardi, Manuale del processo civile, Milano, 2013, 457; Picardi, Sassani, Panzarola, Codice di procedura civile, I, commento sub art. 360-bis c.p.c., Milano, 2015, 2213 e ss.) ha ravvisato nell’ipotesi di inammissibilità del ricorso per cassazione per manifesta infondatezza delle censure relative alla violazione dei principi regolatori prevista dall’art. 360-bis, n. 2, c.p.c., introdotto dall’art. 47, comma 1, lett. a), della l. 18 giugno 2009, n. 69, un ulteriore fondamento positivo per avallare una lettura meno formalistica delle violazioni processuali, produttive di nullità, deducibili a fondamento del ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360, n. 4, c.p.c., in ossequio al principio di strumentalità delle forme, come corroborato dai canoni di effettività, di proporzionalità e di ragionevolezza.

Muovendo dall’assunto per il quale, alla stregua della più recente interpretazione nomofilattica dell’art. 156, comma 3, c.p.c., lo scopo oggettivo dell’atto processuale – e, quindi, la sua funzione – è quello di contribuire ad attuare il giusto processo, la tesi in esame rileva che non tutte le violazioni delle norme endoprocessuali comportano la nullità degli atti, ma solo quelle che li rendono inidonei al raggiungimento dello scopo. Ne deriva che sono censurabili ex art. 360, n. 4, c.p.c. soltanto i vizi del procedimento che producono una lesione dei principi regolatori del giusto processo e, in particolare, del contraddittorio in senso forte e del diritto di difesa.

In quest’ottica, l’art. 360-bis c.p.c. si coordina perfettamente con l’art. 360, n. 4, c.p.c. in quanto in entrambi i casi si è in presenza di violazioni del canone del giusto processo e dei correlati principi regolatori. Di conseguenza, se la violazione è manifestamente infondata, la Corte di cassazione dichiara l’inammissibilità del ricorso ai sensi dell’art. 360-bis, n. 2, c.p.c., mentre se la violazione non è manifestamente infondata, la Corte adotta una pronuncia di infondatezza ai sensi dell’art. 360, n. 4, c.p.c. (Picardi, Manuale del processo civile, cit. 458).

In definitiva, alla stregua di tale ricostruzione teorica, in forza della previsione dell’art. 360-bis, n. 2, c.p.c., mediante il ricorso per cassazione non è più possibile denunciare qualsivoglia nullità processuale, ma soltanto la violazione del cd. ordine pubblico processuale. Tale requisito di ammissibilità dei ricorsi per cassazione implica, infatti, una concreta valutazione dell’interesse ad impugnare, così che non tutti gli errores in iudicando o in procedendo dovrebbero condurre alla cassazione del provvedimento impugnato, ma soltanto quelli che hanno determinato un concreto pregiudizio ai diritti di azione e di difesa delle parti (sulla stessa linea, si veda D’Ascola, La riforma e le riforme del processo civile: appunti sul giudizio di Cassazione, in www.Judicium.it).

In termini analoghi, un’altra parte della dottrina (Costantino, Il nuovo processo di cassazione, in Foro it., 2009, V, 310 e ss.) ha evidenziato che il coordinamento degli artt. 360 e 360-bis c.p.c. induce a ritenere che il nuovo requisito di ammissibilità dei ricorsi per cassazione implichi una valutazione in concreto dell’interesse ad impugnare, nel senso che detto interesse deve essere apprezzato in relazione all’utilità che può concretamente derivare alla parte dall’eventuale accoglimento dell’impugnazione, così che questa è inammissibile allorché sia diretta all’emanazione di una pronuncia priva di rilievo pratico. Ne consegue che non tutti gli errores in judicando o in procedendo dovrebbero condurre alla cassazione del provvedimento impugnato, ma soltanto quelli che hanno determinato un concreto pregiudizio ai diritti di azione e di difesa delle parti.

I principi su cui si fonda l’ipotesi ricostruttiva appena delineata sono condivisi dalla stessa giurisprudenza di legittimità.

Particolarmente significativa, a riguardo, è la soluzione adottata da Sez. 3, n. 22341/2017, Frasca, Rv. 646020-03, con la quale è stato chiarito che per dedurre la violazione di una norma del procedimento agli effetti dell’art. 360, n. 4, c.p.c. occorre rispettare il requisito di ammissibilità di cui all’art. 360, n. 2, c.p.c., ovvero è necessario che la censura di violazione della norma del procedimento venga evidenziata con caratteri tali da palesare che sono stati violati i principi regolatori del giusto processo.

Sebbene non si registrino altre pronunce che, come quella appena richiamata, valorizzano espressamente la lettura combinata dell’art. 360-bis, n. 2, c.p.c. con l’art. 156, comma 3, c.p.c., il principio che ne è alla base è stato applicato da un orientamento giurisprudenziale risalente e ampiamente condiviso, secondo il quale la denuncia di vizi di attività del giudice che comportino la nullità della sentenza o del procedimento ai sensi dell’art. 360, n. 4, c.p.c. non tutela l’astratta regolarità dell’attività giudiziaria, ma garantisce soltanto l’eliminazione del pregiudizio del diritto di difesa concretamente subito dalla parte che denuncia il vizio, solo allorché nel successivo giudizio di rinvio il ricorrente possa ottenere una pronuncia diversa e più favorevole rispetto a quella cassata.

Tale indirizzo interpretativo ha ottenuto significative conferme anche nel corso dell’anno in rassegna, attraverso l’esame di un’ampia casistica. Il principio di conservazione degli atti è stato, infatti, applicato all’ipotesi di vizio della sentenza di primo grado per avere il tribunale deciso la causa nel merito prima che le parti avessero definito il thema decidendum (Sez. 2, n. 24402/2018, Carrato, Rv. 650652-01), dell’omessa concessione dei termini ex art. 183, comma 6, c.p.c. (Sez. 1, n. 02626/2018, Genovese, Rv. 646877-01), dell’irritualità della notificazione di un atto a mezzo di posta elettronica certificata (Sez. 5, n. 03805/2018, La Torre, Rv. 647092-01), della violazione delle regole sulla difesa tecnica nel processo tributario (Sez. 5, n. 11435/2018, Greco, Rv. 648072-01), delle carenze determinanti la nullità dell’atto di precetto (Sez. 6-3, n. 19105/2018, Rubino, Rv. 650240-01) ed in relazione all’idoneità della comunicazione di cancelleria del provvedimento del giudice dell’esecuzione a determinare il decorso del termine per proporre opposizione agli atti esecutivi, ancorché inosservante dell’art. 45, comma 4, disp. att. c.p.c. (Sez. 3, n. 15193/2018, D’Arrigo, Rv. 649055-01; Sez. 3, n. 05172/2018, De Stefano, Rv. 648288-01; Sez. 3, n. 07898/2018, Sestini, Rv. 648309-01).

5. Principio di conservazione e inesistenza dell’atto processuale.

Secondo la definizione tradizionale, per atto processuale inesistente si intende l’atto mancante degli elementi necessari minimi perché sia riconoscibile come atto appartenente ad un determinato tipo e, come tale, improduttivo di qualsiasi effetto.

L’elaborazione della nozione di inesistenza e la sua delimitazione rispetto a quella di nullità costituisce ancora una delle questioni di maggiore interesse del diritto processuale civile, avendo risvolti non solo di carattere definitorio e sistematico, ma anche di natura pratica, per essere la sua soluzione di significativo impatto sull’effettività della tutela giurisdizionale.

Difatti, come confermato tanto dalla giurisprudenza di legittimità, quanto dalla prevalente dottrina, nel caso di atto cd. inesistente non trova applicazione il meccanismo di convalidazione per raggiungimento dello scopo di cui all’art. 156, comma 3, c.p.c. (Poli, Invalidità ed equipollenza degli atti processuali, Torino, 2012, 443 e ss.; Oriani, Nullità degli atti processuali, I) Diritto processuale civile, in Enc. giur., vol. XXI, Roma 1990, 8-9).

La questione se, alla luce del mutato quadro costituzionale e comunitario, conservi validità scientifica ed utilità pratica la distinzione tra nullità ed inesistenza dell’atto (e, segnatamente, della notificazione), pur essendo stata rimessa alle Sezioni Unite con ordinanza interlocutoria Sez. 3, n. 06427/2015, Rossetti, non massimata, non ha ancora ottenuto una sistemazione definitiva.

Ciò non di meno, nel corso degli ultimi anni la Suprema Corte ha sensibilmente ridotto le fattispecie in cui ha ravvisato l’inesistenza, con conseguente aumento delle ipotesi di nullità sanabile.

Le Sezioni Unite chiamate a risolvere la questione posta dall’ordinanza interlocutoria sopra richiamata, con la sentenza n. 14916/2016, Virgilio, Rv. 640603-01, hanno, infatti, enunciato il principio per il quale l’inesistenza della notificazione del ricorso per cassazione è configurabile, in base ai principi di strumentalità delle forme degli atti processuali e del giusto processo, oltre che in caso di totale mancanza materiale dell’atto, nelle sole ipotesi in cui venga posta in essere un’attività priva degli elementi costitutivi essenziali idonei a rendere riconoscibile un atto qualificabile come notificazione, ricadendo ogni altra ipotesi di difformità dal modello legale nella categoria della nullità. Tali elementi consistono: a) nell’attività di trasmissione, svolta da un soggetto qualificato, dotato, in base alla legge, della possibilità giuridica di compiere detta attività, in modo da poter ritenere esistente e individuabile il potere esercitato; b) nella fase di consegna, intesa in senso lato come raggiungimento di uno qualsiasi degli esiti positivi della notificazione previsti dall’ordinamento (in virtù dei quali, cioè, la stessa debba comunque considerarsi, ex lege, eseguita), restando, pertanto, esclusi soltanto i casi in cui l’atto venga restituito puramente e semplicemente al mittente, così da dover reputare la notificazione meramente tentata ma non compiuta, cioè, in definitiva, omessa.

Dalle pronunce successive al richiamato arresto nomofilattico traspare un’attenzione sempre più consapevole ai principi di strumentalità delle forme e del giusto processo, in forza dei quali la categoria dell’inesistenza deve ritenersi configurabile soltanto nell’ipotesi di mancanza materiale dell’atto oppure nel caso in cui sia posta in essere un’attività priva degli elementi costitutivi essenziali idonei a qualificare un atto alla stregua del paradigma normativo di riferimento, ravvisandosi, invece, la nullità in tutte le altre ipotesi di carenze o di difformità dal modello legale.

In tale prospettiva, in materia di notificazione è stato chiarito che la notifica dell’atto di appello effettuata nei confronti dell’originario difensore revocato, anziché in favore di quello nominato in sua sostituzione, non è inesistente, ma nulla, anche ove la controparte abbia avuto conoscenza legale di detta sostituzione, sicché la stessa è rinnovabile ai sensi dell’art. 291 c.p.c. (Sez. 6-5, n. 01798/2018, Manzon, Rv. 647104-01).

Quanto ai vizi relativi al luogo della notificazione, Sez. 3, n. 05663/2018, Rubino, Rv. 648293-01, ha stabilito che il luogo in cui la notificazione dell’impugnazione (nella specie, appello) viene eseguita non attiene agli elementi costitutivi essenziali dell’atto, sicché i vizi relativi alla sua individuazione, anche quando esso si riveli privo di alcun collegamento col destinatario, ricadono sempre nell’ambito della nullità dell’atto, come tale sanabile, con efficacia ex tunc, o per raggiungimento dello scopo, a seguito della costituzione della parte intimata (anche se compiuta al solo fine di eccepire la nullità), o in conseguenza della rinnovazione della notificazione, effettuata spontaneamente dalla parte stessa oppure su ordine del giudice ex art. 291 c.p.c.

Con riferimento all’erronea individuazione del destinatario della notificazione, i giudici di legittimità hanno stabilito che quando sia intervenuta la pronuncia di fallimento della parte nelle more del giudizio di appello e l’evento non sia stato dichiarato nel corso di esso, la notifica del ricorso per cassazione, fatta presso il difensore di detta parte in bonis, anziché nei confronti del curatore del fallimento, non è inesistente – fattispecie che ricorre, in forza dei principi di strumentalità delle forme e del giusto processo, nelle sole ipotesi di mancanza materiale dell’atto o qualora sia posta in essere un’attività priva degli elementi costitutivi essenziali idonei a qualificare un atto come notificazione – ma nulla, con la conseguenza che la stessa è suscettibile di rinnovazione, con effetto ex tunc, ai sensi dell’art. 291 c.p.c. (Sez. 6-5, n. 08192/2018, Napolitano, Rv. 647573-01).

6. Inammissibilità, improcedibilità e sanatoria.

Assai controversa è l’applicabilità dei principi di strumentalità e di conservazione alle ipotesi di inosservanza di forme prescritte a pena di preclusione o di decadenza sanzionate con l’inammissibilità o con l’improcedibilità, essendo ancora dibattuta l’autonomia concettuale di tali figure rispetto alla nullità e, quindi, la possibilità di estendere ad esse la disciplina di cui agli artt. 156 c.p.c. e ss., comprese le norme sulla sanatoria degli atti invalidi.

Gli autori che, valorizzando gli scarni riferimenti normativi – che soltanto in materia di impugnazione assumono sufficiente organicità -, hanno tentato di ricostruire le categorie giuridiche dell’inammissibilità e dell’improcedibilità convergono esclusivamente sulla loro riconduzione entro il genus dell’invalidità, sulla loro attinenza ai soli atti di parte (e, segnatamente, alle impugnazioni), sulla loro derivazione dalla mancanza di presupposti processuali o di elementi indispensabili, con riferimento all’inammissibilità, ovvero dal successivo difetto di attività preliminari necessarie dell’impugnante, con riguardo all’improcedibilità, e sulla loro attitudine a comportare la definizione del processo in rito, senza pervenire ad una decisione di merito.

Assai variegati risultano, invece, gli esiti interpretativi con riferimento al delicato tema dei rapporti tra l’inammissibilità e la nullità.

Per una parte della dottrina (Fabbrini, L’opposizione ordinaria del terzo nel sistema dei mezzi di impugnazione, Milano, 1968), l’inammissibilità si distingue dalla nullità in quanto invalidità insanabile e assoluta e, quindi, rilevabile d’ufficio e consegue all’assenza di una delle seguenti condizioni specifiche fondamentali: l’esistenza astratta del potere di impugnazione; la legittimazione e capacità del soggetto; la regolarità dell’atto sotto il profilo del contenuto-forma. I motivi di nullità dell’atto introduttivo di un giudizio di impugnazione che non sia compreso nelle ipotesi di inammissibilità tipizzate di cui agli artt. 331, 366 e 398 c.p.c., sono, comunque, causa di inammissibilità, con la precisazione che il giudice dell’impugnazione, di fronte alla nullità dell’atto introduttivo, deve pronunciare l’inammissibilità, ma della nullità deve giudicare alla stregua dei principi generali.

In questa prospettiva la sanatoria della nullità di un atto è possibile solo a condizione che avvenga prima che il potere di cui l’atto è manifestazione risulti precluso per ragioni formali o sostanziali. Di conseguenza, nell’ambito dei mezzi di impugnazione, dato il sistema dei termini perentori, ogni sanatoria è impedita ove la fattispecie di recupero maturi oltre il termine per impugnare.

Anche altri autori (Cerino, Canova, Consolo, Inammissibilità e improcedibilità: I) Diritto processuale civile, in Enc. giur., Agg., Roma, 1993) hanno evidenziato che la coincidenza tra nullità formale e inammissibilità è esplicita solo nelle norme che prevedono espressamente tale ultima sanzione ma, comunque, ove manchi la previsione espressa di un’ipotesi di inammissibilità, una volta riscontrata la nullità dell’atto di impugnazione, la sussunzione nella sfera dell’inammissibilità si fonda su ragioni sistematiche desumibili essenzialmente dall’effetto di consunzione previsto per tutte le impugnazioni.

Secondo un’altra tesi (Tombari Fabbrini, Inammissibilità e improcedibilità del ricorso per cassazione e possibili sanatorie per raggiungimento dello scopo, in Foro it., 1993, I, 3019 e ss.) le ipotesi di inammissibilità codificate, se non fossero espressamente previste, sarebbero da ricondurre entro la categoria della nullità, perché imperniate direttamente o indirettamente su di un vizio di contenuto, ma alle ipotesi espressamente previste va aggiunta quella, pacificamente riconosciuta, dell’assenza dei presupposti processuali e delle condizioni dell’azione accomunate dall’inesistenza del potere di impugnare. Dalle norme sull’inammissibilità e sull’improcedibilità, osserva l’opinione in esame, si ricava un regime giuridico di maggiore rigore rispetto a quello della nullità, caratterizzato essenzialmente dalla rilevabilità d’ufficio e dalla insanabilità e non rinnovabilità dell’atto.

Di contrario avviso è, invece, la dottrina (Giovanardi, Osservazioni sull’asserita autonomia concettuale della inammissibilità, in Giur. it., 1986, I, 2, 665 e ss.) che ritiene che non vi sono dati positivi che consentono di attribuire carattere autonomo all’inammissibilità, mentre costituisce una petizione di principio negare che rispetto ad essa operi la disciplina della nullità.

Altri autori (Ciaccia Cavallari, La rinnovazione nel processo di cognizione, Milano, 1981; Poli, Inammissibilità e improcedibilità, in www.Treccani.it, 2016; Id., Sulla sanabilità della inosservanza di forme prescritte a pena di preclusione e decadenza, in Riv. dir. proc., 1996, 447 e ss.) ritengono, infine, che l’inammissibilità non possa essere estesa oltre le ipotesi, tassativamente previste, di nullità non sanabili retroattivamente (ovvero quelle derivanti dall’assenza dei presupposti processuali e di assenza o incertezza dei requisiti relativi all’editio actionis). Di conseguenza, ove la carenza del requisito di forma-contenuto dell’atto di impugnazione non sia espressamente sanzionata con l’inammissibilità e non dia luogo a nullità insanabile, deve trovare applicazione la disciplina generale in materia di nullità e, quindi, di sanatoria e di rinnovazione con efficacia retroattiva dell’atto nullo. Significativo, a riguardo, è l’art. 342 c.p.c. in materia di appello, il quale rinvia all’art. 163 c.p.c. per individuare gli elementi costitutivi dell’atto, ma solo per la mancata formulazione specifica dei motivi di appello prevede espressamente la sanzione dell’inammissibilità.

Anche la giurisprudenza di legittimità ha assunto una posizione in merito alla problematica dei rapporti tra nullità ed inammissibilità affermando che tale ultima figura non costituisce la sanzione per un vizio dell’atto diverso dalla nullità, ma la conseguenza di particolari nullità dell’appello e del ricorso per cassazione, e non è comminata in ipotesi tassative, ma si verifica ogniqualvolta – essendo l’atto inidoneo al raggiungimento del suo scopo (nel caso dell’appello, evitare il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado) – non operi un meccanismo di sanatoria. Di conseguenza, essendo inapplicabile all’atto di citazione di appello l’art. 164, comma 2, c.p.c. (testo originario), per incompatibilità – in quanto solo l’atto conforme alle prescrizioni di cui all’art. 342 c.p.c. è idoneo a impedire la decadenza dall’impugnazione e quindi il passaggio in giudicato della sentenza -, l’inosservanza dell’onere di specificazione dei motivi, imposto dall’articolo 342 c.p.c., integra una nullità che determina l’inammissibilità dell’impugnazione, con conseguente effetto del passaggio in giudicato della sentenza impugnata, senza possibilità di sanatoria dell’atto a seguito di costituzione dell’appellato e senza che tale effetto possa essere rimosso dalla specificazione dei motivi avvenuta in corso di causa (Sez. 1, n. 18932/2016, Campanile, Rv. 641832-02).

Occorre, tuttavia, evidenziare che la S.C. ha più volte temperato il suddetto principio generale ammettendo la sanatoria anche nelle ipotesi di inammissibilità espressamente previste (Sez. 1, n. 00123/1992, Bibolini, Rv. 475678-01; Sez. 1, n. 02333/1993, Sensale, Rv. 481102-01; Sez. 2, n. 13620/2007, Schettino, Rv. 598101-01), così dimostrando, soprattutto nella più recente produzione, una maggiore apertura all’opzione ermeneutica che non esclude l’operatività dei meccanismi di conservazione degli atti neanche con riferimento all’inammissibilità dell’impugnazione.

In questa prospettiva è stato enunciato il principio per il quale il vizio della vocatio in ius non determina la nullità dell’atto di appello, ma consente la rinnovazione o la sanatoria per raggiungimento dello scopo.

Si tratta di recenti pronunce che hanno superano la precedente impostazione (per cui si veda Sez. 2, n. 18868/2014, San Giorgio, Rv. 632084-01), secondo la quale l’omessa indicazione, nella copia notificata dell’atto di citazione in appello, della data dell’udienza di comparizione produce l’inammissibilità del gravame ed il passaggio in giudicato della sentenza impugnata, trattandosi di nullità non suscettibile di sanatoria poiché ricollegata all’assenza di un elemento necessariamente richiesto dall’art. 342 c.p.c. attraverso il richiamo al precedente art. 163 c.p.c.

Ed infatti Sez. 3, n. 13079/2018, Scoditti, Rv. 648711-01, ponendosi in linea di continuità con un precedente dictum (Sez. 3, n. 22024/2009, Frasca, 610313-01), ha affermato che la mancanza nella citazione di tutti i requisiti indicati dall’art. 164, comma 1, c.p.c. e, quindi, di tutti gli elementi integranti la vocatio in jus, non vale a sottrarla (anche se trattasi di citazione in appello) all’operatività dei meccanismi di sanatoria ex tunc previsti dal secondo e terzo comma della medesima disposizione. Ne consegue che, quando la causa, una volta iscritta al ruolo, venga chiamata all’udienza di comparizione (che, per la mancata indicazione dell’udienza, deve essere individuata ai sensi dell’art. 168-bis, comma 4, c.p.c.), il giudice, anche in appello, ove il convenuto non si costituisca, deve ordinare la rinnovazione della citazione, ai sensi e con gli effetti dell’art. 164, comma 1, c.p.c., mentre se si sia costituito deve applicare l’art. 164, comma 3, c.p.c., salva la richiesta di concessione di termine per l’inosservanza del termine di comparizione.

Sulla stessa linea Sez. 2, n. 14488/2018, Cavallari, Rv. 648843-01, ha stabilito che l’omessa indicazione della data dell’udienza di comparizione nella copia notificata dell’atto di citazione produce la nullità della citazione stessa poiché l’art. 342 c.p.c., nello stabilire i requisiti dell’appello, richiama l’art. 163 c.p.c. che tale indicazione impone, con la conseguenza che il giudice, nelle controversie introdotte successivamente alla data del 30 aprile 1995, non può ritenere inammissibile il gravame e passata in giudicato la decisione impugnata, ma deve disporre, ai sensi dell’art. 164 c.p.c., nel testo all’epoca vigente, la rinnovazione, entro un termine perentorio, della menzionata citazione, i cui vizi sono così sanati, e, qualora detta rinnovazione non avvenga, dichiarare l’estinzione del processo.

Particolarmente significativa, è, poi, Sez. L, n. 02827/2018, Blasutto, Rv. 647400-01, la quale, in continuità con Sez. 2, n. 13620/2007, Schettino, Rv. 598101-01, ha applicato il meccanismo di sanatoria ex art. 156, comma 3, c.p.c. al ricorso per cassazione caratterizzato da un vizio di forma-contenuto, ritenendo infondata l’eccezione di inammissibilità e/o improcedibilità del ricorso per cassazione, per recare una errata intestazione della parte contro cui è proposto, qualora esso sia stato notificato proprio al soggetto che era stato parte in causa nel giudizio conclusosi con la sentenza impugnata e che, resistendo nel grado di giudizio dì legittimità, dopo avere proposto l’eccezione per il motivo sopra esposto, si sia difeso nel merito. Ogni nullità o irregolarità dell’atto di impugnazione rimane così sanata ai sensi dell’articolo 156 c.p.c., avendo l’atto medesimo raggiunto lo scopo cui era destinato e non potendovi essere incertezza circa il destinatario.

Nel senso dell’insanabilità dell’inammissibilità del ricorso per cassazione per vizio relativo alla procura, si è, invece, espressa Sez. 3, n. 01255/2018, Frasca, Rv. 647579-01, che ha chiarito che è inammissibile il ricorso per cassazione allorquando la procura, apposta su foglio separato e non materialmente congiunta al ricorso, sia conferita con scrittura privata autenticata nella sottoscrizione dal difensore in violazione dell’art. 83, comma 3, c.p.c., dal momento che la norma non prevede un conferimento autonomo rispetto agli atti processuali a cui il mandato si riferisce (salvo che per la memoria di costituzione di nuovo difensore in sostituzione del precedente); nemmeno è possibile una sanatoria dell’atto mediante rinnovazione ai sensi dell’art. 182 c.p.c., poiché l’art. 365 c.p.c. prescrive l’esistenza di una valida procura speciale come requisito di ammissibilità del ricorso. (Sulla medesima linea rigoristica, si vedano Sez. 3, n. 22256/2018, Fiecconi, Rv. 650592-01 e Sez. 2, n. 12413/2017, Picaroni, Rv. 644082-01, le quali hanno ribadito il principio di diritto enunciato da Sez. U, n. 2907/2014, Petitti, Rv. 629583-01).

  • giurisdizione civile

CAPITOLO I

LA GIURISDIZIONE IN GENERALE

(di Angelo Napolitano )

Sommario

1 Premessa. - 2 Regolamento preventivo di giurisdizione. - 3 Eccezione di difetto di giurisdizione e rilievo d’ufficio della questione di giurisdizione. - 4 La cd. translatio iudicii.

1. Premessa.

La giurisdizione costituisce la misura della potestas iudicandi attribuita al giudice dall’ordinamento giuridico con riferimento alla cognizione di una controversia.

La questione di giurisdizione è strettamente connessa alla domanda di tutela di una situazione giuridica soggettiva attraverso un giudizio, sicché il momento determinante della giurisdizione coincide con quello della proposizione della domanda (art. 5 c.p.c.).

Si può affermare, pertanto, sul piano teorico, che, data una controversia, ciascun giudice dell’ordinamento è, in astratto, munito del potere di deciderla, tant’è vero che se la decisione emessa nonostante il difetto di giurisdizione passasse in giudicato, essa farebbe “stato” ai sensi dell’art. 2909 c.c.

Tuttavia, il giudice adito rispetto ad una controversia deve interrogarsi se essa possa essere decisa nel merito o se il potere di deciderla sia stato attribuito, in concreto, dall’ordinamento, al giudice di un diverso plesso giurisdizionale.

La disposizione che attribuisce al giudice ordinario il potere di definire in rito il giudizio nel caso in cui egli ritenga di non essere munito del potere di pronunciare una decisione di merito è l’art. 37 c.p.c.

La questione della sussistenza o meno in capo al giudice di un determinato plesso giurisdizionale del potere di definire nel merito la controversia portata alla sua cognizione può essere preventivamente sollevata dinanzi alle Sezioni Unite della S.C. da una delle parti in contesa, compreso colui che abbia scelto di instaurare la causa dinanzi a quel giudice.

Peraltro, nell’ipotesi in cui l’attore abbia incardinato la causa dinanzi ad un giudice e sia rimasto soccombente nel merito, egli non è legittimato ad interporre appello contro la sentenza per denunciare il difetto di giurisdizione del giudice da lui prescelto, in quanto non soccombente su tale autonomo capo della decisione. (Sez. U, n. 22439/2018, Giusti, Rv. 650463-01).

Ed è proprio con il principio della ragionevole durata del processo, di cui all’art. 111, comma 2, Cost., che il rilievo della questione di giurisdizione potrebbe entrare in conflitto, considerata l’apparente assenza di preclusioni nel testo dell’art. 37 c.p.c.

Con riferimento al momento entro il quale è possibile rilevare il difetto di giurisdizione del giudice adìto, l’art. 37 c.p.c. dispone che il difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti della pubblica amministrazione o dei giudici speciali è rilevato anche d’ufficio in qualunque stato e grado del processo.

L’art. 37 c.p.c. indica tre diverse ipotesi nelle quali può venire in rilievo il difetto di giurisdizione del giudice ordinario: A) Il difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti della pubblica amministrazione; B) Il difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti dei giudici speciali; C) Il difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti del giudice straniero (secondo l’art. 11 della l. n. 218 del 1995).

Il difetto di giurisdizione nei confronti della pubblica amministrazione ha, ormai, una scarsissima incidenza statistica.

Esso identifica l’improponibilità assoluta della domanda, in quanto si riferisce alla deduzione in giudizio di una questione sfornita del tutto di tutela giurisdizionale, in quanto il soggetto che agisce fa valere in giudizio un mero interesse di fatto, che non assume la sostanza né di diritto soggettivo, né di interesse legittimo.

A proposito del difetto di giurisdizione nei confronti della pubblica amministrazione, si è detto che esso solo formalmente appartiene al novero delle pronunce meramente processuali, ma sostanzialmente rappresenta un’ipotesi di rigetto nel merito della domanda per insussistenza della situazione giuridica di cui si è chiesta la tutela.

Le altre due ipotesi di difetto di giurisdizione, quella nei confronti dei giudici che non appartengono all’ordine giudiziario e quella nei confronti dei giudici stranieri, invece, sono molto rilevanti dal punto di vista della prassi giudiziaria.

Rispetto alla seconda questione assumono sempre più rilievo le prescrizioni in tema di cd. giurisdizione-competenza che sono state dettate nei Regolamenti UE intervenuti in varie materie e che prevalgono, tra gli Stati membri, sulle disposizioni di diritto internazionale privato (ossia sui criteri dettati nel nostro sistema processuale dalla l. n. 218 del 1995).

2. Regolamento preventivo di giurisdizione.

L’ordinamento processuale offre alle parti anche uno strumento per poter sollevare, prima ancora di qualsiasi decisione, la questione dell’esistenza della potestas iudicandi in capo al giudice adito: il regolamento preventivo di giurisdizione.

Si tratta di un rimedio preventivo attraverso il quale si sottopone alla Corte di Cassazione l’esame della questione di giurisdizione, allo scopo di evitare che si proceda in un giudizio relativo ad una controversia o ad un “affare” con riferimento al quale il giudice adìto sia privo di giurisdizione.

Il regolamento preventivo di giurisdizione, e l’esigenza, sottesa a tale strumento processuale, che il dubbio sull’esistenza della potestas iudicandi in capo al giudice adìto sia sciolto in limine litis, e comunque prima che quest’ultimo si pronunci sul merito della domanda o definisca il giudizio in rito, si correla all’art. 65 dell’ordinamento giudiziario (r.d. n. 12 del 1941), a norma del quale la Corte di cassazione, quale organo supremo della giustizia, assicura il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni.

In quanto evidenziato trova fondamento il consolidato principio, da ultimo ribadito da Sez. U, n. 32727/2018, Lombardo, Rv. 652096-01, per il quale il regolamento preventivo di giurisdizione può essere proposto anche dall’attore, sussistendo, in presenza di ragionevoli dubbi sui limiti esterni della giurisdizione del giudice adìto, un interesse concreto ed immediato alla risoluzione della questione da parte delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, in via definitiva, per evitare che la sua risoluzione possa incorrere in successive modifiche nel corso del giudizio, ritardando la definizione della causa, anche al fine di ottenere un giusto processo di durata ragionevole.

Uno dei problemi più significativi posti dall’art. 41, comma 1, c.p.c. è l’individuazione del momento sino al quale può essere proposto alla S.C. il regolamento preventivo di giurisdizione, individuato in quello anteriore alla decisione della causa nel merito in primo grado.

Occorre ricordare, sul punto, che, secondo l’impostazione tradizionale, sia la sentenza di merito, non definitiva, sia la pronuncia di una sentenza definitiva di rito precludevano la proponibilità del regolamento preventivo.

Ne derivava, ad esempio, che non si riteneva preclusiva rispetto alla proponibilità del regolamento preventivo di giurisdizione la sentenza che si fosse limitata ad affermare la giurisdizione in capo al giudice adìto.

La pronuncia della S.C. resa in sede di regolamento preventivo di giurisdizione ha efficacia cd. panprocessuale, ossia ha valenza per tutti i processi.

Quindi, anche se il processo “a quo” si estingue e si instaura un nuovo processo tra le stesse parti, l’efficacia della pronuncia delle Sezioni Unite resta vincolante.

Questa regola è stata “codificata” dall’art. 59, comma 1, della l. n. 69 del 2009, a norma del quale la pronuncia sulla giurisdizione, resa dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione, è vincolante per ogni giudice ordinario o speciale e per le parti anche in un altro processo.

L’istanza di regolamento preventivo si propone con ricorso a norma degli artt. 364 e ss. c.p.c., e produce gli effetti di cui all’art. 367 c.p.c.

Sez. U, n. 22433/2018, Genovese, Rv. 650459-01, ha chiarito che il regolamento preventivo di giurisdizione è ammissibile anche in pendenza del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, poiché l’adozione del provvedimento monitorio non costituisce decisione nel merito ai sensi dell’art. 41 c.p.c.

Con riferimento all’attivabilità dello strumento processuale previsto dall’art. 41 c.p.c. nel caso in cui la lite pendente sia soggetta alla giurisdizione del giudice straniero, la Suprema Corte, in relazione alla richiesta di una parte processuale con sede in Italia di stabilire la giurisdizione in presenza di un patto contrattuale teso a devolvere ad un arbitrato straniero la lite promossa in via monitoria nei suoi confronti davanti al giudice italiano, ha chiarito che nel sistema di diritto internazionale privato disciplinato dalla l. n. 218 del 1995 l’istanza di regolamento preventivo di giurisdizione proposta dal convenuto residente o domiciliato in Italia è sempre ammissibile, purché l’istante dimostri l’esistenza di uno specifico interesse a ricorrere a questo specifico strumento al fine di escludere la giurisdizione nazionale davanti alla quale sia stato convenuto. In tal caso, qualora, in pendenza del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, in seguito all’esperimento del regolamento preventivo di giurisdizione, sia stato dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice nazionale, si determina una improseguibilità del giudizio di merito, in quanto il giudice italiano, pur avendo avuto il potere di adottare il provvedimento poi opposto, non ha più quello di decidere la relativa controversia, se non limitandosi a dichiarare la nullità del ridetto decreto monitorio (Sez. U, n. 22433/2018, Genovese, Rv. 650459-02, Rv. 650459-03).

Con riferimento alla giurisdizione del giudice italiano, Sez. U, n. 29879/2018, Giusti, Rv. 651441-01, ha affermato che il regolamento preventivo di giurisdizione di cui all’art. 41 c.p.c., per sollevare una questione concernente il difetto di giurisdizione del giudice italiano, è ammissibile non solo allorché il convenuto nella causa di merito sia domiciliato o residente all’stero, ma anche quando lo stesso, pur domiciliato o residente in Italia, contesti la giurisdizione italiana in forza di una deroga convenzionale a favore di un giudice straniero o di un arbitrato estero.

Sul profilo processuale, poi, Sez. 6-3, n. 20045/2018, De Stefano, Rv. 650292-01, ha chiarito che il ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione non si sottrae alle regole generali del giudizio di legittimità, e pertanto deve essere sottoscritto, a pena di inammissibilità, da un avvocato munito di valida procura speciale.

Come si diceva poc’anzi, il codice di procedura civile, con l’art. 41, ha inteso forgiare uno strumento per la risoluzione preventiva della questione di giurisdizione. Coerentemente, dunque, Sez. U, n. 14435/2018, De Stefano, Rv. 648947-01, ha dichiarato inammissibile il ricorso per cassazione proposto contro una sentenza del TAR declinatoria della giurisdizione, in quanto essa è impugnabile soltanto con l’appello dinanzi al Consiglio di Stato, ai sensi degli artt. 9, 100 e 105 del d.lgs. n. 104 del 2010, non potendo essere convertito, il detto ricorso, né in regolamento preventivo di giurisdizione, né in denuncia di conflitto reale di giurisdizione, in mancanza, per quest’ultima ipotesi, di una previa declinatoria di giurisdizione anche di un altro giudice.

A norma dell’art. 367, comma 1, c.p.c., dopo che una copia del ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione, notificata alle altre parti, è depositata nella cancelleria del giudice davanti al quale pende la causa, quest’ultimo può sospendere il processo se non ritiene l’istanza manifestamente inammissibile o la contestazione della giurisdizione manifestamente infondata.

Prima della novella recata con l. n. 353 del 1990, il cui art. 61 ha riformulato il comma 1 della disposizione citata, la sospensione del giudizio di merito costituiva una conseguenza automatica della proposizione dell’istanza di regolamento, mentre, per evitare i correlati abusi processuali (che, nella vigenza della pregressa previsione normativa erano “sanzionati” dalla giurisprudenza di legittimità attraverso condanne per responsabilità processuale aggravata), lo stesso art. 367 c.p.c. demanda oggi al giudice dinanzi al quale si svolge la causa in primo grado di decidere se sospendere o meno il procedimento in corso per la proposizione del ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione, sulla scorta di una valutazione di non manifesta infondatezza dello stesso.

Sez. U, n. 04218/1996, Finocchiaro, Rv. 497431-01, proprio argomentando dalla formulazione dell’art. 367 c.p.c. in seguito alla l. n. 353 del 1990, e dalla impossibilità di configurare una sospensione automatica dei termini di impugnazione della sentenza emessa dal giudice a quo per effetto della proposizione del regolamento preventivo di giurisdizione, ha concluso per la non proponibilità del regolamento preventivo di giurisdizione dopo che il giudice abbia emesso una qualsiasi decisione nel corso del processo di merito.

Ora, dunque, in seguito all’art. 61 della l. n. 353 del 1990, che ha riformulato il primo comma dell’art. 367 c.p.c., potrebbe accadere che, proposta istanza di regolamento preventivo di giurisdizione, la definizione del giudizio di merito preceda la decisione della Suprema Corte.

Sul punto, Sez. U, n. 11576/2018, Campanile, Rv. 648273-01, ha precisato che l’emissione della sentenza ad opera del giudice di merito non determina la carenza d’interesse alla decisione della Corte di cassazione sul regolamento preventivo di giurisdizione proposto anteriormente ad essa, dovendosi considerare la decisione del giudice di merito come pur sempre condizionata al riconoscimento della giurisdizione all’esito della definizione del regolamento.

La Suprema Corte ha avuto anche modo di pronunciarsi sui limiti soggettivi di efficacia delle sue decisioni rese in sede di regolamento preventivo di giurisdizione.

In particolare, Sez. U, n. 06929/2018, De Stefano, Rv. 647661-01, ha chiarito che il giudicato sulla giurisdizione, formatosi all’esito di una istanza di regolamento proposta nell’ambito di un giudizio su cause inscindibili (perché le domande sono avvinte da un legame di connessione teleologica o dall’identità della causa petendi), è irretrattabile per tutte le parti del processo nel cui ambito detto giudicato si è formato, le quali sono litisconsorti necessari nel procedimento ex art. 41 c.p.c., ma non vincola anche coloro che sono intervenuti nel medesimo giudizio dopo la formazione del giudicato, che, pertanto, a differenza dei primi, possono ancora sollevare la questione di giurisdizione, anche facendo valere il successivo mutamento di giurisprudenza sulla materia (nel caso di specie, la Corte era stata chiamata a regolare la giurisdizione della Corte dei Conti in un giudizio di responsabilità per danni cagionati nella gestione di una società a partecipazione pubblica non in house providing).

Con riferimento all’istanza di regolamento preventivo proposta nell’ambito del giudizio amministrativo, Sez. U, n. 04899/2018, Frasca, Rv. 647563-01, ha stabilito che essa può essere formulata con ricorso notificato prima dell’udienza di discussione, essendo tale udienza indefettibile nell’ambito del procedimento decisorio delineato dall’art. 73 del d.lgs. n. 104 del 2010.

Constando il procedimento per cassazione della notifica del ricorso e, successivamente, del suo deposito, si è posto il problema di quando possa ritenersi proposta l’istanza di regolamento preventivo di giurisdizione ai fini della sua ammissibilità.

Sul punto, si segnala Sez. U, n. 04997/2018, Lombardo, Rv. 647166-01, che ha deciso che, ai fini della verifica della proposizione del regolamento preventivo di giurisdizione nella pendenza del giudizio di primo grado, e della sua conseguente ammissibilità, assume rilievo la data della notifica e non del deposito del ricorso ad esso finalizzato.

Dal momento che, anche sotto la spinta del diritto comunitario, le funzioni pubbliche non sono più sempre esercitate da soggetti formalmente pubblici, si è stabilito che il regolamento preventivo di giurisdizione è ammissibile anche in un giudizio che si svolga fra privati, in quanto la mera qualità soggettiva delle parti non è più un criterio discriminante assoluto per stabilire l’ammissibilità del detto strumento. Al contrario, per verificare l’ammissibilità del regolamento preventivo di giurisdizione, occorre esaminare se il petitum e la causa petendi, così come prospettati in giudizio, possano, effettivamente ed in concreto, porre il dubbio sulla giurisdizione.

Con riferimento al termine ultimo per la proposizione del regolamento preventivo di giurisdizione, Sez. U, n. 02144/2018, Giusti, Rv. 647037-01, ha chiarito che la preclusione prevista dall’art. 41, comma 1, c.p.c., di regola si verifica non dal momento della pubblicazione del provvedimento decisorio di merito di primo grado, ma da quello, precedente, in cui la causa viene trattenuta in decisione. Tuttavia, qualora il giudice, dopo aver trattenuto la causa in decisione assegnando i termini per le scritture conclusionali, sospenda il processo ai sensi dell’art. 367 c.p.c., tale termine finale non opera, posto che, in questo caso, per effetto del provvedimento di sospensione, la pronuncia sul regolamento recupera la funzione di consentire una sollecita definizione della questione di giurisdizione, nonostante che l’istanza di regolamento sia stata proposta dopo la rimessione della causa in decisione.

Si tratta di un’applicazione del principio della ragionevole durata del processo, che “consiglia” (o, per meglio dire, “impone”) alla Suprema Corte di eliminare il dubbio sollevato sulla giurisdizione, che comunque potrebbe essere riprospettato in appello, ed eventualmente in Cassazione tramite gli ordinari mezzi di impugnazione, una volta che il processo sospeso riprendesse in seguito ad un eventuale pronuncia di inammissibilità dello strumento preventivo e giungesse fino a sentenza definitiva di merito.

3. Eccezione di difetto di giurisdizione e rilievo d’ufficio della questione di giurisdizione.

Uno dei problemi più dibattuti in tema di giurisdizione è quello della portata della previsione, contenuta nell’art. 37 c.p.c., secondo cui il difetto di tale presupposto processuale è rilevabile in ogni stato e grado del processo.

La giurisprudenza tradizionale della Corte si era attestata sul seguente criterio: se il giudice decide sul merito nulla dicendo circa la giurisdizione, l’impugnazione solo sul merito devolve al giudice superiore il potere di rilevare d’ufficio la questione di giurisdizione, fermo restando il potere della parte soccombente di eccepirne il difetto.

Ne deriva, innanzitutto, che la decisione sulla giurisdizione sottrae la questione al rilievo di ufficio, attivando il meccanismo di cui all’art. 329, comma 2, c.p.c.: la decisione con cui il giudice conferma la propria giurisdizione può essere contrastata soltanto con l’impugnazione del relativo capo di pronuncia.

In secondo luogo, se la decisione sul merito passa in giudicato, l’esistenza del potere giurisdizionale in capo al giudice che l’ha pronunciata non può più essere messa in discussione.

Con la sentenza a Sez. U, n. 24883/2008, Merone, Rv. 604576-01, la S.C. ha stabilito, invece, che l’interpretazione dell’art. 37 c.p.c., secondo cui il difetto di giurisdizione “è rilevato, anche d’ufficio, in qualunque stato e grado del processo”, deve tenere conto dei principi di economia processuale e di ragionevole durata del processo (“asse portante della nuova lettura della norma”), della progressiva forte assimilazione delle questioni di giurisdizione a quelle di competenza e dell’affievolirsi dell’idea di giurisdizione intesa come espressione della sovranità statale, essendo essa un servizio reso alla collettività con effettività e tempestività, per la realizzazione del diritto della parte ad avere una valida decisione nel merito in tempi ragionevoli. All’esito della nuova interpretazione della predetta disposizione, volta a delinearne l’ambito applicativo in senso restrittivo e residuale, ne consegue che: 1) il difetto di giurisdizione può essere eccepito dalle parti anche dopo la scadenza del termine previsto dall’art. 38 c.p.c. (coincidente con la prima udienza di trattazione), fino a quando la causa non sia stata decisa nel merito in primo grado; 2) la sentenza di primo grado di merito può sempre essere impugnata per difetto di giurisdizione; 3) le sentenze di appello sono impugnabili per difetto di giurisdizione soltanto se sul punto non si sia formato il giudicato esplicito o implicito, operando la relativa preclusione anche per il giudice di legittimità; 4) il giudice può rilevare anche d’ufficio il difetto di giurisdizione fino a quando sul punto non si sia formato il giudicato esplicito o implicito. In particolare, il giudicato implicito sulla giurisdizione può formarsi tutte le volte che la causa sia stata decisa nel merito, con esclusione per le sole decisioni che non contengano statuizioni che implicano l’affermazione della giurisdizione, come nel caso in cui l’unico tema dibattuto sia stato quello relativo all’ammissibilità della domanda o quando dalla motivazione della sentenza risulti che l’evidenza di una soluzione abbia assorbito ogni altra valutazione (ad esempio, per manifesta infondatezza della pretesa) ed abbia indotto il giudice a decidere il merito per saltum, non rispettando la progressione logica stabilita dal legislatore per la trattazione delle questioni di rito rispetto a quelle di merito.

Una particolare declinazione degli esposti princìpi è compiuta, nell’anno in rassegna, da Sez. U, n. 04997/2018, Lombardo, Rv. 647166-02, secondo cui “le sentenze di merito che statuiscono sulla giurisdizione sono suscettibili di acquistare autorità di giudicato esterno, sì da spiegare i propri effetti anche al di fuori del processo nel quale siano state rese, solo in quanto in esse la pronuncia sulla giurisdizione, sia pure implicita, si coniughi con una di merito, fermo restando che tale efficacia presuppone il passaggio in giudicato formale delle sentenze stesse ed è limitata a qui processi che abbiano per oggetto cause identiche, non solo soggettivamente ma anche oggettivamente, a quelle in cui si è formato il giudicato esterno”. Nella specie, la S.C. ha escluso che la sentenza del TAR, con la quale era stato dichiarato inammissibile, per difetto di interesse, il ricorso proposto dal privato avverso un provvedimento comunale, avesse determinato un giudicato esterno esplicito sulla giurisdizione.

Ed ancora, sul rapporto logico di presupposizione dell’esistenza del potere giurisdizionale in una pronuncia di rito, appare paradigmatica Sez. U, n. 04361/2018, Scarano, Rv. 647315-01, per la quale la decisione sulla competenza presuppone l’affermazione, quantomeno implicita, da parte del giudice investito della causa, della propria giurisdizione, sicché, attribuita la competenza, in sede di regolamento, ad un giudice, quest’ultimo non può successivamente negare la sua giurisdizione.

La tendenza che si evince dalla riferita evoluzione della giurisprudenza di legittimità sull’interpretazione dell’art. 37 c.p.c. è la dichiarata volontà di dare dello stesso una lettura che favorisca, al di fuori di una esplicita doglianza di parte in sede di impugnazione, la stabilizzazione della sentenza di merito nell’ottica di un processo che abbia anche una ragionevole durata, e che dunque non rischi, dopo il primo grado, di essere “azzerato” pur in mancanza del rilievo del difetto di giurisdizione da parte del primo giudice o di una impugnazione della parte in punto di giurisdizione.

Secondo le citate Sezioni Unite n. 24883/2008, l’art. 37, comma 1, c.p.c., nell’interpretazione tradizionale, basata sulla lettera della legge, non realizza, invero, un corretto bilanciamento dei valori costituzionali in gioco e determina una ingiustificata violazione del principio della ragionevole durata del processo e dell’effettività della tutela (artt. 24 e 111 Cost.).

4. La cd. translatio iudicii.

Per lungo tempo la pronuncia declinatoria di giurisdizione era uno spettro per chi chiedeva giustizia, in quanto nell’ambito dei giudizi impugnatori essa poteva vanificare l’accesso alla tutela giurisdizionale, in quanto non era prevista alcuna trasmigrazione della causa dall’uno all’altro plesso giurisdizionale.

In seguito a Sez. U, n. 04109/2007, Trifone, Rv. 595428-01, e a Corte Cost. n. 77 del 2007, non solo è stata introdotta la translatio iudicii tra giudici di diversi plessi giurisdizionali, ma, in virtù del corollario in base al quale la trasmigrazione del giudizio comporta la sua continuazione dinanzi al “nuovo” giudice, si è stabilito che l’originaria domanda proposta al giudice carente di giurisdizione spiegasse effetti conservativi sostanziali e processuali, se la riassunzione davanti al giudice indicato come munito di giurisdizione fosse tempestiva.

La lacuna normativa, denunciata sia dalla Suprema Corte che dalla Corte Costituzionale, è stata finalmente colmata dal legislatore con l’art. 59 della l. n. 69 del 2009, che ha sancito l’operatività del principio della cd. translatio iudicii anche in materia di giurisdizione, limitatamente, peraltro, all’ipotesi di difetto cd. relativo di giurisdizione del giudice inizialmente adito.

Pertanto, quando il giudice ordinario dichiara il difetto di giurisdizione nei confronti della pubblica amministrazione, non opera il meccanismo della translatio, né quando il difetto è dichiarato nei confronti di un giudice straniero, trattandosi, nel primo caso, di un apparato burocratico estraneo all’amministrazione della giustizia; nel secondo caso, di un giudice estraneo all’ordinamento giuridico statale, nei confronti del quale nessuna norma sovranazionale prevede la trasmigrazione di cause instaurate dinanzi a giudici italiani.

L’art. 59 della l. n. 69 del 2009 fa salva la regola generale della vincolatività dell’indicazione del giudice munito di giurisdizione per la sola ipotesi nella quale la stessa provenga dalla Corte di cassazione.

Nell’ipotesi, invece, di cd. translatio orizzontale, ossia quando un giudice di merito declini la propria giurisdizione, l’autorità giudiziaria indicata quale munita di giurisdizione ha la possibilità di richiedere una statuizione definitiva sulla questione alla S.C. proponendo il regolamento di giurisdizione cd. d’ufficio.

Con riferimento alle modalità di proposizione del regolamento di giurisdizione d’ufficio, Sez. U, n. 11143/2017, De Stefano, Rv. 644051-01, ha stabilito che, nel caso di translatio iudicii verso il Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche, alla quale la causa sia stata rimessa dopo la declinatoria di difetto di giurisdizione da parte di un altro giudice, la questione di giurisdizione non può essere ulteriormente sottoposta d’ufficio alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, ai sensi dell’art. 59, comma 3, della l. n. 69 del 2009, se non viene sollevata dal giudice delegato all’istruzione alla prima udienza tenuta davanti a lui, ferma la competenza del collegio, cui la questione sia stata rimessa dal detto giudice, siccome privo di poteri decisori ma non del potere di rilevare d’ufficio questioni, a provvedere sul punto all’esito dell’udienza di discussione.

Più recentemente, Sez. U, n. 05303/2018, Giusti, Rv. 647320-01, ha ritenuto che il regolamento di giurisdizione d’ufficio chiesto dal giudice ad quem abbia, come indefettibile presupposto, la tempestiva riassunzione della causa, potendo d’altronde essere posta a base dell’istanza, da parte del giudice ad quem, non solo la carenza di giurisdizione di quest’ultimo riguardo al giudice a quo, ma anche rispetto ad un diverso giudice speciale indicato alternativamente come munito di giurisdizione sulla controversia.

Nella fattispecie, la controversia aveva ad oggetto il compenso per un incarico di collaborazione affidato da una commissione parlamentare ad un professionista esterno, e la S.C., equiparando la posizione del professionista a quella di un funzionario onorario e qualificando la sua situazione giuridica come interesse legittimo, ha dichiarato la giurisdizione del giudice amministrativo, escludendo quella degli organi parlamentari di autodichia in quanto, sulla base del principio della perpetuatio iurisdictionis, di cui all’art. 5 c.p.c., la controversia era stata instaurata prima dell’entrata in vigore della delibera del Consiglio di Presidenza del Senato n. 180 del 2005, che aveva esteso la giurisdizione “domestica” agli atti e ai provvedimenti amministrativi non concernenti i dipendenti o le procedure di reclutamento del personale.

In tema di limiti della translatio iudicii in seguito ad una pronuncia declinatoria della giurisdizione, Sez. U, n. 19045/2018, Giusti, Rv. 649753-01, ha chiarito che il conflitto può essere sollevato dal giudice successivamente adìto se, oltre a ricorrere gli altri requisiti (la tempestività della riproposizione della domanda; il non superamento del termine preclusivo della prima udienza; la mancanza di pronuncia delle Sezioni Unite nel processo, sulla questione di giurisdizione), la causa dinanzi a lui promossa costituisca riproposizione di quella per la quale il giudice preventivamente adìto aveva dichiarato il proprio difetto di giurisdizione. Ove, invece, si sia di fronte alla proposizione di una nuova ed autonoma domanda, di contenuto diverso da quella azionata nel precedente giudizio, il giudice adìto successivamente non può investire direttamente le Sezioni Unite della Corte ai fini della risoluzione della questione di giurisdizione, ma è tenuto, se del caso, a pronunciarsi sulla stessa ai sensi dell’art. 37 c.p.c.

  • giurisdizione amministrativa
  • giurisdizione civile
  • giurisdizione arbitrale

CAPITOLO II

IL RIPARTO DI GIURISDIZIONE TRA GIUDICE ORDINARIO E GIUDICE AMMINISTRATIVO

(di Stefania Billi )

Sommario

1 Premessa. - 2 Attività negoziale della P.A. - 3 Indennità, canoni, altri corrispettivi e procedure di rimborso. - 4 Sovvenzioni e finanziamenti. - 5 Appalti. - 6 Rapporti concessori e procedure ad evidenza pubblica. - 7 Concessioni di beni. - 8 Domande nei confronti della P.A. di accertamento della titolarità o per la tutela possessoria su beni immobili. - 9 Domande risarcitorie. - 10 Enti pubblici economici. - 11 Lodo arbitrale.

1. Premessa.

Le pronunce della S.C. in materia hanno fornito linee di demarcazione ancora più chiare tra le due giurisdizioni, in particolar modo nelle ipotesi di intreccio o sovrapposizione di diritti soggettivi ed interessi legittimi.

Le decisioni più numerose, infatti, sono intervenute in tema di attività negoziale della P.A. in materia di concessioni e sulle domande risarcitorie.

2. Attività negoziale della P.A.

Per le controversie inerenti alla formazione della volontà e alla scelta del contraente privato in base alle regole della cd. evidenza pubblica Sez. U, n. 02144/2018, Giusti, Rv. 647037-02, ha fatto applicazione del criterio generale di ripartizione che attribuisce al giudice amministrativo la cognizione degli atti che attengono alla fase preliminare, antecedente e prodromica alla stipula del contratto, essendo devolute al giudice amministrativo tutte le controversie in cui l’attività della P.A. sia connotata da discrezionalità e rispetto alla quale il privato vanta una posizione di interesse legittimo. Restano affidate, viceversa, alla giurisdizione ordinaria le controversie che radicano le loro ragioni nella serie negoziale successiva, che va dalla stipulazione del contratto fino alle vicende del suo adempimento e riguardano la disciplina dei rapporti scaturenti dal contratto. La pronuncia è di rilievo, in quanto, pur ponendosi sul solco tracciato da Sez. U, n. 14188/2015, Mazzacane, Rv. 635892-01, ha precisato che tale criterio di riparto resta invariato anche se, nel corso del rapporto contrattuale, la parte pubblica abbia assunto proprie determinazioni in attuazione di sopravvenienze normative.

Sulla stessa linea Sez. U, n. 13701/2018, Berrino, Rv. 648787-01, ha deciso sulla competenza a conoscere la domanda di accertamento circa l’interpretazione di alcune clausole di un contratto di compravendita stipulato tra una società commerciale e un comune. La pronuncia, resa con particolare riferimento ad accordi integrativi del contenuto di provvedimenti amministrativi di natura concessoria, ha ritenuto questi espressione di un potere discrezionale della P.A., sia pure dopo le modifiche apportate dall’art. 7 della l. 11 febbraio 2015, n. 15 all’art. 11 della l. 7 agosto 1990, n. 241 e, dunque, riconosciuto la giurisdizione del giudice amministrativo.

Utilizzando il diverso criterio della natura della situazione giuridica dedotta in giudizio Sez. U, n. 22428/2018, Bisogni, Rv. 650457-01, ha ritenuto appartenente alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo la cognizione sulle controversie attinenti all’attività di gestione dei rifiuti, prevista dall’art. 4 del d.l. 23 marzo 2008, n. 90, conv., con modif. in l. 14 luglio 2008, n. 123, anche se posta in essere con comportamenti della P.A. o dei soggetti alla stessa equiparati. Ciò si fonda presupposto che gli atti di gestione siano espressione dell’esercizio di un potere autoritativo della P.A. o di soggetti ad essa equiparati. Quando, viceversa, in giudizio sia dedotto un rapporto obbligatorio avente la propria fonte in una pattuizione di tipo negoziale intesa a regolamentare gli aspetti meramente patrimoniali della gestione, la controversia è del giudice ordinario.

Con specifico riguardo alla compravendita di bene sottoposto a vincolo archeologico, Sez. U, n. 05097/2018, D’Ascola, Rv. 647319-01, poi, ha affermato che l’eventuale inefficacia del vincolo, per inosservanza delle norme in tema di trascrizione e notificazione del relativo atto impositivo, integra un’ipotesi di carenza di potere in concreto, in quanto attinente non all’an, bensì al quomodo della potestà pubblica. Resta, pertanto, devoluta alla giurisdizione del giudice amministrativo la posizione fatta valere dall’acquirente, che abbia subito l’esercizio del diritto di prelazione, sul presupposto di una tale inefficacia, in quanto esplicativa di un interesse legittimo oppositivo e non di diritto soggettivo.

In tema di contratto di cessione a titolo gratuito di aree di privati al comune, Sez. U, n. 05790/2018, Cirillo F.M., Rv. 647565-01, ha precisato, viceversa, che spetta alla giurisdizione del giudice ordinario la domanda diretta ad accertare l’esistenza di un comportamento omissivo della P.A e volta al mero accertamento della mancata verificazione di una condizione sospensiva, cui le parti avevano rimesso il perfezionamento dell’atto negoziale. La giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, in materia di urbanistica ed edilizia, sussiste, infatti, quando si faccia in concreto questione delle modalità di esercizio del potere pubblico spettante all’amministrazione stessa. Non è sufficiente, in altri termini, che il comportamento della P.A. sia semplicemente occasionato dall’esercizio del potere, ma occorre che si traduca, in virtù della norma attributiva, in una sua manifestazione e che, dunque, risulti necessario in relazione all’oggetto del potere e al raggiungimento del risultato da perseguire.

Le controversie relative alla validità e all’efficacia della cessione di un ramo d’azienda tra l’aggiudicatario di un appalto pubblico ed un soggetto terzo durante la fase di esecuzione dello stesso, secondo Sez. U, n. 20347/2018, Berrino, Rv. 649945-01, rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario. La pronuncia ha, infatti, chiarito che l’atto con il quale la P.A. dà il suo nulla-osta al subentro del cessionario nell’esecuzione dell’appalto non ha natura autoritativa, ma è deputato a verificare, su basi di parità, che la vicenda soggettiva del rapporto integri uno dei casi in presenza dei quali, ai sensi dell’art. 116 del d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163, la controparte privata ha il diritto di subentrare nella titolarità del contratto.

3. Indennità, canoni, altri corrispettivi e procedure di rimborso.

La S.C. ha in materia di canoni concessori ulteriormente applicato le regole generali per i criteri di riparto tra la giurisdizione ordinaria e quella amministrativa. In particolare, per le concessioni amministrative di beni pubblici, Sez. U, n. 21597/2018, Cristiano, Rv. 650449-01, ha chiarito che l’art. 133, comma 1, lett. b), del d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104, come il previgente art. 5 della l. 6 dicembre 1971, n. 1034, mod. dall’art. 7 della l. 21 luglio 2000, n. 205, nell’attribuire la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo fa espressamente salve le controversie aventi ad oggetto «indennità, canoni od altri corrispettivi”. Ricadono, dunque, in quella ordinaria ogni qualvolta abbiano ad oggetto diritti soggettivi a contenuto patrimoniale, nascenti dal rapporto concessorio, mentre, in quella del giudice amministrativo, qualora coinvolgano l’esercizio di poteri discrezionali inerenti alla determinazione dei canoni, delle indennità o degli altri corrispettivi. Da tale affermazione consegue che le controversie sull’an e sul quantum del canone pattuito convenzionalmente come corrispettivo della concessione d’uso di una struttura comunale, nonché di eventuali controcrediti della concessionaria pure previsti convenzionalmente, appartengono alla giurisdizione ordinaria, avendo ad oggetto diritti soggettivi a contenuto patrimoniale. La pronuncia si allinea al consolidato indirizzo espresso da Sez. U, n. 13940/2014, D’Ascola, Rv. 631198-01, Sez. U, n. 20939/2011, Rordorf, Rv. 618995-01, Sez. U, n. 13903/2011, Spirito, Rv. 617757-01, Sez. U, n. 24902/2011, D’Alonzo, Rv. 620168-01, quest’ultima resa sotto la disciplina anteriormente vigente e sopra richiamata.

Sulla traccia del suesposto principio, Sez. 1, n. 16069/2018, Acierno, Rv. 649283-01, ha confermato che la controversia relativa all’accertamento dell’illegittima determinazione unilaterale dell’aumento dei canoni riguardanti l’accesso a due strade private disposta autoritativamente dall’A.N.A.S. è attratta alla giurisdizione del giudice amministrativo, in quanto, in applicazione dei criteri generali sopra riportati, si verte in tema di esercizio di poteri discrezionali-valutativi nella determinazione del dovuto.

Ampiamente utilizzato, sotto altro profilo, ai fini del riparto della giurisdizione, è il criterio del cd. petitum sostanziale, che va identificato soprattutto in funzione della causa petendi, ossia dell’intrinseca natura della posizione dedotta in giudizio. In proposito, Sez. U, n. 21928/2018, Virgilio, Rv. 650603-01, ha ritenuto di contenuto patrimoniale e, dunque, spettante alla giurisdizione del giudice ordinario la controversia avente ad oggetto il pagamento di somme a titolo di canone concessorio, dovuto per licenze di accesso alla rete stradale, il cui importo era stato determinato sulla base di provvedimenti presupposti, in assenza di un potere di intervento della P.A. a tutela di interessi generali o di un esercizio di poteri discrezionali-valutativi.

Al medesimo criterio di riparto, fondato sulla natura della situazione giuridica dedotta in giudizio, ha fatto ricorso anche Sez. U, n. 26249/2018, Acierno, Rv. 650872-01, nelle controversie relative all’applicazione del prelievo supplementare nel settore del latte e dei prodotti lattiero-caseari, ancorché instaurate prima dell’entrata in vigore della l. 25 giugno 2005, n. 109, di conversione del d.l. 26 aprile 2005, n. 63, il cui art. 2-sexies attribuisce tali controversie alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.

In tale materia Sez. U, n. 31370/2018, Genovese, Rv. 651818-01, ha altresì precisato che, ove si tratti di opposizione a cartella esattoriale relativa al suddetto prelievo, la previsione contenuta nell’art. 133, comma 1, lett. t), del d.lgs. n. 104 del 2010, che devolve alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le relative controversie, deve essere interpretata alla luce del principio di concentrazione delle tutele. Occorre, in particolare, verificare se le domande, attraverso la proposizione di una sostanziale opposizione all’esecuzione, ex art. 615 c.p.c., comportino una contestazione del quantum accertato dall’Autorità amministrativa nell’esercizio delle sue potestà pubbliche; in tal caso, il giudice amministrativo, diventa il dominus dell’intera controversia, ove caratterizzata dall’intreccio di posizioni di interesse legittimo e diritti soggettivi.

Sulla base del criterio del petitum sostanziale Sez. U, n. 20350/2018, Di Virgilio, Rv. 650270-01, ha attribuito al giudice amministrativo la giurisdizione su una lite avente ad oggetto l’accertamento, in via riconvenzionale, del diritto di un comune al rimborso delle spese per la messa in sicurezza e bonifica ai sensi dell’art. 17 del d.lgs. 5 febbraio 1997, n. 22 applicabile ratione temporis.

Analogamente le controversie inerenti atti o provvedimenti relativi al riconoscimento, da parte di un comune, della titolarità del diritto di sepoltura privata esercitato da tempo immemorabile su aree o porzioni di edificio in un cimitero pubblico sono state ricondotte alla giurisdizione amministrativa, ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. b), del d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104 del 2010, in quanto rientranti nell’ambito della concessione amministrativa di beni soggetti al regime demaniale. In particolare, utilizzando anche in tal caso il criterio della natura della situazione giuridica fatta valere in giudizio, Sez. U, n. 21598/2018, Doronzo, Rv. 650279-01, ha ritenuto sussistente la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, in una controversia nella quale era stata prospettata l’illegittimità del provvedimento con cui il comune aveva individuato il titolare originario del rapporto concessorio risalente da tempo immemorabile.

Diversamente è devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario, secondo Sez. U, n. 22408/2018, Virgilio, Rv. 650455-01, la cognizione delle controversie aventi ad oggetto la consegna delle somme prelevate dal ricavato dei tagli straordinari dei boschi, depositate presso le Camere di Commercio e da queste tenute, ex art. 133 del r.d.l. 30 dicembre 1923, n. 3267, a disposizione dell’Amministrazione forestale. Quest’ultima, infatti, in base alla normativa citata, ha un diritto soggettivo perfetto alla consegna di dette somme da parte dell’ente che ne ha la veste di mero depositario, senza che risultino coinvolti provvedimenti autoritativi con profili di discrezionalità.

Con riguardo invece al recupero di importi da parte dello Stato, confermando l’orientamento espresso da Sez. U, n. 08076/2015, D’Ascola, Rv. 634939-01, Sez. U, n. 22426/2018, Scrima, Rv. 650456-01, ha affermato che l’opposizione ad ordinanza ingiunzione di pagamento per violazione della normativa urbanistica ed edilizia appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario, in virtù di quanto previsto dall’art. 22-bis, comma 2, lett. c), della l. 24 novembre 1981, n. 689 e anche sul presupposto che detta azione costituisce l’esercizio di una posizione giuridica avente consistenza di diritto soggettivo, ad opera di chi deduce di essere stato sottoposto a sanzione in casi e modi non stabiliti dalla legge.

Appartengono alla giurisdizione del giudice ordinario, inoltre, le controversie relative alla riscossione delle somme occorse per la cd. esecuzione in danno, attraverso l’ingiunzione fiscale ex art. 2 del r.d. 14 aprile 1910 n. 639, secondo Sez. U, n. 22756/2018, Bruschetta, Rv. 650464-01, in conformità a quanto già sostenuto da Sez. U, n.15611/2006, Amatucci, Rv. 590815-01. In tali ipotesi, infatti, non è posto in discussione il provvedimento amministrativo, in quanto si tratta solo di accertare il diritto della P.A. al rimborso delle spese sostenute, venendo in evidenza un’obbligazione di diritto privato che trova esclusivo presupposto nell’inerzia dell’obbligato all’esecuzione dell’ordinanza contingibile e urgente e nel conseguente esercizio del potere sostitutivo della P.A.

Con riferimento, infine, ai corrispettivi, ad avviso di Sez. U, n. 25938/2018, Giusti, Rv. 650871-01, rientra nella giurisdizione ordinaria la controversia instaurata dall’avvocato per recuperare il credito professionale vantato nei confronti del cliente per prestazioni rese innanzi al giudice tributario, trattandosi di contenzioso eterogeneo rispetto alla materia attribuita a quest’ultimo ex art. 2 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546.

Con riguardo al tema dei compensi, secondo Sez. U, n. 05303/2018, Giusti, Rv. 647320-01, appartiene alla giurisdizione del giudice amministrativo in applicazione della norma di cui all’art. 5 c.p.c. la controversia, avente ad oggetto il compenso per un incarico di collaborazione affidato da una commissione parlamentare, instaurata prima del 20 dicembre 2005, data di entrata in vigore della deliberazione del Consiglio di Presidenza del Senato n. 180/2005, in materia di estensione della giurisdizione degli organi di autodichia agli atti e provvedimenti amministrativi non concernenti i dipendenti o le procedure di reclutamento del personale. La pronuncia ha chiarito che, in tal caso, si tratta del trattamento economico spettante ad un funzionario onorario, che ha natura indennitaria e non retributiva ed è, dunque, affidato alle libere e discrezionali determinazioni dell’autorità che procede alla investitura, di fronte alle quali il funzionario ha un mero interesse legittimo.

Si è affermato, da parte di Sez. L, n. 21972/2018, Di Paolantonio, Rv. 650530-01, che spettano infine in via esclusiva ai suoi organi di autodichia e, quindi, esulano dalla cognizione del giudice ordinario, le controversie inerenti al rapporto di lavoro del personale della Camera dei deputati, in forza dell’art. 12 del Regolamento della Camera del 18 febbraio 1971, norma che si sottrae al sindacato di costituzionalità e non è suscettibile di disapplicazione da parte del giudice ordinario. Ne consegue che, in conformità a quanto già affermato da ultimo da Sez. U, n. 11019/2004, Foglia, Rv. 573520-01, nelle predette controversie è inammissibile il ricorso straordinario per cassazione avverso le decisioni emanate da tali organi, la cui sottrazione al controllo giurisdizionale è un riflesso dell’autonomia degli organi costituzionali in cui sono inseriti.

4. Sovvenzioni e finanziamenti.

In materia di contributi, sovvenzioni e finanziamenti pubblici la S.C. utilizza un criterio di riparto analogo a quello applicato nell’ambito dell’attività negoziale della P.A. (si veda, infra, § 2). In particolare, Sez. U, n. 08049/2018, Giusti, Rv. 647662-01, ha chiarito che il riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo deve essere attuato distinguendo la fase procedimentale di valutazione della domanda di concessione da quella successiva alla concessione del contributo. Nella prima, infatti, si attribuisce alla P.A. il potere di riconoscere il beneficio, previa valutazione comparativa degli interessi pubblici e privati in relazione all’interesse primario, apprezzando discrezionalmente l’an, il quid ed il quomodo dell’erogazione, e al richiedente la posizione di interesse legittimo salvo il caso in cui il contributo o la sovvenzione siano riconosciuti direttamente dalla legge. Successivamente alla concessione, viceversa, il privato è titolare di un diritto soggettivo perfetto, come tale tutelabile dinanzi al giudice ordinario. In tale ultima ipotesi, infatti, la controversia riguarda la fase esecutiva del rapporto di sovvenzione e l’inadempimento degli obblighi cui è subordinato il concreto provvedimento di attribuzione. Nella specie la pronuncia ha riconosciuto la giurisdizione del giudice ordinario in tema di riduzione dell’importo dei finanziamenti erogati in favore di un’impresa titolare di iniziative attuative del Patto territoriale per spese non ritenute pertinenti al programma di investimento. Si è ritenuto che su tali atti la P.A. non eserciti alcuna discrezionalità, dovendosi soltanto uniformare ai principi della normativa vigente in favore delle attività produttive delle aree depresse del paese.

In applicazione dello stesso principio Sez. U, n. 19042/2018, Bruschetta, Rv. 649794-02, ha chiarito che appartengono alla giurisdizione del giudice amministrativo le controversie relative alla spettanza dei finanziamenti previsti dall’art. 1 del d.l. 22 ottobre 1992, n. 415, conv., con modif., in l. 19 dicembre 1992, n. 488, perché non si tratta di sovvenzioni riconosciute direttamente dalla legge sulla base di elementi da quest’ultima puntualmente indicati, essendo stato conferito alla P.A. il potere di regolamentare la concessione di tali agevolazioni. Ne consegue che, anche in tale ambito, la posizione del privato è da qualificare in termini di interesse legittimo, sia nella fase procedimentale anteriore all’emanazione del provvedimento attributivo del beneficio, sia a seguito dell’annullamento o della revoca dello stesso in sede di autotutela.

In tema di sovvenzioni pubbliche, secondo Sez. U, n. 18241/2018, Giusti, Rv. 649626-01, è devoluta alla giurisdizione del giudice amministrativo la controversia tra l’ente ammesso al finanziamento e l’ente pubblico sovventore avente ad oggetto un atto di cd. definanziamento adottato da quest’ultimo per vizi di legittimità originari dell’atto attributivo della sovvenzione. Posto che la contestazione attiene ai presupposti dell’esercizio del potere di autotutela decisoria da parte della P.A., il soggetto inciso vanta, nei confronti di questo, una situazione di diritto soggettivo.

Appartiene, viceversa, alla giurisdizione del giudice ordinario, secondo Sez. 1, n. 26877/2018, Terrusi, Rv. 651507-01, la controversia nella quale il privato richieda il riconoscimento di un contributo pubblico, prima concesso e successivamente revocato, qualora l’intervento dell’amministrazione, sul fondamento della normativa che disciplina la specifica sovvenzione abbia avuto ad oggetto, in sede di revoca, soltanto la verifica della mancata ricorrenza di condizioni predeterminate dalla legge, nell’assenza di valutazioni discrezionali in ordine alla sussistenza di un interesse pubblico alla concessione del contributo. In applicazione, dunque, dei criteri generali, va riconosciuta al privato una posizione di diritto soggettivo avverso tali atti adottati dall’amministrazione.

La questione relativa al contenuto dell’esercizio del potere di revoca risulta, poi, ripresa anche in tema di appalti (vedi infra § 5).

5. Appalti.

In materia Sez. U, n. 13191/2018, Petitti, Rv. 648652-01, ha dato applicazione al criterio generale di riparto che fissa come spartiacque per l’attribuzione della giurisdizione la delibera di aggiudicazione. In particolare, tutta la fase relativa all’aggiudicazione è di appannaggio del giudice amministrativo, incluse le controversie introdotte dall’aggiudicatario per ottenere l’accertamento del preteso inadempimento della P.A. ed il risarcimento del danno, anche qualora alla deliberazione di aggiudicazione non sia seguita la stipula della convenzione tra le parti. Si tratta, infatti, di liti aventi ad oggetto atti o provvedimenti della procedura concorsuale obbligatoria, nonché relative all’individuazione del contraente a seguito dell’aggiudicazione. Nella successiva fase contrattuale la giurisdizione spetta, invece, al giudice ordinario, quale giudice dei diritti, quando il rapporto ha esecuzione, in particolare, con la stipula ovvero con l’inizio della esecuzione del contratto, quale alternativa allo stipula dello stesso.

Analogo principio è stato espresso da Sez. U, n. 24411/2018, Frasca, Rv. 651341-01, in tema di affidamento di un pubblico servizio, nella vigenza del d.lgs. n. 163 del 2006, che ha riconosciuto la giurisdizione amministrativa esclusiva, indicata dall’art. 133, comma 1, lett. e), n. 1, del d.lgs. n. 104 del 2010, concernente le controversie relative al procedimento di scelta del contraente fino al momento in cui acquista efficacia l’aggiudicazione definitiva. La pronuncia, dopo un’approfondita ricognizione della normativa e della giurisprudenza della S.C. sul punto, fissa le linee guida per i criteri di riparto. In particolare, ha ricondotto al giudice ordinario la cognizione a decorrere dall’effettiva esecuzione del contratto, anche se precedente alla stipula dello stesso. Nella medesima direzione Sez. U, n. 32728/2018, Lamorgese, Rv. 652101-01.

Fermo restando, dunque, il prioritario accertamento relativo alla posizione che la domanda è diretta a tutelare sotto il profilo del petitum sostanziale, si è affermata la giurisdizione del giudice ordinario in una controversia vertente su un provvedimento di decadenza dall’aggiudicazione adottato dalla P.A. dopo l’efficacia dell’aggiudicazione definitiva e prima della stipula del contratto. Quel provvedimento, secondo la S.C., non è riconducibile all’esercizio di un potere autoritativo e può essere qualificato, alternativamente, come atto dichiarativo dell’intervenuta risoluzione per inadempimento di un accordo concluso mediante esecuzione anticipata, ovvero, in difetto di quest’ultima, come recesso dalle trattative dirette alla stipula del contratto dopo l’aggiudicazione.

In tema, infine, di revisione dei prezzi di appalto di opere pubbliche, prima del 1 gennaio 1994, data in cui per effetto dell’art. 6, comma 19, della l. 24 dicembre 1993, n. 537, tutte le relative controversie sono state devolute in via esclusiva al giudice amministrativo, secondo Sez. 1, n. 02508/2018, Terrusi, Rv. 646876-01, la giurisdizione sulla questione se la revisione stessa sia o meno dovuta anche per i lavori eseguiti durante il periodo di proroga, eventualmente accordata dall’amministrazione, appartiene, in via di principio, al giudice amministrativo. Resta, tuttavia, salva l’ipotesi, devoluta invece al giudice ordinario, in cui l’amministrazione committente abbia eseguito pagamenti in acconto di un compenso revisionale riconosciuto con generico riferimento a tutti i lavori eseguiti per la realizzazione dell’opera appaltata, ivi compresi, dunque, quelli compiuti in regime di proroga.

Non è assoggettato, invece, alle regole dell’evidenza pubblica e, quindi, non sussiste la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ex art. 133, comma 1, lett. e), del d.lgs. n. 104 del 2010, nelle controversie relative al procedimento di stipulazione dell’appalto del servizio sostitutivo di mensa, reso mediante buoni pasto cartacei, per i dipendenti di Poste Italiane s.p.a. Tale appalto, secondo Sez. U, n. 04899/2018, Frasca, Rv. 647563-02, non rientra nella disciplina dei cd. settori speciali, a mente dell’art. 217 del d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163, avendo un oggetto che, per sua natura, non rileva direttamente ai fini dell’espletamento del servizio speciale, incidendo solo in via indiretta sull’attività inerente allo stesso. Ne consegue che, a prescindere dalla qualificazione giuridica dell’ente secondo la sistematica classificatoria di cui all’art. 3 del d.lgs. n. 163 del 2006, la giurisdizione appartiene al giudice ordinario e ciò anche se Poste Italiane si sia volontariamente vincolata, pur non essendovi tenuta, alle regole di evidenza pubblica, poiché la sottoposizione o meno dell’appalto al regime pubblicistico discende esclusivamente dalle sue caratteristiche oggettive e da quelle soggettive della stazione appaltante.

6. Rapporti concessori e procedure ad evidenza pubblica.

In materia di concessioni, la S.C. ha nuovamente ribadito il principio generale, già espresso da Sez. U, n. 14428/2017, Campanile, Rv. 644563-01, secondo cui la controversia che coinvolge la verifica dell’azione autoritativa della P.A. sull’intera economia del rapporto concessorio viene attratta nella sfera della competenza giurisdizionale del giudice amministrativo. Nella specie, Sez. U, n. 08035/2018, Petitti, Rv. 647910-01, nell’ambito della concessione del servizio di illuminazione di lampade votive di un cimitero municipale, in linea, peraltro, con quanto a suo tempo affermato da Sez. U, n. 09261/1998, Triola, Rv. 520490-01, ha ritenuto la sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo sulla domanda con cui il privato chiedeva di accertarsi l’avvenuto rinnovo tacito della concessione per inidoneità della comunicazione del sindaco, nonché su quelle afferenti il pagamento di un indennizzo a seguito della successiva intervenuta risoluzione anticipata del contratto, ovvero, in subordine, in caso di ritenuta tempestività della disdetta, di quelle risarcitorie conseguenti, anche, alla mancata rivalutazione dei canoni, in quanto aventi tutte quale presupposto la verifica dell’esercizio di poteri discrezionali.

Di rilievo, poi, quanto affermato da Sez. U, n. 21450/2018, Berrino, Rv. 650277-01, a proposito della procedura ad evidenza pubblica per la scelta dell’affittuario di un fondo agricolo di proprietà di un’azienda pubblica, ove esistano titolari del diritto di prelazione, legale o convenzionale. La pronuncia ha ritenuto la sussistenza della giurisdizione del giudice ordinario in una controversia avente quale petitum sostanziale la contestazione dell’esercizio della prelazione, promossa nei confronti dell’ente pubblico e dei prelazionari, ancorché fosse stato chiesto l’annullamento parziale degli atti del procedimento ad evidenza pubblica. Ciò sul presupposto che la lite investe posizioni di diritto soggettivo, quali il diritto di proprietà e la relativa titolarità, che discendono da rapporti di natura privatistica e che non sono suscettibili di degradazione od affievolimento per effetto dei suddetti provvedimenti. Il principio trova conferma nell’orientamento espresso da Sez. U, Sentenza n. 03163/1981, Schermi, Rv. 413729-01, Sez. 3, n. 04923/1988, Morsillo G., Rv. 459743-01, Sez. U, n. 06493/2012, Spirito, Rv. 6221

7. Concessioni di beni.

In tema di concessione ad uso esclusivo di beni demaniali, dando applicazione ai principi generali più volte richiamati, secondo Sez. U, n. 02581/2018, Scrima, Rv. 647039-01 quando la pretesa azionata sia riferibile direttamente all’atto di concessione e l’Amministrazione concedente abbia espressamente previsto ed autorizzato il rapporto tra concessionario e terzo, la giurisdizione appartiene al giudice amministrativo. Qualora, invece, la controversia trovi la propria origine in un rapporto tra concessionario ed il terzo, sempre che la P.A. concedente resti totalmente estranea a tale rapporto derivato e non possa ravvisarsi alcun collegamento con l’atto autoritativo concessorio, da qualificarsi come mero presupposto, la giurisdizione appartiene al giudice ordinario.

Con riguardo alla dismissione di immobili pubblici, rientra nella giurisdizione del giudice ordinario l’azione ex art. 2932 c.c. intentata dal conduttore nei confronti dell’ente pubblico proprietario dell’immobile locato, a seguito della conclusione di un contratto preliminare avente ad oggetto la vendita di detto cespite, quale conseguenza dell’esercizio del diritto di opzione riconosciuto dall’ente in favore del conduttore medesimo. Sez. U, n. 19281/2018, D’Ascola, Rv. 649687-01, ha chiarito, infatti, che la domanda è diretta a far valere il diritto soggettivo alla stipula coattiva del contratto di vendita, in forza dell’accertamento dell’avvenuto perfezionamento del contratto preliminare; né rileva, in senso contrario, il diniego frapposto dall’ente, basato sulla pretesa che il prezzo sia diverso da quello inizialmente proposto al conduttore, in virtù della riqualificazione dell’immobile disposta successivamente alla sua offerta in vendita. La circostanza che il prezzo sia divenuto definitivo rappresenta, infatti, un effetto secondario dell’accoglimento della predetta domanda e non modifica l’oggetto della controversia.

8. Domande nei confronti della P.A. di accertamento della titolarità o per la tutela possessoria su beni immobili.

Un’importante applicazione del criterio di riparto della giurisdizione fondato sul petitum sostanziale, identificato, non tanto, in vista della concreta pronuncia richiesta al giudice, quanto piuttosto in funzione dell’intrinseca natura della posizione dedotta in giudizio, è stata fatta anche da Sez. U, n. 29394/2018, Di Virgilio, Rv. 651345-01, secondo cui l’omesso e, poi, denegato esercizio del potere amministrativo autoritativo, assume la valenza di questione pregiudiziale, da accertarsi da parte del giudice amministrativo, in via incidentale ai sensi dell’art. 8 del codice del processo amministrativo (d.lgs. n. 104 del 2010). La lite si fondava, infatti, sull’impugnazione della mancata attribuzione da parte della regione di beni immobili pubblici ad un consorzio che per legge avrebbe dovuto essere assegnatario degli stessi, all’esito della gestione liquidatoria della cassa per il Mezzogiorno.

Sul diverso versante della tutela possessoria, ma sempre dando applicazione al suddetto principio del petitum sostanziale, Sez. U, n. 32364/2018, Giusti, Rv. 651824-01, ha ribadito, in conformità con quanto già espresso da Sez. U, n.10285/2012, Petitti, Rv. 622829-01, che le azioni possessorie sono esperibili davanti al giudice ordinario nei confronti della P.A. quando il comportamento della medesima non sia ricollegato ad un formale provvedimento amministrativo, emesso nell’ambito e nell’esercizio di poteri autoritativi e discrezionali ad essa spettanti, ma si concreti e si risolva in una mera attività materiale lesiva di beni, dei quali il privato vanti il possesso. Ne consegue che, ove risulti che l’oggetto della tutela invocata è la situazione possessoria senza alcun riferimento all’emissione di un atto autoritativo, la cognizione della lite appartiene al giudice ordinario. Per converso, qualora sia sollecitato in giudizio il controllo di legittimità dell’esercizio del potere è competente il giudice amministrativo.

In linea di continuità con i principi espressi nelle pronunce ora richiamate, Sez. U, 32180/2018, Cirillo F.M., Rv. 651956-01, ha affermato la ricorrenza della giurisdizione del giudice ordinario nell’ipotesi di domanda risarcitoria conseguente ad uno sbancamento di una discarica comunale, nella quale non si era fatto alcun riferimento ad un provvedimento amministrativo, né all’esercizio di un potere discrezionale della P.A.

L’analisi delle pronunce sin qui eseguita porta a ritenere che all’interno della S.C. sia in corso un approfondimento del criterio del petitum sostanziale, più volte richiamato e, in particolare, se esso debba ritenersi limitato alla domanda del ricorrente, come da tempo ritenuto (vedi, tra le altre Sez. U, n.19600/2012, Piccialli, Rv. 623972-01, Sez. U, n.12378/2008, Mensitieri, Rv. 603183-01), oppure e soprattutto in che limiti possa comprendere l’esame delle eccezioni del convenuto. Interessante a questo proposito Sez. U, n. 21928/2018, Virgilio, Rv. 650603-01, citata in tema di opposizione a decreto ingiuntivo.

9. Domande risarcitorie.

Molteplici sono state le pronunce mediante le quali la S.C. ha statuito in materia, tenuto conto della nota difficoltà di individuare il nesso causale tra l’esercizio del potere autoritativo e l’attività lesiva generatrice di danno.

In tema di immissioni acustiche provenienti da autostrada, secondo Sez. 3, n. 02338/2018, Frasca, Rv. 647592-01, la controversia avente ad oggetto la domanda di risarcimento proposta dai proprietari dominicali limitrofi nei confronti del concessionario della gestione della rete autostradale, appartiene al giudice ordinario, se la violazione della soglia ex art. 844 c.c. nell’esercizio del servizio pubblico non sia riconducibile in alcun modo al provvedimento amministrativo.

Sul principio del petitum sostanziale Sez. U, n. 32780/2018, De Stefano, Rv. 652097-01, ha affermato la giurisdizione del giudice ordinario nell’ipotesi di domanda di condanna al risarcimento dei danni del gestore unico del servizio idrico integrato, fondata sull’inadempimento contrattuale consistente nella fornitura di acqua potabile priva dei requisiti di legge e proposta in uno a quella di declaratoria di spettanza del canone in misura dimezzata per tutto il periodo di tale fornitura.

In tema di contributi statali, Sez. U, n. 04359/2018, D’Ascola, Rv. 647322-01, in linea con Sez. U, n. 00183/2001, Lupo, Rv. 546536-01, ha statuito che la domanda di risarcimento dei danni nei confronti di ente pubblico proposta da un privato, in qualità di destinatario di un contributo statale per il rifacimento di bene immobile, in concreto non erogato e quindi determinante, secondo la prospettazione della domanda, il dissesto definitivo del bene, è devoluta alla cognizione del giudice ordinario. La S.C. ha osservato che il privato, destinatario di finanziamenti o sovvenzioni pubbliche, vanta nei confronti dell’autorità concedente una duplice posizione: di interesse legittimo, rispetto al potere dell’Amministrazione di annullare i provvedimenti di attribuzione dei benefici per vizi di legittimità ovvero di revocarli per contrasto originario con l’interesse pubblico, nonché di diritto soggettivo, relativa alla concreta erogazione delle somme di denaro oggetto del finanziamento o della sovvenzione ed alla conservazione degli importi a tale titolo già riscossi. Il criterio per l’individuazione della giurisdizione è stato quello del petitum sostanziale, sopra enunciato, con conseguente attribuzione della competenza al giudice ordinario chiamato a verificare che il diritto all’erogazione fosse sussistente e che la pretesa fosse rimasta insoddisfatta per le ragioni esposte in ricorso.

In materia di risarcimento dei danni derivanti dall’illecita occupazione di un bene, Sez. U, n. 09334/2018, Bisogni, Rv. 648266-01, confermando Sez. U, n. 17110/2017, Manna F., Rv. 644919-01, ha affermato la sussistenza della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. g), c.p.a., quando il comportamento della P.A., cui si ascrive la lesione oggetto della domanda, sia la conseguenza di un originario provvedimento ablativo, espressione di un potere amministrativo in concreto esistente, riguardante l’individuazione e la configurazione dell’opera pubblica sul territorio, cui la condotta successiva, anche se illegittima, si ricollega in senso causale.

Sul presupposto che la tutela risarcitoria possa essere invocata davanti al giudice amministrativo soltanto quando il danno sia conseguenza immediata e diretta dell’illegittimità dell’atto impugnato, Sez. U, n. 02145/2018, Giusti, Rv. 647038-01, ha affermato la giurisdizione del giudice amministrativo nell’ambito delle controversie nelle quali si faccia questione, anche a fini risarcitori, di attività di occupazione e trasformazione di un bene conseguenti a una dichiarazione di pubblica utilità, ancorché il procedimento nel cui ambito tali attività sono state espletate non sia sfociato in un tempestivo atto traslativo o sia caratterizzato da atti illegittimi. Con tale pronuncia l’ampliamento della giurisdizione in favore del giudice amministrativo si fonda sul principio, che il risarcimento del danno non costituisce materia di giurisdizione esclusiva, ma solo uno strumento di tutela ulteriore, e di completamento, rispetto a quello demolitorio.

Significativa in tale direzione anche Sez. U, n. 01654/2018, Bianchini, Rv. 647009-01. In particolare, si è ritenuta la sussistenza della giurisdizione del giudice ordinario qualora sia stato annullato un provvedimento ampliativo della sfera giuridica del privato e questi subisca la lesione di un diritto soggettivo, rappresentato dalla conservazione dell’integrità del proprio patrimonio, per avere sopportato perdite o mancati guadagni a causa dell’operato della P.A.

La pronuncia si pone sul solco dell’indirizzo tracciato da Sez. U, n.17586/2015, Frasca, Rv. 636105-01 e ribadito da Sez. U, n. 19170/2017, Lombardo, non massimata, secondo cui il privato, a seguito della nuova situazione determinatasi, per effetto del legittimo annullamento di un provvedimento ampliativo, denuncia la lesione, non già di un interesse legittimo pretensivo, quanto, invece, di una situazione di diritto soggettivo, rappresentata dalla conservazione dell’integrità del suo patrimonio.

In materia di domande di risarcimento del danno nei confronti della P.A. a seguito dell’annullamento o sostituzione dell’originario provvedimento di concessione di un finanziamento, secondo Sez. U, n. 16960/2018, Petitti, Rv. 649265-01, spetta al giudice amministrativo la cognizione delle domande che si pongono in rapporto di causalità diretta con il successivo esercizio del potere discrezionale di riesame degli interessi valutati in sede di erogazione, mentre restano riservate alla cognizione del giudice ordinario le azioni risarcitorie fondate su comportamenti della P.A. che prescindono dall’esercizio di quel potere. In particolare, è stata attribuita al giudice amministrativo la giurisdizione sulla domanda di risarcimento del danno per l’annullamento del provvedimento concessorio e, quindi, la mancata erogazione della seconda rata di un finanziamento ex l. 27 marzo 1987, n. 120, a causa, sia della mancata conversione di decreti legge integrativi rilevanti ai fini della completa elargizione del contributo, sia del mutato apprezzamento in ambito parlamentare dell’applicazione e della ratio della l. n. 120 del 1987.

Il tema è, a ben vedere, ancora dibattuto, trattandosi di questioni dove spesso vi è un simultaneo ricorrere di diritti soggettivi ed interessi legittimi, come testimonia la questione sollevata dall’ordinanza interlocutoria Sez. U, n. 22432/2018, Cosentino. La pronuncia, chiedendo una relazione all’Ufficio del Massimario e del Ruolo, attesta la necessità di un approfondimento sui criteri di riparto della giurisdizione, sia nell’ipotesi di danno da lesione dell’affidamento sorto nelle materie di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ex art. 133 c.p.a., sia nei casi in cui l’affidamento non provenga dall’emanazione di un provvedimento amministrativo ampliativo della sfera giuridica del privato, ma derivi da un mero comportamento della P.A., idoneo ad ingenerare una ragionevole aspettativa di una futura emanazione di questo. Si è posta, in altri termini la questione se l’indirizzo espresso da Sez. U, n. 04614/2011, Vittoria, Rv. 616481-01, Sez. U, n. 06594/2011, Fioretti, Rv. 616519-01, Sez. U, n. 06595/2011, Petitti, Rv. 616520 – 01, possa essere e, in quali limiti, essere superato.

Per altro verso si pone la questione, non sollevata nell’ordinanza interlocutoria ma connessa e, forse logicamente antecedente, se, ai fini della realizzazione della fattispecie costitutiva del diritto risarcitorio, sia sufficiente la dimostrazione che si è stati beneficiari del provvedimento favorevole, successivamente revocato o annullato, ovvero se questo possa acquistare rilevanza solo e se causativo dell’affidamento. In altri termini, la domanda è se sia o meno necessario un quid pluris, di modo da fare venire in rilievo una fattispecie complessa in cui l’emissione dell’originario provvedimento illegittimo favorevole si configura solo come uno dei fatti costitutivi, integratori della fattispecie.

In tema di danni da emotrasfusione, Sez. U, n. 04233/2018, Scrima, Rv. 647562-01, in conformità a quanto già espresso da Sez. U, n. 02050/2016, Frasca, Rv. 638221-01, ha ribadito che il rifiuto opposto dalla P.A. all’istanza di transazione del danneggiato non incide sul diritto soggettivo al risarcimento, ma sull’interesse all’osservanza della normativa secondaria concernente la procedura transattiva. L’impugnazione del diniego, pertanto, non rientra nella giurisdizione del giudice ordinario, ma in quella del giudice amministrativo cui spetta decidere, nel merito, se l’atto negativo lede un vero e proprio interesse legittimo o un interesse semplice non giustiziabile.

Sez. U, n. 33536/2018, Lamorgese, Rv. 652082-01, ha dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice ordinario sulla domanda di tutela risarcitoria in forma specifica, avendo l’interessato chiesto l’annullamento della sanzione disciplinare inflitta dalla federazione sportiva, cioè una tutela riservata agli organi della giustizia sportiva. Sul punto la pronuncia ha affermato che il giudice amministrativo può conoscere, nonostante la riserva a favore della giustizia sportiva, delle sanzioni disciplinari inflitte a società, associazioni e atleti, in via incidentale e indiretta, al fine di pronunciarsi sulla domanda risarcitoria proposta dal destinatario della sanzione.

10. Enti pubblici economici.

Il consorzio per lo sviluppo industriale di un comune che, in forza di una legge regionale è stato trasformato in un consorzio di sviluppo economico locale, è, secondo Sez. U, n. 05304/2018, Giusti, Rv. 647321-01, per espressa previsione legislativa, un ente pubblico economico, con il compito di promuovere, nell’ambito dell’agglomerato industriale di competenza, le condizioni necessarie per la creazione e lo sviluppo di attività produttive nel settore dell’industria. Ne consegue che appartengono alla giurisdizione del giudice amministrativo, le controversie in ordine alle delibere dell’assemblea, con le quali è stato adeguato lo statuto dell’ente e sono stati nominati i componenti del consiglio di amministrazione, configurandosi in capo ai soggetti partecipanti allo stesso soltanto l’interesse legittimo alla legittimità degli atti emessi in base alla relativa disciplina.

11. Lodo arbitrale.

Un’importante precisazione in materia è stata effettuata da Sez. 1, n. 00646/2018, Sambito, Rv. 646589-01, secondo cui, l’impugnazione del lodo arbitrale rituale deve essere sempre proposta dinanzi alla corte d’appello nel cui distretto è la sede dell’arbitrato, ai sensi dell’art. 828 c.p.c., unica disposizione diretta alla determinazione del giudice cui spetta la cognizione su detta impugnazione. Ne consegue che il giudice ordinario, in qualità di giudice naturale dell’impugnazione del lodo, qualora accolga l’impugnazione ha anche il potere-dovere, salvo contraria volontà di tutte le parti, di decidere nel merito ai sensi dell’art. 830, comma 2, c.p.c., a nulla rilevando che la controversia sarebbe stata affidata, ove non fosse stata deferita in arbitri, alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.

  • giurisdizione amministrativa
  • giurisdizione civile

CAPITOLO III

LA GIURISDIZIONE DEL TRIBUNALE DELLE ACQUE PUBBLICHE

(di Stefania Billi )

Sommario

1 Premessa. - 2 Criteri di riparto delle controversie tra tribunale delle acque e giudice ordinario. - 3 Criteri di riparto tra tribunale delle acque pubbliche e giudice amministrativo.

1. Premessa.

L’ambito della giurisdizione riservata ai tribunali delle acque pubbliche è delineato, unitamente alla disciplina processuale dei relativi giudizi, dal r.d. 11 dicembre 1933, n. 1775 (Testo unico delle disposizioni di legge sulle acque e impianti elettrici).

Peraltro, i tribunali regionali hanno natura di organo specializzato dell’autorità giudiziaria ordinaria, sia in quanto l’art. 138, comma 2, di detto Testo Unico, prevede che il «tribunale è costituito da una sezione della corte d’appello»; sia perché l’art. 64, comma 2, r.d. 30 gennaio 1941, n. 12, stabilisce che «il tribunale regionale delle acque pubbliche costituisce una sezione della corte di appello presso la quale è istituito».

Pertanto, i tribunali regionali sono ritenuti organi specializzati della magistratura ordinaria, mentre il Tribunale Superiore delle acque pubbliche è giudice ordinario, quando giudica in appello sulle pronunce dei Tribunali regionali, ed è giudice speciale, quando giudica in unico grado, in tema di interessi legittimi.

Nel primo caso, ai sensi dell’art. 142 T.U. acque, conosce in grado di appello tutte le cause decise in primo grado dagli otto Tribunali Regionali delle Acque Pubbliche aventi sede nelle Corti d’Appello di Torino, Milano, Venezia, Firenze, Roma, Napoli, Palermo e Cagliari sulle materie di loro competenza indicate negli artt. 140 e 141 T.U. acque, ossia: controversie intorno alla demanialità delle acque, circa i limiti dei corsi o bacini loro alvei e sponde; controversie aventi ad oggetto qualunque diritto relativo alle derivazioni e utilizzazioni di acqua pubblica; controversie di qualunque natura, riguardanti la occupazione totale o parziale, permanente o temporanea di fondi e le conseguenti indennità; controversie per risarcimenti di danni dipendenti da qualunque opera eseguita dalla pubblica amministrazione; ricorsi previsti dagli artt. 25 e 29 del testo unico delle leggi sulla pesca approvato con r.d. 8 ottobre 1931, n. 1604.

Nel secondo caso, ai sensi dell’art. 143 T.U. acque, quale organo di giurisdizione amministrativa il Tribunale Superiore delle acque pubbliche ha cognizione diretta sui ricorsi per incompetenza, per eccesso di potere e per violazione di legge avverso i provvedimenti presi dalla amministrazione in materia di acque pubbliche; sui ricorsi, anche per il merito, contro i provvedimenti dell’autorità amministrativa indicati nell’art. 217 T.U. acque riguardanti l’esecuzione di opere idrauliche e nell’art. 221 in tema di contravvenzioni che alterino lo stato delle cose, nonché contro i provvedimenti adottati dall’autorità amministrativa in materia di regime delle acque pubbliche; sui ricorsi in materia di diritti esclusivi di pesca.

2. Criteri di riparto delle controversie tra tribunale delle acque e giudice ordinario.

In particolare, come ripetutamente affermato nella giurisprudenza della Corte, il riparto di giurisdizione tra l’Autorità giudiziaria ordinaria ed i Tribunali regionali delle acque pubbliche attiene all’oggetto delle controversie, rientrando nell’ambito delle competenze del giudice specializzato le sole cause che involgano questioni relative alla demanialità delle acque pubbliche, o al contenuto e ai limiti delle concessioni di utenze, o al diritto nei confronti dell’Amministrazione alla derivazione o alla utilizzazione delle acque, o quelle che, comunque, incidano pure indirettamente sugli interessi pubblici connessi al regime delle acque (v., tra le molte, Sez. 1, n. 29356/2018, Sambito, Rv. 651586-01).

Ai fini della discriminazione tra la competenza dell’autorità giudiziaria in sede ordinaria e quella dei tribunali regionali delle acque pubbliche, occorre aver riguardo all’oggetto della controversia, la quale rientra nella competenza del giudice specializzato solo quando involga questioni sulla demanialità delle acque pubbliche o sul contenuto o i limiti di una concessione di utenza, o sul diritto nei confronti dell’amministrazione alla derivazione o alla utilizzazione delle acque, o che incida comunque, direttamente o indirettamente, sugli interessi pubblici connessi al regime delle acque. Rientrano, invece, nella competenza degli organi ordinari dell’autorità giudiziaria le controversie tra privati che – pur ricollegandosi al presupposto della sussistenza, a favore di una o di entrambe le parti contendenti, di una concessione di acqua pubblica – non investano la legittimità o la portata di quest’ultima e non tocchino, quindi, l’interesse della Pubblica Amministrazione, ma riflettano esclusivamente le modalità di attuazione e di esercizio dei diritti di uso delle acque, da osservarsi nei rapporti interni tra le parti, nonché gli obblighi reciproci che ne derivano, di modo che non sia necessaria un’indagine sul contenuto e sui limiti della concessione al fine di individuarne la portata e gli effetti e di stabilire se essa abbia o meno l’attitudine ad incidere, modificandoli, su rapporti preesistenti tra le parti. Con particolare riferimento, poi, alle azioni risarcitorie, la competenza del tribunale regionale delle acque pubbliche si profila solo quando i danni dipendano da qualunque opera eseguita dalla Pubblica Amministrazione e cioè quando la pretesa risarcitoria si fondi su di un comportamento commissivo od omissivo che coinvolga apprezzamenti tecnici circa la deliberazione, la progettazione e l’attuazione di opere idrauliche e comunque esprimano scelte dell’amministrazione per la tutela degli interessi generali correlati al regime delle acque pubbliche, con la conseguenza che deve escludersi la competenza del tribunale regionale delle acque pubbliche in ordine ad una controversia tra privati avente ad oggetto una azione negatoria servitutis di acquedotto, oltre alla richiesta risarcitoria per i danni arrecati dal preteso titolare della servitù al proprietario dell’asserito fondo servente (Sez. 6-2, n. 02656/2012, Bianchini, Rv. 621848-01).

Quanto alle controversie involgenti una richiesta di risarcimento danni, opera il generale criterio, per il quale nelle controversie riguardanti il risarcimento dei danni derivanti da atti posti in essere dalla Pubblica Amministrazione, la ripartizione della competenza tra il giudice ordinario ed il Tribunale regionale delle acque pubbliche deve effettuarsi attribuendo a quest’ultimo le questioni che incidano, direttamente o indirettamente, sugli interessi pubblici connessi al regime delle acque – segnatamente, quelle di carattere tecnico relative alla distribuzione ed all’uso delle acque pubbliche ed ai diritti di derivazione o utilizzazione dell’utenza nei confronti della Pubblica Amministrazione – ed al primo la domanda risarcitoria occasionalmente connessa alle vicende relative al governo delle acque (Sez. 1, n. 01616/2016, Campanile, Rv. 638393-01).

Nell’ambito di tale indirizzo interpretativo, nell’anno in rassegna Sez. 6-1, n. 32069/2018, Mercolino, Rv. 651969-01, ha precisato, conformandosi a quanto statuito da Sez. U, n. 13358/2008, Mazziotti Di Celso, Rv. 603033-01, che ai sensi dell’art. 140, lett. d) ed e) del r. d. n. 1775 del 1933, sono devolute alla competenza del Tribunale regionale delle acque pubbliche tutte le controversie aventi ad oggetto un’occupazione di fondi che si renda necessaria per la costruzione di un’opera idraulica di derivazione, di utilizzazione o di regolamentazione di acque pubbliche, senza distinzione tra occupazioni che siano formalmente e sostanzialmente legittime ed occupazioni che non lo siano, ancorché l’interessato, denunciando l’illegittimità, chieda il risarcimento del danno che ne sia conseguito.

Resta fermo che, in tema di riparto di competenza fra giudice ordinario e tribunale regionale delle acque pubbliche, non rientrano nella cognizione del giudice specializzato le controversie che, pur ricollegandosi al presupposto della sussistenza di una concessione di acqua pubblica, non investano la legittimità o la portata di quest’ultima e non tocchino, quindi, i relativi interessi pubblici, ma riguardino esclusivamente reciproci obblighi negoziali tra le parti, previsti da fonti contrattuali che semplicemente presuppongano l’attuazione e l’esercizio dei diritti di uso delle acque, di modo che non sia necessaria un’indagine sul contenuto e sui limiti della concessione al fine di individuarne la portata e gli effetti e di stabilire se essa abbia, o meno, l’attitudine ad incidere, modificandoli, sui rapporti tra le parti. (Sez. 6-3, n. 04699/2017, Tatangelo, Rv. 643136-01, in fattispecie nella quale la S.C., sul presupposto dall’assenza di competenza diretta in capo ai comuni sul rilascio delle concessioni in materia di acque pubbliche, ha ritenuto competente il giudice ordinario in merito ad un’azione di nullità di clausola di una convenzione-quadro, che prevedeva la realizzazione di un impianto idroelettrico con derivazione delle acque di un canale pubblico ed in base alla quale la società contraente si era impegnata a corrispondere al comune una “royalty” sul ricavato della vendita dell’energia prodotta).

3. Criteri di riparto tra tribunale delle acque pubbliche e giudice amministrativo.

La giurisdizione di legittimità del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche, ai sensi dell’art. 143 del r.d. n. 1775 del 1933, non è limitata, come ha precisato, tra le altre, Sez. U, n. 09534/2013, Segreto, Rv. 625801-01, ai soli giudizi impugnatori, ma si estende a quelli di accertamento e risarcitori, rientrando nella tutela giurisdizionale intesa a far valere la responsabilità della Pubblica Amministrazione per attività provvedimentale illegittima, sia l’azione con cui il privato chieda l’annullamento del provvedimento illegittimo, sia l’azione con cui invochi il risarcimento del danno, in forma specifica e per equivalente, con la conseguenza che al suddetto giudice può essere chiesta la tutela demolitoria e, insieme o successivamente, la tutela risarcitoria completiva, ma anche la sola tutela risarcitoria, senza che la parte debba in tal caso osservare il termine di decadenza pertinente all’azione di annullamento.

In virtù di tali canoni generali, Sez. U, n. 33656/2018, Scarano, Rv. 651904-01, ha precisato che appartiene alla giurisdizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche la controversia relativa all’impugnazione del decreto amministrativo con cui una Regione assoggetta alla valutazione d’impatto ambientale un progetto per la realizzazione di una mini centrale idroelettrica, atteso che, ai sensi dell’art. 143, comma 1, lett. a), del r.d. n. 1775 del 1933, sono devoluti alla cognizione di tale tribunale tutti i ricorsi avverso i provvedimenti che, pur costituendo esercizio di un potere non propriamente attinente alla materia, riguardino comunque l’utilizzazione del demanio idrico, incidendo in maniera diretta e immediata sul regime delle acque pubbliche. La pronuncia costituisce applicazione del consolidato principio per cui tutti i ricorsi avverso i provvedimenti che, per effetto della loro incidenza sulla realizzazione, sospensione o eliminazione di un’opera idraulica riguardante un’acqua pubblica, concorrono, in concreto, a disciplinare le modalità di utilizzazione di quell’acqua. Ne consegue che in tale ambito vanno ricompresi anche i ricorsi avverso i provvedimenti che, pur costituendo esercizio di un potere non strettamente attinente alla materia delle acque e inerendo ad interessi più generali e diversi ed eventualmente connessi rispetto agli interessi specifici relativi alla demanialità delle acque o ai rapporti concessori di beni del demanio idrico, riguardino comunque l’utilizzazione di detto demanio, così incidendo in maniera diretta ed immediata sul regime delle acque (tra le tante v. Sez. U, n. 18977/2017, Petitti, Rv. 645033-02; Sez. U, n. 09534/2013, Segreto, Rv. 625800-01). In sostanza, la giurisdizione del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche sussiste anche quando l’atto, ancorché proveniente da organi dell’amministrazione non preposti alla cura degli interessi del settore delle acque pubbliche, finisca tuttavia con l’incidere immediatamente sull’uso di queste ultime, in quanto interferisca con i provvedimenti relativi a tale uso, ad esempio autorizzando, impedendo o modificando i lavori relativi o determinando i modi di acquisto dei beni necessari all’esercizio ed alla realizzazione delle opere stesse (Sez. U, n. 24154/2013, Amatucci, Rv. 627994-01).

Inoltre, nello stesso anno in rassegna, Sez. U, n. 15105/2018, Cirillo E., Rv. 649290-01, ha affermato che, ai sensi dell’art. 143, comma 1, lett. a), del r.d. 11 dicembre 1933, n. 1775, i provvedimenti riguardanti gli ambiti territoriali ottimali rientrano tra quelli riservati alla cognizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche, in unico grado di legittimità, quando da essi discendano ricadute sulla organizzazione e sulla conduzione del sistema idrico integrato che, mirando a garantire la gestione di tale servizio in termini di efficienza, efficacia ed economicità, abbiano incidenza diretta sul regime delle acque pubbliche e del loro utilizzo.

Ha affermato la giurisdizione del Tribunale Superiore delle acque pubbliche Sez. U, n. 33656/2018, Scarano, Rv. 651964-01, su una controversia relativa all’impugnazione di un decreto della Regione di assoggettabilità alla valutazione d’impatto ambientale relativo ad un progetto per la realizzazione di una mini centrale idroelettrica.

Da ultimo Sez. U, n. 33538/2018, Di Virgilio, Rv. 652095-01, ha affermato che la Regione, in sede di rilascio della concessione di derivazione idrica, ed a conoscenza della nuova classificazione conforme alle metodiche della Direttiva Quadro Acque, a fronte della precedente, meno rigorosa e non conforme ai dettami della Direttiva, deve applicare pedissequamente la nuova classificazione, in applicazione del principio di non deterioration prescritto dalla Direttiva 2000/60/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 23/10/2000, sub art. 4, par.1, lett. a), punto I), e recepito con l’art.76, comma 4, lett. b), del d.lgs. 13 aprile 2006, n. 152. Tale principio è da ricondurre a quello più generale di precauzione, sancito dall’ordinamento comunitario come cardine della politica ambientale.

  • giurisdizione

CAPITOLO IV

LA GIURISDIZIONE DELLA CORTE DEI CONTI

(di Dario Cavallari )

Sommario

1 Premessa. - 2 L’azione di responsabilità. - 3 Il giudizio di conto. - 4 Pubblico impiego e trattamento pensionistico. - 5 I limiti della giurisdizione erariale. - 6 Profili processuali.

1. Premessa.

Gli argomenti di maggiore rilievo trattati dalla S.C. nel corso del 2018 sono stati le azioni di responsabilità, dove è stata confermata la tendenza a ridurre l’area delle scelte insindacabili dei pubblici ufficiali che ricoprano cariche “politiche”, e i giudizi pensionistici, dei quali è stato meglio definito l’oggetto.

Alcune pronunce di valore sistematico hanno pure toccato la tematica dei limiti interni ed esterni della giurisdizione. Di interesse sono, altresì, delle decisioni che hanno affrontato delle particolari problematiche processuali. Per quanto riguarda le questioni di giurisdizione inerenti alle società a partecipazione pubblica e, soprattutto, quelle in house providing, si rinvia al capitolo XXVI del primo volume della rassegna.

2. L’azione di responsabilità.

La tematica dell’azione di responsabilità in materia di contabilità pubblica è sempre attuale e su questa si focalizzano le principali pronunce della Suprema Corte.

Con riguardo ai finanziamenti regionali a progetti formativi, Sez. U, n. 03146/2018, Perrino, Rv. 647313-01, ha ritenuto la sussistenza della giurisdizione della Corte dei conti per responsabilità erariale dell’assessore regionale e del dirigente del dipartimento formazione professionale per l’erogazione di somme aggiuntive, rispetto a quelle già disposte con l’approvazione del piano regionale dell’offerta formativa, trattandosi non di atti “politici”, come tali insindacabili in carenza di un parametro giuridico (norme di legge o principi dell’ordinamento) sulla cui base svolgere il sindacato giurisdizionale, ma di atti inerenti ad un procedimento, regolato con legge regionale, posto in essere nell’esercizio di funzioni amministrative connesse alla programmazione e al versamento di finanziamenti per l’attività di formazione, secondo gli ordinari canoni di efficienza ed economicità della P.A.

Quest’ultima pronuncia si ricollega strettamente a Sez. U, n. 10774/2018, Acierno, Rv. 647920-01, per la quale la Corte dei conti può e deve verificare la compatibilità con i fini pubblici delle scelte amministrative effettuate dal concessionario di un servizio pubblico, ancorché nei limiti del controllo di ragionevolezza e di efficacia ed efficienza dei risultati, con la conseguenza che non rientra fra le scelte discrezionali insindacabili del concessionario la determinazione di omettere o differire la realizzazione degli interessi pubblici perseguiti dalla legge. Ciò è stato affermato riconoscendo la giurisdizione contabile sull’azione di responsabilità per danno erariale, promossa nei confronti dei concessionari del servizio pubblico di attivazione e conduzione della rete per la gestione telematica degli apparecchi per il gioco lecito, ex art. 110 del T.U. delle leggi di pubblica sicurezza, che avevano omesso di azionare tempestivamente il servizio di collegamento telematico per il controllo dell’andamento del gioco.

Si tratta di una tendenza in atto da alcuni anni e volta a ridurre l’ambito delle determinazioni non sindacabili ad opera dell’autorità giudiziaria, limitando l’area degli interna corporis e delle valutazioni asseritamente politiche ai provvedimenti emessi per necessità strettamente inerenti alle funzioni fondamentali dell’ente e in situazioni ove la facoltà di decisione non debba tenere conto di alcuna indicazione di fonte legislativa. Al riguardo, pare opportuno richiamare Sez. U, n. 06820/2017, Chiarini, Rv. 643280-01, la quale aveva già rilevato che la Corte dei conti poteva e doveva verificare la compatibilità delle scelte amministrative con i fini propri dell’ente pubblico, che devono essere ispirati ai criteri di economicità ed efficacia ex art. 1, l. n. 241 del 1990, i quali assumono valore non sul piano della mera opportunità, ma della legittimità dell’azione amministrativa e consentono, in sede giurisdizionale, un controllo di ragionevolezza sulle scelte della pubblica amministrazione, onde evitare la deviazione di queste ultime dai fini istituzionali dell’ente e consentire l’accertamento della completezza dell’istruttoria, della non arbitrarietà e proporzionalità nella ponderazione e scelta degli interessi, nonché della logicità ed adeguatezza della decisione finale rispetto allo scopo da raggiungere. Nella controversia esaminata era stata confermata la decisione impugnata, che aveva escluso la rispondenza ai criteri di economicità ed efficienza dell’esternalizzazione, operata da un ente pubblico consortile, dei compiti e servizi necessari alla propria attività ad un soggetto privo non solo di personale, ma anche di sede sociale.

Pertanto, Sez. U, n. 14436/2018, De Stefano, Rv. 649490-01, ha ribadito che, in caso di indebito conseguimento di un finanziamento pubblico, sussiste la giurisdizione della Corte dei conti sulla domanda risarcitoria formulata dall’ente pubblico finanziatore verso il privato che – non importa se in qualità di libero professionista o di dipendente del futuro percettore – abbia eseguito perizie o svolto analoghi incombenti preparatori indispensabili all’ottenimento di fondi pubblici, essendosi il rapporto di servizio instaurato in forza di tale condotta, immancabilmente sostitutiva o integrativa dell’istruttoria della P.A. interessata, che costituisce un indefettibile presupposto dell’erogazione poi rivelatasi non dovuta.

Con riferimento, invece, all’utilizzo di fondi pubblici da parte di partiti politici (nella specie, si trattava dei gruppi partitici dei consigli regionali), per Sez. U, n. 21927/2018, Virgilio, Rv. 650450-01, l’azione di responsabilità per la loro illecita gestione è attratta alla giurisdizione della Corte dei conti, sia perché a questi gruppi – pur in presenza di elementi di natura privatistica connessi alla loro matrice partitica – va riconosciuta natura essenzialmente pubblicistica, per la funzione strumentale al funzionamento dell’organo assembleare da essi svolta, sia in ragione dell’origine pubblica delle risorse e della definizione legale del loro scopo, senza che rilevi il principio dell’insindacabilità di opinioni e voti ex art. 122, comma 4, Cost., che non può estendersi alla gestione di contributi.

Questa pronuncia evidenzia come il giudizio di responsabilità della Corte dei conti arrivi a toccare praticamente ogni situazione nella quale ricorra un utilizzo improprio di denaro pubblico, a prescindere dall’eventuale coinvolgimento di soggetti investiti di funzioni lato sensu politiche.

Infine, con una decisione priva di precedenti specifici, Sez. U, n. 33362/2018, Chindemi, Rv. 651902-01, ha chiarito che attiene alla materia contabile e, quindi, alla giurisdizione della Corte dei conti, la controversia avente ad oggetto la responsabilità del tesoriere comunale per debito di gestione e, perciò, l’impugnazione del provvedimento di contestazione adottato dal Commissario straordinario del comune per le violazioni degli obblighi derivanti dalla convenzione di tesoreria.

3. Il giudizio di conto.

Il rapporto fra denaro pubblico e soggetti diversi dallo Stato e dagli enti pubblici è sempre stato di problematico inquadramento giuridico.

Sul punto, Sez. U, n. 16014/2018, Lombardo, Rv. 649291-01, ha affermato che la società concessionaria del servizio di riscossione delle imposte, in quanto incaricata, in virtù di una concessione contratto, di riscuotere denaro di spettanza dello Stato o di enti pubblici, del quale la stessa abbia il “maneggio” nel periodo compreso tra la riscossione ed il versamento, riveste la qualifica di agente contabile, ed ogni controversia tra essa e l’ente impositore, che abbia ad oggetto la verifica dei rapporti di dare e avere e il risultato finale di tali rapporti, dà luogo ad un giudizio di conto.

Coerentemente, Sez. U, n. 19654/2018, Scarano, Rv. 649978-01, ha rilevato che, in tema di imposta di soggiorno, tra il gestore della struttura ricettiva (o “albergatore”) ed il Comune si instaura un rapporto di servizio pubblico con compiti eminentemente contabili, che implicano il maneggio di denaro pubblico. Ne consegue che ogni lite con l’ente impositore concernente il controllo dei pagamenti dà origine ad un giudizio di conto, sul quale ricorre, pertanto, la giurisdizione della Corte dei conti.

4. Pubblico impiego e trattamento pensionistico.

Occupandosi di pubblico impiego, Sez. U, n. 29396/2018, Garri, Rv. 651317-01, ha chiarito che rientra nella giurisdizione ordinaria e non in quella contabile la causa relativa allo svolgimento di mansioni superiori da parte di un pubblico dipendente e al conseguente trattamento economico, quando la domanda, benché proposta in epoca successiva al collocamento in quiescenza, non sia finalizzata al mero ricalcolo della pensione, ma diretta all’accertamento del diritto alle maggiori spettanze retributive per effetto delle mansioni svolte e, solo di riflesso, alla riliquidazione del trattamento pensionistico, per via dell’obbligo di versamento di maggiori contributi gravante sulla P.A.

La S.C. ha individuato, quindi, i confini della giurisdizione contabile in materia pensionistica.

Pertanto, secondo Sez. U, n. 04237/2018, Tria, Rv. 647164-01, vi è la giurisdizione ordinaria e non quella contabile sulla controversia relativa alla maggiorazione del trattamento pensionistico spettante ai dipendenti in quiescenza dell’Ente Acquedotti Siciliani (EAS) in virtù della l.r. Sicilia n. 19 del 1991, il cui pagamento sia sospeso con delibera del Commissario liquidatore dell’Ente (del 14 novembre 2006). Ciò perché la materia del contendere ha ad oggetto l’applicazione di aumenti stipendiali destinati ad integrare il trattamento pensionistico, la cognizione dei quali spetta al giudice che, ratione temporis, è dalla legge designato a conoscere del rapporto d’impiego, dovendosi, nella specie, escludere la giurisdizione amministrativa ex art. 69, comma 7, del d.lgs. n. 165 del 2001, considerato che, ad incidere negativamente sulla posizione giuridica dei pensionati, è il provvedimento di sospensione dei pagamenti, adottato dopo il 30 giugno 1998.

Inoltre, per Sez. U, n. 24670/2018, Bronzini, Rv. 650869-01, appartiene alla giurisdizione della Corte dei conti, quale giudice della pensione, e non a quella amministrativa, la causa sulla domanda di un ufficiale della marina militare diretta a ottenere il computo nella base pensionistica dei maggiori emolumenti riconosciuti nel corso del rapporto di pubblico impiego, influendo la relativa cognizione unicamente sull’entità del trattamento pensionistico e non sul detto rapporto.

Con una pronuncia volta a definire l’ambito del giudizio pensionistico, Sez. U, n. 26252/2018, Di Virgilio, Rv. 650873-01, ha affermato che la giurisdizione esclusiva della Corte dei conti in materia di pensioni dei pubblici dipendenti, ex artt. 13 e 62 del r.d. n. 1214 del 1934, ricomprende tutte le controversie nelle quali il rapporto pensionistico costituisca elemento identificativo del petitum sostanziale e, perciò, anche quelle funzionali alla pensione perché connesse al relativo diritto, come quelle riguardanti l’accertamento delle somme necessarie, quali contributi volontari, per ottenere la pensione e quelle relative alla consequenziale domanda di ripetizione degli importi versati in eccedenza rispetto al dovuto, in quanto afferenti pure alla corretta quantificazione della pensione e non solo alla fondatezza dell’azione di ripetizione.

Sez. U, n. 29395/2018, Garri, Rv. 651316-01, ha chiarito che il giudizio sul ricalcolo della pensione di un pubblico dipendente, per effetto del riconoscimento del diritto alla perequazione automatica, in applicazione della sentenza della Corte costituzionale n. 70 del 2015, rientra nella giurisdizione esclusiva della Corte dei conti, che ricomprende tutte le cause connesse al diritto alla pensione dei pubblici dipendenti, attenendo all’accertamento della misura della pensione, in relazione ad aumenti connessi per legge al periodico adeguamento al costo della vita.

Infine, Sez. U, n. 29284/2018, Greco, Rv. 651315-01, ha precisato che la controversia sulla ripetibilità, a mezzo trattenute da operare mensilmente sulla pensione di un pubblico dipendente, di importi indebitamente percepiti nel corso del rapporto di lavoro, non rientra nella giurisdizione della Corte dei conti, ma appartiene a quella del giudice del rapporto di pubblico impiego, da individuare – per situazioni soggettive relative a fatti materiali o atti successivi al 30 giugno 1998 – nel giudice ordinario.

5. I limiti della giurisdizione erariale.

Varie pronunce hanno esaminato il profilo concernente le doglianze contro le decisioni contabili che possono essere portate all’attenzione delle Sezioni Unite.

In primo luogo, Sez. U, n. 01409/2018, Bianchini, Rv. 647007-01, esprimendo una tendenza finalizzata a ridurre la portata del disposto dell’art. 17, comma 30 ter, del d.l. n. 78 del 2009, conv., con modif., dalla l. n. 102 del 2009, già evidente in Sez. U, n. 25042/2016, Scarano, Rv. 641777-01, ha confermato che non eccede i limiti esterni della giurisdizione erariale e, di conseguenza, non è impugnabile con ricorso per cassazione, la pronuncia della Corte dei conti che, interpretando i requisiti normativi della risarcibilità del danno all’immagine degli enti pubblici, riconnessi ai soli fatti costituenti delitti contro la P.A. accertati con sentenza passata in giudicato, abbia ritenuto integrata la fattispecie di danno erariale in seguito alla irrevocabilità della sentenza di cd. patteggiamento pronunciata, dopo l’entrata in vigore della l. n. 475 del 1999, per il delitto di cui all’art. 319 quater c.p., a carico di un funzionario pubblico.

Infatti, come chiarito da Sez. U, n. 29285/2018, Greco, Rv. 651440-01, che ha ben definito i confini del suo sindacato sulle decisioni della Corte dei conti, il ricorso per cassazione è consentito, in questi casi, esclusivamente per motivi inerenti alla giurisdizione, sicché il controllo della S.C. è circoscritto all’osservanza dei limiti esterni della giurisdizione, non estendendosi ad errores in procedendo o ad errores in iudicando, il cui accertamento rientra nell’ambito dei limiti interni della giurisdizione, salve le ipotesi di radicale stravolgimento delle norme di riferimento che ridondino in denegata giustizia.

Coerentemente, per Sez. U, n. 08568/2018, Chindemi, Rv. 647912-01, non ricorre eccesso di potere giurisdizionale per sconfinamento nella sfera riservata alla P.A. qualora il giudice contabile non dichiari l’improponibilità del giudizio di responsabilità nei confronti dell’agente di riscossione, in pendenza della procedura di discarico per inesigibilità di cui agli artt. 19 e 20 del d.lgs. n. 112 del 1999, così come modificati dalla l. n. 190 del 2014. Infatti, deve tenersi conto che le nuove norme non hanno cambiato il rapporto tra il giudizio sul danno e il procedimento amministrativo appena menzionato, i quali restano indipendenti e autonomi, dovendo, semmai, l’asserito errore della Corte dei conti essere qualificato come error in procedendo o, eventualmente, in iudicando, in considerazione dell’incidenza sull’esito del giudizio della procedura agevolata introdotta dalla l. n. 190 del 2014, da ricomprendersi nei limiti interni della giurisdizione contabile, il controllo dei quali è sottratto al sindacato della Corte di cassazione.

Allo stesso modo, Sez. U, n. 19280/2018, D’Ascola, Rv. 649755-01, ponendosi nel solco tracciato da Sez. U, n. 07578/2006, Picone, Rv. 589170-01, sul presupposto che il processo di esecuzione civile richiede l’esistenza di un titolo esecutivo per un diritto certo, liquido ed esigibile, senza che possa discutersi dell’accertamento dell’esistenza dell’obbligazione, ha affermato che il giudizio di opposizione collegato all’esecuzione di una sentenza di condanna della Corte dei conti, avendo ad oggetto una controversia relativa ad un diritto soggettivo, appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario.

D’altronde, è tradizionale insegnamento che tutte le questioni inerenti all’esecuzione delle sentenze della Corte dei conti siano riservate al giudice ordinario.

Con una decisione che ha toccato un aspetto peculiare del riparto di giurisdizione, Sez. U, n. 15342/2018, Falaschi, Rv. 649492-01, ha precisato che il difetto di giurisdizione per irregolare costituzione del giudice si determina solo ove detto difetto sia così grave da rivelare la totale carenza di legittimazione del giudice o dei singoli componenti del collegio, ovvero la loro assoluta inidoneità a fare parte di un organo giurisdizionale. Pertanto, è stato dichiarato inammissibile il ricorso ex art. 362 c.p.c. promosso avverso la decisione in grado di appello del giudice contabile, con il quale si era contestato che, dopo la declaratoria di nullità della statuizione di primo grado per violazione del diritto di difesa, l’azione di responsabilità erariale era stata decisa nel merito in unico grado in sede di gravame, senza rimessione della causa al primo giudice.

Inoltre, Sez. U, n. 14438/2018, De Stefano, Rv. 649138-01, ha ribadito che l’eccesso di potere giurisdizionale, che costituisce un aspetto dei “motivi attinenti alla giurisdizione” per i quali le sentenze di tutte le giurisdizioni speciali possono essere impugnate dinanzi alle Sezioni Unite della S.C., a norma dell’art. 362, comma 1, c.p.c., va inteso come esplicazione di una potestà riservata dalla legge ad un diverso organo, sia esso legislativo o amministrativo, e cioè come una usurpazione o indebita assunzione di potestà giurisdizionale, il che non si verifica ove la domanda di pensione ex art. 42, comma 1, d.P.R. n. 1092 del 1973, a seguito di dispensa dal servizio per superamento del periodo di comporto, sia respinta in base alla ritenuta insussistenza dei relativi presupposti.

Infine, secondo Sez. U, n. 33366/2018, Tria, Rv. 651963-01, in tema di responsabilità amministrativa, il conferimento di incarichi a soggetti esterni all’amministrazione con proroghe reiterate e genericamente motivate costituisce condotta sindacabile da parte della Corte dei conti sulla base dei parametri dell’efficacia, efficienza ed economicità, non venendo in questione il merito dell’azione amministrativa e non ricorrendo, perciò, una violazione dei limiti esterni alla giurisdizione contabile.

6. Profili processuali.

Con riguardo alle questioni concernenti il rito, Sez. U, n. 25937/2018, Giusti, Rv. 651342-01, ha affermato che, in tema di azione di responsabilità contro gli organi di gestione della RAI (nella specie, il direttore generale), ove la decisione di condanna in primo grado del giudice contabile sia stata appellata senza la proposizione di uno specifico motivo di gravame attinente alla giurisdizione, deve ritenersi formato il giudicato implicito sul punto, con conseguente inammissibilità dell’eccezione di difetto di giurisdizione formulata durante il giudizio di impugnazione. Non rileva, quindi, quale ius superveniens, l’introduzione dell’art. 49 bis nel d.lgs. n. 177 del 2005 ad opera dell’art. 3 della l. n. 220 del 2015, che prevede la soggezione degli organi di gestione e di controllo della RAI alle ordinarie azioni civili di responsabilità stabilite per le società di capitali, atteso che, ai fini della verifica della sussistenza dei presupposti fondanti la giurisdizione, valgono le disposizioni vigenti all’epoca di compimento della condotta ipotizzata come illecita e che, per altro verso, il momento determinante la giurisdizione va fissato con riguardo sia alla legge sia allo stato di fatto esistenti al tempo della proposizione della domanda, non rilevando eventuali sopravvenienze.

Per Sez. U, n. 26256/2018, Cirillo F.M., Rv. 650874-01, il ricorso per cassazione avverso le pronunce della Corte dei conti in grado di appello deve essere notificato al P.M. contabile, quale unico contraddittore necessario, nella persona del Procuratore generale della Corte dei conti. Ne consegue l’inammissibilità del ricorso de quo sia nel caso di notifica al Procuratore regionale presso le sezioni giurisdizionali della medesima Corte, in ragione della differenza esistente tra detti uffici e la Procura generale, sia nell’eventualità di notifica al Procuratore generale presso la Corte di cassazione, benché sia quest’ultimo, nella fase della discussione pubblica, a partecipare all’udienza come organo requirente.

Infine, Sez. U, n. 20687/2018, De Stefano, Rv. 650276-01, ha chiarito che, a seguito della declinatoria di giurisdizione da parte del giudice ordinario su azione di responsabilità nei confronti di amministratori e sindaci di società a partecipazione pubblica per il danno al patrimonio sociale, con affermazione della giurisdizione della Corte dei conti, la proposizione di un’azione contabile oltre tre mesi dopo il passaggio in giudicato di tale declinatoria esclude che il giudizio possa qualificarsi tempestivamente riproposto e preclude, dunque, al giudice adito per secondo il potere di sollevare il regolamento d’ufficio ex art. 17, commi 2 e 3, all. 1, del d.lgs. n. 174 del 2016.

  • giurisdizione civile
  • giurisdizione internazionale
  • competenza giurisdizionale

CAPITOLO V

IL RIPARTO DI GIURISDIZIONE TRA GIUDICE NAZIONALE E GIUDICE STRANIERO

(di Stefania Billi )

Sommario

1 Premessa. - 2 Giurisdizione nelle cause di scioglimento del matrimonio e di responsabilità genitoriale. - 3 Giurisdizione nelle controversie transnazionali di carattere negoziale. - 4 Controversie in tema di risarcimento dei danni. - 5 Immunità Stati esteri dalla giurisdizione civile. - 6 Diritto dei cittadini stranieri e giurisdizione.

1. Premessa.

Qualora venga in rilievo la giurisdizione del giudice straniero in luogo di quella del giudice nazionale, sussiste un problema di eventuale difetto cd. assoluto di giurisdizione di quest’ultimo, non appartenendo la potestas iudicandi ad alcun giudice dell’ordinamento.

In tale situazione la questione di difetto giurisdizione del giudice italiano, ove fondata, comporta conseguenze molto diverse rispetto a quelle esaminate (v., infra, Cap. I), per il difetto cd. relativo di giurisdizione.

Sotto un primo profilo, infatti, non sembra, anche dall’esame della giurisprudenza della Corte, che su tale questione possa formarsi il cd. giudicato implicito sulla giurisdizione, venendo in rilievo l’improponibilità assoluta della domanda giudiziale dinanzi al giudice nazionale (che implica in sede di legittimità una pronuncia di cassazione senza rinvio ex art. 382 c.p.c.).

Appare coerente con tale generale assunto la precisazione, compiuta di recente da Sez. U, n. 22433/2018, Genovese, Rv. 650459-03, in virtù della quale, in tema di opposizione a decreto ingiuntivo, quando all’esito del regolamento preventivo di giurisdizione sia stato dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice nazionale, si determina una improseguibilità del giudizio di merito, in quanto il giudice italiano, pur avendo avuto il potere di adottare il provvedimento poi opposto, non ha più quello di decidere la relativa controversia, se non limitandosi a dichiarare la nullità del ridetto decreto monitorio.

La giurisdizione ove intesa, sino ad anni relativamente recenti quale connotato della sovranità statuale, aveva quali conseguenze una limitata rilevanza della litispendenza internazionale e la necessità di delibazione, anche agli effetti cognitivi, delle decisioni straniere da parte di un giudice nazionale.

Questo sistema, come noto, si è evoluto sotto diversi profili, soprattutto a seguito dell’emanazione dei Regolamenti dell’Unione europea in materia processuale.

In estrema sintesi, nell’assetto attuale, si può ritenere che le norme di diritto internazionale privato, che individuano criteri cd. collegamento della giurisdizione con un determinato ordinamento, per le controversie connotate da elementi di estraneità, e dettate nel nostro sistema dalla l. n. 218 del 1995 trovano applicazione residuale, in una duplice direzione:

a) ove la controversia involga una questione di giurisdizione tra Stati appartenenti all’Unione Europea, trovano applicazione i criteri uniformi indicati, anche in via concorrente, dai Regolamenti che hanno disciplinato la materia (es. Reg. CE n. 2201/2003 in tema di giurisdizione e riconoscimento delle controversie sullo scioglimento del matrimonio e sulla responsabilità genitoriale; Reg. CE n. 44/2001, quindi sostituito dal Reg. n. 1215/2012, per le controversie in materia civile e commerciale);

b) nell’ipotesi nella quale non possano trovare applicazione tali Regolamenti, le norme di diritto internazionale privato sono derogate da eventuali Convenzioni internazionali intervenute tra gli Stati contraenti.

Nell’ipotesi di introduzione della causa dinanzi giudici di ordinamenti diversi si realizza il fenomeno della cd. litispendenza internazionale, la cui declaratoria è stata esclusa da Sez. 3, n. 20841/2018, Rossetti, Rv. 650424-01, nel caso in cui il giudizio precedentemente introdotto dinanzi al giudice straniero si sia concluso prima che il giudice italiano abbia emesso la propria decisione la quale è vincolata alla sentenza straniera per le questioni da quella già decise e che dovessero venire in rilievo nella causa dinanzi a lui proposta. La pronuncia ha anche chiarito il concetto di litispendenza internazionale che presuppone, sul piano oggettivo, l’identità di cause. Essa va, dunque, esclusa tra la domanda di risarcimento del danno patrimoniale da fatto illecito, proposta dinanzi al giudice straniero, e quella di risarcimento del danno non patrimoniale derivato dal medesimo fatto illecito, proposta dinanzi al giudice italiano (Sez. 3, n. 20841/2018, Rossetti, Rv. 650424-02).

2. Giurisdizione nelle cause di scioglimento del matrimonio e di responsabilità genitoriale.

Criterio principale, sia nelle convenzioni internazionali in materia che nel Reg. CE n. 2201/2003, per la determinazione della giurisdizione per le cause nelle quali si controverta della responsabilità genitoriale (nei suoi plurimi aspetti) ovvero in tema di sottrazione illecita di minori è quello della residenza abituale del minore.

Nella ricostruzione di tale nozione, Sez. U, n. 32359/2018, Sambito, Rv. 651820-01, ha evidenziato che, in materia di decadenza dalla potestà genitoriale, qualora i genitori risiedano in Stati diversi, la competenza giurisdizionale deve essere individuata con riferimento al criterio della residenza abituale del minore al momento della proposizione della domanda, il cui accertamento si risolve in una quaestio facti, con valutazione da svolgersi anche in chiave prognostica, che può essere effettuata direttamente dalla Suprema Corte sulla base dei dati emergenti dagli atti processuali, occorrendo valorizzare circostanze quali la frequenza della scuola ed il conseguimento di un ottimo rendimento scolastico in un determinato Stato, l’apprendimento della lingua, l’inserimento nel contesto sociale ed anche la entusiasta volontà del minore di rimanere in un certo luogo, accertata mediante l’ ascolto del minore medesimo.

Fondamentali sono, inoltre, le precisazioni compiute da Sez. U, n. 08042/2018, Acierno, Rv. 649686-01, per la quale, al fine di accertare quale sia lo Stato in cui ha la residenza abituale un figlio di tenera età, nato da genitori non uniti in matrimonio che vivono in Paesi diversi, e di individuare in conseguenza il giudice nazionale dotato di giurisdizione al fine di assumere i provvedimenti riguardanti il minore, possono valorizzarsi indicatori di natura proiettiva, quali l’iscrizione del bambino presso l’asilo nido in un determinato Paese ed il godimento dell’assistenza sanitaria presso il sistema pediatrico del medesimo Stato.

Sez. U, n. 30657/2018, Giusti, Rv. 651442-01, ha chiarito, per altro verso, che, qualora nel giudizio di divorzio introdotto innanzi al giudice italiano siano proposte domande inerenti la responsabilità genitoriale (nella specie, con riferimento al diritto di visita) ed il mantenimento di figli minori non residenti abitualmente in Italia, ma in altro stato membro dell’Unione Europea (nella specie, la Germania), la giurisdizione su tali domande spetta, rispettivamente ai sensi degli artt. 8, par. 1, del Regolamento CE n. 2201 del 2003 e 3 del Regolamento CE n. 4 del 2009 (con riferimento al quale la decisione si pone nel solco di Sez. U, n. 02276/2016, Nappi, Rv. 638227-01), all’autorità giudiziaria dello Stato di residenza abituale dei minori al momento della loro proposizione, dovendosi salvaguardare l’interesse superiore e preminente dei medesimi a che i provvedimenti che li riguardano siano adottati dal giudice più vicino al luogo di residenza effettiva degli stessi, nonché realizzare la tendenziale concentrazione di tutte le azioni, attesa la natura accessoria della domanda relativa al mantenimento rispetto a quella sulla responsabilità genitoriale.

3. Giurisdizione nelle controversie transnazionali di carattere negoziale.

Di notevole rilievo sono le precisazioni effettuate dalla S.C., anche nel 2018, sulle regole da applicare per l’individuazione del giudice competente in materia negoziale.

In tema di vendita internazionale di beni, ove trovi applicazione il Reg. UE n. 1215 del 12 dicembre 2012, ai fini dell’individuazione del foro competente, Sez. U, n. 32362/2018, Rubino, Rv. 651823-01, ha affermato l’applicazione del criterio del luogo di consegna materiale del bene. La pronuncia, pur ponendosi nel solco di un indirizzo consolidato della S.C, è significativa in quanto chiarisce espressamente entro quali confini può essere rilevante, in relazione all’art. 7, lett. b), del citato Reg. sostitutivo dell’art. 5, n. 1, lett. b) del Reg. CE 22 dicembre 2000, n. 44, l’inserimento nel contratto di una clausola, ricorrente nel commercio internazionale, cd. CIF (Incoterms 2010), che sposta il momento del trasferimento del rischio del perimento del bene dal compratore al venditore.

Nella fase successiva alla risoluzione del contratto Sez. U, n. 04731/2018, De Chiara, Rv. 647165-01, ha affermato che il giudice al quale spetta la giurisdizione sulla domanda proposta nei confronti di società estera, di restituzione delle somme già versate in dipendenza di un contratto successivamente sciolto, deve essere individuato sulla base del criterio generale del foro del luogo in cui l’obbligazione dedotta in giudizio è stata o deve essere eseguita, trattandosi di obbligazione ex contractu, ai sensi dell’art. 5, comma 1, lett. a), del Reg. CE n. 44/2001.

La clausola contrattuale attributiva della competenza ad un giudice di un determinato Stato, ove abbia natura esclusiva ai sensi dell’art. 23 del Reg. CE n. 44/2001 (applicabile ratione temporis) è idonea a derogare, non solo ai criteri generali della giurisdizione, ma anche a quelli speciali previsti dall’art. 6 del Regolamento citato: aderendo alla giurisprudenza della Corte di Giustizia, infatti, Sez. U, n. 20349/2018, Di Virgilio, Rv. 649832-01, ha affermato che il predetto art. 6, n. 1, deroga alla competenza generale del foro del domicilio del convenuto, previsto dall’art. 2 del Regolamento, ma non, invece, alla competenza esclusiva.

La domanda di garanzia impropria formulata, in un giudizio tra parti italiane, dal convenuto della causa principale nei confronti di un soggetto di diritto straniero, appartiene alla giurisdizione del giudice italiano secondo Sez. U, n. 30420/2018, Cirillo E., Rv. 651318-02. In applicazione dell’art. 6.2 della Convenzione concernente la competenza giurisdizionale e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale firmata a Bruxelles il 27 settembre 1968, ratificata e resa esecutiva con l. 21 giugno 1971, n. 804, il garante estero può essere citato davanti al giudice presso il quale è stata proposta la domanda principale, senza che assumano rilevanza, né la distinzione tra garanzia propria e garanzia impropria, né l’estensione allo straniero chiamato in garanzia della domanda originariamente proposta dall’attore nei confronti del convenuto italiano. In tale ultimo caso si determina la connessione prevista dall’art. 6.1 della predetta Convenzione, in forza della quale sussiste la giurisdizione del giudice italiano sull’intera causa anche quando uno solo dei convenuti sia domiciliato nel territorio dello Stato.

4. Controversie in tema di risarcimento dei danni.

In tema di illeciti civili, Sez. U, n. 27164/2018, Lamorgese, Rv. 651210-01, ha statuito che, ai sensi dell’art. 5, n. 3, del Regolamento CE n. 44 del 2001, e già dell’art. 5, n. 3, della Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968, deve aversi riguardo al criterio di collegamento del luogo in cui l’evento dannoso è avvenuto, che, come precisato da CGUE, 11 gennaio 1990, C-220/88 e 16 luglio 2009, C-189/08, è quello in cui è sorto il danno, cioè il luogo in cui il fatto causale, generatore della responsabilità da delitto o da quasi delitto, ha prodotto direttamente i suoi effetti dannosi nei confronti della vittima immediata. Rileva, infatti, a questi fini, non solo il luogo dell’evento generatore del danno, ma anche il luogo in cui l’evento di danno è intervenuto, non, invece, il luogo dove si sono verificate o potranno verificarsi le conseguenze future della lesione del diritto della vittima. L’affermazione conferma l’indirizzo espresso da Sez. U, n. 08076/2012, Spirito, Rv. 622522-01.

Restando nel tema delle domande risarcitorie per fatti illeciti commessi all’estero in danno di un cittadino italiano è significativa, poi, Sez. 3, n. 20841/2018, Rossetti, Rv. 650424-03, secondo cui la domanda di risarcimento del danno scaturente da fatto illecito avvenuto all’estero, commesso nei confronti di cittadino italiano da parte di un cittadino di altro Stato, è soggetta alla legge del luogo ove è avvenuto il fatto anche quando possa essere conosciuta dal giudice italiano secondo le regole sulla giurisdizione. In tal caso si deve escludere la violazione del diritto dell’Unione europea o quello costituzionale, ove la legge straniera porti a negare il risarcimento del danno non patrimoniale, ovvero a determinarlo in misura inferiore a quanto previsto dalla legge italiana.

5. Immunità Stati esteri dalla giurisdizione civile.

Le Sezioni Unite hanno espresso, in materia, il generale principio secondo cui l’immunità di diritto internazionale dello Stato straniero dalla giurisdizione civile dello Stato italiano, ricorre anche nel caso di pretese a contenuto patrimoniale, sempre che il riconoscimento delle stesse richieda apprezzamenti ed indagini sull’esercizio, in atti o anche solo in comportamenti, dei poteri pubblicistici dello Stato o ente straniero (Sez. U, n. 19600/2008, Segreto, Rv. 604573-01), per la quale, di conseguenza, il giudice italiano è carente di giurisdizione sulla domanda nei confronti di uno Stato straniero per la detenzione di un immobile, assunta come illegittima, quando risulti che lo stesso sia adibito ad ufficio commerciale dell’ambasciata, poiché, in tal caso, esiste un effettivo rapporto di strumentalità necessaria con i poteri pubblicistici di esercizio del diritto di missione da parte dello Stato estero, che non può essere sottoposto ad apprezzamenti e valutazioni da parte del giudice italiano, al fine di rilevarne l’illegittimità fondante la domanda di risarcimento del danno.

Nel solco di tale orientamento, l’immunità di diritto internazione dello Stato o del’ente straniero della giurisdizione civile dello Stato italiano, secondo Sez. U, n. 30527/2018, Falaschi, Rv. 651496-01, ricorre anche nel caso di controversie a contenuto patrimoniale, quando tali enti agiscano come soggetti di diritto internazionale o come titolari di una potestà d’imperio nell’ordinamento di origine, ossia come enti sovrani. Tale immunità è, invece, esclusa nelle ipotesi in cui lo Stato o l’ente straniero si pongano nelle medesime condizioni di cittadini italiani, avvalendosi di strumenti privatistici.

6. Diritto dei cittadini stranieri e giurisdizione.

La S.C. in materia ha fornito preziose indicazioni con riguardo alle controversie occasionate dagli imponenti fenomeni migratori. In particolare, Sez. U, n. 31675/2018, Di Marzio M., Rv. 651889-01, ha affermato che l’individuazione dello Stato competente ad esaminare la domanda di protezione internazionale, Reg. UE del Parlamento Europeo e del Consiglio n. 603 del 2013, Dublino III, spetta all’amministrazione e, precisamente, all’Unità di Dublino, operante presso il Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del Ministero dell’interno e non al giudice ordinario, in virtù dell’art. 3, comma 3, del d.lgs. 28 gennaio 2008, n. 25. La pronuncia ha chiarito che, in linea di principio, la competenza spetta al paese di primo ingresso e che la normativa italiana affida alla P.A. la prima verifica della competenza tra i diversi Stati membri. Il controllo di tale provvedimento, poi, è devoluto al giudice ordinario.

In tal senso, infatti, Sez. U, n. 08044/2018, Acierno, Rv. 647569-01, nonché Sez. U, n. 22412/2018, De Chiara, Rv. 650282-01, hanno chiarito che la controversia, riguardante la procedura di determinazione dello Stato europeo competente e sul conseguente, eventuale, provvedimento di trasferimento emesso dalla P.A., ai sensi dell’art. 3, comma 3, del d.lgs. n. 25 del 2008 è devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario. Il principio opera anche per le situazioni antecedenti alla previsione espressa contenuta nell’art. 3, comma 3-bis, del d.lgs. cit., come introdotto dal d.l. 17 febbraio 2017, n. 13, conv. con modif. dalla l. 13 aprile 2017, n. 46.

La situazione giuridica soggettiva dello straniero che chiede protezione internazionale ha, infatti, natura di diritto soggettivo, da annoverarsi tra i diritti umani fondamentali, ai sensi dell’art. 2 Cost. e 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, la cui giurisdizione spetta, in mancanza di una norma espressa che disponga diversamente, all’autorità giurisdizionale ordinaria.

Resta analogamente devoluta al giudice ordinario la giurisdizione riguardo, al permesso di soggiorno per motivi umanitari, per particolare sfruttamento lavorativo, introdotto nel nostro ordinamento dal d.lgs. 16 luglio 2012, n. 109, in attuazione della Direttiva 2009/52/CE, vigente prima dell’introduzione del d.l. 4 ottobre 2018 n. 113, Sez. U, n. 32044/2018, Tria, Rv. 652100-01, la cui, in motivazione ha precisato che al potere amministrativo è affidato solo l’accertamento dei presupposti di fatto che legittimano la protezione umanitaria che si realizza nell’esercizio di una pura discrezionalità tecnica.

In tema Sez. 1, n. 10291/2018, Acierno, Rv. 648896-01, ha chiarito che anche l’opposizione avverso il diniego del questore di rilascio del permesso di soggiorno previsto dall’art. 22, comma 12 quater, del d.lgs. n. 286 del 1998 in favore del cittadino straniero vittima di sfruttamento lavorativo, spetta al giudice ordinario che ha la piena cognizione sulla sussistenza dei relativi presupposti. In proposito è stato chiarito che il parere espresso dal Procuratore della Repubblica ha carattere vincolante per il questore, ma non per l’autorità giurisdizionale.

  • competenza giurisdizionale

CAPITOLO VI

LA COMPETENZA

(di Maria Elena Mele )

Sommario

1 Competenza per materia. - 1.1 Le controversie di competenza del giudice di pace. - 1.2 Le controversie di competenza delle sezioni specializzate in materia di impresa. - 1.3 Le controversie di competenza del tribunale per i minorenni. - 1.4 Le controversie di competenza delle sezioni agrarie. - 1.5 Le controversie di competenza della corte d’appello. - 1.6 La competenza per la liquidazione dei compensi al difensore nel patrocinio a spese dello Stato. - 2 Competenza per valore. - 3 Competenza per territorio. - 3.1 Il foro facoltativo per le cause relative a diritti di obbligazione. - 3.2 Il foro per i giudizi di responsabilità civile dei magistrati. - 3.3 Il foro del consumatore. - 3.4 Convenzione di deroga della competenza per territorio. - 4 Eccezione di incompetenza. - 5 Rilievo d’ufficio dell’incompetenza. - 6 Regolamento di competenza. - 6.1 Il procedimento. - 6.2 Regolamento di competenza necessario. - 6.3 Regolamento di competenza d’ufficio.

1. Competenza per materia.

Attraverso la disciplina della competenza il legislatore individua i criteri secondo cui distribuire il potere di decidere le controversie. La ripartizione (verticale) tra giudici di tipo diverso avviene, innanzitutto, sulla base del criterio della materia, vale a dire con riferimento alla natura o al tipo del diritto di cui si controverte (giudice di pace, tribunale, tribunale per i minorenni, ecc.). Si tratta di un criterio che non può essere derogato da accordi preventivi e diretti delle parti e la cui violazione è rilevabile anche d’ufficio dal giudice, sia pure non oltre la prima udienza di trattazione.

1.1. Le controversie di competenza del giudice di pace.

Sez. 6-2, n. 20051/2018, Lombardo, Rv. 650076-01, ha tracciato la linea di demarcazione tra la competenza del giudice di pace e quella del tribunale nelle cause relative alla recisione di siepe lungo il muro di confine. Confermando l’interpretazione data da Sez. 2, n. 00032/2006, Piccialli, Rv. 586969-01, ha ribadito che appartiene alla competenza del giudice di pace la domanda volta ad ottenere la recisione delle piante del vicino poste a distanza non legale a ridosso del muro di confine per la parte che superi “in verticale”, l’altezza del muro, trattandosi di domanda riconducibile alla previsione dell’art. 892, ultimo comma, c.c., diversamente dalla domanda volta alla recisione dei rami protesi “in orizzontale”, invadenti l’altrui proprietà (regolata dall’art. 896 c.c.), rientrante nella competenza del giudice unico di tribunale.

1.2. Le controversie di competenza delle sezioni specializzate in materia di impresa.

Più volte la Corte è intervenuta a chiarire il delicato problema concernente l’ambito di tale competenza. In via generale, Sez. 1, n. 04706/2018, Di Marzio M., Rv. 647627-01, ha precisato che dette sezioni specializzate sono investite di una peculiare competenza per materia e per territorio che si estende ad un bacino ben più ampio di quello del tribunale o della corte d’appello presso cui sono istituite, sicché hanno una propria competenza autonoma, diversa e più ampia da quella dell’ufficio giudiziario presso cui sono istituite, essendo competenti, in parte, riguardo a controversie per le quali il tribunale e la corte d’appello di appartenenza non lo sarebbero. Sez. 6-1, n. 03399/2018, Dolmetta, Rv. 647049-01, ha inoltre affermato che alle sezioni specializzate in materia di impresa sono riservate, ai sensi dell’art. 134, comma 1, lett. a), del d.lgs. 10 febbraio 2005, n. 30 (Codice della proprietà industriale), tutte le controversie sui diritti di proprietà industriale, titolati e non, e dunque anche quelle relative al marchio di fatto non registrato, atteso che tale segno risulta rafforzato dall’introduzione del predetto codice e gode ormai di una tutela giurisdizionale non diversa da quella del marchio registrato, come è dato evincere dall’art. 1 dello stesso decreto, contenente un richiamo generico ai marchi, tale da ricomprendere anche quelli non registrati, e dall’art. 2, comma 4 secondo cui «sono protetti, ricorrendone i presupposti di legge, i segni distintivi diversi dal marchio registrato», del medesimo codice.

Appartengono, inoltre, alla cognizione delle sezioni specializzate in materia di impresa le azioni di responsabilità, da chiunque promosse, nei confronti degli amministratori di fatto di una società di capitali, dal momento che, da un lato, non vi sono ragioni per discriminare il caso della gestione di fatto di una società ai fini della definizione della competenza delle stesse e, dall’altro, depone in tal senso la formulazione letterale dell’art. 3, comma 2, lett. a), del d.lgs. 27 giugno 2003, n. 168 che, richiamando tutti i «rapporti societari», va intesa come formula indicativa di una nozione generale e non quale espressione meramente riassuntiva delle peculiari ipotesi citate nel testo della medesima norma. In questo senso si è espressa Sez. 6-1, n. 20441/2018, Dolmetta, Rv. 650199-01.

Al contrario, rientra nella competenza del tribunale ordinario perché non ha natura di controversia societaria, la lite relativa all’acquisto di azioni dell’intermediario finanziario, nella quale il compratore lamenti, ai sensi del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 il mancato rispetto delle norme legali che disciplinano i servizi di investimento. Sez. 6-1, n. 01826/2018, Nazzicone, Rv. 647880-01 ha infatti affermato che la competenza si determina in considerazione della domanda giudiziale, individuando la causa negoziale, come oggettivata nel negozio e prospettata nell’atto di citazione introduttivo. Per tale ragione, la Corte ha ritenuto sussistente la competenza delle sezioni ordinarie del tribunale, in relazione alla domanda diretta a conseguire la dichiarazione di nullità del contratto di acquisto di azioni per violazione delle norme che disciplinano i servizi di investimento, sebbene, in conseguenza di esso, l’attore fosse divenuto socio dell’intermediario finanziario.

1.3. Le controversie di competenza del tribunale per i minorenni.

È stato ribadito che il tribunale per i minorenni resta competente a conoscere della domanda diretta ad ottenere la declaratoria di decadenza o la limitazione della potestà dei genitori ancorché, nel corso del giudizio, sia stata proposta, innanzi al tribunale ordinario, domanda di separazione personale dei coniugi o di divorzio, ai sensi dell’art. 38 disp. att. c.c. come novellato dall’art. 3 della l. 10 dicembre 2012, n. 219. Sez. 6-1, n. 20202/2018, Bisogni, Rv. 650198-01 ha ritenuto che l’interpretazione accolta risulta aderente al dato letterale della norma, in quanto rispettosa del principio della perpetuatio jurisdictionis di cui all’art. 5 c.p.c., nonché coerente con ragioni di economia processuale e di tutela dell’interesse superiore del minore (si tratta di principio già affermato da Sez. 6-1, n. 02833/2015, Bisogni, Rv. 634420-01).

1.4. Le controversie di competenza delle sezioni agrarie.

Sez. 6-3, n. 19331/2018, D’Arrigo, Rv. 650244-01, ha dato continuità all’orientamento secondo cui appartiene alla competenza della sezione specializzata agraria non soltanto la cognizione delle controversie che hanno come oggetto esclusivo ed immediato l’applicazione ovvero l’esclusione di proroghe a rapporti dei quali sia pacifica o già accertata la natura agraria, ma anche di quelle controversie che presuppongono l’accertamento delle caratteristiche, della validità e della stessa esistenza del rapporto da qualificare onde stabilire se esso sia compreso o meno fra le fattispecie cui è applicabile la disciplina vincolistica. Per questa ragione, tale competenza ricorre non solo nel caso in cui la questione attinente all’applicabilità delle norme speciali venga eccepita dal convenuto per il rilascio del fondo, ma anche nell’ipotesi in cui ne venga invocato dall’attore l’accertamento negativo.

1.5. Le controversie di competenza della corte d’appello.

Nell’anno si registrano anche due interventi relativi alle peculiari competenze per materia attribuite alla corte d’appello in unico grado.

Tale competenza è stata innanzitutto affermata con riguardo al giudizio di riconoscimento di sentenza – pronunciata da giudice straniero – di adozione piena di minore, figlio biologico di una delle due partners di una coppia omogenitoriale femminile coniugata all’estero, da parte dell’altra. Sez. 1, n. 14007/2018, Iofrida, Rv. 649527-01, ha affermato che, poiché tale giudizio deve essere effettuato secondo il paradigma legislativo di diritto internazionale privato previsto negli artt. 64 e ss. della l. 31 maggio 1995, n. 218 non trovando applicazione, nella specie, la disciplina normativa relativa all’adozione internazionale, è competente la corte d’appello ai sensi dell’art. 41, comma 1, della l. n. 218 del 1995, che richiama i detti articoli 64 e seguenti, e non il tribunale per i minorenni ex artt. 41, comma 2, della medesima l. n. 218 del 1995.

Riguardo alla competenza della corte d’appello in unico grado, prevista dall’art. 19 della l. 22 ottobre 1971, n. 865 per l’opposizione alla stima dell’indennità di espropriazione, Sez. 6-1, n. 02693/2018, Mercolino, Rv. 647367-01 ha ribadito che essa si estende anche alla domanda avente ad oggetto il riconoscimento dell’indennità aggiuntiva di cui all’art. 17, comma 2, della medesima legge in favore del fittavolo, colono, mezzadro o compartecipante (nello stesso senso si era già espressa Sez. 1, n. 18450/2011, Macioce, Rv. 619562-01).

1.6. La competenza per la liquidazione dei compensi al difensore nel patrocinio a spese dello Stato.

Sez. 6-5, n. 13806/2018, Napolitano, Rv. 648695-01 ha affrontato la questione concernente la individuazione del giudice competente sulla liquidazione dei compensi al difensore per il ministero prestato nel giudizio di cassazione nella disciplina di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 in tema di patrocinio a spese dello Stato statuendo che, ai sensi dell’art. 83 del suddetto decreto, come modificato dall’art. 3 della l. 24 febbraio 2005, n. 25, essa spetta al giudice di rinvio, oppure a quello che ha pronunciato la sentenza passata in giudicato a seguito dell’esito del giudizio di cassazione. Pertanto, nell’ipotesi di cassazione con decisione “sostitutiva” nel merito, la competenza per tale liquidazione è demandata a quello che sarebbe stato il giudice del rinvio in mancanza di detta decisione.

2. Competenza per valore.

Il valore della controversia costituisce l’ulteriore criterio secondo il quale è ripartita tra giudici di tipo diverso la competenza. Esso fa riferimento al valore economico dell’oggetto della causa e opera in via generale allorché non esistano regole che stabiliscano diversamente con riguardo alla materia. Talvolta il valore viene in rilievo congiuntamente al criterio della materia, integrandolo (si veda ad esempio, l’art. 7 c.p.c. con riguardo alla competenza del giudice di pace). Si tratta, anche in questo caso, di un’ipotesi di competenza inderogabile, il cui difetto può essere rilevato d’ufficio dal giudice non oltre l’udienza di cui all’art. 183 c.p.c. Le modalità attraverso cui il valore deve essere quantificato sono indicate negli artt. 10 e ss. c.p.c.

In particolare, l’art. 12, comma 1, c.p.c. stabilisce che il valore delle cause relative all’esistenza, alla validità o alla risoluzione di un rapporto giuridico obbligatorio si determina in base a quella parte del rapporto che è in contestazione. In applicazione di tale principio, Sez. 6-2, n. 21227/2018, Scalisi, Rv. 650351-01, ha stabilito che, in relazione ad una controversia avente ad oggetto il riparto di una spesa approvata dall’assemblea di condominio, anche se il condomino agisce per sentir dichiarare l’inesistenza del suo obbligo di pagamento sull’assunto dell’invalidità della deliberazione assembleare, bisogna fare riferimento all’importo contestato, relativamente alla sua singola obbligazione, e non all’intero ammontare risultante dal riparto approvato dall’assemblea di condominio, poiché, in generale, allo scopo dell’individuazione dell’incompetenza, occorre avere riguardo al thema decidendum, invece che al quid disputandum, per cui l’accertamento di un rapporto che costituisce la causa petendi della domanda, in quanto attiene a questione pregiudiziale della quale il giudice può conoscere in via incidentale, non influisce sull’interpretazione e qualificazione dell’oggetto della domanda principale e, conseguentemente, sul valore della causa.

Nell’ipotesi di domanda di risoluzione di un rapporto di locazione per morosità, Sez. 3, n. 04921/2018, Iannello, Rv. 601182-01 (conformandosi a Sez. 2, n. 01467/2008, Malpica, Rv. 601182-01) ha statuito che il valore è rappresentato dall’ammontare dei canoni del residuo periodo della locazione che la domanda dell’attore mira a far cessare anticipatamente.

Il criterio posto dall’art. 12 c.p.c. subisce una deroga nell’ipotesi in cui il giudice sia chiamato ad esaminare, con efficacia di giudicato, le questioni relative all’esistenza o alla validità del rapporto che va, pertanto, interamente preso in considerazione ai fini della determinazione del valore della causa, come ribadito da Sez. 6-2, n. 02850/2018, Manna, Rv. 647977-01 (la quale si è conformata sul punto all’indirizzo già espresso da Sez. 2, n. 02737/2012, Matera, Rv. 621591-01).

In tema di pretese creditorie della P.A., Sez. 6-2, n. 18201/2018, Falaschi, Rv. 649655-01 ha affermato che, qualora non ricorra l’esercizio autoritativo di suoi poteri, il diritto fatto valere riguarda denaro e, quindi, il petitum mediato consiste nel conseguimento di un bene della vita rappresentato da una cosa mobile, ancorché tali pretese abbiano la loro fonte in un rapporto giuridico o di fatto concernente un immobile demaniale. Pertanto, agli effetti dell’art. 7, comma 1, c.p.c., la relativa domanda è riconducibile alla competenza generale sulle controversie relative a beni mobili del giudice di pace, purché la questione del rapporto presupposto non venga in rilievo neppure in via incidentale. In applicazione del principio, la S.C. ha dichiarato la competenza per valore del giudice di pace, poiché la domanda della P.A. aveva ad oggetto il pagamento di indennità di occupazione di un’area del demanio idrico e, dunque, di somme di denaro di ammontare compreso entro il limite di cui all’art. 7, comma 1, c.p.c.

Sez. 6-1, n. 16424/2018, Terrusi, Rv. 649696-01, è intervenuta a chiarire che nell’ipotesi in cui, nel medesimo processo, più soggetti propongano contro uno stesso convenuto una pluralità di domande non altrimenti connesse, non si verifica un’ipotesi di cumulo soggettivo (art. 33 c.p.c.), il quale riguarda il caso in cui lo stesso attore convenga più persone davanti ad un unico giudice in deroga alle normali regole sulla competenza territoriale. Ricorre, invece, una fattispecie di cumulo oggettivo semplice (art. 104 c.p.c.), che ha come unica condizione l’osservanza dell’art. 10, comma 2, c.p.c., sicché, ove tra le domande cumulativamente proposte, ve ne siano alcune di valore indeterminato, sussiste senza dubbio la competenza per valore del tribunale sull’intera controversia. La Corte ha affermato tale principio con riferimento ad una fattispecie in cui più soggetti avevano promosso cumulativamente domande di accertamento dell’invalidità dei contratti di assicurazione da ciascuno stipulati con la stessa compagnia assicuratrice, formulando, unitamente ad altre domande, richieste risarcitorie di valore indeterminato.

In tema di esecuzione, Sez. 3, n. 16920/2018, Iannello, Rv. 649438-01, ha confermato l’orientamento espresso da Sez. 3, n. 19488/2013, Barreca, Rv. 627580-01, secondo il quale nei giudizi di opposizione all’esecuzione il valore della controversia ai fini della competenza si determina, ai sensi dell’art. 17 c.p.c., in base all’importo indicato nell’atto di pignoramento, atteso che non assume rilievo la circostanza che l’opposizione sia limitata ad una sola parte del credito azionato esecutivamente.

Nel caso di domanda di equa riparazione per violazione del termine di ragionevole durata del processo di esecuzione, Sez. 2, n. 24362/2018, Cosentino, Rv. 650649-01, ha poi precisato che il valore della causa va identificato, in analogia con il disposto dell’art. 17 c.p.c., con quello del credito azionato con l’atto di pignoramento.

3. Competenza per territorio.

Il riparto della competenza per territorio attiene alla distribuzione (orizzontale) delle controversie tra vari giudici dello stesso livello e del medesimo tipo presenti sul territorio. Il criterio utilizzato in linea di principio dal legislatore per determinare tale competenza è quello soggettivo, il quale fa cioè riferimento ai soggetti della controversia, privilegiando la figura del convenuto e individuando come foro generale quello della sua residenza o domicilio o, in subordine, la dimora (o della sede della persona giuridica convenuta).

Con riguardo alle controversie in materia di obbligazioni, l’art. 20 c.p.c. individua una pluralità di fori tra loro alternativi – oltre al giudice del foro generale, è competente anche quello del luogo dove l’obbligazione è sorta o quello in cui deve essere eseguita – lasciando all’attore la possibilità di scelta tra più giudici ugualmente competenti. Diversamente accade per i fori speciali che il legislatore individua per talune controversie (artt. 21 ss. c.p.c.), i quali prevalgono su quelli generali, escludendoli.

In base all’art. 28 c.p.c. la competenza per territorio può essere derogata su accordo (esplicito o implicito) delle parti, ad eccezione che per alcune materie dallo stesso previste per le quali essa è stabilita in modo inderogabile (competenza funzionale). Fuori di tali ultime ipotesi, ove il convenuto non abbia tempestivamente eccepito l’incompetenza del giudice adito, indicando altresì quello che ritiene competente, la competenza rimane radicata presso quel giudice. Diversamente, nelle ipotesi di incompetenza funzionale, questa è rilevabile anche d’ufficio, sia pure non oltre la prima udienza di trattazione (art. 38, comma 3 c.p.c.).

3.1. Il foro facoltativo per le cause relative a diritti di obbligazione.

Con riguardo alle cause relative ai diritti di obbligazione, Sez. 6-2, n. 11811/2018, Picaroni, Rv. 648827-01, ha affermato che il luogo di adempimento dell’obbligo di consegnare un macchinario industriale da montare e collaudare deve essere individuato nel domicilio del compratore nell’ipotesi in cui le parti abbiano previsto che il venditore compia il montaggio ed il collaudo nello stabilimento del compratore medesimo. Tale luogo, invece, coincide con il domicilio del venditore qualora sia provata la consegna della merce a vettori di volta in volta incaricati del trasporto ai sensi dell’art. 1510, comma 2, c.c. Nella specie, la Corte ha escluso che potessero qualificarsi come “macchinario industriale da montare e collaudare” delle centraline omologate presso il venditore e destinate ad essere incorporate in impianti a gas per autotrazione.

È stato, altresì, affrontato il problema della competenza in relazione alla materia dell’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile per la circolazione dei veicoli. Sez. 6-3, n. 12599/2018, Olivieri, Rv. 648747-01, ha ritenuto che l’azione diretta di cui all’art. 149 del d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209 promossa dal danneggiato nei confronti del proprio assicuratore non muta la natura risarcitoria dell’obbligazione, ma comporta la sostituzione ex lege del soggetto debitore. A ciò consegue che al titolare della posizione passiva devono essere riferite le modalità di adempimento della prestazione che, in quanto avente ad oggetto un credito illiquido, ex art. 1182, comma 4, c.c. deve essere richiesto presso la sede legale della società assicuratrice del danneggiato-creditore, la quale, pertanto, assume esclusivo rilievo ai fini della individuazione della competenza territoriale.

3.2. Il foro per i giudizi di responsabilità civile dei magistrati.

Sez. U n. 14842/2018, Cirillo F.M., Rv. 649491-01, ha affrontato la questione concernente la individuazione del giudice competente per territorio nelle cause di responsabilità civile promosse nei confronti dei magistrati della Corte di cassazione, in base alla l. n. 117 del 1988 statuendo che, mentre nell’ipotesi in cui più giudici, di merito e di legittimità, cooperino a fatti dolosi o colposi anche diversi nell’ambito della stessa vicenda giudiziaria, la causa è necessariamente unitaria e la competenza per territorio deve essere attribuita per tutti secondo il criterio di cui all’art. 11 c.p.p., richiamato dall’art. 4, comma 1, l. cit., nel caso in cui tali giudizi abbiano ad oggetto solo i comportamenti, atti o provvedimenti dei magistrati della Corte di cassazione, non si applica lo spostamento di competenza previsto dal menzionato art. 11 c.p.p. Pertanto, in tale ipotesi la competenza per territorio è attribuita ai sensi dell’art. 25 c.p.c. secondo la regola del forum commissi delicti, sicché spetta in ogni caso al Tribunale di Roma, quale foro del luogo in cui è sorta l’obbligazione.

3.3. Il foro del consumatore.

L’art. 33, comma 2, lett. u), del d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206 individua nel luogo di residenza del consumatore il foro esclusivo delle controversie tra consumatore e professionista. In proposito Sez. 6-3, n. 11389/2018, Positano, Rv. 648917-01, ha ribadito che la residenza cui la norma ha riguardo è quella che il consumatore ha al momento della domanda e non quella che egli aveva al momento della conclusione del contratto. Tuttavia, ai fini dell’individuazione della stessa incide l’accertamento, devoluto al solo giudice del merito, del carattere fittizio dello spostamento di residenza del consumatore, compiuto per sottrarsi al radicamento della controversia, nonché quello relativo all’eventuale non coincidenza della residenza anagrafica con quella effettiva. Tale principio è stato affermato dalla Corte in un caso nel quale la presunzione di residenza derivante dai dati anagrafici risultava superata sulla base di elementi obiettivi, tra cui il luogo ove risultava avere sede lo studio professionale del difensore incaricato di curare la fase precontenziosa e contenziosa della lite.

Tale criterio opera anche nell’ipotesi di morte del consumatore dal momento che tale qualità – ai fini della determinazione della competenza per territorio – si trasmette agli eredi, non venendo meno, per effetto del decesso, né il rapporto di consumo, né le ragioni del peculiare regime di tutela ad esso correlato. Per tali ragioni, Sez. 6-2, n. 18579/2018, Oricchio, Rv. 649657-01, ha statuito che in caso di morte del consumatore, il relativo foro di cui all’art. 33, comma 2, lett. u), del d.lgs. n. 206 del 2005 deve essere individuato sulla base del luogo di residenza o domicilio dei successori universali del defunto.

Si è altresì precisato che il foro del consumatore è esclusivo ed inderogabile, a meno che il professionista non dimostri che la clausola di deroga in favore di altri fori sia stata oggetto di trattativa individuale tra le parti. In applicazione di tale principio, Sez. 6-2, n. 01951/2018, Picaroni, Rv. 647976-01, ha escluso che, in ipotesi di contratto concluso in forma orale, la mancata proposizione dell’eccezione di incompetenza territoriale da parte del consumatore e la sua mancata presa di posizione di fronte al rilievo officioso dell’incompetenza del foro adìto da parte del giudice potessero avere un valore equipollente al patto di deroga e alla trattativa individuale.

Più in generale Sez. 6-3, n. 33163/2018, Positano, Rv. 652089-01, ha statuito che la disciplina di tutela del consumatore posta dagli artt. 33 e ss. del d.lgs. n. 206 del 2005 prescinde dal tipo contrattuale prescelto dalle parti e dalla natura della prestazione oggetto del contratto, trovando applicazione, sia in caso di predisposizione di moduli o formulari in vista dell’utilizzazione per una serie indefinita di rapporti, che di contratto singolarmente predisposto per lo specifico affare. L’art. 33, lett. t), del citato decreto, nello stabilire che si presumono vessatorie fino a prova contraria le clausole che sanciscono a carico del consumatore deroghe alla competenza dell’autorità giudiziaria, trova applicazione anche con riferimento alla clausola compromissoria.

3.4. Convenzione di deroga della competenza per territorio.

In materia è stato riaffermato il principio (già espresso da Sez. 6-2, n. 18707/2014, Giusti, Rv. 633035-01) secondo il quale la designazione convenzionale di un foro territoriale, anche nell’ipotesi in cui coincida con uno di quelli previsti dalla legge, assume carattere di esclusività solo in caso di pattuizione espressa, la quale, pur non dovendo rivestire formule sacramentali, non può essere desunta in via di argomentazione logica da elementi presuntivi, ma deve risultare da una inequivoca e concorde manifestazione di volontà delle parti volta ad escludere la competenza degli altri fori previsti dalla legge (Sez. 6-3, n. 01838/2018, Graziosi, Rv. 647575-01).

Con riguardo all’ambito entro il quale la competenza territoriale stabilita dalla legge può essere derogata dalle parti, Sez. 6-3, n. 05684/2018, Graziosi, Rv. 648284-01, ha affermato che il rapporto tra il concessionario di un impianto di distribuzione di carburanti ed il terzo cui viene affidata la gestione dell’impianto, con comodato delle attrezzature e con patto di fornitura del carburante, integra un contratto atipico ma pur sempre unitario, risultante dalla commistione di elementi del comodato e della somministrazione. Conseguentemente, non sussiste la competenza funzionale di cui agli artt. 21 e 447 bis c.p.c. prevista per il contratto di comodato e le parti possono convenzionalmente individuare il foro competente a dirimere le relative controversie.

Più in generale, Sez. 6-3, n. 19714/2018, Scrima, Rv. 650285-01 ha chiarito che le modificazioni della competenza per ragioni di connessione non sono precluse nelle ipotesi di foro stabilito dalle parti, trattandosi di foro di origine pattizia e non legale, il quale dà luogo a un’ipotesi di competenza derogata, e non inderogabile, anche quando sia stabilito come esclusivo (art. 29 c.p.c.). In applicazione di tale principio, la Corte, sulla premessa dell’irrilevanza, ai fini dell’art. 32 c.p.c., della distinzione tra garanzia propria e impropria, ha accolto il ricorso per regolamento necessario di competenza avverso l’ordinanza del tribunale che aveva declinato la propria competenza territoriale, con riguardo a una domanda di manleva, in considerazione delle clausole convenzionali di foro esclusivo contenute nei contratti stipulati dal convenuto con i terzi chiamati in causa.

4. Eccezione di incompetenza.

In numerose decisioni la Corte ha precisato modalità e termini per la proposizione della eccezione di incompetenza, soffermandosi, in particolare, sulla necessità di una specifica contestazione di tutti i cd. fori concorrenti in tema di obbligazione ai fini di una completa formulazione dell’eccezione di incompetenza territoriale. In particolare, occorre considerare Sez. 6-3, n. 06380/2018, Scrima, Rv. 648441-01, la quale, in caso di eccezione di incompetenza territoriale sollevata con riguardo a persona fisica, ha ribadito il principio secondo cui la mancata contestazione nella comparsa di risposta della sussistenza di entrambi i criteri di collegamento indicati dall’art. 18, comma 1, c.p.c. (cioè, sia della residenza che del domicilio) comporta l’incompletezza dell’eccezione, rilevabile d’ufficio anche in sede di regolamento di competenza, sicché l’eccezione deve ritenersi come non proposta, con radicamento della competenza del giudice adito.

Analogo esito si ha nel caso in cui l’eccezione sia sollevata con riguardo ad una persona giuridica, come chiarito da Sez. 6-2, n. 20597/2018, Falaschi, Rv. 650350-01, e non sia contestata nella comparsa di risposta la sussistenza del criterio di collegamento indicato dall’art. 19, comma 1, ultima parte, c.p.c. (cioè dell’inesistenza, nel luogo di competenza del giudice adito, di uno stabilimento e di un rappresentante autorizzato a stare in giudizio con riferimento all’oggetto della domanda).

Nell’ipotesi di competenza territoriale derogabile, per la quale sussistano più criteri concorrenti, come in materia di diritti di obbligazione, Sez. 6-2, n. 17311/2018, Falaschi, Rv. 649456-01, ha ribadito che grava sul convenuto che eccepisce l’incompetenza del giudice adito (trattandosi di eccezione in senso proprio) l’onere di contestare specificamente l’applicabilità di ciascuno dei suddetti criteri e di fornire la prova delle circostanze di fatto dedotte a sostegno di tale contestazione. In mancanza, l’eccezione deve essere rigettata, restando, per l’effetto, definitivamente fissato il collegamento indicato dall’attore, con correlata competenza del giudice adito.

Diversa è invece l’ipotesi in cui la parte eccepisca l’incompetenza territoriale del giudice invocando l’operatività di un foro convenzionale esclusivo. In tal caso, infatti, la stessa non è tenuta a contestare ulteriormente tutti i fori alternativamente concorrenti in materia di obbligazioni contrattuali, in quanto la pattuizione di un foro esclusivo ha proprio l’effetto di eliminare il concorso degli altri fori previsti dalla legge, i quali restano perciò inoperanti nei confronti delle controversie scaturenti dal contratto che contenga detta pattuizione (Sez. 6-1, n. 15958/2018, Terrusi, Rv. 649544-02).

Quanto ai termini entro i quali deve essere sollevata l’eccezione di incompetenza territoriale inderogabile ai sensi dell’art. 38 c.p.c., nel testo sostituito dalla l. n. 69 del 2009, Sez. 6-3, n. 06734/2018, Dell’Utri, Rv. 648492-01, ha ribadito il principio secondo il quale, ove il convenuto abbia proposto detta eccezione nella comparsa di risposta depositata direttamente all’udienza di prima comparizione, ai sensi dell’art. 183 c.p.c., anziché nel termine di cui all’art. 166 c.p.c. e, dunque, tardivamente, il potere di rilevazione ufficioso della stessa eccezione, o di una diversa eccezione di incompetenza territoriale inderogabile, deve essere esercitato necessariamente ed espressamente dal giudice nella detta udienza, restando, in mancanza, la competenza radicata avanti al giudice adìto.

La possibilità di eccepire o rilevare d’ufficio l’incompetenza erariale senza limiti di tempo prevista dall’art. 9 del r.d. 30 ottobre 1933, n. 1611, deve ritenersi tacitamente abrogata dall’art. 38 c.p.c. (così come modificato dalla l. 26 novembre 1990, n. 353 e dalla l. 18 giugno 2009, n. 69). A tale conclusione Sez. 6-3, n. 20493/2018, Olivieri, Rv. 650479-01, è pervenuta attraverso una interpretazione della norma compatibile con il regime generale sancito dalla citata norma speciale e conforme ai principi espressi dagli artt. 24 e 111 Cost., con la conseguenza che la questione di incompetenza ai sensi dell’art. 25 c.p.c. deve essere rilevata d’ufficio non oltre la prima udienza di trattazione.

5. Rilievo d’ufficio dell’incompetenza.

Nell’ipotesi in cui il convenuto proponga tardivamente un’eccezione di incompetenza per materia o per territorio inderogabile o per valore, secondo il regime dell’art. 38 c.p.c. ed il giudice, senza avvedersi della tardività, la reputi infondata con un’ordinanza ex art. 187, comma 3, c.p.c., non preceduta da invito a precisare le conclusioni (nel rito ordinario) o da invito alla discussione (nel rito del lavoro ed assimilati), e dunque non impugnabile ai sensi dell’art. 42 c.p.c., egli non può successivamente in sede decisoria riesaminare la questione e dichiarare l’incompetenza, ostandovi la tardività dell’eccezione di parte; né tale potere gli si potrebbe riconoscere sulla base della rilevabilità d’ufficio dell’incompetenza nei casi di cui all’art. 38, comma 3, c.p.c., in quanto la delibazione di infondatezza della relativa eccezione di parte, compiuta nella udienza di trattazione, ne ha determinato la definitiva preclusione, nonostante il disposto mutamento dell’originario rito locatizio in rito ordinario (Sez. 6-3, n. 07339/2018, Frasca, Rv. 648493-01).

Nel caso di opposizione a precetto proposta davanti al giudice di pace, Sez. 6-3, n. 11816/2018, Frasca, Rv. 649022-01 ha affermato che il rilievo dell’incompetenza per materia – sia d’ufficio sia ad istanza dell’opposto per essere l’opposizione riconducibile alla competenza del tribunale ex art. 617 c.p.c. – deve avvenire alla prima udienza di effettiva trattazione in applicazione dell’art. 38 c.p.c., con gli adattamenti richiesti dalle forme del giudizio davanti al giudice di pace; una volta verificatasi la preclusione, l’incompetenza non può essere rilevata d’ufficio dal giudice nella sentenza anche se qualifichi l’opposizione ai sensi dell’art. 617 c.p.c. e neppure dalla parte opposta con un motivo di ricorso per cassazione avverso la medesima sentenza.

6. Regolamento di competenza.

La Corte è intervenuta ripetutamente a definire ambito e presupposti di tale mezzo di impugnazione.

In particolare, ha precisato che la proposizione del regolamento di competenza deve essere necessariamente sorretta dall’interesse all’impugnazione così che è inammissibile il regolamento esperito dalla parte all’esito di un giudizio risolto nel merito in suo favore, contro il rigetto dell’eccezione di incompetenza da essa proposta. Nella fattispecie esaminata da Sez. 6-2, n. 20679/2018, Oricchio, Rv. 650078-01, il giudice di primo grado, sebbene avesse rigettato l’eccezione di incompetenza territoriale spiegata dalla ricorrente, ne aveva accolto, nel merito, l’opposizione a decreto ingiuntivo.

In ordine alla individuazione dei provvedimenti avverso i quali è proponibile il mezzo di impugnazione in esame, Sez. 6-3, n. 10540/2018, Olivieri, Rv. 648767-01, ha ritenuto che è inammissibile il ricorso per regolamento di competenza avverso un provvedimento emesso su istanza di sospensione dell’esecuzione della sentenza impugnata per cassazione ex art. 373 c.p.c., trattandosi di atto di natura ordinatoria, privo di definitività e decisorietà, e costituendo la pronuncia ivi contenuta un’affermazione o negazione di competenza preliminare e strumentale alla decisione di merito.

Sempre in ragione della mancanza di natura decisoria, affermativa o negativa, sulla competenza, Sez. 6-L, n. 03150/2018, Esposito, Rv. 646760-01, ha escluso la proponibilità del regolamento di competenza in relazione all’ordinanza istruttoria con la quale il giudice detta i provvedimenti relativi alla istruzione della causa, essendo tale mezzo non utilizzabile, in assenza di un provvedimento decisorio impugnabile, al fine di ottenere una pronuncia preventiva su di essa.

L’ordinanza di rigetto dell’istanza di ricusazione del giudice, a norma dell’art. 53 c.p.c., invece, pur avendo natura decisoria, non è impugnabile con regolamento di competenza poiché non contiene né una statuizione sulla competenza, né un provvedimento di sospensione del giudizio, avendo ad oggetto esclusivamente la sostituzione della persona fisica del giudice nell’ambito del medesimo ufficio giudiziario. Inoltre, tale decisione difetta di definitività essendo suscettibile di riesame nel corso del processo in quanto il vizio causato dall’incompatibilità del giudice ricusato può convertirsi in motivo di nullità della sentenza da far valere in appello. È quanto statuito da Sez. 6-1, n. 02690/2018, Mercolino, Rv. 647335-01.

È stato dichiarato inammissibile il regolamento di competenza proposto per violazione dell’art. 50-bis c.p.c. in quanto tale norma, nello stabilire quando il tribunale debba decidere in composizione collegiale, non attiene alla competenza, ma alla ripartizione degli affari all’interno del tribunale medesimo (Sez. 6-2, n. 11716/2018, Abete, Rv. 648377-01).

Analogamente, Sez. 6-3, n. 16163/2018, Rubino, Rv. 649431-01, ha affermato l’inammissibilità del regolamento di competenza attraverso il quale si contesti la violazione della ripartizione delle cause tra le varie sezioni di un tribunale dal momento che, secondo il consolidato orientamento della S.C., essa costituisce una distribuzione degli affari tra le articolazioni appartenenti ad un unico ufficio prevista per ragioni di organizzazione interna e non può mai dare luogo a questioni di competenza così che, ove ne siano stati violati i criteri, va disposta la trasmissione degli atti al Presidente del tribunale affinché provveda, con decreto non impugnabile, ai sensi dell’art. 83 ter disp. att. c.p.c.

Infine, Sez. 6-L, n. 23062/2018, Esposito, Rv. 650901-01, ha ribadito che la decisione con la quale il giudice di pace statuisca sulla propria competenza, ove non abbia natura meramente interlocutoria, ma costituisca una vera e propria sentenza, non è impugnabile col regolamento di competenza, ma può soltanto essere appellata, nei limiti e secondo le previsioni di cui all’art. 339 c.p.c.

Per altro verso, Sez. 6, n. 20826/2018, Vincenti, Rv. 650489-01, ha chiarito che in sede di regolamento di competenza non è consentito proporre ricorso incidentale, sicché l’intimato che voglia a propria volta contestare la competenza del giudice originariamente adito è tenuto a proporre un autonomo regolamento di competenza nel termine di cui all’art. 47, comma 2, c.p.c., il cui mancato rispetto preclude comunque ogni possibilità di conversione del ricorso incidentale in regolamento di competenza autonomo.

6.1. Il procedimento.

Dando seguito all’orientamento già espresso da Sez. 6-3, n. 25891/2010, Frasca, Rv. 615241-01, Sez. 6-3, n. 06380/2018, Scrima, Rv. 648441-02, ha stabilito che il disposto di cui all’art. 47, comma 5, c.p.c., per il quale le parti cui è stato notificato il ricorso per regolamento di competenza possono depositare in cancelleria, nei venti giorni successivi, scritture difensive, consente di considerare tale il controricorso. Inoltre, detto termine ha carattere ordinatorio e, pertanto, in difetto di opposizione della controparte, la scrittura difensiva depositata tardivamente può essere presa in considerazione anche agli effetti delle spese processuali.

Quanto ai termini per proporre l’istanza di regolamento di competenza ai sensi dell’art. 47, comma 2, c.p.c., Sez. 6-2, n. 01471/2018, Criscuolo, Rv. 647349-01, ha confermato l’orientamento per il quale gli stessi decorrono dalla comunicazione della decisione che, sebbene in forma di ordinanza, abbia pronunciato sulla competenza, salvo che il provvedimento non sia stato pronunciato in udienza, poiché in tal caso esso si considera legalmente conosciuto dal momento in cui è emesso e il termine per proporre regolamento di competenza decorre da quella medesima data.

Sez. 6, n. 06174/2018, Picaroni, Rv. 648218-01, ha precisato che in sede di regolamento di competenza possono essere contestate soltanto l’affermazione e l’applicazione di principi giuridici, sicché le questioni prospettate sotto il profilo del vizio di motivazione non possono essere esaminate.

6.2. Regolamento di competenza necessario.

Come noto, il regolamento di competenza è definito “necessario” quando è l’unico mezzo di impugnazione esperibile, situazione che ricorre rispetto ai provvedimenti che decidano esclusivamente sulla competenza e non anche sul merito. In proposito, Sez. 6, n. 15958/2018, Terrusi, Rv. 649544-01, ha ribadito il consolidato indirizzo interpretativo per il quale, ad eccezione delle sentenze del giudice di pace, tali provvedimenti devono essere impugnati con istanza di regolamento di competenza e che tale caratteristica non viene meno se il giudice esamini anche questioni pregiudiziali di rito o preliminari merito, purché l’estensione sia strumentale alla pronunzia sulla questione di competenza.

Ai fini dell’individuazione del mezzo di impugnazione esperibile, è stato precisato che la sentenza di primo grado che abbia dichiarato la nullità del decreto ingiuntivo opposto in quanto emesso da giudice territorialmente incompetente, ha natura di decisione esclusivamente sulla competenza, atteso che la dichiarazione di nullità del provvedimento monitorio consegue necessariamente all’incompetenza del giudice adito (Sez. 6-3, n. 16089/2018, Graziosi, Rv. 649430-01).

Può essere impugnata solo con regolamento di competenza anche la decisione del tribunale declinatoria della propria competenza a favore degli arbitri rituali, poiché l’attività di questi ultimi ha natura giurisdizionale e sostitutiva della funzione del giudice ordinario (Sez. 2, n. 21336/2018, Casadonte, Rv. 650034-01, la quale ha di conseguenza dichiarato inammissibile l’appello proposto avverso tale pronuncia).

Sez. 6-3, n. 08172/2018, Frasca, Rv. 648765-01 ha affermato che la competenza sull’esecuzione ai sensi dell’art. 26, ed ora dell’art. 26 bis c.p.c., si inserisce nel sistema della competenza in generale e, dunque, esige la garanzia della possibilità del controllo immediato tramite il regolamento di competenza. Tale controllo, sulla base delle argomentazioni desumibili dall’art. 187 disp. att. c.p.c., si estrinseca in prima battuta, non già direttamente sul provvedimento del giudice dell’esecuzione negativo della propria competenza o affermativo di essa, bensì, essendo impugnabile tale provvedimento con l’opposizione ex art. 617 c.p.c., attraverso l’impugnazione con il regolamento di competenza necessario della pronuncia del giudice dell’opposizione agli atti esecutivi di accoglimento o di rigetto dell’opposizione agli atti e, quindi, rispettivamente, di dissenso dalla valutazione del giudice dell’esecuzione negativa o affermativa della propria competenza sull’esecuzione forzata oppure di condivisione di quella valutazione, dovendosi tanto la sentenza di accoglimento che di rigetto intendersi impugnabili ai sensi dell’art. 187 disp. att c.p.c., in quanto sentenze che decidono riguardo alla competenza sull’esecuzione forzata.

6.3. Regolamento di competenza d’ufficio.

In ordine all’ambito di applicazione della previsione contenuta nell’art. 45 c.p.c., Sez. U, n. 01202/2018, Manna A., Rv. 647312-01, ha statuito che è inammissibile il regolamento di competenza d’ufficio nel caso in cui il secondo giudice, adito a seguito della riassunzione, neghi di essere competente per materia e ritenga che la competenza sia regolata soltanto per valore, atteso che, in tale ipotesi, non essendovi alcun giudice competente per materia, l’eventuale decisione di accoglimento del regolamento da parte della Corte, ex art. 49, comma 2, c.p.c., produrrebbe nella sostanza il medesimo effetto di un regolamento di competenza d’ufficio ratione valoris non consentito dall’ordinamento, per insindacabile scelta di merito legislativo (tale principio è stato affermato nella fattispecie di una controversia, riassunta davanti alla sezione specializzata agraria del tribunale, a seguito di declinatoria di incompetenza adottata dal giudice di pace in una causa di opposizione a decreto ingiuntivo per pagamento di canoni enfiteutici sul rilievo, non condiviso dal Tribunale specializzato, della competenza ratione materiae di questo organo giudiziario).

Ancora, in tema di competenza territoriale derogabile, Sez. 6-3, n. 02081/2018, Scoditti, Rv. 648028-01, ha affermato che, se il provvedimento che dichiara l’incompetenza del giudice adìto non è impugnato con regolamento di competenza, il giudice davanti al quale la causa è riassunta non può richiederlo d’ufficio ai sensi dell’art. 45 c.p.c. e la competenza si radica, per il solo fatto processuale della riassunzione, presso il giudice ad quem; pertanto, il provvedimento con cui quest’ultimo erroneamente declina la propria competenza, per materia o per territorio se inderogabile, è a propria volta impugnabile con il regolamento di competenza, affinché la Corte di cassazione possa individuare il giudice competente e non per contestare la mancata instaurazione del conflitto ex art. 45 c.p.c.

È stata ritenuta ammissibile l’istanza di regolamento di competenza d’ufficio proposta avverso l’ordinanza con la quale un tribunale aveva dichiarato la sua incompetenza in favore della sezione specializzata in materia di impresa di altro ufficio giudiziario in relazione ad un giudizio concernente un contratto di appalto pubblico di lavori non avente rilevanza comunitaria perché non sottoposto al cd. codice degli appalti, nell’arco temporale di vigenza di quest’ultimo. A fondamento della decisione, Sez. 6-2, n. 31134/2018, Falaschi, Rv. 651794-01, ha affermato che, qualora una controversia rientrante fra quelle attribuite alla sezione specializzata in materia di impresa venga promossa non presso una sezione ordinaria del medesimo ufficio giudiziario nel quale è istituita, situazione che genererebbe un problema di ripartizione interna degli affari, ma dinanzi ad un differente tribunale, sorge una questione di competenza, con conseguente ammissibilità dell’istanza ex art. 45 c.p.c., poiché la legge riconosce a detta sezione specializzata una competenza per materia e territorio distinta e più ampia rispetto a quella del proprio ufficio di appartenenza, che rende il tribunale in concreto adito anche “territorialmente” errato.

In ordine al momento in cui il regolamento di competenza deve essere proposto, Sez. 6-3, n. 20488/2018, Olivieri, Rv. 650298-01 ha precisato che il giudice, indicato come competente da quello originariamente adito ed innanzi al quale la causa sia stata riassunta, può rilevare, a sua volta, la propria incompetenza non oltre la prima udienza di trattazione, essendogli altrimenti preclusa la possibilità di elevare il conflitto, senza che rilevi che una delle parti abbia riproposto eccezione di incompetenza nel giudizio di riassunzione, posto che la parte che dissente dalla declaratoria di incompetenza pronunciata dal giudice a quo non ha altro potere che quello di impugnarla.

Analogamente, Sez. 6-3, n. 21944/2018, Sestini, Rv. 650614-01 ha dichiarato inammissibile il conflitto di competenza elevato dal giudice dopo la prima udienza di trattazione, quando egli ha già concesso alle parti i termini di cui all’art. 183, comma 6, c.p.c.

È possibile che il regolamento di competenza d’ufficio sia prospettato oltre la prima udienza di trattazione nell’ipotesi in cui il giudice debba svolgere attività processuali, come assumere sommarie informazioni, strettamente funzionali alla valutazione sul se elevare il conflitto, nel qual caso la richiesta del regolamento deve seguire senza soluzione di continuità le dette attività processuali. In conformità a tale regola, Sez. 6-3, n. 20445/2018, Scoditti, Rv. 650296-01 ha ritenuto inammissibile il regolamento di competenza elevato d’ufficio dal giudice il quale, dopo avere rilevato la questione all’udienza ex art. 183 c.p.c., aveva differito a un momento successivo la relativa richiesta, disponendo una serie di rinvii finalizzati ad acquisire il fascicolo d’ufficio e la CTU espletata presso il giudice a quo, non esplicitamente motivati come strettamente funzionali all’elevazione del conflitto.

  • giurisdizione civile
  • interesse ad agire

CAPITOLO VII

LE DISPOZIONI GENERALI

(di Laura Mancini )

Sommario

1 Il giudice. Astensione e ricusazione. - 2 Ausiliari. - 2.1 Il diritto al compenso. - 2.2 L’opposizione avverso il decreto di liquidazione del compenso degli ausiliari. - 3 Litispendenza e continenza. - 4 Le parti ed i difensori. - 5 Successione nel processo. - 6 Successione nel diritto controverso. - 7 L’interesse ad agire. - 8 La legittimazione ad agire. - 9 I termini. - 9.1 La rimessione in termini. - 10 Le notificazioni. - 11 Processo civile telematico. Rinvio.

1. Il giudice. Astensione e ricusazione.

Connotato indefettibile del giusto processo è l’imparzialità del giudice per la realizzazione della quale, nel processo civile, sono disciplinati gli istituti dell’astensione e della ricusazione.

Nella recente elaborazione della Corte occorre in primo luogo considerare Sez. 2, n. 27923/2018, Scarpa, Rv. 651462-02, la quale ha chiarito che, ai fini della configurabilità dell’obbligo del giudice di astenersi, ai sensi dell’art. 51, n. 3, c.p.c., la “grave inimicizia” del componente di un Consiglio dell’Ordine (nella specie dei medici e degli odontoiatri) nei confronti di un incolpato deve essere reciproca e, pertanto, non è sufficiente ad integrarla la mera presentazione di una denuncia o, comunque, di un atto di impulso idoneo a dare inizio ad un procedimento giudiziale, né può, in linea di principio, originare dall’attività consiliare del componente stesso per questioni inerenti all’esercizio della professione, ma deve riferirsi a ragioni private di rancore o di avversione sorte nell’ambito di rapporti estranei ai compiti istituzionali.

In materia di ricusazione, poi, la Corte, ponendosi in linea di continuità con l’elaborazione degli anni precedenti, ha ribadito il principio (già affermato da Sez. 6-3, n. 21094/2017, Dell’Utri, Rv. 645706-01) per il quale, in difetto della relativa istanza, non è deducibile come motivo di nullità della sentenza una circostanza integrante motivo di astensione del giudice (Sez. 1, n. 27924/2018, Acierno, Rv. 651123-01).

Sempre con riferimento alla ricusazione del giudice, Sez. 6-1, n. 02690/2018, Mercolino, Rv. 647335-01, ha affermato che l’ordinanza di rigetto della relativa istanza, a norma dell’art. 53 c.p.c., non è impugnabile con regolamento di competenza poiché, pur avendo natura decisoria, non contiene né una statuizione sulla competenza, né un provvedimento di sospensione del giudizio, avendo ad oggetto esclusivamente la sostituzione della persona fisica del giudice nell’ambito del medesimo ufficio giudiziario, precisando, al contempo, in continuità con un risalente orientamento (Sez. 3, n. 15780/2006, Finocchiaro, Rv. 592281-01), che tale decisione difetta di definitività, essendo suscettibile di riesame nel corso del processo in quanto il vizio causato dall’incompatibilità del giudice ricusato può convertirsi in motivo di nullità della sentenza da far valere in appello.

2. Ausiliari.

Nell’anno in rassegna la Corte ha in più occasioni rimarcato la natura pubblicistica del rapporto che si instaura tra l’amministrazione giudiziaria e il custode, derivante dal fatto che esso trae origine da un atto processuale di attribuzione di un ufficio.

Da tale premessa sono state tratte conseguenze applicative in relazione a diversi profili della disciplina degli ausiliari del giudice.

In particolare, con riferimento: a) alla determinazione del compenso che, secondo Sez. 2, n. 17375/2018, Fortunato, Rv. 649348-01, non è affidata alla contrattazione, ma è prerogativa dell’autorità giudiziaria, la quale non è vincolata ad eventuali accordi tra l’amministratore e le parti private; b) al corso della prescrizione che, secondo Sez. 2, n. 22362/2018, Picaroni, Rv. 650321-01, è decennale e decorre da ogni singolo giorno, a meno che nel provvedimento di conferimento sia stabilita una determinata periodicità nella corresponsione del compenso, dovendosi in tal caso, ritenere configurabile una prestazione periodica, con conseguente applicazione del termine quinquennale di cui all’art. 2948, n. 4, c.c.; c) alle spese di custodia, avendo Sez. 2, n. 22362/2018, Picaroni, Rv. 650321-02 chiarito che, in caso di custodia di beni oggetto di sequestro penale, dopo la scadenza del termine di trenta giorni dalla comunicazione del provvedimento di dissequestro e di restituzione del bene all’avente diritto, il carattere pubblico della funzione del custode e il connesso onere di anticipazione delle spese di conservazione e custodia a carico dello Stato vengono meno, così che la relativa indennità è dovuta dal soggetto indicato nel summenzionato provvedimento che non abbia provveduto al tempestivo ritiro del bene. Inoltre, ai fini della cessazione del rapporto pubblicistico, non è necessaria la comunicazione al custode del provvedimento di restituzione, poiché tanto l’abrogato art. 84, comma 2, disp. att. c.p.p., applicabile ratione temporis nella fattispecie esaminata, quanto il successivo art. 150, comma 4, del d.P.R. n. 115 del 2002 collegano l’estinzione dell’obbligo di anticipazione dell’erario alla comunicazione di tale provvedimento al solo avente diritto.

2.1. Il diritto al compenso.

Numerose sono le pronunce sul compenso spettante agli ausiliari del giudice registratesi nell’anno in rassegna.

È stato, innanzitutto, confermato il principio (per il quale si veda già Sez. 2, n. 23133/2015, Bianchini, Rv. 637277-01) secondo il quale l’obbligo di pagare il compenso per la prestazione eseguita dal consulente tecnico d’ufficio ha natura solidale per essere la sua attività finalizzata all’interesse comune di tutte le parti (Sez. 6-2, n. 03239/2018, Criscuolo, Rv. 647979-01), precisandosi che nei rapporti interni tra i condebitori vi è solo una presunzione di eguaglianza che fa salva la possibilità di individuare un diverso criterio di riparto delle quote dell’obbligazione solidale (nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di appello che in un giudizio di divisione ereditaria aveva ripartito l’obbligo di pagamento del compenso nei rapporti interni tra i condividenti in misura proporzionale alle rispettive partecipazioni alla massa comune).

Per quanto riguarda la liquidazione, Sez. 2, n. 14292/2018, Bellini, Rv. 648838-02, ha chiarito che, ai fini della determinazione del compenso al consulente tecnico, l’unicità o la pluralità degli incarichi dipende dall’unicità o dalla pluralità degli accertamenti e delle indagini tecnico-peritali, a prescindere dalla pluralità delle domande, delle attività e delle risposte, definibili unitarie o plurime soltanto in ragione della loro autonomia ed autosufficienza e, pertanto, dell’interdipendenza delle indagini che connota l’unitarietà dell’incarico e dell’onorario, confermando la decisione che aveva ritenuto unitario l’incarico avente ad oggetto l’analisi dei bilanci e della documentazione contabile-amministrativa di due società, indagine che, benché svolta da diverse e multiformi prospettive, non implicava per ciascuna di esse la liquidazione di un compenso autonomo, non potendosi riconoscere corrispettivi ulteriori per ogni quesito concernente il medesimo bilancio.

Con specifico riferimento ai criteri di liquidazione degli onorari degli ausiliari del giudice normativamente previsti, Sez. 2, n. 14292/2018, Bellini, Rv. 648838-01, ha escluso che essi si pongano in contrasto con l’art. 36 Cost., non essendo tale norma utilizzabile quale parametro di determinazione del compenso in ragione del carattere occasionale dell’attività dei consulenti di ufficio, insuscettibile di controllo con la retribuzione, e della natura pubblicistica dell’incarico conferito che impedisce di considerarli come semplici lavoratori.

Di interesse è anche Sez. 2, 08538/2018, Dongiacomo, Rv. 648011-01, che ha ammesso il ricorso al criterio equitativo nel caso di liquidazione del compenso all’amministratore-custode di beni sottoposti a sequestro preventivo nell’ambito di un procedimento penale, ove l’incarico si sia esaurito o si sia comunque concluso in epoca antecedente all’entrata in vigore delle tabelle professionali approvate in attuazione dell’art. 8 del d.lgs. 4 febbraio 2010, n. 14, con il d.P.R. 7 ottobre 2015, n. 177.

Occorre, inoltre, segnalare Sez. 2, n. 27914/2018, Scarpa, Rv. 651176-01, la quale ha chiarito che in caso di affidamento al c.t.u. di un incarico unitario per la stima di un bene complesso come l’azienda, il compenso deve essere liquidato sulla base del disposto di cui all’art. 3 del d.m. 30 maggio 2002 (relativo a perizia o consulenza tecnica in materia di valutazione di patrimoni), e non secondo criteri corrispondenti a ciascuno dei singoli beni che compongono l’azienda stessa, alla stregua degli artt. 11 e 13 del medesimo d.m., poiché, nella valutazione dei patrimoni, l’unicità dell’incarico e, di conseguenza, del compenso, non è esclusa dalla pluralità delle verifiche.

Va, infine, evidenziato che nell’anno in rassegna è stato nuovamente applicato il principio espresso da Sez. 6-2, n. 18331/2015, D’Ascola, Rv. 636792-01, secondo il quale, in caso di perizia depositata dopo la scadenza del termine concesso dal giudice, è legittima, ove non sia possibile l’individuazione della parte di incarico svolta tempestivamente, la riduzione di un terzo dell’onorario ai sensi dell’art. 52, ultima parte, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, dovendosi ritenere che l’esclusione del compenso per “il periodo successivo alla scadenza del termine”, prevista dalla suddetta norma, osti al riconoscimento di vacazioni computabili oltre il numero massimo calcolabile per i giorni compresi nel termine fissato, ma non consenta di acquisire la prestazione senza remunerazione, determinandosi, diversamente, una sanzione diversa per due situazioni identiche, quali la riduzione di solo un terzo per gli onorari a tariffa variabile e la cancellazione del compenso per gli onorari a tempo di prestazioni comunque validamente effettuate dopo la scadenza, che abbiano portato non alla revoca dell’incarico, ma all’acquisizione della relazione (Sez. 6-2, n. 22158 2018, Criscuolo, Rv. 650943-01).

2.2. L’opposizione avverso il decreto di liquidazione del compenso degli ausiliari.

In materia di opposizione avverso il decreto di liquidazione del compenso, Sez. 2, n. 1470/2018, Criscuolo M., Rv. 647379-01, ha chiarito che il ricorso introduttivo di tale giudizio, nel regime introdotto dall’art. 170 del d.P.R. n. 115 del 2002, come già nella vigenza della l. 8 luglio 1980, n. 319, non è un atto di impugnazione, ma l’atto introduttivo di un procedimento contenzioso nel quale il giudice adito ha il potere-dovere di verificare la correttezza della liquidazione in base ai criteri legali a prescindere dalle prospettazioni dell’istante con il solo obbligo di non superare la somma richiesta, in applicazione dell’art. 112 c.p.c. e di regolare le spese secondo il principio della soccombenza.

È stato, inoltre, precisato che il provvedimento del magistrato con cui viene liquidato all’ausiliario un acconto non è autonomamente impugnabile, mancando nel d.P.R. n. 115 del 2002 previsioni circa il controllo di tale statuizione ed avendo la stessa ad oggetto una mera anticipazione di carattere provvisorio e, quindi, modificabile con ulteriori provvedimenti di acconto e con quello di liquidazione finale (Sez. 2, n. 15509/2018, Orilia, Rv. 649175-01).

Con specifico riferimento all’opposizione avverso il provvedimento di liquidazione dei compensi al perito nominato in un giudizio penale, la Corte, in continuità con il principio, già affermato da Sez. 2, n. 04739/2011, Giusti, Rv. 616721-01, ha ribadito che l’avviso dell’udienza camerale deve essere notificato anche all’imputato, parte del processo al quale l’attività dell’ausiliario è riferita, e al suo difensore, posto che il maggiore onere derivante dalla richiesta di riforma del provvedimento impugnato ha una ricaduta nei suoi confronti, sicché, in difetto di tale adempimento il provvedimento emesso in camera di consiglio è nullo per violazione del principio del contraddittorio (Sez. 2, n. 08221/2018, Besso Marcheis, Rv. 647873-01), precisando, tuttavia, che se il procedimento si trova in una fase in cui sussista il segreto sugli atti di indagine o sull’iscrizione della notizia di reato, il decreto, pur comunicato al beneficiario e provvisoriamente esecutivo non può essere opposto ai sensi dell’art. 170 del d.P.R. n. 115 del 2002, occorrendo a tal fine che il segreto cessi, in modo tale che il relativo ricorso di opposizione possa essere notificato, oltre che al Ministero della Giustizia e al Pubblico Ministero, anche all’indagato o all’imputato (Sez. 2, n. 09102/2018, Dongiacomo, Rv. 648080-01).

Sempre in materia di opposizione avverso il provvedimento di liquidazione emesso in seno al procedimento penale, Sez. 2, n. 22030/2018, Orilia, Rv. 650072-01, ha affermato che il termine di cento giorni entro cui l’ausiliario deve presentare, a pena di decadenza ai sensi dell’art. 71 del d.P.R. n. 115 del 2002, la domanda di liquidazione del compenso, decorre dalla data di deposito della relazione.

3. Litispendenza e continenza.

Si ha litispendenza quando tra più cause vi è identità dei soggetti, del petitum e della causa petendi. Ne deriva che la stessa non è configurabile tra una causa di manleva, proposta dai soggetti convenuti in via di regresso dall’INAIL, contro la società assicuratrice della responsabilità civile, e la causa di manleva, pendente dinanzi ad altro giudice, proposta contro la stessa società assicuratrice dagli stessi soggetti convenuti in un giudizio introdotto dal lavoratore infortunato, già indennizzato dall’INAIL, per il risarcimento del cd. danno differenziale, posto che le due domande di manleva hanno un petitum e una causa petendi diversi (Sez. 6-L, n. 03152/2018, Ghinoy, Rv. 646761-01).

Allo stesso modo, in caso di contemporanea pendenza di un giudizio di opposizione all’esecuzione minacciata o promossa per la realizzazione di un determinato diritto e di altro giudizio di accertamento del medesimo diritto tra le stesse parti, deve escludersi una situazione di litispendenza (o eventualmente di continenza) allorché l’opposizione all’esecuzione riguardi il profilo strettamente processuale della promovibilità dell’esecuzione forzata, essendo in tal caso diverse le rispettive causae petendi, rispettivamente ravvisabili nel rapporto giuridico da cui sorge il diritto di credito per il cui accertamento è stata proposta la domanda introduttiva del giudizio di cognizione e nell’insussistenza delle condizioni che determinano la soggezione del debitore all’azione esecutiva (Sez. 2, n. 10511/2018, Criscuolo, Rv. 648393-01).

La litispendenza non viene meno, secondo Sez. 3-6, n. 3306/2018, Cirillo F. M., Rv. 650424-01, per il fatto che in una delle cause vi sia la presenza anche di altre parti.

Nell’anno in rassegna ha ottenuto ulteriore conferma il principio (enunciato da Sez. U, n. 27846/2013, Petitti, Rv. 628456-01 e ribadito da Sez. 6-1, n. 19056/2017, Marulli, Rv. n. 64568401) per il quale, ove la stessa causa venga proposta davanti a giudici diversi, quello successivamente adito è tenuto a dichiarare la litispendenza, anche se la controversia iniziata in precedenza sia stata già decisa in primo grado e penda davanti al giudice dell’impugnazione, senza che sia possibile la sospensione del processo instaurato per secondo, ai sensi dell’art. 295 c.p.c. o dell’art. 337, comma 2, c.p.c., a ciò ostando l’identità delle domande formulate nei due diversi giudizi (Sez. 6-3, n. 15981/2018, Olivieri, Rv. 649429-01).

Quanto, invece, alla litispendenza internazionale, la S.C. ha ribadito che tale istituto postula l’identità di cause sul piano oggettivo, così che deve ritenersi esclusa tra la domanda la domanda di risarcimento del danno patrimoniale da fatto illecito proposta dinanzi al giudice straniero e la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale derivato dal medesimo fatto illecito proposta davanti al giudice italiano (Sez. 3, n. 20841/2018, Rossetti, Rv. 650424-02), ed è stato, altresì, chiarito che non può essere dichiarata la litispendenza internazionale ai sensi dell’art. 27 del Regolamento (CE) n. 44/2001 del Consiglio, del 22 dicembre 2000, quando il giudizio precedentemente introdotto dinanzi al giudice straniero si sia concluso prima che il giudice italiano abbia emesso la propria decisione la quale è vincolata alla sentenza straniera per le questioni da quella già decise e che dovessero venire in rilievo nella causa dinanzi a lui proposta (Sez. 2, n. 03846/2018, Matera, Rv. 647805-01).

4. Le parti ed i difensori.

Sulla legittimazione processuale in genere occorre segnalare Sez. 2, n. 03846/2018, Dongiacomo, Rv. 647805-01, la quale, ponendosi in continuità con l’elaborazione precedente (Sez. 2, n. 09319/2009, Oddo, Rv. 607664-01), ha ribadito che la parte del rapporto sostanziale controverso che sia stata rappresentata in giudizio da altri, non perde la propria legittimazione processuale. Di conseguenza, non spettando al rappresentante negoziale o processuale la qualità di parte sostanziale, non è nulla l’impugnazione proposta nei confronti del rappresentato, invece che solo, od anche, del suo rappresentante, che pure era stato, nel precedente grado, parte formale del procedimento in quanto fornito di procura generale notarile.

Numerose sono le pronunce in tema di ministero del difensore e di rappresentanza tecnica emesse nell’anno 2018.

Con specifico riguardo ai doveri e alle facoltà correlate all’esercizio del munus, vanno segnalate Sez. 6-3, n. 13797/2018, Vincenti, Rv. 649215-01, che, con riferimento al dovere di lealtà e probità di cui all’art. 89 c.p.c., ha ribadito, in linea con Sez. 3, n. 07119/2015, Cirillo F.M., Rv. 635193-01, che la speciale esimente di cui all’art. 598 c.p., con la quale il legislatore ha inteso garantire alle parti del processo e ai rispettivi difensori la più ampia libertà espressiva nell’esercizio del diritto di difesa, è subordinata alla duplice condizione che le espressioni offensive attengano in modo diretto e immediato all’oggetto della controversia ed abbiano rilevanza funzionale per le argomentazioni svolte a sostegno della tesi prospettata o per l’accoglimento della domanda proposta; e Sez. 6-3, n. 10546/2018, Vincenti, Rv. 648768-01, che, rispetto all’istanza di rinvio dell’udienza di discussione per grave impedimento del difensore ex art. 115 disp. att. c.p.c., in continuità con il principio già espresso da Sez. 6-3, n. 22094/2014, De Stefano, Rv. 632913-01, ha evidenziato l’essenzialità, ai fini del differimento, che l’istanza contenga il riferimento all’impossibilità di sostituzione del difensore mediante delega conferita ai sensi dell’art. 9, comma 2, della l. 31 dicembre 2012, n. 247.

Ancora, è stato confermato che, nell’esercizio del potere pubblicistico di certificazione dell’autografia della sottoscrizione della procura alle liti, il difensore riveste la qualità di pubblico ufficiale, così che l’autentica della procura può essere contestata solo con la querela di falso (Sez. 6-1, n. 19785/2018, Sambito, Rv. 650194-01).

Per quanto concerne più specificamente la procura alle liti, nell’anno in rassegna la giurisprudenza di legittimità ha affrontato questioni relative sia al contenuto e agli effetti, che ai requisiti di forma-contenuto e alla nullità e all’inefficacia di tale atto di designazione, anche con riferimento alla procura estera e alla procura nel processo civile telematico.

La procura è l’atto formale con il quale la parte conferisce ad un procuratore legalmente esercente il potere di rappresentarla nel processo e, quindi, lo ius postulandi.

Quanto all’estensione di tale potere, in linea con il principio enunciato da Sez. U, n. 4909/2016, Scarano, Rv. 639107-01, è stato ribadito che la procura alle liti conferita in termini ampi e omnicomprensivi è idonea, in base ad un’interpretazione costituzionalmente orientata della normativa processuale attuativa dei principi di economia processuale, di tutela del diritto di azione nonché di difesa della parte di cui agli artt. 24 e 11 Cost., ad attribuire al difensore il potere di esperire tutte le iniziative atte a tutelare l’interesse del proprio assistito, ivi compresa la chiamata in garanzia cd. impropria (Sez. 3, n. 20898/2018, Rossetti, Rv. 650438-01).

Sulla stessa linea si è posta Sez. 5-6, n. 16372/2018, Mocci, Rv. 649372-01, la quale ha riaffermato il principio, già enunciato da Sez. L, n. 00040/2003, Putaturo Donati, Rv. 559446-01, secondo cui il conferimento in primo grado di procura speciale alle liti mediante la formula “per il presente giudizio” o “per la presente procedura”, senza specificazioni ulteriori, deve intendersi riferito all’intero giudizio, articolato nei suoi diversi gradi e consente, quindi, di ritenere la procura validamente conferita anche per il grado di appello.

La procura può, inoltre, contenere il conferimento al difensore di un autonomo potere di nominare altro difensore, il quale integra un autonomo mandato ad negotia in forza del quale i procuratori designati dal difensore non sono suoi sostituti, ma rappresentanti processuali della parte (Sez. 2, n. 20432/2018, Oliva, Rv. 649847-01, la quale conferma un orientamento risalente, da ultimo espresso da Sez. 3, n. 01756/2012, Amendola, Rv. 621422-01).

A proposito dei requisiti di forma-contenuto necessari ai fini della validità del mandato alle liti, si è nuovamente precisato che è valida la procura conferita al difensore in calce alla copia notificata del decreto ingiuntivo anche se priva di data certa, quando sia depositata all’atto della sua costituzione in giudizio, così da poterne ritenere implicitamente l’anteriorità rispetto a tale momento, come prescritto dall’art. 125, comma 2, c.p.c. (Sez. 2, n. 28106/2018, Besso Marcheis, Rv. 651179-01, che si pone in linea di continuità con Sez. 3, n. 12528/2010, Chiarini, Rv. 613008-01).

Costituisce, invece, un presupposto di validità della costituzione in giudizio in caso di procura alle liti conferita al medesimo difensore da più parti, l’assenza di conflitto di interessi tra le stesse, con la conseguenza che – poiché il difensore non può svolgere contemporaneamente attività difensiva in favore di soggetti portatori di istanze confliggenti, investendo siffatta violazione valori costituzionalmente garantiti come il diritto di difesa e il principio del contraddittorio – la contrapposizione, tanto attuale, quanto virtuale, tra gli interessi delle parti conferenti la procura dà luogo all’inammissibilità della costituzione in giudizio (Sez. 1, n. 07363/2018, Falabella, Rv. 648113-01, la quale si conforma all’indirizzo espresso da Sez. 3, n. 15884/2013, Carluccio, Rv. 626953-01).

Parimenti inammissibile è, secondo Sez. L, n. 28146/2018, Amendola F., Rv. 651515-01, il ricorso per cassazione allorquando la procura, apposta su foglio separato materialmente congiunto al ricorso ai sensi dell’art. 83, comma 2, c.p.c., contenga espressioni incompatibili con la specialità della richiesta e dirette piuttosto ad attività proprie di altri giudizi e fasi processuali (nella specie la procura, spillata di seguito al ricorso non conteneva alcun riferimento alla sentenza impugnata, né recava alcuna data e risultava conferita “per tutte le fasi e gradi del presente giudizio”).

La mancanza nella copia notificata del ricorso per cassazione della firma del difensore munito di procura speciale e dell’autenticazione, ad opera del medesimo, della sottoscrizione della parte che ha conferito non determinano, invece, l’invalidità del ricorso, purché la copia stessa contenga elementi, quali l’attestazione dell’ufficiale giudiziario che la notifica è stata eseguita ad istanza del difensore del ricorrente, idonei ad evidenziare la provenienza dell’atto dal difensore munito di mandato speciale. In applicazione di tale principio, Sez. 5, n. 01981/2018, Stalla, Rv. 646701-01, ha ritenuto ammissibile il ricorso perché proveniente dal difensore munito di mandato speciale, come risultante dall’originale, che, in quanto tale, aveva richiesto la notificazione dello stesso ricorso all’ufficiale giudiziario presso la corte d’appello, come dallo stesso attestato.

Per quanto concerne, infine, l’ipotesi di procura inesistente, va segnalata Sez. 3, n. 13055/2018, Frasca, Rv. 649105-01, la quale, in conformità al principio già enunciato da Sez. 6-1, n. 27530/2017, Valitutti, Rv. 646776-02, ha affermato che, in caso di azione o di impugnazione promossa dal difensore senza effettivo conferimento della procura da parte del soggetto nel cui nome egli dichiari di agire nel giudizio o nella fase di che trattasi (come nel caso di inesistenza della procura ad litem o falsa o rilasciata da soggetto diverso da quello dichiaratamente rappresentato o per processi o fasi di processo diverse da quello per il quale l’atto è speso), l’attività del difensore non riverbera alcun effetto sulla parte e resta attività processuale di cui il legale assume esclusivamente la responsabilità, con conseguente ammissibilità della condanna del medesimo difensore a pagare le spese del giudizio. Nella specie, è stata ritenuta attività direttamente riferibile al legale l’avere proposto ricorso nonostante il soggetto non fosse più in vita, restando privo di rilievo il fatto che la procura potesse essere stata effettivamente rilasciata dalla parte anteriormente al proprio decesso e prima della pronuncia della sentenza impugnata.

Con specifico riferimento alla procura rilasciata all’estero, la sottoscrizione della stessa non può essere autenticata dal difensore italiano della parte, giacché tale potere di autenticazione non si estende oltre i limiti del territorio nazionale, né è sufficiente che la procura rilasciata all’estero sia semplicemente legalizzata, perché deve essere autenticata da notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato dalla legge dello Stato estero ad attribuirle pubblica fede (Sez. 1, n. 16050/2018, Fraulini, Rv. 649564-01), e ad essa deve essere allegata, a pena di nullità agli effetti dell’art. 12 della l. 31 maggio 1995, n. 218, la sua traduzione e quella relativa all’attività certificativa svolta dal notaio con riferimento all’attestazione che la firma è stata apposta in sua presenza da persona di cui egli abbia accertato l’identità, applicandosi agli atti prodromici il principio generale della traduzione in lingua italiana a mezzo di esperto (Sez. 6-2, n. 08174/2018, Falaschi, Rv. 648221-01).

Peculiare interesse rivestono, poi, le pronunce in materia di procura come documento informatico o trasmessa per via telematica.

Sez. 2, n. 30927/2018, Giannaccari, Rv. 651536-01, in linea con Sez. U, n. 10266/2018, Cirillo E., Rv. 648132-01, ha affermato la piena validità ed efficacia del ricorso (o controricorso) per cassazione munito di procura alle liti controfirmata dal difensore con firma digitale in formato “PAdES” e Sez. 3, n. 15200/2018, Porreca, Rv. 649305-01, ha stabilito che nell’ipotesi di citazione, comprensiva di procura, formata in originale cartaceo, successivamente scansionata e notificata via posta elettronica certificata, non sono applicabili le disposizioni di cui all’art. 18, comma 5, del d.m. 21 febbraio 2011, n. 44, che è diretto a stabilire quando la procura, che sia stata rilasciata su un documento nativo informatico ovvero nativo analogico, si debba considerare apposta in calce all’atto telematico cui si riferisce, e neppure le norme regolamentari emesse dalla Direzione generale per i sistemi informativi automatizzati del Ministero della giustizia in data 16 aprile 2014, atteso che tali norme si riferiscono alla diversa ipotesi cui l’atto da notificare sia un documento originale informatico e non un documento nativo analogico (in cui l’originale è cartaceo) comprensivo della procura e notificato a mezzo PEC, al quale non si applica la disciplina del processo telematico, ma solo quella relativa alla PEC.

5. Successione nel processo.

Il venir meno di una parte del processo per morte o per altra causa dà luogo alla prosecuzione del processo da parte o nei confronti del successore universale che subentra nel complesso dei poteri, facoltà e doveri che caratterizzavano la posizione della parte deceduta o estinta.

Con riferimento all’individuazione del soggetto che succede a titolo universale nel processo alla parte estinta o deceduta, è stato ribadito nell’anno in rassegna l’ormai consolidato principio per il quale l’estinzione della società di persone per effetto della cancellazione dal registro delle imprese dà luogo alla successione ex art. 110 c.p.c. di tutti i soci (Sez. 3, n. 20840/2018, Gianniti, Rv. 650423-03).

6. Successione nel diritto controverso.

Nell’anno 2018 le pronunce sulla successione a titolo particolare nel diritto controverso ai sensi dell’art. 111 c.p.c. hanno riguardato per lo più la posizione processuale del successore a titolo particolare.

Innanzitutto è stato chiarito che questi non è terzo, bensì l’effettivo titolare del diritto in contestazione – tanto da poter essere destinatario dell’impugnazione proposta dall’avversario del cedente e da poter resistere alla medesima senza che tale suo diritto possa essere condizionato dal suo mancato intervento nelle fasi pregresse del giudizio – così come è legittimato a proporre impugnazione avverso la sentenza anche pronunciata nei confronti del dante causa non estromesso, assumendo la stessa posizione di quest’ultimo, mentre è esclusa l’esperibilità da parte sua dell’opposizione di terzo ordinaria ex art. 404 c.p.c. (Sez. 2, n. 21492/2018, Giannaccari, Rv. 650314-02).

Ciò non di meno, in linea con Sez. 3, 01535/2010, Segreto, Rv. 611191-01, è stato ribadito che il successore a titolo particolare per atto tra vivi di una delle parti del processo, pur potendo spiegare intervento volontario ai sensi dell’art. 111, comma 3, c.p.c., non diviene litisconsorte necessario (Sez. 2, 14480/2018, Casadonte, Rv. 648977-01).

Se, tuttavia, interviene o è chiamato in causa in primo grado, nel giudizio di impugnazione il successore a titolo particolare è, insieme all’alienante non estromesso, litisconsorte necessario, così che se la sentenza è appellata da uno soltanto o nei confronti di uno soltanto di essi, deve essere disposta l’integrazione del contraddittorio ai sensi dell’art. 331 c.p.c., dovendosi in difetto rilevare, anche d’ufficio, in sede di legittimità, il difetto di integrità del contraddittorio con rimessione della causa al giudice del merito per l’eliminazione del vizio (Sez. 1, n. 15905/2018, Valitutti, Rv. 649280-01).

Per quanto concerne la chiamata in causa del successore a titolo particolare nel diritto controverso, di particolare interesse è Sez. L, 12436/2018, Patti, Rv. 648955-01, secondo cui integra violazione dell’art. 111 c.p.c. l’esclusione della chiamata in causa, ancorché per la prima volta in grado di appello, da parte della lavoratrice illegittimamente licenziata e reintegrata nel posto di lavoro dopo il trasferimento del ramo d’azienda cui già era stata addetta, della società cessionaria in considerazione della qualità di questa di successore a titolo particolare della cedente nella generalità dei rapporti preesistenti e, dunque, di parte del processo, in una posizione processuale e sostanziale non distinta da quella del suo dante causa; ne consegue la legittimazione della cessionaria ad intervenire o ad essere chiamata in causa, senza i limiti di cui all’art. 344 c.p.c. né il rispetto delle condizioni prescritte dall’art. 269 c.p.c.

Tra le applicazioni giurisprudenziali più significative dell’art. 111 c.p.c. nell’anno 2018 va segnalata Sez. 5, n. 15869/2018, Castorina, Rv. 647100-01, la quale ha chiarito che in tema di riscossione dei tributi, per effetto della cancellazione d’ufficio delle società del gruppo Equitalia dal registro delle imprese, a decorrere dalla data del 1° luglio 2017, in virtù dell’art. 1, comma 1, del d.l. 22 ottobre 2016, n. 193, conv. nella l. 1 dicembre 2016, n. 225, la successione a titolo universale, prevista dal comma 3 di tale disposizione, in favore dell’Agenzia delle Entrate-riscossione, non costituisce successione nel processo ai sensi dell’art. 110 c.p.c., bensì successione nei rapporti giuridici controversi ex art. 111 c.p.c., poiché, in ragione del “venir meno” della parte, è stato individuato sul piano normativo il soggetto giuridico destinatario del trasferimento delle funzioni precedentemente attribuite alla stessa, sicché i giudizi pendenti proseguono, con il subentro del successore, senza necessità di interruzione.

Inoltre, Sez. 1, n. 07152/2018, Di Marzio M., Rv. 647841-01, ha ricondotto entro tale fattispecie la successione al Ministero dell’economia e delle Finanze dell’Agenzia del Demanio istituita con d.lgs. n. 300/1999, così confermando la permanenza della legittimazione del Ministero quale parte originaria nei giudizi aventi ad oggetto beni immobili facenti parte del patrimonio indisponibile dello Stato promosse nei suoi confronti anteriormente al 1° gennaio 2001, data di istituzione dell’Agenzia.

In modo analogo, Sez. L, n. 15085/2018, Blasutto, Rv. 649353-01, ha chiarito che il trasferimento delle competenze relative alla gestione ed utilizzazione dei beni mobili, immobili e delle aziende confiscati alla criminalità organizzata ai sensi della l. 31 maggio 1965, n. 575, che restano devoluti allo Stato a seguito della definitività dei provvedimenti ablatori, è stato operato in favore dell’Agenzia del Demanio dal d.lgs. 3 luglio 2003, n. 173, solo a decorrere dalla data di entrata in vigore del detto d.lgs. (29 luglio 2003), e ha dato luogo ad un fenomeno di successione a titolo particolare in posizioni attive e passive specificamente determinate, già facenti capo ai competenti dipartimenti ed uffici della P.A., regolato dall’art. 111 c.p.c.; ne consegue che, nei giudizi promossi per il pagamento delle differenze retributive maturate dai dipendenti delle aziende confiscate nel periodo antecedente alla suddetta data, sussiste la legittimazione passiva del Ministero dell’Economia e delle Finanze.

Altre applicazioni di interesse dei principi che regolano la successione a titolo particolare nel diritto controverso si sono avute in materia di opposizione agli atti esecutivi (Sez. 3, n. 09060/2018, Tatangelo, Rv. 648488-01), di azione intesa ad ottenere la corresponsione dell’indennità ex art. 1053 c.c. (Sez. 2, n. 09543/2018, Chiesi, Rv. 648153-01) e di azione a difesa della servitù (Sez. 2, n. 03851/2018, Dongiacomo, Rv. 647806-01).

Nell’anno in rassegna ha, infine, ottenuto conferma il principio, già affermato dalla precedente giurisprudenza di legittimità (per la quale, vedi Sez. 1, n. 05759/2016, Scaldaferri, Rv. 639273-01; Sez. 1, n. 11638/2016, Acierno, Rv. 639906-01), secondo il quale il successore a titolo particolare nel diritto controverso ex art. 111 c.p.c. può tempestivamente impugnare per cassazione la sentenza di merito, ma non può intervenire nel giudizio di legittimità, salvo che non sia costituito il dante causa, altrimenti determinandosi un’ingiustificata lesione del suo diritto di difesa (Sez. 5, n. 33444/2018, Iofrida, Rv. 652035-01).

7. L’interesse ad agire.

Ai sensi dell’art. 100 c.p.c. per agire o resistere in giudizio è necessario che la parte vi abbia un interesse, da intendersi quale interesse giuridicamente rilevante ad ottenere un’utilità concreta dall’emanazione della pronuncia.

Le diverse pronunce sul tema registratesi nel corso del 2018 si sono per lo più soffermate a chiarire la portata applicativa dei requisiti dell’attualità e nella concretezza che devono indefettibilmente connotare tale condizione dell’azione.

Come evidenziato da Sez. L, n. 18819/2018, Amendola F., Rv. 649879-01, l’interesse ad agire può, infatti, ritenersi sussistente quando la parte, attraverso l’azione giurisdizionale, possa conseguire un risultato concretamente rilevante, non altrimenti ottenibile se non mediante il processo e l’intervento necessario di un giudice. La concretezza dell’interesse ad agire è misurata dall’idoneità del provvedimento richiesto a soddisfare l’interesse sostanziale protetto. In ossequio al principio di economia processuale non può, pertanto, darsi ingresso alla tutela giurisdizionale quando dall’accoglimento della domanda non possa conseguire alcun vantaggio obiettivo per la parte ovvero alcuna modificazione giuridicamente rilevante.

Quanto al requisito dell’attualità, l’interesse deve, invece, essere collegato ad una posizione giuridica già sorta in capo all’interessato e tale che la sua effettiva esistenza escluda il carattere meramente potenziale della lesione, onde evitare che la tutela venga richiesta in vista di situazioni future o meramente ipotetiche.

Costituisce principio acquisito quello per il quale tale condizione dell’azione deve sussistere al momento della decisione, con la conseguenza che, ove esso venga meno nel corso del giudizio, questo deve essere definito con la pronuncia di cessazione della materia del contendere.

Con riguardo a tale ultima declaratoria, correlata al sopravvenuto venir meno dell’interesse ad agire, va segnalata Sez. 1, n. 04092/2018, Bisogni, Rv. 647149-01, secondo cui nel giudizio di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, la morte del coniuge fa cessare la materia del contendere sia nel giudizio sullo status, che in quello relativo alle domande accessorie, compreso il giudizio sulla richiesta di assegno divorzile, non assumendo alcun rilievo, in senso contrario, l’intervenuto passaggio in giudicato della sentenza non definitiva di divorzio, posto che l’obbligo di corresponsione di tale assegno è personalissimo e non trasmissibile agli eredi, trattandosi di posizione debitoria inscindibilmente legata da uno status personale che può essere accertata solo in relazione alla persona cui detto status si riferisce.

Ancora, in materia di cessazione della materia del contendere Sez. U, n. 08980/2018, Frasca, Rv. 650327-01, ha chiarito che nel caso in cui nel corso del giudizio di legittimità le parti definiscano la controversia con un accordo, la Corte deve dichiarare cessata la materia del contendere, con conseguente venir meno dell’efficacia della sentenza impugnata, non essendo inquadrabile la situazione in una delle tipologie di decisione indicate dagli artt. 382, comma 3, 383 e 384 c.p.c. e non potendosi configurare un disinteresse sopravvenuto delle parti per la decisione sul ricorso e, quindi, una inammissibilità sopravvenuta dello stesso.

Non determina, invece, una carenza sopravvenuta dell’interesse ad agire per l’accertamento dell’obbligo del terzo, né l’improcedibilità della relativa domanda, il sopravvenuto fallimento del debitore (Sez. 3, n. 09624/2018, Frasca, Rv. 648425-01).

Ciò in quanto, pur determinandosi l’improcedibilità del processo esecutivo, permane l’interesse ad ottenere ed utilizzare l’accertamento del credito del debitore esecutato verso il terzo pignorato a favore del creditore procedente nel processo esecutivo divenuto improseguibile. Nel rapporto fra debitore esecutato fallito e terzo pignorato suo debitore la prosecuzione del giudizio con il coinvolgimento del curatore fallimentare, previa riassunzione nei suo confronti, si presenta utile nella misura in cui il suo esito positivo si risolva nell’acquisizione alla massa fallimentare dell’accertamento del credito, giacché nel giudizio di accertamento dell’obbligo del terzo il relativo accertamento dell’esistenza del credito certamente dà luogo a cosa giudicata fra debitor debitoris e debitore esecutato.

Sul presupposto che l’interesse ad impugnare deve sussistere non solo nel momento in cui l’azione è proposta, ma anche in quello della decisione, atteso che è in relazione a tale momento ed alla domanda originariamente formulata, che esso deve essere valutato, Sez. 1, n. 26641/2018, Vella, Rv. 651464-01, ha affermato che l’intervenuto passaggio in giudicato della sentenza ex 2932 c.c. – con la quale è stato disposto il trasferimento della proprietà di un immobile in favore dei promissari acquirenti, che abbiano contemporaneamente impugnato la sentenza del tribunale fallimentare perché, in sede di formazione dello stato passivo, non era stato loro riconosciuto il privilegio ex art. 2775-bis c.c. per il credito relativo alla mancata esecuzione del contratto preliminare – determina la cessazione della materia del contendere in relazione a tale giudizio, per sopravvenuto difetto di interesse, con conseguente dichiarazione di inammissibilità del ricorso.

Un sopravvenuto venir meno dell’interesse ad agire è stato intravisto da Sez. 6-5, n. 14782/2018, Manzon, Rv. 649019-01, nella rinuncia al ricorso per cassazione, la quale, ove non sussistano i requisiti di cui all’art. 390, ultimo comma, c.p.c., sebbene non sia idonea a determinare l’estinzione del processo, dà luogo ad una pronuncia di inammissibilità del ricorso.

Una deroga al requisito dell’attualità dell’interesse ad agire giustificata dal principio di economicità è, invece, introdotta dal dictum, ribadito nell’anno 2018 da Sez. 1, n. 19320/2018, Terrusi, Rv. 649683-02, secondo il quale all’assicuratore convenuto in giudizio dall’assicurato per il pagamento dell’indennità assicurativa è consentita la pre-costituzione del titolo nei riguardi dell’obbligato in via di regresso o in surroga, in via preventiva e in previsione dell’esito positivo dell’azione intrapresa dal danneggiato contestualmente all’accertamento del presupposto della responsabilità. L’assicuratore può, infatti, agire nella stessa sede a tutela del proprio diritto di surrogazione anche in difetto del previo pagamento di detta indennità, chiamando in causa il terzo responsabile o corresponsabile del danno al fine di ottenere nei confronti di questo una sentenza condizionale di condanna alla rivalsa di quanto sarà condannato a pagare all’assicurato a titolo di indennità.

Quanto al requisito della concretezza dell’interesse ex art. 100 c.p.c. vanno, innanzitutto, segnalate le pronunce che ne hanno esaminato la portata con riferimento azioni di mero accertamento. Così Sez. L, n. 21903/2018, Mancino, Rv. 650264-01, che ne ha negato la ricorrenza in caso di domanda di mero accertamento della natura professionale dell’infortunio e della sussistenza del nesso di causalità tra infortunio e prestazione lavorativa in assenza di una inabilità permanente residuata indennizzabile, risolvendosi in tal caso la domanda in una richiesta di accertamento di meri fatti incompatibile con la funzione del processo che può essere utilizzato solo a tutela di diritti sostanziali e deve concludersi con il raggiungimento di un effetto giuridico tipico, cioè con l’affermazione o con la negazione del diritto dedotto in giudizio e non per gli effetti giuridici futuri che da tale accertamento si vorrebbero ricavare.

Sez. 6-1, n. 21646/2018, Falabella, Rv. 650473-01, ha, invece, ritenuto sussistente l’interesse del correntista ad agire, prima della chiusura del conto corrente, per l’accertamento della nullità delle clausole anatocistiche e dell’entità del saldo parziale ricalcolato depurato dalle appostazioni illegittime con ripetizione delle somme illegittimamente riscosse dalla banca, anche in difetto di rimesse solutorie eseguite dal correntista, atteso che tale interesse mira al conseguimento di un risultato utile, giuridicamente apprezzabile e non attingibile senza la pronuncia del giudice, consistente nell’esclusione, per il futuro, di annotazioni illegittime, nel ripristino di una maggiore estensione dell’affidamento concessogli e nella riduzione dell’importo che la banca, una volta rielaborato il saldo, potrà pretendere alla cessazione del rapporto.

In materia di azione di nullità e di simulazione, hanno valorizzato l’imprescindibile condizione della sussistenza di un diritto dipendente dalla rispettiva declaratoria, Sez. 2, n. 26062/2018, Tedesco, Rv. 650779-01, in materia di accertamento dell’invalidità di una disposizione testamentaria, e Sez. 6-3, n. 29271/2018, Cirillo F.M., Rv. 651506-01, in tema di azione di simulazione promossa dal terzo.

Sulla stessa linea si è posta Sez. 5, n. 27601/2018, Zoso, Rv. 650966-01, che ha ritenuto configurabile in relazione all’impugnazione del preavviso di fermo amministrativo emesso ex art. 86 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 per crediti tributari un interesse ex art. 100 c.p.c. al controllo della legittimità sostanziale della pretesa impositiva, a nulla rilevando che detto atto non compaia esplicitamente nell’elenco degli atti impugnabili contenuto nell’art. 19 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546.

L’esistenza di un interesse inteso quale possibilità di conseguire un’utilità giuridicamente apprezzabile costituisce, inoltre, il presupposto di legittimità dell’opposizione, da parte del creditore opposto, alla rinuncia agli atti del giudizio da parte dell’opponente nel procedimento di opposizione all’esecuzione e Sez. 3, n. 20893/2018, Chiarini, Rv. 650422-01, ha ritenuto tale interesse sussistente nel caso in cui il creditore opposto abbia formulato domanda di condanna della controparte al risarcimento dei danni ex art. 96 c.p.c. che, di regola, non può essere azionata in un separato giudizio.

Vanno, poi, segnalate Sez. 2, n. 24239/2018, Sabato, Rv. 650647-01, che ha chiarito che al destinatario di una sentenza di condanna all’adempimento di obblighi di fare che abbia eseguito il comando giudiziale deve riconoscersi la possibilità di esperire, al di fuori dal processo di esecuzione, un’azione di accertamento della corretta attuazione del titolo esecutivo, ove l’avente diritto all’esecuzione sollevi, in via solo stragiudiziale, incertezze mediante contestazioni circa la corrispondenza dell’attuazione spontanea al precetto contenuto nella sentenza di condanna; e Sez. 1, n. 09087/2018, Vella, Rv. 648889-01, che, in materia di accordo di ristrutturazione dei debiti ex art. 182-bis l. fall., ha precisato che il decreto con cui venga dichiarata l’inammissibilità della domanda di omologa dello stesso accordo – contestualmente all’emissione della sentenza dichiarativa di fallimento, avverso la quale venga proposto reclamo ex art. 18 l. fall. – non può essere autonomamente impugnato, difettandone l’interesse ex art. 100 c.p.c. in quanto meramente duplicativo delle censure proposte con detto reclamo, giacché tale impugnazione assorbe l’intera controversia relativa alla crisi di impresa.

Occorre, infine, considerare che Sez. 2, n. 17893/2018, D’Ascola, Rv. 649387-01 e Sez. 3, n. 17019/2018, Saija, Rv. 649441-02, nel fare applicazione del principio enunciato da Sez. U, n. 04090/2017, Di Iasi, Rv. 643111-01 (secondo il quale le domande aventi ad oggetto diversi e distinti diritti di credito, benché relativi ad un medesimo rapporto di durata tra le parti, possono essere proposte in separati processi, ma, ove le suddette pretese creditorie, oltre a far capo ad un medesimo rapporto tra le stesse parti, siano anche, in proiezione, inscrivibili nel medesimo ambito oggettivo di un possibile giudicato o, comunque, fondate sullo stesso fatto costitutivo, – sì da non poter essere accertate separatamente se non a costo di una duplicazione di attività istruttoria e di una conseguente dispersione della conoscenza dell’identica vicenda sostanziale – le relative domande possono essere formulate in autonomi giudizi solo se risulti in capo al creditore un interesse oggettivamente valutabile alla tutela processuale frazionata), hanno ritenuto, rispettivamente, insussistente l’interesse suddetto nel caso in cui un perito aveva svolto, per conto di una compagnia di assicurazioni, un’attività continuativa per molti anni con le medesime modalità e con regolamentazione uniforme, essendo la remunerazione per il singolo incarico collegata unicamente al numero dei sinistri periziati, con accettazione delle parcelle mediante il sistema informatico della compagnia, indipendentemente dal contenuto concreto della prestazione; ed illegittima la condotta processuale dell’attore il quale, dopo avere proposto una prima azione di risarcimento per i danni materiali subiti in occasione di un sinistro stradale, ne aveva proposta una seconda per quelli alla persona, nonostante che, alla data dell’esercizio della prima azione l’intero panorama delle conseguenze dannose fosse pienamente emerso.

Espressione dell’interesse ad agire ex art. 100 c.p.c. è anche l’interesse ad impugnare, il quale postula la soccombenza nel suo aspetto sostanziale, correlata al pregiudizio che la parte subisca a causa della decisione da apprezzarsi in relazione all’utilità giuridica che può derivare al proponente il gravame dall’eventuale suo accoglimento. In applicazione di tale principio, Sez. 3, n. 13395/2018, Spaziani, Rv. 649038-02, ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto insussistente l’interesse ad impugnare la declaratoria d’inammissibilità di una domanda riconvenzionale, sul presupposto che alla caducazione di tale statuizione non sarebbe conseguito automaticamente il rigetto, bensì l’esame nel merito di tale domanda, che avrebbe potuto condurre anche all’accoglimento della stessa, ponendo quindi il ricorrente nella medesima posizione processuale in cui si era venuto a trovare per effetto della riproposizione di tale domanda in un successivo giudizio.

8. La legittimazione ad agire.

La legittimazione ad agire e a contraddire consiste nella titolarità del potere di promuovere o subire un giudizio in ordine al rapporto sostanziale così come prospettato dalla parte.

Nell’anno in rassegna la S.C. è intervenuta a chiarire la portata applicativa di tale nozione in diversi ambiti.

In materia successoria, Sez. 2, n. 06747/2018, Picaroni, Rv. 647856-01, ha affermato che la legittimazione a chiedere la pronuncia di indegnità spetta a coloro che sono potenzialmente idonei a subentrare all’indegno nella delazione ereditaria e, quindi, anche al coerede che potrebbe beneficiare dell’accrescimento della propria quota qualora i successibili per diritto di rappresentazione in luogo del suddetto indegno non possano o non vogliano accettare l’eredità.

In materia di diritti reali vanno segnalate Sez. 2, n. 11823/2018, Criscuolo, Rv. 648357-01, secondo cui nelle azioni reali di negatoria servitutis ai sensi dell’art. 949 c.c., la legittimazione attiva compete non soltanto al proprietario, ma anche al titolare di un diritto reale di godimento sul fondo servente diverso da quello di proprietà; e Sez. 2, n. 27162/2018, Scarpa, Rv. 651018-01, in virtù del quale il generale potere ex art. 1137 c.c. di impugnare le deliberazioni condominiali in relazione alle spese necessarie per le parti comuni dell’edificio compete al proprietario della singola unità immobiliare, mentre non spetta all’utilizzatore di un’unità immobiliare in leasing, essendo lo stesso titolare non di un diritto reale, ma di un diritto personale derivante da un contratto ad effetti obbligatori che rimette il perfezionamento dell’effetto traslativo ad una futura manifestazione unilaterale di volontà del conduttore.

Con riferimento alla revocatoria ordinaria Sez. 3, 06130/2018, Vincenti, Rv. 648462-01, ha chiarito che il socio accomandatario della s.a.s. attrice, estinta per cancellazione dal registro delle imprese nel corso del giudizio di primo grado che sia anche cessionario del credito con atto anteriore all’instaurazione dell’azione revocatoria, è legittimato ad agire (nella specie, intervenendo in secondo grado), in quanto titolare della legitimatio ad causam in quanto successore della società attrice in revocatoria ordinaria, oltre ad essere dotato di interesse ad agire nel merito (art. 100 c.p.c.) con riferimento alla medesima azione revocatoria, in qualità di cessionario del credito oggetto di tutela revocatoria, e quindi portatore di interesse attuale e concreto ad un risultato utile, giuridicamente rilevante e non conseguibile se non con l’intervento del giudice, costituendo tale requisito una condizione che deve sussistere sino al momento della decisione.

Ancora, con riguardo al giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, Sez. 6-2, n. 15567/2018, Scalisi, Rv. 649093-01, ha precisato che le parti di tale giudizio possono essere soltanto colui il quale ha proposto la domanda di ingiunzione e colui contro il quale tale domanda è diretta escludendo in relazione ad una controversia condominiale avente ad oggetto la gestione di un servizio nell’interesse comune, la legittimazione dei singoli condomini a proporre opposizione avverso il decreto ingiuntivo emesso nei confronti del condominio.

Ad analoghe conclusioni è giunta Sez. L, n. 29424/2018, Calafiore, Rv. 651710-01, secondo cui nel giudizio di opposizione a cartella esattoriale, la cui struttura processuale è assimilabile a quella del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, la legittimazione attiva spetta esclusivamente al destinatario della cartella e non ad altri, restando irrilevanti le posizioni di eventuali terzi, ancorché responsabili in solido con l’ingiunto sul piano del diritto sostanziale, nella specie confermando la sentenza impugnata, che aveva escluso la legittimazione del cessionario d’azienda a proporre opposizione avverso la cartella esattoriale notificata al cedente e avente per oggetto suoi debiti contributivi.

In materia di sanzioni amministrative per violazione delle norme relative all’assunzione dei lavoratori, Sez. 6-L, n. 23663/2018, Fernandes, Rv. 650902-01, ha chiarito che la sanzione pecuniaria prevista per l’inosservanza del divieto di assunzione di lavoratori subordinati senza il tramite dell’ufficio di collocamento va posta a carico dell’amministratore dell’ente che con la sua condotta ha determinato l’illecito, in quanto tale condotta, esigendo per sua natura il dolo o la colpa, è addebitabile solo a una persona fisica, salva la responsabilità solidale meramente patrimoniale dell’ente rappresentato, solidarietà che, non dipendendo da un’obbligazione unitaria, non determina il litisconsorzio necessario fra il legale rappresentante e l’ente. Ne consegue che ove l’opposizione sia stata proposta dalla persona fisica nella qualità di rappresentante pro tempore dell’ente, quest’ultimo non ha legittimazione a impugnare la sentenza neanche qualora sia una nuova persona fisica a rappresentarlo, giacché il precedente rappresentante conserva la propria legittimazione, che spetta esclusivamente a chi abbia assunto qualità di parte nel giudizio conclusosi con la sentenza impugnata.

Ancora, in materia fallimentare, Sez. 6-1, n. 24789/2018, Dolmetta, Rv. 651346-01, ha affermato che l’art. 87 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, come modificato dall’art. 3 del d.l. n. 8 luglio 2002, n. 138 (conv. nella l. 8 agosto 2002, n. 178), nel prevedere che il concessionario possa, per conto dell’ente pubblico titolare del credito, presentare il ricorso per la dichiarazione di fallimento, ai sensi dell’art. 6 l. fall., individua il soggetto legittimato ad agire, in nome proprio e per conto del titolare del credito stesso, per il compimento delle attività processuali di natura esecutiva, funzionali alla riscossione coattiva delegata, integrando la fattispecie uno dei casi fatti salvi dall’art. 81 c.p.c., così realizzandosi, con la cura della riscossione coattiva per conto del titolare, il perseguimento anche di un interesse proprio del concessionario, ai sensi dell’art. 100 c.p.c.

Di particolare rilievo sono, poi, le pronunce che hanno affrontato il problema dell’onere della prova della legitimatio ad causam.

Interessanti indicazioni ha fornito Sez. 2, n. 06745/2018, Scalisi, Rv. 638371-01, precisando che il figlio che aziona in giudizio un diritto del genitore, del quale afferma essere erede ab intestato, ove non sia stato contestato il rapporto di discendenza con il de cuius, al fine di dare prova della sua legittimazione ad agire, non deve ulteriormente dimostrare l’esistenza di tale rapporto, producendo l’atto dello stato civile attestante la filiazione, essendo sufficiente che egli, in quanto chiamato all’eredità a titolo di successione legittima, abbia accettato, anche tacitamente, l’eredità, circostanza che può ricavarsi dall’esercizio stesso dell’azione.

Ancora, a proposito della prova della qualità di erede, Sez. 6-3, n. 11276/2018, Scrima, Rv. 648916-01, ha affermato che colui che, assumendo di essere erede di una delle parti originarie del giudizio, intervenga in un giudizio civile pendente tra altre persone, ovvero lo riassuma a seguito di interruzione, o proponga impugnazione, deve fornire la prova, ai sensi dell’art. 2697 c.c., oltre che del decesso della parte originaria, anche della sua qualità di erede di quest’ultima; a tale riguardo la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà di cui agli artt. 46 e 47 del d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, non costituisce di per sé prova idonea di tale qualità, esaurendo i suoi effetti nell’ambito dei rapporti con la P.A. e nei relativi procedimenti amministrativi, dovendo tuttavia il giudice, ove la stessa sia prodotta, adeguatamente valutare, anche ai sensi della nuova formulazione dell’art. 115 c.p.c., come novellato dall’art. 45, comma 14, della l. 18 giugno 2009, n. 69, in conformità al principio di non contestazione, il comportamento in concreto assunto dalla parte nei cui confronti la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà viene fatta valere, con riferimento alla verifica della contestazione o meno della predetta qualità di erede e, nell’ipotesi affermativa, al grado di specificità di tale contestazione, strettamente correlato e proporzionato al livello di specificità del contenuto della dichiarazione sostitutiva suddetta.

9. I termini.

Nell’anno in rassegna si sono registrate significative pronunce tanto sui termini legali, quanto su quelli giudiziali.

Con riferimento al computo dei primi, occorre segnalare Sez. 6-5, n. 01543/2018, Cirillo E., Rv. 647000-01, che ha chiarito che i termini ad anno si calcolano secondo il calendario comune, ovvero secondo il calendario gregoriano non ex numero sed ex numeratione dierum, sicché il dies a quo va escluso dal calcolo e la scadenza si ha all’ultimo istante del giorno, mese ed anno corrispondente a quello in cui il fatto si è verificato.

Ancora, Sez. L, n. 24408/2018, Spena, Rv. 650580-01, ha precisato che nel procedimento per accertamento tecnico preventivo ex art. 445-bis c.p.c. l’art. 155, comma 5, c.p.c. trova applicazione al termine per il deposito in cancelleria della dichiarazione di contestazione delle conclusioni del c.t.u., trattandosi di atto processuale che si svolge fuori dall’udienza

Quanto, invece, ai termini giudiziali va considerata Sez. 3, n. 18522/2018, Frasca, Rv. 649735-01, secondo la quale il giudice non può fissare i termini di cui all’art. 195, comma 3, c.p.c. in modo che ricadano durante il periodo di sospensione feriale, se il processo è soggetto a tale termine e salva rinuncia delle parti ad avvalersene, non potendo operare la proroga automatica degli stessi in modo da rispettare la sospensione. L’atto adottato in violazione della sospensione è affetto da nullità soltanto nel caso in cui l’erronea applicazione della regola processuale abbia comportato per la parte una lesione del diritto di difesa con riflessi sulla decisione di merito e, nel caso di atto adottato in udienza, tale nullità deve essere eccepita in udienza dalla parte presente o che avrebbe dovuto esservi atteso che quella sede rappresenta ex art. 157, comma 2, c.p.c., la prima difesa possibile.

La sospensione feriale dei termini ex artt. 1 e 3 della l. 7 ottobre 1969, n. 742 e 92 del r.d. 30 gennaio 1941, n. 12, non è stata, infine, ritenuta operante nella controversia volta ad accertare la sussistenza o meno dell’obbligo di iscrizione nella gestione commercianti ai fini del versamento della relativa contribuzione, che rientra nella materia del lavoro e della previdenza, le cui esigenze di speditezza e concentrazione giustificano l’applicazione della deroga (Sez. 6-L, n. 19079/2018, Doronzo, Rv. 649888-01).

9.1. La rimessione in termini.

La rimessione in termini, sia alla stregua dell’art. 184-bis c.p.c. che, più ampiamente, della clausola generale dell’art. 153, comma 2, c.p.c., introdotta dalla l. n. 69 del 2009, richiede la dimostrazione che la decadenza sia stata determinata da una causa non imputabile alla parte, perché cagionata da un fattore estraneo alla sua volontà.

Nell’anno 2018 la S.C. ha tenuto fermo il precedente approccio interpretativo improntato alla rigorosa delimitazione della nozione di causa non imputabile ai soli fattori estranei alla volontà della parte e connotati da assolutezza.

In applicazione di tale nozione, Sez. 3, n. 17729/2018, D’Ovidio, Rv. 649726-01, ha cassato la sentenza impugnata, poiché la rimessione in termini accordata sulla “ragionevole” possibilità che gli uffici di cancelleria fossero stati trovati chiusi nel sabato antecedente la Pasqua non era risultata provata e la scelta discrezionale di depositare l’atto l’ultimo giorno utile imponeva di informarsi degli orari e di regolarsi di conseguenza.

Sulla medesima linea si è posta Sez. 6-2, n. 03782/2018, Picaroni, Rv. 647980-01, secondo cui il diritto alla rimessione in termini non può essere riconosciuto in presenza di una incertezza interpretativa delle norme processuali ad opera della Corte di cassazione, non determinando essa, in assenza di un orientamento consolidato, alcun mutamento imprevedibile della precedente interpretazione e, quindi, alcun affidamento incolpevole della parte. (Nella specie la S.C. ha dichiarato tardivo, per violazione del termine di cui all’art. 327, comma 1, c.p.c., l’atto di appello proposto con atto di citazione relativo ad un giudizio di opposizione a ordinanza ingiunzione in assenza, al momento dell’introduzione del giudizio di secondo grado, di una interpretazione consolidata circa l’applicabilità del rito ordinario).

Ancora, Sez. L, n. 14839/2018, Blasutto, Rv. 648999-01, ha chiarito che nelle controversie di lavoro in grado di appello, la mancata notificazione del ricorso e del decreto di fissazione dell’udienza determina l’improcedibilità dell’impugnazione, nel caso in cui l’appellante abbia ricevuto comunicazione dell’udienza di discussione, fissata ex art. 435 c.p.c., e, partecipando a detta udienza, non adduca alcun giustificato impedimento al fine di essere rimesso in termini ai sensi dell’art. 153 c.p.c.

La Corte ha, invece, ritenuto sussistenti i presupposti ex art. 153, comma 2, c.p.c. per il riconoscimento del rimedio restitutorio al ricorrente per cassazione che, al fine di poter produrre l’avviso di ricevimento del piego raccomandato contenente la copia del ricorso per cassazione spedita per la notificazione a mezzo posta ai sensi dell’art. 149 c.p.c. o della raccomandata con la quale l’ufficiale giudiziario dà notizia al destinatario dell’avvenuto compimento delle formalità di cui all’art. 140 c.p.c., oltre il termine dell’udienza di discussione ex art. 379 c.p.c., ove lo stesso ricorrente dimostri di essersi tempestivamente attivato nel richiedere all’amministrazione postale un duplicato dell’avviso stesso secondo quanto stabilito dall’art. 6, comma 1, della l. 20 novembre 1982, n. 890 (Sez. 6-2, n. 18361/2018, D’Ascola Rv. 649461-01). Analogamente la rimessione in termini è stata ritenuta concedibile al fine di formulare motivi aggiunti a sostegno dell’opposizione a sanzione amministrativa ove l’opponente dimostri che i documenti da porre a sostegno di tali motivi siano stati resi accessibili dall’amministrazione oltre il termine per la proposizione del ricorso (Sez. 2, n. 15049/2018, Federico, Rv. 649071-01).

Occorre, altresì, segnalare Sez. 1, n. 30512/2018, Iofrida, Rv. 651875-01, secondo la quale l’istituto della rimessione in termini, astrattamente applicabile anche al giudizio di cassazione, presuppone, tuttavia, la sussistenza in concreto di una causa non imputabile, riferibile ad un evento che presenti il carattere dell’assolutezza – e non già un’impossibilità relativa, né tantomeno una mera difficoltà – e che sia in rapporto causale determinante con il verificarsi della decadenza in questione. (Nel caso di specie, è stata esclusa la rimessione in termini invocata dalla ricorrente, che, nell’impugnare tardivamente per cassazione la sentenza che aveva dichiarato lo stato di adottabilità delle figlie minori – benché la decisione fosse stata regolarmente comunicata all’indirizzo pec del suo difensore – allegava la difficoltà a conoscerla, in ragione del proprio stato di detenzione, del suo essere apolide di fatto e della scarsa dimestichezza con la lingua italiana).

Dalla rimessione in termini vanno distinti l’allungamento del termine giudiziale disposto dal giudice, ancorché su richiesta di parte, che si avveda di aver concesso un termine per la notificazione del ricorso e del decreto eccessivamente breve (ritenuto legittimo da Sez. 1, n. 12473/2018, Tricomi L., Rv. 649031-01), nonché la proroga per mancato funzionamento di un ufficio giudiziario accertato con d.m. ai sensi dell’art. 1 del d.lgs. 9 aprile 1948, n. 437 (Sez. 1, n. 16056/2018, Acierno, Rv. 649532-01, che ha stabilito che in caso di mancato funzionamento di un ufficio giudiziario, all’adozione del d.m. che lo accerta ai sensi dell’art. 1 del d.lgs. n. 437 del 1948, prorogando di quindici giorni, a decorrere dalla sua pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, i termini di decadenza previsti per il compimento di atti giudiziari presso quell’ufficio che scadano nei giorni di mancato funzionamento o nei cinque giorni successivi, consegue che gli atti posti in essere entro il termine di proroga devono considerarsi sempre tempestivi, anche se posti in essere in data anteriore alla pubblicazione del provvedimento ministeriale).

Di particolare interesse è, infine, Sez. 5, n. 31745/2018, Mondini, Rv. 651780-01, secondo cui nel processo tributario il ricorso in riassunzione depositato presso la segreteria di una Commissione diversa da quella in cui avrebbe dovuto essere effettuato non consente la rimessione in termini fondata sugli adempimenti successivi del personale, poiché il controllo sulla regolarità degli atti e dei documenti inseriti nel fascicolo di parte di cui all’art. 74 disp. att. c.p.c. è funzionale alla regolarità del processo e non a prevenire ovvero a rimediare ad errori di individuazione della sede processuale da parte dell’interessato.

10. Le notificazioni.

Tra le numerose pronunce in materia di notificazione emesse nell’anno in rassegna, devono essere, innanzitutto, segnalate Sez. U, n. 17533/2018, Tria, Rv. 649751-01 e Sez. U, n. 33208/2018, Conti, Rv. 652237-01, con le quali la Corte ha risolto le questioni di massima di particolare importanza relative, rispettivamente, all’incidenza sulla validità del procedimento notificatorio dell’esecuzione della notifica parte di un ufficiale giudiziario diverso da quello competente per legge e alla validità della notificazione a persona sottoposta allo speciale programma di protezione previsto per i collaboratori di giustizia presso il domicilio eletto dal collaboratore ex art. 12, comma 3-bis, del d.l. 15 gennaio 1991, n. 8.

La prima delle suddette pronunce ha chiarito che in tema di notificazioni, la violazione delle norme di cui agli artt. 106 e 107 del d.P.R. 15 dicembre 1959, n. 1229, costituisce una semplice irregolarità del comportamento del notificante, la quale non produce alcun effetto ai fini processuali e, quindi, non configura una causa di nullità della notificazione, derivando dalla violazione di norme di organizzazione del servizio svolto dagli ufficiali giudiziari non incidente sull’idoneità della notificazione ad assolvere alla propria funzione nell’ambito del processo, e può, eventualmente, rilevare soltanto ai fini della responsabilità disciplinare o di altro tipo del singolo ufficiale giudiziario che ha eseguito la notificazione. Tale soluzione interpretativa è stata reputata dalle Sezioni Unite conforme al principio di tassatività delle nullità processuali ed ai principi del giusto processo di cui all’art. 111, comma 2, Cost., e coerente con l’art. 6 della CEDU come interpretato dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, il quale postula l’attribuzione di una maggiore rilevanza allo scopo del processo costituito dalla una decisione di merito, il quale impone di discostarsi da interpretazioni suscettibili di ledere il diritto di difesa della parte o che, comunque, ispirate ad un eccessivo formalismo.

Quanto alla seconda delle suddette questioni, Sez. U, n. 33208/2018, Conti, cit., ha stabilito che il notificante che abbia appreso dell’esistenza di un domicilio eletto dal collaboratore di giustizia o testimone ai sensi dell’art. 12, comma 3-bis, d.l. 15 gennaio 1991, n. 8 può legittimamente notificare presso tale domicilio gli atti processuali, potendo il notificatario far valere con le forme processuali di rito l’eventuale mancata conoscenza dell’atto allo stesso notificato a mezzo dell’addetto alla sua ricezione, individuato dalla struttura di protezione che lo ha in carico, avvalendosi della documentazione rilasciata dal Servizio centrale di protezione.

Un altro importante aspetto sul quale la Corte si è soffermata nell’anno in rassegna è quello dell’onere di riattivazione del procedimento notificatorio nel caso in cui la notificazione non si perfezioni per cause non imputabili al notificante.

Occorre considerare, a riguardo, Sez. 5, n. 30245/2018, Fraulini, Rv. 651559-01, secondo cui, premesso che il rischio della notificazione ricade sul notificante, laddove la notifica sia effettuata in prossimità della scadenza dei termini di impugnazione e non si perfezioni per cause imputabili al notificante – quale deve ritenersi la circostanza che il destinatario non era conosciuto nel luogo indicato dal richiedente – si determina il passaggio in giudicato della sentenza impugnata.

Ancora, occorre ricordare Sez. 3, n. 29039/2018, Di Florio, Rv. 651662-01, secondo cui in caso di notificazione di un atto di impugnazione tempestivamente consegnato all’ufficiale giudiziario, qualora la notificazione non si sia perfezionata per l’avvenuto trasferimento del difensore domiciliatario, e l’ufficiale giudiziario abbia appreso, già nel corso della prima tentata notifica, il nuovo domicilio del procuratore, il procedimento notificatorio non può ritenersi esaurito ed il notificante non incorre in alcuna decadenza, a nulla rilevando che la notifica si perfezioni successivamente allo spirare del termine per proporre gravame, atteso che non può ridondare a danno del notificante la violazione, da parte dell’ufficiale giudiziario, del dovere di provvedere alla contestuale prosecuzione del procedimento notificatorio presso il luogo in cui egli abbia appreso che si trovi il notificatario.

Sullo stesso tema, Sez. 6-3, n. 20700/2018, Scarano, Rv. 650482-01, ha chiarito che in caso di notifica di atti processuali non andata a buon fine per ragioni non imputabili al notificante, questi, appreso dell’esito negativo, per conservare gli effetti collegati alla richiesta originaria, deve riattivare il processo notificatorio con immediatezza e svolgere con tempestività gli atti necessari al suo completamento, ossia senza superare il limite di tempo pari alla metà dei termini indicati dall’art. 325 c.p.c., salvo circostanze eccezionali di cui sia data prova rigorosa.

Nell’anno in rassegna è stato, inoltre, ribadito il principio generale, positivizzato nell’art. 149 c.p.c., della scissione temporale del perfezionamento della notificazione tra notificante e notificatario.

In materia di procedimento monitorio, Sez. L, n. 25716/2018, Marchese, Rv. 650945-01, ha, a riguardo, affermato che, a seguito delle statuizioni della Corte costituzionale (sentenze n. 477 del 2002 e n. 28 del 2004), la notificazione del decreto ingiuntivo deve ritenersi perfezionata, per il notificante, al momento della consegna del plico all’ufficiale giudiziario, in virtù di un principio di portata generale, posto a tutela dell’interesse del notificante a non vedersi addebitato l’esito intempestivo del procedimento notificatorio per la parte sottratta alla sua disponibilità.

Con riferimento alla notificazione in mani proprie, ovvero alla forma notificatoria che meglio realizza la garanzia di effettiva conoscenza dell’atto da parte del destinatario, deve essere segnalata Sez. 2, n. 09257/2018, Fortunato, Rv. 648089-01, la quale ha chiarito che tale notifica è sempre valida, a prescindere dalla circostanza che la consegna del piego non sia avvenuta nei luoghi ove essa deve essere effettuata, prevalendo il fatto che l’atto sia stato comunque ricevuto dal destinatario.

Alcune pronunce hanno, poi, affrontato la questione della presunzione di preventiva ricerca senza esito del destinatario scaturente dalla consegna dell’atto ad una delle persone e presso uno dei luoghi di cui all’art. 139 c.p.c.

Con specifico riferimento alle persone indicate nel comma 2 di tale disposizione, Sez. 5, n. 30393/2018, Varrone, Rv. 651563-01, ha affermato che la presunzione circa la qualità di addetto alla casa del consegnatario non può essere vinta mediante la produzione di una certificazione anagrafica, le cui risultanze non sono di per sé idonee ad escludere l’esistenza di un rapporto di parentela con il destinatario della notifica.

Sullo stesso tema Sez. 2, n. 24681/2018, Grasso Giu., Rv. 650658-01, ha, inoltre, chiarito che la notificazione mediante consegna a una delle persone enumerate nell’art. 139 c.p.c. deve essere necessariamente eseguita nei luoghi nella norma stessa indicati, giacché la certezza che la persona legata da rapporti di famiglia o di collaborazione con il destinatario provveda a trasmettergli l’atto ricevuto può ritenersi pienamente raggiunta soltanto se la consegna avvenga in un luogo comune al consegnatario e al destinatario e nel quale, quindi, si presuma che costoro abbiano degli incontri quotidiani. Ne consegue, quindi, la nullità della notificazione per mancanza di tale certezza, qualora dalla relazione dell’ufficiale giudiziario espressamente risulti che l’atto sia stato consegnato a una delle dette persone, ma in un luogo diverso da quelli previsti dalla norma; al contrario, la mancata precisazione nella relata del luogo della consegna stessa non determina la nullità della notificazione, dovendo presumersi, in assenza di annotazioni contenute nella relata, che la notificazione sia stata eseguita in uno dei luoghi prescritti, sicché la omessa annotazione si risolve in una mera irregolarità formale non influente sulla validità della notifica, né sulla efficacia (di atto pubblico) della relata con riguardo al luogo di consegna.

Ancora in tema di notificazione ex art. 139 c.p.c., Sez. 5, n. 18716/2018, Guida, Rv. 649621-01, ha affermato che la validità della notificazione a persona di famiglia non postula un rapporto di stabile convivenza con il destinatario, essendo sufficiente che il consegnatario sia legato ad esso da un vincolo di parentela comportante diritti e doveri reciproci e, con questi, la presunzione che l’atto sarà da essi subito consegnato al destinatario. Ne consegue che nel caso in cui la persona di famiglia reperita dall’ufficiale giudiziario presso la casa di abitazione del destinatario accetti di ricevere l’atto senza riserve, la validità della notificazione può essere esclusa soltanto se il destinatario, il quale neghi di avere ricevuto l’atto, dia la dimostrazione che la presenza in casa del familiare era del tutto occasionale e momentanea, non essendo invece sufficiente ad inficiare la validità della notifica dell’atto da lui ricevuto la prova di una diversa residenza anagrafica.

Quanto, infine, alla prova della qualità di persona di famiglia, di addetta alla casa, all’ufficio o all’azienda, di vicina di casa di chi ha ricevuto l’atto, merita di essere segnalata Sez. L, n. 08418/2018, Boghetich, Rv. 648194-01, secondo la quale detta qualità si presume iuris tantum dalle dichiarazioni recepite dall’ufficiale giudiziario nella relata di notifica, incombendo sul destinatario dell’atto, che contesti la validità della notificazione, l’onere di fornire la prova contraria e, in particolare, di provare l’inesistenza di un rapporto con il consegnatario comportante una delle qualità suddette ovvero l’occasionalità della presenza dello stesso consegnatario.

Per quanto concerne la portata del rifiuto di ricevere l’atto notificato, nell’annualità in esame la Corte ha ribadito che lo stesso è equiparabile alla notificazione effettuata in mani proprie soltanto se sia certa l’identificazione dell’autore del rifiuto con il destinatario dell’atto, non essendo consentita un’analoga equiparazione nel caso in cui il rifiuto sia stato opposto da un soggetto del tutto estraneo, ma anche ove l’accipiens sia un congiunto o un addetto alla casa pur abilitati da norme diverse alla ricezione dell’atto (Sez. 6-5, n. 09779/2018, Conti, Rv. 647735-01).

Ancora, a proposito del rifiuto di ricevere l’atto notificato a mezzo del servizio postale, Sez. 5, n. 16237/2018, Condello, Rv. 649198-01, ha chiarito che l’annotazione dell’agente postale sull’avviso di ricevimento dalla quale risulti il rifiuto senza ulteriore specificazione circa il soggetto – destinatario oppure persona diversa abilitata a ricevere il plico – che ha in concreto opposto il rifiuto, può legittimamente presumersi riferita al rifiuto di ricevere il plico o di firmare il registro di consegna opposto dal destinatario, con conseguente completezza dell’avviso e, dunque, legittimità e validità della notificazione.

Per quanto riguarda la notificazione presso il domiciliatario, di sicuro interesse è Sez. 6-2, n. 14455/2018, Carrato, Rv. 649091-01, secondo la quale è valida la notificazione dell’atto di appello effettuata presso il procuratore nel domicilio eletto nel giudizio di primo grado e non revocato, senza che assuma rilevanza l’avvenuto trasferimento, nell’ambito della medesima circoscrizione, del domicilio del procuratore stesso che sia medio tempore sopravvenuto e sia stato comunicato al competente Consiglio dell’Ordine, ma non alla controparte.

Sempre in materia di notificazione presso il domiciliatario, Sez. L, n. 09315/2018, Garri, Rv. 626067-01, ha, inoltre, chiarito che è valida e produttiva di effetti la notificazione effettuata a mezzo del servizio postale presso il domicilio dichiarato per il giudizio mediante consegna del plico al portiere, a nulla rilevando che il difensore destinatario della notifica ex artt. 136 e 170 c.p.c. abbia nel frattempo comunicato al proprio ordine professionale la variazione dello studio, attestando la relata di notifica la conservazione di un vincolo funzionale con lo studio professionale risultante dagli atti, tale da autorizzare la presunzione che il difensore medesimo sia stato informato del contenuto dell’atto notificato.

Ancora, occorre considerare, a riguardo, Sez. 2, n. 08537/2018, Scarpa, Rv. 648010-01, che ha precisato che la notificazione presso il procuratore domiciliatario della parte è validamente eseguita con la consegna di copia dell’atto ad un collega di studio, ove lo stesso abbia ricevuto tale copia senza riserva alcuna. Spetta, pertanto, al procuratore destinatario della detta notificazione che ne contesti la ritualità dimostrare l’inesistenza di ogni relazione di collaborazione professionale con il summenzionato collega e la casualità della sua presenza nel proprio studio.

Per quanto concerne la notificazione alle persone giuridiche, di sicuro interesse è il principio enunciato da Sez. 1, n. 16854/2018, Campese, Rv. 649541-01, secondo il quale la notifica del ricorso per la dichiarazione di fallimento, eseguita dall’ufficiale giudiziario tramite il servizio postale in favore del socio illimitatamente responsabile di una società di persone, anche in qualità di rappresentante di quest’ultima, è ammissibile ai sensi dell’art. 145 c.p.c. (che, invero, richiama gli artt. 140 e 143 c.p.c.) e deve perciò ritenersi valida, nei riguardi tanto del socio che dell’ente da lui rappresentato, rilevando in tal senso, da un lato, l’idoneità della notifica in parola all’instaurazione del contraddittorio con la persona giuridica – cui è pertanto assicurato l’esercizio del diritto di difesa – e, dall’altro lato, la connotazione non esclusiva, ma meramente alternativa, del procedimento notificatorio semplificato di cui all’art. 15, comma 3, l. fall., che non esclude, sussistendone i presupposti, l’impiego delle forme ordinarie.

Ancora, con riferimento alla notifica ex art. 145 c.p.c., Sez. 1, n. 27299/2018, Vella, Rv. 651465-01, ha affermato che la notificazione del decreto di fissazione dell’udienza prefallimentare, ai sensi dell’art. 145 c.p.c., come modificato dall’art. 2 della l. 28 dicembre 2005, n. 263 (applicabile ratione temporis), è correttamente effettuata nei confronti della persona fisica del legale rappresentante indicato in atti; infatti, la predetta riforma ha previsto, non più in via residuale, ma alternativa, la possibilità di notificare, l’atto destinato ad un ente, direttamente alla persona che lo rappresenta (purché ne siano indicati nell’atto qualità, residenza, domicilio o dimora), senza previo tentativo di notificazione all’ente presso la sede legale, secondo le modalità disciplinate, per le persone fisiche, dagli artt. 138, 139 e 141 c.p.c.

Merita, infine, di essere richiamata Sez. 1, n. 06654/2018, Genovese, Rv. 648138-01, secondo la quale in tema di notificazioni ad una persona giuridica, è valida quella eseguita presso la sede a mezzo del servizio postale, ai sensi dell’art. 149 c.p.c., non essendovi alcuna previsione di legge ostativa al riguardo, con la precisazione che, laddove l’art. 145, comma 3, c.p.c. consente la notifica alla società con le modalità previste dagli artt. 140 e 143 c.p.c., deve ritenersi parimenti ammissibile la notifica compiuta con gli avvisi di deposito di cui all’art. 8, comma 2, della legge 20 novembre 1982, n. 890, che costituiscono modalità sostanzialmente equivalenti alla notificazione ex art. 140 c.p.c., ovvero solo nei casi in cui sia specificato il nominativo ed il recapito del legale rappresentante e risulti impossibile poterlo consegnare presso la sede legale della società per l’assenza di persone che possano riceverlo.

Nell’anno in rassegna si sono, inoltre, registrate diverse pronunce in materia di notificazione a mezzo del servizio postale cui va data evidenza per la novità dei profili che hanno messo in luce.

Occorre, innanzitutto, considerare, a riguardo, Sez. 6-2, n. 18472/2018, Cosentino, Rv. 649863-01, la quale, con specifico riferimento alla comunicazione a mezzo di raccomandata semplice dell’avvenuta notifica di un atto con consegna del plico a persona diversa dal destinatario, ha chiarito che l’attestazione di invio di tale raccomandata con l’indicazione del solo numero e non del nome e dell’indirizzo del detto destinatario copre con fede privilegiata soltanto l’avvenuta spedizione di una raccomandata con il menzionato numero, con la conseguenza che la prova dell’invio al destinatario presso il suo indirizzo va fornita da chi è interessato a fare valere la ritualità della notifica, producendo la relativa ricevuta di spedizione o tramite altro idoneo mezzo di prova. (Nella specie, veniva in rilievo una vicenda anteriore all’abrogazione dell’art. 7, comma 6, l. 20 novembre 1982, n. 890 ad opera dell’art. 1, comma 97-bis, lett. f), l. 23 dicembre 2014, n. 190, come modificato dall’art. 1, comma 461, l. 27 dicembre 2017, n. 205).

Ancora, con riferimento al profilo della tempestività della notificazione di un atto eseguita a mezzo posta, inclusa l’ipotesi in cui l’atto sia stato depositato presso l’ufficio postale per assenza del destinatario e sia stata spedita la lettera raccomandata contenente l’avviso di tentata notificazione, Sez. 3, n. 15374/2018, Guizzi, Rv. 649056-01, ha precisato che occorre fare riferimento esclusivamente ai dati risultanti dall’avviso di ricevimento, essendo soltanto tale documento idoneo a fornire la prova dell’esecuzione della notificazione, della data in cui è avvenuta e della persona cui il plico è stato consegnato. (Nella fattispecie, la S.C. ha ribadito che, ai sensi dell’art. 8, comma 4, l. n. 890 del 1982, la notificazione si perfeziona decorsi dieci giorni dalla data di spedizione della raccomandata, risultante appunto dall’avviso di ricevimento, restando irrilevanti sia la data di eventuale ritiro del plico, se successiva alla scadenza di tale termine, sia la data in cui l’ufficiale postale abbia annotato sul plico la compiuta giacenza).

Inoltre, Sez. 5, 14574/2018, Giudicepietro, Rv. 648777-01-02, ha chiarito che nell’ipotesi di smarrimento o distruzione dell’avviso di ricevimento, l’unico atto idoneo a provare l’avvenuta notificazione è, ai sensi dell’art. 8 del d.P.R. 29 maggio 1982, n. 655, il duplicato rilasciato dall’Ufficio postale, che, peraltro, non deve essere sottoscritto dalla persona alla quale il piego era stato consegnato, assumendo rilevanza il registro di consegna attestante l’avvenuta ricezione dell’avviso originario, del quale il duplicato deve essere una riproduzione fedele, contenendo tutte le indicazioni proprie dello stesso, compresa l’indicazione del soggetto che ha ricevuto l’atto. La stessa pronuncia ha, inoltre, affermato che in tema di notificazione a mezzo posta, il duplicato dell’avviso di ricevimento, alla medesima stregua dell’originale, ha natura di atto pubblico e, pertanto, fa piena prova ex art. 2700 c.c. in ordine alle dichiarazioni delle parti ed agli altri fatti che l’agente postale, mediante la sottoscrizione apposta sull’avviso di ricevimento, attesta essere avvenuti in sua presenza, sicché il destinatario che intenda contestare l’avvenuta notificazione è tenuto a proporre querela di falso nei confronti di detto atto.

Occorre, infine, segnalare Sez. 6-3, n. 03292/2018, Scarano, Rv. 647614-01, la quale ha precisato che in tema di notificazioni a mezzo posta, il relativo servizio si basa su di un mandato ex lege tra colui che richiede la notificazione e l’ufficiale giudiziario che la esegue, eventualmente avvalendosi, quale ausiliario, dell’agente postale, nell’ambito di un distinto rapporto obbligatorio, al quale il notificante rimane estraneo. Ne consegue che, in caso di ritardo nella consegna dell’avviso di ricevimento relativo alla notifica di atti giudiziari effettuati a mezzo posta, nei confronti del richiedente la notifica risponde, ai sensi dell’art. 1228 c.c., esclusivamente l’ufficiale giudiziario, non anche l’agente postale del quale costui si avvalga.

Per quanto riguarda le notificazioni nei confronti delle amministrazioni dello Stato, particolarmente rilevante è il principio espresso da Sez. 3, n. 28528/2018, D’Arrigo, Rv. 651657-01, per il quale, in materia di notificazione dell’impugnazione del preavviso di fermo amministrativo ex art. 86 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, poiché detta impugnazione ha natura di ordinaria azione di accertamento negativo della pretesa creditoria, segue le regole generali del rito ordinario di cognizione, con la conseguenza che ad essa è applicabile la previsione di cui al combinato disposto dell’art. 144, comma 1, c.p.c. e dell’art. 11, comma 1, del r.d. del 30 ottobre del 1933, n. 1611, in forza del quale l’atto introduttivo del giudizio nei confronti di un’amministrazione dello Stato deve essere notificato presso l’ufficio dell’Avvocatura dello Stato nel cui distretto ha sede l’autorità giudiziaria competente, con esclusione della deroga prevista dagli artt. 6, comma 9, e 7, comma 8, del d.lgs. 1 settembre 2011, n. 150 in forza della quale nei soli giudizi di opposizione ad ordinanza-ingiunzione e di opposizione al verbale di accertamento di violazione del codice della strada il ricorso introduttivo è notificato all’autorità amministrativa che ha emanato l’atto impugnato, la quale può stare in giudizio personalmente o avvalendosi di propri funzionari delegati. (Nella specie, la S.C. ha rilevato la nullità della notificazione dell’atto introduttivo del giudizio ed ha, quindi, cassato la sentenza impugnata con rinvio ai sensi dell’art. 383, comma 3, c.p.c. al giudice di primo grado cui ha demandato la rinnovazione della notificazione dell’atto di citazione in ossequio all’enunciato principio di diritto).

Occorre, altresì, considerare alcune pronunce in materia di notificazione all’estero che hanno affrontato aspetti di particolare interesse.

Secondo Sez. 3, n. 28509/2018, D’Arrigo, Rv. 651339-01, in ipotesi di notificazione di un atto giudiziario in uno Stato membro dell’Unione europea, il notificante ha l’onere di provare la traduzione dell’atto, ai sensi dell’art. 8 del Regolamento CE n. 1393 del 2007 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 13 novembre 2007, in una lingua compresa dal destinatario oppure nella lingua ufficiale dello Stato di destinazione. Questa dimostrazione può essere fornita anche attraverso l’attestazione dell’ufficiale giudiziario italiano, ma tale dichiarazione, in quanto relativa ad una notificazione che si perfeziona all’estero, non fa fede fino a querela di falso e può essere vinta dalla prova contraria. L’accertamento della carenza di traduzione non determina l’invalidità del procedimento notificatorio, ma impone soltanto l’assegnazione, anche officiosa, di un termine per la sua regolarizzazione, nonché il rilievo di non decorrenza, per il destinatario, del termine perentorio dalla ricezione dell’atto, con conseguente impossibilità di ritenere tardiva l’attività processuale da lui eventualmente compiuta in presenza di una preclusione non verificatasi.

Va inoltre richiamata Sez. 6-2, n. 22000/2018, Carrato, Rv. 650355-01, la quale ha chiarito che, in tema di notifica di verbale di accertamento di violazione amministrativa a persona residente in altro Stato membro dell’Unione europea, la validità della procedura di cui all’art. 14 del Regolamento del 13 novembre 2007, n. 1393 del Parlamento europeo e del Consiglio, che consente agli Stati membri, in virtù del criterio del reciproco affidamento, di avvalersi direttamente del servizio postale, mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento o altro mezzo equivalente, non può essere condizionata all’applicazione all’estero di ulteriori modalità stabilite dalle leggi nazionali in materia di notifica tramite posta, dovendosi osservare le sole disposizioni dello Stato membro di destinazione che siano dettate in modo speciale per la concreta esecuzione dei singoli atti previsti dalla sua legislazione. Tale procedura è applicabile a tutti gli organi, ivi compresi i comuni, che siano legittimati nell’ordinamento interno di ogni Stato membro a porre in essere le attività notificatorie. (Fattispecie relativa a notifica di verbale di accertamento effettuata a mezzo posta dal Comune di Firenze nei confronti di cittadino tedesco residente in Germania ai sensi dell’art. 201 del codice della strada).

Sez. 3, n. 22554/2018, Saija, Rv.650855-01 ha poi affermato che in tema di notificazione di atti giudiziari all’estero a mezzo del servizio postale ai sensi della Convenzione relativa alla notifica all’estero di atti giudiziari in materia civile o commerciale, adottata a L’Aja il 15 novembre 1965, resa esecutiva con la legge di autorizzazione alla ratifica n. 42 del 6 febbraio 1981, deve ritenersi invalida la notifica effettuata in Germania con trasmissione diretta a mezzo posta, atteso che tale paese, pur avendo ratificato detta Convenzione, si è opposto, ai sensi degli artt. 10 e 21 della stessa, alla trasmissione degli atti mediante consegna “diretta”.

Occorre, infine, considerare Sez. 2, n. 11299/2018, Bellini, Rv. 648097-01, la quale, in materia di notificazione per pubblici proclami, ha precisato che la mancanza dei presupposti di fatto in forza dei quali è autorizzata la notificazione per pubblici proclami, previsti dall’art. 150 c.p.c., è sindacabile dal giudice del merito, con la conseguenza che il convenuto contumace in primo grado può denunziarne in sede di gravame l’effettiva insussistenza, nella specie confermando la decisione della corte territoriale che aveva ritenuto nulla la notificazione per pubblici proclami della citazione in primo grado perché l’appellata conosceva generalità e recapiti degli appellanti, con alcuni dei quali era in trattative per dividere un compendio immobiliare.

11. Processo civile telematico. Rinvio.

Per un approfondimento sulla problematica delle notifiche a mezzo posta elettronica certificata e, più in generale, sulle questioni del processo civile telematico, in considerazione del crescente numero di decisioni emesse dalla S.C. sulle questioni processuali emerse sull’applicazione della relativa disciplina speciale, si rinvia all’apposita rassegna tematica ragionata e completa di tutta la giurisprudenza di legittimità sull’argomento predisposta dall’Ufficio del Massimario (a cura di Ileana Fedele), rassegna che è stata aggiornata sino alla data del 19 febbraio 2019.

  • spese processuali
  • giurisdizione civile

CAPITOLO VIII

LE SPESE E LA RESPONSABILITÀ PROCESSUALE AGGRAVATA

(di Donatella Salari )

Sommario

1 La condanna alle spese. - 1.1 Il principio di soccombenza. - 1.2 Liquidazione delle spese. - 2 Compensazione delle spese. - 3 Distrazione delle spese. - 4 Responsabilità processuale cd. aggravata.

1. La condanna alle spese.

L’art. 91 c.p.c. sancisce il potere/dovere del giudice, da esercitarsi anche d’ufficio, di liquidare le spese del procedimento al termine dello stesso.

La norma è interpretata da lungo tempo in senso ampio nella giurisprudenza della Corte di legittimità che ha ritenuto la stessa applicabile a qualsiasi provvedimento che, nel risolvere contrapposte pretese, definisce il procedimento, indipendentemente dalla natura e dal rito del procedimento medesimo (v., tra le altre, Sez. 1, n. 19979/2008, Genovese, Rv. 605090-01).

1.1. Il principio di soccombenza.

Regola generale, sull’assunto per il quale una tutela giurisdizionale effettiva postula che la parte che ha ragione non possa essere tenuta a sopportare in via definitiva il carico delle spese processuali, è quella secondo cui deve essere condannata alle spese la parte soccombente.

A riguardo, occorre considerare, su un piano generale, che, agli effetti del regolamento delle spese processuali, la soccombenza può essere determinata non soltanto da ragioni di merito, ma anche da ragioni di ordine processuale, non richiedendo l’art. 91 c.p.c., per la statuizione sulle spese, una decisione che attenga al merito, bensì una pronuncia che chiuda il processo davanti al giudice adito (Sez. 3, n. 22257/2018, Fiecconi, Rv. 650593-01).

Inoltre, ove il processo si articoli in più gradi, la soccombenza deve essere vagliata secondo il cd. principio di globalità. In virtù di tale assunto si segnala, ad esempio, nell’anno in rassegna, Sez. 3, n. 09064/2018, Iannello, Rv. 648466–01, secondo cui il giudice di appello, allorché riformi in tutto o in parte la sentenza impugnata, deve procedere d’ufficio, quale conseguenza della pronuncia di merito adottata, ad un nuovo regolamento delle spese processuali, il cui onere va attribuito e ripartito tenendo presente l’esito complessivo della lite poiché la valutazione della soccombenza opera, ai fini della liquidazione delle spese, in base ad un criterio unitario e globale, mentre, in caso di conferma della sentenza impugnata, la decisione sulle spese può essere modificata soltanto se il relativo capo della sentenza abbia costituito oggetto di specifico motivo d’impugnazione.

Costituisce espressione del principio di globalità nella liquidazione delle spese processuali anche Sez. 2, n. 15506/2018, Orilia, Rv. 649258-01, secondo cui il giudice del rinvio, al quale la causa sia rimessa dalla Corte di cassazione anche perché decida sulle spese del giudizio di legittimità, è tenuto a provvedere sulle spese delle fasi di impugnazione, se rigetta l’appello, e su quelle dell’intero giudizio, se riforma la sentenza di primo grado, secondo il principio della soccombenza applicato all’esito globale del giudizio, piuttosto che ai diversi gradi dello stesso ed al loro risultato.

Sulla concreta individuazione della parte soccombente, si registrano parimenti diverse pronunce di rilievo nell’anno in considerazione.

In particolare è stato ribadito il consolidato principio per il quale poiché, ai fini della distribuzione dell’onere delle spese del processo tra le parti, essenziale criterio rivelatore della soccombenza è l’aver dato causa al giudizio, la soccombenza non è esclusa dalla circostanza che, una volta convenuta in giudizio, la parte sia rimasta contumace o abbia riconosciuto come fondata la pretesa che aveva prima lasciato insoddisfatta, così da renderne necessario l’accertamento giudiziale (Sez. 1, n. 13498/2018, Scaldaferri, Rv. 649328-01). Rispetto alla situazione speculare, ossia quella inerente la vittoria in giudizio della parte rimasta contumace, Sez. 6-3, n. 16164/2018, Amendola A., Rv. 649432-01, ha evidenziato che la condanna alle spese processuali, a norma dell’art. 91 c.p.c., ha il suo fondamento nell’esigenza di evitare una diminuzione patrimoniale alla parte che ha dovuto svolgere un’attività processuale per ottenere il riconoscimento e l’attuazione di un suo diritto; sicché essa non può essere pronunziata in favore del contumace vittorioso, poiché questi, non avendo espletato alcuna attività processuale, non ha sopportato spese al cui rimborso abbia diritto. Ne consegue, come affermato da Sez. 3, n. 16786/2018, Frasca, Rv. 649548-01, che la statuizione con la quale il giudice liquidi, in favore della parte vittoriosa in appello, le spese processuali del primo grado di giudizio, nel quale la stessa era rimasta contumace, deve essere cassata senza rinvio, in applicazione dell’art. 382, comma 3, c.p.c., in quanto, pur essendo espressione di un potere officioso del giudice, la condanna alle spese in favore della parte vittoriosa che non si sia difesa e non abbia, quindi, sopportato il corrispondente carico non può essere disposta ed è assimilabile ad una pronuncia resa in mancanza del suddetto potere.

Sotto un distinto profilo, la S.C. ha riaffermato il principio per il quale il rimborso delle spese processuali sostenute da colui che sia legittimamente intervenuto ad adiuvandum è posto, senza che occorra che la sua presenza sia stata determinante ai fini dell’esito favorevole della lite per l’adiuvato, a carico della parte la cui tesi difensiva, risultata infondata, abbia determinato l’interesse all’intervento (cfr. Sez. 2, n. 11670/2018, Rv. 648325-01, la quale ha condannato la parte soccombente al pagamento delle spese anche in favore dei condomini intervenuti in un giudizio instaurato dal condominio del quale erano parte per la difesa di diritti connessi alla loro partecipazione al condominio stesso).

Nel corso dell’anno è stato inoltre confermato, sempre in tema di processo soggettivamente cumulato, l’assunto in virtù del quale le spese processuali sostenute dal terzo chiamato in causa dal convenuto, che sia risultato totalmente vittorioso nella causa intentatagli dall’attore, sono legittimamente poste, in base al criterio della soccombenza, a carico del chiamante, la cui domanda di garanzia o di manleva sia stata giudicata infondata (Sez. 1, n. 014195/2018, Fichera, Rv. 647422-01, in fattispecie nella quale la Corte ha chiarito che la domanda di manleva, spiegata dal convenuto con la chiamata in causa di un terzo, non necessariamente deve essere valutata “manifestamente infondata” o “palesemente arbitraria” ai fini della condanna del chiamante al rimborso delle spese processuali sostenute dal chiamato).

La Corte di legittimità ha inoltre ribadito l’orientamento, ormai consolidato nella propria giurisprudenza, per il quale nel caso di azione o di impugnazione promossa dal difensore senza effettivo conferimento della procura da parte del soggetto nel cui nome egli dichiari di agire nel giudizio o nella fase di giudizio di che trattasi (come nel caso di inesistenza della procura ad litem o falsa o rilasciata da soggetto diverso da quello dichiaratamente rappresentato o per processi o fasi di processo diverse da quello per cui l’atto è speso), l’attività del difensore non riverbera alcun effetto sulla parte e resta attività processuale di cui il legale assume esclusivamente la responsabilità e, conseguentemente, è ammissibile la sua condanna a pagare le spese del giudizio (Sez. 3, n. 13055/2018, Frasca, Rv. 649105-01, fattispecie nella quale la S.C. ha ritenuto che l’inesistenza in vita del soggetto al momento della proposizione del ricorso connoti l’attività del legale come attività direttamente a lui riferibile, restando privo di rilievo il fatto che la procura potesse essere stata effettivamente rilasciata dalla parte anteriormente al proprio decesso e prima della pronuncia della sentenza impugnata).

1.2. Liquidazione delle spese.

Sotto un primo aspetto, anche nell’anno in rassegna, la S.C. è stata chiamata ad individuare la tipologia di spese che devono intendersi liquidate dal giudice, a prescindere da un espresso riferimento alle stesse nel dispositivo della decisione.

Occorre in primo luogo segnalare Sez. 1, n. 13693/2018, Campese, Rv. 648785-02, la quale, ponendosi nel solco della precedente giurisprudenza di legittimità, ha affermato il principio in virtù del quale il rimborso cd. forfettario delle spese generali costituisce una componente delle spese giudiziali, la cui misura è predeterminata dalla legge, e spetta automaticamente al difensore, anche in assenza di allegazione specifica e di apposita istanza, che deve ritenersi implicita nella domanda di condanna al pagamento degli onorari giudiziali che incombe sulla parte soccombente. Sul piano della tutela esecutiva, si è precisato che ove nel dispositivo di una sentenza sia contenuta la condanna alle spese con la distrazione in favore dell’avvocato, ma senza la previsione espressa del cd. rimborso forfettario a titolo di spese generali, il procuratore distrattario è legittimato ad azionare il titolo in sede esecutiva senza dover impugnare la sentenza, fermo restando che la somma dovuta per tale voce di tariffa può essere, tuttavia, riconosciuta solo ove la sentenza distingua gli esborsi dai diritti e dagli onorari, risultando altrimenti carenti i requisiti di liquidità e di certezza che devono caratterizzare il diritto di credito oggetto di un titolo esecutivo ex art. 474 c.p.c. (Sez. L, n. 03970/2018, Riverso, Rv. 647445-01).

Allo stesso modo è stato ribadito l’indirizzo interpretativo per il quale le spese di registrazione della sentenza, in quanto conseguenti alla pronuncia, devono ritenersi rientranti tra le spese di lite, senza che nel provvedimento di condanna della parte soccombente sia necessaria un’espressa statuizione al riguardo (Sez. 2, n. 25680/2018, Tedesco, Rv. 650832-01).

Sempre in tema di liquidazione delle spese, ai fini della determinazione del valore della causa, è stato ribadito il consolidato assunto in omaggio al quale, nell’ipotesi di rigetto della domanda, nei giudizi per pagamento di somme o risarcimento di danni, il valore della controversia, ai fini della liquidazione degli onorari di avvocato a carico dell’attore soccombente, è quello corrispondente alla somma da quest’ultimo domandata, dovendosi seguire soltanto il criterio del disputatum, senza che trovi applicazione il correttivo del decisum (Sez. 2, n. 28417/2018, Criscuolo, Rv. 651045-02). Inoltre, nel valore della controversia, deve essere “computato” anche quello delle domande riconvenzionali eventualmente proposte (cfr. Sez. 3, n. 30840/2018, Guizzi, Rv. 651861-01).

È stato altresì precisato, da parte di Sez. 3, n. 11742/2018, Rossetti, Rv. 648611-01, che nell’ipotesi in cui il convenuto, chiamando in causa un terzo, domandi nei suoi confronti non solo l’estensione dell’accertamento del rapporto principale, ma anche l’accertamento dell’esistenza del rapporto di garanzia (chiamata in garanzia oggettivo-soggettiva), il valore della causa, ai fini della liquidazione delle spese a carico del soccombente, deve essere determinato secondo il valore dell’oggetto del contendere tra le parti principali, atteso che in tale ipotesi unico diventa l’accertamento richiesto al giudice nei confronti di tutte le parti e, per effetto di tale estensione oggettiva e soggettiva, si viene a creare un litisconsorzio necessario.

Quanto ai parametri cui occorre fare riferimento in sede di liquidazione delle spese, nell’ipotesi di variazione degli stessi in corso di causa, nel solco del generale principio enunciato da Sez. U, n. 17405/2012, Rordorf, Rv. 623533-01 (confermata nell’anno in rassegna da Sez. 6-3, n. 17577/2018, Rossetti, Rv. 649689-01), si è affermato che i parametri previsti dal d.m. n. 37 del 2018, cui devono essere commisurati i compensi dei professionisti, vanno applicati ogni qual volta la liquidazione giudiziale intervenga in un momento successivo alla data di entrata in vigore del predetto decreto a condizione che a tale data non sia stata ancora completata la prestazione professionale, ancorché essa abbia avuto inizio e si sia in parte svolta nella vigenza della pregressa regolamentazione, atteso che l’accezione omnicomprensiva di “compenso” evoca la nozione di un corrispettivo unitario per l’opera complessivamente prestata (Sez. L, n. 27233/2018, Mancino, Rv. 651261-01). Tuttavia, è stato precisato, da parte di Sez. 2, n. 01018/2018, Grasso Giu., Rv. 647642-01, che i parametri previsti dal d.m. n. 55 del 2014 il quale non prevalgono, invece, su quelli dettati dal d.m. n. 140 del 2012 per ragioni di mera successione temporale, bensì nel rispetto del principio di specialità, in quanto il d.m. n. 140 del 2012 è volto a regolare la materia dei compensi tra professionista e cliente, mentre il d.m. n. 55 del 2014 detta i criteri che il giudice deve applicare nel regolare le spese di causa.

Resta peraltro fermo il potere del giudice, nella liquidazione delle spese giudiziali, di scendere al di sotto o salire al di sopra dei limiti risultanti dall’applicazione delle massime percentuali di scostamento, purché ne dia apposita e specifica motivazione (cfr., con riguardo ai parametri di cui al d.m. n. 55 del 2014, Sez. 6-2, n. 11601/2018, Cosentino, Rv. 648532-01).

2. Compensazione delle spese.

Tema oggetto di costante dibattito, involgendo uno dei più importanti poteri discrezionali del giudice, è quello afferente la possibilità, riconosciuta dall’art. 92, comma 2, c.p.c. di compensare le spese processuali, anche in ipotesi differenti da quella della cd. soccombenza reciproca.

Nella materia si sono susseguiti, come noto, diversi interventi normativi su tale disposizione volti a restringere il potere del giudice, ovvero: a) la l. n. 263 del 2005, ha imposto al giudice il dovere di motivare circa la sussistenza dei “giusti motivi” posti a fondamento della decisione di compensare le lite; b) la l. n. 69 del 2009 ha ristretto la possibilità di compensazione delle spese processuali all’ipotesi in cui ricorrano “gravi ed eccezionali ragioni”; c) il d.l. n. 132 del 2014, conv. in l. n. 162 del 2014, ha novellato lo stesso art. 92, comma 2, c.p.c. limitando la possibilità di compensare le spese ad alcuni casi tassativi indicati dallo stesso.

Peraltro, proprio nel 2018, la Corte Costituzionale è intervenuta con una pronuncia di carattere additivo, dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 92, comma 2, c.p.c., nel testo modificato dall’art. 13, comma 1, del d.l. n. 132 del 2014, conv., con modif., nella l. n. 162 del 2014, nella parte in cui non prevede che il giudice possa compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni (Corte Cost. n. 77/2014).

Ne deriva che deve ritenersi che, fermi i rapporti esauriti, il giudice possa compensare le spese di lite per “gravi ed eccezionali ragioni” anche nei procedimenti per i quali trovava applicazione l’art. 92, comma 2, c.p.c. nell’ultima formulazione successiva alle modifiche introdotte dalla novella di cui al d.l. n. 132 del 2014, conv. in l. n. 162 del 2014.

Nel delimitare l’ambito del relativo potere giudiziale, Sez. 6-L, n. 23059/2018, Esposito L., Rv. 650923-01, ha chiarito che le “gravi ed eccezionali ragioni” richieste per giustificare la compensazione totale o parziale, ai sensi dell’art. 92, comma 2, c.p.c., non sono determinabili a priori ma devono essere specificate in via interpretativa dal giudice del merito, con un giudizio censurabile in sede di legittimità, in quanto fondato su norme giuridiche. (Fattispecie nella quale la Corte di cassazione ha ritenuto illogica, erronea e non conforme al principio di lealtà ex art. 88 c.p.c. la compensazione delle spese processuali giustificata con il pagamento pressoché integrale degli importi dovuti dall’ingiunto, effettuato in esito all’emissione del provvedimento monitorio e prima della pronuncia di primo grado sul giudizio di opposizione, trattandosi di comportamento non caratterizzato da spontaneità ed inidoneo ad esonerare la parte opposta dall’onere di impugnazione della eventuale pronuncia di accoglimento dell’opposizione proposta).

Con riguardo, invece, alla compensazione delle spese processuali, ai sensi dell’art. 92 c.p.c. (nella formulazione, applicabile ratione temporis, modificata dall’art. 2, comma 1, lett. a), della l. n. 263 del 2005), il giudice è tenuto ad indicare, ove non sussista soccombenza reciproca, i giusti motivi posti a fondamento della stessa che non possono essere costituiti dal riferimento alla natura o al modesto valore della controversia ovvero risolversi nell’uso di motivazioni illogiche o meramente apparenti (Sez. 6-5, n. 25594/2018, Napolitano, Rv. 650982-01), dovendosi ritenere insufficiente a tal fine il mero richiamo alla buona fede della parte soccombente, elemento che può assumere rilievo per escludere la responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c., ma che non giustifica di per sé la pronuncia di compensazione (Sez. L, n. 20617/2018, Di Paolantonio, Rv. 650123-01).

3. Distrazione delle spese.

La Corte, anche nell’anno in rassegna, ha fornito puntuali indicazioni nella materia della distrazione delle spese in favore del difensore, prevista dall’art. 93 c.p.c.

In proposito si segnala, in primo luogo, Sez. 6-3, n. 21281/2018, D’Arrigo, Rv. 650491-01, la quale ha precisato che, se la parte è assistita da più difensori, la distrazione delle spese processuali ai sensi dell’art. 93 c.p.c. richiede l’attestazione che nessuno di essi abbia riscosso gli onorari oggetto della richiesta, pur evidenziando che tale dichiarazione può essere resa anche da uno solo dei difensori, se munito di procura ad agire disgiuntamente, ma deve essere necessariamente riferita all’intero collegio difensivo.

La natura eccezionale della previsione dettata dall’art. 93 c.p.c. impedisce, inoltre, che nel giudizio di legittimità possa essere chiesta la distrazione delle spese in favore di altro avvocato costituito nei giudizi di merito (Sez. L, n. 27397/2018, Bellé, Rv. 651050-01).

Occorre considerare, poi, l’importante precisazione fornita da Sez. 3, n. 13367/2018, Olivieri, Rv. 648796-01, nel senso che l’accordo transattivo tra il difensore della parte vincitrice in primo grado, dichiaratosi antistatario, e la parte soccombente avente ad oggetto i soli compensi professionali del primo, non può ritenersi esteso anche al rapporto oggetto della controversia tra le parti processuali e non denota alcuna acquiescenza alla sentenza di primo grado, in quanto il procuratore ha partecipato alla stipula dell’atto solo in qualità di procuratore antistatario, essendo titolare di un autonoma pretesa a conseguire direttamente la prestazione dalla parte processuale soccombente e non avendo alcuna procura ad negotia idonea a vincolare stragiudizialmente la propria assistita.

Su un piano più generale, anche nell’anno in rassegna, la Corte ha ribadito il consolidato assunto per il quale, in tema di condanna al pagamento delle spese processuali, il debitore non ha interesse a criticare il relativo capo della sentenza per il solo fatto che tale condanna sia stata pronunciata a favore del difensore della sua controparte, anziché della stessa parte rappresentata dal difensore, atteso che l’art. 93 c.p.c. attiene ai rapporti tra la parte e il suo difensore, onde il rispetto, o meno, di detta disposizione normativa non incide in alcun modo sulla posizione giuridica dell’altra parte che, rimasta soccombente, venga condannata a pagare le spese del giudizio, atteso che la sua situazione processuale non può ritenersi aggravata perché il pagamento è stato disposto direttamente nei confronti del difensore e non della parte personalmente (Sez. 2, n. 30945/2018, Bellini, Rv. 651539-01).

4. Responsabilità processuale cd. aggravata.

Nell’anno in rassegna si sono poi registrati diversi interventi significativi sull’art. 96 c.p.c., con importanti precisazioni effettuate anche dalle Sezioni Unite.

Quanto alle condotte sintomatiche dello stato soggettivo di mala fede o colpa grave ai fini della sussistenza della responsabilità ex art. 96, comma 1, c.p.c., Sez. 6-3, n. 04136-2018, Graziosi, Rv. 647994-01, ha precisato che le stesse non si ravvisano soltanto nella consapevolezza della infondatezza in jure della domanda, ma anche nella omessa deduzione di circostanze fattuali dirimenti ai fini della corretta ricostruzione della vicenda controversa.

Diverse sono state le ipotesi nelle quali la Corte è stata poi chiamata a confrontarsi con l’abusiva proposizione di ricorsi per cassazione.

Sul punto, si è precisato che costituisce abuso del diritto di impugnazione, integrante colpa grave, la proposizione di un ricorso per cassazione basato su motivi manifestamente infondati, in ordine a ragioni già formulate nell’atto di appello, espresse attraverso motivi inammissibili, poiché pone in evidenza il mancato impiego della doverosa diligenza ed accuratezza nel reiterare il gravame (Sez. 1, n. 29462/2018, Caiazzo, Rv. 651481-01). In sostanza, non è di per sé abusiva la proposizione di un ricorso per cassazione infondato in diritto ove al contempo lo stesso non denoti consapevolezza della non spettanza della prestazione richiesta o evidenzi un grado di imprudenza, imperizia o negligenza accentuatamente anormali (Sez. 2, n. 27646/2018, Scalisi, Rv. 651031-01).

Inoltre, si è ritenuto, da parte di Sez. 1, n. 02040/2018, Nazzicone, Rv. 646863-01, che, in tema di condanna ex art. 96 c.p.c., integra la “colpa grave” – quale stato soggettivo che si concreta nel mancato doveroso impiego di quella diligenza che consenta di avvertire agevolmente l’ingiustizia della propria domanda – la proposizione di un ricorso per revocazione di una sentenza della Corte di cassazione ove si prospetti come vizio revocatorio un preteso error in iudicando commesso dalla Corte stessa, in presenza di una consolidata e costante giurisprudenza che esclude l’errore di giudizio dai vizi revocatori di cui all’art. 395, n. 4, c.p.c. per le sentenze di legittimità.

È indirizzo costante, sul piano più squisitamente processuale, che la domanda di condanna dell’altra parte per responsabilità ai sensi dell’art. 96 c.p.c. non soggiace alle preclusioni, poiché proprio in corso di causa può “emergere” la condotta della controparte posta a fondamento della stessa (cfr., sulla proponibilità di detta domanda in sede di precisazione delle conclusioni, Sez. 3, n. 14911/2018, Cigna, Rv. 649302-01). Tuttavia, come precisato da Sez. 6-2, n. 27715/2018, Carrato, Rv. 650944-01, l’stanza di condanna per responsabilità aggravata ex art. 96, comma 1, c.p.c. può essere proposta anche nel giudizio di legittimità, purché essa sia formulata, a pena di inammissibilità, nel controricorso.

Per altro verso, è stato ribadito il principio secondo cui l’azione di risarcimento danni ex art. 96, commi 1 e 2, c.p.c. è proponibile in un giudizio separato ed autonomo, rispetto a quello in cui si è verificato l’abuso, solo ove il danneggiato alleghi e provi che tale scelta sia dipesa, non già da una sua mera inerzia, ma da un interesse specifico a non proporre la relativa domanda nello stesso giudizio che ha dato origine all’altrui responsabilità aggravata, interesse che deve essere valutato nel caso concreto per accertarne l’effettiva esistenza ed escludere che sia illegittimo o abusante (Sez. 3, n. 19179/2018, Rubino, Rv. 649732-01). Si è quindi ritenuto che la domanda di risarcimento del danno derivato dall’incauta trascrizione di un pignoramento, ai sensi dell’art. 96, comma 2, c.p.c., può essere proposta in via autonoma solo se non sia stata proposta opposizione all’esecuzione, né poteva esserlo, ovvero quando, proposta opposizione all’esecuzione, il danno patito dall’esecutato sia insorto successivamente alla definizione di tale giudizio, e sempre che si tratti di danno nuovo ed autonomo e non mero aggravamento del pregiudizio già insorto prima della definizione del giudizio di opposizione all’esecuzione (Sez. 3, n. 28527/2018, Rossetti, Rv. 651656-01).

Nel 2018, inoltre, le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno enunciato fondamentali principi in ordine all’interpretazione del comma 3 dell’art. 96 c.p.c., introdotto dalla l. n. 69 del 2009, secondo cui “in ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’art. 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata”.

In particolare, Sez. U, n. 22405/2018, Campanile, Rv. 650462-01, ha affermato che la condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c. è volta a salvaguardare finalità pubblicistiche, correlate all’esigenza di una sollecita ed efficace definizione dei giudizi, nonché interessi della parte vittoriosa ed a sanzionare la violazione dei doveri di lealtà e probità sanciti dall’art. 88 c.p.c., realizzata attraverso un vero e proprio abuso della potestas agendi con un’utilizzazione del potere di promuovere la lite, di per sé legittimo, per fini diversi da quelli ai quali esso è preordinato, con conseguente produzione di effetti pregiudizievoli per la controparte. Ne consegue che la condanna, al pagamento della somma equitativamente determinata, non richiede né la domanda di parte né la prova del danno, essendo tuttavia necessario l’accertamento, in capo alla parte soccombente, della mala fede (consapevolezza dell’infondatezza della domanda) o della colpa grave (per carenza dell’ordinaria diligenza volta all’acquisizione di detta consapevolezza), venendo in considerazione, a titolo esemplificativo, la pretestuosità dell’iniziativa giudiziaria per contrarietà al diritto vivente ed alla giurisprudenza consolidata, la manifesta inconsistenza giuridica delle censure in sede di gravame ovvero la palese e strumentale infondatezza dei motivi di impugnazione (in termini analoghi v. anche Sez. U, n. 09912/2018, Falaschi, Rv. 648130-02).

  • giurisdizione civile
  • responsabilità contrattuale

CAPITOLO IX

IL PROCESSO LITISCONSORTILE

(di Angelo Napolitano )

Sommario

1 Premessa. - 2 Ipotesi di litisconsorzio necessario: casistica. - 2.1 Diritti reali. - 2.2 Comunione legale tra coniugi. - 2.3 Lavoro. - 2.4 Persone, famiglia e successioni. - 3 Litisconsorzio necessario in fase di gravame. - 3.1 Ipotesi normativamente regolate di litisconsorzio necessario nei giudizi di impugnazione. - 4 Conseguenze del rilievo del difetto di integrità del contraddittorio in sede di gravame. - 5 Bilanciamento tra l’esigenza di rilevare in sede di impugnazione il difetto di integrità del contraddittorio e quella di garantire la ragionevole durata del processo. - 6 Litisconsorzio facoltativo.

1. Premessa.

La perimetrazione delle caratteristiche dei rapporti sostanziali che danno vita, in sede contenziosa, a processi litisconsortili, è da sempre uno dei temi più complessi, sotto il profilo teorico e pratico, del diritto processuale civile, anche in ragione della circostanza che l’art. 102, comma 1, c.p.c. costituisce poco più che una norma in bianco, lasciando assolutamente indeterminati i presupposti di applicazione dell’istituto, in quanto non indica in quali casi la decisione deve essere assunta necessariamente nei confronti di più parti.

A riguardo, la S.C. ha da lungo tempo chiarito che il litisconsorzio necessario sussiste, oltre che nei casi tipicamente previsti dalla legge (art. 247 c.c., in tema di disconoscimento della paternità; art. 2900 c.c. in tema di azione surrogatoria; art. 784 c.c. in tema di scioglimento delle comunioni), quando la situazione sostanziale dedotta in giudizio ha natura plurisoggettiva e deve essere decisa in maniera unitaria nei confronti di ogni soggetto che ne sia partecipe, onde la sentenza che non avesse effetti nei confronti di tutti sarebbe inutiliter data, cioè non darebbe, a chi l’ha proposta, la tutela che egli richiede (Sez. 1, n. 04720/1993, Carbone V., Rv. 481970-01).

Le definizioni astratte che possono essere date del litisconsorzio necessario, tuttavia, finiscono per avere uno scarso valore euristico, e di conseguenza qualsiasi lavoro ricostruttivo dell’istituto non può che passare attraverso un’attenta analisi casistica della giurisprudenza.

Quanto alla funzione del litisconsorzio necessario e agli effetti della violazione della regola di cui al primo comma dell’art. 102 c.p.c., la Corte di cassazione ha avuto peraltro modo di precisare che “la funzione dell’istituto è quella di tutelare chi ha proposto la domanda e non potrebbe conseguire quanto richiesto se la sentenza non producesse effetti nei confronti di tutti i litisconsorti, e non invece quella di tutelare il diritto di difesa dei litisconsorti pretermessi, già sufficientemente protetti dall’inefficacia, nei loro confronti, di una pronuncia emessa a seguito di un giudizio cui essi siano rimasti estranei” (così, testualmente, Sez. 1, n. 04714/2004, Rordorf, Rv. 570877-01).

D’altra parte, la S.C. ha anche chiarito che non si verifica un’ipotesi di litisconsorzio necessario quando la situazione plurisoggettiva non è dedotta in giudizio, ma è oggetto di una mera cognizione incidentale ai sensi dell’art. 34 c.p.c., in quanto pregiudiziale alla situazione che diviene oggetto del processo (Sez. 1, n. 14102/2003, Salvago, Rv. 567084-01).

Il tema del litisconsorzio necessario è anche strettamente legato al diritto di difesa, in quanto la mancata estensione del contraddittorio a soggetti che sono parti necessarie dei rapporti sostanziali coinvolti nel giudizio comporta la nullità dell’intero processo e la rimessione della causa al primo giudice.

Esso, inoltre, interseca un altro valore costituzionale, ossia quello della ragionevole durata del processo, enunciato dall’art. 111, comma 2, Cost.

Dichiarare la nullità di un intero giudizio per mancata integrazione del contraddittorio nei confronti di una parte, si pone, infatti, in antitesi con l’obiettivo di assicurare una ragionevole durata dello stesso, sicché si pone il problema di stabilire in quali casi sia eventualmente possibile definirlo senza farlo regredire alla fase o al grado in cui il contraddittorio avrebbe dovuto essere integrato.

Nell’ambito del litisconsorzio necessario, si suole distinguere, poi, il litisconsorzio sostanziale da quello processuale.

In particolare, il litisconsorzio sostanziale si realizza quando l’accertamento, la costituzione, la modificazione o l’estinzione per via giurisdizionale di un rapporto giuridico non può farsi che tra più soggetti, contitolari dell’unico rapporto giuridico o titolari di un rapporto giuridico dipendente rispetto a quello dedotto in giudizio e trattato insieme con quest’ultimo, in primo grado, in simultaneus processus.

Il litisconsorzio processuale, invece, prescinde dalle caratteristiche del rapporto sostanziale dedotto in giudizio, e si ha nei casi in cui la legge vuole che un determinato accertamento giurisdizionale si svolga nel contraddittorio tra più soggetti (Sez. 5, n. 06285/2018, Bernazzani, Rv. 647465-01; Sez. 3, n. 02348/2018, Scoditti, Rv. 647929-01).

2. Ipotesi di litisconsorzio necessario: casistica.

La riconduzione delle fattispecie che si presentano nella prassi al fenomeno del litisconsorzio sostanziale o processuale è il frutto di un’operazione necessariamente casistica con una scarsa efficacia predittiva, in quanto non vi sono indici sicuri, a livello normativo, che consentano di affermare con certezza se un rapporto plurisoggettivo dia necessariamente luogo ad un litisconsorzio necessario in primo grado, e ad una causa inscindibile nei gradi di impugnazione.

Di seguito, pertanto, a partire dalle pronunce dell’anno in corso, saranno esaminate alcune tra le fattispecie più ricorrenti nelle quali si pone, nella prassi, il problema in esame.

2.1. Diritti reali.

Un settore del diritto civile “sensibile” al tema del litisconsorzio necessario è quello dei diritti reali, con peculiare riguardo alle ipotesi di comunione e condominio che implicano, per definizione, la titolarità di una posizione giuridica soggettiva di carattere unitario in capo a più soggetti, ove ricorre litisconsorzio necessario quando l’azione esercitata tenda ad ottenere delle modificazioni materiali alla res oggetto dell’altrui diritto.

Così, Sez. 2, n. 03575/2018, D’Ascola, Rv. 647798-01, ha affermato che la domanda di un terzo estraneo al condominio, volta all’accertamento, con efficacia di giudicato, della proprietà esclusiva su di un bene condominiale ed al conseguente rilascio dello stesso in proprio favore, si deve svolgere in contraddittorio con tutti i condòmini, stante la loro condizione di comproprietari dei beni comuni e la portata delle azioni reali, che incidono sul diritto pro quota o esclusivo di ciascun condòmino, avente pertanto reale interesse a contraddire.

Anche con riferimento ad una sanzione amministrativa relativa al disboscamento non autorizzato di un fondo, consistente non nell’obbligo di pagare una somma di denaro, ma nell’ordine di rimessione in pristino dello stato dei luoghi emesso nei confronti dei comproprietari del fondo e dell’autore materiale della condotta, al relativo giudizio di opposizione devono prendere parte, quali litisconsorti necessari, tutti i soggetti tenuti ad adempiere al suddetto obbligo di facere risultando altrimenti la pronuncia inutiliter data, in quanto non eseguibile nei confronti di coloro che non sono stati chiamati in causa (Sez. 2, n. 30767/2018, Dongiacomo, Rv. 651535-01).

Sez. 2, n. 04685/2018, Scarpa, Rv. 647846-01, ha affermato, inoltre, che nel giudizio promosso per conseguire la rimozione di una costruzione, illegittimamente realizzata in un’unità immobiliare in danno delle parti comuni di un edificio condominiale, sono litisconsorti necessari tutti i comproprietari di tale unità, indipendentemente dal fatto che solo uno od alcuni di essi ne siano stati gli autori materiali.

Sez. 2, n. 15619/2018, Scalisi, Rv. 649178-01, ha ritenuto, poi, che la domanda diretta all’accertamento dell’usucapione di un bene richiede la presenza in causa di tutti i comproprietari in danno dei quali l’usucapione si sarebbe verificata perché comporta l’accertamento di una situazione giuridica (usucapione e proprietà esclusiva) confliggente con quella preesistente (comproprietà degli altri) della quale il giudice può solo conoscere in contraddittorio con ogni interessato.

Analogamente, in tema di servitù, l’azione per l’osservanza della limitazione legale della proprietà prevista dall’art. 913 c.c. per lo scolo delle acque, la quale miri ad ottenere, oltre all’accertamento dell’aggravamento della condizione del fondo inferiore in conseguenza di opere abusivamente costruite su quello superiore, la demolizione di tali opere, si sostanzia in una actio negatoria di servitù di scolo che, poiché diretta alla rimozione di opere realizzate nel fondo altrui, determina, ove la piena proprietà di questo appartenga a più soggetti (comproprietari o usufruttuario e nudo proprietario), un’ipotesi di litisconsorzio necessario nei confronti di tutti costoro (Sez. 2, n. 17664/2018, Chiesi, Rv. 649385-01).

Peraltro, anche quando si rivendichi la proprietà di un immobile per usucapione, l’azione deve essere proposta unicamente nei confronti di chi possiede il bene all’atto della domanda, e non anche dei precedenti danti causa, che non hanno veste di litisconsorti necessari (Sez. 6-2, n. 24260/2018, Cosentino, Rv. 651231-01).

In tema di domanda di rivendica di un bene proposta da uno o più soggetti che assumono di esserne i comproprietari, la necessità di integrazione del contraddittorio dipende dal comportamento del convenuto. Infatti, qualora egli si limiti a negare il diritto di comproprietà degli attori, non si richiede la citazione in giudizio di altri soggetti, non essendo in discussione la comunione del bene; qualora, al contrario, eccepisca di esserne il proprietario esclusivo, la controversia ha ad oggetto la comunione di esso, cioè l’esistenza del rapporto unico plurisoggettivo, e il contraddittorio deve svolgersi nei confronti di tutti coloro dei quali si prospetta la contitolarità (litisconsorzio necessario), affinché la sentenza possa conseguire un risultato utile che, invece, non avrebbe in caso di mancata partecipazione di alcuni, non essendo essa a loro opponibile (Sez. 2, n. 24234/2018, Giannaccari, Rv. 650646-01).

Invece, in tema di enfiteusi, Sez. 2, n. 26520/2018, Oliva, Rv. 650786-01, ha stabilito che la devoluzione del fondo enfiteutico può essere separatamente richiesta nei confronti di ciascuno dei coenfiteuti, non ricorrendo un’ipotesi di litisconsorzio necessario. Ne deriva pertanto che la pronuncia di devoluzione è utilmente resa nei limiti delle quote dei concessionari evocati in giudizio e non si estende all’enfiteuta che non ne sia stato parte, né pregiudica i suoi diritti sull’intero fondo.

Sul piano probatorio, peraltro, colui che eccepisca la non integrità del contraddittorio ha l’onere, qualora questa non possa essere rilevata direttamente dagli atti o in base alle prospettazioni delle parti, non solo di indicare i soggetti che rivestono la qualità di litisconsorti necessari asseritamente pretermessi, ma anche di provare i presupposti di fatto e di diritto dell’invocata integrazione e, quindi, i titoli in forza dei quali essi assumono tale qualità. Pertanto, la Suprema Corte ha deciso che la parte che deduce la mancata integrazione del contraddittorio con riferimento a eredi del de cuius deve dimostrare l’avvenuta accettazione dell’eredità da parte loro (Sez. 2, n. 11318/2018, Scalisi, Rv. 648831-01).

Con riferimento al conferimento del bene immobile in un trust, Sez. 3, n. 13388/2018, Scoditti, Rv. 649036-01, ha affermato che il contraddittorio nell’ambito di un’azione revocatoria ordinaria avente ad oggetto l’atto di dotazione del trust deve essere esteso al beneficiario (che dunque deve essere evocato in giudizio insieme con il settlor e con il trustee) solo nel caso in cui l’atto di dotazione sia stato posto in essere a titolo oneroso, in quanto solo in questo caso lo stato soggettivo del terzo beneficiario rileva quale elemento costitutivo della fattispecie. La pronuncia si segnala in quanto fa dipendere la necessità dell’estensione del contraddittorio ai beneficiari del trust dall’analisi dello scopo perseguito dall’atto di segregazione patrimoniale, andando dunque oltre la verifica della natura dell’atto di dotazione.

Per quanto riguarda, poi, il giudizio di scioglimento di una comunione ereditaria, Sez. 6-2, n. 14406/2018, Criscuolo, Rv. 649089-01, ha chiarito che, ove una quota abbia costituito oggetto di cessione, la qualità di litisconsorte necessario spetta ai cessionari della quota e non agli eredi cedenti.

Il tema del litisconsorzio si interseca con l’ambito di applicazione dell’art. 111 c.p.c., sulla legitimatio ad causam in caso di successione a titolo particolare nel diritto controverso.

Nell’ambito di un’azione di rivendica di un immobile il cui atto di trasferimento era stato trascritto dopo la notificazione dell’atto di citazione al venditore convenuto ma prima della trascrizione della domanda giudiziale, Sez. 2, n. 14480/2018, Casadonte, Rv. 648977-01, ha affermato che, in tema di trasferimento del diritto controverso per atto tra vivi a titolo particolare, il processo prosegue tra le parti originarie e, pertanto, sono ininfluenti le vicende attinenti a posizioni giuridiche attive o passive successive all’inizio della causa. Pertanto, l’acquirente del diritto contestato, pur potendo spiegare intervento volontario ex art. 111 c.p.c., non diviene litisconsorte necessario e la sentenza che non abbia disposto nei suoi confronti l’integrazione del contraddittorio è validamente emessa. Tale pronuncia, in conformità al disposto dell’art. 111 c.p.c., esclude che vi sia litisconsorzio necessario tra l’acquirente della res litigiosa e il venditore convenuto in giudizio prima della conclusione dell’atto di compravendita; però occorre rilevare che, ai sensi del combinato disposto degli artt. 111 c.p.c. e 2653, comma 1, n. 1 c.c., la sentenza sulla domanda di rivendica immobiliare trascritta dopo la trascrizione dell’atto di compravendita, pur utiliter data tra le parti, non ha effetti nei confronti dell’acquirente, nel senso che è inopponibile a quest’ultimo, con la conseguenza che l’attore che volesse ancora conseguire la restituzione della res contesa deve riproporre la domanda di rivendica contro l’avente causa chiedendo l’accertamento del suo diritto anche nei confronti di lui, fermo restando l’effetto dell’interruzione del corso dell’usucapione nei confronti di quest’ultimo a far data dalla trascrizione della domanda contro il suo dante causa, ai sensi dell’art. 2653, comma 1, n. 5 c.c.

2.2. Comunione legale tra coniugi.

Un altro ambito del diritto civile nel quale si pongono ricorrenti questioni in tema di litisconsorzio necessario è quello della comunione legale tra coniugi.

Già in passato la S.C. aveva ritenuto che il coniuge rimasto estraneo all’atto di acquisto non è litisconsorte necessario nelle controversie relative alla validità o all’efficacia del titolo di acquisto (Sez. 1, n. 13941/1999, Losavio, Rv. 532094-01).

In particolare, in tema di simulazione, Sez. 2, 11428/1992, Triola, Rv. 479036-01, ha statuito che il coniuge dell’acquirente di un immobile non è litisconsorte necessario nella causa intentata dall’alienante, qualora sia rimasto estraneo alla stipulazione. Tale orientamento è stato ribadito, nell’anno in rassegna, da Sez. 6-3, n. 11033/2018, Rubino, Rv. 648914-01, secondo la quale il coniuge dell’acquirente di un immobile, che sia rimasto estraneo alla stipulazione dell’atto di compravendita, non è litisconsorte necessario nel giudizio promosso dal venditore per l’accertamento della simulazione del contratto, perché l’inclusione del bene nella comunione legale ai sensi dell’art. 177 c.c. costituisce un effetto ope legis dell’efficacia e validità del titolo di acquisto.

Analogamente, in tema di azione di annullamento del contratto, si era affermato che il coniuge, in regime di comunione legale, del soggetto acquirente di un bene immobile non è litisconsorte necessario se alla conclusione del contratto è rimasto estraneo, perché non è parte di tale contratto, dei cui effetti è solo beneficiario ope legis, né intestatario del bene acquistato (Sez. 2, n. 11773/1992, Spadone, Rv. 479215-01).

Anche con riferimento al giudizio di esecuzione forzata in forma specifica dell’obbligo di prestare il consenso, ex art. 2932 c.c., la S.C. ha precisato che non sussiste la necessità di una integrazione del contraddittorio nei confronti del coniuge del promittente venditore il cui consenso sia stato pretermesso, non ricorrendo una situazione sostanziale caratterizzata da un rapporto unico ed inscindibile con pluralità di soggetti, e non rivestendo quindi il coniuge che non abbia partecipato all’atto la qualità di litisconsorte necessario (Sez. 2, n. 20867/2004, Bognanni, Rv. 577865-01). Peraltro, ove si consideri che la vendita di beni immobili della comunione legale è un atto di straordinaria amministrazione, per il cui compimento è necessario il consenso di entrambi i coniugi in comunione legale, dovrà ritenersi che anche la sentenza che tiene luogo del contratto definitivo di vendita dovrebbe essere pronunciata in esito ad un giudizio che abbia visto la partecipazione di entrambi i coniugi (Sez. 2, n. 05191/2002, Mazzacane, Rv. 553656-01).

2.3. Lavoro.

Altro settore nel quale si pone di frequente il problema di valutare la sussistenza di ipotesi di litisconsorzio necessario è quello relativo ai rapporti di lavoro.

Con riferimento agli infortuni sul lavoro, Sez. L, n. 16026/2018, Bellè, Rv. 649356-01, ha affermato che la domanda di accertamento della responsabilità del datore di lavoro proposta, per quanto di competenza, anche nei confronti dell’INAIL, determina un litisconsorzio cd. processuale finalizzato ad evitare contrasti di giudicato, con conseguente necessità di integrare il contraddittorio ex art. 331 c.p.c., salva l’applicazione del principio di raggiungimento dello scopo nell’ipotesi di successiva costituzione del litisconsorte pretermesso, sia pure a seguito di notificazione tardiva dell’impugnazione, ritualmente proposta nei confronti dell’altro contraddittore. Sez. L, n. 15521/2018, Di Paolantonio, Rv. 649323-01, ha ritenuto – sul generale assunto per il quale il litisconsorzio necessario ricorre, oltre che nei casi espressamente previsti dalla legge, allorquando la situazione sostanziale plurisoggettiva dedotta in giudizio deve essere necessariamente decisa in maniera unitaria nei confronti di tutti i soggetti che ne sono partecipi, onde non privare la decisione dell’utilità connessa all’esperimento dell’azione proposta – che l’azione volta alla rideterminazione della ripartizione del fondo per la retribuzione di risultato di cui all’art. 61 del c.c.n.l. del 1996 per i dirigenti non medici del comparto Sanità deve essere proposta nei confronti di tutti i dirigenti professionali, tecnici, amministrativi, perché la variazione in aumento chiesta da alcuni determina di necessità la riduzione del quantum spettante ad altri, atteso che l’ammontare complessivo del fondo rappresenta il limite massimo non superabile dall’azienda sanitaria.

Parimenti, in tema di selezioni concorsuali di cui si contesti la legittimità del procedimento, il giudizio deve svolgersi in contraddittorio con gli altri partecipanti solo se il soggetto pretermesso domandi l’accertamento giudiziale del suo diritto ad essere inserito nel novero dei prescelti per il conseguimento di una determinata utilità (promozioni, livelli retributivi, trasferimenti, assegnazioni di sede, ecc.). Invece, l’integrazione del contraddittorio nei confronti di tutti i controinteressati non è necessaria quando l’attore si limiti a domandare il risarcimento del danno, o comunque faccia valere pretese compatibili con i risultati della selezione, dei quali non deve attuarsi la rimozione (Sez. L, n. 18807/2018, De Felice, Rv. 649876-01).

2.4. Persone, famiglia e successioni.

In tema di procedimento per lo stato di adottabilità, il titolo II della l. 4 maggio 1983, n. 184, nel testo novellato dalla l. 28 marzo 2001, n. 149, che riflette anche principi sovranazionali (artt. 3, 9, 12, 14, 18, 21 della Convenzione di New York del 20 novembre 1989, ratificata con l. 27 maggio 1991 n. 176; artt. 9 e 10 della Convenzione Europea sui diritti del fanciullo, stipulata a Strasburgo il 25 gennaio 1996 e ratificata con l. 20 marzo 2003, n. 77; art. 24 della Carta di Nizza), attribuisce ai genitori del minore una legittimazione autonoma, connessa ad un’intensa serie di poteri, facoltà e diritti processuali atta a fare assumere loro la veste di parti necessarie e formali dell’intero procedimento di adottabilità e, quindi, di litisconsorti necessari pure nel giudizio di appello, quand’anche in primo grado non si siano costituiti, con conseguente necessità di integrare il contraddittorio nei loro confronti, ove non abbiano proposto il gravame; a tal fine non è sufficiente la sola notificazione, attuata d’ufficio, del decreto presidenziale di fissazione dell’udienza di discussione dell’appello, posto che tale iniziativa officiosa non consente anche la conoscenza del contenuto dell’altrui ricorso ed il compiuto esercizio del loro diritto di difesa (Sez. 1, n. 18148/2018, Sambito, Rv. 649903-01).

Nell’ambito del diritto di famiglia, Sez. 1, n. 04099/2018, Acierno, Rv. 647061-01, ha chiarito che nei giudizi aventi ad oggetto la limitazione o ablazione della responsabilità genitoriale, il genitore è litisconsorte necessario, munito del pieno potere di agire, contraddire e impugnare le decisioni che producano effetti provvisori o definitivi sulla titolarità o sull’esercizio della predetta responsabilità, sicché è ammissibile il reclamo proposto da un genitore contro la sentenza che lo aveva dichiarato decaduto dalla responsabilità genitoriale.

Quanto ai giudizi di separazione e a quelli afferenti la regolamentazione delle condizioni di affidamento dei figli minori di genitori non coniugati, Sez. 1, n. 03638/2018, Mercolino, Rv. 647057-01, ha escluso che il P.M. assuma la posizione di parte necessaria, essendo il suo potere normativamente previsto come obbligatorio ma senza alcun potere, né di iniziativa, né di impugnativa della decisione, sicché la sua mancata partecipazione non comporta una lesione del contraddittorio rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del processo e tale da giustificare la rimessione degli atti al primo giudice, ex art. 354 c.p.c. La nullità che consegue dal suo mancato intervento, dunque, pur essendo rilevabile d’ufficio, si converte in motivo di gravame, ex art. 161 c.p.c.

Ancora, in ambito successorio, Sez. 2, n. 18502/2018, Bellini, Rv. 649593-01, ha affermato che, in tema di legato di cosa dell’onerato che sia coerede, qualora il beneficiario eserciti l’azione di rivendica del bene non ricorre un’ipotesi di litisconsorzio necessario nei confronti di tutti gli eredi, dovendo la domanda essere proposta solo contro il suddetto onerato, sicché la sentenza, anche se emessa senza la partecipazione al giudizio degli altri successori, non è inutiliter data.

3. Litisconsorzio necessario in fase di gravame.

Ai fini della corretta instaurazione del processo litisconsortile è sufficiente la vocatio in ius di almeno uno dei litisconsorti necessari, in quanto, poi, sarà il giudice a disporre l’integrazione del contraddittorio in un termine perentorio da lui fissato (art. 102, comma 2, c.p.c.).

Questa regola generale vale anche nei giudizi di impugnazione.

A tal proposito, infatti, la S.C. ha precisato che è escluso, in ogni caso, che l’omessa notificazione dell’impugnazione ad un litisconsorte necessario determini l’inammissibilità del gravame, in quanto la proposizione della stessa almeno ad uno di essi conserva l’effetto di impedire il passaggio in giudicato della sentenza impugnata, ma rende necessaria l’integrazione del contraddittorio per ordine del giudice, in mancanza della quale si verifica una nullità rilevabile d’ufficio nei gradi successivi (Sez. 6-3, n. 19910/2018, De Stefano, Rv. 650290-01).

Con riferimento alle parti nei cui confronti deve essere instaurato il contraddittorio in sede di impugnazione nel caso di cessione del diritto controverso avvenuta nel precedente grado di giudizio, Sez. 1, n. 02048/2018, De Marzo, Rv. 646864-01, ha affermato che il giudizio di impugnazione svoltosi senza integrare il contraddittorio nei confronti dell’alienante del diritto controverso, ma con la partecipazione del successore a titolo particolare, è valido quando il primo, non impugnando la sentenza, abbia dimostrato il suo disinteresse al gravame e l’altra parte, senza formulare eccezioni al riguardo, abbia accettato il contraddittorio nei confronti del successore. Tali elementi, infatti, integrano i presupposti per l’estromissione dal giudizio del citato alienante, estromissione che, sebbene non formalmente dichiarata, fa cessare la qualità di litisconsorte necessario in capo alla parte originaria.

In senso contrario, sul punto, peraltro, occorre considerare Sez. 1, n. 15905/2018, Valitutti, Rv. 649280-01, la quale ha affermato che il successore a titolo particolare per atto tra vivi di una delle parti del processo può intervenire volontariamente nel processo o esservi chiamato, senza che ciò comporti automaticamente l’estromissione dell’alienante o del dante causa, potendo questa essere disposta dal giudice solo se le altre parti vi consentano, con la conseguenza che, nel giudizio di impugnazione contro la sentenza, il successore intervenuto in causa e l’alienante non estromesso sono litisconsorti necessari e che, se la sentenza è appellata da uno solo soltanto o contro uno soltanto dei medesimi, deve essere ordinata, anche d’ufficio, l’integrazione del contraddittorio nei confronti dell’altro, a norma dell’art. 331 c.p.c., dovendosi, in difetto, rilevare, anche d’ufficio, in sede di legittimità, il difetto di integrità del contraddittorio con rimessione della causa al giudice di merito per la eliminazione del vizio.

In omaggio al principio di conservazione degli atti per avvenuto raggiungimento dello scopo, Sez. 6-5, n. 03789/2018, Cirillo E., Rv. 647118-01, ha affermato che, in tema di rettifica del reddito di una società di persone, l’inosservanza della regola del litisconsorzio necessario tra la stessa ed i soci non spiega effetti quando le pronunce rese sui vari ricorsi siano sostanzialmente identiche ed adottate dallo stesso collegio nel contesto di una trattazione unitaria. Ne deriva che la riunione dei giudizi può avvenire in sede di gravame, atteso che il rinvio al giudice di primo grado non sarebbe giustificato dalla necessità di salvaguardare il contraddittorio e si porrebbe in contrasto con il principio della ragionevole durata del processo.

In termini più ampi, l’art. 331 c.p.c. pone da sempre significativi problemi interpretativi quanto all’individuazione delle cause inscindibili e dipendenti, differenti da quelle afferenti fattispecie di litisconsorzio necessario, nelle quali il gravame deve essere necessariamente incardinato nei confronti di più parti.

Con riferimento all’ambito di applicazione dell’art. 331 c.p.c., Sez. 5, n. 04597/2018, Delli Priscoli, Rv. 647273-01, ha affermato che l’onere di integrare il contraddittorio trova applicazione non solo nelle ipotesi di cause inscindibili, cioè di litisconsorzio necessario sostanziale, ma anche quando vi siano cause dipendenti che, riguardando due o più rapporti scindibili ma logicamente interdipendenti o dipendenti da un presupposto di fatto comune, come quelli dedotti in giudizio attraverso chiamate in causa, meritano, per esigenze di non contraddizione, l’adozione di soluzioni uniformi nei confronti delle diverse parti che abbiano partecipato al giudizio di primo grado.

Il litisconsorzio necessario processuale può verificarsi anche in seguito ad un intervento adesivo volontario, ex art. 105 c.p.c., sicché esso, pur dando luogo a una causa sostanzialmente scindibile, determina la necessità, in grado di appello, di estendere il contraddittorio all’interventore, con la conseguenza che, ove l’atto di impugnazione non sia notificato anche a lui ed il giudice non abbia ordinato l’integrazione del contraddittorio ex art. 331 c.p.c., si verifica la nullità, rilevabile d’ufficio anche nel giudizio di cassazione, dell’intero processo di secondo grado e della sentenza che lo ha definito (Sez. 2, n. 11156/2018, Penta, Rv. 648033-01).

Sulla stessa scia, Sez. 1, n. 04722/2018, Valitutti, Rv. 647631-01, ha a sua volta affermato che, con la chiamata in causa del terzo quale unico responsabile, si realizza un’ipotesi di dipendenza di cause, in quanto la decisione della controversia fra l’attore ed il convenuto, essendo alternativa rispetto a quella fra l’attore ed il terzo, si estende necessariamente a quest’ultima, sicché i diversi rapporti processuali diventano inscindibili, legati da un nesso di litisconsorzio necessario processuale (per dipendenza di cause o litisconsorzio alternativo) che, permanendo la contestazione in ordine all’individuazione dell’obbligato, non può essere sciolto nemmeno in grado d’impugnazione.

Sempre in tema di chiamata in causa del terzo, Sez. 6-2, n. 05876/2018, Scalisi, Rv. 648826-01, ha chiarito che, nel caso di chiamata in garanzia, l’impugnazione, esperita esclusivamente dal terzo chiamato in garanzia avverso la sentenza che abbia accolto sia la domanda principale di condanna contro il convenuto, sia la domanda di garanzia proposta dal convenuto, giova anche al soggetto garantito, senza necessità di una sua impugnazione incidentale, e senza che rilevi la definizione della garanzia come propria o impropria, che ha valore puramente descrittivo e che è priva di effetti ai fini dell’applicazione degli artt. 32, 108 e 331 c.p.c., dovendosi, in ogni caso, ravvisare una ipotesi di litisconsorzio necessario processuale non solo se il convenuto abbia scelto di estendere l’efficacia soggettiva, nei confronti del terzo chiamato, dell’accertamento relativo al rapporto principale, ma anche quando abbia allargato l’oggetto del giudizio, chiedendo l’accertamento nei confronti di un terzo dell’esistenza di un rapporto di garanzia con la conseguente richiesta di una prestazione a carico del garante.

Invece, si è stabilito che la chiamata in garanzia esercitata dal convenuto in primo grado dà luogo ad una causa scindibile in appello al ricorrere di tre condizioni: quando la domanda del convenuto spiegata contro il terzo appartenga al novero delle garanzie improprie; quando il chiamato non abbia contestato in primo grado la fondatezza della domanda proposta contro il chiamante; quando l’attore in primo grado, poi appellante, non abbia svolto alcuna domanda nei confronti del chiamato (Sez. 2, n. 24574/2018, Abete, Rv. 650654-01).

3.1. Ipotesi normativamente regolate di litisconsorzio necessario nei giudizi di impugnazione.

Vi sono, inoltre, casi di litisconsorzio necessario in sede di impugnazione espressamente previsti dalla legge. Tra questi, occorre considerare quello regolato in materia fallimentare dall’art. 18, comma 6, l. fall., nel testo novellato dal d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, e poi dal d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169, secondo cui il reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento deve essere notificato al curatore ed alle altre parti che abbiano partecipato al giudizio davanti al tribunale, sicché, nel caso di mancata notifica del ricorso nei confronti di una di esse, il giudice del gravame deve disporre l’integrazione del contraddittorio ai sensi dell’art. 331 c.p.c., con la conseguenza che, in caso di omissione, la S.C. deve cassare, anche d’ufficio, la sentenza impugnata e rimettere la causa al giudice del reclamo affinché provveda all’integrazione del contraddittorio e alla rinnovazione del giudizio (Sez. 1, n. 05907/2018, Fichera, Rv. 647437-01).

In una fattispecie peculiare, relativa al procedimento di opposizione alla liquidazione dei compensi al perito nominato in un giudizio penale, ex art. 170 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, Sez. 2, n. 08221/2018, Besso Marcheis, Rv. 647873-01 ha affermato che l’avviso della udienza camerale deve essere notificato anche all’imputato, parte del processo al quale l’attività dell’ausiliario è riferita, e al suo difensore, atteso che il maggior onere derivante dalla richiesta riforma del provvedimento impugnato ha una “ricaduta” nei suoi confronti, sicché, in difetto di tale adempimento, il provvedimento emesso in camera di consiglio è nullo per violazione del principio del contraddittorio.

Sulla stessa scia, Sez. 6-2, n. 31072/2018, D’Ascola, Rv. 651907-01, ha ritenuto che la notifica dell’opposizione al decreto di liquidazione, ex art. 170 del d.P.R. n. 115 del 2002, eseguita ai difensori delle parti del giudizio presupposto e non alle parti personalmente, determina la nullità della notifica, sanabile con l’ordine del giudice di rinnovare la notificazione dell’impugnazione.

In una fattispecie relativa al procedimento di liquidazione degli usi civici, Sez. 2, n. 21552/2018, Giannaccari, Rv. 650172-01, ha escluso che il reclamo contro la decisione del commissario degli usi civici debba essere notificato, oltre a coloro che hanno interesse nella causa principale ad opporsi alla riforma della stessa, ai sensi dell’art. 4 della l. 10 luglio 1930, n. 1078, anche ai garanti, poiché la domanda di garanzia impropria è fondata su un titolo diverso da quello dell’accertamento degli usi civici e, pertanto, non ricorrendo un’ipotesi di inscindibilità della causa, non sussiste un litisconsorzio necessario.

Il litisconsorzio che dà vita ad una causa inscindibile in sede di impugnazione può anche riguardare una causa riunita ad altre nello stesso processo. In tal caso, la riunione di procedimenti non fa venir meno l’autonomia delle cause riunite nello stesso processo. Pertanto, poiché le vicende processuali proprie di uno soltanto dei procedimenti riuniti non rilevano in ordine all’altro, o agli altri procedimenti, l’inammissibilità dell’appello proposto riguardo ad uno dei processi riuniti, a causa della mancata ottemperanza all’ordine di integrazione del contraddittorio, non ha alcun effetto per l’altro appello, tempestivamente notificato (Sez. 5, n. 18649/2018, Fasano, Rv. 649712-01).

4. Conseguenze del rilievo del difetto di integrità del contraddittorio in sede di gravame.

In generale, quando risulta integrata la violazione delle norme sul litisconsorzio necessario, non rilevata né dal giudice di primo grado, che non ha disposto l’integrazione del contraddittorio, né da quello di appello, che non ha provveduto a rimettere la causa al primo giudice ai sensi dell’art. 354, comma 1, c.p.c., resta viziato l’intero processo e s’impone, in sede di giudizio di cassazione, l’annullamento, anche d’ufficio, delle pronunce emesse ed il conseguente rinvio della causa al giudice di prime cure, a norma dell’art. 383, comma 3, c.p.c. (Sez. 6-3, n. 06644/2018, Tatangelo, Rv. 648481-01).

L’eccezione di difetto del contraddittorio per violazione del litisconsorzio necessario può essere sollevata per la prima volta in sede di legittimità, a condizione che l’esistenza del litisconsorzio risulti dagli atti e dai documenti del giudizio di merito e la parte che la deduca ottemperi all’onere di indicare nominativamente le persone che devono partecipare al giudizio, di provare la loro esistenza e i presupposti di fatto e di diritto che giustifichino l’integrazione del contraddittorio (Sez. 2, n. 23634/2018, Federico, Rv. 650383-01).

Si è stabilito, inoltre, che, nel caso in cui il giudizio di appello sia stato introdotto in violazione dell’art. 331 c.p.c. e la relativa nullità non sia stata rilevata né dalle parti né dal giudice, tale violazione può essere fatta valere dalle parti (compresa quella che introdusse l’appello), con ricorso principale o incidentale avverso la sentenza conclusiva del gravame, soltanto qualora la violazione abbia riguardato una situazione di litisconsorzio necessario iniziale (art. 102 c.p.c.) o di litisconsorzio necessario processuale determinata dall’ordine del giudice (art. 107 c.p.c.), atteso che in tali casi, a differenza di ogni altra ipotesi di violazione dell’art. 331 c.p.c. (e, dunque, di litisconsorzio necessario processuale da inscindibilità o da dipendenza), non può operare la regola dell’art. 157, comma 3, c.p.c., trattandosi di violazioni rilevabili d’ufficio dalla Corte di cassazione, circostanza che esclude che la parte abbia perduto il potere di impugnare (Sez. 3, n. 21381/2018, Frasca, Rv. 650325-02).

L’integrazione del contraddittorio nei confronti di tutti i litisconsorti presuppone che le parti del processo siano ben individuate, anche nel caso in cui per l’alto numero delle persone cui deve essere notificato l’atto introduttivo di un giudizio debba farsi ricorso alla notificazione per pubblici proclami, ex art. 150 c.p.c.

Ne deriva che è onere del notificante procedere alla specifica individuazione di ciascuno di essi, comportando il mancato assolvimento di quest’onere l’inesistenza della notifica e della vocatio in ius e, quindi, la mancata integrazione del contraddittorio, ai sensi dell’art. 331 c.p.c. (Sez. L, n. 08558/2018, Marchese, Rv. 648338-01; Sez. 2, n. 10168/2018, D’Ascola, Rv. 648352-02).

5. Bilanciamento tra l’esigenza di rilevare in sede di impugnazione il difetto di integrità del contraddittorio e quella di garantire la ragionevole durata del processo.

In virtù dell’ordine logico delle questioni devolute in sede di impugnazione, la tempestività del ricorso, in quanto condiziona l’ammissibilità di quest’ultimo, è pregiudiziale rispetto all’ordine di integrazione del contraddittorio (Sez. 5, n. 30100/2018, Fracanzani, Rv. 651556-01).

Oltre a questa ipotesi, la giurisprudenza della S.C. ha enucleato altri casi in cui, alla luce del principio costituzionale della ragionevole durata del processo (art. 111, comma 2, Cost.), è possibile definire il giudizio d’impugnazione senza disporre preliminarmente l’integrazione del contraddittorio.

A tal proposito, già Sez. U, n. 06826/2010, Macioce, Rv. 612077-01, aveva stabilito che nel giudizio di cassazione il rispetto del principio della ragionevole durata del processo impone, in presenza di un’evidente ragione d’inammissibilità del ricorso (nella specie, per la palese inidoneità del quesito di diritto), di definire con immediatezza il procedimento, senza la preventiva integrazione del contraddittorio nei confronti di litisconsorti necessari cui il ricorso non risulti notificato, trattandosi di un’attività processuale del tutto ininfluente sull’esito del giudizio.

Ancora precedentemente, Sez. U, n. 26373/2008, Fioretti, Rv. 605610-01, in un caso in cui il ricorso per cassazione era inammissibile in quanto affetto da alcuni vizi, tra i quali il difetto di autosufficienza, aveva più diffusamente esplicitato il principio, affermando che il rispetto del diritto fondamentale ad una ragionevole durata del processo (derivante dall’art. 111, comma 2, Cost. e dagli artt. 6 e 13 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali) impone al giudice (ai sensi degli artt. 175 e 127 c.p.c.) di evitare e impedire comportamenti che siano di ostacolo ad una sollecita definizione dello stesso, tra i quali rientrano certamente quelli che si traducono in un inutile dispendio di attività processuali e formalità superflue perché non giustificate dalla struttura dialettica del processo e, in particolare, dal rispetto effettivo del principio del contraddittorio, espresso dall’art. 101 c.p.c., da effettive garanzie di difesa (art. 24 Cost.) e dal diritto alla partecipazione al processo in condizioni di parità (art. 111, comma 2, Cost.), dei soggetti nella cui sfera giuridica l’atto finale è destinato ad esplicare i suoi effetti.

Nel caso deciso da Sez. 3, n. 18410/2009, Talevi, Rv. 609119-01, invece, l’integrazione del contraddittorio era stata considerata inutile in quanto le domande originarie che avevano generato un litisconsorzio necessario non erano più oggetto del processo, evidentemente perché le statuizioni su di esse, intervenute nei precedenti gradi del giudizio, non erano state impugnate.

Nel solco tracciato dai citati arresti, si colloca Sez. 2, n. 12515/2018, Manna F., Rv. 648755-01, secondo la quale il rispetto del diritto fondamentale ad una ragionevole durata del processo impone al giudice (ai sensi degli artt. 175 e 127 c.p.c.) di evitare e impedire comportamenti che siano di ostacolo ad una sollecita definizione dello stesso. Ne consegue che, in caso di ricorso per cassazione prima facie infondato, appare superfluo, pur potendone sussistere i presupposti, disporre la fissazione di un termine per l’integrazione del contraddittorio ovvero per la rinnovazione di una notifica nulla o inesistente, atteso che la concessione di esso si tradurrebbe, oltre che in un aggravio di spese, in un allungamento dei termini per la definizione del giudizio di cassazione senza comportare alcun beneficio per la garanzia dell’effettività dei diritti processuali delle parti.

Poco prima, Sez. 2, n. 11287/2018, Falaschi, Rv. 648501-01, aveva ribadito che nel giudizio di cassazione, il rispetto del principio della ragionevole durata del processo impone, in presenza di un’evidente ragione d’inammissibilità del ricorso o qualora questo sia prima facie infondato, di definire con immediatezza il procedimento, senza la preventiva integrazione del contraddittorio nei confronti dei litisconsorti necessari cui il ricorso non risulti notificato, trattandosi di un’attività processuale del tutto ininfluente sull’esito del giudizio e non essendovi, in concreto, esigenze di tutela del contraddittorio, delle garanzie di difesa e del diritto alla partecipazione al processo in condizioni di parità.

Sulla base della stessa esigenza di tutela del principio della ragionevole durata del processo, anche se speculare rispetto all’ultimo arresto citato, Sez. 2, n. 26631/2018, Criscuolo, Rv. 650787-01, ha affermato che nell’ipotesi in cui il litisconsorte necessario pretermesso intervenga volontariamente in appello, accettando la causa nello stato in cui si trova, e nessuna delle altre parti resti privata di facoltà processuali non già altrimenti pregiudicate, il giudice di appello non può rilevare d’ufficio il difetto di contraddittorio, né è tenuto a rimettere la causa al giudice di primo grado, ai sensi dell’art. 354 c.p.c., ma deve trattenerla e decidere sul gravame, risultando altrimenti violato il principio fondamentale della ragionevole durata del processo, il quale impone al giudice di impedire comportamenti che siano di ostacolo ad una sollecita definizione della controversia.

Occorre, tuttavia, evidenziare che, anche se l’arresto testé citato fa riferimento al principio della ragionevole durata del processo, l’intervento volontario in appello del litisconsorte pretermesso in primo grado, che accetti il processo nello stato e nella fase in cui si trovi, e che in nulla leda i diritti di difesa delle altre parti, determina, in realtà, una sanatoria degli atti processuali nulli compiuti prima del suo intervento, secondo il disposto dell’art. 156, comma 3, c.p.c.

Una peculiare declinazione del principio della ragionevole durata del processo allo scopo di “sterilizzare” il vizio dell’integrità del contraddittorio la si riscontra, invece, nell’arresto della Sez. 2, n. 26992/2018, Giannaccari, Rv. 651013-01, secondo il quale in tema di limiti soggettivi del giudicato, gli artt. 1306 e 1310 c.c., che, con riferimento alle obbligazioni solidali, e quindi a un rapporto scindibile, prevedono che i condebitori i quali non abbiano partecipato al giudizio tra il creditore e altro condebitore possano opporre al primo la sentenza favorevole al secondo (ove non basata su ragioni personali), costituiscono espressione di un più generale principio, operante a fortiori con riguardo a rapporti caratterizzati da inscindibilità, secondo cui alla parte non impugnante si estendono gli effetti derivanti dall’accoglimento dell’impugnazione proposta da altre parti nei confronti di una sentenza sfavorevole ad esse.

Tale pronuncia, infatti, ha posto rimedio alla mancata partecipazione, nel giudizio in sede di impugnazione, di litisconsorti necessari, che tuttavia furono presenti nei gradi precedenti, affermando che se, nel giudizio di impugnazione, svoltosi senza la partecipazione di qualche litisconsorte necessario, la sentenza sia stata riformata in melius rispetto ai litisconsorti, e tra questi vi sia stato qualcuno che, oltre a non aver impugnato la sentenza sfavorevole, non abbia partecipato al giudizio in fase di gravame, la sentenza non è inutiliter data e può essere opposta dal litisconsorte pretermesso alla controparte soccombente.

6. Litisconsorzio facoltativo.

Nell’ambito dei processi soggettivamente complessi (o con pluralità di parti), si distinguono quelli nei quali il rapporto giuridico è unitario ed inscindibile (verificandosi in tal caso il litisconsorzio necessario di cui all’art. 102 c.p.c.), rispetto a quelli in cui lo stesso processo ha ad oggetto più rapporti giuridici, variamente connessi tra di loro.

Si tratta dei casi, disciplinati dall’art. 103 c.p.c., di cd. cumulo semplice, in cui l’esistenza di una delle connessioni di cui al comma 1 dell’art. 103 c.p.c. consente il simultaneus processus.

A differenza dell’art. 102 c.p.c., lo scopo del litisconsorzio facoltativo è quello di realizzare l’economia processuale: il simultaneus processus consente la trattazione congiunta delle varie cause riunite, e quindi gli elementi ad esse comuni sono trattati ed istruiti una sola volta, e sono poi utilizzati per la decisione di tutte le cause cumulate.

Nell’anno in rassegna, la S.C. ha affermato, tra l’altro, che l’obbligazione di pagamento della provvigione al mediatore, da parte delle due parti dell’affare, dà luogo ad una fattispecie di litisconsorzio facoltativo proprio (per comunanza di titolo), e dunque a cause scindibili in appello. Pertanto, ove entrambe le parti dell’affare siano risultate soccombenti in primo grado, l’appello proposto da una sola delle parti non giova all’altra nei cui confronti, in difetto d’impugnazione incidentale, la sentenza sfavorevole passa in giudicato, con l’ulteriore conseguenza che nei confronti di detta parte, quale che sia l’esito dell’appello tra le restanti parti, non ha luogo il regolamento delle spese, né per il primo grado (ostandovi il giudicato), né per il secondo (non avendo detta parte assunto la relativa qualità nel giudizio di appello) (Sez. 6-2, n. 30730/2018, Grasso Giu., Rv. 651632-01).

Tra le fattispecie di litisconsorzio facoltativo vi è l’obbligazione solidale passiva, che non dà luogo, in sede di impugnazione, a cause inscindibili, in quanto non fa sorgere un rapporto unico, neppure sotto il profilo della dipendenza di cause, bensì rapporti giuridici distinti, anche se fra loro connessi, in virtù dei quali è sempre possibile la scissione del rapporto processuale, potendo il creditore ripetere da ciascuno dei debitori l’intero suo credito.

Se questo principio astratto può dirsi consolidato nella giurisprudenza della S.C., tuttavia il suo valore euristico appare ridimensionato se si guarda alla decisione dei singoli casi di specie.

La stessa giurisprudenza che declama il principio della scindibilità delle cause che originano da rapporti obbligatori con solidarietà dal lato passivo, infatti, afferma, d’altro canto, che vi è “litisconsorzio processuale necessario nei casi in cui le cause siano tra loro dipendenti, ovvero quando le distinte posizioni dei coobbligati presentino obiettiva interrelazione, alla stregua della loro strutturale subordinazione anche sul piano del diritto sostanziale, sicché la responsabilità dell’uno presupponga la responsabilità dell’altro” (Sez. 3, n. 20860/2018, Iannello, Rv. 650428-01).

Tuttavia, in altre decisioni, la S.C. appare più categorica nell’escludere che le obbligazioni solidali possano dar vita, sul piano processuale, a forme di litisconsorzio necessario.

Si è, infatti, affermato che l’obbligazione solidale, pur avendo ad oggetto un’unica prestazione, dà luogo non ad un rapporto unico ed inscindibile, ma a rapporti giuridici distinti, anche se fra loro connessi, e, potendo il creditore ripetere da ciascuno dei condebitori l’intero suo credito, è sempre possibile la scissione del rapporto processuale, il quale può utilmente svolgersi nei confronti di uno solo dei coobbligati, sicché la mancata impugnazione, da parte di un coobbligato solidale, della sentenza di condanna pronunciata verso tutti i debitori solidali (che, pur essendo formalmente unica, consta di tante distinte pronunce quanti sono i coobbligati con riguardo ai quali essa è stata emessa), così come il rigetto dell’impugnazione del singolo, comporta il passaggio in giudicato della pronuncia concernente il debitore non impugnante (o il cui gravame sia stato respinto) esclusivamente con riferimento a lui, pure qualora lo stesso sia stato convenuto nel giudizio di appello ex art. 332 c.p.c., mentre il passaggio in giudicato di detta pronuncia rimane, poi, insensibile all’eventuale riforma ed annullamento delle decisioni inerenti agli altri coobbligati (Sez. 2, n. 24728/2018, Scarpa, Rv. 650662-01).

Sez. 6-2, n. 00688/2018, Abete, Rv. 647345-01, ha affermato che nel caso di molteplici negozi strutturalmente distinti, ma funzionalmente collegati, si è in presenza di un contratto o di un rapporto unico, allorché i contraenti originari abbiano prescelto più strumenti negoziali per disciplinare i loro interessi, mentre, nel caso in cui nella vicenda intervengano altri soggetti, come parti di ulteriori negozi, retti da una loro autonoma causa, si è in presenza di contratti oggettivamente e soggettivamente differenziati, rispetto ai quali può configurarsi, al più, un collegamento genetico e funzionale, per stabilire se e come gli effetti degli uni influenzino quelli degli altri. In tale ultima evenienza, la parziale diversità soggettiva dei contraenti implica che, sul piano della validità ed efficacia, il nesso di reciproca interdipendenza tra i negozi collegati al massimo determina una connessione per il titolo, idonea a dar corpo ad una delle ipotesi di litisconsorzio facoltativo cd. proprio ex art. 103, comma 1, c.p.c.

Quando i processi soggettivamente complessi non riflettono casi di litisconsorzio necessario, dando luogo così a cause scindibili, ad essi si applicano, in sede di impugnazione, gli artt. 326, comma 2, e 332 c.p.c., volti rispettivamente a favorire l’accelerazione del passaggio in giudicato dei capi di sentenza relativi a rapporti giuridici non investiti dall’impugnazione originaria, e ad agevolare il simultaneus processus tra l’impugnazione originariamente proposta e quelle potenzialmente proponibili dalle altre parti che non siano state destinatarie dell’impugnazione originaria. In un giudizio svoltosi con pluralità di parti in causa scindibile, la proposizione del ricorso per cassazione nei confronti di talune soltanto delle parti processuali non impedisce il passaggio in giudicato della sentenza nei confronti delle altre parti del giudizio di merito non destinatarie dell’impugnazione, a nulla rilevando che il ricorso sia notificato anche a queste ultime, atteso che la notificazione prevista dall’art. 332 c.p.c. non contiene una vocatio in ius, ma ha valore di semplice litis denuntiatio, volta a far conoscere ai destinatari l’esistenza di una impugnazione, al fine di consentire loro di proporre l’impugnazione invia incidentale nello stesso processo, qualora essa non sia esclusa o preclusa (Sez. 2, n. 10171/2018, Tedesco, Rv. 648167-01).

Inoltre, sempre in tema di impugnazioni relative a cause scindibili, si è stabilito che, qualora il ricorso per cassazione non sia stato notificato ad una delle parti vittoriose nel giudizio di appello, non deve essere ordinata l’integrazione del contraddittorio ai sensi dell’art. 332 c.p.c. se, alla data in cui dovrebbe essere disposta l’integrazione, detta parte sia decaduta dalla facoltà di proporre impugnazione incidentale, per decorso del termine di cui all’art. 327 c.p.c. (Sez. L, n. 11835/2018, Cinque, Rv. 648389-01.

  • giurisdizione civile
  • testimonianza
  • prova

CAPITOLO X

LE PROVE

(di Andrea Penta )

Sommario

1 Il principio di non contestazione. - 2 Il disconoscimento delle scritture private, delle fotocopie e delle riproduzioni meccaniche. - 3 La querela di falso. - 4 La confessione. - 5 Il giuramento. - 6 La prova testimoniale. - 6.1 L’incapacità a testimoniare. - 6.2 Le modalità di articolazione della prova testimoniale. - 7 La consulenza tecnica d’ufficio.

1. Il principio di non contestazione.

Come è noto, i fatti “non specificamente contestati dalla parte costituita” non hanno bisogno di essere provati, secondo quanto previsto dall’art. 115 c.p.c. Questa regola iuris è vincolante per il giudice, che dovrà astenersi da qualsivoglia controllo probatorio del fatto non contestato, al punto che una eventuale prova articolata per dimostrare fatti pacifici dovrebbe essere dichiarata irrilevante.

In termini generali, si ritiene che i fatti allegati possano essere considerati pacifici, allorquando la controparte: a) li abbia esplicitamente ammessi, b) abbia impostato la propria linea difensiva su argomenti logicamente incompatibili con il disconoscimento o c) si sia limitata a contestare espressamente e specificamente alcune circostanze, con ciò implicitamente riconoscendo le altre (in tal guisa evidenziando il proprio disinteresse ad un accertamento degli altri fatti).

Nel rito del lavoro (sul punto si rinvia al capitolo XVII), Sez. L, n. 05949/2018, Cavallaro, Rv. 647513-01, ha nuovamente affermato che il convenuto ha l’onere di contestare specificamente i conteggi elaborati dal ricorrente, ai sensi degli artt. 167, comma 1, e 416, comma 3, c.p.c., occorrendo a tal fine una critica precisa, che involga puntuali circostanze di fatto – risultanti dagli atti ovvero oggetto di prova – idonee a dimostrare l’erroneità dei conteggi.

Tuttavia, opportunamente Sez. L, n. 21675/2018, Bellè, Rv. 650250-01, ha precisato che, al mutare delle circostanze che hanno comportato la mancata contestazione dei fatti costitutivi del diritto, deve essere consentita la possibilità di negare i fatti precedentemente non contestati, purché, nell’ambito del processo del lavoro, la modifica dell’atteggiamento difensivo avvenga con modalità coerenti con la dinamica processuale del relativo rito, per cui, come le sopravvenienze devono essere allegate nella prima occasione processuale utile, anche la conseguente contestazione dovrà essere tempestivamente operata nella prima difesa.

L’onere di contestazione, alla stregua di quanto nuovamente evidenziato da Sez. 3, n. 03022/2018, Fanticini, Rv. 647939-01, concerne le sole allegazioni in punto di fatto della controparte e non anche i documenti da essa prodotti, rispetto ai quali vi è soltanto l’onere di eventuale disconoscimento, nei casi e modi di cui all’art. 214 c.p.c., o di proporre – ove occorra – querela di falso, con la conseguenza che gli elementi costitutivi della domanda devono essere specificamente enunciati nell’atto, restando escluso che le produzioni documentali possano assurgere ad una funzione integrativa di una domanda priva di specificità, con l’effetto (inammissibile) di demandare alla controparte (e anche al giudice) l’individuazione, tra le varie produzioni, di quelle che l’attore ha pensato di porre a fondamento della propria domanda, senza esplicitarlo nell’atto introduttivo.

Sez. 3, n. 11744/2018, Porreca, Rv. 648612-02, ha ribadito che la carenza di titolarità, attiva o passiva, del rapporto controverso è rilevabile di ufficio dal giudice, se risultante dagli atti di causa. Invero, così come confermato da Sez. 2, n. 20721/2018, Falaschi, Rv. 650018-01, le contestazioni, da parte del convenuto, della titolarità del rapporto controverso dedotta dall’attore hanno natura di mere difese e possono pertanto essere proposte in ogni fase del giudizio.

Già in passato le Sezioni Unite della Corte avevano statuito che le contestazioni, da parte del convenuto, circa la titolarità del rapporto controverso dedotto dall’attore hanno natura di mere difese, proponibili in ogni fase del giudizio, senza che l’eventuale contumacia o tardiva costituzione assuma valore di non contestazione o alteri la ripartizione degli oneri probatori, ferme le eventuali preclusioni maturate per l’allegazione e la prova di fatti impeditivi, modificativi od estintivi della titolarità del diritto non rilevabili dagli atti (Sez. U, n. 02951/2016, Curzio, Rv. 638372-01).

Questo indirizzo si inserisce nel solco di un orientamento della S.C. orientato ad un allargamento del novero delle mere difese. Si pensi, nel contesto di un contratto stipulato dal falsus procurator, alla deduzione del difetto o del superamento del potere rappresentativo e della conseguente inefficacia del contratto, da parte dello pseudo rappresentato (Sez. U, n. 11377/2015, Giusti, Rv. 635537-01).

2. Il disconoscimento delle scritture private, delle fotocopie e delle riproduzioni meccaniche.

La parte che contesti la verità della data indicata in un testamento olografo, ex art. 602, comma 3, c.c., deve proporre domanda di accertamento negativo di tale elemento essenziale ed è onerata dell’onere della relativa prova, anche laddove la difformità sia dovuta ad errore materiale del testatore, che non emerga da elementi intrinseci della scheda testamentaria (Sez. 2, n. 22197/2017, Federico, Rv. 645432-01). Parimenti, la parte che contesti l’autenticità del testamento olografo deve proporre domanda di accertamento negativo della provenienza della scrittura, e grava su di essa l’onere della relativa prova, secondo i principi generali dettati in tema di accertamento negativo (Sez. U, n. 12307/2015, Travaglino, Rv. 635554–01; conf. Sez. 2, n. 00109/2017, Oricchio, Rv. 642186-01). In coerenza con tale impostazione, Sez. 6-2, n. 18363/2018, D’Ascola, Rv. 649462-01, ha precisato che la parte contro cui l’azione di impugnativa è esercitata non ha l’onere di dichiarare di volersi avvalere del detto testamento, non essendo applicabile il procedimento di verificazione delle scritture private di cui all’art. 216, comma 2, c.p.c.

In tema, Sez. 6-2, n. 00711/2018, Criscuolo, Rv. 647974-01, ha chiarito che il giudizio di verificazione di un testamento olografo deve necessariamente svolgersi con un esame grafico espletato sull’originale del documento per rinvenire gli elementi che consentono di risalire, con elevato grado di probabilità, al reale autore della sottoscrizione; tuttavia, una volta verificati sul documento originale i dati che l’ausiliario reputi essenziali per l’accertamento dell’autenticità della grafia (ad esempio, l’incidenza pressoria sul foglio della penna), il prosieguo delle operazioni può svolgersi su eventuali copie o scansioni, e ciò a prescindere dal fatto che l’originale sia stato prodotto da una delle parti.

Alla parte, nei confronti della quale venga prodotta una scrittura privata, deve ritenersi consentita, oltre la facoltà di disconoscerla, così facendo carico alla controparte di chiederne la verificazione (addossandosi il relativo onere probatorio), anche la possibilità alternativa, senza riconoscere, né espressamente, né tacitamente, la scrittura medesima, di proporre querela di falso, al fine di contestare la genuinità del documento, atteso che, in difetto di limitazioni di legge, non può negarsi a detta parte di optare per uno strumento per lei più gravoso, ma rivolto al conseguimento di un risultato più ampio e definitivo, quello cioè della completa rimozione del valore del documento con effetti erga omnes e non nei soli riguardi della controparte (Sez. 1, n. 06249/2018, Iofrida, non massimata).

In tale contesto Sez. 3, n. 32219/2018, Sestini, Rv. 651950-01, ha affermato che la mancata produzione del documento in originale non esonera la parte dall’onere di proporre querela avverso la fotocopia non disconosciuta, salvi il grado di probatorietà che gli accertamenti in tal caso possono raggiungere e la possibilità di acquisire l’originale, ove ritenuto necessario, in relazione alla natura del falso dedotto.

Senza tralasciare che, come precisato da Sez. 1, n. 05115/2018, Nazzicone, non massimata, la parte che sostenga la non autenticità della propria apparente sottoscrizione di scrittura privata, che non sia stata riconosciuta e che non debba ritenersi legalmente riconosciuta, può assumere l’iniziativa del processo per sentire accertare, secondo le ordinarie regole probatorie, la non autenticità di detta sottoscrizione, nonché per sentir accogliere tutte quelle domande che postulino tale accertamento.

Quanto alle modalità ed ai termini entro i quali il disconoscimento di una scrittura privata deve essere operato, come è noto, il riconoscimento può essere espresso (quando la parte dichiara espressamente di riconoscere la propria firma) o tacito (qualora la parte nei cui confronti viene prodotta la scrittura non neghi formalmente – nella prima udienza o nella prima risposta successiva alla produzione – che la sottoscrizione apposta sul documento prodotto provenga da lui o, qualora la scrittura sia prodotta nei confronti di un successore – erede o avente causa – di colui che appare averla sottoscritta, non dichiari di non riconoscere la scrittura o la sottoscrizione del suo dante causa).

Per “prima risposta successiva” deve intendersi il primo atto processualmente rilevante compiuto alla presenza di entrambe le parti; ne consegue che, a titolo meramente esemplificativo, non può intendersi come prima risposta il mero deposito di note difensive autorizzate, proprio perché effettuato in assenza della controparte (di questo avviso è Sez. 3, n. 06187/2009, Spagna Musso, Rv. 607085-01). D’altra parte, l’espressione «nella prima udienza o nella prima risposta successiva alla produzione» deve essere interpretata in senso strettamente cronologico, senza che assuma alcun rilievo il fatto che in detta udienza non sia stata espletata alcuna attività processuale (Sez. 2, n. 29909/2008, Atripaldi, Rv. 605961-01; conf. Sez. 3, n. 12303/2016, Sestini, Rv. 640299-01).

In questo contesto occorre considerare Sez. 6-1, n. 15780/2018, Di Marzio M., Rv. 649335-01, a mente della quale, effettuata la relativa produzione nel termine di cui all’art. 183, comma 6, n. 2 c.p.c., in mancanza del deposito, ad opera della parte contro cui la scrittura è prodotta, della memoria prevista dall’art. 183, sesto comma, n. 3 c.p.c., è tempestivo il disconoscimento operato, ai sensi dell’art. 215, comma 1, c.p.c., alla prima udienza successiva all’effettuata produzione documentale, non potendo la decadenza di cui all’art. 215 c.p.c., in quanto norma di stretta interpretazione, dipendere da una non difesa quale deve essere qualificata l’omesso deposito della memoria sopra indicata. Nella specie, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza della corte d’appello che, prodotta la scrittura nel secondo termine di cui all’art. 183 c.p.c., aveva ritenuto tardivo il disconoscimento effettuato all’udienza successiva allo spirare dei termini di cui all’art. 183, comma 6, c.p.c., anzichè nella memoria di cui al terzo termine di cui all’art. 183 c.p.c. che il convenuto non aveva depositato.

Nel caso di opposizione a decreto ingiuntivo, si dà inizio non a un processo autonomo, ma a una fase di quello già iniziato con la notificazione del ricorso e del pedissequo decreto, che si configura essa stessa come la prima risposta del debitore, dopo che questi sia stato messo in grado di esaminare i documenti depositati in cancelleria e posti a fondamento dell’istanza (Sez. 2, n. 07465/2018, Sabato, non massimata). In definitiva, l’atto di opposizione a decreto ingiuntivo configura la prima risposta del debitore (Sez. 1, n. 00186/1980, Sensale, Rv. 403579-01).

In ordine alla scrittura privata prodotta per la prima volta in grado d’appello dall’appellante, per Sez. 3, n. 06674/2018, Scarano, Rv. 648297-01, deve considerarsi tempestivo il disconoscimento effettuato dall’appellato con atto di costituzione in sede di gravame, in quanto primo atto giudiziale successivo alla produzione in argomento, essendo al tal fine irrilevante l’intervenuta precedente celebrazione di un certo numero di udienze di rinvio.

Sez. 2, n. 04053/2018, Scalisi, Rv. 647808-01, ribadisce l’orientamento ormai consolidato secondo cui, nel silenzio della norma in merito ai modi e ai termini in cui debba avvenire, il disconoscimento della conformità all’originale delle copie fotografiche o fotostatiche che, se non contestate, acquistano, ai sensi dell’art. 2719 c.c., la stessa efficacia probatoria dell’originale, è soggetto alla disciplina di cui agli artt. 214 e 215 c.p.c. e, pertanto, deve anch’esso avvenire, in modo formale e specifico, nella prima udienza o risposta successiva alla produzione.

Parimenti, seguendo l’indirizzo prevalente, Sez. 2, n. 00882/2018, Giusti, Rv. 646669-01, ha affermato che l’art. 2719 c.c., che esige l’espresso disconoscimento della conformità con l’originale delle copie fotografiche o fotostatiche, si applica tanto al disconoscimento della conformità della copia al suo originale quanto al disconoscimento dell’autenticità di scrittura o di sottoscrizione. Conseguentemente, la copia fotostatica non autenticata si ha per riconosciuta, tanto nella sua conformità all’originale quanto nella scrittura e sottoscrizione, se la parte comparsa non la disconosce, in modo specifico ed inequivoco, alla prima udienza o nella prima risposta successiva alla sua produzione.

Opportunamente Sez. 2, n. 17902/2018, Tedesco, Rv. 649259-01, ha chiarito che, ove al disconoscimento di scrittura privata, ritualmente e tempestivamente proposto in primo grado, non facciano seguito né una regolare istanza di verificazione, né un’espressa statuizione del giudice circa il valore probatorio del documento medesimo – sebbene esso, di fatto, non venga comunque utilizzato -, la parte che ha operato il detto disconoscimento non ha l’onere di reiterarlo in appello, poiché la mancata richiesta di verificazione equivale, secondo la presunzione legale, ad una dichiarazione di non volersi avvalere della scrittura stessa come mezzo di prova.

Ad analoghe conclusioni si è pervenuti in relazione alla registrazione su nastro magnetico di una conversazione, la quale, come sostenuto anche da Sez. 3, n. 01250/2018, Rossetti, Rv. 647355-01, può costituire fonte di prova, ex art. 2712 c.c., se colui contro il quale la registrazione è prodotta non contesti che la conversazione sia realmente avvenuta, né che abbia avuto il tenore risultante dal nastro, e sempre che almeno uno dei soggetti, tra cui la conversazione si svolge, sia parte in causa; il disconoscimento, da effettuare nel rispetto delle preclusioni processuali degli artt. 167 e 183 c.p.c., deve essere chiaro, circostanziato ed esplicito e concretizzarsi nell’allegazione di elementi attestanti la non corrispondenza tra la realtà fattuale e quella riprodotta. Va ricordato, peraltro, che Sez. 3, n. 09526/2010, Talevi, Rv. 612453 – 01, ha ritenuto che, ai fini della tempestività, deve intendersi la prima udienza o la prima risposta successiva al momento in cui la parte onerata del disconoscimento sia stata posta in condizione, avuto riguardo alla particolare natura dell’oggetto prodotto, di rendersi immediatamente conto del contenuto della riproduzione, con la conseguenza che potrà reputarsi tardivo il disconoscimento di una riproduzione visiva soltanto dopo la visione relativa e quello di una riproduzione sonora soltanto dopo la sua audizione o, se congruente, la rituale acquisizione della sua trascrizione.

A riguardo, Sez. 2, n. 09977/2018, Grasso Gia., Rv. 648158 -01, ha chiarito che la fotografia costituisce prova precostituita della sua conformità alle cose e ai luoghi rappresentati, sicché chi voglia inficiarne l’efficacia probatoria non può limitarsi a contestare i fatti che la parte che l’ha prodotta intende con essa provare, ma ha l’onere di disconoscere tale conformità.

Quanto alle modalità, anche il disconoscimento di una scrittura privata ai sensi dell’art. 214 c.p.c., pur non richiedendo formule sacramentali, deve comunque rivestire (come già visto in tema di disconoscimento della conformità all’originale) i caratteri della specificità e della determinatezza e non risolversi in espressioni di stile: pertanto, secondo Sez. 2, n. 01537/2018, Carrato, Rv. 647080-01, la parte che intenda negare l’autenticità della propria sottoscrizione è tenuta a specificare, ove più siano i documenti prodotti, a quali di questi si riferisca.

Sul piano probatorio, Sez. 2, n. 00887/2018, Criscuolo, Rv. 647300-01, ha precisato che, allorché sia proposta istanza di verificazione della scrittura privata, il giudice non è tenuto a disporre necessariamente una consulenza tecnica grafologica per accertare l’autenticità della scrittura, qualora possa desumere la veridicità del documento attraverso la sua comparazione con altre scritture incontestabilmente provenienti dalla medesima parte e ritualmente acquisite al processo.

Sez. 3, n. 20814/2018, Iannello, Rv. 650418-01, traendo spunto dal dettato normativo, ha ricordato che l’onere del disconoscimento della scrittura privata, di cui all’art. 215, comma 1, n. 2, c.p.c., grava esclusivamente sul soggetto che appare essere l’autore della sottoscrizione e non già su colui che contesta l’opponibilità’ del documento, siccome non recante alcuna sottoscrizione a lui riferibile. Ne consegue che, quando il contenuto della scrittura privata inter alios venga contestato, il documento non viene in rilievo come prova legale e la corrispondenza a verità o meno del suo contenuto, dimostrabile con ogni mezzo di prova, è affidata al libero apprezzamento del giudice. In particolare, le dichiarazioni scritte provenienti da terzi estranei alla lite su fatti rilevanti non possono esplicare efficacia probatoria nel giudizio, se non siano convalidate attraverso la testimonianza ammessa e assunta nei modi di legge, ma possono unicamente assumere valore d’indizio, l’utilizzazione del quale costituisce non già un obbligo del giudice del merito, bensì una facoltà, il cui mancato esercizio non può formare oggetto di utile censura in sede di legittimità, sia sotto il profilo della violazione dell’articolo 115 del codice di procedura civile, sia sotto quello dell’omesso esame su punto decisivo della controversia (in questi termini Sez. 2, n. 04310/2018, Grasso Giu., Rv. 647811-01).

Da non confondere con quella ora analizzata è l’ipotesi, presa in considerazione da Sez. 2, n. 30948/2018, Federico, Rv. 651540-01, concernente la produzione in giudizio di una scrittura privata priva di firma da parte di chi avrebbe dovuto sottoscriverla che, pur equivalendo a sottoscrizione, non può determinare identico effetto nei confronti della controparte, neppure quando questi non ne abbia impugnata la provenienza. Le scritture prive della sottoscrizione non rientrano, infatti, nel novero delle scritture private aventi valore giuridico formale e non producono, quindi, effetti sostanziali e probatori. Ne consegue che la parte, contro la quale esse siano state prodotte, non ha l’onere di disconoscerne l’autenticità ai sensi dell’art. 215 c.p.c., norma che si riferisce al solo riconoscimento della sottoscrizione, questa essendo, ai sensi dell’art. 2702 c.c., il solo elemento grafico in virtù del quale – salvi i casi diversamente regolati (artt. 2705, 2707, 2708 e 2709 c.c.) – la scrittura diviene riferibile al soggetto dal quale proviene e può produrre effetti a suo carico (di questo stesso avviso è Sez. 6-2, n. 03730/2013, Carrato, Rv. 625155-01).

Il disconoscimento, ai sensi dell’art. 2719 c.c., della conformità tra una scrittura privata e la copia fotostatica, prodotta in giudizio non ha gli stessi effetti di quello della scrittura privata, previsto dall’art. 215, comma 1, n. 2, c.p.c., in quanto, mentre quest’ultimo, in mancanza di verificazione, preclude l’utilizzabilità della scrittura, la contestazione di cui all’art. 2719 c.c. non impedisce al giudice di accertare la conformità della copia all’originale anche mediante altri mezzi di prova, comprese le presunzioni. Il principio è stato, nel corso di quest’anno, ribadito da Sez. 5, n. 14950/2018, Fasano, Rv. 649366-01. Ne consegue che, come precisato da Sez. 5, n. 12737/2018, Condello, Rv. 648402-01, l’avvenuta produzione in giudizio della copia fotostatica di un documento, se impegna la parte contro la quale il documento è prodotto a prendere posizione sulla conformità della copia all’originale, tuttavia non vincola il giudice all’avvenuto disconoscimento della riproduzione, potendo egli apprezzarne l’efficacia rappresentativa.

In proposito, va ricordato che la parte contro la quale sia prodotta la copia fotostatica non autenticata di un documento proveniente da essa o dal suo autore può disconoscere o la sua conformità all’originale ovvero l’autenticità della scrittura o della sottoscrizione. Ciascuno dei due disconoscimenti, però, produce effetti diversi: la contestazione della conformità della copia all’originale, infatti, tendendo esclusivamente ad impedire che alla prima sia riconosciuta la stessa efficacia probatoria del secondo, non preclude, come si è visto in precedenza, alla parte che ha prodotto la copia la possibilità di accertare la conformità aliunde; il disconoscimento dell’autenticità della scrittura in copia o della sottoscrizione apposta sulla stessa, invece, preclude definitivamente l’utilizzabilità del documento come mezzo di prova, salva la produzione dell’originale da parte di chi intenda avvalersene, onde accertarne la genuinità all’esito della procedura di verificazione ex art. 216 c.p.c. (così Sez. 5, n. 01525/2004, Oddo, Rv. 569752-01; conf. Sez. 2, n. 04053/2018, Scalisi, Rv. 647808-01). Pertanto, in caso di disconoscimento dell’autenticità della sottoscrizione di scrittura privata prodotta in copia fotostatica, la parte che l’abbia esibita in giudizio e intenda avvalersi della prova documentale rappresentata dall’anzidetta scrittura deve produrre l’originale, al fine di ottenerne la verificazione nel rispetto delle preclusioni istruttorie (v., in tal senso, Sez. 2, n. 10895/2018, Criscuolo, non massimata).

Peraltro, ove la copia fotostatica o fotografica riguardi un contratto per il quale è richiesta la forma scritta ad substantiam o ad probationem, la parte interessata deve necessariamente produrre in giudizio detto atto in originale o in copia autenticata al fine della prova della sua esistenza e del suo contenuto, mentre potrà servirsi della prova per testimoni o per presunzioni soltanto se abbia dedotto e previamente dimostrato la perdita incolpevole del documento originale (in questi termini Sez. 2, n. 00212/1985, Albanese, Rv. 438436-01; conf. Sez. 5, n. 12737/2018, Condello, Rv. 648402-01).

In tema di procedimento incidentale di verificazione di scrittura privata disconosciuta ex art. 216, comma 1, c.p.c., la relativa istanza non può essere formulata in via preventiva, in quanto la validità di prova legale della scrittura va acquisita al perfezionarsi di una fattispecie articolata ed integrata, secondo una rigida scansione dei tempi processuali, dal disconoscimento della scrittura e dal comportamento dell’altra parte che attivi il procedimento di verificazione che si concluda per la stessa positivamente; il disconoscimento in questione deve, invece, necessariamente precedere temporalmente ogni comportamento della parte che abbia in astratto interesse a far valere in causa il documento prodotto. Il principio è stato di recente ripreso da Sez. L, n. 07993/2018, Nobile, Rv. 648182-01, in una fattispecie in cui correttamente la sentenza di merito, a fronte del disconoscimento di sottoscrizioni apposte in calce ad annotazioni, contenute in alcuni quaderni, sulle ore di lavoro prestate, aveva ritenuto non ritualmente proposta, da parte della lavoratrice, l’istanza di verificazione contenuta nel ricorso introduttivo della lite. Pertanto, la relativa contestazione, ove venga dedotta preventivamente, a fini solo esplorativi e senza riferimento circoscritto al determinato documento, ma con riguardo ad ogni eventuale produzione in copia che sia stata o possa essere effettuata da controparte, non preclude l’utilizzazione della copia come mezzo di prova (così Sez. 5, n. 16232/2004, Cultrera, Rv. 575966-01), a meno che non venga ribadita successivamente alla produzione del documento e con espresso riferimento ad esso.

Anche la contestazione della conformità all’originale di un documento prodotto in copia non può avvenire con clausole di stile e generiche o onnicomprensive, ma va operata – a pena di inefficacia – in modo chiaro e circostanziato, attraverso l’indicazione specifica sia del documento che si intende contestare, sia degli aspetti per i quali si assume differisca dall’originale. In applicazione del principio, Sez. 2, n. 27633/2018, Sabato, Rv. 651376-01, ha ritenuto inefficace il disconoscimento della conformità all’originale della copia fotostatica della notificazione in forma esecutiva della sentenza impugnata operato attraverso la mera contestazione della “conformità della fotocopia prodotta all’originale” (conf. Sez. 6-5, n. 29993/2017, Manzon, Rv. 646981-01).

3. La querela di falso.

Il giudizio di querela di falso, tanto in via principale che incidentale, si connota quale processo a contenuto oggettivo con prevalente funzione di protezione dell’interesse pubblico all’eliminazione di documenti falsi dalla circolazione giuridica. L’interesse a proporre querela di falso in via principale, che tende a rimuovere erga omnes l’efficacia probatoria del documento che ne forma oggetto, sussiste in capo a tutti coloro nei cui confronti il medesimo documento è o può essere fatto valere (si veda, in tal senso, Sez. 1, n. 08483/2018, Campanile, non massimata).

L’atto con il quale viene proposta querela di falso in corso di causa deve contenere, ai sensi dell’art. 221, comma 2, c.p.c., a pena di nullità insanabile, l’indicazione degli elementi e delle prove della falsità (non potendo nuovi elementi essere dedotti dalla parte successivamente), salvo che, come chiarito da Sez. 2, n. 10874/2018, Carrato, Rv. 648241-01, tale falsità sia rilevabile ictu oculi dal documento impugnato e non occorrano particolari indagini per accertarla. Secondo Sez. 6-5, n. 06220/2018, Luciotti, Rv. 647329-01, la formulazione in tal senso dell’art. 221 c.p.c. indica in modo non equivoco che il giudice di merito davanti al quale essa sia stata proposta è tenuto a compiere un accertamento preliminare per verificare la sussistenza o meno dei presupposti che ne giustificano la proposizione, finendosi diversamente per dilatare i tempi di decisione del processo principale, in contrasto con il principio della ragionevole durata del processo di cui all’art. 111, comma 2, Cost.

Non possono essere addotti nuovi ed ulteriori elementi di falsità successivamente alla proposizione della querela.

L’obbligo di indicazione degli elementi e delle prove della falsità può essere assolto con qualsiasi tipo di prova che sia idoneo all’accertamento del falso, anche per mezzo di presunzioni e dell’istanza di esibizione, e non implica necessariamente la completa e rituale formulazione della prova testimoniale, essendo sufficiente l’indicazione di tale prova e delle circostanze che ne dovrebbero costituire l’oggetto (contra Sez. 1, n. 02790/1991, Sensale, Rv. 471285-01, secondo cui l’indicazione degli elementi e delle prove a supporto della querela di falso deve avvenire secondo i modi stabiliti dalla legge processuale e, perciò, ove si tratti di prova testimoniale, mediante indicazione specifica, ai sensi dell’art. 244 c.p.c., delle persone da interrogare e dei fatti, formulati in articoli separati, sui quali ciascuna di esse deve essere interrogata).

Sez. 2, n. 27402/2018, Sabato, Rv. 650938-01, ha confermato (cfr. altresì Sez. 1, n. 11223/2014, Bisogni, Rv. 631252-01), quanto all’intervento obbligatorio del P.M., che, ai fini della validità del procedimento per querela di falso non sono necessarie né la presenza alle udienze né la formulazione delle conclusioni da parte di un rappresentante di tale ufficio, essendo sufficiente che il P.M., mediante l’invio degli atti, sia informato del giudizio e posto in condizione di sviluppare l’attività ritenuta opportuna.

Come è noto, l’atto pubblico fa pubblica fede solo del cd. estrinseco, vale a dire di tutto ciò che il pubblico ufficiale può attestare che sia avvenuto (ivi comprese eventuali dichiarazioni) in sua presenza o che lui ha compiuto. Viceversa, la valenza fidefacente non si estende al cd. intrinseco, vale a dire alla veridicità ed esattezza di ciò che è stato dichiarato dalle parti (ma anche da terzi e da eventuali testimoni) di fronte al pubblico ufficiale (Sez. 3, n. 24530/2008, Calabrese, Rv. 604735-01), nonché alle considerazioni e valutazioni personali.

Il valore di prova legale della scrittura privata riconosciuta, o da considerarsi tale, è, pertanto, come confermato da Sez. 1, n. 08766/2018, Fraulini, Rv. 648145-01, limitato alla provenienza della dichiarazione del sottoscrittore e non si estende al contenuto della medesima, sicché la querela di falso è esperibile unicamente nei casi di falsità materiale, per rompere il collegamento, quanto alla provenienza, tra dichiarazione e sottoscrizione, e non in quella di falsità ideologica, per impugnare la veridicità di quanto dichiarato, al qual fine può farsi, invece, ricorso alle normali azioni atte a rilevare il contrasto tra volontà e dichiarazione. Nella fattispecie, la S.C. ha confermato la sentenza della corte d’appello, che aveva dichiarato inammissibile la querela di falso proposta da un istituto di credito, al fine di dimostrare la non corrispondenza tra il modulo bancario sottoscritto dal cliente e la specifica operazione che quest’ultimo intendeva effettuare.

Per Sez. 6-1, n. 19785/2018, Sambito, Rv. 650194-01, la certificazione dell’autografia della sottoscrizione della procura alle liti da parte del difensore può essere contestata soltanto con la querela di falso, poiché la dichiarazione della parte con la quale questa assume su di sé gli effetti degli atti processuali che il difensore è destinato a compiere, pur trovando fondamento in un negozio di diritto privato (mandato), è tuttavia destinata ad esplicare i propri effetti nell’ambito del processo, con la conseguenza che il difensore, con la sottoscrizione dell’atto processuale e con l’autentica della procura, compiendo un negozio di diritto pubblico, riveste la qualità di pubblico ufficiale.

Vi è un caso in cui va necessariamente proposta la querela di falso. Invero, il disconoscimento non costituisce mezzo processuale idoneo a dimostrare l’abusivo riempimento del foglio in bianco, sia che si tratti di riempimento absque pactis, sia che si tratti di riempimento contra pacta, dovendo, invece, essere proposta la querela di falso se si sostenga che nessun accordo per il riempimento sia stato raggiunto dalle parti (absque o sine pactis), ed essere fornita la prova (con gli ordinari rimedi inerenti i vizi della volontà) di un accordo dal contenuto diverso da quello del foglio sottoscritto se si sostenga che l’accordo raggiunto fosse, appunto, diverso (così Sez. 3, n. 25445/2010, Amatucci, Rv. 614986-01; conf. Sez. 3, n. 05417/2014, Vincenti, Rv. 630010-01).

Il sottoscrittore che assuma, con querela di falso, che la sottoscrizione era stata apposta su un foglio firmato in bianco ed abusivamente riempito, ha l’onere di provare sia che la firma era stata apposta su foglio non ancora riempito, sia che il riempimento era avvenuto absque pactis (cfr. Sez. 3, n. 03155/2004, Amatucci, Rv. 570241-01), pur potendo siffatta prova essere fornita per il tramite di presunzioni (sul punto Sez. 3, n. 01691/2006, Frasca, Rv. 587849-01).

In questo contesto Sez. 3, n. 00899/2018, Rossetti, Rv. 647124-01, ha avuto il merito di chiarire ulteriormente che, nel caso di sottoscrizione di documento in bianco, il riempimento absque pactis consiste in una falsità materiale realizzata trasformando il documento in qualcosa di diverso da quel che era in precedenza, mentre il riempimento contra pacta (o abuso di biancosegno) consiste in un inadempimento derivante dalla violazione del mandatum ad scribendum, il quale può avere un contenuto sia positivo che negativo; ne deriva che anche la violazione di un accordo sul riempimento avente contenuto negativo (quale è quello che prevede, a carico di chi riceve il documento, l’obbligo di non completarlo) integra un abuso di biancosegno, la cui dimostrazione non onera la parte che lo deduca alla proposizione di querela di falso.

Sez. L, n. 27000/2018, Bellè, Rv. 651244-01, ha avuto l’occasione di chiarire che, per quanto anche l’esistenza di copie autentiche di un atto pubblico tra loro difformi imponga la proposizione della querela di falso contro quelle ritenute contraffatte, quale strumento imprescindibile per neutralizzarne il valore probatorio, tale principio trova applicazione solo quando le parti eseguano produzioni tra loro contrapposte, e non quando si tratti di copie prodotte dalla stessa parte processuale proprio al fine di sopperire a carenze del documento depositato in precedenza. In siffatta ultima evenienza, il giudice è tenuto a procedere al raffronto comparativo tra esse e, in applicazione del principio generale di conservazione degli atti giuridici, ad accedere, ove possibile e sempre che non sia proposta querela di falso, all’interpretazione che renda logicamente compatibili i rilevati profili di difformità.

4. La confessione.

L’ammissione, che ha una valenza meramente indiziaria (e, come tale, è liberamente valutabile ed apprezzabile dal giudice per la formazione del proprio convincimento), si verifica quando il difensore (non munito di mandato speciale) esplicitamente riconosce come veri i fatti allegati in giudizio dalla controparte. Tuttavia, alle ammissioni contenute negli scritti difensivi sottoscritti dal procuratore ad litem può essere attribuito valore confessorio (confessione spontanea) riferibile alla parte, allorquando quegli scritti rechino anche la sottoscrizione della parte stessa (Sez. 1, n. 15062/2005, Celentano W., Rv. 585318-01), anche se poi si discute se a tal fine sia sufficiente che la firma sia apposta a margine del documento o se sia necessario che la stessa sia presente in calce all’atto (per Sez. 3, n. 26686/2005, Fantacchiotti, Rv. 585896-01, al fine di riconoscere la valenza di confessione spontanea, occorre che la comparsa, affinché possa produrre tale efficacia probatoria, sia stata sottoscritta dalla parte personalmente, con modalità tali che rivelino inequivocabilmente la consapevolezza delle specifiche dichiarazioni dei fatti sfavorevoli contenute nell’atto). In questo contesto si inserisce Sez. 2, n. 23634/2018, Federico, Rv. 650383-02, la quale ha confermato la sentenza gravata che aveva negato valore confessorio alle dichiarazioni contenute nella comparsa di risposta di una parte, sottoscritta dal solo difensore e depositata in diverso giudizio.

In quest’ottica, le dichiarazioni contenute nella comparsa di risposta, contenenti affermazioni relative a fatti sfavorevoli al proprio rappresentato e favorevoli all’altra parte, non hanno efficacia di confessione, ma possono soltanto fornire elementi indiziari (valutabili, secondo Sez. 2, n. 07015/2012, Matera L., Rv. 622155-01, agli effetti dell’art. 2729 c.c.), qualora l’atto sia sottoscritto dal difensore e non dalla parte personalmente, atteso che la confessione giudiziale spontanea può essere manifestata efficacemente solo da chi abbia il potere di disporre del diritto controverso e quindi non dal difensore, a meno che questi non sia munito d’apposito mandato in tal senso, che si aggiunga alla procura alle liti.

Non vi è dubbio che non possa attribuirsi valore confessorio agli atti processuali contenenti la sottoscrizione della parte nella procura apposta in calce o a margine di quell’atto; sebbene, infatti, il mandato defensionale debba considerarsi un tutto unico con il testo dell’atto, alla parte non può tuttavia attribuirsi manifestazione alcuna di volontà in ordine alle affermazioni contenute in detto testo, laddove dalla dichiarazione non emerga l’elemento soggettivo della consapevolezza e volontà di ammettere e riconoscere la verità di un fatto a sé sfavorevole e favorevole all’altra parte, quale non può ravvisarsi nel semplice conferimento del mandato.

Sez. 6-2, n. 09436/2018, Falaschi, Rv. 648227-01, ha ribadito il principio consolidato per cui la disposizione dell’art. 232 c.p.c. non ricollega automaticamente alla mancata risposta all’interrogatorio, per quanto ingiustificata, l’effetto della confessione, ma dà solo la facoltà al giudice di ritenere come ammessi i fatti dedotti con tale mezzo istruttorio, imponendogli, però, nel contempo, di valutare ogni altro elemento di prova.

Pertanto, come ha ribadito Sez. 6-2, n. 04837/2018, Abete, Rv. 648210-01, la sentenza nella quale il giudice ometta di prendere in considerazione la mancata risposta all’interrogatorio formale non è affetta da vizio di motivazione, atteso che l’art. 232 c.p.c., a differenza dell’effetto automatico di ficta confessio ricollegato a tale vicenda dall’abrogato art. 218 del codice di rito del 1865, riconnette a tale comportamento della parte soltanto una presunzione semplice che consente di desumere elementi indiziari a favore della avversa tesi processuale (prevedendo che il giudice possa ritenere come ammessi i fatti dedotti nell’interrogatorio “valutato ogni altro elemento di prova”).

Secondo Sez. 2, n. 02956/2018, Sabato, Rv. 647796-01, la rinuncia all’interrogatorio formale può essere anche tacita e desumibile dal contegno della parte richiedente successivamente all’ammissione (ad esempio, ove siano state rassegnate le conclusioni), nonché intervenire anche durante l’espletamento del mezzo istruttorio, quale manifestazione dell’intento di non proseguire nell’ulteriore acquisizione di altre dichiarazioni della controparte, senza alcuna incidenza su quelle già assunte. Essendo soltanto la parte deferente interessata all’espletamento dell’interrogatorio formale della controparte, essa può rinunciarvi liberamente senza necessità di assenso delle controparti o del giudice e tale potere è speculare all’impossibilità per la parte di chiedere il proprio interrogatorio formale.

Per quanto l’art. 292 c.p.c., soprattutto a seguito degli interventi additivi della Corte costituzionale, assicuri al contumace una tutela estremamente garantista, Sez. 3, n. 10157/2018, Spaziani, Rv. 648314-01, ne ha delimitato l’ambito applicativo, affermando che il principio secondo cui il provvedimento di rinvio d’ufficio di un’udienza istruttoria non deve essere notificato alla parte contumace, non prevedendolo l’art. 292 c.p.c. né l’art. 82, comma 3, disp. att. c.p.c., trova applicazione anche quando oggetto di tale rinvio sia l’udienza fissata per l’espletamento dell’interrogatorio formale dello stesso contumace; pertanto, qualora la controparte abbia ritualmente provveduto alla notificazione dell’ordinanza ammissiva dell’interrogatorio, il giudice può valutare, ai sensi dell’art. 232 c.p.c., la mancata presentazione alla nuova udienza del contumace, il quale ha gli elementi per venire a conoscere la relativa data.

5. Il giuramento.

Sez. 2, n. 27410/2018, Oliva, Rv. 651026-01, ha ribadito (cfr. altresì Sez. 2, n. 15494/2001, Schettino, Rv. 550947-01, e Sez. 2, n. 04275/1995, Calfapietra, Rv. 491825-01) che il giuramento deferito da una parte all’altra conserva il carattere della decisorietà anche se, da esso, possa dipendere la decisione soltanto parziale della causa, cioè quando venga deferito per decidere un punto particolare della controversia, dotato di una propria autonomia, perché relativo ad uno dei capi della domanda ovvero ad uno dei momenti necessari dell’iter da seguire per la decisione, rispetto al quale il giuramento esaurisce ogni indagine.

D’altra parte, come è stato confermato da Sez. 2, n. 27086/2018, Criscuolo, Rv. 651016-01, il giuramento, decisorio o suppletorio, non può vertere sull’esistenza o meno di rapporti o di situazioni giuridiche, né può deferirsi per provocare l’espressione di apprezzamenti od opinioni né, tantomeno, di valutazioni giuridiche, dovendo la sua formula avere ad oggetto circostanze determinate che, quali fatti storici, siano state percepite dal giurante con i sensi o con l’intelligenza (conf. Sez. 2, n. 10184/2013, Manna F., Rv. 626140-01).

Sez. 2, n. 30446/2018, Besso Marcheis, Rv. 651528-01, ha precisato che la risoluzione consensuale di un contratto preliminare riguardante il trasferimento, la costituzione o l’estinzione di diritti reali immobiliari è soggetta al requisito della forma scritta ad substantiam e, pertanto, non può essere provata mediante deferimento di giuramento decisorio, inammissibile ai sensi dell’art. 2739 c.c.

In tema di giuramento decisorio non comportano nullità la mancata verbalizzazione della formula e l’omessa pronuncia della parola “giuro”, atteso che detta nullità, ipotizzabile solo nei casi tipizzati dalla legge a norma dell’art. 156 c.p.c., non è prevista dagli artt. 238 e 239 c.p.c., sempre che l’atto presenti tutti i requisiti formali indispensabili per il raggiungimento dello scopo per il quale è stato introdotto, a norma dell’art. 156, comma 3, c.p.c. In applicazione di tale principio, Sez. 2, n. 19264/2018, Varrone, Rv. 649706-01, ha condiviso la decisione del giudice di merito secondo cui, al di là della differente formula usata – «è vero», in luogo di «giuro» – il giuramento era stato correttamente svolto.

6. La prova testimoniale.

In tema di decadenza dalla prova testimoniale, Sez. 6-1, n. 09840/2018, De Chiara, Rv. 647898-01, prima, e Sez. 6-L, n. 19529/2018, Fernandes, Rv. 650203-01, poi, hanno affermato che spetta esclusivamente al giudice di merito, in base al disposto degli artt. 208 c.p.c. e 104 disp. att. c.p.c., valutare se sussistano giusti motivi per revocare l’ordinanza di decadenza della parte dal diritto di escutere i testi per mancata comparizione all’udienza a tal fine fissata, ovvero per mancata intimazione degli stessi, esulando dai poteri della S.C. accertare se l’esercizio di detto potere discrezionale sia avvenuto in modo opportuno e conveniente.

6.1. L’incapacità a testimoniare.

L’incapacità a deporre prevista dall’art. 246 c.p.c. si verifica solo quando il teste è titolare di un interesse personale, attuale e concreto, che lo coinvolga nel rapporto controverso, alla stregua dell’interesse ad agire di cui all’art. 100 c.p.c., tale da legittimarlo a partecipare al giudizio in cui è richiesta la sua testimonianza, con riferimento alla materia in discussione, non avendo, invece, rilevanza l’interesse di fatto a un determinato esito del processo – salva la considerazione che di ciò il giudice è tenuto a fare nella valutazione dell’attendibilità del teste – né un interesse, riferito ad azioni ipotetiche, diverse da quelle oggetto della causa in atto, proponibili dal teste medesimo o contro di lui, a meno che il loro collegamento con la materia del contendere non determini già concretamente un titolo di legittimazione alla partecipazione al giudizio. Il principio è stato ribadito da Sez. 2, n. 00167/2018, Orilia, Rv. 646617-01, e da Sez. 1, n. 13684/2018, Cirese, non massimata.

In quest’ottica, Sez. 1, n. 10112/2018, Di Marzio M., Rv. 648554-01, ha affermato che il dipendente dell’intermediario finanziario che abbia dato corso all’operazione impugnata dall’investitore ha un interesse riflesso e di mero fatto all’esito della causa e non può, pertanto, essere ritenuto incapace a testimoniare.

Essendo posta a tutela dell’interesse delle parti, la nullità derivante dalla incapacità a testimoniare è configurabile come una nullità relativa (art. 157, co. 2, c.p.c.) e, in quanto tale, deve essere eccepita subito dopo l’espletamento della prova.

Tendenzialmente l’eccezione viene sollevata subìto dopo che il teste ha dichiarato, all’inizio dell’escussione, di versare in un determinato tipo di rapporti con una delle parti (il giudice, prima di procedere alla deposizione vera e propria, deve, infatti, ai sensi dell’art. 252 c.p.c., interrogare il teste sulla sua professione e sui suoi rapporti personali – di parentela, di affari, di dipendenza, di società, ecc. – con le parti). Per Sez. 3, n. 05454/2005, Frasca, Rv. 581370-01, l’inosservanza potrebbe essere denunciata, al più tardi, al momento della acquisita conoscenza della nullità ove successiva, dovendosi in siffatta ultima evenienza, ai fini della tempestività dell’eccezione, non solo affermare la tardività della conoscenza della nullità, ma specificare le circostanze della avvenuta tardiva conoscenza. Diversamente, dovrà intendersi sanata ai sensi dell’art. 157, secondo comma, c.p.c., senza che la preventiva eccezione di incapacità a testimoniare, proposta a norma dell’art. 246 c.p.c., possa ritenersi comprensiva dell’eccezione di nullità della testimonianza comunque ammessa, ed assunta nonostante la previa opposizione (Sez. 1, n. 08358/2007, Rordorf, Rv. 596021-01).

Il principio di inconciliabilità della veste di testimone con quella di parte, enunciato con riferimento alle persone fisiche, ha un portata minore per quel che concerne le persone giuridiche; conseguentemente, ferma restando l’incapacità a testimoniare della persona fisica che per statuto abbia la rappresentanza legale della società, la relativa eccezione di nullità della testimonianza deve essere proposta al più tardi dopo la sua assunzione o all’udienza successiva, in caso di mancata presenza del procuratore della parte interessata. In applicazione di tale principio, Sez. 2, n. 19498/2018, Oliva, Rv. 649994-01, ha cassato la sentenza perché il giudice del merito aveva dedotto d’ufficio l’incapacità a testimoniare del rappresentante legale della società senza la necessaria e tempestiva eccezione della controparte.

La difficoltà ad inquadrare giuridicamente il condominio porta con sé, come corollario, la difficoltà a riconoscere talvolta la veste di testimone all’amministratore. In questo contesto si inserisce Sez. 3, n. 02332/2018, Guizzi, non massimata, a mente della quale, nel processo di accertamento della responsabilità da cose in custodia per danni da infiltrazioni d’acqua originate da parti comuni di un edificio condominiale, l’amministratore del condominio non è incapace a testimoniare, posto che i soggetti potenzialmente responsabili in solido sono i singoli condomini e non il condominio o il suo amministratore.

6.2. Le modalità di articolazione della prova testimoniale.

La prova testimoniale deve essere dedotta, ai sensi dell’art. 244 c.p.c., mediante l’indicazione precisa delle persone da interrogare e dei fatti formulati per capitoli di prova. La disposizione ha il duplice scopo di consentire all’avversario di formulare i capitoli di prova contraria indicando i propri testimoni e di dare modo al giudice di valutare se la prova richiesta sia concludente e pertinente (cfr. Sez. 1, n. 02201/2007, Del Core, Rv. 594920-01).

L’indagine del giudice di merito sui requisiti di specificità e rilevanza dei capitoli formulati dalla parte istante va condotta, secondo Sez. 2, n. 14364/2018, Federico, Rv. 648842-01, non solo alla stregua della loro formulazione letterale, ma anche in correlazione all’adeguatezza fattuale e temporale delle circostanze articolate.

La facoltà del giudice di chiedere chiarimenti e precisazioni ex art. 253 c.p.c., di natura esclusivamente integrativa, non può tradursi in un’inammissibile sanatoria della genericità e delle deficienze dell’articolazione probatoria (cfr. n. 03280 del 2008, D’Ascola, Rv. 601895-01; conf. Sez. 2, n. 14364/2018, cit.).

Le nullità (si pensi all’esame di testi su circostanze non dedotte nei capitoli di prova) o decadenze derivanti dalla violazione delle disposizioni contenute negli artt. 244 e ss. c.p.c. hanno tendenzialmente natura relativa e sono sanate per acquiescenza delle parti, in quanto sono stabilite dalla legge a tutela dei loro interessi, e non per motivi di ordine pubblico (cfr. Sez. U, n. 21670/2013, Petitti, Rv. 627450-01). Pertanto, ai sensi dell’art. 157, comma 2, c.p.c., vanno denunciate dalla parte interessata nella prima istanza o difesa successiva al loro verificarsi (o alla conoscenza delle nullità stesse), intendendosi per istanza, ai fini della norma citata, anche la richiesta di un provvedimento ordinatorio di mero rinvio (Sez. U, n. 00264/1997, Evangelista, Rv. 501703-01). In quest’ottica, le nullità e le decadenze stabilite riguardo alla prova testimoniale dall’articolo 244 del c.p.c., possono essere rilevate, secondo Sez. 6-3, n. 01294/2018, Scoditti, Rv. 647508-01, solo dalle parti, le quali possono prestarvi acquiescenza con l’esperimento del mezzo di prova.

Tuttavia, il giudice, in ordine ai vizi della prova testimoniale relativi alla modalità di capitolazione, può sempre rilevare di ufficio la inammissibilità di una prova che verta su apprezzamenti e valutazioni del teste piuttosto che su fatti specifici a conoscenza dello stesso: infatti, poiché il giudice non può legare il suo convincimento ai giudizi dei testi, la predetta prova resterebbe comunque inutilizzabile anche in assenza di una eccezione di parte (v. Sez. 2, n. 08620/1996, Fantacchiotti, Rv. 499866-01).

Parimenti, la mancanza di indicazione specifica dei fatti nella deduzione della testimonianza, in quanto requisito di rilevanza della prova, è, come ribadito da Sez. 6-3, n. 01294/2018, Scoditti, Rv. 647508-01, rilevabile d’ufficio dal giudice e rende inammissibile la testimonianza medesima.

Non può essere invocata la lesione dell’art. 6, primo comma, della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo al fine di censurare la valutazione sulla ammissibilità di mezzi di prova concretamente effettuata dal giudice nazionale in applicazione del regime processuale interno, spettando esclusivamente a quest’ultimo valutare gli elementi di prova già acquisiti e la rilevanza di quelli di cui una parte chiede la ammissione. In applicazione di questo principio, Sez. 6-L, n. 17004/2018, Doronzo, Rv. 649636-01, ha ritenuto non pertinente il richiamo all’art. 6 CEDU al fine di censurare la sentenza del giudice del merito in ordine alla ritenuta superfluità della prova testi, peraltro congruamente motivata, sul rilievo che l’istruttoria avesse già consentito di raccogliere tutti gli elementi necessari alla decisione.

Come si è visto in tema di interrogatorio formale, ma con disciplina parzialmente difforme, qualora la parte che abbia indicato un teste richieda la fissazione dell’udienza di precisazione delle conclusioni, tale inequivoco comportamento ne manifesta la volontà di rinunciare all’audizione del teste stesso e, se la controparte aderisce alla richiesta di remissione della causa al collegio, anch’essa pone in essere una condotta adesiva alla rinuncia al teste. Tale rinuncia, come chiarito da Sez. 1, n. 10797/2018, Ceniccola, Rv. 648126-01, acquista efficacia per effetto del consenso del giudice implicitamente espresso con il provvedimento di chiusura dell’istruttoria e di remissione della causa in decisione, per cui compete solo al collegio, con giudizio non sindacabile in sede di legittimità, ordinare la riapertura della istruttoria, revocando l’ordinanza del giudice istruttore.

7. La consulenza tecnica d’ufficio.

La consulenza tecnica d’ufficio, come ribadito da Sez. 6-1, n. 30218/2017, Genovese, Rv. 647288-01, non è mezzo istruttorio in senso proprio, avendo la finalità di coadiuvare il giudice nella valutazione di elementi acquisiti o nella soluzione di questioni che necessitino di specifiche conoscenze. Ne consegue che il suddetto mezzo di indagine non può essere utilizzato al fine di esonerare la parte dal fornire la prova di quanto assume, ed è quindi legittimamente negata, qualora la parte tenda con essa a supplire alla deficienza delle proprie allegazioni o offerte di prova, ovvero a compiere una indagine esplorativa alla ricerca di elementi, fatti o circostanze non provati. Ne consegue che, qualora la c.t.u. sia richiesta per acquisire documentazione che la parte avrebbe potuto produrre, l’ammissione da parte del giudice comporterebbe lo snaturamento della funzione assegnata dal codice a tale istituto e la violazione del giusto processo, presidiato dall’art. 111 Cost., sotto il profilo della posizione paritaria delle parti e della ragionevole durata (Sez. 1, n. 21487/2017, Ceniccola, Rv. 645410-01).

Il divieto per il consulente tecnico di ufficio di compiere indagini esplorative può, in particolare, essere superato, secondo Sez. 1, n. 15774/2018, Nazzicone, Rv. 649471-01, soltanto quando l’accertamento di determinate situazioni di fatto possa effettuarsi esclusivamente con l’ausilio di speciali cognizioni tecniche, essendo, in questo caso, consentito al consulente di acquisire anche ogni elemento necessario a rispondere ai quesiti, sebbene risultante da documenti non prodotti dalle parti, sempre che si tratti di fatti accessori e rientranti nell’ambito strettamente tecnico della consulenza. Al contrario, il divieto è pienamente operante quando l’onere della prova sia a carico di una parte e non si rientri nella sopraindicata fattispecie eccezionale e derogatoria. Nella specie, la S.C. ha dichiarato inammissibile il ricorso avverso la decisione del giudice del merito che, a fronte di una consulenza tecnica volta ad accertare se, nell’ambito di un rapporto di conto corrente bancario, gli interessi sugli importi risultanti a debito del cliente fossero stati calcolati ad un tasso convenzionalmente determinato dalle parti, aveva ritenuto che il c.t.u. non potesse acquisire direttamente i contratti bancari, non ritualmente prodotti dalle parti.

In particolare la consulenza tecnica d’ufficio costituisce un mezzo di ausilio per il giudice, volto alla più approfondita conoscenza dei fatti già provati dalle parti, la cui interpretazione richiede nozioni tecnico-scientifiche, e non un mezzo di soccorso volto a sopperire all’inerzia delle parti; essa, tuttavia può eccezionalmente costituire fonte oggettiva di prova, per accertare quei fatti rilevabili unicamente con l’ausilio di un perito. A titolo esemplificativo, ciò avviene in materia di accertamenti relativi alla paternità e alla maternità, costituendo la c.t.u., in siffatta evenienza, lo strumento più idoneo, avente margini di sicurezza elevatissimi, per l’accertamento del rapporto di filiazione; essa, pertanto, in tal caso, non è un mezzo per valutare elementi di prova offerti dalle parti, ma costituisce strumento per l’acquisizione della conoscenza del rapporto di filiazione (Sez. 1, n. 05491/2018, Valitutti, non massimata).

Il rifiuto di nominare un consulente tecnico costituisce una facoltà discrezionale del giudice di merito, e può costituire vizio del procedimento (e della sentenza) nel solo caso in cui la consulenza costituisca l’unico mezzo a disposizione della parte per dimostrare i fatti costitutivi della pretesa. In applicazione di tale principio, Sez. 3, n. 11742/2018, Rossetti, non massimata sotto questo profilo, ha ritenuto che correttamente il giudice a quo non avesse dato ingresso alla richiesta consulenza, atteso che, in tema di prelazione agraria, la dimostrazione della forza lavoro posseduta dal prelazionario non è una circostanza impossibile a dimostrarsi, se non con il ricorso a una consulenza tecnica d’ufficio.

Tendenzialmente, in presenza di irregolarità della c.t.u. (si pensi alla omessa comunicazione alle parti dell’inizio o della ripresa delle operazioni peritali), si è al cospetto di nullità relative, con la conseguenza che le stesse devono essere eccepite, a pena di decadenza, nella prima udienza (ivi compresa quella di mero rinvio), istanza o difesa successiva al deposito della relazione, del quale, ai sensi del comma 2 dell’art. 157 c.p.c., sia data comunicazione nelle forme di legge al difensore della parte interessata (così si è espressa Sez. L, n. 08347/2010, De Renzis, Rv. 612740-01). In particolare, la nullità della consulenza tecnica d’ufficio – ivi compresa quella dovuta all’eventuale ampliamento dell’indagine tecnica oltre i limiti delineati dal giudice o consentiti dai poteri che la legge conferisce al consulente – è soggetta al regime di cui all’art. 157 c.p.c., avendo carattere di nullità relativa, e deve, pertanto, essere fatta valere nella prima istanza o difesa successiva al deposito della relazione, restando altrimenti sanata. In quest’anno il principio è stato nuovamente affermato da Sez. 3, n. 15747/2018, Fiecconi, Rv. 649414-01.

Per Sez. 6-2, n. 04257/2018, Scarpa, Rv. 647982-01, non costituisce, tuttavia, motivo di nullità della consulenza il fatto che l’ausiliario abbia attinto elementi di giudizio anche dalle cognizioni e dalle percezioni di un proprio collaboratore, nel rispetto del contraddittorio e sotto il controllo delle parti tempestivamente avvertite e poste in grado di muovere le loro osservazioni, ferma restando la necessità che l’operato del collaboratore non sostituisca integralmente quello del consulente, ma questi elabori il proprio documento peritale in modo da farvi contenere anche autonome considerazioni.

L’eccezione di nullità, pur non richiedendo formule particolari, deve essere chiara ed esplicita, sì da consentire al giudice di desumere l’effettivo pregiudizio derivatone al diritto di difesa della parte, e non può essere proposta in modo del tutto generico. Tale principio è stato ribadito da Sez. 1, n. 05491/2018, Valitutti, cit., in una fattispecie in cui nel verbale dell’udienza immediatamente successiva al deposito della relazione peritale la difesa della parte ricorrente si era limitata a contestare genericamente il modus operandi degli accertamenti tenuto dal c.t.u. ed i risultati, senza eccepire in alcun modo la nullità della consulenza sotto il profilo indicato, per cui l’eccezione proposta solo in appello doveva considerarsi tardiva.

Tutte le altre irritualità nell’espletamento della consulenza (si pensi alla partecipazione ad un sopralluogo, senza autorizzazione giudiziale, in luogo del c.t.u., di un suo collaboratore o di un c.t.p. diverso da quello ritualmente nominato) ne determinano una nullità solo nel caso in cui procurino in concreto (e, quindi, sulla base di specifiche doglianze) una lesione del diritto di difesa.

Peraltro, Sez. 3, n. 20829/2018, Scarano, Rv. 650420-01, ha avuto il merito di chiarire che i rilievi delle parti alla consulenza tecnica di ufficio, ove non integrino eccezioni di nullità relative al suo procedimento, come tali disciplinate dagli artt. 156 e 157 c.p.c., costituiscono argomentazioni difensive, sebbene non di carattere tecnico giuridico, che possono essere svolte nella comparsa conclusionale, sempre che non introducano in giudizio nuovi fatti costitutivi, modificativi od estintivi, nuove domande o eccezioni o nuove prove, e purché il breve termine a disposizione per la memoria di replica, comparato con il tema delle osservazioni, non si traduca, con valutazione da effettuarsi caso per caso, in un’effettiva lesione del contraddittorio e del diritto di difesa, spettando al giudice sindacare la lealtà e correttezza di una siffatta condotta della parte alla stregua della serietà dei motivi che l’abbiano determinata. In applicazione del principio, la S.C. ha ritenuto esente da critiche la sentenza impugnata che aveva considerato le doglianze mosse alla CTU, per la prima volta in sede di comparsa conclusionale, “altre e diverse” da quelle già costituenti oggetto di giudizio, e pertanto nuove, con conseguente decadenza della parte dalla facoltà di prospettarle.

In tema di consulenza tecnica d’ufficio, poiché lo svolgimento delle relative operazioni inerisce ad attività processuale, il giudice non può fissare i termini di cui all’art. 195, comma 3, c.p.c. in modo che ricadano durante il periodo di sospensione feriale, se il processo è soggetto alla detta sospensione e salva rinuncia delle parti ad avvalersi di essa, non potendo operare, peraltro, la proroga automatica degli stessi termini, in modo da rispettare la sospensione, in quanto non prevista l’integrazione di un atto compiuto dal giudice e con il quale abbia disconosciuto l’efficacia della sospensione feriale. Peraltro, anche in siffatta evenienza Sez. 3, n. 18522/2018, Olivieri, Rv. 649735-01, ha affermato che l’atto adottato in violazione della sospensione è affetto da nullità soltanto nel caso in cui l’erronea applicazione della regola processuale abbia comportato, per la parte, una lesione del diritto di difesa con riflessi sulla decisione di merito, che, nel caso di atto adottato in udienza, a pena di decadenza e conseguente sanatoria, deve essere eccepita in udienza dalla parte presente o che avrebbe dovuto esservi, atteso che quella sede rappresenta, ex art. 157, comma 2, c.p.c., la prima difesa possibile.

Rappresenta ormai un principio consolidato, ribadito da Sez. 3, n. 02061/2018, Guizzi, non massimata, quello per cui, allorché ad una consulenza tecnica d’ufficio siano mosse critiche puntuali e dettagliate da un consulente di parte, il giudice che intenda disattenderle ha l’obbligo di indicare nella motivazione della sentenza le ragioni di tale scelta, senza che possa limitarsi a richiamare acriticamente le conclusioni del proprio consulente, ove questi, a sua volta, non si sia fatto carico di esaminare e confutare i rilievi di parte.

  • giurisdizione civile

CAPITOLO XI

IL PROCESSO DI PRIMO GRADO

(di Andrea Penta )

Sommario

1 La nullità dell’atto di citazione ed i meccanismi di sanatoria. - 2 Il difetto di rappresentanza o di autorizzazione. - 3 La mutatio e la emendatio libelli. - 3.1 Contoversie anteriori alla novella di cui alla l.n.353 del 1990 - 4 La concessione dei termini di cui all’art. 183, comma 6, c.p.c. - 5 Il regime giuridico delle ordinanze istruttorie. - 6 Le preclusioni istruttorie. - 7 La rimessione in termini. - 8 Gli interventi volontari. - 9 La natura dei provvedimenti del giudice istruttore. - 10 La fase decisoria. - 11 La deliberazione. - 12 La condanna generica. - 12.1 Sentenze non definitive. - 13 La decisione a seguito di trattazione orale. - 14 L’ultrattività del mandato alle liti. - 15 La correzione dei provvedimenti giudiziali. - 16 La tutela del contumace. - 17 La sospensione del processo. - 18 L’interruzione del processo. - 19 L’estinzione del processo.

1. La nullità dell’atto di citazione ed i meccanismi di sanatoria.

In termini generali, chi agisce in giudizio non può proporre la sua domanda in modo generico, ma deve consentire che il suo contenuto sia compiutamente identificato e percepito, affinché possa essere oggetto di accertamento, sia in fatto, che in diritto, e la controparte possa esercitare pienamente il proprio diritto di difesa. Ne deriva, come chiarito da Sez. 6-3, n. 06618/2018, Graziosi, Rv. 648477-01, che, ove l’azione esercitata concerna l’inadempimento contrattuale, l’attore è onerato di allegare non solo l’inadempimento in quanto tale, ma anche le specifiche circostanze che lo integrano, in caso contrario incorrendo nella violazione dell’onere di allegazione.

Per quanto riguarda l’allegazione in giudizio di nuovi fatti costitutivi del diritto fatto valere, è nota la distinzione fra diritti cd. autoindividuati e diritti cd. eteroindividuati. Per i diritti autoindividuati è pacifica la possibilità di allegare in giudizio altre fattispecie acquisitive, oltre a quella (eventualmente) già indicata in citazione (si pensi all’acquisto a titolo originario per usucapione, dopo che l’esistenza del diritto di proprietà era stata fondata su di un titolo contrattuale o su una successione ereditaria, e viceversa). La deduzione in giudizio della fattispecie acquisitiva di un diritto autoindividuato non necessariamente deve essere contenuta nella citazione (in quanto non fa parte dell’editio actionis), e può essere operata per la prima volta anche in sede di trattazione. Infatti, le preclusioni relative alla citazione riguardano solo l’individuazione dell’oggetto del processo: e la fattispecie acquisitiva non serve, nei diritti autoindividuati, ad individuare tale oggetto.

Per i diritti eteroindividuati, invece, l’allegazione in giudizio di nuovi fatti è consentita, purché ciò non porti alla modificazione del diritto dedotto in giudizio: purché, in altri termini, il fatto nuovo allegato non identifichi una diversa situazione sostanziale. La domanda introduttiva di un giudizio relativo ad un diritto cd. eterodeterminato (si pensi al diritto al risarcimento del danno da responsabilità medica) richiede – ai fini dell’individuazione dei fatti e degli elementi di diritto costituenti ragione della domanda ai sensi dell’art. 163, comma 3, n. 4, c.p.c. – l’espressa indicazione di quelli, tra i fatti storici oggetto della pregressa narrazione, sui quali è fondata la causa petendi, non essendo sufficiente la mera attività narrativa senza alcuna esplicitazione in merito all’essere quei fatti “ragione della domanda”. In questi termini si è espressa Sez. 3, n. 10577/2018, Frasca, Rv. 648595-01. Nel senso, peraltro, che anche in tema di diritti cd. eterodeterminati è ammessa la modifica in corso di causa della domanda originaria, mediante l’allegazione di un diverso fatto costitutivo, che ne comporti la sostituzione con una nuova domanda ad essa alternativa, purché abbia ad oggetto il medesimo bene della vita e siano rispettate le preclusioni processuali previste dall’art. 183 c.p.c., cfr., di recente, Sez. 3, n. 18956/2017, Scoditti, Rv. 645380 (sulla problematica v., peraltro, infra, § 3).

Avuto riguardo al profilo della editio actionis, Sez. 6-1, n. 09610/2018, Ferro, Rv. 648278-01, ha reputato non affetta da nullità per indeterminatezza dell’oggetto o della causa petendi, ai sensi del combinato disposto degli artt. 163, comma 3, nn. 3 e 4, e 164, comma 4, c.p.c. la citazione contenente la domanda di revocatoria fallimentare di pagamenti costituiti da rimesse in conto corrente bancario, benché priva dell’indicazione dei singoli versamenti solutori, qualora siano specificamente indicati i conti correnti e la domanda si riferisca a tutte le rimesse operate su quei conti in un determinato periodo di tempo (con indicazione anche dell’importo globale delle stesse), essendo, in siffatta evenienza, sufficientemente specificati gli elementi idonei a consentire alla banca l’individuazione delle domande contro di essa proposte.

Quanto al regime giuridico di tale nullità, come è noto, per effetto della disciplina di cui all’art. 164, comma 2, c.p.c. (applicabile anche in appello ai sensi dell’art. 359 c.p.c.) i vizi relativi alla vocatio in ius possono essere sanati con effetto ex tunc e quelli relativi alla editio actionis con effetto ex nunc (Sez. 6-L, n. 23667/2018, Esposito L., Rv. 650579-01).

Sez. 3, n. 06673/2018, Scarano, Rv. 648296-01, ha ribadito che i vizi riguardanti la editio actionis sono rilevabili d’ufficio dal giudice e non sono sanati dalla costituzione in giudizio del convenuto, essendo questa inidonea a colmare le lacune della citazione stessa, che compromettono lo scopo di consentire non solo al convenuto di difendersi, ma anche al giudice di emettere una pronuncia di merito, sulla quale dovrà formarsi il giudicato sostanziale; ne consegue che non può farsi applicazione degli artt. 156, comma 3, e 157 c.p.c., essendo la nullità in questione prevista in funzione di interessi che trascendono quelli del convenuto.

Sez. 3, n. 09798/2018, D’Arrigo, Rv. 648468-01, partendo dal presupposto per cui il difetto della determinazione della cosa oggetto della domanda e dell’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto che ne costituiscono la ragione determina la nullità della domanda, sanabile ex art. 164, comma 5, c.p.c., ha precisato che, qualora, però, il giudice non assegni d’ufficio un termine per integrare la domanda riconvenzionale incompleta e tale termine non sia richiesto dal convenuto, la nullità può essere dedotta come motivo d’appello.

Peraltro, Sez. 2, n. 01881/2018, Sabato, Rv. 647087-01, ha altresì affermato che, in mancanza di deduzione in appello di tale error in procedendo del giudice di primo grado – concernente la violazione dell’art. 164 c.p.c. -, il relativo vizio non è rilevabile in sede di legittimità, essendo intervenuto sulla questione il giudicato interno.

Con riferimento ai vizi della vocatio in ius, Sez. 3, n. 13079/2018, Scoditti, Rv. 648711-01, ha avuto modo di ribadire che la mancanza nella citazione di tutti i requisiti indicati dall’art. 164, comma 1, c.p.c. e, quindi, di tutti gli elementi integranti la vocatio in jus, non vale a sottrarla (anche se trattasi di citazione in appello) all’operatività dei meccanismi di sanatoria ex tunc previsti dal secondo e terzo comma della medesima disposizione. Ne consegue che, quando la causa, una volta iscritta al ruolo, venga chiamata all’udienza di comparizione (che, per la mancata indicazione dell’udienza, dev’essere individuata ai sensi dell’art. 168-bis, comma 4, c.p.c.), il giudice, ove il convenuto non si costituisca, deve ordinare la rinnovazione della citazione, ai sensi e con gli effetti dell’art. 164, comma 1, c.p.c., mentre, se si sia costituito, deve applicare l’art. 164, comma 3, c.p.c., salva la richiesta di concessione di termine per l’inosservanza del termine di comparizione.

Come ha chiarito Sez. 3, n. 29839/2018, D’Arrigo, Rv. 651664-01, in caso di inosservanza dei termini minimi a comparire di cui all’art. 163-bis c.p.c., la fissazione della nuova udienza, ai sensi dell’art. 164, comma 3, c.p.c., deve essere disposta dal giudice facendo riferimento, quale dies a quo del nuovo termine, alla data della notificazione dell’atto di citazione, che segna il momento a partire dal quale il convenuto, acquisita la conoscenza legale dell’atto, ha diritto al termine per approntare una congrua difesa, dovendosi invece escludere – perché non trova riscontro nella legge e perché in contrasto con il principio della ragionevole durata del processo – la necessità che il giudice provveda all’assegnazione, ex novo, dell’intero termine di comparizione, senza tener conto del tempo già trascorso. Almeno in parte difforme è la posizione di Sez. 6-2, n. 02853/2018, Scalisi, Rv. 647978-01, secondo cui, ai fini del calcolo dei termini minimi a comparire di cui all’art. 163-bis c.p.c., occorre fare riferimento al giorno dell’udienza indicata nella medesima citazione, fermo restando che, in caso di inosservanza dei predetti termini, la nullità di tale citazione non è sanata quando essi risultino rispettati per effetto dell’avvenuto differimento della summenzionata udienza a norma dell’art. 168-bis, commi 4 e 5, c.p.c.

2. Il difetto di rappresentanza o di autorizzazione.

La previsione secondo cui il giudice che rilevi un difetto di rappresentanza, assistenza o autorizzazione “può” assegnare un termine per la regolarizzazione della costituzione in giudizio, dev’essere interpretata, anche alla luce della modifica apportata dall’art. 46, comma 2, della l. 18 giugno 2009, n. 69, nel senso che il giudice “deve” promuovere la sanatoria, in qualsiasi fase e grado del giudizio e indipendentemente dalla causa del predetto difetto (così Sez. 6-2, n. 15933/2018, Criscuolo M., non massimata).

Peraltro, Sez. 2, n. 24212/2018, Sabato, Rv. 650641-01, ha avuto modo di chiarire (richiamando Sez. U, n. 04248/2016, D’Ascola, Rv. 638746-01) che, mentre ai sensi dell’art. 182 c.p.c. il giudice che rileva d’ufficio un difetto di rappresentanza deve promuovere la sanatoria, assegnando alla parte un termine di carattere perentorio, senza il limite delle preclusioni derivanti da decadenze di carattere processuale, nel diverso caso in cui l’eccezione di difetto di rappresentanza sia stata tempestivamente proposta da una parte, l’opportuna documentazione va prodotta immediatamente, non essendovi necessità di assegnare un termine, che non sia motivatamente richiesto o comunque assegnato dal giudice, giacché sul rilievo di parte l’avversario è chiamato a contraddire. In applicazione dell’enunciato principio, la S.C. ha ritenuto che si fosse al cospetto di una nullità insanabile in un caso in cui era stato il convenuto a sollevare la questione di nullità della procura, non sanata spontaneamente dall’attore nella successiva evoluzione processuale, essendosi egli limitato a discutere di alcuni profili giuridici.

Sulla delicata questione della possibilità di regolarizzare ex post la mancanza assoluta della procura ad litem, sussiste allo stato un contrasto all’interno della giurisprudenza della Corte.

Invero, mentre per Sez. 5, n. 19399/2018, Dell’Orfano, Rv. 649721-01, nel processo tributario (come in quello civile), la mancanza originaria della procura alle liti conferita al difensore non potrebbe essere sanata ai sensi dell’art. 182 c.p.c., trattandosi di requisito preliminare di ammissibilità dell’instaurazione del giudizio, in assenza del quale l’attività svolta dal legale non produce alcun effetto nei confronti della parte, secondo Sez. 2, n. 10885/2018, Giannaccari, Rv. 648173-01, l’art. 182, comma 2, c.p.c. nella formulazione introdotta dall’art. 46, comma 2, della l. n. 69 del 2009 (in base al quale il giudice che accerti un difetto di rappresentanza, assistenza o autorizzazione è tenuto a promuovere la sanatoria, assegnando un termine alla parte che non vi abbia provveduto di sua iniziativa, con effetti ex tunc, senza il limite delle preclusioni derivanti dalle decadenze processuali), troverebbe applicazione anche qualora la procura mancasse del tutto, restando irrilevante la distinzione tra nullità e inesistenza della stessa.

L’ambito applicativo dell’istituto si è, comunque, di molto ampliato.

Invero, per Sez. L, n. 06041/2018, Cavallaro, Rv. 647527-01, l’art. 182, comma 2, c.p.c., come modificato dall’art. 46, comma 2, della l. n. 69 del 2009, si applica anche al giudizio d’appello. Il principio è stato enunciato in una fattispecie in cui la sentenza impugnata aveva erroneamente dichiarato inammissibile l’impugnazione proposta da una società dopo la messa in liquidazione, in forza della procura rilasciata in primo grado, senza concedere termine per la costituzione a mezzo del liquidatore quale nuovo rappresentante.

Sulla questione si registra, tuttavia, un contrasto nell’attuale giurisprudenza di legittimità, in quanto Sez. 2, n. 10885/2018, Giannaccari, Rv. 648173-01, ha invece affermato il principio per il quale l’art. 182, comma 2, c.p.c. nella formulazione introdotta dall’art. 46, comma 2, l. n. 69 del 2009, trova applicazione anche qualora la procura manchi del tutto, dovendo ritenersi irrilevante la distinzione tra nullità e inesistenza della stessa.

Per altro verso occorre considerare Sez. 1, n. 05259/2018, Di Virgilio, Rv. 647638-01, per la quale anche nel procedimento prefallimentare è applicabile l’art. 182, comma 2, c.p.c., trattandosi di norma non eccezionale e suscettibile, pertanto, di interpretazione estensiva ed applicazione analogica.

Alla base di questa apertura della giurisprudenza di legittimità vi è il diritto di accesso al giudice, sancito dall’art. 6, par. 1, della CEDU, che può essere limitato soltanto nella misura in cui sia necessario per perseguire uno scopo legittimo (Sez. U, n. 26338/2017, D’Ascola, Rv. 645818-01).

3. La mutatio e la emendatio libelli.

In termini generali, il divieto di proporre domande nuove nel corso del processo deve ritenersi violato solo se la parte fa valere una pretesa obiettivamente diversa da quella originaria, attraverso l’immutazione dell’oggetto della domanda o dei fatti posti a fondamento di essa, e non anche quando essa precisi una domanda implicitamente compresa in quella originaria, come presupposto indispensabile o come logica conseguenza immediata e diretta del suo accoglimento, o formuli un’istanza resa necessaria da una nuova e imprevedibile eccezione della controparte (in questi termini Sez. 2, n. 02093/2018, Abete, non massimata).

Sez. U, n. 12310/2015, Di Iasi, Rv. 635536-01, ha chiarito che la modificazione della domanda ammessa ex art. 183 c.p.c. può riguardare anche uno o entrambi gli elementi oggettivi della stessa (petitum e causa petendi), sempre che la domanda così modificata risulti comunque connessa alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio e senza che, perciò solo, si determini la compromissione delle potenzialità difensive della controparte, ovvero l’allungamento dei tempi processuali. Ne consegue l’ammissibilità della modifica, nella memoria ex art. 183 c.p.c., dell’originaria domanda formulata ex art. 2932 c.c. con quella di accertamento dell’avvenuto effetto traslativo. Nel solco di questa impostazione si è inserita Sez. 6- 1, n. 13091/2018, Falabella, Rv. 649542-01, la quale ha ritenuto ammissibile la modificazione dell’originaria domanda risarcitoria, formulata da un investitore nei confronti dell’intermediario finanziario, in quella di risoluzione per inadempimento, tenuto conto che entrambe le richieste riguardavano la stessa operazione di compravendita titoli ed erano fondate sull’allegazione dei medesimi comportamenti inadempienti dell’intermediario. Poco prima, sempre in tema di intermediazione finanziaria, Sez. 1, n. 03254/2018, Genovese, Rv. 646882-01, aveva affermato che la parte che abbia modificato in sede di memoria, ai sensi dell’art. 6 del d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, la propria domanda di nullità del contratto di acquisto degli strumenti finanziari, in quella di risarcimento del danno da inadempimento contrattuale, in conseguenza delle difese proposte dal convenuto, di ogni genere e tipo, non incorre in una inammissibile mutatio libelli, ove la domanda così modificata riguardi la medesima vicenda sostanziale dedotta in lite o sia ad essa collegata, perché, in tal modo non si determina né la compromissione delle potenzialità difensive della controparte, né il sostanziale allungamento dei tempi processuali di definizione della lite. Ugualmente, partendo dalla premessa per cui la modificazione della domanda ex art. 183 c.p.c. è consentita purché rimangano immutate le parti del giudizio nonché la vicenda sostanziale oggetto dello stesso, Sez. 3, n. 22540/2018, Guizzi, Rv. 650853-01, ha escluso, in un giudizio per risarcimento danni da sinistro stradale proposto contro il proprietario del veicolo ed il relativo assicuratore, che fosse “nuova” la domanda con la quale il terzo trasportato aveva fatto valere la responsabilità solidale ex art. 2054, comma 1, c.c., rispetto all’originaria domanda, dallo stesso trasportato proposta nei confronti delle medesime parti, tesa a far valere una responsabilità fondata sul contratto di trasporto.

L’introduzione di una domanda in aggiunta a quella originaria costituisce domanda “nuova”, come tale implicitamente vietata dall’art. 183 c.p.c., atteso che il confine tra quest’ultima e la domanda “modificata” – che, invece, è espressamente ammessa nei limiti dell’udienza e delle memorie previste dalla norma citata – va identificato nell’unitarietà della domanda, nel senso che deve trattarsi della stessa domanda iniziale modificata, eventualmente anche in alcuni elementi fondamentali, o di una domanda diversa che, comunque, non si aggiunga alla prima, ma la sostituisca, ponendosi, pertanto, rispetto a quella, in un rapporto di alternatività. In questi termini si è espressa Sez. 3, n. 16807/2018, Graziosi, Rv. 649420-01, applicando sul piano pratico le direttive prospettate dalle Sezioni Unite. E così, secondo Sez. 2, n. 00882/2018, Giusti, Rv. 646669-02, nell’ipotesi di versamento di una somma di denaro a titolo di caparra confirmatoria, la parte non inadempiente, che abbia agito per l’esecuzione del contratto, può, in sostituzione della originaria pretesa, legittimamente chiedere, nel corso del giudizio, il recesso dal contratto a norma dell’art. 1385, comma 2, c.c. senza incorrere nelle preclusioni derivanti dalla proposizione dei nova, poiché tale modificazione dell’originaria istanza costituisce legittimo esercizio di un perdurante diritto di recesso rispetto alla domanda di adempimento. Come è noto, Sez. U, n. 00553/2009, Travaglino, Rv. 606608-01, ha, invece, escluso che si possa passare, nel corso del medesimo giudizio, da una originaria domanda di risoluzione del contratto per inadempimento ad una domanda volta ad ottenere la declaratoria dell’intervenuto recesso con ritenzione della caparra.

Con lo scopo di delineare i confini del divieto, Sez. 3, n. 23167/2018, Di Florio, Rv. 650600-01, ha precisato che la questione relativa alla novità, o meno, di una domanda giudiziale è correlata all’individuazione del bene della vita in relazione al quale la tutela è richiesta, per cui non può esservi mutamento della domanda ove si sia in presenza di un ipotetico concorso di norme, anche solo convenzionali, a presidio dell’unico diritto azionato, presupponendo il cambiamento della domanda la mutazione del corrispondente diritto, non già della sua qualificazione giuridica. Ne consegue che, se l’attore invoca, a sostegno della propria pretesa, un presidio normativo ulteriore rispetto a quello originariamente richiamato, fermi i fatti che ne costituiscono il fondamento, ciò non determina alcuna mutatio libelli, restando invariato il diritto soggettivo del quale è richiesta la tutela (conf. Sez. 1, n. 09333/2016, Terrusi, Rv. 639621-01). Nella stessa prospettiva, Sez. 2, n. 14815/2018, Cavallari, Rv. 648850-02, per la quale la mera indicazione di ulteriori vizi della cosa appaltata rispetto a quelli indicati in citazione non integra una modifica inammissibile del petitum o della causa petendi, ove dedotta nel termine dell’articolo 183, comma 6, c.p.c., permanendo un chiaro e stabile collegamento con la questione concreta oggetto del contendere.

L’obiettivo di tradurre in concreto il dictum delle Sezioni Unite è stato perseguito altresì da Sez. 6-2, n. 11282/2018, Orilia, Rv. 649212-01, la quale, traendo le mosse dalla possibilità di mutare, ex art. 183 c.p.c., anche gli elementi costitutivi della domanda, ma solo ove ricorrano le condizioni indicate dalla richiamata, fondamentale sentenza delle Sezioni Unite n. 12310 del 2015 e non siano avanzate, quindi, delle pretese aggiuntive, ha escluso (sia pure con riferimento ad un giudizio cui si applicava l’art. 183 c.p.c., nel testo previgente alla riforma della l. 14 maggio 2005, n. 80) che l’attore, proposte delle domande di accertamento della proprietà di un fondo, di incorporazione delle costruzioni ex art. 934 c.c. e di pagamento di somme in data successiva al passaggio in giudicato di una sentenza che aveva accertato l’esistenza su tale fondo di un’enfiteusi in favore di terzi, possa chiedere, nella prima udienza di trattazione, la devoluzione del fondo enfiteutico.

Di grande impatto è inoltre Sez. U, n. 22404/2018, Scrima, Rv. 650451-01, secondo cui, nel processo introdotto mediante domanda di adempimento contrattuale, è ammissibile la domanda di indennizzo per ingiustificato arricchimento formulata, in via subordinata, con la prima memoria ai sensi dell’art. 183, comma 6, c.p.c., qualora si riferisca alla medesima vicenda sostanziale dedotta in giudizio, trattandosi di domanda comunque connessa per incompatibilità a quella originariamente proposta. Poco prima Sez. 2, n. 17482/2018, Casadonte, Rv. 649452-01, aveva enunciato un principio di segno contrario, sostenendo che la domanda di adempimento contrattuale e quella di arricchimento senza causa si differenziano strutturalmente e tipologicamente, integrando la seconda, rispetto alla prima originariamente formulata, una domanda nuova, con la conseguenza che nel procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo al creditore opposto, che riveste la posizione sostanziale di attore, è consentito avanzare con la comparsa di costituzione e risposta domanda di arricchimento senza causa soltanto qualora l’opponente abbia introdotto nel giudizio, con l’atto di citazione, un ulteriore tema di indagine che possa giustificare tale esigenza. È vero, però, che nell’ordinario giudizio di cognizione, che si instaura a seguito dell’opposizione a decreto ingiuntivo, l’opposto, rivestendo la posizione sostanziale di attore, non può avanzare domande diverse da quelle fatte valere con il ricorso monitorio (per un approfondimento si rinvia al cap. XXII), salvo il caso in cui, per effetto di una riconvenzionale formulata dall’opponente, egli si venga a trovare a sua volta in una posizione processuale di convenuto, cui non può essere negato il diritto di difesa, rispetto alla nuova o più ampia pretesa della controparte, mediante la proposizione (eventuale) di una reconventio reconventionis (Sez. 1, n. 16564/2018, Nazzicone, Rv. 649670-01).

Sez. 6-3, n. 25631/2018, Rossetti, Rv. 651369-01, si segnala, poi, per aver circoscritto, in tema di risarcimento dei danni, la derogabilità del principio generale di immodificabilità della domanda originariamente proposta a tre ipotesi: 1) nel caso di riduzione della domanda (riduzione della somma originariamente richiesta); 2) nel caso di danni incrementali (quando il danno originariamente dedotto in giudizio si sia ulteriormente incrementato nel corso dello stesso, ferma l’identità del fatto generatore); 3) nel caso di fatti sopravvenuti, quando l’attore deduca che, dopo il maturare delle preclusioni, si siano verificati ulteriori danni, anche di natura diversa da quelli descritti con l’atto introduttivo. Seguendo tale percorso argomentativo, la S.C. ha quindi cassato la sentenza di merito che, in un giudizio avente ad oggetto il risarcimento dei danni da inadempimento contrattuale, aveva ritenuto che l’esistenza e l’ammontare del danno andassero valutati con esclusivo riferimento alla data di introduzione del giudizio, non rilevando eventuali pregiudizi sopravvenuti.

Un ulteriore apporto nel delinerare la linea di confine è stato fornito da Sez. 2, n. 32146/2018, Criscuolo, Rv. 651641-01, secondo cui esorbita dai limiti di una consentita emendatio libelli il mutamento della causa petendi che consista in una vera e propria modifica dei fatti costitutivi del diritto fatto valere in giudizio, tale da introdurre nel processo un tema di indagine e di decisione nuovo perché fondato su presupposti diversi da quelli prospettati nell’atto introduttivo del giudizio, così da porre in essere una pretesa diversa da quella precedente.

3.1. Contoversie anteriori alla novella di cui alla l.n.353 del 1990

Nel decidere una controversia sottoposta al regime normativo antecedente alla novella del codice di procedura civile introdotta dalla l. 26 novembre 1990, n. 353, Sez. 2, n. 27644/2018, Oliva, Rv. 651187-01, ha ribadito, ponendosi nel solco già tracciato da Sez. 3, n. 20949/2015, Rossetti, Rv. 637572-01, che, per quanto in precedenza la novità della domanda in primo grado non fosse eccezione riservata alla parte, essendo rilevabile anche su iniziativa del giudice, questo potere officioso, tuttavia, non era illimitato, poiché si esauriva allorquando la parte, che avrebbe potuto avere interesse ad impedire l’ingresso della domanda, avesse dichiarato di accettare il contraddittorio o tenuto un comportamento implicante accettazione; tale comportamento, peraltro, non poteva essere ravvisato nel mero silenzio o nel difetto di reazione, persino prolungato nel tempo, alla domanda nuova, dovendo estrinsecarsi in un atteggiamento difensivo inequivoco concretantesi in una contestazione specifica riferita al merito della pretesa e non semplicemente affidata a formule di stile.

Sez. 2, n. 30699/2018, Cosentino, Rv. 651595-01, richiamando Sez. 2, n. 15185/2001, Rv. 550737-01, in una fattispecie sottoposta alla disciplina anteriore all’entrata in vigore delle modifiche al rito civile recate dalla l. n. 353 del 1990, ha affermato che la domanda proposta all’udienza di precisazione delle conclusioni deve ritenersi ritualmente introdotta in giudizio, per accettazione implicita del contraddittorio, qualora la parte nei cui confronti essa è rivolta non ne abbia eccepito nella stessa udienza la preclusione, non essendo utile allo scopo l’opposizione fatta in comparsa conclusionale.

4. La concessione dei termini di cui all’art. 183, comma 6, c.p.c.

Si tende a sostenere che il giudice potrebbe rifiutare la concessione dei termini in oggetto nel caso in cui ritenesse la causa matura per la decisione, dovendo in particolare decidere questioni pregiudiziali (quali, a titolo esemplificativo, il difetto di giurisdizione, l’incompetenza, l’improcedibilità o la inammissibilità per tardività della domanda). Tuttavia, nella giurisprudenza della Corte di cassazione è stato più volte ribadito che la concessione dei termini istruttori rappresenta un momento non ineliminabile della scansione temporale del processo (Sez. 3, n. 16571/2002, Preden, Rv. 558690-01; Sez. 2, n. 14110/2013, Carrato, Rv. 626456-01).

Qualora le parti (di comune accordo, se entrambe costituite, o la sola parte costituita) richiedano la sola concessione dei termini per modificare e precisare le domande o le eccezioni e per le repliche,e non anche i termini per l’articolazione dei mezzi istruttori, la concessione appare doverosa, in quanto il giudice non può pronunciarsi sulle richieste istruttorie (eventualmente in precedenza formulate) prima che le parti abbiano cristallizzato il thema decidendum (peraltro, il secondo termine di cui all’art. 183, comma 6, c.p.c. comporta una evidente commistione tra deduzioni assertive ed istruttorie).

Nel caso, invece, in cui le parti richiedano solo i termini per le articolazioni istruttorie, anche per prova contraria, ritenendo già adeguatamente sviluppato il thema decidendum, in capo al giudice residua la discrezionalità di non concedere i termini invocati, nell’eventualità in cui ritenesse, in base all’art. 187 c.p.c., la causa matura per la decisione senza bisogno di istruttoria. Ciò di regola avverrà allorquando la controversia abbia natura meramente documentale o implichi la soluzione di questioni di mero diritto.

Se nessuna delle parti richiede i termini (o alcuni di essi), le prove già indicate nei rispettivi atti introduttivi possono essere ammesse direttamente all’udienza di trattazione (così Sez. 1, n. 16993/2004, Piccininni, Rv. 576248-01).

Specularmente, la richiesta (formulata nel corso dell’istruttoria) della parte di fissazione dell’udienza di precisazione delle conclusioni e l’adesione alla stessa ad opera della controparte (seguita dall’effettiva fissazione di tale udienza da parte del giudice) implicano tacitamente la rinuncia alle prove non ancora espletate (in questi termini si sono espresse, dapprima, Sez. 2, n. 12241/2002, Elefante, Rv. 556952-01, e, poi, Sez. 1, n. 10797/2018, Ceniccola, Rv. 648126-01).

Già nella vigenza dell’art. 184 c.p.c. – nel testo modificato dall’art. 18 della l. n. 353 del 1990 – la concessione del relativo termine non era rimessa alla discrezionalità del giudice, ma conseguiva automaticamente alla richiesta proveniente dalla parte, ove funzionale alla corretta estrinsecazione del diritto di difesa; ne conseguiva che il giudice di merito non poteva negare il termine per le istanze e produzioni istruttorie sul rilievo che la causa fosse di natura documentale e, nel contempo, rigettare la domanda per carenza delle prove documentali che la parte avrebbe potuto produrre nel termine ingiustamente negato. Questo principio è stato ribadito di recente da Sez. 2, n. 22376/2018, Bellini, Rv. 650367-01, e poi da Sez. 1, n. 23314/2018, Di Marzio M., Rv. 650758-02, la quale ultima ha ritenuto nulla una sentenza che aveva deciso la domanda nel merito, senza che nel corso del giudizio fosse stata data alla parte la possibilità di formulare le sue richieste istruttorie per l’omessa concessione del termine per la produzione di documenti e l’indicazione di nuovi mezzi di prova, ai sensi dell’art. 184 c.p.c. (nella formulazione introdotta con la l. n. 534 del 1995).

In proposito, Sez. 1, n. 07474/2017, Falabella, Rv. 644828-01, ha avuto modo di chiarire che, in virtù del combinato disposto degli artt. 187, comma 1, c.p.c. e 80-bis disp. att. c.p.c., in sede di udienza fissata per la prima comparizione delle parti e la trattazione della causa ex art. 183 c.p.c., la richiesta della parte di concessione di termine ai sensi del comma 6 di detto articolo non preclude al giudice di esercitare il potere di invitare le parti a precisare le conclusioni ed assegnare la causa in decisione, atteso che ogni diversa interpretazione delle norme suddette, comportando il rischio di richieste puramente strumentali, si porrebbe in contrasto con il principio costituzionale della durata ragionevole del processo, oltre che con il favor legislativo per una decisione immediata della causa desumibile dall’art. 189 c.p.c.

Peraltro, con riferimento all’attuale formulazione dell’art. 183, comma 6, c.p.c., Sez. 1, n. 02626/2018, Genovese, Rv. 646877-01, ha chiarito che i vizi dell’attività del giudice che possono comportare la nullità della sentenza o del procedimento, rilevanti ex art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., non sono posti a tutela di un interesse all’astratta regolarità dell’attività giudiziaria, ma a garanzia dell’eliminazione del pregiudizio concretamente subito dal diritto di difesa in dipendenza del denunciato error in procedendo, sicché, quando venga dedotto il vizio della sentenza di primo grado per avere il tribunale deciso la causa con riferimento ad una questione preliminare di merito senza aver prima assegnato i termini di cui all’art. 183, comma 6, c.p.c., il ricorrente non può limitarsi a dedurre tale violazione, ma, a pena di inammissibilità, deve specificare quale sarebbe stato il fatto rilevante sul quale il giudice di primo grado si sarebbe dovuto pronunciare e quali prove sarebbero state dedotte ove fosse stata consentita la chiesta appendice scritta.

Nell’ipotesi in cui il primo giudice abbia omesso di concedere alla parte il termine per l’articolazione di nuovi mezzi di prova ed il deposito di documenti (articoli 183 e 184 c.p.c.), la parte stessa, nel proporre appello, non può limitarsi a chiedere nuovamente la concessione del suddetto termine, ma, in forza del combinato disposto degli articoli 342 e 163 c.p.c. deve, a pena di decadenza, articolare i nuovi mezzi di prova e depositare i documenti (in questi termini si è espressa Sez. 3, n. 17046/2018, Pellecchia, non massimata). Inoltre, come ribadito da Sez. 2, n. 24402/2018, Carrato, Rv. 650652-01, qualora venga dedotto il vizio della sentenza di primo grado per avere il tribunale deciso la causa nel merito prima ancora che le parti abbiano definito il thema decidendum e il thema probandum, l’appellante che faccia valere tale nullità non può limitarsi a dedurre detta violazione, ma deve specificare quale sarebbe stato il thema decidendum sul quale il giudice di primo grado si sarebbe dovuto pronunciare, ove fosse stata consentita la richiesta appendice di cui all’art. 183 c.p.c., e quali prove sarebbero state dedotte, con l’evidenziazione del concreto pregiudizio derivato dalla loro mancata ammissione.

Dal canto suo, il giudice d’appello, qualora ritenga sussistente il vizio lamentato, deve rimettere in termini la parte, consentendole l’espletamento delle attività deduttive e probatorie non esercitate in primo grado e pronunciare nel merito (non configurandosi una delle ipotesi, tassativamente previste dall’art. 354 c.p.c., di rimessione della causa al primo giudice; cfr. Sez. 1, n. 09169/2008, Petitti, Rv. 602466-01; conf. Sez. 2, n. 24402/2018, Carrato, Rv. 650652-01).

5. Il regime giuridico delle ordinanze istruttorie.

Le ordinanze con cui il giudice istruttore o il collegio decidono in ordine alle richieste di ammissione delle prove e dispongono sull’istruzione della causa sono di norma revocabili, anche implicitamente, e non pregiudicano il merito della decisione della controversia, non essendo pertanto idonee ad acquistare efficacia di giudicato. Per Sez. 3, n. 30161/2018, Scarano, Rv. 651665-02, tali ordinanze non spiegano alcun effetto preclusivo, in quanto qualsiasi questione può essere nuovamente trattata in sede di decisione e diversamente delibata.

In tema di giudizi introdotti in primo grado in epoca anteriore al 30 aprile 1995 e, quindi, non assoggettati al regime introdotto dalla l. n. 353 del 1990, la mancata proposizione del reclamo ex art. 178 c.p.c. avverso l’ordinanza che respinge l’istanza di ammissione di una prova non impedisce, come ribadito da Sez. 2, n. 27415/2018, Scarpa, Rv. 651028-03, il successivo controllo del collegio sull’ordinanza stessa, purché la parte interessata abbia riproposto la questione in sede di precisazione delle conclusioni, restando, in caso contrario, la cennata questione preclusa anche in sede di impugnazione.

6. Le preclusioni istruttorie.

Un importante principio in tema di preclusioni (già affermato da Sezioni Unite: n. 10531 del 2013, Rv. 626194-01) è stato ripreso da Sez. 2, n. 27998/2018, Fortunato, Rv. 651039-01, secondo cui il rilievo d’ufficio delle eccezioni in senso lato non è subordinato alla specifica e tempestiva allegazione della parte (ed è ammissibile anche in appello), dovendosi ritenere sufficiente che i fatti risultino documentati ex actis, poiché il regime delle eccezioni si pone in funzione del valore primario del processo, costituito dalla giustizia della decisione, che resterebbe sviato ove pure le questioni rilevabili d’ufficio fossero soggette ai limiti preclusivi di allegazione e prova previsti per le eccezioni in senso stretto. Questa pronuncia si pone in consapevole contrasto con altro orientamento, per il quale l’eccezione in senso lato (si pensi a quella di interruzione della prescrizione) può essere rilevata d’ufficio dal giudice (in qualsiasi stato e grado del processo) solo sulla base di elementi probatori ritualmente acquisiti agli atti (Sez. U, n. 15661/2005, Roselli, Rv. 583491-01; conf. Sez. 3, n. 18602/2013, Scrima, Rv. 627483-01). L’esercizio di detto potere presupporrebbe, cioè, secondo tale indirizzo, la regolare e tempestiva acquisizione degli elementi probatori e documentali nel momento difensivo successivo a quello in cui è stata sollevata l’eccezione di prescrizione (Sez. L, n. 02035/2006, Vidiri, Rv. 587230-01).

Sembra inserirsi nel solco di questo secondo, più rigoroso, orientamento, Sez. 2, n. 27405/2018, Varrone, Rv. 651025-01, la quale, in relazione all’opzione difensiva del convenuto consistente nel contrapporre alla pretesa dell’attore fatti ai quali la legge attribuisce autonoma idoneità modificativa, impeditiva o estintiva degli effetti del rapporto sul quale la predetta pretesa si fonda, distingue il potere di allegazione da quello di rilevazione. Secondo la S.C., mentre il primo compete esclusivamente alla parte e va esercitato nei tempi e nei modi previsti dal rito in concreto applicabile (pertanto, soggiacendo alle relative preclusioni e decadenze), il secondo spetta alla parte (ed è soggetto, perciò, alle preclusioni stabilite per le attività di parte) solo qualora la manifestazione della sua volontà sia strutturalmente prevista quale elemento integrativo della fattispecie difensiva (come nell’ipotesi di eccezioni corrispondenti alla titolarità di un’azione costitutiva), ovvero quando singole disposizioni espressamente indichino come indispensabile l’iniziativa di parte; in ogni altro caso, si deve ritenere la rilevabilità d’ufficio dei fatti modificativi, impeditivi o estintivi risultanti dal materiale probatorio legittimamente acquisito, senza che, peraltro, ciò comporti un superamento del divieto di scienza privata del giudice o delle preclusioni e decadenze imposte, atteso che il generale potere-dovere di rilievo d’ufficio delle eccezioni facente capo al giudice si traduce semplicemente nell’attribuzione di rilevanza, ai fini della decisione di merito, a determinati fatti, purché la richiesta della parte non sia strutturalmente necessaria o espressamente prevista, essendo, però, in entrambe le situazioni necessario che i predetti fatti modificativi, impeditivi o estintivi risultino legittimamente acquisiti al processo e provati.

Poiché gli artt. 163 e 167 c.p.c., a differenza di quanto previsto dall’art. 420, comma 5, c.p.c. nel rito del lavoro, non comminano alcuna sanzione (recte, non prevedono alcuna decadenza) nel caso di violazione del precetto, non sussiste un obbligo di indicare le prove sin dagli atti introduttivi. A conferma di tale impostazione si pone l’esclusione dell’aggettivo “nuovi”, riferito ai mezzi di prova, contenuto ante riforma nell’art. 184 c.p.c. Pertanto, per poter richiedere la concessione dei termini istruttori, non è necessario aver formulato in precedenza richieste istruttorie (così Sez. 1, n. 18150/2002, Losavio, Rv. 559341-01, in motivazione).

In base all’art. 183, comma 6, n. 2, c.p.c., le parti, con la seconda memoria, devono, a pena di preclusione, porre in essere l’attività istruttoria che non abbiano già compiuto in precedenza. Da ciò consegue che le prove non richieste ed i documenti non prodotti con la predetta memoria non possono essere, rispettivamente, richieste e prodotti successivamente. Le preclusioni istruttorie di cui ai nn. 2 e 3 dell’art. 183, comma 6, c.p.c. riguardano sia le prove costituende che quelle precostituite.

Le parti possono formulare istanze istruttorie nei limiti di quanto tempestivamente dedotto (cioè prima dello spirare delle preclusioni assertive). Da ciò deriva che potrebbe verificarsi l’ipotesi in cui una parte, pur avendo offerto di provare una circostanza entro il termine delle preclusioni istruttorie, non sia ammessa a fornire tale prova, in quanto ha dedotto la relativa circostanza per la prima volta dopo lo spirare delle preclusioni assertive (ad esempio, con il secondo dei termini di cui all’art. 183, comma 6, c.p.c.).

Il termine assegnato dal giudice istruttore ai sensi del primo comma dell’art. 184 c.p.c. (recte, 183, comma 6, n. 2, c.p.c.) riguarda non solo la formulazione dei capitoli, ma anche l’indicazione dei testi; una volta ammessa la prova non è più possibile provvedere a detta indicazione o integrare la lista testi eventualmente indicata tempestivamente e l’unica attività processuale giuridicamente possibile circa le prove ammesse consiste nell’assunzione delle medesime (Sez. 2, n. 10492/2018, Bellini, non massimata).

Per Sez. 3, n. 16800/2018, Di Florio, Rv. 649419-01, le norme che prevedono preclusioni assertive ed istruttorie nel processo civile sono preordinate a tutelare interessi generali e la loro violazione è sempre rilevabile d’ufficio, anche in presenza di acquiescenza della parte legittimata a dolersene; ne consegue che l’attore deve produrre, a pena di inammissibilità, i documenti costituenti prova del fatto costitutivo della domanda entro il secondo termine di cui all’art. 183 c.p.c., fissato per l’indicazione dei mezzi di prova e le produzioni documentali, e ciò indipendentemente dalla tardiva costituzione della controparte oltre il detto termine e dagli argomenti da essa introdotti, atteso che tale circostanza non consente la remissione in termini né l’applicazione del principio di non contestazione (al cui § si rinvia), il quale è richiamato dall’art. 115 c.p.c. con espresso riferimento alle sole parti costituite, restando così esclusa la sua validità rispetto a quelle contumaci.

Sez. 1, n. 12365/2018, Falabella, Rv. 649110-01, nel pronunciarsi su una fattispecie di non frequente verificazione, ha considerato non tardiva la produzione, con la memoria di cui all’art. 183, comma 6, n. 3, c.p.c., della traduzione in italiano di documenti redatti in lingua straniera tempestivamente depositati, atteso che detta traduzione non integra un nuovo mezzo di prova soggetto alle preclusioni istruttorie di cui alla norma citata, in quanto l’attitudine dimostrativa di uno scritto discende dal contenuto che esso esprime, quale che sia l’idioma impiegato nella sua redazione, sicché è con la produzione del documento in lingua straniera che la parte assolve all’onere di comprovare le proprie allegazioni difensive, mentre la traduzione, che può essere disposta dal giudice ai sensi dell’art. 123 c.p.c. senza previsione di termini, è incombente meramente accessorio e facoltativo che si colloca al di fuori dell’area delle attività processuali finalizzate alla definizione del thema decidendum e del thema probandum, soggette a termini perentori.

Importante è la precisazione offerta da Sez. 3, n. 24529/2018, Olivieri, Rv. 651137-02, secondo cui le decadenze processuali verificatesi nel giudizio di primo grado non possono essere aggirate dalla parte che vi sia incorsa mediante l’introduzione di un secondo giudizio identico al primo e a questo riunito, in quanto la riunione di cause identiche non realizza una vera e propria fusione dei procedimenti, tale da determinarne il concorso nella definizione dell’effettivo thema decidendum et probandum, restando anzi intatta l’autonomia di ciascuna causa. Ne deriva che, in tale evenienza, il giudice – in osservanza del principio del ne bis in idem e allo scopo di non favorire l’abuso dello strumento processuale e di non ledere il diritto di difesa della parte in cui favore sono maturate le preclusioni – deve trattare soltanto la causa iniziata per prima, decidendo in base ai fatti tempestivamente allegati e al materiale istruttorio in essa raccolto, salva l’eventualità che, non potendo tale causa condurre ad una pronuncia sul merito, venga meno l’impedimento alla trattazione della causa successivamente instaurata.

7. La rimessione in termini.

Ormai la rimessione in termini è diventata un rimedio restitutorio di carattere generale – non limitato alla fase istruttoria del procedimento ordinario di cognizione -, che si aggiunge agli speciali rimedi già previsti per specifiche situazioni (si pensi, a titolo esemplificativo, all’art. 294 c.p.c. per la rimessione in termini del convenuto contumace, all’art. 208 c.p.c. per la revoca dell’ordinanza di decadenza della prova, all’art. 104 disp. att. c.p.c. per la revoca dell’ordinanza che ha dichiarato la decadenza dall’assunzione della prova testimoniale). Pertanto, trova applicazione, alla luce dei principi costituzionali di tutela delle garanzie difensive e del giusto processo, non solo con riguardo alla decadenza dai poteri processuali interni al giudizio, ma anche a situazioni esterne al suo svolgimento, quale la decadenza dal diritto di impugnazione (Sez. 5, n. 03277/2012, Merone, Rv. 622005-01, in motivazione).

In termini generali, la tardività o si ricollega a circostanze sopravvenute di fatto o di diritto (ius superveniens) o dipende: a) dalla previa ignoranza incolpevole di una situazione già esistente; b) dalla incolpevole impossibilità di rispettare un termine comunque noto; c) dal caso fortuito o dalla forza maggiore.

In particolare, secondo l’orientamento più rigoroso ed allo stato prevalente, il presupposto della rimessione in termini è che la parte dimostri di essere incorsa nelle decadenze previste dagli artt. 183, comma 6, c.p.c. per causa non solo ad essa non imputabile (perché cagionata da un fattore estraneo alla sua volontà), ma anche assoluta, non essendo sufficiente la prova di un’impossibilità relativa, cioè della semplice difficoltà, ovvero dell’impedimento che possa comunque essere superato, anche se con una intensità di sforzo o di diligenza superiore alla norma. Da ciò deriva che, di fatto, la causa non imputabile coincide con il caso fortuito e la forza maggiore, vale a dire con quegli accadimenti imprevedibili ed inevitabili con una diligenza superiore al normale.

Di recente, Sez. 3, n. 17729/2018, D’Ovidio, Rv. 649726-01, ha ribadito che la rimessione in termini, sia nella norma dettata dall’art. 184-bis c.p.c. che in quella di più ampia portata contenuta nell’art. 153, comma 2, c.p.c., come novellato dalla l. n. 69 del 2009, richiede la dimostrazione che la decadenza sia stata determinata da una causa non imputabile alla parte, perché cagionata da un fattore estraneo alla sua volontà. Nella specie, la S.C. ha accolto il ricorso, cassando la sentenza impugnata, poiché la rimessione in termini accordata sulla “ragionevole” possibilità che gli uffici di cancelleria fossero stati trovati chiusi nel sabato antecedente la Pasqua non era risultata provata e la scelta discrezionale di depositare l’atto l’ultimo giorno utile imponeva di informarsi degli orari e di regolarsi di conseguenza.

Sez. 2, n. 08007/2018, Criscuolo, Rv. 647870-01, ha puntualizzato che l’art. 184-bis c.p.c. (applicabile ratione temporis alla fattispecie) consente, qualora la necessità di richiedere un ordine di esibizione ai sensi dell’art. 210 c.p.c. abbia tratto origine dalle novità, imprevedibili ex ante, insorte per effetto dell’andamento dell’attività istruttoria, di chiedere la rimessione in termini alla parte che sia incorsa in una decadenza per causa ad essa non imputabile, purché sussista un nesso di causalità tra gli esiti della prima attività istruttoria e la proposizione della seconda istanza.

Per Sez. 6-2, n. 03782/2018, D’Ascola, Rv. 647980-01, il diritto alla rimessione in termini non può, invece, essere riconosciuto in presenza di una incertezza interpretativa delle norme processuali ad opera della Corte di cassazione, non determinando essa, in assenza di un orientamento consolidato, alcun mutamento imprevedibile della precedente interpretazione e, quindi, alcun affidamento incolpevole della parte. In applicazione di tale principio, la S.C. ha dichiarato tardivo, per violazione del termine di cui all’art. 327, comma 1, c.p.c., l’atto di appello proposto con atto di citazione relativo ad un giudizio di opposizione a ordinanza ingiunzione in assenza, al momento dell’introduzione del giudizio di secondo grado, di una interpretazione consolidata circa l’applicabilità del rito ordinario.

8. Gli interventi volontari.

Occorre sottolineare che Sez. 3, n. 24529/2018, Olivieri, Rv. 651137-01, ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 268, comma 2, c.p.c., in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost., dal momento che la necessità per il terzo, che intervenga in un processo già iniziato, di parteciparvi rebus sic stantibus, senza poter incidere sullo sviluppo delle fasi processuali, non costituisce ostacolo alla tutela effettiva del suo diritto, essendogli consentito di far valere le proprie ragioni, in condizione di piena eguaglianza con le altre parti, mediante la proposizione di un autonomo giudizio o dell’opposizione ex art. 404 c.p.c.

È infatti noto, ed è stato di recente ribadito da Sez. 3, n. 20882/2018, Scrima, Rv. 650431-02, che, in tema di intervento volontario, principale o litisconsortile, la preclusione, per il terzo interveniente, di compiere atti che, al momento dell’intervento, non sono più consentiti ad alcuna parte, contenuta nell’art. 268, comma 2, c.p.c., opera esclusivamente sul piano istruttorio, non anche su quello assertivo, e deve ritenersi riferita sia alle prove costituende che alle prove documentali, valendo per entrambi tali tipi di prova le preclusioni istruttorie per le altre parti.

Nella medesima prospettiva si è posta Sez. 3, n. 04934/2018, Gianniti, Rv. 648248-01, la quale ha affermato che la preclusione sancita dall’art. 268 c.p.c. concerne l’obbligo, per l’interventore volontario che agisca in surrogazione di una delle parti nei confronti del terzo responsabile, di accettare lo stato del processo in relazione alle preclusioni istruttorie già verificatesi per i contendenti originari, ma non si estende alla formulazione della domanda dell’interveniente e alla produzione della documentazione comprovante la surrogazione processuale, che costituisce la ragione stessa della partecipazione al giudizio.

Sez. 2, n. 10382/2018, Lombardo, Rv. 648238-01, ha ritenuto, poi, che il terzo chiamato in causa su istanza di parte non può eccepire l’irritualità della chiamata per mancata osservanza delle prescrizioni stabilite dall’art. 269, comma 2, c.p.c. per carenza di interesse, atteso che il suo interesse a far valere questioni relative al rapporto processuale originario è correlato esclusivamente alla correttezza della decisione in merito o in rito su di esso e non anche alla stessa ritualità della chiamata in giudizio.

Come è noto, qualora il convenuto in un giudizio di risarcimento dei danni chiami in causa un terzo con il quale non sussiste alcun rapporto contrattuale, indicandolo come il vero legittimato passivo, non si versa in un’ipotesi di chiamata in garanzia impropria (o manleva), la quale presuppone la non contestazione della suddetta legittimazione, ma di chiamata del terzo responsabile, con conseguente estensione automatica della domanda al terzo che il giudice può e deve esaminare senza necessità che l’attore ne faccia esplicita richiesta. E così, in una fattispecie, relativa ad un’ipotesi di occupazione appropriativa, in cui l’ente delegato alla realizzazione dell’opera pubblica aveva chiamato in causa il comune, indicandolo come il vero legittimato passivo, Sez. 1, n. 05580/2018, Terrusi, Rv. 647752-01, ha cassato la decisione di merito che aveva considerato nuova la domanda rivolta dall’attore nei confronti del comune solo in appello.

9. La natura dei provvedimenti del giudice istruttore.

Per stabilire se un provvedimento costituisca sentenza o ordinanza, è necessario avere riguardo non alla sua forma esteriore o all’intestazione adottata, bensì al suo contenuto e, conseguentemente, all’effetto giuridico che esso è destinato a produrre, sicché hanno natura di sentenze – soggette agli ordinari mezzi di impugnazione e suscettibili, in mancanza, di passare in giudicato – i provvedimenti che, ai sensi dell’art. 279 c.p.c., contengono una statuizione di natura decisoria (sulla giurisdizione, sulla competenza, ovvero su questioni pregiudiziali del processo o preliminari di merito), anche quando non definiscono il giudizio. Tale consolidato principio è stato ribadito, nell’anno in rassegna, da Sez. 1, n. 03945/2018, Dolmetta, Rv. 647415-01.

Analogamente, Sez. 6-, n. 03150/2018, Esposito L., Rv. 646760-01, ha escluso che l’ordinanza istruttoria, con la quale il giudice detta i provvedimenti relativi alla istruzione della causa, abbia, sia pure implicitamente, e, pur in presenza della relativa eccezione di parte, natura di decisione, affermativa o negativa, sulla competenza, con la conseguenza che avverso lo stesso non è proponibile il regolamento di competenza, mezzo non utilizzabile, in assenza di un provvedimento decisorio impugnabile, al fine di ottenere una pronuncia preventiva su di essa.

Parimenti, le pronunce emesse in materia di integrità del contraddittorio hanno, in ogni caso, contenuto e natura meramente ordinatori e, conseguentemente, non possono costituire sentenza non definitiva suscettibile di separata impugnazione o riserva di appello e, in difetto, di passaggio in giudicato. In applicazione di tale principio, Sez. 2, n. 17898/2018, Cosentino, Rv. 649388-01, ha confermato la decisione della Corte d’appello secondo cui, poiché i convenuti in primo grado, essendo comproprietari degli immobili a vantaggio dei quali esisteva la contestata servitù di acquedotto, erano litisconsorti necessari ex art. 102 c.p.c., la sentenza non definitiva del tribunale che aveva dichiarato il loro difetto di legittimazione passiva non poteva acquisire efficacia di giudicato, nonostante non avesse formato oggetto di riserva di appello.

10. La fase decisoria.

Pronunciandosi su una questione di frequente verificazione, Sez. 6-L, n. 19455/2018, De Marinis, Rv. 649749-01, ha ribadito che la formula “somma maggiore o minore ritenuta dovuta” o altra equivalente, che accompagna le conclusioni con cui una parte chiede la condanna al pagamento di un certo importo, non costituisce una clausola meramente di stile quando vi sia una ragionevole incertezza sull’ammontare del danno effettivamente da liquidarsi, mentre tale principio non si applica se, all’esito dell’istruttoria, sia risultata una somma maggiore di quella originariamente richiesta e la parte si sia limitata a richiamare le conclusioni rassegnate con l’atto introduttivo e la formula ivi riprodotta, perché l’omessa indicazione del maggiore importo accertato evidenzia la natura meramente di stile dell’espressione utilizzata. In applicazione di tale principio, la S.C. ha cassato, per ultrapetizione, la sentenza che, in una controversia avente ad oggetto un rapporto di lavoro domestico, aveva condannato il datore alla corresponsione delle differenze retributive nell’importo risultante dalla disposta CTU, eccedente rispetto alla quantificazione operata col ricorso introduttivo, in rilevata carenza di iniziative della parte di adeguamento della domanda ai più favorevoli esiti della consulenza.

Per altro verso, Sez. 6-1, n. 11222/2018, Terrusi, Rv. 648580-01, ha confermato l’orientamento ormai consolidato secondo cui, nell’ipotesi in cui il procuratore della parte non si presenti all’udienza di precisazione delle conclusioni o, presentandosi, non precisi le conclusioni o le precisi in modo generico, vale la presunzione che la parte abbia voluto tenere ferme le conclusioni precedentemente formulate. In particolare, Sez. U, n. 01785/2018, Frasca, Rv. 647010-01, ha statuito che anche nel vigore dell’attuale art. 189 c.p.c., come modificato dalla l. n. 353 del 1990, affinché una domanda possa ritenersi abbandonata, non è sufficiente che essa non venga riproposta in sede di precisazione delle conclusioni, dovendosi avere riguardo alla condotta processuale complessiva della parte antecedente a tale momento, senza che assuma invece rilevanza il contenuto delle comparse conclusionali. Nella specie, la S.C. ha ritenuto che, sebbene il convenuto si fosse limitato in sede di precisazione delle conclusioni a chiedere il rigetto della domanda principale, senza fare riferimento a quella di garanzia, ciò non ne comportasse l’abbandono, attesa la consapevolezza della parte che il rapporto di garanzia sarebbe venuto in rilievo nell’ipotesi di accoglimento della domanda principale e non essendo peraltro contestato dal terzo il fondamento della domanda di garanzia.

In definitiva, come affermato da Sez. 2, n. 18027/2018, Oliva, Rv. 649590-01, la rinuncia ad una domanda si può configurare soltanto quando la parte, dopo aver formulato determinate conclusioni nel proprio scritto introduttivo, utilizzi la facoltà di precisazione e modificazione delle stesse prevista dall’art. 183, comma 6, c.p.c. ovvero precisi le conclusioni all’udienza ex art. 189 c.p.c., senza riproporre integralmente le conclusioni originarie, in tal modo evidenziando la propria volontà di abbandonare le domande non espressamente riproposte (conf. Sez. 2, n. 17582/2017, Grasso Giu., Rv. 644854). Nell’ipotesi in cui, invece, il procuratore della parte non si presenti all’udienza di precisazione delle conclusioni o, presentandosi, non precisi le conclusioni o le precisi in maniera generica, vale la presunzione (di segno contrario) che la parte medesima abbia voluto tenere ferme le precedenti conclusioni.

Non è revocabile in dubbio che sia nulla la sentenza che pronunci nel merito della causa senza che siano state precisate le conclusioni e assegnati i termini per il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie di replica, essendo in tal modo impedito ai difensori delle parti il pieno svolgimento del diritto di difesa, con conseguente violazione del principio del contraddittorio. Applicando tale principio, Sez. 6-3, n. 20732/2018, D’Arrigo, Rv. 650487-01, ha cassato la sentenza emessa nella fase sommaria del giudizio di opposizione agli atti esecutivi nel quale il giudice, all’esito dell’udienza di comparizione delle parti, anziché confermare o revocare il provvedimento concesso inaudita altera parte e dare poi corso al giudizio di cognizione, aveva deciso nel merito, accogliendo l’opposizione senza che fossero precisate le conclusioni e assegnati termini per il deposito delle scritture conclusionali.

11. La deliberazione.

Nel rinviare, per una più ampia disamina, all’approfodimento tematico dedicato all’ordine di esame delle questioni, è opportuno nella presente sede evidenziare che il giudice di merito che, dopo aver aderito ad una prima ratio decidendi, esamini ed accolga anche una seconda ratio, al fine di sostenere la propria decisione, non si spoglia della potestas iudicandi, atteso che l’art. 276 c.p.c. distingue le questioni pregiudiziali di rito dal merito, ma non stabilisce, all’interno di quest’ultimo, un preciso ordine di esame delle questioni; in tale ipotesi, pertanto, alla stregua di quanto affermato da Sez. 3, n. 15399/2018, Gorgoni, Rv. 649408-01, la sentenza risulta sorretta da due diverse rationes decidendi, distinte ed autonome, ciascuna delle quali giuridicamente e logicamente sufficiente a giustificare la decisione adottata, sicché l’inammissibilità del motivo di ricorso attinente ad una di esse rende irrilevante l’esame dei motivi riferiti all’altra, i quali non risulterebbero in nessun caso idonei a determinare l’annullamento della sentenza impugnata, risultando comunque consolidata l’autonoma motivazione oggetto della censura dichiarata inammissibile.

In applicazione del principio processuale della “ragione più liquida”, desumibile dagli artt. 24 e 111 Cost., Sez. 5, n. 11458/2018, Zoso, Rv. 648510-01, ha ribadito che la causa può essere decisa sulla base della questione ritenuta di più agevole soluzione, anche se logicamente subordinata, senza che sia necessario esaminare previamente le altre, imponendosi, a tutela di esigenze di economia processuale e di celerità del giudizio, un approccio interpretativo che comporti la verifica delle soluzioni sul piano dell’impatto operativo, piuttosto che su quello della coerenza logico-sistematica e sostituisca il profilo dell’evidenza a quello dell’ordine delle questioni da trattare ai sensi dell’art. 276 c.p.c. Il principio della ragione più liquida consente di sostituire il profilo di evidenza a quello dell’ordine delle questioni da trattare di cui all’articolo 276 del c.p.c., in una prospettiva aderente alle esigenze di economia processuale e di celerità del giudizio, costituzionalizzata dall’articolo 111 della Costituzione, con la conseguenza che il ricorso può essere deciso sulla base della questione ritenuta di più agevole soluzione, senza che sia necessario esaminare previamente le altre (cfr. Sez. 1, n. 09370/2018, Iofrida, non massimata).

La figura del cd. assorbimento ricorre, in senso proprio, quando la decisione sulla domanda assorbita diviene superflua, per sopravvenuto difetto di interesse della parte, la quale, con la pronuncia sulla domanda assorbente – rispetto alla quale la questione assorbita si pone in rapporto di esclusione -, ha conseguito la tutela richiesta nel modo più pieno. È, invece, configurabile l’assorbimento in senso improprio quando la decisione cd. assorbente comporta una pronuncia, sulla quale si forma il giudicato, anche sulla questione assorbita, in quanto ad essa legata da un rapporto di implicazione. In quest’ottica, Sez. 6-3, n. 13534/2018, Rossetti, Rv. 648922-01, ha cassato con rinvio la sentenza impugnata che aveva ritenuto erroneamente assorbita la domanda di garanzia proposta dall’appaltatore – convenuto dalla committente per il risarcimento del danno conseguente ai vizi dell’opera – nei confronti del produttore di materiali utilizzati per l’esecuzione della stessa, a seguito di cessazione della materia del contendere per intervenuta transazione in relazione alla domanda risarcitoria.

La composizione del collegio giudicante è immodificabile solo dopo l’inizio della discussione. Prima di tale momento, la sostituzione del giudice relatore può essere liberamente disposta e risultare anche da una semplice annotazione nel verbale di udienza, senza comunicazione, senza che ciò pregiudichi il diritto di difesa, potendo, come chiarito da Sez. 2, n. 07285/2018, Picaroni, Rv. 647866-01, la parte, cui non sia noto il nome dei giudici chiamati a trattare o decidere la causa, proporre istanza di ricusazione prima dell’inizio della trattazione o della decisione, ex art. 52, comma 2, c.p.c.

Peraltro, Sez. 5, n. 15494/2018, Mondini, Rv. 649189-01, ha avuto modo di precisare che il difetto di motivazione dell’ordinanza con la quale viene trasmessa ad un altro collegio una causa già trattenuta in decisione non comporta, ai sensi dell’art. 158 c.p.c., la nullità della sentenza per vizio di costituzione del giudice, ove sia stato rispettato l’art. 276 c.p.c., per essersi nuovamente svolta la discussione della causa dinanzi a detto collegio.

Né può trascurarsi l’importante chiarimento offerto da Sez. 1, n. 06248/2018, Acierno, non massimata, secondo cui, qualora sia dato avviso che, nonostante l’impedimento del giudice designato, l’udienza verrà ugualmente tenuta innanzi ad altro giudice, designato dal Presidente del tribunale, è onere delle parti partecipare all’udienza stessa o di subire le conseguenze processuali della scelta di non comparire.

Di rilevante interesse è Sez. 6-1, n. 09345/2018, Di Marzio M., per la quale l’attività di deposito telematico nel fascicolo informatico delle sentenze redatte in formato elettronico è soltanto avviata dal giudice. È, infatti, sempre indispensabile l’intervento del cancelliere. A seguito della modifica dell’art. 15 del Regolamento di cui al d.m. n. 44 del 2011, effettuata con l’art. 2, comma 1, lett. a) e b), del d.m. n. 209 del 2012, il magistrato che ha redatto la sentenza in formato elettronico, dopo avervi apposto la propria firma digitale, non effettua personalmente il deposito, ma la norma va intesa nel senso che egli trasmette telematicamente in cancelleria il documento – perché il cancelliere (“accettando” il documento) possa provvedere al deposito (dapprima, eventualmente, in minuta) e quindi alla pubblicazione (evento, quest’ultimo, che rende definitivo il testo della sentenza, e ne impedisce la modificazione anche da parte del giudice che ne è stato autore). Quando la sentenza non è contestuale ex art. 281 sexies c.p.c., ma depositata ai sensi dell’art. 281 quinquies c.p.c. e dell’art. 15, comma 1, d.m. n. 44 del 2011, è riservata al cancelliere l’attività di pubblicazione ai sensi dell’art. 133, commi 1 e 2, c.p.c., che comporta anche l’inserimento della sentenza nel registro relativo, con l’attribuzione del numero identificativo.

12. La condanna generica.

Sez. 2, n. 21326/2018, Besso Marcheis, Rv. 650031-01, ha ribadito che, ai fini della condanna generica al risarcimento dei danni ai sensi dell’art. 278 c.p.c., non è sufficiente accertare l’illegittimità della condotta, ma anche, sia pure con modalità sommaria e valutazione probabilistica, la portata dannosa della stessa, senza la quale il diritto al risarcimento, di cui si chiede anticipatamente la tutela, non può essere configurato. Nel caso di condanna generica, infatti, ciò che viene rinviato al separato giudizio è soltanto l’accertamento in concreto del danno nella sua determinazione quantitativa, mentre l’esistenza del fatto illecito e della sua potenzialità dannosa devono essere accertati nel giudizio relativo all’an debeatur e di essi va data la prova sia pure sommaria e generica, in quanto ne costituiscono il presupposto (negli stessi termini si è espressa Sez. 2, n. 06235/2018, Dongiacomo, Rv. 647851-01). Nella medesima direzione Sez. 1, n. 29356/2018, Sambito, non massimata sotto tale profilo, ha affermato che la pronuncia di condanna generica al risarcimento presuppone soltanto l’accertamento di un fatto potenzialmente produttivo del danno, rimanendo l’accertamento della concreta esistenza dello stesso riservato alla successiva fase, con la conseguenza che al giudice della liquidazione è consentito negare la sussistenza del danno, senza che ciò comporti alcuna violazione del giudicato formatosi sull’an.

In caso di condanna generica il danneggiato può, oltre alla domanda di liquidazione del danno accertato, proporne anche una volta all’accertamento ed alla liquidazione di danni ulteriori, riconducibili a fatti diversi da quelli dedotti nel primo giudizio; in tal caso, il passaggio in giudicato della sentenza di condanna generica, mentre preclude che nel giudizio sulla quantificazione possano essere proposte ed esaminate deduzioni di fatti estintivi, modificativi ed impeditivi anteriori alla pronuncia sull’an, non estende i suoi effetti ai danni ricollegabili a fatti diversi da quelli dedotti nel relativo giudizio. Da questa impostazione Sez. 2, n. 10498/2018, Dongiacomo, Rv. 648240-01, ha tratto la conseguenza che, ove nel giudizio di liquidazione vengano richiesti danni non collegabili a fatti rientranti nella prima domanda, il giudice deve preliminarmente accertarne la sussistenza ed eventualmente procedere alla loro quantificazione, senza con ciò incorrere nella violazione del giudicato.

12.1. Sentenze non definitive.

Sez. 1, n. 06251/2018, Falabella, non massimata, ha stabilito, quanto ai rapporti tra sentenza non definitiva e sentenza definitiva, che il giudice resta vincolato dalla prima (anche se non passata in giudicato) sia in ordine alle questioni definite, sia per quelle che ne costituiscano il presupposto logico necessario, senza poter risolvere quelle questioni in senso diverso con la seconda.

13. La decisione a seguito di trattazione orale.

In caso di decisione della causa ai sensi dell’art. 281 sexies c.p.c., la facoltà della parte di richiedere un differimento dell’udienza di discussione, che trova fondamento nella tutela del diritto di difesa, è parimenti soddisfatta, secondo Sez. 6-3, n. 22521/2018, Rv. 650492-01, dalla fissazione officiosa di apposita udienza per la trattazione orale, in esito alla quale la parte non ha diritto ad un ulteriore rinvio, a nulla rilevando la mancata acquisizione, all’udienza precedente, delle conclusioni rassegnate, in quanto l’omissione di tale attività processuale (che si compendia nella mera sintesi delle domande, delle difese e delle eccezioni proposte) può dar luogo ad una nullità processuale solamente qualora la parte interessata deduca la specifica lesione di un interesse sostanziale.

A sua volta, il giudice può concedere alle parti termine per depositare scritti difensivi prima della discussione orale della causa ex art. 281 sexies c.p.c., rientrando tale facoltà nell’ambito dei poteri di direzione del procedimento a lui attribuiti dall’art. 175 c.p.c., al fine di garantire il più sollecito e leale svolgimento del processo. L’eventuale violazione del suddetto termine discrezionalmente assegnato dal giudice, in mancanza di una previsione normativa che stabilisca espressamente una decadenza della parte, può, per Sez. 2, n. 18025/2018, Criscuolo, Rv. 649589-01, eventualmente integrare una violazione del diritto di difesa, destinata a sanarsi se non tempestivamente eccepita nel corso dell’udienza in cui la sentenza ex art. 281 sexies c.p.c. sia stata pronunciata.

La sentenza pronunciata ai sensi dell’art. 281 sexies c.p.c., integralmente letta in udienza e sottoscritta dal giudice con la sottoscrizione del verbale che la contiene, deve ritenersi pubblicata e non può essere dichiarata nulla nel caso in cui il cancelliere non abbia dato atto del deposito in cancelleria e non vi abbia apposto la data e la firma immediatamente dopo l’udienza. Invero, la previsione normativa dell’immediato deposito in cancelleria del provvedimento è finalizzata a consentire, da un lato, al cancelliere il suo inserimento nell’elenco cronologico delle sentenze, con l’attribuzione del relativo numero identificativo, e, dall’altro, alle parti di chiederne il rilascio di copia, eventualmente, in forma esecutiva. In applicazione di questo principio, Sez. 2, n. 22519/2018, Federico, Rv. 650369-01, ha ritenuto valida la sentenza letta e sottoscritta dal giudice in udienza, unitamente al relativo verbale, nonostante il cancelliere avesse omesso di sottoscriverla contestualmente ed avesse provveduto ad apporre il visto a distanza di quindici giorni dall’udienza.

Viceversa, la sentenza pronunciata a norma dell’art. 281 sexies c.p.c. con lettura del dispositivo in udienza ma senza contestuale motivazione, benché viziata, in quanto non conforme al modello previsto dalla norma, conserva la sua natura di atto decisionale, dovendosi escludere la sua conversione in valida sentenza ordinaria per essersi consumato il potere decisorio del giudice al momento della sua pubblicazione. Ne consegue che, come precisato da Sez. 6-3, n. 19908/2018, Scarano, Rv. 650289-01, il termine lungo per l’impugnazione decorre dalla sottoscrizione del verbale di udienza, ex lege equiparato alla pubblicazione della sentenza, restando invece irrilevante, anche ai fini della tempestività dell’impugnazione, la successiva ed irrituale pubblicazione della motivazione, in quanto estranea alla struttura dell’atto processuale ormai compiuto.

Sez. 2, n. 11297/2018, Abete, Rv. 648322-01, ha chiarito che la predisposizione ad opera del giudice, prima dell’udienza di precisazione delle conclusioni e della discussione orale, di una bozza di decisione da rendere ai sensi dell’art. 281-sexies c.p.c., non è, invece, nulla, né lesiva del diritto di difesa delle parti, in quanto attività prodromica alla decisione, destinata ad integrare una ipotesi di soluzione, suscettibile di conferma o di modifica all’esito della discussione delle parti.

14. L’ultrattività del mandato alle liti.

Ponendosi nella scia di Sez. U, n. 15295/2014, Spirito, Rv. 631466-01, Sez. 5, n. 11072/2018, Crucitti, Rv. 648363-01, prima, e Sez. 2, n. 20964/2018, Grasso Giu., Rv. 650025-01, poi, hanno ribadito che la morte o la perdita di capacità della parte costituita a mezzo di procuratore, dallo stesso non dichiarate in udienza o notificate alle altre parti, comportano, giusta la regola dell’ultrattività del mandato alla lite, che: a) la notificazione della sentenza fatta a detto procuratore, ex art. 285 c.p.c., è idonea a far decorrere il termine per l’impugnazione nei confronti della parte deceduta o del rappresentante legale di quella divenuta incapace; b) il medesimo procuratore, qualora originariamente munito di procura alla lite valida per gli ulteriori gradi del processo, è legittimato a proporre impugnazione – ad eccezione del ricorso per cassazione, per cui è richiesta la procura speciale – in rappresentanza della parte che, deceduta o divenuta incapace, va considerata, nell’ambito del processo, tuttora in vita e capace; c) è ammissibile la notificazione dell’impugnazione presso di lui, ai sensi dell’art. 330, comma 1, c.p.c., senza che rilevi la conoscenza aliunde di uno degli eventi previsti dall’art. 299 c.p.c. da parte del notificante. Negli stessi termini si è espressa Sez. 5, n. 30341/2018, Guida, Rv. 651560-01, affermando, nel solco della richiamata Sez. U n. 15295/2014, che la cancellazione della società dal registro delle imprese dà luogo a un fenomeno estintivo che priva la stessa della capacità di stare in giudizio (v. § 14).

Con particolare riferimento al profilo sub a), Sez. 3, n. 04006/2018, Guizzi, Rv. 647909-01, ha, pertanto, affermato che, nella fattispecie descritta, la notificazione della sentenza deve avvenire, ai fini del decorso del termine breve di impugnazione, unicamente presso il difensore della parte deceduta, e non (anche) ai suoi eredi collettivamente e impersonalmente ex art. 286 c.p.c., in quanto il difensore continua a rappresentare la parte come se l’evento stesso non si fosse verificato, risultando così stabilizzata la posizione giuridica della parte rappresentata (rispetto alle altre parti ed al giudice) nella fase attiva del rapporto processuale e nelle successive di sua quiescenza od eventuale riattivazione dovuta alla proposizione dell’impugnazione (conf. Sez. L, n. 24845/2018, Lorito, Rv. 650728-01).

15. La correzione dei provvedimenti giudiziali.

Per quanto concerne il profilo della legittimazione, Sez. 6-2, n. 18442/2018, Lombardo, Rv. 649861-01, ha chiarito che la legittimazione a chiedere la correzione della sentenza asseritamente affetta da omissioni o da errori materiali o di calcolo spetta esclusivamente alle parti del giudizio in cui la stessa è stata pronunciata e, pertanto, non compete all’avente causa degli eredi di una di tali parti che abbia acquistato il diritto conteso dopo la definizione della causa, potendo egli ottenere l’annotazione nei pubblici registri immobiliari della menzionata sentenza e di altre decisioni per mezzo della procedura prevista dall’art. 745 c.p.c.

Con riferimento all’ambito applicativo dell’istituto, Sez. U, n. 16415/2018, Armano, Rv. 649295-01, ha statuito che, a fronte della mancata liquidazione delle spese nel dispositivo della sentenza, anche emessa ex art. 429 c.p.c., sebbene in parte motiva il giudice abbia espresso la propria volontà di porle a carico della parte soccombente, la parte interessata deve fare ricorso alla procedura di correzione degli errori materiali di cui agli artt. 287 e ss. c.p.c. per ottenerne la quantificazione. Il principio è stato confermato da Sez. 3, n. 29029/2018, Graziosi, Rv. 651660-01.

Diversamente, per Sez. 2, n. 05939/2018, Criscuolo, Rv. 647850-01, il contrasto insanabile tra motivazione e dispositivo della sentenza, poiché non consente di individuare la statuizione del giudice attraverso una valutazione di prevalenza di una delle contrastanti affermazioni contenute nella decisione, non può essere eliminato con il rimedio della correzione degli errori materiali, determinando, invece, la nullità della pronuncia ai sensi dell’art. 156, comma 2, c.p.c. Tuttavia, il contrasto tra motivazione e dispositivo che determina la nullità della sentenza ricorre solo se ed in quanto esso incida sulla idoneità del provvedimento, nel suo complesso, a rendere conoscibile il contenuto della statuizione giudiziale, ricorrendo nelle altre ipotesi un mero errore materiale. In quest’ottica, Sez. 6-5, n. 26074/2018, Luciotti, Rv. 651108-01, ha annullato la decisione impugnata non potendosi individuare con certezza la portata della decisione, in quanto in motivazione vi era un’affermazione che risultava coerente con il dispositivo, mentre nelle argomentazioni svolte non era chiara l’adesione da parte del giudice alle contrastanti tesi delle parti.

Sez. 5, n. 02399/2018, Caiazzo, Rv. 646706-01, ha, infine, precisato che l’errore causato da inesatta determinazione dei presupposti di una operazione è deducibile in sede di legittimità, in quanto si risolve in un vizio logico della motivazione, a differenza dell’errore materiale di calcolo risultante dal confronto tra motivazione e dispositivo, il quale è suscettibile di correzione con la procedura di cui agli artt. 287 ss. c.p.c.

Avuto riguardo al regime giuridico, Sez. 6-2, n. 08863/2018, Orilia, Rv. 648225-01, ha posto in rilievo che il termine per l’impugnazione di una sentenza di cui è stata chiesta la correzione decorre dalla notificazione della relativa ordinanza, ex art. 288, ultimo comma, c.p.c., se con essa sono svelati errores in iudicando o in procedendo evidenziati solo dal procedimento correttivo, oppure l’errore corretto sia tale da ingenerare un obbiettivo dubbio sull’effettivo contenuto della decisione, interferendo con la sostanza del giudicato ovvero, quando con la correzione sia stata impropriamente riformata la decisione, dando luogo a surrettizia violazione del giudicato; diversamente, l’adozione della misura correttiva non vale a riaprire o prolungare i termini di impugnazione della sentenza che sia stata oggetto di eliminazione di errori di redazione del documento cartaceo, chiaramente percepibili dal contesto della decisione, in quanto risolventisi in una mera discrepanza tra il giudizio e la sua espressione (Sez. 6-1, n. 20691/2017, Valitutti, Rv. 645743-01).

16. La tutela del contumace.

L’art. 292 c.p.c., per la parte in cui impone la notifica al contumace delle comparse contenenti domande nuove o riconvenzionali, costituisce una particolare applicazione del principio del contraddittorio, ed è dettata nell’esclusivo interesse del contumace, il quale soltanto, costituendosi in giudizio, potrà far valere la inosservanza della citata norma. Per Sez. 2, n. 09538/2018, Varrone, Rv. 648090-01, non è possibile ipotizzare alcuna accettazione del contraddittorio da parte del contumace sulla domanda nuova, essendo l’ampliamento del thema decidendum comunque escluso dal regime delle preclusioni operante anche nel procedimento di opposizione a sanzione amministrativa, in cui i motivi di opposizione costituiscono l’unica ed esclusiva causa petendi della domanda coinvolgente la pretesa sanzionatoria della P.A.

Quanto all’ambito applicativo dell’art. 292 c.p.c., l’atto di riassunzione senza mutamenti sostanziali degli elementi costitutivi del processo, come quello dovuto alla morte del difensore, non deve essere notificato alla parte contumace. Secondo Sez. 2, n. 13015/2018, Besso Marcheis, Rv. 648758-01, infatti, il contumace deve essere posto a conoscenza mediante la relativa notificazione dell’atto riassuntivo solo quando questo comporti un radicale mutamento della preesistente situazione processuale, perché, in tal caso, la duplice circostanza che egli abbia accettato la precedente situazione processuale e deciso di non partecipare al giudizio non consente di presumere che intenda mantenere la stessa condotta nella nuova situazione.

Il provvedimento di rinvio d’ufficio di un’udienza istruttoria non deve essere notificato alla parte contumace anche quando oggetto di tale rinvio sia l’udienza fissata per l’espletamento dell’interrogatorio formale dello stesso contumace (Sez. 3, n. 10157/2018, Spaziani, Rv. 648314-01).

Sez. 1, n. 01434/2018, Sambito, Rv. 646591-01, ha affermato che l’ordinanza che dispone il tentativo di conciliazione, emessa dal giudice onorario aggregato a norma dell’art. 13, comma 2, della l. n. 276 del 1997, deve essere comunicata alla parte contumace, non ostandovi la mancata inclusione dell’ordinanza suddetta fra gli atti elencati, in via tassativa, dall’art. 292 c.p.c., attesa l’anteriorità della norma codicistica rispetto a quella speciale e tenuto conto del principio della successione delle leggi nel tempo (secondo le indicazioni provenienti dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 130 del 2002), con la conseguenza che la mancata comunicazione determina la nullità degli atti del giudizio di primo grado.

Avuto riguardo al regime giuridico, come ribadito da Sez. 2, n. 09527/2018, Fortunato, Rv. 648089-02, la violazione dell’art. 292 c.p.c., secondo cui le comparse contenenti domande nuove devono essere notificate al contumace, sebbene trovi applicazione anche alle comparse di intervento, non è rilevabile d’ufficio, nemmeno quando il contumace sia litisconsorte necessario rispetto a tale domanda, trattandosi, come si è visto, di un obbligo stabilito nel suo interesse esclusivo. La nullità conseguente alla mancata notifica può, pertanto, per Sez. 6-L, n. 08697/2018, Di Paola, Rv. 647699-01, essere eccepita soltanto dal contumace successivamente costituitosi o fatta valere dallo stesso con uno specifico motivo d’impugnazione della sentenza.

Sez. 3, n. 29037/2018, Olivieri, Rv. 651637-01, con riguardo alla fattispecie del contumace involontario (vale a dire, della parte erroneamente dichiarata contumace), ha chiarito che, nell’ipotesi in cui il giudizio si sia svolto nella contumacia di una parte, anche se irritualmente dichiarata, la sentenza che lo conclude deve essere notificata alla parte personalmente, ai sensi dell’art. 292, comma 4, c.p.c., attesa l’intangibilità della qualificazione della posizione processuale delle parti siccome desumibile in via esclusiva dall’accertamento contenuto nella sentenza, ancorché erroneo.

Sez. L, n. 27017/2018, Calafiore, Rv. 650868-01, ha, infine, ribadito, conformandosi a Sez. L, n. 22616/2013, Marotta, Rv. 627987-01, che, ai fini della decorrenza del termine per l’impugnazione, la sentenza deve essere notificata personalmente alla parte contumace.

17. La sospensione del processo.

In termini generali, Sez. 6-2, n. 30738/2018, Grasso Giu., Rv. 651570-01, ha confermato (sulla scia di Sez. 6-3, n. 23906/2010, Frasca, Rv.  614971-01) che l’art. 42 c.p.c. non attribuisce al giudice il potere di sospendere facoltativamente e discrezionalmente il processo, essendo consentita la sospensione nei soli casi previsti dal legislatore: una tale facoltà – oltre che inconciliabile con il disfavore nei confronti del fenomeno sospensivo, sotteso alla riforma del citato art. 42 del codice di rito – ove ammessa, si porrebbe in insanabile contrasto sia con il principio di eguaglianza (art. 3 Cost.) e della tutela giurisdizionale (art. 24 Cost.), sia con il canone della durata ragionevole (art. 111). Dalla esclusione della configurabilità di una sospensione facoltativa ope iudicis del giudizio, discende quale logico corollario, la impugnabilità, ai sensi dell’art. 42 c.p.c., di ogni sospensione del processo quale che ne sia la motivazione, e l’accoglimento del gravame ogni volta che la sospensione sia stata disposta al di fuori delle ipotesi di sospensione ex lege.

La sospensione necessaria del processo ex art. 295 c.p.c. può essere disposta quando la decisione dipenda dall’esito di altra causa, la quale abbia portata pregiudiziale in senso stretto ovvero vincolante, con effetto di giudicato, nell’ambito della causa pregiudicata (Sez. 6-3, n. 03299/2018, Olivieri, non massimata).

Sez. 6-L, n. 12996/2018, Di Paola, Rv. 648748-01, ha ribadito che, ai fini della sospensione necessaria del processo, non è configurabile un rapporto di pregiudizialità necessaria tra cause pendenti fra soggetti diversi, seppur legate fra loro da pregiudizialità logica, in quanto la parte rimasta estranea ad uno di essi può sempre eccepire l’inopponibilità, nei propri confronti, della relativa decisione (conf. Sez. 6-2, n. 20072/2017, Scarpa, Rv. 645343-01).

Quanto alla pregiudizialità tra giudizi civili, Sez. 6-1, n. 17392/2018, Falabella, Rv. 650189-01, ha chiarito che tra l’azione di disconoscimento della paternità e quella di dichiarazione giudiziale di altra paternità sussiste un nesso di pregiudizialità in senso tecnico-giuridico, con la conseguenza che, in pendenza del primo giudizio, il secondo, ex art. 295 c.p.c., deve essere sospeso, coerentemente con l’art. 253 c.c.

Il giudizio di opposizione all’esecuzione e quello nel quale sia impugnata la sentenza fatta valere come titolo esecutivo hanno, invece, presupposti diversi, cosicché tra di essi non ricorre un rapporto di pregiudizialità in senso tecnico-giuridico tale da giustificare, ai sensi dell’art. 295 c.p.c., la sospensione necessaria del processo di opposizione (Sez. 6-1, n. 04035/2018, Falabella, Rv. 648476-01).

Ai fini della sospensione necessaria del processo civile ai sensi dell’art. 295 c.p.c., la pregiudizialità di una controversia amministrativa è configurabile, alla stregua di quanto chiarito da Sez. 6-3, n. 20491/2018, Olivieri, Rv. 650478-01, solo ove entrambi i giudizi pendano tra le stesse parti ed il giudice amministrativo sia chiamato a definire questioni di diritto soggettivo in sede di giurisdizione esclusiva e non anche qualora innanzi allo stesso sia impugnato un provvedimento incidente su interessi legittimi, potendo, in quest’ultima ipotesi, il giudice ordinario disapplicare il provvedimento amministrativo.

Il giudizio civile può altresì essere sospeso, ai sensi degli artt. 295 c.p.c., 654 c.p.p. e 211 disp. att. c.p.p., qualora una norma di diritto sostanziale ricolleghi alla commissione del reato un effetto sul diritto oggetto di tale giudizio, purché la sentenza penale possa avere, nel caso concreto, valore di giudicato nel processo civile. Pertanto, per rendere dipendente la decisione civile dalla definizione del giudizio penale, non basta che nei due processi rilevino gli stessi fatti, ma occorre che l’effetto giuridico dedotto in ambito civile sia collegato normativamente alla commissione del reato (cfr. Sez. 6-3, n. 07617/2017, Frasca, Rv. 643820). In applicazione dell’enunciato principio, Sez. 6-2, n. 18202/2018, Falaschi, Rv. 649656-01, ha escluso la configurabilità di una relazione di pregiudizialità fra un giudizio civile, relativo alla corresponsione della provvigione nell’ambito di un rapporto di mediazione, ed uno penale, concernente fatti di reato asseritamente commessi dal legale rappresentante della società richiedente detta provvigione in concorso con la proprietaria dell’immobile oggetto delle trattative di vendita.

La sospensione necessaria del processo civile per pregiudizialità penale, ai sensi dell’art. 295 c.p.c., nell’ipotesi in cui alla commissione del reato oggetto dell’imputazione penale una norma di diritto sostanziale ricolleghi un effetto sul diritto oggetto del giudizio civile, è subordinata alla condizione della contemporanea pendenza dei due processi, civile e penale e, quindi, dell’avvenuto esercizio dell’azione penale da parte del P.M. nei modi previsti dall’art. 405 c.p.p., mediante la formulazione dell’imputazione o la richiesta di rinvio a giudizio, sicché tale sospensione non può essere disposta sul presupposto della mera presentazione di una denuncia e della conseguente apertura di indagini preliminari. In quest’ottica, Sez. 6-2, n. 11688/2018, Cosentino, Rv. 648376-01, ha accolto il ricorso proposto da un avvocato avverso l’ordinanza con la quale il giudice civile aveva sospeso il giudizio relativo all’accertamento di un suo credito professionale sul presupposto della mera presentazione, dalla parte patrocinata, di una querela di falso relativa alla sottoscrizione della procura ad litem.

Sulla falsariga di quanto statuito in tema di interruzione del processo, Sez. 6-2, n. 30738/2018, Grasso Giu., Rv. 651570-02, ha affermato che la sussistenza di una causa di sospensione del giudizio relativamente ad una sola di più domande cumulate nello stesso processo non è idonea, di per sé, a giustificare la sospensione del processo relativamente a tutte le domande, giacché l’art. 103, comma 2, c.p.c., richiamato dal successivo art. 104, comma 2, c.p.c. attribuisce al giudice il potere di disporre la separazione delle cause quando la continuazione della loro riunione ritarderebbe o renderebbe più gravoso il processo ovvero di non disporla quando la separazione sia inopportuna. Poiché la sospensione rappresenta, quindi, un’evenienza che interferisce sul normale svolgimento del processo, incidendo sul principio della ragionevole durata, compete al giudice, quando venga in rilievo una causa di sospensione relativa ad una sola delle domande cumulate nello stesso processo, ponderare ed adeguatamente motivare le ragioni di opportunità del mancato esercizio dei suoi poteri discrezionali di separazione delle cause e quindi la decisione di estendere l’ambito di operatività della sospensione a tutte le domande cumulate.

Con riferimento alla riassunzione di un processo sospeso, Sez. 6-1, n. 10465/2018, Valitutti, non massimata, ha ribadito che, affinché il giudicato esterno possa fare stato nel processo – anche ai fini del rispetto del termine per la riassunzione di cui all’art. 297 c.p.c. – è necessaria la certezza della sua formazione, che deve essere provata, pur in assenza di contestazioni, attraverso la produzione della sentenza munita del relativo attestato di cancelleria, ai sensi dell’art. 124 disp. att. c.p.c., che costituisce dunque – come si evince dal tenore letterale della norma (“a prova del passaggio in giudicato della sentenza”) – l’ordinario strumento mediante il quale il giudicato deve essere comprovato.

18. L’interruzione del processo.

Sez. 3, n. 20840/2018, Gianniti, Rv. 650423-01, seguendo l’indirizzo già individuato nel paragrafo (n. 10) dedicato all’ultrattività del mandato alle liti, ha affermato che, in caso di morte o perdita di capacità della parte costituita a mezzo di procuratore, l’omessa dichiarazione o notificazione del relativo evento ad opera di quest’ultimo comporta che il difensore continui a rappresentare la parte come se l’evento stesso non si fosse verificato, risultando così stabilizzata la posizione giuridica della parte rappresentata (rispetto alle altre parti ed al giudice) nella fase attiva del rapporto processuale, nonché in quelle successive di sua quiescenza od eventuale riattivazione dovuta alla proposizione dell’impugnazione.

La cancellazione della società dal registro delle imprese (v. § 10), a partire dal momento in cui si verifica l’estinzione della società cancellata, priva la società stessa della capacità di stare in giudizio (con la sola eccezione della fictio iuris contemplata dall’art. 10 l. fall.); pertanto, sì come chiarito da Sez. 3, n. 20840/2018, Gianniti, Rv. 650423-03, qualora l’estinzione intervenga nella pendenza di un giudizio del quale la società è parte, si determina un evento interruttivo, disciplinato dagli artt. 299 ss. c.p.c., con eventuale prosecuzione o riassunzione da parte o nei confronti dei soci, successori della società, ai sensi dell’art. 110 c.p.c.

Nell’ipotesi di morte della parte costituita e di dichiarazione dell’evento interruttivo resa in udienza dal suo procuratore o da questi notificata alle altre parti, la mera circostanza che uno dei successori sia parte del giudizio in nome proprio al momento del decesso, sia pure in una posizione di sostanziale coincidenza di interessi e di linea difensiva con il defunto, non comporta che egli assuma automaticamente la qualità di erede dello stesso né al fine dell’impedimento dell’evento interruttivo, né con riguardo alla coltivazione delle domande proposte dal de cuius. In applicazione di questo principio, Sez. 2, n. 15066/2018, Criscuolo, Rv. 649077-01, ha escluso che il figlio della parte deceduta in corso di causa, presente nel processo in nome proprio, avesse accettato tacitamente l’eredità ex art. 476 c.c. con la semplice proposizione di appello contro la decisione di primo grado, non avendo speso la qualità di erede del genitore.

Sez. 2, n. 10487/2018, Penta, Rv. 648169-01, ha chiarito che la morte del mandante che sta in giudizio per mezzo del mandatario ad negotia, costituito tramite procuratore legale, in tanto ha rilevanza processuale ed importa l’interruzione del processo in quanto sia stata dichiarata o notificata dal procuratore legale, restando irrilevante che la morte della parte sia nota al giudice ed alla controparte, sopravvivendo la rappresentanza processuale, per il suo particolare carattere di rapporto esterno rispetto al giudice ed alla controparte, al decesso del mandante; mentre nei rapporti interni fra mandante e mandatario, gli atti (in essi compresa la nomina di un procuratore ad processum) che siano stati compiuti dal mandatario prima di conoscere l’estinzione del mandato (per morte del mandante) restano validi, sia nei confronti del mandante che dei suoi eredi (salva da parte di questi ultimi la ratifica dell’operato del mandatario).

Per Sez. 1, n. 02817/2018, Ferro, Rv. 646878-01, i “rappresentanti legali” la cui morte, per il disposto degli artt. 299 e 300 c.p.c., è causa di interruzione del processo sono soltanto coloro che stanno in giudizio in luogo degli incapaci, non anche le persone che svolgono la funzione di organi degli enti dotati di una propria autonoma soggettività. In particolare, la morte del legale rappresentante di un ente munito di personalità giuridica non comporta l’interruzione del processo, poiché il concetto di rappresentanza legale, richiamato dall’articolo 299 del codice di procedura civile, si riferisce soltanto alla rappresentanza dei soggetti incapaci, mentre gli amministratori o i liquidatori di enti muniti di personalità giuridica sono mandatari dell’ente medesimo, in conformità di tutta la struttura e della disciplina legale del rapporto che li lega a questo, sicché è privo di efficacia interruttiva il cambiamento della persona fisica investita della rappresentanza della società o dell’ente, sia nel caso di cambiamento della persona dell’amministratore nello stadio di vita normale dell’ente che nell’ipotesi di passaggio della rappresentanza del medesimo da un amministratore all’altro.

La dichiarazione di fallimento determina l’automatica interruzione del processo, con termine trimestrale per la sua riassunzione che decorre dalla data della conoscenza legale dell’evento, estesa, per la curatela fallimentare, anche alla conoscenza della pendenza del processo ed acquisita, quindi, non in via di mero fatto, ma per il tramite di una dichiarazione, notificazione o certificazione rappresentativa dell’evento che determina l’interruzione del processo, assistita da fede privilegiata, senza che abbia alcuna efficacia, a tal fine, il momento nel quale venga adottato e conosciuto il provvedimento giudiziale dichiarativo dell’intervenuta interruzione, avente natura meramente ricognitiva (Sez. 1, n. 09578/2018, Campese, Rv. 648119-01; cfr. altresì Sez. 6-1, n. 05288/2017, Cristiano, Rv. 643975, e Sez. 6-3, n. 21375/2017, Tatangelo, Rv. 645921). In caso di interruzione del processo determinata, ipso iure, dall’apertura del fallimento, giusta l’art. 43, comma 3, l. fall. (aggiunto dall’art. 41 del d.lgs. n. 5 del 2006), al fine del decorso del termine trimestrale per la riassunzione, quindi, è necessaria la conoscenza “legale” dell’evento interruttivo. In applicazione di questo principio, Sez. 6-1, n. 08640/2018, Lamorgese, Rv. 648573-01, ha cassato la sentenza di merito che aveva ritenuto tardiva la riassunzione del processo calcolando il relativo termine dalla notifica della citazione direttamente alla curatela – ciò che, secondo la corte d’appello, dimostrava la conoscenza del fallimento –, anziché dalla dichiarazione in udienza del procuratore della società fallita. Al fine del decorso del termine per la riassunzione non è, peraltro, di regola ritenuto sufficiente che dell’evento interruttivo, rappresentato dalla dichiarazione di fallimento, la parte interessata alla prosecuzione del giudizio abbia avuto conoscenza formalmente legale (cioè acquisita per il tramite di atti muniti di fede privilegiata quali dichiarazioni, notificazioni o certificazioni rappresentative dell’evento medesimo), essendo reputato necessario che tale conoscenza abbia specificamente ad oggetto tanto l’evento in sé considerato quanto lo specifico processo nel quale esso deve esplicare i suoi effetti. E così Sez. 3, n. 06398/2018, Spaziani, Rv. 648424-01, ha ritenuto irrilevante, ai fini della conoscenza legale dell’evento interruttivo, la circostanza che lo stesso fosse stato formalmente appreso dalla parte interessata alla prosecuzione, a mezzo del proprio procuratore, in un giudizio in cui era rappresentata da un difensore diverso da quello che la assisteva nel processo in cui l’evento medesimo era destinato a produrre effetti. Per Sez. 3, n. 31010/2018, Gianniti, Rv. 651867-01, la conoscenza legale della sentenza dichiarativa di fallimento deve essere acquisita nell’ambito dello specifico giudizio sul quale l’evento medesimo è destinato ad operare, sicché la comunicazione effettuata dal curatore si sensi dell’art. 92 l. fall., costituisce strumento idoneo, ai fini della decorrenza del predetto termine, solo a condizione che sia indirizzata al difensore della parte processuale, contenga esplicito riferimento alla lite pendente ed interrotta e sia corredata da copia autentica della sentenza di fallimento.

Sez. 3, n. 09829/2018, De Stefano, non massimata, ha ribadito il principio ormai consolidato (Sez. U, n. 09686/2013, Spirito, Rv. 626431-01) secondo cui, quando vengano trattate cumulativamente più domande di risarcimento proposte contro il medesimo convenuto e per ragioni di diritto in parte comuni da più danneggiati o si verta comunque in ipotesi di cumulo soggettivo facoltativo o, in grado di impugnazione, di cause scindibili, la reciproca indipendenza dei rapporti processuali comporta che l’efficacia dell’evento interruttivo che colpisca la parte di uno o solo alcuni tra questi sia limitata a questi ultimi, sicché l’eventuale ordinanza che dichiari interrotto il processo produce gli effetti di cui agli articoli 300 ss. del codice di procedura civile solo con riferimento alla domanda in cui si è verificato l’evento interruttivo, mentre le altre non separate restano in una fase di stallo o di rinvio, destinate necessariamente a cessare per effetto della riassunzione della causa interrotta o dell’estinzione di essa; pertanto, è illegittima la declaratoria di estinzione di un processo articolato su di una pluralità di cause scindibili per la mancata riassunzione a seguito dell’evento interruttivo che abbia colpito una sola delle parti di una o di alcune tra le domande cumulativamente istruite.

Per Sez. 3, n. 20809/2018, Iannello, Rv. 650416-01, la dichiarazione dell’evento interruttivo che ha colpito la parte costituita, di cui all’art. 300, comma 1, c.p.c., costituisce esercizio di un potere discrezionale del procuratore, al quale soltanto compete di valutarne l’opportunità nell’esclusivo interesse della parte rappresentata, così che la scelta di dichiarare o meno tale evento, ovvero del momento in cui dichiararlo, non può integrare di per sé abuso del processo, né può incidere sulla durata del giudizio in danno della controparte, essendo a tal fine indifferente che l’interruzione si verifichi in un momento del processo piuttosto che in un altro.

Peraltro, la morte, la radiazione o la sospensione dall’albo dell’unico difensore a mezzo del quale la parte è costituita nel giudizio di merito determina automaticamente l’interruzione del processo anche se il giudice e le altri parti non ne abbiano avuto conoscenza (e senza, quindi, che occorra, perché si perfezioni la fattispecie interruttiva, la dichiarazione o la notificazione dell’evento), con preclusione di ogni ulteriore attività processuale, che, se compiuta, è causa di nullità degli atti successivi e della sentenza. Tale principio è stato enunciato da Sez. 6-1, n. 00790/2018, Genovese, Rv. 647332-01, in una fattispecie in cui un avvocato si era personalmente costituito. Sez. 6-3, n. 28846/2018, Scarano, Rv. 651504-01, ha confermato il principio consolidato a mente del quale la morte, nel corso del giudizio, dell’unico difensore della parte costituita determina l’interruzione automatica del processo.

Pur tuttavia, il principio secondo cui la sospensione dall’esercizio della professione dell’unico difensore, a mezzo del quale la parte è costituita in giudizio, determina l’automatica interruzione del processo, anche se il giudice e le altre parti non ne abbiano avuto conoscenza, con conseguente nullità degli atti successivi, presuppone il concreto pregiudizio arrecato dall’evento al diritto di difesa (in questi termini si è espressa Sez. 1, n. 05106/2018, Valitutti, non massimata).

In questo contesto Sez. 1, n. 27308/2018, Sambito, Rv. 651468-01, ha avuto l’occasione per chiarire che anche la cessazione del rapporto di impiego degli avvocati dipendenti degli enti pubblici, iscritti all’albo speciale annesso a quello professionale, determina il totale venir meno dello ius postulandi e l’automatica interruzione del processo, ancorché il giudice e le parti non ne abbiano avuto conoscenza, con la conseguente nullità di tutti gli atti successivamente compiuti e della sentenza eventualmente pronunciata, che può essere dedotta mediante l’impugnazione – in funzione di richiesta di prosecuzione del giudizio – solo dalla parte colpita dall’evento interruttivo, stante l’inapplicabilità dell’art. 85 c.p.c. Applicando tale principio, la menzionata pronuncia ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto valida, ai fini della decorrenza del termine breve, la notifica della sentenza effettuata a mani della parte personalmente, priva di difensore, poiché, ancorché colpita dall’evento interruttivo, non lo aveva dichiarato né in primo grado né in sede di impugnazione, limitandosi a formulare censure di merito, contestando, anzi, l’avvenuta interruzione del giudizio per effetto della perdita dello jus postulandi del procuratore cancellato dall’albo speciale.

La riassunzione del giudizio interrotto, ove tempestivamente e ritualmente effettuata dalla parte intervenuta, non è inficiata dalla successiva declaratoria di inammissibilità del predetto intervento, atteso che l’accertamento di tale inammissibilità non può travolgere retroattivamente l’impulso processuale reso secondo le modalità normative da un soggetto che, in quel concreto stadio processuale, rivestiva formalmente il ruolo di parte, e non può conseguentemente determinare l’estinzione del processo. Secondo Sez. 3, n. 09820/2018, Graziosi, Rv. 648429-01, è infatti irragionevole ritenere che il legislatore abbia inteso configurare una sorta di estinzione ex post, che può manifestarsi anche a distanza di molto tempo e che costituisce fonte di protratta incertezza sulla permanenza o meno dell’esistenza del processo, in contrasto con i principi di conservazione e di economia processuale.

Quando una stessa persona fisica rappresenta in giudizio più soggetti, ma tale rappresentanza ha carattere unitario ed inscindibile, la notificazione è correttamente eseguita mediante consegna di una sola copia dell’atto al procuratore della parte, non trovando applicazione il principio secondo cui la notifica deve avvenire con la dazione di tante copie quante sono le parti contro cui l’atto è diretto. In quest’ottica, Sez. 6-2, n. 15920/2018, Picaroni, Rv. 649096-01, ha reputato corretta la notificazione dell’atto di riassunzione del processo ex art. 303 c.p.c. e del conseguente decreto di fissazione di udienza eseguita mediante consegna di una unica copia alla parte in proprio e nella qualità di genitore legale rappresentante del figlio minore d’età.

L’atto di riassunzione del processo non introduce un nuovo procedimento, ma espleta esclusivamente la funzione di consentire la prosecuzione di quello già pendente, con la conseguenza che per la sua validità il giudice di merito deve apprezzarne l’intero contenuto, onde verificarne la concreta idoneità a consentire la ripresa del processo. Infatti, la nullità dell’atto di riassunzione non deriva dalla mancanza di uno o più dei requisiti di cui all’art. 125 disp. att. c.p.c., bensì dall’impossibilità del raggiungimento dello scopo a causa della carenza di elementi essenziali, quali: il riferimento esplicito alla precedente fase processuale; l’indicazione delle parti e di altri elementi idonei a consentire l’identificazione della causa riassunta; le ragioni della cessazione della pendenza della causa stessa; il provvedimento del giudice che legittima la riassunzione; la manifesta volontà di riattivare il giudizio attraverso il ricongiungimento delle due fasi in un unico processo. In applicazione di tale principio, Sez. 1, n. 11193/2018, Caiazzo, Rv. 648451-01, ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto inidoneo allo scopo di riassumere taluni giudizi di opposizione a decreto ingiuntivo, in precedenza riuniti e poi interrotti per la morte di uno degli opponenti, l’atto di riassunzione in cui gli altri opponenti, fideiussori del debitore principale deceduto, avevano dichiarato di agire quali suoi eredi e non in qualità di garanti del medesimo.

Sez. 2, n. 02757/2018, Federico, Rv. 647304-01, ha ribadito che, nel caso di interruzione del processo, il ricorso in prosecuzione ex art. 302 c.p.c., in quanto atto di mero impulso processuale nell’ambito di un procedimento già instaurato, di cui permangono tutti gli effetti sostanziali e processuali, non richiede il conferimento di un mandato speciale al difensore, per cui deve ritenersi consentito, ai sensi dell’art. 125 c.p.c., il rilascio successivo della procura (anche in data posteriore alla notificazione del ricorso), purché prima della costituzione della parte rappresentata.

Verificatasi una causa d’interruzione del processo, in presenza di un meccanismo di riattivazione del processo interrotto, destinato a realizzarsi distinguendo il momento della rinnovata edictio actionis da quello della vocatio in ius, il termine perentorio di sei (recte, di tre) mesi, previsto dall’art. 305 c.p.c., è riferibile solo al deposito del ricorso nella cancelleria del giudice, sicché, una volta eseguito tempestivamente tale adempimento, quel termine non gioca più alcun ruolo, atteso che la fissazione successiva, ad opera del medesimo giudice, di un ulteriore termine, destinato a garantire il corretto ripristino del contraddittorio interrotto nei confronti della controparte, pur presupponendo che il precedente termine sia stato rispettato, ormai ne prescinde, rispondendo unicamente alla necessità di assicurare il rispetto delle regole proprie della vocatio in ius. Ne consegue che, come confermato da Sez. 3, n. 09819/2018, Graziosi, Rv. 648428-01, il vizio da cui sia colpita la notifica dell’atto di riassunzione e del decreto di fissazione dell’udienza non si comunica alla riassunzione (oramai perfezionatasi), ma impone al giudice di ordinare, anche qualora sia già decorso il (diverso) termine di cui all’art. 305 c.p.c., la rinnovazione della notifica medesima, in applicazione analogica dell’art. 291 c.p.c., entro un ulteriore termine necessariamente perentorio, solo il mancato rispetto del quale determinerà l’eventuale estinzione del giudizio, per il combinato disposto dello stesso art. 291, comma 3, e del successivo art. 307, comma 3, c.p.c.

Nel dichiarare manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 286 c.p.c. in relazione al principio di parità delle armi di cui all’art. 111 Cost. ed al diritto di difesa ex art. 24, comma 2, Cost., valutati pure alla luce degli artt. 47 CDFUE e 6 CEDU, nella parte in cui dispone che, qualora dopo la chiusura della discussione si verifichi la morte della parte, la notificazione della sentenza, se avviene entro un anno dalla morte stessa, può essere fatta impersonalmente e collettivamente agli eredi nell’ultimo domicilio del defunto, Sez. 2, n. 27633/2018, Sabato, Rv. 651376-02, ha evidenziato che la disposizione censurata si sottrae alla censura di illegittimità, in quanto opera un idoneo bilanciamento tra l’esigenza di tutelare il diritto degli eredi di agire in giudizio e quella contrapposta della parte notificante di abbreviare la durata del processo, dovendosi tenere conto sia del ruolo del difensore del defunto, il quale ha l’obbligo di individuare i successori per informarli dello stato della causa, sia, in caso di non adempimento di tale obbligo, della circostanza che la stessa notificazione della sentenza è idonea, per il suo contenuto, a produrre di per sé un effetto informativo nei confronti del consegnatario presso l’ultimo domicilio, nella probabile relazione che l’ordinamento assume che egli abbia con gli eredi.

19. L’estinzione del processo.

Quando, a seguito di sentenza dichiarativa dell’incompetenza del giudice adito, sia stata posta in essere un’attività processuale astrattamente riconducibile al modello della riassunzione, spetta al giudice davanti al quale la riassunzione stessa sia stata effettuata stabilire se essa, come concretamente attuata, sia tempestiva e, più in generale, risponda ai requisiti di forma e di contenuto necessari perché si verifichi l’effetto della continuazione del processo davanti al giudice ad quem e sia evitata l’estinzione. A tal fine, Sez. 2, n. 20068/2018, Cavallari, Rv. 649845-02, ritiene necessario compiere un attento esame del contenuto sostanziale dell’atto di riassunzione per verificare la sussistenza di una non equivoca volontà di proseguire il giudizio inizialmente promosso, volontà configurabile anche implicitamente, senza che occorra una espressa dichiarazione in questo senso.

La conseguenza processuale della tardiva riassunzione di una causa non è l’inammissibilità del giudizio, bensì l’estinzione dello stesso, che opera di diritto ed è dichiarata anche d’ufficio alla prima udienza successiva alla riassunzione – o comunque anche successivamente in fase di impugnazione – ed impedisce la conservazione degli effetti sostanziali e processuali della domanda. In quest’ottica, Sez. 2, n. 11144/2018, Cosentino, Rv. 648243-01, ha dichiarato estinto un giudizio di opposizione a delibera sanzionatoria Consob, soggetto all’art. 307, comma 4, c.p.c., nel testo modificato dalla l. n. 269 del 2009, poiché tardivamente riassunto davanti al giudice ordinario in seguito alla declinatoria di giurisdizione di quello amministrativo.

Quanto al regime giuridico, per Sez. 6-L, n. 21977/2018, Esposito, Rv. 650303-01, non sussiste l’interesse del convenuto ad impugnare un’ordinanza di estinzione del giudizio, trattandosi di statuizione meramente processuale inidonea ad arrecare pregiudizio alle parti coinvolte ed a costituire giudicato sostanziale sulla pretesa fatta valere, limitandosi l’efficacia di tale giudicato al solo aspetto del venir meno dell’interesse alla prosecuzione del giudizio.

Opportuna è stata la precisazione offerta da Sez. 6-5, n. 26733/2018, Napolitano, Rv. 650820-01, che ha ritenuto affetta da vizio di ultrapetizione una decisione che aveva dichiarato l’estinzione del giudizio per una causa petendi diversa da quella indicata dalle parti. In particolare, nella fattispecie esaminata la S.C. ha ravvisato il vizio in questione nella pronuncia impugnata che aveva dichiarato cessata la materia del contendere, a fronte di un’istanza del contribuente di “rinuncia al proseguimento del contenzioso” non subordinata a quella dell’Amministrazione finanziaria al recupero del proprio credito nella misura dei due terzi conseguente al rigetto del ricorso di primo grado.

Da ultimo, l’effetto interruttivo permanente della prescrizione si determina anche nel caso di proposizione di un giudizio successivamente estinto nel corso del quale sia stata pronunciata sentenza non definitiva di merito, dovendosi ritenere tale ogni decisione che abbia risolto talune questioni sollevate dalle parti in ordine all’oggetto della domanda. In applicazione di questo principio, Sez. 1, n. 20308/2018, Mercolino, Rv. 649958-01, in un giudizio avente ad oggetto l’opposizione alla stima di indennità dovute per occupazione ed espropriazione immobiliare, ha ritenuto interrotto il termine di prescrizione dalla proposizione di una precedente domanda fino al passaggio in giudicato della sentenza non definitiva con la quale, in un giudizio in seguito estinto, era stata accertata la mancata emissione del decreto di espropriazione, afferendo tale presupposto non già alla mera proponibilità dell’azione, bensì al suo accoglimento e, quindi, alla sussistenza del diritto.

Già Sez. 1, n. 21201/2017, Mercolino, Rv. 645843, aveva affermato che l’estinzione del processo (sia stata o meno dichiarata dal giudice) elimina l’effetto permanente dell’interruzione della prescrizione prodotto dalla domanda giudiziale ai sensi dell’art. 2945, comma 2, c.c., ma non incide sull’effetto interruttivo istantaneo della medesima, comunque prodottosi, con la conseguenza che la prescrizione ricomincia a decorrere dalla data di detta domanda.

  • giurisdizione civile
  • giurisprudenza

APPROFONDIMENTO TEMATICO

L’ESAME DELLE QUESTIONI TRA ORDINE LOGICO E PRINCIPIO DELLA “RAGIONE PIU’ LIQUIDA”

(di Paolo Bernazzani, Andrea Venegoni )

Sommario

1 Premessa. - 2 Correlazioni con la giurisprudenza sul giudicato implicito. - 3 Ragione più liquida e ricadute applicative. In particolare, i corollari in tema di ricorso incidentale condizionato.

1. Premessa.

È affermazione condivisa che l’ordine logico-giuridico di trattazione delle questioni – secondo la scansione che si articola fra questioni pregiudiziali di rito, questioni preliminari di merito e questioni afferenti al merito in senso stretto – costituisce, in primo luogo, un principio conformativo della trattazione del giudizio di primo grado e, all’interno di questa funzione, esprime un’esigenza di economia processuale altrettanto rilevante di quella fondata sul suo superamento, derivante dall’adozione in sede di motivazione del principio della ragione più liquida (Acierno, La motivazione della sentenza tra esigenze di celerità e giusto processo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2012, n. 2, 437 ss.; Biavati, Appunti sulla struttura della decisione e l’ordine delle questioni, ivi, 2009, 1301 ss.).

In tale prospettiva, una prima approssimazione al tema di indagine impone di osservare che gli snodi essenziali attraverso i quali tale ordine si declina nella fase di trattazione sono regolati dagli artt. 183 e 187 c.p.c.; le indicazioni desumibili da tali norme, peraltro, non sono vincolanti, nel senso che la mera violazione dell’ordine tratteggiato dalle stesse non è sanzionata con l’invalidità dell’attività successiva o della decisione conclusiva, potendo il giudice esaminare e risolvere per saltum le questioni valutate sin dall’inizio decisive, con l’unico vincolo effettivo costituito dal rispetto del principio del contraddittorio sui temi sottesi alle questioni stesse.

Analogo ordine di trattazione delle questioni è adottato dagli artt. 276 e 279 c.p.c. con riferimento alla fase di deliberazione della decisione, secondo la medesima progressione illustrata (tale ordine prevede l’esame dapprima delle questioni pregiudiziali, poi del merito della causa, ex art. 276, comma 2; fra le prime, la precedenza è accordata alle questioni relative alla giurisdizione ed alla competenza, poi alle pregiudiziali di rito, indi alle preliminari di merito, infine al merito in senso stretto: art. 279, comma 1, nn. 1, 2 e 3); la stessa scansione deve essere, parimenti, osservata in sede di motivazione, come previsto dall’art. 118, comma 2, disp. att. c.p.c., secondo il quale «devono essere esposte concisamente ed in ordine le questioni discusse e decise». Si conviene che, anche in relazione alla fase deliberativa e di redazione della motivazione, il giudice è sempre libero di determinare l’ordine di trattazione delle questioni, sulla base delle circostanze specifiche della controversia, in virtù dell’assenza di un vincolo normativo espresso presidiato da una sanzione processuale derivante dalle norme “ordinatrici”. Entro tale cornice ricostruttiva, si precisa che, al più, può evocarsi la nozione di vincolo con riferimento alle modalità con cui le domande e le eccezioni, nonché le “questioni” che le sostanziano, sono prospettate dalle parti ed, in particolare, quando ne venga prospettato il rapporto di subordinazione o tale relazione emerga dalla loro stessa qualificazione giuridica (Acierno, Op. loc. cit.).

In tale prospettiva ermeneutica, il tema della ricognizione degli ambiti e dei limiti entro cui sia ammissibile, all’eminente scopo di salvaguardare esigenze di economia processuale e di celerità del giudizio, un approccio interpretativo che trascenda canoni improntati ad una rigorosa coerenza logico-sistematica nella scelta dell’ordine delle questioni da trattare, secondo i registri dettati dalle disposizioni richiamate ed, in particolare, dall’art. 276 c.p.c., consentendo di cogliere con immediatezza la questione ritenuta di più agevole soluzione – anche se logicamente subordinata – senza necessità di esaminare previamente le altre, è influenzato da una serie di istanze che non si è mancato di puntualizzare con precisione: viene in rilievo, fra l’altro, la considerazione che il rapporto fra questioni di rito e questioni di merito non si può esaurire in un profilo di ordine strettamente logico-giuridico, posto che, da un lato, «il rito ha una funzione soltanto strumentale ed è una condizione di garanzia per il corretto esercizio dialettico della funzione decisoria, che però tende alla risoluzione del conflitto sul merito» e che, dall’altro, l’ordine delle questioni, al di là della priorità di ordine logico delle pregiudiziali, non costituisce un paradigma immutabile, essendo configurabili ipotesi in cui si verifica, piuttosto, un allineamento di questioni (si formula, al riguardo, l’esempio della concessione di una misura cautelare, che richiede la verifica della sussistenza sia del fumus che del periculum, onde basta l’accertamento negativo in ordine ad uno dei due profili per giustificare un’ordinanza reiettiva, che non si occupi dell’altro); senza considerare, inoltre, che all’interno della categoria delle questioni pregiudiziali non è sempre agevole individuare con sicurezza un ordine di esame e che lo stesso potere del giudice di rilevare d’ufficio le questioni pregiudiziali di rito «si declina secondo modalità discrezionali, non suscettibili di critica impugnatoria (giacché le parti, se volevano, potevano introdurre la questione di loro iniziativa) e oggetto di una legittima scelta di gestione del processo», che suggerirà –almeno tendenzialmente – al giudice di esercitare il potere di rilevazione officiosa solo su quelle determinate questioni, «che, nel caso di specie, risultino funzionali e non contrastanti rispetto allo scopo della decisione nel merito» (Biavati, Op. loc. cit.).

La stessa giurisprudenza delle Sezioni Unite conferma, del resto, la conclusione secondo cui se, in linea generale, è indubbio che le questioni pregiudiziali (o impedienti o assorbenti) debbano essere esaminate prima di quelle da esse dipendenti, «i parametri operativi ben possono essere molteplici, e quell’ordine è suscettibile di essere sovvertito. Tali parametri sono costituiti dalla natura della questione, dalla sua idoneità a definire il giudizio, dalla sua maggiore evidenza (cd. liquidità), dalla sua maggiore preclusività, dalla volontà del convenuto». (Sez. U, n. 26242/2014, Rv. 633502-01, Travaglino).

In questa prospettiva, in particolare, la giurisprudenza della Suprema Corte ha da tempo elaborato il principio della cd. ragione più liquida, che rinviene la propria matrice nel tessuto normativo degli artt. 24 e 111 Cost.

In virtù di tale principio, «la causa può essere decisa sulla base della questione ritenuta di più agevole soluzione, anche se logicamente subordinata, senza che sia necessario esaminare previamente le altre, imponendosi, a tutela di esigenze di economia processuale e di celerità del giudizio, un approccio interpretativo che comporti la verifica delle soluzioni sul piano dell’impatto operativo piuttosto che su quello della coerenza logico sistematica e sostituisca il profilo dell’evidenza a quello dell’ordine delle questioni da trattare ai sensi dell’art. 276 cod. proc. civ.»: così, da ultimo, Sez. 5, n. 11458/2018, Zoso, Rv. 648510-01, la quale ha affermato la possibilità di esaminare per primo un motivo di merito, suscettibile di assicurare la definizione del giudizio, pur se logicamente subordinato ad altre questioni ugualmente prospettate negli altri motivi di ricorso.

Il tema, invero complesso, intreccia profili di diritto sostanziale e di diritto processuale, interessi privati ed interessi pubblici, soprattutto quando vengono in rilievo questioni rilevabili d’ufficio. Esso comporta anche conseguenze in termini di giudicato, essendo evidente che la non trattazione di alcune questioni, ritenute assorbite da quelle decise, pone non lievi problemi al fine di stabilire se sulle stesse si possa essere formato o meno il vincolo che da esso deriva.

2. Correlazioni con la giurisprudenza sul giudicato implicito.

La tematica dell’ordine delle questioni nella giurisprudenza di legittimità più recente si intreccia e si definisce proprio nel rapporto con la questione del cd. giudicato implicito. La stretta interdipendenza tra tali diverse opzioni risulta, invero, particolarmente evidente alla luce degli arresti della Corte in tema di giudicato implicito sulla giurisdizione.

Il riferimento, come è evidente, alla nozione di giudicato implicito sottende l’affermazione che il giudicato “copre” non soltanto l’oggetto diretto della pronuncia, ma anche tutto quello che ne rappresenta il presupposto logico-giuridico, ancorché non sia stato discusso in causa. Da tale impostazione consegue, indubbiamente, una tendenza ad espandere la forza del giudicato oltre ciò che è stato oggetto di effettivo dibattito fra le parti, con l’effetto di cristallizzare tutte le questioni che rappresentino altrettanti antecedenti logici di quelle decise.

È noto l’orientamento che ha esteso il giudicato implicito – in precedenza applicabile alle questioni di merito “assorbite”, ossia non trattate perché prospettate in via subordinata all’accoglimento della principale e, conseguentemente, non affrontate nella motivazione della sentenza pur se implicitamente decise – anche alla questione pregiudiziale di rito concernente la giurisdizione.

Le Sezioni Unite della Corte hanno affermato che ogni decisione di merito, ancorché non accompagnata da alcuna espressa statuizione sulla giurisdizione, implica, di regola, la preventiva verifica della potestas iudicandi da parte del giudice che la ha emessa. Conseguentemente, in siffatti casi, la mancata proposizione in appello della questione di giurisdizione integra un comportamento incompatibile con la volontà di dedurre il difetto di giurisdizione, valutabile sotto il profilo dell’acquiescenza, con l’effetto di determinare la formazione del giudicato sul punto e di precludere la stessa possibilità di proporre o di rilevare d’ufficio la questione relativa al difetto di giurisdizione nel giudizio di legittimità.

Icastico, in tal senso, è il dictum delle Sezioni Unite, secondo cui l’interpretazione dell’art. 37 c.p.c., secondo cui il difetto di giurisdizione “è rilevato, anche d’ufficio, in qualunque stato e grado del processo”, deve tenere conto dei principi di economia processuale e di ragionevole durata del processo (“asse portante della nuova lettura della norma”), della progressiva forte assimilazione delle questioni di giurisdizione a quelle di competenza e dell’affievolirsi dell’idea di giurisdizione intesa come espressione della sovranità statale, essendo essa un servizio reso alla collettività con effettività e tempestività, per la realizzazione del diritto della parte ad avere una valida decisione nel merito in tempi ragionevoli. All’esito della nuova interpretazione della predetta disposizione, volta a delinearne l’ambito applicativo in senso restrittivo e residuale, ne consegue che: 1) il difetto di giurisdizione può essere eccepito dalle parti anche dopo la scadenza del termine previsto dall’art. 38 c.p.c. (non oltre la prima udienza di trattazione), fino a quando la causa non sia stata decisa nel merito in primo grado; 2) la sentenza di primo grado di merito può sempre essere impugnata per difetto di giurisdizione; 3) le sentenze di appello sono impugnabili per difetto di giurisdizione soltanto se sul punto non si sia formato il giudicato esplicito o implicito, operando la relativa preclusione anche per il giudice di legittimità; 4) il giudice può rilevare anche d’ufficio il difetto di giurisdizione fino a quando sul punto non si sia formato il giudicato esplicito o implicito. In particolare, il giudicato implicito sulla giurisdizione può formarsi tutte le volte che la causa sia stata decisa nel merito, con esclusione per le sole decisioni che non contengano statuizioni che implicano l’affermazione della giurisdizione, come nel caso in cui l’unico tema dibattuto sia stato quello relativo all’ammissibilità della domanda o quando dalla motivazione della sentenza risulti che l’evidenza di una soluzione abbia assorbito ogni altra valutazione (ad esempio, per manifesta infondatezza della pretesa) ed abbia indotto il giudice a decidere il merito per saltum, non rispettando la progressione logica stabilita dal legislatore per la trattazione delle questioni di rito rispetto a quelle di merito. (Sez. U, n. 24883/2008, Merone, Rv. 604576-01, nella specie le Sezioni Unite hanno giudicato inammissibile l’eccezione di difetto di giurisdizione sollevata per la prima volta in sede di legittimità dalla parte che, soccombente nel merito in primo grado, aveva appellato la sentenza del giudice tributario senza formulare alcuna eccezione sulla giurisdizione, così ponendo in essere un comportamento incompatibile con la volontà di eccepire il difetto di giurisdizione e prestando acquiescenza al capo implicito sulla giurisdizione della sentenza di primo grado, ai sensi dell’art. 329, comma 2, c.p.c.; v. anche Sez. U, n. 26019/2008, Morcavallo, Rv. 604949-01; Sez. U, n. 29523/2008, Triola, Rv. 605914-01).

Nello stesso senso, la Corte di cassazione, nella sua massima espressione, ha ribadito che, «allorché il giudice di primo grado abbia pronunciato nel merito, affermando, anche implicitamente, la propria giurisdizione e le parti abbiano prestato acquiescenza, non contestando la relativa sentenza sotto tale profilo, non è consentito al giudice della successiva fase impugnatoria rilevare d’ufficio il difetto di giurisdizione, trattandosi di questione ormai coperta dal giudicato implicito (Nella specie, la S.C., pronunciando sul ricorso proposto avverso una sentenza del giudice di pace, che aveva accolto la domanda formulata da alcuni messi comunali, volta ad ottenere il pagamento di un compenso per l’attività di notificazione di certificati elettorali, in occasione di varie consultazioni elettorali succedutesi nel tempo, hanno proceduto ad esaminare il motivo proposto con riguardo all’incompetenza funzionale del giudice di pace, escludendo, in applicazione del su esteso principio, la possibilità di poter rilevare d’ufficio il difetto di giurisdizione del giudice ordinario, relativamente alle attività di consegna anteriori al 1.7.1998)» (Sez. U, n. 27531/2008, Tirelli, Rv. 605701-01; conf. Sez. U, n. 28503/2017, Lombardo, Rv. 646254-01).

Non è dubbio che l’orientamento illustrato abbia esercitato un profondo influsso sul tema relativo all’ordine di esame delle questioni, avendo esso, in sostanza, affermato che la decisione di una causa nel merito in primo grado implica che il giudice si sia pronunciato affermativamente, ancorché implicitamente, sulla propria giurisdizione, di talché, per contestare tale affermazione, è richiesta la formulazione di uno specifico motivo d’appello, essendo altrimenti precluso al giudice dell’impugnazione e a quello di legittimità l’esame officioso della questione.

Vi è, peraltro, un preciso limite all’applicazione del giudicato implicito in tema di giurisdizione: la Corte afferma, infatti, che «il giudicato implicito sulla giurisdizione può formarsi tutte le volte che la causa sia stata decisa nel merito, con esclusione per le sole decisioni che non contengano statuizioni che implicano l’affermazione della giurisdizione», come nel caso in cui «l’unico tema dibattuto sia stato quello relativo all’ammissibilità della domanda o quando dalla motivazione della sentenza risulti che l’evidenza di una soluzione abbia assorbito ogni altra valutazione (ad es., per manifesta infondatezza della pretesa) ed abbia indotto il giudice a decidere il merito per saltum, non rispettando la progressione logica stabilita dal legislatore per la trattazione delle questioni di rito rispetto a quelle di merito» (Sez. U, n. 29523/2008, cit.; conf. anche Sez. U, n. 28503/2017, cit.)

Dal sistema delineato dalla giurisprudenza della Suprema Corte si può trarre, dunque, che l’ordine delle questioni in sede deliberativa, così come delineato dal codice di rito, diviene “sostanzialmente” vincolante, introducendosi una “doverosa progressione”, nell’esame delle questioni, nel senso che il giudice deve seguire l’ordine logico-giuridico nella loro analisi, quale condizione imprescindibile per determinare la formazione, anche sulle questioni non apertamente discusse, del giudicato implicito.

Specularmente, resta al di fuori dal campo dell’applicazione del giudicato implicito in tema di giurisdizione l’ipotesi in cui la decisione di merito sia stata determinata dall’evidenza della ragione più liquida. Invero, allorché dalla decisione possa rilevarsi in modo manifesto che l’esame immediato di una domanda abbia assorbito ogni altra questione per la sua evidenza, mancheranno i presupposti per affermare la sussistenza di una statuizione implicita sulla giurisdizione. Tale ultima opzione decisoria, va rimarcato, non incorre in alcuna sanzione, poiché la decisione di una questione “a valle”, di più agevole soluzione e di efficacia risolutiva, prescindendo dalle questioni “a monte”, non può dirsi illegittima o viziata, risultando, peraltro, assoggettata al rischio di impugnazione ed alla possibilità che il giudice superiore sollevi d’ufficio determinate questioni di rito.

Quest’ultima impostazione è stata fatta propria da Sez. U, n. 13195/2018, Scarano, Rv. 648680-01, nell’enunciare il principio secondo cui la parte pienamente vittoriosa nel merito in primo grado, in ipotesi di gravame formulato dal soccombente, non ha l’onere di proporre appello incidentale per richiamare in discussione le proprie domande o eccezioni non accolte nella pronuncia, da intendersi come quelle che risultino superate o non esaminate perché assorbite; in tal caso la parte è soltanto tenuta a riproporle espressamente nel giudizio di appello o nel giudizio di cassazione in modo tale da manifestare la sua volontà di chiederne il riesame, al fine di evitare la presunzione di rinunzia derivante da un comportamento omissivo. Nella specie, in particolare, la Corte di legittimità ha annullato la sentenza di merito che aveva ritenuto implicitamente rigettata un’eccezione di prescrizione, da considerarsi, invece, semplicemente assorbita dalla pronuncia, in quanto fondata sul criterio della ragione più liquida.

Sul problema si sofferma diffusamente anche Sez. U, n. 26242/2014, Travaglino, cit., che, trattando della questione attinente ai rapporti tra nullità del contratto e giudicato implicito, conclude nel senso che «la mancanza di qualsivoglia rilevazione/dichiarazione della nullità in sentenza è idonea, in linee generali ma non in via assoluta, e non senza eccezioni, a costituire giudicato implicito sulla validità del contratto. Questo perché «l’assunto della inossidabile primazia del rito rispetto al merito» va disatteso sulla base di alcuni principi che evidenziano come, in effetti, tale primazia non sussista. Uno di questi, è il concetto di ragione più liquida, che, prosegue la sentenza, «significa, in particolare, che, nell’ipotesi del rigetto della domanda, occorre dare priorità alla ragione più evidente, più pronta, più piana, che conduca ad una decisione indipendentemente dal fatto che essa riguardi il rito o il merito». Alla base di tale criterio vi è un’evidente esigenza di una maggiore economia processuale, poiché la sua applicazione consentirà di ridurre l’attività istruttoria e quella di stesura della motivazione.

Proprio in tale prospettiva, non si è mancato di evidenziare come, pur in mancanza di sanzione espressa, la violazione dell’ordine delle questioni nella dinamica interna fra questioni pregiudiziali di rito e questioni di merito, possa innescare non lievi questioni in tema d’impugnazione, «non essendo sempre agevole comprendere se il criterio seguito sia stato quello della ragione più liquida o si tratta di una questione assorbita, ovvero implicitamente decisa» (Acierno, Op. loc. cit.), con un corollario di “diseconomie di sistema”, quali la rilevazione della pregiudiziale da parte dal giudice superiore con conseguente retrocessione del procedimento al grado precedente, ovvero il rischio che il giudice del grado superiore qualifichi come decisione implicita quella che in realtà sia riconducibile al criterio della ragione più liquida: diseconomie potenzialmente tali da elidere il vantaggio insito nella decisione sul merito per saltum.

Parzialmente diverso sembra essere il discorso relativo ai rapporti tra più questioni di merito, rispetto alle quali la progressione logica appare legata più ad un rapporto di allineamento o di concatenazione fra le stesse, onde l’adozione del criterio della ragione più liquida rappresenta l’estrinsecazione di un criterio di economia processuale che può consentire al giudice di superare l’ordine delle questioni, senza tener conto di alcuni antecedenti logici della decisione, entro il limite della domanda di parte e dell’obbligo di motivazione.

3. Ragione più liquida e ricadute applicative. In particolare, i corollari in tema di ricorso incidentale condizionato.

Nella dimensione sistematica che si è tratteggiata si inseriscono, altresì, alcune recenti decisioni della Sezione tributaria.

Sez. 5, n. 11458/2018, Zoso, Rv. 648510-01, ha ribadito la portata essenziale del principio della “ragione più liquida” affermando che, in virtù di tale principio processuale, la causa può essere decisa sulla base della questione ritenuta di più agevole soluzione, anche se logicamente subordinata, senza che sia necessario esaminare previamente le altre, imponendosi, a tutela di esigenze di economia processuale e di celerità del giudizio, un approccio interpretativo che comporti la verifica delle soluzioni sul piano dell’impatto operativo piuttosto che su quello della coerenza logico sistematica e sostituisca il profilo dell’evidenza a quello dell’ordine delle questioni da trattare ai sensi dell’art. 276 c.p.c. Nella specie, la S.C. ha rigettato il ricorso dell’Agenzia delle entrate in controversia concernente l’impugnazione di cartella esattoriale per l’imposta complementare relativa ad una dichiarazione di successione, sulla base del rilievo che la limitazione della responsabilità dell’erede per i debiti ereditari, derivante dall’accettazione dell’eredità con beneficio d’inventario, è opponibile a qualsiasi creditore, ivi compreso l’erario, che, di conseguenza, pur potendo procedere alla notifica dell’avviso di liquidazione nei confronti dell’erede, non può esigere l’imposta ipotecaria, catastale o di successione sino a quando non si sia chiusa la procedura di liquidazione dei debiti ereditari, e sempre che sussista un residuo attivo in favore dell’erede. Nel caso di specie, risultava che, al momento della notifica della cartella, la procedura di liquidazione dei debiti ereditari non era ancora chiusa, donde l’illegittimità della cartella impugnata, accertata direttamente dalla Corte senza il preventivo esame delle ulteriori questioni dedotte con gli altri motivi di ricorso.

Una peculiare applicazione dello stesso principio processuale – nella specie, peraltro, conducente ad esiti sovrapponibili a quelli scaturenti dal rispetto dell’ordine delle questioni – ha condotto, altresì, la Corte a ritenere che l’accertamento della tardività del ricorso introduttivo, impedendo al giudice di conoscere della causa, ha carattere preliminare rispetto alla verifica della necessità di integrazione del contraddittorio e, in sede di decisione, la relativa questione deve essere esaminata con priorità, in omaggio sia del principio della “ragione più liquida” che di quello dell’ordine logico delle questioni (Sez. 5, n. 30100/2018, Fracanzani, Rv. 651556-01).

La declinazione del principio in esame incontra, inoltre, uno specifico terreno di elezione in tema di ricorso incidentale condizionato.

Nel panorama giurisprudenziale del 2018, va segnalata, in questo senso, Sez. 5, n. 09671/2018, Fuochi Tinarelli, Rv. 647714-01, che ha affermato il principio per il quale il ricorso incidentale condizionato, proposto dalla parte interamente vittoriosa su questioni pregiudiziali decise in senso ad essa sfavorevole nella precedente fase di merito, può essere esaminato e deciso con priorità, senza tenere conto della sua subordinazione all’accoglimento del ricorso principale, quando sia fondato su una ragione più liquida che consenta di modificare l’ordine delle questioni da trattare, in adesione alle esigenze di celerità del giudizio e di economia processuale di cui agli artt. 24 e 111 Cost.

In applicazione dell’enunciato principio, la Corte ha ritenuto logicamente pregiudiziale l’esame del ricorso incidentale, con il quale era stata denunciata la violazione dell’art. 112 c.p.c., per non aver il giudice del gravame accolto l’appello incidentale, con il quale era stata chiesta una declaratoria accertativa del passaggio in giudicato della sentenza di primo grado, e, ritenuta la sua fondatezza, lo ha accolto, dichiarando, conseguentemente, inammissibile il ricorso principale.

In motivazione, la S.C. ha puntualizzato che la natura condizionata del ricorso incidentale, in quanto proposto dalla parte interamente vittoriosa con riferimento ad una questione pregiudiziale rimasta assorbita, non ne preclude l’esame (e la decisione) con priorità, quando sia fondato su una ragione più liquida, che consenta di modificare l’ordine delle questioni da trattare, in adesione alle esigenze di celerità del giudizio e di economia processuale di cui agli artt. 24 e 111 Cost. Tale conclusione vale, a maggior ragione, quando, – come nel caso di specie, ove veniva in considerazione un’eccezione di giudicato interno – la questione poteva essere rilevata d’ufficio, onde era possibile superare la volontà della parte, manifestata con la proposizione del ricorso incidentale condizionato, di subordinare l’esame dell’impugnazione all’accoglimento del ricorso principale.

La decisione in esame, inoltre, nel richiamare Sez. U, n. 23019/2007, Vitrone, Rv. 600072-01, ha rilevato che la questione riproposta con il ricorso incidentale condizionato in cassazione era stata del tutto trascurata dal giudice dell’appello, che ne aveva omesso ogni cenno, sicché l’esame con priorità era da ritenersi pacificamente ammissibile.

Come già posto in evidenza dalla Relazione di questo Ufficio n. 74 del 23 luglio 2018, la decisione sopra richiamata si inserisce consapevolmente in un panorama di decisioni, successive all’ultima pronunzia a Sezioni Unite sull’argomento (Sez. U, n. 07381/2013, Amatucci, Rv. 625558–01), che adottano diversi approcci interpretativi alla questione. In tale prospettiva, può rilevarsi che l’avere fatto seguire al primo argomento posto a fondamento della decisione, radicato sulla ragione più liquida, le ulteriori considerazioni incentrate sulla rilevabilità d’ufficio della questione fatta valere con il ricorso incidentale condizionato e sulla mancanza di una pronuncia del giudice di merito su tale questione rilevabile d’ufficio, sembra essere diretto ad evidenziare che, anche seguendo tesi diverse da quella accolta, si sarebbe comunque potuto pervenire all’esame prioritario del ricorso incidentale condizionato.

Improntata a registri ermeneutici conformi alla pronuncia appena esaminata è Sez. L, n. 23531/2016, Cavallaro, Rv. 642082-01, la quale ha ritenuto che il ricorso incidentale condizionato, proposto dalla parte interamente vittoriosa, su questioni pregiudiziali decise in senso ad essa sfavorevole nella precedente fase di merito, può essere esaminato e deciso con priorità, senza tenere conto della sua subordinazione all’accoglimento del ricorso principale, se è fondato su una ragione più liquida, che consenta di modificare l’ordine delle questioni da trattare, in adesione alle esigenze di celerità del giudizio e di economia processuale di cui agli artt. 24 e 111 Cost. In tale occasione, il collegio decidente ha fatto applicazione dell’enunciato principio in tema di revoca della pensione, affermando, in accoglimento del ricorso incidentale condizionato, l’improponibilità della domanda giudiziale per difetto di domanda amministrativa, laddove la corte d’appello aveva dichiarato la decadenza ai sensi dell’art. 42 del d.l. n. 269 del 2003, conv. in l. n. 326 del 2003.

Una distinta posizione ermeneutica sembra ispirare, invece, un altro gruppo di decisioni.

Fra esse, va richiamata Sez. 3, n. 06138/2018, Iannello, Rv. 648420- 01, secondo la quale, alla stregua del principio costituzionale della ragionevole durata del processo, il cui fine primario è la realizzazione del diritto delle parti ad ottenere risposta nel merito della vertenza, il ricorso incidentale proposto dalla parte totalmente vittoriosa nel giudizio di merito, che investa questioni pregiudiziali di rito, comprese quelle attinenti alla giurisdizione, o preliminari di merito, ha natura di ricorso condizionato, indipendentemente da ogni indicazione della parte, e deve essere esaminato con priorità solo se le questioni pregiudiziali di rito o preliminari di merito, rilevabili d’ufficio, non siano state oggetto di decisione esplicita o implicita da parte del giudice di merito. Qualora, invece, sia intervenuta detta decisione, tale ricorso incidentale va esaminato dalla Corte di cassazione solo in presenza dell’attualità dell’interesse, sussistente unicamente nell’ipotesi della fondatezza del ricorso principale.

Ai principi espressi da tale decisione aderisce, con specifico riferimento al giudizio di appello, Sez. 1, n. 04047/2016, Ragonesi, Rv. 638862-01, ha ritenuto che l’appello incidentale che investa una questione preliminare di merito, proposto dalla parte totalmente vittoriosa in primo grado, ha natura di gravame condizionato, indipendentemente da ogni espressa indicazione, sicché, ove la suddetta questione (nella specie, carenza di legittimazione passiva) sia stata oggetto di decisione esplicita o implicita ad opera del primo giudice, quello di secondo grado deve esaminarla solo in presenza dell’attualità dell’interesse e, cioè, unicamente nell’ipotesi di fondatezza dell’impugnazione principale, mentre, in caso contrario, non può rigettarla, restando la stessa assorbita.

L’impostazione da ultimo enunciata confluisce nell’alveo dell’orientamento fatto proprio dalle Sezioni Unite (da ultimo, Sez. U, n. 07381/2013, Amatucci, Rv. 625558–01), secondo cui, nel giudizio di cassazione, il ricorso incidentale proposto dalla parte totalmente vittoriosa nel giudizio di merito, che investa questioni preliminari di merito o pregiudiziali di rito (quale l’improponibilità dell’appello, comunque rigettato, in relazione all’intervenuta rinuncia preventiva all’impugnazione, disattesa nella sentenza gravata sul presupposto della nullità di detta rinuncia) ha natura di ricorso condizionato all’accoglimento del ricorso principale, indipendentemente da ogni espressa indicazione di parte, sicché, laddove le medesime questioni pregiudiziali di rito o preliminari di merito siano state oggetto di decisione esplicita o implicita da parte del giudice di merito, tale ricorso incidentale deve essere esaminato dalla Corte solo in presenza dell’attualità dell’interesse, ovvero unicamente nell’ipotesi della fondatezza del ricorso principale; un principio analogo, ispirato alla tutela del valore costituzionalmente tutelato della ragionevole durata del processo, secondo il quale fine primario di ogni giudizio è la realizzazione del diritto delle parti ad ottenere una risposta sul merito della lite, era stato enunciato da Sez. U, n. 05456/2009, Segreto, Rv. 606973-01 anche con riferimento alle questioni attinenti alla giurisdizione (cfr. anche Sez. U, n. 23019/2007, Vitrone, Rv. 600072-01; Sez. U, n. 26018/2008, Morcavallo, Rv. 604946-01).

In conclusione, dunque, dal panorama delle decisioni citate sembrano emergere differenti visioni circa i limiti entro i quali il giudice di legittimità può esaminare direttamente le questioni pregiudiziali di rito o preliminari di merito introdotte con il ricorso incidentale condizionato, ritenendosi dal primo orientamento esaminato che le stesse possano sempre essere esaminate prioritariamente quando si tratta di questioni suscettibile di decisione più liquida, mentre secondo l’orientamento espresso nelle decisioni da ultimo richiamate, si ritiene che tale esame prioritario sia possibile solo se si tratta di questioni preliminari di merito o pregiudiziali di rito, rilevabili d’ufficio, che non siano state oggetto di una decisione esplicita o implicita del giudice di merito.

Va, infine, accennato ad un ulteriore profilo ermeneutico: sebbene, secondo l’orientamento maggioritario, il ricorso incidentale debba essere qualificato come condizionato, ove riguardi questioni preliminari di merito o pregiudiziali di rito in relazione alle quali la parte vittoriosa nel merito sia rimasta soccombente, indipendentemente dalle indicazioni offerte dalla parte stessa, secondo altra impostazione tali indicazioni sarebbero rilevanti, nel senso che, qualora la parte abbia proposto ricorso incidentale non condizionato, pur prospettando questioni preliminari di merito o pregiudiziali di rito – ed indipendentemente dalla loro rilevabilità o meno d’ufficio -, tali questioni devono essere esaminate comunque prioritariamente, perché, si ritiene, la rilevabilità d’ufficio rileva solo nel caso di ricorso incidentale condizionato, con ciò consentendo di disattendere l’ordine nell’esame delle questioni, imposto dalla parte. In tal senso, Sez. 1, n. 23271/2014, Rv. 633364-01, ha affermato che, nel giudizio in cassazione, il ricorso incidentale proposto senza essere condizionato, se investe pregiudiziali di rito o preliminari di merito la cui decisione, secondo l’ordine logico e giuridico, debba precedere quella del merito del ricorso principale, deve senza dubbio essere esaminato per primo, indipendentemente dalla rilevabilità d’ufficio delle questioni proposte, posto che la rilevabilità d’ufficio assume importanza solo al fine di potere superare, nel caso di ricorso incidentale condizionato, la volontà della parte, espressasi nel senso di subordinare la propria impugnazione all’accoglimento (e quindi al previo esame) del ricorso principale.

Per converso, in caso di ricorso incidentale non condizionato, l’interesse all’impugnazione sorge per il solo fatto che il ricorrente incidentale è soccombente sulla questione pregiudiziale o preliminare, decisa in senso a lui sfavorevole, così da rendere incerta la vittoria conseguita sul merito dalla stessa proposizione del ricorso principale e non già dalla sua eventuale fondatezza.

  • giurisdizione civile

CAPITOLO XII

LE IMPUGNAZIONI IN GENERALE

(di Gian Andrea Chiesi )

Sommario

1 Profili generali. - 2 La soccombenza. - 2.1 (segue). La soccombenza, tra spese di lite e raddoppio del contributo unificato. - 3 I termini di impugnazione: il termine cd. breve - 3.1 (segue) Termine breve e sopravvenienze. - 3.2 (segue) Il termine cd. lungo. - 3.3 (segue) Profili comuni ai due termini di impugnazione. - 3.4 Le impugnazioni incidentali. - 4 La pluralità di parti in primo grado: effetti sull’impugnazione. - 5 Il contumace involontario.

1. Profili generali.

L’art. 324 c.p.c. chiarisce quali sono i mezzi per impugnare le sentenze, individuando gli stessi nel regolamento di competenza, nell’appello, nel ricorso per cassazione, nella revocazione e nell’opposizione di terzo; cionondimeno, la classificazione più ricorrente in materia è quella che distingue i mezzi di impugnazione in (a) ordinari e (b) straordinari: i primi, proponibili fino al passaggio in giudicato della decisione che intendono censurare, sono il regolamento di competenza, l’appello, il ricorso per cassazione e la revocazione per i motivi indicati nei nn. 4 e 5 dell’art. 395 c.p.c.; i secondi, indifferenti al passaggio in giudicato della sentenza, sono invece individuati nella revocazione per i motivi indicati nei nn. 1, 2, 3 e 6 dell’art. 395 c.p.c. e nell’opposizione di terzo. Indipendentemente dalla disciplina specifica dettata per ciascuno dei mezzi di impugnazione predetti, il codice di rito si preoccupa di definire alcune regole comuni, trasversalmente applicabili a tutti i mezzi di impugazione nonché, in quanto compatibili, anche al processo tributario, come previsto dall’art. 49 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546. Rinviando agli specifici capitoli per ciò che concerne i singoli mezzi di impugnazione, ci si soffermerà, nella presente trattazione, sulle regole “comuni” che presiedono agli stessi.

2. La soccombenza.

Essenziale per l’esercizio della facoltà di impugnazione (anche tardiva – cfr. infra) è, al pari di quanto previsto dall’art. 100 c.p.c. relativamente al giudizio di prime cure, l’esistenza di un interesse – concreto ed attuale – alla proposizione del mezzo di gravame, interesse ravvisabile nella “soccombenza” nel suo aspetto sostanziale e, cioè, nel pregiudizio che la parte subisca a causa della decisione, da apprezzarsi in relazione all’utilità giuridica che può derivare, al proponente il gravame, dall’eventuale suo accoglimento (Sez. 3, n. 13395/2018, Spaziani, Rv. 649038-02): così, Sez. 2, n. 00722/2018, Scarpa, Rv. 647150-01, esclude la sussistenza di un interesse all’impugnazione della parte integralmente vittoriosa con riguardo alle enunciazioni contenute nella motivazione della sentenza, salvo che dalle stesse non possa dedursi una statuizione implicita suscettibile di passare in giudicato, perché presupposto necessario della decisione, e dalla quale possa derivare un concreto pregiudizio (nella specie, la S.C. ha ritenuto inammissibile il ricorso per cassazione proposto dai proprietari di una strada privata che, nonostante fosse stata accolta la loro domanda volta ad interdire al convenuto l’accesso alla stessa, contestavano l’affermazione, contenuta nella sentenza di appello, dell’esistenza di una servitù di uso pubblico su tale strada in quanto non suscettibile di passare in giudicato); del pari, Sez. 2, n. 30945/2018, Bellini, Rv. 651539-01, evidenzia come, in tema di condanna al pagamento delle spese processuali, il debitore non ha interesse a criticare il relativo capo della sentenza per il solo fatto che tale condanna sia stata pronunciata a favore del difensore della sua controparte, anziché della stessa parte rappresentata dal difensore, giacché l’art. 93 c.p.c. attiene ai rapporti tra la parte e il suo difensore, onde il rispetto, o meno, di detta disposizione normativa non incide in alcun modo sulla posizione giuridica dell’altra parte che venga condannata a pagare le spese del giudizio, atteso che la sua situazione processuale non può ritenersi aggravata perché il pagamento è stato disposto direttamente nei confronti del difensore e non della parte personalmente.

Ricorrente nella prassi è, poi, il caso affrontato da Sez. U, n. 22439/2018, Giusti, Rv. 650463-01, a proposito dela parte attrice la cui domanda sia rigettata nel merito e che, facendo valere attraverso lo strumento dell’impugnazione il difetto di giurisdizione dell’autorità giudiziaria da essa stessa adita, miri ad ottenere una pronunzia che, attraverso il meccanismo della translatio, abbia l’effetto (indiretto) di porre nel nulla proprio quella decisione a sé sfavorevole: orbene nel ribadire il proprio consolidato orientamento sul punto (Sez. U, n. 21260/2016, Giusti, Rv. 641347-01), la S.C. ha evidenziato come, in tal caso, l’attore non è legittimato ad interporre appello contro la sentenzaper denunciare il difetto di giurisdizione del giudice da lui stesso prescelto giacché, di fronte ad una sentenza di rigetto della domanda, non è ravvisabile una sua soccombenza anche sulla questione di giurisdizione, capo relativamente al quale l’attore va considerato, al contrario, a tutti gli effetti vincitore, avendo il giudice riconosciuto la sussistenza del proprio dovere di decidere il merito della causa, così come implicitamente o esplicitamente sostenuto dallo stesso attore, che a quel giudice si è rivolto con l’atto introduttivo della controversia, per chiedere una risposta al suo bisogno individuale di tutela. Relativamente a tale pronuncia a contenuto processuale di segno positivo, dunque, non è configurabile, a carico dell’attore, alcuna soccombenza, che del potere di impugnativa rappresenta l’antecedente necessario; la soccombenza nel merito non può essere trasferita, cioè, sul (e utilizzata per censurare il) diverso capo costituito dalla definizione endoprocessuale della questione di giurisdizione, trattandosi di aspetto non destinato, per sua natura, a differenza di ciò che avviene con riguardo ad altre questioni pregiudiziali di rito, a condizionare l’efficacia e l’utilità stessa della decisione adottata.

2.1. (segue). La soccombenza, tra spese di lite e raddoppio del contributo unificato.

La soccombenza non si pone solo quale antecedente necessario rispetto alla stessa ammissibilità del gravame (individuando, come detto, i soggetti legittimati alla sua proposizione), ma è nozione che, sotto diverso angolo prospettico, consente – non dissimilmente da quanto avviene nel giudizio di primo grado – la regolamentazione delle spese di lite nonché – quale proprium di quello di impugnazione (inclusi, dunque, il regolamento di competenza – Sez. 6-L, n. 11331/2014, Marotta, Rv. 630910-01 – il ricorso per cassazione avverso le decisioni in materia disciplinare del Consiglio Nazionale Forense – Sez. U, n. 09558/2018, Perrino, Rv. 648104-02 – e la revocazione, ma non il procedimento di correzione degli errori materiali – Sez. 6-3, n. 23914/2018, Rossetti, Rv. 651362-01) – la condanna al pagamento del doppio del contributo unificato, secondo quanto previsto, per i procedimenti iniziati in data successiva al 30 gennaio 2013, dall’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della l. n. 228 del 2012.

Con specifico riferimento a tale ultima disposizione, nella ricorrenza dei relativi presupposti applicativi, il giudice dell’impugnazione è vincolato, pronunziando il provvedimento che la definisce, a dare atto – senza ulteriori valutazioni decisionali, trattandosi di fatti insuscettibili di diversa estimazione – della loro sussistenza (Sez. 3, n. 05955/2014, De Stefano, Rv. 630551-01), competendo al contrario in via esclusiva all’Amministrazione valutare se, nonostante l’attestato tenore della pronuncia, spetti in concreto la doppia contribuzione, con la conseguenza che, qualora l’Amministrazione constati l’esenzione o la prenotazione a debito – come nel caso di patrocinio a spese dello Stato – le ulteriori deliberazioni rimangono di sua spettanza ed è contro di esse che potrà estrinecarsi la reazione della parte, mediante i mezzi di tutela avverso l’eventuale illegittima pretesa di riscossione, senza che l’attestazione del giudice civile possa leggersi come di debenza della doppia contribuzione, non avendo essa tale oggetto (Sez. 3, n. 13055/2018, Frasca, Rv. 649105-02 nonché Sez. 6-1, n. 15166/2018, Sambito, Rv. 649329-01 e Sez. 3, n. 26907/2018, Frasca, Rv. 651141-01). Precisa ulteriormente Sez. 6- 3, n. 08170/2018, Vincenti, Rv. 648699-01 che il relativo capo del provvedimento di definizione dell’impugnazione è insuscettibile di autonoma impugazione, non essendo dotato di contenuto condannatorio o declaratorio sicché, l’eventuale errore del giudice può solo consentire un’attestazione ex lege della non debenza del detto ulteriore contributo), la regola ivi contemplata non opera (a) nei confronti di quelle parti della fase o del giudizio di impugnazione, come le Amministrazioni dello Stato, che siano istituzionalmente esonerate, per valutazione normativa della loro qualità soggettiva, dal materiale versamento del contributo stesso, mediante il meccanismo della prenotazione a debito (Sez. 3, n. 05955/2014, De Stefano, Rv. 630550-01 e Sez. 6-L, n. 01778/2016, Mancino, Rv. 638714-01) né (b) nelle controversie devolute alle sezioni specializzate agrarie ex lege n. 320 del 1963 che, pur non annoverate tra quelle esentate dal contributo unificato dagli artt. 9 e 10 del d.P.R. n. 115 del 2002, cionondimeno continuano ad essere esentate da detto contributo in virtù della non abrogata norma di cui all’art. 3 della l. n. 283 del 1957 (Sez. 3, n. 06227/2016, Graziosi, Rv. 639365-01).

Per altro verso, poi, la condanna al pagamento del doppio del contributo unificato è del tutto svincolata dalla condanna alle spese, trovando il proprio fondamento nel fatto oggettivo del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, del gravame (Sez. 6-3, n. 10306/2014, Amendola A., Rv. 630896- 01) ed è, invece, intimamente connessa al momento di proposizione del gravame, nel senso che, come chiarito da Sez. 6-2, n. 13636/2015, Giusti, Rv. 635682-01, la ratio della previsione va individuata nella finalità di scoraggiare le impugnazioni dilatorie o pretestuose: sicché tale meccanismo sanzionatorio si applica per l’inammissibilità originaria del gravame ma non per quella sopravvenuta (ad esempio, per sopravvenuto difetto di interesse). Consegue da quanto precede che, nell’ipotesi di rinuncia al ricorso per cassazione da parte del contribuente per adesione alla definizione agevolata (nella specie, di cui al d.l. n. 148 del 2017, conv., con modif., dalla l. n 172 del 2017), ove il presupposto per la rinuncia e, quindi, la causa di inammissibilità del ricorso sia sopravvenuta rispetto alla proposizione del medesimo, non sussistono i presupposti per condannare lo stesso al pagamento del cd. “doppio contributo unificato” (Sez. 6-5, n. 14782/2018, Manzon, Rv. 649019-02); del pari, esclude l’applicabilità dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, la declaratoria di estinzione del giudizio di gravame (Sez. 5, n. 25485/2018, Fuochi Tinarelli, Rv. 650803-01).

3. I termini di impugnazione: il termine cd. breve

Le impugnazioni ordinarie, come detto, sono soggette, ai fini della loro ammissibilità, al rispetto dei termini perentori dettati dagli artt. 325 ss. c.p.c., nel senso che il decorso di questi ultimi determina il passaggio in giudicato del provvedimento. I termini in questione sono sostanzialmente di due tipi: a) uno cd. breve (cfr. gli artt. artt. 325 e 326 c.p.c.), diverso a seconda che riguardi il regolamento di competenza, l’appello, la revocazione e l’opposizione di terzo revocatoria (nel qual caso è di trenta giorni) oppure riguardi il ricorso per cassazione (nel qual caso è di sessanta giorni), il cui dies a quo di decorrenza è variamente indicato a seconda del tipo di impugnazione; b) uno cd. lungo (l’art. 327 c.p.c.), di sei mesi, decorrente dalla pubblicazione della sentenza.

Prendendo le mosse dal termine cd. breve, lo stesso decorre, di regola, dalla notificazione, effettuata ai sensi degli artt. 285 e 286 c.p.c., del provvedimento suscettibile di impugnazione: tale principio vale anche in caso di sentenza pronunciata a seguito di discussione orale, ex art. 281-sexies c.p.c., non potendosi considerare equipollente la lettura del dispositivo e della motivazione in udienza (Sez. 3, n. 19743/2014, Ambrosio A., Rv. 632819-01). A tale riguardo, però, occorre considerare il principio affermato, sia pure con riferimento al diverso termine cd. lungo ex art. 327 c.p.c., da Sez. 6-3, n. 19908/2018, Scarano, Rv. 650289-01, per il quale la sentenza pronunciata a norma dell’art. 281-sexies c.p.c. con lettura del dispositivo in udienza ma senza contestuale motivazione, benché viziata, in quanto non conforme al modello previsto dalla norma, conserva la sua natura di atto decisionale, dovendosi escludere la sua conversione in valida sentenza ordinaria per essersi consumato il potere decisorio del giudice al momento della sua pubblicazione: sicché il termine lungo per l’impugnazione decorre dalla sottoscrizione del verbale di udienza, ex lege equiparato alla pubblicazione della sentenza, restando invece irrilevante, anche ai fini della tempestività dell’impugnazione, la successiva ed irrituale pubblicazione della motivazione, in quanto estranea alla struttura dell’atto processuale ormai compiuto.

Non incide negativamente, sul decorso del termine breve, la notificazione telematica della sentenza, mediante copia priva della regolare attestazione di conformità all’originale, ma la cui relata contenga l’indicazione della data di pubblicazione e l’attestazione che la stessa, originariamente, recava firma digitale: secondo Sez. L, n. 20747/2018, Bellé, Rv. 650245-03, infatti, tale notificazione è comunque idonea a far decorrere il termine breve per l’impugnazione, salvo che il destinatario deduca e dimostri che tale irregolarità abbia arrecato un pregiudizio alla conoscenza dell’atto e al concreto esercizio del diritto di difesa. Tale principio è conforme alla ratio di fondo, sottostante la disciplina ex artt. 325 e 236 c.p.c., per la quale il termine breve di impugnazione decorre soltanto in forza di una conoscenza “legale” del provvedimento da impugnare, una conoscenza, cioè, conseguita per effetto di un’attività svolta nel processo, della quale la parte sia destinataria o che ella stessa ponga in essere e che sia normativamente idonea a determinare da sé detta conoscenza o tale, comunque, da farla considerare acquisita con effetti esterni rilevanti sul piano del rapporto processuale (Sez. 2, n. 15626/2018, Carrato, Rv. 649179-01). Ove eseguita con modalità telematica, ai sensi degli artt. 3-bis e 11 della l. n. 53 del 1994, occore che la notificazione sia effettuata, a pena di nullità, presso l’indirizzo PEC risultante dai pubblici elenchi di cui all’art. 16-ter del d.l. n. 179 del 2012, conv. con modif. in l. n. 221 del 2012, quale domicilio digitale qualificato ai fini processuali ed idoneo a garantire l’organizzazione preordinata all’effettiva difesa, con la conseguenza che Sez. 6-L, n. 13224/2018, Fedele, Rv. 648685-01, ha ritenuto non idonea a determinare la decorrenza del termine breve di cui all’art. 326 c.p.c. la notificazione della sentenza effettuata ad un indirizzo di PEC diverso da quello inserito nel Reginde e comunque non risultante dai pubblici elenchi, ancorché indicato dal difensore nell’atto processuale. Analoga la posizione assunta da Sez. 3, n. 14914/2018, Iannello, Rv. 649318-01, per la quale, in materia di notificazioni al difensore, a seguito dell’introduzione del “domicilio digitale”, corrispondente all’indirizzo PEC che ciascun avvocato ha indicato al Consiglio dell’Ordine di appartenenza, previsto dall’art. 16 sexies del d.l. n. 179 del 2012, conv. con modif. in l. n. 221 del 2012, come modificato dal d.l. n. 90 del 2014, conv., con modif., in l. n. 114 del 2014, la notificazione dell’atto di appello va eseguita all’indirizzo PEC del difensore costituito risultante dal ReGIndE, pur non indicato negli atti dal difensore medesimo, con conseguente nullità della notificazione effettuata – ai sensi dell’art. 82 del r.d. n. 37 del 1934 – presso la cancelleria dell’ufficio giudiziario innanzi al quale pende la lite, anche se il destinatario abbia omesso di eleggere il domicilio nel Comune in cui ha sede quest’ultimo, a meno che, oltre a tale omissione, non ricorra anche la circostanza che l’indirizzo di posta elettronica certificata non sia accessibile per cause imputabili al destinatario.

In taluni casi, poi, è la comunicazione del provvedimento a segnare, in via eccezionale (arg. da Sez. 1, n. 07154/2018, Campese, Rv. 647842-01), il dies a quo di decorrenza del termine breve: così, ad esempio, il termine breve di trenta giorni, previsto dall’art. 1, comma 58, della l. n. 92 del 2012, per la proposizione del reclamo alla corte di appello avverso la sentenza del tribunale sulla impugnativa di licenziamento di cui all’art. 18 st. lav., decorre solo dalla comunicazione della sentenza o dalla notificazione della stessa se anteriore, senza che rilevi la lettura del provvedimento in esito all’udienza ai sensi dell’art. 429 c.p.c., attesa la specialità del rito rispetto alla disciplina ordinaria e la necessità di interpretare restrittivamente la norma in tema di decadenza dall’impugnazione, escludendosi pertanto la possibilità di individuare un momento di decorrenza della stessa diverso da quello indicato dalla legge (Sez. L, n. 19862/2018, Amendola F., Rv. 650041-01). Del pari, nell’ipotesi di declaratoria di inammissibilità dell’appello ex art. 348-ter c.p.c, la parte che intenda esercitare il diritto di ricorrere in cassazione ai sensi del comma 3 di tale disposizione, deve rispettare il termine di sessanta giorni, di cui all’art. 325, comma 2, c.p.c., che decorre dalla comunicazione dell’ordinanza, ovvero dalla sua notificazione, nel caso in cui la controparte vi abbia provveduto prima della detta comunicazione o se la cancelleria abbia del tutto omesso tale adempimento (Sez. 3, n. 20852/2018, Iannello, Rv. 650427-01).

Specifici termini di decorrenza delle impugnazioni, diversi dalla data di notificazione o di pubblicazione della sentenza, ovvero di sua comunicazione, si applicano, peraltro, nel caso di (a) revocazione straordinaria ex art. 395, nn. 1, 2, 3, e 6 c.p.c. (relativamente alla quale il termine di 30 giorni, decorre, alternativamente, dal giorno in cui è stato scoperto il dolo, in caso di dolo di una delle parti a danno dell’altra; dal giorno in cui è stata scoperta la falsità delle prove, in caso di sentenza pronunciata in base a prove riconosciute o dichiarate false; dal giorno in cui è stato recuperato il documento decisivo, in caso di revocazione fondata sul ritrovamento di esso, quando la parte non abbia potuto produrlo per causa di forza maggiore o per fatto dell’avversario; dal giorno in cui è passata in giudicato la sentenza che ha accertato il dolo del giudice), di (b) revocazione da parte del pubblico ministero ex art. 397 c.p.c. (rispeto alla quale il termine di 30 giorni decorre dal giorno in cui il pubblico ministero ha avuto notizia della sentenza, qualora essa sia stata pronunciata senza che egli sia stato sentito; o dal giorno in cui egli ha scoperto la collusione posta in opera dalle parti per frodare la legge) e (c) di opposizione di terzo revocatoria ex art. 404, comma 2, c.p.c. (nel qual caso il termine di 30 giorni decorre dal giorno in cui è stata scoperto il dopo o la collusione delle parti in danno dei propri creditori e aventi causa sono stati molteplici).

3.1. (segue) Termine breve e sopravvenienze.

Nel corso del 2018, numerosi sono stati gli interventi della S.C. avuto riguardo all’influenza, sul decorso del termine breve, delle modifiche di carattere soggettivo afferenti il destinatario della notifica del provvedimento suscettibile di esser impugnato. Così Sez. 6-1, n. 30835/2018, Falabella, non massimata, ha chiarito che, ove la parte, nel giudizio a quo, abbia eletto domicilio autonomo, ossia presso un domiciliatario diverso dal difensore, il criterio topografico di elezione prevale sul criterio personale, quest’ultimo essendo configurabile soltanto per il domiciliatario che sia anche difensore, con la conseguenza che la sopravvenuta inidoneità del criterio topografico – dovuta al fatto che il domiciliatario non difensore abbia trasferito il proprio studio professionale senza darne avviso alla controparte del domiciliante – legittima la controparte medesima a notificare la sentenza, ai fini della decorrenza del termine breve di impugnazione, presso la cancelleria del giudice a quo, ai sensi dell’art. 82 del r.d. n. 37 del 1934. Del pari, dando seguito ad un orientamento inaugurato da Sez. U, n. 15295/2014, Spirito, Rv. 631467-01, la recente Sez. 5, n. 30341/2018, Guida, Rv. 651560-01, ha precisato che la cancellazione della società dal registro delle imprese dà luogo ad un fenomeno estintivo che priva la stessa della capacità di stare in giudizio, costituendo un evento interruttivo la cui rilevanza processuale è peraltro subordinata, ove la parte sia costituita a mezzo di procuratore, stante la regola dell’ultrattività del mandato alla lite, dalla dichiarazione in udienza ovvero dalla notificazione dell’evento alle altre parti. A tale principio consegue che: a) la notificazione della sentenza fatta a detto procuratore, ex art. 285 c.p.c., è idonea a far decorrere il termine per l’impugnazione nei confronti della società cancellata; b) il medesimo procuratore, qualora originariamente munito di procura alla lite valida per gli ulteriori gradi del processo, è legittimato a proporre impugnazione – ad eccezione del ricorso per cassazione, per cui è richiesta la procura speciale – in rappresentanza della società; c) è ammissibile la notificazione dell’impugnazione presso detto procuratore, ai sensi dell’art. 330, comma 1, c.p.c., senza che rilevi la conoscenza aliunde di uno degli eventi previsti dall’art. 299 c.p.c. da parte del notificante (in senso conforme cfr. anche Sez. 2, n. 20964/2018, Grasso Giu., Rv. 650025-01). Di ulteriore rilievo il principio affermato da Sez. 6-2, n. 24799/2018, Criscuolo, Rv. 651232-01, per cui, in caso di morte del difensore della parte durante la decorrenza del termine per impugnare, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 41 del 1986, opera la disciplina dell’art. 328, comma 1, c.p.c., secondo il quale detto termine si interrompe e comincia a decorrere di nuovo dal giorno in cui è rinnovata la notificazione della sentenza mentre, se tale rinnovazione non viene eseguita, l’impugnazione deve essere proposta nel termine previsto dall’art. 327 c.p.c., decorrente dalla pubblicazione della sentenza, e non dall’evento interruttivo. Si occupa, infine, dell’ipotesi di sospensione del difensore costituito durante la pendenza del termine per l’impugnazione, Sez. 2, n. 11298/2018, Fortunato, Rv. 648323-01, la quale osserva come in tal caso la notificazione della sentenza alla parte personalmente rappresenti l’unico mezzo per far decorrere il termine breve ex art. 325 c.p.c., atteso che, in tal modo, la parte difesa dall’avvocato sospeso è posta in condizione di informarsi circa le ragioni per le quali la notifica è stata eseguita nei confronti suoi anziché del difensore e di designarne tempestivamente un altro, senza che il notificante sia gravato dall’onere di avvisare la controparte destinataria della notifica dell’evento che ha colpito il suo difensore.

3.2. (segue) Il termine cd. lungo.

Quanto al termine cd. lungo, esso decorre dalla data di pubblicazione della sentenza a norma dell’art. 133 c.p.c. e non da quella di comunicazione dell’avvenuto deposito della sentenza alla parte costituita: la data di pubblicazione, peraltro, è attestata dal cancelliere. L’art. 46 della l. n. 69 del 2009 ha ridotto la durata di tale termine da un anno a sei mesi: la nuova previsione è tuttavia applicabile, ai sensi dell’art. 58, comma 1, l. cit., ai soli giudizi instaurati dopo la sua entrata in vigore e, quindi, dal 4 luglio 2009, restando irrilevante il momento dell’instaurazione di una successiva fase o di un successivo grado di giudizio (cfr., da ultimo, Sez. 5, n. 19979/2018, Mengoni, Rv. 650147-01).

Con specifico riferimento al dies a quo di decorrenza di tale termine, Sez. 2, n. 24891/2018, Grasso Giu., Rv. 650663-01, ha affrontato il peculiare caso di redazione della sentenza in formato elettronico e della sua successiva trasmissione al cancelliere: la Corte ha in tale occasione chiarito che il momento a partire dal quale deve ritenersi decorrente il termine ex art. 327 c.p.c. coincide con la data in cui il cancelliere provvede al deposito ufficiale ed al suo inserimento nell’elenco cronologico, con attribuzione del relativo numero identificativo, giacché è solo da tale momento che la sentenza diviene ostensibile agli interessati. La decisione è, nella sostanza, in linea con il principio poco prima affermato, sia pure con riferimento alle sentenze “analogiche”, da Sez. 6-2, n. 18586/2018, Lombardo, Rv. 649658-01, per la quale il cd. termine lungo ex art. 327 c.p.c. decorre dalla data di pubblicazione, cui la norma espressamente si riferisce, ossia dal giorno del suo deposito ufficiale presso la cancelleria del giudice che l’ha pronunciata, attestato dal cancelliere, che costituisce l’atto mediante il quale la decisione viene ad esistenza giuridica, mentre alcuna rilevanza assumono, in mancanza di tale adempimento, la data di deposito della sola minuta, perché mero atto interno all’ufficio che avvia il procedimento di pubblicazione, e quella di inserimento del provvedimento nel registro cronologico, con l’attribuzione del relativo numero identificativo.

Completando, poi, il principio già esposto in precedenza, con riguardo al termine breve, quando è pronunciata l’inammissibilità dell’appello ai sensi dell’art. 348-ter c.p.c., il ricorso per cassazione può essere proposto nel termine lungo di cui all’art. 327 c.p.c. solo qualora risultino omesse sia la comunicazione che la notificazione dell’ordinanza di inammissibilità; sicché, nell’ipotesi in cui l’ordinanza sia stata letta in udienza, si applica il termine breve previsto dall’art. 325, comma 2, c.p.c., decorrente dall’udienza stessa, atteso che la lettura del provvedimento e la sottoscrizione da parte del giudice del verbale che lo contiene non solo equivalgono alla pubblicazione, ma esonerano la cancelleria da ogni ulteriore comunicazione, ritenendosi, con presunzione assoluta di legge, che il provvedimento sia conosciuto dalle parti presenti o che avrebbero dovuto esserlo (Sez. 6-L, n. 17716/2018, Doronzo, Rv. 649866-01): ciò implica, peraltro, che la procedibilità del ricorso per cassazione, ex art. 369, comma 2, c.p.c., consegue ad un duplice onere di deposito, avente ad oggetto la copia autentica sia della sentenza di prime cure sia, per la verifica della tempestività del ricorso medesimo, dell’ordinanza di inammissibilità, con la relativa comunicazione o notificazione; in difetto, il ricorso è improcedibile, salvo che, ove il ricorrente abbia assolto l’onere di richiedere il fascicolo d’ufficio alla cancelleria del giudice a quo, la Corte, nell’esercitare il proprio potere officioso, rilevi che l’impugnazione sia stata proposta nei sessanta giorni dalla comunicazione o notificazione ovvero, in mancanza dell’una e dell’altra, entro il termine cd. lungo di cui all’art. 327 c.p.c. (Sez. U, n. 11850/2018, Manna, Rv. 648274-01)

Analoga equipollenza tra pronuncia in udienza e data di pubblicazione è stata affermata, anzitutto, in tema di procedimento sommario di cognizione: ai fini dell’impugnazione dell’ordinanza conclusiva di tale procedimento, infatti, Sez. 3, n. 16893/2018, Graziosi, Rv. 649509-02, evidenzia come il termine di cui all’art. 327 c.p.c. decorra dalla data della pubblicazione della stessa, la quale coincide con quella dell’udienza in cui viene pronunciata, ovvero con quella del deposito, se emessa fuori dell’udienza; quindi nelle materie in cui trova applicazione il rito del lavoro, soggette alla modifica dell’art. 429, comma 1, c.p.c. disposta dall’art. 53, comma 2, del d.l. n. 112 del 2008, conv., con modif., dalla l. n. 133 del 2008: osserva in proposito Sez. 3, n. 14724/2018, Olivieri, Rv. 649047-01, che, in tal caso, il dies a quo di decorrenza del termine cd. lungo di decadenza per la proposizione dell’impugnazione, previsto dall’art. 327 c.p.c., deve essere individuato nella stessa data della udienza in cui è stato definito il giudizio dando lettura del “dispositivo e della esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione”, atteso che tale lettura in udienza equivale a pubblicazione, analogamente a quanto previsto dal comma 2 dell’art. 281 sexies c.p.c., essendo identica la funzione acceleratoria cui entrambe le norme risultano preordinate in attuazione del principio costituzionale della ragionevole durata del processo ex art. 111, comma 2, Cost., e non ostandovi la diposizione dell’art. 430 c.p.c. – secondo cui la sentenza deve essere depositata entro quindici giorni dalla pronuncia – la quale opera in via meramente sussidiaria nel caso in cui venga omessa l’indicazione del termine di differimento previsto dalla seconda parte del primo comma dell’art. 429 c.p.c., che mantiene la struttura bifasica della pubblicazione della sentenza nel caso di controversie di particolare complessità.

3.3. (segue) Profili comuni ai due termini di impugnazione.

Nell’ipotesi in cui il ricorrente per cassazione non alleghi che la sentenza impugnata gli è stata notificata, la Corte deve ritenere che lo stesso ricorrente abbia esercitato il diritto di impugnazione entro il cd. termine lungo di cui all’art. 327 c.p.c., procedendo all’accertamento della sua osservanza; tuttavia, qualora o per eccezione del controricorrente o per le emergenze del diretto esame delle produzioni delle parti o del fascicolo d’ufficio emerga che la sentenza impugnata era stata notificata ai fini del decorso del termine di impugnazione, la S.C., indipendentemente dal riscontro della tempestività o meno del rispetto del termine breve, deve accertare se la parte ricorrente abbia ottemperato all’onere del deposito della copia della sentenza impugnata entro il termine di cui al primo comma dell’art. 369 c.p.c. e, in mancanza, deve dichiarare improcedibile il ricorso, atteso che il riscontro della improcedibilità precede quello dell’eventuale inammissibilità (Sez. 5, n. 01295/2018, Greco, Rv. 646700-01).

Avuto riguardo, poi, ai riflessi della notificazione dell’atto di impugnazione sulla formazione del giudicato (e, dunque, sula conseguente inammissibilità della impugnazione per tardività), il relativo rischio ricade sul notificante.

Il principio ha trovato applicazione in numerose pronunzie della Corte, tra le quali meritano di essere segnalate, tra le altre: 1) Sez. 5, n. 20255/2018, Perrino, Rv. 650103-01, per cui la rinnovazione della notifica dell’impugnazione che non avvenga nei confronti della parte personalmente, bensì presso il difensore costituito nel precedente grado di giudizio, nonostante sia già decorso, al momento dell’ordinanza che la dispone, l’anno dalla pubblicazione della sentenza impugnata, è nulla per violazione dell’art. 330 c.p.c., con conseguente inammissibilità dell’impugnazione, attesa la perentorietà del termine disposto dal giudice ex art. 291 c.p.c. per la rinnovazione della notifica; 2) Sez. 5, n. 30245/2018, Fraulini, Rv. 651559-01, in virtù della quale, ove la notifica sia effettuata in prossimità della scadenza dei termini di impugnazione e non si perfezioni per cause imputabili al notificante – quale deve ritenersi la circostanza che il destinatario non era conosciuto nel luogo indicato dal richiedente – si determina il passaggio in giudicato della sentenza impugnata. Ciò però implica, a contrario che, qualora la notificazione dell’atto di impugnazione – tempestivamente consegnato all’ufficiale giudiziario – non si sia perfezionata per l’avvenuto trasferimento del difensore domiciliata rio del destinatario e l’ufficiale giudiziario abbia appreso, già nel corso della prima tentata notifica, il nuovo domicilio di tale procuratore, il procedimento notificatorio non può rit,enersi esaurito ed il notificante non incorre in alcuna decadenza, a nulla rilevando che la notifica si perfezioni successivamente allo spirare del termine per proporre gravame, atteso che non può ridondare a danno del notificante la violazione, da parte dell’ufficiale giudiziario, del dovere di provvedere alla contestuale prosecuzione del procedimento notificatorio presso il luogo in cui egli abbia appreso che si trovi il notificatario (Sez. 3, n. 29039/2018, Di Florio, Rv. 651662-01; Sez. 6-3, n. 14214/2018, Cirillo F.M., Rv. 649337-01 e Sez. 6-5, n. 04754/2018, Luciotti, Rv. 647254-01, per le quali il principio di consumazione dell’impugnazione non esclude che, fino a quando non intervenga una declaratoria di inammissibilità, possa essere proposto un secondo atto di impugnazione, immune dai vizi del precedente e destinato a sostituirlo, purché esso sia tempestivo, requisito per la cui valutazione occorre tener conto, anche in caso di mancata notificazione della sentenza, non del termine annuale, bensì del termine breve, decorrente dalla data di proposizione della prima impugnazione, equivalendo essa alla conoscenza legale della sentenza da parte dell’impugnante; cfr. anche Sez. U, n. 10266/2018, Cirillo E., Rv. 648132-04, che, applicando il medesimo principio, ha affrmato che nel caso in cui una sentenza sia stata impugnata con due successivi ricorsi per cassazione, la seconda impugnazione deve essere notificata entro la scadenza del termine breve decorrente dalla notificazione della prima impugnazione, che dimostra la conoscenza legale della decisione da parte del ricorrente).

Più in generale, poi, è stato chiarito che: a) la notificazione dell’atto di impugnazione effettuata al procuratore costituito in tale sua qualità equivale pienamente a quella effettuata alla parte “presso il procuratore costituito” nei casi in cui essa è prescritta dall’art. 330, comma 1, c.p.c., soddisfacendo l’una e l’altra forma di notificazione l’esigenza che l’atto di gravame sia portato a conoscenza della parte per il tramite del suo rappresentante processuale; sicché la notificazione eseguita a mani proprie del difensore resta valida, sia perché il predetto art. 330, comma 1, c.p.c. non contiene una mera indicazione del luogo della notificazione, ma identifica nel procuratore il destinatario di essa in forza di una proroga ex lege dei poteri conferitigli con la procura alle liti per il giudizio a quo, sia perché detta notificazione risulta eseguita nel rispetto dell’art. 138 c.p.c. – secondo il quale l’ufficiale giudiziario può sempre compiere la notificazione mediante consegna della copia dell’atto nelle mani proprie del destinatario, ovunque lo trovi nell’ambito della circoscrizione alla quale è addetto –, da ritenersi applicabile non solo alle parti, ma anche ai difensori delle stesse (Sez. L, n. 27012/2018, Arienzo, Rv. 651250-01); b) qualora uno degli eventi idonei a determinare l’interruzione del processo si verifichi nel corso del giudizio di primo grado, prima della chiusura della discussione (ovvero prima della scadenza dei termini per il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie di replica, ai sensi del nuovo testo dell’art. 190 c.p.c.) e non venga dichiarato né notificato dal procuratore della parte cui esso si riferisce a norma dell’art. 300 c.p.c., il giudizio di impugnazione deve essere comunque instaurato da e contro i soggetti effettivamente legittimati, e ciò alla luce dell’art. 328 c.p.c., dal quale si desume la volontà del legislatore di adeguare il processo di impugnazione alle variazioni intervenute nelle posizioni delle parti, sia ai fini della notifica della sentenza che dell’impugnazione, con piena parificazione, a tali effetti, tra l’evento verificatosi dopo la sentenza e quello intervenuto durante la fase attiva del giudizio e non dichiarato né notificato (Sez. 3, n. 23189/2018, Moscarini, Rv. 650601-01); c) in caso di notifica di atti processuali impugnatori non andata a buon fine, il notificante, se il mancato perfezionamento è dovuto a ragioni a lui non imputabili, appreso dell’esito negativo, per conservare gli effetti collegati alla richiesta originaria, deve riattivare il processo notificatorio con immediatezza e svolgere gli atti necessari al suo completamento, senza superare il limite di tempo pari alla metà dei termini indicati dall’art. 325 c.p.c., salvo circostanze eccezionali che vanno rigorosamente provate. Qualora risulti il trasferimento del difensore domiciliatario della parte destinataria della notifica, al fine di stabilire se il mancato perfezionamento sia imputabile al notificante, occorre distinguere a seconda che il difensore al quale viene effettuata detta notifica eserciti o meno la sua attività nel circondario del tribunale dove si svolge la controversia, essendo nella prima ipotesi onere del notificante accertare, anche mediante riscontro delle risultanze dell’albo professionale, quale sia l’effettivo domicilio del difensore, a prescindere dalla comunicazione, da parte di quest’ultimo, nell’ambito del giudizio, del successivo mutamento (Sez. 2, n. 15056/2018, Federico, Rv. 649074-01); d) in tema di notificazione degli atti di impugnazione nel processo tributario, per il ricorso per cassazione trova applicazione la regola generale enunciata dall’art. 330 c.p.c., mentre per l’appello opera la disciplina sepciale dettata dall’art. 17, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992 (Sez. 5, n. 14549/2018, Triscari, Rv. 649010-01).

Grava altresì sul notificante il rischio della scelta di un rito erroneo: confermando l’orientamento inaugurato da Sez. 2, n. 12413/2017 (Rv. 644082-01), infatti, Sez. 3, n. 22256/2018, Fiecconi, Rv. 650592-01, evidenzia che l’appello erroneamente proposto con ricorso, anziché con atto di citazione, è ammissibile ove sia notificato entro il termine di impugnazione, senza che rilevi in senso ostativo alla maturazione della decadenza dalla facoltà di proporre gravame, la circostanza che il decreto di fissazione dell’udienza sia stato emesso e comunicato dopo lo spirare di tale termine, poiché il tempestivo deposito del ricorso è soltanto uno degli elementi che concorre alla potenziale sanatoria dell’errore nella scelta del rito, non potendo la parte, relativamente agli altri elementi che non sono nella propria disponibilità, pretendere che l’ufficio provveda in tempi sufficienti a garantire detta sanatoria, né, tantomeno, invocare il diritto alla rimessione in termini, giacché l’errore sulla forma dell’atto di appello non è sussumibile nella causa non imputabile. Il principio è peraltro analogo a quanto in precedenza statuito da Sez. L, n. 19083/2018, Di Paolantonio, Rv. 649967-01, avuto riguardo al giudizio di appello soggetto al rito del lavoro, per la quale l’omessa notificazione del ricorso e del decreto di fissazione di udienza comporta la decadenza dall’impugnazione con conseguente declaratoria di improcedibilità del gravame, non essendo consentito al giudice assegnare all’appellante un termine per la rinnovazione di un atto mai compiuto né assumendo rilevanza, a tal fine, la mancata comunicazione del decreto di fissazione di udienza da parte della cancelleria quando dagli atti processuali risulti in modo certo che l’appellante abbia, comunque, acquisito conoscenza della data fissata per la discussione della causa.

3.4. Le impugnazioni incidentali.

Argomento strettamente connesso ai termini di impugnazione è quello delle impugnazioni incidentali. In proposito, gli artt. 333 e 334 c.p.c. disciplinano, rispettivamente, l’impugnazione incidentale tempestiva e tardiva (sebbene il codice di rito detti specifiche disposizioni per l’appello incidentale – art. 343 – e per il ricorso per cassazione incidentale -art. 371), tradizionalmente contrapposte, in via di definizione, a quella principale: il carattere, principale o incidentale, dell’impugnazione deriva, peraltro, da una questione meramente cronologica, nel senso che è principale l’impugnazione proposta per prima, mentre è incidentale quella successiva. La verifica della priorità temporale di un’impugnazione rispetto all’altra va eseguita sulla base dei medesimi criteri che presiedono, ai sensi dell’art. 39, ult. comma, c.p.c., alla verifica della litispendenza: sicché, in caso di impugnazione effettuata con citazione occorre aver riguardo alla data di notificazione mentre, in caso di impugnazione proposta con ricorso, alla data di deposito di questo. Alla base della disciplina in esame si pone, da un lato, l’esistenza di una situazione di soccombenza reciproca (la quale ha luogo ogni qual volta le parti abbiano visto solo parzialmente accolte le proprie conclusioni) e, dall’altro, il cd. principio di unità del giudizio di impugnazione, che trova applicazione anche nel successivo art. 335 c.p.c., in virtù del quale va disposta la riunione di tutte le impugnazioni proposte separatamente – ma pur sempre ritualmente, sì da investire il giudice del dovere di pronunziare nel merito, perché solo in tale ipotesi è necessario scongiurare, attraverso la riunione, la possibilità di frammentazione del giudicato (Sez. 6-5, n. 03053/2018, Conti, Rv. 647112-01) – contro la stessa sentenza.

La distinzione tra impugnazione incidentale tempestiva e tardiva non è di poco conto, giacché solo la seconda è processualmente dipendente, ai sensi dell’art. 334, comma 2, c.p.c., da quella principale, la cui inammissibilità determina anche quella del gravame incidentale: ne consegue, da un lato, secondo Sez. 5, n. 18415/2018, De Masi, Rv. 649766-02, che, ove la parte intenda ottenere, incondizionatamente, una decisione sulla propria impugnazione è tenuta a proporla tempestivamente, non potendo, in difetto, dolersi della mancata decisione sulla stessa; dall’altro, in virtù di quanto chiarito da Sez. L, n. 06156/2018, Blasutto, Rv. 647499-01, che l’impugnazione incidentale tardiva, da qualunque parte provenga, va dichiarata inammissibile laddove l’interesse alla sua proposizione non possa ritenersi insorto per effetto dell’impugnazione principale (per un’applicazione di tale principio in relazione al giudizio di cassazione, cfr. Sez. 3, n. 19188/2018, Scoditti, Rv. 649738-01).

Ne deriva ulteriormente che: a) in caso di declaratoria di inammissibilità del ricorso principale, il ricorso incidentale tardivo è inefficace ai sensi dell’art. 334, comma 2, c.p.c. e, pertanto, la soccombenza va riferita alla sola parte ricorrente in via principale, restando irrilevante se sul ricorso incidentale vi sarebbe stata soccombenza del controricorrente, atteso che la decisione della Corte di cassazione non procede all’esame dell’impugnazione incidentale e dunque l’applicazione del principio di causalità con riferimento al decisum evidenzia che l’instaurazione del giudizio è da addebitare soltanto alla parte ricorrente principale (così Sez. 3, n. 15220/2018, D’Arrigo, Rv. 649306-01); b) conseguentemente, il controricorrente, il cui ricorso incidentale tardivo sia dichiarato inefficace a seguito di declaratoria di inammissibilità del ricorso principale, non può essere condannato al pagamento del doppio del contributo unificato, trattandosi di sanzione conseguente alle sole declaratorie di infondatezza nel merito ovvero di inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione, ex art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 (Sez. 6-2, n. 18348/2017, Lombardo, Rv. 645149-01); c) le regole dell’impugnazione tardiva operano esclusivamente per l’impugnazione incidentale in senso stretto, e cioè proveniente dalla parte contro la quale è stata proposta l’impugnazione principale: sicché solo il destinatario di un ricorso (principale) per cassazione può presentare ricorso nelle forme e nei termini di quello incidentale, per l’interesse a contraddire e presentare, contestualmente con il controricorso, l’eventuale ricorso incidentale anche tardivo mentre, quando il controricorso contenga un ricorso incidentale che abbia contenuto adesivo a quello principale, non trovano applicazione i termini e le forme del ricorso incidentale (tardivo), e la parte è tenuta a rispettare il termine lungo di cui all’art. 327, comma 1, c.p.c. (Sez. 5, n. 05438/2018, Federici, Rv. 647277-01).

L’impugnazione incidentale tardiva è ammissibile – osserva Sez. 5, n. 18415/2018, De Masi, Rv. 649766-01 – anche se riguarda un capo della decisione diverso da quello oggetto del gravame principale o se investe lo stesso capo per motivi diversi da quelli già fatti valere, dovendosi consentire alla parte che avrebbe di per sé accettato la decisione di contrastare l’iniziativa della controparte, volta a rimettere in discussione l’assetto di interessi derivante dalla pronuncia impugnata, in coerenza con i principi della cd. parità delle armi tra le parti e della ragionevole durata del processo, atteso che una diversa, e più restrittiva, interpretazione indurrebbe ciascuna parte a cautelarsi proponendo un’autonoma impugnazione tempestiva sulla statuizione rispetto alla quale è rimasta soccombente, con inevitabile proliferazione dei processi di impugnazione.

4. La pluralità di parti in primo grado: effetti sull’impugnazione.

Qualora la sentenza di prime cure sia stata pronunciata in una situazione di litisconsorzio (cioè nei confronti di più parti), sorge il problema di stabilire quali parti debbano partecipare al giudizio di impugnazione: il codice di rito distingue a seconda del vincolo che ha determinato il litisconsorzio, prevedendo che (a) quando si tratti di cause inscindibili o tra loro dipendenti, il giudizio di impugnazione si deve svolgere nei confronti di tutte le parti che hanno partecipato alla precedente fase (cfr. art. 331 c.p.c.) mentre (b) allorché si versi nella diversa ipotesi di plurime cause che avrebbero potuto essere trattate separatamente e, solo per motivi contingenti, sono state trattate in un solo processo (cause cd. scindibili) il giudizio di impugnazione non richiede necessariamente tale presenza (cfr. art. 332 c.p.c.).

Tale diversità di disciplina implica che, nel primo caso, l’omessa impugnazione della sentenza nei confronti di tutte le parti non determina ex se l’inammissibilità del gravame, ma la necessità per il giudice di ordinare l’integrazione del contraddittorio, ai sensi dell’art. 331 c.p.c., nei confronti della parte pretermessa (cfr., in termini, anche Sez. 6-3, n. 19910/2018, De Stefano, Rv. 650290-01), pena la nullità del procedimento di secondo grado e della sentenza che l’ha concluso, rilevabile d’ufficio anche in sede di legittimità (cfr., con riferimento al processo tributario, in caso di litisconsorzio processuale, che determina l’inscindibilità delle cause anche ove non sussisterebbe il litisconsorzio necessario di natura sostanziale, Sez. 5, n. 27616/2018, Dell’Orfano, Rv. 651077-01); peraltro – osserva Sez. 3, n. 21381/2018, Frasca, Rv. 650325-02 – ove il giudizio di appello sia stato introdotto in violazione dell’art. 331 c.p.c. e la relativa nullità non sia stata rilevata né dalle parti né dal giudice, tale violazione può essere fatta valere dalle parti (compresa quella che introdusse l’appello), con ricorso principale o incidentale avverso la sentenza conclusiva del gravame, soltanto qualora la violazione abbia riguardato una situazione di litisconsorzio necessario iniziale (art. 102 c.p.c.) o di litisconsorzio necessario processuale determinata dall’ordine del giudice (art. 107 c.p.c.), atteso che in tali casi, a differenza di ogni altra ipotesi di violazione dell’art. 331 c.p.c. (e, dunque, di litisconsorzio necessario processuale da inscindibilità o da dipendenza), non può operare la regola dell’art. 157, comma 3, c.p.c. trattandosi di violazioni rilevabili d’ufficio dalla Corte di cassazione, circostanza che esclude che la parte abbia perduto il potere di impugnare.

Quanto all’individuazione della natura del rapporto dedotto in giudizio, la casistica giurisprudenziale è varia; così, ad esempio Sez. 3, n. 20860/2018, Iannello, Rv. 650428-01, evidenziato in via preliminare come l’obbligazione solidale passiva non dia luogo, di regola, a litisconsorzio necessario, nemmeno in sede di impugnazione (in quanto non fa sorgere un rapporto unico e inscindibile, neppure sotto il profilo della dipendenza di cause, bensì rapporti giuridici distinti, anche se fra loro connessi, in virtù dei quali è sempre possibile la scissione del rapporto processuale, potendo il creditore ripetere da ciascuno dei condebitori l’intero suo credito), cionondimeno osserva come tale regola patisca un’eccezione (venendo così a configurarsi una situazione di inscindibilità di cause e, quindi, di litisconsorzio processuale necessario) allorché le cause siano tra loro dipendenti, ovvero quando le distinte posizione dei coobbligati presentino obiettiva interrelazione, alla stregua della loro strutturale subordinazione anche sul piano del diritto sostanziale, sicché la responsabilità dell’uno presupponga la responsabilità dell’altro; quindi Sez. 5, n. 18649/2018, Fasano, Rv. 649712-01, ha ribadito il principio per cui la riunione di procedimenti non fa venir meno l’autonomia delle cause riunite nello stesso processo siché, poichè le vicende processuali proprie di uno soltanto dei procedimenti riuniti non rilevano in ordine all’altro, o agli altri procedimenti, l’inammissibilità dell’appello proposto riguardo ad uno dei processi riuniti, a causa della mancata ottemperanza all’ordine di integrazione del contraddittorio, non ha alcun effetto per l’altro appello, tempestivamente notificato; ancora, in tema di responsabilità derivante dalla circolazione di veicoli, Sez. 3, n. 29038/2018, Olivieri, Rv. 651661-01, sottolinea come l’accertamento della responsabilità del conducente e del proprietario (rispettivamente, ai sensi dell’art. 2054, comma 1 e comma 3, c.c.) costituisce il presupposto necessario sia della domanda di garanzia proposta dall’assicurato (conducente o proprietario) nei confronti dell’assicuratore RCA (ove il danneggiato non abbia esercitato contro di lui l’ azione “diretta”) sia della pretesa risarcitoria del danneggiato verso lo stesso assicuratore RCA (ove già inizialmente convenuto con l’azione “diretta”), sicché tali cause devono tutte considerarsi tra loro legate da nesso di “dipendenza” che ne determina l’inscindibilità, ex art. 331 c.p.c., nel giudizio di impugnazione, con conseguente infrazionabilità della formazione del giudicato sulla responsabilità del conducente (sebbene quest’ultimo, in quanto mero coobbligato solidale, non assuma la veste di litisconsorte necessario originario), estendendosi gli effetti favorevoli dell’impugnazione proposta soltanto da alcune delle parti anche a quelle non impugnanti o contumaci che condividono la medesima posizione processuale.

Sussiste, ancora, litisconsorzio necessario (a seconda dei casi, sostanziale o processuale), con conseguente necessità di applicazione dell’art. 331 c.p.c.: a) tra gli eredi di una delle parti deceduta nel corso del giudizio di primo grado (Sez. 6-L, n. 17199/2018, Cavallaro, Rv. 649834-01); b) tra datore di lavoro ed INAIL, con riferimento alla domanda di accertamento della responsabilità del datore rispetto ad infortunio sul lavoro (Sez. L, n. 16026/2018, Bellè, Rv. 649356-01); c) rispetto all’interventore adesivo volontario, ex art. 105 c.p.c. (Sez. 2, n. 11156/2018, Penta, Rv. 648033-01); d) rispetto a tutti gli ex soci di una società in accomandita semplice, parte del giudizio di prime cure ed estinatsi per effetto della cancellazione dal registro delle imprese, in caso di di appello, proposto dall’ex socio accomandatario senza che, tuttavia, l’evento estintivo sia stato dichiarato (Sez. 6-5, n. 06069/2018, Napolitano, Rv. 647495-01); e) in caso di chiamata in causa del terzo quale unico responsabile, realizzandosi un’ipotesi di dipendenza di cause, in quanto la decisione della controversia fra l’attore ed il convenuto, essendo alternativa rispetto a quella fra l’attore ed il terzo, si estende necessariamente a quest’ultima (Sez. 1, n. 04722/2018, Valitutti, Rv. 647631-01).

5. Il contumace involontario.

Ai sensi dell’art. 327 c.p.c., ove il contumace dimostri di non aver avuto conoscenza del processo per nullità della citazione o della notificazione di essa, ovvero per nullità della notificazione degli atti di cui all’art. 292 c.p.c., può impugnare la sentenza anche al di là del termine lungo, purché la sentenza non gli sia stata notificata personalmente: infatti, nell’ipotesi in cui il giudizio si sia svolto nella contumacia di una parte, anche se irritualmente dichiarata, la sentenza che lo conclude deve essere notificata alla parte personalmente, ai sensi dell’art. 292, comma 4, c.p.c., attesa l’intangibilità della qualificazione della posizione processuale delle parti siccome desumibile in via esclusiva dall’accertamento contenuto nella sentenza, ancorché erroneo. Sicché, producendo tale forma notificatoria la conoscenza legale della sentenza da parte del contumace involontario, osserva Sez. 3, n. 29037/2018, Olivieri, Rv. 651637-01, che essa è idonea a far decorrere il termine breve di impugnazione ex art. 325 c.p.c., tanto nel caso in cui la notifica della sentenza sia effettuata nell’anno dalla pubblicazione quanto nel caso in cui sia effettuata successivamente, poiché in entrambe le ipotesi la parte erroneamente dichiarata contumace si trova a prendere contestualmente conoscenza della lite, del procedimento e della sentenza, nonché della necessità di impugnare la stessa nel termine breve (del medesimo tenore Sez. 6-2, n. 08593/2018, Abete, Rv. 648223-01).

  • giurisdizione civile

APPROFONDIMENTO TEMATICO

INAMMISSIBILITÀ E IMPROCEDIBILITÀ

(di Anna Mauro )

Sommario

1 Premessa. - 2 Inammissibilità: profili generali. - 2.1 Inammissibilità e procura alle liti. - 2.2 Inammissibilità per tardività del ricorso. - 2.3 Inammissibilità per difetto di tassatività e specificità dei motivi del ricorso per cassazione. - 2.4 Inammissibilità e specificità dei motivi di appello. - 2.5 Inammissibilità e mutatio ed emendatio libelli. - 3 Improcedibilità: profili generali. - 3.1 Improcedibilità dell’appello. - 3.2 Improcedibilità del ricorso per cassazione. - 4 Rinunzia al ricorso e declaratoria di improcedibilità o di inammissibilità. - 5 Conseguenze della dichiarazione di improcedibilità o di inammissibilità.

1. Premessa.

Il legislatore utilizza i termini di inammissibilità e di improcedibilità con riferimento a situazioni affatto diverse tra loro: l’inammissibilità è riferibile a fattispecie processuali non riconducibili al modello legale tipico, mentre l’improcedibilità viene intesa quale sanzione per eventi antecedenti all’instaurazione del contraddittorio. In mancanza di una definizione legislativa di tali istituti, in dottrina si è efficacemente osservato che, mentre l’improcedibilità ha riguardo al difetto di “condizioni di progresso” del giudizio, l’inammissibilità attiene “a quelle di ingresso” (Provinciali, Sistema delle impugnazioni civili secondo la nuova legislazione, Padova, 1942, 218).

Entrambe costituiscono questioni “pregiudiziali” di rito che “devono condurre ad una pronuncia sul processo” ed attengono, cioè, alla possibilità stessa di poter decidere a differenza delle altre questioni di rito che attengono alla possibilità di decidere nel merito e che riguardano l’intero processo (Mandrioli, Diritto processuale civile, Torino, 2004, 401).

Nel presente contributo i predetti istituti, di per sé complessi ed articolati, saranno analizzati, mediante l’esame delle pronunce della Corte del 2018 e di alcune altre precedenti decisioni a cui le stesse si correlano strettamente, cercando di fornire una visione d’insieme dei profili generali degli stessi (le questioni più specifiche verranno, dunque, trattate in appositi capitoli), dando risalto, in via prevalente, alle pronunce che denotano l’attuale tendenza della giurisprudenza di legittimità di assicurare, in luogo di un eccesso di formalismo, una tutela giurisdizionale effettiva alle parti.

Il principio di effettività della tutela giurisdizionale (sul quale v., infra, Guizzi, L’effettività della tutela giurisdizionale) che, come autorevolmente affermato (Carbone S. M., Principio di effettività e diritto comunitario, Napoli, 2009, 7), “rappresenta una nozione imprescindibile per comprendere e giustificare ogni ordinamento giuridico”, deve essere inteso nel senso che la domanda di giustizia debba, per quanto possibile, specie mediante un’interpretazione delle disposizioni processuali scevra da un eccessivo formalismo, essere esaminata nel merito, per consentire l’accertamento dell’esistenza o dell’inesistenza del diritto affermato nella domanda, in modo da fornire alle parti una tutela più ampia e satisfattoria possibile.

Peraltro, costituisce un principio ormai acquisito quello secondo cui anche il diritto processuale deve essere interpretato alla luce dei principi del giusto processo enucleati, per quello civile, dall’art. 6 della CEDU, secondo cui ogni persona ha “diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile o sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti”. A riguardo, non può trascurarsi di ricordare che la Corte di Strasburgo (CEDU, 18 gennaio 2011, Guadagnino c. Italia e Francia, punto 55) ha ribadito l’assunto – espresso sin dalla nota decisione resa dalla medesima Corte europea dei diritti dell’uomo nel caso Golder c. Regno Unito del 21 febbraio 1975 – per il quale, sebbene l’art. 6 CEDU non contempli espressamente tra le garanzie dell’equo processo anche quella dell’accesso al giudice, la stessa rientra nell’ambito tutelato da detta previsione, poiché, in assenza della possibilità di denunciare in sede giurisdizionale la violazione dei propri diritti, anche le altre garanzie di carattere processuale risulterebbero prive di qualsivoglia significato. La Corte ha quindi utilizzato il canone cd. di implicazione sull’assunto per il quale, nell’ipotesi in cui l’art. 6 della Convezione si intendesse riferito soltanto ai procedimenti già iniziati, lo stesso potrebbe essere agevolmente disatteso sopprimendo gli organi giurisdizionali ovvero sottraendo agli stessi determinate categorie di controversie (Trocker N., Dal giusto processo all’effettività dei rimedi, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2007, I, 35 ss, spec. 47).

Con specifico riferimento al settore delle impugnazioni, è peraltro noto che la stessa Corte di Strasburgo, sin dalla pronuncia resa nel caso Delcourt c. Belgique, ha precisato che la garanzia del diritto di accesso al giudice non si spinge al punto da rendere obbligatoria per gli Stati contraenti la previsione dell’appello, neppure in materia penale, né, quindi, quella del ricorso per cassazione: peraltro, ove gli Stati contraenti abbiano in concreto introdotto tali mezzi di gravame, anche nei relativi gradi di giudizio dovranno essere rispettate le garanzie del processo equo sancite dall’art. 6 CEDU (cfr. Cipriani, Diritti fondamentali dell’Unione Europea e diritto d’impugnare, in Studi di diritto processuale civile in onore di Giuseppe Tarzia, I, Milano 2005, 331).

Coerente con tale prospettiva appare, da parte della Corte di cassazione, il progressivo e sempre più marcato abbandono degli eccessi di formalismo (scriveva Satta, già nella prefazione alla quinta edizione (1956) del Diritto processuale civile, che “in sostanza, il formalismo non è altro che una manifestazione di paura: paura del giudizio, della grande opzione tra i due interessi in contrasto … il rigetto della responsabilità del giudizio sulla norma”), abbandono determinato, innanzitutto, dal rispetto del principio costituzionale del “giusto processo” la cui portata, come già chiarito dalla Sez. 2, n. 14627/2010, Giusti, Rv. 613684-01, “non si esaurisce in una mera sommatoria delle garanzie strutturali formalmente enumerate nell’art. 111, comma 2, Cost. (contraddittorio, parità delle parti, giudice-terzo ed imparziale, durata ragionevole di ogni processo), ma rappresenta una sintesi qualitativa di esse (nel loro coordinamento reciproco e nel collegamento con le garanzie del diritto di azione e di difesa), che risente dell’ “effetto espansivo” dell’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e della corrispondente giurisprudenza della Corte di Strasburgo (cfr. Corte cost., sentenza n. 317 del 2009, punto 8 del Considerato in diritto) nonché dell’apertura culturale verso una concezione di più ampio respiro rispetto a quella offerta dalla cd. giuridicità formale e volta a considerare lo strumento processuale come un sistema di regole a servizio dei diritti sostanziali”.

L’esame degli approdi della Corte in tema di inammissibilità e di improcedibilità consentono di individuare, per lo più, l’avvertita esigenza di un percorso comune avente lo scopo di raggiungere un saldo equilibrio tra la tutela delle esigenze sottostanti ai diritti individuali e quelle connesse al corretto funzionamento della giustizia, tra il giusto processo e quello efficiente con l’obiettivo primario di non denegare giustizia.

2. Inammissibilità: profili generali.

L’inammissibilità, come affermato da Sez. 1, n. 18932/2016, Campanile, Rv. 641832-01 e, ribadito in motivazione, da Sez. 6 - 3, n. 13535/2018, Rossetti, Rv. 648722-01, non è la sanzione per un vizio dell’atto diverso dalla nullità, ma la conseguenza di particolari nullità dell’appello e del ricorso per cassazione e non è comminata in ipotesi tassative, ma si verifica ogniqualvolta – essendo l’atto inidoneo al raggiungimento del suo scopo – non operi un meccanismo di sanatoria.

Le difformità rispetto al modello legale tipico, nel caso dell’inammissibilità, sono indefinibili a priori e devono essere valutate caso per caso, anche considerando l’interesse della controparte, non potendosi individuare, a differenza di quanto avviene in tema di improcedibilità, ipotesi tassative. L’inammissibilità é rilevabile d’ufficio in quanto, come l’improcedibilità, presuppone l’esistenza di una causa impeditiva dell’ulteriore svolgimento del giusto processo.

2.1. Inammissibilità e procura alle liti.

In tema di mandato del difensore tecnico appare di interesse la considerazione, in primo luogo, della recente giurisprudenza della Corte sull’art. 182, comma 2, c.p.c., come modificato dalla l. n. 69 del 2009, in virtù del quale “quando rileva un difetto di rappresentanza, di assistenza o di autorizzazione ovvero un vizio che determina la nullità della procura al difensore, il giudice assegna alle parti un termine perentorio per la costituzione della persona alla quale spetta la rappresentanza, o l’assistenza, o per il rilascio delle necessarie autorizzazioni, ovvero per il rilascio della procura alle liti o per la rinnovazione della stessa. L’osservanza del termine sana i vizi, e gli effetti sostanziali e processuali della domanda si producono fin dal momento della prima notificazione”.

In particolare, con riferimento al processo del lavoro, per Sez. L, n. 06041/2018, Cavallaro, Rv. 647527-01, non può considerarsi inammissibile l’impugnazione proposta da una società dopo la messa in liquidazione, in forza della procura rilasciata in primo grado, senza concedere un termine per la costituzione a mezzo del liquidatore quale nuovo rappresentante in quanto si applica anche al giudizio d’appello l’art. 182, comma 2, c.p.c., come modificato dall’art. 46, comma 2, della l. n. 69 del 2009, secondo cui il giudice, quando rileva un difetto di rappresentanza, di assistenza o di autorizzazione, assegna alle parti un termine perentorio per la regolarizzazione.

Peraltro, se il principio di effettività della tutela giurisdizionale deve guidare ogni decisione ed il rigido formalismo determina il distacco del processo dal diritto, al contempo il dovere del giudice di pronunziare sul merito della domanda si arresta, con la conseguenza che viene meno il potere di decidere nel merito, là dove manchino taluni presupposti processuali, il cui controllo è pregiudiziale. Il “diritto al processo”, che si acquista al momento in cui si propone la domanda, non si traduce, infatti, in ogni caso, nel diritto ad un provvedimento di merito che si avrà solo nel caso in cui sussistano le condizioni dell’azione. Ed invero, colui che propone la domanda acquista, come messo in risalto da autorevole dottrina”(Mandrioli, op. cit., 100, nota 22), per ciò solo un diritto al processo che si specifica, qualora sussistano le condizioni dell’azione, nel <diritto ad un provvedimento sul merito> mentre, nel caso contrario, rimane al livello del diritto ad un provvedimento purchessia.

Si legge in questa prospettiva Sez. U, n. 10266/2018, Cirillo E., Rv. 648132-01 che, nel ricordare la regola secondo cui, a norma dell’art. 365 c.p.c., la procura per il ricorso in cassazione ha carattere speciale dovendo riguardare il particolare giudizio di legittimità, hanno ribadito il principio, ampiamente consolidato nelle sezioni semplici, secondo cui è inammissibile il ricorso per cassazione sottoscritto da un avvocato munito di una procura notarile di carattere generale, ma priva di ogni riferimento alla sentenza impugnata e all’impugnazione da proporsi in cassazione e hanno, quindi, escluso l’operatività, nel giudizio di legittimità, del rimedio della sanatoria postuma del difetto di procura, introdotta con la novella del 2009 dall’art. 182 c.p.c., trattandosi di disposizione che trova applicazione esclusivamente al giudizio di merito attesa la mancanza, nel giudizio di legittimità, di una disposizione analoga a quella di cui all’art. 359 c.p.c. ed in presenza, invece, di una disciplina peculiare che, in modo esaustivo e rigoroso (artt. 365, 366 n. 5, 369 n. 3 c.p.c.), regola l’attribuzione e l’anteriorità del potere di rappresentanza processuale davanti alla Corte di cassazione.

In linea con tale decisione, Sez. 3, n. 01255/2018, Frasca, Rv. 647579-01, ha dichiarato l’inammissibilità del ricorso per cassazione nel caso in cui la procura, apposta su foglio separato e non materialmente congiunto al ricorso, sia conferita con scrittura privata autenticata nella sottoscrizione dal difensore e ciò in quanto nell’art. 83, comma 3, c.p.c. non è previsto un conferimento autonomo della procura rispetto agli atti processuali a cui si riferisce (eccezion fatta per la memoria di costituzione di nuovo difensore in sostituzione del precedente). Ritiene la Corte, peraltro, che non è neanche ipotizzabile una sanatoria dell’atto mediante un ordine di rinnovazione ai sensi dell’art. 182 c.p.c., in quanto tale norma è incompatibile con il processo di cassazione, come si evince dalle disposizioni di cui all’art. 365 c.p.c. e all’art. 366, n. 5 c.p.c., là dove prescrivono l’esistenza di una valida procura speciale come requisito di ammissibilità del ricorso e l’indicazione della procura medesima nel ricorso, lasciando così chiaramente intendere che essa non possa formarsi successivamente al deposito di tale atto. Né, si afferma, sarebbe possibile configurare un potere di rinnovazione poiché esso è ricollegato esclusivamente alla categoria della nullità e non anche a quella dell’inammissibilità. Analoga decisione, con riferimento alla procura alle liti rilasciata all’estero, è stata adottata da Sez. 1, n. 15073/2018, Falabella, Rv. 649567-01, secondo cui, in assenza di forma legale di autenticità di un atto pubblico straniero, il giudice italiano non può attribuire efficacia validante a mere certificazioni provenienti da un pubblico ufficiale di uno Stato estero, pur aderente alla Convenzione sull’abolizione della legalizzazione di atti pubblici stranieri, adottata a l’Aja il 5 ottobre 1961 e ratificata dall’Italia con l. n. 1253 del 1966 e non può neanche disporre la concessione di un termine per il rilascio di una nuova procura, come ora previsto dall’art. 182, comma 2, c.p.c., nel testo novellato dalla l. n. 46 del 2009, posto che nel giudizio di cassazione non è ipotizzabile una sanatoria dell’atto mediante sua rinnovazione, essendo prescritta ex art. 365 c.p.c. l’esistenza di una valida procura speciale quale requisito di ammissibilità del ricorso. Sempre sul tema, Sez. L, n. 28146/2018, Amendola F., Rv. 651515-01 ha ritenuto inammissibile il ricorso in quanto la procura, spillata di seguito, non conteneva alcun riferimento alla sentenza impugnata né recava alcuna data e risultava conferita genericamente per tutte le fasi e gradi del giudizio.

Nel processo tributario la Corte ha fatto più volte applicazione, in senso non formalistico, del disposto dell’art. 12, comma 5, del d.lgs. n. 546 del 1992, sulla regolarizzazione della procura alle liti.

In particolare, Sez. 5-6, n. 04754/2018, Luciotti, Rv. 647254-02, ha affermato che, nell’ipotesi di omessa certificazione dell’autografia della sottoscrizione del contribuente in calce al mandato conferito al difensore, il giudice non può dichiarare l’inammissibilità dell’appello, senza prima attivare il meccanismo di regolarizzazione di cui all’art. 12, comma 5, (attualmente comma 7) del d.lgs. n. 546 del 1992, applicabile anche al giudizio di gravame. Orbene, occorre ricordare che diversamente da quanto accade per il giudizio di legittimità, il processo d’appello tributario è regolato, in parte, dalle norme che regolano il processo di primo grado tributario ed in parte il processo d’appello. Nella specie, il primo atto di appello era viziato dalla mancata autenticazione della sottoscrizione del soggetto che aveva conferito l’incarico al difensore abilitato e la società contribuente, per sanare il predetto vizio, aveva provveduto a notificare alla controparte, nei termini, un nuovo atto di appello, che la Commissione tributaria regionale aveva riunito al primo; la Commissione d’appello aveva ignorato il secondo atto di appello, riunito al primo, in relazione al quale, ha ritenuto la Corte, avrebbe comunque dovuto emettere una qualche pronuncia in quanto impugnazione tempestivamente riproposta in assenza di pronuncia di inammissibilità di quella precedente e ciò in virtù del principio giurisprudenziale secondo cui la notifica di un secondo atto di appello «non consuma il potere di impugnazione, atteso che la consumazione del diritto all’impugnazione presuppone l’esistenza – al tempo della proposizione della seconda impugnazione – di una declaratoria di inammissibilità o improcedibilità della precedente, per cui, in mancanza di tale (preesistente) declaratoria, è legittimamente consentita la proposizione di un’altra impugnazione, anche di contenuto diverso, in sostituzione di quella viziata, purché il relativo termine non sia decorso. In ogni caso, chiarisce la Corte, anche se la CTR avesse ritenuto il secondo atto di appello non idoneo a sanare il vizio del primo, avrebbe dovuto comunque attivare il meccanismo di regolarizzazione dell’incarico al difensore previsto dall’art. 12, comma 5, del d.lgs. n. 546 del 1992, vigente ratione temporis, onde assicurare, conformemente a quanto deciso da Sez. U, n. 29919/ 2017, Chindemi, Rv. 64662401, l’effettività della tutela giurisdizionale.

Sempre in tema, Sez. 5, n. 05426/2018, Crucitti, Rv. 647309-01, ha stabilito, nel solco di Sez. U, n. 15241/2009, Tirelli, Rv. 608719-01, che il giudice tributario, ove la procura alle liti manchi o sia invalida, prima di dichiarare l’inammissibilità del ricorso, a norma dell’art. 12, comma 5 e dell’art. 18, commi 3 e 4, del d.lgs. n. 546 del 1992, deve invitare la parte a regolarizzare la situazione e, solo in caso di inottemperanza, pronunciare l’inammissibilità della domanda. Anche tale decisione, come espressamente affermato in motivazione, costituisce espressione del principio, ampiamente consolidato nella giurisprudenza di legittimità, di evitare, in ambito processuale, irragionevoli sanzioni di inammissibilità.

2.2. Inammissibilità per tardività del ricorso.

Pur costituendo orientamento della Corte quello secondo cui “le previsioni di inammissibilità, proprio per il loro rigore sanzionatorio, devono essere interpretate in senso restrittivo, limitandone cioè l’operatività ai soli casi nei quali il rigore estremo è davvero giustificato e ciò anche tenendo presente l’insegnamento fornito dalla Corte costituzionale, con particolare riguardo al processo tributario, secondo il quale le disposizioni processuali tributarie devono essere lette in armonia con i valori della <tutela delle parti in posizione di parità, evitando irragionevoli sanzioni di inammissibilità> (sentenze Corte Cost. nn.189 del 2000 e 520 del 2002)”, per Sez. 5, n. 10209/2018, Fasano, Rv. 647969-01, a tali principi, anche nel processo tributario, fa eccezione la prova della tempestività dell’impugnazione nel caso in cui la parte resistente abbia contestato la tempestività del ricorso; in tal caso, è onere del contribuente allegare l’atto impugnato con la prova della data di avvenuta notifica, dalla quale decorre il termine per la proposizione del ricorso, salvo che si tratti di notifica nulla, poiché in tal caso è l’Amministrazione finanziaria a dover dimostrare il momento nel quale il ricorrente ha avuto effettiva conoscenza del predetto atto.

Sez. 6-5, n. 23793/2018, Mocci, Rv. 650364-01, ha cassato, senza rinvio, la sentenza impugnata che, pur avendo rilevato la mancanza in atti della prova della notifica del gravame, aveva concesso un rinvio al procuratore per il deposito dell’originale della ricevuta, in assenza di giustificazioni e di formale istanza di rimessione in termini; afferma la Corte che, nel processo tributario, allorché l’atto di appello sia notificato a mezzo del servizio postale (vuoi per il tramite di ufficiale giudiziario, vuoi direttamente dalla parte ai sensi dell’art. 16 del d.lgs. n. 546 del 1992) e l’appellato non si sia costituito, l’appellante ha l’onere – a pena di inammissibilità del gravame – di produrre in giudizio, prima della discussione, l’avviso di ricevimento attestante l’avvenuta notifica, od in alternativa di chiedere di essere rimesso in termini, ex art. 153 c.p.c., per produrre il suddetto avviso provando di averlo incolpevolmente perduto e di essersi attivato per tempo nel richiedere un duplicato all’amministrazione postale.

Sempre in tema di verifica della tempestività del ricorso, Sez. 6-2, n. 18361/2018, D’Ascola, Rv. 649461-01, dopo avere ricordato che la produzione dell’avviso di ricevimento del piego raccomandato contenente la copia del ricorso per cassazione spedita per la notificazione a mezzo del servizio postale, ai sensi dell’art. 149 c.p.c., o della raccomandata con la quale l’ufficiale giudiziario dà notizia al destinatario dell’avvenuto compimento delle formalità di cui all’art. 140 c.p.c., è richiesta dalla legge esclusivamente in funzione della prova dell’avvenuto perfezionamento del procedimento notificatorio e, dunque, dell’avvenuta instaurazione del contraddittorio, ha ritenuto che l’avviso non allegato al ricorso e non depositato successivamente può essere prodotto fino all’udienza di discussione ex art. 379 c.p.c., ma prima che abbia inizio la relazione prevista dal comma 1 della citata disposizione, ovvero fino all’adunanza della corte in camera di consiglio prevista dall’art. 380-bis c.p.c., anche se non notificato mediante elenco alle altre parti nel rispetto dell’art. 372, comma 2, c.p.c. In caso, però, di mancata produzione dell’avviso di ricevimento ed in assenza di attività difensiva dell’intimato, il ricorso per cassazione è inammissibile, non essendo consentita la concessione di un termine per il deposito e non ricorrendo i presupposti per la rinnovazione della notificazione ex art. 291 c.p.c.; tuttavia, il difensore del ricorrente, presente in udienza o all’adunanza della corte in camera di consiglio, può domandare di essere rimesso in termini per il deposito dell’avviso che affermi di non aver ricevuto, offrendo la prova documentale di essersi tempestivamente attivato nel richiedere all’amministrazione postale un duplicato dell’avviso stesso, secondo quanto stabilito dall’art. 6, comma 1, della l. n. 890 del 1982.

Anche in assenza di un esplicito richiamo nella motivazione della sentenza alla necessità di fornire in materia un’interpretazione costituzionalmente orientata, nessun dubbio sussiste in ordine alle ragioni sottese a siffatta decisione che sono da rinvenirsi nelle esigenze di certezza ed effettività delle garanzie difensive nel processo civile e nel rispetto di un’interpretazione restrittiva delle inammissibilità processuali in difetto di situazioni di incompatibilità tra l’istituto della rimessione in termini – previsto per il giudizio di primo grado e applicabile, atteso il richiamo dell’artt. 359 c.p.c., ai procedimenti d’appello – e le peculiarità del giudizio dinanzi alla Corte di cassazione.

Per Sez. 6-3, n. 14214/2018, Cirillo F.M., Rv. 649337-01, è inammissibile il ricorso avverso l’ordinanza ex art. 348-bis c.p.c. emessa dalla corte d’appello, proposto oltre sessanta giorni dopo la notificazione di un altro ricorso per cassazione ex art. 348-ter, comma 3, c.p.c., avverso la sentenza di primo grado e ciò in quanto, pur non escludendo il principio di consumazione dell’impugnazione la possibilità di proporre un secondo atto di impugnazione immune dai vizi del precedente sino a quando non intervenga una declaratoria di inammissibilità, esso deve essere tempestivo occorrendo, a tal fine, tener conto, anche in caso di mancata notificazione della sentenza, non del termine annuale, bensì del termine breve, decorrente dalla data di proposizione della prima impugnazione, equivalendo essa alla conoscenza legale della sentenza da parte dell’impugnante. Analogamente, con riferimento specifico al processo tributario, Sez. 6-5, n. 04754/2018, Luciotti, Rv. 647254-01.

Per Sez. 5, n. 20255/2018, Perrino, Rv. 650103-01, la rinnovazione della notifica dell’impugnazione eseguita nel termine, ma in modo nullo (in violazione dell’art. 330, ultimo comma, c.p.c., in quanto effettuata presso il difensore costituito nel precedente grado di giudizio e non nei confronti della parte personalmente) comporta l’inammissibilità dell’impugnazione poiché, quando la nullità sia stata dichiarata una prima volta e il giudice abbia ordinato la rinnovazione, la natura perentoria del termine non permette, per il compimento di una medesima attività (notificazione valida), che possa essere assegnato un nuovo termine.

Tale decisione ben si comprende là dove si ricordi il disposto di cui all’art. 153 c.p.c. che vieta, infatti, anche nel caso di accordo tra le parti, di regola, la proroga dei termini perentori (tranne che non trovi applicazione il 2°comma dell’articolo). Essa, peraltro, non è in contrasto con l’orientamento della Corte secondo cui la notificazione fatta al procuratore dell’atto d’integrazione del contraddittorio in cause inscindibili, ai sensi dell’art. 331 c.p.c., qualora sia decorso oltre un anno dalla data di pubblicazione della sentenza, dà luogo a una nullità sanabile, ai sensi dell’art. 160 c.p.c., con conseguente operatività dei rimedi della rinnovazione o della sanatoria: invero, in tal caso, (così Sez. U n. 02197/2006, Preden, Rv. 587282-01 e da ultimo Sez. 5, n. 03816/2018, Perrino, Rv. 646941-01) “si tratta di una mera violazione della prescrizione in tema di forma e non già dell’impossibilità di riconoscere nell’atto la rispondenza al modello legale della sua categoria”.

Peraltro, occorre escludere, per Sez. 5, n. 00468/2018, Crucitti, Rv. 646690-01, l’inammissibilità del ricorso nel processo tributario ove esso sia stato proposto avverso il ruolo emesso dal centro di servizi depositandolo nella segreteria della commissione tributaria, senza attendere il decorso del termine di sei mesi dalla data di invio dell’originale al centro di servizio dovendo il giudice, in questo caso, solo non decidere la controversia in epoca anteriore alla scadenza di tale termine previsto per concedere all’amministrazione finanziaria la possibilità di deliberare sul ricorso del contribuente e, nel caso di accoglimento, di ridurre così l’attività delle commissioni tributarie.

2.3. Inammissibilità per difetto di tassatività e specificità dei motivi del ricorso per cassazione.

A norma dell’art. 366, n. 4, c.p.c., il ricorso per cassazione deve contenere, a pena di inammissibilità, l’indicazione dei motivi per i quali si chiede la cassazione della sentenza impugnata che devono essere ricondotti al “catalogo” di quelli indicati dall’art. 360, comma 1, c.p.c.

Il ricorso per cassazione, dunque, deve essere articolato in “motivi specifici” ed immediatamente riconducibili ad uno dei cinque numeri di cui alla citata disposizione.

Se, quindi, con riguardo al giudizio d’appello, i motivi d’impugnazione servono unicamente a sostenere le ragioni delle parti e ad individuare i punti della sentenza sui quali il giudice deve pronunciarsi (art. 342, comma 1, c.p.c.), la cognizione della Corte di cassazione si esaurisce nei motivi proposti, delineando l’alternativa rigida tra il loro accoglimento e il loro rigetto. Il ricorso per cassazione, dunque, costituisce un mezzo di impugnazione privo di effetto devolutivo ed a critica vincolata.

Ciò non di meno, rimane un minimo comune denominatore della nozione di “motivo d’impugnazione”, la quale, sia pure con le forme e le regole di ciascun mezzo, dà impulso al procedimento di formazione della sentenza del giudice superiore, basato sulle affermazioni della parte impugnante volte ad inficiare la pronuncia del grado precedente. A tale effetto per così dire “costitutivo”, proprio dell’allegazione del motivo, corrisponde quello ostativo alla formazione del giudicato sulla parte di decisione gravata.

Per Sez. 2, n. 10862/2018, Abete, Rv. 648018-01, il ricorso per cassazione, avendo ad oggetto censure espressamente e tassativamente previste dall’art. 360, comma 1, c.p.c., deve essere articolato in specifici motivi riconducibili in maniera immediata ed inequivocabile ad una delle cinque ragioni di impugnazione stabilite dalla citata disposizione, pur senza la necessaria adozione di formule sacramentali o l’esatta indicazione numerica di una delle predette ipotesi (sicché non è necessario, nel caso in cui si lamenti l’omessa pronuncia in ordine ad una delle domande o eccezioni proposte, che il ricorrente richiami espressamente il n. 4 del comma 1 dell’art. 360 c.p.c., con riguardo all’art. 112 c.p.c., bastando anche il solo riferimento alla nullità della decisione derivante dalla relativa omissione, dovendosi, invece, dichiarare inammissibile il gravame allorché sostenga che la motivazione sia mancante o insufficiente o si limiti ad argomentare sulla violazione di legge).

Tale decisione, superando indirizzi interpretativi eccessivamente formalistici, si pone nel solco di Sez. U, n. 17931/2013, Piccialli, Rv. 627268-01, le quali hanno statuito che l’onere della specificità di cui all’art. 366 c.p.c. non deve essere inteso quale assoluta necessità di formale ed esatta indicazione delle ipotesi, tra quelle elencate nell’art. 360, comma 1 c.p.c., cui si ritenga di ascrivere il vizio, né di precisa individuazione, nei casi di deduzione di violazione o falsa applicazione di norme sostanziali o processuali, degli articoli del codice o di altri testi normativi, comportando invece l’esigenza di una chiara esposizione, nell’ambito del motivo, delle ragioni per le quali la censura sia stata formulata e del tenore della pronunzia caducatoria richiesta, così consentendo al giudice di legittimità di individuare la volontà dell’impugnante e di stabilire se la stessa, così come esposta nel mezzo di impugnazione, abbia dedotto un vizio di legittimità sostanzialmente, ma inequivocabilmente, riconducibile ad alcuna delle tassative ipotesi di cui all’art. 360 c.p.c. Le indicazioni della citata pronuncia delle Sezioni Unite, seguite nell’anno in considerazione dalla richiamata Sez. 2, n. 10862/2018, Abete, Rv. 648018-01, denotano l’utilizzo di un criterio non strettamente formalistico, coerente con il principio iura novit curia, recepito dall’art. 113 c.p.c., e con quello della cd. “effettività” della tutela giurisdizionale, insito nel diritto al “giusto processo” di cui all’art. 111 Cost., elaborato dalla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ed inteso, come si è visto, quale esigenza che alla domanda di giustizia dei consociati debba, per quanto possibile e segnatamente nell’attività di interpretazione delle norme processuali, corrispondere un’effettiva ed esauriente risposta da parte degli organi statuali preposti all’esercizio della funzione giurisdizionale. Per le Sezioni Unite, dunque, l’onere della specificità ex art. 366 n. 4 c.p.c., non deve essere spiegato quale assoluta necessità di formale ed esatta indicazione dell’ipotesi, tra quelle elencate nell’art. 360, comma 1, c.p.c., cui si ritenga di ascrivere il vizio, né di precisa individuazione, nei casi di deduzione di violazione o falsa applicazione di norme sostanziali o processuali, degli articoli di legge, comportando invece l’esigenza di una chiara esposizione, nell’ambito del motivo, delle ragioni per le quali la censura sia stata formulata e del tenore della pronunzia caducatoria richiesta. Evidenziano le S.U. che “la Corte di Strasburgo ha avuto più volte modo di precisare che nell’interpretazione ed applicazione della legge, in particolare di quella processuale, gli stati aderenti, e per essi i massimi consessi giudiziari, devono evitare gli <eccessi di formalismo>, segnatamente in punto di ammissibilità o ricevibilità dei ricorsi, consentendo per quanto possibile, la concreta esplicazione di quel <diritto di accesso ad un tribunale> previsto e garantito dall’art. 6 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali del 1950.”

Per altro verso si è sostenuto da parte di Sez. 2, n. 26790/2018, Sabato, Rv. 651379-01, in linea di continuità con quanto statuito da Sez. U. n. 09100/2015, Rordorf, Rv. 635452-01, che, in materia di ricorso per cassazione, l’articolazione in un singolo motivo di più profili di doglianza costituisce ragione d’ inammissibilità solo ove non sia possibile ricondurre tali diversi profili a specifici motivi di impugnazione, dovendo le doglianze, anche se cumulate, essere formulate in modo tale da consentire un loro esame separato, come se fossero articolate in motivi diversi, senza rimettere al giudice il compito di isolare le singole censure teoricamente proponibili, al fine di ricondurle a uno dei mezzi d’impugnazione consentiti, prima di decidere su di esse. In altri termini, è riconosciuta la possibilità di proporre cumulativamente diverse censure in un unico motivo, purché la formulazione dello stesso consenta di cogliere con chiarezza le doglianze cumulate, in maniera tale da consentirne l’esame separato esattamente negli stessi termini in cui lo si sarebbe potuto fare se esse fossero state articolate in motivi diversi (Sez. U, n. 09100/2015, Rordorf, Rv. 635452- 01).

Si segnala, tuttavia, il più rigoroso orientamento affermato da Sez. 1, n. 26874/2018, Di Marzio M., Rv. 651324-01, secondo cui è inammissibile la mescolanza e la sovrapposizione di mezzi d’impugnazione eterogenei, facenti riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360, comma 1, n. 3 e n. 5, c.p.c., non essendo consentita la prospettazione di una medesima questione sotto profili incompatibili, quali quello della violazione di norme di diritto – che suppone accertati gli elementi del fatto in relazione al quale si deve decidere della violazione o falsa applicazione della norma – e del vizio di motivazione, che quegli elementi di fatto intende precisamente rimettere in discussione o, ancora, dell’ omessa motivazione – che richiede l’assenza di motivazione su un punto decisivo della causa rilevabile d’ufficio – e dell’ insufficienza della motivazione – che richiede la puntuale e analitica indicazione della sede processuale nella quale il giudice d’appello sarebbe stato sollecitato a pronunciarsi – e della contraddittorietà della stessa, che richiede la precisa identificazione delle affermazioni contenute nella sentenza impugnata, che si porrebbero in contraddizione tra loro. Infatti, l’esposizione diretta e cumulativa delle questioni concernenti l’apprezzamento delle risultanze acquisite al processo e il merito della causa mira a rimettere al giudice di legittimità il compito di isolare le singole censure teoricamente proponibili, onde ricondurle ad uno dei mezzi d’impugnazione enunciati dall’art. 360 c.p.c., per poi ricercare quale o quali disposizioni sarebbero utilizzabili allo scopo, così attribuendo, inammissibilmente, al giudice di legittimità il compito di dare forma e contenuto giuridici alle lagnanze del ricorrente, al fine di decidere successivamente su di esse.

Sotto un distinto e più generale profilo, resta fermo, come ha ricordato Sez. 6-2 n. 11603/2018, Cosentino, Rv. 648533-01, che il motivo del ricorso deve necessariamente possedere i caratteri della tassatività e della specificità ed esige una precisa enunciazione, di modo che il vizio denunciato rientri nelle categorie logiche previste dall’art. 360 c.p.c., sicché è inammissibile la critica generica della sentenza impugnata, formulata con un unico motivo sotto una molteplicità di profili tra loro confusi e inestricabilmente combinati, non collegabili ad alcuna delle fattispecie di vizio enucleate dal codice di rito. In senso analogo si pone Sez. 6-5, n. 01479/2018, La Torre, Rv. 646999-01, secondo cui i motivi per i quali si chiede la cassazione della sentenza non possono essere affidati a deduzioni generali e ad affermazioni apodittiche, con le quali la parte non prenda concreta posizione, articolando specifiche censure esaminabili dal giudice di legittimità sulle singole conclusioni tratte dal giudice del merito in relazione alla fattispecie decisa. Invero, il ricorrente – incidentale, come quello principale – ha l’onere di indicare con precisione gli asseriti errori contenuti nella sentenza impugnata, in quanto, per la natura di giudizio a critica vincolata propria del processo di cassazione, il singolo motivo assolve alla funzione condizionante il devolutum della sentenza impugnata, con la conseguenza che il requisito in esame non può ritenersi soddisfatto qualora il ricorso per cassazione (principale o incidentale) sia basato sul mero richiamo dei motivi di appello in quanto, una tale modalità di formulazione del motivo, rendendo impossibile individuare la critica mossa ad una parte ben identificabile del giudizio espresso nella sentenza impugnata, è del tutto carente nella individuazione degli errori asseritamente individuabili nella decisione.

A riguardo, Sez. 1, n. 22478/2018, Pazzi, Rv. 650919-01, ha affermato che con i motivi di ricorso per cassazione la parte non può limitarsi a riproporre le tesi difensive svolte nelle fasi di merito e motivatamente disattese dal giudice dell’appello, senza considerare le ragioni offerte da quest’ultimo, poiché in tal modo si determina una mera contrapposizione della propria valutazione al giudizio espresso dalla sentenza impugnata che si risolve, in sostanza, nella proposizione di un “non motivo”, come tale inammissibile ex art. 366, comma 1, n. 4, c.p.c. e, ancora, Sez. 1, n. 15936/2018, Di Marzio M., Rv. 649530-01, ha ritenuto che la generica indicazione, da parte del ricorrente per cassazione, di intere pagine del proprio ricorso in appello, comportando da parte della Corte la ricerca all’ interno del ricorso stesso se un motivo sia stato articolato e l’individuazione del suo esatto contenuto, non costituisce rituale adempimento dell’onere imposto al ricorrente dall’art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c. e si sostanzia nella violazione del principio di specificità ivi contemplato con conseguente inammissibilità del ricorso stesso.

Per altro verso, non può trascurarsi che Sez. U, n. 07155/2017, Didone, Rv. 643549-01, discostandosi dalla giurisprudenza pregressa delle stesse Sezioni Unite (v., in particolare, Sez. U, n. 19051/2010, Vittoria, Rv. 614183-01), ha sancito che, a prescindere dalla formulazione della norma, il ricorso scrutinato ai sensi dell’art. 360-bis, n. 1 c.p.c. deve essere rigettato per manifesta infondatezza e non dichiarato inammissibile, se la sentenza impugnata si presenta conforme alla giurisprudenza di legittimità e non vengono prospettati argomenti per modificarla, posto che anche in mancanza, nel ricorso, di argomenti idonei a superare la ragione di diritto cui si è attenuto il giudice del merito, il ricorso potrebbe trovare accoglimento ove, al momento della decisione della Corte, con riguardo alla quale deve essere verificata la corrispondenza tra la decisione impugnata e la giurisprudenza di legittimità, la prima risultasse non più conforme alla seconda nel frattempo mutata.

Per le Sezioni Unite, quindi, “la funzione di filtro … consiste in ciò, che la Corte è in un certo qual senso esonerata, – ex art. 360-bis – dall’esprimere compiutamente la sua adesione alla soluzione interpretativa accolta dall’orientamento giurisprudenziale precedente … e consente di delibare rapidamente ricorsi ‘inconsistenti’. Ma si tratta pur sempre di una “inammissibilità di merito” compatibile con la garanzia dell’art. 111 Cost., comma 7.”

Sez. 6 - 2, n. 05001/2018, Lombardo, Rv. 648213-01, pur richiamando i principi espressi nella richiamata decisione delle Sezioni Unite n. 09100/2015, e ribadendo l’esistenza, nel nostro ordinamento, di due distinte tipologie di inammissibilità, una volta a sanzionare il pretestuoso esercizio delle facoltà processuali e l’altra, di natura strettamente processuale, che riguarda il “modo di formulazione” del motivo e che ricorre quando il motivo è incompleto o privo di specificità (cd. inammissibilità processuale che ricorre nel caso di carenza del potere di impugnare o di vizi dell’atto introduttivo del giudizio di impugnazione e che si colloca accanto alla cd. inammissibilità “sostanziale” o “meritale” (individuata dalla citata Sez. U, n. 07155/2017, Didone), da valutarsi al momento della decisione riguardando il merito degli argomenti svolti nel motivo e sussistendo ogni qualvolta gli argomenti posti a fondamento della domanda risultino manifestamente infondati), e affermando la possibilità che esse siano compresenti, si pone però il problema di stabilire “in quali termini si configuri l’onere di specificità del motivo ai sensi dell’art. 366, n. 4 c.p.c. in rapporto a quanto preteso dall’art. 360-bis, n. 1 c.p.c. nell’eventualità che il ricorso, pur manifestamente infondato sulla base della giurisprudenza esistente alla data dell’introduzione del giudizio, risulti poi fondato al momento della decisione in forza di un nuovo orientamento giurisprudenziale”.

A tal proposito, con l’ordinanza indicata, è stato deciso che, nel caso di ricorso per cassazione per violazione o falsa applicazione di norme di diritto (sostanziali o processuali), il principio di specificità dei motivi, di cui all’art. 366, comma 1, n. 4, c. p.c., deve essere letto in correlazione al disposto dell’art. 360-bis, n. 1, c.p.c., essendo dunque inammissibile, per difetto di specificità, il motivo di ricorso che, nel denunciare la violazione di norme di diritto, ometta di raffrontare la ratio decidendi della sentenza impugnata con la giurisprudenza della Corte e, ove la prima risulti conforme alla seconda, ometta di fornire argomenti per mutare orientamento. In altri termini, la parte ricorrente, a pena di inammissibilità,da valutarsi al momento della proposizione del ricorso, ha l’onere di indicare, allorché denunzi la violazione o la falsa applicazione delle norme di diritto, le norme che assume violate riferendosi al significato riconosciuto ad esse dalla giurisprudenza della Corte di cassazione e, quindi, conformemente a quanto richiesto dall’art. 360-bis, n. 1 c.p.c., deve individuare la ratio decidendi della sentenza impugnata raffrontandola con la giurisprudenza della Corte e, ove sussista conformità tra le due, spiegare le ragioni a sostegno di un diverso orientamento.

La lettura combinata delle norme richiamate nella massima induce l’interprete a ritenere, così come evidenziato nella sentenza, che nel nostro ordinamento si stia facendo strada il “principio dello stare decisis in funzione del potenziamento della funzione nomofilattica e di uniformazione delle decisioni giurisdizionali, presupposto indispensabile per assicurare l’eguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge”. Non si arriva, però, ad un vero e proprio sistema di binding precedent, anche se, avendo riguardo al complesso delle disposizioni che regolano il processo civile in cassazione dopo le riforme introdotte a partire dal 2006, il ruolo della Corte, con riferimento alla sua funzione nomofilattica, è stato sicuramente valorizzato così dando attuazione al precetto di cui all’art. 3 Cost.

In questa prospettiva si colloca, in particolare, Sez. 6-3, n. 04366/2018, De Stefano, Rv. 648036-02, là dove afferma che “anche un solo precedente, se univoco, chiaro, condivisibile, integra l’orientamento della giurisprudenza della S.C. di cui all’art. 360-bis, n. 1, c.p.c. con conseguente dichiarazione di inammissibilità del relativo ricorso per cassazione che non ne contenga valide critiche”.

2.4. Inammissibilità e specificità dei motivi di appello.

Anche con riferimento ai motivi di appello, si è posta la questione se, per effetto della riforma dell’art. 342 c.p.c., allorché si propone appello, il ricorrente possa limitarsi a riproporre le ragioni in fatto ed in diritto già prospettate in primo grado o debba, invece, indicare i passi della motivazione che censura, le modifiche da apportare ed esporre un progetto alternativo di sentenza. Tale questione è stata risolta, da Sez. U, n. 27199/2017, Cirillo F.M., Rv. 645991-01, affermando il principio per il quale gli artt. 342 e 434 c.p.c., nel testo formulato dal d.l. n. 83 del 2012, conv. con modif. dalla l. n. 134 del 2012, vanno interpretati nel senso che l’impugnazione deve contenere, a pena di inammissibilità, una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice, senza che occorra l’utilizzo di particolari forme sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado, tenuto conto della permanente natura di revisio prioris instantiae del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata.

In senso del tutto conforme alle riportate S.U. si pone, dunque, Sez. 6-3, n. 13535/2018, Rossetti, Rv. 648722-01, che, dopo aver ricordato che quando si debba giudicare dell’ammissibilità di una impugnazione, “il giudicante deve badare non al rispetto di clausole astratte o formule di stile, ma alla sostanza al contenuto dell’atto” e che “le norme processuali, se ambigue, vanno interpretate in modo da favorire una decisione sul merito, piuttosto che esiti abortivi del processo”, ha affermato il principio per il quale gli artt. 342 e 434 c.p.c., nel testo formulato dal d.l. n. 83 del 2012, conv. con modif. dalla l. n. 134 del 2012, vanno interpretati nel senso che l’impugnazione deve contenere, a pena di inammissibilità, una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice, senza che occorra l’utilizzo di particolari forme sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado, ovvero la trascrizione totale o parziale della sentenza appellata, tenuto conto della permanente natura di revisio prioris instantiae del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata. Sez. L, n. 07332/2018, Manna A., Rv. 647619-01, dopo aver in motivazione specificato che “l’ordinamento processuale italiano è ispirato ad un assetto teleologico delle forme” ha affermato, con riferimento all’atto di appello della sentenza definitiva, meramente riproduttivo delle ragioni di impugnazione della precedente sentenza non definitiva, che esso è da considerarsi inammissibile “in quanto gli artt. 342 e 434 c.p.c., …, pur non richiedendo che le deduzioni della parte appellante assumano una determinata forma o ricalchino la decisione appellata con diverso contenuto, impongono al ricorrente in appello di individuare in modo chiaro ed esauriente il quantum appellatum, circoscrivendo il giudizio di gravame con riferimento agli specifici capi della sentenza impugnata nonché ai passaggi argomentativi che la sorreggono e formulando, sotto il profilo qualitativo, le ragioni di dissenso rispetto al percorso adottato dal primo giudice, sì da esplicitare l’idoneità di tali ragioni a determinare le modifiche della decisione censurata”.

Pertanto, alla stregua di quanto chiarito dalla citata decisione Sez. U, n. 27199/2017, Cirillo F.M., e ribadito dagli arresti successivi delle sezioni semplici, per effetto della riforma del 2012, l’appello non è stato trasformato in un mezzo di impugnazione a critica vincolata, ma è rimasto una revisio prioris istantiae in cui la cognizione del giudice rimane circoscritta alle questioni dedotte dall’appellante, anche incidentale, attraverso la prospettazione e deduzione di specifiche censure. Non sono stati sostanzialmente aggravati gli oneri dell’appellante, con la conseguenza che l’atto di appello deve contenere, come già in passato, puntuali critiche all’operato del giudice a quo, commisurate all’ampiezza della motivazione del provvedimento impugnato e alla sua specificità e la sanzione, nel caso di mancato rispetto di tali oneri da parte dell’appellante, come già in passato ritenuto dalla giurisprudenza di legittimità, è ora per il legislatore quella dell’inammissibilità dell’impugnazione non potendo l’appello giungere alla sua naturale conclusione di giudizio sulla denegata giustizia della decisione impugnata.

2.5. Inammissibilità e mutatio ed emendatio libelli.

Sez. U, n. 12310/2015, Di Iasi, Rv. 635536-01, risolvendo il contrasto sullo specifico tema della modificabilità, con la prima memoria prevista dall’art. 183 c.p.c., della domanda costitutiva ex art. 2932 c.c. in domanda di accertamento dell’avvenuto effetto traslativo, ha riconosciuto l’ammissibilità della modifica, nella memoria ex art. 183 c.p.c., dell’originaria domanda formulata ex art. 2932 c.c. con quella di accertamento dell’avvenuto effetto traslativo, affermando il più ampio ed innovativo principio, portato di quello di effettività della tutela giurisdizionale e di correlata concezione della durata del processo in termini complessivi e non connessi al singolo giudizio, per il quale la modificazione della domanda ammessa ex art. 183 c.p.c. può riguardare anche uno o entrambi gli elementi oggettivi della stessa (petitum e causa petendi), sempre che la domanda così modificata risulti comunque connessa alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio e senza che, perciò solo, si determini la compromissione delle potenzialità difensive della controparte, ovvero l’allungamento dei tempi processuali”. A partire da tale arresto, la giurisprudenza della Corte, sia con riferimento ai diritti eterodeterminati sia con riferimento a quelli autodeterminati, si è attestata sostanzialmente sulle medesime posizioni delle S.U. ritenendo, ad esempio, ammissibile la modificazione dell’originaria domanda risarcitoria, formulata da un investitore nei confronti dell’intermediario finanziario, in quella di risoluzione per inadempimento, in quanto entrambe le richieste riguardavano la stessa operazione di compravendita-titoli ed erano fondate sull’allegazione dei medesimi comportamenti inadempienti dell’intermediario (Sez. 6-1, n. 13091/2018, Falabella, Rv. 649542-01) o affermando, in tema di intermediazione finanziaria, che la parte la quale abbia modificato in sede di memoria, ai sensi dell’art. 6 del d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, la propria domanda di nullità del contratto di acquisto degli strumenti finanziari, in quella di risarcimento del danno da inadempimento contrattuale, in conseguenza delle difese proposte dal convenuto, di ogni genere e tipo, non incorre in una inammissibile mutatio libelli ove la domanda così modificata riguardi la medesima vicenda sostanziale dedotta in lite o sia ad essa collegata, perché, in tal modo non si determina né la compromissione delle potenzialità difensive della controparte, né il sostanziale allungamento dei tempi processuali di definizione della lite (Sez. 1, n. 03254/2018, Genovese, Rv. 646882-01); o ancora ritenendo ammissibile, in un giudizio per risarcimento danni da sinistro stradale, la sostituzione dell’originaria domanda del terzo trasportato, tesa a far valere la responsabilità del proprietario del veicolo fondata sul contratto di trasporto concluso tra le parti, con un’altra basata sulla presunzione di responsabilità del proprietario medesimo, ex art. 2054 c.c. (Sez. 3, n. 22540/2018, Guizzi, Rv. 650853-01); affermando che la mera indicazione di ulteriori vizi della cosa appaltata rispetto a quelli indicati in citazione non integra una modifica inammissibile del petitum o della causa petendi, ove dedotta nel termine dell’articolo 183, comma 6, c.p.c., permanendo un chiaro e stabile collegamento con la questione concreta oggetto del contendere (Sez. 2, n. 14815/2018, Cavallari, Rv. 648850-01) o ancora, con riferimento ad un giudizio in cui si applicava il dettato di cui all’art. 183 c.p.c., nel testo previgente alla l. n. 80 del 2005, affermando che è possibile mutare anche gli elementi costitutivi della domanda, ove ricorrano le condizioni indicate dalla sentenza n. 12310 del 2015 delle S.U. e non siano avanzate, quindi, delle pretese aggiuntive e che, pertanto, deve escludersi che l’attore, proposta la domanda di accertamento della proprietà di un fondo, di incorporazione delle costruzioni ex art. 934 c.c. e di pagamento di somme in data successiva al passaggio in giudicato di una sentenza che aveva accertato l’esistenza su tale fondo di un’enfiteusi in favore di terzi, possa chiedere, nella prima udienza di trattazione, la devoluzione del fondo enfiteutico (Sez. 6-2, n. 11282/2018, Orilia, Rv. 649212-01). Aderisce nella sostanza alla decisione delle S.U., così come viene precisato in motivazione, anche Sez. 3, n. 16807/2018, Graziosi, Rv. 649420-01 che, partendo dal principio dell’unitarietà della domanda, specifica che quest’ultima può anche essere radicalmente modificata, ma non può essere affiancata e che l’introduzione di una domanda ulteriore in aggiunta a quella originaria deve considerarsi nuova domanda ed è cosa diversa dalla domanda modificata che non si aggiunge a quella iniziale, ma la sostituisce ponendosi rispetto a questa in un rapporto di alternatività.

La modifica della domanda iniziale, dunque, per la richiamata decisione delle Sezioni Unite e la successiva giurisprudenza conforme della Corte, può riguardare anche gli elementi identificativi oggettivi della domanda stessa, quando essa riguardi la medesima vicenda sostanziale dedotta in giudizio con l’atto introduttivo o, comunque, sia a questa collegata parimenti a quanto accade nelle ipotesi di connessione a vario titolo e in particolare al rapporto di connessione per “alternatività” o per “incompatibilità”. Tale interpretazione è sicuramente rispettosa dei principi di economia processuale e di ragionevole durata del processo in quanto, non solo non incide negativamente sulla durata del processo nel quale la modificazione interviene, ma è idonea a favorire una soluzione della complessiva vicenda sostanziale ed esistenziale portata dinanzi al giudice in un unico contesto, evitando la potenziale proliferazione dei processi. Essa favorisce la stabilità delle decisioni giudiziarie e limita il rischio dei giudicati contrastanti e non è idonea a ledere il contraddittorio in quanto l’eventuale modifica avviene sempre in riferimento e in connessione alla medesima vicenda sostanziale dedotta in giudizio.

Sez. 2, n. 17482/2018, Casadonte, Rv. 649452-01 ha ritenuto, invece, che la domanda di adempimento contrattuale e quella di arricchimento senza causa si differenziano strutturalmente e tipologicamente, pertanto la seconda integra, rispetto alla prima originariamente formulata, una domanda nuova con la conseguenza che nel procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo al creditore opposto, che riveste la posizione sostanziale di attore, è consentito avanzare con la comparsa di costituzione e risposta domanda di arricchimento senza causa soltanto qualora l’opponente abbia introdotto nel giudizio, con l’atto di citazione, un ulteriore tema di indagine che possa giustificare tale esigenza. Sul tema è peraltro da ultimo intervenuta Sez. U, n. 22404/2018, Scrima, Rv. 650451-01, che, nel solco della più volte richiamata Sez. U, n. 12310/2015, Di Iasi, ha ritenuto ammissibile, nel processo introdotto mediante domanda di adempimento contrattuale, la domanda di indennizzo per ingiustificato arricchimento formulata, in via subordinata, con la prima memoria ai sensi dell’art. 183, comma 6, c.p.c., qualora si riferisca alla medesima vicenda sostanziale dedotta in giudizio. Le Sezioni Unite hanno, quindi, indirizzato l’attenzione dell’interprete sull’inerenza delle domande alla medesima vicenda sostanziale sottoposta all’esame del giudice affermando che la domanda di adempimento contrattuale e quella di ingiustificato arricchimento, se riferite ad una medesima vicenda, sottendono un solo interesse sostanziale, attengono al medesimo bene della vita (tendenzialmente una pretesa di natura patrimoniale), e sono legate da un rapporto di connessione “di incompatibilità”, non solo logica, ma normativamente prevista – atteso il carattere sussidiario dell’azione ex art. 2041 c.c. sancito dall’art. 2042 c.c. -, rapporto che giustifica ancor di più il ricorso al simultaneus processus. Come evidenziato dalle Sezioni Unite, attraverso la trattazione della domanda modificata nello stesso giudizio, si perverrà ad una globale riduzione dei tempi della giustizia in quanto il giudice non dovrà più dedicarsi allo scrutinio della domanda originaria ormai “superata”, né dovranno introdursi nuovi giudizi per proporre la domanda alternativa. In tal modo si impedirà il proliferare di liti e la conseguente possibilità di giudicati contrastanti assicurando così l’effettività della tutela giurisdizionale e il giudice potrà esplicare pienamente il suo ruolo assumendo decisioni orientate a giustizia sostanziale e non all’applicazione meccanica di astratte regole processuali così dando concreta attuazione al principio costituzionale di ragionevole durata del processo.

3. Improcedibilità: profili generali.

Il legislatore non fornisce alcuna definizione dell’istituto dell’improcedibilità, anche se ad esso fa riferimento in alcune ipotesi, ritenute da autorevole dottrina tassative (Luiso, Diritto processuale civile, II, VIII ed., Milano 2015, 363), in tema di impugnazioni (art. 348 c.p.c. improcedibilità dell’appello; nell’art. 369 c.p.c., relativamente al ricorso per cassazione; nell’art. 399 c.p.c., in tema di revocazione e nell’art. 408 c.p.c. con riferimento all’opposizione di terzo). Dalla dottrina l’improcedibilità è stata definita “la conseguenza di natura sanzionatoria derivante dal mancato compimento di un atto, espressamente configurato come necessario a tal fine, della sequenza di avvio di un dato processo” (La China, Procedibilità dir. proc. civ., in Enc. Dir. XXXV, Milano, 1986, 794 ss.). La figura dell’improcedibilità, dunque, attiene esclusivamente alla sfera processuale e sussiste nei casi di omissione o di ritardo nel compimento di alcune attività che la legge configura come atti di impulso necessari allo svolgimento del processo e comporta l’impedimento della pronuncia sul merito. A differenza di quanto si riscontra in tema di inammissibilità, quindi, le cause di improcedibilità sono sempre riconducibili ad un’attività successiva ed estrinseca all’atto introduttivo. Il vizio è rilevabile d’ufficio e la sua declaratoria non impedisce la riproposizione della domanda nel giudizio di primo grado, mentre nelle fasi di gravame, ove l’improcedibilità sia stata dichiarata, non è consentita la riproponibilità della stessa anche se non sono ancora scaduti i relativi termini. Diversamente l’impugnazione è nuovamente proponibile, purché tempestiva, ove la pronunzia di improcedibilità non sia ancora intervenuta. Ed invero, il principio di consumazione dell’impugnazione, secondo un’interpretazione conforme ai principi costituzionali del giusto processo che sono volti a rimuovere gli ostacoli alla compiuta realizzazione del diritto di difesa, rifuggendo formalismi rigoristici, impone di ritenere che, fino a quando non intervenga una declaratoria di improcedibilità, possa essere proposto un secondo atto di appello, sempre che la seconda impugnazione risulti tempestiva e si sia svolto regolare contraddittorio tra le parti (Sez. 3, n. 155721/2011, Spirito, Rv. 619439-01). Invero le regole processuali costituiscono lo strumento per garantire la giustizia della decisione, non il fine stesso del processo. In linea anche con tali principi e con quello del “raggiungimento dello scopo dell’atto” si pone, tra le altre, Sez. L, n. 02827/2018, Blasutto, Rv. 647400-01, secondo cui l’eccezione di inammissibilità e/o improcedibilità del ricorso per cassazione, per l’errata intestazione della parte contro cui è proposto è infondata, qualora esso sia stato notificato proprio al soggetto che era stato parte in causa nel giudizio conclusosi con la sentenza impugnata e che, resistendo nel grado di giudizio dì legittimità, dopo avere proposto l’eccezione per il motivo sopra esposto, si sia difeso nel merito poiché in siffatta ipotesi non vi è incertezza circa il destinatario.

3.1. Improcedibilità dell’appello.

L’appello, ai sensi dell’art. 348 c.p.c., è dichiarato improcedibile, anche d’ufficio, nel caso di mancata o tardiva costituzione dell’appellante e nel caso di sua mancata comparizione alla prima udienza e in quella successiva fissata dal collegio e comunicata all’appellante. L’art. 347, comma 1, c.p.c., nello stabilire che la costituzione in appello avviene secondo le forme ed i termini per i procedimenti davanti al tribunale, rende applicabili al giudizio d’appello le previsioni di cui agli artt. 165 e 166 c.p.c., ma non quella di cui all’art. 171 c.p.c. (concernente la ritardata costituzione delle parti e che prevede, al secondo comma che “ se una delle parti si è costituita entro il termine a lei assegnato, l’altra parte può costituirsi successivamente sino alla prima udienza …”), la quale è incompatibile con la previsione di improcedibilità dell’appello per il caso che l’appellante non si costituisca nei termini di cui all’art. 348 c.p.c. Ne consegue che il giudizio di gravame è improcedibile in tutti i casi di ritardata o mancata costituzione dell’appellante, a nulla rilevando che l’appellato si sia costituito nel termine assegnatogli (Sez. U, n. 10864/2011, Vivaldi, Rv. 617623-01; Sez. 6 - 2, n. 06369/2017, Giusti, Rv. 643378-02).

Evidente espressione dei principi più volte ricordati in tema di effettività della tutela giurisdizionale è Sez. 6 - 3, n. 01063/2018, Cirillo F.M., Rv. 647350-01, che, conformemente a Sez. U, n. 16598/2016, Frasca, Rv. 640829-01, ha ritenuto che la tempestiva costituzione dell’ appellante con la copia dell’atto di citazione in luogo dell’originale non determina l’improcedibilità del gravame ai sensi dell’art. 348, comma 1, c.p.c., ma integra una nullità per inosservanza delle forme indicate dall’art. 165 c.p.c., sanabile, anche su rilievo del giudice, entro l’udienza di comparizione di cui all’art. 350, comma 2, c.p.c., salva la possibilità per l’appellante di chiedere la remissione in termini ex art. 153 c.p.c., dovendosi ritenere, in difetto, consolidato il vizio ed improcedibile l’appello. La Corte, quindi, con tale arresto ha ritenuto erronea la decisione impugnata che aveva dichiarato improcedibile l’appello, sebbene alla prima udienza l’attore, previa esibizione dell’originale dell’atto notificato non andato a buon fine, aveva chiesto al giudice un termine per il rinnovo della notifica, effettuata la quale, all’udienza successiva, aveva depositato l’originale.

3.2. Improcedibilità del ricorso per cassazione.

Si ha improcedibilità del ricorso per cassazione quando non siano stati depositati nella cancelleria della Corte, nel termine di venti giorni dall’ ultima notificazione alle parti, il ricorso e gli altri atti indicati nell’art. 369 c.p.c.

Sez. 3, n. 30846/2018, Frasca, Rv. 651862-01, ha dichiarato quindi improcedibile il ricorso per cassazione nell’ipotesi in cui l’autenticazione della copia della sentenza impugnata era stata effettuata da un difensore il cui ministero era cessato e ciò perché tale attività doveva essere effettuata dall’avvocato a cui era stata conferita la procura per il giudizio di legittimità.

Per Sez. U, n. 11850/2018, Manna F., Rv. 648274-01, il ricorso per cassazione proponibile, ex art. 348-ter, comma 3, c.p.c., avverso la sentenza di primo grado, entro sessanta giorni dalla comunicazione, o notificazione se anteriore, dell’ordinanza d’inammissibilità dell’appello, resa ai sensi dell’art. 348-bis c.p.c., è soggetto, ai fini del requisito di procedibilità di cui all’art. 369, comma 2, c.p.c., ad un duplice onere di deposito, avente ad oggetto la copia autentica sia della sentenza suddetta sia, per la verifica della tempestività del ricorso, della citata ordinanza, con la relativa comunicazione o notificazione; in difetto, il ricorso è improcedibile, salvo che, ove il ricorrente abbia assolto l’onere di richiedere il fascicolo d’ufficio alla cancelleria del giudice a quo, la Corte, nell’esercitare il proprio potere officioso, rilevi che l’impugnazione sia stata proposta nei sessanta giorni dalla comunicazione o notificazione ovvero, in mancanza dell’una e dell’altra, entro il termine cd. lungo di cui all’art. 327 c.p.c.

Non v’è chi non veda la peculiarità, nella specie, del rimedio impugnatorio poiché l’art. 348-ter c.p.c, prevede il ricorso per cassazione avverso la sentenza di primo grado, ma fa decorrere il termine per impugnare “dalla comunicazione o notificazione, se anteriore, dell’ordinanza che dichiara l’inammissibilità”.

Il richiamo di cui all’art. 348-ter c.p.c. all’art. 360 c.p.c. induce a ritenere, in effetti, che a detto procedimento sia applicabile anche l’art. 369 c.p.c., contenente la disciplina degli adempimenti connessi alla proposizione del ricorso.

Orbene, anche tali sentenze appaiono espressione di un’interpretazione delle norme processuali libera da inutili formalismi e rispettosa del principio di strumentalità delle forme processuali là dove si prevede che un comportamento omissivo non deve necessariamente essere sanzionato ove gli effetti di siffatta omissione vengano eliminati, senza danno o ritardo per il processo. L’improcedibilità, come autorevolmente affermato in dottrina (La China, Op. cit., 764 ss.) concerne un’attività neutra, inidonea ad influire in alcun modo sul processo, pregiudicandolo o pre-orientandolo, essendo funzionale solo alla corretta progressione della sequenza processuale e, pertanto, per la giurisprudenza della Corte, in ossequio ai principi del giusto processo e dell’effettività della tutela giurisdizionale, è, di regola, opportuno far prevalere la formazione del giudicato là dove sussistano delle situazioni irregolari rimediabili. Ora, poiché la previsione del deposito, a pena di improcedibilità, della copia della decisione impugnata con la relazione di notificazione, ove questa sia avvenuta, è funzionale al riscontro – di natura pubblicistica – da parte della Corte del rispetto del vincolo della cosa giudicata formale, ben si comprende il principio enunciato da Sez. 6-5, n. 14426/2018, La Torre, Rv. 649204-01, secondo cui, in linea con quanto affermato dalle S.U. da ultimo richiamate, la produzione di copia incompleta della sentenza impugnata è causa di improcedibilità del ricorso per cassazione ex art. 369 c.p.c. solo ove non consenta di dedurre con certezza l’oggetto della controversia e le ragioni poste a fondamento della pronuncia. (Nella specie, in applicazione del principio, la S.C., pur rilevando nella copia depositata la mancanza delle pagine relative allo svolgimento del processo, ha ritenuto di poter evincere le ragioni della decisione dalla motivazione della stessa riportata nel ricorso). Come si desume dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale i principi anzidetti non escludono che il processo debba essere governato, per esigenze di certezza e di ragionevole durata, da scansioni temporali il cui mancato rispetto deve essere assoggettato alla sanzione della decadenza dal compimento di determinate attività (così Corte Cost. n. 11/08 e n. 462/2006; ord. n. 163/2010) dovendosi perseguire, sempre e comunque, l’equilibrio tra esigenze di certezza e buona amministrazione della giustizia. Appare, dunque, espressione di siffatta ricerca Sez. 5, n. 11513/2018, De Masi, Rv. 648365-01, secondo cui qualora una sentenza sia stata impugnata con due successivi ricorsi per cassazione, il primo dei quali non sia stato depositato o lo sia stato tardivamente dal ricorrente, è ammissibile la proposizione del secondo, anche quando contenga nuovi e diversi motivi di censura, purché la notificazione dello stesso abbia avuto luogo nel rispetto del termine breve decorrente dalla notificazione del primo, e l’improcedibilità di quest’ultimo non sia stata ancora dichiarata, non comportando la mera notificazione del primo ricorso la consumazione del potere d’impugnazione.

Non difforme dai principi dianzi enunciati e a tutela dell’esigenza pubblicistica e, quindi, non disponibile dalle parti, del rispetto del vincolo della cosa giudicata formale, deve leggersi l’arresto della Sez. 5, n. 01295/2018, Greco, Rv. 646700-01 secondo cui, ove il ricorrente per cassazione non alleghi che la sentenza impugnata gli è stata notificata, si deve ritenere che lo stesso ricorrente abbia esercitato il diritto di impugnazione entro il cd. termine lungo di cui all’art. 327 c.p.c.; qualora o per eccezione del controricorrente o per le emergenze del diretto esame delle produzioni delle parti o del fascicolo d’ufficio emerga che la sentenza impugnata era stata notificata ai fini del decorso del termine di impugnazione, però, indipendentemente dal riscontro della tempestività o meno del rispetto del termine breve, occorre accertare se la parte ricorrente abbia ottemperato all’onere del deposito della copia della sentenza impugnata entro il termine di cui al primo comma dell’art. 369 c.p.c. e, in mancanza, si deve dichiarare l’improcedibilità del ricorso in quanto il riscontro della improcedibilità precede quello dell’eventuale inammissibilità.

4. Rinunzia al ricorso e declaratoria di improcedibilità o di inammissibilità.

Per Sez. 6-2, n. 32368/18, Picaroni, Rv. 652064-01, in tema di procedimento in camera di consiglio di cui all’art. 380-bis c.p.c., ove la parte che ha proposto ricorso per cassazione vi rinunci, nel rispetto dei termini e delle modalità previste dall’art. 390 c.p.c., alla manifestazione di tale volontà abdicativa segue la declaratoria di estinzione, prevalendo tale volontà sull’improcedibilità del ricorso, sulla base del rilievo assorbente che qualunque valutazione sul ricorso presuppone che esso sia in atto e che tanto è escluso dalla rinunzia.

In tema di inammissibilità, Sez. 6-1, n. 32068/2018, Sambito, Rv. 651968-01, ha affermato che alla rinuncia al ricorso per cassazione ad opera della parte che lo aveva inizialmente proposto segue la declaratoria di estinzione del giudizio, quand’anche consti una causa di inammissibilità dell’impugnazione. Tali arresti danno continuità alla decisione delle Sez. U, n. 19514/2008, Amatucci, Rv. 604337-01 che non ha condiviso il precedente orientamento contrario (Sez. U. n. 10982/04, Criscuolo, Rv. 573501), secondo cui la pronunzia sull’inammissibilità o sull’improcedibilità del ricorso per cassazione ha carattere pregiudiziale e prevalente rispetto a quella sulla rinuncia, poiché non è dato rinunciare ad un diritto processuale quando non esistono le condizioni necessarie per il suo esercizio. Per le S.U. del 2008, invece, qualunque valutazione sul ricorso presuppone che esso sia in atto e ciò è escluso dalla rinunzia; essa, inoltre, è “inequivocamente volta al rafforzamento della funzione nomofilattica della corte di legittimità, a sua volta certamente agevolata da una definizione del giudizio di cassazione alternativa alla decisione”.

Ha inoltre ritenuto Sez. 6-5, n. 14782/2018, Manzon, Rv. 649019-01, che l’atto di rinunzia al ricorso per cassazione, in assenza dei requisiti di cui all’art. 390, ultimo comma, c.p.c. (notifica alle parti costituite o comunicazione agli avvocati delle stesse per l’apposizione del visto), sebbene non idoneo a determinare l’estinzione del processo, denota il definitivo venire meno di ogni interesse alla decisione e comporta, pertanto, l’inammissibilità del ricorso. Ed invero, in tale ipotesi deve ritenersi venuta meno la fondamentale condizione dell’azione costituita dall’ “interesse” che, come prescritto dall’art. 100 c.p.c., deve essere concreto ed attuale e, quindi, sempre sussistente, sia per proporre la domanda, sia per contraddire alla stessa.

5. Conseguenze della dichiarazione di improcedibilità o di inammissibilità.

L’art. 358 c.p.c. stabilisce che, ove sia intervenuta la declaratoria di inammissibilità o di improcedibilità dell’appello, il gravame non potrà essere riproposto, sebbene non sia ancora decorso il termine per impugnare. Analoga previsione contiene, in tema di ricorso per cassazione, l’art. 387 c.p.c. Può, invece, essere proposto un secondo atto di appello ove, non ancora intervenuta la declaratoria di improcedibilità, venga proposto un secondo ricorso tempestivamente e si sia svolto regolare contraddittorio tra le parti (per l’applicazione, nel periodo in esame, di tali principi v. Sez. 6-5, n. 04754/2018, Luciotti, Rv. 647254-01 e Sez. 6-3, n. 14214/2018, Cirillo F.M., Rv. 649337-01, che in applicazione del medesimo principio sopra riportato ha dichiarato inammissibile il ricorso avverso l’ordinanza ex art. 348-bis c.p.c. emessa dalla corte d’appello perché proposto oltre sessanta giorni dopo la notificazione di un altro ricorso per cassazione ex art. 348 ter, comma 3, c.p.c., avverso la sentenza di primo grado.

Con riferimento alle conseguenze della declaratoria di improcedibilità del ricorso principale sulle sorti di quello incidentale, Sez. 3, n. 19188/2018, Scoditti, Rv. 649738-01, ha ritenuto che, nel caso in cui il ricorso principale per cassazione venga dichiarato improcedibile, l’eventuale ricorso incidentale tardivo diviene inefficace, e ciò non in virtù di un’applicazione analogica dell’art. 334, comma 2, c.p.c. – dettato per la diversa ipotesi dell’inammissibilità dell’impugnazione principale –, bensì in base ad un’interpretazione logico-sistematica dell’ordinamento, che conduce a ritenere irrazionale che un’impugnazione (tra l’altro anomala) possa trovare tutela in caso di sopravvenuta mancanza del presupposto in funzione del quale è stata riconosciuta la sua proponibilità. In tema di inammissibilità dell’appello principale, per Sez. 2, n. 20963/2018, Scalisi, Rv. 650024-01, mentre l’inammissibilità dell’appello principale non priva di efficacia quello incidentale che sia stato proposto, oltre che tempestivamente ai sensi dell’art. 343 c.p.c., anche nei termini per impugnare previsti dagli artt. 325, 326 e 327 c.p.c., un’impugnazione incidentale avanzata quando tali termini siano scaduti non potrebbe mai essere ritenuta “tempestiva”, anche se rispettosa del termine di cui all’art. 343 c.p.c. Ed invero, l’efficacia del ricorso incidentale tardivo perché non proposto oltre i termini di cui agli art. 325 e/o 327 c.p.c. resta condizionata all’ammissibilità e/o improcedibilità dell’appello principale con la conseguenza che ove questo principale sia improcedibile e/o inammissibile, il ricorso incidentale tardivo diventa inefficace.

In sostanza, mentre il ricorso incidentale tempestivo è autonomo rispetto all’impugnazione principale e non può quindi essere condizionato dall’inammissibilità o improcedibilità di quest’ultimo, il gravame incidentale tardivo è considerato strettamente dipendente da quello principale e, pertanto, l’inammissibilità o l’improcedibilità di questo non possono che ripercuotersi sul gravame incidentale

Per Sez. L, n. 06156/2018, Blasutto, Rv. 647499-01, l’impugnazione incidentale tardiva, da qualunque parte provenga, va dichiarata inammissibile là dove l’interesse alla sua proposizione non possa ritenersi insorto per effetto dell’impugnazione principale.

Peraltro, salva una più approfondita trattazione nei capitoli dedicati alle impugnazioni, in questa sede non si può trascurare che proprio in forza di un’attenta valutazione del canone di effettività della tutela giurisdizionale, Sez. 5, n. 13651/2018, Castorina, Rv. 649085-01 e Sez. 5, n. 18415/2018, De Masi, Rv. 648766-01, hanno ritenuto di dover mettere in discussione il richiamato orientamento tradizionale secondo cui l’impugnazione principale fissa senza possibilità di modifiche l’oggetto del giudizio e individua, quindi, automaticamente l’ambito dell’eventuale impugnazione incidentale dovendosi, al contrario, procedere alla ricerca dell’interesse all’impugnazione che è da ravvisarsi ogni qual volta derivi dall’impugnazione, ove accolta, la modifica dell’assetto delle situazioni giuridiche accettate dall’altra parte rimasta inerte. Si è, quindi, affermato che l’impugnazione incidentale tardiva è ammissibile anche se riguarda un capo della decisione diverso da quello oggetto del gravame principale o se investe lo stesso capo per motivi diversi da quelli già fatti valere, dovendosi consentire alla parte, che avrebbe di per sé accettato la decisione, di contrastare l’iniziativa della controparte, volta a rimettere in discussione l’assetto di interessi derivante dalla pronuncia impugnata. Tale orientamento, come messo in evidenza nelle sentenze da ultimo riportate, appare coerente con i principi della “cd. parità delle armi tra le parti” e “della ragionevole durata del processo”, in quanto una diversa, e più restrittiva, interpretazione, indurrebbe ciascuna parte a cautelarsi proponendo un’autonoma impugnazione tempestiva sulla statuizione rispetto alla quale è rimasta soccombente, con inevitabile proliferazione dei processi di impugnazione che potrebbero, invece, essere evitati se ciascuna parte sapesse di poter impugnare, anche se ha prestato acquiescenza alla decisione o siano decorsi i termini, qualora l’altra parte abbia impugnato e rimesso in discussione l’equilibrio della decisione.

Con riferimento, infine, alla regolamentazione delle spese per Sez. 3, n. 15220/2018, D’Arrigo, Rv. 649306-01, l’inefficacia del ricorso incidentale tardivo connessa alla declaratoria di inammissibilità del ricorso principale comporta che la soccombenza vada riferita alla sola parte ricorrente in via principale, restando irrilevante se sul ricorso incidentale vi sarebbe stata soccombenza del controricorrente, atteso che la decisione della Corte di cassazione non procede all’esame dell’impugnazione incidentale e, dunque, l’applicazione del principio di causalità con riferimento al decisum evidenzia che l’instaurazione del giudizio è da addebitare soltanto alla parte ricorrente principale. La questione viene affrontata dall’arresto in esame con riferimento al giudizio di legittimità, ma il principio è applicabile anche al giudizio d’appello.

  • giurisdizione civile

CAPITOLO XIII

L’APPELLO

(di Luigi La Battaglia )

Sommario

1 Caratteri generali del processo d’appello. - 2 I provvedimenti impugnabili. - 3 Forme e termini dell’impugnazione. - 4 L’oggetto dell’impugnazione - 5 L’effetto devolutivo e l’onere di riproposizione ex art. 346 c.p.c. - 6 Le parti e il contraddittorio. - 7 I nova in appello.

1. Caratteri generali del processo d’appello.

A seguito della riforma introdotta dal d. l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. nella l. 7 agosto 2012, n. 134, è andato progressivamente consolidandosi (anche nella giurisprudenza della Corte del 2018) un modello di giudizio di appello sempre più lontano dai canoni del cd. novum iudicium (inteso come mezzo per sottoporre nuovamente al secondo giudice, in tutto o in parte, l’oggetto della lite svoltasi in prime cure), e sempre più ispirato, per contro, all’archetipo della revisio prioris instantiae (vale a dire mezzo di controllo degli errori di diritto o di fatto contenuti nel provvedimento impugnato, così come denunciati dalle parti). All’esito di tale evoluzione, l’effetto devolutivo risulta circoscritto entro i limiti delle contrapposte iniziative delle parti, attraverso la riproposizione ex art. 346 c.p.c., ovvero l’appello incidentale (eventualmente condizionato) di cui all’ art. 343 c.p.c. Un opportuno temperamento delle “rigidità” di tale modello si deve, peraltro, di recente, a Sez. U, n. 27199/2017, Cirillo F.M., Rv. 645991–01, la quale ha escluso che l’atto di appello debba contenere la formulazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado, in considerazione della natura di giudizio di merito dell’appello, il cui oggetto è pur sempre costituito dall’originario rapporto dedotto in primo grado, e non già dalla sentenza in quella sede pronunciata.

Venendo, più specificamente, ad illustrare gli orientamenti della giurisprudenza della Corte del 2018, Sez. 3, n. 20836/2018, Fanticini, Rv. 650421-01, ha affermato, dall’angolo visuale dell’appellante, che la struttura devolutiva del giudizio di impugnazione non determina alcuna inversione dell’onere della prova a carico del convenuto soccombente in primo grado, il quale, proponendo appello, non deve provare l’insussistenza dei fatti costitutivi della domanda dell’attore, ma è tenuto soltanto a dimostrare la fondatezza dei propri motivi di gravame mediante una precisa e ben argomentata critica della decisione impugnata, formulando pertinenti ragioni di dissenso in relazione alla operata ricostruzione dei fatti ovvero alle questioni di diritto trattate.

Peraltro, l’abbandono della configurazione dell’appello quale novum iudicium – inteso come pieno riesame nel merito della fattispecie oggetto della decisione impugnata – non esclude che il giudice di secondo grado, per decidere la controversia sottoposta al suo esame, possa agire con piena libertà senza essere tenuto a seguire criticamente, punto per punto, la sentenza impugnata, e quindi, senza essere soggetto ad alcun vincolo – salva l’ipotesi che su taluni punti della controversia la sua indagine sia preclusa per essersi formata la cosa giudicata -, egli può non soltanto pervenire a diverse conclusioni in base ad un diverso apprezzamento dei fatti, ma anche giungere alla medesima soluzione in forza di motivi e di considerazioni che il primo giudice aveva trascurato, e così sostituire totalmente la propria motivazione a quella della sentenza di primo grado, pur confermandone il contenuto decisorio (in questi termini si è espressa Sez. 5, n. 01323/2018, Tedesco, Rv. 646894-01).

La natura di revisio prioris instantiae del giudizio di appello comporta che l’impugnazione debba contenere, a pena di inammissibilità, una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice, senza che occorra l’utilizzo di particolari forme sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado, ovvero la trascrizione totale o parziale della sentenza appellata (in questi termini, si segnala Sez. 6-3, n. 13535/2018, Rossetti, Rv. 648722-01, che si uniforma al principio di diritto affermato dalla già citata Sez. U, n. 27199/2017, Cirillo F.M., Rv. 645991–01). Conseguentemente, è stato considerato inammissibile, da Sez. L, n. 07332/2018, Manna, Rv. 647610/2018, l’appello avverso una sentenza definitiva, consistente nella mera riproduzione delle ragioni di impugnazione della precedente sentenza non definitiva (nella specie, fatta oggetto di separato gravame).

2. I provvedimenti impugnabili.

Per quanto concerne le sentenze che definiscono il giudizio di opposizione a sanzione amministrativa, ne è stata ribadita dalla Corte l’impugnabilità con l’appello (e non col ricorso per cassazione), a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 26, del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, che ha abrogato l’ultimo comma dell’art. 23, della l. 24 novembre 1981, n. 689 (in tal senso Sez. L, n. 21707/2018, Mancino, Rv. 650260-01). L’appello (per i giudizi introdotti prima dell’entrata in vigore del d.lgs. 1° settembre 2011, n. 150) deve essere proposto nella forma della citazione e non del ricorso, trovando applicazione, in assenza di una specifica previsione normativa per il giudizio di secondo grado, la disciplina ordinaria di cui agli artt. 339 e ss. c.p.c. (Sez. L, n. 24587/2018, Berrino, Rv. 650677-01). Al procedimento d’appello non si applica la regola del “foro erariale” di cui all’art. 7 del r.d. 30 ottobre 1933, n. 1611, relativa alle controversie in cui sia parte un’amministrazione dello Stato (in tal senso Sez. 6-2, n. 05249/2018, Cosentino, Rv. 647987-01, uniformatasi a Sez. U, n. 23285/2010, Bucciante, Rv. 615040-01).

Sez. 2, n. 26613/2018, Criscuolo, Rv. 651008-01, con specifico riguardo alle sentenze del giudice di pace, ha precisato, poi, che l’appello relativo alle cause di valore inferiore ad € 1.100,00 non soggiace alle limitazioni di cui all’art. 339, comma 3, c.p.c., dal momento che, ai sensi dell’art. 23, comma 11, della l. n. 689 del 1981, non è applicabile l’art. 113, comma 2, c.p.c., sicché non è possibile una pronuncia secondo equità. Rientra, invece, nell’ambito di applicazione dell’art. 339 c.p.c. – ed è, pertanto, appellabile – la sentenza di condanna dello Stato italiano al risarcimento del danno derivante dalla violazione di una direttiva comunitaria, emessa dal giudice di pace nell’ambito di un giudizio di equità cd. necessaria, ai sensi dell’art. 113, comma 2, c.p.c. (Sez. 3, n. 17058/2018, Spaziani, Rv. 649445-02).

Tra le pronunce che, nel 2018, hanno riguardato l’impugnabililtà delle sentenze del giudice di pace si segnala, inoltre, Sez. 6-3, n. 03290/2018, Scrima, Rv. 647509-01, la quale, in linea generale, ha ribadito che per stabilire se una sentenza del giudice di pace sia stata pronunciata secondo equità, e sia quindi appellabile solo nei limiti di cui all’art. 339, comma 3, c.p.c., occorre avere riguardo non già al contenuto della decisione, ma al valore della causa, da determinarsi secondo le regole di cui agli artt. 10 e ss. c.p.c., e senza tenere conto del valore indicato dall’attore ai fini del pagamento del contributo unificato: ne consegue che, ove l’attore abbia formulato dinanzi al giudice di pace una domanda di condanna al pagamento di una somma di denaro inferiore a millecento euro (limite dei giudizi di equità cd. necessaria, ai sensi dell’art. 113, comma 2, c.p.c.), accompagnandola però con la richiesta della diversa ed eventualmente “maggior somma che sarà ritenuta di giustizia”, la causa deve ritenersi – in difetto di tempestiva contestazione ai sensi dell’art. 14 c.p.c. – di valore indeterminato, e la sentenza che la conclude è appellabile senza i limiti prescritti dall’art. 339 c.p.c. Quanto al profilo temporale di applicazione della riforma dell’art. 339 c.p.c., Sez. 6-3, n. 01213/2018, Rv. 647353-01, ha affermato che essa è applicabile a tutti i provvedimenti pubblicati dopo l’entrata in vigore del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, anche nell’ambito di procedimenti già pendenti, assumendo rilevanza l’avvenuta decisione secondo equità esclusivamente con riguardo ai motivi per cui è ammessa l’impugnazione, che, nel primo caso, sono solo quelli per cui nell’assetto precedente era consentito il ricorso per cassazione. Sempre con riferimento alle sentenze del giudice di pace, Sez. 6-L, n. 23062/2018, Doronzo, Rv. 650901-01, ha affermato che è impugnabile con l’appello (nei limiti e secondo le previsioni dell’art. 339 c.p.c.), e non col regolamento di competenza, la decisione con la quale il giudice di pace statuisca sulla propria competenza, ove non abbia natura meramente interlocutoria, ma costituisca una vera e propria sentenza.

Restando in tema di pronunce sulla competenza, è inammissibile, secondo Sez. 2, n. 21336/2018, Casadonte, Rv. 650034-01, l’appello avverso la decisione del tribunale declinatoria della propria competenza a favore degli arbitri rituali, poiché l’attività di questi ultimi ha natura giurisdizionale e sostitutiva della funzione del giudice ordinario, sicché la relativa questione può essere fatta valere solo con regolamento di competenza. Stessa ratio ispira Sez. 6-3, n. 16089/2018, Graziosi, Rv. 649430-01, che riconduce al novero delle decisioni attinenti esclusivamente alla competenza la sentenza dichiarativa della nullità del decreto ingiuntivo opposto, in quanto emesso da giudice territorialmente incompetente, con la conseguenza di ritenerla impugnabile solo col regolamento necessario di competenza di cui all’art. 42 c.p.c., e non già con l’appello (la cui inammissibilità, se non dichiarata dal giudice di secondo grado, è rilevabile anche d’ufficio in sede di legittimità).

È appellabile, secondo Sez. 6-1, n. 21586/2018, Falabella, Rv. 650344-01, anche l’ordinanza con la quale il giudice dispone la cancellazione della causa dal ruolo ex art. 181, comma 1, c.p.c., dovendosi riconoscere a quest’ultima carattere decisorio, dal momento che determina ex lege l’estinzione del giudizio, anche là dove questa non venga formalmente dichiarata (nella specie, è stata cassata la pronuncia d’appello che aveva ritenuto inammissibile il gravame proposto, ritenendo non decisorio il provvedimento di cancellazione della causa dal ruolo, assunto in prima udienza in assenza della comparizione delle parti, ed aveva ritenuto inammissibile l’impugnazione per mancanza di difese di merito, essendo, al contrario, applicabile, come conseguenza dell’estinzione, l’art. 354, comma 2, c.p.c.).

Hanno, invece, natura meramente ordinatoria le pronunce in materia di integrità del contraddittorio, con la conseguenza che non possono essere considerate sentenze non definitive suscettibili di separata impugnazione o riserva d’appello e, in difetto, di passaggio in giudicato (in considerazione di tale principio, Sez. 2, n. 17898/2018, Cosentino, Rv. 649388-01, ha confermato la decisione della corte d’appello secondo cui, poiché i convenuti in primo grado, essendo comproprietari degli immobili a vantaggio dei quali esisteva la contestata servitù di acquedotto, erano litisconsorti necessari ex art. 102 c.p.c., la sentenza non definitiva del tribunale che aveva dichiarato il loro difetto di legittimazione passiva non poteva acquisire efficacia di giudicato, nonostante non avesse formato oggetto di riserva di appello).

Fa applicazione del principio di apparenza Sez. 2, n. 24515/18, Giannaccari, Rv. 650653-01, affermando che, nel caso in cui l’opposizione a decreto ingiuntivo riguardante onorari di avvocato sia stata introdotta e decisa sulla base del rito sommario codicistico ex art. 702-bis c.p.c. (in luogo del rito speciale di cui all’art. 14 del d.lgs. n. 150 del 2011), la decisione deve essere impugnata con l’appello, secondo il regime previsto dall’art. 702-quater c.p.c. (nella specie, il giudice di primo grado, utilizzando il rito sommario ordinario ex art. 702-bis c.p.c., aveva dichiarato inammissibile l’opposizione perché non introdotta con le forme del rito ordinario; la S.C., pur ritenendo erronea la ricostruzione normativa del giudice a quo, ha dichiarato inammissibile il ricorso contro tale ordinanza poiché, alla luce del principio di apparenza, avrebbe dovuto essere proposto appello come stabilito dall’art. 702-quater c.p.c.).

In continuità con la giurisprudenza dell’anno precedente (Sez 3, n. 15644/2017, D’Arrigo, Rv. 644750-01), Sez. 3, n. 05655/2018, Cirillo F.M., Rv. 648291-01, ha affermato che, nell’ipotesi in cui l’ordinanza di inammissibilità del gravame, pronunciata ex artt. 348-bis e 348-ter c.p.c, indichi ulteriori rationes decidendi – del tutto assenti nella sentenza di primo grado – con le quali il giudice di appello abbia corroborato la propria decisione, questa risulterà autonomamente impugnabile nella parte in cui ha aggiunto e integrato la motivazione del giudice di prime cure. Negli stessi termini si è espressa Sez. 3, n. 03023/2018, Fanticini, Rv. 647940-01, la quale ha precisato che, in tal caso, resta fermo il termine prescritto dall’art. 348-ter, comma 3, c.p.c., atteso che, applicando all’ordinanza avente contenuto di sentenza il termine lungo dalla comunicazione ex art. 327 c.p.c., il decorso di distinti termini per impugnare i due provvedimenti comporterebbe il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado, rendendo incomprensibile la ricorribilità avverso l’ordinanza.

È invece ricorribile per cassazione ex art. 111, comma 7, Cost., secondo Sez. 6-3, n. 19333/2018, D’Arrigo, Rv. 650283-01, l’ordinanza che dichiari l’inammissibilità dell’appello in violazione dell’art. 348-ter, comma 1, c.p.c. (secondo cui tale declaratoria deve essere effettuata, sentite le parti, prima di procedere alla trattazione ex art. 350 c.p.c.), senza che sia necessario valutare se da tale violazione sia derivato un effettivo pregiudizio al diritto di difesa delle parti (nella specie, la Corte ha cassato con rinvio l’ordinanza della corte d’appello che aveva dichiarato inammissibile l’appello dopo essere pervenuta alla fase della trattazione della causa, avendo le parti dibattuto sull’ammissibilità delle richieste istruttorie e sulla sospensione della provvisoria esecutività della sentenza impugnata).

Infine, occupandosi di una fattispecie peculiare, Sez. 2, n. 28414/2018, Grasso Giu., Rv. 651184-01, ha individuato nel solo appello il mezzo di impugnazione della sentenza pronunciatasi, in primo grado, sulla revocazione di un decreto ingiuntivo.

3. Forme e termini dell’impugnazione.

Sez. 3, n. 22256/2018, Fiecconi, Rv. 650592-01, ha ribadito il consolidato principio per cui l’appello erroneamente proposto con ricorso, anziché con atto di citazione, è ammissibile ove sia notificato entro il termine di impugnazione, aggiungendo, con specifico riguardo alla fattispecie concreta, che non ha rilevanza, in senso ostativo alla maturazione della decadenza dalla facoltà di proporre gravame, la circostanza che il decreto di fissazione dell’udienza sia stato emesso e comunicato dopo lo spirare di tale termine, poiché il tempestivo deposito del ricorso è soltanto uno degli elementi che concorre alla potenziale sanatoria dell’errore nella scelta del rito, non potendo la parte, relativamente agli altri elementi che non sono nella propria disponibilità, pretendere che l’ufficio provveda in tempi sufficienti a garantire detta sanatoria, né, tantomeno, invocare il diritto alla rimessione in termini, giacché l’errore sulla forma dell’atto di appello non è sussumibile nella causa non imputabile. Analoga ratio sottende la statuizione di Sez. 6-3, n. 14214/2018, Cirillo F.M., Rv. 649337-01, secondo cui il principio di consumazione dell’impugnazione non esclude che, fino a quando non intervenga una declaratoria di inammissibilità, possa essere proposto un secondo atto di impugnazione, immune dai vizi del precedente e destinato a sosti- tuirlo, purché esso sia tempestivo, requisito per la cui valutazione occorre tener conto, anche in caso di mancata notificazione della sentenza, non del termine annuale, bensì del termine breve, decorrente dalla data di proposizione della prima impugnazione, equivalendo essa alla conoscenza legale della sentenza da parte dell’impugnante (nella specie, la Corte, in applicazione del suddetto principio, ha dichiarato inammissibile il ricorso avverso l’ordinanza ex art. 348-bis c.p.c. emessa dalla corte d’appello, siccome proposto oltre sessanta giorni dopo la notificazione di un altro ricorso per cassazione ex art. 348-ter, comma 3, c.p.c., avverso la sentenza di primo grado).

L’atto di citazione in appello, in virtù del richiamo dell’art. 163 c.p.c. da parte dell’art. 342 c.p.c., deve contenere, nella copia notificata all’appellato, l’indicazione della data dell’udienza di comparizione; pertanto, ove essa manchi e l’appellato sia rimasto contumace, il giudice, rilevata la nullità dell’atto, deve disporre la rinnovazione dello stesso e, qualora detta rinnovazione non avvenga, dichiarare l’estinzione del processo (Sez. 2, n. 14488/2018, Cavallari, Rv. 648843-01).

Non essendo prevista dalla legge l’adozione del rito sommario per il secondo grado di giudizio, nella forma ordinaria dell’atto di citazione deve essere proposta, secondo Sez. 1, n. 08757/2018, De Chiara, Rv. 648884-01, anche l’impugnazione dell’ordinanza conclusiva del giudizio sommario ex art. 702-ter c.p.c., senza che sia possibile, nel caso di appello introdotto mediante ricorso, la salvezza degli effetti dell’impugnazione, mediante lo strumento del mutamento del rito, previsto dall’art. 4, comma 5, del d.lgs. n. 150 del 2011.

Il principio di ultrattività del rito comporta che, ove una controversia sia stata erroneamente trattata in primo grado con il rito ordinario, anziché con quello speciale del lavoro, le forme del rito ordinario devono essere seguite anche per la proposizione dell’appello, che quindi deve essere introdotto con atto di citazione; viceversa, se la controversia sia stata erroneamente trattata col rito del lavoro anziché col rito ordinario, l’impugnazione dovrà seguire le forme della cognizione speciale (Sez. 6-3, n. 20705/2018, Scoditti, Rv. 650484-01).

È nullo (e non improcedibile) l’appello che non rispetti il termine previsto dall’art. 435, comma 3, c.p.c., e la nullità è sanabile ex tunc, mediante la spontanea costituzione dell’appellato o la rinnovazione disposta dal giudice ex art. 291 c.p.c. (Sez. 6-L, n. 22166/2018, Esposito, Rv. 650502-01).

Confermando l’arresto di Sez. U, n. 16598/2016, Frasca, Rv. 640829-01, Sez. 6-3, n. 01063/2018, Cirillo F.M., Rv. 647350-01, ha ribadito che la tempestiva costituzione dell’appellante con la copia dell’atto di citazione (cd. velina) in luogo dell’originale non determina l’improcedibilità del gravame ai sensi dell’art. 348, comma 1, c.p.c., ma integra una nullità per inosservanza delle forme indicate dall’art. 165 c.p.c., sanabile, anche su rilievo del giudice, entro l’udienza di comparizione di cui all’art. 350, comma 2, c.p.c., salva la possibilità per l’appellante di chiedere la remissione in termini ex art. 153 c.p.c., dovendosi ritenere, in difetto, consolidato il vizio ed improcedibile l’appello (nella specie, in applicazione del principio, la Corte ha ritenuto erronea la decisione impugnata che aveva dichiarato improcedibile l’appello, sebbene alla prima udienza l’attore, previa esibizione dell’originale dell’atto notificato non andato a buon fine, aveva chiesto al giudice un termine per il rinnovo della notifica, effettuata la quale, all’udienza successiva, aveva depositato l’originale).

Per quel che riguarda l’appello incidentale, mentre quello proposto nei termini per impugnare previsti dagli artt. 325, 326 e 327 c.p.c. conserva efficacia indipendentemente dall’ammissibilità dell’impugnazione principale, quello che sia stato proposto oltre lo spirare dei suddetti termini, in quanto tardivo, deriva la propria efficacia dall’appello principale, cosicché deve considerarsi inefficace nell’ipotesi in cui quest’ultimo venga dichiarato inammissibile (nel caso affrontato da Sez. 2, n. 20963/2018, Scalisi, Rv. 650024-01, in quanto non sottoscritto da un avvocato munito di ius postulandi). Fattispecie peculiare è quella affrontata da Sez. 6-1, n. 12584/2018, Mercolino, Rv. 648588-01, in cui una parte, dopo avere proposto appello in via principale contro la sentenza di primo grado, aveva reiterato le medesime censure sotto forma di appello incidentale (rispetto all’appello principale della controparte, nel frattempo intervenuto). Orbene, la Corte ha ritenuto che, essendo stato proposto l’originario appello oltre il termine di legge, non potesse trovare applicazione l’art. 358 c.p.c. (secondo cui la consumazione del diritto di impugnazione si verifica solo se, al momento dell’introduzione del nuovo gravame, sia già intervenuta la dichiarazione di inammissibilità o improcedibilità di quello precedente), sicché l’appello incidentale tardivo doveva considerarsi inammissibile, nonostante fosse stato proposto prima della declaratoria di inammissibilità di quello principale.

Per quel che riguarda la competenza territoriale del giudice d’appello, si segnala un contrasto nella giurisprudenza della Corte dell’anno 2018.

In particolare, mentre Sez. 6-3, n. 08155/2018, Scarano, Rv. 648698-01, uniformandosi a Sez. U, n. 18121/2016, Matera, Rv. 641081-01, ha statuito che la proposizione dell’appello davanti ad un giudice diverso, per territorio o grado, da quello indicato dall’art. 341 c.p.c. non determina l’inammissibilità dell’impugnazione ma è idonea ad instaurare un valido rapporto processuale, suscettibile di proseguire dinanzi al giudice competente attraverso il meccanismo della translatio iudicii, Sez. 6-1, n. 05092/2018, Scaldaferri, Rv. 649140-01, discostandosi dal richiamato recente precedente delle Sezioni Unite (in un’ipotesi in cui la sentenza dichiarativa di fallimento era stata impugnata con l’opposizione dinanzi al tribunale, anziché con l’appello introdotto dal d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5), ha affermato, invece, che l’appello erroneamente proposto ad un giudice diverso da quello legittimato a riceverlo esula dalla nozione di competenza dettata dal codice di procedura civile per il giudizio di primo grado, sicché l’ipotesi non è riconducibile all’art. 50 c.p.c. e alla regola della translatio iudicii, ponendosi l’erronea individuazione del giudice dell’impugnazione, come questione attinente non ai poteri cognitivi dell’organo giudicante adito, bensì alla mera valutazione delle condizioni di proponibilità o ammissibilità del gravame che, pertanto, va dichiarato precluso se prospettato ad un giudice diverso da quello individuato per legge.

4. L’oggetto dell’impugnazione

Venendo a trattare, più specificamente, dell’oggetto dell’impugnazione, Sez. 3, n. 20799/2018, Vincenti, Rv. 650415-01, ha statuito che è ammissibile l’impugnazione con cui l’appellante deduca esclusivamente vizi di rito avverso una pronuncia che abbia deciso in senso a lui sfavorevole anche nel merito, solo qualora detti vizi comportino, se fondati, la rimessione al primo giudice ai sensi degli artt. 353 e 354 c.p.c.; in caso contrario, è necessario che l’appellante deduca ritualmente anche le questioni di merito, sicché, in tali ipotesi, l’appello proposto esclusivamente in rito è inammissibile, oltre che per un difetto di interesse, anche per non rispondenza al modello legale di impugnazione (nello stesso senso si veda anche Sez. 2, n. 11299/2018, Bellini, Rv. 648097-02).

Nell’ipotesi particolare in cui, con l’appello, venga dedotto il vizio della sentenza di primo grado, consistente nell’avere il giudice deciso la causa nel merito prima ancora che le parti avessero definito il thema decidendum e il thema probandum, l’appellante deve specificare, ai fini dell’ammissibilità dell’impugnazione, quale sarebbe stato il thema decidendum sul quale il giudice di prime cure si sarebbe dovuto pronunciare, ove fosse stata consentita la richiesta appendice di trattazione di cui all’art. 183 c.p.c., e quali prove sarebbero state dedotte, con l’evidenziazione del concreto pregiudizio derivato dalla loro mancata ammissione (Sez. 2, n. 24402/2018, Carrato, Rv. 650652-01).

5. L’effetto devolutivo e l’onere di riproposizione ex art. 346 c.p.c.

In linea generale, Sez. 3, n. 09202/2018, Iannello, Rv. 648592-01, ha affermato che l’effetto devolutivo dell’appello entro i limiti dei motivi d’impugnazione preclude al giudice del gravame esclusivamente di estendere le sue statuizioni a punti che non siano compresi, neanche implicitamente, nel tema del dibattito esposto nei motivi d’impugnazione, mentre non viola il principio del tantum devolutum quantum appellatum il giudice di appello che fondi la decisione su ragioni che, pur non specificamente fatte valere dall’appellante, tuttavia appaiano, nell’ambito della censura proposta, in rapporto di diretta connessione con quelle espressamente dedotte nei motivi stessi, costituendone necessario antecedente logico e giuridico (si trattava di una fattispecie in cui la sentenza di merito aveva ritenuto – erroneamente, secondo la Suprema Corte – non “espressamente censurato” dal motivo d’appello il profilo inerente alla quantificazione dell’indennizzo dovuto per una polizza vita, nonostante la prospettata non debenza fosse stata argomentata non in ragione dell’insussistenza o dell’estinzione dell’obbligo contrattuale, bensì di considerazioni legate proprio ai criteri di calcolo del dovuto). Questa concezione non restrittiva dell’effetto devolutivo dell’appello non ha, tuttavia, impedito a Sez. 6-L, n. 25933/2018, Cavallaro, Rv. 650998-01, di ravvisare il vizio di ultrapetizione nella decisione del giudice di secondo grado il quale, a fronte dell’impugnazione di una sentenza di condanna al risarcimento del danno sotto il solo profilo della sussistenza della responsabilità, senza modificare le statuizioni afferenti a tale punto, aveva modificato la quantificazione del risarcimento.

In ordine all’individuazione dell’oggetto della devoluzione (e, specularmente, del giudicato interno, in ipotesi di mancata censura in appello), Sez. 6-L, n. 24783/2018, Cavallaro, Rv. 650927-01, ha affermato che la locuzione giurisprudenziale “minima unità suscettibile di acquisire la stabilità del giudicato interno” individua la sequenza logica costituita dal fatto, dalla norma e dall’effetto giuridico, ossia la statuizione che affermi l’esistenza di un fatto sussumibile sotto una norma che ad esso ricolleghi un dato effetto giuridico. Ne consegue che, sebbene ciascun elemento di detta sequenza possa essere oggetto di singolo motivo di appello, nondimeno l’impugnazione motivata anche in ordine ad uno solo di essi riapre la cognizione sull’intera statuizione (nella specie, la Corte ha confermato la decisione di merito che, pur in assenza di specifico gravame sul punto da parte dell’assicurato, in seguito all’appello dell’INPS in merito alla tardività dell’azione giudiziale, aveva riesaminato l’intera questione della decadenza in tema di benefici previdenziali ex art. 13 della l. n. 257 del 1992, ritenendola maturata per i soli ratei anteriori al triennio dalla proposizione della domanda amministrativa). Il medesimo principio di diritto si riscontra in Sez. L, n. 16853/2018, Torrice, Rv. 649361-01.

Non richiede riproposizione ad opera dell’appellante la questione relativa alla nullità di un contratto, nell’ambito di una controversia in cui si faccia valere una pretesa che presupponga la validità ed efficacia del rapporto contrattuale: ove non rilevata (né trattata) in primo grado, tale questione può essere, infatti, oggetto del rilievo officioso del giudice dell’appello, ai sensi dell’art. 345 c.p.c. (così Sez. 6-3, n. 19251/2018, Positano, Rv. 650242-01, sulla scia di Sez. U, n. 07294/2017, Frasca, Rv. 643337-01, nonché di Sez. U, n. 26242/2014, Travaglino, Rv. 633509-01). In termini analoghi si è espressa Sez. L, n. 28926/2018, Patti, Rv. 651392-02, in tema di licenziamento disciplinare illegittimo, con riferimento ai profili attinenti all’inidoneità degli addebiti e alla non proporzionalità della sanzione, ritenuti rilevabili d’ufficio da parte del giudice di secondo grado, senza necessità di riproposizione ex art. 346 c.p.c. Con significativa statuizione, Sez. 2, n. 11287/2018, Falaschi, Rv. 648501-03, ha affermato che la disciplina legale inerente al fatto giuridico costitutivo del diritto è di per sé sottoposta al giudice di grado superiore, senza che vi ostino i limiti dell’effetto devolutivo dell’appello; pertanto, il giudice ha l’obbligo di rilevare d’ufficio l’esistenza di una norma di legge idonea ad escludere, alla stregua delle circostanze di fatto già allegate ed acquisite agli atti di causa, il diritto vantato dalla parte, e ciò anche in grado di appello, senza che su tale obbligo possa esplicare rilievo la circostanza che, in primo grado, le questioni controverse abbiano investito altri e diversi profili di possibile infondatezza della pretesa in contestazione e che la statuizione conclusiva di detto grado si sia limitata solo a tali diversi profili.

L’onere di riproposizione sussiste a carico della parte vittoriosa in primo grado, la quale si sia vista, però, respingere alcuna delle sue deduzioni o eccezioni (in tal senso, secondo l’orientamento ormai consolidato a partire da Sez. U., n. 12067/2007, Segreto, Rv. 597141-01, Sez. 2, n. 02091/2018, Falaschi, Rv. 647787/01). Applicazione di tale principio è stata fatta, nel 2018, da Sez. 3, n. 21018/2018, De Stefano, Rv. 650186-01, relativamente alla deduzione della responsabilità del convenuto, ex art. 2052 c.c., con riferimento alla doppia qualità di proprietario e di utilizzatore dell’animale: in questo caso, l’accoglimento della domanda in base alla seconda prospettazione onera la parte vittoriosa di riproporre la prima, in caso di appello del soccombente in primo grado (senza tuttavia che sia necessario proporre appello incidentale). Pure Sez. 3, n. 13768/2018, Di Florio, Rv. 648713-01, si è pronunciata in argomento, opinando per la necessità di riproposizione in appello della domanda di risarcimento del danno da inadempimento, sulla quale il giudice di primo grado non si era pronunciato, avendola ritenuta assorbita dal rilievo del difetto di legittimazione attiva dell’attore.

Occorre segnalare, infine, Sez. 1, n. 28792/2018, Mucci, Rv. 651453-01, occupatasi di una fattispecie in cui la domanda, proposta alternativamente nei confronti di due convenuti, era stata accolta nei confronti di uno solo di essi, e rigettata nei confronti dell’altro (in particolare, si trattava della domanda formulata da un ente ospedaliero, per il pagamento delle rette di degenza di un paziente psichiatrico, nei confronti sia del Comune sia della Asl, che era stata accolta limitatamente all’ente territoriale). Ebbene, la Corte ha affermato che l’appello introdotto dal soccombente non comporta la devoluzione al giudice di secondo grado anche della cognizione sulla pretesa dell’attore nei confronti del convenuto alternativo, posto che l’unicità del rapporto sostanziale, con titolare passivo incerto, non toglie che due e distinte siano le formali pretese, caratterizzate – pur nell’unità del “petitum” – dalla diversità dei soggetti convenuti (“personae”) e in parte dei fatti e degli argomenti di sostegno (“causae petendi”): in relazione alla suddetta pretesa, pertanto, l’attore – appellato ha l’onere di riproporre la domanda già formulata in primo grado, ai sensi dell’art. 346 c.p.c.

Circa le modalità di attuazione dell’onere di riproposizione ex art. 346 c.p.c., Sez. 1, n. 20520/2018, Iofrida, Rv. 650166-01, ha ritenuto insufficiente il generico richiamo al contenuto degli scritti difensivi di primo grado.

Diversamente, allorquando un’eccezione di merito sia stata respinta in primo grado, in modo espresso o attraverso un’enunciazione indiretta che ne sottenda, chiaramente ed inequivocamente, la valutazione di infondatezza, la devoluzione al giudice d’appello della sua cognizione, da parte del convenuto rimasto vittorioso quanto all’esito finale della lite, esige la proposizione del gravame incidentale, non essendone, altrimenti, possibile il rilievo officioso ex art. 345, comma 2, c.p.c. (per il giudicato interno formatosi ai sensi dell’art. 329, comma 2, c.p.c.), né sufficiente la mera riproposizione, utilizzabile, invece, e da effettuarsi in modo espresso, ove quella eccezione non sia stata oggetto di alcun esame, diretto o indiretto, ad opera del giudice di prime cure (in tal senso, nel solco tracciato da Sez. U, n. 11799/2017, Frasca, Rv. 644305-01, si è espressa Sez. L, n. 21264/2018, Cinque, Rv. 650208-01). Lo stesso è a dirsi per la domanda riconvenzionale sulla quale il giudice di primo grado abbia omesso di pronunciarsi, la quale postula necessariamente la proposizione dell’appello incidentale, nell’ipotesi in cui la decisione di prime cure sia stata, a sua volta, impugnata dall’altra parte, anch’essa soccombente (così Sez. 6-2, n 10406/2018, Falaschi, Rv. 648229-01). Analogamente, si mostra necessario l’appello incidentale per censurare l’omessa pronuncia, da parte del giudice di primo grado, su una domanda della parte vittoriosa in relazione ad altre domande, sebbene la specificazione delle ragioni poste a fondamento del motivo possa esaurirsi nell’evidenziare la mancata adozione in sentenza di una decisione sulla domanda ritualmente proposta (Sez. 2, n. 20690/2018, Falaschi, Rv. 650005-01). Ancora, a parere di Sez. 6-3, n. 06716/2018, Scoditti, Rv. 648490-01, ha l’onere di proporre appello incidentale condizionato, onde evitare il formarsi del giudicato interno, la parte che sia rimasta soccombente sulla questione preliminare rappresentata dalla qualificazione giuridica di un contratto rispetto all’accertamento del relativo inadempimento, quando essa abbia condizionato l’impostazione e la definizione dell’indagine di merito (nella specie, la Corte ha cassato la sentenza con la quale il giudice di secondo grado, in assenza di appello incidentale della parte vincitrice ma soccombente in merito alla questione preliminare, aveva qualificato il contratto su cui si fondava la domanda come contratto autonomo di garanzia, in luogo della differente qualificazione come fideiussione in primo grado).

6. Le parti e il contraddittorio.

Secondo Sez. 2, n. 26631/2018, Criscuolo, Rv. 650787-01, il principio di ragionevole durata del processo fa premio sulla necessità di applicare l’art. 354 c.p.c. (imponendo quindi al giudice di secondo grado di decidere nel merito la controversia), nell’ipotesi in cui il litisconsorte necessario pretermesso intervenga volontariamente in appello, accettando la causa nello stato in cui si trova, e nessuna delle altre parti resti privata di facoltà processuali non già altrimenti pregiudicate.

Osserva Sez. 1, n. 15905/2018, Valitutti, Rv. 649280-01, che sussiste litisconsorzio necessario, in appello, tra la parte originaria (non estromessa dal giudizio di primo grado) e il successore a titolo particolare intervenuto (o chiamato) nel processo, con la conseguenza che, se la sentenza è appellata da uno soltanto o contro uno soltanto dei medesimi, deve essere ordinata, anche d’ufficio, l’integrazione del contraddittorio nei confronti dell’altro, a norma dell’art. 331 c.p.c., dovendosi, in difetto, rilevare, anche d’ufficio, in sede di legittimità, il difetto di integrità del contraddittorio con rimessione della causa al giudice di merito per la eliminazione del vizio.

Con riguardo all’intervento ex art. 344 c.p.c., la relativa legittimazione è stata esclusa da Sez. 2, n. 31313/2018, Scarpa, Rv. 651601-02, con riguardo al condebitore solidale, il quale non è qualificabile come terzo titolare di un diritto autonomo rispetto a quello oggetto di contesa tra le parti originarie, suscettibile di pregiudizio per effetto della decisione fra di esse pronunciata.

Un’ipotesi di rimessione della causa al primo giudice ex art. 354, comma 1, c.p.c. è stata individuata, da Sez. 1, n. 05256/2018, Cristiano, Rv. 647744-01, nell’ipotesi in cui (in mancanza di un tutore provvisorio) non sia stato nominato un curatore speciale ex art. 78 c.p.c. al minore, in un giudizio concernente l’adozione di provvedimenti ablativi della responsabilità genitoriale, riguardante entrambi i genitori. In tal caso – ha affermato la Corte – il procedimento deve ritenersi nullo, con rimessione della causa al primo giudice affinché provveda all’integrazione del contraddittorio.

Non assume, invece, la posizione di parte necessaria, nei giudizi per i quali il suo intervento è previsto come obbligatorio, il Pubblico Ministero, sicché la sua mancata partecipazione – ha osservato Sez. 1, n. 03638/2018, Mercolino, Rv. 647057-01 – non comporta una lesione del contraddittorio rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del processo e tale da giustificare la rimessione degli atti al primo giudice, ex art. 354 c.p.c., ma integra un vizio di nullità rilevabile d’ufficio, il quale si converte in motivo di gravame, ex art. 161 c.p.c.

Neppure è consentita la rimessione della causa ex art. 354 c.p.c. al giudice di primo grado, nell’ipotesi in cui si verifichi la nullità non già della notificazione dell’atto di citazione in appello, bensì di quest’ultimo, in quanto proposto nei confronti di una persona giuridica estinta, in modo, dunque, da non consentire la regolare instaurazione del rapporto processuale (Sez. 6-3, n. 02647/2018, Rossetti, Rv. 647924-02).

7. I nova in appello.

In linea generale, in continuità con la giurisprudenza precedente, la Corte nel 2018 ha ribadito che la questione relativa alla novità, o meno, di una domanda giudiziale è correlata all’individuazione del bene della vita in relazione al quale la tutela è richiesta, per cui non può esservi mutamento della domanda ove si sia in presenza di un ipotetico concorso di norme, anche solo convenzionali, a presidio dell’unico diritto azionato, presupponendo il cambiamento della domanda la mutazione del corrispondente diritto, non già della sua qualificazione giuridica. Ne consegue che se l’attore invoca, a sostegno della propria pretesa, un presidio normativo ulteriore rispetto a quello originariamente richiamato, fermi i fatti che ne costituiscono il fondamento, ciò non determina alcuna mutatio libelli, restando invariato il diritto soggettivo del quale è richiesta la tutela. (Sez. 3, n. 23167/2018, Di Florio, Rv. 650600-01). A fortiori, non incorrono nella preclusione di cui all’art. 345 c.p.c. (che si riferisce alle sole eccezioni in senso stretto) le mere difese, volte a contrastare genericamente le avverse pretese senza tradursi nell’allegazione di un fatto impeditivo, modificativo o estintivo rispetto alle stesse (in tal senso, Sez. 6-1, n. 23796/2018, Di Marzio M., Rv. 650608-01, la quale ha annullato la sentenza di merito che aveva ritenuto eccezione nuova la deduzione dell’appellante di infondatezza – per mancanza di prova – dell’avversa ragione di credito, in quanto basata su documentazione all’uopo inidonea).

Si ha domanda nuova, invece, ove venga a mutare uno dei presupposti della domanda inizialmente proposta, in modo da introdurre una causa petendi non prospettata in precedenza, e dunque un nuovo tema di indagine, sul quale non si sia formato in precedenza il contraddittorio (Sez. 6-L, n. 23415/2018, Esposito, Rv. 650924-01). Pertanto, incorre nel divieto dell’art. 345 c.p.c. una prospettazione la quale, sia pure sulla scorta del medesimo quadro fattuale, introduca una nuova causa petendi (così Sez. 6-2, n. 00535/2018, Criscuolo, Rv. 647219-01, con riferimento ad una fattispecie nella quale la restituzione di una somma di denaro era stata invocata, in primo grado, sulla base del titolo rappresentato da un contratto di mutuo, e in secondo grado in ragione del fatto che essa era stata versata dal terzo acquirente di un immobile nell’ambito di un giudizio di divisione, e trattenuta da uno solo dei condividenti). In tal senso, Sez. 6-2, n. 31256/2018, Criscuolo, Rv. 651795-01, ha ritenuto che l’opposizione all’ingiunzione fiscale (emessa, nella specie, per la riscossione della sanzione amministrativa irrogata per la violazione del codice della strada) integri una domanda diretta all’accertamento dell’illegittimità della pretesa fatta valere con l’ingiunzione stessa, rispetto alla quale l’opponente assume la veste di attore; conseguentemente, il mutamento, in grado di appello, della ragione addotta a sostegno dell’indicata illegittimità configura non un’eccezione nuova – proponibile ai sensi dell’art. 345, comma 2, c.p.c. – bensì una modificazione della causa petendi e, quindi, dell’originaria domanda, soggetta alla preclusione di cui al comma 1 del citato art. 345. In ossequio alla configurazione del processo di secondo grado quale revisio prioris instantiae, piuttosto che quale iudicium novum, è stato, invece, ritenuto che integrino nova vietati dall’art. 345 c.p.c. anche le contestazioni in punto di fatto, non svolte in primo grado (in tal senso, Sez. 6-3, n. 02529/2018, Scrima, Rv. 647921-01)

Con specifico riguardo alla materia successoria, esplicitamente sconfessando i due (isolati) precedenti rappresentati da Sez. 2, n. 13385/2011, Bucciante, Rv. 618334-01, e Sez. 2, n. 26741/2017, Picaroni, Rv. 645959-01, Sez. 2, n. 28272/2018, Criscuolo, Rv. 651381-01, ha affermato che, nell’ambito dei giudizi di riduzione per lesione della legittima e di divisione, è inammissibile l’allegazione, per la prima volta, in appello di beni idonei ad incidere sulla determinazione del relictum, ulteriori rispetto a quelli indicati, in primo grado, nel rispetto delle preclusioni assertive. Pure inammissibile, in ragione del mutamento di causa petendi, è stata ritenuta da Sez. 2, n. 26274/2018, Scarpa, Rv. 650840-01, la proposizione, in appello, della domanda per il conseguimento degli utili ancora dovuti, in rapporto alla qualità e quantità del lavoro prestato, al momento della cessazione di un rapporto di collaborazione ad un’impresa familiare (in conseguenza della morte del titolare dell’impresa), a fronte della diversa domanda, formulata nel giudizio di primo grado da un coerede nei confronti degli altri, al fine di ottenere una quota dell’azienda suddetta, oltre che la conseguente ripartizione degli utili.

Nell’ambito dei diritti reali, è stata invece considerata nuova (e pertanto inammissibile in appello), da Sez. 2, n. 14502/2018, Criscuolo, Rv. 648846-01, la domanda diretta all’accertamento dell’aggravamento di una servitù prediale (ex art. 1067 c.c.), e al conseguente ripristino della situazione precedente, rispetto all’actio negatoria servitutis proposta in primo grado. Per converso, è stata considerata eccezione in senso lato, come tale proponibile per la prima volta in grado d’appello, in materia di usucapione, la deduzione del proprietario che il bene sia stato goduto dal preteso possessore per mera tolleranza, sempre che la dimostrazione dei relativi fatti emerga dal materiale probatorio raccolto nel rispetto delle preclusioni istruttorie, concernendo il divieto di cui all’art. 345 c.p.c. le sole eccezioni in senso stretto, ossia quelle riservate in esclusiva alla parte e non rilevabili d’ufficio (così Sez. 2, n. 31638/2018, Criscuolo, Rv. 651602-01).

Occorre altresì considerare Sez. 2, n. 30721/2018, Scarpa, Rv. 651596-03, per la quale, in tema di acquisto di alloggio di edilizia residenziale pubblica, la domanda, proposta, per la prima volta in appello, dagli eredi del titolare del diritto di riscatto in base all’art. 2, comma 3, della l. 2 aprile 2001, n. 136 - che obbliga l’amministrazione a provvedere alla cessione dell’alloggio in favore degli eredi ove il titolare del diritto al riscatto abbia presentato nei termini la relativa richiesta, indipendentemente dalla sua conferma – è da considerarsi nuova e, quindi, inammissibile, secondo il disposto dell’art. 345 c.p.c., rispetto alla diversa domanda, originariamente presentata in primo grado dagli stessi eredi, volta ad accertare la trasmissione della proprietà dell’alloggio in loro favore in seguito all’acquisto fattone, quando ancora era in vita, dal titolare del diritto di riscatto ovvero il loro diritto all’acquisto dell’immobile ai sensi dell’art. 2932 c.c. o nella qualità di familiari conviventi con l’assegnatario da oltre un quinquennio ex art. 1, comma 6, della l. 24 dicembre 1993, n. 560, poiché la differente normativa invocata comporterebbe il necessario esame dei presupposti di fatto da essa richiesti per il riconoscimento del diritto controverso.

Ribadendo il consolidato orientamento della giurisprudenza della Corte, Sez. L, n. 02292/2018, Cinque, Rv. 647305-01, ha affermato che la richiesta di restituzione di somme corrisposte in esecuzione della sentenza di primo grado, anche nel rito del lavoro, consegue alla richiesta di modifica della decisione impugnata e, non costituendo domanda nuova, è ammissibile in appello, se formulata, a pena di decadenza, con l’atto di gravame, ove a tale momento la sentenza sia stata già eseguita, ovvero nel corso del giudizio, qualora l’esecuzione sia avvenuta dopo la proposizione dell’impugnazione. La pronuncia ha precisato, tuttavia, che la proposizione di tale domanda è, invece, preclusa nella comparsa conclusionale, o – per quanto riguarda il rito del lavoro – nelle “note conclusionali”, trattandosi di atto di carattere meramente illustrativo, senza che rilevi che la decisione di primo grado sia stata messa in esecuzione tra l’udienza di conclusioni e la scadenza del termine per il deposito delle relative comparse. In argomento, Sez. 3, n. 18062/2018, Ambrosi, Rv. 649665-01, ha evidenziato che la sentenza d’appello che, in riforma quella di primo grado, faccia sorgere il diritto alla restituzione degli importi pagati in esecuzione di questa, non costituisce, in mancanza di un’espressa statuizione di condanna alla ripetizione di dette somme, titolo esecutivo, occorrendo all’uopo che il solvens formuli in sede di gravame – per evidenti ragioni di economia processuale ed analogamente a quanto disposto dagli artt. 96, comma 2 e 402, comma 1, c.p.c. – un’apposita domanda in tal senso, ovvero attivi un autonomo giudizio, tenendo conto che, ove si determini in quest’ultimo senso, non gli sarà opponibile il giudicato derivante dalla mancata impugnazione della sentenza per omessa pronuncia, perché la rinuncia implicita alla domanda di cui all’art. 346 c.p.c. ha valore processuale e non anche sostanziale.

Per quel che riguarda, più specificamente, i mezzi di prova (la cui deduzione in appello è improntata alla regola restrittiva di cui all’attuale formulazione dell’art. 345, comma 3, c.p.c., come risultante dalla modifica introdotta dal d. l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. dalla l. 7 agosto 2012, n. 134), Sez. 1, n. 21178/2018, Di Marzio P., Rv. 650230-01, ha ritenuto legittima l’acquisizione, nell’ambito di un giudizio di separazione o di divorzio in grado d’appello, di una relazione investigativa sulle condizioni reddituali di una parte, prodotta per la prima volta insieme con la comparsa conclusionale del secondo grado del giudizio, poiché la tutela degli interessi morali e materiali della prole è sottratta all’iniziativa ed alla disponibilità delle parti, ed è sempre riconosciuto al giudice il potere di adottare d’ufficio, in ogni stato e grado del giudizio di merito, tutti i provvedimenti necessari per la migliore protezione dei figli, e di esercitare, in deroga alle regole generali sull’onere della prova, i poteri istruttori officiosi necessari alla conoscenza della condizione economica e reddituale delle parti.

Nell’anno in rassegna la Corte (Sez. 3, n. 11752/2018, Vincenti, Rv. 648705-01) ha avuto modo, peraltro, di pronunciarsi anche con riferimento al regime anteriore alle modifiche di cui alla l. 18 giugno 2009, n. 69, e alla citata l. n. 134 del 2012 (alla cui stregua dovevano considerarsi ammissibili anche i mezzi di prova che il collegio avesse ritenuto indispensabili ai fini della decisione, secondo quanto chiarito da Sez. U, n. 10790/2017, Manna A., Rv. 643939-01), puntualizzando che il giudizio d’indispensabilità relativo a prove documentali nuove non può riguardare quelle dichiarate inammissibili nel grado precedente. In tale ipotesi, la richiesta di ammissione deve essere reiterata all’udienza di precisazione delle conclusioni del giudizio di primo grado, dovendo altrimenti ritenersi che la parte vi abbia tacitamente rinunciato, con conseguente inammissibilità della riproposizione della medesima richiesta in appello (nella specie, la Corte ha cassato la sentenza impugnata, perché, in relazione ad una responsabilità medica, dichiarata inammissibile la produzione del “diario clinico” della parte in primo grado, perché irritualmente prodotto, la Corte di Appello ne aveva ammesso la produzione nel secondo grado, ritenendola indispensabile, pur in mancanza di una reiterazione della richiesta in udienza di precisazione delle conclusioni).

Quanto alla successione cronologica delle diverse formulazioni dell’art. 345 c.p.c., Sez. 3, n. 20793/2018, Iannello, Rv. 650412-01, ha evidenziato che ai giudizi iniziati in primo grado in epoca anteriore al 30 aprile 1995, ancora pendenti in primo grado alla data del 4 luglio 2009 e conclusi con sentenza appellata prima del 12 agosto 2012, trova applicazione, quanto al giudizio di appello (in virtù della norma transitoria di cui all’art. 58, comma 2, della l. n. 69 del 2009, prevalente, quale lex posterior, su quella di cui all’art. 90, comma 2, della l. 26 novembre 1990, n. 353), l’art. 345 c.p.c. come modificato dall’art. 46, comma 18, della l. n. 69 del 2009, con la conseguenza che, in presenza di dette condizioni, le parti non possono produrre nuovi documenti, né chiedere l’ammissione di nuovi mezzi di prova, salvo che il collegio non li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa ovvero che la parte dimostri di non averli potuto proporre nel giudizio di primo grado, per causa ad essa non imputabile.

  • giurisdizione civile

CAPITOLO XIV

IL GIUDIZIO DI CASSAZIONE

(di Salvatore Saija )

Sommario

1 Il ricorso per cassazione. Le novità normative. Evoluzione applicativa. - 2 Il procedimento. - 2.1 Notificazione del ricorso (o del controricorso). - 2.2 Onere di deposito della copia conforme della sentenza impugnata a pena di improcedibilità ex art. 369, comma 2, n. 2, c.p.c. - 2.3 L’interesse ad impugnare. - 2.4 La legittimazione attiva. - 2.5 L’impugnazione incidentale. - 2.6 I requisiti di forma e contenuto del ricorso (e del controricorso). - 2.7 Vizi denunciabili. - 2.8 Ulteriori questioni procedurali. - 3 Il giudizio di rinvio.

1. Il ricorso per cassazione. Le novità normative. Evoluzione applicativa.

Com’è noto, l’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in l. 7 agosto 2012, n. 134, oltre ad aver introdotto il cd. filtro in appello, ha anche apportato una significativa modifica all’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., in tema di motivi di ricorso per cassazione, restringendo ampiamente la proponibilità di impugnazioni inerenti al vizio motivazionale, e ciò sia in ottica deflattiva, ma anche allo scopo di restituire e valorizzare la funzione nomofilattica della Corte.

Nella medesima prospettiva, il procedimento di cassazione è stato oggetto di un recente intervento normativo, apportato dal d.l. 31 agosto 2016, n. 168, conv. con modificazioni con la l. 25 ottobre 2016, n. 197.

Con detto ultimo intervento, in estrema sintesi, premessa la consueta tripartizione dei ricorsi relativamente alla destinazione, ossia a) quelli destinati ab origine alle Sezioni Unite, b) i regolamenti di competenza e di giurisdizione e c) ogni altro ricorso (alla Sezione ordinaria), la novella apportata al codice di rito ha introdotto, per questi ultimi, il sistema del “triplo binario”, come definito dai primi commentatori. In sostanza, è stata accentuata la cameralizzazione del procedimento (già contemplata, com’è noto, dall’art. 375 c.p.c. e regolata dall’art. 380-bis c.p.c.), prevedendosi: a) una procedura camerale di definizione accelerata (e senza partecipazione delle parti) per i ricorsi destinati alla declaratoria di inammissibilità o improcedibilità, ovvero manifestamente fondati o infondati, da definirsi in sesta sezione civile (cd. sezione “filtro”); b) una procedura camerale di sezione semplice (anche qui, senza partecipazione delle parti), per i ricorsi di rilevanza non nomofilattica, ossia quelli in cui vengano in rilievo solo elementi attinenti allo ius litigatoris; c) la pubblica udienza per i ricorsi a rilevanza nomofilattica, ove cioè si presentino questioni attinenti allo ius constitutionis.

In relazione a quest’ultima riforma – che si applica a tutti i ricorsi già proposti alla data della sua entrata in vigore (avvenuta il 30 ottobre 2016), ma per i quali non era stata ancora fissata l’udienza – anche nel corso del 2018 risultano adottate ulteriori interessanti decisioni.

Così, per il caso di rinuncia al ricorso, Sez. 6-3, n. 02647/2018, Rossetti, Rv. 647924-01, ha affermato che, per effetto delle cennate novità introdotte nell’art. 380-bis c.p.c., sull’istanza di fissazione dell’udienza proposta ai sensi dell’art. 391, comma 3, c.p.c. può senz’altro disporsi la trattazione del ricorso in camera di consiglio, per essere riservata alla pubblica udienza la decisione delle sole questioni di diritto aventi rilievo nomofilattico.

Sez. 3, n. 05665/2018, Porreca, Rv. 648294-01, ha ritenuto, poi, che la pronuncia in camera di consiglio conseguente all’adunanza non partecipata di cui all’art. 380-bis, comma 1, c.p.c. – funzionale alla decisione di questioni di diritto di rapida trattazione e prive di peculiare rilevanza o complessità ex art. 375, comma 2, c.p.c. – non è compatibile con l’enunciazione del principio di diritto nell’interesse della legge a norma dell’art. 363, comma 3, c.p.c., presupponendo quest’ultima la particolare importanza della questione giuridica esaminata.

Confermando l’indirizzo ampiamente maggioritario già adottato dalle Sezioni semplici, Sez. U, n. 14437/2018, De Stefano, Rv. 649623-01, ha ribadito che la rimessione di una causa alla pubblica udienza dall’adunanza camerale prevista nell’art. 380-bis.1, c.p.c. è ammissibile in applicazione analogica del comma 3 dell’art. 380-bis c.p.c., rientrando la valutazione circa la sussistenza dei presupposti per la trattazione del ricorso in pubblica udienza – e, in particolare, sulla particolare rilevanza della questione di diritto coinvolta – nella discrezionalità del collegio giudicante, che ben può escluderne la ricorrenza in ragione del carattere consolidato dei principi di diritto da applicare al caso di specie.

Sempre in relazione al procedimento camerale dinanzi alla Sezione semplice, e avuto riguardo al tema delle spese del giudizio di legittimità, Sez. 5, n. 21105/2018, D’Oriano, Rv. 649941-01, ha affermato che il controricorso inammissibile non può essere posto a carico del ricorrente soccombente nel computo dell’onorario di difesa da rimborsare alla parte resistente, poiché in tale ipotesi detta condanna deve limitarsi all’attività successiva eventualmente svolta, che, nel procedimento in camera di consiglio dinanzi alla Sezione ordinaria, previsto dal d.l. n. 168 del 2016, conv., con modif., con l. n. 197 del 2016, è limitato alla redazione della memoria scritta ex art. 380-bis, comma 1, c.p.c., ossia all’unica attività difensiva consentita in detto procedimento, da ritenersi equiparata alla (o sostitutiva della) discussione in pubblica udienza.

Dal punto di vista del regime intertemporale, Sez. 5, n. 21798/2018, Scrima, Rv. 650063-01, ha ribadito che alle parti costituitesi tardivamente (nei giudizi già pendenti) deve essere assicurato il diritto di depositare memorie scritte, nel termine di cui all’art. 380-bis.1 c.p.c., al fine di evitare disparità di trattamento rispetto ai processi trattati in pubblica udienza ed in attuazione dei principi del giusto processo. Tuttavia, la stessa Sez. 5, n. 24422/2018, Putaturo Donati Viscido di Nocera, Rv. 650526-01, ha successivamente statuito nel senso che nel procedimento camerale di cui all’art. 380-bis.l c.p.c., in mancanza di controricorso notificato nei termini di legge, l’intimato non è legittimato al deposito di memorie illustrative ex art. 370 c.p.c., ancorché sia munito di regolare procura speciale ad litem. Sul tema, Sez. 1, n. 27124/2018, Mercolino, Rv. 651448-02, ha poi precisato che, non essendo prevista nel procedimento camerale la fase della discussione orale propria dell’ordinario giudizio di legittimità in pubblica udienza, non è ammissibile la costituzione tardiva del difensore mediante deposito di procura speciale rilasciata ai fini della partecipazione alla discussione, poiché la Corte giudica senza l’intervento del Pubblico Ministero e delle parti, il concorso dei quali, alla fase decisoria, può realizzarsi in forma scritta, mediante il deposito di memorie.

Ancora, Sez. 3, n. 30592/2018, Scarano, Rv. 651922-01, ha affermato che le memorie ex art. 380-bis.1 c.p.c., se spedite a mezzo del servizio postale, devono essere dichiarate inammissibili qualora giungano in cancelleria dopo la scadenza del termine, sicché nulla di quanto in esse proposto può essere preso in considerazione, non essendo applicabile l’art. 134 disp. att. c.p.c., in quanto previsto esclusivamente per il ricorso ed il controricorso.

Anche nel 2018, si registrano poi numerose pronunce concernenti il ricorso per cassazione «per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti», come oggi previsto dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., riformato dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv. in l. n. 134 del 2012 (rispetto al quale v. anche, infra, l’Approfondimento tematico di Scarpa, L’evoluzione del sindacato sulla motivazione nella giurisprudenza della Suprema Corte).

Anzitutto, Sez. 5, n. 11439/2018, Fasano, Rv. 648075-01, ha ribadito che la previsione d’inammissibilità del ricorso per cassazione, di cui all’art. 348-ter, comma 5, c.p.c., che esclude che possa essere impugnata ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. la sentenza di appello “che conferma la decisione di primo grado”, non si applica per i giudizi di appello introdotti con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione anteriormente all’11 settembre 2012.

Va poi segnalata Sez. 6-3, n. 04367/2018, De Stefano, Rv. 648037-01, che nel solco di Sez. U, n. 08053/2014, Botta, Rv. 629830-01, ha affermato che, in seguito alla riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., integra motivazione insanabilmente contraddittoria, ovvero apparente, per impossibilità di ricavare la logicità del ragionamento inferenziale del giudice, quella che affermi la sussistenza di un presupposto per l’applicazione di una norma negandone immotivatamente la conseguente applicazione (fattispecie in cui la sentenza impugnata, ritenuta la sussistenza della custodia di un manufatto, aveva peraltro escluso la responsabilità ex art. 2051 c.c. del custode proprietario, adducendo la presenza di altre cause ma senza indagare sul loro ruolo esclusivo).

Ancora, Sez. 2, n. 20721/2018, Falaschi, Rv. 650018-02, ha ribadito che il vizio motivazionale previsto dal novellato art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., presuppone che il giudice di merito abbia esaminato la questione oggetto di doglianza, ma abbia totalmente pretermesso uno specifico fatto storico; oppure, esso può consistere nella violazione del cd. “minimo costituzionale”, ossia nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa e obiettivamente incomprensibile”, mentre resta irrilevante il semplice difetto di “sufficienza” della motivazione.

Più specificamente, circa l’individuazione del “fatto”, il cui omesso esame è denunciabile in sede di legittimità, Sez. 6-5, n. 08621/2018, Napolitano, Rv. 647730-01, ha escluso che esso possa consistere nella mancata considerazione di una perizia stragiudiziale, in quanto la stessa costituisce un mero argomento di prova. Si segnala, a riguardo, anche Sez. 1, n. 26305/2018, Valitutti, Rv. 651305-01, la quale ha affermato che il novellato art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, nel cui paradigma non è inquadrabile la censura concernente la omessa valutazione di deduzioni difensive. (In applicazione del predetto principio, la S.C. ha rigettato il motivo di ricorso con il quale il ricorrente, in un giudizio per la dichiarazione della paternità naturale, si doleva che il giudice d’appello non avesse tenuto conto delle risultanze della consulenza tecnica di parte, sottolineando come, nonostante il suo contenuto tecnico e a differenza della consulenza tecnica d’ufficio, la c.t.p. costituisca una semplice allegazione difensiva, priva di autonomo valoro probatorio).

Né, del resto – secondo Sez. 2, n. 20718/2018, Falaschi, Rv. 650016-02 – può costituire «fatto decisivo» del giudizio l’omesso esame di una questione riguardante l’interpretazione del contratto, non riconducibile al vizio di cui all’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., atteso che rientrano in tale nozione gli elementi fattuali e non quelli meramente interpretativi.

Sempre sul tema, Sez. 3, n. 13399/2018, Fiecconi, Rv. 649039-01, ha invece ritenuto che il mancato esame delle risultanze della consulenza tecnica d’ufficio integra un vizio della sentenza che può essere fatto valere, nel giudizio di cassazione, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., come omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti. Nello stesso senso, Sez. 3, n. 13770/2018, Di Florio, Rv. 649151-01, ha ribadito che il mancato esame delle risultanze della CTU integra un vizio della sentenza che può essere fatto valere, nel giudizio di cassazione, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., risolvendosi nell’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti. Tale vizio ricorre anche nel caso in cui nel corso del giudizio di merito siano state espletate più consulenze tecniche, in tempi diversi e con difformi soluzioni prospettate, ed il giudice si sia uniformato alla seconda consulenza senza valutare le eventuali censure di parte e giustificare la propria preferenza, limitandosi ad un’acritica adesione ad essa, ovvero si sia discostato da entrambe le soluzioni senza dare adeguata giustificazione del suo convincimento mediante l’enunciazione dei criteri probatori e degli elementi di valutazione specificamente seguiti (fattispecie in cui, in un giudizio per il risarcimento del danno biologico, il giudice d’appello aveva ridotto la percentuale di invalidità riconosciuta dal primo giudice avvalendosi acriticamente della CTU rinnovata ed omettendo del tutto non solo di sviluppare un’analisi comparativa, ma anche di menzionare le diverse conclusioni cui era giunto l’ausiliare di primo grado).

Sez. L, n. 16703/2018, Ponterio, Rv. 649316-01, ha quindi ribadito che integra un vizio deducibile ai sensi del novellato art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., l’omesso esame di un fatto storico, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti ed abbia carattere decisivo, ossia idoneo a determinare un esito diverso della controversia (fattispecie in cui la decisione di merito aveva omesso di esaminare il dato della mancata comunicazione, al socio lavoratore, della delibera di esclusione, fatto decisivo ai fini della conoscenza delle specifiche ragioni di esclusione e della decorrenza del termine per proporre opposizione). Pertanto, secondo Sez. 2, n. 27415/2018, Scarpa, Rv. 651028-01, l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.

Ancora, Sez. 2, n. 26274/2018, Scarpa, Rv. 650840-02, ha precisato che il fatto di cui sia stato omesso l’esame, rilevante ai fini del novellato art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., deve essere stato “oggetto di discussione fra le parti” e, quindi, necessariamente “controverso”. Ne consegue che, ove il giudice affermi che un fatto è esistente o provato, perché incontroverso o pacifico (e, quindi, non discusso), tale punto della decisione non può essere censurato in termini di vizio della motivazione ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., potendosi piuttosto configurare una violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c. o degli artt. 115, comma 1 (ove applicabile ratione temporis), 167, comma 1, 183 c.p.c. e 2697 c.c.

Sez. 6-5, n. 11863/2018, Carbone, Rv. 648686-01, ha affermato che la deduzione avente ad oggetto la persuasività del ragionamento del giudice di merito nella valutazione delle risultanze istruttorie (nella specie, per aver considerato il contrasto tra le dichiarazioni rese da una stessa persona in dibattimento e nel corso delle indagini preliminari) attiene alla sufficienza della motivazione ed è, pertanto, inammissibile ove trovi applicazione l’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., nella nuova formulazione successiva alla l. n. 134 del 2012. Ancora, Sez. L, n. 12096/2018, Amendola F., Rv. 648978-01, ha precisato che, in seguito alla riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. da parte di detta legge, è denunciabile in cassazione l’anomalia motivazionale che si concretizza nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili”, quale ipotesi che non rende percepibile l’iter logico seguito per la formazione del convincimento e, di conseguenza, non consente alcun effettivo controllo sull’esattezza e sulla logicità del ragionamento del giudice (fattspecie in cui la decisione di merito conteneva affermazioni inconciliabili in ordine alla presenza o meno dell’assoggettamento della lavoratrice al vincolo della subordinazione).

Ancora, Sez. 6-5, 28174/2018, Napolitano, Rv. 651118-01, ha affermato che il vizio di motivazione fondato sul travisamento della prova – implicando non una valutazione dei fatti, ma una constatazione che l’informazione probatoria, utilizzata in sentenza, è contraddetta da uno specifico atto processuale – esclude che si verta in ipotesi di cd. doppia conforme quanto all’accertamento dei fatti stessi, preclusiva del ricorso per cassazione ai sensi del novellato art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., ex art. 348, ultimo comma, c.p.c.

In materia di “filtro”, Sez. 6-3, n. 04366/2018, De Stefano, Rv. 648036-02, ha precisato che anche un solo precedente, se univoco, chiaro e condivisibile, integra l’orientamento della giurisprudenza della S.C. di cui all’art. 360-bis, n. 1, c.p.c., con conseguente dichiarazione di inammissibilità del relativo ricorso per cassazione che non ne contenga valide critiche. Tuttavia, secondo Sez. 6-5, n. 28070/2018, Luciotti, Rv. 651832-01, la condizione di ammissibilità del ricorso, indicata nell’art. 360-bis, comma 1, n. 1 c.p.c. non è integrata dalla mera dichiarazione, espressa nel motivo, di porsi in contrasto con la giurisprudenza di legittimità, ove non vengano individuate le decisioni e gli argomenti sui quali l’orientamento contestato si fonda. (Fattispecie in cui la difesa erariale, in sede di ricorso, si era limitata a dichiarare di non condividere l’indirizzo di legittimità in tema di applicabilità di agevolazioni fiscali, senza peraltro addurre alcun elemento di novità rispetto a tesi già esaminate e confutate dalla S.C. in precedenti decisioni).

Peraltro, Sez. 5, n. 22326/2018, Federici, Rv. 650683-01, ha affermato che nell’ipotesi in cui mediante il ricorso per cassazione venga dedotto anche il vizio di motivazione della pronuncia impugnata non può trovare applicazione l’art. 360-bis n. 1 c.p.c., in presenza dei presupposti del quale è ammessa la declaratoria di inammissibilità del ricorso quando vengano in rilievo solo questioni di diritto.

2. Il procedimento.

Numerose pronunce si sono ovviamente occupate di aspetti più tipicamente procedimentali. Di seguito ricordiamo le più rilevanti, raggruppate per argomento.

2.1. Notificazione del ricorso (o del controricorso).

Su un piano generale, va anzitutto segnalata Sez. L, n. 07703/2018, Marotta, Rv. 648261-02, che – in linea con l’insegnamento di Sez. U, n. 14916/2016, Virgilio, Rv. 640604-01 – ha affermato che l’inesistenza della notificazione del ricorso per cassazione è configurabile nelle sole ipotesi in cui venga posta in essere un’attività priva degli elementi costitutivi essenziali idonei a renderla riconoscibile come tale. Detti elementi, per la fase di consegna, consistono nel raggiungimento di uno qualsiasi degli esiti positivi della notificazione previsti dall’ordinamento, in virtù dei quali la stessa debba comunque considerarsi eseguita. Pertanto, la notificazione in un luogo diverso dal domicilio eletto, ove l’atto risulti consegnato al destinatario e non restituito al mittente, non è inesistente, ma nulla ed è suscettibile di sanatoria per effetto della costituzione in giudizio dell’intimato, ancorché effettuata al solo fine di eccepire la nullità.

Inoltre, secondo Sez. 5, n. 18402/2018, D’Orazio, Rv. 649616-01, l’eventuale nullità della notificazione è sanata dalla predisposizione (e notifica) del controricorso ad opera della parte resistente, la quale si sia difesa nel merito, in virtù del generale principio di sanatoria dei vizi degli atti processuali del raggiungimento dello scopo ex art. 156, comma 3, c.p.c.

Infine, sulla notificazione del ricorso in generale, si segnala Sez. 6-2, n. 18361/2018, D’Ascola, Rv. 649461-01, che ha ribadito che la produzione dell’avviso di ricevimento del piego raccomandato contenente la copia del ricorso per cassazione spedita a mezzo del servizio postale, ai sensi dell’art. 149 c.p.c., o della raccomandata con la quale l’ufficiale giudiziario dà notizia al destinatario dell’avvenuto compimento delle formalità di cui all’art. 140 c.p.c., è richiesta dalla legge esclusivamente in funzione della prova dell’avvenuto perfezionamento del procedimento notificatorio e, dunque, dell’avvenuta instaurazione del contraddittorio. Ne consegue che l’avviso non allegato al ricorso e non depositato successivamente può essere prodotto fino all’udienza di discussione ex art. 379 c.p.c., ma prima che abbia inizio la relazione prevista dal comma 1 della citata disposizione, ovvero fino all’adunanza della corte in camera di consiglio prevista dall’art. 380-bis c.p.c., anche se non notificato mediante elenco alle altre parti nel rispetto dell’art. 372, comma 2, c.p.c. In caso, però, di mancata produzione dell’avviso di ricevimento ed in assenza di attività difensiva dell’intimato, il ricorso per cassazione è inammissibile, non essendo consentita la concessione di un termine per il deposito e non ricorrendo i presupposti per la rinnovazione della notificazione ex art. 291 c.p.c.; tuttavia, il difensore del ricorrente presente in udienza o all’adunanza della corte in camera di consiglio può domandare di essere rimesso in termini per il deposito dell’avviso che affermi di non aver ricevuto, offrendo la prova documentale di essersi tempestivamente attivato nel richiedere all’amministrazione postale un duplicato dell’avviso stesso, secondo quanto stabilito dall’art. 6, comma 1, della l. n. 890 del 1982.

Di particolare importanza, tuttavia, sono i provvedimenti emanati dalla Corte nel corso del 2018, stante l’attualità della questione, in tema di notifica del ricorso per cassazione, o del controricorso, a mezzo del servizio di posta elettronica certificata (PEC).

Così, Sez. 6-3, n. 12605/2018, De Stefano, Rv. 648878-01, ha affermato che qualora sia stata versata in atti solo una copia analogica del controricorso notificato a mezzo PEC, nonché una copia analogica del messaggio di posta elettronica con cui questo sarebbe stato notificato, documenti entrambi privi dell’attestazione di conformità ai documenti informatici da cui sono stati tratti, ai sensi dell’art. 9, comma 1-bis, della l. 21 gennaio 1994, n. 53, non può dirsi sussistente la prova della ritualità e tempestività della notificazione e del deposito del controricorso stesso. Ne consegue che, difettando altri elementi agli atti da cui desumere univocamente tali circostanze, non possono essere riconosciute le spese al controricorrente che non abbia svolto ulteriore attività difensiva nel giudizio di legittimità. Peraltro, Sez. 3, n. 07900/2018, Fanticini, Rv. 648310-01, ha invece affermato che in siffatte ipotesi deve essere senz’altro dichiarata d’ufficio l’improcedibilità del controricorso, precisando che tale declaratoria non impedisce, tuttavia, in caso di rigetto del ricorso, la condanna del ricorrente alla rifusione delle spese sostenute dal controricorrente, ma limitatamente alla partecipazione alla discussione orale.

Con specifico riguardo all’instaurazione del contradditorio, occorre in primo luogo segnalare Sez. 6-5, n. 14042/2018, Solaini, Rv. 648750-01, secondo cui la violazione di specifiche tecniche dettate in ragione della configurazione del sistema informatico, in caso di notificazione del ricorso per cassazione a mezzo PEC, non comporta l’invalidità della notifica, qualora non vengano in rilievo la lesione del diritto di difesa o altro pregiudizio per la decisione finale, ma tutt’al più una mera irregolarità sanabile in virtù del principio di raggiungimento dello scopo.

Nello stesso senso, Sez. 3, n. 17022/2018, D’Arrigo, Rv. 649442-02, ha quindi stabilito che l’onere di indicare nell’atto notificato in corso di procedimento l’ufficio giudiziario, la sezione, il numero e l’anno di ruolo della causa, previsto a pena di nullità, rilevabile anche d’ufficio, dagli artt. 3-bis, comma 6, e 11 della l. n. 53 del 1994, assolve al fine di consentire l’univoca individuazione del processo al quale si riferisce la notificazione; ne consegue che, ove l’atto contenga elementi altrettanto univoci, quali – nel caso del controricorso o nel ricorso incidentale per cassazione – gli estremi della sentenza impugnata, la notificazione non potrà essere dichiarata nulla, ai sensi dell’art. 156, comma 3, c.p.c., avendo comunque raggiunto il suo scopo.

Più in dettaglio, per il caso in cui l’originale del ricorso per cassazione sia stato predisposto in cartaceo e sottoscritto con firma autografa, e sia stato poi notificato in via telematica, Sez. 6-L, n. 19078/2018, Doronzo, Rv. 649947-01, ha affermato che ai fini della prova del perfezionamento della notificazione è necessaria la produzione di copia analogica del messaggio di trasmissione a mezzo PEC e dei suoi allegati (ricorso e procura) nonché delle ricevute di accettazione e di avvenuta consegna munite di attestazione di conformità agli originali, ai sensi dell’art. 9, commi 1-bis e 1-ter, della l. n. 53 del 1994. Tale produzione rileva ai fini dell’ammissibilità del ricorso e può essere effettuata fino all’udienza di discussione, ovvero fino all’adunanza in camera di consiglio.

Per l’ipotesi nella quale, invece, il ricorso per cassazione sia stato predisposto in originale come documento informatico, e sia stato notificato a mezzo PEC, Sez. U, n. 22438/2018, Vincenti, Rv. 650462-03, ha affermato che l’atto nativo digitale notificato deve essere ritualmente sottoscritto con firma digitale, potendo la mancata sottoscrizione determinare la nullità dell’atto stesso, fatta salva la possibilità di ascriverne comunque la paternità certa, in applicazione del principio del raggiungimento dello scopo. Peraltro, la stessa Sez. U, n. 22438/2018, Vincenti, Rv. 650462-02, ha precisato (con principio enunciato ai sensi dell’art. 363, comma 3, c.p.c.) che in siffatta ipotesi, ai fini della prova della tempestività della notificazione del ricorso, è onere del controricorrente disconoscere, ai sensi della disciplina di cui all’art. 23, comma 2, del d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82, la conformità agli originali dei messaggi di PEC e della relata di notificazione depositati in copia analogica non autenticata dal ricorrente.

Per quanto si tratti di pronuncia dettata in tema di firma digitale per autentica della sottoscrizione in calce alla procura speciale ex art. 83, comma 3, c.p.c., ma con valenza di portata senz’altro generale, va qui segnalata Sez. U, n. 10266/2018, Cirillo E., Rv. 648132-02, che ha affermato che in tema di processo telematico, a norma dell’art. 12 del decreto dirigenziale del 16 aprile 2014, di cui all’art. 34 del d.m. n. 44 del 2011 – Ministero della Giustizia -, in conformità agli standard previsti dal Regolamento UE n. 910 del 2014 ed alla relativa decisione di esecuzione n. 1506 del 2015, le firme digitali di tipo “CAdES” e di tipo “PAdES” sono entrambe ammesse ed equivalenti, sia pure con le differenti estensioni “.p7m” e “.pdf”. Tale principio è stato ribadito da Sez. 2, n. 30927/2018, Giannaccari, Rv. 651536-01, sul rilievo che il certificato di firma, inserito nella busta crittografica, è presente in entrambi gli standard, parimenti abilitati.

Sempre sul tema della notificazione del ricorso con modalità telematiche, Sez. L, n. 21445/2018, Marotta, Rv. 650218-01, ha ribadito l’orientamento per cui, ai sensi dell’art. 16 septies del d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, conv.con modif. dalla l. 17 dicembre 2012, n. 221, qualora la notifica con modalità telematiche venga richiesta, con rilascio della ricevuta di accettazione, dopo le ore 21.00, essa si perfeziona alle ore 7.00 del giorno successivo. È pertanto inammissibile, perché non tempestivo, il ricorso per cassazione la cui notificazione sia stata richiesta, con rilascio della ricevuta di accettazione dopo le ore 21.00 del giorno di scadenza del termine per l’impugnazione.

Sempre a tal riguardo, è particolarmente significativa Sez. 6-3, n. 20798/2018, Cirillo F.M., Rv. 650477-01, che si è soffermata sulla piena applicabilità del principio della scissione del momento di perfezionamento della notifica per il notificante e per il destinatario anche alle notifiche eseguite con modalità telematica. Si è infatti precisato che per il primo (il notificante) il momento perfezionativo è determinato dall’emissione della ricevuta di accettazione e per il secondo (il destinatario) da quella di emissione della ricevuta di avvenuta consegna. Ne consegue che, trovando applicazione anche per le notificazioni eseguite in via telematica, l’art. 147 c.p.c., secondo il quale le notifiche devono essere eseguite tra le ore 7 e le ore 21, si deve considerare tardiva la notifica spedita alle 20.55 dell’ultimo giorno utile per la proposizione del ricorso per cassazione ma la cui ricevuta di accettazione sia stata emessa dopo le ore 21 con conseguente perfezionamento del procedimento notificatorio alle ore 7 del giorno successivo, ovvero quando il termine era già spirato.

Infine, quanto alle ricadute di possibili vizi del procedimento notificatorio con modalità telematiche sulle attività successive, va senz’altro segnalata la già citata Sez. U, n. 22438/2018, Vincenti, Rv. 650462-01, che ha affermato che il deposito in cancelleria, nel termine di venti giorni dall’ultima notifica, di copia analogica del ricorso per cassazione predisposto in originale telematico e notificato a mezzo PEC, senza attestazione di conformità del difensore ex art. 9, commi 1-bis e 1-ter, della l. n. 53 del 1994 o con attestazione priva di sottoscrizione autografa, non ne comporta l’improcedibilità ove il controricorrente (anche tardivamente costituitosi) depositi copia analogica del ricorso ritualmente autenticata ovvero non abbia disconosciuto la conformità della copia informale all’originale notificatogli ex art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 82 del 2005. Viceversa, ove il destinatario della notificazione a mezzo PEC del ricorso nativo digitale rimanga solo intimato (così come nel caso in cui non tutti i destinatari della notifica depositino controricorso) ovvero disconosca la conformità all’originale della copia analogica non autenticata del ricorso tempestivamente depositata, per evitare di incorrere nella dichiarazione di improcedibilità sarà onere del ricorrente depositare l’asseverazione di conformità all’originale della copia analogica sino all’udienza di discussione o all’adunanza in camera di consiglio.

Ha dato immediato seguito a detta pronuncia Sez. 3, n. 27480/2018, Di Florio, Rv. 651336-01. Sempre in linea col citato arresto, si segnala inoltre Sez. 6-1, n. 32231/2018, Sambito, Rv. 651826-01, secondo cui il deposito di copia analogica del controricorso, predisposto in originale telematico e notificato a mezzo PEC, senza attestazione di conformità del difensore ex art. 9, commi 1-bis e 1-ter, della l. n. 53 del 1994, o con attestazione priva di sottoscrizione autografa, non ne comporta l’inammissibilità ove il controricorrente depositi anche le attestazioni delle ricevute della notifica a mezzo PEC, e sempre che il ricorrente non contesti la conformità dell’atto analogico depositato con l’originale ricevuto presso la propria casella PEC.

2.2. Onere di deposito della copia conforme della sentenza impugnata a pena di improcedibilità ex art. 369, comma 2, n. 2, c.p.c.

Strettamente connesso al tema appena trattato è quello del deposito di copia conforme della sentenza, la cui mancanza determina l’improcedibilità del ricorso.

Sul tema, occorre ricordare che Sez. U, n. 10648/2017, D’Ascola, Rv. 643945-01, a composizione di contrasto, aveva affermato che deve escludersi la possibilità di applicazione della sanzione della improcedibilità al ricorso contro una sentenza notificata di cui il ricorrente non abbia depositato, unitamente al ricorso, la relata di notifica, ove quest’ultima risulti comunque nella disponibilità del giudice perché prodotta dalla parte controricorrente ovvero acquisita mediante l’istanza di trasmissione del fascicolo di ufficio.

Peraltro, per il caso di notifica della sentenza con modalità telematica, si era registrato, nel 2017, un vivace dibattito giurisprudenziale, arricchito dalle pronunce emesse anche nel 2018 e destinato a culminare in un ulteriore arresto delle Sezioni Unite, come si dirà tra breve.

A tal proposito, Sez. 6-3, n. 12609/2018, De Stefano, Rv. 648721-02, ha affermato che l’attestazione di conformità agli originali digitali della copia, formata su supporto analogico, della sentenza e della relazione di notificazione da depositare in cancelleria deve essere eseguita dal difensore del ricorrente mediante sottoscrizione autografa ai sensi dell’art. 9, commi 1-bis e 1-ter, l. n. 53 del 1994, senza che un’attestazione implicita ad essa equipollente possa desumersi dalla sottoscrizione della nota di iscrizione a ruolo e di deposito nella cancelleria, non essendo tale ultima firma finalizzata a certificare alcunché, ma soltanto a riferire al sottoscrittore l’elencazione, sotto la propria responsabilità, degli atti che con essa si depositano.

Sez. 6-1, n. 22757/2018, Di Marzio M., Rv. 650936-01, ha ribadito che qualora la notificazione della sentenza impugnata sia stata eseguita con modalità telematiche, per ritenere soddisfatto l’onere di deposito della copia autentica della decisione con la relazione di notificazione, il difensore del ricorrente non può procedere al deposito telematico della sentenza, della quale deve invece estrarre e depositare copia analogica, unitamente alla relazione di notifica, attestandone la conformità agli originali digitali, ai sensi dell’art. 9, commi 1-bis e 1-ter, l. n. 53 del 1994.

Secondo Sez. 6-3, n. 10941/2018, D’Arrigo, Rv. 648805-01, nel caso in cui la sentenza impugnata sia stata redatta in formato digitale, l’attestazione di conformità della copia analogica predisposta per la S.C. (fintantoché innanzi alla stessa non sia attivato il processo civile telematico) può essere redatta, ex art. 9, commi 1-bis e 1-ter della l. n. 53 del 1994, dal difensore che ha assistito la parte nel precedente grado di giudizio, i cui poteri processuali e di rappresentanza permangono, anche nel caso in cui allo stesso fosse stata conferita una procura speciale per quel singolo grado, sino a quando il cliente non conferisca il mandato alle liti per il giudizio di legittimità ad un altro difensore. In linea con tale arresto si pone quindi la successiva Sez. 3, n. 30846/2018, Frasca, Rv. 651862-01, secondo cui a seguito della nomina del difensore in cassazione e, quindi, dell’assunzione del patrocinio da parte sua, l’autenticazione della copia della sentenza d’appello, ai fini del ricorso, non può essere effettuata da un altro avvocato cui non sia stata conferita la procura speciale per la proposizione del suddetto ricorso, essendo solo il primo, sulla base della procura rilasciatagli per il giudizio di legittimità, abilitato all’attività di accesso presso il giudice della sentenza impugnata, al fine di ottenere la copia della sentenza dalla cancelleria o di acquisire le credenziali per l’accesso al fascicolo telematico.

Passando ora ad un piano più generale (che prescinde, cioè, dalla questione se la sentenza impugnata sia stata o meno notificata ai fini del decorso del termine breve), si segnala Sez. 5, n. 01295/2018, Greco, Rv. 646700-01, secondo cui qualora o per eccezione del controricorrente o per le emergenze del diretto esame delle produzioni delle parti o del fascicolo d’ufficio – e nel silenzio del ricorrente, che non abbia allegato che la sentenza impugnata gli era stata notificata – emerga che la stessa sentenza era stata notificata ai fini del decorso del termine di impugnazione, la Corte, indipendentemente dal riscontro della tempestività o meno del rispetto del termine breve, deve accertare se la parte ricorrente abbia ottemperato all’onere del deposito della copia della sentenza impugnata entro il termine di cui al primo comma dell’art. 369 c.p.c. e, in mancanza, deve dichiarare improcedibile il ricorso, atteso che il riscontro della improcedibilità precede quello dell’eventuale inammissibilità.

Per il caso del ricorso proposto ai sensi dell’art. 348 ter, comma 3, c.p.c., avverso la sentenza di primo grado, entro sessanta giorni dalla comunicazione, o notificazione se anteriore, dell’ordinanza d’inammissibilità dell’appello, resa ai sensi dell’art. 348-bis c.p.c., Sez. U, n. 11850/2018, Manna, Rv. 648274-01, ha stabilito che, ai fini del requisito di procedibilità di cui all’art. 369, comma 2, c.p.c., il ricorrente è soggetto ad un duplice onere di deposito, avente ad oggetto la copia autentica sia della sentenza impugnata, sia della citata ordinanza, con la relativa comunicazione o notificazione, e ciò allo scopo di consentire la verifica della tempestività del ricorso; in difetto, questo è improcedibile, salvo che la Corte – nell’esercitare il proprio potere officioso e sempre che il ricorrente abbia assolto l’onere di richiedere il fascicolo d’ufficio alla cancelleria del giudice a quo – rilevi che l’impugnazione sia stata proposta nei sessanta giorni dalla comunicazione o notificazione ovvero, in mancanza dell’una e dell’altra, entro il termine cd. lungo di cui all’art. 327 c.p.c.

Infine, come in parte anticipato, va opportunamente segnalato che la giurisprudenza della S.C. ha colto prontamente il problema del coordinamento del principio dettato, in tema di tempestivo deposito del ricorso notificato, da Sez. U, n. 22438/2018, Vincenti, Rv. 650462-01, rispetto a quello enunciato, riguardo al correlativo onere di deposito della sentenza impugnata, da Sez. U, n. 10648/2017, D’Ascola, Rv. 643945-01, entrambe citate in precedenza.

Infatti, con ordinanza interlocutoria Sez. 6-3, n. 28844/2018, Scoditti, non massimata, sono stati rimessi gli atti al Primo Presidente, al fine di valutare l’investitura delle Sezioni Unite, relativamente ai seguenti quesiti: «se in mancanza del deposito della copia autentica della sentenza, da parte del ricorrente o dello stesso controricorrente, nel termine di venti giorni dall’ultima notificazione del ricorso, il deposito in cancelleria nel suddetto termine di copia analogica della sentenza notificata telematicamente, senza attestazione di conformità del difensore ex art. 9, commi 1-bis e 1 ter, della l. n. 53 del 1994 o con attestazione priva di sottoscrizione autografa, comporti l’improcedibilità del ricorso anche se il controricorrente non abbia disconosciuto la conformità della copia informale all’originale notificato o intervenga l’asseverazione di conformità all’originale della copia analogica sino all’udienza di discussione o all’adunanza in camera di consiglio»; «se il deposito in cancelleria nel termine di venti giorni dall’ultima notificazione del ricorso di copia analogica della relazione di notifica telematica della sentenza, senza attestazione di conformità del difensore ex art. 9, commi 1-bis e 1 ter, della l. n. 53 del 1994 o con attestazione priva di sottoscrizione autografa, comporti l’improcedibilità del ricorso anche se il controricorrente non abbia disconosciuto la conformità della copia informale della relazione di notificazione o intervenga l’asseverazione di conformità all’originale della copia analogica sino all’udienza di discussione o all’adunanza in camera di consiglio»; «se ai fini dell’assolvimento dell’onere di deposito della copia autentica della decisione notificata telematicamente nel termine di venti giorni dall’ultima notificazione del ricorso, sia sufficiente per il difensore del ricorrente, destinatario della suddetta notifica, estrarre copia cartacea del messaggio di posta elettronica certificata pervenutogli e dei suoi allegati (relazione di notifica e provvedimento impugnato), ed attestare con propria sottoscrizione autografa la conformità agli originali digitali della copia formata su supporto analogico, o sia necessario provvedere anche al deposito di copia autenticata della sentenza estratta direttamente dal fascicolo informatico». Tale ricorso sarà trattato dalle Sezioni Unite nell’udienza pubblica del 26 febbraio 2019.

2.3. L’interesse ad impugnare.

Sez. 1, n. 22772/2018, Di Marzio P., Rv. 650921-02, ha ribadito che l’interesse difetta, con conseguente inammissibilità del ricorso per cassazione, in capo a colui che deduca l’omessa pronuncia relativamente a domanda proposta da controparte, non essendo al riguardo configurabile alcuna soccombenza.

Ancora, Sez. 1, n. 02626/2018, Genovese, Rv. 646877-01, ha ribadito che la parte che denunci la nullità della sentenza per un vizio di attività del giudice lesivo del proprio diritto di difesa, ha l’onere di specificare in cosa detto vizio gli abbia concretamente arrecato pregiudizio, giacchè l’ordinamento non tutela l’astratta regolarità dell’attività giudiziaria, ma mira ad eliminare il concreto pregiudizio subito dalla parte, sicché l’annullamento della sentenza impugnata è necessario solo se nel successivo giudizio di rinvio il ricorrente possa ottenere una pronuncia diversa e più favorevole.

In linea con un consolidato orientamento, Sez. 1, n. 08755/2018, Pazzi, Rv. 648883-01, ha ribadito che il motivo di ricorso che censuri un’argomentazione della sentenza impugnata svolta ad abundantiam, e pertanto non costituente una ratio decidendi della medesima è inammissibile. Infatti, tale affermazione, contenuta nella sentenza di appello, non può aver spiegare alcuna influenza sul dispositivo della stessa, essendo improduttiva di effetti giuridici, sicché essa non può essere oggetto di ricorso per cassazione, per difetto di interesse.

Infine, Sez. 5, n. 18648/2018, Triscari, Rv. 649711-01, ha precisato che il ricorso incidentale condizionato presuppone la soccombenza, la quale non sussiste, con conseguente inammissibilità del ricorso per carenza di interesse, ove lo stesso verta su una parte della motivazione che non abbia dato luogo ad una pronuncia su questione, pregiudiziale di rito o preliminare di merito, sfavorevole alla parte totalmente vittoriosa.

2.4. La legittimazione attiva.

Sez. 1, n. 02818/2018, Ferro, Rv. 647144-01, ha ribadito che nel caso in cui la parte adiuvata non abbia esercitato il proprio diritto di proporre impugnazione ovvero abbia fatto acquiescenza alla decisione ad essa sfavorevole, l’impugnazione dell’interveniente adesivo è inammissibile, in quanto egli non ha un’autonoma legittimazione ad impugnare (salvo che l’impugnazione sia limitata alle questioni specificamente attinenti la qualificazione dell’intervento o la condanna alle spese imposte a suo carico).

Né, tantomeno, è prospettabile nel giudizio di cassazione – secondo Sez. 6-2, n. 20565/2018, Abete, Rv. 650348-01 – l’intervento di terzi che non hanno partecipato alle pregresse fasi di merito. Tale principio vale anche, come evidenziato da Sez. 5, n. 33444/2018, Iofrida, Rv. 652035-01, per l’intervento di colui che assuma essere subentrato a titolo particolare nel diritto controverso ex art. 111 c.p.c. (come nell’ipotesi dell’incorporante la società originariamente parte del giudizio di cassazione), a meno che il dante causa non si sia costituito.

2.5. L’impugnazione incidentale.

Si pone in linea con l’orientamento consolidato Sez. 5, n. 07640/2018, Giudicepietro, Rv. 647556-01, secondo cui il ricorso per cassazione, proposto autonomamente dalla parte alla quale sia stato già notificato un ricorso avverso la medesima sentenza, vale come ricorso incidentale ed è ammissibile se notificato e depositato nei termini per quest’ultimo previsti.

Analogamente, Sez. 3, n. 06138/2018, Iannello, Rv. 648420-01, ha ribadito che il ricorso incidentale proposto dalla parte totalmente vittoriosa nel giudizio di merito, che investa questioni pregiudiziali di rito, ivi comprese quelle attinenti alla giurisdizione, o preliminari di merito, ha natura di ricorso condizionato, indipendentemente da ogni espressa indicazione di parte, e deve essere esaminato con priorità solo se le questioni pregiudiziali di rito o preliminari di merito, rilevabili d’ufficio, non siano state oggetto di decisione esplicita o implicita da parte del giudice di merito. Qualora, invece, sia intervenuta detta decisione, tale ricorso incidentale va esaminato dalla Corte di cassazione solo in presenza dell’attualità dell’interesse, sussistente unicamente nell’ipotesi della fondatezza del ricorso principale.

Tuttavia, Sez. 5, n. 09671/2018, Fuochi Tinarelli, Rv. 647714-01, ha invece affermato che il ricorso incidentale condizionato, proposto dalla parte interamente vittoriosa su questioni pregiudiziali decise in senso ad essa sfavorevole nella precedente fase di merito, può essere esaminato e deciso con priorità, senza tenere conto della sua subordinazione all’accoglimento del ricorso principale, quando sia fondato su una ragione più liquida che consenta di modificare l’ordine delle questioni da trattare, in adesione alle esigenze di celerità del giudizio e di economia processuale di cui agli artt. 24 e 111 Cost.

Sempre sul tema, Sez. 6-L, n. 19503-2018, Ghinoy, Rv. 650157-01, ha ribadito l’inammissibilità del ricorso incidentale condizionato con il quale la parte vittoriosa nel giudizio di merito sollevi questioni che siano rimaste assorbite, ancorché in virtù del principio cd. della ragione più liquida, non essendo ravvisabile alcun rigetto implicito, in quanto tali questioni, in caso di accoglimento del ricorso principale, possono essere riproposte davanti al giudice di rinvio.

Anche sulla impugnazione incidentale tardiva, peraltro, si registra un contrasto tra Sez. L, n. 06156/2018, Blasutto, Rv. 657499-01 e Sez. 5, n. 13651/2018, Castorina, Rv. 649085-01. Secondo la prima pronuncia, infatti, il ricorso incidentale tardivo, da qualunque parte provenga, va dichiarato inammissibile laddove l’interesse alla sua proposizione non possa ritenersi insorto per effetto dell’impugnazione principale (nella specie, si trattava dell’impugnazione concernente l’omessa pronuncia sulle spese dell’ordinanza d’appello ai sensi dell’art. 348-ter c.p.c.). Con la seconda pronuncia (seguita dalla successiva Sez. 5, n. 18415/2018, De Masi, Rv. 649766-01), si è invece sostenuto che l’impugnazione incidentale tardiva è ammissibile anche se riguarda un capo della decisione diverso da quello oggetto del gravame o se investe lo stesso capo per motivi diversi da quelli già fatti valere, poiché la ratio della relativa disciplina è quella di consentire alla parte, che avrebbe di per sé accettato la decisione, di contrastare l’iniziativa della controparte, ove la stessa rimetta in discussione l’assetto degli interessi derivante dalla pronuncia impugnata, con la conseguenza che sussiste l’interesse ad impugnare tutte le volte che l’eventuale accoglimento del gravame principale darebbe luogo ad una soccombenza totale o più grave, secondo un’interpretazione conforme al principio di ragionevole durata del processo di cui all’art. 111 Cost., atteso che una diversa, e più restrittiva, interpretazione, imporrebbe a ciascuna parte di cautelarsi, effettuando un’autonoma impugnazione tempestiva della statuizione rispetto alla quale è rimasta soccombente.

Sempre sul tema, Sez. 3, n. 15220/2018, D’Arrigo, Rv. 649306-01, ha affermato che in caso di declaratoria di inammissibilità del ricorso principale, il ricorso incidentale tardivo è inefficace ai sensi dell’art. 334, comma 2, c.p.c., con la conseguenza che la soccombenza va riferita alla sola parte ricorrente in via principale, restando irrilevante se sul ricorso incidentale vi sarebbe stata soccombenza del controricorrente, atteso che la decisione della Corte di cassazione non procede all’esame dell’impugnazione incidentale e dunque l’applicazione del principio di causalità con riferimento al decisum evidenzia che l’instaurazione del giudizio è da addebitare soltanto alla parte ricorrente principale.

Questione affine è stata invece decisa da Sez. 3, n. 19188/2018, Scoditti, Rv. 649738-01, che ha ribadito l’orientamento per il quale, nel caso di improcedibilità del ricorso principale, l’eventuale ricorso incidentale tardivo diviene inefficace, e ciò non in virtù di un’applicazione analogica dell’art. 334, comma 2, c.p.c. – dettato per la diversa ipotesi dell’inammissibilità dell’impugnazione principale -, bensì in base ad un’interpretazione logico-sistematica dell’ordinamento, che conduce a ritenere irrazionale che un’impugnazione (tra l’altro anomala) possa trovare tutela in caso di sopravvenuta mancanza del presupposto in funzione del quale è stata riconosciuta la sua proponibilità.

2.6. I requisiti di forma e contenuto del ricorso (e del controricorso).

Anche nel 2018, un tema molto dibattuto è stato quello dei requisiti di contenuto-forma del ricorso e del controricorso, previsti in via generale dagli artt. 365, 366 e 370 c.p.c.

Anzitutto, su un piano generale, si segnala Sez. 5, n. 29093/2018, Varrone, Rv. 651277-01, secondo cui i requisiti di contenuto-forma devono essere assolti necessariamente con il ricorso e non possono essere ricavati da altri atti, come la sentenza impugnata o il controricorso, dovendo il ricorrente specificare il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata indicando precisamente i fatti processuali alla base del vizio denunciato, producendo in giudizio l’atto o il documento della cui erronea valutazione si dolga, o indicando esattamente nel ricorso in quale fascicolo esso si trovi e in quale fase processuale sia stato depositato, e trascrivendone o riassumendone il contenuto nel ricorso, nel rispetto del principio di autosufficienza (nella specie, il ricorso della società contribuente non aveva riportato nel ricorso, nemmeno sinteticamente, la motivazione dell’avviso di accertamento, né quella degli atti istruttori sui quali l’atto impugnato in primo grado si fondava.)

Riguardo all’indicazione delle parti, requisito previsto dall’art. 366, comma 1, n. 1, c.p.c., Sez. L, n. 26489/2018, Berrino, Rv. 650986-01, ha ribadito che la notificazione del ricorso effettuata erroneamente nell’interesse di parte diversa da quella processuale non è affetta da nullità qualora, dalla lettura complessiva dell’atto, emerga chiaramente la riferibilità alla parte interessata, e comunque qualora l’atto abbia raggiunto il suo scopo, consentendo alla controparte di difendersi adeguatamente (nella specie, l’Avvocatura dello Stato aveva indicato, nella relata di notificazione via PEC, che il ricorso era proposto nell’interesse dell’Agenzia delle Entrate, soggetto che era estraneo al giudizio, svoltosi sin dall’inizio nei confronti del Ministero del lavoro e delle politiche sociali).

Sostanzialmente nello stesso senso si pone Sez. L, n. 02827/2018, Blasutto, Rv. 647400-01, secondo cui, qualora il ricorso per cassazione rechi una errata intestazione della parte contro cui è proposto, esso non è né inammissibile, né improcedibile, sempre che sia stato notificato proprio al soggetto che era stato parte in causa nel giudizio conclusosi con la sentenza impugnata e che, resistendo nel grado di giudizio dì legittimità, dopo avere proposto l’eccezione per il motivo sopra esposto, si sia difeso nel merito. Pertanto, ogni nullità e/o irregolarità dell’atto di impugnazione rimane così sanata ai sensi dell’articolo 156 c.p.c., avendo l’atto medesimo raggiunto lo scopo cui era destinato e non potendovi essere incertezza circa il destinatario (nella specie, il ricorso per cassazione, seppure proposto solo nei confronti del soppresso INPDAP, e non nei contronti del successore INPS, era stato tuttavia correttamente notificato a quest’ultimo).

Infine, Sez. 1, n. 16861/2018, Valitutti, Rv. 649539-01, ha ribadito che l’erronea indicazione delle generalità del ricorrente nell’epigrafe del ricorso per cassazione non ne comporta l’inammissibilità, qualora l’effettiva identità del suo autore sia individuabile in maniera non equivoca attraverso altre indicazioni, pur non risultanti dalla parte dell’atto destinata a contenerle e, segnatamente, mediante elementi desumibili dalla sentenza impugnata (fattispecie in cui la parte ricorrente era stata indicata nell’epigrafe del ricorso con un cognome diverso dal suo, ma poteva inequivocabilmente individuarsi in base all’intestazione, al dispositivo e al contenuto della pronuncia d’appello).

Riguardo all’onere di esposizione sommaria dei fatti di causa, prescritto dall’art. 366, comma 1, n. 3, c.p.c., si segnala anzitutto Sez. 2, n. 10072/2018, Lombardo, Rv. 648165-01, secondo cui detto requisito deve essere assolto necessariamente in modo sintetico, con la conseguenza che la relativa mancanza determina l’inammissibilità del ricorso, essendo la suddetta esposizione funzionale alla comprensione dei motivi nonché alla verifica dell’ammissibilità, pertinenza e fondatezza delle censure proposte.

Più in dettaglio, Sez. 3, n. 05640/2018, Frasca, Rv. 648290-01, ha affermato che la dichiarazione con la quale il ricorrente qualifichi espressamente una parte del ricorso come sede destinata all’esposizione del fatto e nella quale, pur indicando i fatti storici che hanno occasionato la controversia, ometta di individuare le ragioni giuridiche sulla base delle quali la domanda è stata introdotta, non assolve al requisito della esposizione sommaria dei fatti, in quanto non consente una conoscenza chiara e completa dei fatti di causa sostanziali e processuali. Secondo Sez. 3, n. 17036/2018, Rossetti, Rv. 649425-01, invece, per soddisfare il requisito dell’esposizione sommaria dei fatti di causa non è necessario che tale esposizione costituisca parte a sé stante del ricorso ma è sufficiente che essa risulti in maniera chiara dal contesto dell’atto, attraverso lo svolgimento dei motivi.

Si inscrive sempre in quest’ambito Sez. 6-L, n. 08204/2018, Esposito L., Rv. 647571-01, secondo cui, ove si denunci la mancata ammissione della prova testimoniale, la censura è inammissibile qualora con essa il ricorrente non solo si dolga della valutazione rimessa al giudice del merito (quale è quella di non pertinenza della denunciata mancata ammissione della prova orale rispetto ai fondamenti della decisione), ma non alleghi neanche le ragioni che avrebbero dovuto indurre ad ammettere tale prova, né adempia agli oneri di allegazione necessari a individuare la decisività del mezzo istruttorio richiesto e la tempestività e ritualità della relativa istanza di ammissione.

Sotto altro profilo, Sez. 5, n. 08245/2018, Esposito A.F., Rv. 647702-01, ha ribadito che il ricorso per cassazione cd. “assemblato” mediante integrale riproduzione di una serie di documenti, implicando un’esposizione dei fatti non sommaria, viola l’art. 366, comma 1, n. 3, c.p.c., ed è pertanto inammissibile, salvo che i documenti e gli atti integralmente riprodotti possano essere agevolmente espunti, in quanto facilmente individuabili ed isolabili, sicché l’atto processuale possa essere ricondotto al canone di sinteticità. A tal proposito, occorre anche segnalare Sez. 5, n. 19562/2018, Locatelli, Rv. 649852-01, secondo cui non può ritenersi inamissibile il ricorso per cassazione confezionato mediante inserimento di copie fotostatiche o scannerizzate di atti relativi al giudizio di merito, qualora la riproduzione integrale di essi sia preceduta da una chiara sintesi dei punti rilevanti per la risoluzione della questione dedotta.

Sempre con riguardo alla tecnica di redazione del ricorso, Sez. 6-3, n. 13312/2018, De Stefano, Rv. 648924-01, ha ribadito che il requisito imposto dall’articolo 366, comma 1, n. 3, c.p.c. è soddisfatto qualora il ricorso per cassazione contenga la chiara esposizione dei fatti di causa, dalla quale devono risultare le posizioni processuali delle parti con l’indicazione degli atti con cui sono stati formulati causa petendi e petitum, nonché degli argomenti dei giudici dei singoli gradi, non potendo tutto questo ricavarsi da una faticosa o complessa opera di distillazione del successivo coacervo espositivo dei singoli motivi, perché tanto equivarrebbe a devolvere alla S.C. un’attività di estrapolazione della materia del contendere, che e riservata invece al ricorrente. Il requisito non è adempiuto, pertanto, qualora i motivi di censura si articolino in un’inestricabile commistione di elementi di fatto, riscontri di risultanze istruttorie, riproduzione di atti e documenti incorporati nel ricorso, argomentazioni delle parti e frammenti di motivazione della sentenza di primo grado.

Per quanto concerne i motivi di ricorso, requisito prescritto dall’art. 366, comma 1, n. 4, c.p.c., occorre in primo luogo considerare Sez. 1, n. 22478/2018, Pazzi, Rv. 650919-01, secondo cui la parte non può limitarsi a riproporre, col ricorso, le tesi difensive svolte nelle fasi di merito e motivatamente disattese dal giudice dell’appello, senza considerare le ragioni offerte da quest’ultimo, poiché in tal modo si determina una mera contrapposizione della propria valutazione al giudizio espresso dalla sentenza impugnata che si risolve, in sostanza, nella proposizione di un “non motivo”, come tale inammissibile.

Sez. 6-5, n. 01479/2018, La Torre, Rv. 646999-01, ha quindi ribadito che i motivi non possono consistere in deduzioni generali o affermazioni apodittiche, con le quali la parte non prenda concreta posizione, articolando specifiche censure esaminabili dal giudice di legittimità sulle singole conclusioni tratte dal giudice del merito in relazione alla fattispecie decisa. Infatti, il ricorrente – sia esso principale o incidentale – ha l’onere di indicare con precisione gli asseriti errori contenuti nella sentenza impugnata, in quanto, per la natura di giudizio a critica vincolata propria del processo di cassazione, il singolo motivo assolve alla funzione condizionante il devolutum della sentenza impugnata, con la conseguenza che il requisito in esame non può ritenersi soddisfatto qualora il ricorso per cassazione (principale o incidentale) sia basato sul mero richiamo dei motivi di appello; tale modalità di formulazione del motivo rende infatti impossibile individuare la critica mossa ad una specifica parte del giudizio espresso nella sentenza impugnata, rivelandosi del tutto carente nella enucleazione delle deficienze e degli errori asseritamente individuabili nella decisione.

Nella stessa prospettiva, Sez. 6-2, n. 11603/2018, Cosentino, Rv. 648533-01, sul presupposto per il quale il giudizio di cassazione è un giudizio a critica vincolata, delimitato e vincolato dai motivi di ricorso, che assumono una funzione identificativa condizionata dalla loro formulazione tecnica con riferimento alle ipotesi tassative formalizzate dal codice di rito, ha affermato che il motivo del ricorso deve necessariamente possedere i caratteri della tassatività e della specificità ed esige una precisa enunciazione, di modo che il vizio denunciato rientri nelle categorie logiche previste dall’art. 360 c.p.c., sicché è inammissibile la critica generica della sentenza impugnata, formulata con un unico motivo sotto una molteplicità di profili tra loro confusi e inestricabilmente combinati, non collegabili ad alcuna delle fattispecie di vizio enucleate dal codice di rito.

Proprio la caratteristica dell’impugnazione in esame condiziona la sua ammissibilità anche nel caso di ius superveniens. Infatti, Sez. 5, n. 19617/2018, Dell’Orfano, Rv. 649858-01, ha ribadito che ove la norma sopravvenuta introduca una nuova disciplina del rapporto controverso, essa può trovare di regola applicazione nel giudizio di legittimità solo alla duplice condizione che, da un lato, la sopravvenienza sia posteriore alla proposizione del ricorso per cassazione (ciò in quanto, in tale ipotesi, il ricorrente non ha potuto tener conto dei mutamenti operatisi successivamente nei presupposti legali che condizionano la disciplina dei singoli casi concreti); e, dall’altro lato, la normativa sopravvenuta sia pertinente rispetto alle questioni proposte col ricorso, posto che i principi generali dell’ordinamento in materia di processo per cassazione – e soprattutto quello che impone che la funzione di legittimità sia esercitata attraverso l’individuazione delle censure espresse nei motivi di ricorso e sulla base di esse – impediscono di rilevare d’ufficio (o a seguito di segnalazione fatta dalla parte mediante memoria difensiva ai sensi dell’art. 378 c.p.c.) regole di giudizio determinate dalla sopravvenienza di disposizioni, ancorché dotate di efficacia retroattiva, afferenti ad un profilo della norma applicata che non sia stato investito, neppure indirettamente, dai motivi di ricorso e che concernano quindi una questione non sottoposta al giudice di legittimità.

Così, secondo Sez. 5, n. 23518/2018, Fuochi Tinarelli, Rv. 650516-01, l’applicazione d’ufficio dello ius superveniens è da escludersi qualora i motivi di ricorso debbano essere dichiarati inammissibili, atteso che, in detta ipotesi, la disciplina sopravvenuta non potrebbe comunque determinare l’accoglimento del ricorso stesso.

Del tutto peculiare è la fattispecie esaminata da Sez. 5, n. 01325/2018, Venegoni, Rv. 646919-01, secondo cui, pur essendo prive dei requisiti della generalità e dell’astrattezza, le decisioni della Commissione dell’Unione Europea (nella specie, in tema di aiuti di Stato) costituiscono fonte di produzione del diritto e, pertanto, vincolano il giudice nazionale anche nei giudizi pendenti, in quanto ius superveniens incidente sul rapporto controverso. Pertanto, qualora detta disciplina venga adottata nel corso del giudizio di legittimità e renda necessario procedere ad accertamenti di fatto, incompatibili con la struttura dello stesso, la pronuncia impugnata, se incompatibile con il nuovo regime, deve essere cassata con rinvio.

Sotto altro profilo, si segnala Sez. 2, n. 14477/2018, Cavallari, Rv. 648975-02, secondo cui nel giudizio di cassazione non possono prospettarsi nuove questioni di diritto o contestazioni che modifichino il thema decidendum ed implichino indagini ed accertamenti di fatto non effettuati dal giudice di merito, anche ove si tratti di questioni rilevabili d’ufficio, il che vale anche in caso di diritti assoluti, benché questi appartengano alla categoria dei cd. diritti autodeterminati.

Nello stesso senso, Sez. 3, n. 15196/2018, D’Ovidio, Rv. 649304-01, secondo cui, poiché il giudizio di cassazione ha la funzione di controllare la difformità della decisione del giudice di merito dalle norme e dai principi di diritto, ne restano precluse non soltanto le domande nuove, ma anche nuove questioni di diritto, qualora queste postulino indagini ed accertamenti di fatto non compiuti dal giudice di merito che, come tali, sono esorbitanti dal giudizio di legittimità.

Ancora, in relazione al ricorso per cassazione proposto ai sensi dell’art. 348-ter c.p.c. avverso la sentenza di primo grado, Sez. 1, n. 23320/2018, Mercolino, Rv. 650760-01, ha affermato che il ricorso può essere proposto entro i limiti delle questioni già sollevate con l’atto di appello e di quelle riproposte ex art. 346 c.p.c., senza che possa assumere rilievo la diversa formulazione dei motivi, che trova giustificazione nella natura del ricorso per cassazione, quale mezzo di impugnazione a critica vincolata, proponibile esclusivamente per i vizi previsti dall’art. 360, comma 1, c.p.c., non comportando la dichiarazione di inammissibilità dell’appello sostanziali modificazioni nel giudizio di legittimità, fatta eccezione per la necessità che l’impugnazione sia rivolta direttamente contro la sentenza di primo grado e per l’esclusione della deducibilità del vizio di motivazione.

In altra ottica, Sez. 6-2, n. 05001/2018, Lombardo, Rv. 648213-01, ha affermato che, qualora siano stati denunciati vizi per violazione o falsa applicazione di norme di diritto (sostanziali o processuali), il principio di specificità dei motivi, di cui all’art. 366, comma 1, n. 4, c.p.c., deve essere letto in correlazione al disposto dell’art. 360-bis, n. 1, c.p.c., essendo dunque inammissibile, per difetto di specificità, il motivo di ricorso che, nel denunciare la violazione di norme di diritto, ometta di raffrontare la ratio decidendi della sentenza impugnata con la giurisprudenza della S.C. e, ove la prima risulti conforme alla seconda, ometta di fornire argomenti per mutare orientamento.

Ancora, rinviando sulla questione al § successivo, per maggiore approfondimento, occorre sin d’ora segnalare Sez. 5, n. 12690/2018, Bernazzani, Rv. 648743-01, secondo cui l’erronea indicazione della norma processuale violata nella rubrica del motivo non determina di per sé l’inammissibilità del ricorso ove la Corte possa agevolmente procedere alla corretta qualificazione del vizio denunciato sulla base delle argomentazioni giuridiche ed in fatto svolte dal ricorrente a fondamento della censura, in quanto è solo l’esposizione delle ragioni di diritto della impugnazione che chiarisce e qualifica, sotto il profilo giuridico, il contenuto della censura (fattispecie in cui la cui rubrica menzionava la violazione di una norma ormai abrogata e sostituita da un’altra disposizione di legge).

Sez. 2, n. 26790/2018, Sabato, Rv. 651379-01, ha poi ribadito che l’articolazione in un singolo motivo di più profili di doglianza costituisce ragione d’inammissibilità quando non è possibile ricondurre tali diversi profili a specifici motivi di impugnazione, dovendo le doglianze, anche se cumulate, essere formulate in modo tale da consentire un loro esame separato, come se fossero articolate in motivi diversi, senza rimettere al giudice il compito di isolare le singole censure teoricamente proponibili, al fine di ricondurle a uno dei mezzi d’impugnazione consentiti, prima di decidere su di esse (fattispecie in cui il ricorso era stato formulato con un unico motivo suddiviso in cinque capitoli, ma in cui la S.C. ha preso atto dell’impossibilità di individuare per ciascun capitolo, o per il complesso dei capitoli unitariamente considerati, una delle tipologie di censura consentite dall’art. 360 c.p.c.).

Ancora, Sez. 5, n. 11493/2018, Balsamo, Rv. 648023-01, ha ritenuto che qualora la decisione di merito si fondi su di una pluralità di ragioni, tra loro distinte e autonome, singolarmente idonee a sorreggerla sul piano logico e giuridico, la ritenuta infondatezza delle censure mosse ad una delle rationes decidendi rende inammissibili, per sopravvenuto difetto di interesse, le censure relative alle altre ragioni esplicitamente fatte oggetto di doglianza, in quanto queste ultime non potrebbero comunque condurre, stante l’intervenuta definitività delle altre, alla cassazione della decisione stessa.

Riguardo alla procura speciale, che deve essere indicata ex art. 366, comma 1, n. 5, c.p.c., e di cui deve essere comunque munito l’avvocato che sottoscrive il ricorso, ex art. 365 c.p.c., si segnala anzitutto Sez. 3, n. 01255/2018, Frasca, Rv. 647759-01, secondo cui il ricorso è inammissibile qualora la procura, apposta su foglio separato e non materialmente congiunta al ricorso, sia conferita con scrittura privata autenticata nella sottoscrizione dal difensore in violazione dell’art. 83, comma 3, c.p.c., dal momento che la norma non prevede un conferimento autonomo rispetto agli atti processuali a cui il mandato si riferisce (salvo che per la memoria di costituzione di nuovo difensore in sostituzione del precedente); né, tantomeno, è possibile una sanatoria dell’atto mediante rinnovazione ai sensi dell’art. 182 c.p.c., poiché l’art. 365 c.p.c. prescrive l’esistenza di una valida procura speciale come requisito di ammissibilità del ricorso.

Sez. L, n. 28146/2018, Amendola F., Rv. 651515-01, ha ritenuto inammissibile il ricorso per cassazione in un caso in cui la procura, apposta su foglio separato e materialmente congiunto al ricorso ai sensi dell’art. 83, comma 2, c.p.c., conteneva espressioni incompatibili con la specialità richiesta e dirette piuttosto ad attività proprie di altri giudizi e fasi processuali (fattispecie in cui la procura, spillata di seguito al ricorso, non conteneva alcun riferimento alla sentenza impugnata, né recava alcuna data, e risultava conferita “per tutte le fasi e gradi del presente giudizio”).

Ancora, Sez. 5, n. 01981/2018, Stalla, Rv. 646701-01, ha ribadito che, ai fini dell’ammissibilità del ricorso per cassazione, qualora l’originale dell’atto rechi la firma del difensore munito di procura speciale e l’autenticazione, ad opera del medesimo, della sottoscrizione della parte che la procura ha conferito, la mancanza di tale firma e dell’autenticazione nella copia notificata non determinano l’invalidità del ricorso, purché la copia stessa contenga elementi, quali l’attestazione dell’ufficiale giudiziario che la notifica è stata eseguita ad istanza del difensore del ricorrente, idonei ad evidenziare la provenienza dell’atto dal difensore munito di mandato speciale.

Sez. U, n. 10266/2018, Cirillo E., Rv. 648132-03, ha poi confermato che il ricorso per cassazione sottoscritto da un avvocato munito di una procura notarile di carattere generale, priva di ogni riferimento alla sentenza impugnata e all’impugnazione da proporsi, è inammissibile.

Peraltro, in tema di procura rilasciata all’estero, Sez. 1, n. 16050/2018, Fraulini, Rv. 649564-01, ha precisato come non ne sia sufficiente la semplice legalizzazione della sottoscrizione, occorrendo anche che sia autenticata da notaio o da altro pubblico ufficiale, autorizzato dalla legge dello Stato estero ad attribuirle pubblica fede; essa, pertanto, non può essere autenticata dal difensore italiano della parte, giacché tale potere di autenticazione non si estende oltre i limiti del territorio nazionale.

Secondo Sez. 6-3, n. 12603/2018, De Stefano, Rv. 648720-01, il ricorso per cassazione proposto dall’ex rappresentante di società cancellata dal registro delle imprese è inammissibile, sia per le peculiarità della operatività del mandato nel giudizio di legittimità, sia per la necessità che il relativo conferimento provenga da un soggetto esistente e capace di stare in giudizio. Conseguentemente, il detto rappresentante deve essere condannato alle spese in proprio, in quanto, spendendo tale qualità con riferimento a soggetto non più esistente, ha conferito il mandato all’avvocato, ed essendosi questi limitato ad autenticare la relativa sottoscrizione.

Con riferimento, invece, alla posizione del controricorrente, Sez. 1, n. 19749/2018, Fraulini, Rv. 650164-01, ha ribadito che la procura da questi rilasciata in calce o a margine della copia notificata del ricorso, anziché in calce al controricorso medesimo, non è idonea per la valida proposizione di quest’ultimo, né per la formulazione di memorie, in quanto non dimostra l’avvenuto conferimento del mandato anteriormente o contemporaneamente alla notificazione dell’atto di resistenza, ma è idonea ai soli fini della costituzione in giudizio del controricorrente e della partecipazione del difensore alla discussione orale, non potendo a tali fini configurarsi incertezza circa l’anteriorità del conferimento del mandato stesso.

Infine, per Sez. 3, n. 25385/2018, D’Arrigo, Rv. 651165-01, qualora la certificazione dell’autografia della sottoscrizione della parte, apposta sulla procura speciale ad litem rilasciata in calce o a margine del ricorso (o del controricorso) per cassazione sia stata apposta da avvocato non ammesso al patrocinio innanzi alla S.C. essa costituisce una mera irregolarità, che non comporta la nullità della procura, allorché l’atto sia stato firmato anche da altro avvocato iscritto nell’albo speciale e indicato come codifensore.

Venendo, per ultimo, al requisito di autosufficienza del ricorso, di cui si rinviene oggi la fonte normativa nell’art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c., va qui in primo luogo segnalata Sez. 1, n. 05478/2018, Di Marzio M., Rv. 647747-01, secondo cui, qualora sia dedotta la omessa o viziata valutazione di documenti, deve procedersi ad un sintetico ma completo resoconto del loro contenuto, nonché alla specifica indicazione del luogo in cui ne è avvenuta la produzione, al fine di consentire la verifica della fondatezza della doglianza sulla base del solo ricorso, senza necessità di fare rinvio od accesso a fonti esterne ad esso (fattispecie relativa a un giudizio di impugnativa di delibere societarie di approvazione dei bilanci, in cui la S.C. ha dichiarato inammissibile il ricorso perché privo di un’adeguata descrizione del contenuto dei bilanci stessi e degli atti intervenuti tra le parti, nonché dell’indicazione del fascicolo dove tali documenti sarebbero stati rinvenibili).

Sez. L, n. 05508/2018, Lorito, Rv. 647532-01, ha poi affermato che nel caso in cui il giudicato esterno sia riprodotto nel ricorso per cassazione, l’interpretazione di detto giudicato può essere effettuata anche direttamente dalla Corte di cassazione con cognizione piena. Ne deriva che, qualora l’interpretazione che abbia dato il giudice di merito sia ritenuta scorretta, il ricorso deve riportare il testo del giudicato che si assume erroneamente interpretato, con richiamo congiunto della motivazione e del dispositivo, atteso che il solo dispositivo non può essere sufficiente alla comprensione del comando giudiziale.

Ancora, secondo Sez. 5, n. 19360/2018, Delli Priscoli, Rv. 650046-01, qualora con il ricorso per cassazione si deducano vizi relativi a regolamenti comunali, è necessario – in virtù del principio di autosufficienza – che le disposizioni rilevanti siano trascritte o allegate, in quanto per le norme giuridiche di rango secondario non opera il principio iura novit curia.

Analogamente, in ambito giuslavoristico, Sez. L, n. 07981/2018, Torrice, Rv. 648192-01, ha affermato che nel giudizio di legittimità, è possibile valutare la conformità alla legge e al c.c.n.l. del settore pubblico di un contratto integrativo – che non può, come tale, essere oggetto di diretta interpretazione – a condizione che detto contratto sia specificamente prodotto e indicato quale contratto su cui si fonda il ricorso, atteso che lo stesso, stipulato dalle amministrazioni pubbliche sulle singole materie, nei limiti stabiliti dai contratti collettivi nazionali, se pure applicabile al territorio nazionale in ragione della P.A. interessata, ha una dimensione decentrata rispetto al comparto e non è pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana, ai sensi dell’art. 47, comma 8, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165.

Infine, secondo Sez. 2, n. 20694/2018, Giannaccari, Rv. 650009-01, poiché i motivi di ricorso devono investire questioni già comprese nel thema decidendum del giudizio di appello, essendo preclusa alle parti, in sede di legittimità, la prospettazione di questioni o temi di contestazione nuovi, non trattati nella fase di merito né rilevabili di ufficio, qualora con lo stesso ricorso siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, il ricorrente deve, a pena di inammissibilità della censura, non solo allegarne l’avvenuta loro deduzione dinanzi al giudice di merito ma, in virtù del principio di autosufficienza, anche indicare in quale specifico atto del giudizio precedente ciò sia avvenuto (anloagamente v. anche Sez. 6-1, n. 15430/2018, Falabella, Rv. 649332-01).

2.7. Vizi denunciabili.

Numerose pronunce hanno riguardato il tema delle censure proponibili col ricorso, ai sensi dell’art. 360, comma 1, c.p.c. Di seguito verranno indicate le più significative, rinviando, quanto alle questioni di giurisdizione e di competenza, ai relativi capitoli di questa Rassegna.

Iniziando dalla violazione o falsa applicazione di norme di diritto, ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., occorre considerare in primo luogo Sez. 5, n. 15879/2018, Giudicepietro, Rv. 649017-01, secondo cui con detto mezzo non può essere direttamente prospettata la violazione delle norme costituzionali, poiché il contrasto tra la decisione impugnata e i parametri costituzionali, realizzandosi sempre per il tramite dell’applicazione di una norma di legge, deve essere portato ad emersione mediante l’eccezione di illegittimità costituzionale della norma applicata. Né, del resto – secondo Sez. 2, n. 09284/2018, Scarpa, Rv. 648149-01 – può costituire motivo di ricorso per cassazione la valutazione negativa che il giudice di merito abbia fatto circa la rilevanza e la manifesta infondatezza di una questione di legittimità costituzionale, perché il relativo provvedimento (quand’anche in ipotesi definitivo del procedimento) ha carattere puramente ordinatorio, essendo riservato il relativo potere decisorio alla Corte costituzionale, e, d’altra parte, la stessa questione può essere riproposta in ogni grado di giudizio.

Sez. 6-5, n. 19697/2018, Napolitano, Rv. 650360-01, ha poi ribadito la non denunciabilità in cassazione, ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c., della pretesa violazione di circolari della P.A., trattandosi di atti interni destinati ad indirizzare e disciplinare in modo uniforme l’attività degli organi inferiori e, quindi, hanno natura non normativa, ma di atti amministrativi.

Analogamente, quanto alla pretesa violazione delle norme del regolamento condominiale di natura contrattuale, Sez. 6-2, n. 20567/2018, Abete, Rv. 650349-01, ha riaffermato che esso è, in ogni caso, un atto di produzione privata, anche nei suoi effetti tipicamente regolamentari, cioè incidenti sulle modalità di godimento delle parti comuni dell’edificio; ne consegue che, non avendo il medesimo natura di atto normativo generale e astratto, il ricorso per cassazione col quale si lamenti la violazione o falsa applicazione delle norme di tale regolamento non è proponibile ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., ma solo come vizio di motivazione ai sensi del n. 5 del medesimo art. 360.

In quest’ambito, vanno opportunamente segnalate alcune pronunce che si sono occupate del vizio cd. di sussunzione, la cui individuazione può manifestarsi problematica, trattandosi di questione al confine tra aspetti meramente fattuali e l’errore di diritto.

Così, occorre considerare Sez. 3, n. 10320/2018, Guizzi, Rv. 648593-01, secondo cui detto vizio, censurabile dal giudice di legittimità, può consistere o nell’assumere la fattispecie concreta giudicata sotto una norma che non le si addice, perché la fattispecie astratta da essa prevista non è idonea a regolarla, oppure nel trarre dalla norma, in relazione alla fattispecie concreta, conseguenze giuridiche che contraddicano la pur corretta sua interpretazione. Ancora, Sez. 3, n. 13747/2018, Frasca, Rv. 649041-01, ha precisato che il vizio di sussunzione, attenendo alla qualificazione giuridica dei fatti materiali, rientra nell’ipotesi di cui all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. e ricorre sia quando il giudice riconduce questi ultimi ad una fattispecie astratta piuttosto che ad un’altra, sia quando si rifiuta di assumerli in qualunque fattispecie astratta, pur sussistendone una in cui potrebbero essere inquadrati. Sez. 3, n. 06035/2018, Vincenti, Rv. 648414-01, ha infine affermato che la deduzione del vizio di sussunzione postula che l’accertamento in fatto operato dal giudice di merito sia considerato fermo ed indiscusso, sicché è estranea alla denuncia del vizio di sussunzione ogni critica che investa la ricostruzione del fatto materiale, esclusivamente riservata al potere del giudice di merito.

Significativa appare Sez. 2, n. 30939/2018, Cosentino, Rv. 651600-02, in tema di interpretazione della Generalklausel. In una controversia attinente a violazioni del codice della strada, regolate dal combinato disposto degli artt. 126-bis, comma 2, nonché 180 del d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285, tale decisione ha è infatti affermato che l’accertamento dell’esistenza del “giustificato motivo” che esonera da responsabilità il proprietario del veicolo che deduca di non conoscere l’identità del conducente della vettura compete, con riferimento alla ricostruzione del relativo fatto storico, al giudice di merito e la sua qualificazione di tale fatto storico quale “giustificato motivo” è censurabile in sede di legittimità, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., sotto il profilo della sua coerenza con i principi dell’ordinamento e con gli standard valutativi esistenti nella realtà sociale che concorrono, unitamente a detti principi, a comporre il diritto vivente.

Sullo stesso tema, va inoltre segnalata Sez. L, n. 07305/2018, Blasutto, Rv. 647544-01, riguardo alla “giusta causa” di licenziamento, ex art. 2119 c.c., la quale ha ritenuto che l’accertamento compiuto dal giudice di merito – ai fini della individuazione della giusta causa di licenziamento – non può essere censurato in sede di legittimità allorquando detta applicazione rappresenti la risultante logica e motivata della specificità dei fatti accertati e valutati nel loro globale contesto, mentre rimane praticabile il sindacato di legittimità ex art. 360, n. 3, c.p.c. nei casi in cui gli standards valutativi, sulla cui base è stata definita la controversia, finiscano per collidere con i principi costituzionali, con quelli generali dell’ordinamento, con precise norme suscettibili di applicazione in via estensiva o analogica, o si pongano in contrasto con regole che si configurano, per la costante e pacifica applicazione giurisprudenziale e per il carattere di generalità assunta, come diritto vivente.

In tema di presunzioni, si segnala Sez. L, n. 29635/2018, Bellé, Rv. 651727-01, secondo cui, qualora il giudice di merito sussuma erroneamente sotto i tre caratteri individuatori della presunzione (gravità, precisione, concordanza) fatti concreti che non sono invece rispondenti a quei requisiti, il relativo ragionamento è censurabile in base all’art. 360, n. 3, c.p.c. (e non già alla stregua del n. 5 dello stesso art. 360), competendo alla Corte di cassazione, nell’esercizio della funzione di nomofilachia, controllare se la norma dell’art. 2729 c.c., oltre ad essere applicata esattamente a livello di declamazione astratta, lo sia stata anche sotto il profilo dell’applicazione a fattispecie concrete che effettivamente risultino ascrivibili alla fattispecie astratta.

Per quanto riguarda la nullità della sentenza o del procedimento, ex art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., occorre in primo luogo richiamare la già citata Sez. 1, n. 02626/2018, Genovese, Rv. 646877-01, che ha dato continuità all’orientamento della cd. nullità in concreto, secondo cui non rileva di per sé la mera sussistenza del vizio di attività del giudice, occorrendo specificare e dimostrare che esso sia effettivamente lesivo del proprio diritto di difesa, con correlativo onere per il ricorrente di indicare in cosa detto vizio gli abbia concretamente arrecato pregiudizio, giacchè l’ordinamento non tutela l’astratta regolarità dell’attività giudiziaria, ma mira ad eliminare il concreto pregiudizio subito dalla parte (nella specie, si censurava la decisione del primo giudice con riferimento ad una questione preliminare di merito senza aver prima assegnato i termini di cui all’art. 183, comma 6, c.p.c.. La S.C. ha quindi affermato che il ricorrente non può limitarsi a dedurre tale violazione, ma a pena di inammissibilità deve specificare quale sarebbe stato il fatto rilevante sul quale il giudice di primo grado si sarebbe dovuto pronunciare e quali prove sarebbero state dedotte ove fosse stata consentita la chiesta appendice scritta).

Si inscrive in detto orientamento Sez. 6-3, n. 17267/2018, De Stefano, Rv. 649838-01, secondo cui – ancorchè pronunciata impropriamente con ordinanza ai sensi dell’art. 348-ter c.p.c. anziché con sentenza – la tardività dell’appello comporta non soltanto l’inammissibilità, per difetto di interesse e in mancanza di un diritto alla regolarità formale del processo in quanto tale, del ricorso per cassazione dispiegato avverso l’ordinanza di secondo grado, ma pure, in ragione del definitivo accertamento della tardività dell’originaria impugnazione e il conseguente passaggio in giudicato della sentenza di primo grado, del ricorso per cassazione dispiegato avverso quest’ultima.

Riguardo alla valutazione delle risultanze della CTU da parte del giudice del merito, Sez. 6-L, n. 19293/2018, Doronzo, Rv. 650202-01, ha affermato che se essa è viziata da errore di percezione, può essere censurata con la revocazione ordinaria qualora l’errore attenga ad un fatto non controverso, mentre è sindacabile ai sensi dell’art. 360, n. 4, c.p.c., per violazione dell’art. 115 c.p.c., se l’errore ricade su di una circostanza che ha formato oggetto di discussione tra le parti (fattispecie in cui era stata respinta la domanda volta ad ottenere l’indennità di accompagnamento senza motivare il disaccordo rispetto alle conclusioni di segno opposto formulate dal consulente d’ufficio. La S.C. ha ritenuto sussistente l’error in procedendo, dichiarando nulla la sentenza).

Sempre sul tema della valutazione delle prove, Sez. 1, n. 04699/2018, Di Marzio M., Rv. 647432-01, ha ribadito che la violazione dell’art. 115 c.p.c. può essere dedotta come vizio di legittimità non in riferimento all’apprezzamento delle risultanze probatorie operato dal giudice di merito, ma solo sotto due profili: a) qualora il medesimo, esercitando il suo potere discrezionale nella scelta e valutazione degli elementi probatori, ometta di valutare le risultanze di cui la parte abbia esplicitamente dedotto la decisività, salvo escluderne in concreto, motivando sul punto, la rilevanza; ovvero b) quando egli ponga alla base della decisione fatti che erroneamente ritenga notori o la sua scienza personale.

Assai significativa è Sez. 1, n. 23153/2018, Falabella, Rv. 650931-01, secondo cui il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile né nell’alveo dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. (che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio), né in quello del precedente n. 4, disposizione che – per il tramite dell’art. 132, n. 4, c.p.c. – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante.

Sempre sul tema, si segnala Sez. 6-3, n. 26769/2018, Dell’Utri, Rv. 650892-01, secondo cui la violazione dell’art. 2697 c.c. si configura soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella su cui esso avrebbe dovuto gravare secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni. Per dedurre invece la violazione dell’art. 115 c.p.c., occorre denunziare che il giudice, contraddicendo espressamente o implicitamente la regola posta da tale disposizione, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, non anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dall’art. 116 c.p.c.

Non costituisce condizione essenziale per la validità del giudizio d’appello – secondo Sez. 6-3, n. 20631/2018, Scrima, Rv. 650480-01, che ha così ribadito un consolidato orientamento – la acquisizione del fascicolo d’ufficio di primo grado ex art. 347 c.p.c., sicché la relativa omissione non determina un vizio del procedimento o della sentenza di secondo grado, bensì, al più, il vizio di difetto di motivazione, a condizione che venga specificamente prospettato che da detto fascicolo il giudice d’appello avrebbe potuto o dovuto trarre elementi decisivi per la decisione della causa, non rilevabili aliunde ed esplicitati dalla parte interessata.

Per quanto concerne il vizio di motivazione (come già detto, oggetto di recente intervento normativo, con la riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. – v. par. 1 e, più diffusamente, il citato approfondimento di Scarpa), Sez. L, n. 27112/2018, Ponterio, Rv. 651205-01, ha ribadito che è nulla, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c., per violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c., la motivazione solo apparente, che non costituisce espressione di un autonomo processo deliberativo, quale la sentenza di appello motivata per relationem alla sentenza di primo grado, attraverso una generica condivisione della ricostruzione in fatto e delle argomentazioni svolte dal primo giudice, senza alcun esame critico delle stesse in base ai motivi di gravame.

Ancora secondo Sez. 6-L, n. 16611/2018, Spena, Rv. 649628-01, sussiste il vizio di assenza della motivazione, di cui al n. 4 del comma 1 dell’art. 360 c.p.c., allorché la sentenza sia nulla per contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili, che rendono incomprensibili le ragioni poste a base della decisione.

Sullo stesso tema, Sez. 6-1, n. 19538/2018, Mercolino, Rv. 650191-01, ha ribadito che il vizio di omessa motivazione della sentenza è configurabile non solo quando il giudice abbia completamente omesso di esaminare una questione proposta, ma anche quando argomenti sulla base di elementi di prova menzionati in modo tale da presupporre che essi siano già conosciuti, perché li fa oggetto di mero richiamo, invece che di una descrizione sufficiente a dar conto della loro rilevanza, posto che anche in tal caso non è ricostruibile l’iter logico attraverso cui si è formato il suo convincimento, né, quindi, è esercitabile il controllo della sufficienza e coerenza delle ragioni che lo sorreggono.

Con riferimento all’omessa pronuncia, ex art. 112 c.p.c., si segnala in primo luogo Sez. 5, n. 01311/2018, Iannello, Rv. 646917-01, secondo cui non può intergare tale vizio il difetto di esame della questione di legittimità costituzionale di una norma, in quanto strumentale rispetto alla domanda che implichi l’applicazione della norma medesima, senza che possa al riguardo configurarsi un vizio di motivazione, denunciabile con il ricorso per cassazione, giacché la relativa questione è deducibile e rilevabile nei successivi stati e gradi del giudizio che sia validamente instaurato, ove rilevante ai fini della decisione.

Sez. 2, n. 03485/2018, Dongiacomo, Rv. 647804-01, ha ribadito che il vizio di omessa pronuncia può essere dedotto anche in relazione ad un’eccezione, alla duplice condizione che essa risulti formulata inequivocabilmente, in modo da rendere necessaria una pronuncia su di essa e che sia stata riportata nel ricorso per cassazione nei suoi esatti termini con l’indicazione specifica dell’atto difensivo o del verbale di udienza in cui era stata proposta.

Ancora, Sez. L, n. 16247/2018, Curcio, Rv. 649483-01, ha affermato che sussiste il vizio di omessa pronuncia nell’ipotesi in cui il giudice abbia escluso la sussistenza del mobbing con enunciati meramente assertivi, pervenendo a conclusioni disancorate dalle risultanze istruttorie costituite dalle prove dichiarative e dalla consulenza medico-legale acquisite in primo grado, con motivazione meramente figurativa e apparente.

Secondo Sez. 1, n. 22784/2018, Campese, Rv. 650929-01, non sussiste il vizio di omessa pronuncia, qualora questa abbia ad oggetto una domanda inammissibile, non rilevando nemmeno come motivo di ricorso per cassazione, in quanto, alla proposizione di una tale domanda, non consegue l’obbligo del giudice di pronunciarsi nel merito.

Sotto altro profilo, occorre considerare Sez. 3, n. 06014/2018, Scarano, Rv. 648411-01, che ha ribadito l’orientamento per cui, sebbene la Corte – qualora vengano denunciati errores in procedendo – sia anche giudice del fatto, potendo accedere direttamente all’esame degli atti processuali del fascicolo di merito, ciò non esclude che debba preliminarmente esaminarsi l’ammissibilità del motivo in relazione ai termini in cui è stato esposto. Ne deriva che, solo una volta accertatane l’ammissibilità diventa possibile valutare la fondatezza del motivo medesimo e, dunque, solo in tal caso la Corte di cassazione può e deve procedere direttamente all’esame ed all’interpretazione degli atti processuali.

Venendo ora al vizio di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile d’ufficio, ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., nel testo antecedente alla modifica apportata dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv. in l. n. 134 del 2012 (quanto alle pronunce relative alla nuova formulazione della norma, si rinvia al par. 1), si segnala, anzitutto, Sez. 5, n. 02399/2018, Caiazzo, Rv. 646706-01, secondo cui può dedursi in sede di legittimità l’errore causato da inesatta determinazione dei presupposti di una operazione, in quanto si risolve in un vizio logico della motivazione, a differenza dell’errore materiale di calcolo risultante dal confronto tra motivazione e dispositivo, il quale è suscettibile di correzione con la procedura di cui agli artt. 287 ss. c.p.c.

Ancora, Sez. L, n. 02963/2018, Patti, Rv. 647393-01, ha ribadito che sussiste il vizio di omessa o insufficiente motivazione qualora il giudice di merito non abbia tenuto conto alcuno delle inferenze logiche che possono essere desunte dagli elementi dimostrativi addotti in giudizio ed indicati nel ricorso con autosufficiente ricostruzione, e si sia limitato ad addurre l’insussistenza della prova, senza compiere una analitica considerazione delle risultanze processuali (fattispecie in cui la decisione impugnata aveva escluso fosse stata fornita la prova della causale del contratto di somministrazione di lavoro, senza tuttavia dare conto delle specifiche richieste istruttorie articolate dall’utilizzatore).

Non costituisce vizio motivazionale, secondo Sez. 1, n. 03960/2018, Falabella, Rv. 647419-01, la mancata valutazione di prove raccolte in un diverso giudizio, giacché esse costituiscono elementi meramente indiziari: pertanto il difetto riscontrato non può costituire punto decisivo, implicando non un giudizio di certezza ma di mera probabilità rispetto all’astratta possibilità di una diversa soluzione.

Inoltre Sez. L, n. 04070/2018, Negri della Torre, Rv. 647268-01, ha ribadito che il controllo della motivazione in fatto consiste nel verificare che il discorso giustificativo svolto dal giudice di merito presenti i requisiti minimi dell’argomentazione (fatto probatorio – massima di esperienza – fatto accertato), mentre non è consentito alla Corte sostituire la massima di esperienza utilizzata con altra diversa o confrontare la sentenza impugnata con le risultanze istruttorie, al fine di prendere in considerazione un fatto probatorio diverso o ulteriore rispetto a quelli assunti a fondamento della decisione impugnata.

In tema di contratto di lavoro a tempo determinato, Sez. L, n. 13660/2018, Curcio, Rv. 648629-01, ha sottolineato che l’accertamento della sussistenza di una concorde volontà delle parti diretta allo scioglimento del vincolo contrattuale costituisce apprezzamento di merito, sindacabile nei limiti consentiti dall’art.360, comma 1, n. 5 c.p.c., tempo per tempo vigente.

Secondo quanto affermato da Sez. 2, n. 21223/2018, Oricchio, Rv. 650030-01, per potersi configurare vizio di motivazione su un asserito punto decisivo della controversia, è necessario un rapporto di causalità fra la circostanza che si assume trascurata e la soluzione giuridica data alla controversia, tale da far ritenere che quella circostanza, se fosse stata considerata, avrebbe portato a una diversa soluzione della vertenza. Pertanto, il mancato esame di elementi probatori costituisce vizio di omesso esame di un punto decisivo solo se le risultanze processuali non esaminate siano tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia probatoria delle altre circostanze sulle quali il convincimento è fondato, onde la ratio decidendi venga a trovarsi priva di base.

Infine, numerose pronunce si sono occupate sia del problema dell’erronea indicazione del motivo di ricorso e, quindi, della relativa errata sussunzione nell’ambito dei vizi denunciabili, secondo le varie ipotesi di cui all’art. 360 c.p.c., sia della impropria commistione, nella prospettazione del motivo, tra vizi di natura diversa (questioni di cui in parte s’è già detto al par. precedente).

Sotto il primo profilo, sostanzialmente in linea con l’insegnamento di Sez. U, n. 17931/2013, Piccialli, Rv. 627268-01, è stato affermato da Sez. 6-5, n. 04289/2018, Manzon, Rv. 647135-01, che il motivo mediante il quale venga dedotto il vizio di omessa pronuncia facendo erroneamente riferimento all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., in luogo del n. 4 della stessa disposizione, non è inammissibile, purché venga posta con univoca chiarezza la questione dell’omessa pronuncia, individuandone l’oggetto, quale specifico vizio processuale della sentenza impugnata.

Nello stesso senso si pone Sez. 2, n. 10862/2018, Abete, Rv. 648018-01, secondo cui, ove il ricorrente lamenti l’omessa pronuncia, da parte dell’impugnata sentenza, in ordine ad una delle domande o eccezioni proposte, non è indispensabile che faccia esplicita menzione della ravvisabilità della fattispecie di cui al n. 4 del comma 1 dell’art. 360 c.p.c., con riguardo all’art. 112 c.p.c., purché il motivo rechi univoco riferimento alla nullità della decisione derivante dalla relativa omissione, dovendosi, invece, dichiarare inammissibile il gravame allorché sostenga che la motivazione sia mancante o insufficiente o si limiti ad argomentare sulla violazione di legge. Sempre sullo stesso tema, Sez. 6-5, n. 16170/2018, Luciotti, Rv. 649268-01, ha ribadito che qualora il vizio di omessa pronuncia sia erroneamente denunciato ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. e non in virtù del n. 4 della medesima disposizione normativa, il motivo proposto non è inammissibile, ove prospetti con chiarezza la questione dell’omessa pronuncia quale specifico vizio processuale della sentenza impugnata.

Peraltro, su un piano leggermente diverso sembra porsi Sez. 5, n. 04963/2018, Mondini, Rv. 647216-01, per la quale l’erronea deduzione di un difetto di attività del giudice di secondo grado ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. e non del n. 4 della stessa disposizione, non rende inammissibile il motivo ove la Corte non sia tenuta ad esaminare gli atti del giudizio di merito, esercitando un potere sussistente solo per i vizi denunciati ex art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c.

Sotto il secondo profilo, va segnalata Sez. 5, n. 08915/2018, Giudicepietro, Rv. 647708-01, secondo cui il ricorso per cassazione il quale cumuli in un unico motivo le censure di cui all’art. 360, comma 1, n. 3 e n. 5, c.p.c., è ammissibile, qualora esso evidenzi comunque specificamente la trattazione delle doglianze relative all’interpretazione o all’applicazione delle norme di diritto appropriate alla fattispecie ed i profili attinenti alla ricostruzione del fatto (nello stesso senso, Sez. 5, n. 24493/2018, Succio, Rv. 650743-01).

Assai più rigorosa, invece, appare Sez. 1, n. 26874/2018, Di Marzio M., Rv. 651324-01, che – in evidente contrasto col superiore orientamento, ed attingendo ad altro filone interpretativo – ha affermato che è inammissible la mescolanza e la sovrapposizione di mezzi d’impugnazione eterogenei, facenti riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360, comma 1, n. 3 e n. 5, c.p.c., non essendo consentita la prospettazione di una medesima questione sotto profili incompatibili, quali quello della violazione di norme di diritto (che suppone accertati gli elementi del fatto in relazione al quale si deve decidere della violazione o falsa applicazione della norma), e del vizio di motivazione (che quegli elementi di fatto intende precisamente rimettere in discussione); o quale l’omessa motivazione (che richiede l’assenza di motivazione su un punto decisivo della causa rilevabile d’ufficio), e l’insufficienza della motivazione (che richiede la puntuale e analitica indicazione della sede processuale nella quale il giudice d’appello sarebbe stato sollecitato a pronunciarsi), e la contraddittorietà della motivazione (che richiede la precisa identificazione delle affermazioni, contenute nella sentenza impugnata, che si porrebbero in contraddizione tra loro). Infatti, l’esposizione diretta e cumulativa delle questioni concernenti l’apprezzamento delle risultanze acquisite al processo e il merito della causa mira a rimettere al giudice di legittimità il compito di isolare le singole censure teoricamente proponibili, onde ricondurle ad uno dei mezzi d’impugnazione enunciati dall’art. 360 c.p.c., per poi ricercare quale o quali disposizioni sarebbero utilizzabili allo scopo, così attribuendo, inammissibilmente, al giudice di legittimità il compito di dare forma e contenuto giuridici alle lagnanze del ricorrente, al fine di decidere successivamente su di esse.

2.8. Ulteriori questioni procedurali.

Riguardo al termine per la proposizione del ricorso, si segnala Sez. 1, n. 07154/2018, Campese, Rv. 647842-01, secondo cui in assenza di normativa speciale circa la decorrenza del termine breve avverso l’ordinanza resa ex art. 702 quater c.p.c., non rileva che la comunicazione dell’ordinanza sia avvenuta in forma integrale a mezzo PEC, dovendo trovare applicazione la disposizione generale di cui all’art. 133, comma 2, c.p.c. (come modificato con l’art. 45, comma 1, lett. b), del d.l. 24 giugno 2014, n. 90, conv. con modif. dalla l. 11 agosto 2014, n. 114) secondo il quale la comunicazione da parte della cancelleria del testo integrale della sentenza non è idonea a far decorrere i termini per le impugnazioni di cui all’art. 325 c.p.c.

Sez. 3, n. 02625/2018, Genovese, Rv. 646866-01, ha ribadito che nel giudizio di legittimità, dominato dal principio dell’impulso d’ufficio, non opera l’istituto dell’interruzione del processo, sicché la cancellazione dal registro delle imprese della società ricorrente non ne preclude la prosecuzione. Nello stesso senso, Sez. 5, n. 30341/2018, Guida, Rv. 651560-01, ha ritenuto ammissibile il ricorso sottoscritto dal difensore munito di mandato ad litem sottoscritto dal legale rappresentante della società prima della cancellazione della stessa dal registro delle imprese.

Quanto al cd. overruling (che consiste nel mutamento di precedente consolidata interpretazione della norma processuale), va anzitutto segnalata Sez. U, n. 28575/2018, Frasca, Rv. 651358-01, dettata in tema di procedimento volto al riconoscimento della protezione internazionale. È stato ritenuto che nel vigore dell’art. 19 del d.lgs. 15 settembre 2011, n. 150, così come modificato dall’art. 27 comma 1, lett. f) del d.lgs. 18 agosto 2015, n. 142, l’appello ex art. 702-quater c.p.c. proposto avverso la decisione di primo grado deve essere introdotto con ricorso e non con citazione, in aderenza alla volontà del legislatore desumibile dal nuovo tenore letterale della norma. Tale innovativa esegesi, in quanto imprevedibile e repentina rispetto al consolidato orientamento pregresso, costituisce un overruling processuale che, nella specie, assume carattere peculiare in relazione al momento temporale della sua operatività, il quale potrà essere anche anteriore a quello della pubblicazione della prima pronuncia di legittimità che praticò la opposta esegesi (Sez. 6-1, n. 17420/2017, Nappi, Rv. 644940-01), e ciò in dipendenza dell’affidamento sulla perpetuazione della regola antecedente, sempre desumibile dalla giurisprudenza della Corte, per cui l’appello secondo il regime dell’art. 702 quater c.p.c. risultava proponibile con citazione. Resta fermo il principio che, nei giudizi di rinvio riassunti a seguito di cassazione, il giudice del merito è vincolato al principio enunciato a norma dell’art. 384 c.p.c., al quale dovrà uniformarsi anche se difforme dal nuovo orientamento della giurisprudenza di legittimità.

Analogamente, sulla stessa questione, si sono pronunciate Sez. 6-1, n. 29506/2018, Genovese, Rv. 651503-01, nonché Sez. 6-1, n. 32059/2018, Sambito, Rv. 651967-01.

Sez. 2, n. 00194/2018, Sabato, Rv. 647151-01, nel solco di un risalente orientamento, ha ribadito che nel caso in cui sia stata precedentemente espressa riserva di impugnazione avverso la sentenza non definitiva, ai sensi dell’art. 361, comma 2, c.p.c., unitamente al ricorso contro la sentenza che definisce il giudizio, ben può la parte, anche dopo la pubblicazione di quella definitiva, optare per l’impugnazione della sola sentenza non definitiva, la cui eventuale cassazione comporta comunque la caducazione anche della sentenza definitiva quando le statuizioni di quest’ultima dipendono da quelle della prima.

Ancora, secondo Sez. 5, n. 11513/2018, De Masi, Rv. 648365-01, qualora una sentenza sia stata impugnata con due successivi ricorsi per cassazione, il primo dei quali non sia stato depositato dal ricorrente o lo sia stato tardivamente, è ammissibile la proposizione del secondo, anche quando contenga nuovi e diversi motivi di censura, purché la notificazione dello stesso abbia avuto luogo nel rispetto del termine breve decorrente dalla notificazione del primo, e l’improcedibilità di quest’ultimo non sia stata ancora dichiarata, non comportando la mera notificazione del primo ricorso la consumazione del potere d’impugnazione.

Sotto altro profilo, Sez. 6-1, n. 01825/2018, Nazzicone, Rv. 647879-01, ha ribadito che qualora la parte non adempia all’ordine di integrazione del contraddittorio emesso dalla S.C., il ricorso deve essere dichiarato inammissibile (nello stesso senso, Sez. 1, n. 22783/2018, Genovese, Rv. 650587-01).

Sempre sul tema, va segnalata Sez. 2, n. 11287/2018, Falaschi, Rv. 648501-01, secondo cui anche nel giudizio di legittimità, il rispetto del principio della ragionevole durata del processo impone, in presenza di un’evidente ragione d’inammissibilità del ricorso o qualora questo sia prima facie infondato, di definire con immediatezza il procedimento, senza la preventiva integrazione del contraddittorio nei confronti dei litisconsorti necessari cui il ricorso non risulti notificato, trattandosi di un’attività processuale del tutto ininfluente sull’esito del giudizio e non essendovi, in concreto, esigenze di tutela del contraddittorio, delle garanzie di difesa e del diritto alla partecipazione al processo in condizioni di parità. Nello stesso senso, Sez. 2, n. 12515/2018, Manna, Rv. 648755-01.

Significativa, in tema di comunicazioni di cancelleria con modalità telematiche nel procedimento ex art. 380-bis c.p.c., è Sez. 6-L, n. 12876/2018, Cavallaro, Rv. 648684-01, secondo cui, la notificazione del decreto di fissazione dell’udienza camerale e della proposta del relatore è validamente effettuata all’indirizzo PEC del difensore di fiducia, quale risultante dal Reginde, indipendentemente dalla sua indicazione in atti, ai sensi dell’art. 16 sexies del d.l. n. 179 del 2012, conv., con modif., in l. n. 221 del 2012, non potendosi configurare un diritto a ricevere le notificazioni esclusivamente presso il domiciliatario indicato. Nello stesso senso, Sez. 6-L, n. 25948/2018, Spena, Rv. 651000-01, ha ribadito che il decreto di fissazione dell’udienza, ex art. 380-bis, comma 2, c.p.c., è ritualmente notificato all’indirizzo di posta elettronica certificata del difensore risultante dal Reginde, ai sensi dell’art. 136, comma 2, c.p.c. e dell’art. 16, comma 4, del d.l. n. 179 del 2012, conv. con modif. in l. n. 221 del 2012, a nulla rilevando l’eventuale diverso indirizzo PEC indicato negli atti difensivi.

Connessa alla superiore questione è quella affrontata da Sez. 5, n. 07029/2018, Fuochi Tinarelli, Rv. 647554-01, che ha affermato trattarsi di evento imputabile al destinatario il mancato buon esito della comunicazione telematica di un provvedimento giurisdizionale, dovuto alla saturazione della capienza della sua casella di posta elettronica del destinatario, in ragione dell’inadeguata gestione dello spazio per l’archiviazione e la ricezione di nuovi messaggi, sicché è legittima l’effettuazione della comunicazione mediante deposito dell’atto in cancelleria, ai sensi dell’art. 16, comma 6, del d.l. n. 179 del 2012, conv. in l. n. 221 del 2012, come modificato dall’art. 47 del d.l. n. 90 del 2014, conv. in l. n. 114 del 2014.

Relativamente allo ius postulandi, di grande rilevanza, per le ricadute pratiche che ne derivano, appare la recentissima Sez. 5, n. 33639/2018, Fichera, Rv. 651915-01. Detta pronuncia – nel solco di Sez. 5, n. 15869/2018, Castorina, Rv. 649219-01, nonché di Sez. 5, n. 28741/2018, Stalla, Rv. 651604-01 e 651604-02 – premesso che l’estinzione ope legis delle società del cd. “gruppo Equitalia” ai sensi dell’art. 1 del d.l. 22 ottobre 2016, n. 193, conv. in l. 1° dicembre 2016, n. 225, non determina la necessità di costituzione in giudizio del nuovo ente Agenzia delle Entrate-Riscossione, non costituendo successione nel processo ai sensi dell’art. 110 c.p.c., bensì successione nei rapporti giuridici controversi ex art. 111 c.p.c., ha statuito che quando il nuovo ente decida autonomamente di costituirsi nel giudizio di cassazione, con il patrocinio di un avvocato del libero foro, sussiste per esso l’onere, pena la nullità del mandato difensivo e dell’atto di costituzione su di esso basato, di indicare ed allegare le fonti del potere di rappresentanza ed assistenza di quest’ultimo, in alternativa al patrocinio per regola generale esercitato, salvo il caso di un conflitto di interessi, dall’avvocatura dello Stato. La S.C. ha conseguentemente dichiarato, nel caso di specie e stante la mancanza di dette evidenze, la nullità della costituzione in giudizio del nuovo ente, mediante la memoria ex art. 380-bis.1 c.p.c., a firma dell’avvocato del libero foro precedentemente costituito, statuendo che, in detta ipotesi, conformemente all’art. 111 c.p.c., il processo prosegue tra le parti originarie.

Per quanto concerne la rinuncia al ricorso per cassazione, deve anzitutto segnalarsi Sez. 6-5, n. 14782/2018, Manzon, Rv. 649019-01, che ha ribadito il principio per cui, sebbene l’atto di rinuncia al ricorso per cassazione, in assenza dei requisiti di cui all’art. 390, ultimo comma, c.p.c. (notifica alle parti costituite o comunicazione agli avvocati delle stesse per l’apposizione del visto), non sia idoneo a determinare l’estinzione del processo, esso denota il definitivo venire meno di ogni interesse alla decisione e comporta, pertanto, l’inammissibilità del ricorso.

Sostanzialmente analoga appare la posizione affermata da Sez. 6-3, n. 19907/2018, Scarano, Rv. 650288-01, secondo cui la dichiarazione di rinuncia al ricorso per cassazione, non sottoscritta dalla parte di persona ma dal solo difensore, senza tuttavia che questi risulti munito di mandato speciale a rinunziare, mancando dei requisiti previsti dall’art. 390, comma 2, c.p.c., non produce l’effetto dell’estinzione del processo, ma, rivelando il sopravvenuto difetto di interesse del ricorrente a proseguire il giudizio, in specie quando la controparte non si sia neppure costituita, è idonea a determinare la declaratoria di cessazione della materia del contendere.

Infine, deve segnalarsi Sez. 6-2, n. 32368/2018, Picaroni, Rv. 652064-01, secondo cui, ove la parte che ha proposto ricorso per cassazione vi rinunci, nel rispetto dei termini e delle modalità previste dall’art. 390 c.p.c. (avuto riguardo al procedimento in camera di consiglio di cui all’art. 380-bis c.p.c.), alla manifestazione di tale volontà abdicativa segue la declaratoria di estinzione, anche se sussista una causa di inammissibilità dell’impugnazione sulla base del rilievo assorbente che qualunque valutazione sul ricorso presuppone che esso sia in atto e che ciò è escluso dalla sua rinunzia.

Quanto alla memoria ex art. 378 c.p.c. ed a quella omologa di cui all’art. 380-bis c.p.c., occorre considerare Sez. 6-3, n. 05355/2018, Scrima, Rv. 648236-01, per la quale i vizi di genericità o indeterminatezza dei motivi del ricorso per cassazione non possono essere sanati da integrazioni, aggiunte o chiarimenti contenuti nella memoria di cui all’art. 378 c.p.c., la cui funzione è quella di illustrare e chiarire le ragioni giustificatrici dei motivi già debitamente enunciati nel ricorso e non già di integrare quelli originariamente inammissibili. Nello stesso senso, Sez. 2, n. 30760/2018, Falaschi, Rv. 651598-01, in relazione alla memoria di cui all’art. 380-bis, comma 2, c.p.c.

Sul tema della produzione documentale, Sez. 2, n. 11683/2018, Criscuolo, Rv. 648334-01, ha ritenuto ammissibile la produzione nel giudizio di legittimità di atti processuali facenti parte del fascicolo d’ufficio dei precedenti gradi di merito, non essendo invocabile la previsione di cui all’art. 372 c.p.c.

Ancora, Sez. 6-5, n. 12344/2018, Carbone, Rv. 648517-01, ha ritenuto l’ammissibilità del deposito di un documento, ai sensi dell’art. 372 c.p.c., munito di timbro postale attestante la data certa, ove lo stesso documento, ancorché privo di timbro postale, sia stato prodotto nei precedenti gradi del processo (fattispecie in cui la decisione impugnata aveva dichiarato inammissibile l’appello dell’Agenzia delle Entrate ritenendo insufficiente, ai fini della prova della tempestività del gravame, la produzione della distinta-elenco delle raccomandate predisposta dall’amministrazione, non munita del timbro postale).

Sotto altro profilo, Sez. 6-5, n. 14426/2018, La Torre, Rv. 649204-01, ha ribadito che la produzione di copia incompleta della sentenza impugnata è causa di improcedibilità del ricorso per cassazione ex art. 369 c.p.c. solo ove non consenta di dedurre con certezza l’oggetto della controversia e le ragioni poste a fondamento della pronuncia.

Ancora, Sez. 1, n. 15580/2018, Vella, Rv. 649273-01, ha affermato che l’onere di depositare i contratti e gli accordi collettivi – imposto, a pena di improcedibilità del ricorso, dall’art. 369, comma 2, n. 4, c.p.c., nella formulazione di cui al d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40- può dirsi soddisfatto solo con la produzione del testo integrale del contratto collettivo, adempimento rispondente alla funzione nomofilattica della Corte di cassazione e necessario per l’applicazione del canone ermeneutico previsto dall’art. 1363 c.c., senza che a tal fine, possa considerarsi sufficiente il mero richiamo, in calce al ricorso, all’intero fascicolo di parte del giudizio di merito, ove manchi una puntuale indicazione del documento nell’elenco degli atti.

Sempre sul tema, secondo Sez. L, n. 18464/2018, Bellé, Rv. 649870-01, è ammissibile la produzione di documenti non prodotti in precedenza solo ove attengano alla nullità della sentenza impugnata o all’ammissibilità processuale del ricorso o del controricorso, ovvero al maturare di un successivo giudicato, mentre non è consentita la produzione di documenti nuovi relativi alla fondatezza nel merito della pretesa, per far valere i quali, se rinvenuti dopo la scadenza dei termini, la parte che ne assuma la decisività può esperire esclusivamente il rimedio della revocazione straordinaria ex art. 395, n. 3, c.p.c. Nello stesso senso, sostanzialmente, Sez. 1, n. 28999/2018, Iofrida, Rv. 651476-01.

Peraltro, Sez. 6-5, n. 22095/2018, Solaini, Rv. 650066-01, ha precisato che la nozione di nullità della sentenza che consente la produzione nel giudizio di legittimità di nuovi documenti, ex art. 372 c.p.c., va interpretata in senso ampio, comprendendo nella stessa non solo le nullità derivanti dalla mancanza di requisiti formali della pronunzia, ma anche quelle correlate a vizi del procedimento che influiscono direttamente sulla decisione medesima: ne deriva che assumono rilievo anche le certificazioni “postume” rilasciate dalla cancelleria del giudice d’appello in ordine al rispetto degli adempimenti processuali.

Quanto ai poteri della Corte di cassazione, va anzitutto segnalata Sez. 6-5, n. 05971/2018, Manzon, Rv. 647366-01, che ha ribadito che qualora sia denunciato un error in procedendo per difetto dell’attività valutativa del giudice a quo, la Corte di cassazione deve decidere la questione, mediante l’accesso diretto agli atti processuali, dichiarando, se del caso, la nullità della sentenza impugnata.

In proposito, peraltro, Sez. 2, n. 20716/2018, Falaschi, Rv. 650015-02, ha precisato che, in caso di preteso error in procedendo, il sindacato del giudice di legittimità investe direttamente l’invalidità denunciata, mediante l’accesso diretto agli atti sui quali il ricorso è fondato, indipendentemente dalla sufficienza e logicità della motivazione adottata al riguardo dal giudice del merito, posto che, in tali casi, la Corte di cassazione è giudice anche del fatto.

In tema di ricorso avverso la sentenza che abbia deciso sull’impugnazione di lodo arbitrale, si segnala Sez. 6-1, n. 02985/2018, Di Virgilio, Rv. 647336-01, nonché Rv. 647336-02. Con il primo principio è stato affermato che il controllo della Suprema Corte non può mai consistere nella rivalutazione dei fatti, neppure in via di verifica della adeguatezza e congruenza dell’iter argomentativo seguito dagli arbitri, sicché è inammissibile il motivo del ricorso per cassazione, formulato avverso la sentenza della Corte territoriale ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5. c.p.c., con il quale il ricorrente riproponga questioni di fatto già oggetto della decisione arbitrale. Con il secondo principio, correlativamente, è stato statuito che la Corte di cassazione non può apprezzare direttamente il lodo arbitrale, ma solo la decisione impugnata nei limiti dei motivi di ricorso relativi alla violazione di legge e, ove ancora ammessi, alla congruità della motivazione della sentenza resa sul gravame, non potendo peraltro sostituire il suo giudizio a quello espresso dalla Corte di merito sulla correttezza della ricostruzione dei fatti e della valutazione degli elementi istruttori operata dagli arbitri.

Sotto altro profilo, Sez. 3, n. 11754/2018, Vincenti, Rv. 648794-04, ha affermato che – per il suo carattere pubblicistico, e per il fatto che esso ha ad oggetto questioni assimilabili a quelle di diritto, anziché di fatto – anche nel giudizio di legittimità il giudicato esterno è, al pari del giudicato interno, rilevabile d’ufficio, non solo qualora emerga da atti comunque prodotti nel giudizio di merito, ma anche nel caso in cui si sia formato successivamente alla sentenza impugnata; in quest’ultima ipotesi la sua utile deducibilità non è impedita dalla deduzione nella fase di merito di un precedente giudicato esterno su cui sia intervenuta pronuncia, negatoria della rilevanza dello stesso giudicato, impugnata in sede di legittimità e, in caso di contrasto, il secondo giudicato prevale sul primo, sempre che la seconda sentenza non sia stata sottoposta a revocazione.

Sez. 2, n. 12525/2018, Scarpa, Rv. 651377-01, ha poi ritenuto la piena applicabilità al giudizio di cassazione della norma contenuta nell’art. 177 c.p.c., secondo la quale le ordinanze lato sensu istruttorie e quelle destinate a regolare lo svolgimento del processo possono essere modificate o revocate dal giudice che le ha emesse, salvo i casi previsti dal terzo comma della stessa norma, in virtù del principio secondo cui tali ordinanze non possono pregiudicare la decisione della causa (fattispecie in tema di revoca dell’ordinanza interlocutoria di rinvio della causa a nuovo ruolo).

Infine, va segnalata Sez. 3, n. 17015/2018, Guizzi, Rv. 649511-03, secondo cui la Corte di cassazione può ricondurre entro il paradigma dell’art. 2043 c.c. le condotte, astrattamente compatibili con la fattispecie di cui all’art. 2087 c.c., dedotte dal ricorrente a sostegno dell’azione risarcitoria, purché tale diverso inquadramento abbia ad oggetto i fatti prospettati dalle parti, non potendo l’esercizio del potere di qualificazione giuridica comportare la modifica officiosa della domanda così come definita nelle fasi di merito (fattispecie concernente un giudizio, promosso dal pilota di un rimorchiatore per ottenere il risarcimento dei danni subiti in conseguenza di un sinistro verificatosi durante la navigazione, in cui il giudice di merito aveva erroneamente attribuito alla sola condotta del danneggiato l’eziologia dell’evento dannoso).

In relazione alle formule decisorie adottabili dalla S.C., va anzitutto segnalata Sez. U, n. 08980/2018, Frasca, Rv. 650327-01, secondo cui ove nel corso del giudizio di legittimità le parti definiscano la controversia con un accordo convenzionale, la Corte deve dichiarare cessata la materia del contendere, con conseguente venir meno dell’efficacia della sentenza impugnata, non essendo inquadrabile la situazione in una delle tipologie di decisione indicate dagli artt. 382, comma 3, 383 e 384 c.p.c. e non potendosi configurare un disinteresse sopravvenuto delle parti per la decisione sul ricorso e, quindi, una inammissibilità sopravvenuta dello stesso.

In linea col suddetto arresto, Sez. 1, n. 26299/2018, Campese, Rv. 651303-01, ha quindi ribadito che, una volta dichiarata cessata la materia del contendere e rimosse, con cassazione senza rinvio, le sentenze già emesse, prive di attualità, occorre provvedere con pronuncia finale sulle spese, secondo una valutazione di soccombenza virtuale.

Ancora, Sez. 3, n. 16786/2018, Frasca, Rv. 649548-01, nel solco di un risalente orientamento, ha ritenuto doversi cassare senza rinvio, in applicazione dell’art. 382, comma 3, c.p.c., la statuizione con cui il giudice liquidi, in favore della parte vittoriosa in appello, le spese processuali del primo grado di giudizio, nel quale però la stessa era rimasta contumace. Ciò in quanto, pur essendo espressione di un potere officioso del giudice, la condanna alle spese in favore della parte vittoriosa che non si sia difesa e non abbia, quindi, sopportato il corrispondente carico non può essere disposta ed è assimilabile ad una pronuncia resa in mancanza del suddetto potere.

Significativa è Sez. 6, n. 24083/2018, Frasca, Rv. 650607-01, secondo cui in presenza della dichiarazione del debitore di avvalersi della definizione agevolata con impegno a rinunciare al giudizio ai sensi dell’art. 6 del d.l n. 193 del 2016, conv. con modif. in l. n. 225 del 2016, cui sia seguita la comunicazione dell’esattore ai sensi del comma 3 di tale norma, il giudizio di cassazione deve essere dichiarato estinto, ex art. 391 c.p.c., rispettivamente per rinuncia del debitore, qualora egli sia ricorrente, ovvero perché ricorre un caso di estinzione ex lege, qualora sia resistente o intimato; in entrambe le ipotesi, peraltro, deve essere dichiarata la cessazione della materia del contendere qualora risulti, al momento della decisione, che il debitore abbia anche provveduto al pagamento integrale del debito rateizzato.

Ancora, Sez. 3, n. 26703/2018, Frasca, Rv. 651169-01, in tema di opposizione agli atti esecutivi, ex art. 617 c.p.c., ha affermato che la tardività dell’opposizione stessa può essere rilevata d’ufficio senza necessità di stimolare il contraddittorio, atteso che l’art. 382, comma 3, c.p.c., nel disciplinare la statuizione conseguente a tale rilievo, non impone di sottoporre la questione alle parti in quanto costituisce norma speciale sia rispetto all’art. 101, comma 2, c.p.c., sia rispetto all’art. 384, comma 3, c.p.c., il quale si applica nella diversa ipotesi in cui la Corte di cassazione, dopo aver cassato la sentenza, pronuncia nel merito assumendo i poteri del giudice della sentenza cassata.

Relativamente al regime delle spese, si segnala in primo luogo Sez. 5, n. 10198/2018, Nonno, Rv. 647968-01, secondo cui ove il contribuente rinunci al ricorso durante il procedimento di legittimità – avvalendosi della definizione agevolata delle controversie tributarie ai sensi dell’art. 6, comma 2, del d.l. n. 193 del 2016 (conv., con modif., nella l. n. 225 del 2016) – non trova applicazione la regola generale di cui all’art. 391, comma 2, c.p.c., poiché la condanna alle spese del medesimo contrasterebbe con la ratio della definizione agevolata, dissuadendolo ad aderire alla stessa, mediante la previsione di oneri ulteriori rispetto a quelli contemplati dalla legge, sicché, anche se l’Amministrazione finanziaria non accetta la rinuncia, deve essere disposta la compensazione delle spese. Nello stesso senso, Sez. 6-L, n. 28311/2018, Cavallaro, Rv. 651733-01.

Avuto poi riguardo al regime di cui all’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della l. 24 dicembre 2012, n. 228, è significativa Sez. 6-3, n. 08170/2018, Vincenti, Rv. 648699-01, secondo cui l’obbligo di versamento, per il ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, sorgendo ipso iure, non può costituire un capo del provvedimento di definizione dell’impugnazione dotato di contenuto condannatorio né di contenuto declaratorio. Ne deriva che l’errore del giudice nel collegare il detto obbligo alla sostanziale integrale soccombenza nel merito dell’impugnazione ed alla condanna alle spese, in luogo del pur sussistente fatto oggettivo del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, del gravame, non può condurre alla cassazione della sentenza impugnata, potendo solo consentire un’attestazione ex lege della non debenza del detto ulteriore contributo.

Sul tema, inoltre, Sez. L, n. 12103/2018, Cinque, Rv. 648965-01, ha affermato che il meccanismo sanzionatorio del cd. “doppio contributo unificato” ha la finalità di scoraggiare le impugnazioni dilatorie o pretestuose ed è applicabile laddove l’impugnazione si concluda con una pronuncia di rigetto integrale, di inammissibilità o di improcedibilità, con apprezzamento da svolgere in base all’esito complessivo dell’impugnazione e non ad una verifica atomistica e circoscritta delle singole doglianze.

Così, Sez. 3, n. 13055/2018, Frasca, Rv. 649105-02, ha evidenziato che, in proposito, il giudice deve unicamente attestare l’avere adottato una decisione di inammissibilità o improcedibilità o di “respingimento integrale” dell’impugnazione, anche incidentale, competendo in via esclusiva all’Amministrazione valutare se, nonostante l’attestato tenore della pronuncia, spetti in concreto la doppia contribuzione. Ne consegue che, qualora l’Amministrazione constati l’esenzione o la prenotazione a debito (come nel caso di patrocinio a spese dello Stato), le ulteriori deliberazioni rimangono di sua spettanza ed è contro di esse che potrà estrinecarsi la reazione della parte, mediante i mezzi di tutela avverso l’eventuale illegittima pretesa di riscossione, senza che l’attestazione del giudice civile possa leggersi come di debenza della doppia contribuzione, non avendo essa tale oggetto.Per il caso di rinuncia al ricorso per adesione alla definizione agevolata in materia tributaria, Sez. 6-5, n. 14782/2018, Manzon, Rv. 649019-02, ha negato la sussistenza dei presupposti per condannare il contribuente al pagamento del cd. “doppio contributo unificato”, ove il presupposto per la rinuncia e, quindi, la causa di inammissibilità del ricorso sia sopravvenuta rispetto alla proposizione del medesimo. Nello stesso senso, Sez. 5, n. 31732/2018, Fasano, Rv. 651779-01, nonché, in caso di rinuncia al ricorso in generale, Sez. 6-1, n. 19071/2018, Genovese, Rv. 649792-01.

Sotto altro profilo, Sez. 6-5, n. 15111/2018, Napolitano, Rv. 649208-01, ha affermato che la statuizione di condanna al versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato ha natura amministrativa, poiché non attiene alla decisione sul diritto controverso, riguardando, invece, il rapporto del contribuente con l’erario rispetto alle condizioni per l’accesso alla giustizia, con la conseguenza che la Corte di cassazione può valutarne la legittimità anche d’ufficio. Nello stesso senso, Sez. 6-5, n. 20018/2018, Napolitano, Rv. 650106-02.

Peraltro, secondo Sez. 3, n. 26907/2018, Frasca, Rv. 651141-01, la citata normativa non impone al giudice di dichiarare, oltre alla ricorrenza di un caso di infondatezza, inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione, anche se la parte, in dipendenza di tale esito, sia in concreto tenuta al versamento del contributo, essendo tale accertamento rimesso all’amministrazione giudiziaria e, quindi, al funzionario di cancelleria.

Si ritiene poi, nella giurisprudenza della Corte, che il ricorrente non possa essere tenuto al versamento del doppio contributo ove sia stato ammesso al patrocinio a spese dello Stato, stante il meccanismo della prenotazione a debito. Tuttavia, qualora, ciononostante, tale pronuncia sia stata adottata dal giudice d’appello, Sez. 1, n. 27699/2018, Di Marzio M., Rv. 651121-01, ha ribadito che il vizio può essere denunciato con autonomo ricorso per cassazione, giacchè la possibile alternativa (ossia, la segnalazione dell’erronea declaratoria in sede di riscossione) si porrebbe in contrasto con l’art. 6 CEDU e con l’art. 47 della Carta Fondamentale dell’Unione Europea.

3. Il giudizio di rinvio.

Numerose pronunce, infine, hanno riguardato il giudizio di rinvio, delle quali alcune meritano particolare considerazione.

Anzitutto, con riferimento al sindacato della Corte di cassazione rispetto alla sentenza adottata dal giudice del rinvio, Sez. 6-5, n. 02652/2018, Conti, Rv. 647108-01, ha affermato che qualora il ricorso sia fondato sulla deduzione della infedele esecuzione dei compiti affidatigli con la precedente pronuncia di annullamento, occorre distinguere a seconda che l’annullamento stesso sia avvenuto per violazione di norme di diritto ovvero per vizi della motivazione in ordine a punti decisivi della controversia. Infatti, nella prima ipotesi, il giudice del rinvio è tenuto soltanto ad uniformarsi al principio di diritto enunciato nella sentenza di cassazione, senza possibilità di modificare l’accertamento e la valutazione dei fatti, già acquisiti al processo, mentre, nel secondo caso, la sentenza rescindente – indicando i punti specifici di carenza o di contraddittorietà della motivazione – non limita il potere del giudice di rinvio all’esame dei soli punti indicati, da considerarsi come isolati dal restante materiale probatorio, ma conserva al giudice stesso tutte le facoltà che gli competevano originariamente quale giudice di merito, relative ai poteri di indagine e di valutazione della prova, nell’ambito dello specifico capo della sentenza di annullamento. In quest’ultima ipotesi, poi, il giudice di rinvio, nel rinnovare il giudizio, è tenuto a giustificare il proprio convincimento secondo lo schema esplicitamente od implicitamente enunciato nella sentenza di annullamento, in sede di esame della coerenza del discorso giustificativo, evitando di fondare la decisione sugli stessi elementi del provvedimento annullato, ritenuti illogici, e con necessità, a seconda dei casi, di eliminare le contraddizioni e sopperire ai difetti argomentativi riscontrati.

Sulla medesima questione, Sez. 1, n. 03955/2018, Marulli, Rv. 647417-01, ha poi affermato che, ove sia in discussione, in rapporto al petitum concretamente individuato dal giudice di rinvio, la portata del decisum della sentenza di legittimità, la Corte di cassazione, nel verificare se il giudice di rinvio si sia uniformato al principio di diritto da essa enunciato, deve interpretare la propria sentenza in relazione alla questione decisa e al contenuto della domanda proposta in giudizio dalla parte, con la quale la pronuncia rescindente non può porsi in contrasto.

Peraltro, secondo Sez. 5, n. 19594/2018, Condello, Rv. 649824-01, nell’ipotesi di annullamento con rinvio per violazione di norme di diritto, la pronuncia della Corte di cassazione vincola al principio affermato ed ai relativi presupposti in fatto, sicché il giudice di rinvio deve uniformarsi non solo alla regola giuridica enunciata, ma anche alle premesse logico-giuridiche della decisione adottata, attenendosi agli accertamenti già compresi nell’ambito di tale enunciazione. Nello stesso senso, Sez. 3, n. 20887/2018, Rubino, Rv. 650434-01.

Sempre sul tema, deve poi segnalarsi Sez. 2, n. 22989/2018, Sabato, Rv. 650379-01, che ha ribadito che, quando la cassazione avvenga sia per vizi di violazione di legge che per vizi di motivazione, essa non incide sul potere del giudice di rinvio non solo di riesaminare i fatti, oggetto di discussione nelle precedenti fasi, non presupposti dal principio di diritto, ma anche, nei limiti in cui non si siano già verificate preclusioni processuali o decadenze, di accertarne di nuovi da apprezzare in concorso con quelli già oggetto di prova.

Riaffermata la struttura “chiusa” del giudizio di rinvio, ossia la cristallizzazione della posizione delle parti nei termini in cui era rimasta definita nelle precedenti fasi processuali fino al giudizio di cassazione e più precisamente fino all’ultimo momento utile nel quale detta posizione poteva subire eventuali specificazioni, Sez. L, n. 11411/2018, Cinque, Rv. 648820-01, ha ribadito che il giudice di rinvio può prendere in considerazione fatti nuovi incidenti sulla posizione delle parti, senza violare il divieto di esame di punti non prospettati o prospettabili dalle parti fino a quel momento, soltanto a condizione che si tratti di fatti dei quali, per essere avvenuta la loro verificazione dopo quel momento, non era stata possibile l’allegazione, a meno che la nuova attività assertiva ed istruttoria non sia giustificata proprio dalle statuizioni della Corte di cassazione in sede di rinvio. Ne consegue che, allorquando il giudice del rinvio sia chiamato a prendere in considerazione un fatto che si assuma integrare da una parte una pretesa cessazione della materia del contendere, intanto può esaminarlo in quanto si sia verificato successivamente all’udienza di discussione in cassazione, posto che, ove esso si fosse verificato prima, l’udienza stessa sarebbe stata il momento ultimo entro il quale sarebbe dovuta avvenirne l’allegazione, restando, in questo caso, il fatto in questione non esaminabile, unitamente agli eventuali documenti con i quali si voglia farlo constare.

Sempre in considerazione della natura “chiusa” del giudizio di rinvio, secondo Sez. L, n. 19436/2018, Amendola F., Rv. 649971-01, la parte soccombente non può dolersi dell’omesso rilievo officioso di una questione di diritto nuova, che tenda a porre nel nulla o a limitare gli effetti intangibili della sentenza di cassazione e l’operatività del principio di diritto in essa enunciato.

Nello stesso senso, Sez. 6-5, n. 26108/2018, La Torre, Rv. 651434-01, ha ribadito che nel giudizio di rinvio é preclusa l’acquisizione di nuove prove, e segnatamente la produzione di nuovi documenti, anche se consistenti in una perizia d’ufficio disposta in altro giudizio, salvo che la loro produzione non sia giustificata da fatti sopravvenuti riguardanti la controversia in decisione, da esigenze istruttorie derivanti dalla sentenza di annullamento della Corte di cassazione o dall’impossibilità di produrli in precedenza per causa di forza maggiore.

Infine, sul tema della struttura “chiusa” del giudizio di rinvio e del relativo materiale istruttorio, deve segnalarsi Sez. 5, n. 27823/2018, D’Orazio, Rv. 651407-01, secondo cui restano salve le eccezioni previste dall’art. 394 c.p.c., e l’ipotesi nella quale la sentenza sia stata cassata per un vizio di violazione o falsa applicazione di legge, che reimposti, secondo un diverso angolo visuale, i termini giuridici della controversia, così da richiedere l’accertamento dei fatti, intesi in senso storico o normativo, non trattati dalle parti e non esaminati dal giudice di merito, perché ritenuti erroneamente privi di rilievo.

Sotto altro profilo, Sez. 6-2, n. 11614/2018, Lombardo, Rv. 648233-01, ha ribadito che la designazione del giudice di rinvio, operata dalla Corte di cassazione ai sensi dell’art. 383 c.p.c., attribuisce a detto giudice una competenza funzionale ratione materiae, che non può essere modificata dal giudice di rinvio.

Significativa è Sez. 6-3, n. 14302/2018, Tatangelo, Rv. 649339-01, secondo cui in caso di rinvio al giudice di primo grado, ex art. 383 c.p.c., qualora il giudice ometta di definire la fase rescissoria e si pronunci invece su una nuova domanda, irritualmente proposta dal ricorrente in seno allo stesso giudizio, tale fase va intesa non come impropria prosecuzione del giudizio di rinvio, ma quale giudizio iniziato ex novo, sicché le parti sono reintegrate nella pienezza di tutti i poteri processuali propri del giudizio di primo grado e il giudice può riesaminare liberamente la controversia, senza i vincoli di statuizioni pregresse (fattispecie in cui, a seguito della cassazione con rinvio di una sentenza nella quale il giudice di pace si era pronunciato unicamente su un motivo di opposizione agli atti esecutivi ex art. 617 c.p.c., e non sui motivi di opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c., pure contestualmente proposti, il giudice del rinvio aveva invece deciso esclusivamente un motivo di opposizione all’esecuzione. La S.C., ritenendo che tale fase integrasse un nuovo giudizio di primo grado, ha dichiarato inammissibile il ricorso per cassazione avverso la relativa sentenza, da ritenersi impugnabile con l’appello).

Sempre Sez. 6-3, n. 13532/2018, Rossetti, Rv. 648921-01, richiamando un risalente orientamento, ha ribadito che la pronunzia di assorbimento non può giustificarsi rispetto ad uno o più motivi del ricorso, nonostante legati da un rapporto di interdipendenza con gli altri, ogni qual volta le ragioni per le quali è accolto uno dei motivi non siano tali da escludere che nel giudizio di rinvio possano ripresentarsi le questioni già sollevate con gli altri motivi, venendo in tal caso a mancare l’estremo della superfluità dell’esame della questione, che caratterizza la pronunzia di assorbimento.

Resta fermo il principio, riaffermato da Sez. 3, n. 30184/2018, Scoditti, Rv. 651851-01, per cui il giudice del rinvio è obbligato a pronunciare sulle questioni dichiarate assorbite dalla sentenza di cassazione soltanto se esse siano state espressamente riproposte davanti a lui, restando altrimenti coperte dal giudicato.

Riguardo alla pronuncia di restituzione della somma che una parte abbia corrisposto in forza di una sentenza poi cassata, ex art. 389 c.p.c., Sez. 2, n. 17374/2018, Tedesco, Rv. 649347-02, ha ribadito che detta pronuncia può essere omessa dal giudice di rinvio quando questi, con la decisione che definisce il relativo giudizio, ponga nuovamente in essere il titolo giustificativo del pagamento, condannando la medesima parte a versare un importo pari o superiore.

Sempre sul tema, Sez. L, n. 21969/2018, Cinque, Rv. 650529-01, ha riaffermato il principio secondo cui la domanda di restituzione delle somme pagate in esecuzione della sentenza di appello cassata non costituisce domanda nuova, in quanto la ripetizione – che non è inquadrabile nell’istituto della condictio indebiti – è diretta alla restaurazione della situazione patrimoniale precedente alla sentenza che, nel caducare il titolo del pagamento rendendolo indebito sin dall’origine, determina il sorgere dell’obbligazione e della pretesa restitutoria che non poteva essere esercitata se non a seguito e per effetto della sentenza rescindente.

Ancora, secondo Sez. 6-1, n. 25355/2018, Campanile, Rv. 651351-01, le domande di restituzione o di riduzione in pristino di cui all’art. 389 c.p.c. possono essere proposte al giudice designato dalla S.C. ai sensi dell’art. 383 c.p.c. anche in via autonoma rispetto a quelle oggetto del giudizio di rinvio.

Interessante è Sez. 3, n. 20790/2018, Iannello, Rv. 650411-01, secondo cui il giudice del rinvio può rilevare, d’ufficio o su eccezione di parte, l’esistenza di un giudicato esterno formatosi in data antecedente alla sentenza di cassazione, qualora quest’ultima abbia annullato la sentenza impugnata per vizi di motivazione e non contenga alcuna, neppure implicita, pronuncia sulla questione del giudicato, atteso che in tal caso egli conserva tutte le facoltà relative ai poteri di indagine e di valutazione della prova che gli competevano orginariamente quale giudice del merito, salvo l’obbligo di eliminare le contraddizioni o sopperire ai difetti argomentativi riscontrati, e dunque può nuovamente prendere in considerazione l’intero materiale probatorio, formando il proprio libero convincimento anche sulla base di elementi trascurati dal primo giudice, ivi compreso il giudicato esterno.

Qualora, nel corso del giudizio di rinvio, venga disposta la cancellazione della causa dal ruolo e la causa non venga tempestivamente riassunta, secondo Sez. 2, n. 21469/2018, Besso Marcheis, Rv. 650311-01, si determina l’estinzione dell’intero processo, ma ciò non preclude la riproposizione della domanda. In tal caso, la precedente statuizione della Corte di cassazione è ancora vincolante, ma, poiché la decisione di annullamento ha effetto soltanto sulle parti della decisione di merito in relazione alle quali essa è operante, e cioè soltanto sulle parti cassate, i capi di pronuncia non cassati non sono travolti dall’estinzione e acquistano autorità di giudicato. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto che la decisione del giudice di appello, che aveva dichiarato la rescissione del contratto preliminare, non essendo stata cassata nel giudizio di legittimità, era passata in giudicato a seguito dell’estinzione del giudizio di rinvio, cosicché la riproposizione della domanda volta ad ottenere la riduzione ad equità del contratto, non poteva essere accolta).

Tuttavia, Sez. 3, n. 30994/2018, Gianniti, Rv. 651865-01, ha precisato che l’estinzione del processo per tardiva riassunzione – in base all’art. 307, comma 4, c.p.c., nella formulazione anteriore alla riforma introdotta dall’art. 46 della l. 18 giugno 2009, n. 69, applicabile ratione temporis – non può essere rilevata d’ufficio, ma solo a seguito di eccezione di parte da formularsi “prima di ogni altra sua difesa”, dovendosi intendere quest’ultima espressione non come equivalente a quella di “prima udienza” ma nel senso, corrispondente alla lettera della norma oltre che alla sua ratio, che l’eccezione di estinzione del processo deve precedere ogni diversa difesa, quale che sia il momento nel quale le difese vengono formulate.

Quanto al termine trimestrale per la riassunzione, Sez. 1, n. 29204/2018, Pazzi, Rv. 651478-01, ha affermato che il dies a quo, ex art. 392 c.p.c., decorre, sia che la Corte di cassazione decida con sentenza che con ordinanza, dal deposito in cancelleria del provvedimento, non potendosi attribuire alcun rilievo al tenore letterale dell’art. 392 c.p.c., in quanto non coordinato con le modifiche successivamente apportate all’art. 375 c.p.c. – che ha previsto i casi in cui la Corte di cassazione può decidere con ordinanza in camera di consiglio – in ragione della natura pienamente decisoria che caratterizza entrambi i provvedimenti, che si distinguono solo per essere assunti all’esito di diverse modalità di sviluppo dell’iter di decisione del ricorso.

Ancora, per l’ipotesi di rinvio cd. improprio o restitutorio alla corte d’appello – che si verifica quando la sentenza impugnata, senza entrare nel merito, si sia limitata ad una pronuncia meramente processuale – secondo Sez. 1, n. 23314/2018, Di Marzio M., Rv. 650758-01, la corte territoriale, diversamente da quanto accade nel caso di rinvio cd. prosecutorio, conserva tutti i poteri connaturati alla funzione di giudice dell’impugnazione avverso la sentenza del tribunale, e deve pertanto esaminare tutte le questioni ritualmente proposte che non incidano sul suo obbligo di conformarsi al principio di diritto enunciato dalla Suprema Corte.

Sez. 2, n. 26521/2018, Dongiacomo, Rv. 650842-01, riaffermata la vincolatività del principio di diritto enunciato dalla S.C. ex art. 384 c.p.c. sia per il giudice del rinvio che per la stessa Corte di cassazione nuovamente investita del ricorso avverso la sentenza pronunziata in sede di rinvio, ha dato continuità all’orientamento secondo cui essa presuppone l’omogeneità delle situazioni devolute al giudizio di legittimità e non opera con riguardo ad un thema decidendum non affrontato in occasione del primo giudizio rescindente o quando sopravvenga un fatto, estintivo o modificativo del diritto fatto valere, afferente a un profilo non affrontato in precedenza dai giudici di merito ed esulante dal decisum del giudizio rescindente.

Infine, sempre sul tema, Sez. 2, n. 27343/2018, Grasso Giu., Rv. 651022-01, ha ribadito che i limiti e l’oggetto del giudizio di rinvio sono fissati esclusivamente dalla sentenza di cassazione, la quale non può essere sindacata o elusa dal giudice di rinvio, neppure in caso di violazione di norme di diritto sostanziale o processuale o per errore del principio di diritto affermato, la cui giuridica correttezza non è sindacabile dal giudice del rinvio neanche alla stregua di successivi arresti giurisprudenziali della Corte di legittimità.

  • giurisdizione civile
  • giurisprudenza

APPROFONDIMENTO TEMATICO

L’EVOLUZIONE DEL SINDACATO SULLA MOTIVAZIONE NELLA GIURISPRUDENZA DELLA SUPREMA CORTE

(di Antonio Scarpa )

Sommario

1 Premessa. - 2 Il difetto di motivazione in senso formale. - 3 La nozione di “fatto” ex art. 360, n. 5, c.p.c. - 4 L’omesso esame degli elementi istruttori. - 5 Il fatto noto da cui è desunto quello ignoto. - 6 Il fatto ‹‹decisivo››. - 7 Il fatto «oggetto di discussione tra le parti». - 8 L’errore sul fatto ‹‹non oggetto di discussione tra le parti››. - 9 Il «doppio conforme omesso esame circa un fatto».

1. Premessa.

La lettura della pratica applicativa del nuovo art. 360, n. 5, c.p.c., introdotto dal d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. dalla l. 7 agosto 2012, n. 134, sia pur limitata alle pronunce dell’ultimo anno, smentisce categoricamente il timore che la Suprema Corte abbia, col concorso del legislatore del 2012, cancellato la rilevanza del vizio di motivazione quale oggetto del sindacato di legittimità, il che avrebbe messo a dura prova altresì la tenuta del precetto di cui all’art. 111, comma 6, Cost.

Senza contrastare la traccia indicata da Sez. U, n. 08053/2014, Botta, Rv. 629831-01 e Rv. 629830-01, i provvedimenti che verranno di seguito richiamati rassicurano che la Corte di Cassazione non si sia rassegnata a svolgere una verifica burocratica dell’assolvimento solo formale dell’obbligo di motivazione, spingendo ancora il proprio controllo, piuttosto, fino al riscontro che la decisione sia altresì apparentemente ”giusta”, ovvero razionalmente giustificata ed intimamente coerente, beninteso sempre nell’ambito della specifica parte di sentenza impugnata e della specifica questione sollevata con il motivo di censura.

L’area del sindacato di legittimità sui «fatti», sebbene talvolta costretto ad avventurarsi nell’irto sentiero della violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c., rimane, dunque, sensibile al profilo della logicità e della plausibilità del giudizio finale. Anche la dichiarata riluttanza a valorizzare le risultanze del singolo elemento istruttorio, negletto dal giudice di merito, vacilla quando emerge che il «fatto», per quanto esaminato nella sentenza impugnata, sia stato, in realtà, oggetto di più prove, meritevoli di una valutazione combinata.

Resta l’ostacolo selettivo della necessaria “decisività” del fatto non esaminato, ove intesa come connotazione di prognosi certa di un diverso esito della controversia, atteso che la percorribilità di una diversa ricostruzione inferenziale della quaestio facti non appartiene per definizione alla cognizione propria del giudice di legittimità.

Sebbene apparentemente confinato, così, il rilievo del «fatto» nel giudizio di cassazione ad un mezzo di censura che suppone un’omessa valutazione, per di più determinante, la Suprema Corte non rifiuta, dunque, di controllare la giustificazione “esterna” della decisione impugnata davanti ad essa, e cioè la razionalità degli enunciati descrittivi del giudice di merito sull’esistenza o inesistenza dei fatti di causa, senza accontentarsi della mera correttezza della forma grammaticale della motivazione esposta.

2. Il difetto di motivazione in senso formale.

Per Sez. U, n. 08053/2014, Botta, Rv. 629830-01, rimane comunque oggetto dichiarato del sindacato di legittimità la mancanza di motivazione in senso formale (i.e. della motivazione intesa come «contenitore documentale»), mancanza evidentemente percepibile dalla lettura del solo testo della sentenza impugnata, senza necessità di alcun raffronto con le risultanze processuali. Le decisioni della Suprema Corte di seguito evidenziate hanno dato, allora, «sostanza» a tale controllo dichiaratamente solo formale della motivazione, attuando, nei fatti, tuttora una verifica di intima coerenza della decisione di merito, e cioè di connessione tra le parti di cui essa si compone.

Per Sez. L, n. 27112/2018, Ponterio, Rv. 651205-01, è, così, nulla, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c., per violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c., la motivazione solo apparente, che non costituisce espressione di un autonomo processo deliberativo, quale la sentenza di appello motivata per relationem alla sentenza di primo grado, attraverso una generica condivisione della ricostruzione in fatto e delle argomentazioni svolte dal primo giudice, senza alcun esame critico delle stesse in base ai motivi di gravame.

Analogamente, afferma Sez. 6 - 3, n. 22598/2018, D’Arrigo, Rv. 650880-01, l’obbligo di motivazione previsto in via generale dall’art. 111, comma 6, Cost. e dall’art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c., è violato qualora la stessa motivazione sia totalmente mancante o meramente apparente, ovvero essa risulti del tutto inidonea ad assolvere alla funzione specifica di esplicitare le ragioni della decisione, dando luogo ad una nullità processuale deducibile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c.

Anche Sez. 5, n. 01702/2018, Balsamo, non massimata, assume che la causa di nullità della sentenza per difetto del requisito essenziale costituito dalla motivazione si riscontra non soltanto in caso di totale assenza “materiale” o “fisica” della motivazione, ma anche allorquando quest’ultima si riveli apparente, perché apodittica e priva dell’indicazione di qualsivoglia reale vaglio critico in grado di chiarire e sostenere – in fatto ed in diritto – la decisione assunta, al punto da precludere l’individuazione dell’esatta ragione accolta dal giudice e, al contempo, l’esercizio di qualsivoglia controllo sulla sua correttezza in rapporto alla fattispecie dedotta in giudizio.

Sez. 2, n. 00077/2018, Scarpa, Rv. 646663-01, ravvisa la motivazione apparente, o comunque obiettivamente incomprensibile, della sentenza impugnata, in quanto essa aveva respinto l’impugnazione principale e parzialmente accolto l’appello incidentale senza rendere percepibile il fondamento della decisione, precludendo al ricorrente la possibilità di assolvere l’onere probatorio su di esso gravante e ricorrendo ad argomentazioni inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento.

La motivazione è, invece, intrinsecamente contraddittoria quando è strutturata su proposizioni successive che affermano che una stessa circostanza sia e non sia, ovvero su fatti reciprocamente escludentisi.

Il controllo di non contraddittorietà attiene, quindi, alla plausibilità del giudizio finale, ovvero proprio a quell’intima coerenza argomentativa della decisione che, cacciata dalla porta, rientra dalla finestra.

Si è deciso che integri, pertanto, una motivazione insanabilmente contraddittoria quella che dapprima afferma la sussistenza di un presupposto per l’applicazione di una norma e poi ne nega, senza dar spiegazioni, la conseguente applicazione (Sez. 6-3, n. 4367/2018, n. 04367, De Stefano, Rv. 648037-01); come quella che denoti un irriducibile contrasto con quanto statuito in dispositivo (Sez. 2, n. 12527/2018, Scarpa, non massimata).

3. La nozione di “fatto” ex art. 360, n. 5, c.p.c.

Già a seguito della sostituzione dell’art. 360 c.p.c. operata dal d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, oggetto del vizio di cui al n. 5, non è più un «punto decisivo della controversia», ma un «fatto decisivo per il giudizio».

Costituisce, allora, un “fatto”, agli effetti dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., non una “questione” o un “punto”, ma un vero e proprio “fatto”, in senso storico e normativo, e, cioè, un preciso accadimento ovvero una precisa circostanza, da intendersi in senso storico-naturalistico, e però tanto un fatto principale, ex art. 2697 c.c. (cioè un “fatto” costitutivo, modificativo impeditivo o estintivo), quanto un fatto secondario (cioè un fatto dedotto ed affermato dalle parti in funzione di prova di un fatto principale).

Non costituiscono, viceversa, “fatti”, il cui omesso esame possa cagionare il vizio ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.:

le argomentazioni o deduzioni difensive (Sez. 1, n. 26305/2018, Valitutti, Rv. 651305-01);

le questioni interpretative (Sez. 2, n. 20718/2018, Falaschi, Rv. 650016-02);

gli elementi istruttori in quanto tali, quando il fatto storico da essi rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti (Sez. 2, n. 27415/2018. Scarpa, Rv. 651028-01);

le domande o le eccezioni formulate nella causa di merito, ovvero i motivi di appello, i quali costituiscono i fatti costitutivi della “domanda” in sede di gravame (Sez. 2, n. 01539/2018, Orilia, Rv. 647081-01).

In sostanza, traendo spunto da quest’ultima pronuncia, sembra chiaro in giurisprudenza che se la censura è volta a denunciare l’omissione di un fatto da sé solo interamente integrativo di una domanda o di un’eccezione sollevata dal ricorrente, oppure il mancato esame di un fatto, esclusivamente processuale, quale uno specifico motivo di appello, il vizio deve essere prospettato come omessa pronuncia, e deve contenere un chiaro riferimento alla nullità della decisione derivante dalla relativa omissione. Se, invece, il fatto ignorato è elemento di una più ampia difesa della parte svolta nel contesto di una domanda o di una eccezione pur decise dal giudice, viene in rilievo il vizio ex art. 360 n. 5 c.p.c. Quando l’omesso esame del fatto costitutivo, impeditivo, modificativo ed estintivo integra già altro vizio del catalogo di cui all’art. 360, comma 1, c.p.c., non può darsi il ricorso al n. 5 di esso, il quale va ristretto ai casi in cui occorre un diverso sindacato di legittimità.

4. L’omesso esame degli elementi istruttori.

Seguendo l’insegnamento di Sez. U, n. 08053/2014, Botta, Rv. 629831-01, Sez. 2, n. 27415/2018. Scarpa, Rv. 651028-01, ha dunque ribadito che il mancato esame di un mezzo di prova (documento, testimonianza, ecc.) può essere denunciato per cassazione solo nel caso in cui abbia determinato l’omesso esame circa un fatto storico decisivo della controversia e, segnatamente, quando la prova non esaminata offra la dimostrazione di una circostanza di tale portata da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito, di modo che la ratio decidendi venga a trovarsi priva di fondamento. Perciò la censura deve contenere, a pena di inammissibilità, ex art. 366, comma 1, n. 4, c.p.c., l’indicazione delle ragioni per le quali il documento o la deposizione trascurati avrebbero senza dubbio dato luogo a una decisione diversa.

Ne consegue, in modo vieppiù radicale, che l’omessa pronuncia su un’istanza istruttoria, giammai reputata prospettabile come violazione dell’art. 112 c.p.c. (configurandosi questa come riferibile unicamente a domande attinenti al merito), e però un tempo ritenuta almeno denunciabile sotto il profilo del vizio di motivazione, rischia di rimanere sprovvista di rilievo in sede di controllo di legittimità per difetto di decisività, ove il fatto che la prova richiesta intendeva dimostrare sia stato comunque già oggetto di altre risultanze processuali valutate dal giudice (si veda da ultimo Sez. 2 , n. 27415/2018, Scarpa, Rv. 651028 -02). Il filtro preliminare di decisività della deduzione istruttoria del tutto ignorata onera, così, il ricorrente di prospettare anche gli argomenti per i quali la mancata ammissione della prova abbia sottratto per intero l’emersione di un «fatto» all’interno del giudizio, il che significa, nella sostanza, subordinare il controllo di legittimità sulla (mancata) attività del giudice di merito ad una prognosi di fondatezza nella sostanza della domanda o eccezione elusa, ovvero ad un vaglio sull’ingiustizia di fondo della sentenza impugnata, implicante, per di più, il riesame, da parte della Corte di Cassazione, di tutto il materiale istruttorio acquisito alla causa.

Si fanno allora strada, anche su questo aspetto, interpretazioni giurisprudenziali meno restrittive: pure l’esame incompleto, incoerente o illogico di un mezzo di prova finisce talvolta per equivalere all’omesso esame del fatto che quella prova dovrebbe dimostrare.

Se, d’altro canto, è corretto sottrarre alla censurabilità per cassazione, ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c., la valutazione di inferenza probatoria del giudice di merito, l’omesso o incompleto esame di una prova difficilmente non equivale all’omesso controllo dell’esistenza di un fatto che rileva per la pronuncia giudiziale. Tuttavia, un «fatto» non può reputarsi insindacabilmente esaminato dal giudice di merito sol perché egli abbia valutato una delle tante risultanze probatorie che di quel fatto dimostrano l’esistenza o l’inesistenza. Se un medesimo fatto è oggetto di più prove, il giudizio su quel fatto non è che l’esito di una valutazione combinata che includa tutte le prove che lo riguardano. Tale valutazione va operata considerando e comparando le diverse possibili versioni del fatto, per poi stabilire quale tra queste versioni risulti logicamente confermata da un grado più elevato di attendibilità.

Ed allora, per Sez. 3, n. 16812/2018, Gianniti, Rv. 649421-01, anche il mancato esame di un documento può essere denunciato per cassazione quando tale documento offra la prova di circostanze di tale portata da invalidare, con un giudizio di certezza, l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito.

Secondo, invece, Sez. 3, n. 13770/2018, Di Florio, Rv. 649151-01, nonché Sez. 3, n. 13399/2018, Fiecconi, Rv. 649039-01, anche il mancato esame delle risultanze della consulenza tecnica d’ufficio integra un vizio della sentenza che può essere fatto valere, nel giudizio di cassazione, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. Non può, viceversa, essere dedotto, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., il vizio di omesso esame di un fatto decisivo della controversia per la mancata considerazione di una perizia stragiudiziale, in quanto la stessa costituisce un mero argomento di prova (Sez. 6 - 5, n. 8621/2018, Napolitano, Rv. 647730-01).

Per Sez. 6 - 5, n. 28174/2018, Napolitano, Rv. 651118-01, inoltre, il travisamento della prova, e cioè la verifica che un’informazione probatoria utilizzata in sentenza sia contraddetta da uno specifico atto processuale, esclude che possa vertersi in ipotesi di cosiddetta ‹‹doppia conforme›› quanto all’accertamento dei fatti, preclusiva del ricorso ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., giusta l’art. 348 ter, ultimo comma, c.p.c.

5. Il fatto noto da cui è desunto quello ignoto.

Sez. U, n. 08053/2014, Botta, cit., chiariva che la riforma del 2012 non ha sottratto al controllo di legittimità le questioni relative al «valore» ed alla «operatività» delle presunzioni, seppure il controllo sulla sussistenza degli estremi cui l’art. 2729, comma 1, c.c., dovrebbe avvenire nelle forme del sindacato per violazione di legge, ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c. Ciò anche quando il giudice abbia fondato la presunzione su indizi privi di gravità, precisione e concordanza, incorrendo, quindi, in una falsa applicazione della norma.

Avverte, invece, Sez. 3, n. 17720/2018, Frasca, Rv. 649663-01, che la denuncia della mancata applicazione di un ragionamento presuntivo, ove il giudice di merito non abbia motivato alcunché al riguardo, non è deducibile come vizio di violazione di norma di diritto, bensì solo ai sensi e nei limiti dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., cioè proprio come omesso esame di un fatto secondario, dedotto come giustificativo dell’inferenza di un fatto ignoto principale.

6. Il fatto ‹‹decisivo››.

Sez. U, n. 08053/2014, Botta, Rv. 629831-01, precisava come il nuovo testo dell’art. 360 n. 5 c.p.c. imponga che il fatto abbia carattere “decisivo”, «vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia».

Essendo tale decisività correlata all’interesse all’impugnazione, essa si addice perciò a quel fatto che, se esaminato, avrebbe condotto il giudice ad una decisione favorevole al ricorrente, rimasto soccombente nel giudizio di merito.

Poiché l’attributo si riferisce al “fatto” in sé (e non al vizio, come si opinava nella vigenza della formulazione dell’art. 360, n. 5, c.p.c., introdotta nel 1950), la “decisività” asserisce al nesso di causalità tra la circostanza non esaminata e la decisione: essa deve, cioè, apparire tale che, se presa in considerazione, avrebbe portato con certezza il giudice del merito ad una diversa ricostruzione della fattispecie, non bastando, invece, la prognosi che il fatto non esaminato avrebbe reso soltanto possibile o probabile una ricostruzione diversa (Sez. 2, n. 21223/2018, Oricchio, Rv. 650030-01, in fattispecie che, al contrario di quanto riportato nel principio massimato, risultava soggetta proprio al nuovo art. 360, n. 5, c.p.c., introdotto del d.l. n. 83 del 2012).

La Corte di Cassazione viene, però, così investita del compito di ricontrollare l’intero giudizio di fatto, al fine di verificare se, includendovi l’esame del dato non esaminato dal giudice del merito, il risultato della decisione cambi.

7. Il fatto «oggetto di discussione tra le parti».

Il fatto, di cui sia stato omesso l’esame, ai fini dell’art. 360, n. 5, c.p.c., deve essere stato altresì «oggetto di discussione fra le parti». A tal fine, Sez. U, n. 08053/2014, Botta, Rv. 629831-01, aveva altresì spiegato che il ricorrente deve indicare, alla stregua degli artt. 366, comma 1, n. 6, e 369, comma 2, n. 4, c.p.c. – il fatto storico, il cui esame sia stato omesso, il dato, testuale (emergente dalla sentenza) o extratestuale (emergente dagli atti processuali), da cui ne risulti l’esistenza, il come e il quando (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti.

Un fatto storico che non sia stato oggetto di discussione tra le parti esso non può, pertanto, mai essere oggetto di denuncia per «omesso esame» ai fini dell’art. 360 n. 5 c.p.c. Se, dunque, il giudice afferma in sentenza che un fatto è esistente o provato, perché pacifico o non contestato, ovvero che un fatto è inesistente o non provato, giacché è pacifico il fatto ad esso contrario o non è stato dimostrato dai mezzi istruttori assunti, in ogni caso si evince che il fatto è stato così oggetto di esame, e, ove voglia censurarsi tale punto della decisione, si rimane sempre al di fuori del vizio ex art. 360 n. 5 c.p.c., potendosi configurare o una violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c., o una violazione degli artt. 115, comma 1, 167, comma 1, c.p.c. e 2697 c.c. (Sez. 2, n. 26274/2018, Scarpa, Rv. 650840-02).

8. L’errore sul fatto ‹‹non oggetto di discussione tra le parti››.

Se «la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa», oppure «è supposta l’inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita», e tale fatto non aveva costituito un punto controverso fra le parti, si configura il vizio revocatorio ex art. 395, n. 4, c.p.c.

Per aversi revocazione, è comunque necessario che l’errore di fatto riveli un carattere commissivo, consistendo in una fallace valutazione espressa di esistenza o di inesistenza del fatto, e non in una mera negligenza dello stesso: la semplice circostanza che un certo fatto non sia stato esaminato dal giudice non implica, infatti, che l’esistenza di quel fatto sia stata espressamente negata (cfr. Sez. 2, n. 23014/2018, Scarpa, cit.).

9. Il «doppio conforme omesso esame circa un fatto».

Se il ricorrente assume che il giudice di primo grado abbia omesso l’esame circa un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, ed il giudice di secondo grado abbia, non di meno, confermato la prima decisione per le stesse ragioni, inerenti alle questioni di fatto poste a base della sentenza impugnata, ovvero abbia pronunciato l’ordinanza di inammissibilità dell’appello a norma dell’art. 348-bis c.p.c., semmai incorrendo nel medesimo omesso esame di quel dato materiale, i commi, rispettivamente, 4 e 5 dell’art. 348-ter c.p.c. impediscono comunque la proposizione del ricorso per cassazione (rispettivamente avverso il provvedimento di primo grado o la sentenza d’appello) per il motivo di cui al n. 5 del comma 1 dell’art. 360 c.p.c. (cfr. Sez. U, n. 22430/2018, Cosentino, Rv. 650458-01, relativa alla denuncia di travisamento delle risultanze peritali inerenti alla eccessività di un carico di acqua causa di danneggiamento).

Ciò fa paventare il rischio che, ove i giudici di entrambi i gradi del giudizio di merito omettano di esaminare un medesimo fatto decisivo e controverso, l’ordinamento non dia alcun rimedio.

Allorché, peraltro, il soccombente il primo grado abbia proposto uno specifico motivo di appello al riguardo dell’omesso esame di fatto imputabile alla sentenza di primo grado, può essere ravvisabile l’omessa pronuncia, da far valere in sede di legittimità mediante deduzione del relativo error in procedendo, contro la sentenza d’appello che eluda la specifica censura. Analoga tutela non ha, però, l’interessato se, dopo l’omesso esame perpetrato dal primo giudice e dopo che sia proposto appello sul punto, venga dichiarata l’inammissibilità dell’impugnazione ai sensi degli artt. 348-bis e 348-ter c.p.c., visto che Sez. U, n. 1914/2016, Di Iasi, Rv. 638369-01, non essendo ricorribile per cassazione l’ordinanza di inammissibilità per denunciare l’omessa pronuncia su un singolo motivo di gravame.

La già richiamata Sez. 6 - 5, n. 28174/2018, Napolitano, Rv. 651118-01, argomenta, altrimenti, che se il ricorrente allega che un’informazione probatoria utilizzata in sentenza sia contraddetta da uno specifico atto processuale, non può mai vertersi in ipotesi di cosiddetta ‹‹doppia conforme›› quanto all’accertamento dei fatti, preclusiva del ricorso ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.

  • giurisdizione civile
  • mezzi di ricorso

CAPITOLO XV

IL RICORSO STRAORDINARIO PER CASSAZIONE E L’ENUNCIAZIONE DEL PRINCIPIO DI DIRITTO NELL’INTERESSE DELLA LEGGE

(di Eleonora Reggiani, Angelo Napolitano, Fulvio Filocamo )

Sommario

1 Premessa. - 2 I motivi di ricorso straordinario per cassazione. - 3 Le decisioni escluse dall’ambito di applicazione dell’art. 111, comma 7, Cost. - 4 I requisiti dei provvedimenti impugnabili con il ricorso straordinario per cassazione. - 5 I provvedimenti riguardanti l’esercizio e la titolarità della responsabilità genitoriale. - 6 Le statuizioni in materia successoria. - 7 I provvedimenti del giudice dell’esecuzione. - 8 I provvedimenti nelle procedure fallimentari e concorsuali in genere. - 9 Le ordinanze sull’inammissibilità dell’appello ex art. 348-ter c.p.c. - 10 Le ordinanze sul reclamo in materia cautelare e possessoria. - 11 La statuizione d’inammissibilità dell’azione di classe. - 12 La condanna alla pena pecuniaria prevista dall’art. 8, comma 4-bis, del d.lgs. n. 28 del 2010. - 13 La liquidazione delle spese nel procedimento ex art. 696-bis c.p.c. - 14 L’ordinanza di rigetto dell’istanza di ricusazione del giudice. - 15 Altri provvedimenti non impugnabili. - 16 L’enunciazione del principio di diritto nell’interesse della legge. - 16.1 Il ricorso del Procuratore Generale. - 16.2 Il potere officioso della Corte. - 16.3 L’enunciazione dei principi di diritto più rilevanti nell’interesse della legge.

1. Premessa.

Com’è noto, l’art. 111, comma 7, Cost., contiene una norma dalla portata immediatamente precettiva, nella parte in cui prevede che “Contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale, pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali, è sempre ammesso ricorso in cassazione per violazione di legge”.

È chiara la rilevanza costituzionale attribuita al controllo di legalità svolto dalla S.C. sull’operato dei giudici di merito a garanzia dei diritti individuali.

Anche in queste ipotesi, come nei casi di ricorso ordinario per cassazione, lo ius constitutionis si attua per il tramite dello ius litigatoris.

Il solo ius constitutionis è invece esaltato nella disciplina contenuta nell’art. 363 c.p.c. (così come sostituito dall’art. 4 del d.lgs. n. 40 del 2006), in forza della quale è consentito alla S.C. di enunciare il principio di diritto, su richiesta del P.G. e in alcuni casi anche d’ufficio, senza però che tale pronuncia abbia effetto nel giudizio di merito, che ha dato occasione alla pronuncia.

Viene, in questo caso, potenziata la pura funzione di garanzia dell’uniforme applicazione del diritto, attribuita alla S.C. dall’art. 65 del r.d. n. 12 del 1941, che, prescindendo completamente dalla tutela delle parti coinvolte nel processo, si sostanzia nella stessa enunciazione del principio.

Entrambi gli istituti saranno esaminati nei successivi paragrafi, tenendo conto che quando non è proponibile il ricorso ordinario per cassazione, entro certi limiti, è ancora possibile esperire il ricorso ex art. 111, comma 7, Cost. e, qualora non siano proponibili, o non siano proposti, né il ricorso ordinario né quello straordinario per cassazione, ovvero, pur essendo proposti, questi ultimi risultino inammissibili, alla presenza di determinate condizioni, è consentita l’enunciazione ad opera della Corte di cassazione del principio di diritto, che, se non può regolare la fattispecie concreta, è comunque in grado di orientare la giurisprudenza futura, e di incidere, di fatto, sugli stessi provvedimenti impugnati che, essendo di norma inidonei al giudicato (ad esempio, misure cautelari), potrebbero essere oggetto di revoca e/o modifica in base al principio di diritto enunciato ai sensi dell’art. 363 c.p.c.

2. I motivi di ricorso straordinario per cassazione.

In virtù dell’art. 111, comma 7, Cost., il ricorso straordinario per cassazione è ammesso contro le sentenze ed i provvedimenti sulla libertà personale per violazione di legge”.

L’art. 2 del d.lgs. n. 40 del 2006, nel sostituire l’art. 360 c.p.c., ha introdotto all’ultimo comma la precisazione per la quale il ricorso straordinario per cassazione si può proporre per gli stessi motivi previsti per il ricorso ordinario (“Le disposizioni di cui al primo comma e terzo comma si applicano alle sentenze ed ai provvedimenti diversi dalla sentenza contro i quali è ammesso il ricorso per cassazione per violazione di legge”).

La S.C. ha tuttavia chiarito che, nel regime vigente prima delle modifiche apportate dall’art. 2 del d.lgs. n. 40 del 2006, avverso i provvedimenti impugnabili solo con il ricorso straordinario per cassazione ai sensi dell’art. 111, comma 7, Cost., era consentito dedurre esclusivamente la violazione di legge, sicché le censure attinenti al vizio di motivazione, così come delineato dal previgente art. 360, comma 1, n. 5), c.p.c., erano ammissibili solo se riflettenti la materiale omissione o la mera apparenza della stessa, l’inidoneità delle argomentazioni espresse nel rivelare la ratio decidendi del medesimo, oppure l’inconciliabilità logica delle stesse (o la loro obiettiva incomprensibilità), rimanendo inammissibile la denuncia del motivo ex art. 360, comma 1, n. 5), c.p.c. in relazione ai vizi di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (Sez. 1, n. 09371/2018, Campese, Rv. 648446-01; conf. Sez. 3, n. 02043/2010, Chiarini, Rv. 611245-01).

3. Le decisioni escluse dall’ambito di applicazione dell’art. 111, comma 7, Cost.

La giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che alcune categorie di decisioni debbano ritenersi senz’altro escluse dall’ambito di applicazione del ricorso cd. straordinario per cassazione.

In particolare, la S.C. ha più volte affermato che non è ammesso il ricorso ex art. 111, comma 7, Cost. contro le decisioni emanate dagli organi dotati di autodichìa.

Con riferimento alle sentenze della Sezione giurisdizionale dell’Ufficio di Presidenza della Camera dei deputati, riguardanti le controversie di lavoro del personale della stessa Camera, si è precisato, invero, che le stesse esulano dalla giurisdizione comune in forza dell’art. 12 del Regolamento della Camera del 18 febbraio 1971, deliberato ai sensi dell’art. 64 Cost. (e rimasto sostanzialmente identico nel nuovo testo del 16 febbraio 1998), che costituisce una norma primaria insuscettibile di disapplicazione, sottratta anche al sindacato di legittimità costituzionale, in ragione dell’indipendenza garantita alle Camere rispetto ad ogni altro potere, con la conseguenza che è inammissibile il ricorso straordinario per cassazione contro le decisioni emanate, nelle predette controversie, dalla Sezione giurisdizionale dell’Ufficio di Presidenza della Camera dei deputati, senza che tale sistema abbia subìto effetti innovativi ad opera del nuovo testo dell’art. 111 Cost. che – pur senza estromettere l’autodichìa dall’area della giurisdizione – non ha scalfito le garanzie di indipendenza del Parlamento, mantenendo pur sempre alcune aree di esenzione o di delimitazione del sindacato di legittimità proprio della Corte di cassazione (Sez. U, n. 11019/2004, Foglia, Rv. 573520-01).

Nel ribadire, nell’anno in rassegna, tale orientamento, Sez. L, n. 21972/2018, Di Paolantonio, Rv. 650530-01, ha richiamato la sentenza della Corte costituzionale n. 262 del 2017, con la quale è stato respinto il ricorso per conflitto di attribuzione, sollevato proprio dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione nei confronti del Senato della Repubblica e del Presidente della Repubblica, in relazione alle disposizioni regolamentari, che disciplinano la tutela giurisdizionale nelle controversie di lavoro dei loro dipendenti. La S.C. ha ricordato in motivazione che, nella citata sentenza, la Corte costituzionale ha affermato che i collegi interni a tali organi costituzionali, a cui è affidato il compito di interpretare ed applicare le norme relative al rapporto di lavoro dei loro dipendenti, non sono giudici speciali ex art. 102 Cost. e pertanto non è possibile ipotizzare il ricorso ex art. 111, comma 7, Cost., contro le loro decisioni, la cui sottrazione al controllo della giurisdizione comune è un riflesso dell’autonomia degli organi in cui sono inseriti.

Occorre inoltre considerare che la Corte di cassazione ha di recente confermato l’orientamento già espresso, secondo il quale deve ritenersi inammissibile il ricorso straordinario contro le sentenze o le ordinanze emesse nei giudizi di revocazione delle proprie decisioni, perché tale rimedio impugnatorio è esperibile solo nei confronti dei provvedimenti del giudice di merito, aventi carattere decisorio e non altrimenti impugnabili (Sez. 1, n. 08592/2018, Fraulini, Rv. 648549-01; conf. Sez. 2, n. 21019/2016, Orilia, Rv. 641662-01). Nella pronuncia richiamata è pure evidenziato, in continuità con i precedenti ivi riportati, che il principio di effettività del giudizio di cassazione, derivante dall’art. 111, comma 7, Cost., implica che il ricorso straordinario non possa ritenersi utilizzabile quando il controllo di legittimità sull’oggetto del giudizio sia stato già svolto dalla S.C., dovendo prevalere, in tal caso, l’esigenza di assicurare che il processo giunga a conclusione in tempi ragionevoli, in applicazione dell’art. 111, comma 2, Cost.

4. I requisiti dei provvedimenti impugnabili con il ricorso straordinario per cassazione.

Come sopra evidenziato, ai sensi dell’art. 111, comma 7, Cost., il ricorso straordinario, in materia civile, è ammesso contro le “sentenze” degli organi giurisdizionali.

La S.C. si è tuttavia da subito orientata nel senso di consentire l’esperibilità di tale rimedio impugnatorio non solo nei confronti dei provvedimenti che hanno la forma della sentenza, pur non essendo assoggettati ai normali mezzi d’impugnazione (v. ad esempio le ipotesi disciplinate dall’art. 618 c.p.c.), ma anche di ogni altro provvedimento adottato in forma diversa, che abbia comunque carattere decisorio, incidendo su diritti soggettivi, e definitivo, in quanto non sia altrimenti impugnabile.

Tale principio, non posto successivamente in discussione, è stato sancito da Sez. U, n. 02593/1953, Duni, Rv. 881234-01, la quale ha affermato che il ricorso cd. straordinario per cassazione è esperibile con riguardo a tutti i provvedimenti che, a prescindere dalla forma che assumono, decidono in modo definitivo il merito di una controversia, la cui eventuale ingiustizia resterebbe irreparabilmente e definitivamente priva di controllo.

L’interpretazione estensiva, operata dalla giurisprudenza di legittimità, ha ricevuto l’avallo del legislatore che, come evidenziato, nel novellare il disposto dell’art. 360 c.p.c. con l’art. 2 del d.lgs. n. 40 del 2006, ha espressamente fatto richiamo ai “provvedimenti diversi dalla sentenza contro i quali è ammesso il ricorso per cassazione per violazione di legge”.

È dunque ammesso il ricorso straordinario per cassazione contro tutti i provvedimenti, comprese le ordinanze ed i decreti, connotati dal duplice requisito della decisorietà (nel senso che incidono su diritti o status) e della definitività (nel senso che non possono essere rimessi in discussione in nessun modo e a nessuna condizione).

Nel corso degli anni, la giurisprudenza della Corte ha assunto il compito di verificare, con riferimento alle diverse tipologie di provvedimenti, la presenza di tali requisiti, in alcuni casi esprimendo un orientamento costante, oramai consolidato, ed in altri casi mostrando opinioni discordanti o mutevoli nel tempo, soprattutto a seguito di novità normative, che hanno imposto un riesame delle soluzioni interpretative in origine accolte.

In tale prospettiva, vengono di seguito illustrate le pronunce che, nel corso dell’anno 2018, hanno esaminato il problema dell’ammissibilità del ricorso straordinario per cassazione, seguendo un criterio che tenga conto della materia o della tipologia dei provvedimenti impugnati, ed evidenzi gli elementi di continuità o di discontinuità rispetto alle precedenti statuizioni.

5. I provvedimenti riguardanti l’esercizio e la titolarità della responsabilità genitoriale.

L’orientamento tradizionalmente assunto dalla giurisprudenza di legittimità, con riferimento ai provvedimenti ablativi o limitativi della responsabilità genitoriale (all’epoca, potestà genitoriale), nonché con riguardo ai provvedimenti relativi all’affidamento dei figli nati fuori del matrimonio, è stato quello di escludere l’ammissibilità del ricorso straordinario per cassazione, poiché tali decisioni erano ricondotte nell’ambito della giurisdizione volontaria, dovendosi peraltro ritenere la possibilità di modifica e quella di revoca delle stesse quale circostanza ostativa alla configurazione del requisito della definitività (in tal senso, Sez. U, n. 11026/2003, Criscuolo, Rv. 565056-01; sul previgente art. 317-bis c.c., v. in particolare Sez. U, n. 09042/2008, Benini, Rv. 602386-01 e Sez. U, n. 25008/2007, Salmé, Rv. 602804-01; in tema di provvedimenti ablativi o limitativi della potestà genitoriale, Sez. 1, n. 15341/2012, Sangiorgio, Rv. 624333-01; Sez. 6-1, n. 16227/2015, Valitutti, Rv. 636331-01; Sez. 6-1, n. 24477/2015, Acierno, Rv. 638152-01; Sez. 1, n. 18562/2016, Cristiano, Rv. 642045-01).

A seguito dell’entrata in vigore della l. n. 54 del 2006, la giurisprudenza ha peraltro assunto un diverso orientamento, almeno per quanto riguarda le statuizioni in materia di affidamento dei figli nati fuori del matrimonio.

In particolare, la S.C. ha ritenuto che la predetta legge, dichiarando applicabili ai relativi procedimenti le regole da essa introdotte per i procedimenti previsti in materia di separazione e divorzio, ha espresso, sia pure solo per tale aspetto, un’evidente assimilazione della posizione dei figli nati fuori dal matrimonio a quella dei figli nati in costanza di matrimonio, conferendo una certa autonomia ai procedimenti di cui al previgente art. 317-bis c.c. rispetto a quelli previsti dall’art. 336 c.c., e avvicinandoli ai giudizi in materia di separazione e divorzio.

Non è stato dunque attribuito alcun rilievo al mantenimento del rito camerale, nonostante il riconoscimento della natura contenziosa della controversia, tenuto conto che anche in altri casi (soprattutto per ragioni legate alla celerità e snellezza del rito) è previsto il modello cautelare per la tutela di veri e propri diritti soggettivi.

La Corte ha così affermato che, a seguito dell’emanazione della l. n. 54 del 2006, devono ritenersi impugnabili mediante ricorso straordinario per cassazione anche i provvedimenti emessi in sede di reclamo nei confronti di provvedimenti riguardanti l’affidamento e il mantenimento dei figli nati fuori dal matrimonio (Sez. 1, n. 23032/2009, Dogliotti, Rv. 609998-01; Sez. 1, n. 23411/2009, Dogliotti, Rv. 610466-01).

Dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 154 del 2013, che ha eliminato ogni distinzione tra figli di genitori coniugati e figli di genitori non coniugati, la S.C. ha ribadito tale posizione, riconoscendo la sussistenza dei requisiti della decisorietà e della definitività, sia pure rebus sic stantibus, per tutti i provvedimenti riguardanti l’affidamento dei figli: tale soluzione interpretativa può quindi ritenersi ormai consolidata (Sez. 1, n. 06132/2015, Lamorgese, Rv. 634872-01; Sez. 6-1, n. 18194/2015, Bernabai, Rv. 637108-01; Sez. 1, n. 03192/2017, Acierno, Rv. 643720-01).

In adesione all’orientamento appena richiamato, Sez. 1, n. 28998/2018, Iofrida, Rv. 651475-01, ha nuovamente affermato che il decreto emesso dalla corte d’appello in sede di reclamo avverso un provvedimento del tribunale, che, nell’ambito del conflitto genitoriale, dispone l’affidamento del minore nato fuori dal matrimonio ai servizi sociali, è ricorribile per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost., perché, già nel vigore della l. n. 54 del 2006, ed, a maggior ragione dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 154 del 2013, al predetto decreto vanno riconosciuti i requisiti della decisorietà (risolvendo contrapposte pretese di diritto soggettivo) e della definitività (assumendo un’efficacia simile a quella del giudicato, sia pure rebus sic stantibus), senza che rilevi, a sostegno della tesi contraria, che si tratti di un provvedimento di affidamento ai servizi sociali, perché ciò non comporta alcuna diversa qualificazione giuridica, trattandosi comunque di statuizione relativa all’affidamento dei figli.

Con riguardo invece ai provvedimenti ablativi o limitativi delle responsabilità genitoriale, la giurisprudenza della Corte ha mostrato un orientamento incerto, tenuto conto che anche quest’anno vi è stata ancora una pronuncia, che aderisce all’orientamento tradizionale, sopra riportato, escludendo l’ammissibilità del ricorso straordinario per cassazione, anche se sta acquistando sempre maggiore spazio una diversa soluzione interpretativa, che trova ispirazione nelle nuove disposizioni di legge introdotte in materia di filiazione (v. già Sez. 1, n. 23633/2016, Cristiano, Rv. 642798-01).

In particolare, la tesi tradizionale è stata ribadita da Sez. 1, n. 18149/2018, Nazzicone, Rv. 649897-01, ove, in motivazione, si legge che i provvedimenti di cd. giurisdizione camerale o volontaria o non contenziosa non possono ritenersi definitivi, perché mirano ad adeguare costantemente la realtà giuridica a quella di fatto, tant’è che, in aderenza al mutamento delle condizioni concrete, ed al fine di operare un regolamento degli interessi quanto più aderente alle esigenze materiali, l’ordinamento consente la riconsiderazione della situazione ad opera dello stesso giudice che ha inizialmente provveduto, ammettendo, oltre al reclamo ex art. 739 c.p.c., anche la revoca e la modifica ex art. 742 c.p.c.

Nella medesima pronuncia, si è inoltre evidenziato che vi sono alcune situazioni nelle quali il legislatore non richiede neppure un mutamento delle circostanze, per rimettere in discussione un dato regolamento giudiziale degli interessi, in ragione della particolare delicatezza delle situazioni coinvolte, consentendo la continua ed aperta possibilità di riconsiderazione della decisione adottata anche con effetto ex tunc.

Secondo tale pronuncia, un esempio di quanto appena rilevato è costituito proprio dalla disciplina dei provvedimenti assunti ai sensi dell’art. 333 c.c., ove il giudice, secondo le circostanze, “può adottare i provvedimenti convenienti”, che “sono revocabili in qualsiasi momento”, a conferma dell’intenzione del legislatore di offrire strumenti di intervento ogni volta in cui ciò si renda opportuno, mediante l’adozione di statuizioni che ovviamente sono da ritenersi prive del requisito della definitività.

Del tutto diverso è l’orientamento espresso da Sez. 1, n. 29001/2018, Campese, Rv. 651477-01, la quale, ritenuta la sussistenza del duplice requisito della decisorietà e della definitività, ha invece affermato l’impugnabilità ex art. 111, comma 7, Cost., dei decreti adottati, in sede di reclamo, in materia di decadenza della responsabilità genitoriale ai sensi degli artt. 330 e 336 c.c., in forza della riconosciuta attitudine al giudicato rebus sic stantibus di tali provvedimenti, non revocabili né modificabili, se non in caso di sopravvenienza di fatti nuovi.

Con approfondite argomentazioni, anche Sez. 1, n. 19780/2018, Valitutti, Rv. 648855-01, ha affermato che i provvedimenti che incidono sul diritto degli ascendenti ad instaurare – e a mantenere – rapporti significativi con i nipoti minorenni, ai sensi del novellato art. 317-bis c.c. (nel testo introdotto dall’art. 42 del d.lgs. n. 154 del 2013), al pari di quelli ablativi della responsabilità genitoriale ai sensi degli artt. 330 e 336 c.c., oltre a dirimere conflitti tra posizioni soggettive, riguardati diritti personalissimi di rango costituzionale, hanno anche attitudine al giudicato rebus sic stantibus, ritenendo conseguentemente ammissibile il ricorso straordinario per cassazione contro il decreto della corte di appello che, in sede di reclamo, confermi, revochi o modifichi i predetti provvedimenti.

In motivazione, la Corte di cassazione, in continuità con la richiamata Sez. 1, n. 23633/2016, Cristiano, Rv. 642798-01, ha dato fondamentale rilievo agli argomenti posti a sostegno della dedotta “stabilità” di siffatti provvedimenti.

La stessa Corte ha messo in risalto la ritenuta irragionevole differenza di disciplina, a cui condurrebbe la tesi tradizionale, tra i provvedimenti adottati nei procedimenti limitativi e ablativi della responsabilità genitoriale, ritenuti non ricorribili per cassazione, e quelli relativi all’affidamento dei figli, senza dubbio ricorribili per cassazione, sebbene questi ultimi possano comprendere anche i primi, in quanto l’esercizio della responsabilità genitoriale ben può essere regolato attraverso la sua parziale o totale compressione, aggiungendo che la mancanza di giustificazione di tale distinzione è ancora più evidente ora che la l. n. 219 del 2012, nel novellare l’art. 38 disp. att. c.c., ha attribuito, in pendenza dei cosiddetti “giudizi separativi”, al giudice ordinario (e non più al giudice minorile) il potere di adottare, insieme alle statuizioni sull’affidamento, anche i provvedimenti ablativi e limitativi della responsabilità genitoriale.

Sull’argomento è quindi intervenuta la recentissima decisione a Sezioni Unite (Sez. U, n. 32529/2018, Sambito, Rv. 651936-01), che ha ribadito l’ammissibilità del ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 111, comma 7, Cost., nei confronti del decreto della Corte di appello che, in sede di reclamo, confermi, revochi o modifichi i provvedimenti limitativi o ablativi della responsabilità genitoriale, non essendo revocabile né modificabile, se non in caso di sopravvenienza di fatti nuovi.

In motivazione, le Sezioni Unite hanno evidenziato che anche i procedimenti in questione dirimono conflitti tra posizioni soggettive diverse, non essendovi dubbio che la previsione del procedimento camerale, da sempre impiegato per la trattazione di controversie su diritti e status, non sia di per sé sufficiente ad escludere l’idoneità dei provvedimenti emessi al suo esito alla formazione del giudicato, sia pure rebus sic stantibus.

Le stesse Sezioni Unite hanno inoltre rilevato che gli argomenti sui quali si fonda l’indirizzo tradizionale, secondo cui, a differenza della modifica delle condizioni di separazione e divorzio, la definitività e la decisorietà dei provvedimenti di cui agli artt. 330 e 333 c.c. sarebbe esclusa in ragione del fatto che essi attengono alla compressione della titolarità della responsabilità genitoriale e sono assunti nell’esclusivo interesse del minore, non tengono, rispettivamente, conto che l’esercizio della responsabilità genitoriale può ben essere regolato attraverso la sua parziale o totale compressione o comunque risentirne e che, anche nell’ambito di un giudizio di separazione, o di divorzio, o promosso ai sensi dell’art. 316 c.c., i provvedimenti concernenti l’affidamento dei figli minori sono assunti nel loro esclusivo interesse morale e materiale.

Nell’indicata pronuncia le Sezioni Unite hanno inoltre affermato che, per effetto della “competenza per attrazione”, prevista dall’art. 38 disp. att. c.c., quale riformulato dall’art. 3, comma 1, della l. n. 219 del 2012, la medesima sentenza del giudice ordinario potrebbe contenere, statuizioni assunte ai sensi dell’art. 337-bis e ss. c.c. ed altre assunte ai sensi degli artt. 330 e 333 c.c., con evidente incongruità del sistema, ove si ritenesse di continuare ad operare una distinzione nell’ambito di esse attribuendo solo alle prime, e non anche alle seconde, attitudine al giudicato rebus sic stantibus e se ne differenziasse, in conseguenza, il regime impugnatorio.

Infine, le Sezioni Unite hanno considerato che la conclusione assunta si presenta come quella che più si adatta alla tutela degli interessi coinvolti, perché l’emissione dei provvedimenti ablativi o limitativi della responsabilità genitoriale incide su diritti di natura personalissima e di rango costituzionale, tenuto conto del potenziale concreto mutamento della sfera relazionale primaria dei soggetti che ne sono coinvolti, sicché la circostanza che tali provvedimenti possano, in teoria, esser modificati o revocati con effetti ex tunc non è considerata idonea a porre il soggetto che li subisca al riparo dagli effetti nefasti che possano medio tempore prodursi nell’ambito delle relazioni familiari, sicché, tenuto conto del potenziale grado d’incisività di tali effetti sui diritti dei soggetti implicati e principalmente sulla vita del minore, la tesi tradizionale che, ritenendoli non decisori e definitivi, esenta siffatti provvedimenti dall’immediato controllo garantistico della Corte di cassazione, comporta un vulnus al diritto di difesa e deve essere pertanto superata.

6. Le statuizioni in materia successoria.

Con riferimento al diritto alla separazione dei beni mobili del defunto da quelli dell’erede, assume particolare rilievo Sez. U, n. 11849/2018, Manna F., Rv. 648546-01, la quale, in assenza di precedenti specifici, ha affermato che il decreto con il quale la Corte di appello rigetta o dichiara inammissibile la domanda ai sensi dell’art. 517 c.c. è impugnabile con ricorso straordinario per cassazione ex art. 111, comma 7, Cost., in quanto idoneo, una volta decorso il termine di decadenza di cui all’art. 516 c.c., ad incidere definitivamente in maniera negativa sul diritto del creditore del de cuius a costituirsi un titolo di preferenza sui beni del defunto rispetto ai creditori particolari dell’erede.

In motivazione, le Sezioni Unite hanno evidenziato che il diritto alla separazione dei beni del defunto da quelli dell’erede è un diritto potestativo, che ha l’effetto di costituire (non un patrimonio separato ma) un diritto reale di garanzia sui beni separati ed hanno attribuito al relativo procedimento, disciplinato dall’art. 517 c.c., natura di volontaria giurisdizione, dato che il giudice non è chiamato ad accertare il credito, ma solo a verificarne in maniera sommaria l’esistenza, al fine di valutare la legittimazione attiva del richiedente e di dettare le disposizioni necessarie alla conservazione dei beni. E, in effetti, nonostante l’accoglimento della domanda, l’esistenza del credito del separatista potrà essere integralmente messa in discussione in qualsiasi giudizio, non godendo di alcuno statuto favorevole. È per questo che viene escluso il requisito della decisorietà al provvedimento di accoglimento della domanda di separazione.

Le stesse Sezioni Unite hanno tuttavia rilevato che si deve giungere a diverse conclusioni, ove si consideri il caso in cui la separazione non venga disposta. Fatta salva la facoltà di riproporre la domanda (ove il breve termine dell’art. 516 c.c., stabilito a pena di decadenza, non sia ancora decorso), il diritto del creditore non ha infatti altra possibilità di tutela. Il provvedimento reiettivo incide sul diritto del creditore alla separazione, escludendolo, e comporta in maniera irretrattabile il concorso del creditore istante con i creditori particolari dell’erede senza alcuna preferenza.

Sono quindi riconosciuti i requisiti della decisorietà e definitività ai provvedimenti di rigetto o di declaratoria di inammissibilità della domanda di separazione, cui consegue l’ammissibilità del ricorso straordinario per cassazione.

Per completezza, sempre in materia successoria, si deve richiamare anche Sez. 2, n. 24218/2018, Giannaccari, Rv. 650644-01, la quale, in conformità ad un orientamento precedente, ha affermato che, in considerazione dell’espresso richiamo all’art. 710 c.c. contenuto nell’art. 750 c.p.c., il provvedimento del presidente del tribunale che revochi la nomina dell’esecutore testamentario per gravi irregolarità nell’adempimento dei suoi obblighi, è reclamabile davanti al presidente della corte d’appello e la decisione assunta da quest’ultimo non è impugnabile in cassazione con ricorso straordinario ex art. 111 Cost., perché si tratta di un provvedimento di volontaria giurisdizione, che ha natura endoprocedimentale ed è privo di contenuto decisorio.

7. I provvedimenti del giudice dell’esecuzione.

Nel corso dell’anno 2018, sono state adottate varie pronunce in ordine all’ammissibilità del ricorso straordinario per cassazione contro determinate categorie di provvedimenti adottati nel corso del processo esecutivo.

In tutte le fattispecie esaminate è stata sempre negata l’esperibilità di tale rimedio, in ragione della mancanza del requisito della definitività del provvedimento da impugnare.

In tema, occorre anzitutto richiamare Sez. 6-3, n. 02185/2018, Tatangelo, Rv. 647697-01, relativa ad una fattispecie in cui, a seguito di reclamo ex art. 630 c.p.c., il tribunale aveva dichiarato estinta, con ordinanza (e non con sentenza, come previsto dall’art. 630 c.p.c.) la procedura esecutiva, per mancata tempestiva instaurazione del giudizio di merito ex art. 624, comma 3, c.p.c.

In questo caso, la Corte di legittimità, in conformità ad orientamento già espresso, ha affermato che detta ordinanza ha sostanza di sentenza, soggetta ad appello secondo le regole ordinarie e, pertanto, non essendo qualificabile come provvedimento definitivo, non è ricorribile per cassazione ex art. 111 Cost. (conf. Sez. 3, n. 02500/2003, Vittoria, Rv. 561049-01; Sez. 3, n. 04875/2005, Trifone, Rv. 580776-01).

Anche Sez. 6-3, n. 19102/2018, Rubino, Rv. 650239-01, ha ritenuto che il provvedimento dichiarativo dell’estinzione di un procedimento di reclamo ex art. 630 c.p.c., per mancata comparizione delle parti, ha il contenuto sostanziale di sentenza anche quando ha assunto la forma dell’ordinanza e, pertanto, è impugnabile con l’appello, e non già col ricorso straordinario per cassazione.

Inoltre, Sez. 6-3, n. 07754/2018, Scoditti, Rv. 648350-01, ha escluso che il provvedimento di chiusura anticipata del processo esecutivo per infruttuosità dell’espropriazione, adottato ai sensi dell’art. 164-bis disp. att. c.p.c., possa essere impugnato con il ricorso straordinario per cassazione ex art. 111 Cost., non trattandosi di un atto definitivo, perché contro di esso può essere proposta l’opposizione ex art. 617 c.p.c.

Con riferimento alle operazioni delegate al notaio, Sez. 6-3, n. 11817/2018, Frasca, Rv. 648617-01, ha precisato che l’art. 591-ter c.p.c., nella parte in cui dispone che “restano ferme le disposizioni di cui all’art. 617 c.p.c.”, deve essere interpretato nel senso che l’opposizione agli atti esecutivi è il mezzo esperibile contro le ordinanze del giudice dell’esecuzione, pronunciate sia a seguito del reclamo contro i decreti adottato dal giudice dell’esecuzione su sollecitazione del notaio delegato (in relazione a difficoltà insorte nelle corso delle operazioni delegate) sia a seguito del reclamo contro gli atti del notaio delegato, restando comunque esclusa ogni possibilità di impugnativa diversa dal reclamo, tanto nei confronti dei decreti del giudice dell’esecuzione quanto degli atti del notaio delegato sopra menzionati.

La S.C. ha quindi escluso la possibilità di immediata opposizione ex art. 617 c.p.c. ed anche di proposizione del ricorso straordinario ai sensi dell’art. 111 Cost., contro gli atti da ultimo richiamati, in quanto reclamabili, precisando, inoltre, che le decisioni emesse in sede di reclamo, possono essere impugnate con l’opposizione ex art. 617 c.p.c., ma non con il ricorso straordinario per cassazione, perché, appunto, essendo opponibili, non sono definitivi.

8. I provvedimenti nelle procedure fallimentari e concorsuali in genere.

Con riferimento al procedimento fallimentare, che rappresenta insieme a quello delle procedure concorsuali in generale, uno dei terreni più “fertili” per l’individuazione giurisprudenziale di atti e provvedimenti definivi e decisori ricorribili per cassazione ai sensi dell’art. 111, comma 7, Cost., Sez. 1, n. 27123/2018, Dolmetta, Rv. 651308-01, ha affermato che il termine di sessanta giorni per la proposizione del ricorso straordinario avverso i provvedimenti definitivi di contenuto decisorio adottati dal tribunale fallimentare, tra cui il decreto che pronuncia sul compenso del curatore ex art. 39 l.f., non decorre dalla data del deposito in cancelleria del decreto, bensì dalla data della comunicazione o notificazione d’ufficio dello stesso agli interessati, eseguita esclusivamente dall’organo competente, cioè dal cancelliere. Ne consegue che, in quanto funzionale alla individuazione del momento di decorrenza di un termine perentorio, essa non può trovare un equipollente nella conoscenza di fatto, aliunde acquisita, del provvedimento stesso, ad esempio perché comunicato dal nuovo curatore al curatore revocato.

L’arresto, pur essendo conforme ad un precedente di legittimità, reso sullo stesso tema del termine per l’impugnazione per cassazione del decreto che liquida il compenso del curatore fallimentare (Sez. 1, n. 02991/2016, Napoleoni, Rv. 588401-01), appare distonico rispetto ad altre decisioni della S.C., tese a valorizzare, nel caso di impugnazione per cassazione di ordinanze decisorie, la conoscenza di fatto che l’interessato abbia avuto del provvedimento (Sez. 2, n. 01850/1995, Mensitieri, Rv. 490550-01; Sez. 2, n. 06474/1997, Mensitieri, Rv. 506025-01).

Si consideri che Sez. 1, n. 29466/2018, Pazzi, Rv. 651482-01, ha affermato che, una volta effettuato il deposito delle somme non riscosse dai creditori ai sensi della previgente formulazione dell’art. 117, comma 3, l.f., e chiusa la procedura fallimentare, il debitore o i suoi aventi causa che vantino diritti sulle somme riversate nel Fondo unico di Giustizia devono esercitare un’azione con le forme della cognizione ordinaria, sicché è inammissibile il ricorso straordinario per cassazione proposto contro il decreto del tribunale che, ex art. 26 l.f., abbia rigettato l’istanza di attribuzione delle dette somme.

Ancora in tema di procedure concorsuali, si è escluso che provvedimenti emessi in esito a procedimenti di natura cautelare possano essere impugnati con ricorso straordinario per cassazione.

In particolare, in tema di accordi di ristrutturazione dei debiti, la S.C. ha affermato che il subprocedimento di cui all’art. 182-bis, commi 6 e 7, l.f., essendo finalizzato ad ottenere misure protettive, quali la sospensione di eventuali azioni cautelari ed esecutive in funzione dell’esito delle trattative in corso (destinate a culminare nella formalizzazione dell’accordo), ha natura cautelare, sicché è inammissibile il ricorso per cassazione contro la decisione assunta dalla corte di appello in sede di reclamo avverso il provvedimento del tribunale, non essendo in grado di incidere con efficacia di giudicato su situazioni soggettive di natura sostanziale (Sez. 1, n. 16161/2018, Terrusi, Rv. 649478-01).

Occorre poi considerare che, in tema di concordato preventivo, il tribunale può emettere, nell’ambito del procedimento ex art. 162 l.f., provvedimenti di rigetto o di improcedibilità della proposta formulata dal debitore anche al di fuori delle ipotesi di violazione dei requisiti formali di cui agli artt. 160, commi 1 e 2, e 161 l.f., ogniqualvolta venga a conoscenza di atti che costituiscono violazione di regole di natura sostanziale, come pagamenti ritenuti lesivi della par condicio creditorum. In tal caso, il decreto di rigetto o di improcedibilità, in assenza della contestuale dichiarazione di fallimento, non ha carattere decisorio e non è suscettibile di ricorso straordinario per cassazione ai sensi dell’art. 111, comma 7, Cost. (Sez. 1, n. 05479/2018, Genovese, Rv. 647748-01).

Tra i provvedimenti non decisori emessi in ambito concorsuale, e dunque insuscettibili di essere impugnati mediante ricorso straordinario per cassazione, si colloca anche il decreto con il quale il giudice delegato abbia respinto il reclamo diretto ad ottenere la revoca dell’autorizzazione all’esecuzione degli atti conformi al programma di liquidazione approvato dal comitato dei creditori (Sez. 1, n. 01902/2018, Dolmetta, Rv. 646861-01).

Di fondamentale rilievo è, poi, la posizione assunta da Sez. 6-1, n. 04500/2018, Terrusi, Rv. 647890-01, la quale, in linea di continuità con Sez. 6-1, n. 06516/2017, Rv. 644270-01, ha enunciato il principio in virtù del quale il decreto reiettivo del reclamo avverso il provvedimento che ha dichiarato inammissibile la proposta di accordo di composizione della crisi da sovraindebitamento, non decidendo nel contraddittorio tra le parti su diritti soggettivi e non escludendo, pertanto, la reiterabilità della proposta medesima, è privo dei caratteri della decisorietà e della definitività e non è ricorribile per cassazione. Nel ribadire tale orientamento, Sez. 1, n. 30534/2018, Pazzi, Rv. 651654-01, ha sottolineato che tale conclusione non determina alcun vulnus al diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost., dal momento che il decreto, in relazione al quale non è prevista alcuna forma di impugnazione, non preclude la riproposizione della medesima domanda, anche prima del decorso dei cinque anni di cui all’art. 7, comma 2, lett. b), della l. 27 gennaio 2012, n. 3, operando tale termine preclusivo nella sola ipotesi che il debitore abbia concretamente beneficiato degli effetti riconducibili a una procedura della medesima natura.

Occorre considerare che, peraltro, secondo quanto statuito da Sez. 1, n. 04451/2018, Dolmetta, Rv. 647424-01, è ammissibile il ricorso per cassazione avverso il decreto di rigetto del reclamo proposto nei confronti del provvedimento con cui il Tribunale, in composizione monocratica, abbia respinto l’istanza di omologazione del piano proposto dal consumatore nell’ambito della procedura di sovraindebitamento disciplinata dalla l. n. 3 del 2012, come integrata dalla l. n. 221 del 2012, in quanto provvedimento dotato del requisito della definitività – non essendo revocabile in dubbio che lo stesso sia «non altrimenti impugnabile» – e di quello della decisorietà.

9. Le ordinanze sull’inammissibilità dell’appello ex art. 348-ter c.p.c.

Nel corso dell’anno 2018 la Corte di cassazione ha più volte esaminato il problema dei concreti limiti all’esperibilità del ricorso ex art. 111, comma 7, Cost. avverso le ordinanze sopra menzionate (a prescindere dalla possibilità proporre ricorso contro le decisioni di primo grado, previsto dall’art. 348 ter, commi 3 e 4, c.p.c.).

Com’è noto, le Sezioni Unite hanno stabilito che l’ordinanza di inammissibilità dell’appello, resa ai sensi dell’art. 348-ter c.p.c. è ricorribile per cassazione ex art. 111, comma 7, Cost., limitatamente ai vizi suoi propri, costituenti violazioni della legge processuale (quali, per mero esempio, l’inosservanza delle previsioni di cui agli artt. 348-bis, comma 2, e 348 ter, commi 1, primo periodo e 2, primo periodo, c.p.c.), purché compatibili con la logica e la struttura del giudizio ad essa sotteso (così Sez. U, n. 01914/2016, Di Iasi, Rv. 638368-01, confermata da ultimo da Sez. 6-1, n. 14312/2018, Sambito, Rv. 649145- 01).

In aderenza al principio appena richiamato, Sez. 6-3, n. 19333/2018, D’Arrigo, Rv. 650283-01, ha affermato che l’inosservanza della previsione di cui all’art. 348 ter, comma 1, c.p.c. – secondo cui l’inammissibilità dell’appello deve essere dichiarata, sentite le parti, prima di procedere alla trattazione ex art. 350 c.p.c. – costituisce un vizio proprio dell’ordinanza resa a norma dell’art. 348-bis c.p.c. ed integra una violazione della legge processuale, deducibile per cassazione ai sensi dell’art. 111, comma 7, Cost., senza che sia necessario valutare se da tale violazione sia derivato un concreto ed effettivo pregiudizio al diritto di difesa delle parti (nella specie, la S.C. ha annullato con rinvio l’ordinanza della corte territoriale che aveva dichiarato inammissibile l’appello, dopo essere pervenuta alla fase della trattazione della causa, avendo le parti dibattuto sull’ammissibilità delle richieste istruttorie e sulla sospensione della provvisoria esecutività della sentenza impugnata).

Sez. 6-3, n. 20758/2017, De Stefano, Rv. 645477-01, aveva già enunciato lo stesso principio, accogliendo il ricorso straordinario, in una fattispecie in cui la corte territoriale, dopo aver disposto un rinvio puro e semplice della prima udienza, aveva dichiarato inammissibile l’appello, senza procedere a sentire specificamente le parti sull’applicabilità dell’art. 348-bis c.p.c.

Anche Sez. 3, n. 20861/2018, Iannello, Rv. 650429-01, ha ribadito che l’ordinanza di inammissibilità dell’appello, resa ex art. 348-ter c.p.c., è ricorribile per cassazione, ai sensi dell’art. 111, comma 7, Cost., limitatamente ai vizi suoi propri, costituenti violazioni della legge processuale, compatibili con la logica e la struttura del giudizio ad essa sotteso, aggiungendo che pertanto non sono deducibili quali vizi della menzionata ordinanza gli errores in iudicando o i vizi di motivazione (salvi i casi – che, però, trascendono in violazione della legge processuale – di motivazione mancante sotto l’aspetto materiale e grafico, della motivazione apparente, del contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili ovvero di motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile), perché l’appellante può proporre ricorso per cassazione contro la sentenza di primo grado, prospettando tali censure, con la conseguenza che, con riferimento a tali aspetti, l’ordinanza non può ritenersi definitiva.

Particolare rilievo ha, sulla questione, Sez. 1, n. 23151/2018, Lamorgese, Rv. 650821-01. Invero, in tale pronuncia la S.C. ha dato preliminarmente atto che, in alcuni casi, è stato già ammesso il ricorso per cassazione contro l’ordinanza ex art. 348-bis c.p.c., che, rilevando l’inesattezza della motivazione della decisione di primo grado, l’aveva sostituita con una diversa argomentazione in punto di fatto o di diritto (Sez. 3, n. 15644/2017, D’Arrigo, Rv. 644750-01, subito seguita da Sez. 3, n. 03023/2018, Fanticini, Rv. 647940-01), ovvero che, indicando rationes decidendi assenti nella sentenza di primo grado, aveva corroborato la decisione di primo grado con nuovi argomenti (Sez. 3, n. 05655/2018, Cirillo F.M., Rv. 648291-01), evidenziando che a fondamento delle decisioni assunte vi era la considerazione che, in quei casi, l’ordinanza aveva in realtà il contenuto di una sentenza.

Nella medesima pronuncia, la Corte ha evidenziato che, in un altro caso, è stato ammesso il ricorso straordinario per cassazione contro l’ordinanza ex art. 348-bis c.p.c., che aveva erroneamente ritenuto tardive le istanze istruttorie formulate dall’appellante ex art. 345, comma 3, c.p.c., perché, riflettendosi tale vizio sulla prognosi di accoglibilità del gravame, non avrebbe potuto essere dedotto con l’impugnazione della sentenza di primo grado (Sez. 3, n. 02351/2017, Vincenti, Rv. 642719-01).

Tali esiti interpretativi non sono stati tuttavia condivisi dalla richiamata pronuncia Sez. 1, n. 23151/2018, Lamorgese, Rv. 650821-01. La Corte di legittimità ha infatti affermato che l’art. 348 ter, comma 3, c.p.c. prevede testualmente che il ricorso per cassazione debba essere proposto avverso il provvedimento di primo grado, in tutti i casi in cui il giudice d’appello ritenga che l’impugnazione non abbia una ragionevole probabilità di accoglimento. La preoccupazione che venga negata alla parte la possibilità di giovarsi dell’impugnazione quando, come nel caso da ultimo evidenziato, il giudice non ammetta un mezzo di prova in appello, non è ritenuta fondata, perché, spiega la S.C., le doglianze della parte nei confronti della decisione di inammissibilità vengono comunque convogliate verso il provvedimento di primo grado, sul quale è destinato a formarsi il giudicato, in mancanza di impugnazione.

A supporto di tale impostazione, la Corte ha richiamato anche la decisione delle Sezioni Unite (Sez. U, n. 01914/2016, Di Iasi, Rv. 638369-01), costituente il leading case in materia, nella parte in cui, in motivazione, viene affermato che l’ordinanza di inammissibilità ex art. 348-ter c.p.c. non è ricorribile per cassazione, quando si denunci l’omessa pronuncia su un motivo di gravame e dunque venga prospettato un vizio proprio dell’ordinanza del giudice d’appello.

La medesima Corte ha sottolineato che non deve stupire il fatto che, in sede di impugnazione del provvedimento di primo grado, sia richiesto al ricorrente per cassazione di denunciare gli errori sostanziali o processuali imputabili al giudice di appello, atteso che, nel caso in cui l’ordinanza di inammissibilità sia fondata su ragioni diverse o ulteriori rispetto a quelle poste a base della decisione di primo grado, al medesimo ricorrente è consentito di formulare anche un motivo ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5), c.p.c., facoltà che invece è assente nel caso in cui l’inammissibilità sia fondata sulle stesse ragioni poste a base della impugnata decisione di primo grado.

La posizione della giurisprudenza non è tuttavia ancora definita, in quanto, poco tempo dopo tale decisione, la S.C. ha adottato un’altra pronuncia, che, in conformità agli orientamenti in precedenza espressi, ha ribadito l’ammissibilità del ricorso straordinario per cassazione avverso l’ordinanza adottata ai sensi dell’art. 348-ter c.p.c., che abbia dichiarato inammissibile l’appello, sostituendo la ratio decidendi posta a fondamento della decisione di primo grado con altra e diversa, destinata, in ogni caso, a sostituire la prima, in applicazione del principio della ragione più liquida (Sez. 3, n. 25366/2018, Guizzi, Rv. 651463-01).

Nella motivazione di tale decisione è nuovamente affermato che l’ordinanza in questione deve ritenersi impugnabile con il ricorso straordinario per cassazione in presenza di vizi propri, riconducibili ad una violazione della normativa processuale, cui devono aggiungersi le ipotesi in cui la menzionata ordinanza sia resa al di fuori della condizione sostanziale, prevista dall’art. 348-bis c.p.c. (ipotizzabile quando il giudizio prognostico negativo in ordine all’accoglimento dell’appello si sostanzi nella conferma di una sentenza ritenuta giusta, per essere l’appello prima facie destituito di fondamento).

Secondo tale impostazione, pertanto, il giudice d’appello non può dichiarare inammissibile il ricorso, sostituendo la motivazione del provvedimento impugnato con un diverso percorso argomentativo, in quanto, così operando, finisce con l’entrare nel merito del giudizio di appello, deragliando dai binari dell’art. 348-bis c.p.c., che invece prevede una delibazione meramente sommaria.

10. Le ordinanze sul reclamo in materia cautelare e possessoria.

Le pronunce della S.C. adottate nel corso dell’anno 2018 confermano un orientamento oramai consolidato, secondo il quale non è ammesso il ricorso straordinario per cassazione avverso l’ordinanza adottata in sede di reclamo cautelare ex art. 669 terdecies c.p.c., anche quando ne sia dedotta l’abnormità (perché recante statuizioni eccedenti la funzione meramente cautelare), trattandosi di decisioni munite di efficacia temporanea, destinate a perdere efficacia e vigore a seguito della decisione di merito e, come tali, inidonee a produrre effetti sostanziali e processuali con autorità di giudicato (Sez. 3, n. 09830/2018, Fiecconi, Rv. 648431-01; conf. Sez. 6-1, n. 23763/2016, Scaldaferri, Rv. 642793-01).

Occorre considerare che Sez. 6-2, n. 12229/2018, Orilia, Rv. 648537-01, nel ribadire il medesimo principio, ha anche precisato che tale soluzione non si pone in contrasto con gli artt. 24 e 111 Cost., perché l’ordinanza in questione non è idonea ad incidere con efficacia di giudicato su situazioni soggettive di natura sostanziale e non ha alcuna influenza sul successivo giudizio di merito, né integra una violazione dell’art. 6 CEDU, tenuto conto che è comunque garantita una duplice fase di tutela davanti a un’istanza nazionale e che la fondatezza o meno della decisione in sede di reclamo nulla ha a che vedere con la garanzia prevista dalla norma indicata.

Allo stesso modo, con riferimento alle statuizioni adottate in sede di reclamo dei provvedimenti interinali adottati in materia possessoria, Sez. 6-2, n. 01501/2018, Manna F., Rv. 647381-01, ha affermato l’inammissibilità del ricorso straordinario per cassazione, atteso che, tenuto conto della struttura eventualmente bifasica del relativo provvedimento, delineata dal novellato art. 703 c.p.c., in caso di prosecuzione del giudizio di merito, l’ordinanza rimane assorbita nella sentenza, che costituisce l’unico provvedimento avente carattere decisorio, e, ove il giudizio si estingua – come accade in altri casi previsti dalla legge – opera solo una preclusione pro iudicato, mentre, nel caso in cui il giudizio non venga proseguito, l’ordinanza acquista una stabilità puramente endoprocessuale, inidonea al giudicato (conf. Sez. 2, n. 3629/2014, Manna F., Rv. 629431-01).

11. La statuizione d’inammissibilità dell’azione di classe.

In conformità alla recente pronuncia a Sezioni Unite resa sulla questione (Sez. U, n. 02610/2017, Petitti, Rv. 642267-01), Sez. 3, n. 26725/2018, Graziosi, Rv. 650908-01, ha ribadito che l’ordinanza di inammissibilità dell’azione di classe, adottata dalla corte di appello in sede di reclamo, non ha carattere decisorio e, quindi, non è impugnabile con il ricorso ex art. 111, comma 7, Cost., ove detta azione sia finalizzata ad ottenere la tutela risarcitoria di un pregiudizio subito dai singoli appartenenti alla classe e non anche di un interesse collettivo, essendo il medesimo diritto tutelabile attraverso una comun azione individuale (nella specie, la S.C. ha escluso che fosse diretta alla tutela di un interesse collettivo l’azione di classe promossa per ottenere l’accertamento della responsabilità di una struttura sanitaria, che aveva esposto una serie di neonati al rischio di contagio da tubercolosi, e la condanna al risarcimento dei danni subiti, in conseguenza di tale condotta, da uno degli appartenenti alla classe, oltre che dal suo rappresentante legale).

Richiamando gli argomenti della richiamata pronuncia delle Sezioni Unite, Sez. 3, n. 7244/2018, D’Arrigo, Rv. 647956-01, ha affermato, su un piano più generale, che l’ordinanza che decide sulla ammissibilità dell’azione di classe è priva di decisorietà, in quanto si pronuncia, pur in modo definitivo, solo sulle modalità di svolgimento dell’azione e non sulla situazione sostanziale dedotta in giudizio, con la conseguenza che contro di essa è inammissibile il ricorso straordinario per cassazione.

12. La condanna alla pena pecuniaria prevista dall’art. 8, comma 4-bis, del d.lgs. n. 28 del 2010.

In questo caso, la S.C. ha ritenuto non ammissibile il ricorso straordinario per cassazione per difetto del requisito della definitività del provvedimento.

In particolare, Sez. 6-1, n. 02030/2018, Falabella, Rv. 647881-01, ha affermato che non è impugnabile con il ricorso straordinario per cassazione, ma con l’appello, la statuizione con la quale il giudice condanni la parte costituita, che non ha partecipato al procedimento obbligatorio di mediazione senza giustificato motivo, al pagamento di una somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto per il giudizio, ai sensi dell’art. 8, comma 4-bis, del d.lgs. n. 28 del 2010.

La Corte di cassazione ha infatti evidenziato che la norma appena richiamata prevede, alla presenza di determinati presupposti, l’adozione di una sanzione pecuniaria, che non è assimilabile a quelle disciplinate dall’art. 179, comma 2, c.p.c. – adottate con ordinanza non impugnabile, ma ricorribile per cassazione, in quanto incidente con efficacia di giudicato su diritti soggettivi – perché le disposizioni dell’articolo appena menzionato sono applicabili alle sole sanzioni previste nel codice di rito, in attuazione di un potere latamente disciplinare del giudice, mentre nella specie si tratta di una sanzione prevista da una legge speciale, che non ha nulla a che vedere con il potere disciplinare e che riguarda condotte di inerzia anteriori all’instaurazione del processo e ad esso esterne.

La medesima Corte ha anche precisato che non incide sul regime di impugnazione il fatto che il menzionato provvedimento sanzionatorio sia stato adottato con ordinanza in corso di causa, e non con sentenza alla definizione del giudizio, perché il mancato rispetto dei tempi e delle forme del processo non costituisce argomento per affermare che la pronuncia sia inappellabile, giacché il contenuto del provvedimento è, nelle due ipotesi, il medesimo.

13. La liquidazione delle spese nel procedimento ex art. 696-bis c.p.c.

In tema di consulenza tecnica preventiva, richiesta ai fini della composizione della lite, Sez. 6-3, n. 26573/2018, D’Arrigo, Rv. 650891-01, ha rilevato che, per effetto del combinato disposto degli artt. 669 septies, comma 2, e 669 quaterdecies c.p.c., il giudice può procedere alla liquidazione delle spese processuali (a carico della parte ricorrente) solamente nei casi in cui dichiari la propria incompetenza o l’inammissibilità del ricorso, oppure lo rigetti senza procedere all’espletamento del mezzo istruttorio richiesto, ma, ove il medesimo giudice adotti il provvedimento di liquidazione dopo aver dato corso alla consulenza, tale provvedimento, pur essendo abnorme, non è impugnabile ex art. 111, comma 7, Cost., perché è privo dei caratteri della definitività e della decisorietà, dato che è sindacabile nell’eventuale giudizio di merito e comunque, se azionato come titolo esecutivo, è opponibile ex art. 615 c.p.c., come se fosse un titolo stragiudiziale, assumendo l’opposizione il valore della querela nullitatis.

14. L’ordinanza di rigetto dell’istanza di ricusazione del giudice.

Con riferimento all’ordinanza di cui all’art. 54, comma 3, c.p.c., Sez. 1, n. 31361/2018, Di Marzio M., Rv. 652086-01, ha escluso l’esperibilità del ricorso straordinario per cassazione, pur evidenziando che, a seguito della modifica dell’art. 111 Cost., che sancisce in modo solenne il principio dell’imparzialità del giudice, adeguando il sistema processuale al fondamentale precetto dell’art. 6 CEDU, l’esigenza di far decidere la controversia da un giudice imparziale non costituisce soltanto una questione amministrativa relativa all’organizzazione degli uffici giudiziari, ma corrisponde ad un diritto soggettivo della persona fondamentale e insopprimibile.

In particolare, la S.C., richiamando numerosi precedenti conformi, ha escluso l’ammissibilità dell’impugnazione ex art. 111, comma 7, Cost., evidenziando che il rigetto dell’istanza di ricusazione non preclude il riesame della relativa questione nel corso del processo, mediante il controllo sulla pronuncia resa dal (o con il concorso del) iudex suspectus, in quanto l’eventuale vizio causato dalla incompatibilità del giudice ricusato si risolve in motivo di nullità dell’attività svolta dal giudice stesso e, quindi, di gravame della sentenza da lui emessa (da ultimo, v. Sez. 6-3, n. 01932/2015, Frasca, Rv. 634244-01 e Sez. 6-1, n. 02562/2016, Bisogni, Rv. 638466-01).

15. Altri provvedimenti non impugnabili.

In tema di riunione e di separazione di procedimenti, Sez. 6-1, n. 08024/2018, Sambito, Rv. 647903-01, ha affermato, in continuità con un orientamento ormai consolidato (così Sez. U, n. 02245/2015, Spirito, Rv. 634424-01 e, subito dopo, Sez. 3, n. 01053/2016, Pellecchia, Rv. 638403-01), che i relativi provvedimenti, fondandosi su valutazioni di mera opportunità, costituiscono esercizio del potere discrezionale del giudice ed hanno natura ordinatoria, perché non incidono sul diritto di azione delle parti, essendo pertanto insuscettibili di impugnazione e insindacabili in sede di legittimità (nella specie, la S.C. ha dichiarato inammissibile il ricorso straordinario promosso da un rilevantissimo numero di assegnatari di alloggi di edilizia economico-popolare avverso il provvedimento con cui il tribunale aveva disposto la separazione delle cause cumulativamente proposte).

La Corte di cassazione ha dichiarato inammissibile anche il ricorso proposto ai sensi dell’art. 111, comma 7, Cost. contro il decreto di nomina o di sostituzione di un arbitro, ritenendo il provvedimento privo di carattere decisorio e insuscettibile di produrre effetti sostanziali o processuali di cosa giudicata (Sez. 1, n. 18004/2018, Caiazzo, Rv. 649894-01; v. già Sez. 1, n. 11665/2007, Rordof, Rv. 597181-01).

In motivazione, la Corte ha precisato che tale principio non è contraddetto dal recente orientamento, espresso dalle Sezioni Unite (Sez. U, n. 25045/2016, Ragonesi, Rv. 641779-02), che, ribaltando una precedente giurisprudenza, ha affermato la natura decisoria, con attitudine al giudicato, del provvedimento di liquidazione del compenso agli arbitri, con conseguente ricorribilità in cassazione, posto che gli argomenti utilizzati nella richiamata statuizione non sono applicabili al provvedimento di nomina o revoca degli arbitri, che, a differenza di quello che riguarda il loro compenso, è privo del carattere della decisorietà e non esprime un composizione del contenzioso su diritti soggettivi.

Anche con riferimento ai provvedimenti emessi dal Presidente del tribunale, in forza degli artt. 11 e 12 disp. att. c.c., nell’espletamento della sua funzione di nomina e sorveglianza sull’attività compiuta dai liquidatori delle fondazioni e delle associazioni private riconosciute e, per analogia, anche di quelle non riconosciute, non è ammessa l’impugnazione straordinaria per cassazione, ex art. 111 Cost., in quanto tali provvedimenti costituiscono misure di volontaria giurisdizione, prive di decisorietà e di definitività, essendo il liquidatore revocabile o sostituibile in ogni tempo, anche d’ufficio, e fondandosi le relative statuizioni su un’indagine sommaria, eseguita incidenter tantum (Sez. 1, n. 19309/2018, Lamorgese, Rv. 649951-01).

16. L’enunciazione del principio di diritto nell’interesse della legge.

Il ricorso per cassazione nell’interesse della legge disciplinato dall’art. 363 c.p.c. è un istituto volto precipuamente a realizzare la funzione nomofilattica attribuita alla Corte di Cassazione quale sua massima espressione e con l’art. 65 ord. giud. costituisce la conferma dello ius constitutionis ovvero del giudizio per cassazione come giudizio diretto ad assicurare l’esatta osservanza e l’uniforme applicazione della legge.

L’istituto, di origine francese, era stato scarsamente impiegato sino alla riforma intervenuta con l’art. 4 del d.lgs. n. 40 del 2006 che ha riformulato la norma, sostituendo il ricorso nell’interesse della legge con il principio di diritto nell’interesse della legge. Tra le novità introdotte è previsto che la Corte, a fronte di un precedente provvedimento giudiziario di merito ritenuto erroneo, non provvede alla cassazione ma enuncia, nell’interesse della legge, il principio di diritto al quale il giudice avrebbe dovuto attenersi. Ciò può avvenire, non solo per l’iniziativa del Procuratore generale presso la Suprema Corte, ma anche d’ufficio da parte della medesima Corte qualora il ricorso sia dichiarato inammissibile e la questione sia ritenuta di particolare importanza.

L’enunciazione del principio di diritto può avvenire non solo quando le parti non hanno proposto ricorso nei termini della legge o vi hanno rinunciato, ma anche “quando il provvedimento non è ricorribile in cassazione e non è altrimenti impugnabile” ovvero nei casi in cui è esclusa anche la possibilità del ricorso straordinario ai sensi dell’art. 111, comma 7, Cost., in quanto trattasi di provvedimenti privi del carattere della decisorietà e definitività, come, ad esempio, quelli di natura camerale e cautelare i quali, in difetto, finirebbero con lo “sfuggire” al controllo di legittimità della Corte di cassazione.

Nondimeno, in conformità con la natura esclusivamente nomofilattica dell’istituto, l’enunciazione del principio di diritto non ha effetto sul provvedimento del giudice di merito, non essendo diretto all’annullamento dello stesso, limitandosi a dichiararne l’erroneità.

16.1. Il ricorso del Procuratore Generale.

Il ricorso nell’interesse della legge, da tenersi distinto dal ricorso ordinario che il Procuratore Generale presso la Suprema Corte, in qualità di parte, può proporre e la cui decisione produrrà effetti sulla pronuncia impugnata, ha la finalità di far correggere un principio errato contenuto in un provvedimento di merito, indipendentemente dall’esito del relativo giudizio, essendo unicamente diretto all’enunciazione del principio di diritto e non alla tutela giurisdizionale dei diritti delle parti, quale esercizio della nomofilachia.

Pertanto, come di recente evidenziato da Sez. U, n. 23469/2016, De Stefano, Rv. 641536-01, lo stesso non è un mezzo di impugnazione, bensì un procedimento dotato di una propria autonomia diretto a consentire il controllo sulla corretta osservanza ed uniforme applicazione della legge “quando le parti non hanno proposto ricorso nei termini della legge o vi hanno rinunciato, ovvero quando il provvedimento non è ricorribile in cassazione e non è altrimenti impugnabile”. Tale ricorso si estrinseca, in particolare, in una richiesta diretta alla Suprema Corte che non deve essere quindi notificata alle parti, poiché prive di legittimazione a partecipare al procedimento, non risultando in alcun modo pregiudicato il provvedimento presupposto. Tale iniziativa, pur non potendo influire sulla fattispecie concreta, non può prescinderne, infatti, non avendo natura di impugnazione, non può assumere carattere preventivo o esplorativo, potendosene servire solo in caso di decisione contraria alla legge per far correggere alla Corte l’errore e chiedere che venga chiarita l’esatta portata e il reale significato della normativa di riferimento. Essa è diretta al Primo Presidente “il quale può disporre che la Corte si pronunci a sezioni unite se ritiene che la questione è di particolare importanza” e deve contenere “una sintetica esposizione del fatto e delle ragioni di diritto poste a fondamento dell’istanza”.

Tale potere d’iniziativa è discrezionale e caratterizzato dall’avvenuta decisione giurisdizionale non impugnata o impugnabile, dalla sua ritenuta illegittimità e dall’interesse della legge quale interesse pubblico, trascendente da quello delle parti, all’affermazione di un principio di diritto per la ritenuta importanza di una sua formulazione espressa.

16.2. Il potere officioso della Corte.

A norma dell’art. 363, comma 3, c.p.c. – come novellato dall’art. 4 del d.lgs. n. 40 del 2006-se le parti non possono, nel loro interesse e sulla base della normativa vigente, investire la Corte di cassazione di questioni di particolare importanza in rapporto a provvedimenti giurisdizionali non impugnabili, ed il Procuratore Generale presso la stessa Corte non chiede l’enunciazione del principio di diritto nell’interesse della legge, la S.C. può esercitare d’ufficio il potere discrezionale di formulare il principio di diritto concretamente applicabile. Tale potere, espressione della funzione di nomofilachia, comporta che – in relazione a questioni la cui particolare importanza sia desumibile non solo dal punto di vista normativo, ma anche da elementi di fatto – la Corte di cassazione possa eccezionalmente pronunciare una regola di giudizio che, sebbene non influente nella concreta vicenda processuale, serva tuttavia come criterio di decisione di casi analoghi o simili.

Tale potere può essere affidato sia alle sezioni unite che a quelle semplici che, dichiarata l’inammissibilità del ricorso, possono enunciare d’ufficio il principio di diritto nell’interesse della legge in relazione alla questione, ritenuta di particolare importanza, sollevata nel ricorso.

Si segnala, in questa prospettiva, Sez. 1, n. 22472/2018, Terrusi, Rv. 650585-01, ove, a seguito della declaratoria d’inammissibilità del ricorso, la Corte ha esaminato egualmente, ai sensi dell’art. 363 c.p.c., la questione giuridica sottesa, considerata l’importanza della stessa sul piano pratico, per le potenziali ricadute nel settore delle vendite fallimentari, rilevata anche l’assenza di precedenti.

Analogamente è possibile, come ha precisato Sez. U, n. 20661/2014, Giusti, Rv. 632239-01, che, nel pronunciare d’ufficio il principio di diritto nell’interesse della legge, la Corte sollevi una questione di legittimità costituzionale, poiché la rilevanza della questione può essere affermata anche quando la norma sia destinata a trovare applicazione nell’enunciazione del principio di diritto, ai sensi dell’art. 363, comma 3, c.p.c. in quanto la funzione nomofilattica sottesa non si esaurisce nella dimensione statica della legalità ordinaria. Diversamente, in assenza della proposizione di un ricorso in cassazione, nel caso di un’istanza di enunciazione del principio contenuta in una semplice comunicazione scritta indirizzata da una delle parti al Primo Presidente si impone la pronuncia di non luogo a provvedere (Sez. 6-2, n. 10557/2015, Rv. 635423-01).

Il procedimento è incompatibile con il rito camerale previsto dagli artt. 375 e 380-bis c.p.c., poiché esso rappresenta uno strumento per rendere più celere il giudizio in determinate tipologie decisionali tra le quali non può rientrare l’enunciazione del principio nell’interesse della legge, che presuppone una particolare importanza della questione giuridica esaminata (Sez. 3, n. 05665/2018, Porreca, Rv. 648294-01).

In caso di estinzione del giudizio di cassazione a seguito di rinuncia al ricorso ad opera della parte, così come in caso di rilevata inammissibilità, la Corte può pronunciare d’ufficio il principio di diritto sulla questione ritenuta di particolare importanza, essendole preclusa solamente la possibilità di pronunciarsi sulle censure con effetti sul concreto diritto dedotto in giudizio. Allo stesso modo, anche a seguito di ricorso per motivi di giurisdizione avverso una decisione del giudice contabile, dichiarata inammissibile, le sezioni unite della Corte possono enunciare d’ufficio il principio di diritto nell’interesse della legge, se ritengono che la questione decisa sia di particolare importanza.

La questio iuris può attenere anche a profili diversi dall’inammissibilità del ricorso che possano comunque desumersi dallo stesso.

16.3. L’enunciazione dei principi di diritto più rilevanti nell’interesse della legge.

Sin da questi primi anni di applicazione, l’istituto disciplinato dall’art. 363 c.p.c., specie mediante l’attribuzione alla Corte di cassazione del potere di enunciare d’ufficio il principio di diritto nell’interesse della legge a fronte dell’inammissibilità del ricorso proposto, ha consentito alla stessa di intervenire su questioni giuridiche di fondamentale importanza.

Nel 2018, tra queste si segnala senz’altro Sez. U, n. 22438/2018, Vincenti, Rv. 650462-01, la quale – nonostante l’improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza d’interesse derivante dalla conclusione transattiva della controversia – ha enunciato ex art. 363, comma 3, c.p.c., il principio, di elevato rilievo nomofilattico, stante la novità delle relative questioni giuridiche, secondo cui il deposito in cancelleria, nel termine di venti giorni dall’ultima notifica, di copia analogica del ricorso per cassazione predisposto in originale telematico e notificato a mezzo PEC, senza attestazione di conformità del difensore ex art. 9, commi 1-bis e 1 ter, della l. 21 gennaio 1994, n. 53 o con attestazione priva di sottoscrizione autografa, non ne comporta l’improcedibilità ove il controricorrente (anche tardivamente costituitosi) depositi copia analogica del ricorso ritualmente autenticata ovvero non abbia disconosciuto la conformità della copia informale all’originale notificatogli ex art. 23, comma 2, del d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82. Le Sezioni Unite hanno precisato che, diversamente, ove il destinatario della notificazione a mezzo PEC del ricorso nativo digitale rimanga solo intimato (così come nel caso in cui non tutti i destinatari della notifica depositino controricorso) ovvero disconosca la conformità all’originale della copia analogica non autenticata del ricorso tempestivamente depositata, per evitare di incorrere nella dichiarazione di improcedibilità sarà onere del ricorrente depositare l’asseverazione di conformità all’originale della copia analogica sino all’udienza di discussione o all’adunanza in camera di consiglio. (Principio enunciato ai sensi dell’art. 363, comma 3, c.p.c.).

Peculiare rilievo assume poi, Sez. U, n. 16601/2017, D’Ascola, Rv. 644914-01, la quale ha affermato l’innovativo principio per il quale, nel vigente ordinamento, alla responsabilità civile non è assegnato solo il compito di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subìto la lesione, poiché sono interne al sistema la funzione di deterrenza e quella sanzionatoria del responsabile civile, sicché non è ontologicamente incompatibile con l’ordinamento italiano l’istituto, di origine statunitense, dei risarcimenti punitivi, sebbene il riconoscimento di una sentenza straniera che contenga una pronuncia di tal genere debba corrispondere alla condizione che essa sia stata resa nell’ordinamento straniero su basi normative che garantiscano la tipicità delle ipotesi di condanna, la prevedibilità della stessa ed i suoi limiti quantitativi, dovendosi avere riguardo, in sede di delibazione, unicamente agli effetti dell’atto straniero ed alla loro compatibilità con l’ordine pubblico.

Principio di diritto enunciato nell’interesse della legge è, poi, quello espresso da Sez. U, n. 11799/2017, Frasca, Rv. 644305-01, la quale ha chiarito che, in tema di impugnazioni, qualora un’eccezione di merito sia stata respinta in primo grado, in modo espresso o attraverso un’enunciazione indiretta che ne sottenda, chiaramente ed inequivocamente, la valutazione di infondatezza, la devoluzione al giudice d’appello della sua cognizione, da parte del convenuto rimasto vittorioso quanto all’esito finale della lite, esige la proposizione del gravame incidentale, non essendone, altrimenti, possibile il rilievo officioso ex art. 345, comma 2, c.p.c. (per il giudicato interno formatosi ai sensi dell’art. 329, comma 2, c.p.c.), né sufficiente la mera riproposizione, utilizzabile, invece, e da effettuarsi in modo espresso, ove quella eccezione non sia stata oggetto di alcun esame, diretto o indiretto, ad opera del giudice di prime cure, chiarendosi, altresì, che, in tal caso, la mancanza di detta riproposizione rende irrilevante in appello l’eccezione, se il potere di sua rilevazione è riservato solo alla parte, mentre, se competa anche al giudice, non ne impedisce a quest’ultimo l’esercizio ex art. 345, comma 2, c.p.c.

Né può trascurarsi la rilevanza, per orientare le differenti posizioni espresse in sede di merito dai giudici dell’esecuzione, di Sez. 3, n. 19792/2011, De Stefano, Rv. 619568-01, la quale ha chiarito, enunciando un principio di diritto ai sensi dell’art. 363 c.p.c., che un bene gravato da uso civico non può essere oggetto di espropriazione forzata, per il particolare regime della sua titolarità e della sua circolazione, che lo assimila ad un bene appartenente al demanio, nemmeno potendo per esso configurarsi una cosiddetta sdemanializzazione di fatto.

  • giurisdizione civile

CAPITOLO XVI

GLI ALTRI MEZZI DI IMPUGNAZIONE

(di Valeria Pirari )

Sommario

1 Premessa. - 2 Revocazione. - 2.1 Dolo di una delle parti. - 2.2 Acquisizione di documenti. - 2.3 Errore di fatto cd. revocatorio. - 3 Revocazione delle pronunce della Corte di cassazione. - 4 Questioni procedimentali. - 5 Opposizione di terzo.

1. Premessa.

Nel corso del 2018, nella produzione giurisprudenziale in materia di revocazione e opposizione di terzo, si segnalano diverse pronunce che hanno ulteriormente specificato l’ambito applicativo dei predetti istituti, chiarendone portata e limiti di ammissibilità.

2. Revocazione.

La revocazione, quale mezzo di impugnazione a carattere ordinario (ipotesi di cui ai n. 4 e 5 dell’art. 395 c.p.c.) ovvero straordinario (casi di cui ai n. 1, 2, 3 e 6 dell’art. 395 c.p.c.) può aggiungersi o sovrapporsi agli ordinari strumenti di gravame allorché emergano circostanze che possono avere inciso, deviandolo, sull’esito del giudizio, il quale, senza di esse, sarebbe stato differente.

I motivi di revocazione sono elencati nell’art. 395 c.p.c. e si riferiscono al dolo di una delle parti (n. 1), alla falsità di prove acclarata e conosciuta successivamente (n. 2), all’acquisizione di documenti non prodotti per causa di forza maggiore o per fatto della controparte (n. 3), all’errore di fatto risultante dagli atti e documenti della causa in relazione ad un fatto non controverso (n. 4), alla contrarietà della sentenza ad altra precedente avente tra le parti l’autorità di cosa giudicata (5) e al dolo del giudice accertato con sentenza passata in giudicato (n. 6).

2.1. Dolo di una delle parti.

Con riguardo al motivo indicato al n. 1 dell’art. 395 c.p.c., Sez. 6 - 5, n. 22851/2018, Luciotti, Rv. 650814-01, in linea con il precedente orientamento (cfr. Sez. L, n. 12875/2014, Venuti, Rv. 631268-01), ha escluso che costituisca motivo di revocazione il comportamento della parte che, pur censurabile sotto il diverso profilo della lealtà e correttezza processuale, sia inidoneo a pregiudicare il diritto di difesa della controparte, la quale resta pienamente libera di avvalersi dei mezzi offerti dall’ordinamento al fine di pervenire all’accertamento della verità, ribadendo che il dolo processuale di una delle parti in danno dell’altra possa costituire motivo di revocazione della sentenza soltanto quando consista in un’attività deliberatamente fraudolenta, concretantesi in artifici o raggiri tali da paralizzare, o sviare, la difesa avversaria e da impedire al giudice l’accertamento della verità, facendo apparire una situazione diversa da quella reale.

Nel caso esaminato, ad esempio, è stato escluso il dolo nella condotta dell’amministrazione finanziaria che aveva sottaciuto il mancato possesso, da parte del dipendente che aveva sottoscritto l’avviso di accertamento, della necessaria qualifica dirigenziale, così impedendo al contribuente di esperire adeguata impugnazione.

In applicazione del suddetto principio, Sez. 6 - L, n. 26078/2018, Cavallaro, Rv. 651002-01, ha analogamente escluso che integrasse un’ipotesi di dolo processuale la condotta della parte che, nel giudizio conclusosi con la sentenza impugnata, aveva agito quale procuratore speciale di un soggetto deceduto anteriormente al rilascio della procura ad litem, senza dichiarare tale circostanza nei due gradi di merito.

2.2. Acquisizione di documenti.

Con riguardo invece all’ipotesi di revocazione per il motivo di cui al n. 3) dell’art. 395 c.p.c., sono stati ribaditi alcuni principi in ordine sia all’onere della prova, sia all’ammissibilità della produzione documentale nel giudizio di legittimità.

Quanto alla prima questione, la Corte ha affermato che colui che agisce assumendo di essersi trovato nell’impossibilità, non per sua colpa, di produrre i documenti nel giudizio di merito, è tenuto a dimostrare, per giustificare la revocazione, che l’ignoranza dell’esistenza dei documenti e del luogo ove essi si trovavano fino al momento dell’assegnazione della causa a sentenza, non è dipesa da sua colpa, ma da fatto dell’avversario o da causa di forza maggiore (Sez. 2, n. 00885/2018, Criscuolo M., Rv. 647074-01).

Quanto alla seconda questione, Sez. L, n. 18464/2018, Bellè, Rv. 649870-01, ha precisato che la produzione di documenti non depositati in precedenza è ammissibile, nel giudizio di cassazione, soltanto in quanto attengano alla nullità della sentenza impugnata o all’ammissibilità processuale del ricorso o del controricorso, ovvero al maturare di un successivo giudicato, mentre non è consentita la produzione di documenti nuovi relativi alla fondatezza nel merito della pretesa, per far valere i quali, se rinvenuti dopo la scadenza dei termini, la parte che ne assuma la decisività può esperire esclusivamente il rimedio della revocazione straordinaria ex art. 395, n. 3, c.p.c.

2.3. Errore di fatto cd. revocatorio.

In relazione alla ricorrente ipotesi di cui al n. 4) dell’art. 395, c.p.c., diverse sono state le pronunce che hanno chiarito gli aspetti relativi all’istituto, precisandone e delineandone i contenuti, sia con riferimento al requisito del fatto non controverso, sia alla questione che ha interessato l’erronea percezione del giudice.

Relativamente al requisito secondo cui il fatto non deve costituire un punto controverso, Sez. 5, n. 27622/2018, D’Orazio, Rv. 651078-01, ha chiarito cosa si intenda per “fatto controverso”, evidenziando che tale presupposto ricorre quando la questione sia stata oggetto di posizioni contrapposte tra le parti e abbia dato luogo ad una discussione in corso di causa e affermando che, in tali ipotesi, la pronuncia del giudice non si configura come mera svista percettiva, ma assume necessariamente natura valutativa, così da essere sottratta al rimedio revocatorio (Nella specie, è stato ad esempio reputato controverso il fatto della presenza in contabilità dei buoni di consegna, posto a base della domanda, in quanto era stato oggetto del contraddittorio tra le parti e di esame da parte della decisione della Commissione regionale).

Inoltre, Sez. 5, n. 14929/2018, Perrino, Rv. 649363-01, ha chiarito che il punto può dirsi controverso quando sia oggetto di controversia, ossia incerto e per questo dibattuto, e che è la contestazione di un fatto a renderlo incerto e a farlo divenire giustiziabile, così da comportare l’assoggettamento di esso al dibattito del processo e da imporre al giudice di sciogliere l’incertezza, valutando la contestazione e stabilendone la fondatezza o meno, sicché, se vi è valutazione del contrasto tra le parti, è da escludere alcuna svista percettiva e la stessa ammissibilità del ricorso revocatorio.

Nella specie, si è detto che non costituisce punto controverso oggetto di decisione quello rispetto al quale una parte si sia limitata a sollecitare l’esercizio di poteri di controllo officiosi da parte del giudice.

Anche la valutazione delle risultanze della consulenza tecnica d’ufficio, effettuata dal giudice di merito e viziata da erronea percezione, può essere censurata, secondo Sez. 6 - L, n. 19293/2018, Doronzo, Rv. 650202-01, con la revocazione ordinaria quando l’errore attenga ad un fatto non controverso, mentre è sindacabile ai sensi dell’art. 360, n. 4, c.p.c., per violazione dell’art. 115 c.p.c., quando l’errore ricada su circostanza che ha formato oggetto di discussione tra le parti, come in caso di mancato esame delle ragioni medico-legali illustrate nella consulenza tecnica d’ufficio che avevano formato oggetto di discussione tra le parti, anche se, ove esaminate, avrebbero condotto ad un risultato diverso. Si è detto infatti che, venendo in quest’ultimo caso censurato il giudizio fondato su una costruzione logico-giuridica incompatibile con le risultanze istruttorie e l’omessa motivazione sul punto, si configura un tipico error in judicando sotto il profilo della asserita erroneità del giudizio sul fatto (nel quale si estrinseca il vizio di motivazione di cui all’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c.).

Con più generale riferimento alla nozione di errore di fatto cd. revocatorio, Sez. 6 - L, n. 06405/2018, Esposito L., Rv. 647570-01, ha ribadito il consolidato principio per il quale lo stesso consiste in una falsa percezione della realtà, ossia in una “svista” materiale, obiettivamente e immediatamente rilevabile, su circostanze decisive emergenti direttamente dagli atti di causa, alla cui stregua si è affermata o supposta l’esistenza di un fatto decisivo incontestabilmente escluso dagli atti e dai documenti di causa ovvero l’inesistenza di un fatto decisivo positivamente accertato sulla base degli stessi atti e documenti, così da non potersi ravvisare in caso di vizi relativi all’interpretazione della domanda giudiziale (nella specie, l’errore prospettato riguardava la valutazione sul fatto che una malattia professionale fosse comprensiva o meno di un’altra, in quanto concernente la qualificazione della domanda e non l’omessa considerazione di elementi di fatto).

Analogamente, è stato escluso che rientrino nell’ambito del vizio cd. revocatorio le valutazioni giuridiche sulle risultanze processuali (cfr. Sez. 5, n. 27570/2018, Castorina, Rv. 651070-02) o la valutazione, ancorché errata, del contenuto degli atti di parte e della motivazione della sentenza impugnata, trattandosi di vizio costituente errore di giudizio e non di fatto (Sez. 6 - L, n. 10184/2018, Esposito L., Rv. 648204-01).

Per contro, Sez. 5, n. 07617/2018, Nonno, Rv. 647693-01, ha ravvisato l’errore di fatto rilevante ai fini della revocazione ex art. 395, comma 1, n. 4, c.p.c. nella pronuncia fondata, in modo evidente e immediatamente rilevabile, su una svista percettiva di carattere decisivo sull’intero oggetto del contendere (nella specie si era statuito sul condono “tombale” presentato da un professionista, anziché sul condono “clemenziale” presentato dalla società ricorrente).

In termini analoghi, Sez. 6 - L, n. 04565/2018, Ghinoy, Rv. 647376-01, esaminando il caso del giudice di merito, che, adito in revocazione, aveva dichiarato l’inammissibilità dell’impugnazione ex art. 395 n. 4 c.p.c., avverso una sentenza di rigetto per tardività di ricorso proposto ex art. 445-bis, comma 6, c.p.c., sull’erroneo presupposto che il non aver tenuto conto della scadenza del termine in giorno festivo configurasse errore di diritto e non di fatto, ha per contro ravvisato l’errore di fatto in quello commesso sul computo del termine per la proposizione dell’impugnazione, riguardando esso un fatto interno alla causa risolventesi in una falsa percezione di quanto rappresentato dalle parti e costituendo il rilievo del dies ad quem e l’applicazione del calendario comune – adempimenti indispensabili per valutare la tempestività dell’impugnazione – elementi facilmente riscontrabili dalla lettura degli atti da parte del giudice, così come Sez. 6-5, n. 06464/2018, Solaini, Rv. 647323-01, ha ritenuto denunciabile con lo strumento della revocazione ai sensi dell’art. 395 n. 4 c.p.c., e non con ricorso per cassazione, la sentenza d’appello dichiarativa della cessazione della materia del contendere erroneamente fondata sulla supposizione di un fatto in realtà insussistente.

Infine, Sez. 2, n. 15043/2018, Cosentino, Rv. 649170-01, ha sostenuto che l’errore del giudice di merito circa l’omessa produzione in giudizio di un documento decisivo può essere fatto valere soltanto in sede di revocazione, ai sensi dell’art. 395, n. 4, c.p.c., purché ne ricorrano le condizioni, mentre il vizio di omesso esame di un documento decisivo non è deducibile in cassazione se il giudice di merito ha accertato che quel documento non è stato prodotto in giudizio, non essendo configurabile un difetto di attività del giudice circa l’efficacia determinante, ai fini della decisione della causa, di un documento non portato alla cognizione del giudice stesso.

3. Revocazione delle pronunce della Corte di cassazione.

Ai sensi dell’art. 391-bis c.p.c. la revocazione per errore di fatto ex art. 395 n. 4) c.p.c. può essere richiesta anche contro le decisioni pronunciate dalla Corte di cassazione.

Con riguardo all’ambito applicativo dell’istituto, Sez. U, n. 08984/2018, Cirillo E., Rv. 648127-02, ha precisato che, sulla base del combinato disposto dell’art. 391-bis e dell’art. 395, n. 4, c.p.c., non costituiscono causa di revocazione della sentenza di cassazione né l’errore di diritto, sostanziale o processuale, né l’errore di giudizio o di valutazione, rilievi questi proponibili soltanto contro le decisioni di merito nei limiti dell’appello e del ricorso per cassazione, ritenendo non irrazionale la scelta del legislatore di riconoscere ai motivi di revocazione una propria specifica funzione e di escludere a questi fini le predette ipotesi, sia in quanto, nel sistema delle impugnazioni, la Costituzione non impone al legislatore ordinario altri vincoli oltre a quelli, previsti dall’art. 111 Cost., della ricorribilità in cassazione per violazione di legge di tutte le sentenze ed i provvedimenti sulla libertà personale pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari e speciali, sia in quanto, con riguardo all’effettività della tutela giurisdizionale, la giurisprudenza europea e quella costituzionale riconoscono la necessità che le decisioni, una volta divenute definitive, non possano essere messe in discussione, onde assicurare la stabilità del diritto e dei rapporti giuridici, nonché l’ordinata amministrazione della giustizia.

È stato poi ulteriormente precisato, da Sez. 6-3, n. 03760/2018, Rossetti, Rv. 647695-01, che la revocazione delle sentenze della Corte di Cassazione è configurabile soltanto nelle ipotesi in cui essa sia giudice del fatto ed incorra in errore meramente percettivo, sicché non può ritenersi inficiata da errore di fatto la sentenza della quale si censuri la valutazione di uno dei motivi del ricorso ritenendo che sia stata espressa senza considerare le argomentazioni contenute nell’atto d’impugnazione, perché in tal caso è dedotta un’errata considerazione e interpretazione dell’oggetto di ricorso.

Quanto al discrimine tra l’istituto in esame e gli ordinari mezzi di impugnazione, Sez. 1, n. 26643/2018, Mercolino, Rv. 651443-01, ha chiarito che l’errore di fatto idoneo a legittimare la revocazione della sentenza di cassazione, ex artt. 391-bis e 395, n. 4 c.p.c., deve riguardare gli atti interni al giudizio di legittimità, che la Corte può esaminare direttamente, con propria indagine di fatto, nell’ambito dei motivi di ricorso e delle questioni rilevabili d’ufficio, e deve quindi avere carattere autonomo, nel senso di incidere esclusivamente sulla sentenza di legittimità, mentre, ove l’errore sia stato causa determinante della sentenza di merito, in relazione ad atti o a documenti che, ai fini della stessa, sono stati o avrebbero dovuto essere esaminati, il vizio della sentenza deve essere fatto valere con gli ordinari mezzi di impugnazione.

Circa poi la nozione di errore revocatorio, Sez. L, n. 28143/2018, Torrice, Rv. 651495-01, dopo avere affermato che tale errore deve dipendere da una falsa percezione della realtà ovvero da una svista obiettivamente ed immediatamente rilevabile, la quale abbia portato ad affermare o supporre l’esistenza di un fatto decisivo, incontestabilmente escluso dagli atti e documenti, ovvero l’inesistenza di un fatto decisivo, che dagli atti o documenti stessi risulti positivamente accertato, e che in nessun modo coinvolga l’attività valutativa del giudice di situazioni processuali esattamente percepite nella loro oggettività, ha affermato che la parte può avvalersi del rimedio della revocazione ordinaria per far valere, ad esempio, la non corretta instaurazione del processo nel giudizio in cassazione e, conseguentemente, l’erroneità della pronuncia di ammissibilità del ricorso, quando la Corte, sull’erroneo presupposto dell’avvenuta costituzione della parte intimata smentita con evidenza dagli atti, abbia ritenuto validamente costituito il rapporto processuale, senza compiere alcuna valutazione sulla regolarità del procedimento notificatorio, invece da escludersi per difetto di prova dell’avvenuta consegna del piego raccomandato al destinatario indicato nell’atto.

Con riguardo all’errore involgente aspetti processuali ed, in particolare, il procedimento notificatorio, Sez. L, n. 24355/2018, Di Paolantonio, Rv. 650577-01, ha affermato che, nel giudizio di revocazione delle pronunce della Corte di cassazione, ove si deduca che l’errore di fatto in cui è incorso il giudice sia consistito nell’avere supposto l’esistenza dell’avviso di ricevimento della notifica del ricorso introduttivo, in realtà mai formato, l’onere di provare che quell’atto era stato depositato unitamente al ricorso, o comunque prima dell’udienza di discussione, grava sull’originario ricorrente, e che se questi omette di costituirsi in giudizio e di depositare il fascicolo di parte del procedimento nel quale è stata pronunciata la sentenza cui si riferisce la revocazione, l’atto deve ritenersi come se non fosse stato depositato, sempre che di quel deposito non vi sia traccia nel fascicolo d’ufficio.

Analogamente, è possibile far valere con l’istituto della revocazione, secondo Sez. 6-2, n. 18443/2018, Scarpa, Rv. 649862-01, l’omessa rilevazione di un vizio che avrebbe comportato l’inammissibilità del controricorso (nella specie, mancata sottoscrizione dell’atto da parte di un avvocato iscritto nell’apposito albo), costituendo lo stesso errore di fatto rilevante ai sensi degli artt. 391-bis c.p.c. e 395 n. 4, c.p.c., purché il ricorrente dimostri che la sentenza avrebbe potuto avere un diverso contenuto – in ordine all’accoglimento dell’impugnazione, invece respinta, e non alla semplice conseguente statuizione sulle spese di lite – ove si fosse evitata la “percettibilità” di fatti derivati dalla lettura delle allegazioni difensive contenute in tale controricorso, e, secondo Sez. 5, n. 00602/2018, Frasca, Rv. 646910-01, l’omesso avviso di fissazione dell’udienza o della camera di consiglio a tutte le parti costituite, quale fatto incontestabilmente mai avvenuto, ma non anche l’assunta nullità dello stesso, essendo in tal caso configurabile la denuncia di errore di diritto.

Nell’ipotesi, invece, di pronuncia di cassazione con rinvio, secondo Sez. 6-2, n. 12046/2018, D’Ascola, Rv. 648547-01, il ricorso per revocazione è ammissibile in caso di pronuncia di accoglimento fondata su un vizio processuale dovuto a un errore di fatto o se il fatto di cui si denuncia l’errore percettivo è assunto come decisivo nell’enunciazione del principio di diritto, o, nell’economia della sentenza, è stato determinante per condurre all’annullamento per vizio di motivazione, mentre è inammissibile soltanto se l’errore revocatorio enunciato ha portato all’omesso esame di eccezioni, questioni o tesi difensive che possano costituire oggetto di una nuova, libera ed autonoma valutazione da parte del giudice del rinvio.

Con riguardo al merito della decisione, Sez. 5, n. 10032/2018, Crucitti, Rv. 647965-01, ha sostenuto che integra errore di fatto, ai sensi degli artt. 391-bis e 395, n. 4, c.p.c., la ritenuta inesistenza di un motivo del ricorso originario, non esaminato dal giudice di primo grado, in quanto ritenuto espressamente assorbito dall’accoglimento di un altro motivo e ritualmente riproposto, ex art. 346 c.p.c., in appello ed in quella sede assorbito per la medesima ragione, trattandosi, ove decisiva, di una “svista” immediatamente percepibile dagli atti processuali.

Negli stessi termini, si sono espresse Sez. L, n. 07988/2018, Manna A., Rv. 648262-01, secondo cui costituisce errore di fatto, denunciabile ex art. 395 n. 4, c.p.c., l’omessa percezione di questioni sulle quali il giudice d’appello non si è pronunciato in quanto ritenute, anche implicitamente, assorbite, senza che rilevi, ai fini della sua decisività, l’eventuale omessa riproposizione in sede di legittimità della questione assorbita, su cui non si forma giudicato implicito, atteso che può essere riproposta e decisa nel giudizio di rinvio (come nel caso relativo a una causa in materia di licenziamento collettivo, nella quale era stato omesso l’esame della tardività della comunicazione di avvio della procedura e della mancata inclusione nella stessa dei nominativi degli altri lavoratori mantenuti in servizio, in quanto reputate assorbite dalla corte territoriale), e Sez. 5, n. 23502/2018, Federici, Rv. 650515-01, la quale ha ritenuto sussistente l’invocato errore revocatorio in una decisione della stessa Corte di cassazione che aveva accolto il ricorso dell’Agenzia fondato su una questione preliminare e aveva poi deciso la causa nel merito, rigettando la domanda del contribuente, senza avvedersi che quest’ultimo aveva riproposto in appello motivi di ricorso che erano stati assorbiti, come già in primo grado.

Non si è invece in presenza di errori di fatto rilevanti ai fini della revocazione avverso una decisione della Corte di legittimità, secondo Sez. L, n. 23608/2018, Marotta, Rv. 650625-01, nel caso di richiesta fondata sulla pretesa erronea qualificazione giuridica del provvedimento impugnato come sentenza, piuttosto che come ordinanza, trattandosi non già di errore percettivo bensì di valutazione in diritto, e, per Sez. 3, n. 07795/2018, De Stefano, Rv. 648307-01, nell’ipotesi di pretesa erroneità della persistente controvertibilità di una questione o della lettura di uno o più degli atti dei gradi di merito che siano state oggetto della sentenza di secondo grado e poi dei motivi di ricorso per cassazione, sia perché in tal caso la questione è già stata oggetto di discussione tra le parti, sia perché un eventuale errore di diritto o di fatto commesso in tesi dalla Corte di cassazione e diverso dalla mera svista su atti processuali del solo giudizio di legittimità non sarebbe suscettibile di emenda in base al vigente sistema processuale.

In termini analoghi, si è espressa Sez. 5, n. 00443/2018, Frasca, Rv. 646689-01, la quale ha ritenuto inammissibile il ricorso nel quale era stata prospettata l’erronea affermazione dell’intervenuta prescrizione del diritto al recupero di dazi doganali, in quanto gli errori indicati non riguardavano la percezione ma la valutazione, in fatto e in diritto, delle risultanze processuali, sostenendo che l’errore di fatto rilevante ai fini dell’ammissibilità dell’istanza di revocazione di una pronuncia della Corte di cassazione, proponibile ai sensi dell’art. 391-bis c.p.c., consiste in un errore di percezione, o in una mera svista materiale, che abbia indotto il giudice a supporre l’esistenza (o l’inesistenza) di un fatto decisivo, che risulti, invece, in modo incontestabile escluso (o accertato) in base agli atti e ai documenti di causa, sempre che tale fatto non abbia costituito oggetto di un punto controverso, su cui il giudice si sia pronunciato, e presuppone, quindi, il contrasto fra due diverse rappresentazioni dello stesso fatto, delle quali una emerge dalla sentenza, l’altra dagli atti e documenti processuali, sempreché la realtà desumibile dalla sentenza sia frutto di supposizione e non di giudizio, formatosi sulla base di una valutazione.

4. Questioni procedimentali.

Occorre in primo luogo considerare, in tema di ammissibilità della domanda, Sez. 2, n. 08526/2018, Tedesco, Rv. 648008-01, la quale ha ritenuto che il giudice della revocazione, quando una sentenza di appello, fondata su due autonome ragioni, sia impugnata con riferimento soltanto ad una di esse per revocazione, e con riferimento all’altra con ricorso per cassazione, non possa dichiarare l’inammissibilità dell’impugnazione, in quanto rivolta contro una soltanto delle ragioni della decisione, ma debba provvedere con sentenza dichiarativa dell’esistenza o meno del vizio revocatorio, sentenza che resta subordinata al definitivo esito del ricorso per cassazione in ordine all’autonoma ragione della decisione della sentenza di appello.

Con riguardo alla domanda di revocazione della sentenza della Corte di cassazione per errore di fatto, Sez. 6-1, n. 14126/2018, Cristiano, Rv. 649692-01, ha asserito che essa debba contenere, a pena di inammissibilità, oltre all’indicazione del motivo della revocazione prescritta dall’art. 398, comma 2, c.p.c., anche l’esposizione dei fatti di causa richiesta dall’art. 366, comma 1, n. 3, c.p.c., al fine di rendere agevole la comprensione della questione controversa e dei profili di censura formulati, in immediato coordinamento con il contenuto della sentenza impugnata, sicché è inammissibile il ricorso ex art. 391-bis c.p.c. nel quale l’esposizione dei fatti di causa sia stata effettuata mediante il semplice rinvio al precedente ricorso per cassazione.

Quanto al termine per proporre il ricorso, Sez. 6- 5, n. 13358/2018, Luciotti, Rv. 648688-01, ha precisato che, in virtù della disciplina transitoria dettata dall’art. 2 del d.l. n. 168 del 2016, conv., con modif., dalla l. n. 197 del 2016, il termine cd. lungo di sei mesi previsto dall’art. 391-bis, comma 1, c.p.c., nella formulazione novellata dall’art. 1-bis del citato decreto, ai fini dell’impugnazione per revocazione delle decisioni della Corte di cassazione, decorrente dalla pubblicazione delle stesse, è applicabile ai ricorsi depositati successivamente, ovvero a quelli già proposti per i quali non è stata fissata udienza o adunanza in camera di consiglio, alla data di entrata in vigore della legge di conversione (ovvero il 30 ottobre 2016), mentre, sullo stesso argomento, Sez. 6-3, n. 21280/2018, D’Arrigo, Rv. 650490-01, ha per contro sostenuto che la riduzione del termine per la proposizione del ricorso per la correzione degli errori materiali o per la revocazione delle decisioni della Corte di cassazione, disposta in sede di conversione del d.l. n. 168 del 2016 - dalla l. n. 197 del 2016, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 29 ottobre 2016, si applica solamente ai provvedimenti pubblicati dopo l’entrata in vigore della legge di riforma, ossia il 30 ottobre 2016, in applicazione del principio generale posto dall’art. 12 delle preleggi, non potendosi ravvisare una specifica disciplina transitoria nell’art. 1-bis, comma 2, del citato d.l. n. 168 del 2016 il quale, disponendo che le novità legislative si applicano ai ricorsi “per i quali non è stata fissata udienza o adunanza in camera di consiglio”, intende riferirsi alle sole norme dettate per la trattazione dei ricorsi e non anche al termine per il deposito degli stessi.

Sotto un distinto profilo, Sez. L, n. 20469/2018, Ponterio, Rv. 650092-01, ha ritenuto che la sospensione del procedimento di legittimità, in pendenza del giudizio di revocazione, non possa essere disposta ai sensi dell’art. 295 c.p.c., non ricorrendone i presupposti, poiché la sospensione necessaria del processo, quando non sia imposta da una specifica disposizione di legge, presuppone l’esistenza di una relazione sia di pregiudizialità logica (nel senso che la definizione di una controversia rappresenti un momento ineliminabile del processo logico relativo alla decisione della causa dipendente) sia di pregiudizialità giuridica (nel senso che la controversia pregiudiziale sia diretta alla formazione di un giudicato che, in difetto di coordinamento tra i due procedimenti, possa porsi in conflitto con la decisione adottata nell’altro giudizio), e poiché nel giudizio di revocazione la fase rescindente ha per oggetto l’accertamento del denunciato vizio della sentenza impugnata e non l’esistenza o il contenuto del rapporto giuridico in ordine al quale la sentenza stessa abbia giudicato, mentre solo l’eventuale fase rescissoria viene a rinnovare il giudizio su tali punti.

La citata pronuncia ha poi proseguito sostenendo che il sistema delineato dal codice di procedura civile non è irrispettoso delle esigenze di tutela dei diritti di cui agli artt. 24 Cost. e 6 CEDU, posto che l’art. 398, comma 4, c.p.c. collega la facoltà di sospensione del giudizio di cassazione e del relativo termine per impugnare al mero requisito della “non manifesta infondatezza” della revocazione proposta.

Quanto poi all’eventuale avvenuta fissazione di un ricorso per revocazione in pubblica udienza, anziché in camera di consiglio, come prescritto dall’art. 391-bis c.p.c., Sez. L, n. 14400/2018, Riverso, Rv. 648995-01, ha ritenuto tale evenienza pienamente legittima, in quanto non comportante alcun pregiudizio ai diritti di azione e difesa delle parti, considerato che l’udienza pubblica rappresenta, anche nel procedimento davanti alla Corte di cassazione, lo strumento di massima garanzia di tali diritti, consentendo ai titolari di questi di esporre compiutamente i propri assunti. In tal caso, si è detto che, in caso di ammissibilità e fondatezza del ricorso, non occorre il rinvio all’udienza pubblica per la fase rescissoria, potendo nella stessa udienza decidersi il ricorso per revocazione ed eventualmente – in caso di suo accoglimento – anche il ricorso in precedenza deciso con la pronunzia oggetto di revocazione.

In relazione alle spese, Sez. 6-3, n. 23914/2018, Rossetti, Rv. 651362-01, ha precisato che il ricorso per revocazione, a differenza del procedimento di correzione materiale che ne è esente, secondo quanto previsto dalla Circolare del Ministero della Giustizia del 18 marzo 2003, non ha natura amministrativa ma giurisdizionale ed è pertanto soggetto al pagamento del contributo unificato (ed al cd. “raddoppio” in caso di soccombenza), mentre con specifico riferimento alla condanna ex art. 96 c.p.c., Sez. 1, n. 02040/2018, Nazzicone, Rv. 646863-01, ha ritenuto che integri la “colpa grave” – quale stato soggettivo che si concreta nel mancato doveroso impiego di quella diligenza che consenta di avvertire agevolmente l’ingiustizia della propria domanda – la proposizione di un ricorso per revocazione di una sentenza della Corte di cassazione ove si prospetti come vizio revocatorio un preteso error in iudicando commesso dalla Corte stessa, in presenza di una consolidata e costante giurisprudenza che esclude l’errore di giudizio dai vizi revocatori di cui all’art. 395, n. 4, c.p.c. per le sentenze di legittimità.

Con riguardo poi all’impugnabilità del provvedimento emesso in sede di revocazione, Sez. 1, n. 08592/2018, Fraulini, Rv. 648549-01, ha affermato che le sentenze e le ordinanze ex art. 380-bis c.p.c., emesse dalla Corte di cassazione nel giudizio di revocazione, non sono suscettibili di una nuova impugnazione per revocazione, essendo esauriti i mezzi di impugnazione ordinari, né contro le stesse può proporsi il ricorso straordinario ex art. 111 Cost., esperibile soltanto avverso un provvedimento di merito avente carattere decisorio e non altrimenti impugnabile, e che il principio di effettività del giudizio di cassazione, derivante dall’art. 111, comma 7, Cost., implica che tale rimedio non è utilizzabile quando il controllo di legittimità sull’oggetto del giudizio sia stato già svolto dalla Suprema Corte, dovendo prevalere, in tal caso, l’esigenza di assicurare che il processo giunga a conclusione in tempi ragionevoli, ex art. 111, comma 2, Cost.

In caso di giudicati contrastanti sulla medesima questione, Sez. 6-5, n. 13804/2018, Napolitano, Rv. 648694-01, ha chiarito che, al fine di stabilire quale dei due debba prevalere, occorre fare riferimento al criterio temporale, nel senso che il secondo giudicato prevale in ogni caso sul primo, purché la seconda sentenza contraria ad altra precedente non sia stata sottoposta a revocazione, impugnazione questa ammessa però esclusivamente ove la decisione oggetto della stessa non abbia pronunciato sulla relativa eccezione di giudicato (v., in termini analoghi, anche Sez. 3, n. 11754/2018, Vincenti, Rv. 648794-04, la quale, dopo avere chiarito che, nel giudizio di cassazione, il giudicato esterno – il cui accertamento ha carattere pubblicistico ed ha ad oggetto questioni assimilabili a quelle di diritto, anziché di fatto – è, al pari del giudicato interno, rilevabile d’ufficio, non solo qualora emerga da atti comunque prodotti nel giudizio di merito, ma anche nel caso in cui si sia formato successivamente alla sentenza impugnata, ha ritenuto che, in quest’ultima ipotesi, la sua utile deducibilità non è impedita dalla deduzione nella fase di merito di un precedente giudicato esterno su cui sia intervenuta pronuncia, negatoria della rilevanza dello stesso giudicato, impugnata in sede di legittimità e che, in caso di contrasto, il secondo giudicato prevale sul primo, sempre che la seconda sentenza non sia stata sottoposta a revocazione, reputando nella specie vincolante l’accertamento della validità della clausola claims made inserita in una delle polizze assicurative dedotte in giudizio, contenuto in una sentenza, resa sullo stesso rapporto e tra le medesime parti e passata in giudicato successivamente alla pronuncia impugnata con ricorso per cassazione, in quanto statuizione prevalente rispetto ad altri giudicati contrastanti perché ad essi successiva).

In applicazione di tale principio, è stata ritenuta la prevalenza del giudicato formatosi sull’illegittimità del diniego al riconoscimento di benefici fiscali di cui all’art. 26 del d.P.R. n. 601 del 1973 in favore del contribuente e la conseguente caducazione del diritto dell’Amministrazione alla riscossione delle somme ritenute dovute in virtù dei precedenti giudicati.

Quanto al processo tributario, Sez. 5, n. 12784/2018, Balsamo, Rv. 648664-01, discostandosi dal precedente orientamento (vedi Sez. 6-5, n. 22385/2017, Conti R.G., Rv. 645999-01, secondo cui il richiamo alla “non ulteriore impugnabilità” della sentenza sul punto dell’accertamento in fatto, non si riferisce all’inoppugnabilità derivante dalla scadenza dei termini per l’impugnazione, ma a quella derivante dalle preclusioni relative all’oggetto del giudizio), ha sostenuto che i ricorsi per revocazione proposti ai sensi dell’art. 64, comma 1, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 (nella formulazione, applicabile ratione temporis, anteriore all’entrata in vigore dell’art. 9, comma 1, lett. cc), del d.lgs. n. 156 del 2015), sono ammissibili soltanto nei confronti di sentenze che, involgendo accertamenti di fatto, non siano ulteriormente impugnabili sul punto controverso o non siano state impugnate nei termini con i mezzi ordinari di gravame, tra i quali rientra il ricorso per cassazione, mentre Sez. 6-5, n. 00327/2018, Luciotti, Rv. 647097-01, ha precisato che, in tema di impugnazioni nel processo tributario, ai sensi dell’art. 64, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992, nel testo modificato dall’art. 9, comma 1, lett. cc), del d.lgs. n. 156 del 2015, applicabile ai ricorsi depositati a decorrere dal 1° gennaio 2016, la revocazione cd. ordinaria è ammissibile anche se la stessa sentenza sia stata oggetto di ricorso per cassazione, in conformità, peraltro, all’art. 398, comma 4, c.p.c. (secondo cui la proposizione della revocazione non sospende il termine per proporre il ricorso per cassazione o il procedimento relativo), norma operante nel processo tributario, stante il generale rinvio al codice di procedura civile di cui all’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992.

5. Opposizione di terzo.

L’art. 404, comma 1, c.p.c. prevede che un terzo possa fare opposizione contro la sentenza pronunciata tra altre persone, passata in giudicato o comunque esecutiva, quando pregiudichi i suoi diritti e, al secondo comma, che gli aventi causa e i creditori di una delle parti possano fare opposizione alla sentenza, quando sia l’effetto di dolo o collusione a loro danno. Il relativo procedimento è disciplinato dagli artt. 405 e ss. c.p.c.

Con riguardo alla finalità del predetto rimedio, occorre considerare Sez. 3, n. 24539/2018, Olivieri, Rv. 651137-01, che, nel dichiarare la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 268, comma 2, c.p.c., in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost., nella parte in cui prevede che il terzo interventore possa partecipare ad un processo già iniziato rebus sic stantibus senza poter incidere sullo sviluppo delle fasi processuali, ha sostenuto che tale limite non costituisca ostacolo alla tutela effettiva del suo diritto (connesso per l’oggetto o per il titolo), essendogli consentito far valere le proprie ragioni, in condizione di piena eguaglianza con le altre parti, mediante la proposizione di un autonomo giudizio o dell’opposizione ex art. 404 c.p.c.

In proposito si è infatti evidenziato come la citata regola in tema di intervento del terzo soddisfi l’esigenza di bilanciare le ragioni di opportunità del simultaneus processus tra cause oggettivamente connesse (ossia quelle di evitare la formazione di giudicati anche soltanto logicamente contrastanti e di realizzare la concentrazione di cause analoghe per motivi di economia dei mezzi processuali, in funzione del principio di efficienza dell’esercizio della funzione giurisdizionale in quanto strumentale all’effettività della tutela dei diritti), e i principi, entrambi di rango costituzionale ex art. 111 Cost., del “regolare e spedito svolgimento del processo” (in funzione della pronuncia di merito regolativa del rapporto controverso) e del “processo equo”, sulla base dei quali le regole che disciplinano lo svolgimento del giudizio non soltanto non devono risolversi in un impedimento all’esercizio del diritto di difesa ma, specularmente, non devono neppure tradursi in ingiustificate asimmetrie, squilibrando i poteri processuali a vantaggio o detrimento di una soltanto delle parti.

In merito ai presupposti del rimedio in esame, Sez. 1, n. 06985/2018 Tricomi L., Rv. 648140-01, ha ritenuto inammissibile l’opposizione di terzo avverso la sentenza, passata in giudicato, di disconoscimento della paternità legittima, proposta da colui che sia indicato come vero padre, quando l’opponente deduca che l’esito (positivo) dell’azione di disconoscimento di paternità si riverbera sull’azione di riconoscimento della paternità intentata nei suoi confronti, in quanto il pregiudizio fatto valere è di mero fatto, laddove il rimedio contemplato dall’art. 404 c.p.c. presuppone che l’opponente azioni un diritto autonomo, la cui tutela sia però incompatibile con la situazione giuridica risultante dalla sentenza impugnata.

Con riguardo alla legittimazione all’azione, Sez. 2, n. 28277/2018, Gorjan, Rv. 651182-01, ha stabilito che il litisconsorte pretermesso nel procedimento camerale di rettificazione degli atti dello stato civile è legittimato a proporre opposizione di terzo ordinaria avverso la sentenza che lo conclude ovvero ad ottenere, in via di eccezione in altro procedimento, la declaratoria di inopponibilità a sé della pronunzia medesima, e ha dichiarato l’ammissibilità dell’eccezione di inopponibilità della sentenza di rettificazione dell’atto di morte del padre, proposta dalla figlia naturale del de cuius nel diverso procedimento fondato sulla petitio hereditatis relativamente ad un bene ereditario.

In tema, Sez. 2, n. 24234/2018, Giannaccari, Rv. 650646-01, ha affermato che, in un giudizio di opposizione di terzo in cui l’attore aveva chiesto che venisse accertato il proprio diritto di comproprietà, autonomo e incompatibile rispetto a quello -di proprietà esclusiva- vantato dal convenuto, fosse necessario integrare il contraddittorio verso coloro che sarebbero risultati comproprietari dell’immobile, ove il bene non fosse stato compreso nella compravendita invocata dall’opposto, sostenendo che, in tema di domanda di rivendica di un bene proposta da uno o più soggetti che assumono di esserne i comproprietari, la necessità dell’integrazione del contraddittorio dipenda dal comportamento del convenuto. Qualora egli si limiti a negare il diritto di comproprietà degli attori, non si richiede, infatti, la citazione in giudizio di altri soggetti, non essendo in discussione la comunione del bene, mentre, nel caso in cui, al contrario, eccepisca di essere il proprietario esclusivo del bene, la controversia ha come oggetto la comunione di esso, cioè l’esistenza del rapporto unico plurisoggettivo, e il contraddittorio deve svolgersi nei confronti di tutti coloro dei quali si prospetta la contitolarità (litisconsorzio necessario), affinché la sentenza possa conseguire un risultato utile che altrimenti, in caso di mancata partecipazione al giudizio di alcuni, non avrebbe, non essendo a loro opponibile.

Secondo Sez. 2, n. 21492/2018, Giannaccari, Rv. 650314-02, il successore a titolo particolare nel diritto controverso non è terzo, bensì l’effettivo titolare del diritto in contestazione, tanto da poter essere destinatario dell’impugnazione proposta dall’avversario del cedente e da poter resistere alla medesima senza che tale suo diritto possa essere condizionato dal suo mancato intervento nelle fasi pregresse del giudizio, così come è legittimato a proporre impugnazione avverso la sentenza, anche pronunciata nei confronti del dante causa non estromesso, assumendo la stessa posizione di quest’ultimo, mentre è esclusa l’esperibilità da parte sua dell’opposizione ordinaria di terzo ex art. 404, comma 1, c.p.c.

Con riguardo, infine, all’opposizione di terzo revocatoria, di cui al secondo comma dell’art. 404 c.p.c., Sez. 2, n. 21492/2018, Giannaccari, Rv. 650314-01, ha precisato che tale rimedio presuppone che la sentenza sia l’effetto di comportamenti dolosi o collusivi delle parti in danno del terzo, avente causa o creditore di una delle parti, e non è, pertanto, esperibile ove tali comportamenti siano stati posti in essere da una parte in danno dell’altra per la definizione, in suo favore, della lite.

  • giurisdizione civile
  • giurisprudenza
  • diritto dell'UE

APPROFONDIMENTO TEMATICO

LA FORMAZIONE PROGRESSIVA DEL GIUDICATO NELLA GIURISPRUDENZA DI LEGITTIMITÀ

(di Francesca Picardi )

Sommario

1 Premessa. - 2 Il coordinamento degli artt. 329, comma 2, e 336 c.p.c. - 3 Le impugnazioni e le preclusioni. - 4 Il giudicato ed il primato del diritto europeo.

1. Premessa.

Resta un problema di difficile soluzione quello della individuazione dei criteri che regolano la formazione progressiva del giudicato in virtù dell’impugnazione parziale e della conseguente acquiescenza tacita qualificata rispetto alle parti della sentenza non impugnate, dovendosi coordinare l’art. 329, comma 2, con il successivo art. 336 c.p.c., ai sensi del quale, da un lato, la riforma o la cassazione parziale ha effetto anche sulle parti della sentenza dipendenti dalla parte riformata o cassata e, dall’altro, la riforma o la cassazione estende i suoi effetti ai provvedimenti e agli atti dipendenti dalla sentenza riformata o cassata.

L’esigenza della ragionevole durata del processo, che ha ormai dignità costituzionale, ha indotto a dilatare la portata dell’istituto anche a scapito di altre regole processuali, come, ad esempio, quella della rilevabilità d’ufficio, in ogni stato e grado del processo, del difetto di giurisdizione. Così, come noto, Sez. U, n. 24883/2008, Merone, Rv. 604576-01, ha affermato che soltanto qualora sul punto non si sia formato il giudicato esplicito o implicito il giudice può rilevare d’ufficio il difetto di giurisdizione, operando la relativa preclusione anche in sede di legittimità, e la parte può proporre ricorso per cassazione ex art. 360 n. 1 c.p.c. avverso la sentenza di appello, precisando che il giudicato implicito sulla giurisdizione può formarsi tutte le volte che la causa sia stata decisa nel merito, con esclusione per le sole decisioni che non contengano statuizioni che implicano l’affermazione della giurisdizione, come nel caso in cui l’unico tema dibattuto sia stato quello relativo all’ammissibilità della domanda o quando dalla motivazione della sentenza risulti che l’evidenza di una soluzione abbia assorbito ogni altra valutazione (ad esempio, per manifesta infondatezza della pretesa) ed abbia indotto il giudice a decidere il merito per saltum, non rispettando la progressione logica stabilita dal legislatore per la trattazione delle questioni di rito rispetto a quelle di merito. Tale orientamento ha trovato ulteriore conferma nel corrente anno. Sez. U, n. 10265/2018, Manna F., Rv. 648268-01, ha ritenuto che il giudicato interno sulla giurisdizione si forma tutte le volte in cui il giudice di primo grado abbia pronunciato nel merito, affermando anche implicitamente la propria giurisdizione, e le parti abbiano prestato acquiescenza a tale statuizione, non impugnando la sentenza sotto questo profilo, sicché non può validamente prospettarsi l’insorgenza sopravvenuta di una questione di giurisdizione all’esito del giudizio di secondo grado, perché tale questione non dipende dall’esito della lite, ma da due invarianti primigenie, costituite dal petitum sostanziale della domanda e dal tipo di esercizio di potere giurisdizionale richiesto al giudice – nella specie, la S.C. ha ritenuto inammissibile il ricorso per cassazione nei confronti di una pronuncia del giudice contabile, ove la parte ricorrente aveva allegato che la questione sulla giurisdizione era insorta solo con la sentenza di secondo grado, ritenuta viziata da eccesso di potere giurisdizionale. Sez. U, n. 25937/2018, Giusti, Rv. 651342-01, ha chiarito che, in tema di azione di responsabilità nei confronti degli organi di gestione della RAI (nella specie, il direttore generale), ove la decisione di condanna in primo grado del giudice contabile sia stata appellata senza la proposizione di uno specifico motivo di gravame attinente alla giurisdizione, deve ritenersi formato il giudicato implicito sul punto, con conseguente inammissibilità dell’eccezione di difetto di giurisdizione formulata nel corso del giudizio di impugnazione, senza che rilevi, quale ius superveniens, l’introduzione dell’art. 49-bis nel d.lgs. n. 177 del 2005 ad opera dell’art. 3 della l. n. 220 del 2015, il quale prevede la soggezione degli organi di gestione e di controllo della RAI alle ordinarie azioni civili di responsabilità stabilite per le società di capitali, atteso che, ai fini della verifica della sussistenza dei presupposti fondanti la giurisdizione, rilevano le disposizioni vigenti al momento in cui è stata tenuta la condotta ipotizzata come illecita e che, per altro verso, il momento determinate la giurisdizione va fissato non solo con riguardo allo stato di fatto esistente al tempo della proposizione della domanda, ma anche con riferimento alla legge vigente in quel momento, senza che possano rilevare eventuali sopravvenienze in fatto o in diritto.

2. Il coordinamento degli artt. 329, comma 2, e 336 c.p.c.

Dal punto di vista sostanziale, occorre ricordare che il giudicato parziale si forma solo sulle parti della sentenza che, fondate su diversi presupposti, indipendenti da quelli relativi alle statuizioni impugnate, abbiano, rispetto a queste ultime, carattere autonomo ed individualità a sé stante. Si tende, invece, ad escludere la formazione del giudicato interno non solo relativamente alle parti della sentenza dipendenti da quella impugnata, a cui espressamente si riferisce l’art. 336, comma 1, c.p.c., ma anche alle premesse logiche della statuizione impugnata. Al riguardo va menzionata Sez. U, n. 9872/1994, Sgroi, Rv. 488759-01, che, in virtù dell’esclusione della formazione del giudicato interno relativamente alle parti della sentenza integranti premesse logiche di quella impugnata, ha negato che la pronunzia sulla legge applicabile al rapporto controverso – che è meramente strumentale all’attribuzione del bene della vita – possa costituire oggetto di acquiescenza e/o di giudicato autonomo rispetto a quella sul rapporto ed ha ammesso, anche in sede di legittimità, l’applicazione dello ius superveniens, costituito dal d.l. n. 333 del 1992, conv. in l. n. 359 del 1992, così pervenendo alla cassazione con rinvio della sentenza impugnata, anche se non era stata sollevata alcuna questione al riguardo ed era in discussione solo la concreta attribuzione del bene della vita.

Aiutano nell’individuazione dell’ambito applicativo dell’art. 329, comma 2, c.p.c.:

Sez. 3, n. 02379/2018, Iannello, Rv. 647932-01, secondo cui costituisce capo autonomo della sentenza – come tale suscettibile di formare oggetto di giudicato interno – solo quello che risolva una questione controversa tra le parti, caratterizzata da una propria individualità e una propria autonomia, sì da integrare, in astratto, gli estremi di un decisum affatto indipendente, ma non anche quello relativo ad affermazioni che costituiscano mera premessa logica della statuizione in concreto adottata (nel caso di specie, le censure respinte denunciava la violazione del giudicato asseritamente formatosi relativamente a mere circostanze di fatto quali, ad esempio, l’inidoneità della tubazione di smaltimento delle acque esistente nell’intercapedine condominiale);

Sez. 1, n. 22776/2018, Iofrida, Rv. 650903-01, per la quale il principio dettato dall’art. 336 c.p.c. trova applicazione rispetto ai capi non impugnati autonomamente, ma necessariamente collegati ad altro che sia stato impugnato, per cui, in tema di contratti bancari, la riforma o la cassazione della sentenza che abbia dichiarato la nullità del contratto di conto corrente per difetto di forma scritta e contenga l’espressa statuizione della non debenza di interessi e spese, impedisce il passaggio in giudicato della parte di sentenza relativa alla non debenza degli accessori, trattandosi di statuizione necessariamente collegata al capo impugnato e riformato o cassato;

Sez. L, n. 16853/2018, Torrice, Rv. 649361-01, e Sez. 6-L, n. 24783/2018, Cavallaro, Rv. 650927-01, secondo cui, ai fini della selezione delle questioni, di fatto o di diritto, suscettibili di devoluzione e, quindi, di giudicato interno se non censurate in appello, la locuzione giurisprudenziale “minima unità suscettibile di acquisire la stabilità del giudicato interno” individua la sequenza logica costituita dal fatto, dalla norma e dall’effetto giuridico, ossia la statuizione che affermi l’esistenza di un fatto sussumibile sotto una norma che ad esso ricolleghi un dato effetto giuridico, sicché, sebbene ciascun elemento di detta sequenza possa essere oggetto di singolo motivo di appello, nondimeno l’impugnazione motivata anche in ordine ad uno solo di essi riapre la cognizione sull’intera statuizione, perché, impedendo la formazione del giudicato interno, impone al giudice di verificare la norma applicabile e la sua corretta interpretazione – in virtù di tale principio la citata Sez. L, n. 16853/2018, ha ritenuto sufficiente la contestazione in ordine alla sussistenza dei presupposti di operatività dell’art. 19 del d.P.R. n. 509 del 1979, individuata dal giudice di primo grado come regolatrice della pretesa di rimborso delle spese legali sostenute nel processo penale, è stata ritenuta sufficiente a censurare la relativa statuizione, sulla quale, pertanto, non si era verificato alcun giudicato interno. In particolare, mediante tale pronuncia la S.C. ha confermato la decisione di merito che, pur in assenza di specifico gravame sul punto da parte dell’assicurato, in seguito all’appello dell’INPS in merito alla tardività dell’azione giudiziale, aveva riesaminato l’intera questione della decadenza in tema di benefici previdenziali ex art. 13 della l. n. 257 del 1992, ritenendola maturata per i soli ratei anteriori al triennio dalla proposizione della domanda amministrativa.

Per quanto concerne l’individuazione dei provvedimenti suscettibili di essere oggetto di acquiescenza parziale, occorre considerare Sez. L, n. 21720/2018, Patti, Rv. 650224-01, secondo cui, nel cd. rito Fornero, l’ordinanza conclusiva della fase sommaria, salvo il caso di omessa opposizione, è priva di idoneità al giudicato, atteso che il giudizio di primo grado è unico a composizione bifasica, con una prima fase ad istruttoria sommaria, diretta ad assicurare una più rapida tutela al lavoratore, e una seconda, a cognizione piena, che non è una revisio prioris instantiae, ma solo una prosecuzione del giudizio di primo grado in forma ordinaria, per cui non si forma il giudicato sulla parte di tale ordinanza che non abbia formato oggetto di opposizione.

3. Le impugnazioni e le preclusioni.

Va, dunque, esclusa la configurabilità dell’acquiescenza e del giudicato rispetto alle parti di sentenza non appellate, dipendenti da quelle impugnate. Afferma esplicitamente tale principio Sez. U, n. 21691/2016, Curzio, Rv. 641723-02, secondo cui il ricorso per cassazione per violazione di legge sopravvenuta retroattiva incontra il limite del giudicato, che, tuttavia, ove sia stato proposto appello, sebbene limitatamente al c.p. della sentenza concernente l’illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro, non è configurabile in ordine al c.p. concernente le conseguenze risarcitorie, legato al primo da un nesso di causalità imprescindibile, atteso che, in base al combinato disposto degli artt. 329, comma 2, e 336, comma 1, c.p.c., l’impugnazione nei confronti della parte principale della decisione impedisce la formazione del giudicato interno sulla parte da essa dipendente.

Tuttavia, dalla mancata formazione del giudicato non deriva l’indiscriminata proponibilità, nel successivo giudizio di legittimità, di censure relativamente alle statuizioni dipendenti da quelle espressamente impugnate. Le limitazioni esistenti vengono, però, giustificate non in virtù del giudicato, ma dalle preclusioni che maturano nell’ambito dei giudizi di impugnazione alla luce dell’attuale disciplina di diritto positivo, fondata sulla progressiva riduzione del thema decidendum, collegata, a sua volta, all’onere imposto alle parti dagli artt. 329, 342, 360, 346 c.p.c. di coltivare le questioni. Difatti, in conseguenza dell’onere di riproposizione in appello delle eccezioni non accolte in primo grado (nella specie, di prescrizione), che opera anche nel processo tributario, a norma dell’art. 56 del d.lgs. n. 546 del 1992, l’omessa specifica riproposizione in sede di gravame preclude l’esame del relativo motivo di ricorso per cassazione (Sez. 6-5, n. 12191/2018, Carbone, Rv. 648484-01).

Le preclusioni in questione condizionano, del resto, anche i poteri dell’organo giudicante, come si evince da Sez. 6-L, n. 25933/2018, Cavallaro, Rv. 650998-01, secondo cui, se una sentenza di condanna al risarcimento del danno viene impugnata dal soccombente soltanto nella parte in cui se ne afferma sussistere la responsabilità, incorre nel vizio di ultrapetizione il giudice del gravame il quale, senza modificare le statuizioni sulla responsabilità, modifichi la quantificazione del danno – nella specie la S.C. ha cassato senza rinvio la sentenza della corte d’appello che aveva riformato la statuizione avente ad oggetto l’entità del risarcimento del danno spettante al lavoratore per licenziamento illegittimo, nonostante il datore di lavoro non avesse, sul punto, formulato specifico motivo di gravame.

Relativamente alle preclusioni specifiche dei giudizi di impugnazione, resta una questione complessa l’individuazione della linea di confine tra l’onere di proposizione del ricorso o appello incidentale e quello di mera riproposizione di una domanda o eccezione non accolta.

Ad esempio, secondo Sez. 3, n. 21018/2018, De Stefano, Rv. 650186-01, in tema di risarcimento di danni cagionati da animali, l’adduzione indifferenziata, quale titolo di responsabilità del convenuto, sia della qualità di proprietario che di soggetto fruitore dell’animale comporta che l’accoglimento della domanda in primo grado in base alla seconda prospettazione, a meno di una esplicita esclusione della prima, non onera la parte danneggiata vittoriosa della proposizione di appello incidentale per avvalersi validamente, mediante la mera ma univoca riproposizione ai sensi dell’art. 346 c.p.c., di quella non accolta dal primo giudice; ne consegue che il giudice di appello non può esimersi, ove escluda la sussistenza del secondo titolo di responsabilità (la disponibilità dell’animale), dall’esaminare nel merito la sussistenza dell’altra (la proprietà o comproprietà), mentre Sez. 6-3, n. 06716/2018, Scoditti, Rv. 648490-01, ha ritenuto che la parte che sia rimasta soccombente su di una questione preliminare – qual è la qualificazione giuridica di un contratto rispetto all’accertamento dell’inadempimento dell’obbligo di adempiere, quando essa abbia condizionato l’impostazione e la definizione dell’indagine di merito – ha l’onere di proporre appello incidentale condizionato, pena il formarsi sulla stessa del giudicato interno, per effetto dell’acquiescenza, che concerne anche gli accertamenti che costituiscono il presupposto logico-giuridico della decisione – nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza con la quale la corte territoriale, in assenza di appello incidentale della parte vincitrice ma soccombente in merito alla questione preliminare, aveva qualificato l’azione quale domanda sulla base di contratto autonomo di garanzia, in luogo della differente qualificazione, in primo grado, come fideiussione.

Come precisato da Sez. L, n. 21264/2018, Cinque, Rv. 650208-01, in tema di impugnazioni, qualora un’eccezione di merito sia stata respinta in primo grado, in modo espresso o attraverso un’enunciazione indiretta che ne sottenda, chiaramente ed inequivocamente, la valutazione di infondatezza, la devoluzione al giudice d’appello della sua cognizione, da parte del convenuto rimasto vittorioso quanto all’esito finale della lite, esige la proposizione del gravame incidentale, non essendone, altrimenti, possibile il rilievo officioso ex art. 345, comma 2, c.p.c. (per il giudicato interno formatosi ai sensi dell’art. 329, comma 2, c.p.c.), né sufficiente la mera riproposizione, utilizzabile, invece, e da effettuarsi in modo espresso, ove quella eccezione non sia stata oggetto di alcun esame, diretto o indiretto, ad opera del giudice di prime cure, chiarendosi, altresì, che, in tal caso, la mancanza di detta riproposizione rende irrilevante in appello l’eccezione, se il potere di sua rilevazione è riservato solo alla parte, mentre, se competa anche al giudice, non ne impedisce a quest’ultimo l’esercizio ex art. 345, comma 2, c.p.c. Nello stesso senso si è espressa Sez. L, n. 28926/2018, Patti, Rv. 651392-02, secondo cui, nel giudizio di appello, ai sensi dell’art. 346 c.p.c., va affermata la necessità di riproposizione delle eccezioni che non siano state oggetto di alcun esame, diretto o indiretto del primo giudice, ma non anche di quelle rilevabili d’ufficio, sulle quali, ai sensi dell’art. 345 c.p.c., sussiste per il giudice un obbligo di decidere: in applicazione di tale principio, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che, in tema di impugnativa di licenziamento disciplinare illegittimo, aveva omesso di esaminare, perché ritenuti non riproposti, i profili attinenti all’inidoneità degli addebiti e alla non proporzionalità della sanzione.

Sez. 2, n. 20690/2018, Falaschi, Rv. 650005-01, ha chiarito che anche il vizio di omessa pronuncia su una domanda della parte vittoriosa in relazione ad altre domande deve costituire oggetto di un puntuale motivo di appello incidentale, con il quale si segnali l’errore commesso dal giudice di primo grado, sebbene la specificazione delle ragioni poste a fondamento del motivo possa esaurirsi nell’evidenziare la mancata adozione in sentenza di una decisione sulla domanda ritualmente proposta, dovendo reputarsi inammissibile la mera riproposizione in sede di gravame della relativa questione. La stessa soluzione è stata adottata da Sez. 6-2, n. 10406/2018, Falaschi, Rv. 648229-01, secondo cui, nel caso in cui il giudice di primo grado abbia omesso di pronunciarsi sulla domanda riconvenzionale, tale vizio deve essere portato alla cognizione del giudice di appello, già adito dalla controparte, anch’essa soccombente, necessariamente mediante appello incidentale, non essendo sufficiente, attesa la nuova configurazione dell’appello come revisio prioris instantiae, la mera riproposizione della domanda non esaminata in prime cure.

Nondimeno, la parte pienamente vittoriosa nel merito in primo grado, in ipotesi di gravame formulato dal soccombente, non ha l’onere di proporre appello incidentale per richiamare in discussione le proprie domande o eccezioni non accolte nella pronuncia, da intendersi come quelle che risultino superate o non esaminate perché assorbite; in tal caso la parte è soltanto tenuta a riproporle espressamente nel giudizio di appello o nel giudizio di cassazione in modo tale da manifestare la sua volontà di chiederne il riesame, al fine di evitare la presunzione di rinunzia derivante da un comportamento omissivo – così Sez. U, n. 13195/2018, Scarano, Rv. 648680-01, che ha cassato la sentenza di merito che aveva ritenuto implicitamente rigettata un’eccezione di prescrizione, da considerarsi, invece, semplicemente assorbita dalla pronuncia fondata sulla cd. ragione più liquida. Parimenti l’appellante che impugni la sentenza con la quale il giudice di primo grado non si sia espressamente pronunciato su una domanda dallo stesso formulata (nella specie, condanna al risarcimento del danno per inadempimento), avendola ritenuta assorbita dalla decisione su una questione pregiudiziale di rito (nella specie, rilievo del difetto di legittimazione attiva dell’attore), non ha l’onere di formulare uno specifico motivo di gravame sul merito della domanda medesima, ma soltanto quello di riproporla nel rispetto dell’art. 346 c.p.c. (Sez. 3, n. 13768/2018, Di Florio, Rv. 648713-01). Del resto, già Sez. 6-3, n. 02991/2018, Rossetti, Rv. 647992-01, aveva ribadito che, in caso di rigetto della domanda principale e conseguente omessa pronuncia sulla domanda di garanzia condizionata all’accoglimento, la devoluzione di quest’ultima al giudice investito dell’appello sulla domanda principale non richiede la proposizione di appello incidentale, essendo sufficiente la riproposizione della domanda ai sensi dell’art. 346 c.p.c.

Dal punto di vista della forma, occorre ricordare che, ad avviso di Sez. 2, n. 02091/2018, Falaschi, Rv. 647787-01, la parte vittoriosa in primo grado che abbia visto, però, respingere taluna delle sue tesi od eccezioni, ovvero alcuni dei suoi sistemi difensivi, pur non avendo l’onere di proporre appello incidentale per chiederne il riesame, è tenuta, comunque, a manifestare in maniera esplicita e precisa la propria volontà di riproporre la domanda o le eccezioni rigettate, onde superare la presunzione di rinuncia e, quindi, la decadenza di cui all’art. 346 c.p.c. In ottica complementare, secondo Sez. 1, n. 20520/2018, Iofrida, Rv. 650166-01, il generico richiamo al contenuto degli scritti difensivi di primo grado non è idoneo a manifestare la volontà della parte di sottoporre nuovamente al giudice del gravame tutte le domande non accolte in primo grado e, quindi, a ritenere assolto l’onere previsto dall’art. 346 c.p.c. di specifica riproposizione in appello di quelle domande, a pena di rinuncia alle stesse.

Deve, per completezza, essere poi segnalata Sez. 5, n. 01322/2018, Tedesco, Rv. 646918-01, per la quale, in tema di appello, la regola per cui le domande non esaminate perché ritenute assorbite, pur non potendo costituire oggetto di motivo d’appello, devono comunque essere riproposte ai sensi dell’art. 346 c.p.c., non trova applicazione in caso di impugnazione della decisione che ha giudicato inammissibile il ricorso di primo grado, la quale costituisce comunque manifestazione di volontà di proseguire nel giudizio, con implicita riproposizione della domanda principale, specialmente quando tale volontà sia anche chiaramente espressa con l’esplicito rinvio, nelle conclusioni dei motivi di appello, al ricorso introduttivo, non avendo altrimenti alcuna valida e concreta ragione la sola impugnativa della questione pregiudiziale di rito – nella specie, in applicazione del principio, la S.C. ha ritenuto che, in tema di processo tributario, il rinvio al ricorso introduttivo contenuto nell’appello è sufficiente ad investire il giudice del gravame della domanda di annullamento dell’atto impositivo, senza che sia necessaria la riproposizione anche dei motivi di censura, essendo potere-dovere del giudice enucleare, nell’ambito del ricorso originario, il contenuto ancora attuale e quello assorbito dalla precedente dichiarazione di inammissibilità.

In ordine al processo tributario, è stato ribadito che l’art. 56 del d.lgs. n. 546 del 1992, nel prevedere che le questioni e le eccezioni non accolte in primo grado, e non specificamente riproposte in appello, si intendono rinunciate, fa riferimento, come il corrispondente art. 346 c.p.c., all’appellato e non all’appellante, principale o incidentale che sia, in quanto l’onere dell’espressa riproposizione riguarda, nonostante l’impiego della generica espressione “non accolte”, non le domande o le eccezioni respinte in primo grado, bensì solo quelle su cui il giudice non abbia espressamente pronunciato (ad esempio, perché ritenute assorbite), non essendo ipotizzabile, in relazione alle domande o eccezioni espressamente respinte, la terza via – riproposizione/rinuncia – rappresentata dagli artt. 56 del detto d.lgs. e 346 c.p.c., rispetto all’unica alternativa possibile dell’impugnazione – principale o incidentale – o dell’acquiescenza, totale o parziale, con relativa formazione di giudicato interno (Sez. 5, n. 14534/2018, Greco, Rv. 649002-01).

4. Il giudicato ed il primato del diritto europeo.

Peraltro, non si può trascurare che il primato del diritto unionale sulle norme processuali interne può comportare un’attenuazione delle preclusioni processuali e dello stesso giudicato. La regolamentazione del processo resta, difatti, una prerogativa degli ordinamenti nazionali, ma il divieto, che incombe su tutti i giudici degli Stati membri, in quanto giudici dell’Unione Europea, di applicare il diritto nazionale in contrasto con il diritto europeo, ha delle rilevanti conseguenze nel nostro sistema processuale, in quanto può determinare un superamento del rigido sistema delle preclusioni processuali, che caratterizzano il giudizio civile e tributario. Pur non riscontrandosi nell’anno in esame pronunce riconducibili a tale problematica, va ricordata, in considerazione della sua importanza, Sez. 5, n. 26285/2010, Papa, Rv. 615753-01, la quale ha ritenuto che la commissione tributaria regionale non avrebbe potuto rilevare l’inammissibilità per tardiva costituzione dei gravami proposti dall’Agenzia delle Entrate, in questo modo impedendo il recupero di un aiuto di Stato reso obbligatorio in virtù di una decisione esecutiva della Commissione europea, in quanto erogato in contrasto con il diritto comunitario. La pronuncia precisa che, avendo la decisione impugnata invaso il campo di competenza della Commissione europea, procedendo ad una ricostruzione diversa da quella da quest’ultima effettuata in materia di aiuti di stato, la Commissione tributaria regionale non avrebbe mai potuto rilevare la formazione del giudicato dal momento che «il diritto comunitario osta all’applicazione di una disposizione del diritto nazionale come l’art. 2909 c.c. italiano, volta a sancire il principio dell’autorità della cosa giudicata, nei limiti in cui detta disposizione ostacoli il recupero di un aiuto di Stato la cui incompatibilità con il mercato comune sia stata accertata con decisione della Commissione europea divenuta definitiva» (così Corte di giustizia 18 giugno 2007, C-119/05).

Si è, tuttavia, anche recentemente ribadito che il diritto dell’Unione europea, così come costantemente interpretato dalla Corte di Giustizia, non impone al giudice nazionale di disapplicare le norme processuali interne da cui deriva l’autorità di cosa giudicata di una decisione, nemmeno quando ciò permetterebbe di porre rimedio ad una violazione del diritto comunitario da parte di tale decisione, salva l’ipotesi, assolutamente eccezionale, di discriminazione tra situazioni di diritto comunitario e situazioni di diritto interno, ovvero di pratica impossibilità o eccessiva difficoltà di esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento comunitario: così Sez. 5, n. 02046/2017, Sabato, Rv. 642529-01, che ha anche precisato che, qualora il ricorso per cassazione sia inammissibile (nella specie, in quanto redatto mediante integrale riproduzione di una serie di documenti, con brevissima narrazione riassuntiva e motivi non preceduti da alcuna esposizione sommaria dei fatti) e la sentenza impugnata sia conseguentemente passata in giudicato, non è consentito il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia. Del resto, il diritto comunitario, così come costantemente interpretato anche dalla Corte di giustizia dell’Unione Europea (sentenza 3 settembre 2009, C-2/08 e sentenza 16 marzo 2006, C-234/04) non impone al giudice nazionale di disapplicare le norme processuali interne da cui deriva l’autorità di cosa giudicata di una decisione, nemmeno quando ciò permetterebbe di porre rimedio ad una violazione del diritto comunitario da parte di tale decisione, salve le ipotesi, da ritenersi assolutamente eccezionali, in cui ricorrano discriminazioni tra situazioni di diritto comunitario e situazioni di diritto interno ovvero che sia reso in pratica impossibile o estremamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento comunitario. La Corte di giustizia ha sempre riconosciuto, al fine di garantire la stabilità del diritto e dei rapporti giuridici e buona amministrazione della giustizia, la necessità del giudicato, la cui operatività è stata negata solo in ipotesi eccezionali e, cioè, in una situazione caratterizzata dalla violazione della competenza esclusiva della Commissione delle Comunità europee in merito all’esame della compatibilità con il mercato comune di una misura nazionale di aiuti di Stato (Corte di giustizia, 18 luglio 2007, C-119/05) ed in un’altra caratterizzata da giudicato esterno idoneo, in forza di revirement giurisprudenziale, a precludere l’applicazione di norme comunitarie tese a reprimere pratiche abusive in tema di IVA (Corte di giustizia, 3 settembre 2009, C-2/08).

In ambito tributario, opera, comunque, il principio in base al quale le controversie in materia di IVA sono soggette a norme comunitarie imperative, la cui applicazione non può essere ostacolata dal carattere vincolante del giudicato nazionale, previsto dall’art. 2909 c.c., e dalla sua eventuale proiezione oltre il periodo di imposta, che ne costituisce specifico oggetto, atteso che, secondo quanto stabilito dalla sentenza della Corte di Giustizia CE 3 settembre 2009, in causa C-2/08, la certezza del diritto non può tradursi in una violazione dell’effettività del diritto euro-unitario (Sez. 5, n. 08855/2016, Scoditti, Rv. 639650-01).

  • competenza giurisdizionale
  • giurisdizione del lavoro

CAPITOLO XVII

IL PROCESSO DEL LAVORO E PREVIDENZIALE

(di Giovanni Armone )

Sommario

1 La giurisdizione nelle controversie di lavoro. - 1.1 Il rapporto d’impiego pubblico privatizzato. - 1.2 Personale in regime di diritto pubblico. - 1.3 Prestazioni previdenziali e assistenziali. - 1.4 Rapporti con la giurisdizione contabile. - 1.5 Rapporti di lavoro all’estero e giurisdizione. - 2 La competenza del giudice del lavoro. - 2.1 La competenza per materia. - 2.1.1 Controversie di lavoro e procedure concorsuali. - 2.1.2 Altre questioni di competenza. - 2.2 La competenza territoriale. - 3 La fase introduttiva del giudizio. - 3.1 La decadenza. - 3.2 Gli atti introduttivi. - 3.3 L’ampliamento del thema decidendum e probandum. - 4 Contenuti ed esecutorietà della sentenza ex art. 429 c.p.c. - 5 L’appello. - 6 Il ricorso per cassazione. - 7 Il cd. rito Fornero. - 8 Le controversie in materia di assistenza e previdenza. Questioni generali. - 8.1 L’opposizione a cartella esattoriale. - 8.2 L’accertamento tecnico preventivo ex art. 445-bis c.p.c.

1. La giurisdizione nelle controversie di lavoro.

1.1. Il rapporto d’impiego pubblico privatizzato.

La fase di costituzione del rapporto, nell’ambito del pubblico impiego privatizzato, continua ad alimentare questioni di giurisdizione.

Sez. U, n. 08985/2018, Tria, Rv. 647916-01, ha anzitutto ribadito il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui non rientrano tra le progressioni verticali – le cui controversie sono devolute al giudice amministrativo ex art. 63, comma 4, del d.lgs. n. 165 del 2001 – né le progressioni meramente economiche, né quelle che, in base alla contrattazione collettiva applicabile, comportano il conferimento di qualifiche più elevate, ma comprese nella stessa area, categoria o fascia di inquadramento e, come tali, caratterizzate, da profili professionali omogenei nei tratti fondamentali, diversificati sotto il profilo quantitativo piuttosto che qualitativo (fattispecie relativa alle selezioni per la progressione da un livello di inquadramento a quello immediatamente superiore nel profilo di tecnologo, bandite dall’Agenzia Spaziale Italiana).

Sull’incerto confine tra procedure concorsuali propriamente dette e forme alternative di reclutamento del personale, merita poi di essere citata Sez. U, n. 21599/2018, Doronzo, Rv. 650280-01, con cui la S.C. ha escluso che abbia natura concorsuale la procedura per il conferimento degli incarichi di specialista ambulatoriale interno in convenzione con le aziende del servizio sanitario nazionale, costituendo piuttosto espressione del potere negoziale della P.A. in veste di datore di lavoro: a fondamento della decisione, sta il fatto che l’art. 21 dell’Accordo nazionale per la disciplina dei rapporti con gli specialisti ambulatoriali, veterinari ed altre professionalità sanitarie prevede che la selezione dei candidati avvenga sulla base di parametri specifici e vincolanti, stabiliti dalla contrattazione collettiva, senza alcun bando e valutazione discrezionale dei titoli o atto di approvazione finale.

Un settore particolarmente vivo è poi quello delle procedure di mobilità.

Nell’ambito di una procedura di passaggio da un ente pubblico territoriale al Ministero della giustizia, Sez. U, n. 01417/2018, Tria, Rv. 647036-01, ha affermato la giurisdizione del giudice ordinario in una controversia sul diritto soggettivo conseguente al superamento della selezione. Analogamente, Sez. U, n. 32624/2018, D’Antonio, Rv. 651958-01 e Sez. U, n. 33213/2018, Tria, Rv. 651961-01, hanno escluso che possa dar luogo a una procedura concorsuale in senso proprio il passaggio di un dipendente da un Comune all’altro, anche quando tale passaggio sia governato da un bando per la copertura del posto, atteso che la procedura non è comunque finalizzata alla costituzione di un nuovo rapporto di lavoro.

Su un terreno contiguo, Sez. U, n. 08821/2018, D’Antonio, Rv. 647913-01, si è pronunciata per la giurisdizione del giudice ordinario in una controversia riguardante l’annullamento dell’ordinanza ministeriale sulle modalità attuative della l. n. 107 del 2015 e del c.c.n.l. integrativo concernente la mobilità del personale docente e ATA, trattandosi della fase esecutiva del rapporto di lavoro.

Le questioni di giurisdizione nel pubblico impiego privatizzato assumono poi connotati di particolare delicatezza quando vengano in rilievo atti di macro-organizzazione.

Anche nel corso del 2018, la S.C. ha ribadito che, determinandosi la giurisdizione in base al petitum sostanziale, la rilevanza degli atti di macro-organizzazione dipende dalla domanda; ove il giudizio verta su pretese attinenti al rapporto di lavoro e riguardi, dunque, posizioni di diritto soggettivo del lavoratore, in relazione alle quali i suddetti provvedimenti di autoregolamentazione costituiscono solamente atti presupposti, la giurisdizione è del giudice ordinario che ha il potere di disapplicarli; spetta, invece, alla giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo la controversia nella quale la contestazione investa direttamente il corretto esercizio del potere amministrativo mediante la deduzione della non conformità a legge degli atti organizzativi, attraverso i quali le amministrazioni pubbliche definiscono le linee fondamentali di organizzazione degli uffici e i modi di conferimento della titolarità degli stessi.

Va dunque affermata la giurisdizione amministrativa nel caso di contestazione del diritto di coprire i posti di dirigente ospedaliero attraverso lo scorrimento di graduatoria di concorso pubblico, anziché mediante le procedure di mobilità “preventiva” esterna (Sez. U, n. 26596/2018, Tria, Rv. 650877-01) ovvero di critica alla scelta manifestata e realizzata da un’Amministrazione regionale di ricercare all’esterno, piuttosto che nella sua dotazione organica, la professionalità idonea a ricoprire incarichi dirigenziali (Sez. U, n. 29080/2018, Doronzo, non massimata).

Viceversa, appartiene all’autorità giudiziaria ordinaria la controversia avente per oggetto la revoca di un incarico dirigenziale in conseguenza del trasferimento di determinate funzioni amministrative da un Ministero all’altro, sulla base di una riorganizzazione complessiva dell’assetto governativo (Sez. U, n. 32625/2018, D’Antonio, Rv. 651959-01).

Può tuttavia accadere che, pur in presenza di una contestazione delle modalità di esercizio del potere e dunque in una controversia in astratto da devolvere al giudice amministrativo, il difetto di giurisdizione non sia rilevato e la giurisdizione si radichi presso l’a.g.o., con formazione del giudicato interno sulla questione. In tal caso, Sez. L, n. 00743/2018, Di Paolantonio, Rv. 646800-01, ha precisato che il giudicato non incide in alcun modo sulle altre norme, processuali e sostanziali, applicabili alla controversia in ragione della natura della situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio; pertanto, nel caso in cui quest’ultima sia qualificabile come interesse legittimo, operano i limiti posti al controllo del giudice ordinario sugli atti amministrativi dall’art. 5 della l. n. 2248 del 1865, all. E, confermati, nella materia del lavoro pubblico, dall’art. 63, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001, con la conseguenza che resta esclusa la possibilità di disporre l’annullamento o la modifica degli atti di esercizio del potere non conformi a legge, la cui rimozione farebbe assumere alla situazione giuridica azionata la consistenza di diritto soggettivo; nella specie, la S.C., a conferma della sentenza di appello, ha affermato che il ricorrente, nel far valere il diritto all’assunzione, censurava la scelta, discrezionale, della P.A. di non procedere allo scorrimento della graduatoria.

La distinzione sin qui tracciata presuppone peraltro la corretta individuazione degli atti di macro-organizzazione. Così, la giurisdizione del giudice ordinario è stata riaffermata in una controversia relativa all’impugnazione degli elenchi delle cattedre pubblicate per incarichi di supplenza in posti di sostegno nella scuola, avendo Sez. U, n. 26802/2018, Bronzini, Rv. 651209-01, sottolineato che tali atti non costituiscono espressione di macro-organizzazione, poiché non definiscono le linee fondamentali di organizzazione degli uffici o i modi di conferimento della titolarità degli stessi, ma rientrano nell’ordinaria attività organizzativa posta in essere dall’amministrazione con la capacità ed i poteri del datore di lavoro privato.

1.2. Personale in regime di diritto pubblico.

Le controversie del personale non contrattualizzato del pubblico impiego, di cui all’art. 3 del d.lgs. n. 165 del 2001, sono devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo. Lo si ricava con chiarezza sia dall’art. 63, comma 4, del d.lgs. n. 165 del 2001, sia dall’art. 133, comma 1, lett. i), del d.lgs. n. 104 del 2010.

Proprio tale ultima disposizione ha tuttavia sollevato alcuni dubbi interpretativi con riferimento al personale di alcune autorità amministrative indipendenti, tra cui l’Autorità garante della concorrenza e del mercato, che è menzionata sia nell’art. 3 del testo unico sul pubblico impiego che nell’art. 133 c.p.a., ma alla lettera l), dove sono escluse dalla giurisdizione esclusiva del g.a. le controversie “inerenti ai rapporti di impiego privatizzati”.

Ci si è chiesti se tale previsione abbia riqualificato i rapporti di lavoro del personale delle autorità e li abbia ricondotti alla giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria.

A dare risposta a tale interrogativo è stata Sez. U, n. 16156/2018, D’Antonio, Rv. 649309-01, la quale ha escluso che l’art. 3 del d.lgs. 165 del 2001 abbia subito deroghe per effetto dell’art. 133 c.p.a., definita norma processuale, meramente ricognitiva. Sono perciò sottratti alla giurisdizione esclusiva i soli rapporti qualificabili di impiego privato, senza intaccare la deroga costituita dalla devoluzione al g.a. dei rapporti di lavoro non privatizzati, giustificata dall’autonomia di tutte le Autorità indipendenti, rispetto al potere esecutivo la quale si riflette anche sul momento conformativo del rapporto di lavoro.

Assai peculiare è poi il caso affrontato da Sez. L, n. 31489/2018, Marchese, Rv. 652011-01. La controversia riguardava una serie di contratti a termine conclusi da un lavoratore con l’ANAS nella fase di sua trasformazione da azienda autonoma a ente pubblico economico, che è regolata dal d.lgs. n. 143 del 1994; pur ribadendo il principio di infrazionabilità della giurisdizione per le fattispecie a cavaliere della data di discrimine tra giurisdizione amministrativa e ordinaria (che il d.lgs. fissa al 26 luglio 1995), la S.C. ha escluso che, per i contratti esauriti prima di tale data rispetto ai quali non si controverta della loro abusiva reiterazione, sussista la giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria.

1.3. Prestazioni previdenziali e assistenziali.

In materia di provvedimenti amministrativi che sorreggono l’erogazione di prestazioni previdenziali e assistenziali e di posizioni soggettive che vi si fronteggiano, la tendenza della S.C. è quella di riconoscere a tali posizioni consistenza di diritti soggettivi pieni e dunque la giurisdizione dell’a.g.o.

Nel corso del 2018 lo si è potuto constatare in due interessanti pronunce.

Sez. U, n. 21435/2018, Tria, Rv. 649980-01, ha affermato la sussistenza della giurisdizione ordinaria in una controversia avente ad oggetto la domanda con cui si contestava il mancato pagamento integrale, da parte dell’INPS, dell’indennità di mobilità in deroga, successivamente sia al decreto dirigenziale della Regione di autorizzazione della concessione del beneficio, con inclusione del lavoratore tra i relativi destinatari, sia al conseguente provvedimento dell’INPS. Sez. U, n. 08982/2018, D’Antonio, Rv. 647915-01, lo ha fatto a proposito dei benefici di cui all’art. 1, comma 565, della l. n. 266 del 2005 in favore delle vittime del dovere, affermando che in tali casi la P.A. è priva di discrezionalità, sia in ordine alla decisione di erogare, o meno, le provvidenze che alla misura di esse. Tale diritto non rientra nell’ambito di quelli inerenti al rapporto di lavoro subordinato dei dipendenti pubblici, potendo esso riguardare anche coloro che non abbiano con la P.A. un siffatto rapporto, ma abbiano in qualsiasi modo svolto un servizio, ed ha, inoltre, natura prevalentemente assistenziale, sicché la competenza a conoscerne è regolata dall’art. 442 c.p.c. e la giurisdizione è del giudice ordinario, quale giudice del lavoro e dell’assistenza sociale.

In altre due ipotesi, sempre relative alla materia previdenziale, si discuteva se la giurisdizione appartenesse al giudice ordinario o a quello tributario.

In entrambi i casi, la S.C. ha affermato la giurisdizione dell’a.g.o., sia pure con motivazioni diverse. Sez. U, n. 04236/2018, D’Antonio, Rv. 647314-01, lo ha fatto in una controversia relativa alla restituzione delle somme versate alla fondazione Opera Nazionale Assistenza Orfani Sanitari Italiana (ONAOSI) a titolo di contributo previdenziale obbligatorio, sulla base dell’argomento per cui tale contribuzione è dovuta, nell’ambito del rapporto tra l’iscritto e la fondazione, al fine di costituire a favore dei beneficiari specifiche prestazioni, mancando una funzione pubblica assistenziale e di finanziamento di spese pubbliche. Sez. U, n. 19523/2018, Manna A., Rv. 649757-01, chiamata a pronunciarsi in un caso relativo alla legittimità d’un avviso di addebito per contributi previdenziali IVS emesso dall’INPS (avviso che dal 1° gennaio 2011 ha sostituito, ex art. 30 del d.l. n. 78 del 2010, conv., con modif., dalla l n. 122 del 2010, la cartella di pagamento per i crediti di natura previdenziale di detto istituto), ha osservato che simili controversie hanno ad oggetto diritti ed obblighi attinenti ad un rapporto previdenziale nell’ambito del quale, in presenza di richiesta del versamento dei contributi mediante iscrizione a ruolo, il contribuente, ex art. 24 del d.lgs. n. 46 del 1999, può proporre opposizione innanzi al giudice del lavoro, a nulla rilevando che la pretesa creditoria dell’INPS sia nata da un accertamento tributario da parte dell’Agenzia delle Entrate.

Peculiare e assai complesso è poi il caso affrontato da Sez. U, n. 26595/2018, Manna A., Rv. 650876-01.

In una controversia concernente l’accertamento dell’obbligo di copertura contributiva di un rapporto di pubblico impiego per un periodo anteriore al 30 giugno 1998 (da devolvere di regola al giudice amministrativo), è stata affermata la giurisdizione del giudice ordinario, perché in un precedente giudizio tra le stesse parti, avente per oggetto il risarcimento del danno previdenziale per l’omesso versamento dei contributi relativi al medesimo periodo, si era formato il giudicato in sede di regolamento di giurisdizione. La funzione istituzionale di organo regolatore della giurisdizione e della competenza fa sì che alla S.C. spetti il potere di adottare decisioni, che sono dotate di efficacia esterna (cd. efficacia panprocessuale), al di là del petitum formale.

1.4. Rapporti con la giurisdizione contabile.

I confini tra giurisdizione ordinaria e contabile a proposito dei rapporti di lavoro, già tracciati da Sez. U, n. 15057/2017, De Stefano, Rv. 644579-01, hanno ricevuto sostanziale conferma nel 2018: dapprima da parte di Sez. U, n. 04237/2018, Tria, Rv. 647164-01, in una fattispecie relativa alla maggiorazione del trattamento pensionistico spettante ai dipendenti in quiescenza dell’Ente Acquedotti Siciliani (EAS) nella quale la materia del contendere aveva per oggetto l’applicazione di aumenti stipendiali destinati ad integrare detto trattamento; in séguito da parte di Sez. U, n. 29396/2018, Garri, Rv. 651317-01, la quale ha chiarito, in una controversia relativa allo svolgimento di mansioni superiori da parte di un pubblico dipendente e al conseguente trattamento economico, che la giurisdizione è del giudice ordinario quando la domanda, ancorché proposta in epoca successiva al collocamento in quiescenza, non sia finalizzata al mero ricalcolo della pensione, ma sia diretta all’accertamento del diritto alle maggiori spettanze retributive per effetto delle mansioni svolte e solo di riflesso alla riliquidazione del trattamento pensionistico, in conseguenza dell’obbligo di versamento da parte dell’Amministrazione di maggiori contributi.

Correlativamente, lo stesso discrimen ha condotto Sez. U, n. 24670/2018, Bronzini, Rv. 650869-01, ad affermare la giurisdizione della Corte dei conti, quale giudice della pensione, anziché quella del giudice amministrativo, in una controversia avente per oggetto la domanda di un ufficiale della marina militare, diretta a ottenere il computo nella base pensionistica dei maggiori emolumenti riconosciuti nel corso del rapporto di pubblico impiego, influendo la relativa cognizione unicamente sull’entità del trattamento pensionistico e non sul pregresso rapporto.

Particolare attenzione va posta nel caso di azioni di ripetizione.

Ove l’oggetto della domanda sia costituito da emolumenti indebitamente percepiti dal pubblico dipendente nel corso del rapporto di lavoro, la giurisdizione è del giudice ordinario, ancorché, al momento in cui l’azione viene esercitata, il dipendente sia già in quiescenza e il recupero sia dunque esercitato mediante trattenute mensili sulla pensione (Sez. U, n. 29284/2018, Greco, Rv. 651315-01).

Se però l’azione di ripetizione incide direttamente sulle modalità con cui è stato costruito il trattamento pensionistico, come accade allorché si pretenda la restituzione di contributi versati in eccesso, si ricade in un’ipotesi nella quale il rapporto pensionistico costituisce elemento identificativo del petitum sostanziale e, quindi, la giurisdizione appartiene in via esclusiva alla Corte dei conti ex artt. 13 e 62 del r.d. n. 1214 del 1934 (Sez. U, n. 26252/2018, Di Virgilio, Rv. 650873-01). Appartiene ugualmente alla giurisdizione della Corte dei conti la controversia in cui l’ex dipendente pubblico rivendichi dall’Inps somme a titolo di perequazione del trattamento pensionistico, a seguito della nota sentenza della Corte costituzionale n. 70 del 2015 (Sez. U, n. 33661/2018 e 33662/2018, Berrino, non massimate).

Va infine affermata la giurisdizione ordinaria nelle azioni con cui la P.A. miri al recupero di corrispettivi indebitamente percepiti dal lavoratore del pubblico impiego privatizzato, per incarichi non autorizzati. Come puntualizzato da Sez. U, n. 01415/2018, Manna A., Rv. 647008-01, anche dopo l’inserimento, nell’art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001, del comma 7-bis, l’obbligo di versamento previsto dal comma 7 dello stesso articolo ha natura sanzionatoria e prescinde dalla sussistenza di specifici profili di danno richiesti per la giurisdizione del giudice contabile (fattispecie relativa a una domanda riconvenzionale proposta dall’ente strumentale Croce Rossa Italiana nell’ambito del giudizio di impugnazione del licenziamento disciplinare promosso dal dipendente).

1.5. Rapporti di lavoro all’estero e giurisdizione.

In tema di rapporti di lavoro all’estero va segnalata Sez. U, n. 26597/2018, Manna A., Rv. 650878-01, avente per oggetto la domanda di conversione di una serie di contratti di lavoro a termine in un unico rapporto a tempo indeterminato, avanzata da un lavoratore di nazionalità tunisina assunto all’estero da un datore di lavoro domiciliato in Italia: la S.C. ha affermato la giurisdizione del giudice italiano, ai sensi dell’art. 3, comma 1, della l. n. 218 del 1995.

2. La competenza del giudice del lavoro.

2.1. La competenza per materia.

Nella determinazione della competenza per materia del giudice del lavoro, le questioni relative alla corretta individuazione delle controversie di cui all’art. 409 c.p.c. si intrecciano con quelle attinenti al rito applicabile.

In linea generale, rito e competenza attengono a sfere diverse. La natura della controversia di lavoro è idonea ad influire solo sul rito applicabile, ma non può di per sé portare a una declinatoria di competenza o all’attivazione degli strumenti impugnatori tipici di tale istituto. Coerente con tale premessa è Sez. L, n. 07199/2018, Amendola F., Rv. 647517-01: in un caso in cui il giudice di merito aveva ricondotto l’attività svolta da un avvocato, in favore di un istituto di credito del quale non era dipendente, nell’ambito dell’art. 409, n. 3, c.p.c., la S.C. ha statuito l’inammissibilità del motivo di ricorso con cui era stata eccepita l’incompetenza per materia del giudice adito, il quale abbia seguito un rito diverso da quello previsto dalla legge; l’errore del rito può rilevare solo quando si sia tradotto in uno specifico pregiudizio processuale (con l’ulteriore conseguenza dell’ultrattività del rito eventualmente erroneo, seguìto in primo grado, come ribadito da Sez. 6-3, n.  20705/2018, Scoditti, Rv. 650484-01).

Tuttavia, l’espressione “competenza” continua a essere utilizzata per descrivere le attribuzioni del giudice del lavoro, salvo poi valutare le conseguenze della sua eventuale carenza. Talvolta, tale carenza incide soltanto sulla distribuzione degli affari all’interno dello stesso ufficio giudiziario; in altri casi, in combinazione con diversi criteri di “vera” competenza, può portare alla declinatoria della competenza e allo spostamento del foro; infine, può accadere che l’esclusione dalle attribuzioni del giudice del lavoro dipenda da altri fattori e conduca alla dichiarazione di inammissibilità della domanda ad esso proposta, come accade quando opera la vis actractiva del giudice della procedura concorsuale.

Di seguito, sono riportate le pronunce più significative del 2018 sul tema delle attribuzioni per materia del giudice del lavoro, senza specifica attenzione alle conseguenze processuali derivanti da un’attribuzione eventualmente erronea.

2.1.1. Controversie di lavoro e procedure concorsuali.

Non si ferma l’opera di delimitazione dei rapporti tra giudice del lavoro e giudici delle procedure concorsuali latamente intese.

Di particolare rilievo è Sez. L, n. 07990/2018, Patti, Rv. 648263-01, con cui la S.C. ha chiarito che nel riparto di competenza tra giudice del lavoro e giudice del fallimento il discrimine va individuato nelle rispettive speciali prerogative, spettando al primo, quale giudice del rapporto, le controversie riguardanti lo status del lavoratore, in riferimento ai diritti di corretta instaurazione, vigenza e cessazione del rapporto, della sua qualificazione e qualità, volte ad ottenere pronunce di mero accertamento oppure costitutive, come quelle di annullamento del licenziamento e di reintegrazione nel posto di lavoro; al fine di garantire la parità tra i creditori, rientrano, viceversa, nella cognizione del giudice del fallimento, le controversie relative all’accertamento ed alla qualificazione dei diritti di credito dipendenti dal rapporto di lavoro in funzione della partecipazione al concorso e con effetti esclusivamente endoconcorsuali, ovvero destinate comunque ad incidere nella procedura concorsuale.

Sez. L, n. 01646/2018, Patti, Rv. 646369-01, ha coerentemente affermato la competenza del giudice del lavoro a proposito della domanda volta a far dichiarare la nullità, l’invalidità o l’inefficacia degli atti di cessione del ramo di azienda e la conseguente domanda di condanna al ripristino del rapporto di lavoro con la cedente, nonostante il fallimento della cessionaria.

Viceversa, le controversie relative a crediti derivanti da sgravi contributivi antecedenti alla procedura concorsuale appartengono – Sez. L, n. 10955/2018, Riverso, Rv. 648198-01 – alla competenza del tribunale fallimentare, ai sensi dell’art. 13 del d.lgs. n. 270 del 1999, poiché essi incidono sul patrimonio della società insolvente e dunque sulla relativa massa attiva.

2.1.2. Altre questioni di competenza.

Fuori dall’ambito appena esaminato, appaiono d’interesse alcune pronunce di portata più generale.

In una controversia in cui la non riconducibilità della domanda a un rapporto di lavoro ex art. 409 determinava in astratto anche un vero spostamento di competenza territoriale, Sez. 6-L, n. 00298/2018, Arienzo, Rv. 646183-01, ha però ribadito che il giudice non può rilevare d’ufficio la propria incompetenza per territorio semplice, trovando applicazione in tal caso l’art. 38, comma 1, c.p.c., per il quale detta incompetenza deve essere eccepita, a pena di decadenza, nella memoria difensiva tempestivamente depositata, e corredata dell’indicazione del giudice che la parte ritiene competente.

Sez. 6-L, n. 00410/2018, Fernandes, Rv. 646184-01, ha invece precisato che l’azione di risarcimento proposta dal datore di lavoro nei confronti del terzo, in conseguenza delle lesioni personali subite da un proprio dipendente, per il danno derivante dalla mancata utilizzazione delle prestazioni lavorative dello stesso, non rientra nella competenza del giudice del lavoro, in quanto il rapporto di lavoro tra l’attore ed il danneggiato non è l’oggetto della relativa controversia.

Ancor più restrittiva sulla competenza del giudice del lavoro è stata Sez. 3, n. 00907/2018, Ambrosi, Rv. 647127-01, con cui la S.C. ha affermato la cognizione del giudice competente secondo il generale criterio del valore la domanda di risarcimento dei danni proposta dai congiunti del lavoratore deceduto non jure hereditario, per far valere la responsabilità contrattuale del datore di lavoro nei confronti del loro dante causa, bensì jure proprio, quali soggetti che dalla morte del loro congiunto hanno subìto danno e, quindi, quali portatori di un autonomo diritto al risarcimento che ha la sua fonte nella responsabilità extracontrattuale di cui all’art. 2043 c.c.

In coerenza con il tradizionale insegnamento secondo cui, nella determinazione della competenza, assume valore decisivo la prospettazione delle parti, Sez. 6 - L, n. 17309/2018, Ghinoy, Rv. 649835-01, ha poi affermato che, allorché la responsabilità del direttore generale di una società per azioni sia stata prospettata sotto il profilo delle inadempienze poste in essere nello svolgimento delle sue mansioni, ossia nell’ambito del rapporto di lavoro, l’azione non va proposta alla sezione specializzata del Tribunale delle imprese, di cui al d.lgs. n. 168 del 2003, ma al giudice del lavoro, attesa l’espressa salvezza stabilita dall’art. 2396 c.c.

2.2. La competenza territoriale.

Nel processo del lavoro, la competenza territoriale ha regole particolari, non sempre di facile interpretazione.

Una delle questioni più delicate riguarda l’ipotesi delle cause di lavoro in rapporto di connessione cd. debole o impropria (art. 33 c.p.c.). L’impossibilità di far operare in tali casi l’art. 40, comma 3, c.p.c. potrebbe indurre a soluzioni poco efficienti, per il rischio di separazione di giudizi con molti tratti comuni. Da tempo tuttavia la giurisprudenza di legittimità afferma che, in alcuni casi di cumulo soggettivo, il nesso tra le diverse cause è così stretto da giustificare la deroga alla competenza per territorio.

Tale orientamento è stato ribadito nel corso del 2018 da Sez. 6-L, n. 12232/2018, Di Paola, Rv. 648405-01, la quale ha affermato che il lavoratore che, sul presupposto della non genuinità dell’appalto cui è stato adibito, agisca per la costituzione del rapporto di lavoro con l’effettivo utilizzatore delle prestazioni o, in subordine, con il subentrante nell’appalto, può adire il giudice territorialmente competente per la causa principale anche per la domanda subordinata, ricorrendo un’ipotesi di cumulo soggettivo di domande connesse per il titolo ai sensi dell’art. 33 c.p.c.

Anche la nozione di dipendenza dell’azienda, di cui all’art. 413, comma 2, c.p.c., genera dubbi, ma il S.C. negli ultimi tempi ne ha fornito una lettura ampia, includendovi l’abitazione privata del lavoratore, se dotata di strumenti di supporto dell’attività lavorativa, in una fattispecie relativa a un lavoratore che accedeva da casa a una piattaforma informatica per la gestione di richieste di noleggio di biciclette, con obbligo di reperibilità su ventiquattro ore e di comunicazione di qualsiasi spostamento e/o assenza (Sez. 6-L, n. 03154/2018, Di Paola, Rv. 646944-01), nonché il parcheggio di proprietà di terzi, in cui sono collocati i beni strumentali alla prestazione lavorativa, ove hanno inizio e fine le mansioni quotidianamente svolte dal lavoratore, in una fattispecie in cui il dipendente effettuava viaggi nazionali ed internazionali utilizzando mezzi aziendali (Sez. 6-L, n. 29344/2018, Di Paola, Rv. 646181-01). Alla base di tali interpretazioni estensive vi è la finalità legislativa di rendere più funzionale e celere il processo, radicando la cognizione nei luoghi normalmente vicini alla residenza del dipendente, nei quali sono più agevolmente reperibili gli elementi probatori necessari al giudizio.

Sul versante del pubblico impiego privatizzato, Sez. 6-L, n. 06458/2018, Cavallaro, Rv. 647501-01, ne ha fatto coerentemente derivare che il giudice competente dev’essere individuato in relazione al luogo in cui si trova la sede di effettivo servizio del dipendente (purché dotata di un minimo di struttura sufficiente per la sua operatività), e non al luogo in cui viene effettuata la gestione amministrativa del rapporto, anche nel caso in cui vi sia un’assegnazione temporanea da un ufficio all’altro della stessa amministrazione.

A proposito del rapporto di agenzia, Sez. 6-L, n. 28566/2018, Spena, Rv. 651738-01, ha chiarito che il foro esclusivo coincide con il domicilio dell’agente, da intendersi quale luogo ove il lavoratore parasubordinato ha stabilito il centro dei suoi affari, atteso che, per la prossimità al luogo in cui il rapporto ha avuto svolgimento, esso è tale da consentire un più agevole accertamento dei fatti; il medesimo criterio trova applicazione anche nell’ipotesi di controversia promossa successivamente alla cessazione del rapporto di agenzia, con la precisazione che, in tal caso, deve aversi riguardo all’ultimo domicilio dell’agente in costanza di rapporto.

Molto particolare è infine il caso in cui la P.A., al fine di ottenere la restituzione di retribuzioni percepite indebitamente, faccia ricorso all’ingiunzione fiscale: nel giudizio di opposizione, per la determinazione della competenza territoriale non opera la regola di cui all’art. 413 c.p.c., attinente ai rapporti di lavoro, bensì l’art. 3 del r.d. n. 639 del 1910, il quale, costituendo norma speciale dettata con specifico riguardo al procedimento esecutivo per la riscossione delle entrate patrimoniali dello Stato, prevale sulle norme generali in materia di competenza per territorio (Sez. 6-L, n. 28640/2018, Esposito, Rv. 651730-01).

3. La fase introduttiva del giudizio.

3.1. La decadenza.

L’art. 6, comma 2, della l. n. 604 del 1966, come modificato dall’art. 32, comma 1, della l. n. 183 del 2010, prevede un doppio termine di decadenza, il secondo dei quali dipendente dal compimento di un atto giudiziale. In dottrina e nella giurisprudenza di merito, ci si è chiesti quale tipo di atto sia idoneo ad assolvere a tale onere e in particolare se possa esserlo il ricorso ex art. 700 c.p.c.

Sez. L, n. 29429/2018, Ponterio, Rv. 651711-01, lo ha negato, sulla base della seguente ricostruzione: sono da considerare idonei a impedire la decadenza il deposito del ricorso giudiziale nella cancelleria del giudice del lavoro, nelle forme di cui all’art. 414 c.p.c. o dell’art. 1, comma 48, della l. n. 92 del 2012 ovvero, alternativamente, la comunicazione alla controparte della richiesta di conciliazione o arbitrato; non lo è invece il ricorso proposto ai sensi dell’art. 700 c.p.c., perché, da un lato, la proposizione di una domanda di provvedimento d’urgenza è incompatibile con il previo tentativo di conciliazione e, dall’altro lato, perché l’assenza, nel sistema della strumentalità attenuata di cui all’art. 669 octies, comma 6, c.p.c., di un termine entro il quale instaurare il giudizio di merito all’esito del procedimento cautelare vanificherebbe l’obiettivo della disciplina introdotta dalla l. n. 183 del 2010, che è quello di provocare in tempi ristretti una pronuncia di merito sulla legittimità del licenziamento.

3.2. Gli atti introduttivi.

Ricco, come di consueto, il dibattito intorno ai requisiti di validità degli atti introduttivi.

La S.C. sembra ispirarsi a una logica antiformalistica, evitando di imporre al ricorrente oneri eccessivi, quando il contenuto della pretesa sia chiaramente desumibile dalla lettura complessiva dell’atto e non abbia arrecato pregiudizi al diritto di difesa della controparte.

In una fattispecie in cui il giudice di merito aveva ritenuto la nullità del ricorso – volto all’accertamento della sussistenza tra le parti di un rapporto di lavoro subordinato – per mancata indicazione del c.c.n.l. applicabile e dell’inquadramento di riferimento, benché fossero state allegate le mansioni concretamente esercitate e le ulteriori circostanze in cui era stata resa la prestazione, Sez. L, n. 19009/2018, Negri Della Torre, Rv. 649932-01, ha cassato la decisione, affermando il principio per cui la nullità del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado per mancata determinazione dell’oggetto della domanda o per mancata esposizione delle ragioni, di fatto e di diritto, sulle quali essa si fonda ricorre allorché sia assolutamente impossibile l’individuazione dell’uno o dell’altro elemento attraverso l’esame complessivo dell’atto; solo in tal caso il convenuto non è posto in condizione di predisporre la propria difesa né il giudice di conoscere l’esatto oggetto del giudizio. Analoga la posizione espressa da Sez. L, n. 07199/2018, Amendola F., Rv. 647517-02.

Ancor meno rilevante è la collocazione topografica delle deduzioni all’interno dell’atto: Sez. L, n. 17991/2018, Riverso, Rv. 649811-01, ha recisamente escluso la necessità che l’allegazione di un fatto costitutivo, come di altra circostanza rilevante ai fini del decidere, venga formulata nel contenuto narrativo del ricorso o della memoria di costituzione del convenuto, potendo essere individuata attraverso un esame complessivo dell’atto, senza che occorra l’uso di formule sacramentali o solenni, desumendola anche dalle deduzioni istruttorie e dalle produzioni documentali, secondo una interpretazione riservata al giudice del merito.

Sez. L, n. 11631/2018, Boghetich, Rv. 648874-01, ha tuttavia precisato che, ove, proprio da un esame complessivo dell’atto non emerga una chiara omogeneità delle allegazioni rispetto alla domanda formulata nelle conclusioni, espressamente e senza condizioni circoscritte, il giudice non può d’ufficio, in contrasto con l’art. 112 c.p.c., pronunciarsi in difformità (si trattava di un caso in cui la sentenza di appello, confermata dalla Cassazione, aveva ritenuta nuova la domanda avente ad oggetto il licenziamento orale e la nullità dei contratti a termine in quanto la lavoratrice, pur avendo dedotto nel corpo del ricorso in primo grado un licenziamento orale e la stipula di più contratti a termine nulli con diverse società, aveva circoscritto il petitum al riconoscimento di un rapporto di lavoro subordinato nei confronti di un unico centro autonomo di interessi).

Da parte sua, Sez. L, n. 03968/2018, De Felice, Rv. 647444-01, ha chiarito il contenuto minimo che deve possedere un ricorso con cui si deduca la violazione del principio di uguaglianza e di non discriminazione; poiché per discriminazione si intende non una generica differenza di trattamento, bensì un trattamento diverso e deteriore rispetto a quello riservato ad altri appartenenti alla stessa classe di persone, non può essere accolto il motivo di ricorso che si limiti a richiamare principi ordinamentali e giurisprudenziali interni ed europei, senza procedere ad una deduzione comparativa del danno rispetto al trattamento, riservato ai pubblici dipendenti appartenenti alla stessa classe della lavoratrice asseritamente discriminata, basato su uno dei fattori di discriminazione solo astrattamente invocati.

Ove non sia raggiunto un grado minimo di specificità, la sanzione è la nullità, sanabile ai sensi dell’art. 164, comma 5, c.p.c., ma con l’avvertenza che tale sanatoria non vale a rimettere in termini il ricorrente rispetto ai mezzi di prova non indicati in ricorso; il convenuto può pertanto eccepire, in ogni tempo e in ogni grado del giudizio, il mancato rispetto da parte dell’attore delle norme sull’onere della prova (Sez. L, n. 07705/2018, Cinque, Rv. 647673-01).

Maggiormente rigorosa appare la giurisprudenza di legittimità quando si tratta di valutare la posizione del convenuto, al quale è imposto un onere di contestazione più gravoso. Si tratta di una tendenza espressa da Sez. 6-L, n. 16970/2018, Ghinoy, Rv. 649635-01, che, in relazione a domanda ex art. 2087 c.c., ha giudicato generica la contestazione del datore di lavoro pubblico in ordine alle modalità usuranti dell’attività lavorativa, limitandosi ad una generica negazione solo di talune circostanze fattuali.

Inoltre, Sez. L, n. 06183/2018, Manna A., Rv. 647534-01, ha chiarito che l’assolvimento di tale onere da parte del convenuto non ribalta sull’attore l’onere di “contestare l’altrui contestazione”, dal momento che egli ha già esposto la propria posizione a riguardo.

3.3. L’ampliamento del thema decidendum e probandum.

La rigidità del rito del lavoro in punto di modifica degli atti introduttivi si attenua, come ricorda Sez. L, n. 06597/2018, Negri Della Torre, Rv. 648181-01, quando l’esigenza di procedervi dipenda dalle allegazioni in fatto contenute nella memoria di costituzione avversaria (e, pertanto, dei fatti di cui la controparte in tal modo dimostri di avere già conoscenza); in tal caso non si attua alcuna pregiudizievole estensione del thema probandum, rimanendo pienamente integra la parità delle parti nel processo (nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di appello che aveva ritenuto inammissibile mutatio libelli il nuovo motivo di impugnazione del licenziamento per violazione della l. n. 223 del 1991, svolto dal ricorrente alla luce delle allegazioni contenute nella memoria difensiva del datore di lavoro, in risposta all’originaria domanda di accertamento dell’illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo).

Analogamente, Sez. L, n. 21675/2018, Bellè, Rv. 650250-01, ha fissato i limiti entro i quali è possibile la negazione dei fatti precedentemente non contestati: vi deve essere stato un mutamento delle circostanze che hanno comportato la mancata contestazione dei fatti costitutivi del diritto (nella specie, revoca della certificazione INAIL di esposizione ultradecennale all’amianto vincolante per l’INPS) e la modifica dell’atteggiamento difensivo deve avvenire con modalità coerenti con la dinamica processuale del rito del lavoro, per cui, come le sopravvenienze devono essere allegate nella prima occasione processuale utile, anche la conseguente contestazione dovrà essere tempestivamente operata nella prima difesa.

Con riguardo all’allargamento del thema probandum, Sez. L, n. 01916/2018, Amendola F., Rv. 647241-01, ha avuto cura di precisare che la valutazione, ex art. 420, comma 5, c.p.c., in ordine alla rilevanza dei mezzi di prova, ed al fatto che la loro proposizione tempestiva non fosse altrimenti possibile – o perché la necessità della richiesta sia sorta per effetto di fatti addotti a difesa dalla controparte o a sostegno di domande riconvenzionali, ovvero in relazione ad una inaspettata contestazione sollevata dall’avversario su di una circostanza che poteva ragionevolmente considerarsi pacifica, o anche a seguito della contestazione della prova documentale allegata ab origine, ritenuta dalla parte istante quale prova idonea a sostenere i fatti dedotti in giudizio – appartiene all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito e non è preclusa ove si siano tenute precedenti udienze in cui non è stata svolta alcuna attività perché le parti avevano concordemente richiesto rinvii finalizzati al componimento della lite.

Una particolare forma di allargamento del thema probandum è poi quella delineata dall’art. 425 c.p.c., a proposito delle informazioni e osservazioni, che possono essere fornite in giudizio dall’associazione sindacale indicata dalla parte. Sez. L, n. 30137/2018, Marotta, Rv. 651643-02, ha però chiarito che dette informazioni sono inidonee, anche in considerazione del loro carattere unilaterale, ad identificare la comune intenzione delle parti stipulanti il contratto collettivo, rilevante ai sensi dell’art. 1362 c.c., ma, salva l’ipotesi in cui siano suffragate da elementi aventi un’intrinseca valenza probatoria, hanno la funzione di fornire chiarimenti ed elementi di valutazione riguardo agli elementi di prova già disponibili, rientrando, in tali limiti, nella nozione di materiale istruttorio valutabile, con la motivazione richiesta dalle circostanze, dal giudice.

Sul terreno della prova, vanno poi rammentate Sez. L, n. 04076/2018, Negri Della Torre, Rv. 647446-01, e Sez. L, n. 16150/2018, Patti, Rv. 649482-01, con cui è stata ribadita l’estensione applicativa dell’art. 432 c.p.c., norma su cui possono sorgere equivoci: a proposito del lavoro straordinario, la Corte ha chiarito che il lavoratore che ne chieda la remunerazione ha l’onere di dimostrare di aver lavorato oltre l’orario normale di lavoro, senza che l’assenza di tale prova possa esser supplita dalla valutazione equitativa del giudice ex art. 432, utilizzabile solo in riferimento alla quantificazione del compenso.

4. Contenuti ed esecutorietà della sentenza ex art. 429 c.p.c.

Con riferimento alla sentenza che chiude il processo del lavoro di primo grado, vanno anzitutto segnalate, per il 2018, alcune pronunce di legittimità in tema di applicabilità ufficiosa della rivalutazione monetaria e degli interessi ai sensi dell’art. 429, comma 3, c.p.c.,

Residuavano dubbi circa il fatto che gli interessi legali e la rivalutazione monetaria si calcolassero anche sull’indennità riconosciuta ex art. 32, comma 5, della l. n. 183 del 2010, dubbi alimentati dalla sua funzione risarcitoria e dalla sua onnicomprensività, come espressamente dichiarata dalla legge.

Sez. L, n. 05953/2018, Ponterio, Rv. 647514-01, e Sez. L, n. 26234/2018, Marotta, Rv. 651195-01, hanno dissipato ogni incertezza, sottolineando che tale indennità rientra tra i crediti di lavoro, nell’ampia accezione riferibile a tutti i crediti connessi al rapporto di lavoro e non soltanto a quelli aventi natura strettamente retributiva. La prima delle due sentenze ha anche precisato che tale calcolo deve avvenire indipendentemente dall’epoca di entrata in vigore della legge, posto che il comma 7 del citato art. 32 ne ha sancito l’applicabilità anche ai giudizi pendenti.

Di rilievo è anche Sez. L, n. 20765/2018, Di Paolantonio, Rv. 650306-05, con cui la S.C. ha tracciato i limiti operativi della nota sentenza della Corte costituzionale del 2 novembre 2000, n. 459, con la quale è stato affermato che il divieto di cumulo di rivalutazione monetaria ed interessi non vale per i crediti retributivi dei dipendenti privati: ebbene, tale regola non può trovare applicazione per i dipendenti privati di enti pubblici non economici (nella specie, lettori di lingua dell’Università degli studi), per i quali ricorrono, ancorché i rapporti di lavoro risultino privatizzati, le “ragioni di contenimento della spesa pubblica” che sono alla base della disciplina differenziata secondo la ratio decidendi prospettata dal giudice delle leggi.

Sul versante dell’esecutorietà, è stato invece ribadito da Sez. L, n. 07576/2018, Garri, Rv. 647658-01, che una sentenza di condanna del datore di lavoro alla prestazione di un facere infungibile, pur idonea a produrre i suoi normali effetti mediante l’eventuale esecuzione volontaria dell’obbligato e a costituire inoltre il presupposto per ulteriori conseguenze giuridiche derivanti dall’inosservanza dell’ordine in essa contenuto (tra cui il risarcimento del danno), non rende il lavoratore titolare dell’azione esecutiva (fattispecie relativa all’accertamento del diritto del lavoratore a una qualifica superiore e condanna del datore di lavoro all’attribuzione di detta qualifica).

5. L’appello.

Rispetto alla fase introduttiva del giudizio d’appello, meritano anzitutto segnalazione alcune pronunce della S.C. sulla nota questione delle conseguenze, in appello, dell’omessa notificazione del ricorso e del decreto di fissazione di udienza.

Sez. L, n. 06159/2018, Boghetich, Rv. 647533-01, ha ribadito l’indirizzo, ormai granitico, per il quale, nelle controversie di lavoro in grado d’appello, la mancata notificazione del ricorso e del decreto di fissazione dell’udienza determina l’improcedibilità dell’impugnazione, senza possibilità per il giudice di assegnare un termine perentorio per provvedervi, in quanto tale omissione lede la legittima aspettativa della controparte al consolidamento, entro un termine predefinito e ragionevolmente breve, di un provvedimento giudiziario già emesso, a differenza di quanto avviene nel processo del lavoro di primo grado, dove la notifica del ricorso assolve unicamente la funzione di consentire l’instaurazione del contraddittorio.

A tale problema se ne ricollega però un secondo, relativo alla mancata comunicazione del decreto di fissazione di udienza da parte della cancelleria, che, dopo la sentenza n. 15 del 1977 con cui la Corte costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità in parte qua dell’art. 435 c.p.c., impedisce il decorso del termine per la notifica.

Ebbene, Sez. L, n. 14839/2018, Blasutto, Rv. 648999-01, ha affermato che la mancata comunicazione rileva purché l’appellante partecipi all’udienza di discussione e chieda di essere rimesso in termini ai sensi dell’art. 153 c.p.c.; dal canto suo, Sez. L, n. 19083/2018, Di Paolantonio, Rv. 649967-01, ne ha affermata l’irrilevanza quando dagli atti processuali risulti in modo certo che l’appellante abbia, comunque, acquisito conoscenza della data fissata per la discussione della causa (nella specie, la prova della conoscenza era stata desunta dal deposito di un’istanza di anticipazione di udienza).

A conseguenze assai meno gravi porta invece la violazione del termine non minore di venticinque giorni che, a norma dell’art. 435, comma 3, c.p.c., deve intercorrere tra la data di notifica dell’atto di appello e quella dell’udienza di discussione. Secondo Sez. L, n. 09404/2018, Bellè, Rv. 647776-01, e Sez. 6-L, n. 22166/2018, Esposito, Rv. 650502-01, l’impugnazione non è in tal caso improcedibile, ma affetta da nullità, sanabile ex tunc senza che sia necessario giustificare il ritardo, essendo possibile avvalersi della spontanea costituzione dell’appellato o della rinnovazione disposta dal giudice ex art. 291 c.p.c.

All’appellato resta peraltro la possibilità di chiedere, all’atto della costituzione, un rinvio dell’udienza per usufruire dell’intero periodo previsto dalla legge ai fini di un’adeguata difesa (Sez. L, n. 09735/2018, Marotta, Rv. 648185-01).

La sanzione dell’improcedibilità ritorna invece in caso di mancata costituzione di entrambe le parti all’udienza di discussione (Sez. L, n. 17368/2018, Calafiore, Rv. 649595-01): qui il giudice di appello deve dichiarare d’ufficio l’improcedibilità – che non è nella disponibilità delle parti – senza poter rinviare la causa ad altra udienza, ai sensi dell’art. 348, comma 2, c.p.c., poiché detto rinvio presuppone la regolare vocatio in ius e nelle ipotesi in cui l’appellante non provi che la notifica del ricorso e del decreto di fissazione sia avvenuta, non è consentito al giudice assegnare un termine per la rinotifica, dovendosi tutelare l’aspettativa della controparte al giudicato.

Sul contraddittorio in appello si è soffermata Sez. L, n. 09232/2018, Garri, Rv. 648638-01, affermando che l’appellante in via principale non ha un diritto soggettivo al deposito di note scritte per controdedurre alle difese dell’appellato, neppure nel caso in cui sia proposto appello incidentale, essendo tale possibilità prevista, in suo favore, solo in via indiretta, a norma del combinato disposto dell’ultimo comma dell’art. 437 c.p.c. e del comma 2 dell’art. 429 dello stesso codice, come effetto dell’esercizio da parte del giudice del potere discrezionale di consentire alle parti, se necessario, il deposito di note difensive.

Si ricollega alla fase introduttiva l’annoso problema delle conseguenze della riforma in appello della sentenza di primo grado favorevole al lavoratore.

Al riguardo, Sez. L, n. 02292/2018, Cinque, Rv. 647305-01, ha precisato che la richiesta di restituzione di somme corrisposte in esecuzione della sentenza di primo grado, anche nel rito del lavoro, consegue alla richiesta di modifica della decisione impugnata e, non costituendo domanda nuova, è ammissibile in appello, se formulata, a pena di decadenza, con l’atto di gravame, ove a tale momento la sentenza sia stata già eseguita, ovvero nel corso del giudizio, qualora l’esecuzione sia avvenuta dopo la proposizione dell’impugnazione; la sua proposizione è, invece, preclusa nelle note finali, trattandosi di atto di carattere meramente illustrativo, senza che rilevi che la decisione di primo grado sia stata messa in esecuzione tra l’udienza di conclusioni e la scadenza del termine per il deposito delle relative comparse.

Quanto alla ricostituzione del rapporto di lavoro operata in esecuzione di sentenza poi riformata o cassata, Sez. L, n. 28918/2018, Amendola F., Rv. 651703-01, ha rammentato che essa viene travolta da detta statuizione, in applicazione dell’effetto espansivo esterno di cui all’art. 336, comma 2, c.p.c., senza che sia necessario un atto di recesso datoriale, sicché va rigettato perché infondato il ricorso teso a conseguire il ripristino del rapporto di lavoro.

In ordine ai nova e ai poteri officiosi del giudice d’appello, Sez. L, n. 07694/2018, Marchese, Rv. 647667-01 e Sez. L, n. 11994/2018, Lorito, Rv. 648910-01, hanno concordemente affermato che nel rito del lavoro occorre contemperare il principio dispositivo con quello di verità, sicché, ai sensi dell’art. 437, comma 2, c.p.c., il deposito in appello di documenti non prodotti in prime cure non è oggetto di preclusione assoluta ed il giudice può ammettere, anche d’ufficio, detti documenti ove li ritenga indispensabili ai fini della decisione, in quanto idonei a superare l’incertezza dei fatti costitutivi dei diritti in contestazione.

La condizione perché tali poteri siano esercitabili è però (Sez. L, n. 11845/2018, Riverso, Rv. 648821-01) che i documenti siano allegati nell’atto introduttivo, seppure implicitamente, e che sussistano significative “piste probatorie” emergenti dai mezzi istruttori, intese come complessivo materiale probatorio, anche documentale, correttamente acquisito agli atti del giudizio di primo grado. Sulla stessa falsariga, Sez. L, n. 09226/2018, Calafiore, Rv. 648637-01, ha affermato che, pur configurandosi l’eccezione di interruzione della prescrizione come eccezione in senso lato e non in senso stretto, che può essere rilevata anche d’ufficio da parte del giudice del gravame, non sussiste la facoltà di produrre per la prima volta in appello i documenti attestanti l’avvenuta interruzione, ove una qualche prova in merito non sia stata acquisita, o il fatto interruttivo non sia stato allegato in primo grado, posto che il potere officioso di acquisizione documentale è destinato solo a vincere i dubbi residuati dalle risultanze di primo grado; ne consegue che le prove del fatto interruttivo non acquisite in primo grado devono ritenersi ammissibili in appello, ai sensi dell’art. 437 c.p.c., solo ove rispondano al duplice requisito dell’indispensabilità e della finalizzazione alla dimostrazione di fatti già allegati e discussi fra le parti in prime cure. Agli stessi fini, Sez. L, n. 05708/2018, Cavallaro, Rv. 647523-01, ha escluso che possa costituire principio di prova, ai fini della dimostrazione del mancato superamento del limite reddituale e delle altre circostanze rilevanti ai fini del possesso dei requisiti previsti per l’accesso alle prestazioni previdenziali e assistenziali, l’autocertificazione rilevante nei rapporti amministrativi.

In materia pensionistica, Sez. L, n. 19274/2018, Bellè, Rv. 649936-01, ha escluso che possa essere considerata tardiva in appello la prospettazione da parte dell’INPS del corretto criterio giuridico di ricalcolo della pensione di reversibilità, attenendo ai fatti costitutivi del diritto rivendicato e non costituendo quindi eccezione in senso stretto.

A proposito dei poteri officiosi nel giudizio di rinvio, occorre considerare Sez. 6-L, n. 17196/2018, Cavallaro, Rv. 649748-01, secondo la quale il pagamento costituisce eccezione in senso lato e dunque il giudice del rinvio deve rilevarlo anche d’ufficio quando esso risulti dalla documentazione ritualmente prodotta; la produzione di nuovi documenti, in deroga al divieto ex art. 437 c.p.c., può avvenire anche in appello (e quindi nel giudizio di rinvio), se essi siano ritenuti dal giudice indispensabili ai fini della decisione della causa, perché dotati di un grado di decisività e certezza tali che, da soli considerati, conducano ad un esito necessario della controversia.

6. Il ricorso per cassazione.

In tema di ricorso per cassazione, merita anzitutto di essere menzionata Sez. L, n. 31155/2018, Cinque, Rv. 651923-01, con cui la S.C. ha ribadito la sindacabilità per violazione di legge della coerenza e pertinenza dell’operazione logica di sussunzione della fattispecie concreta nella clausola elastica della giusta causa, da compiersi secondo standard conformi ai valori dell’ordinamento, che trovino conferma nella realtà sociale (nella specie, la S.C. ha ritenuto apodittica ed apparente la motivazione della Corte territoriale che aveva escluso la gravità della minaccia di morte profferita nei confronti di un superiore peraltro al di fuori di una conversazione animata).

La riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. ha poi ridotto i casi in cui le carenze motivazionali possono essere dedotte davanti alla Corte di cassazione.

Tra questi vi è però senz’altro il caso della sentenza che non rispetti il “minimo costituzionale” richiesto per la motivazione, come affermato da Sez. L, n. 26018/2018, Curcio, Rv. 651047-01, nel caso di una decisione di merito che aveva affermato la legittimità del contratto di somministrazione di lavoro sulla base di asserzioni apodittiche, che non consentano di apprezzare la effettività della causale dedotta a fondamento dell’assunzione e la sua correlazione con la situazione lavorativa del dipendente.

Peculiare è poi il caso affrontato da Sez. L, n. 21972/2018, Di Paolantonio, Rv. 650530-01: il ricorso straordinario per cassazione era stato proposto avverso la decisione emanata dall’organo preposto a decidere le controversie inerenti al rapporto di lavoro del personale della Camera dei deputati; la S.C. ne ha dichiarata l’inammissibilità, sul presupposto che tali controversie esulano dalla cognizione del giudice ordinario in forza dell’art. 12 del Regolamento della Camera del 18 febbraio 1971, norma che si sottrae al sindacato di costituzionalità e non è suscettibile di disapplicazione da parte del giudice ordinario; le decisioni rese in sede di autodichia sono sottratte al controllo giurisdizionale del giudice ordinario e tale sottrazione è un riflesso dell’autonomia di cui godono gli organi costituzionali.

Diversa natura ha poi il ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 420-bis c.p.c. contro la sentenza che decida una questione concernente l’efficacia, la validità o l’interpretazione delle clausole di un contratto o accordo collettivo nazionale. In tal caso, il ricorso determina una sospensione di diritto del processo, cui si applica la disciplina dell’art. 297 c.p.c., con la conseguenza che il processo deve essere riassunto entro il termine perentorio di sei mesi (nel testo ratione temporis applicabile, previgente all’entrata in vigore della l. n. 69 del 2009), decorrente dalla data di pubblicazione della sentenza della S.C. che decide sulla questione pregiudiziale (Sez. L, n. 07696/2018, A. Manna, Rv. 647670-01).

7. Il cd. rito Fornero.

Continuano gli approfondimenti della giurisprudenza di legittimità sul cd. rito Fornero, introdotto dall’art. 1, commi 48 ss., l. n. 92 del 2012.

Anzitutto, l’oggetto di tale rito speciale è stato delimitato con esattezza da Sez. L, n. 21959/2018, Marchese, Rv. 650494-01: esso comprende tutte le questioni che il giudice deve affrontare e risolvere nel percorso per giungere alla decisione di merito sulla domanda concernente la legittimità o meno del licenziamento, tra cui l’accertamento della natura giuridica del rapporto di lavoro, cosi come l’individuazione del soggetto che si assume essere datore di lavoro.

Sez. L, n. 07586/2018, Torrice, Rv. 647664-01, ha aggiunto, in una fattispecie particolare di pubblico impiego privatizzato, che nel caso di impugnativa di licenziamento secondo il rito di cui all’art. 1, comma 48, della l. n. 92 del 2012, ove sia accertata la nullità del rapporto di impiego pubblico perché costituito, in violazione dell’art. 97 Cost., al di fuori della procedura del pubblico concorso e sia perciò rigettata la domanda diretta a ottenere i provvedimenti restitutori, reali ed economici, previsti dall’art. 18 st. lav., è comunque ammissibile la domanda volta al pagamento della retribuzione dovuta ai sensi dell’art. 2126 c.c. nell’arco temporale compreso tra il provvedimento espulsivo e la sua esecuzione, in quanto fondata sugli identici fatti costitutivi dedotti nel processo e dunque compatibile con le esigenze del rito speciale.

Di fondamentale importanza è poi la risoluzione del controverso problema dell’ammissibilità dell’azione datoriale di accertamento della legittimità del licenziamento nelle forme di cui all’art. 1, comma 48 e ss., della l. n. 92 del 2012.

Nel 2014, le Sezioni Unite erano state chiamate a pronunciarsi in sede di regolamento di competenza e non avevano pertanto definito la questione (Sez. U, n. 17443/2014, Di Cerbo, Rv. 63260501), che è stata invece analizzata funditus da Sez. L, n. 30433/2018, Marchese, Rv. 651712-01 e 651712-02.

La sentenza prende le mosse da un duplice dato: l’obbligatorietà del rito Fornero per le controversie concernenti l’impugnazione dei licenziamenti e la chiara volontà del legislatore del 2012 di assicurare alle controversie in materia di impugnazione dei licenziamenti una corsia preferenziale di trattazione, con il dichiarato fine, di interesse generale, di pervenire alla celere definizione di una situazione sostanziale di forte impatto sociale ed economico, che attiene a diritti primari dell’individuo. Da questa premessa consegue che il rito Fornero è sottratto alla disponibilità delle parti, alle quali deve essere riconosciuta la medesima tutela giurisdizionale, in base al principio costituzionale di equivalenza nell’attribuzione dei mezzi processuali esperibili.

La S.C. intravede una continuità con l’orientamento anteriore, che aveva sempre ravvisato un interesse del datore di lavoro ad agire per l’accertamento della legittimità del licenziamento, senza che oggi, su tale interesse, possa incidere la nuova fattispecie decadenziale di cui all’art. 6 della l. n. 604 del 1966 (come modificato dall’art. 32 della l. n. 183 del 2010). Negare l’assoggettamento al rito Fornero dell’azione datoriale significherebbe ammettere, in relazione al medesimo licenziamento, la possibilità di due giudizi – l’uno, intrapreso dalla parte datoriale, con rito ordinario di lavoro e l’altro, dal lavoratore, secondo il rito Fornero –, soluzione contraria ai principi di unitarietà della giurisdizione e di economia delle risorse giudiziarie. Coerentemente, la Corte ritiene ammissibile anche una domanda riconvenzionale (vale a dire di accertamento dell’illegittimità licenziamento, con applicazione di tutela ex art. 18 cit.) da parte del lavoratore nel giudizio intrapreso, ai sensi dell’art. 1, co. 48, legge nr. 92 del 2012, dal datore di lavoro per l’accertamento della legittimità del recesso. La necessità di una sola pronuncia sulla medesima vicenda porta la Corte a superare il fatto che l’art. 1 della l. n. 92 del 2012 preveda la possibilità di una domanda riconvenzionale solo nella fase di opposizione.

Passando all’esame degli snodi procedimentali del rito Fornero, va anzitutto rammentato che la fase sommaria si chiude con un’ordinanza che, a determinati fini, come ad esempio in vista dell’esercizio del diritto di opzione per l’indennità sostitutiva di cui all’art. 18, comma 3, st. lav., come modificato dall’art. 1, comma 42, della l. n. 92 del 2012, è equipollente alla sentenza. Lo ha affermato Sez. L, n. 16024/2018, Amendola F., Rv. 649355-01, sulla base del rilievo che detta ordinanza è un provvedimento immediatamente esecutivo e suscettibile di passaggio in giudicato in assenza di opposizione, avuto anche riguardo alla finalità dell’istituto del diritto di opzione, quale strumento di semplificazione dei rapporti in funzione transattiva della controversia.

Nel 2018 si è poi consolidato l’orientamento della giurisprudenza di legittimità, inaugurato da Sez. U, n. 19674/2014, Amoroso, Rv. 63260001, secondo cui il procedimento di primo grado è unico a composizione bifasica: una prima fase ad istruttoria sommaria, diretta ad assicurare una più rapida tutela al lavoratore, e una seconda, a cognizione piena, che non è una revisio prioris instantiae, ma solo una prosecuzione del giudizio di primo grado in forma ordinaria (Sez. L, n. 21720/2018, Patti, Rv. 650224-01; Sez. L, n. 30443/2018, Amendola F., Rv. 651680-01).

L’unicità del procedimento in primo grado ha molteplici implicazioni.

La prima è che, fuori dei casi di omessa opposizione, l’ordinanza conclusiva della fase sommaria è priva di idoneità al giudicato, cosicché, in caso di opposizione, non si forma il giudicato sulla parte di tale ordinanza che non ne abbia formato oggetto (Sez. L, n. 21720/2018, Patti, Rv. 650224-01 e v. anche Sez. L, n. 21156/2018, Marchese, non massimata).

Quanto all’opposizione, il suo statuto è stato compiutamente definito dalle citate Sez. L, n. 30443/2018, Amendola F., e Sez. L, n. 30433/2018, Marchese.

La prima delle due pronunce ha anzitutto ribadito – sulla scia di quello che può essere ormai definito diritto vivente (Sez. U, n. 04308/2017, Tria, Rv. 643112-01), consacrato anche dalla Corte costituzionale (sentenza n. 78 del 2015) – che l’opposizione non ha natura impugnatoria.

Pertanto, alla fase a cognizione piena non possono applicarsi neanche in via analogica le regole previste per le impugnazioni incidentali, anche tardive. L’opposizione produce la riespansione del giudizio, per cui il giudice di primo grado è chiamato a esaminare l’oggetto dell’originaria impugnativa di licenziamento nella pienezza della cognizione integrale, secondo le scansioni procedimentali proprie dell’ordinario giudizio di primo grado, ex art. 413 ss. c.p.c. Non sono immaginabili preclusioni derivanti dall’esaurimento della fase sommaria, se è vero che l’opposizione consente perfino l’ampliamento dell’oggetto del contendere rispetto a quella fase, attraverso la possibilità di chiamare terzi in causa e di proporre domande riconvenzionali. A tale ultimo proposito, la S.C. ha peraltro osservato che la possibilità per l’opposto di proporre domande riconvenzionali non riguarda la riproposizione di questioni sulle quali le parti abbiano già dedotto nella prima fase: pertanto non danno luogo a riconvenzionali in senso proprio né la reiterazione del lavoratore opposto della domanda di tutela reintegratoria proposta e disattesa nella fase sommaria, né la riproposizione, da parte del datore di lavoro evocato in giudizio dal lavoratore che chieda una maggior tutela, dei motivi che lo avevano spinto nella prima fase a chiedere il rigetto dell’impugnativa.

La seconda pronuncia si è invece occupata – come illustrato – della fase di opposizione dall’angolo visuale dell’azione promossa dal datore di lavoro, cui si contrapponga una domanda riconvenzionale del lavoratore. Secondo la Corte, qualora, all’esito della fase sommaria, la domanda riconvenzionale del lavoratore venga accolta solo parzialmente, l’instaurazione dell’eventuale giudizio di opposizione ad opera del datore di lavoro consentirà al lavoratore, con la memoria difensiva, di riproporre la (parte della) domanda non accolta, e ciò anche nella ipotesi in cui per esso sia spirato il termine per proporre un autonomo atto di opposizione.

L’unicità del procedimento di primo grado implica inoltre che deve considerarsi valida la notifica del ricorso in opposizione fatta al procuratore domiciliatario, dato che la fase oppositiva a cognizione piena, per quanto autonoma ed eventuale, interviene in un contesto in cui è già instaurato il contraddittorio tra le parti, che legittimamente sono rappresentate dai procuratori costituiti. (Sez. L, n. 25086/2018, Leone, Rv. 650729-01).

Detta unicità non può tuttavia risolversi a detrimento delle parti, con la conseguenza che, nel giudizio di opposizione, il giudice non può sanzionare in rito con l’improcedibilità l’omessa notifica del ricorso, sul mero rilievo della mancata comparizione delle parti all’udienza prefissata, senza aver prima verificato d’ufficio che l’opponente abbia avuto effettiva conoscenza del decreto di fissazione dell’udienza, da notificarsi, unitamente all’opposizione, nei termini di cui al comma 52 dell’art. 1 della l. n. 92 del 2012. In forza di un’interpretazione adeguatrice ai valori costituzionali e convenzionali, fondata sul generale criterio per il quale ove sia prescritto un termine per il compimento di una certa attività processuale, la cui omissione si risolva in un pregiudizio della situazione tutelata, deve essere assicurata la conoscibilità dell’atto che funge da presupposto condizionante l’onere notificatorio, sebbene la suddetta norma non preveda esplicitamente la comunicazione, va evitato che la sua omissione si traduca in una preclusione alla prosecuzione del giudizio, con pregiudizio irreversibile dell’opponente (Sez. L, n. 09142/2018, Amendola F., Rv. 648636-01).

La specialità del rito si riflette anche sul momento conclusivo della fase a cognizione piena, giacché il comma 57 dell’art. 1 cit., prevedendo unicamente che la sentenza, completa di motivazione, debba essere depositata in cancelleria entro dieci giorni dall’udienza di discussione, esclude l’obbligo di lettura del dispositivo in udienza (Sez. L, n. 20749/2018, Blasutto, Rv. 650126-01).

L’eventuale lettura in udienza della sentenza, oltre che non obbligatoria, è anche inidonea a far decorrere il termine breve di trenta giorni, previsto dall’art. 1, comma 58, della l. n. 92 del 2012, per la proposizione del reclamo alla corte di appello: la specialità del rito rispetto alla disciplina ordinaria e la necessità di interpretare restrittivamente la norma in tema di decadenza dall’impugnazione, non consentono di individuare un momento di decorrenza della stessa diverso da quello indicato dalla legge (Sez. 6-L, n. 06059/2018, Esposito, Rv. 647388-02).

Detto termine breve decorre inoltre dalla semplice comunicazione del provvedimento, trattandosi di previsione speciale, su cui non incide la modifica dell’art. 133, comma 2, c.p.c., nella parte in cui stabilisce che “la comunicazione non è idonea a far decorrere i termini per le impugnazioni di cui all’art. 325 c.p.c”, in quanto attinente al regime generale della comunicazione dei provvedimenti da parte della cancelleria. (Sez. L, n. 19862/2018, Amendola F., Rv. 650041-01).

Sempre in tema di impugnazioni, Sez. L, 19089/2018, Arienzo, Rv. 649968-01, ha precisato che le esigenze acceleratorie che giustificano la speciale disciplina sull’introduzione e sullo svolgimento del procedimento di primo grado secondo il cd. rito Fornero non riguardano il reclamo ed il ricorso per cassazione, il cui regime processuale deve, quindi, integrarsi con la disciplina generale; pertanto, avverso la sentenza conclusiva del procedimento di reclamo ai sensi dell’art. 1, comma 60, della l. n. 92 del 2012, è ammesso il ricorso incidentale ex art. 371 c.p.c. nei termini di cui all’art. 334 c.p.c.

Coerente con tale premessa è Sez. L, n. 31987/2018, Garri, Rv. 652014-01, che è tornata sul tema, assai dibattuto, della rilevabilità officiosa dei vizi del licenziamento, che integrino un’ipotesi di nullità e che tuttavia non siano stati fatti valere con l’atto introduttivo del giudizio di primo grado; nel ribadire l’orientamento negativo prevalente (su cui v. Sez. L, n. 07687/2017, Di Paolantonio, Rv. 643577-01), la S.C. ha osservato che la deduzione di tali nuovi vizi va incontro alla preclusione del mutamento in secondo grado degli elementi materiali del fatto costitutivo della pretesa, con ciò confermandosi che il reclamo del cd. rito Fornero è una vera e propria impugnazione.

8. Le controversie in materia di assistenza e previdenza. Questioni generali.

Nell’ambito del processo previdenziale, non si sono registrati, nel corso del 2018, significativi mutamenti giurisprudenziali. Ci si limiterà dunque a segnalare alcune pronunce di portata generale.

Sez. L, n. 21163/2018, Riverso, Rv. 650113-01, ha precisato che la controversia di natura previdenziale non è soggetta alla sospensione dei termini feriali anche se trattata dal giudice fallimentare con il relativo rito.

In sede di interpretazione dell’art. 443 c.p.c., Sez. L, n. 27384/2018, Bellè, Rv. 650990-01, ha ribadito che la domanda amministrativa, in quanto elemento costitutivo del diritto, deve precedere ed è condizione di ammissibilità di quella giudiziaria (in materia di rivalutazione contributiva per esposizione all’amianto).

Sez. 6-L, n. 17964/2018, Esposito, Rv. 649868-01, ha affermato che, nelle controversie previdenziali, non può essere dichiarata la inammissibilità della domanda per mancata indicazione del valore della prestazione dedotta in giudizio, atteso che l’art. 152 disp. att. c.p.c., per la parte che prevedeva a pena di inammissibilità la necessaria specificazione del relativo importo nell’atto introduttivo, è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo con sentenza della Corte cost. n. 241 del 2017.

Sez. L, n. 19020/2018, Calafiore, Rv. 649881-01, ha seguito la scia di Sez. U, n. 10454/2015, Nobile, Rv. 635277-01, ribadendo che le prestazioni di assistenza sociale hanno natura alimentare, perché fondate esclusivamente sullo stato di bisogno del beneficiario, a differenza delle prestazioni previdenziali, che presuppongono un rapporto assicurativo e hanno più ampia funzione di tutela. Pertanto, nelle controversie relative a prestazioni assistenziali, il valore della causa ai fini della liquidazione delle spese di giudizio si stabilisce con il criterio previsto dall’art. 13, comma 1, c.p.c. per le cause relative alle prestazioni alimentari, sicché, se il titolo è controverso, il valore si determina in base all’ammontare delle somme dovute per due anni.

8.1. L’opposizione a cartella esattoriale.

In tema di opposizione a cartella esattoriale, va anzitutto segnalata una pronuncia con cui sono stati estesi al procedimento di cui all’art. 24 del d.lgs. n. 46 del 1999 gli approdi cui è pervenuta la giurisprudenza degli ultimi anni in tema di improcedibilità e overruling processuale.

È nota la regola, di matrice giurisprudenziale, elaborata nel 2008 e successivamente affinata: qualora la legge assegni un termine per la notificazione del ricorso e del decreto e la parte non vi provveda, il ricorso è improcedibile, anche se il termine non sia qualificato come perentorio, ogni volta che ci si trovi nell’ambito di un procedimento nel quale l’omessa notificazione può ledere la legittima aspettativa della controparte al consolidamento, entro un termine predefinito e ragionevolmente breve, di un provvedimento giudiziario già emesso.

Nella materia lavoristica, ciò vale per l’appello (v. da ultimo la citata Sez. L, n. 06159/2018, Boghetich, Rv. 647533-01), per l’opposizione a decreto ingiuntivo (v. la capostipite Sez. U, n. 20604/2008, Vidiri, Rv. 604555-01), per l’opposizione del cd. rito Fornero (su cui v. Sez. L, n. 17325/2016, Ghinoy, Rv. 640877-01).

Sez. L, n. 07833/2018, Marchese, Rv. 648040-01, ha esteso tale regola all’opposizione a cartella esattoriale, ma ha altresì precisato che anche in tale ipotesi trovano applicazione i contemperamenti delineati dalla giurisprudenza post-2008 sul cd. prospective overruling (v. in particolare Sez. L, n. 07755/2012, Stile, Rv. 623141-01 e Sez. L, n. 05962/2013, Tria, Rv. 625840-01): deve dunque escludersi l’operatività della preclusione o della decadenza derivante dal mutamento di giurisprudenza nei confronti della parte che abbia confidato incolpevolmente (e cioè non oltre il momento di oggettiva conoscibilità dell’arresto nomofilattico correttivo, da verificarsi in concreto) nella consolidata precedente interpretazione della regola stessa, la quale, sebbene soltanto sul piano fattuale, aveva comunque creato l’apparenza di una regola conforme alla legge del tempo.

Sulla tempestività dell’opposizione, non può dirsi nuovo il principio affermato da Sez. 6-L, n. 19226/2018, Esposito, Rv. 649889-01, secondo cui l’accertamento di tale tempestività involge la verifica di un presupposto processuale quale la proponibilità della domanda e va, pertanto, eseguito di ufficio, a prescindere dalla sollecitazione delle parti; ma la pronuncia merita segnalazione per la precisazione che il giudice è tenuto a verificarla anche mediante l’acquisizione di elementi aliunde, in applicazione degli artt. 421 e 437 c.p.c., con conseguente nullità della sentenza in ipotesi di mancato rilievo officioso dell’eventuale carenza di detto presupposto.

La S.C. ha poi precisato i termini di applicazione al giudizio di opposizione a cartella di altre regole processuali generali.

Sugli oneri di allegazione e contestazione, Sez. 6-L, n. 27274/2018, Spena, Rv. 651293-01, ha puntualizzato che l’onere della prova gravante a carico dell’INPS, parte attrice in senso sostanziale, resta condizionato dalla preventiva allegazione nell’atto di opposizione del debitore, parte attrice in senso formale ma convenuto in senso sostanziale, di specifiche ragioni di contestazione dei fatti costitutivi della pretesa impositiva, ai sensi dell’art. 416 c.p.c., con conseguente rigetto dell’opposizione nell’ipotesi di contestazioni generiche e di stile. A proposito dei rilievi mossi dall’opponente ai conteggi dell’obbligazione contributiva, depositati dall’INPS in primo grado ed all’atto della costituzione in appello, è invece d’interesse Sez. L, n. 05949/2018, Cavallaro, Rv. 647513-01.

Sull’eccezione di interruzione della prescrizione, Sez. 6-L, n. 14755/2018, Cavallaro, Rv. 649249-01, ha affermato che l’eccezione di interruzione della prescrizione, diversamente da quella di prescrizione, si configura come eccezione in senso lato sicché può essere rilevata anche d’ufficio dal giudice, in qualsiasi stato e grado del processo, purché sulla base delle allegazioni e di prove ritualmente acquisite o acquisibili al processo e quindi, nelle controversie soggette al rito del lavoro, anche all’esito dell’esercizio dei poteri istruttori d’ufficio di cui all’art. 421, comma 2, c.p.c., legittimamente esercitabili dal giudice, tenuto all’accertamento della verità dei fatti rilevanti ai fini della decisione, ancor più nelle controversie in cui, venendo in considerazione la scissione oggettiva tra ente impositore e concessionario della riscossione, può rilevare l’acquisizione da quest’ultimo di ogni documento relativo ad atti della procedura di riscossione da cui derivino conseguenze di rilievo nei rapporti tra creditore e debitore, con il solo limite dell’avvenuta allegazione dei fatti (controversia in cui la S.C. ha cassato la sentenza di merito che aveva dichiarato prescritto il credito per contributi previdenziali ritenendo di non poter utilizzare, a fini probatori dell’intervenuta interruzione della prescrizione, la relata di notifica della cartella esattoriale, che aveva preceduto la notifica dell’intimazione di pagamento, in ragione della tardiva costituzione del concessionario nel giudizio di primo grado). Sulla stessa falsariga, Sez. 6-L, n. 23415/2018, Esposito L., Rv. 650924-01, ha chiarito che costituisce domanda nuova, non proponibile per la prima volta in appello, quella che, alterando anche uno soltanto dei presupposti della domanda iniziale, introduca una causa petendi fondata su situazioni giuridiche non prospettate in primo grado, inserendo nel processo un nuovo tema di indagine, sul quale non si sia formato in precedenza il contraddittorio; su queste basi, la Corte ha escluso che le questioni sollevate dall’ente impositore, a fronte dell’eccezione di prescrizione formulate dal contribuente, comportassero la modifica della domanda così come originariamente prospettata nella cartella di pagamento prodromica all’impugnata ingiunzione.

In Sez. L, n. 28134/2018, Perinu, Rv. 651494-01, torna il tema delle cd. piste probatorie, a proposito dei giudizi sulle prestazioni d’invalidità civile: ove tali piste sussistano e siano significative, il giudice ha il potere-dovere, ex art. 437 c.p.c., di acquisire d’ufficio la documentazione relativa al requisito reddituale ove siano stati allegati, nell’atto introduttivo, i fatti costitutivi del diritto in contestazione (nella specie, la S.C. ha cassato la decisione impugnata, che aveva ritenuto di non dover acquisire d’ufficio la documentazione necessaria a valutare il requisito reddituale per l’anno 2010, benché il ricorrente avesse depositato, nella fase di merito, la certificazione sostitutiva di atto notorio, quella dell’Agenzia delle entrate attestante l’impossibilità di certificare la situazione reddituale, per l’anno 2005, del ricorrente medesimo, nonché altra ancora comprovante l’impossibilità di quest’ultimo di acquisire la certificazione reddituale).

8.2. L’accertamento tecnico preventivo ex art. 445-bis c.p.c.

Nel corso del 2018, il procedimento di accertamento tecnico preventivo obbligatorio (art. 445-bis c.p.c.) ha dato luogo a un numero limitato di pronunce.

Rispetto al ricorso introduttivo, va menzionata Sez. 6-L, n. 21985/2018, Ghinoy, Rv. 650304-01, secondo cui tale atto costituisce domanda idonea ad impedire la decadenza ex art. 42, comma 3, del d.l. n. 269 del 2003, anche laddove sia dichiarato inammissibile per difetto dei relativi presupposti, trattandosi di atto di esercizio giudiziale del diritto alla prestazione previdenziale comunque idoneo ad instaurare un rapporto processuale diretto ad ottenere l’intervento del giudice, produttivo di conseguenze processuali e sostanziali.

Sez. 6-L, n. 14880/2018, Ghinoy, Rv. 649250-01, ha precisato che il secondo termine previsto dall’art. 195 c.p.c., comma 3, così come modificato dalla l. n. 69 del 2009, svolge, ed esaurisce, la sua funzione nel sub-procedimento che si conclude con il deposito della relazione dell’ausiliare, sicché, in difetto di esplicita previsione in tal senso, la mancata prospettazione al consulente tecnico di ufficio di rilievi critici non preclude alla parte di arricchire e meglio specificare le relative contestazioni difensive nel prosieguo del procedimento, nell’ambito del quale, al fine di impedire la ratifica dell’esito finale della consulenza, è previsto il rimedio della dichiarazione di dissenso cui fa seguito la proposizione del ricorso ex art. 445-bis c.p.c., comma 6, c.p.c.

Sez. 6-L, n. 24408/2018, Spena, Rv. 650580-01, ha esteso al termine per il deposito in cancelleria della dichiarazione di contestazione delle conclusioni del CTU di cui al comma 4 dell’art. 445-bis, l’art. 155, comma 5, c.p.c., trattandosi di “atto processuale” che si svolge fuori dall’udienza.

Con riferimento alla natura e alla impugnabilità dell’ordinanza sommaria che definisce il procedimento, la S.C. ha ribadito che tale pronuncia è per legge destinata a riguardare solo un elemento della fattispecie costitutiva (il cd. requisito sanitario), sicché quanto in essa deciso non può contenere un’efficace declaratoria sul diritto alla prestazione, che è destinata a sopravvenire solo in esito ad accertamenti relativi agli ulteriori requisiti socio-economici (Sez. L, n. 27010/2018, Bellè, Rv. 651249-01). Se ne trae la conseguenza che non è ricorribile ex art. 111 Cost. l’ordinanza che, in esito ad esame sommario, abbia dichiarato insussistenti le condizioni sanitarie per beneficiare della prestazione assistenziale richiesta, trattandosi di provvedimento che non incide con effetto di giudicato sulla situazione soggettiva sostanziale – attesa la possibilità per l’interessato di promuovere il giudizio di merito – ed è comunque idoneo a soddisfare la condizione di procedibilità di cui all’art. 445-bis, comma 2, c.p.c., essendo il procedimento sommario già giunto a conclusione (Sez. L, n. 16685/2018, Marchese, Rv. 649246-01).

  • giurisdizione civile
  • espropriazione

CAPITOLO XVIII

IL PROCESSO DI ESECUZIONE

(di Raffaele Rossi )

Sommario

1 Titolo esecutivo. - 2 Espropriazione presso terzi. - 2.1 (segue). Accertamento dell’obbligo del terzo. - 3 Espropriazione immobiliare. - 3.1 (segue). La distribuzione del ricavato: rapporti tra esecuzione individuale, credito fondiario e fallimento. - 4 Espropriazione di beni indivisi: il giudizio di divisione. - 5 Le spese nell’espropriazione forzata. - 6 Opposizioni esecutive: profili comuni. - 7 Opposizione all’esecuzione. - 8 Opposizione agli atti esecutivi. - 9 Opposizione di terzo all’esecuzione. - 10 La stabilità degli effetti dell’esecuzione forzata.

1. Titolo esecutivo.

Condizione necessaria e sufficiente dell’azione esecutiva è l’esistenza di un titolo esecutivo, valido ed efficace, che incorpori un diritto certo, liquido ed esigibile: lo scopo dell’esecuzione forzata, globalmente considerata, è la realizzazione di tale diritto mediante l’utilizzo degli opportuni strumenti coercitivi, non spettando al giudice dell’esecuzione alcun potere cognitivo sull’accertamento della sussistenza dell’obbligazione.

Fondamento dell’intero sistema è il monopolio assoluto del giudice civile nell’attuazione di ogni titolo esecutivo – anche di quelli formati in seno alle giurisdizioni speciali – e la conseguente devoluzione in via esclusiva al giudice ordinario delle controversie aventi ad oggetto l’esistenza o l’efficacia di un titolo siffatto: principio ribadito da Sez. U, n. 19280/2018, D’Ascola, Rv. 649755-01, con riferimento ad un’opposizione all’esecuzione proposta dagli eredi di un pubblico dipendente condannato per danno erariale con sentenza della Corte dei Conti.

Nell’esecuzione forzata il soddisfacimento del diritto portato dal titolo avviene attraverso la sostituzione all’obbligato di un terzo nel compimento dell’attività a tal fine occorrente: ne deriva, per l’imprescindibile esigenza del rispetto della libertà delle persone, la non realizzabilità in via coattiva delle prestazioni a carattere infungibile, quelle cioè che postulano una non surrogabile condotta del soggetto obbligato oppure che implicano una specifica determinazione di volontà dello stesso.

Resta pertanto esclusa la esperibilità di azioni esecutive in forma specifica in caso di sentenze di condanna del datore di lavoro all’attribuzione al lavoratore di una qualifica superiore ed al conferimento delle relative mansioni, attività presupponenti la necessaria collaborazione del debitore (Sez. L, n. 07576/2018, Garri, Rv. 647658-01) e di sentenze dichiarative del diritto all’iscrizione negli elenchi dei braccianti agricoli, siccome richiedenti l’adozione di un provvedimento ad hoc da parte dell’INPS (Sez. 6-3, n. 01211/2018, Rubino, Rv. 647352-01).

È compito precipuo del giudice dell’esecuzione verificare se a fondamento dell’intrapresa esecuzione forzata si ponga un titolo esecutivo, giudiziale o stragiudiziale, sussumibile nel catalogo, tassativo e tipico, delineato dall’art. 474 c.p.c.: con specifico riguardo ai provvedimenti giudiziali, l’attribuzione di idoneità in executivis, pur in difetto di espressa qualificazione positiva, discende dalla natura o dalla funzione del provvedimento stesso.

Così, in tema di giudizio di scioglimento della comunione, la sentenza recante l’assegnazione dei beni ai condividenti legittima l’esercizio delle azioni inerenti il godimento della quota assegnata in proprietà e costituisce titolo esecutivo per ottenere il rilascio dei beni componenti la quota nei confronti del condividente che, in conseguenza della compiuta divisione, non abbia più ragione giustificante l’ulteriore detenzione (così Sez. 2, n. 20961/2018, Giannaccari, Rv. 650023-02).

Quanto più in generale a titoli costituiti da sentenze, la provvisoria anticipazione dell’attitudine esecutiva rispetto al giudicato sancita dall’art. 282 c.p.c. concerne anche le statuizioni condannatorie contenute in sentenze costitutive aventi carattere accessorio (quali il capo di condanna alla refusione delle spese o al risarcimento del danno) oppure che siano meramente dipendenti dall’effetto costitutivo: sulla base di questa argomentazione, Sez. 3, n. 28508/2018, Dell’Utri, Rv. 651634-01, ha ravvisato valido titolo esecutivo nella condanna alla restituzione di immobile pronunciata contestualmente all’accoglimento di una revocatoria fallimentare, negando invece eguale efficacia alle pronunce condannatorie legate all’effetto costitutivo da un vero e proprio nesso sinallagmatico (quale, ad esempio, la condanna al pagamento del prezzo della compravendita nella sentenza costitutiva del contratto definitivo non concluso).

È devoluta altresì al giudice dell’esecuzione l’interpretazione del titolo esecutivo (con apprezzamento incensurabile in sede di legittimità se esente da vizi logici o giuridici, in quanto afferente un presupposto fattuale dell’esecuzione: Sez. 6-3, n. 15538/2018, Tatangelo, Rv. 649428-01) per determinare l’esatta portata della prestazione da ottemperare forzosamente: a tal fine, come ha chiarito Sez. 6-3, n. 14356/2018, Cirillo F.M., Rv. 649427-01, il titolo esecutivo di matrice giudiziale non si esaurisce nel documento giudiziario in cui è consacrato l’obbligo da eseguire, per essere al giudice consentita la esegesi extratestuale del provvedimento sulla base degli elementi ritualmente acquisiti nel processo in cui esso si è formato, purché le relative questioni siano state trattate nel corso dello stesso e possano intendersi come ivi univocamente definite, essendo mancata la concreta estrinsecazione della soluzione come operata nel dispositivo o perfino nel tenore stesso del titolo.

Il contenuto del comando precettivo da attuare vincola la scelta tra le procedure espropriative e quelle di esecuzione forzata in forma specifica: la condanna al pagamento di una somma di denaro, anche quando il titolo rechi la indicazione di determinate modalità di adempimento, può essere attuata esclusivamente attraverso uno dei procedimenti di espropriazione forzata (implicanti necessariamente l’aggressione del patrimonio del debitore e la sua liquidazione) e non già mediante il procedimento di cui all’art. 612 c.p.c., che consente soltanto di fissare le modalità di attuazione di una determinata condotta materiale fungibile in sostituzione del debitore (Sez. 6-3, n. 23900/2018, Tatangelo, Rv. 650883-01).

Del principio nulla executio sine titulo la giurisprudenza di legittimità ha suggerito da tempo una accezione dinamica, nel senso cioè della immanenza del titolo esecutivo rispetto alla procedura, della necessaria esistenza di un titolo, valido ed efficace, dalla notifica del prodromico atto di precetto sino al compimento dell’atto conclusivo del procedimento esecutivo.

In questa prospettiva, le possibili vicende evolutive dei titoli giudiziali, legate allo sviluppo del giudizio di cognizione in cui essi si sono formati o allo svolgimento di rimedi impugnatori, possono rilevare nel senso della caducazione (con privazione ex tunc di ogni efficacia degli atti esecutivi compiuti in forza del titolo posto nel nulla) oppure nel senso della trasformazione (con conservazione degli effetti delle attività svolte in virtù del titolo sostituito).

Sul punto, con riferimento ai rapporti tra sentenza di primo grado e sentenza resa in appello nell’ambito della giurisdizione contabile, Sez. 3, n. 29021/2018, Rubino, Rv. 651659-01, ha spiegato che l’effetto sostitutivo della sentenza d’appello, la quale confermi integralmente o riformi parzialmente la decisione di primo grado, comporta che l’esecuzione già promossa in virtù della prima sentenza prosegua sulla base delle statuizioni ivi contenute confermate in sede di impugnazione; nel caso in cui, invece, l’esecuzione non sia ancora iniziata, essa deve essere intrapresa sulla base della pronuncia di secondo grado quale titolo esecutivo da notificare prima o congiuntamente al precetto ai fini della validità di quest’ultimo, anche quando il dispositivo della sentenza di appello contenga esclusivamente il rigetto dell’appello e l’integrale conferma della sentenza di primo grado.

2. Espropriazione presso terzi.

Numerose pronunce dell’anno in rassegna hanno riguardato la disciplina della espropriazione presso terzi, involgendo anche gli aspetti innovati dalle riforme legislative degli ultimi anni, sottoposti per le prime volte al vaglio del giudice di legittimità.

Tra questi ultimi, oggetto di disamina è stato il criterio di radicamento territoriale delle espropriazioni presso terzi in danno di pubbliche amministrazioni, individuato dall’art. 26-bis, comma 1, c.p.c. (introdotto dal d.l. 12 settembre 2014, n. 132, convertito nella l. 10 novembre 2014, n. 162) nel luogo di residenza, dimora, domicilio o sede del terzo debitore, salvo quanto previsto dalle leggi speciali.

Della disposizione, motivo di divergenze ermeneutiche in dottrina e nella giurisprudenza di merito, Sez. 6-3, n. 08172/2018, Frasca, Rv. 648765-02, ha definito l’ambito di operatività: essa trova applicazione ogni qualvolta il debitore rivesta la qualità di pubblica amministrazione come individuata alla stregua dell’art.1, comma 2, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, dovendo invece escludersi che il richiamo all’art. 413, comma 5, c.p.c. contenuto nell’art. 26-bis c.p.c. concerna l’oggetto del credito per cui le pubbliche amministrazioni sono debitrici, ovvero si riferisca a procedure aventi ad oggetto crediti nascenti da rapporti di lavoro alle dipendenze delle P.A.

Sempre ad avviso di Sez. 6-3, n. 08172/2018, Frasca, Rv. 648765-03, l’inciso “salvo quanto disposto dalle leggi speciali” presente nel medesimo art. 26-bis, comma 1, c.p.c. attribuisce alla norma desumibile dalla legge speciale valenza di regola esclusiva di determinazione della competenza ratione loci, in deroga al criterio del luogo di residenza, dimora, domicilio o sede del terzo pignorato: nel caso in cui debitore sia una delle pubbliche amministrazioni assoggettate al sistema di tesoreria previsto dalla l. 29 ottobre 1984, n. 720 il foro dell’espropriazione di crediti va pertanto individuato, in via esclusiva, nel luogo di concreto espletamento del servizio di tesoreria, secondo gli accordi intercorsi tra la p.a. ed il soggetto cassiere e tesoriere, non assumendo rilievo, qualora questi abbia natura di persona giuridica, il luogo di ubicazione della sua sede.

Atto conclusivo del procedimento di espropriazione presso terzi è l’ordinanza di assegnazione ex art. 553 c.p.c., determinante, sin dal momento della sua emissione, il trasferimento (sub specie di cessione coattiva) del credito pignorato dal debitore esecutato al creditore procedente, ovvero la modificazione soggettiva del rapporto obbligatorio nel lato attivo, mutando, con la sostituzione dell’assegnatario all’originario creditore, il soggetto nei cui confronti il debitore è tenuto ad adempiere per liberarsi dal vincolo.

Dalla illustrata ricostruzione si è inferito che:

- in quanto disposta “salvo esazione”, l’assegnazione in pagamento del credito staggito ex art. 553 c.p.c. non opera anche l’immediata estinzione del credito azionato in via esecutiva, essendo quest’ultima assoggettata alla condizione sospensiva del pagamento eseguito dal terzo assegnato al creditore assegnatario, evento con il quale si realizza il duplice effetto estintivo dell’obbligazione del debitor debitoris nei confronti del soggetto esecutato e del debito di quest’ultimo verso il creditore assegnatario (Sez. 3, n. 30862/2018, Iannello, Rv. 651638-01);

- prima di provvedere alla solutio il terzo pignorato ha facoltà di opporre in compensazione propri crediti vantati nei confronti del creditore originario assegnatario, seppure sorti anteriormente all’assegnazione, poiché la coesistenza di reciproche e contrapposte ragioni di debito e credito tra originario creditore e terzo pignorato si verifica per effetto ed in conseguenza della pronuncia dell’ordinanza di assegnazione (Sez. 6-3, n. 17441/2018, Rubino, Rv. 649842-01).

Nel dichiarato intento di chiarire il senso di precedenti degli anni passati, Sez. 6-3, n. 09173/2018, Tatangelo, Rv. 648801-01, ha riconosciuto all’ordinanza di assegnazione efficacia di titolo esecutivo a favore del creditore assegnatario e nei confronti del terzo pignorato in via immediata, ovvero sin dall’epoca della sua emissione e prima della sua comunicazione o notificazione al terzo, fatta salva una previsione di tenore differente specificamente contenuta nel provvedimento stesso. Da quanto sopra ha desunto che il creditore assegnatario può procedere alla notificazione di detta ordinanza anche unitamente all’intimazione dell’atto di precetto: in tal caso, tuttavia, il rispetto del principio di correttezza e buona fede nell’attuazione dei rapporti obbligatori impone che laddove il terzo debitore intimato (il quale può apprendere della formazione del titolo nei suoi confronti proprio in conseguenza della notifica del precetto) provveda all’integrale pagamento di tutte le somme dovute in un termine ragionevole (pur eventualmente superiore a quello di dieci giorni previsto dall’art. 480 c.p.c.), da accertarsi in concreto in base a tutte le circostanze rilevanti nella singola fattispecie, deve ritenersi inapplicabile l’art. 95 c.p.c., e le spese di precetto e funzionali all’esecuzione restano a carico del creditore intimante; laddove, al contrario, il pagamento avvenga in un termine ragionevole, ma non sia integrale, le spese di precetto sono ripetibili dal creditore nei limiti di quanto necessario per il recupero delle sole somme effettivamente non pagate con tempestività dal debitore.

La medesima Sez. 6-3, n. 09173/2018, Tatangelo, Rv. 648801-02, in relazione ad una vicenda in cui era controversa la integralità del pagamento effettuato da un terzo pignorato a seguito di ordinanza ex art. 553 c.p.c., ha altresì precisato che le somme oggetto di assegnazione in favore del creditore all’esito del procedimento di espropriazione presso terzi (laddove riferibili a crediti già scaduti) costituiscono nella loro interezza (e cioè tanto per gli importi a titolo di capitale, quanto per quelli a titolo di spese di esecuzione) crediti liquidi ed esigibili di somme di denaro ai sensi dell’art. 1282 c.c., e come tali (in mancanza di diversa specificazione nel titolo) producono di regola interessi di pieno diritto dalla data dell’ordinanza di assegnazione dalla comunicazione o notificazione della stessa ordinanza al terzo e dalla sussistenza di una mora di quest’ultimo.

2.1. (segue). Accertamento dell’obbligo del terzo.

Ricco il catalogo delle pronunce sulle controversie di accertamento dell’obbligo del terzo, interessate negli ultimi anni da una travagliata evoluzione legislativa (novellate, in dettaglio, dapprima dalla l. 24 dicembre 2012, n. 228, poi dal d.l. 12 settembre 2014, n. 132, conv. nella l. 10 novembre 2014, n. 162, ed infine dal d.l. 27 giugno 2015 n. 83, conv. nella l. 6 agosto 2015, n. 132) che ha trasformato la struttura (e, per conseguenza, lo statuto di disciplina) del giudizio, degradato da processo a cognizione piena ed esauriente svolto nelle articolate forme del libro secondo del codice di rito e concluso con decisione avente efficacia di giudicato a mero incidente endoesecutivo, subprocedimento a cognitio sommaria nell’ambito della procedura espropriativa definito con ordinanza priva di effetti panprocessuali.

Considerando gli arresti suscettibili di applicazione (seppure soltanto come traccia da seguire) nell’assetto vigente all’attualità, va innanzitutto segnalata Sez. 6-3, n. 16266/2018, Tatangelo, Rv. 649508-01: ravvisata la funzione del giudizio di accertamento nella determinazione dell’oggetto del pignoramento, ovvero nell’accertare l’esistenza, i caratteri e la misura del credito del debitore verso il terzo, ha ritenuto che in quella sede si debba procedere anche alla esatta quantificazione dei relativi importi.

Frequentemente ricorrenti – tanto nel precedente quanto nel vigente assetto regolamentare – le questioni in tema di distribuzione dell’onere probatorio tra le parti in lite: sul punto, dando continuità a pregressi orientamenti, Sez. 3, n. 09624/2018, Frasca, Rv. 648425-02, ha ribadito che il creditore pignorante è tenuto a provare l’esistenza del credito del proprio debitore verso il terzo pignorato, mentre quest’ultimo – che eccepisca l’estinzione di detto credito per compensazione con un proprio controcredito, contestato dal creditore procedente, verso l’esecutato – deve provare il fatto estintivo dedotto.

Nello stesso ordine di idee, con statuizione espressamente riferita anche al giudizio a cognizione sommaria oggi regolato dall’art. 549 c.p.c., Sez. 6-3, n. 24867/2018, D’Arrigo, Rv. 651366-01: premesso che in sede di accertamento dell’obbligo il creditore procedente (in quanto non agisce in nome e per conto del proprio debitore bensì iure proprio) è terzo rispetto ai rapporti intercorsi fra il debitore esecutato e il debitor debitoris, ha affermato che la quietanza di pagamento rilasciata dal debitore al terzo pignorato è opponibile al creditore soltanto qualora abbia data certa (ex art. 2704 c.c.) anteriore alla notificazione dell’atto di pignoramento, precisando altresì che in ogni caso detta quietanza, poiché res inter alios acta, non gode del valore probatorio privilegiato di cui all’art. 2702 c.c. ma ha il rilievo meramente indiziario di una prova atipica, può quindi essere liberamente contestata dal creditore procedente e contribuisce a fondare il convincimento del giudice unitamente agli altri elementi istruttori acquisiti al processo.

Sulla natura e sul regime del provvedimento che definisce la controversia come ad oggi riformata, con principio di diritto nuovo (dacché inedita la problematica) Sez. 3, n. 26702/2018, Frasca, Rv. 651168-01, ha individuato nell’opposizione agli atti esecutivi l’unico rimedio esperibile avverso l’ordinanza con cui il giudice dell’esecuzione risolva le questioni relative all’esistenza della posizione debitoria del terzo e disponga (anche uno actu, non essendo necessario un separato o differito provvedimento) l’assegnazione delle somme pignorate ed escluso l’impugnabilità di tale ordinanza con il mezzo dell’appello, “posto che, a differenza del precedente regime giuridico, in forza del quale sulle contestazioni relative alla dichiarazione del terzo occorreva decidere in base ad un ordinario procedimento di cognizione, il nuovo art. 549 c.p.c. abilita lo stesso giudice dell’esecuzione a risolvere dette questioni, all’esito di un accertamento sommario”.

3. Espropriazione immobiliare.

Fatte salve evenienze peculiari determinanti un diverso esito (ad esempio, la conversione del pignoramento), il momento centrale della espropriazione forzata immobiliare è rappresentato dalla fase liquidativa, ovvero dalla trasformazione del bene staggito in denaro liquido da distribuire poi tra i creditori.

L’intera sequenza delle operazioni di liquidazione forzata dell’immobile pignorato è retta da un provvedimento del giudice dell’esecuzione, l’ordinanza che dispone la vendita, che costituisce la lex specialis dell’intero segmento procedimentale e regola, anche mediante una eterointegrazione del dato positivo (cioè con statuizioni ulteriori rispetto alle previsioni minime normative), modalità, tempi e condizioni della vendita.

La rigorosa ed incondizionata osservanza delle prescrizioni dettate con l’ordinanza di vendita si impone a garanzia della uguaglianza e parità di condizioni tra tutti i potenziali partecipanti alla gara, nonché dell’affidamento da ciascuno di loro riposto nella trasparenza e complessiva legalità della procedura, dovendo tutti poter confidare nel fatto che le condizioni così fissate non mutino (se non con apposita ordinanza modificativa) oppure non siano violate in favore di altri partecipanti alla gara.

Le descritte considerazioni, esplicitate con dichiarata valenza nomofilattica, fondano il dictum di Sez. 3, n. 24570/2018, Porreca, Rv. 651156-01 (pronuncia facente parte nel “progetto esecuzioni” della terza sezione civile, cui è amplius dedicato il successivo approfondimento della presente rassegna redatto da Fanticini, Il “Progetto esecuzioni” della Terza Sezione Civile della Suprema Corte), chiamata a risolvere problemi di diritto intertemporale indotti dalle modifiche apportate dal d.l. n. 83 del 2015 (conv. nella l. n. 132 del 2015) all’art. 572 c.p.c. in tema di offerta minima nella vendita senza incanto.

Il principio di diritto è stato così formulato: la sopravvenuta modifica delle norme relative alla vendita, pur quando e nei limiti in cui essa sia applicabile per espressa opzione legislativa di disciplina transitoria (nel caso, la possibilità di aggiudicazione a prezzo ribassato ai sensi dell’art. 572, comma 3, c.p.c.), diviene parte del regime proprio del relativo subprocedimento solo se richiamata nella sottesa ordinanza – come modificata di ufficio dal giudice o all’esito di fondata impugnazione -, attesa la necessaria immutabilità delle iniziali condizioni del subprocedimento di vendita, decisiva nelle determinazioni dei potenziali offerenti; la violazione della speciale disciplina della vendita contenuta nell’ordinanza può essere fatta valere da tutti gli interessati, cioè da tutti i soggetti del processo esecutivo, compreso il debitore.

Atto conclusivo del subprocedimento di vendita forzata è il decreto di trasferimento ex art. 586 c.p.c., atto con cui si produce l’effetto traslativo sostanziale in favore dell’acquirente.

Il contenuto del decreto è determinante per la individuazione dei beni trasferiti: la erronea indicazione in esso di beni immobili in tutto o in parte differenti da quelli aggrediti con il pignoramento non rende inesistente il decreto ma lo inficia di invalidità, da far valere con l’opposizione agli atti esecutivi ex art. 617 c.p.c. (Sez. 2, n. 25687/2018, Scarpa, Rv. 650833-01).

Agli immobili espressamente menzionati nel decreto vanno poi aggiunti, quali oggetto del trasferimento, quei beni ai quali gli effetti del pignoramento si estendono automaticamente, ai sensi dell’art. 2912 c.c. (come accessori, pertinenze, frutti, miglioramenti ed addizioni) e quei beni che, pur non espressamente menzionati nel predetto decreto, siano uniti fisicamente alla cosa principale, sì da costituirne parte integrante, come le accessioni propriamente dette, sicché il trasferimento di un terreno all’esito di procedura esecutiva comporta, in difetto di espressa previsione contraria, il trasferimento del fabbricato insistente su di esso, ancorché abusivo (Sez. 3, n. 17041/2018, Di Florio, Rv. 649444-01).

Dal principio di attrazione al compendio staggito di accessori, pertinenze e frutti civili sancito dal citato art. 2912 c.c. deriva che anche questi beni sono sottratti alla giuridica disponibilità del debitore esecutato: in caso di pignoramento di immobile concesso in locazione, quindi, la legittimazione a richiedere e ad accettare i canoni non spetta al proprietario-locatore, bensì ed in via esclusiva al custode (Sez. 6-1, n. 07748/2018, Falabella, Rv. 647901-01), tenuto alla amministrazione dei beni pignorati nell’interesse del solo ceto creditorio; in ipotesi di cessazione dall’incarico di custodia, la legittimazione ad esercitare le azioni nascenti dal contratto ritorna al proprietario – debitore esecutato, senza tuttavia che si verifichi alcun fenomeno successorio rispetto al custode (in virtù di ciò Sez. 2, n. 22029/2018, Grasso, Rv. 650071-01, ha ritenuto che il diritto alla restituzione dei frutti riguardanti un immobile già pignorato decorresse dalla domanda del proprietario – già debitore esecutato- e non da quella precedentemente proposta dal custode giudiziario).

La trascrizione dell’atto di pignoramento rende inefficaci nei confronti del ceto creditorio successivi atti traslativi del diritto pignorato o costitutivi di diritti reali (anche di garanzia) sul bene immobile staggito; possono tuttavia egualmente verificarsi vicende che, indipendenti dal regime di pubblicità immobiliare, incidono sull’oggetto dell’azione esecutiva e ne impediscono la prosecuzione.

Tra siffatte eventualità si colloca, ad avviso di Sez. 3, n. 30990/2018, Tatangelo, Rv. 651864-01 (decisione ricompresa nel già richiamato “progetto esecuzioni”), la sopravvenienza, nel corso della procedura espropriativa, di una confisca penale di qualunque natura (nel caso esaminato, si trattava di confisca facoltativa disposta ex art. 240 c.p. su bene costituente profitto del reato).

Secondo la pronuncia in commento, è principio generale dell’ordinamento quello per cui gli effetti di qualsivoglia confisca penale prevalgono sui diritti dei terzi creditori del soggetto in danno del quale il provvedimento ablatorio in questione è operato, anche ove si tratti di diritti reali di garanzia iscritti anteriormente, con il solo limite dell’intervenuto trasferimento del bene pignorato prima della confisca, essendo sufficiente che quest’ultima sia disposta (a prescindere dalla sua trascrizione) nel momento in cui il bene risulti ancora di proprietà del condannato; l’eventuale conflitto tra i diritti dei creditori del condannato (pur se assistiti da garanzia reale o perfino pignoranti) e quelli dello Stato, beneficiario della confisca, non si risolve, sul piano civilistico, in base all’ordo temporalis della iscrizione o trascrizione nei registri immobiliari dei relativi acquisti ma sul piano penalistico, nel contesto dell’incidente di esecuzione della misura di sicurezza.

3.1. (segue). La distribuzione del ricavato: rapporti tra esecuzione individuale, credito fondiario e fallimento.

Profili di particolare complessità presenta la fase della distribuzione del ricavato dell’espropriazione forzata allorquando la procedura esecutiva individuale sia intrapresa o proseguita su istanza di un creditore che proceda in virtù di un finanziamento a carattere fondiario in danno di un debitore esecutato dichiarato fallito.

Viene qui in rilievo, infatti, il (non agevole) coordinamento tra le disposizioni dettate dall’art. 41, commi secondo e quarto, del d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385 (nella parte in cui prevedono il versamento diretto al creditore fondiario della somma ricavata dalla vendita nella misura corrispondente al complessivo credito dello stesso e l’attribuzione al fallimento dell’importo eccedente detta misura, facultando il curatore a spiegare intervento nell’esecuzione) e dall’art. 52 della legge fallimentare, r.d. 16 marzo 1942, n. 267 (il quale impone per ogni credito, senza eccezione per quelli fondiari, l’accertamento nelle forme e con le modalità del concorso).

Una esaustiva ricostruzione della tematica è stata compiuta, con l’anelito nomofilattico proprio delle pronunce del “progetto esecuzioni”, da Sez. 3, n. 23482/2018, Tatangelo, non massimata.

La pronuncia muove dalla seguente affermazione: la natura meramente provvisoria dell’attribuzione al creditore fondiario del ricavato dalla vendita effettuata in ambito esecutivo esclude soltanto la definitività di detta attribuzione (la quale si verifica alla chiusura del fallimento) ma non esprime un’irrilevanza nella espropriazione singolare degli accertamenti sui crediti già compiuti in sede fallimentare; l’osservanza del principio di economia dei mezzi processuali e l’esigenza di una razionale coerenza sistematica tra le esecuzioni individuali e le procedure concorsuali impongono, al contrario, che il giudice dell’esecuzione, nell’attribuire il ricavato al creditore fondiario, sia vincolato alle verifiche (sulla esistenza, entità e graduazione dei crediti, anche in prededuzione) già avvenute (in via definitiva o anche solo provvisoria) nella procedura fallimentare, onde evitare duplicazioni dell’attività di accertamento nonché future azioni di ripetizione da parte del curatore.

In seno alla procedura espropriativa quindi: l’aver sottoposto la propria pretesa alla verifica del passivo fallimentare ex art. 52 l.f. con esito positivo (ovvero con un provvedimento di ammissione, ancorché non definitivo) costituisce il fatto costitutivo del diritto del creditore fondiario ad ottenere l’attribuzione, in via provvisoria, del ricavato della vendita esecutiva, a nulla rilevando l’intervento o meno del curatore; l’esistenza di altri crediti con diritto di preferenza rispetto a quello fondiario rappresenta invece un fatto impeditivo (ovvero modificativo o estintivo) del diritto del creditore fondiario ad ottenere l’attribuzione provvisoria del ricavato della vendita dell’immobile pignorato e dunque va dedotta e documentata dal curatore fallimentare nella procedura esecutiva.

Le questioni concernenti la graduazione dei crediti (ovvero la sussistenza e l’ammontare di ulteriori crediti, maturati nel corso della procedura concorsuale, da soddisfare con preferenza rispetto a quelli del creditore fondiario sul ricavato della vendita) devono essere dedotte dal curatore fallimentare al giudice dell’esecuzione (non potendo questi rilevarle di ufficio), il quale è tenuto a deciderle in conformità ai provvedimenti degli organi della procedura fallimentare che effettivamente dispongano, in maniera diretta o anche indiretta o implicita, la graduazione, ovvero riconoscano la qualità di debiti della massa gravanti su un bene determinato.

La liquidazione delle spese del procedimento esecutivo individuale proseguito o iniziato in costanza di fallimento è poi compito del giudice dell’esecuzione, esplicazione del potere ad egli riservato in via esclusiva quale giudice di quel procedimento.

La sentenza compendia, in breve, i seguenti principi di diritto: la provvisoria distribuzione delle somme ricavate dalla vendita di un immobile pignorato dall’istituto di credito fondiario, in una procedura esecutiva individuale proseguita (o iniziata) dopo la dichiarazione di fallimento del debitore, deve essere operata dal giudice dell’esecuzione sulla base dei provvedimenti (anche non definitivi) emessi in sede fallimentare ai fini dell’accertamento, della determinazione e della graduazione di detto credito fondiario. In particolare: a) per ottenere l’attribuzione (in via provvisoria, salvi i definitivi accertamenti nella procedura fallimentare) delle somme ricavate dalla vendita, il creditore fondiario deve – a prescindere dalla costituzione del curatore nel processo esecutivo – documentare al giudice dell’esecuzione di avere proposto l’istanza di ammissione al passivo del fallimento e di avere ottenuto un provvedimento favorevole dagli organi della procedura (anche se non definitivo); b) per ottenere la graduazione di eventuali crediti di massa maturati in sede fallimentare a preferenza di quello fondiario, e quindi l’attribuzione delle relative somme, con decurtazione dell’importo assegnato al creditore procedente, il curatore è tenuto a costituirsi nel processo esecutivo e documentare l’avvenuta emissione da parte degli organi della procedura fallimentare di formali provvedimenti (idonei a divenire stabili ai sensi dell’art. 26 l.f.) che (direttamente o quanto meno indirettamente, ma inequivocabilmente) dispongano la suddetta graduazione. La distribuzione così effettuata dal giudice dell’esecuzione ha comunque carattere provvisorio e può stabilizzarsi solo all’esito degli accertamenti definitivi operati in sede fallimentare, legittimando in tal caso il curatore ad ottenere la restituzione delle somme eventualmente riscosse in eccedenza.

4. Espropriazione di beni indivisi: il giudizio di divisione.

Oggetto dell’espropriazione di beni indivisi è la quota nella titolarità del debitore esecutato di un diritto reale su un bene in comunione con altri soggetti, ovvero la misura (o frazione) della partecipazione del debitore al diritto soggettivo comune.

Il codice di rito disciplina tre possibili ed alternative modalità di liquidazione della quota pignorata: la separazione in natura della porzione, materialmente determinata, spettante al debitore sul bene; la vendita della quota ideale pro indiviso; la divisione del bene comune secondo le regole ordinarie.

Subordinate le prime due eventualità al ricorrere di specifiche situazioni di fatto, è la divisione a rappresentare lo sviluppo normale della espropriazione di quota, il modo che meglio realizza l’intento di far cessare lo stato di comunione e procedere in sede esecutiva su un bene attribuito in via esclusiva al debitore, ancora in natura oppure già liquidato, cioè trasformato nel suo equivalente in danaro.

La divisione concreta una parentesi di cognizione nell’ambito della procedura esecutiva: un giudizio di cognizione, svolto nelle forme del libro secondo del codice di rito, autonomo rispetto alla espropriazione (tanto da non poterne essere considerato una continuazione o una fase) ma ad essa funzionalmente correlato.

Sono questi i presupposti – già invero elaborati da precedenti arresti – in base ai quali Sez. 3, n. 20817/2018, De Stefano, Rv. 650419-01, ha affrontato la questione (inedita della giurisprudenza di legittimità ed oggetto di variegate soluzioni nelle Corti di merito, e perciò inclusa nel “progetto esecuzioni”) della forma dell’atto introduttivo della controversia di divisione endoesecutiva.

Il tenore testuale dell’art. 600 c.p.c. e la sua ratio ispiratrice, tesa, alla de formalizzazione, sono apparsi alla S.C. elementi decisivi per l’opzione in favore dell’ordinanza del giudice dell’esecuzione quale modus ingrediendi del giudizio di divisione in luogo della notifica di un atto di citazione (pur apprezzato come maggiormente in linea con l’esigenza di un’ordinata tutela del contraddittorio).

Più precisamente, l’introduzione di detto giudizio è stato ricostruito come una fattispecie a formazione progressiva articolata in tre atti: (a) il pignoramento, integrante l’atto di parte contenente l’impulso o domanda di scioglimento della comunione sul bene staggito; (b) l’avviso ai creditori iscritti ed ai comproprietari, avente natura di mera comunicazione di pendenza della procedura; (c) l’ordinanza del giudice dell’esecuzione che dispone la divisione, pronunciata all’udienza per la comparizione delle parti e di tutti gli interessati e recante la fissazione della udienza per la trattazione del processo di cognizione innanzi al medesimo giudice ma nella veste di giudice istruttore.

L’ordinanza del giudice dell’esecuzione è l’elemento perfezionativo della fattispecie introduttiva del giudizio e deve pertanto contenere (quantunque attraverso il mero richiamo dei dati contenuti nel pignoramento) gli elementi identificativi dell’oggetto della controversia, cioè del bene immobile da dividere, completo dei dati indispensabili per la trascrizione della ordinanza stessa.

Esaminando la vicenda concreta portata al suo vaglio, la pronuncia ha affermato il principio secondo cui il giudizio di divisione endoesecutivo è ritualmente introdotto con la pronuncia (se presenti tutti gli interessati all’udienza ex art. 600 c.p.c.) o con la notifica (se non tutti presenti gli interessati a tale udienza) dell’ordinanza del giudice dell’esecuzione che lo dispone, talché non è necessaria la notificazione e iscrizione a ruolo di un distinto atto di citazione; nondimeno, ove il giudice dell’esecuzione oneri le parti di questi incombenti, la relativa ordinanza – se non opposta con la dimostrazione di una conseguente lesione del proprio diritto di difesa – non dà luogo a nullità, e ad essa va prestata ottemperanza, sebbene dalla sua inosservanza non possano farsi discendere, per la parte onerata, conseguenze di definizione in rito del processo deteriori rispetto a quelle derivanti dall’inosservanza delle minori forme sufficienti.

Ancora dal vincolo teleologico tra procedura espropriativa su beni indivisi e giudizio di divisione ad esso incidentale, la medesima Sez. 3, n. 20817/2018, De Stefano, Rv. 650419-02, ha desunto la legittimità della notifica dell’ordinanza che dispone il giudizio di divisione eseguita al difensore di uno dei litisconsorti già costituito nell’esecuzione forzata, in quanto il relativo mandato, in mancanza di un’espressa limitazione dei poteri del difensore, deve reputarsi conferito anche ai fini dell’espletamento della difesa della parte nel corso della controversia di scioglimento della comunione.

In ordine al giudizio di divisione endoesecutivo, degna di menzione è Sez. 3, n. 20977/2018, D’Arrigo, Rv. 650442-01, secondo cui il provvedimento con il quale il giudice dichiara, per inattività delle parti, l’estinzione del processo di divisione del bene pignorato, instaurato ex artt. 600 e 601 c.p.c., anche se emesso in forma di ordinanza, ha natura di sentenza, determinando la chiusura del processo in base alla decisione di una questione pregiudiziale, con la conseguenza che esso è impugnabile con appello e non mediante reclamo innanzi al collegio.

5. Le spese nell’espropriazione forzata.

Dei principi regolanti l’onere delle spese nelle procedure di espropriazione forzata la S.C. aveva avuto modo negli anni passati di occuparsi in maniera sporadica; l’assai rilevante impatto pratico-operativo dell’argomento ha tuttavia indotto al suo inserimento nel “progetto esecuzioni”, con l’intento di un esercizio concreto ed efficace della funzione di nomofilachia.

L’occasione si è posta con riferimento ad una vicenda nella quale occorreva decidere se in caso di incapienza parziale delle somme ricavate da una espropriazione forzata (nella specie, presso terzi), la liquidazione delle spese della procedura effettuata dal giudice dell’esecuzione (esclusa la natura di titolo esecutivo del provvedimento contenente detta liquidazione) integrasse comunque una ragione di credito azionabile in giudizio separato.

All’interrogativo ha fornito argomentata risposta negativa Sez. 3, n. 24571/2018, Porreca, Rv. 651157-01.

Rimarcandone la diversità rispetto alle disposizioni in tema di spese nelle procedure di esecuzione in forma specifica (artt. 611 e 614 c.p.c.), la S.C. ha individuato a fondamento dell’art. 95 c.p.c. (norma specificamente riferita alle espropriazioni forzate) non già il principio della soccombenza (proprio del giudizio di cognizione) bensì quello della soggezione del debitore all’esecuzione.

Nelle procedure espropriative, la liquidazione delle spese operata dal giudice non assume contenuto decisorio (non accerta cioè la fondatezza di una situazione soggettiva) ma soltanto di verifica del relativo credito in funzione della assegnazione o della distribuzione del ricavato: le spese non costituiscono quindi oggetto di un vero e proprio obbligo di rimborso a carico dell’esecutato ma rappresentano il costo obiettivo del processo, configurandosi come onere che viene a gravare sul ricavato (secondo il principio icasticamente definito “della tara sul ricavato”).

Da ciò discende che nell’ipotesi di incapienza parziale (cioè di distribuzione parzialmente utile, non interamente satisfattiva), l’ordinanza che liquida le spese della procedura, per la porzione non soddisfatta, ha valore, sempre e solamente, ai fini della collocazione in quella procedura coattiva, non costituisce e non dichiara alcun credito spendibile al di fuori di essa, né in altri giudizi di cognizione né in altri processi esecutivi.

Il descritto ragionamento risulta trasfuso nel seguente principio di diritto: il giudice dell’esecuzione, quando provvede alla distribuzione o assegnazione del ricavato o del pignorato al creditore procedente e ai creditori intervenuti, determinando la parte a ciascuno spettante per capitale, interessi e spese, effettua accertamenti funzionali alla soddisfazione coattiva dei diritti fatti valere nel processo esecutivo e, per conseguenza, il provvedimento di liquidazione delle spese dell’esecuzione implica un accertamento meramente strumentale alla distribuzione o assegnazione stessa, privo di forza esecutiva e di giudicato al di fuori del processo in cui è stato adottato, sicché le suddette spese, quando e nella misura in cui restino insoddisfatte, sono irripetibili.

6. Opposizioni esecutive: profili comuni.

Anche nell’anno in rassegna gli interventi più significativi del giudice di legittimità in tema di opposizioni in senso stretto (con tale locuzione intendendosi le opposizioni proposte dopo l’inizio della procedura esecutiva) originano dalle criticità applicative della configurazione di tali controversie come giudizi unitari a bifasicità eventuale voluta dalla novella della l. 28 febbraio 2006, n. 52.

In forza di orientamenti stratificati negli anni pregressi, è convincimento radicato e non più discusso la scansione dei giudizi di opposizione esecutiva (all’esecuzione, agli atti esecutivi o di terzo all’esecuzione) in una duplice fase:

- una prima fase, con funzione cautelare, introdotta da un ricorso indirizzato al giudice dell’esecuzione, imperniata su un’udienza svolta in camera di consiglio ed informata ad una cognizione di mera verosimiglianza (regolata delle norme del procedimento camerale ex artt. 737 ss. c.p.c., richiamato dall’art. 185 disp. att. c.p.c.), avente ad oggetto la delibazione sull’istanza di sospensione della procedura (ovvero, nell’ipotesi di opposizione agli atti esecutivi, di adozione dei provvedimenti indilazionabili) e conclusa con un’ordinanza – soggetta a reclamo nelle forme ex art. 669-terdecies c.p.c. – che statuisce anche sulle spese della fase;

- una seconda fase, meramente eventuale, aperta dall’atto introduttivo (o riassuntivo) del giudizio di merito, svolta innanzi al giudice competente secondo le modalità (inerenti, innanzitutto, la forma dell’atto introduttivo) del processo ordinario di cognizione (ovvero secondo un differente rito speciale, se pertinente alla materia della causa), con la sola deroga della dimidiazione dei termini a comparire, avente ad oggetto la decisione (assunta con gli strumenti della cognizione piena) sulla fondatezza della opposizione e definita con sentenza idonea al passaggio in giudicato.

L’anello di congiunzione tra i due segmenti è rappresentato dal termine perentorio, stabilito nella ordinanza conclusiva della prima fase, per la introduzione (o per la riassunzione, in caso di opposizione all’esecuzione o di terzo all’esecuzione) della causa di merito innanzi al giudice competente; cesura unicamente funzionale all’attribuzione della cognizione sul merito della lite ad un giudice tendenzialmente diverso da quello che ha trattato la fase sommaria, ma che non esclude l’unitarietà del processo di opposizione.

Se la struttura fisiologica dell’istituto risultava già chiaramente delineata nei sensi testé descritti, cospicue incertezze (tradotte in divergenti soluzioni praticate negli uffici di merito) riguardavano alcuni aspetti patologici del modus procedendi delle opposizioni, cioè a dire le possibili deviazioni dello svolgimento del giudizio dal modello legale prototipico.

Del problema – incluso nel “progetto esecuzioni” – si è ex professo occupata Sez. 3, n. 25170/2018, Tatangelo, Rv. 651161-01.

Pilastro dell’iter logico – argomentativo della pronuncia è la esplicita affermazione del carattere necessario ed inderogabile della preliminare fase sommaria delle opposizioni esecutive, dacché prevista per la tutela degli interessi non soltanto dell’opponente ma anche di tutte le parti del processo esecutivo e, soprattutto, in funzione di esigenze pubblicistiche di economia processuale, di efficienza e regolarità del processo esecutivo e di deflazione del contenzioso ordinario.

Specificamente, la previsione generalizzata della preliminare fase sommaria assolve una triplice finalità: (a) garantire ed incentivare i meccanismi processuali deflattivi espressamente previsti dalla legge, in modo che le parti abbiano la possibilità di valutare se dare effettivamente corso alla (solo eventuale) fase di merito dell’opposizione; (b) assicurare che della proposizione di un’opposizione esecutiva sia immediatamente reso edotto il giudice dell’esecuzione, allo scopo di consentire a questi l’esercizio dei propri poteri officiosi di verifica della sussistenza delle condizioni dell’azione esecutiva e di controllo della regolarità del relativo svolgimento nonché l’emissione (anche di ufficio) di provvedimenti tali da rendere superfluo lo svolgimento del merito dell’opposizione; (c) rendere possibile la conoscenza dell’avvenuta proposizione dell’opposizione a tutte le parti del processo esecutivo (pur se non dirette destinatarie dell’opposizione o se intervenute in epoca successivamente ad essa) nonché ad eventuali altri soggetti che abbiano un interesse di fatto in proposito (ad esempio, i potenziali interessati all’acquisto dei beni pignorati).

In virtù di queste premesse, la pronuncia in disamina ha concluso nel senso che l’omissione della fase sommaria – così come il suo irregolare svolgimento – laddove abbia impedito la regolare instaurazione del contraddittorio nell’ambito del processo esecutivo ed il preventivo esame dell’opposizione da parte del giudice dell’esecuzione determina l’improponibilità della domanda di merito e l’improcedibilità del giudizio di opposizione a cognizione piena.

Assunto il carattere di disciplina processuale inderogabile della cadenza bifasica dei giudizi oppositivi successivi, la stessa Sez. 3, n. 25170/2018, Tatangelo, Rv. 651161-02, si è premurata di affrontare la vicenda della proposizione dell’opposizione con atto che si discosti dal paradigma formale imposto dalla legge, costituito da un ricorso rivolto direttamente al giudice dell’esecuzione, da depositarsi quindi nel fascicolo dell’esecuzione già pendente e non da iscriversi nel ruolo contenzioso civile.

Nelle ipotesi di difformità dell’atto di proposizione (ovvero quando esso abbia una forma diversa dal ricorso, oppure quando la domanda giudiziale in esso contenuta non sia rivolta direttamente al giudice dell’esecuzione ma genericamente all’ufficio giudiziario, oppure ancora quando l’atto non venga depositato agli atti del fascicolo del processo esecutivo già pendente, ma venga iscritto direttamente nel ruolo contenzioso ordinario perché sia formato un distinto fascicolo processuale), la S.C. in rassegna ha ravvisato una fattispecie di nullità dell’atto ex art. 156, comma 2, c.p.c.

Ha però ritenuto detta patologia sanata, per raggiungimento dello scopo, ove l’atto sia depositato nel fascicolo della procedura esecutiva e/o comunque pervenga nella sfera di conoscibilità del giudice dell’esecuzione, anche su disposizione di un giudice diverso che ne rilevi la nullità, o su richiesta della parte opponente: in tal caso, la sanatoria opera con effetto dalla data in cui sia emesso il provvedimento che dispone l’inserimento dell’atto nel fascicolo dell’esecuzione ovvero dalla data, se anteriore, della richiesta dell’opponente; laddove il mancato tempestivo inserimento nel fascicolo dell’esecuzione non sia imputabile alla parte opponente ma ad un errore della cancelleria, gli effetti della proposizione della domanda resteranno quelli del deposito dell’atto presso l’ufficio giudiziario, dacché la cancelleria è tenuta ad inserire nel fascicolo dell’esecuzione tutti gli atti che siano oggettivamente interpretabili come diretti al giudice dell’esecuzione, indipendentemente dalla loro forma o dalla loro iscrizione a ruolo.

Nel “progetto esecuzioni” è stato incluso anche un altro tema afferente tutte le parentesi oppositive: gli effetti della caducazione del titolo esecutivo sopravvenuta in pendenza di una opposizione esecutiva e, specificamente, i criteri di regolamentazione delle spese del giudizio di opposizione.

Al riguardo, la necessità di una pronuncia in dichiarata funzione nomofilattica è nata dal riscontro di dubbi ed oscillazioni nella giurisprudenza di legittimità: in alcuni casi (da ultimo, Sez. 6-3, n. 20868/2017, Barreca, Rv. 645366-01) orientata nel senso che, acclarata l’avvenuta caducazione del titolo esecutivo, l’opposizione doveva “ritenersi fondata per qualunque motivo sia stata proposta” per la illegittimità ex tunc dell’esecuzione, per cui il giudice dell’opposizione non poteva, in violazione del principio di soccombenza, condannare l’opponente al pagamento delle spese processuali, sulla base della disamina dei motivi proposti; in altre occasioni (da ultimo, Sez. 3, n. 06016/2017, Chiarini, Rv. 643403-01), prospettante invece la definizione dell’opposizione con declaratoria di cessazione della materia del contendere (per essere l’accertamento della esistenza e dell’idoneità del titolo esecutivo logicamente preliminare rispetto al vaglio sui motivi di opposizione) e il conseguente regolamento delle spese di lite secondo il criterio della soccombenza virtuale, ancorato cioè all’apprezzamento della presumibile fondatezza dei motivi dedotti in opposizione.

A questo secondo indirizzo ermeneutico hanno dato continuità Sez. 3, n. 30857/2018, Rubino, e, Sez. 3, n. 31955/2018, Porreca, ambedue non massimate, relative a vicende scaturenti da opposizioni all’esecuzione ex art. 615 c.p.c. ma con affermazioni di principi giuridici pianamente riferibili anche alle opposizioni agli atti esecutivi e di terzo all’esecuzione.

Con tali pronunce, si è chiarito che la caducazione del titolo esecutivo concreta nelle opposizioni esecutive un’ipotesi di cessazione della materia del contendere per il verificarsi di un evento di indole processuale elidente l’interesse alla decisione sul merito della lite, rendendo superflua l’affermazione giudiziale sulla esistenza del diritto a procedere in executivis, sulla regolarità degli atti esecutivi o sull’assoggettabilità ad espropriazione dei beni pignorati.

In ossequio al principio della domanda, la regolazione delle spese processuali, dunque, non può dipendere dal fatto (esterno, seppur connesso, rispetto ai motivi dedotti in opposizione) del venir meno del titolo, ma va compiuta alla stregua del canone della soccombenza virtuale, declinazione del principio di causalità, con un apprezzamento prognostico sulla astratta fondatezza delle ragioni dell’opposizione, così individuando la parte che, omessa la considerazione della caducazione del titolo, sarebbe stata dichiarata soccombente e sulla quale far gravare, in concreto, il carico delle spese di lite.

Di considerevole rilievo sistematico è la questione esaminata da Sez. 3, n. 07891/2018, D’Arrigo, Rv. 648308-01, chiamata a statuire sulla possibilità di devolvere ad arbitri rituali la decisione sulle opposizioni esecutive.

Nell’indagare sul limite dei diritti indisponibili sancito dall’art. 806 c.c., la pronuncia ha offerto una risposta articolata, fondata sul differente oggetto del giudizio di opposizione all’esecuzione (accertamento negativo del diritto a procedere esecutivamente del creditore) rispetto a quello di opposizione agli atti esecutivi (valutazione di conformità di un atto o segmento dell’esecuzione alle norme processuali, di ordine pubblico, che lo regolano).

La S.C. ha concluso nel senso che la clausola compromissoria per arbitrato rituale può ben concernere le controversie di opposizione all’esecuzione, salvo che in esse non si disputi su diritti indisponibili (ricorrenti in alcune fattispecie di impignorabilità); è per contro esclusa la deferibilità in arbitrato delle opposizioni agli atti esecutivi, avendo queste ad oggetto la verifica dell’osservanza di regole processuali d’ordine pubblico e quindi diritti di cui le parti non possono mai liberamente disporre.

Ulteriore tematica comune alle varie controversie oppositive inserita nel “progetto esecuzioni” ha riguardato la legittimazione passiva nei predetti giudizi sorti in seno a procedimenti di espropriazione contro il terzo proprietario.

Estendendo la portata applicativa del principio affermato da Sez. 3, n. 02333/2017, Frasca, Rv. 642714-01 in relazione alle sole opposizioni agli atti esecutivi, Sez. 3, n. 28526/2018, De Stefano, non massimata (ma già in precedenza Sez. 6-3, n. 17113/2018, De Stefano, Rv. 649547-01), ha ravvisato in tutti i giudizi oppositivi la sussistenza di un litisconsorzio necessario tra creditore, debitore principale (o diretto) e terzo proprietario esecutato, per l’evidente interesse di tutti al controllo di regolarità formale sullo svolgimento del processo esecutivo, alla esatta determinazione del credito o anche soltanto delle garanzie invocate.

7. Opposizione all’esecuzione.

La estensione del thema decidendum del giudizio di opposizione all’esecuzione è correlata alla tipologia del titolo in forza del quale la contestata azione esecutiva sia stata promossa od anche soltanto minacciata.

Se l’esecuzione si fonda su titoli di formazione stragiudiziale, l’opposizione ex art. 615 c.p.c. integra mezzo a critica libera con cui può essere sollevata ogni censura, anche afferente il rapporto sostanziale di debito-credito sotteso al titolo; ove il titolo sia di natura giudiziale, i motivi deducibili sono circoscritti (oltre al difetto dei presupposti, oggettivi e soggettivi, dell’azione esecutiva) ai fatti estintivi, impeditivi o modificativi del diritto a procedere successivi al titolo stesso, restando preclusa – in virtù dei principi del giudicato che copre il dedotto e il deducibile e dell’assorbimento dei vizi di nullità in motivi di gravame – l’allegazione di doglianze inerenti al contenuto intrinseco del titolo o ad eventuali vizi nel suo procedimento di formazione,.

Limitazione dell’oggetto decisionale del giudizio ex art. 615 c.p.c. e delle facoltà difensive dell’opponente che è stata ritenuta (segnatamente, con riguardo alla impossibilità di far valere fatti anteriori alla formazione del titolo) non contraria ai principi del diritto eurounitario e non importante disapplicazione della disciplina del codice di rito civile, come costantemente interpretata dal diritto vivente, per essere in ogni caso garantita ampia tutela nella sede giudiziale in cui si decreta il formale riconoscimento della pretesa creditoria (Sez. 1, n. 16983/2018, Marulli, Rv. 649675-01).

La controversia di opposizione all’esecuzione e quella nella quale sia impugnato il titolo esecutivo di formazione giudiziale presentano ontologiche disomogeneità di oggetto e presupposti, sicché tra dette cause non ricorre un rapporto di pregiudizialità in senso tecnico-giuridico rilevante ex art. 337 c.p.c. o tale da giustificare ex art. 295 c.p.c. la sospensione necessaria del processo di opposizione (Sez. 6-1, n. 04035/2018, Falabella, Rv. 648476-01).

Un particolare fatto successivo alla definitività del titolo esecutivo è stato ravvisato da Sez. 2, n. 07477/2018, Scarpa, Rv. 647999-01: in caso di decreto ingiuntivo per debito del de cuius emesso nei confronti di chiamato all’eredità che abbia dichiarato di accettare con beneficio, qualora all’epoca di esecutorietà del provvedimento monitorio non siano ancora decorsi i termini per il compimento dell’inventario, la limitazione della responsabilità dell’erede per i debiti entro il valore dei beni a lui pervenuti, ex art. 490 c.c. integra motivo deducibile in opposizione all’esecuzione.

Altra vicenda peculiare è stata all’attenzione di Sez. 6-3, n. 17268/2018, De Stefano, Rv. 649839-01, la quale ha attribuito natura sostanziale di opposizione all’esecuzione, riconducibile nell’alveo dell’art. 615 c.p.c., all’opposizione alla vendita della cosa data in pegno prevista dall’art. 2797 c.c. (in quanto si concreta nella contestazione di una pretesa di realizzazione coattiva di un diritto di credito mediante vendita di beni) e ne ha desunto la appellabilità della sentenza che conclude in primo grado siffatta opposizione.

Profili processuali delle opposizioni all’esecuzione di sicuro interesse sono stati esaminati da:

- Sez. 3, n. 16920/2018, Iannello, Rv. 649438-01, puntuale nel ribadire che il valore della controversia ex art. 615 c.p.c. ai fini del riparto di competenza si determina, ai sensi dell’art. 17 c.p.c., in base al complessivo importo indicato nell’atto di pignoramento, non assumendo rilievo la circostanza che la contestazione sia limitata ad una sola frazione del credito azionato esecutivamente;

- Sez. 6-3, n. 01058/2018, Rubino, Rv. 647199-01, in tema di opposizione all’esecuzione successiva, secondo cui il termine per l’iscrizione della causa a ruolo nella fase di merito previsto dall’art. 616 c.p.c. ha, per definizione positiva, carattere perentorio, sicché la sua inosservanza cagiona l’improcedibilità dell’opposizione, anche ove la parte convenuta si sia tardivamente costituita;

- Sez. 6-3, n. 17328/2018, Cirillo F.M., Rv. 649841-01, ad avviso della quale la causa di opposizione all’esecuzione è sottratta alla sospensione feriale dei termini nei gradi di impugnazione soltanto quando la decisione verta unicamente sui motivi di opposizione, operando per contro la sospensione quando il giudice di primo grado si sia pronunciato sulla domanda riconvenzionale avanzata dall’opposto ed in grado di appello sia impugnata e si discuta soltanto di tale ultima statuizione.

8. Opposizione agli atti esecutivi.

L’opposizione agli atti esecutivi è, secondo la migliore qualificazione dogmatica, rimedio a carattere generale e sussidiario, strumentalmente funzionale alla stabilità dei risultati dell’espropriazione forzata.

Essa ha ad oggetto la valutazione di regolarità formale (da intendersi nell’accezione omnicomprensiva sia delle plurime forme di invalidità sia della mera inopportunità) ovvero di conformità di un atto o di un segmento del procedimento esecutivo alle regole (formali e sostanziali) che lo governano ed è esperibile da tutti i soggetti a vario titolo partecipanti all’esecuzione avverso qualsiasi atto o provvedimento reso nell’ambito della procedura per il quale non sia previsto altro strumento di reazione.

Nel delimitare l’ambito dell’impugnativa ex art. 617 c.p.c. con riferimento agli atti provenienti da organi dell’ufficio esecutivo, Sez. 3, n. 05175/2018, De Stefano, Rv. 648289-01, ha chiarito come oggetto dell’opposizione de qua siano esclusivamente atti o provvedimenti riferibili al giudice dell’esecuzione, unico titolare del potere di impulso e controllo del processo esecutivo, sicché, ove l’atto asseritamente contrario a diritto provenga da un ausiliario del giudice – ivi compreso l’ufficiale giudiziario – esso va sottoposto al controllo del giudice dell’esecuzione ai sensi dell’art. 60 c.p.c. o nelle forme desumibili dalla disciplina del procedimento esecutivo azionato, e solamente dopo che questi si sia pronunciato sull’istanza dell’interessato diviene possibile ricorrere ex art. 617 c.p.c. avverso il relativo provvedimento giudiziale (nella specie, era stato opposto un atto dell’ufficiale giudiziario consistente in un preavviso di un successivo accesso forzoso in adempimento di una richiesta di pignoramento mobiliare, preavviso erroneamente indirizzato ad un soggetto diverso dal debitore identificato dal procedente).

Sul tema, ad avviso di Sez. 6-3, n. 09175/2018, Tatangelo, Rv. 648766-01, sulla proponibilità del rimedio ex art. 617 c.p.c. avverso l’ordinanza di approvazione del progetto finale di distribuzione del ricavato dall’espropriazione non assume rilievo la pronuncia, contestuale a tale ordinanza, di una dichiarazione di “estinzione” della procedura, avendo quest’ultima valenza di una mera presa d’atto della chiusura fisiologica dell’espropriazione, come tale inidonea a precludere l’impugnazione nelle forme ordinarie dell’approvazione del progetto di distribuzione.

Soggetta all’opposizione agli atti esecutivi è altresì l’ordinanza di chiusura anticipata del procedimento esecutivo per infruttuosità dell’espropriazione, al pari di ogni altro provvedimento di estinzione atipica della procedura (Sez. 6-3, n. 07754/2018, Scoditti, Rv. 648350-01).

Connotato tipizzante l’opposizione agli atti, espressione della sua funzione di meccanismo di stabilizzazione degli effetti dell’esecuzione, è il rigoroso limite temporale previsto, a pena di preclusione, per l’esperibilità del rimedio, decorrente dalla conoscenza, legale o di fatto, dell’atto che si assume viziato oppure di uno successivo che necessariamente lo presuppone.

Al riguardo, la linea tendenziale della giurisprudenza di legittimità dell’ultimo decennio è stata l’affermazione – che può dirsi oramai radicata – della sufficienza, ai fini del decorso del termine di decadenza previsto dall’art. 617 c.p.c., della conoscenza anche meramente fattuale, purché completa ed inequivoca, dell’esistenza dell’atto o del provvedimento pregiudizievole da opporre.

Nell’anno in rassegna la questione si è riproposta, in reiterate occasioni, in relazione ad opposizioni agli atti avverso ordinanze del giudice dell’esecuzione (declinatorie di competenza) comunicate mediante la trasmissione del solo dispositivo del provvedimento e non già, come prescritto dall’art. 45, comma 4, disp. att. c.p.c., del testo integrale della decisione comprensivo anche della motivazione.

In linea con l’orientamento illustrato, la risposta della Suprema Corte è stata univoca (ex plurimis, Sez. 3, n. 05172/2018, De Stefano, Rv. 648288-01; Sez. 3, n. 07898/2018, Sestini, Rv. 648309-01; Sez. 3, n. 15193/2018, D’Arrigo, Rv. 649055-01): la nullità della comunicazione del provvedimento del giudice dell’esecuzione per inosservanza delle prescritte modalità di trasmissione è suscettibile di sanatoria per raggiungimento dello scopo, anche ai fini del decorso del termine per la proposizione dell’opposizione agli atti esecutivi, qualora l’oggetto della comunicazione sia sufficiente a fondare in capo al destinatario una conoscenza di fatto della giuridica esistenza di un provvedimento del giudice dell’esecuzione potenzialmente pregiudizievole; in tal caso è onere del destinatario, nonostante l’incompletezza della comunicazione, attivarsi per prendere utile e piena conoscenza dell’atto al fine di valutare se e per quali ragioni proporre l’opposizione ai sensi dell’art. 617 c.p.c. oppure, alternativamente, incombe all’opponente dimostrare l’inidoneità in concreto della ricevuta comunicazione ai fini dell’estrinsecazione, nei predetti termini, del suo diritto di difesa.

L’onere di provare la tempestività dell’opposizione agli atti grava in ogni caso sulla parte opponente, tenuta, a pena di inammissibilità dell’opposizione stessa, al duplice incombente di allegare il momento di conoscenza – legale o di fatto – dell’atto che si assume nullo (dies a quo del termine per esperire il rimedio ex art. 617 c.p.c.) e di asseverare, inoltre, la verità di tale allegazione: lo ha ribadito Sez. 6-3, n. 13043/2018, Frasca, Rv. 648881-01, relativa ad una opposizione spiegata da un aggiudicatario avverso un decreto di condanna ex artt. 587, comma 2, c.p.c. e 177 disp. att. c.p.c. sull’assunto della mancata o irrituale comunicazione del prodromico decreto dichiarativo della decadenza dall’aggiudicazione.

L’inosservanza dell’esaminato termine decadenziale è causa di inammissibilità della opposizione agli atti, rilevabile, su eccezione di parte e pure ex officio, in ogni stato e grado del processo: nel giudizio di cassazione, come ha notato Sez. 3, n. 26703/2018, Frasca, Rv. 651169-01, il rilievo officioso della tardività non postula di necessità la previa stimolazione del contraddittorio tra le parti sulla questione, configurandosi l’art. 382, comma 3, c.p.c., come norma speciale sia rispetto all’art. 101, comma 2, c.p.c., sia rispetto all’art. 384, comma 3, c.p.c., il quale si applica nella diversa ipotesi in cui la Corte di cassazione, dopo aver cassato la sentenza, pronunci nel merito assumendo i poteri del giudice della sentenza cassata.

Nell’opposizione agli atti cd. successiva, articolata secondo la scansione bifasica illustrata sopra sub § 6, ai fini del rispetto del termine assegnato dal giudice per l’introduzione della fase di merito non assume rilevanza il compimento della formalità di iscrizione della causa a ruolo, che, pur richiamata nell’art. 618 c.p.c., ha la sola funzione di rimarcare la differente natura della cognizione nelle due fasi del giudizio (Sez. 6-3, n. 19905/2018, Vincenti, Rv. 650286-01).

Ancora in ordine alle opposizioni agli atti successive, il modus ingrediendi del giudizio di merito è legato alla materia oggetto di controversia ed alla disciplina processuale di riferimento, sicché, nelle ipotesi ordinarie di soggezione della causa al modello paradigmatico del rito a cognizione piena, l’atto introduttivo deve rivestire la forma della citazione da notificare entro il termine perentorio stabilito dal giudice all’esito della fase sommaria (Sez. 6-3, n. 31694/2018, Tatangelo, Rv. 651973-01).

Il principio ha trovato applicazione in opposizioni agli atti di natura seriale proposte da un creditore agente quale difensore distrattario delle spese di lite sulla base di titolo giudiziale costituito da provvedimento del giudice del lavoro: in tal caso, la S.C. (tra le tante: Sez. 6-3, n. 05809/2018, De Stefano, Rv. 648347-01; Sez. 3, n. 20995/2018, Saija, Rv. 650444-01), dal rilievo che il credito azionato in executivis dal difensore del lavoratore distrattario delle spese processuali ha natura autonoma e non condivide la natura del credito fatto valere nel giudizio di cognizione (cui semplicemente accede) ha fatto discendere la soggezione al rito ordinario della causa di merito sull’opposizione, con la conseguenza che essa, se per errore introdotta con ricorso, poteva ritenersi tempestivamente proposta (e quindi ammissibile) solo in caso di notifica di siffatto atto introduttivo entro il termine a tale scopo fissato con l’ordinanza conclusiva della fase sommaria dell’opposizione stessa.

Il regime di impugnazione delle sentenze sulla opposizione agli atti è rappresentato dal ricorso ordinario per cassazione.

La regola trova eccezione nell’ipotesi in cui il provvedimento reso in sede di opposizione agli atti esecutivi statuisca unicamente, in senso affermativo o negativo, sulla competenza del giudice della esecuzione alla trattazione della procedura: esso deve infatti essere impugnato con il regolamento necessario di competenza ex art. 42 c.p.c. (Sez. 6-3, n. 08172/2018, Frasca, Rv. 648765-01).

Per contro, la sentenza conclusiva dell’opposizione agli atti che pronunci non soltanto sulla competenza ma anche su questioni ulteriori e diverse non è censurabile con il mezzo necessario di cui all’art. 42 c.p.c. ma va impugnata con il regolamento facoltativo di competenza o con il ricorso ordinario per cassazione (così Sez. 3, n. 26935/2018, Rossetti, Rv. 651142-01, esaminando una sentenza che, oltre a confermare l’ordinanza del giudice dell’esecuzione dichiarativa della propria incompetenza per territorio, aveva negato espressamente l’applicabilità al processo esecutivo dell’istituto della translatio iudicii ex art. 50 c.p.c.).

9. Opposizione di terzo all’esecuzione.

Anche la opposizione di terzo all’esecuzione è stata argomento del “progetto esecuzioni” del giudice della nomofilachia, impegnato a tracciare gli esatti confini – non di rado incerti nella casistica applicativa – tra il rimedio disciplinato dall’art. 619 c.p.c., l’opposizione all’esecuzione di cui all’art. 615 c.p.c. e l’opposizione di terzo ordinaria ex art. 404 del codice di rito.

Ponendosi sulle orme di Sez. U, n. 01238/2015, Frasca, Rv. 634089, Sez. 3, n. 29850/2018, Porreca, non massimata, ha in primo luogo dato continuità al principio secondo cui il terzo legittimato all’opposizione ordinaria ex art. 404, comma 1, c.p.c., non può proporre opposizione all’esecuzione intentata sulla base di un titolo giudiziale formatosi inter alios, salvo che sostenga che quanto stabilito dal predetto titolo sia stato soddisfatto oppure sia stato modificato da vicende successive, nel qual caso deve ritenersi legittimato al rimedio di cui all’art. 615 c.p.c.; qualora invece l’esecuzione del titolo formatosi inter alios si estenda al di fuori dell’oggetto previsto nella statuizione giudiziale il terzo stesso può opporsi nelle forme previste dall’art. 619 c.p.c. quale soggetto la cui posizione è effettivamente incisa dall’esecuzione, ancorché formalmente terzo rispetto ad essa.

Ha poi rimarcato la disomogeneità, di tipo funzionale e strutturale, tra (a) l’opposizione di terzo ordinaria ex art. 404 c.p.c., mezzo d’impugnazione straordinario, volto a rendere inopponibile una statuizione resa tra altri e di per sé inidonea a pregiudicare il terzo, stante la portata del giudicato sostanziale, ai sensi dell’art. 2909 c.c., tra le sole parti del giudizio, i loro eredi e aventi causa e (b) l’opposizione all’esecuzione, diretta (art. 615 c.p.c.) o di terzo (art. 619 c.p.c.), rimedio contro gli errori concernenti l’esecuzione, e non contro quelli inerenti al titolo, non utilizzabile per contestare il contenuto del titolo giudiziale, declinandosi altrimenti come illogica ed inammissibile duplicazione dei mezzi di impugnazione; diversità tra le due azioni ostativa ad una possibile riqualificazione da parte del giudice adito, anche per la differente competenza a decidere.

L’elemento tipizzante l’opposizione di terzo ordinaria risiede dunque nell’affermazione da parte dell’opponente di una situazione giuridica soggettiva in thesi incompatibile con quella accertata nel provvedimento giudiziale tra altri reso ed azionato in executivis.

La peculiarità della pronuncia in rassegna (e, ad un tempo, l’elemento di maggior significato) consiste nella precisazione che l’incompatibilità del diritto tutelabile con l’opposizione di terzo ordinaria è estesa anche a profili fattuali giuridicamente rilevanti: nella specie, in una esecuzione per rilascio di immobile intrapresa in forza di una sentenza di risoluzione di un contratto di comodato, il vanto ad opera del terzo della proprietà del bene rilasciando (e del godimento di questo in base al diritto dominicale) è stato ritenuto integrare la deduzione di un’incompatibilità fattuale giuridicamente rilevante con la statuizione contenuta nel provvedimento di rilascio, motivo di una opposizione ex art. 404, comma 1, c.p.c. e non già di una opposizione all’esecuzione, diretta o di terzo.

Ancora in tema di opposizione di terzo all’esecuzione, degna di menzione è Sez. 3, n. 03700/2018, Tatangelo, Rv. 647946-01: individuato l’oggetto del giudizio ex art. 619 c.p.c. nell’accertamento di un diritto reale (prevalente ed incompatibile con il pignoramento) sul bene staggito, è stata considerata preclusa la deduzione ad opera del terzo opponente dell’impignorabilità del bene stesso, situazione nemmeno suscettibile di rilievo ex officio del giudice dell’opposizione, attesi i limiti oggettivi della controversia.

Legittimato a proporre opposizione di terzo all’esecuzione ex art- 619 c.p.c. è anche il terzo che, in pendenza dell’esecuzione forzata e dopo la trascrizione del pignoramento immobiliare, ha acquistato a titolo particolare il bene pignorato: detto acquirente, soggiacendo alla disposizione di cui all’art. 2913 c.c. (ovvero alla inefficacia verso il ceto creditorio delle alienazioni della res staggita successive al pignoramento), non succede nella posizione di soggetto passivo dell’esecuzione in corso (e, pertanto, non può agire in opposizione all’esecuzione ai sensi dell’art. 615 c.p.c.) ma può avvalersi unicamente del rimedio ex art. 619 c.p.c. allo scopo di far valere l’eventuale inesistenza o la nullità della trascrizione per sottrarre il bene all’espropriazione, potendo inoltre comunque partecipare alla distribuzione del prezzo ricavato dalla vendita forzata eventualmente residuato dopo che siano stati soddisfatti il creditore procedente ed i creditori intervenuti nella procedura (Sez. 6-3, n. 19809/2018, Vincenti, non massimata).

10. La stabilità degli effetti dell’esecuzione forzata.

Pur in assenza di una esplicita affermazione in una disposizione positiva, costituisce principio immanente dell’esecuzione forzata, desunto dal complessivo ordito normativo, la irretrattrabilità dei risultati delle procedure esecutive.

Riconducibile all’esigenza di legalità intrinseca dell’attività giurisdizionale e di salvaguardia della funzionalità del sistema delle esecuzioni forzate, la stabilità dell’assetto di interessi delineato dal provvedimento finale delle procedure esecutive è il portato del complesso dei rimedi interni al procedimento (le varie tipologie di opposizioni ma anche le istanze di revoca o modifica) apprestati dall’ordinamento a tutela delle parti e degli altri soggetti coinvolti nel processo esecutivo lesi dagli atti dello stesso, rimedi il cui esperimento rappresenta una facoltà ma anche un onere, dacché strumentale a conseguire, mediante il meccanismo della preclusione, un esito sostanziale non più modificabile.

In altri termini, la conclusione del processo esecutivo non tollera, in linea tendenziale, la sopravvivenza di pretese di tutela dagli effetti pregiudizievoli dei suoi atti, nemmeno solo risarcitorie, ulteriori rispetto alle azioni tipiche a tanto destinate al suo interno.

Il principio ha trovato conferma nell’annata in disamina.

Sez. 3, n. 20994/2018, Saija, Rv. 650324-01, ha sostenuto infatti che il provvedimento che chiude il procedimento esecutivo, pur privo, per la mancanza di contenuto decisorio, di efficacia di giudicato, è tuttavia caratterizzato da una definitività insita nella chiusura di un procedimento esplicato col rispetto delle forme atte a salvaguardare gli interessi delle parti, e come tale incompatibile con qualsiasi sua revocabilità, sussistendo un sistema di garanzie di legalità per la soluzione di eventuali contrasti, all’interno del processo esecutivo; da ciò ha concluso che il soggetto espropriato non può esperire, dopo la chiusura del procedimento di esecuzione forzata, l’azione di ripetizione di indebito contro il creditore procedente (o intervenuto) per ottenere la restituzione di quanto costui abbia riscosso, sul presupposto dell’illegittimità per motivi sostanziali dell’esecuzione forzata.

Sulla base delle medesime premesse, Sez. 3, n. 26927/2018, Rubino, Rv. 650910-01 (facente parte del “progetto esecuzioni”), ferma la impossibilità di porre in discussione fuori dal processo esecutivo la validità o l’efficacia della distribuzione del ricavato, ha però specificato che il soggetto espropriato che abbia fatto valere l’illegittimità dell’esecuzione mediante opposizione proposta in pendenza della procedura ma accolta successivamente alla chiusura della stessa, può esperire, sul presupposto di tale illegittimità, una separata azione di ripetizione dell’indebito ai sensi dell’art. 2033 c.c. nei confronti del creditore per ottenere la restituzione di quanto dallo stesso riscosso.

  • giurisdizione civile
  • Corte europea dei diritti dell'uomo

APPROFONDIMENTO TEMATICO

IL “PROGETTO ESECUZIONI” DELLA TERZA SEZIONE CIVILE DELLA SUPREMA CORTE

(di Giovanni Fanticini )

Sommario

1 Il recupero della funzione nomofilattica. - 2 L’interrogazione preventiva del giudice della nomofilachia nell’ordinamento italiano e in altri ordinamenti. - 3 La pilot-judgment procedure della Corte europea diritti dell’uomo. - 4 La “buona prassi” del Progetto. - 5 Ulteriori prospettive.

1. Il recupero della funzione nomofilattica.

La legge sull’ordinamento giudiziario definisce i compiti della Corte di cassazione in questi termini: «La Corte Suprema di cassazione, quale organo supremo della giustizia, assicura l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo nazionale, il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni; regola i conflitti di competenza e di attribuzioni, ed adempie gli altri compiti ad essa conferiti dalla legge.» (art. 65 del r.d. 30 gennaio 1941, n. 12).

In base a tale norma, dunque, alla Corte, quale giudice di ultima istanza, spetta il controllo della decisione impugnata – il cosiddetto ius litigatoris – per verificare se il giudice di merito abbia correttamente interpretato la norma nel caso concreto, ma anche, e soprattutto, il compito – essenzialmente nomofilattico – di fornire orientamenti ermeneutici della legislazione e di assicurare l’unitarietà dell’ordinamento giuridico (il cosiddetto ius constitutionis).

La crescente mole delle controversie pendenti e la necessità di osservare il principio costituzionale di ragionevole durata del processo hanno lentamente ed inevitabilmente costretto la Corte alla trattazione di un numero sempre più elevato di procedimenti, a volte senza un razionale accorpamento delle questioni attualmente controverse e prescindendo dal mutevole quadro sostanziale e processuale del diritto.

Infatti, proprio l’imponente carico dei fascicoli implica che il giudice della legittimità spesso vada a risolvere, senza prefissati itinerari giuridici, questioni attinenti ad un quadro normativo passato (o, addirittura, ormai mutato) e non affronti i temi dibattuti nel contesto, con la conseguenza ulteriore che la confusione di principi in cui versano i giudici del merito e la mancanza di pronunzie nomofilattiche diviene ex se fonte di ulteriore contenzioso.

Pur non essendo dogmaticamente corretta la contrapposizione tra ius litigatoris e ius constitutionis nel giudizio di legittimità (dovendosi piuttosto parlare dei suoi profili in positivo – la fissazione di un principio di diritto per il futuro – e in negativo – la cassazione delle decisioni non conformi alla norma interpretata), l’esigenza di definire un numero sempre più elevato di controversie ha comportato una progressiva diminuzione della funzione nomofilattica – di interesse pubblico – assegnata alla Suprema Corte.

La necessità di recuperare al giudice di legittimità il suo principale compito istituzionale – la nomofilachia – ha animato il “Progetto esecuzioni” (varato nel 2018 dalla Terza Sezione Civile), una nuova «metodologia organizzativa ... volta alla rilevazione e concentrazione delle questioni nuove o che presentano specifiche “criticità” in apposite udienze dedicate» (così, Sez. 3, n. 26049/2018, Olivieri, non massimata).

Se il giudizio di cassazione è tradizionalmente considerato come “occasionale” – nel senso che la controversia tra privati costituisce per la Corte l’occasione per svolgere la sua funzione nomofilattica – con la prassi applicativa del Progetto si ribalta il rapporto tra ricorso e decisione di legittimità: è lo stesso giudice che, selezionate le questioni attualmente più rilevanti e/o controverse, individua una controversia che fornisca l’opportunità di emettere una decisione capace di orientare le future determinazioni dei giudici di merito (e non soltanto di correggere le pronunzie già emesse) e, così, di assicurare tempestivamente l’uniforme interpretazione del diritto nazionale.

In altri termini, il Progetto ha come obiettivo una nomofilachia “viva”, attuata da una Corte maggiormente corrispondente al pensiero di Piero Calamandrei: «La Corte di cassazione […] non è istituita per raggiungere soltanto quello scopo, in senso stretto giurisdizionale, per il conseguimento del quale sono istituiti tutti gli altri giudici […] e che consiste nell’attuazione del diritto in concreto, mediante l’accertamento delle singole volontà di legge che scaturiscono, per regolare i rapporti individuali, dal coincidere di una fattispecie reale con una fattispecie legale. Anche la Corte coopera a questa funzione giurisdizionale in senso stretto, consistente nel rendere giustizia ai singoli ma questa sua cooperazione è per essa mezzo, non fine; perché il fine ultimo che essa, come suo ufficio esclusivo, persegue è più vasto ed eccedente i limiti della singola controversia decisa […]. Il suo scopo ultimo è, dunque, uno scopo di più ampia portata, che non quello strettamente giurisdizionale dei giudici di merito: è uno scopo di carattere costituzionale, di coordinazione tra funzione legislativa e funzione giudiziaria, che attiene più che alla fase di applicazione del diritto al caso concreto alla fase di formazione e formulazione del diritto […]. In quanto si ritenga che la giurisprudenza abbia un’efficacia creatrice o trasformatrice del diritto, la Corte è al centro di questa perpetua emanazione giurisprudenziale di questa dinamica che instancabilmente ringiovanisce ed adegua la legge alle sempre nuove esigenze della vita e dei rapporti economico-sociali» (Calamandrei – Furno, Cassazione civile, in Noviss. Dig. Ital., II, Torino, 1958, 1055 ss.).

2. L’interrogazione preventiva del giudice della nomofilachia nell’ordinamento italiano e in altri ordinamenti.

Sono limitate le fattispecie normative in cui il giudice di merito può adire preventivamente l’organo giurisdizionale al quale è attribuita la funzione nomofilattica.

De iure condito, nell’ordinamento italiano le uniche forme di “interrogazione preventiva” – volta a risolvere problemi interpretativi presentatisi nel merito – si rinvengono nell’art. 64 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 e nel successivo art. 420-bis c.p.c. (istituto funzionale alla «valorizzazione della funzione nomofilattica nel processo di cassazione», come sottolineato da Corte cost., 5 dicembre 2008, n. 404), riguardanti l’accertamento pregiudiziale sull’efficacia, validità ed interpretazione dei contratti e accordi collettivi.

Le predette disposizioni, anche se limitate ad uno specifico settore e a ristrette ipotesi applicative, disegnano un «istituto che, consentendo un “dialogo” rapido, diretto e collettivo tra giudici di legittimità e giudici di merito, si presta molto bene a consentire il corretto dipanarsi di una nomofilachia realmente “circolare”». (Menicucci, Giudizio di cassazione e cause di lavoro, in Lavoro nella Giur., 2018, 8-9, 779 ss.).

Manca, però, uno strumento generale che consenta ai giudici di merito di investire la Suprema Corte delle questioni attualmente più rilevanti e controverse, le quali pervengono all’esame del giudice di legittimità dopo diversi anni e, di regola, dopo due gradi di giudizio.

In Francia, invece, sin dal 1991 è stata istituita la demande d’avis (o saisine pour avis) – disciplinata dall’art. 441-1 del Code de l’organisation judiciaire e dagli artt. 1031-1 ss. del Code de procédure civile – che permette agli organi giurisdizionali di «solliciter l’avis de la Cour de cassation» prima di assumere decisioni su questioni implicanti l’applicazione di nuove norme, di complessa lettura e riguardanti numerose controversie.

Il dichiarato scopo dell’istituto è essenzialmente nomofilattico – permettere una più rapida unificazione dell’interpretazione delle norme giuridiche (così, espressamente, il Rapport del 24 aprile 1991, nei lavori preparatori della Loi n° 91-491 del 15 maggio 1991) – ma ne è ovvia conseguenza anche la deflazione del contenzioso derivante dalla sollecita definizione del significato della legge da parte del giudice di ultima istanza.

Alcune analogie possono riscontrarsi con il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, previsto dall’art. 267 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, che assicura la nomofilachia nel diritto eurounitario attribuendo alle giurisdizioni di merito la facoltà (che diviene obbligo per la Corte di cassazione) di investire la CGUE prima di adottare una decisione implicante l’interpretazione dei trattati o degli atti delle istituzioni o degli organi dell’Unione.

3. La pilot-judgment procedure della Corte europea diritti dell’uomo.

Una struttura assimilabile a quella architettata col “Progetto esecuzioni” (che sarà descritta nel successivo paragrafo) si rinviene nella procedura di “sentenza pilota” (pilot-judgment procedure o procédure de l’arrêt pilote) della Corte europea dei diritti dell’uomo, che testimonia in modo manifesto il superamento della funzione di “giustizia del caso concreto” tradizionalmente assolta dalla CEDU.

La procedura in esame si trova attualmente codificata nell’art. 61 del Regolamento della Corte europea dei diritti dell’uomo, come emendato il 21 febbraio 2011 in accoglimento delle richieste avanzate all’esito della Conferenza di Interlaken del 18 e 19 febbraio 2010.

La tecnica consiste nel selezionare uno o più ricorsi ritenuti rappresentativi di un problema diffuso e sistematico e nel dare loro un trattamento prioritario (a norma dell’art. 41 del citato Regolamento).

Nella sua sentenza, poi, la Corte individua i problemi strutturali alla base delle ripetute violazioni della Convenzione da parte di uno Stato contraente e indica le misure generali utili a porvi rimedio, incentivando lo Stato alla creazione di meccanismi interni capaci di far fronte ai ricorsi simili o, quantomeno, di far giungere a soluzione tutti i casi affini già pendenti (Simone, Decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo e ordinamento giuridico nazionale: gli effetti delle “sentenze pilota”, in Proc. pen. giust., 2014, 2, 133 ss.).

La procedura di “sentenza pilota” persegue diverse finalità: in primis, garantire ai soggetti lesi una soluzione più rapida ed effettiva delle disfunzioni dell’ordinamento nazionale che hanno condotto alla lesione dei diritti garantiti dalla Convenzione; in secondo luogo, assistere lo Stato membro nella individuazione delle soluzioni opportune. Scopo ulteriore è quello di ridurre il carico di lavoro della Corte stessa, cosicché le stesse conclusioni non debbano essere ripetute in vicende che sono suscettibili di dare corso ad una elevata serie di ricorsi.

Proprio in base a queste brevi osservazioni ci si avvede, però, che la pilot-judgment procedure assolve a funzioni “pedagogiche” (nei confronti delle Alte Parti contraenti, perché adottino tempestivamente misure di portata generale) e “deflattive” e non assume, invece, intenti di nomofilachia – intesa come «l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, [e] l’unità del diritto oggettivo» – che non è predicabile per un giudice extra ordinem.

4. La “buona prassi” del Progetto.

«Un esempio di best practice nel settore giustizia, per coniugare le ragioni del diritto con quelle dell’economia, rafforzando la funzione della Cassazione nell’assicurare un’uniforme interpretazione della legge. In questa direzione si muove il «Progetto esecuzioni» della Terza Sezione Civile» (così Negri, Con il «Progetto esecuzioni» priorità alle cause più rilevanti, IlSole24Ore, 22 novembre 2018, 34).

La nuova prassi tende a una razionale e mirata gestione delle pendenze nella materia dell’esecuzione civile (tabellarmente di competenza della Terza Sezione) mediante l’individuazione, compartecipata da tutti gli operatori del diritto (attraverso forum specializzati, convegni e riviste giuridiche), delle questioni di maggior rilievo e maggiormente controverse negli uffici di merito.

La ricerca – condotta dal gruppo di lavoro istituito in seno alla Sezione (composto dai magistrati dell’Ufficio del Massimario destinati alla collaborazione nell’attività di spoglio e classificazione dei processi, dai sei Consiglieri e dal Presidente di Sezione esperti del settore) – mira ad individuare le questioni di rilevanza nomofilattica, identificabili:

- in quelle che riguardano tematiche di grande attualità e rilevanza, ma non ancora esaminate o approfondite: la loro risoluzione prioritaria contribuisce a superare il divario temporale tra le riforme legislative e la loro interpretazione da parte della Corte di cassazione, con proficua e tempestiva somministrazione di linee applicative tali da orientare i giudici di merito e la platea di operatori pratici;

- in quelle che soffrono di divergenti interpretazioni dei giudici di merito, oppure di incertezze e dubbi indotti da giurisprudenza di legittimità oscillante o eccessivamente remota o la cui tenuta debba essere rimeditata in ragione di mutati contesti ordinamentali;

- in quelli di impatto sistematico e di immediata ricaduta sulle procedure pendenti, riesaminate nel loro aspetto operativo concreto ed attraverso pronunzie rivolte, per quanto possibile, a disciplinare le conseguenze applicative nel quotidiano lavoro dei giudici dell’esecuzione forzata e dei loro ausiliari.

All’individuazione delle questioni seguono:

1) il reperimento informatico, tra le cause pendenti in Sezione (in precedenza oggetto di attenta schedatura da parte dei magistrati destinati allo spoglio e alla classificazione), di quelle che siano portatrici di una o più di quelle stesse questioni;

2) l’accorpamento di quelle controversie in un’unica udienza;

3) la divulgazione agli operatori del settore di un calendario di udienze che faccia esplicita menzione dei temi trattati, così che i giudici di merito possano, a loro volta, razionalmente gestire il proprio ruolo.

Il risultato è dunque duplice.

Da un lato, è la stessa Corte che ricerca e seleziona le questioni principali da decidere in quanto di maggiore impatto nel settore, anziché attendere passivamente la disamina di ricorsi sottoposti al suo esame, secondo un criterio “occasionale” (e spesso soltanto casuale); così, il giudice di legittimità progetta la propria nomofilachia all’esito di una meditata riflessione (interpretando ed adeguando all’attualità l’insegnamento di Calamandrei, è «la giurisprudenza [che] trova in sé medesima il rimedio dei suoi mali, il limite alle sue deviazioni»).

Dall’altro lato, la ricerca e selezione delle questioni avviene mediante la gestione compartecipata delle criticità del settore, con apporti decisivi della giurisprudenza di merito o, comunque, di tutti gli altri operatori specializzati attraverso gli strumenti che questi quotidianamente usano: esse, infatti, sono ricavate dagli interventi su riviste specializzate, su forum (e anche su chat) di giudici o di professionisti del settore, oppure nel corso di incontri organizzati dall’Accademia su temi da questa considerati sensibili. La progettazione nomofilattica è, dunque, circolare: dalla “base” provengono informazioni utili per stabilire l’oggetto delle decisioni della Corte; queste ritornano alla “base” come utile e tempestivo patrimonio di principi certi, stabili e deflattivi del contenzioso.

Nel calendario sezionale è stata dedicata al “Progetto esecuzioni” almeno un’udienza pubblica al mese, con assegnazione al Collegio di un limitato numero di ricorsi, sì da consentire un adeguato approfondimento delle questioni e l’emissione di pronunce propriamente nomofilattiche (Sez. 6-3, n. 28848/2018, Tatangelo, non massimata, riconosce espressamente il «valore nomofilattico di una sentenza emessa nell’ambito del cd. “progetto esecuzioni” della Terza Sezione Civile»), contenenti una chiara enunciazione del principio di diritto (tendenzialmente, anche a norma dell’art. 363, comma 3, c.p.c.) e destinate ad avere sensibili ricadute sull’effettività della risposta di giustizia in materia di esecuzione forzata.

Il Progetto è stato ideato per lo specifico settore dell’esecuzione forzata, dove l’esigenza nomofilattica è particolarmente sentita, sia per l’elevato impatto economico e sociale dei processi esecutivi, sia per il peculiare tecnicismo delle disposizioni che li regolano, sia per i frequenti e ripetuti interventi del legislatore sulla materia (con riforme adottate negli anni 2006, 2009, 2012, 2014, 2015, 2016 e 2018), sia per la pressante necessità di fornire indirizzi ermeneutici chiari, univoci e tempestivi in un ambito che è caratterizzato da numerose ed eterogenee prassi ed interpretazioni.

È evidente, però, che le medesime caratteristiche e la correlata esigenza di nomofilachia si possono rinvenire in altri settori giuridici (a mero titolo esemplificativo, nel diritto delle procedure concorsuali e in varie controversie tributarie).

5. Ulteriori prospettive.

L’individuazione di una questione che richieda una pronuncia nomofilattica non è di per sé sufficiente ad un completo sviluppo del “Progetto esecuzioni”, poiché è possibile che nel ruolo della Terza Sezione manchino procedimenti che la riguardano oppure che i provvedimenti di merito in cui essa è affrontata non siano impugnabili con ricorso per cassazione.

In tali casi, è stata sollecitata, anche da parte dell’Accademia, la collaborazione del Procuratore Generale presso la Corte di cassazione, che – avvalendosi del potere di domandare la pronuncia del principio di diritto nell’interesse della legge (art. 363 c.p.c.) – ha facoltà di richiedere, a scopi essenzialmente nomofilattici, l’esame dei provvedimenti dei giudici di merito che non siano stati impugnati o che non siano assoggettabili al rimedio del ricorso.

  • giurisdizione civile
  • competenza giurisdizionale
  • ingiunzione
  • sfratto

CAPITOLO XIX

I PROCEDIMENTI SPECIALI

(di Andrea Penta )

Sommario

1 Procedimento d’ingiunzione. Giurisdizione e competenza. - 1.1 Il procedimento monitorio cd. puro: i crediti professionali. - 1.2 Notificazione del decreto ingiuntivo. - 1.3 Giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo. - 1.4 Esecutorietà del decreto ingiuntivo. - 1.5 Opposizione tardiva. - 2 Il procedimento per convalida di licenza e sfratto. - 3 Procedimenti cautelari. - 4 Procedimento sommario di cognizione. - 4.1 Istruttoria. - 4.2 Impugnazione dell’ordinanza conclusiva. - 4.3 Procedimento sommario esclusivo in tema di liquidazione dei compensi professionali. - 5 Procedimenti possessori. - 6 Procedimenti in camera di consiglio. - 7 Inventario. - 8 Giudizio di scioglimento delle comunioni.

1. Procedimento d’ingiunzione. Giurisdizione e competenza.

Il procedimento monitorio, disciplinato dagli artt. 633 e ss. c.p.c., è come noto un procedimento sommario alternativo al giudizio ordinario di cognizione che il creditore munito di prove scritte a tal fine idonee può incardinare inaudita altera parte per ottenere un provvedimento di condanna nei confronti del debitore, il quale potrà opporre il decreto ingiuntivo incardinando, in tal modo, un processo ordinario avente ad oggetto la sussistenza della pretesa creditoria.

In quanto alternativo al giudizio ordinario di cognizione, operano in ordine alla giurisdizione ed alla competenza ai fini dell’emissione del provvedimento monitorio le medesime regole che trovano applicazione per il primo e la cui violazione viene, di norma, dedotta dal debitore in sede di opposizione.

Ciò posto, nell’anno in rassegna, in tema di giurisdizione, Sez. U, n. 22433/2018, Genovese, Rv. 650459-03, ha chiarito che, in tema di opposizione a decreto ingiuntivo, quando all’esito del regolamento preventivo di giurisdizione sia stato dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice nazionale, si determina una improseguibilità del giudizio di merito, in quanto il giudice italiano, pur avendo avuto il potere di adottare il provvedimento poi opposto, non ha più quello di decidere la relativa controversia, se non limitandosi a dichiarare la nullità del detto decreto monitorio.

In materia di competenza si segnala, in primo luogo, Sez. 6-3, n. 16089/2018, Graziosi, Rv. 649430-01, per la quale la sentenza di primo grado che abbia dichiarato la nullità del decreto ingiuntivo opposto in quanto emesso da giudice territorialmente incompetente ha natura di decisione esclusivamente sulla competenza, essendo la dichiarazione di nullità un mero effetto di diritto di tale declaratoria; essa, pertanto, è impugnabile solo con regolamento necessario di competenza, ex art. 42 c.p.c., e non mediante appello, la cui inammissibilità, se non dichiarata dal giudice di secondo grado, è rilevabile anche d’ufficio in sede di legittimità.

Sez. 6-2, n. 01366/2018, Criscuolo, Rv. 647346-01, ha chiarito che, in caso di continenza di cause, l’una introdotta con rito ordinario e l’altra mediante deposito telematico di un ricorso per decreto ingiuntivo, la pendenza del procedimento monitorio va valutata, ai fini dell’individuazione del giudizio preveniente, con riferimento al momento in cui viene generata la ricevuta di avvenuta consegna da parte del gestore di posta elettronica certificata, ex art. 16-bis, comma 7, del d.l. n. 179 del 2012, conv. dalla l. n. 221 del 2012 e non da quella successiva in cui il ricorso è stato effettivamente iscritto a ruolo da parte del personale di cancelleria, essendo l’intento del legislatore quello di prevenire il rischio di ritardi o decadenze incolpevoli a carico della parte e riconducibili agli eventuali, sebbene non auspicabili, ritardi nella lavorazione degli atti oggetto di invio telematico da parte della cancelleria.

A propria volta, Sez. 6-3, n. 33180/2018, Tatangelo, Rv. 652092-01, ha ritenuto sussistente una relazione di continenza tra la causa di opposizione a decreto ingiuntivo vertente sul diritto alla restituzione della somma assegnata all’esito di un procedimento di espropriazione presso terzi e quella di opposizione agli atti esecutivi avente ad oggetto l’individuazione del soggetto legittimato a percepire le somme pignorate in detta procedura esecutiva, evidenziando che in entrambi giudizi occorre accertare definitivamente la titolarità del diritto all’assegnazione delle somme pignorate.

La contemporanea pendenza, relativamente al medesimo credito, di un procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo e di un procedimento di opposizione a precetto intimato sulla base di quel medesimo titolo, non comporta, secondo quanto precisato da Sez. 3, n. 30183/2018, Scoditti, Rv. 651850-01, modificazioni della competenza, che appartiene rispettivamente, secondo criteri inderogabili, in base all’art. 645 c.p.c., al giudice che ha emesso il decreto ingiuntivo opposto e, in base agli artt. 27 comma 1, e 615 comma 1, c.p.c. al giudice del luogo dell’esecuzione competente per materia e per valore. Ne deriva che il simultaneus processus di opposizione a decreto ingiuntivo e di opposizione a precetto è possibile se il giudice che ha emesso l’ingiunzione coincide con quello del luogo dell’esecuzione competente per materia e per valore.

1.1. Il procedimento monitorio cd. puro: i crediti professionali.

Per Sez. 2, n. 17655/2018, Cavallari, Rv. 649453-02, in tema di onorari dovuti agli avvocati la mancanza del parere dell’ordine professionale (non necessario, peraltro, quando il compenso sia predeterminato sulla base di una tariffa obbligatoria, quale quella riguardante i diritti di procuratore stabiliti ex lege in misura fissa) e della parcella contenente l’esposizione delle spese e dei diritti, secondo quanto dispone l’art. 636 c.p.c. ai fini dell’emissione del decreto ingiuntivo, può essere eventualmente rilevante solo sotto il profilo del regolamento delle spese processuali, ma non impedisce al giudice dell’opposizione di valutare la fondatezza della pretesa creditoria alla luce di ogni elemento in atti.

La precisazione è importante, in quanto fa comprendere che non occorre depositare tale parere unitamente al ricorso monitorio e che la sua mancanza non determina l’attivazione dei poteri giudiziali di sollecitazione all’integrazione, ai sensi dell’art. 640 c.p.c.

D’altra parte, Sez. 6-2, n. 00712/2018, Criscuolo, Rv. 647975-01, ha precisato che, in materia di liquidazione delle competenze professionali dell’avvocato, il giudice non è vincolato al parere di congruità del Consiglio dell’Ordine, dal quale può discostarsi indicando, sia pure sommariamente, le voci per le quali ritiene il compenso non dovuto oppure dovuto in misura ridotta; nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo non è più sufficiente la prova dell’espletamento dell’opera e dell’entità delle prestazioni fornita con la produzione della parcella e del relativo parere della competente associazione professionale (art. 636 c.p.c.) e spetta al professionista, nella sua qualità di attore, fornire gli elementi dimostrativi della pretesa, per consentire al giudice la verifica delle singole prestazioni svolte e la loro corrispondenza con le voci e gli importi indicati nella parcella.

Nel rinviare al § 13 per un approfondimento, occorre sin d’ora considerare che, quanto al rito applicabile per la tutela dei crediti professionali forensi, è intervenuta Sez. U, n. 04485/2018, Frasca, Rv. 647316-02, la quale, dirimendo un contrasto che era insorto in seno alla Corte, ha statuito, da un lato, che la controversia di cui all’art. 28 della l. n. 794 del 1942, introdotta sia ai sensi dell’art. 702-bis c.p.c., sia in via monitoria, avente ad oggetto la domanda di condanna del cliente al pagamento delle spettanze giudiziali dell’avvocato, resta soggetta al rito di cui all’art. 14 del d.lgs. n. 150 del 2011 anche quando il cliente sollevi contestazioni relative all’esistenza del rapporto o, in genere, all’an debeatur e, dall’altro, che, a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 14 del d.lgs. n. 150 del 2011, la medesima controversia può essere introdotta solo con un ricorso ai sensi dell’art. 702-bis c.p.c. o ai sensi degli artt. 633 ss. c.p.c., fermo restando che la successiva eventuale opposizione deve essere proposta ai sensi dell’art. 702-bis ss. c.p.c. (Sez. U, n. 04485/2018, Frasca, Rv. 647316-01).

Pertanto, laddove il cliente, dopo la proposizione dell’opposizione al decreto ingiuntivo ottenuto dall’avvocato per i propri compensi, ampli l’oggetto del giudizio con la proposizione di una domanda non esorbitante la competenza del giudice adito ex art. 14 d.lgs. n. 150/2011, la trattazione delle due domande avverrà con il rito sommario, mentre, in caso contrario, con il rito ordinario a cognizione piena (Sez. 6-3, n. 17467/2018, Rubino, non massimata quanto a questo profilo). Non può trascurarsi, tuttavia, la precisazione effettuata da Sez. 6-3, n. 17467/2018, Rubino, Rv. 650238-01, secondo cui la querela di falso proposta in sede di opposizione a decreto ingiuntivo relativo a spettanze professionali dell’avvocato per attività giudiziale, è incompatibile con il rito sommario di cognizione previsto per tali controversie, con conseguente necessità per il giudice di provvedere alla separazione dei giudizi, dovendo quello relativo all’accertamento della falsità del documento essere assoggettato al rito ordinario a cognizione piena ed essere trattato dal giudice collegiale, con sospensione del procedimento di opposizione.

1.2. Notificazione del decreto ingiuntivo.

Nel procedimento per ingiunzione il contraddittorio nei confronti del debitore si realizza soltanto ex post, ossia dopo l’emanazione del decreto monitorio che deve essere notificato a pena di inefficacia, entro il termine di quaranta giorni previsto dall’art. 644 c.p.c., al debitore.

Sez. L, n. 25716/2018, Marchese, Rv. 650945-01, seguendo l’impostazione data dalla Corte costituzionale con le pronunce nn. 477 del 2002 e 28 del 2004, ha ribadito che la notificazione del decreto ingiuntivo deve ritenersi perfezionata, per il notificante, al momento della consegna del plico all’ufficiale giudiziario, in virtù di un principio di portata generale, posto a tutela dell’interesse del notificante, a non vedersi addebitato l’esito intempestivo del procedimento notificatorio per la parte sottratta alla sua disponibilità.

Sez. 6-3, n. 23903/2018, Tatangelo, Rv. 650884-01, ha escluso che possa essere dichiarata ex art. 188 disp. att. c.p.c. l’inefficacia di un decreto ingiuntivo nel caso in cui la notifica si sia regolarmente perfezionata ai sensi dell’art. 140 c.p.c., ma sia stata effettuata in luogo diverso dalla residenza che il destinatario aveva al momento della notificazione, costituendo tale ipotesi un caso di nullità e non di inesistenza della notifica, che ricorre, oltre che nel caso di totale mancanza dell’atto, nelle sole ipotesi in cui sia posta in essere un’attività priva degli elementi costitutivi essenziali idonei a rendere riconoscibile un atto qualificabile come notificazione, ricadendo ogni altra ipotesi di difformità dal modello legale nella categoria delle nullità. La pronuncia si inserisce nel solco di Sez. U, n. 14916/2016, Rv. 640603-01, per la quale gli elementi costitutivi essenziali idonei a rendere riconoscibile un atto qualificabile come notificazione consistono: a) nell’attività di trasmissione, svolta da un soggetto qualificato, dotato, in base alla legge, della possibilità giuridica di compiere detta attività, in modo da poter ritenere esistente e individuabile il potere esercitato; b) nella fase di consegna, intesa in senso lato come raggiungimento di uno qualsiasi degli esiti positivi della notificazione previsti dall’ordinamento.

Quanto al regime giuridico, Sez. 6-2, n. 05239/2018, Orilia, Rv. 648216-01, ha affermato che il provvedimento di rigetto dell’istanza tendente alla declaratoria di inefficacia del decreto ingiuntivo proposta ai sensi dell’art. 188 disp. att. c.p.c. è privo del requisito della definitività, concedendo la norma al debitore la possibilità di proporre, nei modi ordinari, una domanda di dichiarazione di inefficacia dell’ingiunzione stessa.

1.3. Giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo.

Nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo le parti possono essere soltanto colui il quale ha proposto la domanda di ingiunzione e colui contro cui tale domanda è diretta. Da questo principio Sez. 6-2, n. 15567/2018, Scalisi, Rv. 649093-01, ha tratto la conseguenza della mancanza di legittimazione in capo ai singoli condomini a proporre opposizione avverso il decreto ingiuntivo emesso nei confronti del condominio in una controversia relativa alla gestione di un servizio svolto nell’interesse comune. L’impostazione trae origine dalla qualificazione del condominio in termini di ente di gestione sfornito di personalità giuridica distinta da quella dei singoli condòmini (Sez. 2, n. 22911/2018, Abete, Rv. 650378-01).

Sez. 1, n. 16564/2018, Nazzicone, Rv. 649670-01, ha ribadito che, nell’ordinario giudizio di cognizione, che si instaura a seguito dell’opposizione a decreto ingiuntivo, l’opposto, rivestendo la posizione sostanziale di attore, non può proporre domande diverse da quelle fatte valere con il ricorso monitorio, salvo il caso in cui, per effetto di una domanda riconvenzionale formulata dall’opponente, lo stesso si venga a trovare a propria volta nella posizione processuale di convenuto, cui non può essere negato il diritto di difesa, rispetto alla nuova o più ampia pretesa della controparte, mediante la proposizione (eventuale) di una reconventio reconventionis.

La domanda di adempimento contrattuale e quella di arricchimento senza causa si differenziano strutturalmente e tipologicamente. Infatti, la seconda integra, rispetto alla prima, una domanda nuova, sicché nel procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo al creditore opposto, che riveste la posizione sostanziale di attore, è consentito avanzare con la comparsa di costituzione e risposta domanda di arricchimento senza causa soltanto qualora l’opponente abbia introdotto nel giudizio, con l’atto di citazione, un ulteriore tema di indagine che possa giustificare tale esigenza. In applicazione di tale principio, Sez. 2, n. 17482/2018, Casadonte, Rv. 649452-01, ha escluso che il creditore opposto, che aveva agito in sede monitoria per il pagamento di prestazioni professionali nascenti da titolo contrattuale, potesse formulare, in sede di opposizione, un’autonoma domanda di arricchimento senza causa, poiché l’opponente si era limitato ad eccepire l’inesistenza del titolo contrattuale a sostegno della pretesa, non estendendo il tema di indagine. Sez. 1, n. 27124/2018, Mercolino, Rv. 651448-01, ha anch’essa sostenuto (in una fattispecie in cui, a seguito di un decreto ingiuntivo ottenuto per il pagamento di prestazioni professionali e della proposizione, da parte dell’opponente, delle sole eccezioni di inesigibilità e prescrizione del credito, gli opposti avevano proposto una nuova domanda di arricchimento senza causa) il principio per cui l’opposto non può far valere nel giudizio di opposizione domande nuove, rispetto a quella di adempimento contrattuale posta alla base della richiesta di provvedimento monitorio, salvo quelle conseguenti alla domande ed alle eccezioni in senso stretto proposte dall’opponente, determinanti un ampliamento dell’originario thema decidendum fissato dal ricorso ex art. 633 c.p.c.

Sul piano più squisitamente probatorio, Sez. 1, n. 14640/2018, Tricomi L., Rv. 649121-01, ha ribadito che la norma di cui all’art. 50 del d.lgs. n. 385 del 1993 ha esclusivo ambito di applicazione nel procedimento monitorio, mentre, in sede di opposizione al decreto ingiuntivo, trovano applicazione le consuete regole di ripartizione dell’onere della prova, con la conseguenza che l’opposto, pur assumendo formalmente la posizione di convenuto, riveste, come detto, la qualità di attore in senso sostanziale, sicché spetta a lui provare nel merito i fatti costitutivi del diritto dedotto in giudizio. Ne deriva che, nel caso in cui l’opposizione all’ingiunzione di pagamento del saldo passivo del conto corrente sia stata fondata su motivi non solo formali, quale la inutilizzabilità dell’estratto conto certificato, ma anche sostanziali, come la contestazione dell’importo a debito, risultante dall’applicazione di tassi di interesse ultralegali e di interessi anatocistici vietati, nel giudizio a cognizione piena, spetta alla banca (o alla cessionaria del credito che, subentrata nella sua posizione, abbia ottenuto il decreto ingiuntivo successivamente opposto) produrre il contratto su cui si fonda il rapporto, documentare l’andamento di quest’ultimo e fornire così la piena prova della propria pretesa.

Nell’anno in rassegna è stato inoltre precisato, quanto alle spese di lite, che in un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, la circostanza dell’accoglimento dell’opposizione con revoca del detto decreto, cui non segua una decisione che riconosca, comunque, il credito dell’istante, integra gli estremi di una soccombenza totale (Sez. 2, n. 15061/2018, Cavallari, Rv. 649075 -01, non massimata con riferimento a questo profilo).

1.4. Esecutorietà del decreto ingiuntivo.

Il principio secondo cui l’autorità del giudicato spiega i propri effetti non solo sulla pronuncia esplicita della decisione, ma anche sulle ragioni che ne costituiscono, sia pure implicitamente, il presupposto logico-giuridico, trova applicazione anche con riferimento al decreto ingiuntivo di condanna al pagamento di una somma di denaro, il quale, in mancanza di opposizione o quando quest’ultimo giudizio sia stato dichiarato estinto, acquista efficacia di giudicato non solo in ordine al credito azionato, ma anche in relazione al titolo posto a fondamento dello stesso, precludendo ogni ulteriore esame delle ragioni addotte a giustificazione della relativa domanda in altro giudizio. In applicazione di tale principio, Sez. 1, n. 22465/2018, Caiazzo, Rv. 650583-01, ha ritenuto preclusa dal giudicato, formatosi a seguito dell’estinzione della causa di opposizione al decreto ingiuntivo ottenuto da un banca in relazione al saldo passivo di un conto corrente, la successiva domanda, proposta dal correntista, tesa ad ottenere la ripetizione delle somme indebitamente trattenute dall’istituto di credito in forza di clausole negoziali invalide.

Sez. 6-3, n. 19113/2018, Scoditti, Rv. 650241-01, ha precisato che il giudicato sostanziale conseguente alla mancata opposizione di un decreto ingiuntivo copre non soltanto l’esistenza del credito azionato, del rapporto di cui esso è oggetto e del titolo su cui il credito e il rapporto stessi si fondano, ma anche l’inesistenza di fatti impeditivi, estintivi e modificativi del rapporto e del credito precedenti al ricorso per ingiunzione e non dedotti con l’opposizione.

Peraltro, in assenza di opposizione, il decreto ingiuntivo acquista efficacia di giudicato formale e sostanziale solo nel momento in cui il giudice, dopo averne controllato la notificazione, lo dichiari esecutivo ai sensi dell’articolo 647 c.p.c.

Inserendosi nel solco di tale impostazione interpretativa, Sez. L, n. 01774/2018, Cavallaro, Rv. 647239-01, ha chiarito che, in tema di crediti contributivi, la conversione in decennale del termine prescrizionale per effetto del giudicato, ex art. 2953 c.c., non si verifica a seguito di decreto ingiuntivo non opposto ma privo della dichiarazione ex art. 647 c.p.c., bensì nel momento in cui il giudice, dopo aver controllato la notificazione del decreto, lo dichiari esecutivo, poiché il procedimento di cui all’art. 647 c.p.c. non ha una mera funzione di attestazione, analoga a quella della cancelleria circa l’avvenuto passaggio in giudicato della sentenza, bensì quella, assai più penetrante, di una verifica giurisdizionale della regolarità del contraddittorio, che si pone all’interno del procedimento monitorio e che conclude l’attività in esso riservata al giudice in caso di mancata opposizione. L’effetto di cui all’art. 2953 c.c. sul termine di prescrizione si collega, infatti, ad un provvedimento giurisdizionale passato in giudicato, e tale qualità non può che essere attribuita al decreto ingiuntivo dichiarato esecutivo ai sensi dell’art. 647 c.p.c., dal momento che solo per esso l’art. 656 c.p.c. prevede l’esperibilità dei mezzi straordinari d’impugnazione per la sentenza passata in giudicato.

Deriva altresì da quanto precede, pertanto, che il decreto ingiuntivo non munito, prima della dichiarazione di fallimento, del decreto di esecutorietà non è passato in cosa giudicata formale e sostanziale e non è opponibile al fallimento (Sez. 1, n. 02819/2018, Ferro, non massimata). Quest’ultima pronuncia ha altresì evidenziato che la funzione del giudice di controllo della notificazione, al fine di dichiararlo esecutivo, si differenzia dalla verifica affidata al cancelliere dall’articolo 124 o dall’articolo 153 delle disposizioni di attuazione del c.p.c. e consiste in una vera e propria attività giurisdizionale di verifica del contraddittorio che si pone come ultimo atto del giudice all’interno del processo d’ingiunzione e a cui non può surrogarsi il giudice delegato in sede di accertamento del passivo.

In particolare, non è opponibile alla procedura fallimentare il decreto ingiuntivo non munito, prima della dichiarazione di fallimento, di esecutorietà ex art. 647 c.p.c., poiché, secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità, solo in virtù della dichiarazione giudiziale di esecutorietà il decreto passa in giudicato, non rilevando l’avvenuta concessione della provvisoria esecutorietà ex art. 642 c.p.c. o la mancata tempestiva opposizione alla data della dichiarazione di fallimento. Sez. 6-1, n. 21583/2018, Falabella, Rv. 650469-01, ha escluso che ciò violi l’art. 1, del Protocollo n. 1, della CEDU (che tutela sia i “beni” che i valori patrimoniali, compresi i crediti), poiché l’aspettativa del ricorrente di tutela del diritto di credito in via privilegiata non ha base legale di diritto interno alla luce della suddetta consolidata giurisprudenza. Viceversa, il decreto ingiuntivo non munito, prima della dichiarazione di fallimento, del decreto di esecutorietà non è passato in cosa giudicata formale e sostanziale e non è opponibile al fallimento, neppure nell’ipotesi in cui il decreto ex art. 647 c.p.c. venga emesso successivamente, tenuto conto del fatto che, intervenuto il fallimento, ogni credito, deve essere accertato nel concorso dei creditori ai sensi dell’articolo 52 della legge fallimentare (cfr., in tal senso, Sez. 1, n. 02824/2018, Campese, non massimata). Né, ancora, è ammissibile l’accertamento incidentale, in sede di giudizio di verificazione, della esecutività definitiva del decreto ingiuntivo sprovvisto del visto di esecutorietà di cui all’articolo 647 c.p.c., con la conseguenza che, in mancanza, il decreto ingiuntivo, seppure non opposto, è inopponibile alla massa dei creditori.

Secondo Sez. 1, n. 00377/2018, Dolmetta, Rv. 646799-01, in caso di inefficacia del decreto ingiuntivo a causa della dichiarazione di fallimento, il pagamento ricevuto dal creditore in forza della provvisoria esecuzione del provvedimento è ripetibile, non trovando più giustificazione alcuna, né nel titolo, divenuto inefficace, né nel credito, contestato e non accertato.

1.5. Opposizione tardiva.

Nell’ipotesi di irregolare notificazione del decreto ingiuntivo, il termine per proporre opposizione tardiva ai sensi dell’art. 650 c.p.c. è di quaranta giorni dalla conoscenza dell’ingiunto, comunque avuta, dell’atto da opporre. In proposito Sez. 6-3, n. 02608/2018, D’Arrigo, Rv. 647922-01, ha precisato che tale termine, previsto dall’art. 641 c.p.c., deve essere interamente assicurato, senza alcuna possibilità per il giudice di merito di valutare la “congruità”, o comunque la “sufficienza”, del tempo residuo intercorrente fra la conoscenza effettiva e la scadenza del termine per proporre opposizione tempestiva.

Ai fini della legittimità dell’opposizione tardiva a decreto ingiuntivo (di cui all’art. 650 c.p.c.), non è sufficiente l’accertamento dell’irregolarità della notificazione del provvedimento monitorio, ma occorre, altresì, la prova – il cui onere incombe sull’opponente – che, a causa di detta irregolarità, egli, nella qualità di ingiunto, non abbia avuto tempestiva conoscenza del suddetto decreto e non sia stato in grado di proporre una tempestiva opposizione. Tale prova, come precisato da Sez. 3, n. 20850/2018, Gianniti, Rv. 650426- 01, deve considerarsi raggiunta ogni qualvolta, alla stregua delle modalità di esecuzione della notificazione del richiamato provvedimento, sia da ritenere che l’atto non sia pervenuto tempestivamente nella sfera di conoscibilità del destinatario.

2. Il procedimento per convalida di licenza e sfratto.

Anche questo procedimento è di natura sommaria e può essere promosso dal locatore ove ricorrano i presupposti indicati dall’art. 657 c.p.c.

A differenza di quanto avviene nel procedimento di ingiunzione, in tale ipotesi si realizza un contraddittorio preventivo con il conduttore, contraddittorio da ritenersi anzi “rafforzato” per lo specifico avvertimento, contenuto nell’intimazione per convalida, circa le conseguenze correlate alla mancata comparizione e/o opposizione dell’intimato all’udienza di convalida.

Nel periodo in esame, la S.C. ha chiarito che il giudicato formatosi sull’accertamento della futura data di scadenza di un contratto di locazione lascia inalterato il potere delle parti di provocare la cessazione degli effetti del contratto, prima della scadenza, al verificarsi di altri presupposti, trattandosi di un diritto diverso da quello accertato, riconosciuto dal contratto o dalla legge senza alcuna incompatibilità con la scadenza accertata. La Corte ha precisato che, al contrario, se il conduttore, che sia stato convenuto in giudizio per la convalida della licenza per finita locazione, intenda esercitare il proprio diritto di impedire il verificarsi della scadenza naturale del contratto, è tenuto a farlo in quel processo, trattandosi di un fatto impeditivo del diritto fatto valere dal locatore, restando altrimenti precluso dal giudicato l’accertamento di una data di scadenza diversa da quella accertata (Sez. 3, n. 24534/2018, Positano, Rv. 651139 – 01, la quale ha confermato la decisione della corte d’appello che, a fronte di una sentenza, passata in giudicato, con la quale la data di scadenza di un contratto di locazione era stata fissata al 31 dicembre 2018, aveva negato che il conduttore potesse far valere l’ulteriore rinnovazione del contratto, con nuova scadenza al 31 dicembre 2004, nell’ambito del successivo giudizio intentato dal locatore per la convalida dell’intimazione per finita locazione).

In tema di opposizione proposta dopo la convalida di licenza o di sfratto ai sensi dell’art. 668 c.p.c., l’impossibilità a comparire dell’intimato (o, se questo si sia costituito, del suo difensore) per forza maggiore può anche dipendere da un malore, purché il giudice di merito (con valutazione di fatto, incensurabile in sede di legittimità, se congruamente motivata) accerti, anche avvalendosi delle nozioni di comune esperienza, adeguate per valutare la gravità e gli effetti delle malattie comuni, che tale malore sia stato improvviso ed imprevedibile e che sussista un effettivo nesso di causalità tra lo stato di malattia e la mancata comparizione della parte. In applicazione di questo principio, Sez. 6-3, n. 03629/2018, D’Arrigo, Rv. 647616-01, ha confermato la sentenza di merito che aveva escluso che la documentazione medica fornita a sostegno dell’opposizione fosse idonea a dimostrare il momento di insorgenza della malattia lamentata – lombosciatalgia – e che, dunque, questa fosse stata così improvvisa da impedire all’opponente anche solo di far dedurre da terzi in udienza il proprio stato di salute.

3. Procedimenti cautelari.

La natura provvisoria delle statuzioni rese in sede cautelare rende l’intervento della S.C. in materia assolutamente residuale, non essendo ammesso neppure, per giurisprudenza consolidata, il ricorso cd. straordinario per cassazione avverso i provvedimenti resi su reclamo ex art. 669 terdecies c.p.c. (si veda, infra, Capitolo XV).

Nell’anno in rassegna, la Corte di cassazione ha avuto occasione di enunciare il principio per il quale, in tema di azioni di nunciazione, il procedimento cautelare termina con l’ordinanza di accoglimento o rigetto del giudice monocratico o del collegio in caso di reclamo, mentre il successivo processo di cognizione richiede un’autonoma domanda di merito (Sez. 2, n. 21491/2018, Giannaccari, Rv. 650038-01, la quale ha precisato che il processo di cognizione che si svolga in difetto dell’atto propulsivo di parte, a causa dell’erronea fissazione giudiziale di un’udienza successiva all’ordinanza cautelare, è affetto da nullità assoluta per violazione del principio della domanda, rilevabile d’ufficio dal giudice e non sanata dall’instaurarsi del contraddittorio tra le parti).

4. Procedimento sommario di cognizione.

Tale procedimento, regolato dagli artt. 702-bis e ss. c.p.c., è di norma alternativo al giudizio ordinario di cognizione per le controversie rientranti nell’attribuzione del Tribunale in composizione monocratica, e si connota per una “destrutturazione formale” nonostante la conclusione con un provvedimento che, pur avente forma di ordinanza, ove non impugnato, è suscettibile di produrre gli effetti propri del giudicato sostanziale.

La S.C. ha ritenuto talora applicabili in via analogica le norme sul processo ordinario di cognizione anche al procedimento sommario.

In particolare, si è affermato che nel procedimento disciplinato dagli artt. 702-bis e ss. c.p.c., in caso di inosservanza dei requisiti afferenti tanto all’editio actionis che alla vocatio in ius, è applicabile, allorché il convenuto non si costituisca sanando il vizio rilevato, la regola della rinnovazione dell’atto introduttivo nullo ai sensi dell’art. 164 c.p.c. con l’assegnazione, da parte del giudice, di un termine perentorio per provvedere ad una nuova notificazione (Sez. 1, n. 05517/2017, Marulli, Rv. 644652).

Altre disposizioni del processo ordinario di cognizione che sono state ritenute, da Sez. 2, n. 27915/2018, Fortunato, Rv. 651035-01, estensibili al rito sommario (speciale) sono gli artt. 181 e 309 c.p.c., sicché, in tema di giudizio di opposizione al decreto di liquidazione dei compensi spettanti al difensore della parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato, la disciplina generale della mancata comparizione delle parti dettata dalle menzionate disposizioni non è in contrasto con le ragioni che hanno condotto alla sottoposizione del procedimento di cui all’art. 170 del d.P.R. n. 115 del 2002 al rito sommario speciale, ai sensi dell’art. 15 del d.lgs. n. 150 del 2011, atteso che il mero deposito del ricorso è idoneo ad attivare il giudizio e ad investire il giudice del potere-dovere di decidere, senza necessità di ulteriori atti di impulso processuale, e poiché le predette norme sono compatibili con la disciplina dei procedimenti ispirati a regole di particolare concentrazione delle attività processuali.

4.1. Istruttoria.

La valutazione, da parte del giudice, della necessità di un’istruzione non sommaria, ai fini della conversione del rito ex art. 702 ter, comma 3, c.p.c., presuppone pur sempre che le parti – e in primo luogo il ricorrente – abbiano dedotto negli atti introduttivi tutte le istanze istruttorie ritenute necessarie per adempiere all’onere probatorio ex art. 2967 c.c., non potendosi, come precisato da Sez. 3, n. 24538/2018, Gorgoni, Rv. 651152-01, attribuire a tale decisione la funzione di rimetterle in termini per la formulazione delle deduzioni istruttorie, che siano state omesse o insufficientemente articolate in limine litis.

Sembra che la S.C. abbia avallato l’orientamento, secondo cui il rito sommario sarebbe incompatibile (ed andrebbe, quindi, disposto il mutamento del rito nelle forme ordinarie) con quei giudizi, che, anche se di natura esclusivamente documentale o comportanti un’attività istruttoria contenuta, implichino l’esame e la soluzione di questioni tecniche o giuridiche di una certa complessità che possono richiedere una trattazione non semplificata. Invero, Sez. 1, n. 06563/2017, Dolmetta, Rv. 644753 – 02, ha affermato che la verifica della compatibilità tra istruzione sommaria propria del procedimento di cui agli artt. 702-bis e ss. c.p.c. e fattispecie concretamente portata in giudizio va effettuata con riferimento non alle sole deduzioni probatorie formulate dalle parti, bensì all’intero complesso delle difese ed argomentazioni che vengono svolte in quel dato giudizio, tenendo conto, tra l’altro, della complessità della controversia, del numero e della natura delle questioni in discussione.

Per altro verso, Sez. 6-3, n. 31801/2018, De Stefano, Rv. 651976-01, ha ribadito il principio per il quale nel giudizio sommario non può mai disporsi la sospensione, ai sensi degli artt. 295 o 337 c.p.c, atteso che, qualora nel corso di un procedimento introdotto con tale rito insorga una questione di pregiudizialità rispetto ad altra controversia, che imponga un provvedimento di sospensione necessaria, ai sensi dell’art. 295 c.p.c. (o venga invocata l’autorità di una sentenza resa in altro giudizio e tuttora impugnata, ai sensi dell’art. 337, comma 2, c.p.c.), si determina la necessità di un’istruzione non sommaria e, quindi, il giudice deve, a norma dell’art. 702-ter, comma 3, c.p.c., disporre il passaggio al rito della cognizione piena.

4.2. Impugnazione dell’ordinanza conclusiva.

In termini generali, come ha chiarito Sez. 3, n. 16893/2018, Graziosi, Rv. 649509-01, l’ordinanza conclusiva del procedimento sommario di cognizione può essere appellata, dalla parte contumace, nel termine “breve” di cui all’art. 702 quater c.p.c., decorrente dalla notificazione della stessa, in difetto della quale trova applicazione il termine “lungo” di cui all’art. 327 c.p.c. che opera per tutti i provvedimenti a carattere decisorio e definitivo. Tale pronuncia ha inoltre precisato che, ai fini dell’impugnazione della detta ordinanza, il termine “lungo” di cui all’art. 327 c.p.c. decorre dalla data della pubblicazione della stessa, la quale coincide con quella dell’udienza in cui viene pronunciata, ovvero con quella del deposito, ove venga emessa fuori dell’udienza.

D’altra parte, per Sez. 2, n. 14478/2018, Sabato, Rv. 648976-02, il termine per proporre appello avverso l’ordinanza resa in udienza e inserita a verbale decorre, pur se questa non è stata comunicata o notificata, dalla data dell’udienza stessa, equivalendo la pronuncia in tale sede a “comunicazione” ai sensi degli artt. 134 e 176 c.p.c.

Sez. 1, n. 07154/2018, Campese, Rv. 647842-01, ha confermato che, in assenza di una normativa speciale circa la decorrenza del termine breve per proporre ricorso per cassazione avverso l’ordinanza resa ex art. 702 quater c.p.c., non rileva che la comunicazione dell’ordinanza sia avvenuta in forma integrale a mezzo Pec, dovendo trovare applicazione la disposizione generale di cui all’art. 133, comma 2, c.p.c. (come modificato con l’art. 45, comma 1, lett. b) del d.l. n. 90/2014, conv. con modif. dalla l. n. 114/2014) secondo il quale la comunicazione da parte della cancelleria del testo integrale della sentenza non è idonea a far decorrere i termini per le impugnazioni di cui all’art. 325 c.p.c.

Come precisato da Sez. 1, n. 08757/2018, De Chiara, Rv. 648884-01, l’impugnazione dell’ordinanza conclusiva del giudizio sommario di cui all’art. 702-ter c.p.c. può essere proposta esclusivamente nella forma ordinaria dell’atto di citazione, non essendo espressamente prevista dalla legge l’adozione del rito sommario per il secondo grado di giudizio; né è possibile, nel caso di appello introdotto mediante ricorso, la salvezza degli effetti dell’impugnazione, mediante lo strumento del mutamento del rito, previsto dall’art. 4, comma 5, d.lgs. n. 150 del 2011.

Il principio è stato ribadito da Sez. 1, n. 05111/2018, Genovese, non massimata, secondo cui l’appello, proposto ex art. 702 quater c.p.c., avverso la decisione del tribunale, deve essere introdotto con citazione e non con ricorso, sicché la tempestività del gravame va verificata calcolandone il termine di trenta giorni dalla data di notifica dell’atto introduttivo alla parte appellata.

Rispetto alla regola appena enunciata rappresenta una eccezione quella dell’appello ai sensi dell’art. 702 quater c.p.c. proposto avverso la decisione di primo grado sulla domanda volta al riconoscimento della protezione internazionale, che deve essere introdotto con ricorso e non con citazione, in aderenza alla volontà del legislatore desumibile dal nuovo tenore letterale dell’art. 19 del d.lgs. n. 150 del 2011, così come modificato dall’art. 27, comma 1, lett. f), del d.lgs. n. 142 del 2015. Tale innovativa interpretazione, fatta propria da Sez. 6-1, n. 29506/2018, Genovese, Rv. 651503-01, in quanto imprevedibile e repentina rispetto al consolidato orientamento pregresso, costituisce un overrulling processuale che, nella specie, assume carattere peculiare in relazione al momento temporale della sua operatività, il quale potrà essere anche anteriore a quello della pubblicazione della prima pronuncia di legittimità che praticò la opposta esegesi, e ciò in dipendenza dell’affidamento sulla perpetuazione della regola antecedente, sempre desumibile dalla giurisprudenza della Corte, per cui l’appello secondo il regime dell’art. 702 quater c.p.c. risultava proponibile con citazione (Sez. U, n. 28575/2018, Frasca, Rv. 651358-01).

4.3. Procedimento sommario esclusivo in tema di liquidazione dei compensi professionali.

Nel rinviare al § 1.1., occorre ricordare anche in questa sede che, nel corso del 2018, le Sezioni Unite della S.C., dirimendo il contrasto di giurisprudenza che era sorto all’interno della Corte, hanno enunciato due importanti principi su tale procediemnto:

a) seguito dell’entrata in vigore dell’art. 14 del d.lgs. n. 150 del 2011, la controversia di cui all’art. 28 della l. n. 794 del 1942, come sostituito dal d.lgs. cit., può essere introdotta: a) con un ricorso ai sensi dell’art. 702-bis c.p.c., che dà luogo ad un procedimento sommario “speciale” disciplinato dagli artt. 3, 4 e 14 del menzionato d.lgs.; oppure: b) ai sensi degli artt. 633 ss. c.p.c., fermo restando che la successiva eventuale opposizione deve essere proposta ai sensi dell’art. 702-bis segg. c.p.c., integrato dalla sopraindicata disciplina speciale e con applicazione degli artt. 648, 649, 653 e 654 c.p.c. È, invece, esclusa la possibilità di introdurre l’azione sia con il rito ordinario di cognizione sia con quello del procedimento sommario ordinario codicistico disciplinato esclusivamente dagli artt. 702-bis e segg. c.p.c. (Sez. U, n. 04485/2018, Frasca, Rv. 647316-01);

b) la controversia di cui all’art. 28 della l. n. 794 del 1942, introdotta sia ai sensi dell’art. 702-bis c.p.c., sia in via monitoria, avente ad oggetto la domanda di condanna del cliente al pagamento delle spettanze giudiziali dell’avvocato, resta soggetta al rito di cui all’art. 14 del d.lgs. n. 150 del 2011 anche quando il cliente sollevi contestazioni relative all’esistenza del rapporto o, in genere, all’an debeatur. Soltanto qualora il convenuto ampli l’oggetto del giudizio con la proposizione di una domanda (riconvenzionale, di compensazione o di accertamento pregiudiziale) non esorbitante dalla competenza del giudice adito ai sensi dell’art. 14 d.lgs. cit., la trattazione di quest’ultima dovrà avvenire, ove si presti ad un’istruttoria sommaria, con il rito sommario (congiuntamente a quella proposta ex art. 14 dal professionista) e, in caso contrario, con il rito ordinario a cognizione piena (ed eventualmente con un rito speciale a cognizione piena), previa separazione delle domande. Qualora la domanda introdotta dal cliente non appartenga, invece, alla competenza del giudice adito, troveranno applicazione gli artt. 34, 35 e 36 c.p.c., che eventualmente possono comportare lo spostamento della competenza sulla domanda, ai sensi dell’art. 14 (Sez. U, n. 04485/2018, Frasca, Rv. 647316-02).

È, invece, esclusa la possibilità di introdurre l’azione sia con il rito ordinario di cognizione sia con quello del procedimento sommario ordinario codicistico disciplinato esclusivamente dagli artt. 702-bis ss. c.p.c.

Avuto riguardo al profilo sub a), Sez. 2, n. 28049/2018, Oliva, Rv. 651524-01, ha ricordato che, sempre in tema di liquidazione degli onorari e diritti di avvocato, il giudizio introdotto secondo l’ormai abrogata procedura prevista dagli artt. 28 ss. della l. n.794 del 1942 va, invece, dichiarato inammissibile quando vi sia contestazione del cliente sull’an debeatur della pretesa, essendo il suo oggetto limitato alla determinazione del quantum del compenso dovuto al professionista. Non è, inoltre, neppure possibile un mutamento del rito, poiché questo rimane circoscritto alla sola ipotesi in cui l’assistito, convenuto dal suo legale, abbia sollevato eccezioni o domande riconvenzionali idonee ad ampliare il thema decidendum le quali, pur non esorbitando dalla competenza del giudice adito, non si prestino ad un’istruttoria sommaria, così rendendone necessaria la trattazione nelle forme del rito ordinario a cognizione piena, previa separazione delle domande.

Anche in seguito all’entrata in vigore dell’art. 14 del d.lgs. n. 150 del 2011, al fine di stabilire il regime di impugnazione del provvedimento con cui si liquidano gli onorari e le altre spettanze dovuti dal cliente al proprio difensore per prestazioni giudiziali civili, assume rilevanza la forma adottata dal giudice in base alla qualificazione che egli abbia dato, implicitamente o esplicitamente, all’azione esercitata dalla parte. Nel dare attuazione a tale principio, Sez. 6-2, n. 04904/2018, Manna F., Rv. 648212-01, ritenendo che il Tribunale avesse consapevolmente pronunciato ordinanza monocratica in applicazione delle norme sul procedimento sommario di cognizione di cui agli artt. 702-bis e ss. c.p.c., ha dichiarato inammissibile il ricorso. Nella stessa direzione Sez. 2, n. 24515/2018, Giannaccari, Rv. 650653-01, ha affermato che il provvedimento con cui è decisa l’opposizione a decreto ingiuntivo riguardante onorari di avvocato che sia stata introdotta ai sensi dell’art. 702-bis c.p.c., seguendo il rito sommario ordinario codicistico e non quello speciale di cui all’art. 14 d.lgs. n. 150 del 2011, deve essere impugnato con l’appello, secondo il regime previsto dall’art. 702 quater c.p.c., trovando applicazione il principio di apparenza (v. altresì Sez. U, n. 00390/2011, Piccialli L., Rv. 615406-01, e Sez. U, n. 04485 del 2018, Frasca, Rv. 647316-01).

5. Procedimenti possessori.

Sez. 2, n. 20726/2018, Cosentino, Rv. 650020-01, ha chiarito che la riduzione in pristino, cui è diretta l’azione di manutenzione, può consistere non già nella mera riproduzione della situazione dei luoghi modificata o alterata da una determinata azione lesiva dell’altrui possesso, ma anche nell’esecuzione di un quid novi, qualora il rifacimento puro e semplice sia inidoneo a realizzare il ripristino stesso.

Come noto, per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 25 del 3 febbraio 1992, che ha dichiarato l’illegittimità, per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., dell’art. 705 c.p.c., nella parte in cui subordina la proposizione del giudizio petitorio alla definizione della controversia possessoria ed alla esecuzione della relativa decisione anche quando da tale esecuzione possa derivare al convenuto pregiudizio irreparabile, il convenuto in giudizio possessorio può opporre le sue ragioni petitorie quando dalla esecuzione della decisione sulla domanda possessoria potrebbe derivargli un danno irreparabile, purché l’eccezione sia finalizzata solo al rigetto della domanda possessoria (e non anche ad una pronuncia sul diritto con efficacia di giudicato) e non implichi, quindi, una deroga delle ordinarie regole sulla competenza. In applicazione di tale principio, Sez. 2, n. 16000/2018, Tedesco, Rv. 649226-01, ha annullato con rinvio la sentenza del giudice di merito che aveva dichiarato l’improponibilità dell’eccezione petitoria, sollevata dal resistente, senza indagare sulla irreparabilità del pregiudizio che gli sarebbe derivato dall’esecuzione dell’ordine di demolizione del muro in cemento armato da lui realizzato in violazione del possesso della servitù di veduta vantato dai ricorrenti.

6. Procedimenti in camera di consiglio.

In tema di giudizio camerale, ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 738 c.p.c. (secondo cui il giudice può assumere informazioni), il giudice, senza che sia necessario il ricorso alle fonti di prova disciplinate dal codice di rito, risulta di fatto svincolato dalle iniziative istruttorie delle parti e procede con i più ampi poteri inquisitori, i quali si estrinsecano attraverso l’assunzione di informazioni che, espressamente consentita dalla menzionata disposizione, non resta subordinata all’istanza di parte. Tale potere consiste in una facoltà e non in un obbligo, nel senso che il suo mancato esercizio non integra un vizio del contraddittorio, ove il quadro degli elementi istruttori sia raccolto aliunde. Esso, peraltro, si traduce in un obbligo quando il quadro probatorio, ove ritenuto insufficiente, possa essere colmato proprio richiedendo una integrazione documentale. L’esercizio del potere officioso, una volta che la parte abbia – in ossequio al principio dispositivo – allegato specificamente i fatti posti a base della azionata titolarità di un diritto fondamentale della persona, da ricondurre nell’alveo dei diritti umani per espressa qualificazione della Corte di Strasburgo, non può essere eluso ove la integrazione si ritenga necessaria per decidere, mentre rientra pienamente nel potere discrezionale del giudice non procedere a tale integrazione, ove abbia elementi per decidere sia in ordine al rigetto che all’accoglimento della domanda.

Un’applicazione pratica del riportato principio è stata operata da Sez. 1, n. 05255/2018, Acierno, Rv. 647743-01, secondo cui, in tema di risarcimento del danno (da inumana detenzione: per il quale si rinvia al § 3.3 della prima parte del primo volume) ex art. 35-ter, comma 3, della l. n. 354 del 1975, il ricorso al procedimento del modello processuale camerale e la natura giuridica dei diritti coinvolti inducono a ritenere sufficiente l’allegazione specifica dell’avvenuta detenzione e della sua durata, potendo il giudice, nel caso in cui ritenga il quadro probatorio incompleto, assumere informazioni, in applicazione dell’art. 738, ultimo comma, c.p.c.

Sez. 1, n. 17717/2018, Di Marzio M., Rv. 649521-02, ha reputato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, per violazione del diritto di difesa e del principio del contraddittorio, dell’art. 35-bis, comma 1, del d.lgs. n. 25 del 2008 (in tema di revoca o di cessazione dello status di rifugiato o di persona cui è accordata la protezione sussidiaria), poiché il rito camerale ex art. 737 c.p.c., che è previsto anche per la trattazione di controversie in materia di diritti e di status, è idoneo a garantire il contraddittorio anche nel caso in cui non sia disposta l’udienza, sia perché tale eventualità è limitata solo alle ipotesi in cui, in ragione dell’attività istruttoria precedentemente svolta, essa appaia superflua, sia perché in tale caso le parti sono comunque garantite dal diritto di depositare difese scritte.

L’art. 739 c.p.c., secondo il quale il provvedimento emesso in camera di consiglio dal tribunale, se pronunciato in confronto di più parti, è reclamabile entro dieci giorni dalla notificazione, non deroga alla regola generale dettata dall’art. 326 c.p.c., con la conseguenza che anche il termine per proporre ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 111 Cost., avverso i decreti pronunciati in camera di consiglio, decorre dalla notificazione del provvedimento. A tal riguardo occorre che la notificazione sia eseguita ad istanza di parte, non essendo sufficiente che sia stata effettuata a cura della cancelleria del giudice, nel qual caso il ricorso per cassazione resta soggetto al termine ordinario di cui all’art. 327 c.p.c. In applicazione di questo principio, Sez. 1, n. 12972/2018, Falabella, Rv. 649154-01, ha disatteso l’eccezione sollevata da un fallimento, tesa a far constare la tardività del ricorso per cassazione, sul presupposto che il termine di proposizione decorresse dalla comunicazione di cancelleria del decreto di rigetto del reclamo ex art. 739 c.p.c., proposto da un istituto di credito, avverso il decreto di accoglimento della domanda di revocatoria avanzata dalla procedura concorsuale, ex art. 67, comma 2, l. fall., in relazione a rimesse bancarie eseguite su conto corrente intrattenuto dalla società fallita.

7. Inventario.

Con riferimento al titolo dedicato all’apertura delle successioni, va segnalato che il verbale di inventario redatto dal notaio ex art. 775 c.p.c., in quanto atto rogato nell’esercizio delle funzioni, è assistito da pubblica fede e rappresenta, fino a prova contraria, fonte privilegiata di convincimento circa la ricostruzione e l’ammontare dell’asse ereditario al momento di apertura della successione, della cui reale consistenza il notaio incaricato è personalmente tenuto ad accertarsi, potendo logicamente procedere all’interpello degli eredi presenti solo dopo una personale ricognizione dei beni da inventariare. E così Sez. 2, n. 06551/2018, Bellini, Rv. 647853-01, ha cassato la decisione di merito, che aveva ritenuto l’inidoneità del verbale di inventario redatto dal notaio a provare l’effettiva titolarità dei beni ivi elencati in capo al de cuius, siccome considerato meramente riproduttivo delle dichiarazioni rese dagli eredi.

8. Giudizio di scioglimento delle comunioni.

Il giudizio di divisione si compone di una fase dichiarativa, avente ad oggetto l’accertamento della comunione e del relativo diritto potestativo di chiederne lo scioglimento, e di una esecutiva, volta a trasformare in porzioni fisicamente individuate le quote ideali di comproprietà sul bene comune. Con riferimento alla prima fase, Sez. 2, n. 02951/2018, Manna F., Rv. 647795-01, ha specificato che l’ordinanza che, ai sensi dell’art. 785 c.p.c., disponga la divisione, al pari della sentenza che, in base all’ultimo inciso della menzionata disposizione, statuisca in maniera espressa sul diritto allo scioglimento della comunione, ancorché non possieda efficacia di giudicato, preclude un diverso accertamento in altra sede giudiziale, in quanto la non contestazione attribuisce all’esito finale del procedimento, che si concluda con l’ordinanza non impugnabile ex art. 789, comma 3, c.p.c., la medesima stabilità del giudicato sul diritto allo scioglimento della comunione pronunciato con sentenza.

Nel caso di divisione di beni provenienti da titoli diversi e, perciò, appartenenti a distinte comunioni, si deve procedere a tante divisioni quante sono le masse, derivandone il litisconsorzio necessario tra i condividenti soltanto all’interno del giudizio di divisione relativo a ciascuna di esse; può, invece, procedersi ad un’unica divisione solo in presenza del consenso di tutte le parti, purché la circostanza risulti da uno specifico negozio. Dando seguito a questo ormai consolidato orientamento (cfr. Sez. 2, n. 00314/2009, Mazzacane, Rv. 606113-01), Sez. 2, n. 25756/2018, Picaroni, Rv. 650835-01, ha cassato la sentenza emessa dal giudice di merito, con la quale era stato predisposto un progetto di divisione cumulativo delle due masse, senza che risultasse l’acquisizione del consenso dei condividenti.

Sez. 6-2, n. 14406/2018, Criscuolo, Rv. 649089-01, ha ribadito, poi, che, ove una quota abbia costituito oggetto di cessione, la qualità di litisconsorte necessario spetta ai cessionari della quota e non agli eredi cedenti.

Per altro verso, nel procedimento di divisione ereditaria, il provvedimento con il quale il giudice istruttore, uniformatosi alle statuizioni della sentenza non definitiva che ha approvato il progetto di divisione, provveda al sorteggio e alla assegnazione dei lotti, non è soggetto a impugnazione, in quanto, come ha avuto modo di confermare Sez. 2, n. 07182/2018, Dongiacomo, Rv. 647864-01, mero atto esecutivo delle decisioni assunte con la pronuncia non definitiva.

Sez. 6-2, n. 11013/2018, Criscuolo, Rv. 648232-01, ha puntualizzato, in tema di giudizio di divisione, che l’ordinanza con cui il giudice istruttore dispone la vendita del bene, pur in presenza di contestazioni insorte tra i condividenti, ha contenuto decisorio e natura di sentenza; essa è, pertanto, impugnabile con l’appello, con conseguente inammissibilità del ricorso per cassazione.

Sez. 2, n. 20961/2018, Giannaccari, Rv. 650023-02, ha avuto l’occasione per chiarire che la sentenza contenente l’assegnazione dei beni ai condividenti costituisce titolo esecutivo, sicché ciascuno di costoro acquista non solo la piena proprietà dei beni facenti parte della quota toccatagli, ma anche la potestà di esercitare tutte le azioni inerenti al godimento del relativo dominio, compresa quella diretta ad ottenere in via esecutiva il rilascio dei beni costituenti la quota del condividente che, in conseguenza della compiuta divisione, non abbia più nessun titolo idoneo a giustificarne l’ulteriore detenzione.

Il notaio delegato dal giudice alla direzione di operazioni di divisione è responsabile, quale ausiliario del giudice e titolare di un munus publicum, dei danni cagionati a una delle parti, nella specie per non aver depositato il ricavato della vendita di un immobile, come disposto con l’ordinanza di conferimento dell’incarico, su un libretto bancario vincolato all’ordine del giudice, e per aver invece distribuito la somma tra i condividenti secondo le quote stabilite successivamente dalla sentenza di primo grado (Sez. 3, n. 04007/2018, Guizzi, non massimata).

  • giurisdizione civile
  • giurisdizione arbitrale

CAPITOLO XX

L’ARBITRATO

(di Fabio Antezza )

Sommario

1 Premessa. - 2 Controversie deferibili ad arbitri. - 3 Distinzione tra arbitrato rituale ed irrituale. - 4 La clausola compromissoria. - 5 Arbitrato, arbitraggio e perizia contrattuale. - 6 Arbitrato ed appalto di opere pubbliche. - 7 Arbitrato societario. - 8 Arbitrato in materia di lavoro. - 9 Gli arbitri. - 10 Procedimento arbitrale. - 11 Nullità del lodo. - 11.1 Nullità del lodo per errori di diritto inerenti il merito della controversia: dall’arresto delle Sez. U. del 2016 al possibile prospective overruling. - 12 Giudizio di impugnazione per nullità del lodo rituale. - 13 Rapporti tra arbitri ed autorità giudiziaria. - 14 Regolamento preventivo di giurisdizione ed arbitrato estero.

1. Premessa.

Nel corso del 2018, anche argomentando dalla natura giurisdizionale e sostitutiva della funzione del giudice ordinario propria degli arbitri rituali, sono state emesse dalla S.C. numerose decisioni in ordine all’interpretazione del patto compromissorio ed alla relativa portata, alla validità della convenzione di arbitrato oltre che con riferimento alla clausola compromissoria “consortile”.

Sono stati altresì diversi i principi sanciti e confermati in merito ai rapporti con l’appalto di opere pubbliche, con il diritto del lavoro, e con l’autorità giudiziaria ordinaria, nonché in tema procedimento arbitrale, di regolamento di giurisdizione, di elementi essenziali del lodo, e della sua impugnabilità per errori di diritto, di composizione del collegio arbitrale e di compenso degli arbitri.

2. Controversie deferibili ad arbitri.

La possibilità di demandare la decisione di una controversia agli arbitri è limitata, ai sensi dell’art. 806 c.p.c., alle ipotesi in cui la stessa verta su diritti disponibili.

Peraltro, l’indisponibilità del diritto che costituisce il limite al ricorso all’arbitrato non va confusa con l’inderogabilità della normativa applicabile al rapporto giuridico. Quest’ultima, difatti, non impedisce la compromissione in arbitrato, con il quale si potrà accertare la violazione della norma imperativa senza determinare con il lodo effetti vietati dalla legge (Sez. 6-1, n. 09344/2018, Di Marzio M., Rv. 648575-01).

Sulle controversie deferibili ad arbitri è significativa la posizione assunta da Sez. 3, n. 07891/2018, D’Arrigo, Rv. 648308-01, per la quale tra le stesse possono rientrare, ove previsto dalla clausola compromissoria, anche le opposizioni all’esecuzione forzata, salvo che abbiano ad oggetto l’impignorabilità dei beni. La stessa decisione ha precisato che, diversamente, non sono compromettibili in arbitri le opposizioni agli atti esecutivi, in quanto la verifica dell’osservanza di regole processuali d’ordine pubblico riguarda diritti di cui le parti non possono mai liberamente disporre.

3. Distinzione tra arbitrato rituale ed irrituale.

L’interpretazione della convenzione di arbitrato è necessaria anche per valutare se si verta in tema di arbitrato rituale o irrituale, fermo restando che ai sensi dell’art. 808-ter c.p.c. nell’ipotesi di incertezza deve ritenersi che le parti abbiano voluto devolvere la controversia ad arbitri rituali.

A tal fine occorre interpretare la clausola compromissoria alla stregua dei normali canoni ermeneutici ricavabili dagli artt. 1362 e ss. c.c. e, dunque, fare riferimento al dato letterale, alla comune intenzione delle parti ed al comportamento complessivo delle stesse, anche successivo alla conclusione del contratto.

Sicché, il mancato richiamo nella clausola alle formalità dell’arbitrato rituale non depone univocamente nel senso dell’irritualità dell’arbitrato, né può essere invocato il criterio, residuale, della natura eccezionale dell’arbitrato rituale, dovendosi tenere conto delle maggiori garanzie offerte da tale forma di arbitrato quanto all’efficacia esecutiva del lodo, al regime delle impugnazioni, alla possibilità per il giudice di concedere la sospensiva (in questi termini già Sez. 1, n. 26135/2013, Di Virgilio, Rv. 628965-01).

Sez. 2, n. 11313/2018, Oricchio, Rv. 648179-01, in applicazione di tale principio, ha cassato la sentenza impugnata che aveva desunto la natura irrituale del lodo dal tenore di parte della clausola arbitrale, a mente della quale la decisione del collegio arbitrale sarebbe stata “inappellabile e vincolante per le parti”, senza valutare altre espressioni, invece coerenti con una qualificazione del lodo come arbitrato rituale, quali “giudicheranno secondo norme di diritto” e “spese del giudizio”, né la circostanza che, nel corso del procedimento, il collegio arbitrale avesse precisato trattarsi di arbitrato rituale e le parti avessero aderito a tale determinazione.

4. La clausola compromissoria.

La più ricorrente convenzione di arbitrato è la clausola compromissoria che di norma accede ad un contratto e mediante la quale le parti decidono, ex ante, di devolvere agli arbitri le eventuali controversie che insorgeranno tra loro.

L’art. 808 quater c.p.c., in materia di interpretazione della convenzione d’arbitrato, dispone che, nel dubbio, la stessa debba essere interpretata nel senso che la competenza arbitrale si estende a tutte le controversie che derivano dal contratto o dal rapporto cui la convenzione si riferisce.

Tale favor per la competenza arbitrale contenuto si riferisce, peraltro, ai soli casi in cui il dubbio interpretativo verta sulla “quantificazione” della materia devoluta agli arbitri dalla relativa convenzione e non anche sulla stessa scelta arbitrale compiuta dalle parti.

In particolare, Sez. 2, n. 22490/2018, Besso Marcheis, Rv. 650368-01, ha ritenuto che la clausola contrattuale, pur facendo richiamo al collegio arbitrale per “ogni e qualsiasi controversia”, avesse anche stabilito che restava inteso il ricorso all’autorità giudiziaria ordinaria “necessariamente”, rendendo così incerta la volontà delle parti sulla stessa scelta della compromissione in arbitri e non consentendo perciò l’applicazione dell’art. 808 quater c.p.c.

La clausola compromissoria riferita genericamente alle controversie nascenti dal contratto cui essa inerisce va interpretata, in mancanza di espressa volontà contraria, nel senso che rientrano nella competenza arbitrale tutte e solo le controversie aventi causa petendi nel contratto medesimo, con esclusione di quelle che hanno, in esso, unicamente un presupposto storico.

In applicazione del principio la S.C. ha escluso che una clausola compromissoria di tal fatta, contenuta in un contratto di appalto, potesse operare con riferimento ad azione di responsabilità extracontrattuale, ai sensi dell’art. 1669 c.c., proposta mediante la deduzione di gravi difetti dell’immobile acquistato (Sez. 6-3, n. 04035/2017, Tatangelo, Rv. 642841-01; in senso conforme si veda anche Sez. 2, n. 01674/2012, Giusti, Rv. 621383-01).

Analogamente, Sez. 6-1, n. 20673/2016, De Chiara, Rv. 641867-01, ha escluso l’operatività della clausola compromissoria (genericamente riferentesi alle controversie nascenti dal contratto cui essa inerisce) nel caso di causa petendi avente titolo extracontrattuale ai sensi dell’art. 2598 c.c. nonché dell’art. 1337 c.c.

Nel medesimo filone interpretativo si colloca, poi, Sez. 1, n. 23675/2013, Salvago, Rv. 627976-01, per la quale la clausola compromissoria concernente le controversie relative alla risoluzione di un contratto ricomprende nel proprio ambito di applicazione la domanda di risarcimento del danno derivante da lesione del diritto all’immagine allorquando un siffatto pregiudizio sia ricollegabile non già alla violazione di doveri, con condotta perseguibile ai sensi dell’art. 2043 c.c., che incombono verso la generalità dei cittadini, bensì all’inadempimento di precise obbligazioni assunte con il predetto contratto, e sia, quindi, conseguente alla invocata responsabilità contrattuale.

Parimenti, la portata della convenzione arbitrale che contenga l’indicazione delle liti da devolvere ad arbitri con riferimento a determinate fattispecie astratte, quali ad esempio, l’interpretazione e l’esecuzione del contratto, va ricostruita, ex art. 1362 c.c., sulla base della comune volontà dei compromettenti, senza limitarsi al senso letterale della parole.

Sicché, come ha statuito Sez. 6-3, n. 26553/2018, Positano, Rv. 650890-02, quando la clausola contenga il riferimento a definizioni giuridiche, come sintesi del possibile oggetto delle future controversie, esse non assumono lo scopo di circoscrivere il contenuto della convenzione arbitrale, in quanto un’interpretazione restrittiva della clausola comporterebbe la necessità di sottoporre a due diversi organi (arbitro e giudice ordinario) la decisione di questioni strettamente collegate tra loro con una dilatazione dei tempi di giudizio.

In applicazione del principio la citata ordinanza ha ritenuto che mediante una clausola compromissoria che si riferiva alle controversie scaturenti dall’“interpretazione ed esecuzione del contratto” le parti avessero inteso deferire alla competenza degli arbitri tutte le controversie aventi causa petendi in quell’accordo, compresa la domanda di nullità del contratto in quanto tendente a paralizzare l’attuazione di un programma negoziale nonché presupposto implicito di una controversia avente ad oggetto l’esecuzione del contratto.

In virtù del principio di autonomia della clausola compromissoria ad essa non si estendono le cause di invalidità del negozio sottostante, che, quindi, non travolgono, per trascinamento, la clausola ivi contenuta restando riservato agli arbitri l’accertamento dell’eventuale dedotta invalidità (Sez. 2, n. 25024/2013, Giusti, Rv. 628710-01). Peraltro ciò non implica che la clausola arbitrale possa conservare la propria efficacia anche nell’ipotesi di inesistenza dell’accordo al quale afferisce, ancorché derivante da fattori sopravvenuti (Sez. 1, n. 17711/2014, De Marzo, Rv. 632468-01).

Il principio di autonomia non trova però applicazione nelle ipotesi in cui le cause di invalidità siano esterne al negozio e comuni ad esso ed alla clausola compromissoria.

Così argomentando, la S.C. ha ritenuto che l’invalidità dell’atto di aggiudicazione dell’appalto di un servizio pubblico determinasse anche l’invalidità della clausola arbitrale, in quanto, nella specie, tale da escludere la legittima stipulazione del contratto con l’apparente aggiudicatario e, perciò, la possibilità dell’inserimento della clausola stessa (Sez. 1, n. 02529/2005, Ceccherini, Rv. 582336-01).

Nel solco tracciato da tali decisioni, Sez. 2, n. 03854/2018, Cosentino, Rv. 647807-01, ha affermato che il principio di autonomia non opera nel caso di difetto di potere rappresentativo, il quale costituisce una causa esterna di inefficacia del contratto (sottostante) che, pertanto, si estende alla clausola compromissoria ivi contenuta.

Nella specie la S.C. ha cassato la sentenza di appello che aveva ritenuto efficace nei confronti di una società una clausola arbitrale contenuta in un atto sottoscritto da un falsus procurator, senza accertare se questo, o anche la sola clausola, avessero formato oggetto di ratifica.

5. Arbitrato, arbitraggio e perizia contrattuale.

Con la clausola di arbitraggio, inserita in un negozio incompleto in uno dei suoi elementi, le parti demandano ad un terzo arbitratore la determinazione della prestazione, impegnandosi ad accettarla. Il terzo arbitratore, a meno che le parti si siano affidate al suo “mero arbitrio”, deve procedere con equo apprezzamento alla determinazione della prestazione, adottando cioè un criterio di valutazione ispirato all’equità contrattuale, che in questo caso svolge una funzione di ricerca in via preventiva dell’equilibrio mercantile tra prestazioni contrapposte e di perequazione degli interessi economici in gioco.

Pertanto l’equo apprezzamento si risolve in valutazioni che, pur ammettendo un certo margine di soggettività, sono ancorate a criteri obbiettivi, desumibili dal settore economico nel quale il contratto incompleto si iscrive, in quanto tali suscettibili di dare luogo ad un controllo in sede giudiziale circa la loro applicazione nel caso in cui la determinazione dell’arbitro sia viziata da iniquità o erroneità manifesta; ciò si verifica quando sia ravvisabile una rilevante sperequazione tra prestazioni contrattuali contrapposte, determinate attraverso l’attività dell’arbitratore.

Costituisce fonte di integrazione contrattuale anche la perizia contrattuale. Essa ricorre quando le parti deferiscono ad uno o più soggetti, scelti per la loro particolare competenza tecnica, il compito di formulare un accertamento tecnico che esse preventivamente si impegnano ad accettare come diretta espressione della loro volontà contrattuale. La perizia contrattuale si distingue però dall’arbitraggio perché l’arbitro-perito non deve ispirarsi alla ricerca di un equilibrio economico, secondo un criterio di equità mercantile, ma deve attenersi a norme tecniche ed ai criteri tecnico-scientifici propri della scienza, arte, tecnica o disciplina nel cui ambito si iscrive la valutazione che è stato incaricato di compiere.

La distinzione nei termini di cui innanzi è stata evidenziata da Sez. 3, n. 13954/2005, Preden, Rv. 582573-01, che ne ha fatto conseguire, peraltro, che nel caso di perizia contrattuale va esclusa l’esperibilità della tutela tipica prevista dall’art. 1349 c.c. per manifesta erroneità o iniquità della determinazione del terzo, trattandosi di rimedio circoscritto all’arbitraggio, in quanto presuppone l’esercizio di una valutazione discrezionale e di un apprezzamento secondo criteri di equità mercantile, inconciliabili con l’attività strettamente tecnica dell’arbitro-perito.

Si ha invece arbitrato irrituale quando le parti conferiscono all’arbitro il compito di definire in via negoziale le contestazioni insorte o che possono insorgere tra loro in ordine a determinati rapporti giuridici mediante una composizione amichevole riconducibile alla loro volontà. Per converso, si ha perizia contrattuale quando le parti devolvono al terzo, scelto per la particolare competenza tecnica, non la risoluzione di una controversia giuridica, ma la formulazione di un apprezzamento tecnico che preventivamente si impegnano ad accettare come diretta espressione della loro determinazione volitiva. L’inquadramento del mandato conferito agli arbitri nell’una o nell’altra fattispecie non incide sul regime impugnatorio delle relative decisioni, restando nell’un caso e nell’altro la decisione degli arbitri sottratta all’impugnazione per nullità ai sensi dell’art. 828 c.p.c. (Sez. 1, n. 10705/2007, Luccioli, Rv. 596994-01).

Nel delineato solco interpretativo si è inserita, poi, Sez. 3, n. 28511/2018, Gianniti, Rv. 651576-01, la quale ha affermato che ove le parti di un contratto di assicurazione affidino ad un terzo l’incarico di esprimere una valutazione tecnica sull’entità delle conseguenze di un evento, al quale è collegata l’erogazione dell’indennizzo, impegnandosi a considerare tale valutazione come reciprocamente vincolante ed escludendo dai poteri del terzo la soluzione delle questioni attinenti alla validità ed efficacia della garanzia assicurativa, il relativo patto esula sia dall’arbitraggio che dall’arbitrato (rituale od irrituale) ed integra piuttosto una perizia contrattuale.

Nella fattispecie di cui innanzi, infatti, viene negozialmente conferito al terzo non già il compito di definire le contestazioni insorte o che possono insorgere tra le parti in ordine al rapporto giuridico ma la semplice formulazione di un apprezzamento tecnico che esse si impegnano ad accettare come diretta espressione della loro determinazione volitiva.

Ne consegue la non applicabilità delle norme relative all’arbitrato, restando impugnabile la perizia contrattuale per i vizi che possono vulnerare ogni manifestazione di volontà negoziale (errore, dolo, violenza, incapacità delle parti).

6. Arbitrato ed appalto di opere pubbliche.

In termini generali, è stata ritenuta valida la clausola compromissoria con la quale viene deferita ad arbitri la risoluzione della controversia riguardante contratti stipulati tra la Pubblica Amministrazione ed i terzi, purché si verta in tema di diritti disponibili e non di interessi legittimi, l’arbitrato abbia carattere rituale e sia escluso il potere di decidere secondo equità (Sez. 6-1, n. 28533/2018, Mercolino, Rv. 651499-01).

Tuttavia nei contratti d’appalto stipulati a seguito di gara indetta da un ente pubblico la volontà di devolvere ad arbitri le relative controversie deve essere espressa in maniera esplicita ed univoca, non essendo sufficiente un generico rinvio ad altro documento che eventualmente contenga la clausola compromissoria, poiché soltanto il richiamo espresso e specifico di detta clausola, con i caratteri della relatio perfecta, assicura la piena consapevolezza delle parti in ordine alla deroga alla giurisdizione (cfr. Sez. 6-1, n. 27764/2018, Valitutti, Rv. 651357-01, in una fattispecie nella quale il contratto di appalto non solo rinviava in modo generico alla clausola arbitrale inserita nel capitolato speciale ma conteneva una previsione di segno contrario, senza fare salva la specifica previsione di cui al capitolato speciale).

In tema di arbitrato cd. amministrato di lavori pubblici, la norma transitoria di cui all’art. 253, comma 34, del d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163, quanto alla disciplina dell’arbitrato di cui agli artt. 241, 242 e 243 del medesimo codice dei contratti pubblici, dispone la salvezza delle clausole compromissorie e delle procedure arbitrali antecedenti alla sua entrata in vigore, nei soli casi ivi specificamente previsti ed alla condizione che i collegi arbitrali risultino già costituiti entro tale data.

Ne consegue, per Sez. 1, n. 04719/2018, Mucci, Rv. 647630-01, l’immediata applicabilità delle nuove disposizioni, aventi carattere inderogabile, riguardo ai collegi arbitrali relativi ad appalti non ricadenti nel d.P.R. 16 luglio 1962, n. 1063 (capitolato generale d’appalto per le opere pubbliche, oggi abrogato).

In tema di appalti pubblici stipulati da enti diversi dallo Stato, ove il contratto sia stato concluso prima della sentenza della Corte Cost. n. 152 del 1996, che ha reso facoltativo l’arbitrato dichiarando incostituzionale l’art. 47 del d.P.R. n. 1063 del 1962 (nel testo sostituito dall’art. 16 della l. n. 741 del 1981), per valutare l’applicabilità di una clausola compromissoria occorre esaminarne l’esatto tenore. È difatti necessario stabilire se, attraverso il richiamo al capitolato generale dello Stato, le parti abbiano voluto limitarsi ad identificare la disciplina legale concretamente applicabile, ovvero abbiano inteso recepire il contenuto della normativa generale relativa agli appalti dello Stato, conferendo alla stessa un valore negoziale tale da renderla insensibile alle modifiche normative intervenute successivamente alla stipulazione del contratto (Sez. 1, n. 26007/2018, Mercolino, Rv. 651299-01; quanto all’operatività del citato art. 47 ed al significato del richiamo delle parti al capitolato generale dello stato, si veda anche Sez. 6-1, n. 20636/2012, Mercolino, Rv. 24422-01).

7. Arbitrato societario.

Numerose sono le pronunce della Corte nell’anno 2018 che riguardano l’arbitrato societario che, come noto, ha una propria disciplina speciale dettata dagli artt. 34 e 35 del d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5.

Sotto un primo profilo, è stato affermato il principio per il quale la controversia avente ad oggetto la legittimità del recesso del socio di società per azioni, coinvolgendo esclusivamente lo status del predetto ed il suo diritto, di natura esclusivamente patrimoniale, alla liquidazione del valore delle azioni, attiene a diritti disponibili ed è, pertanto, suscettibile di dare luogo ad un arbitrato rituale, sia esso di diritto comune che endosocietario (Sez. 1, n. 10399/2018, Fichera, Rv. 648886-01).

A riguardo, la S.C. ha già chiarito che la clausola compromissoria, contenuta nello statuto di una società per azioni, che preveda la devoluzione ad arbitri delle controversie connesse al contratto sociale, deve ritenersi estesa a quelle riguardanti il recesso del socio dalla società (Sez. 6-1, n. 22303/2013, Campanile, Rv. 627951-01).

La clausola compromissoria consortile, contenuta nello statuto di un consorzio dichiarato fallito è applicabile ai giudizi iniziati dal curatore per far valere diritti preesistenti alla procedura concorsuale, a differenza di quanto accade per l’azione di responsabilità proposta dallo stesso curatore verso gli amministratori del consorzio, trattandosi di azione volta alla reintegrazione del patrimonio sociale nell’interesse dei soci e dei creditori per i quali la clausola non può operare trattandosi di soggetti terzi rispetto alla società.

Nella specie, Sez. 6-1, n. 28533/2018, Mercolino, Rv. 651499-02, ha confermato la decisione del tribunale che aveva declinato la propria competenza in favore dell’arbitrato in quanto il curatore aveva fatto valere, nei confronti di alcuni enti consorziati, il diritto al pagamento di una somma di denaro preesistente alla data della dichiarazione di fallimento.

Sempre in ordine al cd. “arbitrato societario”, le controversie aventi ad oggetto la validità delle delibere assembleari, tipicamente riguardanti i soci e la società in relazione ai rapporti sociali, sono compromettibili in arbitri ai sensi dell’art. 34, comma 1, del d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, qualora abbiano ad oggetto diritti disponibili (ex plurimis, Sez. 6-1, n. 17283/2015, Cristiano, Rv. 636505-01, che ha nella specie riconosciuto la competenza arbitrale in relazione ad una controversia avente ad oggetto l’impugnativa di una delibera assembleare di aumento di capitale e la conseguente domanda di risarcimento del danno).

In senso sostanzialmente conforme ha statuito Sez. 6-1, n. 16265/2013, Salmè, Rv. 626901-01, ritenendo afferenti a diritti indisponibili e come tali non compromettibili in arbitri ex art. 806 c.p.c. soltanto le controversie relative all’impugnazione di delibere assembleari di società aventi oggetto illecito o impossibile, le quali danno luogo a nullità rilevabile anche di ufficio dal giudice, cui sono equiparate, ai sensi dell’art. 2479-ter c.c., quelle prese in assoluta mancanza di informazione. Sicché, la controversia che abbia ad oggetto l’interpretazione dell’avviso di convocazione dell’assemblea di una società a responsabilità limitata, nella quale si discuta esclusivamente se concerna le dimissioni del ricorrente dalla carica di amministratore delegato o anche da quella di componente del consiglio di amministrazione, in quanto suscettibile di transazione, può essere deferita ad arbitri.

Nello stesso solco interpretativo si è collocata Sez. 6-1, n. 27736/2018, Sambito, Rv. 651460-01, che dalle medesime premesse ha tratto le conseguenze per le quali la lite che attenga all’invalidità della delibera assembleare per omessa convocazione del socio, essendo soggetta al regime di sanatoria previsto dall’art. 2379-bis c.c., può essere deferita ad arbitri.

Nel 2018 la S.C. ha altresì confermato l’inoperatività della tesi del “doppio binario”: in particolare, Sez. 1, n. 25610/2018, Falabella, Rv. 650591-01, ha affermato che è nulla la clausola compromissoria contenuta nello statuto societario la quale, non adeguandosi alla prescrizione dell’art. 34 del d.lgs. n. 5 del 2003, non preveda che la nomina degli arbitri debba essere effettuata da un soggetto estraneo alla società.

La S.C. ha in particolare confermato la non operatività della tesi del “doppio binario”, per la quale la clausola per arbitrato endosocietario si convertirebbe in clausola per arbitrato di diritto comune, atteso che il citato art. 34 commina la nullità per garantire il principio di ordine pubblico dell’imparzialità della decisione (in senso conforme si veda Sez. 6-1, n. 17287/2012, Salmè, Rv. 623736-01).

8. Arbitrato in materia di lavoro.

In tema di rapporti tra arbitrato e diritto del lavoro, infine, Sez. L, n. 29620/2018, Negri Della Torre, Rv. 651723-01, ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 6 della l. 15 luglio 1966, n. 604 (come modificato dall’art. 32, comma 1, della l. 4 novembre 2010, n. 183), per la dedotta irragionevolezza del sistema di preclusioni realizzato con la previsione del terzo termine decadenziale di sessanta giorni per il deposito del ricorso giudiziale, a decorrere dal rifiuto o dal mancato accordo sulla conciliazione o sull’arbitrato. Tale previsione, in particolare, non è stata ritenuta in contrasto con gli artt. 4 e 41 Cost., poiché l’accelerata sequenza procedimentale è palesemente volta a procurare una condizione di certezza in ordine alla possibilità di un amichevole componimento della possibile lite futura, nell’interesse di entrambe le parti del rapporto di lavoro. È stata escluso anche il contrasto con l’art. 24 Cost., poiché la durata del predetto termine è sostanzialmente omologabile agli spazi temporali riconosciuti nella giurisdizione civile per la tutela dei diritti ed appare comunque congruo in relazione alla possibilità del pieno esercizio dei diritti di difesa di entrambe le parti.

Sul punto, la S.C. ha anche confermato che il modificato art. 6, comma 2, della citata l. n. 604 del 1966, deve essere interpretato nel senso che, ai fini della conservazione dell’efficacia dell’impugnazione stragiudiziale del licenziamento, sono da considerare idonei il deposito del ricorso giudiziale nella cancelleria del giudice del lavoro, nelle forme di cui all’art. 414 c.p.c. o dell’art. 1, comma 48, della l. n. 92 del 2012 ovvero, alternativamente, la comunicazione alla controparte della richiesta di conciliazione o arbitrato. Per converso, non è idoneo a tale scopo il ricorso proposto ai sensi dell’art. 700 c.p.c., perché, da un lato, la proposizione di una domanda di provvedimento d’urgenza è incompatibile con il previo tentativo di conciliazione e, dall’altro lato, perché l’assenza, nel sistema della strumentalità attenuata di cui all’art. 669 octies, comma 6, c.p.c., di un termine entro il quale instaurare il giudizio di merito all’esito del procedimento cautelare vanificherebbe l’obiettivo della disciplina introdotta dalla l. n. 183 del 2010, di provocare in tempi ristretti una pronuncia di merito sulla legittimità del licenziamento (Sez. L, n. 29429/2018, Ponterio, Rv. 651711-01; in senso conforme Sez. L, n. 14390/2016, Napoletano, Rv. 640467-01).

Sempre in tema di rapporti tra arbitrato ed impugnativa del licenziamento individuale ex art. 6 cit., ove alla richiesta, effettuata dal lavoratore, di tentativo di conciliazione o arbitrato consegua un esplicito rifiuto datoriale – che si perfeziona senza necessità di una sua comunicazione alla DTL –, il lavoratore medesimo è tenuto a depositare, ai sensi dell’ultima parte del comma 2 del medesimo art. 6, il ricorso al giudice entro il termine di decadenza, decorrente dal rifiuto in questione, di 60 giorni. Esso assume, per la specifica regola che lo prevede, un evidente connotato di specialità che lo rende insensibile alla disciplina generale della sospensione dei termini di decadenza di cui all’art. 410, comma 2, c.p.c.

Ne consegue, per Sez. L, n. 27948/2018, Amendola F., Rv. 651389-01, che al predetto termine di sessanta giorni non possono sommarsi i venti giorni previsti in tale ultima disposizione.

9. Gli arbitri.

In tema di composizione del collegio arbitrale, qualora la clausola compromissoria contenesse un rinvio ad una legge in funzione dell’individuazione delle relative regole, la fonte della deferibilità ad arbitri rimarrebbe comunque contrattuale e non legislativa.

Ne deriva, come evidenziato da Sez. 1, n. 21355/2018, Lamorgese, Rv. 650399-02, l’irrilevanza, ai fini della disciplina processuale dei successivi arbitrati, delle modifiche normative sopravvenute che abbiano riguardato la predetta legge, la cui applicabilità permane proprio in quanto riconducibile non alla volontà del legislatore ma a quella negoziale delle parti.

La S.C., con la medesima ordinanza, ha altresì chiarito che in caso di nullità del lodo per violazione di norme inderogabili sulla composizione del collegio arbitrale, la corte d’appello non può far seguire la fase rescissoria alla fase rescindente, in quanto la competenza, da parte del giudice dell’impugnazione, a conoscere del merito presuppone un lodo emesso da arbitri investiti effettivamente di potestas iudicandi (Sez. 1, n. 21355/2018, Lamorgese, Rv. 650399-01; in senso conforme, ex plurimis, Sez. 1, n. 20128/2013, Mercolino, Rv. 627741-01).

È infine inammissibile il ricorso straordinario per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost. avverso il decreto di nomina o di sostituzione di un arbitro, essendo provvedimento privo di carattere decisorio e insuscettibile di produrre effetti sostanziali o processuali di cosa giudicata (Sez. 1, n. 18004/2018, Caiazzo, Rv. 649894-01; in senso conforme si è espressa anche in precedenza Sez. 1, n. 11665/2007, Rordorf, Rv. 597181-01, che ha applicato il principio, nella fattispecie nella quale due tribunali avevano proceduto alla nomina di un arbitro, al ricorso proposto avverso il decreto di revoca della nomina e la successiva revoca della revoca, escludendone la decisività su diritti processuali delle parti).

Il diritto degli arbitri di ricevere il pagamento dell’onorario sorge per il fatto di avere effettivamente espletato l’incarico conferito, nell’ambito del rapporto di mandato intercorrente con le parti, prescindendo dalla validità ed efficacia del lodo.

Ne consegue, come ha statuito Sez. 6-1, n. 15420/2018, Lamorgese A.P., Rv. 649503-01, che il detto diritto al compenso non viene meno nell’ipotesi d’invalidità del lodo stesso.

Il rilievo dell’effettivo espletamento dell’incarico, ai fini della sussistenza del diritto al compenso, è principio consolidato nella giurisprudenza della S.C., la quale ha altresì chiarito che nella procedura sommaria di liquidazione di cui all’art. 814 c.p.c., esperibile allorché il lodo sia stato pronunciato, al presidente del tribunale non è consentita alcuna indagine sulla validità del compromesso e del lodo e sulla regolarità della nomina degli arbitri, materie comprese nella previsione dell’art. 829 c.p.c. e riservate alla cognizione del giudice dell’impugnazione indicato dal precedente art. 828 c.p.c. La sussistenza del credito per l’onorario, a favore dell’arbitro che abbia espletato l’attività demandata allo stesso, non è quindi inficiata dai suddetti vizi, ferma restando l’ammissibilità dell’azione risarcitoria nei suoi confronti, esperibile nella diversa sede competente, allorquando il lodo sia annullato per causa a lui imputabile (ex plurimis, Sez. 1, n. 14799/2008, Ceccherini, Rv. 603605-01).

Parimenti, sempre in virtù del diritto al compenso in ragione dell’effettivo espletamento dell’incarico, sono stati ritenuti insussistenti i presupposti della sospensione, ex art. 295 o 337 c.p.c., del procedimento instaurato dall’arbitro per ottenere il residuo compenso, già liquidato, in attesa della definizione del giudizio di impugnazione del lodo, la cui eventuale nullità può giustificare solo un’azione di responsabilità ai sensi dell’art. 813-bis c.p.c. (Sez. 6-1, n. 24072/2013, Scaldaferri, Rv. 628310-01).

10. Procedimento arbitrale.

In tema di procedimento arbitrale la S.C. nel 2018 ha posto particolare attenzione al modo di atteggiarsi del contraddittorio rispetto al processo innanzi al giudice ordinario.

Il principio del contraddittorio difatti deve essere opportunamente adattato al giudizio arbitrale, dovendo essere offerta alle parti, al fine di consentire loro un’adeguata attività difensiva, la possibilità di esporre i rispettivi assunti, di esaminare ed analizzare le prove e le risultanze del processo, di presentare memorie e repliche e conoscere in tempo utile le istanze e richieste avverse.

In applicazione del principio Sez. 1, n. 08331/2018, Terrusi F., Rv. 648141-01, ha confermato la sentenza con la quale la Corte di Appello, preso atto della nullità della notifica dell’originario atto introduttivo del giudizio arbitrale in quanto eseguita nei confronti degli organi sociali invece che del commissario liquidatore dopo l’apertura della liquidazione coatta amministrativa, aveva considerato regolarmente introdotto il procedimento arbitrale nei confronti del commissario attraverso la notifica della domanda unitamente alla copia dell’ordinanza arbitrale di rinvio della prima udienza ancorché priva di sottoscrizione e di certificazione di conformità all’originale.

Siffatto “adattamento” del principio del contraddittorio deve altresì coordinarsi con l’assunto in forza del quale, ove le parti con il compromesso o con la clausola compromissoria non abbiano determinato le regole processuali da adottare, gli arbitri sono liberi di regolare l’articolazione del procedimento nel modo ritenuto più opportuno, anche discostandosi dalle prescrizioni dettate dal codice di rito.

Tale libertà, difatti, come ha precisato Sez. 2, n. 10809/2015, Matera L., Rv. 635441-01, è limitata dal rispetto del principio del contraddittorio, sancito dall’art. 101 c.p.c., che, comunque, necessita di essere opportunamente adattato alle peculiarità del giudizio arbitrale. Deve essere quindi offerta alle parti, al fine di consentire loro un’adeguata attività difensiva, la possibilità di esporre i rispettivi assunti, di esaminare ed analizzare le prove e le risultanze del processo, anche dopo il compimento dell’istruttoria e fino al momento della chiusura della trattazione, nonché di presentare memorie e repliche e conoscere in tempo utile le istanze e richieste avversarie.

In applicazione del richiamato principio, la S.C. ha ritenuto esente da censure la decisione arbitrale assunta all’esito di consulenza tecnica di ufficio la cui relazione tecnica era stata svolta anche alla stregua di nuovi documenti prodotti da una parte al consulente tecnico di ufficio ma comunque resi conoscibili da quest’ultimo al consulente tecnico nominato dall’altra parte, con conseguente rispetto del principio del contraddittorio per essere stato il tecnico di parte messo in grado di svolgere le opportune difese.

Tanto nell’arbitrato libero quanto in quello rituale, però, gli arbitri incorrono nella violazione del principio del contraddittorio qualora abbiano stabilito la natura perentoria dei termini da loro fissati alle parti per le allegazioni e istanze istruttorie e, in relazione a tale determinazione, abbiano dichiarato decaduta una parte per il tardivo esercizio delle facoltà di proporre quesiti e istanze istruttorie, senza che la convenzione d’arbitrato, o un atto scritto separato o il regolamento processuale dagli arbitri stessi predisposto, prevedesse la possibilità di fissare termini perentori per lo svolgimento delle attività difensive e senza una specifica avvertenza circa il carattere perentorio dei termini al momento della loro assegnazione.

Nella specie, Sez. 2, n. 22994/2018, Criscuolo M., Rv. 650380-02, ha rigettato il motivo di ricorso fondato sulla circostanza che gli arbitri, dopo aver fissato termini perentori per le richieste istruttorie, avevano successivamente consentito ad una parte, risultata poi vittoriosa, di produrre la documentazione e le prove a sostegno delle sue pretese, rispetto alle quali tuttavia la controparte era stata messa in grado di interloquire e contro dedurre (in senso sostanzialmente conforme anche Sez. 1, n. 01099/2016, Nazzicone, Rv. 638612-01).

È altresì nullo, per violazione del diritto al contraddittorio e conseguentemente del diritto di difesa, il lodo arbitrale nel quale sia posta a fondamento della decisione una questione rilevata d’ufficio e mai sottoposta alla valutazione delle parti.

In applicazione del predetto principio, Sez. 1, n. 23325/2018, Cirese, Rv. 650762-01, ha cassato con rinvio la sentenza della Corte territoriale che, in sede di impugnazione del lodo arbitrale, aveva omesso di valutare la dedotta violazione del contraddittorio e del diritto di difesa, nonostante la decisione fosse stata fondata sull’inefficacia del contratto per difetto di un progetto preliminare, questione mai discussa dalle parti, che nel giudizio arbitrale avevano chiesto, reciprocamente, la risoluzione del contratto per inadempimento, con ciò presupponendo la validità del titolo originario.

Nel procedimento arbitrale, del resto, l’omessa osservanza del principio del contraddittorio (sancito dall’art. 816-bis, comma 1, c.p.c., già in precedenza ricondotto all’art. 816 c.p.c.) non è un vizio formale, ma di attività. Ne consegue che, ai fini della declaratoria di nullità, è necessario accertare la concreta menomazione del diritto di difesa, tenendo conto della modalità del confronto tra le parti (avuto riguardo alle rispettive pretese) e delle possibilità, per le stesse, di esercitare, nel rispetto della regola audiatur et altera pars, su un piano di uguaglianza le facoltà processuali loro attribuite.

In tali termini già Sez. 1, n. 28660/2013, Nazzicone, Rv. 629222-01, la quale ha rigettato il ricorso con il quale una delle parti sosteneva che l’altra avesse modificato le proprie domande nel “foglio conclusioni” introducendo nuovi temi, i quali, invece, erano stati ampiamente discussi davanti agli arbitri.

11. Nullità del lodo.

In tema di impugnazione del lodo arbitrale, il difetto di motivazione, quale vizio riconducibile all’art. 829, n. 5 c.p.c., in relazione all’art. 823 stesso codice (che tra i requisiti del lodo individua l’esposizione sommaria dei motivi), è ravvisabile soltanto nell’ipotesi in cui la motivazione del lodo manchi del tutto ovvero sia a tal punto carente da non consentire l’individuazione della ratio della decisione adottata o, in altre parole, da denotare un iter argomentativo assolutamente inaccettabile sul piano dialettico, sì da risolversi in una non-motivazione.

Nei suddetti termini ha statuito Sez. 6-2, n. 12321/2018, Terrusi, Rv. 649065-01, confermando l’orientamento già risalente a Sez. 1, n. 06986/2007, Del Core, Rv. 595703-01, e nello stesso solco la S.C. ha ritenuto che l’art. 829, n. 5, c.p.c. richiama l’art. 823, n. 5, dello stesso codice, il quale, nel disporre che il lodo deve contenere l’esposizione sommaria dei motivi, non distingue tra lodo pronunciato secondo diritto e quello pronunciato secondo equità.

Ne consegue, per Sez. 1, n. 16755/2013, Di Virgilio, Rv. 627043-01, che anche quest’ultimo lodo può essere impugnato per la mancata esposizione sommaria dei motivi, ossia per totale carenza di motivazione o per una motivazione che non consenta di comprendere la ratio della decisione e di apprezzare se l’iter logico seguito dagli arbitri, per addivenire alla soluzione adottata, sia percepibile e coerente.

In tema di integrazione tra dispositivo e motivazione, tale da escludere la nullità della relativa statuizione, Sez. 1, n. 05122/2018, Genovese, Rv. 647636-01, ha ritenuto che il dispositivo di un lodo che per la determinazione del quantum debeatur rinvii alla motivazione, la quale, a sua volta, rinvii ad un accordo non depositato in atti ma ricavabile in forza di una tabella contenuta in una memoria di parte depositata nel corso del procedimento arbitrale ed avente portata confessoria, deve considerarsi esistente, sia sul piano formale che su quello sostanziale, ove i giudici abbiano accertato la ricavabilità del quantum debeatur sulla base di calcoli matematici di tipo proporzionalistico (nella specie, possibili ex post sulla base dell’applicazione di percentuali di pagamento delle royalties), anche se la tabella non sia stata sottoscritta dagli arbitri né formalmente inserita nel lodo.

Quanto innanzi è altresì argomentabile in ragione della natura giurisdizionale del lodo rituale, derivante dalla funzione sostitutiva degli arbitri rituali rispetto a quella dei giudici ordinari.

Ne consegue l’operatività, con riferimento al lodo rituale, del principio già sancito in ordine alle sentenze, per il quale la portata precettiva di esse va individuata tenendo conto non solo del dispositivo ma anche della motivazione, quando il primo, contenga comunque una decisione che, pur di contenuto incompleto e indeterminato, si presti ad essere integrata dalla seconda (purché non si tratti di sentenze di natura processuale oltre che nei casi in cui il dispositivo ha rilevanza esterna, come per il rito del lavoro, come ha precisato Sez. 6-L, n. 03024/2016, Arienzo, Rv. 638930-01).

In applicazione del principio, difatti, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata la quale aveva escluso la ricorrenza del vizio di omessa pronuncia relativamente ad un lodo arbitrale il cui dispositivo non conteneva alcuna espressa statuizione di rigetto di una domanda risarcitoria ritenuta non meritevole di accoglimento in motivazione (Sez. 1, n. 19074/2015, Mercolino, Rv. 636683-01).

In ordine al sindacato del lodo per errores in iudicando, la S.C. ha confermato che la denuncia di nullità del lodo arbitrale postula, in quanto ancorata agli elementi accertati dagli arbitri, l’esplicita allegazione dell’erroneità del canone di diritto applicato rispetto a detti elementi, e non è, pertanto, proponibile in collegamento con la mera deduzione di lacune d’indagine e di motivazione, che potrebbero evidenziare l’inosservanza di legge solo all’esito del riscontro dell’omesso o inadeguato esame di circostanze di carattere decisivo.

In applicazione del principio, infatti, Sez. 1, n. 28997/2018, Tricomi, Rv. 651474-01, ha rigettato il ricorso per aver il ricorrente censurato, per violazione di legge, i criteri di determinazione temporale del danno del quale aveva chiesto il risarcimento, così formulando una censura infondata perché involgente la valutazione di merito degli arbitri e non i limiti della clausola compromissoria (in senso conforme, ex plurimis, Sez. 1, n. 19324/2014, Lamorgese A.P., Rv. 632214-01).

In tema di arbitrato irrituale, infine, l’inutile decorso del termine stabilito dalla parti per il deposito del lodo determina l’estinzione del mandato conferito agli arbitri ai sensi dell’art. 1722, comma 1, n. 1, c.c., salvo che le stesse non abbiano inteso in modo univoco conferire a detto termine un valore meramente orientativo.

Sez. 1, n. 09924/2018, Valitutti, Rv. 648122-01, in applicazione del principio, ha cassato la sentenza che, applicando erroneamente l’art. 816 sexies c.p.c., riguardante il solo arbitrato rituale, aveva sospeso il termine di deposito del lodo, stante l’avvenuta trasformazione della società parte del giudizio in ditta individuale.

La scadenza del termine per l’adozione del lodo irrituale, prevista al fine di evitare che le parti siano indefinitamente vincolate alla conclusione extragiudiziale della controversia, è essenziale ed estingue il mandato conferito agli arbitri, ma, per il carattere negoziale del rapporto, è possibile che le parti intendano concedere una proroga ed attribuiscano al suddetto termine un valore meramente orientativo, quale una raccomandazione agli arbitri di procedere con la sollecitudine richiesta dalla natura della lite.

Ne consegue che la proroga del termine possa essere concordata sia dai difensori muniti di procura speciale, comprensiva della facoltà di transigere e dei più ampi poteri, che necessariamente includono anche la possibilità di concedere un termine per l’emissione del lodo, sia dai difensori privi di procura speciale, purché le parti non abbiano negato il proprio consenso alla proroga medesima. L’accertamento dell’intervenuto accordo, risolvendosi nella ricostruzione della volontà delle parti, è rimesso all’apprezzamento del giudice del merito, che, se congruamente e correttamente motivato, è insindacabile in sede di legittimità (ex plurimis, Sez. L, n. 24562/2011, Tria, Rv. 619787-01).

Mutuato quanto innanzi circa le dette conseguenze in ordine alla concordabilità della proroga, Sez. 2, n. 22994/2018, Criscuolo M., Rv. 650380-01, ha ritenuto non censurabile la sentenza della corte d’appello che, sulla base di una richiesta di rinvio ai fini dell’escussione dei testi fatta dall’avvocato della società ricorrente, aveva ritenuto implicitamente raggiunto tra le parti, che non avevano manifestato alcun dissenso al riguardo, un accordo per la proroga del termine per la pronuncia del lodo.

Circa l’individuazione del momento iniziale di decorrenza del termine di cui innanzi la S.C. ha argomentato dalla natura dell’arbitrato irrituale, riconducibile alla figura del mandato conferito congiuntamente, poiché solo dal concorso della volontà di entrambe le parti compromittenti viene conferito al collegio arbitrale il mandato di definire la controversia. Data la natura dell’incarico, necessariamente indivisibile e ad attuazione congiunta, tutti gli arbitri devono altresì accettare e partecipare alle attività richieste per l’esecuzione del mandato, con la conseguenza che il termine (comunque unico) di adempimento per il deposito del lodo può iniziare a decorrere dal momento in cui il giudizio arbitrale può dirsi pendente, quando gli arbitri siano effettivamente investiti del potere negoziale conferito loro dai mandanti, cioè presuntivamente dalla data di costituzione del collegio arbitrale, salvo patto contrario, ex art. 1716, comma 1, c.c., del quale deve essere data congrua e adeguata motivazione (Sez. 1, n. 11270/2012, Lamorgese A.P., Rv. 623078-01).

11.1. Nullità del lodo per errori di diritto inerenti il merito della controversia: dall’arresto delle Sez. U. del 2016 al possibile prospective overruling.

In tema di nullità del lodo per errori di diritto inerenti il merito della controversia e conseguente sua impugnabilità, Sez. 6-1, n. 14352/2018, Cristiano, Rv. 649147-01, ha fatto applicazione del principio sancito da Sez. U, n. 09284/2016, Nappi, Rv. 639686-01 (a sua volta applicata alla lettera anche da Sez. 1, n. 17339/2017, Valitutti, Rv. 644972-01).

Esse hanno in particolare risolto il contrasto interpretativo sorto in merito all’applicabilità dell’art. 829, comma 3, c.p.c., nel testo riformulato dall’art. 24 del d.lgs. n. 40 del 2006, ai procedimenti arbitrali promossi successivamente alla sua entrata in vigore ma fondati su convenzioni arbitrali antecedenti a tale data. È stato difatti ribadito che il citato comma 3, laddove ammette l’impugnabilità del lodo per errores in iudicando se espressamente disposta dalle parti o dalla legge, si applica, ai sensi della disposizione transitoria di cui all’art. 27 del d.lgs. n. 40 del 2006, a tutti i giudizi arbitrali promossi dopo l’entrata in vigore della novella. Per stabilire se sia ammissibile l’impugnazione per violazione delle regole di diritto sul merito della controversia, la legge – cui l’art. 829, comma 3, c.p.c., rinvia – è però identificata in quella vigente al momento della stipulazione della convenzione di arbitrato.

Argomentando nei termini di cui innanzi la citata Sez. 6-1, n. 14352/2018, ha confermato che, in caso di convenzione di arbitrato cd. di diritto comune, stipulata anteriormente all’entrata in vigore della nuova disciplina, nel silenzio delle parti, deve intendersi ammissibile l’impugnazione del lodo, così disponendo l’art. 829, comma 2, c.p.c., nel testo previgente, salvo che le parti stesse avessero autorizzato gli arbitri a giudicare secondo equità o avessero dichiarato il lodo non impugnabile (sul punto si vedano sempre le citate Sez. U, n. 09284/2016, Nappi, Rv. 639686-01, che hanno altresì ritenuto irrilevante, ai fini di una differente ricostruzione e conclusione, la natura giurisdizionale del lodo rituale).

Il suddetto arresto delle Sezioni Unite del 2016, confermato dalla giurisprudenza successiva, ha determinato l’insorgere di una questione di natura anche processuale fatta oggetto dell’ordinanza interlocutoria Sez. 1, n. 20472/2018, Nazzicone, non massimata.

Tale ordinanza ha, in particolare, rimesso alle Sezioni Unite le seguenti questioni di massima di particolare importanza: a) se il concetto di prospective overruling sia estensibile alla legge sostanziale (quale è reputata la regola posta dal novellato art. 829, comma 3, c.p.c., secondo Corte cost. n. 13 del 2018) ed oltre i mutamenti degli indirizzi consolidati del giudice di legittimità; b) se, in ogni caso, con riguardo alla vicenda ermeneutica della suddetta disposizione, nonché di quella transitoria dettata dall’art. 27 del d.lgs. n. 40 del 2006, sia applicabile l’istituto generale della rimessione in termini per “causa non imputabile” della decadenza quando si fosse creato un ragionevole affidamento sulla precedente interpretazione letterale offerta dalla giurisprudenza di merito successivamente disattesa da quella di legittimità.

12. Giudizio di impugnazione per nullità del lodo rituale.

In forza del revirement giurisprudenziale del 2013, l’attività degli arbitri rituali, anche alla stregua della disciplina complessivamente ricavabile dalla l. 5 gennaio 1994, n. 25 e dal d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, è stata ritenuta avente natura giurisdizionale e sostitutiva della funzione del giudice ordinario (Sez. U, n. 24153/2013, Segreto, Rv. 627786-01).

Dalla natura giurisdizionale di cui innanzi ne consegue (anche) che l’impugnazione del lodo è soggetta alla disciplina e ai principi che regolano il giudizio di appello, in quanto compatibili. Sicché, per Sez. 1, n. 13898/2014, Campanile, Rv. 631409-01, in caso di tardiva iscrizione a ruolo, l’impugnazione è improcedibile, trovando applicazione l’art. 348, comma 1, c.p.c. e non l’art. 171 c.p.c.

Alla linea interpretativa appena evidenziata Sez. 1, n. 26008/2018, Pazzi, Rv. 651300-01, ha aggiunto un ulteriore tassello, sempre muovendo dalla natura giurisdizionale dell’arbitrato rituale, la quale, difatti, fa sì che l’impugnazione del lodo sia soggetta alla disciplina e ai principi che regolano il giudizio di appello, in quanto compatibili, compresa la possibilità di rinnovare la notificazione dell’atto introduttivo del giudizio, al ricorrere dei presupposti di legge. Ne consegue, per la S.C., che, disposta tale rinnovazione ai sensi dell’art. 291, comma 1, c.p.c., ed accertata la sua ritualità, resta preclusa la sanzione d’inammissibilità del gravame.

L’impugnazione del lodo arbitrale rituale deve essere sempre proposta dinanzi alla corte d’appello nel cui distretto si trova la sede dell’arbitrato, ai sensi dell’art. 828 c.p.c., unica disposizione diretta alla determinazione del giudice cui spetta la cognizione su detta impugnazione.

Sicché, come ha confermato Sez. 1, n. 00646/2018, Sambito, Rv. 646589-01, il giudice ordinario, in qualità di giudice naturale dell’impugnazione del lodo, qualora accolga l’impugnazione ha anche il potere-dovere, salvo contraria volontà di tutte le parti, di decidere nel merito ai sensi dell’art. 830, comma 2, c.p.c., a nulla rilevando che la controversia sarebbe stata affidata, ove non fosse stata deferita in arbitri, alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (in senso conforme si vedano, ex plurimis: Sez. U, n. 16787/2013, Rordorf, Rv. 626915-01; Sez. U, n. 15204/2006, Luccioli, Rv. 589905-01).

Quanto alla struttura bifasica del giudizio d’impugnazione delle pronunce arbitrali, Sez. 6-1, n. 09387/2018, Acierno, Rv. 649142-01, ha chiarito che nella prima fase, di carattere rescindente, non è consentito alla corte d’appello procedere ad accertamenti di fatto, dovendo il giudice dell’impugnazione limitarsi ad accertare eventuali cause di nullità del lodo, che possono essere dichiarate soltanto in conseguenza di determinati errores in procedendo, nonché per inosservanza delle regole di diritto, nei limiti previsti dall’art. 829 c.p.c. (in senso conforme, ex plurimis, anche le precedenti Sez. 1, n. 12430/2000, Adamo, Rv. 540300-01, e Sez. 1, n. 20880/2010, Salvago, Rv. 614361-01).

Solo in sede rescissoria, peraltro, al giudice dell’impugnazione è attribuita la facoltà di riesame del merito delle domande, comunque nei limiti del petitum e delle causae petendi dedotte dinanzi agli arbitri, con la conseguenza che non sono consentite né domande nuove rispetto a quelle proposte agli arbitri, né censure diverse da quelle tipiche individuate dall’art. 829 c.p.c. (Sez. 1, n. 20880/2010, Salvago, Rv. 614361-01).

In caso di nullità del lodo per violazione di norme inderogabili sulla composizione del collegio arbitrale, però, la corte d’appello non può far seguire la fase rescissoria alla fase rescindente, in quanto la competenza, da parte del giudice dell’impugnazione, a conoscere del merito presuppone un lodo emesso da arbitri investiti effettivamente di potestas iudicandi (Sez. 1, n. 21355/2018, Lamorgese A.P., Rv. 650399-01; in senso conforme, ex plurimis, Sez. 1, n. 20128/2013, Mercolino, Rv. 627741-01).

In sede di ricorso per cassazione avverso la sentenza che abbia deciso sull’impugnazione per nullità del lodo arbitrale, la S.C. non può invece apprezzare direttamente il lodo arbitrale, ma solo la decisione impugnata nei limiti dei motivi di ricorso relativi alla violazione di legge e, ove ancora ammessi, alla congruità della motivazione della sentenza resa sul gravame, non potendo peraltro sostituire il suo giudizio a quello espresso dalla Corte di merito sulla correttezza della ricostruzione dei fatti e della valutazione degli elementi istruttori operata dagli arbitri.

In tal senso ha statuito Sez. 6-1, n. 02985/2018, Di Virgilio, Rv. 647336-02 (in senso conforme, ex multis, Sez. 2, n. 10809/2015, Matera L., Rv. 625440-01), la quale, confermando il consolidato orientamento, ha coerentemente dichiarato inammissibile motivo di ricorso, formulato avverso la sentenza della Corte territoriale ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., con cui il ricorrente aveva riproposto questioni di fatto già oggetto della decisione arbitrale, atteso che il controllo della S.C. non può mai consistere nella rivalutazione dei fatti, neppure in via di verifica della adeguatezza e congruenza dell’iter argomentativo seguito dagli arbitri (Sez. 6-1, n. 02985/2018, Di Virgilio, Rv. 647336-01; si vedano altresì, ex plurimis, Sez. 1, n. 18136/2013, Di Virgilio, Rv. 627400-01).

Per altro verso, in tema di impugnazione di lodo arbitrale che riguardi una pluralità di parti vincolate dalla medesima convenzione, è escluso che possa dichiararsi l’improcedibilità dell’arbitrato limitatamente ad alcune delle domande laddove vi sia dipendenza di cause, in relazione di inscindibilità, integrante una forma di litisconsorzio necessario processuale e non ricorra alcuna delle condizioni previste dall’art. 816 quater, comma 1, c.p.c. (Sez. 1, n. 27937/2018, Valitutti, Rv. 651329-01).

13. Rapporti tra arbitri ed autorità giudiziaria.

In tema di rapporti tra arbitri ed autorità giudiziaria, si sono susseguite (anche) nel 2018 diverse pronunce inerenti l’operatività dell’art. 819-ter c.p.c., in particolare in ordine all’istituto del regolamento di competenza, oltre l’eccezione di convenzione d’arbitrato ed i suoi rapporti con la litispendenza e la domanda riconvenzionale.

Il primo periodo dell’art. 819 ter, comma 1, c.p.c., nel prevedere che la competenza degli arbitri non è esclusa dalla connessione tra la controversia ad essi deferita ed una causa pendente davanti al giudice ordinario, implica, in riferimento all’ipotesi in cui sia stata proposta una pluralità di domande, che la sussistenza della competenza arbitrale sia verificata con specifico riguardo a ciascuna di esse, non potendosi devolvere agli arbitri (o al giudice ordinario) l’intera controversia in virtù del mero vincolo di connessione.

Sicché, ha precisato Sez. 6-3, n. 26553/2018, Positano, Rv. 650890-01, ove le domande connesse non diano luogo a litisconsorzio necessario, l’accoglimento del regolamento di competenza comporta la separazione delle cause, ben potendo i giudizi proseguire davanti a giudici diversi in ragione della derogabilità e disponibilità delle norme in tema di competenza.

Ne consegue altresì che, nell’ipotesi di cui innanzi, l’eccezione d’incompetenza deve essere sollevata con specifico riferimento alla domanda o alle domande per le quali è prospettabile la dedotta incompetenza. Sicché, ove essa sia formulata soltanto in relazione ad una tra più domande connesse, ma che non diano luogo a litisconsorzio necessario, il suo accoglimento comporterà la necessaria separazione delle cause, ben potendo i giudizi proseguire davanti a giudici diversi in ragione della derogabilità e disponibilità delle norme in tema di competenza (Sez. 6-3, n. 00307/2017, Tatangelo, Rv. 642728-01).

È invece inammissibile l’appello avverso la decisione del tribunale declinatoria della propria competenza a favore degli arbitri rituali, poiché l’attività di questi ultimi ha natura giurisdizionale e sostitutiva della funzione del giudice ordinario, sicché la relativa questione può essere fatta valere solo con regolamento di competenza (Sez. 2, n. 21336/2018, Casadonte, Rv. 650034-01, in senso conforme, Sez. 1, n. 17908/2014, Didone, Rv. 632217-01).

Sempre in tema di competenza arbitrale, nel corso del 2018 la S.C., da un lato, ha chiarito che l’eccezione di compromesso sollevata soltanto da alcuni dei contraenti convenuti in giudizio è produttiva di effetti nei confronti di tutti gli altri litisconsorti (Sez. 6-2, n. 08595/2018, Abete, Rv. 648224-01) e, dall’altro lato, ha statuito in difformità a suo precedente in ordine ai rapporti tra la detta eccezione e la domanda riconvenzionale.

Sotto tale ultimo profilo, in particolare, Sez. 1, n. 20139/2018, Dolmetta, Rv. 649957-01, ha ritenuto che nel caso di contestuale proposizione dell’eccezione di compromesso e di domanda riconvenzionale, la prima non può considerarsi rinunciata in ragione della formulazione della seconda, in quanto l’esame della domanda riconvenzionale è ontologicamente condizionato al mancato accoglimento dell’eccezione di compromesso, essendo la fondatezza di quest’ultima incompatibile con l’esame della domanda riconvenzionale (in senso conforme si vedano: Sez. 6-2, n. 26635/2011, Cerrato, Rv. 620166-01; Sez. 1, n. 12684/2007, Felicetti, Rv. 596871-01).

L’orientamento difforme ritiene invece che nella proposizione della domanda diretta al giudice ordinario, contenuta nella citazione introduttiva ovvero nella comparsa di risposta (e, pertanto, proposta in via riconvenzionale), per la soluzione della stessa controversia compromessa in arbitri, sia da ravvisarsi la volontà della parte di rinunciare alla proposizione dell’eccezione di compromesso, stante l’evidente incompatibilità tra una eventuale rinuncia all’azione giudiziaria e la successiva proposizione di quest’ultima (si vedano: Sez. 2, n. 12736/2007, De Julio, Rv. 597268-01; Sez. 3, n. 18643/2003, Chiarini, Rv. 568684-01; Sez. 2, n. 13317/1992, Vella, Rv. 480035-01).

Sez. 6-3, n. 21924/2018, Cigna, Rv. 650613-01, ha infine confermato l’inapplicabilità all’arbitrato irrituale di tutte le norme dettate per quello rituale, ivi compreso l’art. 819-ter c.p.c.

Ne deriva l’inammisibilità del regolamento di competenza avverso la decisione del giudice ordinario, che affermi o neghi l’esistenza o la validità di un arbitrato irrituale, e che, dunque, nel primo caso non pronunci sulla controversia dichiarando che deve avere luogo l’arbitrato irrituale e nel secondo dichiari, invece, che la decisione del giudice ordinario può avere luogo (in senso conforme, ex plurimis, Sez. 6-3, n. 19060/2017, Dell’Utri, Rv. 645353-01).

14. Regolamento preventivo di giurisdizione ed arbitrato estero.

Il regolamento preventivo di giurisdizione di cui all’art. 41 c.p.c., per sollevare una questione concernente il difetto di giurisdizione del giudice italiano, è ammissibile non solo allorché il convenuto nella causa di merito sia domiciliato o residente all’estero ma anche quando lo stesso, pur domiciliato e residente in Italia, contesti la giurisdizione italiana in forza di una deroga convenzionale a favore di un giudice straniero o di un arbitrato estero.

Nei termini di cui innanzi Sez. U, n. 29879/2018, Giusti, Rv. 651441-01, ha sostanzialmente confermato l’orientamento promosso da Sez. U, n. 22433/2018, Genovese, Rv. 650459-02, per la quale nel vigente sistema di diritto internazionale privato disciplinato dalla l. 31 maggio 1995, n. 218, l’istanza di regolamento preventivo di giurisdizione proposta dal convenuto residente o domiciliato in Italia è sempre ammissibile, purché l’istante dimostri l’esistenza di uno specifico interesse a ricorrere a questo specifico strumento al fine di escludere la giurisdizione nazionale davanti al quale sia stato convenuto. In applicazione del principio, la S.C. ha ritenuto ammissibile il regolamento proposto da una società, avente sede in Italia, invocante il patto teso a devolvere ad un arbitrato straniero la lite promossa in via monitoria nei suoi confronti davanti al giudice italiano.

Proseguendo, le Sez. U. da ultimo citate, dopo aver confermato l’ammissibilità del regolamento preventivo di giurisdizione anche in pendenza del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, poiché l’adozione del provvedimento monitorio non costituisce decisione nel merito ai sensi dell’art. 41 c.p.c. (Sez. U, n. 22433/2018, Genovese, Rv. 650459-01), hanno chiarito che, quando all’esito del regolamento preventivo di giurisdizione sia stato dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice nazionale, si determina una improseguibilità del giudizio di merito. Ciò in quanto il giudice italiano, pure avendo avuto il potere di adottare il provvedimento monitorio poi opposto, non ha più quello di decidere la relativa controversia, se non limitandosi a dichiarare la nullità del ridetto decreto ingiuntivo (Sez. U, n. 22433/2018, Genovese, Rv. 650459-01).

Come innanzi detto, con le due ordinanze citate le Sez. U, hanno mutato il proprio precedente orientamento in merito alla proponibilità del regolamento preventivo di giurisdizione nel caso in cui convenuti nel giudizio di merito siano soggetti residenti e domiciliati in Italia (anche, quindi, nel caso in cui si contesti la giurisdizione del giudice italiano in forza di arbitrato estero).

Le precedenti Sez. U, n. 13569/2016, D’Ascola, Rv. 640221-01, difatti, erano giunte a conclusioni opposte muovendo dall’assunto per il quale quello in esame (art. 41 c.p.c.) è un istituto di natura straordinaria ed eccezionale, non estensibile ad ipotesi ivi non contemplate. Né rilevava, per la detta ultima ordinanza, che i convenuti residenti e domiciliati in Italia avessero, nel giudizio pendente, eccepito l’immunità giurisdizionale loro spettante quali organi di uno Stato straniero, atteso che, in mancanza della condizione legittimante l’accesso allo strumento, ogni eventuale questione di giurisdizione potrebbe e dovrebbe essere scrutinata dal giudice di merito nonché essere oggetto di impugnazione ordinaria, senza alcun vulnus al diritto all’equo processo in relazione alla determinabilità della giurisdizione.