Il tema della compatibilità con i principi costituzionali della durata fissa delle pene accessorie previste dalla legge fallimentare era già stato posto al vaglio della Corte costituzionale. La Corte di appello di Trieste e la Corte di cassazione, infatti, con distinte ordinanze, prospettando la violazione del principio di eguaglianza e di quello della finalità rieducativa della pena, in relazione alla predeterminazione nella misura fissa di dieci anni della pena accessoria prevista dall’art. 216, ultimo comma, del R.d. n. 267 del 1942, avevano chiesto alla Corte costituzionale di aggiungere le parole “fino a” alla disposizione citata, al fine di rendere applicabile l’art. 37 cod. pen., secondo il quale, quando la legge stabilisce che la condanna importa una pena accessoria e la durata di questa non è espressamente determinata, la pena accessoria ha una durata eguale a quella della pena principale inflitta.
La Corte, con la sentenza n. 134 del 31/05/2012, dichiarava inammissibile la questione di legittimità costituzionale, osservando che si richiedeva una addizione normativa la quale, essendo solo una tra quelle astrattamente ipotizzabili, non costituiva la soluzione costituzionalmente obbligata, così richiedendosi una ingerenza in scelte affidate alla discrezionalità del legislatore. Questa decisione richiamava «il principio, più volte espresso, secondo il quale sono inammissibili le questioni di costituzionalità relative a materie riservate alla discrezionalità del legislatore e che si risolvono in una richiesta di pronuncia additiva a contenuto non costituzionalmente obbligato». Nel contempo, tuttavia, la Corte sottolineava l’opportunità, peraltro già manifestata in precedenza (cfr. Corte cost. ord. n. 293 del 2008), di una riforma del sistema delle pene accessorie, che lo renda pienamente compatibile con i principi della Costituzione ed in particolare con l’art. 27, comma terzo, Cost.
Successivamente, la Suprema Corte, in diverse occasioni, ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della durata fissa della pena accessoria per la bancarotta fraudolenta, sia perché già risolta negativamente dalla Corte Costituzionale con la sentenza dapprima illustrata, sia perché ha ritenuto che la rigidità del sistema sanzionatorio previsto per il reato indicato sarebbe stata solo parziale, essendo limitata alle sole pene accessorie, mentre al giudice è comunque attribuito un ampio ventaglio per la graduazione della risposta sanzionatoria con la pena principale (così Sez. 5, n. 33880 del 6/07/2018, Marchesi e altro). Al riguardo, è stato evidenziato che la stessa Corte Costituzionale, nel ribadire la tendenziale contrarietà delle pene fisse «al volto costituzionale dell’illecito penale», ha precisato che questo principio deve intendersi riferito alle pene fisse nel loro complesso e non anche ai «… trattamenti sanzionatori che coniughino articolazioni rigide e articolazioni elastiche, in maniera tale da lasciare adeguati spazi alla discrezionalità del giudice, ai fine dell’adeguamento della risposta punitiva alle singole fattispecie concrete» (Corte Cost. ord. n. 91 del 4/04/2008, che ribadisce principi già affermati nelle sentenze n. 188 del 8/11/1982 e n. 50 del 2/04/1980). I parametri costituzionali che esigono l’individualizzazione del trattamento sanzionatorio, di conseguenza, non possono necessariamente considerarsi lesi nell’ipotesi di comminatoria, per un determinato illecito, di una pena principale dotata di una forbice edittale, congiunta ad una pena accessoria fissa, in quanto, in una simile evenienza, il giudice, agendo anche solo sulla pena principale, conserva la possibilità di adeguare la risposta punitiva alle specificità del singolo caso (cfr. Sez. 5, n.33880 del 6/07/2018, Marchesi e altro, cit.; in questi termini, anche Sez. 5, n. 36087 del 03/05/2018, Cannone; Sez. 5, n. 33150 del 30/03/2018, Pacchioni ed altri; Sez. 5, n. 12360 del 01/02/2018, Quaranta; Sez. 5, n. 56323 del 26/10/2017, Intrieri, Rv. 271896).
Nonostante le decisioni appena illustrate, la questione di legittimità costituzionale degli artt. 216 e 223 della legge fall. è stata nuovamente sollevata dalla Corte di cassazione, con ordinanza della Sez. 1, n. 52613 del 6/07/2017, Geronzi ed altri, trovando questa volta accoglimento con la sentenza della Corte costituzionale n. 222 del 5/12/2018.
Con questa decisione, la Corte ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 216, ultimo comma, del R.d. 16 marzo 1942, n. 267, nella parte in cui prevedeva che la condanna per il delitto di bancarotta fraudolenta importasse l’inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale e l’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa nella durata fissa di anni dieci anziché “fino a dieci anni”.
Secondo la Consulta, in linea di principio, le previsioni sanzionatorie rigide non appaiono in linea con il “volto costituzionale” del sistema penale. Ogni fattispecie sanzionata con pena fissa, qualunque ne sia la specie, è per ciò solo “indiziata” di illegittimità, a meno che la peculiare struttura della fattispecie la renda “proporzionata” all’intera gamma dei comportamenti tipizzati.
La durata fissa di dieci anni delle pene accessorie previste l’art. 216, comma quarto, della legge fallimentare, in particolare, non può ritenersi «ragionevolmente “proporzionata” rispetto all’intera gamma di comportamenti riconducibili allo specifico tipo di reato».
Anzitutto, l’art. 216 della legge fallimentare (richiamato, nel suo contenuto precettivo, dall’art. 223, primo comma, della medesima legge) raggruppa una pluralità di fattispecie che, già a livello astratto, sono connotate da diverso disvalore, come dimostrano i relativi quadri sanzionatori previsti dal legislatore.
All’interno delle singole figure di reato previste in astratto da ciascun comma nonché di quelle previste dall’art. 223, comma secondo, della legge fallimentare, poi, la gravità dei fatti concreti ad esse riconducibili può essere marcatamente differente, in relazione quanto meno alla gravità del pericolo di frustrazione delle ragioni creditorie creato con la condotta costitutiva del reato.
La durata delle pene accessorie temporanee comminate dall’art. 216, ultimo comma, della legge fallimentare, invece, resta indefettibilmente determinata in dieci anni, quale che sia la qualificazione astratta del reato ascritto all’imputato e quale che sia la gravità concreta delle condotte costitutive di tale reato; e resta, altresì, insensibile all’eventuale sussistenza delle circostanze aggravanti o attenuanti previste dall’art. 219 della medesima legge, le quali pure determinano variazioni significative della pena edittale.
Una simile rigidità applicativa genera la possibilità di risposte sanzionatorie manifestamente sproporzionate per eccesso - e dunque in contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost. - rispetto ai fatti di bancarotta fraudolenta meno gravi, risultando comunque distonica rispetto al menzionato principio dell’individualizzazione del trattamento sanzionatorio.
La Corte costituzionale, dunque, ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 216, ultimo comma, del R.d. 16 marzo 1942, n. 267, stabilendo che «la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa l’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa fino a dieci anni». Essendo stato fissato solo il limite massimo delle pene accessorie, è sorto il problema dell’individuazione del criterio di determinazione della loro durata.
Il nostro ordinamento, infatti, soltanto in taluni ipotesi prevede la perpetuità di tali pene, essendo stabilita, invece, in linea di principio, la loro durata temporanea. Quando la legge prescrive che la condanna importa una pena accessoria temporanea e la durata di questa non è espressamente determinata, soccorre la disciplina di cui all’art. 37 cod. pen., secondo cui “la pena accessoria ha una durata eguale a quella della pena principale inflitta, o che dovrebbe scontarsi, nel caso di conversione, per insolvibilità del condannato. Tuttavia, in nessun caso essa può oltrepassare il limite minimo e quello massimo stabiliti per ciascuna specie di pena accessoria”.
L’interpretazione di questa norma si presenta dubbia.
Se è pacifico che sono esclusi dalla soggezione a siffatta regola equiparativa i casi più semplici in cui la legge stabilisce direttamente la durata perpetua della pena accessoria, come, ad esempio, prescrivono l’art. 29 e l’art. 317-bis cod. pen. per l’interdizione dai pubblici uffici (Sez. 1, n. 8126 del 06/12/2017, dep. 2018, Ngwoke, Rv. 272408; Sez. 5, n. 33150 del 30/03/2018, Pacchioni), altrettanto agevole è ricondurvi le ipotesi in cui nella norma sia assente ogni indicazione temporale, prevedendo essa soltanto la tipologia di pena da infliggere, come accade per alcune delle ipotesi previste dall’art. 609-nonies cod. pen.
È discussa, invece, l’individuazione del significato da attribuire al riferimento a pena “non espressamente determinata”, presupposto per l’attuazione concreta della prescrizione di cui all’art. 37 cod. pen., in tutte le altre situazioni in cui la legge si limita a stabilire un limite minimo ed altro massimo di durata con un possibile intervallo compreso tra i due estremi oppure una sola soglia temporale insuperabile ed una protrazione non inferiore o non superiore a tale soglia. In questi casi, al fine di individuare i criteri di determinazione della durata della pena accessoria, sono sorte nella giurisprudenza di legittimità due opinioni contrapposte.
La prima, sostenuta, sia dalla giurisprudenza di legittimità assolutamente maggioritaria, sia in dottrina, riconosce l’espressa determinazione normativa nel caso in cui il legislatore stabilisce in modo concreto e preciso la durata della pena, mentre in tutti gli altri casi in cui sono specificati il minimo e il massimo, ovvero solo il minimo o solo il massimo, la sua quantificazione resta soggetta alla regola dell’art. 37 cod. pen. con automatica e rigida conformazione alla pena principale inflitta (Sez. 3, n. 8041 del 23/01/2018, Carlessi, Rv. 272510; Sez. 3, n. 20428 del 02/04/2014, S., Rv. 259650; Sez. 5, n. 29780 del 30/06/2010, Ramunno, Rv. 248258; Sez. 3, n. 41874 del 09/10/2008, Azzani, Rv. 241410; Sez. 1, n. 19807 del 22/04/2008, Ponchia, Rv. 240006; Sez. 5, n. 4727 del 15/03/2000, Albini, Rv. 215987).
La contraria soluzione esclude l’applicazione dell’art. 37 cod. pen. quando la pena accessoria è indicata con la previsione di un minimo o di un massimo, giacché anche in tal caso la pena accessoria deve considerarsi espressamente stabilita dalla legge, che demanda al giudice di dosarne la protrazione temporale, facendo ricorso ai parametri di cui all’art. 133 cod. pen. (Sez. 6, n. 697 del 03/12/2013, dep. 2014, Antonelli, Rv. 257850; Sez. F, n. 35729 del 01/08/2013, Agrama, Rv. 256581; Sez. 3, n. 42889 del 15/10/2008, Di Vincenzo, Rv. 241538; Sez. 3, n. 25229 del 17/04/2008, Ravara, Rv. 240256; Sez. 5, n. 759 del 21/09/1989, Denegri, Rv. 183110).
Nel contrasto tra i due orientamenti si è inserita la pronuncia delle Sezioni U, n. 6240 del 27/11/2014, dep. 2015, B., Rv. 262328, peraltro chiamata a dirimere una divergenza interpretativa in ordine ai poteri del giudice dell’esecuzione di rilevare, dopo la formazione del giudicato di condanna, l’illegalità della pena accessoria applicata extra o contra legem in sede di cognizione. Questa decisione ha affermato che detta illegalità può essere rilevata a condizione che «essa sia determinata per legge ovvero determinabile, senza alcuna discrezionalità, nella specie e nella durata, e non derivi da errore valutativo del giudice della cognizione». Nella conseguente ricognizione delle tipologie di pena accessoria che ammettono l’intervento emendativo in fase esecutiva in assenza di apprezzamento discrezionale, le Sezioni Unite hanno incluso anche le ipotesi per le quali sia previsto un minimo e un massimo edittale ovvero uno soltanto dei suddetti limiti, con la conseguenza che la loro durata deve essere dal giudice uniformata, ai sensi dell’art. 37 cod. pen., a quella della pena principale inflitta.
Il successivo sviluppo della giurisprudenza di legittimità ha mostrato in prevalenza l’allineamento ai principi espressi dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 6240 del 2015.
In riferimento alla sanzione accessoria prevista per i reati tributari dall’art. 12 del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, è stato affermato il principio di uniformazione temporale alla durata della pena principale inflitta (Sez. 3, n. 8041 del 23/01/2018, Carlessi, cit.; Sez. 3, n. 35855 del 11/05/2016, Scrollini; Sez. 3, n. 38825 del 12/04/2018, Festa; Sez. 7, n. 1306 del 27/10/2017, dep. 2018, Mantelli; Sez. 7, n. 53265 del 23/09/2016, Petrone; Sez. 3, n. 37853 del 18/06/2015, Ceriani; Sez. 3, n. 29397 del 20/04/2016, Cafarelli; Sez. 3, n. 19100 del 24/02/2016, Genova; Sez. 3, n. 23657 del 26/01/2016, Incorvaia; Sez. 3, n. 37870 del 18/06/2015, Ferraretti; Sez. 3, n. 13218 del 20/11/2015, dep. 2016, Reggiani; Sez. 1, n. 25809 del 05/05/2015, Bonalumi).
Il medesimo principio è stato espresso per la pena accessoria comminata solo nel massimo dall’art. 85 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Sez. 3, n. 36869 del 28/06/2016, Morabito; Sez. 3, 19964 del 14/12/2016, dep. 2017, Corvi).
Alla stessa soluzione sono approdate le pronunce occupatesi delle pene accessorie per i reati previsti dal codice penale in materia di violenza sessuale: rispetto alle previsioni dell’art. 609-nonies, comma primo, n. 4), cod. pen. che distingue l’interdizione temporanea dai pubblici uffici dall’interdizione dai pubblici uffici per la durata di anni cinque in seguito alla condanna alla reclusione da tre a cinque anni, in particolare, è stato affermato che, nella prima ipotesi, in cui la pena accessoria non presenta durata espressamente determinata dalla legge penale, il giudice deve equipararla a quella della pena principale ai sensi dell’art. 37 cod. pen. (Sez. 3, n. 40679 del 01/07/2016, C., Rv. 268080).
Sulla stessa linea interpretativa si collocano le pronunce in tema di reati fallimentari: in riferimento alla fattispecie di bancarotta semplice documentale, è stato affermato che, essendo la pena accessoria prevista dall’art. 217, ultimo comma, legge fall. determinata solo nel massimo e fino a due anni, essa debba determinarsi in una durata eguale a quella della pena principale inflitta, ai sensi dell’art. 37 cod. pen. (Sez. 5, n. 50499 del 4/07/2018, V.; Sez. 5, n. 13079 del 3/12/2015, dep. 2016, Corgiolu; Sez. 5, n. 37204 del 14/04/2017, Falchi; Sez. 5, n. 15638 del 5/02/2015, Assello, Rv. 263267).
La questione della durata delle pene accessorie è stata riproposta dopo la sentenza della Corte costituzionale illustrata in precedenza con ordinanza Sez. 5, n. 56458 del 12/12/2018.
Le Sezioni Unite, con la sentenza Sez. U, n. 28910 del 28/02/2019, Suraci ed altri, Rv. 266286 – 01, hanno ritenuto di superare l’indirizzo espresso dalla precedente sentenza Sez. U, n. 6240 del 27/11/2014, dep. 2015, B., cit., ponendo a sostegno di tale conclusione gli argomenti di seguito sintetizzati.
A) Secondo la sentenza in esame, l’art. 37 cod. pen., nella parte in cui menziona la pena “espressamente determinata”, richiede che la tecnica legislativa preveda un’esplicita indicazione di estensione cronologica della sua durata, che non può intendersi nel solo significato di quantificazione in misura unica, fissa, invariata ed invariabile. Sul piano terminologico, la previsione espressa richiede solo la dichiarazione manifestata nel testo e non implicita, corrispondendo a tale definizione anche la previsione di una sanzione da determinare entro un intervallo compreso tra minimo e massimo edittale.
Secondo la Corte, in particolare, non è condivisibile l’osservazione secondo cui l’inserimento nel testo delle singole disposizioni che stabiliscono le pene accessorie dell’espressione “fino a” oppure della previsione di un unico limite invalicabile al di sotto o al di sopra del quale non è consentito modulare l’entità della sanzione, sia caratteristica della tecnica legislativa riferita alle sole pene complementari. Anche volendo circoscrivere la disamina alle sole norme incriminatrici codicistiche, si riscontra come questa sia la modalità di formulazione usuale e tipica delle disposizioni che descrivono le fattispecie penali di minore gravità, per le quali le sanzioni detentive e/o pecuniarie sono contenute in modo da non superare rispettivamente i due-tre anni e qualche migliaio di euro, anche se non mancano casi di alcuni delitti di maggiore gravità, per i quali si è adottata la medesima scelta lessicale. Al riguardo, gli esempi sono innumerevoli.
La medesima tecnica espressiva è riscontrabile nelle disposizioni che incriminano le fattispecie contravvenzionali quando sono punite con la pena principale detentiva dell’arresto, previsto sino ad un tetto massimo o in misura non inferiore ad una soglia minima, sicché il criterio esegetico basato sul testo e sulla formulazione terminologica non appare risolutivo e non consente di negare che in tali situazioni per volontà legislativa il trattamento punitivo sia graduabile nell’ambito di un intervallo compreso tra due estremi opposti ed invalicabili.
B) La Corte non ha ritenuto utile sul piano interpretativo il richiamo all’art. 183 disp. att. cod. proc. pen. Questa disposizione, collocata nel differente contesto dell’esecuzione penale, svolge una funzione diversa dal meccanismo di quantificazione legale della pena accessoria, apprestando uno strumento emendativo dell’error in iudicando contenuto nella sentenza di condanna per effetto dell’omessa applicazione della pena stessa, pur doverosa.
Il fatto che la norma ripeta, variandola, la locuzione “determinata dalla legge”, rinvenibile anche nell’art. 37 cod. pen., cui aggiunge la specificazione “nella specie e nella durata”, non apporta alcun contributo valorizzabile sul piano ermeneutico, in quanto la nozione di specie di pena accessoria rimanda all’elencazione dell’art. 19 cod. pen. senza descrivere nulla di più e senza poter orientare la soluzione del quesito ermeneutico che si sta affrontando.
C) Secondo le Sezioni unite, poi, l’ulteriore argomento letterale, tratto dall’ultima proposizione dell’art. 37 cod. pen., che impone il rispetto in tutti i casi del limite minimo e di quello massimo stabiliti per ciascuna specie di pena accessoria, non assume il preteso significato di conferma della applicabilità dello stesso art. 37 cod. pen. in dipendenza della mancata determinazione per legge della durata quando la stessa sia prevista con riferimento agli estremi edittali, individuati nella singola norma incriminatrice. Questa lettura dell’inciso non è l’unica possibile per riconoscere l’utilità e l’autonoma portata precettiva della previsione, altrimenti superflua. Al contrario, essa impartisce un criterio commisurativo che assicura il mancato superamento dei limiti di durata indicati in linea generale dal codice penale agli artt. 28-36 per ciascuna specie di pena accessoria sul presupposto che la singola fattispecie, inserita nello stesso codice o nelle leggi speciali, non li contempli.
D) La collocazione sistematica dell’art. 37 cod. pen. a conclusione delle altre disposizioni sulle pene accessorie, infine, se conferma l’intento di approntare una norma di chiusura che completi il quadro normativo dedicato alle sanzioni complementari, non autorizza la conclusione rassegnata dalla sentenza Sez. U, n. 6240 del 27/11/2014, dep. 2015, B., cit., e ad elevarne la disciplina al rango di regola generale. L’art. 37 cod. pen. prevede un meccanismo decisorio suscettibile di fornire soluzione pratica di immediata attuazione anche per la futura introduzione di nuove ipotesi di pena accessoria, prive di previsioni sanzionatorie, a fronte di un sistema codicistico che nella sua parte generale contiene per ciascuna pena un proprio regolamento edittale e la gamma di criteri orientativi a guidare l’operato del giudice, stabiliti dagli artt. 132 e 133 cod. pen. Come segnalato da attenta dottrina, la formulazione dispositiva di questi articoli non contiene nessun riferimento letterale che consenta di escludere dall’ambito di applicazione le pene accessorie e di privilegiare l’opposto meccanismo quantificativo dettato dall’art. 37 cod. pen. La regola dell’equiparazione meccanica della durata della pena accessoria a quella della pena principale in concreto inflitta assume piuttosto una funzione residuale, cui fare ricorso nei casi in cui la legge in astratto sia priva di qualsiasi indicazione sul profilo temporale che circoscriva e guidi l’esercizio del potere dosimetrico del giudice.
E) Ad avviso del Collegio, la riflessione esegetica sul tema in esame non può prescindere dalla considerazione che la propria decisione interviene dopo il pronunciamento del giudice costituzionale che, con la sentenza n. 22 del 2018 dapprima indicata, ha espresso una netta opzione di disfavore per l’automatismo punitivo sotto l’aspetto dosimetrico riferito alle pene accessorie, privando la soluzione assunta da Sez. U, n. 6240 del 27/11/2014, dep. 2015, B., cit., del suo referente sul piano dell’ermeneutica costituzionale.
Secondo la Corte, dunque, gli argomenti illustrati autorizzano una lettura dell’art. 37 cod. pen. alternativa a quella fornita dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 6240 del 27/11/2014, dep. 2015, B., cit., che tenga conto dell’evoluzione maturata negli ultimi decenni nell’interpretazione del trattamento sanzionatorio e della sua funzione.
La giurisprudenza costituzionale, invero, sin dagli anni sessanta del secolo scorso (sentenze n. 67 del 1963 e n. 104 del 1968) ha posto in evidenza che i principi costituzionali - quello generale di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost. e quelli, specificamente riferiti alla materia penale, di legalità, di personalità della responsabilità e della finalità rieducativa della pena, dettati dagli artt. 25 e 27 Cost. - possono ricevere attuazione nella legislazione ordinaria mediante previsioni sanzionatorie caratterizzate da “mobilità” della pena, che si realizza attraverso la prescrizione quantitativa, compresa tra un minimo ed un massimo, e sul piano applicativo esigono l’intervento commisurativo giudiziale, riferito al caso specifico in base ai parametri di cui all’art. 133 cod. pen. Illuminante al riguardo il passaggio della sentenza n. 50 del 1980, nel quale la Consulta aveva affermato che «L’uguaglianza di fronte alla pena viene a significare, in definitiva, “proporzione” della pena rispetto alle “personali” responsabilità ed alle esigenze di risposta che ne conseguano, svolgendo una funzione che è essenzialmente di giustizia e anche di tutela delle posizioni individuali e di limite della potestà punitiva statuale», per concludere che «in linea di principio, previsioni sanzionatorie rigide non appaiono pertanto in armonia con il “volto costituzionale” del sistema penale; ed il dubbio d’illegittimità costituzionale potrà essere, caso per caso, superato a condizione che, per la natura dell’illecito sanzionato e per la misura della sanzione prevista, questa ultima appaia ragionevolmente “proporzionata” rispetto all’intera gamma di comportamenti riconducibili allo specifico tipo di reato» (in senso conforme, cfr. Corte cost. n. 236 del 2016, n. 341 del 1994 e n. 409 del 1989).
Ogni automatismo sanzionatorio, che sottragga alla giurisdizione il compito di apprezzare la specificità del caso e di offrirvi risposta adeguata e differenziata, pertanto, va scongiurato perché in contrasto con il “volto costituzionale” della repressione penale e con la funzione rieducativa e di reinserimento sociale della punizione, che richiede il rispetto della proporzione per qualità e quantità col fatto di reato, con la sua offensività e con la personalità del suo autore, da garantire nella fase della irrogazione, così come in quella dell’esecuzione (Corte cost. n. 257 del 2006; in senso conforme, Corte cost. n. 79 del 2007).
Anche il legislatore ha mostrato un mutato atteggiamento verso l’automatismo applicativo delle pene accessorie in contrasto con la filosofia ispiratrice l’introduzione dell’art. 37 cod. pen., allorché, ad esempio, ha modificato l’art. 166 cod. pen., consentendo l’estensione della sospensione condizionale anche alle pene accessorie ed impedendone l’attuazione provvisoria in dipendenza della pronuncia di condanna non irrevocabile.
La considerazione autonoma delle pene accessorie emerge rafforzata dalla recente legge 9 gennaio 2019, n. 3, la quale, in un quadro di interventi volti al rafforzamento degli strumenti repressivi e preventivi dei reati contro la pubblica amministrazione, ha inciso anche sulla sottoposizione del condannato alle pene accessorie, mediante sia l’allargamento dell’area delle fattispecie che ne determinano l’applicazione, l’aggravamento della loro durata e la loro irrogazione anche nei casi di pena già espiata, pena condizionalmente sospesa e pena patteggiata, sia la distinzione dei requisiti temporali di accesso alla riabilitazione per le pene accessorie rispetto a quelli valevoli per la pena principale e l’inibizione dell’operatività su quelle di durata perpetua dell’effetto estintivo conseguente all’esito positivo dell’affidamento in prova.
In particolare, la sentenza ha sviluppato i seguenti argomenti:
A) I principi interpretativi che, in forza dei valori costituzionali di colpevolezza e proporzionalità, si oppongono agli automatismi ed alla rigida regolamentazione sanzionatoria, offrono spunti inediti per una considerazione costituzionalmente orientata anche del meccanismo parificativo vincolante, previsto dall’art. 37 cod. pen., sotto l’unico profilo del quantum di pena accessoria irrogabile, posto che l’indefettibilità della sua applicazione discende dalla legge e dalla esplicita e testuale definizione di effetto penale della condanna.
Seppur mediato dall’aggancio alla misura della pena principale, stabilita in via discrezionale dal giudice, l’automatismo di cui all’art. 37 cod. pen. rappresenta un sistema rigido di determinazione del trattamento punitivo, che, alla luce dei valori costituzionali indicati, non trova giustificazione soprattutto se si considera la funzione cui assolvono le pene accessorie, l’estrema varietà delle condotte che, in violazione dei precetti penali, realizzano le condizioni per la loro inflizione ed il severo carico di afflittività che le contraddistingue.
B) Secondo l’opinione più accreditata in dottrina, le pene principali svolgono funzioni retributive, preventive di carattere generale e speciale, nonché rieducative mediante la sottoposizione al trattamento orientato al graduale reinserimento sociale del condannato; le pene accessorie, specie quelle interdittive ed inabilitative, collegate al compimento di condotte postulanti lo svolgimento di determinati incarichi o attività, sono più marcatamente orientate a fini di prevenzione speciale, oltre che di rieducazione personale, che realizzano mediante il forzato allontanamento del reo dal medesimo contesto operativo, professionale, economico e sociale, nel quale sono maturati i fatti criminosi e dallo stimolo alla violazione dei precetti penali per impedirgli di reiterare reati in futuro e per sortirne l’emenda.
Ebbene, la piena realizzazione soprattutto dello specifico finalismo preventivo, cui sono preordinate le pene complementari, richiede una loro modulazione personalizzata in correlazione con il disvalore del fatto di reato e con la personalità del responsabile, che non necessariamente deve riprodurre la durata della pena principale. Questo risultato è conseguibile soltanto ammettendone la determinazione caso per caso ad opera del giudice nell’ambito della cornice edittale disegnata dalla singola disposizione di legge sulla scorta di una valutazione discrezionale, che si avvalga della ricostruzione probatoria dell’episodio criminoso e dei parametri dell’art. 133 cod. pen. e di cui è obbligo dare conto con congrua motivazione. Al contrario, la perequazione automatica di cui all’art. 37 cod. pen., nella lettura che ne è stata offerta dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 6240 del 2015, non consente risposte individualizzate e graduate in dipendenza delle peculiarità del caso, delle esigenze specifiche ad esso sottese.
C) Va poi aggiunto che il parallelismo cronologico tra pena principale e pena accessoria presenta delle difficoltà applicative. Proprio nel settore dei reati fallimentari l’art. 219, comma primo, della legge fall. in caso sia ritenuta sussistente la circostanza aggravante dell’aver cagionato un danno patrimoniale di rilevante gravità stabilisce che la pena principale da tre a dieci anni di reclusione può essere aumentata sino alla metà, evenienza che renderebbe inoperante la regola dettata dall’art. 37 cod. pen. per l’impossibilità di commisurare le pene accessorie in entità superiore a dieci anni.
Altrettanto problematico è il caso posto dall’art. 229 legge fall. per il delitto di accettazione o pattuizione da parte del curatore del fallimento di retribuzione in denaro o altra forma, punito con la reclusione da tre mesi a due anni, per il quale la pena principale massima coincide con il limite minimo della pena accessoria di cui al comma 2, il che, se si facesse applicazione dell’art. 37 cod. pen. nei termini tradizionali, renderebbe del tutto eccezionale l’equiparazione della durata delle due sanzioni ed impossibile irrogare la pena dell’inabilitazione temporanea dall’ufficio di amministratore per un periodo superiore al minimo.
Analoghe considerazioni valgono in relazione alla sospensione dall’esercizio di una professione o di un’arte ex art. 35 cod. pen., che indica quale limite edittale minimo la durata di quindici giorni e quale massimo due anni; la stessa norma dispone però che la sospensione è irrogabile soltanto in caso di condanna all’arresto non inferiore ad un anno. Pertanto, applicandosi l’equiparazione automatica di cui all’art. 37 cod. pen., il minimo della pena accessoria sarebbe sempre di un anno, con la conseguente inutilità della previsione di una possibile durata inferiore. Difficoltà di coordinamento similari pongono anche altre norme come l’art. 544-ter cod. pen., che per il reato di maltrattamento di animali stabilisce la pena della reclusione da tre a diciotto mesi o con la multa da 5.000 a 30.000 euro, mentre l’art. 544-sexies cod. pen. consente la pena accessoria della sospensione dell’attività di trasporto, di commercio o di allevamento di animali da tre mesi a tre anni; l’art. 1 della legge 13 dicembre 1989, n. 401, in tema di frodi sportive, la cui pena detentiva oscilla tra un mese e un anno di reclusione e le pene accessorie applicabili ai sensi dell’art. 5 dello stesso testo di legge non possono essere inferiori a sei mesi e superiori a tre anni; l’art. 85 del d.P.R. n. 9 ottobre 1990, n. 309, per il quale con la sentenza di condanna per uno dei fatti di cui agli artt. 73, 74, 79 e 82, il giudice può disporre il divieto di espatrio e il ritiro della patente di guida per un periodo non superiore a tre anni, sebbene le pene detentive irrogabili per le predette fattispecie di reato possano superare la soglia massima di tre anni; l’art. 12, comma 1, lett. b) e c), del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, introduce sanzioni accessorie di durata compresa tra il minimo di un anno e massimi differenziati sino a tre e sino a cinque anni, che non trovano coincidenza con le pene detentive stabilite per le ipotesi di reato di cui agli artt. 10-bis, 10-ter, 10-quater, 11 dello stesso d.lgs., per le quali il minimo edittale è fissato in sei mesi, per cui l’irrogazione di sanzione detentiva nel minimo assoluto non potrebbe comportare l’automatica perequazione di quelle accessorie ai sensi dell’art. 37 cod. pen. per la conseguente illegalità per difetto della loro durata.
Tutti gli inconvenienti segnalati, invece, trovano agevole soluzione qualora si ammetta che le rispettive sanzioni accessorie sono determinabili dal giudice anche in entità svincolata da quella della reclusione o dell’arresto.
Le Sezioni Unite, annullando con rinvio la sentenza che aveva irrogato agli imputati le pene accessorie conseguenti al reato di bancarotta fraudolenta per il periodo fisso di dieci anni, hanno enunciato il principio di diritto così massimato: “La durata delle pene accessorie per le quali la legge stabilisce, in misura non fissa, un limite di durata minimo ed uno massimo, ovvero uno soltanto di essi, deve essere determinata in concreto dal giudice in base ai criteri di cui all’art. 133 cod. pen. e non rapportata, invece, alla durata della pena principale inflitta ex art. 37 cod. pen.”.
Dopo la pronuncia illustrata, la Corte di legittimità, in numerose decisioni ha ritenuto che, anche nel caso di manifesta infondatezza dei ricorsi e di mancata articolazione da parte degli impugnanti di specifiche censure in punto di pene accessorie, non sia impedito l’esame offìcioso della questione relativa alla durata di tali pene, afferendo la stessa al tema del trattamento sanzionatorio divenuto illegale e dovendo trovare applicazione il principio di diritto sancito dalle Sezioni Unite, con la sentenza n. 33040 del 26/02/2015, Jazouli, Rv. 264207, secondo cui: «Nel giudizio di cassazione l’illegalità della pena conseguente a dichiarazione di incostituzionalità di norme riguardanti il trattamento sanzionatorio è rilevabile d’ufficio anche in caso di inammissibilità del ricorso, tranne che nel caso di ricorso tardivo» (cfr. tra le altre, Sez. 5, n. 45365 del 8/10/2019, Ceccarelli, n.m.; Sez. 5, n. 45363 del 8/10/2019, Casapietra.; Sez. 5, n. 45360 del 4/10/2019, Quercia; Sez. 5, n. 45358 del 4/10/2019, Centenaro; Sez. 5, n. 45143 del 20/09/2019, Pisciotta). Quest’ultimo principio, secondo il diritto vivente, vale anche per il caso in cui la pena concretamente inflitta, pur se compresa entro la forbice prevista dalla formulazione dei nuovi limiti edittali, sia stata determinata dal giudice attraverso un procedimento dì commisurazione che si sia basato sui limiti edittali in vigore al momento del fatto, ma dichiarati successivamente incostituzionali (cfr. tra le altre, Sez. 5, n. 45373 del 18/10/2019, Chiaverini).
Secondo la Corte di legittimità, inoltre, non può dubitarsi della applicabilità di tali indicazioni alle pene accessorie, posto che non può non rammentarsi il principio espresso con la sentenza n. 6240 del 27/11/2014 - dep. 2015, B, Rv. 262328, secondo cui «non consentita dall’ordinamento l’esecuzione di una pena (sia essa principale o accessoria) non conforme, in tutto o in parte, ai parametri legali. Il principio di legalità della pena si applica, invero, anche con riferimento alle pene accessorie».
L’illegalità sopravvenuta della previsione della durata fissa delle pene accessorie rende, quindi, necessario l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata in punto di trattamento sanzionatorio, al fine di consentire alla Corte di appello di quantificare la durata delle pene accessorie; quantificazione che non può essere operata dalla Corte di legittimità implicando considerazioni comnnisurative in fatto inibite a detto giudice (cfr. tra le altre, Sez. 5, n. 45373 del 18/10/2019, Chiaverini ed altri, cit.).
Secondo Sez. 5, n. 37201 del 11/07/2019, Ruggieri, Rv. 276852, tuttavia, la commisurazione delle pene accessorie previste dall’art. 216, ultimo comma, R.d. 16 marzo 1942, n. 267, operata dal giudice del merito ai sensi dell’art. 37 cod. pen., anziché ai sensi dell’art. 133 cod. pen., come ritenuto da Sez. U, n. 28910 del 28/02/2019, Suraci, non dà luogo ad una pena illegale, trattandosi di pena comunque ricompresa nei limiti edittali risultanti dalla sentenza Corte cost. n. 222 del 2018. Ne consegue che, in assenza di specifico motivo di ricorso, il vizio non può essere rilevato d’ufficio dalla Corte di cassazione. La sentenza è stata adottata in una fattispecie nella quale il giudice del merito, pronunciandosi prima dell’intervento della Corte costituzionale, aveva determinato la durata delle pene accessorie in anni cinque di reclusione, corrispondenti alla misura della pena principale.
Infine, in tema di ricorso per cassazione avverso la sentenza di di patteggiamento, Sez. 5, n. 28345 del 12/04/2019, Morale, Rv. 276523, ha precisato che la rideterminazione delle pene accessorie fallimentari, imposta dalla declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 216, ultimo comma, R.d. n. 267 del 1942, nella parte in cui dispone che “la condanna per uno dei delitti previsti nel presente articolo importa per la durata di anni dieci l’inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale e l’incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa”, pronunziata dalla Corte costituzionale con sentenza n. 222 del 5 dicembre 2018, è di competenza del giudice di merito e non incide sull’accordo raggiunto dalle parti ex art. 445 cod. proc. pen., in quanto l’applicazione di dette sanzioni non rientra nella disponibilità delle parti.
Sentenze della Corte di cassazione
Sez. 5, n. 759 del 21/09/1989, Denegri, Rv. 183110
Sez. 5, n. 4727 del 15/03/2000, Albini, Rv. 215987
Sez. 3, n. 25229 del 17/04/2008, Ravara, Rv. 240256
Sez. 1, n. 19807 del 22/04/2008, Ponchia, Rv. 240006
Sez. 3, n. 41874 del 09/10/2008, Azzani, Rv. 241410
Sez. 3, n. 42889 del 15/10/2008, Di Vincenzo, Rv. 241538
Sez. 5, n. 29780 del 30/06/2010, Ramunno, Rv. 248258
Sez. F, n. 35729 del 01/08/2013, Agrama, Rv. 256581
Sez. 6, n. 697 del 03/12/2013, Antonelli, Rv. 257850
Sez. 3, n. 20428 del 02/04/2014, S., Rv. 259650
Sez. U, n. 6240 del 27/11/2014, dep. 2015, B.
Sez. 5, n. 15638 del 5/02/2015, Assello, Rv. 263267
Sez. U, n. 33040 del 26/02/2015, Jazouli, Rv. 264207
Sez. 1, n. 25809 del 05/05/2015, Bonalumi
Sez. 3, n. 37853 del 18/06/2015, Ceriani
Sez. 3, n. 37870 del 18/06/2015, Ferraretti
Sez. 3, n. 13218 del 20/11/2015, dep. 2016, Reggiani
Sez. 5, n. 13079 del 3/12/2015, dep. 2016, Corgiolu
Sez. 3, n. 23657 del 26/01/2016, Incorvaia
Sez. 3, n. 19100 del 24/02/2016, Genova
Sez. 3, n. 29397 del 20/04/2016, Cafarelli
Sez. 3, n. 35855 del 11/05/2016, Scrollini
Sez. 3, n. 36869 del 28/06/2016, Morabito
Sez. 3, n. 40679 del 01/07/2016, C., Rv. 268080
Sez. 7, n. 53265 del 23/09/2016, Petrone
Sez. 3, 19964 del 14/12/2016, dep. 2017, Corvi
Sez. 5, n. 37204 del 14/04/2017, Falchi
Sez. 7, n. 1306 del 27/10/2017, dep. 2018, Mantelli
Sez. 5, n. 56323 del 26/10/2017, Intrieri, Rv. 271896
Sez. 1, n. 8126 del 06/12/2017, dep. 2018, Ngwoke, Rv. 272408
Sez. 5, n. 12360 del 01/02/2018, Quaranta
Sez. 5, n. 33150 del 30/03/2018, Pacchioni ed altri
Sez. 5, n. 36087 del 03/05/2018, Cannone
Sez. 5, n. 33880 del 6/07/2018, Marchesi
Sez. 5, n. 33150 del 30/03/2018, Pacchioni
Sez. 3, n. 8041 del 23/01/2018, Carlessi, Rv. 272510
Sez. 5, n. 28345 del 12/04/2019, Morale, Rv. 276523
Sez. 3, n. 38825 del 12/04/2018, Festa
Sez. 5, n. 50499 del 4/07/2018, V.
Sez. U, n. 28910 del 28/02/2019, Suraci, Rv. 266286
Sez. 5, n. 37201 del 11/07/2019, Ruggieri, Rv. 276852
Sez. 5, n. 45143 del 20/09/2019, Pisciotta
Sez. 5, n. 45360 del 4/10/2019, Quercia
Sez. 5, n. 45358 del 4/10/2019, Centenaro
Sez. 5, n. 45365 del 8/10/2019, Ceccarelli
Sez. 5, n. 45363 del 8/10/2019, Casapietra
Sez. 5, n. 45373 del 18/10/2019, Chiaverini
Sentenze della Corte costituzionale
Corte cost., ord. n. 91 del 4/04/2008
Corte cost., sent. n. 134 del 31/05/2012
Corte cost., sent. n. 222 del 5/12/2018
Le Sezioni Unite, con sentenza n. 22533 del 25/10/2018, dep. 22/05/2019, Salerno, Rv. 275376 - 01, hanno affermato il seguente principio di diritto: “Fermo il dovere del giudice di appello di motivare il mancato esercizio del suo potere di ufficio di applicare il beneficio della sospensione condizionale della pena, in presenza delle condizioni che ne consentono il riconoscimento, specialmente se sopravvenute al giudizio di primo grado, l’imputato non può dolersi, con ricorso per cassazione, della mancata applicazione del medesimo beneficio se non lo ha richiesto nel corso del giudizio di appello”, risolvendo il contrasto giurisprudenziale che si registrava sul punto.
Il ricorrente, all’esito di giudizio abbreviato condizionato, era stato condannato ad una pena ostativa alla concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena e il giudice di prime cure non aveva svolto alcuna motivazione sulla concedibilità del beneficio di cui all’art. 163 cod. pen.
La sentenza appellata dall’imputato che ne chiedeva la riforma con assoluzione dal reato contestato, veniva riformata dalla Corte di appello in termini di riduzione della pena inflitta al di sotto dei limiti fissati dall’art. 163 cod. pen. senza tuttavia argomentare in ordine alla mancata concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena, in astratto concedibile.
Avverso quest’ultima sentenza proponeva ricorso per cassazione l’imputato deducendo quattro motivi di ricorso, nell’ultimo dei quali lamentava che “nonostante la sussistenza di tutte le condizioni per l’applicazione del beneficio della sospensione condizionale della pena, come ridotta in appello per la ripristinata disciplina sanzionatoria più favorevole, nessuna motivazione era stata resa con riguardo al riconoscimento del detto beneficio, affatto ignorato nella sentenza impugnata”.
La Terza sezione della Corte investita del ricorso, dopo aver incidentalmente scrutinato i primi tre motivi ritenendoli inammissibili, con ordinanza n. 38398 del 17 aprile 2018 rimetteva gli atti alle Sezioni Unite, rilevando l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale in merito alla sussistenza o meno di un obbligo del giudice di appello di motivare, comunque, il mancato esercizio del potere – dovere di applicare d’ufficio il beneficio della sospensione condizionale della pena ai sensi dell’art. 597, comma 5, cod. proc. pen., evidenziando la circostanza che l’imputato né in sede di appello né in sede di discussione orale aveva chiesto l’applicazione del detto beneficio.
Nel suo percorso motivazionale, il collegio rimettente richiamava sia l’indirizzo giurisprudenziale secondo il quale il giudice di appello non è tenuto a concedere d’ufficio la sospensione condizionale della pena, né è tenuto a motivare specificatamente sul punto nel caso in cui l’interessato si limiti, nell’atto di impugnazione e in sede di discussione, ad un generico e assertivo richiamo dei benefici di legge senza indicare alcun elemento di fatto potenzialmente idoneo a fondare l’accoglimento della richiesta (Sez. 7, n. 16746 del 13/01/2015, Ciaccia, Rv. 263361; Sez. 4, n. 1513 del 03/12/2013, Shehi, Rv. 258487; Sez. 4, n. 43113 del 18/09/2012, Siekierska, Rv. 253641; Sez. 6, n. 30201 del 27/06/2011, Ferrante, Rv. 256560; Sez. 6, n. 7960 del 26/01/2004, Calluso, Rv. 228468; Sez. 5, n. 41126 del 24/09/2001, Casamassima, Rv. 220254, in tema di circostanze attenuanti generiche), sia il diverso orientamento ad avviso del quale, invece, il giudice d’appello deve, sia pure sinteticamente, dare ragione del concreto esercizio, positivo o negativo, del potere-dovere attribuitogli dall’art. 597, comma 5, cod. proc. pen., qualora ricorrano le condizioni previste dalla legge per l’applicazione della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale, tanto più quando una delle parti ne abbia fatto esplicita, richiesta a condizione di una specifica indicazione degli elementi di fatto in base ai quali il giudice avrebbe potuto ragionevolmente e fondatamente esercitarlo (Sez. 3, n. 47828 del 12/10/2017, Esposito, Rv. 271815; Sez. 3, n. 3856 del 4/11/2015, Gamboni, Rv. 266138; Sez. 5, n. 2094 del 23/10/2009, Coluccio, Rv. 245924; Sez. 5, n. 37461 del 20/09/2005, Zoffoli, Rv. 232323; Sez. 6, n. 32966 del 13/07/2001, Colbertardo, Rv. 220729).
Evidenziava il collegio la circostanza che entrambi gli orientamenti convergevano sulla necessità della astratta sussistenza delle condizioni di applicazione della sospensione condizionale della pena e, dunque, sulla necessità dell’esistenza di un concreto interesse dell’imputato a lamentarsi dell’omessa motivazione, non ricorrendo in assenza di tali condizioni (nemmeno dedotte in sede di legittimità) l’obbligo del giudice dell’appello di giustificare l’omesso esercizio delle prerogative officiose di cui all’art. 597, u.c., cod. proc. pen..
Ancora, il collegio rimettente annotava che, con riferimento al diverso caso di sussistenza delle condizioni per la astratta applicazione del beneficio, si registravano due orientamenti.
In alcune pronunce si riteneva necessario, ai fini dell’esercizio del potere di applicare d’ufficio la sospensione condizionale della pena, l’impulso proveniente dall’imputato cosicchè solo dalla presenza della richiesta conseguiva l’obbligo per il giudice d’appello di motivare la decisione.
Diversamente, secondo altre pronunce, l’impulso proveniente dall’imputato non era richiesto sicché il giudice dell’appello era obbligato a motivare comunque le ragioni della propria decisione, qualunque essa fosse.
Per meglio comprendere le ragioni del contrasto, giova rammentare sia che, in termini generali e quindi anche con riferimento al primo grado, è consolidato l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale “Il giudice non è tenuto a motivare la mancata concessione della sospensione condizionale della pena se nessuna richiesta è stata formulata nel giudizio” (Sez. 3, n. 23228 del 12/04/2012, Giovanrosa, Rv. 253057; Sez. 6, n.4374/2009 del 28/10/2008, Maugliani, Rv. 242785; Sez. 5, n. 9455 del 24/09/1984, Soppelsa, Rv. 166423; Sez. 2, n. 9452 del 08/03/1982, Casula, Rv. 155650), sia che l’art. 546 cod. proc. pen., relativo ai requisiti della sentenza, come modificato dalla legge 23 giugno 2017, n. 103, prevede al comma 1, lett. e) n. 2, l’obbligo di una concisa motivazione con riguardo “alla punibilità, e alla determinazione della pena, secondo le modalità stabilite dal comma 2 dell’art. 533, e della misura di sicurezza”, senza far alcun cenno ai benefici di legge come la sospensione condizionale della pena della quale, ovviamente, non sia stata formulata specifica richiesta di concessione. In questa prospettiva si muove l’orientamento giurisprudenziale che da un lato nega l’esistenza di un onere motivazionale del giudice d’appello in ordine al mancato esercizio del potere discrezionale di concedere d’ufficio la sospensione condizionale della pena, ai sensi dell’art. 597, comma 5, cod. proc. pen., nel caso in cui l’interessato non abbia formulato al riguardo alcuna richiesta, e dall’altro esclude la configurabilità del mancato riconoscimento del beneficio quale ipotesi di violazione di legge o mancanza di motivazione suscettibile di ricorso per cassazione (Sez. 2, n. 15930 del 19/02/2016, Moudi, Rv. 266563; Sez. 4, n. 1513 del 03/12/2013, Shehi, Rv. 258487; Sez. 4, n. 43113 del 18/09/2012, Siekierska, Rv. 253641; Sez. 6, n. 30201 del 27/06/2011, Ferrante, Rv. 256560; Sez. 3, n. 21273 del 18/03/2003, Gueli, Rv. 224850 e Sez. 5, n. 41126 del 24/09/2001, Casamassima, Rv. 220254; Sez. 1, n. 8558 del 02/05/1997, Chiavaroli, Rv. 208572; in tema di concessione della non menzione della condanna: Sez. 5, n. 1099 del 26/11/1997, Pirri, Rv. 209683; in tema di riconoscimento d’ufficio di circostanze attenuanti: Sez. 5, n. 37569 del 08/7/2015, Tota, Rv. 264552; Sez. 7, n. 16746 del 13/01/2015, Ciaccia, Rv. 263361; Sez. 6, n. 7960 del 26/01/2004, Calluso, Rv. 228468; Sez. 5, n. 496 del 17/11/1998, Bonotti, Rv. 212152; Sez. 1, n. 9731 del 12/05/1998, Totaro, Rv. 211325; Sez. 1, n.4978 del 12/1071995, Schirippa, Rv. 202675; Sez. 2, n. 6458 del 21/01/1991, La Marca, Rv. 187618; Sez. 1, n. 5924 del 07/02/1991, Incognito, Rv. 187975; Sez. 6, n. 1133/1991 del 11/07/1990, Ricco, Rv. 186407).
In termini puntuali, Sez. 2, n. 15930 del 19/02/2016, Moundi, Rv. 266563, ha ribadito, con argomentazioni già svolte in numerosi precedenti, che il potere riconosciuto al giudice d’appello di applicare d’ufficio il beneficio della sospensione condizionale della pena ex art. 597, comma 5 cod. proc. pen. è eccezionale e discrezionale rispetto al generale principio devolutivo di cui all’art. 597, comma 1 cod. proc. pen., da ciò conseguendo sia che “la parte, che ha un autonomo potere di chiedere l’applicazione del beneficio, non è legittimata ad impugnare la sentenza d’appello a motivo del mancato esercizio di tale potere, se non abbia formulato, nei motivi di appello la corrispondente richiesta”, sia che non può costituire motivo di ricorso l’omessa motivazione circa il mancato esercizio ex officio, di tale potere, nel caso in cui la difesa non abbia formulato esplicita richiesta nel corso della discussione finale, “non potendo tale richiesta considerarsi compresa nella domanda di assoluzione” (Sez. 6 28/2/2005 n. 7544, Bassi e altri; Sez. 4, 43113/2012, Rv. 253641; Sez. 5 41126/2001, Rv. 220254).
Di diverso avviso è quell’indirizzo minoritario secondo il quale il giudice d’appello deve, sia pure sinteticamente, dare ragione del concreto esercizio, positivo o negativo, del potere d’ufficio attribuitogli dall’art. 597, comma 5, cod. proc. pen., qualora ricorrano in astratto le condizioni previste dalla legge per l’applicazione della sospensione condizionale della pena, sia quando una delle parti (anche il pubblico ministero nell’interesse dell’imputato) ne abbia fatto esplicita richiesta nell’atto di impugnazione o anche semplicemente in sede di discussione, sia in caso di assenza di sollecitazione delle parti purché ricorrano gli elementi di fatto ed i presupposti di legge per l’esercizio del potere officioso attribuitogli dalla legge in deroga al principio devolutivo (Sez. 5, n. 5581 del 8/10/2014 dep. 2015, Ciodaro, Rv. 264215; Sez. 6, n. 14758 del 27/03/2013, V., Rv. 254690; Sez. 5, n. 2094 del 23/10/2009, Coluccio, Rv. 245924; Sez. 6, n. 3917 del 08/01/2009, Chiacchierini, Rv. 242527; Sez. 5, n. 40865 del 25/09/2007, Catalano e altro, Rv. 238187; Sez. 5, n. 37461 del 20/09/2005, Zoffoli, Rv. 232323; Sez. 6, n. 32966 del 13/07/2001, Colbertardo, Rv. 220729).
Val la pena sottolineare che le sentenze valorizzanti il potere-dovere del giudice di appello di motivare l’esercizio positivo o negativo del potere ufficioso di applicare benefici o attenuanti, indipendentemente da specifica richiesta di parte, riguardano specialmente i casi di reformatio in peius della sentenza di primo grado, in accoglimento di impugnazione del pubblico ministero, ipotesi nelle quali più sentita è la necessità che il giudice di secondo grado dia specifico conto del grado di estensione dell’accoglimento della impugnazione spiegando perché esso non sia, eventualmente, contenuto, ove ne sussistano i presupposti legali, nei limiti di una condanna condizionalmente sospesa (Sez. 6, n. 12839 del 2005, De Martino, Rv. 231431).
Le Sezioni Unite, nel corpo dell’articolato percorso motivazionale, hanno esplicitamente dichiarato di voler dare al quesito una risposta comprensiva della valutazione di tutti i casi previsti dall’art. 597, comma 5, cod. proc. pen.: applicazione della sospensione condizionale della pena (art. 163 cod. pen.); applicazione della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale (art. 175 cod. pen.); applicazione di una o più attenuanti (artt. 62, 62-bis, cod. pen.) rispetto alle quali effettuare nuovamente o per la prima volta (se in precedenza erano state applicate solo circostanze aggravanti) il giudizio di comparazione a norma dell’art. 69 cod. pen.
Premessa la esclusione di ogni valutazione in merito ai “casi in cui il giudice di primo o di secondo grado, anche di ufficio, abbia vagliato l’applicazione dei benefici e, segnatamente, della sospensione condizionale della pena, riconoscendola o escludendola, con conseguente facoltà della parte interessata di impugnare specificamente il corrispondente punto della decisione nel rispetto delle disposizioni generali in materia di impugnazioni e, quanto al ricorso per cassazione, negli stretti limiti in cui tale mezzo è ammesso”, e, dunque, delimitato il “campo” di valutazione all’ipotesi di mancato esercizio del potere officioso riconosciuto al giudice di appello ai sensi dell’art. 597, comma 5, cod. proc. pen., e alle conseguenze in termini di tutela dell’interesse delle parti al suo concreto esercizio, la Corte, con la decisione assunta, ha aderito a quell’orientamento che esclude che il mancato esercizio (con esito positivo o negativo) del potere dovere del giudice di appello di applicare di ufficio i benefici di legge, non accompagnato da alcuna motivazione che renda ragione di tale “non decisione”, possa costituire motivo di ricorso per cassazione per violazione di legge o difetto di motivazione, qualora “l’effettivo espletamento del medesimo potere-dovere non sia stato sollecitato da una delle parti, almeno in sede di conclusioni nel giudizio di appello, ovvero, nei casi in cui intervenga condanna la prima volta in appello, neppure con le conclusioni subordinate proposte dall’imputato nel giudizio di primo grado”.
La decisione delle Sezioni Unite trova il suo più rilevante approdo nella circostanza che il potere riconosciuto al giudice di appello ai sensi dell’art. 597, comma 5, cod. proc. pen., costituisce una deroga al principio devolutivo enunciato dal comma 1 dello stesso articolo, che circoscrive l’ambito della cognizione del giudice di appello ai soli punti della decisione che si riferiscono ai motivi proposti, così ponendosi come potere eccezionale che, tuttavia, opera con modalità discrezionali. Invero, a differenza delle altre ipotesi di deroga al principio devolutivo “imposte dal rilievo ordinamentale e inderogabile delle norme da osservare”, la peculiarità della previsione di cui all’art. 597, comma 5, cod. proc. pen. risiedere nel potere del giudice di appello di concedere i benefici di cui agli artt. 163 e 175 cod. pen. dopo una attenta valutazione di tutte le circostanze indicate nell’art. 133 cod. pen. ed anche previo riconoscimento di nuove circostanze attenuanti con eventuale giudizio di comparazione.
Ciò posto, ad avviso della Corte lo stretto nesso intercorrente tra officiosità, eccezionalità e discrezionalità del potere dovere attribuito al giudice di appello esclude che il mancato esercizio possa configurare un vizio deducibile in cassazione poiché la “non decisione” in appello non è inquadrabile tra i casi di ricorso né come violazione di norma penale sostanziale, ai sensi dell’art. art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., né come violazione di norma processuale stabilita a pena di nullità, inutilizzabilità, inammissibilità o decadenza (art. 606, comma 1, lett. c), cod. proc. pen.), né come vizio di motivazione “per mancanza”, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen.), vizio quest’ultimo che rimanda proprio al contenuto della motivazione, come delineato dall’art. 546, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., strutturata “in chiave dialettica” con l’espresso richiamo all’indicazione delle prove poste a base della decisione e all’enunciazione delle ragioni per le quali il giudice non abbia ritenuto attendibili le prove contrarie.
La Corte, per avvalorare il suo percorso motivazionale, ha richiamato l’apporto argomentativo di Sez. 6, n. 22120 del 29/04/2009, Tatone, Rv. 243946, nella parte in cui, in caso di reformatio in peius della decisione assunta in primo grado, aveva ravvisato l’obbligo del giudice di appello “di confutare in modo specifico e completo le argomentazioni della decisione di assoluzione e di valutare le ulteriori argomentazioni non sviluppate in tale decisione ma comunque dedotte dall’imputato dopo la stessa e prima della sentenza di appello, pronunciandosi altresì su violazioni di legge intervenute nel giudizio di primo grado in danno dell’imputato e da questi non dedotte per carenza di interesse in appello, nonché sulle richieste subordinate avanzate dall’imputato stesso in sede di discussione nel giudizio di primo grado” ivi inclusa l’istanza di applicazione del beneficio di legge della sospensione condizionale della pena.
Le Sezioni Unite nel dare risposta al quesito hanno richiamato le risposte all’interrogativo sul quale la giurisprudenza si è, anche nel vigore del precedente codice di rito, a lungo soffermata per capire se la concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena rappresenti sempre un effettivo “vantaggio” per l’imputato e se questi possa in qualche modo opporsi alla concessione, la prima delle quali veniva data da Sez. U, n. 12234 del 23/11/1985, Di Trapani, Rv. 171394, che riconosce, in capo all’imputato, il diritto di impugnare il provvedimento con cui gli sia stata concessa la sospensione condizionale della pena e di ottenere la revoca di tale beneficio “qualora da esso possa derivargli anziché un vantaggio la lesione di un diritto o di un interesse giuridico”, seguita da Sez. U, n. 6563 del 16/03/1994, Rusconi, Rv. 197535, che, sul presupposto che la sospensione condizionale non può risolversi in un pregiudizio per l’imputato in termini di compromissione del carattere personalistico e rieducativo della pena, ravvisa l’interesse all’impugnazione “tutte le volte in cui il provvedimento di concessione del beneficio sia idoneo a produrre in concreto la lesione della sfera giuridica dell’impugnante e la sua eliminazione consenta il conseguimento di una situazione giuridica più vantaggiosa”, purchè il pregiudizio addotto dall’interessato non attenga a valutazioni meramente soggettive di opportunità e di ordine pratico, ma concerna interessi giuridicamente apprezzabili in quanto correlati alla funzione stessa della sospensione condizionale, consistente nella “individualizzazione” della pena e nella sua finalizzazione alla reintegrazione sociale del condannato. E più di recente la risposta al quesito è stata ribadita da Sez. 3, n. 28690 del 09/02/2017, Rochira, Rv. 270587, che, in un caso di annullamento senza rinvio della sentenza impugnata limitatamente alla disposta applicazione, di ufficio, del beneficio della sospensione condizionale della modesta ammenda inflitta all’imputato, ha finito con il rafforzare la “non censurabilità” nel giudizio di cassazione del mancato esercizio del potere officioso del giudice di appello di ordinare l’applicazione del beneficio in assenza di sollecitazione di parte interessata, sia attribuendo al condannato uno spazio significativo nella fase della esecuzione della pena riconoscendogli la possibilità di presentare una richiesta di misure alternative alla detenzione, sia assegnando a tale richiesta il valore di rinuncia tacita proprio al beneficio della sospensione condizionale della pena.
Il nucleo centrale del ragionamento seguito dalle Sezioni Unite appare incentrato sull’opportunità che l’imputato in qualche modo partecipi alla decisione di concedergli il beneficio della sospensione condizionale della pena poiché non necessariamente tale scelta corrisponde ad un effettivo interesse in tal senso e sulla considerazione che un provvedimento reso d’ufficio senza nessuna interlocuzione potrebbe anche essere impugnato dall’imputato per ottenerne la revoca.
Per completezza, va segnalato che, successivamente alla data del 25 ottobre 2018, Sez. 4, n. 29538 del 28/05/2019, Calcinoni, Rv. 276596 – 02, allineandosi alla decisione delle Sezioni Unite, ha affermato il principio di diritto secondo il quale “Il mancato esercizio del potere-dovere del giudice di appello di applicare di ufficio i benefici di legge e una o più circostanze attenuanti, non accompagnato da alcuna motivazione, non può costituire motivo di ricorso per cassazione per violazione di legge o difetto di motivazione, se l’effettivo espletamento del medesimo potere-dovere non sia stato sollecitato da una delle parti, almeno in sede di conclusioni nel giudizio di appello, ovvero, nei casi in cui intervenga condanna la prima volta in appello, neppure con le conclusioni subordinate proposte dall’imputato nel giudizio di primo grado. (Fattispecie in cui con la sentenza di condanna emessa in riforma di sentenza assolutoria di primo grado, non era stata concessa la non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale e non era stata applicata la circostanza attenuante del risarcimento del danno)”.
Sentenze della Corte di cassazione
Sez. 2, n. 9452 del 08/03/1982, Casula, Rv. 155650
Sez. 5, n. 9455 del 24/09/1984, Soppelsa, Rv. 166423
Sez. U, n. 12234 del 23/11/1985, Di Trapani, Rv. 171394
Sez. 6, n. 1133/1991 del 11/07/1990, Ricco, Rv. 186407
Sez. 2, n. 6458 del 21/01/1991, La Marca, Rv. 187618
Sez. 1, n. 5924 del 07/02/1991, Incognito, Rv. 187975
Sez. U, n. 6563 del 16/03/1994, Rusconi, Rv. 197535
Sez. 1, n. 4978 del 12/10/1995, Schirippa, Rv. 202675
Sez. 1, n. 8558 del 02/05/1997, Chiavaroli, Rv. 208572
Sez. 5, n. 1099 del 26/11/1997, Pirri, Rv. 209683
Sez. 1, n. 9731 del 12/05/1998, Totaro, Rv. 211325
Sez. 5, n. 496 del 17/11/1998, Bonotti, Rv. 212152
Sez. 6, n. 32966 del 13/07/2001, Colbertardo, Rv. 220729
Sez. 5, n. 41126 del 24/09/2001, Casamassima, Rv. 220254
Sez. 3, n. 21273 del 18/03/2003, Gueli, Rv. 224850
Sez. 6, n. 7960 del 26/01/2004, Calluso, Rv. 228468
Sez. 6, n. 7544 del 19/10/2004 dep. 2005, Bassi
Sez. 6, n. 12839 del 10/02/2005, De Martino, Rv. 231431S
Sez. 5, n. 37461 del 20/09/2005, Zoffoli, Rv. 232323
Sez. 5, n. 40865 del 25/09/2007, Catalano e altro, Rv. 238187
Sez. 6, n.4374/2009 del 28/10/2008, Maugliani, Rv. 242785
Sez. 6, n. 3917 del 08/01/2009, Chiacchierini, Rv. 242527
Sez. 6, n. 22120 del 29/04/2009, Tatone, Rv. 243946
Sez. 5, n. 2094 del 23/10/2009, Coluccio, Rv. 245924
Sez. 6, n. 30201 del 27/06/2011, Ferrante, Rv. 256560
Sez. 3, n. 23228 del 12/04/2012, Giovanrosa, Rv. 253057
Sez. 4, n. 43113 del 18/09/2012, Siekierska, Rv. 253641
Sez. 6, n. 14758 del 27/03/2013, V., Rv. 254690
Sez. 4, n. 1513 del 03/12/2013, Shehi, Rv. 258487
Sez. 5, n. 5581 del 8/10/2014, Ciodaro, Rv. 264215
Sez. 7, n. 16746 del 13/01/2015, Ciaccia, Rv. 263361
Sez. 5, n. 37569 del 08/7/2015, Tota, Rv. 264552
Sez. 3, n. 3856 del 4/11/2015, Gamboni, Rv. 266138
Sez. 2, n. 15930 del 19/02/2016, Moudi, Rv. 266563
Sez. 3, n. 28690 del 09/02/2017, Rochira, Rv. 270587
Sez. 3, n. 47828 del 12/10/2017, Esposito, Rv. 271815
Sez. U, n. 22533 del 25/10/2018, dep. 2019, Salerno, Rv. 275376
Sez. 4, n. 29538 del 28/05/2019, Calcinoni, Rv. 276596
Nel corso dell’ultimo anno appare opportuno segnalare un importante arresto della Quarta sezione che ha segnato un mutamento di indirizzo della giurisprudenza di legittimità sulla delicata questione relativa alla configurabilità del concorso colposo nel delitto doloso (Sez. 4, n. 7032 del 19/07/2018, dep. 14/02/2019, Zampi, Rv. 276624). Il caso esaminato dalla Corte riguardava la uccisione, con arma da fuoco, di due persone da parte di un soggetto, che poi si era suicidato, cui era stato rilasciato il porto d’armi anche in virtù di un certificato medico attestante l’assenza di malattie del sistema nervoso, di disturbi mentali, di personalità o comportamentali. Al medico di base, che aveva rilasciato il certificato anamnestico, pur essendo consapevole del fatto che l’istante era affetto da disturbo bipolare, in quanto già seguito dalle strutture specialistiche per disturbi mentali e per avergli egli stesso più volte prescritto un farmaco specificamente indicato per il trattamento di tale patologia, era addebitato di avere, con la propria condotta negligente ed imprudente, concorso colposamente nei reati di omicidio volontario commessi dal paziente e di avere altresì causato il suicidio dello stesso. La decisione di primo grado, che aveva concluso per l’assoluzione dell’imputato, era stata ribaltata in appello avendo la corte distrettuale optato per l’adesione a quell’orientamento, da tempo prevalente nella giurisprudenza di legittimità, che ritiene ammissibile l’istituto del concorso colposo nel delitto doloso. La Corte di cassazione, con la pronuncia in esame, ha invece superato il precedente indirizzo ed ha escluso la configurabilità di tale istituto affermando il principio per cui “non è configurabile il concorso colposo nel delitto doloso in assenza di una espressa previsione normativa, non ravvisabile nell’art. 113 cod. pen. che contempla esclusivamente la cooperazione colposa nel delitto colposo”. Ritenendosi però configurabile a carico del medico una responsbilità a titolo autonomo ex artt. 41 e 589 cod. pen., la sentenza impugnata è stata annullato con rinvio per un nuovo giudizio, ai fini di una più adeguata valutazione circa la prevedibilità degli eventi.
Sulla questione relativa alla ammissibilità del concorso colposo nel delitto doloso si registrava in seno alla giurisprudenza di legittimità un contrasto di orientamenti. Con una risalente pronuncia, infatti, le Sezioni unite, esaminando il caso di un notaio che aveva rogato negligentemente atti pubblici per una lottizzazione abusiva, avevano affermato che la responsabilità dello stesso sarebbe ravvisabile solo in caso di partecipazione cosciente e volontaria al piano lottizzatorio, non essendo concepibile un concorso colposo in reato di natura dolosa (Sez. U, n. 2720 del 03/02/1990, Cancilleri, Rv. 183495). Tale orientamento aveva immediatamente trovato seguito nella giurisprudenza delle sezioni semplici che avevano osservato che l’art. 42, comma secondo, cod. pen., prescrivendo che «nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come delitto se non l’ha commesso con dolo, salvi i casi di delitto preterintenzionale o colposo espressamente preveduti dalla legge», impone la necessità di una espressa previsione di legge per ascrivere a titolo di colpa una qualunque fattispecie delittuosa, non individuabile nell’art. 113 cod. pen., che, facendo testuale riferimento alla cooperazione nel delitto colposo e non già alla cooperazione colposa nel delitto, limita la cooperazione colposa al solo delitto colposo (Sez. 3, n. 5017 del 20/03/1991, Festa, Rv. 187331; Sez. 4, n. 9542 del 11/10/1996, De Santis, Rv. 206798). Tale impostazione ermeneutica è stata tuttavia superata da una serie di successive pronunce che hanno portato al consolidamento dell’opposta soluzione incline ad ammettere la configurabilità del concorso colposo nel delitto doloso. Già con Sez. 4, n. 39680 del 09/10/2002, Capecchi, Rv. 223214, relativa ad un caso d’incendio doloso ad opera di ignoti di un deposito di pneumatici, si è riconosciuta la responsabilità a carico del custode del deposito per aver tenuto una condotta colposa, consistita nel mancato rispetto delle disposizioni impartite dalle autorità competenti. Secondo tale pronuncia, l’art. 42 cod. pen. non avrebbe rilevanza dirimente nella soluzione della questione, riguardando esclusivamente le fattispecie incriminatrici di parte speciale e non interessando, invece, se non in maniera indiretta e mediata, le disposizioni di cui agli artt. 110 e 113 cod. pen. Sostiene invece la Corte che il criterio ermeneutico da utilizzare attiene piuttosto al profilo funzionale del rapporto di causalità disciplinato dagli artt. 40 e 41 cod. pen.: ciò che distingue l’ipotesi del concorso di cause indipendenti dalla cooperazione colposa (art. 113 cod. pen.) è soltanto l’elemento della rappresentazione dell’altrui condotta che, assente nel primo caso, deve essere presente nel secondo. E pertanto, mentre nel primo caso l’evento sarà posto separatamente a carico degli agenti senza alcun vincolo soggettivo, nel secondo caso si avrà un unico reato posto in essere da una pluralità di persone. Una volta quindi ammesso il concorso doloso nel delitto colposo, per il quale il legislatore non avrebbe posto preclusioni formali, non si potrebbe escludere la possibilità, astratta ed in via di principio, della corrispondente possibilità di configurare ipotesi di partecipazione colposa nel delitto doloso, non ostandovi per quanto detto il disposto di cui all’art. 42 cod. pen.
Le argomentazioni esposte nella sentenza “Capecchi” sono state successivamente riprese ed articolate in altre due pronunce, entrambe relative a medici psichiatri ritenuti responsabili a titolo di concorso colposo nei delitti dolosi commessi da loro pazienti (Sez. 4, n. 10795 del 14/11/2007, dep. 2008, Pozzi, Rv. 238957 e Sez. 4, n. 4107 del 12/11/2008, dep. 2009, Calabrò, Rv. 242830). In tale ultimo arresto, in cui si è ritenuto configurabile il concorso colposo dei medici che avevano consentito il rilascio del porto d’armi ad un paziente affetto da gravi problemi di ordine psichico, nei delitti dolosi di omicidio e lesioni personali commessi dal paziente il quale, dopo aver conseguito il porto d’armi, aveva con un’arma da fuoco colpito quattro passanti, ucciso la propria convivente ed una condomina, ed infine si era suicidato, e dunque un caso del tutto sovrapponibile a quello esaminato nella sentenza “Zampi”, la Corte ha nuovamente approfondito e sviluppato la tematica. Si osserva in tale pronuncia che l’esame congiunto delle due norme invocate a sostegno della opposta soluzione (art. 42 cod. pen., comma 2 e art. 113 cod. pen.) consente invece di pervenire alla diversa opzione della ammissibilità del concorso; «la compartecipazione è stata espressamente prevista nel solo caso del delitto colposo perché, nel caso di reato doloso, non ci si trova in presenza di un atteggiamento soggettivo strutturalmente diverso ma di una costruzione che comprende un elemento ulteriore - potrebbe dirsi “in aggiunta” - rispetto a quelli previsti per il fatto colposo, cioè l’aver previsto e voluto l’evento (sia pure, nel caso del dolo eventuale, con la sola accettazione del suo verificarsi). Insomma il dolo è qualche cosa di più, non di diverso, rispetto alla colpa. Conseguentemente, non sarebbe necessario prevedere espressamente l’applicabilità del concorso colposo nel delitto doloso perché «se è prevista la compartecipazione nell’ipotesi più restrittiva non può essere esclusa nell’ipotesi più ampia che la prima ricomprende e non è caratterizzata da elementi tipici incompatibili». Tale orientamento ha trovato consolidamento nell’ultimo decennio in ulteriori pronunce interne alla Quarta sezione che si sono però limitate a ribadire il principio per cui «il concorso colposo è configurabile anche rispetto al delitto doloso, sia nel caso in cui la condotta colposa concorra con quella dolosa alla causazione dell’evento secondo lo schema del concorso di cause indipendenti, sia in quello della cooperazione colposa purché, in entrambi i casi, il reato del partecipe sia previsto dalla legge anche nella forma colposa e nella sua condotta siano presenti gli elementi della colpa, in particolare la finalizzazione della regola cautelare violata alla prevenzione del rischio dell’atto doloso del terzo e la prevedibilità per l’agente dell’atto del terzo» (Sez. 4, n. 34385 del 14/07/2011, Costantino, Rv. 251511; Sez. 4, n. 22042 del 27/04/2015, Donatelli, Rv. 263499).
Con la pronuncia in esame la Corte ha ritenuto di dover riconsiderare la tesi da ultimo esposta mettendone in dubbio il fondamento e giungendo, conseguentemente, alla conclusione per cui la condotta colposa che accede al fatto doloso è punibile solo in via autonoma e a condizione che integri una fattispecie colposa espressamente prevista dall’ordinamento. La premessa è data dalla considerazione per cui, in assenza di una esplicita previsione legale, «il rinvenimento di una disciplina ‘implicita’ deve risultare incontrovertibile allorquando - come nel caso che occupa - la tesi non opera una contrazione dell’area del penalmente rilevante, bensì una sua espansione». In particolare, secondo la Corte, nel rispetto del principio di legalità, non è possibile avallare «un’impostazione che miri ad evidenziare che ‘nulla osta’ alla configurabilità del concorso colposo nel delitto doloso; piuttosto è necessario dimostrare che vi è una previsione legale che contempla tale istituto». Posta tale premessa, viene quindi evidenziata la fallacia degli argomenti posti a fondamento della diversa ricostruzione esegetica. In primo luogo, si osserva che «l’argomento secondo cui la cooperazione colposa prevista nell’art. 113 cod. pen. sarebbe, di per sé, ricomprensiva dell’ipotesi più ampia, ovvero quella del dolo, collide con il principio di legalità che implica il divieto di analogia in malam partem, posto che il dolo e la colpa sono coefficienti soggettivi di attribuzione della responsabilità che presentano una diversità strutturale tanto a livello ontologico quanto normativo». Sarebbe, del resto, la stessa lettera della disposizione a non consentire una tale interpretazione posto che la nozione di “cooperazione” allude all’agire congiunto di più persone ed implica la consapevolezza della convergenza del proprio e dell’altrui comportamento alla realizzazione di una condotta unitaria e comune, non potendosi invece ipotizzare una consapevole interazione, sul piano soggettivo, tra la condotta colposa dell’agente e il comportamento doloso del terzo. Inoltre, facendo la norma specifico riferimento al “delitto colposo”, la diversa interpretazione secondo cui essa rinvierebbe sia alla partecipazione colposa che a quella dolosa, «sembra marginalizzare in eccesso tale dato testuale, leggendo la disposizione come se menzionasse un onnicomprensivo fatto plurisoggettivo, in ordine al quale si preoccuperebbe di esplicare la sorte del contributo colposo». In ogni caso, «poiché la previsione dispone che ciascuno dei partecipi soggiace alle pene stabilite per il delitto stesso, non essendo revocabile in dubbio che “stesso” sta ad indicare proprio il delitto colposo, si dovrebbe ammettere che grazie all’art. 113 cod. pen. il partecipe doloso sia assoggettato alle pene previste per il delitto colposo: una conclusione evidentemente assurda». Per quanto riguarda poi il diverso profilo relativo ai rapporti tra dolo e colpa, ritiene la Corte che la opposta tesi che sostiene che “non c’è dolo senza colpa” e che per tale motivo risulta disciplinata espressamente la sola compartecipazione dolosa, “opera un salto logico”; sostenere infatti che dolo e colpa abbiano un aspetto in comune in quanto nel delitto doloso è comunque riscontrabile la violazione di un dovere oggettivo di diligenza non significa ancora che il legislatore abbia voluto riconoscere attraverso l’art. 113 cod. pen. il concorso colposo nel delitto doloso. Prosegue ancora la Corte che «le condotte atipiche connotate da colpa possono dar luogo alla fattispecie plurisoggettiva solo se vi è consapevolezza dell’agire cooperativo». Ne consegue che l’istituto del concorso colposo nel delitto doloso rischierebbe di caratterizzarsi per la compresenza di due requisiti logicamente incompatibili, ossia la colpa derivante dalla violazione di una regola cautelare costruita sulla prevedibilità di un fatto doloso di terzi e la contestuale rappresentazione della condotta del terzo con la erronea convinzione, al contempo, che quest’ultimo non versi in dolo. Dovrebbe, infatti, essere accertata la realizzazione di un delitto doloso che costituisca la concretizzazione del rischio che la regola cautelare mirava a prevenire e la consapevolezza di cooperare con il terzo, autore della condotta dolosa, ma tale ipotesi comporterebbe, inevitabilmente, la configurabilità di un concorso doloso nel delitto doloso. Sulla scorta di tali argomentazioni, la Corte, esclusa dunque la configurabilità del concorso colposo nel delitto doloso è giunta alla conclusione che, difettando il necessario requisito soggettivo delle fattispecie concorsuali, ovvero il legame psichico dei coagenti, unica strada percorribile è quella della verifica della sussistenza dei presupposti di due fattispecie monosoggettive, una colposa ed altra dolosa secondo lo schema del concorso di cause indipendenti.
Per completezza occorre, infine, segnalare che la linea interpretativa adottata dalla Quarta sezione sulla scorta delle ragioni analiticamente esposte nella pronuncia in disamina, era stata già intrapresa, seppure senza particolari approfondimenti, da Sez. 5, n. 57006 del 05/10/2018, Curti, Rv. 274626, che aveva affermato il principio per cui “non è configurabile il concorso colposo nel delitto doloso in assenza di una espressa previsione normativa non ravvisabile nell’art. 113 cod. pen. che contempla esclusivamente la cooperazione colposa nel delitto colposo; ne consegue che nei delitti la condotta colposa che accede al fatto principale doloso, è punibile solo in via autonoma, a condizione che integri una fattispecie colposa espressamente prevista dall’ordinamento”. Anche la Quinta sezione, pronunciandosi riguardo a fatti di bancarotta commessi da più persone in concorso ma a diverso titolo, richiamando Sez. U, n. 2720 del 03/02/1990, Cancilleri, Rv. 183495, aveva infatti affermato di prediligere l’orientamento volto a ritenere inammissibile il concorso colposo nel delitto doloso, escludendo la compatibilità dell’istituto con il sistema positivo. Si osserva infatti in tale arresto che «l’art. 42 secondo comma cod. pen. stabilisce che nessuno può essere punito per un fatto previsto dalla legge come delitto, se non l’ha commesso con dolo, salvi i casi di delitto colposo (o preterintenzionale) previsti dalla legge; l’art. 113 cod. pen. riguarda la cooperazione colposa “nel delitto colposo” dunque non può estendersi fino ad abbracciare il concorso colposo nel delitto doloso, figura, quest’ultima, che rimane priva di copertura normativa». Conseguentemente, anche in tal caso, la Corte ha concluso per la soluzione per cui la condotta colposa che accede al fatto principale doloso è punibile solo in via autonoma, purché integri una fattispecie colposa espressamente prevista nella parte speciale.
Sentenze della Corte di cassazione
Sez. U, n. 2720 del 03/02/1990, Cancilleri, Rv. 183495
Sez. 3, n. 5017 del 20/03/1991, Festa, Rv. 187331
Sez. 4, n. 9542 del 11/10/1996, De Santis, Rv. 206798
Sez. 4, n. 39680 del 09/10/2002, Capecchi, Rv. 223214
Sez. 4, n. 10795 del 14/11/2007, dep. 2008, Pozzi, Rv. 238957
Sez. 4, n. 4107del 12/11/2008, dep. 2009, Calabrò, Rv. 242830
Sez. 4, n. 34385 del 14/07/2011, Costantino, Rv. 251511
Sez. 4, n. 22042 del 27/04/2015, Donatelli, Rv. 263499
Sez. 5, n. 57006 del 05/10/2018, Curti, Rv. 274626
Sez. 4, n. 7032 del 19/07/2018, dep. 2019, Zampi, Rv. 276624
Con ordinanza n. 30042 del 21 giugno 2018, la Terza sezione penale, rilevando l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale in merito alla questione della rilevanza, agli effetti del computo del termine di prescrizione, della recidiva contestata e solo implicitamente riconosciuta dal giudice di merito il quale, senza aumentare la pena, l’abbia valorizzata per negare il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, ha rimesso la questione alle Sezioni Unite. Nell’ordinanza di rimessione sono stati richiamati alcuni arresti relativi a fattispecie nelle quali i giudici di merito, pur non applicando l’aumento per la recidiva contestata dal pubblico ministero, hanno comunque negato le circostanze attenuanti generiche dando conto dell’esistenza di precedenti penali gravanti sull’imputato. In tali casi, le sezioni semplici hanno a volte ritenuto che la recidiva fosse stata implicitamente riconosciuta e fosse dunque rilevante anche ai fini del calcolo del tempo necessario a prescrivere il reato, mentre altre volte hanno escluso tale rilevanza. La divergenza tra tali epiloghi decisori si è posta, pertanto, a fondamento della rimessione alle Sezioni Unite.
Per meglio comprendere le ragioni fondanti il contrasto sviluppatosi tra le Sezioni semplici occorre rammentare che la recidiva di cui all’art. 99 cod. pen., oltre a determinare quale effetto diretto quello dell’aggravamento della pena, produce anche una pluralità di effetti indiretti che escludono o restringono l’applicazione di una serie di istituti favorevoli al reo. L’istituto in esame, infatti, è stato ampiamente riformato ad opera della legge 5 dicembre 2005, n. 251, con la quale si è determinato un inasprimento del trattamento per i recidivi, realizzato mediante la introduzione una serie di automatismi sanzionatori fondati su presunzioni assolute di maggiore pericolosità, con corrispondente compressione degli spazi di discrezionalità del giudice.
Tali automatismi hanno interessato diversi istituti quali: il giudizio di bilanciamento tra circostanze ex art. 69 cod. pen., con il divieto di prevalenza delle attenuanti sulla recidiva reiterata di cui al comma 4 dell’art. 99 cod. pen.; il reato continuato e il concorso formale di reati ex art. 81 cod. pen., imponendo una misura minima dell’aumento di pena (art. 81, co. 4, c.p.); le circostanze attenuanti generiche ex art. 62-bis cod. pen., con limitazioni alla loro applicazione.
Per quanto riguarda in particolare il computo dei termini di prescrizione, sia l’art. 157 cod. pen. che l’art. 161 cod. pen. prevedono che la qualifica di recidivo reiterato, in quanto circostanza ad effetto speciale, determina un innalzamento dei tempi di maturazione della causa estintiva.
In particolare, l’art. 157 prevede, per le circostanze ad effetto speciale, una specifica deroga al generale principio di neutralizzazione degli effetti delle circostanze sia aggravanti che attenuanti, ne consegue dunque che, come qualsiasi altra circostanza aggravante ad effetto speciale, anche la recidiva reiterata influisce sul tempo necessario a prescrivere dovendosi tener conto dell’aumento massimo di pena previsto per l’aggravante (art. 157, comma 2, cod. pen.).
L’art. 161 cod. pen., invece, ricollega alla condizione di recidivo (o di delinquente abituale o professionale) i diversi e più lunghi tempi di prescrizione derivanti dall’interruzione del tempo necessario all’estinzione del reato.
Ebbene, in merito alle ricadute della recidiva in termini di prescrizione del reato, nella giurisprudenza di legittimità già in passato si era posto il problema volto a chiarire se gli effetti indiretti dell’istituto si producano sulla base della sola contestazione oppure se sia comunque necessaria una dichiarazione del giudice in ordine alla sua sussistenza.
Su tale questione la giurisprudenza, anche a seguito dei numerosi interventi in materia da parte della Corte costituzionale e delle Sezioni Unite della Corte di cassazione, che hanno definitivamente riconosciuto la natura discrezionale della recidiva pluriaggravata e reiterata di cui ai commi 3 e 4 dell’art. 99 cod. pen. con l’esclusione di ogni forma di automatismo sanzionatorio, era ormai orientata nel senso che, mentre prima della sentenza di merito la più severa disciplina dei tempi di prescrizione opera sulla base della mera contestazione della recidiva, una volta intervenuta la decisione che non abbia ravvisato una relazione qualificata fra i precedenti dell’imputato e il fatto a lui addebitato (recidiva ritenuta ma non applicata) la circostanza perde il suo rilievo ai fini del computo del tempo necessario a prescrivere il reato (Sez. 6, n. 43771 del 07/10/2010, Karmaoui, Rv. 248714; Sez. 2, n. 18595 del 08/04/2009, Pancaglio, Rv. 244158). In tali pronunce si era, infatti, osservato che, essendosi definitivamente chiarito che la recidiva deriva non automaticamente dal certificato penale, bensì da una valutazione del giudice riguardante la situazione esistente al momento in cui il nuovo fatto-reato è stato commesso e che, conseguentemente, ove il giudice escluda la circostanza aggravante, «rimangono esclusi ... l’aumento della pena base e tutti gli ulteriori effetti commisurativi connessi all’aggravante, (a cominciare da quelli incidenti sul giudizio di valenza di cui all’art. 69 cod. pen. e sull’aumento per la continuazione, di cui all’art. 81, comma 4, cod. pen. nonché in tema di patteggiamento allargato), non c’è ragione per non applicare tale conclusione anche al calcolo del tempo necessario alla maturazione della prescrizione (art. 157 c.p., comma 2, e art. 161 c.p., comma 2) che, a ben vedere, costituisce anch’esso un effetto commisurativo della pena».
Pertanto, si era concluso che, se la circostanza aggravante inerente alla persona del colpevole non deriva automaticamente dal certificato penale o dal contenuto di precedenti provvedimenti di condanna, bensì da una concreta valutazione del giudice riguardante la situazione esistente al momento in cui il nuovo fatto-reato è stato commesso, non v’è alcuna ragione di “far pesare” nel calcolo dei termini prescrizionali la contestazione della circostanza da parte del pubblico ministero sulla base della mera iscrizione di precedenti penali nel certificato del casellario giudiziale, anziché la concreta valutazione causa cognita operata dal giudice.
Con specifico rilievo rispetto al quesito oggetto della decisione delle Sezioni Unite, deve poi segnalarsi come si fosse più volte affermato che la recidiva reiterata, essendo una circostanza aggravante ad effetto speciale, rileva ai fini della determinazione del termine di prescrizione, anche qualora nel giudizio di comparazione con le circostanze attenuanti sia stata considerata equivalente (Sez. 6, n. 39849 del 16/9/2015, Palombella, Rv. 264483; in precedenza conformi Sez. 2, n. 35805 del 18/6/2013, Romano, Rv. 257298; Sez. 1, n. 26786 del 18/6/2009, Favuzza, Rv. 244656; Sez. 5, n. 37550 del 26/6/2008, Locatelli, Rv. 241945).
Successivamente poi Sez. 2, n. 2731 del 2/12/2015, dep. 2016, Conti, Rv. 265729, aveva sottolineato che il giudizio di equivalenza tra recidiva e circostanze attenuanti generiche comporta l’applicazione della recidiva, rilevante ai fini del computo del termine di prescrizione, in quanto la circostanza aggravante deve ritenersi, oltre che riconosciuta, applicata, non solo quando esplica il suo effetto tipico di aggravamento della pena, ma anche quando produca, nel bilanciamento tra circostanze aggravanti e attenuanti di cui all’art. 69 cod. pen. un altro degli effetti che le sono propri, cioè quello di paralizzare un’attenuante, impedendo a questa di svolgere la sua funzione di concreto alleviamento della pena da irrogare.
Non può dunque dubitarsi che già prima della rimessione alle Sezioni Unite fosse un principio ormai consolidato quello per cui l’applicazione della recidiva implica certamente un elemento ulteriore rispetto al semplice riconoscimento conseguente alla formale contestazione, essendo necessaria una valutazione in concreto che determini l’inasprimento della pena o la confluenza dell’aggravante nel giudizio di comparazione ex art. 69 cod. pen.
In tale panorama giurisprudenziale, pertanto, la questione sottoposta all’esame delle Sezioni Unite si è posta quale ulteriore passaggio rispetto agli approdi raggiunti dalla giurisprudenza di legittimità ponendosi l’ulteriore esigenza di valutare e chiarire se possa ritenersi che il giudice abbia effettivamente proceduto all’accertamento della recidiva mediante una concreta valutazione della esistenza di una relazione qualificata tra i precedenti del reo ed il nuovo reato anche allorquando la risposta motivazionale sul punto non sia esplicita ma rinvenibile esclusivamente nella valorizzazione dei precedenti penali ai fini della esclusione delle circostanze attenuanti generiche, in relazione a fattispecie nelle quali peraltro il mancato aumento della pena principale e l’assenza di un giudizio di bilanciamento potrebbe orientare l’interprete verso una soluzione di segno opposto.
Sulla specifica questione sottoposta al vaglio delle Sezioni Unite, come rilevato dalla Sezione rimettente, si registravano in primo luogo alcune pronunce di legittimità che avevano ritenuto la recidiva non rilevante ai fini del calcolo del tempo necessario a prescrivere il reato.
Per le argomentazioni sviluppate viene in rilievo Sez. 6, n. 54043, del 16/11/2017, S., Rv. 271714, secondo la quale in tema di prescrizione del reato, quando il giudice abbia escluso, anche implicitamente, la circostanza aggravante della recidiva, non ritenendola in concreto espressione di una maggiore colpevolezza o pericolosità sociale dell’imputato, la predetta circostanza deve ritenersi ininfluente anche ai fini del computo del tempo necessario a prescrivere il reato.
La pronuncia atteneva ad un caso in cui il giudice, pur non avendo sviluppato alcuna argomentazione sulla concreta attitudine dimostrativa dei precedenti penali dell’imputato ai fini del giudizio di pericolosità e non avendo applicato alcun aumento di pena per la recidiva, aveva negato la concessione delle circostanze attenuanti generiche in ragione dei precedenti penali dell’imputato.
Secondo la Sesta sezione, infatti, alla luce dei plurimi interventi della Corte costituzionale e delle Sezioni Unite sul tema, poteva ritenersi principio consolidato quello del rifiuto di ogni forma di automatismo nel riconoscimento e nell’applicazione della recidiva, principio che opera non solo sul piano dell’aumento della sanzione ma anche su quello concernente gli effetti secondari o indiretti della recidiva, tra i quali la individuazione dei termini di prescrizione.
Conseguentemente, il collegio precisava che, mentre il giudizio di equivalenza tra recidiva e circostanze attenuanti generiche comporta l’applicazione della recidiva, secondo pacifica e ricorrente affermazione della giurisprudenza, viceversa, una volta intervenuta la decisione che non abbia ravvisato una relazione qualificata fra i precedenti dell’imputato e il fatto a lui addebitato, a prescindere dalla mancata formale esclusione della recidiva, la circostanza perde il suo rilievo ai fini del computo del tempo necessario a prescrivere il reato.
Pertanto, «se è vero che l’applicazione della recidiva non può farsi discendere automaticamente dal certificato penale o dal contenuto di precedenti provvedimenti di condanna emessi nei confronti di una persona, men che mai può ritenersi che, attraverso il diniego delle circostanze attenuanti per effetto della esistenza dei precedenti penali, la recidiva può dirsi implicitamente riconosciuta dal giudice così rilevando, come circostanza aggravante speciale, ai fini del calcolo dei termini di prescrizione, ragionamento che introduce, surrettiziamente, proprio quel meccanismo automatico che una coerente interpretazione dei meccanismi sanzionatori del moderno diritto penale - incentrato sulla funzione rieducativa della risposta sanzionatoria vuole evitare collegando ragionevolmente le valutazioni del giudice, in tema di trattamento punitivo, alla situazione esistente al momento in cui il nuovo fatto-reato è stato commesso piuttosto che ad un mero status personale».
Conclusivamente, in applicazione del principio, la Corte, rilevando che il giudice non aveva svolto alcuna considerazione sulla concreta attitudine dimostrativa dei precedenti penali dell’imputato ai fini del giudizio di pericolosità e non aveva applicato alcun aumento di pena, limitandosi ad una valutazione di per sé ancorata allo specifico fatto di reato e rientrante nei criteri direttivi fissati in via generale dall’art. 133, comma secondo, n. 2 cod. pen., ai fini della determinazione della pena e per nulla proiettata al giudizio prognostico sulla probabilità di commissione di nuovi reati, che presiede alla valutazione della rilevanza della capacità criminale ai fini della recidiva, aveva escluso che potesse ritenersi un riconoscimento implicito della recidiva e pertanto i conseguenti effetti in tema di prescrizione.
Sempre in relazione ad un caso in cui, a fronte del mancato aumento di pena per la recidiva contestata, i precedenti penali dell’imputato erano stati considerati nel giudizio di cognizione come motivo di esclusione delle circostanze attenuanti generiche, l’indicato principio era stato affermato da Sez. 2, n. 48293 del 26/11/2015, Carbone, Rv. 265382, nella quale si era ulteriormente argomentato che l’esclusione implicita della recidiva risultante dalla mancata applicazione dell’aumento di pena non può ritenersi inconciliabile con la valorizzazione dei precedenti penali ai fini del diniego delle attenuanti generiche venendo in considerazione due distinti tipi di valutazione in quanto «la valutazione relativa alla concessione delle attenuanti generiche è di per sé ancorata (anche “storicamente”) allo specifico fatto di reato e rientra nei criteri direttivi fissati in via generale dall’art. 133 cod. pen. (vedi il comma 2, nr. 2), per la determinazione della pena; non nel giudizio prognostico sulla probabilità di commissione di nuovi reati, che presiede alla valutazione della rilevanza della recidiva. Del resto, la differenza tra i due piani di valutazione sarebbe altresì rivelata anche dall’ovvia possibilità di considerare i precedenti penali del reo agli effetti dell’art. 133 cod. pen., anche in mancanza della contestazione della recidiva». In precedenza, l’assenza di contraddizione alcuna tra la mancata applicazione della recidiva e la valutazione dell’esistenza di precedenti penali specifici ai fini del diniego della concessione delle circostanze attenuanti generiche e dei benefici di legge era stata evidenziata anche da Sez. 6, n. 38780 del 17/06/2014, Morabito, Rv. 260460, nella quale si era precisato che trattasi di profili di valutazione del tutto distinti, in quanto, mentre la recidiva «si basa su una valutazione in termini di maggior spessore criminale dell’imputato, la concessione delle attenuanti generiche e dei benefici di legge è correlata alla presenza di indici positivi di personalità dell’imputato, che legittimano un giudizio prognostico in termini di astensione dalla commissione di ulteriori reati. Ne deriva che la reiterazione di condotte criminose specifiche ben può essere presa in considerazione, quale elemento negativo della personalità dell’imputato, ai fini del diniego delle attenuanti generiche, nonché quale elemento che fonda un giudizio prognostico sfavorevole, nell’ottica delineata dall’art. 164 cod. pen., anche qualora si ritenga che tale dato, sulla base di un giudizio complessivo in ordine al fatto - reato e alla personalità dell’imputato, non denoti, in quest’ultimo, uno spessore criminologico di tale rilievo da giustificare l’aumento di pena, a norma dell’art. 99 cod. pen.».
In termini analoghi si era anche escluso che fosse ravvisabile il vizio di contraddittorietà di motivazione nel caso di diniego delle circostanze attenuanti generiche per i precedenti penali dell’imputato e di contemporaneo giudizio di equivalenza tra una circostanza attenuante e la recidiva, trattandosi di due ben distinte valutazioni non necessariamente collegate ad identici presupposti (Sez. 2, n. 106 del 04/11/2009, dep. 2010, Marotta, Rv. 246045).
Nella scia di tale orientamento si erano poi poste anche Sez. 6, n. 16109 del 31/03/2016, Capacci.; Sez. 2, n. 46297, del 13/07/2016, D’Onofrio e Sez. 4, n. 45833 del 19/07/2017, Lucchetti che, pur ribadendo il principio, ne aveva escluso l’applicazione nel caso oggetto del giudizio avendo i giudici del merito dato esplicitamente conto di avere considerato la contestata recidiva anche per negare all’imputato le circostanze attenuanti generiche.
In contrasto con l’esposto indirizzo ermeneutico altre pronunce della giurisprudenza di legittimità avevano invece ritenuto che, in casi quali quello esaminato deve ritenersi che la recidiva influisca sul calcolo dei termini di maturazione della causa estintiva del reato.
In questo senso si era espressa dapprima Sez. 2, n. 35805 del 18/6/2013, Romano, Rv. 257298, affermando il principio per cui «la recidiva ritenuta dal giudice di merito e applicata per escludere la concessione delle circostanze attenuanti generiche, in quanto circostanza aggravante ad effetto speciale, rileva ai fini della prescrizione anche nel caso in cui non si sia proceduto in sentenza al relativo aumento di pena». Dopo alcuni anni, il principio elaborato dalla sentenza “Romano” era stato recepito e ribadito da Sez. 5, n. 38287 del 06/04/2016, Politi, Rv. 267862, nella quale si era precisato che, nel caso esaminato, la recidiva contestata all’imputato non poteva ritenersi esclusa dal primo giudice che aveva, nel complessivo trattamento sanzionatorio, citato e valutato la presenza, nel certificato penale dell’imputato, dei numerosi precedenti, considerandoli pertanto dimostrativi di una sua maggiore pericolosità e di rilievo sulla quantificazione della pena.
Da ultimo, nel solco di tale orientamento si era posta Sez. 5, n. 34137 del 11/05/2017, Briji, Rv. 270678, che aveva affermato il principio per cui la recidiva contestata e accertata nei confronti dell’imputato e solo implicitamente riconosciuta dal giudice di merito che, pur non ritenendo di aumentare la pena a tale titolo, abbia specificamente valorizzato, per negare il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, i precedenti penali dell’imputato, rileva ai fini del calcolo del tempo necessario ai fini della prescrizione del reato. In motivazione si considerava che solo la recidiva contestata ma non valutata in alcun modo ai fini dell’applicazione del trattamento sanzionatorio, può ritenersi ininfluente sui termini prescrizionali.
In relazione all’orientamento in esame assumevano altresì rilievo ulteriori arresti più risalenti che, seppure riferiti a fattispecie del tutto dissimili, avevano comunque affermato il principio per cui affinché la recidiva reiterata possa determinare i suoi effetti di circostanza aggravante ad effetto speciale è sufficiente che essa sia stata validamente contestata in un giudizio di cognizione e che non sia stata esclusa dal giudice, essendo poi irrilevante che essa non abbia avuto concreta efficacia nella determinazione della pena, in esito ad un giudizio di bilanciamento delle circostanze, ovvero per non essere stato applicato lo specifico aumento di pena (Sez. 1, n. 26786 del 18/06/2009, Favuzza, Rv. 244656 e Sez. 5, Sentenza n. 37550 del 26/06/2008, Locatelli, Rv. 241945).
A seguito della novella del 2005, sia la Corte costituzionale che le Sezioni Unite sono più volte intervenute in relazione al nuovo regime della recidiva al fine di mitigarne il rigore, individuando il fondamento dell’istituto nella più accentuata colpevolezza e nella maggiore pericolosità del reo e prospettando la facoltatività di tutte le ipotesi di recidiva. In linea con la interpretazione elaborata dalla giurisprudenza costituzionale volta ad escludere la conformità ai principi costituzionali di qualunque lettura dell’art. 99 cod. pen. basata su forme di automatismo tali da elidere la discrezionalità del giudice (sent. n. 192 del 2007, ord. n. 409 del 2007, n. 33 del 2008, n. 90 del 2008 e n. 193 del 2008, n. 257 del 2008), la Corte di cassazione ha ribadito con chiarezza la natura discrezionale della recidiva pluriaggravata e reiterata di cui ai commi 3 e 4 dell’art. 99 cod. pen.
Può ad oggi, infatti, ritenersi consolidato l’orientamento interpretativo secondo il quale non può affermarsi la conformità ai principi fondamentali in tema di ragionevolezza, proporzione e funzione rieducativa della pena enunciati dalla Carta Costituzionale di una concezione della recidiva quale status soggettivo desumibile dal certificato penale che formi oggetto di mero riconoscimento da parte del giudice, chiamato soltanto a verificare la correttezza della sua contestazione.
In tal senso, Sez. U, n. 35738 del 27/05/2010, Calibè, Rv. 247839, ha specificato che «l’interpretazione che ritiene l’obbligatorietà della recidiva qualificata e degli effetti commisurativi della sanzione ad essa riconnessi finisce per configurare una sorta di presunzione assoluta di pericolosità sociale del recidivo reiterato ed un conseguente duplice automatismo punitivo indiscriminato - dunque foriero di possibili diseguaglianze - nell’ an e nel quantum (previsto in misura fissa), operante sia nei casi in cui la ricaduta nel reato si manifesti quale indice di particolare disvalore della condotta, di indifferenza del suo autore alla memoria delle precedenti condanne e in definitiva verso l’ordinamento, di specifica inclinazione a delinquere dell’agente, sia nei casi in cui, al di là del dato meramente oggettivo della ripetizione del delitto, il nuovo episodio non appaia concretamente significativo in rapporto alla natura ed al tempo di commissione dei precedenti, ed avuto riguardo ai parametri indicati dall’art. 133 c.p. sotto il profilo della più accentuata colpevolezza e della maggiore pericolosità del reo».
Ad avviso della Corte si impone una lettura omogenea dei primi quattro commi dell’art. 99 cod. pen., sicché nel testo dei commi terzo e quarto il verbo essere è utilizzato con evidente riferimento al quantum dell’aumento della sanzione discendente dal riconoscimento della recidiva ivi contemplata (pluriaggravata e reiterata), ma non coinvolge l’an dell’aumento medesimo, che rimane affidato alla valutazione del giudice secondo la costruzione dell’ipotesi base di cui al primo comma.
Le figure di recidiva ivi contemplate non costituiscono invero autonome tipologie svincolate dagli elementi normativi e costitutivi della recidiva semplice, bensì mere specificazioni di essa dalla quale si diversificano, espressamente richiamandola, esclusivamente per le differenti conseguenze sanzionatorie che comportano, le quali sono state previste con la riforma, diversamente dal precedente regime, in misura fissa anziché variabile fra un minimo ed un massimo.
Per quanto riguarda poi, in particolare, la recidiva reiterata di cui al quarto comma dell’art. 99 cod. pen., questa opera quale circostanza aggravante inerente alla persona del colpevole di natura facoltativa dovendosi escludere che la novella abbia operato una sorta di ripristino del regime di obbligatorietà della recidiva.
Il giudice ha dunque il potere discrezionale di escluderla motivatamente e considerarla tamquam non esset in relazione al trattamento sanzionatorio, all’esito di una verifica in concreto sulla reiterazione dell’illecito quale indice sintomatico di riprovevolezza e pericolosità, da effettuare tenendo conto della natura dei reati, del tipo di devianza di cui sono il segno, della qualità dei comportamenti, del margine di offensività delle condotte, della distanza temporale e del livello di omogeneità esistente fra loro, dell’eventuale occasionalità della ricaduta e di ogni altro possibile parametro individualizzante significativo della personalità del reo e del grado di colpevolezza, al di là del mero ed indifferenziato riscontro formale dell’esistenza di precedenti penali. All’esito di tale verifica al giudice è consentito negare la rilevanza aggravatrice della recidiva ed escludere la circostanza, non irrogando il relativo aumento della sanzione.
Qualora la verifica effettuata si concluda nel senso del concreto rilievo della ricaduta sotto il profilo sintomatico di una più accentuata colpevolezza e maggiore pericolosità del reo, la circostanza aggravante opera necessariamente e determina tutte le conseguenze di legge sul trattamento sanzionatorio e sugli ulteriori effetti commisurativi e dunque, nell’ipotesi di recidiva reiterata, l’aumento della pena base nella misura fissa indicata dall’art. 99, comma 4 cod. pen.; il divieto imposto dall’art. 69 comma 4 cod. pen., di prevalenza delle circostanze attenuanti nel giudizio di bilanciamento fra gli elementi accidentali eterogenei eventualmente presenti; il limite minimo di aumento per la continuazione stabilito dall’art. 81 comma 4 cod. pen.; l’inibizione dell’accesso al “patteggiamento allargato” di cui all’art. 444, comma 1 bis cod. proc. pen. In tale ipotesi la recidiva deve intendersi, oltre che “accertata” nei suoi presupposti (sulla base dell’esame del certificato del casellario), “ritenuta” dal giudice ed “applicata”, determinando essa l’effetto tipico di aggravamento della pena: e ciò anche quando semplicemente svolga la funzione di paralizzare, con il giudizio di equivalenza, l’effetto alleviatore di una circostanza attenuante.
Qualora, viceversa, la verifica si concluda nel senso della non significanza della ricaduta nei termini più su precisati e il giudice escluda la recidiva (dunque non la ritenga rilevante e conseguentemente non la applichi), rimangono esclusi altresì l’aumento della pena base e tutti gli ulteriori effetti commisurativi connessi all’aggravante.
Ribadita quindi la natura facoltativa ed il tipo di apprezzamento che il giudice deve effettuare ai fini del riconoscimento dell’aggravante, la Corte ha affrontato una ulteriore rilevante questione escludendo che la facoltatività della recidiva possa atteggiarsi come parziale o bifasica e dunque operare solo con riferimento all’effetto primario dell’aggravamento della pena e non avuto riguardo ai cd. “ulteriori effetti” commisurativi della sanzione ricollegati dalla legge alla recidiva.
È stato così definitivamente avallato l’orientamento formatosi nella giurisprudenza di legittimità per cui gli effetti commisurativi della recidiva non sono svincolati dalle determinazioni assunte dal giudice in relazione al riconoscimento dell’aggravante ma sono bensì a questo strettamente collegati, nel senso che anch’essi vengono meno quando la circostanza non concorra, sulla base della valutazione del giudice effettuata ai fini e secondo i parametri di cui si è detto, a determinare l’aumento di pena. Può dirsi quindi definitivamente abbandonata la tesi della “facoltatività bifasica” della recidiva per cui, consentito al giudice di elidere l’effetto primario dell’aggravamento della pena, siano invece obbligatori gli ulteriori effetti penali della circostanza attinenti al momento commisurativo della sanzione.
I principi elaborati in tale pronuncia sono stati poi ribaditi da Sez. U, n. 20798 del 24/02/2011, Indelicato, Rv. 249664, che ha affermato la natura di circostanza ad affetto speciale della recidiva avuto riguardo al criterio edittale. Le Sezioni Unite hanno posto in evidenza la natura della recidiva quale circostanza pertinente al reato, che richiede un accertamento, nel caso concreto, della relazione qualificata tra lo status e il fatto, che deve risultare sintomatico, in relazione alla tipologia dei reati pregressi e all’epoca della loro consumazione, sia sul piano della colpevolezza che su quello della pericolosità sociale, respingendo, sulla base di una lettura costituzionalmente orientata, la possibilità di qualsiasi automatismo, inteso come instaurazione presuntiva di una relazione qualificata tra status della persona e reato commesso, e privilegiando, invece, una valutazione discrezionale cui è correlato uno specifico obbligo motivazionale per il giudice.
Con particolare riferimento poi agli effetti secondari della recidiva, riallacciandosi alla ricostruzione dell’istituto elaborata a partire da Sez. U. “Calibè”, anche in tale pronuncia si è ribadita la necessità dell’aumento di pena in concreto o, se del caso, della valutazione di meritevolezza, quale presupposto per l’attivazione delle varie discipline speciali operanti nei confronti del recidivo.
Conseguentemente, anche in tema di computo dei termini prescrizionali del reato, si è argomentato che, mentre prima della sentenza di merito, la più severa disciplina dei tempi di estinzione (art. 157, comma secondo, cod. pen.) opera sulla base della mera contestazione della recidiva, da considerare circostanza aggravante ad effetto speciale (cfr. Sez. 5, n. 35852 del 07/06/2010, Di Canio, Rv. 248502), una volta intervenuta la decisione che non abbia ravvisato una relazione qualificata fra i precedenti dell’imputato e il fatto a lui addebitato (recidiva ritenuta, ma non applicata), la circostanza perde il suo rilievo ai fini del computo del tempo necessario a prescrivere il reato (Sez. 6, n. 43771 del 07/10/2010, Karmaoui, Rv. 248714; Sez. 2, n. 18595 dell’08/4/2009, Pancaglio, Rv. 244158).
Più di recente, infine, le Sezioni Unite, chiamate a risolvere il contrasto ermeneutico in tema di applicabilità o meno dell’aumento di pena di cui all’art. 81 comma 4, cod. pen. in caso di giudizio di equivalenza fra recidiva e circostanze attenuanti, sono tornate sul tema e, con la sentenza Sez. U, n. 31669 del 23/06/2016, Filosofi, Rv. 267044, hanno affermato che il limite di aumento di pena non inferiore ad un terzo di quella stabilita per il reato più grave – previsto dall’art. 81, comma quarto, cod. pen. nei confronti dei soggetti ai quali è stata applicata la recidiva di cui all’art. 99, comma quarto, cod. pen. - opera anche quando il giudice consideri la recidiva stessa equivalente alle riconosciute attenuanti.
Nell’affermare il principio, il Supremo collegio, dopo aver evocato, in motivazione, i precedenti approdi di Sez. U “Calibè” e “Indelicato”, sopra passati in rassegna, ha osservato come la recidiva richiede, da parte del giudice, un accertamento complesso e articolato, inerente la maggiore colpevolezza e l’aumentata capacità a delinquere, che solo se negativo esclude ogni conseguenza e che, invece, permane e sopravvive comunque alla valutazione comparativa operata nel giudizio di bilanciamento.
Le Sezioni Unite hanno esaminato in particolare la questione relativa alla individuazione del corretto significato del verbo “applicare” utilizzato dall’art. 81, quarto comma, cod. pen., verificando, quindi, quando la recidiva possa dirsi “applicata” dal giudice.
Richiamando quanto già messo in evidenza nella più risalente pronuncia Sez. U, n. 17 del 18/6/1991, Grassi, Rv. 187856, la Corte ha dunque osservato che la circostanza aggravante deve ritenersi, oltre che riconosciuta, anche applicata, non solo quando esplica il suo effetto tipico di aggravamento della pena, ma anche quando produce, nel bilanciamento tra circostanze aggravanti e attenuanti, un altro degli effetti che le sono propri, cioè quello di paralizzare un’attenuante, impedendo a questa di svolgere la sua funzione di concreto alleviamento della pena da irrogare, precisandosi che, ogniqualvolta il giudice abbia operato in termini positivi l’accertamento inerente la maggiore colpevolezza e l’aumentata capacità a delinquere del reo, la recidiva è stata già riconosciuta ed applicata, essendole stata attribuita quell’oggettiva consistenza che consente il confronto con le attenuanti concorrenti: attività successiva, questa, rimessa alla discrezionalità del giudice.
Conseguendone che, all’atto del giudizio di comparazione, l’azione dell’applicare la recidiva deve ritenersi già esaurita, perché altrimenti il bilanciamento non sarebbe stato necessario: la recidiva ha comunque esplicato i suoi effetti nel giudizio comparativo, sebbene gli stessi siano stati ritenuti dal giudice equivalenti rispetto alle circostanze attenuanti concorrenti, in assenza delle quali, però, la recidiva avrebbe comportato l’aumento di pena.
Le Sezioni Unite con sentenza del 25 ottobre 2018, dep. 15 maggio 2019, n. 20808, Schettino, Rv. 275319-01, hanno affermato il principio per cui “in tema di recidiva, la valorizzazione da parte del giudice dei precedenti penali dell’imputato ai fini del diniego delle circostanze attenuanti generiche non implica il riconoscimento della recidiva contestata in assenza di aumento della pena a tale titolo o di confluenza della stessa nel giudizio di comparazione tra le circostanze concorrenti eterogenee, attesa la diversità dei giudizi riguardanti i due istituti, sicché di essa non può tenersi conto ai fini del calcolo dei termini di prescrizione del reato”.
La Corte ha aderito al primo degli esposti orientamenti escludendo che la recidiva possa dirsi implicitamente ritenuta dal giudice che si sia limitato a dare conto dei precedenti penali al fine di escludere le circostanze attenuanti generiche.
Il Supremo consesso ha preso le mosse dall’analisi della copiosa giurisprudenza costituzionale e di legittimità sviluppatasi sul tema che, a seguito della riforma dell’istituto della recidiva ad opera della legge 5 dicembre 2005, n. 251, è approdata alla definitiva negazione di una concezione della recidiva quale status soggettivo desumibile dal certificato penale che formi oggetto di mero riconoscimento da parte del giudice, chiamato soltanto a verificare la correttezza della sua contestazione, per affermare invece che, nel vigente quadro normativo, la recidiva è sempre facoltativa, e che tale facoltatività investe il piano del suo riconoscimento, mentre risulta estranea al piano degli effetti, che si dispiegano o rimangono inespressi a seconda che l’aggravante sia ritenuta o esclusa. Si richiamano, in particolare, sul punto, gli insegnamenti offerti da Sez. U, n. 35738 del 27/05/2010, Calibè, Rv. 247839; Sez. U, n. 20798 del 24/02/2011, Indelicato, Rv. 249664, nonché Sez. U, n. 31669 del 23/06/2016, Filosofi, Rv. 267044, che tutte hanno espresso analoghe considerazioni circa la necessità che il giudice, proprio perché investito di un potere discrezionale, proceda, ai fini del riconoscimento della recidiva, ad un accertamento complesso e articolato, spiegando la sua scelta in relazione ad entrambi i profili costitutivi del presupposto sostanziale dell’aggravante in esame inerenti alla maggiore colpevolezza e all’aumentata capacità a delinquere dell’imputato, svolgendo una verifica in concreto sulla reiterazione dell’illecito quale indice sintomatico di riprovevolezza e pericolosità, tenendo conto della natura dei reati, del tipo di devianza di cui sono il segno, della qualità dei comportamenti, del margine di offensività delle condotte, della distanza temporale e del livello di omogeneità esistente fra loro, dell’eventuale occasionalità della ricaduta e di ogni altro possibile parametro individualizzante significativo della personalità del reo e del grado di colpevolezza, al di là del mero ed indifferenziato riscontro formale dell’esistenza di precedenti penali.
Con la pronuncia in esame la Corte ha, pertanto, precisato che alla natura facoltativa della recidiva consegue uno specifico obbligo motivazionale del giudice che, tuttavia può tradursi anche in una motivazione “implicita”, ove la sentenza dia comunque conto della ricorrenza di quei requisiti di riprovevolezza della condotta e di pericolosità del suo autore, che sono alla base dell’aggravamento di pena disposto dal legislatore per effetto della circostanza di cui all’art. 99 cod. pen., ovvero dell’insussistenza di tali elementi nel caso in cui escluda l’aggravante. Sul punto le Sezioni Unite hanno dunque definitivamente avallato l’orientamento ormai prevalente nella giurisprudenza di legittimità per cui è indubbio che il giudice possa argomentare secondo la tecnica della motivazione implicita (tra le altre, Sez. 3, n. 4135 del 12/12/2017 - dep. 2018, Alessio, Rv. 272040; Sez. 6, n. 20271 del 27/04/2016, Duse, Rv. 267130; Sez. 2, n. 39743 del 17/09/2015, Del Vento, Rv. 264533; Sez. 2, n. 40218 del 19/06/2012, Fatale, Rv. 254341), rimarcando comunque che «anche ove si faccia ricorso a tale particolare modalità argomentativa deve risultare che sia stata compiuta la specifica indagine imposta dalla contestazione della recidiva».
Alla luce di tali considerazioni, e passando all’esame della specifica questione sottoposta al suo vaglio, il Supremo collegio ha precisato che gli indicati parametri non possono ritenersi rispettati, e deve dunque escludersi che possa ritenersi configurabile una motivazione implicita ai fini del giudizio che riconosce la recidiva, allorquando il giudice si sia limitato a valorizzare i precedenti penali utilizzati quali fattori ostativi alle attenuanti generiche, in considerazione della diversità delle valutazioni che concernono i due istituti. Si osserva, infatti, che i precedenti penali dei quali fa menzione l’art. 133 cod. pen., e che vengono in rilievo nel giudizio relativo alla concessione delle circostanze attenuanti generiche, non sono del tutto coincidenti con quelli che contribuiscono a costituire la recidiva. Invero, nei primi rientrano anche le sentenze che concedono il perdono giudiziale; quelle che escludono la punibilità per la particolare tenuità del fatto, ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen. e le sentenze di condanna per reati colposi e per le contravvenzioni, che non possono, invece, essere considerate agli effetti della recidiva. Costituiscono, viceversa, «precedenti penali valutabili ai fini della recidiva unicamente le condanne definitive e solo quelle che siano divenute tali prima della commissione del nuovo reato; a seconda della specie di recidiva, la condanna deve avere connotazioni particolari, quanto all’oggetto, al tempo, al numero. In concreto, quindi, ben può accadere che i giudizi - quello concernente il (negato) riconoscimento delle attenuanti generiche e quello attinente al (positivo) riconoscimento della recidiva - non abbiano una base fattuale coincidente». Ma anche la valutazione dei medesimi elementi, ad avviso della Corte, dà comunque luogo ad operazioni non sovrapponibili in considerazione della diversità prospettica delle valutazioni dei precedenti penali cui chiamano, rispettivamente, l’art. 133 e l’art. 99 cod. pen. Mentre, infatti, la prima considera i precedenti penali per la loro attitudine a dare indicazioni in merito alla personalità del reo, quale ulteriore elemento di conoscenza che, in una considerazione globale (che quindi può vederlo recessivo), permette di apprezzare la gravità del reato, la seconda assume il precedente penale per l’accertamento della consapevolezza del disvalore dell’azione da parte del reo e della pericolosità sociale dello stesso.
Conclusivamente ritengono le Sezioni Unite che «la parziale diversità della nozione di precedente penale; l’insufficienza della sola presenza di precedenti penali a sostenere il giudizio sulla recidiva; il diverso modo in cui essi vengono in considerazione nel giudizio che nega le attenuanti generiche; la differente proiezione teleologica delle due valutazioni in comparazione rendono evidente che non può ravvisarsi alcun nesso di conseguenzialità logica e giuridica tra il diniego di riconoscimento della attenuanti generiche giustificato dalla presenza di precedenti penali e una statuizione di riconoscimento della recidiva«. Per contro, l’avverso orientamento «non coglie la profonda diversità che caratterizza l’uno e l’altro istituto, con le conseguenti difformità impresse ai giudizi che li concernono. Depaupera il giudizio concernente la recidiva, finendo con il ridurlo alla constatazione della presenza di pertinenti “precedenti penali”, che accidentalmente, in forza del reclutamento di mere formule di stile, possono anche risultare correlati retoricamente ad una maggiore colpevolezza per il fatto e ad una maggiore pericolosità sociale del reo, ma senza che il linguaggio possa far velo all’assenza di una reale indagine al riguardo».
Così risolta la questione espressamente rimessa al loro esame, le Sezioni Unite hanno altresì affrontato, seppure in via del tutto incidentale, la diversa questione relativa alle conseguenze da trarre in caso di recidiva che, in esito al giudizio di cui all’art. 69 cod. pen., sia stata valutata subvalente. Invero, tale nodo problematico, ad avviso del Supremo collegio, era rimasto irrisolto pur a seguito dell’intervento di Sez. U, n. 17 del 18/06/1991, Grassi, Rv. 187856, che ha affermato il principio secondo il quale «una circostanza aggravante deve essere ritenuta, oltre che riconosciuta, anche come applicata, non solo allorquando nella realtà giuridica di un processo viene attivato il suo effetto tipico di aggravamento della pena, ma anche quando se ne tragga - ai sensi dell’art. 69 c.p. - un altro degli effetti che le sono propri e cioè quello di paralizzare un’attenuante, impedendo a questa di svolgere la sua funzione di concreto alleviamento della pena irroganda per il reato. Invece, non è da ritenere applicata solo allorquando, ancorchè riconosciuta la ricorrenza dei suoi estremi di fatto e di diritto, essa non manifesti concretamente alcuno degli effetti che le sono propri a cagione della prevalenza attribuita all’attenuante la quale non si limita a paralizzarla, ma la sopraffà in modo che sul piano dell’afflittività sanzionatoria l’aggravante risulta tamquam non esset»; ma anche a seguito della successiva Sez. U, n. 31669 del 23/06/2016, Filosofi, Rv. 267044, con la quale le Sezioni Unite, chiamate a risolvere il contrasto ermeneutico in tema di applicabilità o meno dell’aumento di pena di cui all’art. 81 comma quarto, cod. pen., in caso di giudizio di equivalenza fra recidiva e circostanze attenuanti, hanno affermato che il limite di aumento di pena non inferiore ad un terzo di quella stabilita per il reato più grave – previsto dall’art. 81, comma quarto, cod. pen. nei confronti dei soggetti ai quali è stata applicata la recidiva di cui all’art. 99, comma quarto, cod. pen. - opera anche quando il giudice consideri la recidiva stessa equivalente alle riconosciute attenuanti.
La mancanza di una espressa pronuncia delle Sezioni Unite sul tema ha dunque determinato, proprio con specifico riferimento alla incidenza sulla prescrizione della recidiva ritenuta subvalente, l’affermarsi di posizioni divergenti nella giurisprudenza di legittimità che hanno indotto la Corte ad affrontare la questione. Mentre, infatti, secondo un primo orientamento, ai fini del computo del termine di prescrizione, deve ritenersi “applicata” la recidiva anche se considerata subvalente nel giudizio di bilanciamento con le attenuanti concorrenti (Sez. 7, n. 15681 del 13/12/2016 - dep. 2017, Esposito, Rv. 269669; Sez. 4, n. 8079 del 22/11/2016 - dep. 2017, D’Uva, Rv. 269129), per altro indirizzo giurisprudenziale la recidiva contestata all’imputato, ritenuta e non applicata dal giudice di merito perché considerata subvalente rispetto alla circostanza attenuante, non rileva nel calcolo del tempo necessario alla prescrizione del reato (Sez. 2, n. 53133 del 04/11/2016, Chen, Rv. 269139).
Ai fini della risoluzione della questione la Corte, pur considerando che il fatto stesso di aver operato il giudizio di bilanciamento presuppone il riconoscimento della recidiva anche quando la circostanza aggravante non riesca ad annullare l’attenuante in quanto subvalente all’esito del giudizio di comparazione, ha, tuttavia, rilevato che non può non considerarsi che l’aggravante in esame si caratterizza, tra le circostanze del reato, per essere produttiva non solo dell’escursione sanzionatoria, ma anche di effetti ulteriori, decisivi per la concreta conformazione del trattamento del condannato recidivo. Quando, infatti, il giudice di merito formula un giudizio di subvalenza, egli «esprime una valutazione di disfunzionalità della recidiva rispetto al programma di trattamento che comincia a delinearsi con la fissazione della pena da infliggere. Risulterebbe quindi in patente contraddizione con il giudizio che si cristallizza con la definitività della pronuncia attribuire in questi casi valore alla recidiva nel contesto di successive valutazioni che pure si riflettono sulla conformazione di quel programma». Ne consegue pertanto che, in caso di recidiva subvalente deve ritenersi che non solo non si produce l’effetto principale di aggravamento della pena ma non si producono nemmeno gli effetti indiretti dell’aggravante. Posto tale principio generale, ad avviso della Corte, non può, tuttavia, non considerarsi che sono riscontrabili casi in cui è espressamente previsto dal legislatore che si debba tener conto della recidiva senza avere riguardo al giudizio di bilanciamento ex art. 69 cod. pen., così come avviene proprio in tema di prescrizione laddove l’art. 157, terzo comma cod. pen. esclude espressamente che possa tenersi in considerazione il giudizio di cui all’art. 69 cod. pen. ai fini della determinazione della pena massima del reato. Ne consegue, pertanto, che ai fini del computo del termine di prescrizione del reato deve ritenersi rilevante la recidiva anche quando il giudizio di bilanciamento con le concorrenti circostanze attenuanti l’abbia vista subvalente.
Sentenze della Corte di cassazione
Sez. U, n. 17 del 18/6/1991, Grassi, Rv. 187856
Sez. 5, n. 37550 del 26/6/2008, Locatelli, Rv. 241945
Sez. 1, n. 26786 del 18/6/2009, Favuzza, Rv. 244656
Sez. 2, n. 18595 del 08/04/2009, Pancaglio, Rv. 244158
Sez. 2, n. 106 del 04/11/2009, dep. 2010, Marotta, Rv. 246045
Sez. 6, n. 43771 del 07/10/2010, Karmaoui, Rv. 248714
Sez. U, n. 35738 del 27/05/2010, Calibè, Rv. 247839
Sez. 5, n. 35852 del 07/06/2010, Di Canio, Rv. 248502
Sez. U, n. 20798 del 24/02/2011, Indelicato, Rv. 249664
Sez. 2, n. 35805 del 18/6/2013, Romano, Rv. 257298
Sez. 6, n. 38780 del 17/06/2014, Morabito, Rv. 260460
Sez. 6, n. 39849 del 16/9/2015, Palombella, Rv. 264483
Sez. 2, n. 2731 del 2/12/2015, dep. 2016, Conti, Rv. 265729
Sez. 2, n. 48293 del 26/11/2015, Carbone, Rv. 265382
Sez. 6, n. 16109 del 31/03/2016, Capacci
Sez. 2, n. 46297, del 13/07/2016, D’Onofrio
Sez. U,n. 31669 del 23/06/2016, Filosofi, Rv. 267044
Sez. 2, n. 53133 del 04/11/2016, Chen, Rv. 269139
Sez. 7, n. 15681 del 13/12/2016, Esposito, Rv. 269669
Sez. 4, n. 8079 del 22/11/2016, D’Uva, Rv. 269129
Sez. 4, n. 45833 del 19/07/2017, Lucchetti
Sez. 6, n. 54043, del 16/11/2017, S., Rv. 271714
Sez. U, n. 20808, del 25/10/2018, - dep. 2019 -, Schettino, Rv. 275319
Le Sezioni Unite, con sentenza n. 38954 del 30/05/2019, dep. 24/09/2019, De Martino, Rv. 276463 - 01, risolvendo il contrasto giurisprudenziale che si registrava sul punto, hanno affermato il seguente principio di diritto: “Il provvedimento di archiviazione per particolare tenuità del fatto ex art. 131-bis cod. pen. deve essere iscritto nel casellario giudiziale, ferma restando la non menzione nei certificati rilasciati a richiesta dell’interessato, del datore di lavoro e della pubblica amministrazione”.
Il Tribunale di Salerno, in funzione di giudice del casellario, ex art. 40 d.P.R. n. 313 del 2002, ordinava la cancellazione dal casellario giudiziale del provvedimento con cui il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Nocera Inferiore aveva disposto, ai sensi dell’art. 411, comma 1-bis, l’archiviazione per tenuità del fatto nei confronti di soggetto indagato del reato di cui all’art. 650 cod. pen., in quanto trattandosi di provvedimento non definitivo non era soggetto ad iscrizione.
Il procuratore della repubblica proponeva ricorso per cassazione chiedendo l’annullamento del provvedimento in ragione del fatto che l’art. 3, comma 1, lett. f), d.P.R. n. 303 del 2002 non prevede alcuna preclusione all’iscrizione dei tutti i provvedimenti dichiarativi la non punibilità del fatto ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen., all’evidente scopo di consentire al giudice di valutare, in eventuali procedimenti futuri, l’abitualità del reato ostacolo all’applicazione della causa di non punibilità.
La Prima sezione della Corte investita del ricorso, ravvisando la sussistenza di un contrasto, già segnalato dall’Ufficio del Massimario con relazione n. 89/2017, rimetteva la questione alle Sezioni Unite.
Il Primo Presidente Aggiunto fissava per la trattazione del ricorso in camera di consiglio l’udienza del 30 maggio 2019 in ordine alla questione: Se il provvedimento di archiviazione per particolare tenuità del fatto ex art. 131-bis cod. pen. debba essere iscritto nel casellario giudiziale, ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. f), d. P.R. 14 novembre 2002, n. 313, come modificato dall’art. 4 d.lgs. 16 marzo 2015, n. 28.
Nel suo percorso motivazionale, la Prima sezione evidenziava le criticità dell’opzione ermeneutica secondo la quale il provvedimento di archiviazione per particolare tenuità del fatto non è soggetto ad iscrizione nel casellario giudiziale, non rientrando nella categoria dei provvedimenti giudiziari definitivi menzionati dall’art. 3, comma 1, lett. f), d.P.R. 14 novembre 2002, n. 313, (Sez. 5, n. 3817 del 15/01/2018, Pisani, Rv. 272282; Sez. 3, n. 30685 del 26/01/2017, Vanzo, Rv. 270247; Sez. 1, n. 31600 del 25/06/2018, Matarrese, Rv. 273523).
Ad avviso del collegio rimettente, l’esclusione dalla categoria dei provvedimenti iscrivibili del provvedimento di archiviazione per particolare tenuità del fatto precluderebbe al titolare dell’azione penale di “avere un quadro completo e veritiero sulla personalità del soggetto”, con pregiudizio per le successive valutazioni del requisito della non abitualità del comportamento e con una ricaduta anche in termini di efficienza del sistema processuale e di inutile dispendio di attività, in quanto il pubblico ministero, al fine di conservare traccia della declaratoria di non punibilità, non avrebbe più anticipato alla fase delle indagini la richiesta ex art. 131-bis cod. pen., rinviandola ad una successiva all’esercizio dell’azione penale.
Per i giudici, poi, la circostanza che il provvedimento di archiviazione per particolare tenuità non ha natura di accertamento del fatto ed è privo di efficacia extra-penale non rappresenta un limite alla iscrizione sia perché tale natura è propria di ogni provvedimento di archiviazione, sia perché si tratta di un provvedimento destinato a definire il procedimento per “carenza di elementi idonei a giustificare il proseguimento delle indagini”, salva la possibilità di riapertura, da ritenersi “meramente teorica”, condizionata dall’esigenza di nuove investigazioni (Sez. U, n. 9 del 22/03/2000, Finocchiaro, Rv. 216004; Corte cost., n. 27 del 1995).
Ancora, l’esclusione del provvedimento di archiviazione per particolare tenuità dal novero di quelli iscrivibili nel casellario non sarebbe esente da dubbi di costituzionalità per violazione dell’art. 3 Cost. quanto al profilo della disparità di trattamento con i destinatari del proscioglimento per particolare tenuità disposto con sentenza suscettibile di iscrizione.
Ad escludere l’iscrivibilità nel casellario giudiziale del provvedimento di archiviazione ex art. 131-bis cod. pen. non soccorrerebbe neanche il tenore letterale dell’art. 3, comma 1, lett. f) d.P.R. n. 303/2002 che prevede l’iscrizione dei “provvedimenti giudiziari definitivi che hanno prosciolto l’imputato o dichiarato non luogo a procedere per difetto di imputabilità, o disposto una misura di sicurezza, nonché quelli che hanno dichiarato la non punibilità ai sensi dell’articolo 131-bis del codice penale” sia perchè alla congiunzione “nonché”, contenuta nella norma, deve attribuirsi un valore additivo e non riduttivo del catalogo dei provvedimenti iscrivibili, sia perché lo stesso testo normativo prevede l’iscrizione al casellario giudiziale di altri provvedimenti non definitivi, come quello di messa alla prova ex art. 168-bis cod. pen.
Le Sezioni unite, nel dare risposta al quesito, hanno, in primo luogo, ripercorso il quadro normativo di riferimento sotteso al contrasto, rammentando che:
- il d.P.R. n. 313 del 14 novembre 2002, “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di casellario giudiziale, di casellario giudiziale europeo, di anagrafe delle sanzioni amministrative dipendenti da reato e dei relativi carichi pendenti”, ha sostituito la disciplina contenuta nel codice di rito e nel R.D. 18 giugno 1931, n. 778, facendo confluire nel sistema diverse banche dati tra cui quella del casellario giudiziale, definito, all’art. 2, lettera a) del d.P.R. n. 313 del 2002 (come modificato dal d.lgs. 12 maggio 2016, n. 74), “registro nazionale che contiene l’insieme dei dati relativi a provvedimenti giudiziari e amministrativi riferiti a soggetti determinati”;
- nel catalogo dei provvedimenti di cui all’art. 3, comma 1, d.P.R. n. 313 del 2002, di cui è disposta l’iscrizione nel casellario giudiziale, in origine dedicato esclusivamente ai provvedimenti definitivi di proscioglimento o di non luogo a procedere per difetto di imputabilità ed a quelli applicativi di una misura di sicurezza, sono stati inseriti, a seguito delle modifiche introdotte con il d.lgs. n. 28 del 2015, anche i provvedimenti con i quali viene dichiarata la non punibilità per particolare tenuità del fatto ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen.;
- l’art. 5, comma 2, d.P.R. n. 313 del 2002, lett. d-bis) prevede, trascorsi dieci anni dalla loro pronunzia, l’eliminazione dal casellario giudiziale delle iscrizioni dei provvedimenti giudiziari che hanno dichiarato la non punibilità per particolare tenuità del fatto;
-gli artt. 24 e 25 del Testo Unico prevedono la non menzione dei suddetti provvedimenti giudiziari, rispettivamente, nel certificato generale ed in quello penale rilasciati a richiesta dell’interessato;
- l’art. 1, comma 18, legge 23 giugno 2017, n. 103, nel conferire la delega al Governo per l’ulteriore revisione dello statuto del casellario giudiziale, ha previsto sia l’eliminazione dell’iscrizione dei provvedimenti applicativi della causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto, sia l’attribuzione al pubblico ministero del compito di verificare, prima che venga emesso il provvedimento, la circostanza che il fatto addebitato sia occasionale. La delega, attuata con d. l.gs. 2 ottobre 2018, n. 122, pur non avendo disposto nulla sul punto, cosicchè i provvedimenti per particolare tenuità vanno iscritti, ha tuttavia eliminato la dicotomia tra certificato generale e certificato penale del casellario, senza incidere sul contenuto del certificato unico rilasciato all’interessato ed al datore di lavoro - che rimane quello stabilito dall’art. 24 comma 1 del d.P.R. 313 del 2002 per il certificato generale, con esclusione della menzione dei provvedimenti adottati ex art. 131-bis cod. pen.-, e riformulato l’art. 28 del d.P.R. stabilendo per le pubbliche amministrazioni il rilascio, a seconda delle necessità, del certificato generale o del certificato “selettivo” escludendo, in entrambi i casi, qualsiasi richiamo ai provvedimenti giudiziari che dichiarino la non punibilità per particolare tenuità del fatto, esattamente come previsto nei certificati rilasciati all’interessato ed ai privati.
Le Sezioni semplici hanno costantemente negato l’iscrivibilità nel casellario giudiziale dei provvedimenti di archiviazione adottati ex art. 131-bis cod. pen.
Sul punto, Sez. 3, n. 30685 del 26/01/2017, Vanzo, Rv. 270247, nel ritenere insussistente l’interesse dell’indagato a ricorrere avverso il provvedimento di archiviazione adottato ai sensi dell’art. 411, comma 1-bis, cod. proc. pen. in ragione della sua non iscrivibilità nel casellario giudiziale, ha sottolineato che, poiché l’applicazione dell’art. 131-bis, cod. pen. presuppone l’accertamento di responsabilità dell’indagato per il fatto reato contestato, avrebbe potuto dubitarsi della compatibilità costituzionale e convenzionale della disposizione relativa all’archiviazione per particolare tenuità del fatto qualora dal provvedimento fosse scaturito l’effetto pregiudizievole dell’iscrizione nel casellario in ragione del fatto che l’interessato né può rinunziare alla causa di non punibilità né può impugnare il merito della decisione dinanzi ad una giurisdizione superiore (in senso analogo Sez. 3, n. 45601 del 27/06/2017, Benetti; Sez. 3, n. 46379 del 26 giugno 2017, Gobbo; Sez. 3, n. 47832 del 3/11/2016, dep. 2017, Rinaldi; Sez. 1, n. 53618 del 27/09/ 2017, Di Lauro).
Sez. 5, n. 3817 del 15/01/2018, Pisani, Rv. 272282, affermato il principio di diritto secondo il quale “Il provvedimento di archiviazione per particolare tenuità del fatto, non rientrando nella categoria dei provvedimenti giudiziari definitivi di cui all’art. 3, comma 1, lett. f), d.P.R. 14 novembre 2002, n. 313, non è soggetto ad iscrizione nel casellario giudiziale”, ha evidenziato in motivazione la natura “non definitiva” del provvedimento a fronte della possibilità per il pubblico ministero di ottenere una riapertura delle indagini ex art. 414 cod. proc. pen.
Sez. 1, n. 31600 del 25/06/2018, Matarrese, Rv. 273523, ribadita l’inammissibilità per carenza d’interesse dell’impugnazione del provvedimento di archiviazione ex art. 131-bis cod. pen., ha dichiarato illegittimo l’ordine di iscrizione nel casellario adottato dal giudice in quanto provvedimento autonomo rispetto a quello di archiviazione, la cui adozione è di competenza esclusiva dell’ufficio del casellario.
Al consolidato orientamento giurisprudenziale si è contrapposta Sez. 5, n. 40293 del 15/06/2017, Serra, Rv. 271010 che, affermato il principio di diritto secondo cui “Il provvedimento di archiviazione per particolare tenuità del fatto, pronunciato ai sensi dell’art. 411, comma 1, cod. proc. pen., è nullo se emesso senza l’osservanza della speciale procedura prevista al comma 1-bis di detta norma, non essendo le disposizioni generali contenute negli artt. 408 e ss. cod. proc. pen. idonee a garantire il necessario contraddittorio sulla configurabilità della causa di non punibilità prevista dall’art. 131-bis cod. pen.”, ha in motivazione osservato che l’instaurazione del contraddittorio nelle forme di cui all’art. 411, comma 1-bis, cod. proc. pen. è condizione ineludibile per la validità del provvedimento di archiviazione in quanto “non completamente liberatorio” e come tale destinato ad essere iscritto nel casellario giudiziale.
Tale ultimo inciso, presupponendo una interpretazione della modifica apportata all’art. 3, comma 1, lettera f) del d.P.R. n. 313 del 2002 in termini diametralmente opposti a quella condivisa dall’indirizzo giurisprudenziale maggioritario, ha generato il contrasto che, ad avviso della Corte, non ha carattere di assoluta novità.
Invero già Sez. U, n. 13681 del 25/02/2016, Tushaj, Rv. 266591, dopo aver affermato il principio di diritto secondo cui “Ai fini del presupposto ostativo alla configurabilità della causa di non punibilità prevista dall’art. 131-bis cod. pen., il comportamento è abituale quando l’autore, anche successivamente al reato per cui si procede, ha commesso almeno due illeciti, oltre quello preso in esame”, avevano evidenziato ha evidenziato che l’ambito applicativo dell’art. 131-bis cod. pen. è definito non solo dalla gravità del reato desunta dalla pena edittale, ma anche dal profilo soggettivo relativo alla non abitualità del comportamento, come definito dal terzo comma dell’art. 131-bis cod. pen. che accomuna al delinquente abituale, professionale e per tendenza l’autore di “più reati della stessa indole”.
Affrontando il problema della rilevanza ai fini della valutazione della non abitualità del comportamento, anche di reati commessi dal medesimo autore ma ritenuti non punibili ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen., la sentenza “Tushaj” ha, sia pur incidentalmente, evidenziato l’opportunità che il provvedimento di archiviazione sia iscritto nel casellario così da escludere il rischio di concedere la non punibilità più volte nei confronti della stessa persona.
Le Sezioni Unite, nel risolvere il contrasto, hanno esplicitamente dichiarato di discostarsi, in continuità con la linea interpretativa tracciata dalla sentenza “Tushaj” e ripresa dalla sentenza “Serra”, dall’orientamento maggioritario secondo il quale i provvedimenti di archiviazione per particolare tenuità del fatto non debbano essere iscritti nel casellario giudiziario.
I giudici hanno indicato come primo approdo del loro percorso argomentativo, il tenore letterale dell’art. 3, comma 1, lett. f) del d.P.R. n. 313 del 2002, come modificato dal d.lgs. n. 28 del 2015, che non prevede affatto la circostanza che sono iscrivibili nel casellario solo i provvedimenti che in via definitiva hanno dichiarato la non punibilità ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen., evidenziando che, al contrario, con la locuzione “nonché”, introdotta nell’art. 3 d.P.R. n. 313 del 2002, il Legislatore ha inteso ampliare il contenuto del catalogo dei provvedimenti giudiziari senza richiederne il carattere definitivo.
Ad avviso della Corte, un elemento idoneo a perimetrare l’estensione dell’obbligo di iscrizione al casellario si rinviene proprio nella Relazione governativa di illustrazione del d.lgs. n. 28 del 2015, nella parte in cui chiarisce la necessità della iscrizione di tutti i provvedimenti che dichiarano la non punibilità per tenuità del fatto sul presupposto che l’istituto, prevedendo la “non abitualità” del comportamento come requisito di applicabilità, richiede “un sistema di registrazione delle decisioni che accertano la particolarità tenuità che comprenda ovviamente anche i provvedimenti di archiviazione adottati per tale causa”.
Ulteriore elemento decisivo in favore dell’iscrizione nel casellario giudiziale dei provvedimenti di archiviazione ex art 131-bis cod. pen. è desumibile dall’art. 2 del d.P.R. n. 313 del 2002, che, alla lett. f), definisce “provvedimenti giudiziari” la sentenza, il decreto penale e ogni altro provvedimento emesso dall’autorità giudiziaria e, alla lett. g), indica come “provvedimenti giudiziari definitivi” solo quelli divenuti irrevocabili o, comunque, non più soggetti ad impugnazione con strumenti diversi dalla revocazione, operando una netta distinzione tra le due categorie.
Su tale premessa, le Sezioni unite hanno evidenziato che il d. lgs. n. 28 del 2015 è intervenuto anche sugli artt. 24 e 25 d.P.R. n. 313 del 2002 che individuano il contenuto dei certificati del casellario, da un lato vietando la menzione di quei “provvedimenti giudiziari che hanno dichiarato la non punibilità ai sensi dell’articolo 131-bis del codice penale” e dall’altro estendendo agli stessi l’obbligo di eliminazione delle iscrizioni trascorsi dieci anni dalla loro pronuncia.
Secondo la Corte tali modifiche, evocando i “provvedimenti giudiziari” e non solo quelli “definitivi”, presuppongono l’avvenuta iscrizione nel casellario di tutti i provvedimenti assunti per particolare tenuità del fatto, compresi quelli di archiviazione, “dissolvendo così l’ambiguità del periodo aggiunto dalla stessa novella all’art. 3, comma 1, lettera f) del Testo Unico”.
A conclusione del suo percorso argomentativo, la Corte ha inteso sgombrare il campo da ogni eventuale riserva di compatibilità costituzionale e convenzionale della decisione assunta, escludendo:
la violazione dell’art. 24 Cost., in ragione del fatto che l’art. 411, comma 1-bis, cod. proc. pen. consente all’indagato di dispiegare le proprie difese dinanzi al giudice investito della richiesta di archiviazione per tenuità del fatto;
l’incompatibilità dell’iscrizione al casellario giudiziale con l’art. 2 del Protocollo n. 7 alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, in quanto norma formulata solo con riferimento alle dichiarazioni di colpevolezza o alle condanne, tra le quali non rientra la valutazione pregiudiziale sulla sussistenza del fatto e sulla sua attribuibilità all’indagato compiuta in sede di archiviazione.
Inoltre, nel dare risposta al quesito, la Corte ha ribadito che la funzione dell’iscrizione dei provvedimenti di archiviazione ex art. 131-bis cod. pen. nel casellario giudiziale è solo quella di memorizzazione, all’interno del circuito giudiziario, della loro adozione, fermo restando il dictat della non menzione nei certificati rilasciati a richiesta dell’interessato, del datore di lavoro e della pubblica amministrazione.
Sentenze della Corte di cassazione
Sez. U, n. 9 del 22/03/2000, Finocchiaro, Rv. 216004
Sez. U, n. 13681 del 25/02/2016, Tushaj, Rv. 266591
Sez. 3, n. 47832 del 3/11/2016, dep. 2017, Rinaldi
Sez. 3, n. 30685 del 26/01/2017, Vanzo, Rv. 270247
Sez. 5, n. 40293 del 15/06/2017, Serra, Rv.271010
Sez. 3, n. 45601 del 27/06/2017, Benetti
Sez. 3, n. 46379 del 26/06/2017, Gobbo
Sez. 1, n. 53618 del 27/09/2017, Di Lauro
Sez. 5, n. 3817 del 15/01/2018, Pisani, Rv. 272282
Sez. 1, n. 31600 del 25/06/2018, Matarrese, Rv. 273523
Sentenze della Corte Costituzionale
Corte cost., sent. n. 27 del 1995
La riforma dei reati contro la pubblica amministrazione, introdotta con la legge 6 novembre 2012, n. 190, si caratterizzava per l’integrale riformulazione della fattispecie prevista dall’art. 318 cod. pen., originariamente costituita sulla falsariga della corruzione propria, da cui differiva principalmente perché l’oggetto del mercimonio era un atto conforme ai doveri d’ufficio, anziché ad essi contrario, come previsto dall’art. 319 cod. pen.
Intervenendo sulla dicotomia atto contrario-atto conforme ai doveri d’ufficio, la riformulazione dell’art. 318 cod. pen. ha svincolato la condotta illecita dal rapporto sinallagmatico tra la prestazione del privato ed il compimento di uno specifico atto, ritenendo di per sé sufficiente a ledere l’interesse tutelato la dazione effettuata in ragione dell’esercizio della funzione del pubblico agente.
Nelle intenzioni del legislatore, il novellato art. 318 cod. pen. era destinato a recepisce quell’esigenza, ampiamente rappresentata anche in precedenti proposte di riforma della materia, di svincolare il reato di corruzione dal sinallagma con la commissione di un atto specifico – sia esso conforme o contrario ai doveri d’ufficio – andando a sanzionare quelle forme di indebita commistione tra interesse pubblico e privato che inevitabilmente si ingenerano nel momento in cui il pubblico agente riceve utilità dal privato, in ragione della qualità e delle funzioni svolte. In tal modo il legislatore della riforma intendeva attingere le forme di corruzione sistemica, basate non già sulla compravendita di un atto individuato, bensì sulla acquisizione di una generalizzata disponibilità del pubblico ufficiale ad assecondare le esigenze del corruttore.
L’eliminazione di qualsiasi riferimento all’atto oggetto di scambio, con conseguente valorizzazione del solo esercizio delle funzioni, ingenera una asimmetria tra l’elemento oggettivo della corruzione ex art. 318 c.p. e la corruzione propria, fattispecie che in precedenza si distinguevano non già per la natura dell’indebito scambio di utilità tra pubblico ufficiale e privato, bensì per la maggior gravità dell’atto – conforme o contrario ai doveri d’ufficio – oggetto dell’accordo corruttivo.
Attualmente le due previsioni di reato non si pongono più in rapporto di specialità reciproca, bensì la corruzione per l’esercizio delle funzioni finisce per essere l’ipotesi generale di corruzione, rispetto alla quale la corruzione propria assume il ruolo di norma speciale, nel cui ambito l’elemento di differenziazione è individuabile nel compimento dell’atto contrario ai doveri d’ufficio. Il dato comune che lega le due fattispecie di reato è la promessa o dazione di utilità da parte del privato in favore del pubblico agente nell’ambito di un accordo corruttivo, ma solo la corruzione propria richiede anche il compimento di un atto contrario ai doveri d’ufficio; nel reato di corruzione per l’esercizio della funzione, invece, è il semplice raggiungimento dell’accordo illecito che lede di per sé il bene giuridico tutelato, anche se il pubblico agente non dovesse compiere alcun atto in adempimento del suddetto accordo.
A fronte della riformulazione dell’art. 318 cod. pen. e della conseguente cesura con l’originaria distinzione tra corruzione propria ed impropria, la prima risposta che la giurisprudenza di legittimità ha dato all’individuazione dei tratti differenziali tra i due reati è stata tendenzialmente quella di ampliare l’ambito applicativo della corruzione propria, fino a farvi rientrare anche casi nei quali – come richiesto dal novellato art. 318 cod.pen. – non risultava la commissione di atti contrari ai doveri d’ufficio.
Il riformulato art. 318 cod. pen. è stato interpretato sulla base della pregressa elaborazione giurisprudenziale che aveva notevolmente ampliato il concetto di atto contrario ai doveri d’ufficio, facendo rientrare nella nozione di atto di ufficio una vasta gamma di comportamenti umani, effettivamente o potenzialmente riconducibili all’incarico del pubblico ufficiale, e quindi non solo il compimento di atti di amministrazione attiva, ma anche la formulazione di richieste o di proposte, l’emissione di pareri ed addirittura anche le condotte meramente materiali o il compimento di atti di diritto privato (Sez. 6, n. 38698 del 26/9/2006, Moschetti, Rv. 234991).
Più in generale, si riteneva che ai fini della prova del delitto di corruzione propria, l’individuazione dell’attività amministrativa oggetto dell’accordo corruttivo può ben limitarsi al genere di atti da compiere, sicché tale elemento oggettivo deve ritenersi integrato allorché la condotta presa in considerazione dall’illecito rapporto tra privato e pubblico ufficiale sia individuabile anche genericamente, in ragione della competenza o della concreta sfera di intervento di quest’ultimo, così da essere suscettibile di specificarsi in una pluralità di atti singoli non preventivamente fissati o programmati, ma pur sempre appartenenti al genus previsto (Sez. 6, n. 30058 del 16/05/2012, Di Giorgio, Rv. 253216).
In buona sostanza, la giurisprudenza formatasi ante riforma, tendeva chiaramente a svalutare il requisito della contrarietà dell’atto ai doveri d’ufficio, sia facendo rientrare nella nozione di “atto” anche meri comportamenti, sia ritenendo che l’indeterminatezza dell’atto da compiere non impediva la configurabilità del reato di corruzione propria.
A seguito della rimodulazione dei reati di corruzione e della conseguente introduzione di una specifica figura di reato che sanziona anche gli accordi corruttivi rispetto ai quali risulti del tutto indeterminata la natura e tipologia di atto da compiere, con la conseguente impossibilità di affermarne la contrarietà ai doveri d’ufficio, la giurisprudenza si era tendenzialmente limitata a riproporre gli orientamenti formatisi in un contesto normativo nel frattempo mutato.
La difficile revisione dei rapporti tra corruzione propria e per l’esercizio delle funzioni, peraltro, ha dato luogo a difficoltà interpretative legate anche all’esigenza di salvaguardare la proporzionalità della pena rispetto alla gravità dell’offesa.
La questione si è posta con specifico riguardo alle figure del cosiddetto funzionario “a libro paga”, ricorrente in tutti quei casi in cui l’accordo corruttivo si sostanzia in una generalizzata svendita della funzione in favore del privato, cui consegue un rapporto corruttivo stabile e protratto nel tempo, senza che sia sempre individuabile lo specifico atto contrario ai doveri d’ufficio posto in essere in adempimento dell’accordo.
Nell’esaminare la giurisprudenza formatasi in materia è bene sottolineare come una pluralità di pronunce, pur richiamando il concetto di “asservimento delle funzioni” quale motivo della configurabilità della corruzione propria, hanno in effetti fatto riferimento ad ipotesi nelle quali vi era stato l’accertamento della commissione di atti contrari ai doveri d’ufficio (Sez. 6, n. 40237 del 07/07/2016, Giangreco, Rv. 267634; Sez. 6, n. 15959 del 23/2/2016, Caiazzo, Rv. 266735; Sez. 6, n. 8211 del 11/2/2016, Ferrante, Rv. 266510; Sez. 6, n. 6056 del 10/2/2015, Staffieri, Rv. 262333). In simili situazioni, invero, il richiamo all’asservimento delle funzioni piuttosto che alla messa a libro paga del pubblico agente, descrivono delle mere modalità di esecuzione del reato di corruzione propria continuato. A ben vedere, infatti, lì dove è provata la commissione di un atto contrario ai doveri d’ufficio, la circostanza che la corruzione si sia articolata mediante una stabile e continuativa remunerazione del pubblico agente rappresenta semplicemente una modalità di esecuzione del reato, eventualmente rilevante ai fini dell’apprezzamento della sua gravità, ma non va direttamente ad incidere sulla struttura dell’illecito e sulla conseguente individuazione degli elementi costitutivi.
Maggiormente problematica è la fattispecie nella quale, pur risultando l’asservimento del pubblico ufficiale, manca la prova dello specifico atto – contrario ai doveri d’ufficio – siccchè si pone la questione di stabilire se la mera condotta di stabile assoggettamento del pubblico agente rispetto agli interessi del privato possa o meno dar luogo al più grave reato di cui all’art.319 c.p.
In tal senso depone parte della giurisprudenza di legittimità, favorevole a valorizzare in primo luogo l’elemento della maggior offensività, rispetto all’interesse al buon andamento ed imparzialità della p.a., che consegue all’asservimento del pubblico ufficiale agli interessi del privato.
Fin da una delle prime pronunce intervenute in materia, la Cassazione ha affermato che «il generico riferimento, anticipato dalla preposizione finalistica “per”, all’esercizio delle funzioni e dei poteri del pubblico ufficiale espresso dal nuovo art. 318 c.p. non consente una immediata decifrabilità delle concrete forme o espressioni che il mercimonio di funzioni e poteri possa assumere in concreto. Da un altro lato appare ben singolare che una disciplina normativa (quella introdotta dalla legge n. 190/2012) tesa ad armonizzare le disposizioni sanzionatone di sempre più diffusi fenomeni di corruzione e a renderne più agevole l’accertamento e la perseguibilità, offra il fianco a possibili rilievi in termini di graduazione dell’offensività, di ragionevolezza (art. 3 Cost.) e di proporzionalità della pena (art. 27 Cost.). Rilievi non privi di spessore allorché si consideri che la condotta di un pubblico ufficiale che compia per denaro o altra utilità (“venda”) un solo suo atto contrario all’ufficio (ad esempio rilasci un permesso di accesso in z.t.l. non consentito, ecc.) sia punito con una cospicua pena oscillante tra i quattro e gli otto anni di reclusione (come da novellato incremento delle pene dell’art. 319 c.p.). Laddove un pubblico funzionario stabilmente infedele, che ponga l’intera sua funzione e i suoi poteri al servizio di interessi privati per un tempo prolungato, con contegni di infedeltà sistematici e in relazione ad atti contrari alla funzione non predefiniti o non specificamente individuabili ex post (in caso diverso si rifluirebbe, come è ovvio, nella previsione dell’art. 319 c.p.), si vedrebbe oggi -secondo la tesi del ricorrente- irrazionalmente punito con una pena assai più mite, quale quella prevista dal riformato art. 318 c.p. (da uno a cinque anni di reclusione). E ciò malgrado appaiano in tutta evidenza indiscutibili la ben maggiore offensività e il più elevato disvalore giuridico e sociale della seconda condotta, integrata appunto dall’asservimento costante e metodico dell’intera funzione del pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi privati» (Sez. 6, n. 9883 del 28/2/2014, Terenghi, Rv. 258521).
Nel solco di tale pronuncia si inseriscono anche quelle successive che hanno ribadito come ai fini della integrazione del delitto di cui all’art. 319, non è necessaria l’individuazione di uno specifico atto contrario ai doveri d’ufficio per il quale il pubblico ufficiale abbia ricevuto somme di denaro o altre utilità non dovute, a condizione che, dal suo comportamento, emerga comunque un atteggiamento diretto in concreto a vanificare la funzione demandatagli e dunque a violare i doveri di fedeltà, di imparzialità e di perseguimento esclusivo degli interessi pubblici che sullo stesso incombono (Sez. 6, n. 15959 del 23/02/2016, Caiazzo, Rv. 266735).
Si è ritenuto che configura il reato di corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio - e non il più lieve reato di corruzione per l’esercizio della funzione di cui all’art. 318 cod. pen. - lo stabile asservimento del pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi, che si traduca in atti, che, pur formalmente legittimi, in quanto discrezionali e non rigorosamente predeterminati nell’an, nel quando o nel quomodo, si conformino all’obiettivo di realizzare l’interesse del privato nel contesto di una logica globalmente orientata alla realizzazione di interessi diversi da quelli istituzionali (Sez. 6, n. 3606 del 24/01/2017, Bonanno, Rv. 269347). In tal caso, pertanto, il parametro della contrarietà ai doveri d’ufficio è stato ravvisato nel fatto stesso che tra il pubblico agente ed il privato sia intercorso un accordo corruttivo, essendo in tale condotta insito lo sviamento dei poteri pubblicistici.
In una successiva pronuncia si è ribadito, infatti, che è configurabile il reato di corruzione propria nel caso in cui lo stabile asservimento del pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi, si traduca in atti, che, pur formalmente legittimi, in quanto discrezionali e non rigorosamente predeterminati, si conformano all’obiettivo di realizzare l’interesse del privato nel contesto di una logica globalmente orientata alla realizzazione di interessi diversi da quelli istituzionali (Sez. 6, n. 46492 del 15/09/2017, Argenziano, Rv. 271383; nello stesso senso si veda anche Sez. 6, n. 29267 del 05/04/2018, Baccari, Rv. 273448; Sez. 6, n. 51946 del 19/04/2018, Cavazzoli, Rv. 274507).
L’orientamento allo stato prevalente, pertanto, si è mostrato tendenzialmente favorevole a depotenziare l’elemento della indeterminatezza degli atti, come pure a ritenere che la formale conformità ai doveri d’ufficio, soprattutto nei casi di atti discrezionali, non costituisca un limite alla configurabilità della corruzione propria.
Tuttavia, nel corso dell’ultimo anno si sono registrate plurime pronunce che, pur non ponendosi in aperto contrasto con l’orientamento prevalente, tendono a dare una lettura dell’art. 318 cod. pen. meno angusta, avendo individuato con più precisione i margini di differenziazione rispetto alla corruzione propria.
In particolare, è meritevole di segnalazione la sentenza resa da Sez. 6, n. 4486 del 11/12/2018 (dep. 29/1/2019), Palozzi, Rv. 274984, così massimata «In tema di corruzione, lo stabile asservimento del pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi realizzato attraverso l’impegno permanente a compiere od omettere una serie indeterminata di atti ricollegabili alla funzione esercitata, integra il reato di cui all’art. 318 cod. pen. e non il più grave reato di corruzione propria di cui all’art. 319 cod. pen., salvo che la messa a disposizione della funzione abbia prodotto il compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio. (In motivazione, la Corte ha precisato che nel caso della corruzione per l’esercizio della funzione la dazione indebita pone in pericolo il corretto svolgimento dei pubblici poteri, mentre ove la dazione è sinallagmaticamente connessa al compimento di uno specifico atto contrario ai doveri d’ufficio si realizza la concreta lesione del bene giuridico protetto)».
In motivazione, la Corte ha preso spunto dalla modifica normativa e dalla diversa modulazione delle due ipotesi di corruzione descritte agli artt. 318 e 319 cod. pen., sottolineando come per la prima ipotesi il baricentro del reato non è più l’atto da compiere o già compiuto, ma l’esercizio stesso della funzione pubblica.
Il nuovo criterio di punibilità risulta pertanto ancorato al mero “esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri”, a prescindere dal fatto che tale esercizio assuma carattere legittimo o illegittimo e, quindi, senza che sia necessario accertare l’esistenza di un nesso tra la dazione indebita e uno specifico atto dell’ufficio.
Nell’ottica della riforma, l’art. 318 cod. pen. sanziona la violazione di un generale divieto per il pubblico funzionario di ricevere denaro o altre utilità in ragione della funzione pubblica esercitata; l’aver sanzionato la mera “remunerazione” della funzione consente di prevenire la compravendita degli atti d’ufficio e garantire al contempo il corretto funzionamento e l’imparzialità della pubblica amministrazione.
In tale contesto, pertanto, la nuova formulazione dell’art. 318 cod. pen. ha anticipato la soglia delle condotte penalmente rilevanti, salvo restando che il limite esterno del nuovo reato di cui all’art. 318 cod. pen., rispetto alla più grave fattispecie della corruzione propria, resta pur sempre l’ipotesi in cui sia accertato un nesso strumentale tra la dazione-promessa e il compimento di un determinato o comunque ben determinabile atto contrario ai doveri d’ufficio.
La riformulata fattispecie di cui all’art. 318 cod. pen. è stata, pertanto, qualificata come un reato di pericolo presunto, contrapponendosi alla tradizione connotazione del reato di corruzione propria quale reato di evento, individuabile nel compimento dell’atto contrario ai doveri d’ufficio.
Osserva la citata sentenza che il delitto descritto all’art. 318 cod. pen., anche nella formulazione post riforma, è ancora una ipotesi meno grave di corruzione, ma mentre nella precedente versione la fattispecie era pur sempre costruita come reato di danno (la violazione del principio di correttezza e del dovere di imparzialità del pubblico ufficiale), connesso alla compravendita di un atto d’ufficio (purché non contrario ai doveri di ufficio, nel senso che la parzialità non doveva trasferirsi sull’atto, segnandolo di connotazioni privatistiche, restando pertanto l’unico possibile per attuare interessi esclusivamente pubblici), nella nuova tipizzazione il legislatore ha inteso ricomprendere tutte le forme di “compravendita della funzione”, non connesse causalmente al compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio.
La nuova fattispecie ha inteso superare i limiti applicativi della previgente normativa codicistica, così da colmare lo iato tra diritto positivo e diritto vivente formatosi in ordine al concetto di atto di ufficio, punendo tutte quelle ipotesi di mercimonio connesse causalmente all’esercizio di pubblici funzioni o poteri, costituenti forme di generica messa a disposizione del pubblico funzionario.
Seguendo tale impostazione, la differenza tra la corruzione propria e per l’esercizio delle funzioni, da un lato, presuppone la mancata individuazione di uno specifico e determinato atto contrario ai doveri d’ufficio, e, dall’altro, consente di attrarre nell’alveo della previsione dell’art. 318 cod. pen. anche quelle ipotesi di asservimento del pubblico agente che non siano sfociate nel compimento di atti individuabili.
La sentenza in commento ha recepito quell’orientamento giurisprudenziale emerso all’indomani della riforma e che era stato tendenzialmente accantonato dalla giurisprudenza successiva.
Ci si riferisce, in particolare, alla sentenza resa da Sez. 6, n. 49226 del 25/09/2014, Chisso, Rv. 261352, secondo cui « lo stabile asservimento del pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi realizzato attraverso l’impegno permanente a compiere od omettere una serie indeterminata di atti ricollegabili alla funzione esercitata, integra il reato di cui all’art. 318 cod. pen. (nel testo introdotto dalla legge 6 novembre 2012, n. 190), e non il più grave reato di corruzione propria di cui all’art. 319 cod. pen., salvo che la messa a disposizione della funzione abbia prodotto il compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio, poichè, in tal caso, si determina una progressione criminosa nel cui ambito le singole dazioni eventualmente effettuate si atteggiano a momenti esecutivi di un unico reato di corruzione propria a consumazione permanente».
Anche tale condotta, al pari di quella più grave prevista dall’art. 319 cod. pen., si connota per la lesione dei doveri di fedeltà ed imparzialità gravanti sul pubblico agente, tuttavia si colloca ad un livello di offensività meno rilevante proprio perché non sfocia nella sicura commissione di atti contrari ai doveri d’ufficio.
Proprio per tale ragione, afferma la più recente sentenza resa da Sez.6, n.4486 del 2019, cit., che «Il discrimine tra le due ipotesi corruttive resta pertanto segnato dalla progressione criminosa dell’interesse protetto in termini di gravità (che giustifica la diversa risposta punitiva) da una situazione di pericolo (il generico asservimento della funzione) ad una fattispecie di danno, in cui si realizza la massima offensività del reato (con l’individuazione di un atto contrario ai doveri d’ufficio). Nel primo caso la dazione indebita, condizionando la fedeltà ed imparzialità del pubblico ufficiale che si mette genericamente a disposizione del privato, pone in pericolo il corretto svolgimento della pubblica funzione; nell’altro, la dazione, essendo connessa sinallagmaticamente con il compimento di uno specifico atto contrario ai doveri d’ufficio, realizza una concreta lesione del bene giuridico protetto, meritando quindi una pena più severa».
Nel solco della sentenza n. 4486 del 2019, si sono inserite ulteriori pronunce che hanno applicato i medesimi principi, riconoscendo la sussistenza del reato di cui all’art. 318 cod. pen. a fronte di condotte connotate dalla dazione di denaro volta a creare un rapporto privilegiato e di favore per il privato.
In particolare, si segnala Sez. 6, n. 32401 del 20/4/2019, Monaco, Rv. 276801 così massimata « Integra il reato di corruzione per l’esercizio della funzione, previsto dall’art. 318 cod. pen., lo stabile asservimento del pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi, realizzato attraverso l’impegno permanente a compiere od omettere una serie indeterminata di atti ricollegabili alla funzione esercitata. (Fattispecie in cui risultava la dazione di denaro, in favore di un appartenente alla Guardia di Finanza, da parte di soggetti interessati ad avere informazioni circa gli accertamenti fiscali svolti a carico delle proprie società, ma non anche l’effettivo compimento di atti contrari ai doveri d’ufficio)».
Altra pronuncia, resa da Sez. 6, n. 13406 del 13/2/2019, Carollo, Rv. 275428, ha anche sottolineato come la corruzione per l’esercizio delle funzioni è configurabile anche qualora il generico “interessamento” del pubblico agente rispetto alle vicende riguardanti il privato corruttore sia destinato ad esplicarsi con riguardo ad un settore diverso da quello di appartenenza, sul quale l’agente possa esercitare un’ingerenza anche di mero fatto. Il caso esaminato dalla sentenza riguardava la condotta di un appartenente alla Guardia di Finanza che si interessava, presso i colleghi addetti ad un diverso settore del medesimo corpo, al fine di verificare se ed a quali condizioni fosse possibile addivenire alla definizione di una sanzione amministrativa, suggerendo al privato le modalità da seguire per estinguere la sanzione e ricevendo in cambio una somma di denaro ed altre regalie di non modico valore.
Sottolineava la Corte come, nel caso di specie, era emersa non una generica raccomandazione fatta nei confronti di altro pubblico ufficiale, operante in un ambito strutturalmente diverso, bensì l’estensione in via di fatto della sfera operativa dei due pubblici ufficiali coinvolti in un settore comunque ricompreso nell’ambito funzionale proprio della Guardia di Finanza.
Un’ipotesi similare è stata oggetto della decisione assunta da Sez. 6, n. 33838 del 26/4/2019, Massobrio, Rv. 276783, con la quale si è affermato che «Integra il reato di corruzione di cui all’art. 318 cod. pen. la promessa o dazione indebita di somme di danaro o di altre utilità in favore del pubblico ufficiale che sia sinallagmaticamente connessa all’esercizio della funzione, a prescindere dal compimento di uno specifico atto e della sua contrarietà o meno ai doveri del pubblico agente. (Fattispecie relativa alla occasionale dazione in favore di militari della guardia di finanza della somma di 750,00 euro ciascuno e di altre regalie da parte di imprenditori soggetti a periodiche verifiche ispettive)».
In motivazione, la Corte ha precisato che è corretta la qualificazione in termini di corruzione per l’esercizio delle funzioni, trattandosi di ipotesi che si fonda sull’indebita locupletazione del munus publicum e sulla correlazione causale tra dazione o promessa e funzione svolta, a prescindere dal fatto che questa si tramuti nell’effettivo compimento di un atto di cui possa affermarsi la contrarietà o meno ai doveri del soggetto agente.
Ne consegue che il reato di cui all’art. 318 cod. pen. colpisce il generico mercimonio della funzione, ove nel fatto illecito non risulti dedotto specificamente un atto che si concretizzi in uno specifico ed individuabile sviamento dall’esercizio della pubblica funzione.
L’evoluzione della giurisprudenza in tema di rapporti tra corruzione propria e per l’esercizio della funzione, contraddistinta dal tendenziale recupero di quest’ultima fattispecie ritenuta idonea a sanzionare le condotte di generica “messa a libro paga” del pubblico agente, si colloca pienamente in linea con le modifiche ai limiti edittali dell’art. 318 cod. pen.
L’art. 1, lett. n) della legge 9 gennaio 2019, n. 3 ha innalzato la pena minima e massima dell’art. 318 cod. pen., così che dall’originale forbice edittale variante tra un minimo di un anno al massimo di sei anni di reclusione, si è passati all’attuale previsione della pena minima di tre anni e di quella massima di otto anni.
Si tratta di un incremento significativo che contribuisce ad avvicinare la corruzione per l’esercizio della funzione alla più grave fattispecie della corruzione propria, per la quale l’art. 319 cod. pen. prevede la pena variabile tra sei e dieci anni di reclusione.
L’inasprimento del trattamento sanzionatorio previsto dall’art. 318 cod. pen. si innesta nel panorama giurisprudenziale, nel tentativo di escludere che una rigorosa applicazione della fattispecie meno grave ingeneri una sproporzione della risposta penale a fronte di condotte di offensività similare.
Che questa sia stata l’intenzione del Legislatore è direttamente desumibile dalla Relazione al Disegno di legge n. 1189, lì dove si parte dalla premessa secondo cui la fattispecie prevista dall’art. 318 cod. pen. punisce non solo le condotte di corruzione tradizionalmente ascrivibili al paradigma della corruzione “impropria” per atto conforme ai doveri d’ufficio, ma anche i casi di corruzione sistemica, nella quale l’accettazione della dazione o della promessa non si correla alla realizzazione di un singolo atto determinato o individuabile, bensì alla generalità degli atti propri della funzione.
Affinché le condotte di corruzione sistemica, rispetto alle quali non sia stata individuata la commissione di specifici atti contrari ai doveri d’ufficio, vengano attratte nell’alveo della corruzione ex art. 318 cod. pen., è apparso imprescindibile un adeguamento della risposta repressiva alla concreta portata offensiva delle condotte riconducibili a tale fattispecie di reato, armonizzando il trattamento sanzionatorio – pur mantenendo una congrua differenziazione di pene – rispetto a quanto previsto per i reati di corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio.
In conclusione, quindi, l’innalzamento delle pene previste per la corruzione per l’esercizio della funzione dovrebbe consentire l’attuazione dei principi di graduazione, ragionevolezza e proporzionalità della pena, in rapporto all’ampio spettro di gravità che la corruzione per l’esercizio della funzione può assumere, in tal modo superando la principale spinta che aveva indotto la giurisprudenza ad accogliere la nuova figura di reato di cui all’art. 318 cod. pen. con estrema riserva.
Nella Relazione, infine, si sottolinea come il potenziamento della risposta punitiva offerta dall’art. 318 cod. pen. dovrebbe favorire il ricorso ad una norma che ha risvolti processuali di assoluto favore per la pubblica accusa.
Posto che il reato di corruzione per l’esercizio della funzione non richiede lo specifico accertamento dell’atto compiuto dal pubblico agente nell’ambito del rapporto sinallagmatico con il corruttore, ne discende una semplificazione probatoria che dovrebbe determinare un risultato positivo nell’ottica dell’accrescimento dell’efficacia della risposta penale al fenomeno corruttivo.
Sentenze della Corte di cassazione
Sez. 6, n. 33838 del 26/4/2019, Massobrio, Rv. 276783
Sez. 6, n. 13406 del 13/2/2019, Carollo, Rv. 275428
Sez. 6, n. 4486 del 11/12/2018 (dep. 29/1/2019), Palozzi, Rv. 274984
Sez. 6, n. 51946 del 19/04/2018, Cavazzoli, Rv. 274507
Sez. 6, n. 29267 del 05/04/2018, Baccari, Rv. 273448
Sez. 6, n. 46492 del 15/09/2017, Argenziano, Rv. 271383
Sez. 6, n. 3606 del 24/01/2017, Bonanno, Rv. 269347
Sez. 6, n. 40237 del 07/07/2016, Giangreco, Rv. 267634
Sez. 6, n. 15959 del 23/2/2016, Caiazzo, Rv. 266735
Sez. 6, n. 8211 del 11/2/2016, Ferrante, Rv. 266510
Sez. 6, n. 6056 del 10/2/2015, Staffieri, Rv. 262333
Sez. 6, n. 9883 del 28/2/2014, Terenghi Rv. 258521
Sez. 6, n. 49226 del 25/09/2014, Chisso, Rv. 261352
Sez. 6, n. 30058 del 16/05/2012, Di Giorgio, Rv. 253216
Tra le questioni affrontate dalla Suprema Corte nell’anno decorso, in tema di peculato, risalta ancora l’individuazione dei tratti distintivi tra l’ipotesi “base”, prevista dall’art. 314, comma primo, cod. pen., incentrata sulla condotta appropriativa, e l’autonoma figura criminosa del peculato di uso, di cui al successivo comma.
Alcune pronunce attengono, in particolare, a condotte di uso improprio da parte del pubblico agente di beni strumentali, la cui qualificazione giuridica non è ad oggi univocamente definita nella giurisprudenza di legittimità, tanto che l’Ufficio del Massimario ha ritenuto opportuna una segnalazione di contrasto interpretativo, sia pure con riferimento all’uso illegittimo dell’autovettura di servizio.
Altri arresti, di particolare interesse, hanno riguardato ipotesi di peculato riferibili a soggetti privati, correlate al mancato riversamento all’avente diritto di somme percepite nell’interesse dello Stato ovvero di enti pubblici, nel cui ambito si pongono problematiche inerenti alla qualifica soggettiva dell’agente ed al momento perfezionativo del delitto.
Ancora, si segnalano decisioni che hanno compiutamente ricostruito la figura dell’incaricato di pubblico servizio, aderendo alla concezione funzionalistico-oggettiva, con interessanti applicazioni in tema di società in house, nell’ambito di rapporti di natura concessoria.
Da ultimo, alcune pronunce hanno espresso opzioni ricostruttive non convergenti con riferimento alle spese effettuate da pubblici amministratori in violazione degli specifici obblighi di rendicontazione contabili, in tesi pure riconducibili al paradigma del peculato.
Tra le decisioni in tema di peculato che hanno delineato i caratteri distintivi tra l’ipotesi “base” prevista dall’art. 314, comma primo, cod. pen., costruita sulla condotta appropriativa del bene o danaro altrui, e la figura del peculato d’uso, di cui al successivo comma, incentrata invece sull’uso solo momentaneo della res, Sez. 6, n. 23824 del 26/04/2019, Bifolco, Rv. 276070, affronta il tema dalla prospettiva dell’oggettività giuridica dei reati in comparazione, ponendo in risalto la differente offensività delle relative condotte.
Al riguardo, giova premettere che la Suprema Corte aderisce all’impostazione teorica, condivisa anche dalla dottrina dominante, che ritiene la natura plurioffensiva dei reati contro la pubblica amministrazione, distinguendo un bene giuridico “di categoria”, comune a tutte le fattispecie incriminatrici, ed un bene giuridico specifico, proprio delle singole ipotesi.
Su tale base, la giurisprudenza maggioritaria assume che peculato e peculato d’uso sono reati posti a presidio, da un lato, del buon andamento dell’attività della pubblica amministrazione (sotto i diversi profili della legalità, efficienza, probità ed imparzialità), dall’altro, del patrimonio della amministrazione o di terzi, ma finisce con l’attribuire carattere recessivo a tale secondo bene-interesse, tant’è che, in linea con l’insegnamento della pur risalente Sez. U. n. 38691 del 25/06/2009, Caruso, Rv. 244190, ritiene che l’eventuale mancanza della lesione al patrimonio non sia ostativa alla configurabilità del reato, purché la condotta sia lesiva quantomeno dell’interesse al buon andamento della pubblica amministrazione, nelle sue varie declinazioni, come innanzi richiamate.
La sentenza in commento, in particolare, evidenzia come peculato e peculato d’uso siano reati – oltre che autonomi, data la loro incompatibilità ontologica – connotati da una carica di disvalore molto diversa, sostanziandosi il primo nella definitiva sottrazione del bene alla sfera di dominio o di controllo della pubblica amministrazione, l’altro in un uso temporalmente limitato – “momentaneo”, nella dizione legislativa - del bene stesso, cui faccia seguito l’immediata (ed ex ante già preventivata) restituzione.
La differente strutturazione delle fattispecie a confronto, sul piano oggettivo, spiega perché i beni-interessi come sopra individuati non assumano in esse la medesima rilevanza; ed appare altresì evidente come, sul profilo dell’offensività non possa non influire anche il differente gradiente di gravità delle condotte (evincibile dalla previsione di una cornice sanzionatoria assai meno severa per il peculato d’uso).
Ed invero, solo nel peculato l’atto appropriativo integra ex se la condotta tipica ed è valutato, per la sua gravità, come offensivo del preminente interesse alla legalità dell’operato dei pubblici agenti, di modo che resta ininfluente l’entità del danno patrimoniale arrecato all’amministrazione e neppure si richiede la verifica del pregiudizio causato alla funzione o al servizio pubblico.
Al contrario, l’entità del danno patrimoniale e/o la compromissione della funzione o del servizio pubblico tornano ad assumere rilevanza quando si versi in ipotesi di peculato d’uso, la cui condotta presenta una caratterizzazione, sul piano dell’offensività decisamente più sfumata, giacché il bene viene solo momentaneamente distolto dalla sua destinazione pubblicistica, per essere impiegato a fini personali.
La pronuncia, che giunge a ritenere configurabile l’ipotesi del comma 1 anche in presenza dell’appropriazione di un minimo quantitativo di carburante, rievoca, nella sostanza, la posizione cristallizzata da Sez. U., n. 19054 del 20/12/2012, Vattani, Rv. 255296, pronuncia particolarmente pregnante per la qualificazione giuridica delle condotte dei pubblici funzionari che utilizzano, a fini personali, beni strumentali della pubblica amministrazione.
Intervenute a dirimere il contrasto di giurisprudenza sull’ inquadramento dell’uso improprio del telefono d’ufficio da parte del pubblico agente - avvenuto al di fuori dei casi d’urgenza ed in mancanza delle autorizzazioni che avrebbero potuto consentirlo – le Sezioni Unite sancirono che è solo il prodursi di un apprezzabile danno al patrimonio della pubblica amministrazione o di terzi o, in alternativa, di una concreta lesione alla funzionalità dell’ufficio, che permette di sussumere la condotta in questione nel delitto di peculato d’uso; ciò perché, in un’ottica di valorizzazione dell’offensività in concreto – ossia di selezione dell’area di rilevanza penale delle condotte, ispirata al sistema valoriale della Costituzione – assumono rilievo i soli fatti di uso improprio temporaneo che siano produttivi di conseguenze economicamente e funzionalmente significative.
È tuttora controversa nella giurisprudenza della Corte la qualificazione giuridica dell’uso indebito da parte del pubblico agente dell’autovettura di servizio.
Si evidenziano al riguardo due differenti opzioni interpretative.
Aderisce, nella sostanza, alla distinzione di cui a Sez. U., n. 19054 del 20/12/2012, Vattani, Rv. 255296 (già richiamata sopra), incentrata sul parametro dell’offensività, Sez. 5, n. 37186 del 01/07/2019, Ciancarella, Rv. 277004, la quale, posta la premessa che l’uso occasionale ed episodico del veicolo è inquadrabile nel più lieve delitto del peculato d’uso, ha concluso che, nel caso sottoposto all’attenzione della Corte, la condotta - consistita nell’accompagnamento di un amico da parte di un appartenente alla polizia di Stato, avvenuto con l’autovettura di servizio, per un tempo brevissimo e senza deviazioni dal percorso prestabilito per la sorveglianza di obiettivi sensibili - non potesse essere ritenuta integrativa del reato, non comportando alcuna compromissione della funzionalità dell’azione amministrativa, né alcun danno patrimoniale apprezzabile.
Nel delineare il perimetro applicativo tra le fattispecie in comparazione, ulteriori decisioni puntano invece il fuoco sul profilo della durata della condotta, valorizzando il dato letterale.
In tal senso Sez. 6, n. 26330 del 21/05/2019, Pisacane, Rv. 276218, ha affermato che appare necessario riconoscere al peculato d’uso un’applicazione specifica e ristretta alle ipotesi di uso che sia effettivamente “momentaneo” della cosa, mentre vanno riferite al paradigma normativo del peculato, nella ipotesi-base di cui al comma primo dell’art. 314 cod. pen., condotte di utilizzo di un bene mobile per un consistente periodo di tempo e per finalità extra-istituzionali, che si svolgano al di fuori di ogni controllo sulla sua destinazione pubblicistica.
Sicché, nella specifica vicenda all’attenzione della Corte, l’uso reiterato nel tempo, per fini privati, dell’autovettura di servizio - nella specie ascritto ad un sindaco, che se ne era avvalso per attendere ai concomitanti impegni di parlamentare nonché, in un’occasione, per raggiungere l’aeroporto durante il viaggio di nozze – è stato qualificato in termini di peculato.
Con riferimento al profilo, più squisitamente processuale, della ripartizione dell’onere probatorio, la Corte ha richiamato, nella medesima decisione, spunti ricostruttivi espressi dalla giurisprudenza precedente ed affermato che la condotta di uso a fini privati del veicolo di servizio è vietata in modo assoluto e che l’esclusiva destinazione del bene ad uso pubblico va presunta, in assenza di provvedimenti che consentano deroghe – le quali devono tuttavia essere puntuali e documentate - rispetto a tale impiego.
È espressione del medesimo indirizzo Sez. 6, n. 39832 del 10/07/2019, Zappulla, Rv. 277066, che ha ritenuto integrativa del delitto di peculato la condotta di un dirigente scolastico il quale aveva fatto un uso continuativo e sistematico dell’autovettura di servizio per finalità attinenti alla vita privata. Con articolata motivazione, la sentenza ribadisce che la condotta di appropriazione identifica quella di chi eserciti sul bene di pertinenza pubblica un potere “uti dominus” non corrispondente al titolo per il quale la cosa è nel suo possesso o nella sua disponibilità, nel che in definitiva si realizza il duplice momento della “espropriazione”, intesa quale negazione dell’altrui diritto sul bene, e della “impropriazione”, intesa quale instaurazione di una relazione con esso dell’agente.
Ricalcando il percorso logico argomentativo di Sez. U. Vattani, la decisione in commento evidenzia altresì, in punto di distinzione tra i reati a confronto: a) che l’espunzione dal testo dell’art. 314, comma primo, cod. pen., della condotta distrattiva, ad opera della novella di cui alla legge n. 86 del 1990, non ha determinato puramente e semplicemente il transito di tutte le condotte di distrazione poste in essere dal pubblico agente nell’area di rilevanza penale dell’abuso di ufficio ex art. 323 cod. pen., dovendosi apprezzare la specificità della singola fattispecie; b) che quel che rileva, ai fini della configurabilità del peculato, è la sottrazione di risorse dalla destinazione pubblica ed il loro impiego per il soddisfacimento di interessi privati, propri dello stesso agente o di terzi, mentre la norma incriminatrice del peculato d’uso, connotata dall’elemento intenzionale dell’uso momentaneo, in funzione specializzante, della res, descrive una condotta intrinsecamente diversa da quella del primo comma, giacchè detto uso, seguito dalla restituzione – la quale, programmata ab initio, deve seguire alla cessazione dell’uso momentaneo senza sostanziali discontinuità - non determina la definitiva soppressione della sua destinazione originaria.
Le pronunce sin qui richiamate si inscrivono, a ben vedere, nel medesimo indirizzo ermeneutico di cui a Sez. 6, n. 13038 del 10/03/2016, Bertin, Rv. 266191, Sez. 6, n. 53974 del 15/11/2016, Freda e altri, Rv. 268588, nonché Sez. 3, n. 57517 del 27/09/2018, Romano, Rv. 274679, tutte fautrici della configurabilità, in simili condotte, del peculato e relative, rispettivamente: 1) ad un caso in cui l’agente si era appropriato dell’autovettura di servizio e ne aveva fatto un utilizzo quotidiano, continuativo e sistematico, nonché protratto per un considerevole lasso temporale, per finalità private e, comunque estranee a quelle proprie dell’ufficio ricoperto; 2) all’uso di un veicolo di proprietà pubblica gestito dall’assegnatario con criteri personalistici, per finalità del tutto extra-istituzionali, per un periodo prolungato e al di fuori di ogni controllo, al punto che non appariva possibile stabilire se e in qual misura esso rimanesse destinato al soddisfacimento di finalità pubbliche; 3) ad un caso in cui l’utilizzo dell’autovettura di servizio, sebbene limitato alla percorrenza di tragitti di pochi chilometri, aveva avuto una rilevantissima reiterazione, tale da cagionare all’ente pubblico un notevole danno economico, in carenza di qualsivoglia provvedimento amministrativo che legittimasse l’impiego privato del mezzo.
Su un diverso versante si pone, invece, Sez. 6, n. 39102, 26/04/2019 Varrassi, Rv. 276836, per la quale, tenuto conto sia del dato legislativo, che del profilo dell’offensività della condotta, l’utilizzo temporaneo del veicolo di servizio da parte del pubblico agente per il trasferimento non autorizzato dall’abitazione all’ufficio, cui faccia seguito l’immediata restituzione della stessa, integra piuttosto il delitto di peculato d’uso.
Tanto la decisione ha ritenuto sul rilievo che il sintagma “uso momentaneo” non equivalga ad “uso istantaneo”, bensì solo temporalmente limitato, così da comportare una sottrazione della cosa alla sua destinazione istituzionale, che tuttavia non compromette in misura considerevole la funzionalità della pubblica amministrazione. Su questo sostrato argomentativo si è affermato che la reiterazione nel tempo della condotta illecita permette di ravvisare, semmai, una pluralità di reati di peculato d’uso, ex art. 314, comma secondo, cod. pen., suscettibili di essere unificati nel vincolo della continuazione, ma non integra un’effettiva interversione del possesso tale da implicare il mutamento della qualificazione giuridica del fatto in peculato ex art. 314, comma primo, cod. pen.
Sotto altro profilo, la stessa decisione ha puntualizzato che il consumo del carburante e dell’olio, come pure l’usura del veicolo, non rilevano autonomamente ai fini della qualificazione giuridica, bensì concorrono a determinare l’entità del danno patrimoniale cagionato dal reato all’ente proprietario del veicolo, siccome determinativi dell’illegittimo trasferimento a carico dell’ente stesso della spesa da sostenersi per l’impiego scorretto dei beni in dotazione.
La decisione dà continuità a quanto affermato dalla più risalente Sez. 3, n. 26616 dell’08/05/2013, M., Rv. 255619, per la quale il carattere momentaneo della sottrazione non viene meno, e non è soprattutto significativo di interversione del titolo del possesso, neanche in ipotesi di reiterazione degli indebiti utilizzi.
Sulla stessa linea ricostruttiva si attestano inoltre Sez. 6, n. 14040 del 29/01/2015, Soardi, Rv. 262974, la quale, condiviso l’auspicio, espresso da più parti, di una lettura costituzionalmente orientata della previsione incriminatrice, aveva ribadito come l’abuso del possesso non possa essere assimilato alla sua stabile interversione in dominio e che la ratio storica dell’introduzione della fattispecie in esame era stata in effetti proprio quella di reprimere anche in ambito penale, oltre che disciplinare, il diffuso ed ingravescente fenomeno dell’utilizzo improprio dei beni della pubblica amministrazione (in termini rispetto a quanto affermato da Sez. 6, n. 39770 del 27/05/2014, P.C. in proc. Giordano, Rv. 260458); ed ancora Sez. 6, n. 5206 del 15/12/2017, S. e altro, Rv. 272178, la quale aveva ritenuto configurabile il delitto di peculato d’uso con riferimento alla condotta dell’appartenente ad una forza di polizia che aveva utilizzato l’auto di servizio per incontrarsi con una prostituta.
In sintesi, per i fautori di tale orientamento, la reiterazione nel tempo dell’uso non refluisce in mutamento della qualificazione giuridica, quando ciascun segmento di azione sia temporalmente limitato, essendo invece possibile l’unificazione dei più reati di peculato d’uso nel vincolo della continuazione, qualora siano espressivi di un disegno finalistico unitario.
Non poche decisioni hanno poi affrontato la questione del peculato commesso da privati per mancato riversamento di danaro di pertinenza dello Stato o di enti pubblici all’avente diritto.
Si tratta di pronunce che hanno puntualizzato a quali condizioni il privato che percepisca tali importi assuma la veste di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio e quale sia il momento consumativo della condotta.
Sez. 6, n. 27707 del 26/03/2019, Norsa, Rv. 276220, ha ravvisato la qualifica di incaricato di pubblico servizio in capo al privato gestore di una struttura ricettiva residenziale, in relazione all’attività di riscossione dai clienti delle somme dovute al comune a titolo di imposta di soggiorno. Nel tessuto motivazionale della decisione, la Corte ha spiegato che la responsabilità del versamento che è attribuita a tale soggetto ne assimila la posizione a quella di un agente contabile esercente attività ausiliaria nei confronti dell’ente impositore, in quanto in tutto strumentale all’esecuzione nel concreto dell’obbligazione tributaria; e poiché le somme percepite entrano nella disponibilità dell’amministrazione già al momento dell’incasso, costituisce condotta appropriativa ogni imputazione di dette somme alla copertura di voci di altra natura, che esulino dalla suindicata finalità pubblicistica (in tal senso, si veda anche Cass. Sez. 6, n.32058 del 17/5/2018, Locane Pantaleone, Rv. 273446).
Parimenti, Sez. 2, n. 32033 del 21/03/2019, Bern, in corso di massimazione, ha ritenuto che rivesta la qualifica di pubblico ufficiale il commissario liquidatore di una società cooperativa in fallimento, ma limitatamente agli atti compiuti nell’esercizio delle funzioni liquidatorie, nulla ostando a che detta qualifica coesista con quella, eminentemente privatistica, di componente del consiglio di amministrazione della società; sicchè gli atti dispositivi di somme di denaro posti in essere dal commissario liquidatore a proprio profitto, quando si trovi ad operare nella diversa veste di vice presedente del consiglio di amministrazione della medesima società, ben possono integrare, nel concorso degli ulteriori presupposti, la fattispecie di appropriazione indebita ex art. 646 cod. pen. e non invece quella di peculato.
Dunque, tra i due ruoli, dunque, l’uno pubblicistico, l’altro privatistico, pur se eterogenei, non sussiste relazione di incompatibilità, né di reciproca esclusione.
Nell’ambito di questa categoria di pronunce, Sez. 6, n. 31920 del 06/06/2019, Orsi, Rv. 276805, affronta la questione del momento consumativo del peculato realizzato in forma di omesso versamento, da parte dal concessionario del servizio di ricevitoria del lotto, delle giocate riscosse per conto dell’Azienda Autonoma Monopoli di Stato. Illustrate le normative speciali che disciplinano le cadenze temporali della riscossione, prevedendo sanzioni sia penali che amministrative nel caso di pagamento tardivo, la Corte ritiene che il reato di peculato, in forma omissiva, si consumi allo spirare del termine indicato nella intimazione che l’amministrazione è tenuta ad inviare al gestore del servizio in regime di concessione per sollecitare il deposito degli introiti, perché in tal momento può dirsi certificata l’interversione del titolo del possesso del danaro.
Da quanto precede scaturisce, ad avviso della Corte, che il peculato è in rapporto di progressione criminosa con il reato ex art.8 della legge 19 aprile 1990, n. 85, avente ad oggetto il versamento tardivo (id est eseguito oltre il termine del giovedì della settimana successiva a quella della raccolta delle giocate), che è correlato ad una situazione iniziale ed ancora equivoca quanto alla destinazione degli importi, di tal che detto reato, meno grave, resta assorbito in quello di peculato.
Sez. 6, n. 24878 del 06/03/2019, Gueli, in corso di massimazione, ha riconosciuto la qualifica di pubblico agente anche in capo al presentatore dei titoli cambiari che sia stato delegato dal notaio, o nominato su richiesta di questi dal presidente del tribunale, per elevare il protesto dei titoli rimasti insoluti alla scadenza.
Nella vicenda al vaglio, in particolare, l’imputato aveva omesso di riversare sui conti intestati al notaio, entro il termine di scadenza stabilito, le somme di denaro che gli erano state corrisposte dai debitori in pagamento degli effetti cartolari.
La decisione fonda sull’assunto che a tale attività debba riconoscersi natura pubblicistica, agendo il presentatore nella qualità di longa manus del notaio, ovvero come rappresentante dello stesso nei rapporti con i debitori protestabili. In realtà – osserva al Corte - l’intera sequenza procedurale dell’attività che culmina nel protesto, ovvero nel pagamento ritardato da parte del debitore del titolo rimasto insoluto alla scadenza, come pure tutte le fasi successive, sebbene costituite da atti la cui intrinseca valenza è di interesse privato, sono caratterizzate dalla pubblicità, intesa come tutela della fede pubblica nelle transazioni commerciali, e ciò allo scopo di tutelare la posizione di chiunque abbia rapporti economici con il debitore protestato o accettante il titolo pagato dopo la scadenza; di tal che, è stato valutato non risolutivo l’argomento dedotto dalle difese secondo cui, una volta eseguita la presentazione dei titoli e redatto l’atto di protesto a cura del notaio, che va sottoscritto anche dal presentatore, questi esaurirebbe le attività che — alla stregua della legge 12 giugno 1973, n. 349, regolativa della materia - lo vedono equiparato ad un pubblico ufficiale.
Sotto il diverso profilo del momento perfezionativo della fattispecie criminosa, la Corte ha spiegato che, in caso di riscossione di denaro per conto della pubblica amministrazione, il denaro diviene immediatamente di proprietà pubblica, sicchè l’agente non è autorizzato a confonderlo con il proprio patrimonio, sia pure con l’intento di assumere l’obbligazione di erogare all’amministrazione l’equivalente, e neppure a scambiarlo con titoli di credito di sua pertinenza, perché simili comportamenti avrebbero valenza appropriativa, almeno nell’ipotesi in cui il lasso temporale trascorso tra la riscossione ed il versamento ecceda quello ragionevolmente necessario in relazione alla complessità delle operazioni da compiere.
Merita segnalare, perché tratteggiano nel dettaglio la qualifica dell’incaricato di pubblico servizio, quale soggetto attivo del delitto di peculato, due arresti giurisprudenziali intervenuti nell’anno appena passato.
In ordine cronologico, il primo - Sez. 6, n. 39434 del 26/03/2019, Paventi, - ha ricostruito i caratteri della qualifica di incaricato di pubblico servizio ex art. 357 cod. pen., spiegando come essa presupponga lo svolgimento di un’attività di natura intellettiva, disciplinata da norme di diritto pubblico, che si situi ad un livello intermedio tra la pubblica funzione – rispetto alla quale è in rapporto di complementarietà/accessorietà, ma di cui non condivide i poteri autoritativi e certificativi - e le prestazioni d’opera meramente materiale.
In accoglimento della teoria oggettivo-funzionalistica, alla quale la Corte mostra di aderire, rimangono dunque irrilevanti a tali fini tanto la natura dell’ente, quanto la tipologia del rapporto di impiego con esso; sicchè, poste tali premesse, è stato disposto l’annullamento con rinvio della condanna pronunciata nei confronti di un conducente di automezzi pesanti di proprietà dell’ente-Provincia, in relazione agli indebiti prelievi di carburante effettuati con le schede in dotazione, essendosi valutato insufficiente l’accertamento operato nel giudizio di merito sull’attività svolta dal soggetto, ed irrilevante a fini qualificatori la sola natura pubblica dell’ente-Provincia, alle cui dipendenze egli operava.
Alcune importanti puntualizzazioni in relazione alla qualifica soggettiva del soggetto attivo della condotta sono state svolte, in seguito, da Sez. 6, n. 42952 del 17/09/2019, Morriale, Rv. 277209, con riferimento alla figura del legale rappresentante di una società in house, gerente servizi aeroportuali in regime di concessione dall’E.N.A.C.
Nella specifica vicenda processuale erano stati utilizzati dall’imputato fondi di pertinenza della società, in conformità alle previsioni di statuto, al fine di ottemperare al pagamento di sanzioni per contravvenzioni al codice della strada elevate nei suoi confronti, ma non era stata adempiuta la conseguente obbligazione di rimborso (la norma statutaria contemplava al riguardo l’obbligo della rivalsa, che non era stata attivata e che avrebbe dovuto comportare la detrazione di un importo equivalente dalle retribuzioni mensili corrisposte al contravventore).
Nella decisione la Corte, muovendo dall’identico presupposto della decisione che precede, per cui costituisce pubblico servizio ex art. 357 cod. pen. un’attività disciplinata da norme di diritto pubblico, seppure non connotata dai poteri tipici della pubblica funzione, ha ritenuto che la condotta al vaglio non fosse inquadrabile nel delitto in oggetto, non già perché una società per azioni non possa astrattamente svolgere un servizio pubblico, ma perché non poteva ravvisarsi in concreto una condotta di natura appropriativa.
Osta, in particolare, alla configurabilità del peculato, nel caso esaminato dalla Corte, la circostanza che la condotta appropriativa presuppone, se non il possesso, quantomeno la disponibilità giuridica del danaro o del bene mobile, ossia il potere giuridico in capo all’agente di adottare un atto dispositivo di quel bene, avvalendosi della posizione gerarchica o funzionale rivestita all’interno dell’apparato amministrativo in cui egli è inserito, laddove, nella vicenda processuale, si era piuttosto realizzato un mero inadempimento rispetto al debito assunto nei confronti della società, non avendo il legale rappresentante della società mai avuto la disponibilità, come innanzi intesa, del danaro che aveva utilizzato per onorare la sanzione amministrativa.
Vanno anche ricordate, in questa sede, alcune pronunce inerenti al filone delle cd. “spese pazze”, ossia delle spese operate da pubblici amministratori, non corredate da adeguata rendicontazione contabile, pure astrattamente riconducibili allo schema giuridico del peculato.
Tra queste Sez. 6, n. 21166 del 09/04/2019, Marino, Rv. 276067, ha annullato senza rinvio la condanna per peculato, in tesi consistito nell’indebito utilizzo da parte di un sindaco della carta di credito, che gli era stata assegnata in dotazione dall’amministrazione comunale per acquistare servizi di ristorazione, e che sarebbe stata invece utilizzata a fini privati, con appropriazione delle dotazioni finanziarie del relativo capitolo di spesa.
La sentenza si sviluppa secondo una duplice direttrice.
Da un lato, punto focale del decisum è la ripartizione degli oneri dimostrativi, quanto all’appropriazione del denaro pubblico ed alla sua destinazione a finalità privatistiche, quali elementi costitutivi oggettivi della condotta.
Ad avviso del Collegio decidente, la relativa prova non può che fare carico all’accusa, secondo lo statuto costituzionale del processo penale fondato sulla presunzione di non colpevolezza (art. 27, comma 2, Cost.), la quale non configura solo un dovere, con valenza meramente deontologica, in capo all’organo inquirente, ma concretizza un insuperabile criterio processuale di valutazione della prova penale e, pertanto, un canone di legittimità del giudizio stesso.
Sulla base di tali postulati, la Corte ha dunque affermato che la dimostrazione della destinazione a fini privati non può essere desunta dalla genericità delle indicazioni o dalla mera inadeguatezza ed incompletezza dei giustificativi contabili (che potrebbero al più radicare una responsabilità di natura amministrativo/contabile del pubblico ufficiale) e che, se è vero che l’interversione del possesso del denaro può desumersi in via inferenziale, è anche vero che l’eventuale prova logica deve fondare su “situazioni altamente significative”.
A titolo esemplificativo, possono dunque venire in rilievo l’assoluta carenza di atti che permettano di collegare l’impiego del denaro alle funzioni istituzionali dell’ente, ovvero la sistematica elusione di specifiche regole disciplinanti le modalità di adempimento dell’obbligo di rendicontazione, ma tali situazioni sono state entrambe escluse nella vicenda processuale all’esame della Corte.
Sotto altro profilo, comunque correlato al precedente, la pronuncia accoglie un’ampia latitudine del concetto di “legittime spese di rappresentanza”, alla stregua del quale valutare la condotta del pubblico agente. Secondo quanto già precisato dalla pregressa giurisprudenza di legittimità (si veda, da ultimo, Sez. 6, n. 36827 del 04/07/2018, M., Rv. 274023), tali devono ritenersi le erogazioni correlate alla realizzazione di un fine istituzionale dell’ente, per essere strumentali a soddisfare la funzione rappresentativa esterna dell’ente stesso, ma anche quelle dirette ad accrescere il prestigio della sua immagine e la diffusione delle relative attività istituzionali.
Al medesimo orientamento si ascrive Sez. 6, n. 38245 del 03/07/2019, De Luca, Rv. 276712, in relazione ad una vicenda di omessa rendicontazione del cd “contributo unificato” pervenuto nella disponibilità del ricorrente, in qualità di presidente di un gruppo della Assemblea regionale sicula, contributo non restituito al termine della legislatura senza che egli avesse fornito alcun documento fiscale, contabile o extracontabile, giustificativo del relativo impiego in conformità alle previsioni normative che ne disciplinano l’utilizzo (v. legge 7 dicembre 2012, n. 213).
Come già argomentato da Sez. 6, n. 35683 del 01/06/2017, Adamo e altri, Rv. 270549, con riferimento a vicenda analoga, la mancata giustificazione causale delle spese sostenute da parte del deputato regionale, in assenza di elementi di segno contrario, il cui onere dimostrativo non può che gravare sulla pubblica accusa, non può costituire prova di improprio utilizzo delle somme erogate, per scopi estranei alle finalità istituzionali del gruppo di appartenenza e riconducibili ad interessi od esigenze di carattere personale del parlamentare; id est, la prova di un simile contegno omissivo non può ritenersi sostitutiva della prova dell’appropriazione e non permette, ex se, di ritenere integrata l’offensività della condotta, la quale deve manifestarsi quantomeno in termini di alterazione del principio di buon andamento cui deve informarsi l’azione amministrativa.
Anche in tal caso la Corte ha dunque ritenuto che la mancata giustificazione delle spese sia suscettiva di determinare una responsabilità di natura contabile, ma non anche penale.
Va poi osservato che sul tema dei contributi elargiti ai gruppi consiliari regionali, al fine di assicurare l’esercizio della funzione legislativa e, più specificamente, l’esplicazione del mandato in collegamento con la base elettorale, la Corte si pone in discontinuità con Sez. 6, n. 23066 del 14/05/2009, Provenzano, Rv. 244061.
La vicenda aveva riguardato indebiti prelievi effettuati dal presidente della Regione Sicilia su fondi riservati, accreditati in un capitolo ad hoc del bilancio regionale.
Nel contesto, la Corte aveva teorizzato un generale obbligo di giustificazione causale della spesa effettuata con danaro pubblico che, secondo i principi costituzionalmente asseverati in materia di contabilità, deve corrispondere alle finalità correlate alle specifiche attribuzioni e competenze istituzionali, positivamente disciplinate, del soggetto che ne dispone.
Un simile obbligo, in particolare, configurerebbe condizione imprescindibile di liceità della spesa stessa, di tal che l’utilizzo di danaro pubblico accreditato su un capitolo di bilancio, ancorchè intestato a “spese riservate” – connotate da un basso coefficiente di specificità - integra ex se il delitto di peculato, quando non sia offerta una giustificazione coeva e puntuale, in relazione alle norme generali della contabilità pubblica ovvero a quelle derogative contenute nella normativa di previsione della spesa, in definitiva risolvendosi nell’utilizzo di quelle risorse uti princeps.
Ciò perché il concetto di “spesa riservata” non si identifica con quello di spesa insindacabile o ignota nel suo contenuto. Il connotato della riservatezza implica piuttosto l’esenzione dall’obbligo di rendicontazione secondo le ordinarie modalità, esenzione la quale è però bilanciata, in ossequio ai principi costituzionali, dalla previsione di un potere di controllo ab externo sul soggetto che spende, secondo moduli operativi compatibili con la riservatezza stessa ( mentre quel che resta eventualmente insindacabile, una volta ritenuta la coerenza della spesa con le finalità per cui è riconosciuta, è la singola scelta, che è rimessa, questa sì, alla discrezionalità dell’agente).
Muovendo dagli svolti rilievi, la Corte aveva infine respinto la prospettazione difensiva per la quale la condotta avrebbe dovuto essere riqualificata piuttosto in termini di abuso di ufficio, evidenziando come tale ultima fattispecie incriminatrice sia configurabile nel solo in caso in cui la spesa avvenga per finalità diverse da quelle specificamente previste, ma che siano comunque riconducibili alle attribuzioni proprie del ruolo istituzionale svolto dal pubblico agente, postulando il delitto di cui all’art. 323 cod. pen., il cui evento è costituito dall’ingiusto vantaggio patrimoniale (eventualmente ottenuto mediante l’appropriazione di un bene rientrante nella sfera pubblica), che la destinazione impressa a quel bene, pur viziata, mantenga natura pubblicistica e non favorisca interessi estranei alla pubblica amministrazione, così traducendosi in una distrazione a profitto proprio.
Analoga linea ricostruttiva aveva seguito Sez. 6, n. 53331 del 19/09/2017, Piredda, Rv. 271654, che aveva ritenuto integrata la fattispecie di peculato con riferimento ai finanziamenti erogati in favore dei consiglieri della Regione Liguria, quanto alle spese prive di pezze giustificative, o rispetto alle quali fossero prodotti scontrini o fatture recanti indicazioni talmente generiche od equivoche, da impedire la verifica della loro riconducibilità all’attività istituzionale.
In quella vicenda, tuttavia, un ruolo decisivo aveva avuto la peculiarità della normativa di riferimento, costituita dall’art. 4, comma 3, della legge regionale n. 38 del 19 dicembre 1990 – applicabile ratione temporis –, la quale contiene un’enunciazione specifica delle categorie di spesa che legittimamente avrebbero potuto essere coperte dal contributo.
Il meccanismo sequenziale delineato da tale disciplina, imperniato sull’elargizione in regime di anticipazione dei fondi, nonché sulla successiva presentazione dei titoli giustificativi, poneva difatti espressamente a carico di ciascun componente del gruppo consiliare l’obbligo di fornire un’idonea giustificazione all’incameramento delle risorse percepite e non restituite a fine anno, così determinandosi l’inversione dell’onere della prova sul punto.
Nell’occasione la Corte aveva dunque affermato che documenti di riscontro costituiti da scontrini di acquisto, titoli di viaggio o ricevute di consumazioni presso bar e ristoranti, se privi di menzione dell’identità degli ospiti o delle occasioni di spesa, valgono ad attestare l’effettuazione della spesa stessa, ma nulla hanno a che vedere con la sua giustificazione.
Conclusivamente, nel destinare le risorse economiche erogate per il funzionamento del gruppo consiliare — perciò assoggettate ad uno specifico vincolo di destinazione - ad una finalità diversa, estranea rispetto a quella istituzionale, gli imputati si erano comportati uti dominus, realizzandosi per tale via l’interversione del possesso, che sostanzia il momento appropriativo del peculato.
Sentenze della Corte di cassazione
Sez. 6, n. 23066 del 14/05/2009, Provenzano, Rv. 244061
Sez. U, n. 38691 del 25/06/2009, Caruso, Rv. 244190
Sez. U, n. 19054 del 20/12/2012, Vattani, Rv. 255296
Sez. 3, n. 26616 dell’08/05/2013, M., Rv. 255619
Sez. 6, n. 39770 del 27/05/2014, Giordano, Rv. 260458
Sez. 6, n. 14040 del 29/01/2015, Soardi, Rv. 262974
Sez. 6, n. 13038 del 10/03/2016, Bertin, Rv. 266191
Sez. 6, n. 53974 del 15/11/2016, Freda e altri, Rv. 268588
Sez. 6, n. 35683 del 01/06/2017, Adamo e altri, Rv. 270549
Sez. 6, n. 53331 del 19/09/2017, Piredda, Rv. 271654
Sez. 6, n. 5206 del 15/12/2017, S. e altro, Rv. 272178
Sez. 6, n. 32058 del 17/5/2018, Locane Pantaleone, Rv. 273446
Sez. 6, n. 36827 del 04/07/2018, M., Rv. 274023
Sez. 3, n. 57517 del 27/09/2018, Romano, Rv. 274679
Sez. 6, n. 24878 del 06/03/2019, Gueli,
Sez. 2, n. 32033 del 21/03/2019, Berni,
Sez. 6, n. 27707 del 26/03/2019, Norsa, Rv. 276220
Sez. 6, n. 39434 del 26/03/2019, Paventi,
Sez. 6, n. 21166 del 09/04/2019, Marino, Rv. 276067
Sez. 6, n. 23824 del 26/04/2019, Bifolco, Rv. 276070
Sez. 6, n. 39102 del 26/04/2019 Varrassi, Rv. 276836
Sez. 6, n. 26330 del 21/05/2019, Pisacane Rv. 276218
Sez. 6, n. 31920 del 06/06/2019, Orsi, Rv. 276805
Sez. 5, n. 37186 del 01/07/2019, Ciancarella, Rv. 277004
Sez. 6, n. 38245 del 03/07/2019, De Luca, Rv. 276712
Sez. 6, n. 39832 del 10/07/2019, Zappulla, Rv. 277066
Sez. 6, n. 42952 del 17/09/2019, Morriale, Rv. 277209
Le Sezioni Unite con la sentenza “Sorge” (Sez. U, n. 24906 del 18/04/2019, Sorge, Rv. 275436), risolvendo il contrasto sul punto, hanno affermato il principio di diritto così massimato “In tema di reato di falso in atto pubblico, non può ritenersi legittimamente contestata, sì che non può essere ritenuta in sentenza dal giudice, la fattispecie aggravata di cui all’art. 476, comma secondo, cod. pen., qualora nel capo d’imputazione non sia esposta la natura fidefacente dell’atto, o direttamente, o mediante l’impiego di formule equivalenti, ovvero attraverso l’indicazione della relativa norma”.
La questione controversa rimessa alle Sezioni Unite attiene alla sussistenza o meno del potere del giudice di ritenere in sentenza la sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 476, secondo comma, cod. pen. nel caso in cui l’imputazione non contenga né il richiamo a tale disposizione né l’indicazione della natura fidefaciente dell’atto la cui falsità è ascritta all’imputato.
La questione, per come sollevata nell’ordinanza di rimessione e affrontata in alcune delle sentenze riconducibili ai due diversi orientamenti, e per come impostata dalle Sezioni unite, attiene alla necessità o meno, ai fini della valida contestazione in fatto dell’aggravante prevista dall’art. 476, comma secondo, cod. pen., dell’indicazione, nell’imputazione, della natura fidefaciente dell’atto.
Sotto tale profilo viene in questione il principio di correlazione tra accusa e sentenza, applicato alle circostanze aggravanti, la cui violazione è sanzionata dall’art. 522, comma 2, cod. proc. pen, prevedendo la nullità della sentenza della sentenza di condanna soltanto nella parte relativa alla circostanza aggravante non ritualmente contestata, neppure in fatto.
La questione, tuttavia, per come affrontata in altre pronunce, sembra coinvolgere anche il problema del potere del giudice di dare al fatto una qualificazione giuridica diversa da quella contestata nell’imputazione, attenendo al riconoscimento, da parte del giudice, della sussistenza di una circostanza che viene configurata, dalla norma che la prevede, con riferimento alla qualificazione giuridica dell’atto che l’imputazione assume falso, e non sulla base di elementi meramente fattuali.
Il potere del giudice di dare al fatto una qualificazione giuridica diversa da quella contestata nell’imputazione, espressamente previsto dall’art. 521 cod. proc. pen., a condizione che, in ossequio al principio di correlazione tra accusa e sentenza, il fatto rimanga lo stesso, è stato oggetto di una profonda rimeditazione nella giurisprudenza di legittimità degli ultimi anni a seguito dell’interpretazione offerta dalla Corte europea dei diritti dell’uomo dell’art. 6, par. 3, CEDU, e dell’affermazione del principio secondo cui la garanzia del contraddittorio (assicurata dagli artt. da 516 a 522 cod. proc. pen. riguardo al fatto) si estende alla qualificazione giuridica del fatto. La garanzia del contraddittorio in ordine alla qualificazione giuridica del fatto, al pari della garanzia del contraddittorio sul fatto, è stata letta, tanto dalla Corte di Strasburgo quanto dalla giurisprudenza della Corte di cassazione, in correlazione con il diritto di difesa dell’imputato, escludendone la violazione nei casi in cui la diversa qualificazione giuridica sia stata operata dal giudice allorquando il diritto di difesa sia stato concretamente esercitato o fosse esercitabile perché la diversa qualificazione giuridica era prevedibile.
Dall’analisi delle sentenze riconducibili ai due orientamenti che l’ordinanza di rimessione definisce “opposti” emerge che gli stessi sono accomunati dalla concreta applicazione dei principi elaborati dalla Corte di Strasburgo, per come recepiti dalla Corte di cassazione, in ordine alla garanzia del contraddittorio relativamente alla qualificazione giuridica del fatto.
Secondo un primo orientamento della Corte, il giudice può ritenere in sentenza la sussistenza della circostanza aggravante di cui all’art. 476, secondo comma, cod. pen., non contestata nell’imputazione né con l’indicazione della disposizione di legge che la prevede né con un’enunciazione che faccia esplicito riferimento alla natura fidefaciente dell’atto assunto come falso, essendo sufficiente, ai fini della valida contestazione di tale circostanza e del rispetto del principio di correlazione tra accusa e sentenza, l’indicazione dell’elemento di fatto integrante l’aggravante, cioè del tipo di atto, il quale sia riconducibile a quelli dotati di fede privilegiata (Sez. 5, n. 33843 del 04/04/2018, Scopelliti, Rv. 273624; Sez. 5, n. 23609 del 04/04/2018, Musso, Rv. 273473; Sez. 5, n. 55804 del 20/09/2017, Vitagliano , Rv. 271838; Sez. 5, n. 2712 del 14/09/2016 - dep. 2017 -, Seddone, Rv. 268864; Sez. 5, n. 38931 del 02/04/2015, Maida, Rv. 265501; Sez. 1, n. 24870 del 12/03/2015, Morichelli, non mass; Sez. 5, n. 38588 del 16/09/2008, Fornaro, Rv. 242027)
Tale orientamento trae origine dall’applicazione (Sez. 5, n. 38588 del 16/09/2008, Fornaro, Rv. 242027), al caso della circostanza di cui all’art. 476, secondo comma, cod. pen., del principio di diritto già in precedenza affermato (Sez. 2, n. 47863 del 28/10/2003, Ruggio, Rv. 227076, con riferimento all’aggravante di cui all’art. 61, n. 11, cod. pen.) e costantemente ribadito (Sez. 1, n. 51260 del 08/02/2017, Archinito, Rv. 271261, con riferimento alla circostanza aggravante della premeditazione; Sez. 6, n. 4461 del 15/12/2016 - dep. 2017 - , Quaranta, Rv. 269615, con riferimento all’aggravante ex art. 576, n. 2, cod. pen.; Sez. 2, n. 14651 del 10/01/2013, Chatbi, Rv. 255793, con riferimento all’aggravante dell’abuso di prestazione d’opera; Sez. 6, n. 40283 del 28/09/2012, Diaji, Rv. 253776, con riferimento all’aggravante dell’uso del mezzo fraudolento nel delitto di furto) dalla Corte, secondo cui «ai fini della contestazione di una circostanza aggravante non è indispensabile una formula specifica espressa con enunciazione letterale, né l’indicazione della disposizione di legge che la prevede, essendo sufficiente che, conformemente al principio di correlazione tra accusa e decisione, l’imputato sia posto nelle condizioni di espletare pienamente la difesa sugli elementi di fatto integranti l’aggravante».
Nell’ambito di tale orientamento è stato quindi affermato che «può essere ritenuta in sentenza dal giudice la fattispecie aggravata del reato di falso in atto pubblico, ex art. 476, comma secondo, cod. pen., qualora la natura fidefacente dell’atto considerato falso, pur non esplicitamente contestata nel capo di imputazione, sia stata indicata chiaramente “in fatto” ed emerga inequivocamente dalla tipologia dell’atto oggetto del falso» (così esplicitamente: Sez. 5, n. 2712 del 14/09/2016 - dep. 2017 -, Seddone, Rv. 268864 e Sez. 5, n. 55804 del 20/09/2017, Vitagliano, Rv. 271838, nelle quali la Corte ribadisce il principio di diritto formulato dalla massima redatta da questo Ufficio in relazione al principio affermato dalla citata sentenza Maida).
Nell’ambito del medesimo orientamento alcune pronunce richiamano l’articolo 6, § 3, lett. a), CEDU, per come interpretato dalla Corte di Strasburgo, ritenendo che tale norma non imponga alcuna forma particolare dell’informazione da fornire all’imputato della natura e del motivo dell’accusa formulata nei suoi confronti, nonché la correlazione tra tale diritto all’informazione e il diritto di difesa dell’imputato, ritenuta dalla Corte europea nella sentenza Drassich e dalle Sezioni unite della Corte di cassazione che, nella sentenza Lucci (Sez. U, n. 31617 del 26/06/2015, Lucci, Rv. 264438), hanno evidenziato che non sussiste la violazione della CEDU (né del principio di correlazione tra accusa e sentenza) allorquando la prospettiva della nuova definizione giuridica fosse nota o comunque prevedibile per l’imputato, e la riqualificazione dell’addebito non abbia assunto le caratteristiche di atto a sorpresa (Sez. 5, n. 33843 del 04/04/2018, Scopelliti, Rv. 273624; Sez. 5, n. 55804 del 20/09/2017, Vitagliano, Rv. 271838; Sez. 5, n. 2712 del 14/09/2016 - dep. 2017 -, Seddone, Rv. 268864).
Altre pronunce sottolineano il ruolo fondamentale dell’assistenza tecnica garantita all’imputato nel nostro ordinamento, riconosciuta anche nella giurisprudenza comunitaria (Corte EDU, 14/04/2015, Contrada c. Italia), in considerazione della sua incidenza sulla prevedibilità dello sviluppo processuale, alla luce delle caratteristiche dell’atto indicato nella contestazione, nonché sulla concreta possibilità di difesa rispetto alla (prevedibile) più grave qualificazione giuridica del fatto ad opera del giudice (Sez. 5, n. 23609 del 04/04/2018, Musso, Rv. 273473; Sez. 5, n. 33843 del 04/04/2018, Scopelliti, Rv. 273624).
Secondo un diverso orientamento della Corte il giudice non può validamente ritenere in sentenza la sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 476, secondo comma, cod. pen. se l’imputazione non richiama tale disposizione né contiene alcuna indicazione esplicita della natura fidefacente dell’atto che assume falso, né indica “in fatto” la natura fidefacente dell’atto con l’uso di «sinonimi o con il ricorso a formule verbali equivalenti». (Sez. 5, n. 30435 del 18/04/2018, Trombetta, Rv. 273807; Sez. 5, n. 24643 del 13/04/2018, Degli Angioli, Rv. 273339; Sez. 5, n. 8359 del 05/02/2016, Calì, non mass.; Sez. 3, n. 6809 del 08/10/2014 - dep. 2015-, Sauro, Rv. 262550; Sez. 5, n. 12213 del 13/02/2014, Amoroso, Rv. 260209).
Ciò in quanto, oltre a mancare l’indicazione dell’articolo di legge che prevede l’aggravante in questione, quest’ultima non è contestata «né esplicitamente né in fatto» nei “tempi canonici” all’imputato, con conseguente irrimediabile lesione del diritto di difesa, stanti i vincolanti orientamenti della Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte EDU, 25/03/1999, Pelissier e Sassi c. Francia; Corte EDU, 11/12/2007, Drassich c. Italia) in ordine al diritto dell’imputato di essere tempestivamente informato dettagliatamente, tanto dei fatti materiali posti a suo carico, quanto della qualificazione giuridica data a questi ultimi.
Nell’ambito di tale orientamento si segnala la sentenza Trombetta (Sez. 5, n. 30435 del 18/04/2018, Trombetta, Rv. 273807) per l’approfondimento del tema della contestazione in fatto dell’aggravante in questione.
In tale pronuncia la Corte ritiene, infatti, che il difforme indirizzo, ricollegando la contestazione in fatto della circostanza di cui al secondo comma dell’art. 476 cod. pen. alla mera riconducibilità del documento oggetto di immutatio veri nel novero di quelli facenti fede fino a querela di falso, pur in assenza di qualsiasi indicazione, contenuta nell’imputazione, circa la natura stessa del documento, precluda all’imputato di espletare pienamente la difesa sugli elementi integranti l’aggravante.
Ed in proposito rileva che «il perimetro all’interno del quale può collocarsi una valida contestazione in fatto è definito anche dalla natura della stessa fattispecie circostanziale, nel senso che quando essa è delineata dalla norma sulla base di elementi fattuali, più ampia è l’area in cui può essere riconosciuta siffatta contestazione … Più circoscritto, invece, è il perimetro all’interno del quale può ritenersi valida la contestazione “in fatto” di una circostanza aggravante configurata dal legislatore con riferimento - non già ad elementi fattuali, ma - ad una determinata qualificazione giuridica, quale la natura del documento, come nell’aggravante di cui al secondo comma dell’art. 476 cod. pen. In ipotesi del genere, se deve ritenersi comunque non indispensabile la specifica indicazione della disposizione legislativa (ex plurimis, Sez. 2, n. 47863 del 28/10/2003, Ruggio, Rv. 227076), è comunque necessario l’uso di formule linguistiche chiaramente evocative della peculiare efficacia dell’atto (formule del tutto assenti nel caso in esame): formule linguistiche, queste, la cui mancanza impedisce all’imputato il pieno esercizio del diritto di difesa su elementi all’evidenza centrali dell’imputazione».
In alcune delle sentenze riconducibili all’uno o all’altro orientamento la Corte ha negato la sussistenza del contrasto poi rimesso alle Sezioni Unite.
In particolare la Corte, fin dalla sentenza Maida (Sez. 5, n. 38931 del 02/04/2015, Maida, Rv. 265501), dando atto dell’orientamento espresso nelle già citate sentenze Sauro e Amoroso - che richiede l’esplicita indicazione della natura fidefacente dell’atto considerato falso – non lo definisce in alcun modo opposto o contrastante, e neppure diverso, limitandosi a rilevare la differenza del caso al suo esame rispetto alle ipotesi che hanno determinato il suddetto orientamento, rappresentata dall’inequivoca fidefacenza dell’atto falso (relata di notifica dell’ufficiale giudiziario).
Nelle sentenze Seddone e Vitagliano (Sez. 5, n. 2712 del 14/09/2016 - dep. 2017 -, Seddone, Rv. 268864 e Sez. 5, n. 55804 del 20/09/2017, Vitagliano, Rv. 271838) la Corte ritiene “superabile” l’orientamento di cui sono espressione le sentenze Amoroso e Sauro, in ragione del fatto che nei casi al suo esame – a differenza di quelli decisi con le sentenze Amoroso e Sauro - tanto nella sentenza di primo grado quanto in quella d’appello era stata espressamente riconosciuta l’aggravante in questione, la quale non era mai stata espressamente contestata dalla difesa se non con il ricorso per cassazione e ai soli fini della declaratoria di prescrizione.
Analogamente nella sentenza Degli Angioli (Sez. 5, n. 24643 del 13/04/2018, Degli Angioli, Rv. 273339) - riconducibile al diverso orientamento che nega il potere del giudice di ritenere in sentenza l’aggravante di cui all’art. 476, secondo comma, cod. pen., ove la natura fidefacente dell’atto non sia stata esplicitamente contestata - la Corte ha ritenuto il contrasto non ancora maturato nel senso di una vera e propria contrapposizione di tesi tale da richiedere l’intervento nomofilattico delle Sezioni Unite, evidenziando che le citate sentenze Seddone e Maida (che hanno ammesso che il giudice possa ritenere in sentenza la fattispecie aggravata del reato di falso in atto pubblico, ex art. 476, secondo comma, cod. pen., anche quando la natura fidefacente dell’atto considerato falso, non esplicitamente contestata nel capo di imputazione, emerga dalla tipologia dell’atto oggetto del falso), sono state pronunciate in ipotesi in cui l’oggetto della falsificazione riguardava atti, quali la “relata di notifica formata da un ufficiale giudiziario”, inequivocabilmente fidefacenti, o in casi in cui l’aggravante era stata riconosciuta fin dalla sentenza di primo grado.
In altra occasione la Corte (Sez. 5, n. 33843 del 04/04/2018, Scopelliti, Rv. 273624) ha escluso la sussistenza del contrasto, rilevando che tutte le sentenze riconducibili ai due diversi orientamenti sono accomunate dalla necessità almeno di una contestazione in fatto, a seconda dei casi ritenuta sussistente o meno.
La Corte nel negare la sussistenza del contrasto ha, in sostanza, valorizzato la differenza tra i casi concreti in cui si sono pronunciate sentenze riconducibili ai diversi orientamenti, attinente alle topologie di atti pubblici oggetto delle contestazioni, la cui natura fidefacente può essere più o meno inequivoca, oppure al momento processuale in cui avviene il riconoscimento, ad opera del giudice, dell’aggravante non contestata nell’imputazione; rilevando come la diversità dei principi affermati dalla Corte nelle varie pronunce dipenda dalla sussistenza o meno di una riqualificazione giuridica operata dal giudice a “sorpresa”.
Ed effettivamente entrambi gli orientamenti esaminati invocano a sostegno della tesi prescelta l’art. 6, par. 3, CEDU, nell’interpretazione offertane dalla Corte di Strasburgo, e la diversità delle fattispecie in cui si sono pronunciate sentenze in “contrasto” incide sulla sussistenza o meno del carattere “a sorpresa” del riconoscimento dell’aggravante di cui all’art. 476, secondo comma, cod. pen.
Alla luce dell’analisi delle fattispecie in relazione alle quali sono intervenute le varie pronunce della Corte sembra, pertanto, potersi ritenere che in tutte le sentenze riconducibili ad entrambi gli orientamenti in esame siano stati osservati i principi elaborati dalla Corte di cassazione che ha recepito la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo in ordine alla garanzia del diritto di difesa dell’imputato sotto il profilo del suo diritto a essere informato sia dei fatti materiali posti a fondamento dell’accusa, sia della qualificazione giuridica attribuita a tali fatti.
Le Sezioni unite ritengono che l’oggetto della questione controversa possa essere indicato nella “nella ammissibilità o meno di una contestazione in fatto della circostanza aggravante prevista dall’art. 476, comma 2, cod. pen.”, intendendo per “contestazione in fatto” “una formulazione dell’imputazione che non sia espressa nell’enunciazione letterale della fattispecie circostanziale o nell’indicazione della specifica norma di legge che la prevede, ma riporti in maniera sufficientemente chiara e precisa gli elementi di fatto che integrano la fattispecie, consentendo all’imputato di averne piena cognizione e di espletare adeguatamente la propria difesa sugli stessi”.
Ritenendo improprio l’inquadramento della questione controversa nell’ambito della riqualificazione giuridica del fatto il Supremo consesso:
ricostruisce il contrasto come quello tra un orientamento che afferma e uno, contrapposto, che nega l’ammissibilità della contestazione in fatto dell’aggravante in questione attraverso la mera indicazione della tipologia di atto in relazione al quale la condotta di falso è contestata;
considera non pertinenti i richiami operati da talune sentenze ad arresti giurisprudenziali, anche di derivazione comunitaria, riferibili alla diversa tematica della diversa qualificazione giuridica del fatto, e relativi alla prevedibilità della riqualificazione ed alla rilevanza in tal senso dell’assistenza tecnica garantita all’imputato.
Le Sezioni unite ritengono condivisibile l’orientamento che nega l’ammissibilità di una contestazione in fatto dell’aggravante di cui all’art. 476, secondo comma, cod. pen., rilevando che i principi giurisprudenziali già affermati dalla Corte sulla legittimità di una contestazione in fatto delle circostanze aggravanti, pur dovendo essere ribaditi, “non sono tuttavia applicabili in modo indifferenziato con riguardo a tutte le fattispecie circostanziali, prescindendo dalle particolari connotazioni con le quali le stesse sono costruite nelle norme che le prevedono”.
In particolare, ribadendo che la contestazione in fatto delle circostanze aggravanti, è consentita, e quindi legittima, a condizione che “l’imputazione riporti in maniera sufficientemente chiara e precisa gli elementi di fatto che integrano la fattispecie circostanziale, permettendo all’imputato di averne piena cognizione e di espletare adeguatamente la propria difesa sugli stessi”, ritengono che l’ammissibilità della contestazione in fatto delle circostanze aggravanti debba essere “verificata rispetto alle caratteristiche delle singole fattispecie circostanziali e, in particolare, alla natura degli elementi costitutivi delle stesse”.
La natura degli elementi costitutivi delle singole fattispecie circostanziali, infatti, incide sul “livello di precisione e determinatezza che rende l’indicazione di tali elementi, nell’imputazione contestata, sufficiente a garantire la puntuale comprensione del contenuto dell’accusa da parte dell’imputato”.
La Corte distingue le “circostanze aggravanti le cui fattispecie, secondo la previsione normativa, si esauriscono in comportamenti descritti nella loro materialità, ovvero riferiti a mezzi o oggetti determinati nelle loro caratteristiche oggettive”, da quelle “nelle quali, in luogo dei fatti materiali o in aggiunta agli stessi, la previsione normativa include componenti valutative; risultandone di conseguenza che le modalità della condotta integrano l’ipotesi aggravata ove alle stesse siano attribuibili particolari connotazioni qualitative o quantitative”.
Con riferimento alle circostanze aggravanti riconducibili alla prima delle tipologie appena indicate la contestazione in fatto è ritenuta ammissibile, in quanto l’indicazione, nell’imputazione, dei fatti materiali che le integrano “è idonea a riportare nell’imputazione la fattispecie aggravatrice in tutti i suoi elementi costitutivi, rendendo possibile l’adeguato esercizio dei diritti di difesa dell’imputato”.
Diversamente, con riguardo alle circostanze aggravanti nelle quali la previsione normativa include componenti valutative, e il riconoscimento della cui integrazione dipende, quindi, da una valutazione, le Sezioni unite hanno ritenuto che “ove il risultato di questa valutazione non sia esplicitato nell’imputazione … la contestazione risulterà priva di una compiuta indicazione degli elementi costitutivi della fattispecie circostanziale. Né può esigersi dall’imputato, pur se assistito da una difesa tecnica, l’individuazione dell’esito qualificativo che connota l’ipotesi aggravata in base ad un autonomo compimento del percorso valutativo dell’autorità giudiziaria sulla base dei dati di fatto contestati, trattandosi per l’appunto di una valutazione potenzialmente destinata a condurre a conclusioni diverse. La necessità dell’enunciazione in forma chiara e precisa del contenuto dell’imputazione, prevista dalla legge processuale, impone che la scelta operata dalla pubblica accusa fra tali possibili conclusioni sia portata a conoscenza della difesa; non potendosi pertanto ravvisare una valida contestazione della circostanza aggravante nella mera prospettazione in fatto degli elementi materiali della relativa fattispecie”.
La circostanza aggravante oggetto della questione rimessa alle Sezioni Unite, integrata nel caso in cui «la falsità concerne un atto, o parte di un atto, che faccia fede fino a querela di falso», viene ricondotta dalla Corte tra quelle in cui la norma che la prevede include tra gli elementi costitutivi della fattispecie circostanziata, un “elemento valutativo”, costituito dalla possibilità di qualificare l’atto come facente fede fino a querela di falso; con la peculiarità che la componente valutativa concerne un profilo normativo, relativo all’efficacia fidefaciente dell’atto, descritta dall’art. 2700 cod. civ., richiedendo due elementi essenziali, rispettivamente relativi alla titolarità, in capo al pubblico ufficiale, del potere di conferire all’atto l’efficacia fidefacente, ed all’oggetto di tale efficacia (attestazioni del documento su quanto fatto o rilevato dal pubblico ufficiale, o su quanto avvenuto in sua presenza).
E poiché la qualificazione dell’atto come fidefaciente costituisce il risultato di una pluralità di giudizi valutativi (individuati dalla Corte, in primo luogo, nell’interpretazione e applicazione di norme anche extrapenali; e in secondo luogo, sulla base di tali norme, nella valutazione della sussistenza in capo al singolo pubblico ufficiale del potere attribuire a quello specifico atto l’efficacia probatoria di fede privilegiata, nonché della riconducibilità del contenuto dell’atto alla rappresentazione di operazioni compiute dal pubblico ufficiale o di fatti dallo stesso constatati) la Corte ritiene che l’aggravante in questione non possa ritenersi “debitamente contestata con la mera indicazione dell’atto stesso nell’imputazione”, in quanto tale indicazione si riduce alla descrizione dell’elemento materiale della fattispecie aggravatrice, e “non consente che sia portata ad effettiva conoscenza dell’imputato la componente valutativa costituita dall’attribuzione all’atto della qualità di documento fidefacente”.
Affinchè “la contestazione dell’accusa possa dirsi compiutamente realizzata” la Corte richiede, quindi, “che la valutazione accusatoria, nel senso della ritenuta natura fidefacente dell’atto oggetto della condotta di falso”, sia esplicitata o mediante l’indicazione nell’imputazione della norma di cui al secondo comma dell’art. 476 cod. pen., o con l’espressa qualificazione dell’atto come fidefacente, “ovvero con l’adozione di formulazioni testuali che descrivano in termini equivalenti la natura fidefacente dell’atto, nel riferimento alla fede privilegiata dello stesso o alla necessità della querela di falso perché la sua funzione probatoria sia esclusa”.
Sentenze della Corte di cassazione
Sez. 2, n. 47863 del 28/10/2003, Ruggio, Rv. 227076
Sez. 5, n. 38588 del 16/09/2008, Fornaro, Rv. 242027
Sez. 6, n. 40283 del 28/09/2012, Diaji, Rv. 253776
Sez. 2, n. 14651 del 10/01/2013, Chatbi, Rv. 255793
Sez. 5, n. 12213 del 13/02/2014, Amoroso, Rv. 260209
Sez. 3, n. 6809 del 08/10/2014 - dep. 2015 -, Sauro, Rv. 262550
Sez. 1, n. 24870 del 12/03/2015, Morichelli, non mass.
Sez. 5, n. 38931 del 02/04/2015, Maida, Rv. 265501 Sez. U, n. 31617 del 26/06/2015, Lucci, Rv. 264438 Sez. 5, n. 8359 del 05/02/2016, Calì, non mass. Sez. 5, n. 2712 del 14/09/2016 - dep. 2017 -, Seddone, Rv. 268864
Sez. 6, n. 4461 del 15/12/2016 - dep. 2017 - , Quaranta, Rv. 269615
Sez. 1, n. 51260 del 08/02/2017, Archinito, Rv. 271261
Sez. 5, n. 55804 del 20/09/2017, Vitagliano , Rv. 271838
Sez. 5, n. 33843 del 04/04/2018, Scopelliti, Rv. 273624
Sez. 5, n. 23609 del 04/04/2018, Musso, Rv. 273473
Sez. 5, n. 24643 del 13/04/2018, Degli Angioli , Rv. 273339
Sez. 5, n. 30435 del 18/04/2018, Trombetta, Rv. 273807
Sez. U, n. 24906 del 18/04/2019, Sorge, Rv. 275436
Sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo
Corte EDU, 25/03/1999, Pelissier e Sassi c. Francia
Corte EDU, 11/12/2007, Drassich c. Italia
Corte EDU, 14/04/2015, Contrada c. Italia
Nel corso dell’anno 2019 ha formato oggetto di esame da parte delle Sezioni unite la seguente questione controversa: «Se la formazione di una falsa copia di un atto in realtà inesistente integri o meno il reato di falsità materiale».
Il delinearsi di due contrapposti orientamenti – l’uno sostenitore della configurabilità del reato di falso materiale in atto pubblico, l’altro assertore della non configurabilità di detto illecito – ha reso necessario l’intervento della Corte a Sezioni Unite.
La trattazione del ricorso è stata rimessa al supremo consesso con ordinanza della Quinta sezione penale n. 54689 del 21.11.2018 (dep. il successivo 06.12.2018).
Nello specifico, i giudici rimettenti hanno rilevato l’esistenza di un contrasto, interno alla giurisprudenza di legittimità, sul tema della configurabilità del reato di falso materiale nel caso in cui sia formata una falsa copia di un atto pubblico in realtà inesistente.
L’ordinanza di rimessione ha pertanto individuato un primo orientamento, secondo cui la mera utilizzazione della fotocopia contraffatta non integra il reato di falsità materiale, in assenza di determinate condizioni, indicate nella presenza, nell’atto in fotocopia, di requisiti di forma e di sostanza tali da farlo apparire come il documento originale o come la copia autentica di esso.
Talune pronunzie riconducibili all’anzidetto orientamento indicano poi, quale condizione alternativa a quelle descritte, l’attitudine della fotocopia a documentare l’effettiva esistenza del documento originale, aggiungendo che detta attitudine è desumibile dalla presenza, nella fotocopia stessa, di attestazioni formali che la facciano figurare come estratta da un documento originale, con l’effetto di ricondurla sostanzialmente alla categoria delle copie autentiche.
Altre pronunzie, invece, non specificano in cosa consista il quid pluris richiesto, facendo genericamente riferimento all’idoneità della fotocopia a documentare, nei confronti dei terzi, l’esistenza di un originale conforme.
La visione dell’offensività dei reati di falso su cui fonda l’anzidetto orientamento appare strettamente correlata al contenuto attestativo dell’atto, ove si consideri che tale offensività non è riscontrabile nel caso in cui la falsa copia del documento inesistente non sia formalmente dimostrativa dell’esistenza di esso.
L’ordinanza di rimessione ha individuato, poi, un diverso orientamento, secondo cui integra il reato di falso la mera formazione di un atto presentato come riproduzione fotostatica di un documento in realtà insussistente, del quale si intendano attestare artificiosamente l’esistenza e gli effetti probatori.
Tale opzione ermeneutica si fonda sul duplice rilievo che l’esibizione di una fotocopia recante il contenuto apparente di un atto pubblico implica, al più, la previa falsa formazione di tale atto e che, per la punibilità della condotta di falso, non è necessario un intervento di manipolazione su un atto pubblico, essendo sufficiente che, con la falsa rappresentazione offerta dalla fotocopia, lo stesso, contrariamente al vero, appaia esistente, atteso che ciò comporta una lesione della pubblica fede.
Delineati i tratti salienti dei contrapposti orientamenti, l’ordinanza ha rimarcato che gli stessi si pongono in insanabile contrasto nel caso in cui la fotocopia di un atto inesistente non sia utilizzata facendola figurare come originale o come copia autentica di esso, ma sia presentata come tale in luogo dell’originale, onde dimostrare, con tale produzione, l’esistenza dell’originale stesso, atteso che, secondo la prima opzione ermeneutica, per la sussistenza del reato è necessario che nella copia vi siano particolari attestazioni o che il documento sia confezionato in modo tale da risultare dimostrativo dell’esistenza dell’atto, mentre, secondo l’altra linea di pensiero, è sufficiente l’utilizzazione della copia fotostatica quale falsa rappresentazione dell’esistenza dell’atto originale.
L’orientamento favorevole alla configurabilità del reato, non condizionata da presupposti di sorta, si è formato a partire da Sez. 6, n. 6572 del 10.12.2007, dep. 2008, Capodicasa, Rv. 239453, decisione in cui la Corte, pronunciando con riguardo alla falsa fotocopia di un atto di affidamento di incarico per lo svolgimento di attività progettuali da parte di un’università, ebbe ad affermare che la falsità non è integrata dalla modificazione di una realtà probatoria preesistente, che, nel caso concreto, difettava, stante il mancato rinvenimento del documento originale, ma, piuttosto, dalla mendace rappresentazione di una tale realtà (la fotocopia), che risulta intrinsecamente idonea a ledere il bene giuridico tutelato, costituito dalla pubblica affidabilità di un atto proveniente dall’amministrazione, aggiungendo che una fotocopia presentata come prova di un originale inesistente, del quale intenda artificiosamente attestare l’esistenza e i connessi effetti probatori, integra una falsità penalmente rilevante ai sensi dell’art. 476 cod. pen.
Nel breve volgere di poco più di un anno, si uniformarono a tale decisione Sez. 5, n. 14308 del 19.03.2008, Maresta, Rv. 239490 e Sez. 5, n. 24012 del 12.05.2010, Pezone, Rv. 247399, pronunzie in cui più contenuto risultava lo sforzo argomentativo della Corte.
Nell’una, infatti, al momento assertivo si aggiungeva la mera considerazione che nessun rilievo assume la mancata attestazione di autenticità allorchè la copia falsificata (che, nel caso specifico, era relativa a un permesso di sosta) abbia l’apparenza di un originale e sia utilizzata come tale; nell’altra, invece, si evidenziava che, quando la falsa fotocopia esibita (che, in specie, riguardava una certificazione sanitaria) diverge in uno o più punti dall’originale, acquisisce un’evidente capacità decettiva autonoma.
Nello stesso filone interpretativo si inseriva, poi, Sez. 5, n. 40415 del 17.05.2012, Della Peruta, Rv. 254632, in cui la Corte, dopo aver affermato che integra il delitto di cui all’art. 476 cod. pen. la formazione di una fotocopia di un atto inesistente, di cui invece si intendano attestare artificiosamente l’esistenza e i connessi effetti probatori, per l’idoneità del documento a trarre in inganno la pubblica fede (nella specie si trattava della copia di un’autorizzazione comunale), ha esplicitato le ragioni a fondamento dell’asserto, rilevando, da un canto, che l’esistenza di una fotocopia avente il contenuto apparente di un atto pubblico dimostra che tale atto è stato previamente contraffatto per poterne trarre la copia e, d’altro canto, che per la sussistenza del delitto de quo non è necessario che vi sia un intervento materiale su un atto pubblico, essendo sufficiente che, attraverso la falsa rappresentazione della realtà veicolata dalla fotocopia, tale atto appaia sussistente, con conseguente lesione della fede pubblica.
Si è aggiunto ancora, nella pronunzia di cui trattasi, che, a tal fine, è del tutto indifferente che la copia sia autentica, tanto più nel caso in cui le circostanze dell’utilizzo facciano presumere la sua conformità all’originale, inducendo a ritenere che tale atto pubblico esista, atteso che la falsità – come antecedentemente già posto in rilievo – non è integrata dalla modifica di una realtà probatoria preesistente, che, in concreto, difetta, ma dalla mendace rappresentazione di una tale realtà (creata attraverso la fotocopia), idonea ex se a ledere il bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice, costituito dalla pubblica affidabilità di un atto proveniente dall’amministrazione.
Perfettamente in linea con l’indicata opzione ermeneutica risulta poi Sez. 5, n. 4651 del 16.10.2017, dep. 2018, Lisca, Rv. 272275, in cui la Corte, nel ribadire le argomentazioni poste a fondamento della pronunzia da ultimo indicata, ha evidenziato che non assume rilievo la circostanza che la fotocopia esibita (nella vicenda concreta relativa a una carta d’identità manipolata mediante l’eliminazione della dicitura «non valida per l’espatrio» e la sostituzione della fotografia) fosse priva di valenza probatoria perchè carente dei requisiti di forma e di sostanza valevoli a farla apparire come un originale o una copia conforme, dal momento che, in concreto, essa non era stata spacciata per l’originale e utilizzata come tale, ma era stata presentata come esattamente riproducente l’originale.
Aderente all’orientamento in disamina risulta ancora Sez. 5, n. 33858 del 24.04.2018, Manganaro, Rv. 273629, in cui la Corte, trattando di false fotocopie di provvedimenti giudiziari in realtà inesistenti, recanti altresì la dicitura «copia conforme all’originale», ha affermato che le stesse integrano il delitto di cui agli artt. 476 e 482 cod. pen. per la loro intrinseca capacità decettiva.
Con precipuo riguardo alla falsa attestazione di conformità all’originale il giudice di legittimità ha ribadito poi il principio già affermato da Sez. 5, n. 40415 del 17.05.2012, Della Peruta, Rv. 254632, asserendo che l’anzidetta attestazione è del tutto irrilevante, dal momento che sono le concrete circostanze dell’utilizzo a far presumere la conformità della fotocopia all’originale e ad indurre a ritenere che l’atto pubblico esista.
Tali circostanze, congiuntamente a una materialità della fotocopia che valga a distinguerla da quelle ictu oculi riconoscibili come mere riproduzioni, non utilizzate come prova di atti originali inesistenti, giustificano inoltre, secondo l’arresto in commento, la sussistenza del reato.
Infine, si inserisce nel filone interpretativo de quo Sez. 5, n. 5452 del 18.01.2018, Peroni, non massimata, in cui la Corte, in un caso di falsificazione della fotocopia di un’autorizzazione alla somministrazione di cibi e bevande in realtà inesistente, ha affermato ancora una volta la sussistenza del delitto di cui agli artt. 476 e 482 cod. pen., argomentando alla stregua dei principi di cui s’è detto e ribadendo che distingue tale fattispecie da altre in cui, in sede di legittimità, si è ritenuta l’insussistenza dell’illecito, la circostanza che la fotocopia sia stata realizzata con modalità tali da creare un’apparenza dell’esistenza dell’atto pubblico riprodotto.
Il diverso orientamento, secondo cui la falsificazione di una fotocopia non dà luogo a reato, iniziò a delinearsi, nella giurisprudenza di legittimità, sul finire dell’ultimo decennio del secolo scorso, con due pronunzie intervenute nel breve volgere di meno di un anno.
Ci si riferisce, in specie, a Sez. 5, n. 11185 del 05.05.1998, Detti, Rv. 212130 e a Sez. 5, n. 4406 del 04.03.1999, Pegoraro, Rv. 213125.
Con la prima di tali decisioni la Corte, pronunciando relativamente a fotocopie falsificate di ricevute postali attestanti l’avvenuto versamento all’INPS di somme contestate, ebbe ad affermare che la copia fotostatica non autentica o informale non ha, di per sé, valore e tenore di documento derivato, in quanto ontologicamente e giuridicamente inidonea a svolgere funzione probatoria, con conseguente applicabilità del disposto dell’art. 49 cod. pen. in tema di delitto impossibile per inesistenza dell’oggetto.
Con la seconda decisione, il giudice di legittimità, in una vicenda in cui risultava falsificata la fotocopia di una ricetta medica, ribadì il precedente arresto, evidenziando che la copia di un atto assume il carattere di documento solo in seguito alla pubblica autenticazione del contenuto dell’atto stesso, dalla qual cosa deriva che, tutelando le norme sul falso materiale l’autenticità degli atti in relazione al loro contenuto e/o alla loro provenienza, la falsificazione di una copia priva di attestazione di autenticità non dà luogo a un illecito penale, in quanto, in tal caso, la contraffazione viene effettuata ex novo su un oggetto, cui sono attribuite le sembianze di ciò che lo stesso non è nella realtà.
Si inscrive ancora nell’anzidetto filone interpretativo Sez. 5, n. 7385 del 14.12.2007, dep. 2008, Favia, Rv. 239112, pronunzia nella quale la Corte, in una vicenda in cui risultava utilizzata una falsa fotocopia di un’ordinanza cautelare mai emessa dall’A.G., dopo aver fatto espresso richiamo ai precedenti arresti appena menzionati, affermò che la formazione ad opera del privato di una falsa fotocopia di un documento originale inesistente, presentata come tale e priva di qualsiasi attestazione che confermi la sua originalità o la sua estrazione da un originale esistente, non integra alcun falso documentale, anche nell’eventualità in cui la fotocopia stessa abbia, in astratto e per la sua verosimiglianza, attitudine a trarre in inganno i terzi, potendo il suo uso essere, in tal caso, sanzionato eventualmente a titolo di truffa.
Aggiunse altresì il giudice di legittimità che la contraffazione è, invece, sanzionabile ex artt. 476 o 477 cod. pen. allorchè la fotocopia di un documento si presenti con caratteristiche tali da sembrare un originale e averne l’apparenza e venga usata non come fotocopia, ma come originale ovvero quando la sua formazione sia idonea e sufficiente a documentare, nei confronti dei terzi, l’esistenza di un originale conforme.
Aderisce all’orientamento in disamina anche Sez. 5, n. 42065 del 03.11.2010, Russo, Rv. 248922.
In tale decisione, afferente l’uso di una fotocopia falsificata di una procura generale ad litem per atto notarile inesistente, la Corte non è andata, tuttavia, oltre il momento assertivo, limitandosi a ribadire che integra il reato di cui agli artt. 476 e 482 cod. pen. l’alterazione di copie autentiche di atti pubblici, sicchè deve escludersi la sussistenza del reato nel caso di alterazione di copie informali.
Aderente al medesimo orientamento risulta poi Sez. 5, n. 10959 del 12.12.2012, dep. 2013, Carrozzini, Rv. 255217, pronunzia nella quale la Corte, in una vicenda in cui risultava falsificata la copia di una circolare interna che autorizzava il personale di cancelleria all’uso di un punzone non regolamentare, ha posto in rilievo che la copia fotostatica, se presentata come tale, priva quindi di qualsiasi attestazione che ne confermi l’autenticità, non può mai integrare il reato di falso materiale, neanche in caso d’inesistenza dell’originale, a meno che la stessa non sia presentata con l’apparenza di un documento originale, atto a trarre in inganno i terzi di buona fede.
Ha aggiunto che è, pertanto, solo apparente il contrasto con altro orientamento recepito da talune pronunzie della Sezione sesta, evidenziando che, nella subiecta materia, ciò che rileva è l’attitudine della copia fotostatica a sorprendere la fede pubblica (in quanto intesa a rappresentare falsamente un inesistente originale), dal che discende la sussistenza del reato nel caso in cui la fotocopia sia presentata con l’apparenza di un documento originale.
Sposa l’anzidetta opzione ermeneutica anche Sez. 5, n. 8870 del 09.10.2014, dep. 2015, Felline, Rv. 263422, pronunzia in cui la Corte ha escluso la rilevanza penale dell’uso di una copia falsificata di un’autorizzazione paesaggistica inesistente sul rilievo che tale atto, in quanto privo di autenticazione di conformità all’originale, non ha alcuna valenza probatoria, potendo lo stesso assumere una tale efficacia nei soli casi espressamente previsti dall’ordinamento.
Si inserisce ancora nel filone interpretativo in disamina Sez. 5, n. 2278 del 10.11.2017, dep. 2018, D’Ambrosio, Rv. 272373, pronunzia in cui la Corte, in un caso in cui risultava falsificata la fotocopia di un’attestazione di avvenuto pagamento di una fattura da parte di un comune, ha affermato che non integra il delitto di falsità materiale la condotta di colui che esibisca la falsa fotocopia di un documento, esistente o meno in originale, onde conseguire un qualche vantaggio, qualora si tratti di fotocopia esibita e usata come tale, dal momento che la stessa è priva dei requisiti di forma e di sostanza capaci di farla sembrare un provvedimento originale o la copia conforme di essa ed è da escludere che sia comunque documentativa dell’esistenza di un atto corrispondente, aggiungendo che le norme sulla falsità materiale colpiscono la contraffazione o l’alterazione dei documenti originali e sono dirette a reprimere la condotta di colui che ne crei l’apparenza, non anche la condotta di colui che utilizzi le riproduzioni di un documento, quando, per modalità e circostanze dell’uso, sia chiaro che si tratti di una copia.
Da ultimo, risulta riconducibile all’opzione ermeneutica in disamina Sez. 5, n. 3273 del 26.10.2018, dep. 2019, Buccella, Rv. 274628, recentissima pronunzia in cui la Corte, trattando dell’uso di una falsa fotocopia di un atto notarile di compravendita immobiliare, ha osservato che l’orientamento che sostiene la rilevanza penale della condotta non può prescindere dalla condizione che la riproduzione sia fatta passare come prova di un atto originale che non esiste, del quale intende attestare artificiosamente l’esistenza e i connessi effetti probatori, aggiungendo che l’offesa al bene tutelato ricorre, tuttavia, soltanto quando la falsificazione riguarda un documento provvisto di contenuto giuridicamente rilevante, dotato cioè della specifica funzione probatoria assegnatagli dall’ordinamento e ha concluso che l’anzidetta funzione non può essere riconosciuta ex se alla mera riproduzione di un documento originale, inferendo dall’asserto che la copia fotostatica, se presentata come tale e priva di qualsiasi attestazione che ne confermi l’autenticità, non può mai integrare il reato di falso, anche nel caso di inesistenza dell’originale, atteso che è per sua natura priva di valenza probatoria.
Con la decisione assunta all’udienza del 28.03.2019, le Sezioni Unite hanno dato risposta al quesito dianzi riportato, affermando che «la formazione della copia di un atto inesistente non integra il reato di falsità materiale, salvo che la copia assuma l’apparenza di un atto originale».
Ha premesso innanzitutto il Supremo consesso che i due orientamenti indicati si pongono in contrasto nel caso in cui la fotocopia di un atto inesistente non sia utilizzata facendola figurare come originale o come copia autentica dello stesso, ma sia presentata come tale, in luogo dell’originale, al fine di dimostrare, attraverso la produzione, l’esistenza dello stesso.
La contraffazione che si realizza mediante la formazione di un atto in realtà inesistente ben può realizzarsi – secondo l’assunto della Corte – con l’utilizzo di una falsa copia, documentando una volontà solo apparente, in quanto in realtà non espressa, neanche per simulazione.
L’ordito argomentativo evidenzia, poi, che il problema della rilevanza della contraffazione attraverso l’utilizzo di una copia si pone quando il soggetto attivo abbia direttamente prodotto detta copia, chiarendo che, nel caso in cui il predetto abbia alterato una fotocopia non materialmente prodotta, dovrebbe rispondere di un diverso reato e, segnatamente, del falso in scrittura privata ex art. 485 cod. pen., illecito che, nelle more, è stato tuttavia abrogato dall’art. 1, comma 1, lett. a), del decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 7.
Tanto premesso, il Giudice di legittimità focalizza l’attenzione in primis su quello dei contrastanti indirizzi ermeneutici che ha affermato che non sussiste il reato di falso documentale per inesistenza dell’oggetto ex art. 49 cod. pen. quando la falsificazione riguardi una copia fotostatica presentata come tale, in quanto la stessa non ha valore di documento e può essere produttiva di effetti giuridici solo se autenticata o non espressamente disconosciuta, precisando che non si verifica tuttavia tale ipotesi nel caso di riproduzione, realizzata con un fotomontaggio fraudolento e con l’utilizzo di particolari caratteristiche formali, che dia luogo, oggettivamente e nelle intenzioni dell’agente, all’apparenza di un documento originale, integrandosi in tal caso il reato previsto dagli artt. 482 e 476 cod. pen. in ragione della sostanziale assimilazione di tale fattispecie all’alterazione dell’originale del documento.
Nel contempo, il percorso motivo rimarca che, in senso contrario, non v’è alcuna norma che richieda la certificazione ufficiale di conformità per l’efficacia probatoria delle copie fotostatiche, atteso che per aversi un documento è sufficiente che la dichiarazione appaia destinata alla prova, soggiungendo che l’orientamento richiamato, per un verso, rischia di sovrapporsi alla peculiare ipotesi di reato disciplinata dall’art. 478 cod. pen. (che sanziona il falso in copia autenticata) e, per altro verso, sembra confondere il problema della falsificabilità del documento-fotocopia con la diversa questione attinente alla contraffazione di un documento mediante la fotocopia, in cui il tema dell’autenticazione non assume alcun rilievo.
Volgendo l’attenzione al diverso orientamento giurisprudenziale, secondo cui la formazione di una copia fotostatica può integrare gli estremi della falsità materiale quando le modalità di utilizzo siano tali da farla apparire come un originale, traendo in inganno i terzi di buona fede, la Corte evidenzia che, per detta opzione ermeneutica, è escluso che possa assumere rilievo l’assenza dell’attestazione di autenticità, non incidendo la stessa sulla rilevanza penale del fatto, allorchè il documento abbia comunque l’apparenza di un originale e come tale sia utilizzato, considerato anche il notevole grado di sofisticazione raggiunto dai macchinari attualmente utilizzabili.
Nell’intento di porre in luce i limiti di detto indirizzo, rileva che la dottrina ha avuto modo di chiarire che l’utilizzo di una fotocopia non implica, di per sé, l’alterazione della paternità dell’atto, ma determina, piuttosto, un inganno, in quanto crea i presupposti di una condotta truffaldina e ha aggiunto che l’opzione esegetica de qua, senza esprimere una reale capacità selettiva dell’area di rilevanza penale del falso in fotocopia, rischia, da un lato, di limitare il suo ambito di operatività a una scontata verifica della natura grossolana del falso e, dall’altro, di trasferire l’accertamento della condotta di falsità materiale su un piano eccentrico rispetto al giudizio di tipicità, rinviando all’utilizzo che in concreto è stato fatto della copia e così attribuendo rilievo a un profilo irrilevante nella struttura tipica del fatto.
Maggiormente condivisibile risulterebbe invece, all’interno di tale indirizzo, quel filone interpretativo che meglio ne definisce l’ambito di estensione, incentrando l’attenzione sulle ipotesi in cui la copia di un documento si presenti o venga esibita con caratteristiche tali da voler sembrare un originale e averne l’apparenza o la sua formazione sia idonea e sufficiente a documentare, nei confronti dei terzi, l’esistenza di un originale conforme, in quanto trova concreta applicazione un criterio di riferimento oggettivo, secondo cui il soggetto che produce la copia deve compiere anche un’attività di contraffazione incidente sui tratti caratterizzanti il documento prodotto, attributivo allo stesso di una parvenza di originalità, valevole a farlo sembrare, per la presenza di determinati requisiti formali e sostanziali, un provvedimento originale o la copia conforme di un tale atto ovvero comunque documentativa dell’esistenza di un atto corrispondente.
Entro tale prospettiva risulta, invero, indifferente la circostanza di fatto della materiale esistenza o meno dell’atto originale rispetto al quale dovrebbe operarsi il raffronto comparativo, atteso che l’intervento falsificatorio effettuato con la contraffazione assume come riferimento non tanto la copia in sé, quanto il falso contenuto dichiarativo o di attestazione apparentemente mostrato dalla natura della copia formata ed esibita dall’agente, laddove l’atto originale non esiste affatto ovvero, se realmente esistente, rimane inalterato e comunque estraneo alla vicenda.
Tanto chiarito, la Corte ha ulteriormente aggiunto che non si pone, nella subiecta materia, un problema di indebita estensione degli effetti della previsione di cui all’art. 2719 cod. civ. in tema di efficacia delle fotocopie di atti, dovendosi far riferimento al documento che risulta effettivamente oggetto dell’attività di contraffazione, del cui inesistente originale la copia è, nell’intenzione dell’agente, destinata a provare artificiosamente l’esistenza e che neppure può ritenersi fondata l’evocata disparità di trattamento a fronte del più severo regime sanzionatorio che deriverebbe per la ipotesi di contraffazione della copia semplice rispetto a quella della fotocopia autentica (costituente il meno grave reato di cui all’art. 478 cod. pen.), essendo l’oggetto reale del delitto di cui all’art. 476 cod. pen. il documento originale di cui è contraffatta l’esistenza e non la sua copia.
Alla stregua delle osservazioni complessivamente esposte, il Supremo consesso ha concluso quindi che «la formazione della copia di un atto inesistente non integra il reato di falsità materiale, salvo che la copia assuma l’apparenza di un atto originale».
Sentenze della Corte di cassazione
Sez. 6, n. 6572 del 10/12/2007, Capodicasa, Rv. 239453
Sez. 5, n. 14308 del 19/03/2008, Maresta, Rv. 239490
Sez. 5, n. 24012 del 12/05/2010, Pezone, Rv. 247399
Sez. 5, n. 40415 del 17/05/2012, Della Peruta, Rv. 254632
Sez. 5, n. 4651 del 16/10/2017, dep. 2018, Lisca, Rv. 272275
Sez. 5, n. 5452 del 18/01/2018, Peroni
Sez. 5, n. 33858 del 24/04/2018, Manganaro, Rv. 273629
Sez. 5, n. 11185 del 05/05/1998, Detti, Rv. 212130
Sez. 5, n. 4406 del 04/03/1999, Pegoraro, Rv. 213125
Sez. 5, n. 7385 del 14/12/2007, dep. 2008, Favia, Rv. 239112
Sez. 5, n. 42065 del 03/11/2010, Russo, Rv. 248922
Sez. 5, n. 10959 del 12/12/2012, Carrozzini, Rv. 255217
Sez. 5, n. 8870 del 09/10/2014, dep. 2015, Felline, Rv. 263422
Sez. 5, n. 2278 del 10/11/2017, D’Ambrosio, Rv. 272373
Sez. 5, n. 3273 del 26/10/2018, dep. 2019, Buccella, Rv. 274628
Nella giurisprudenza della Corte si è registrato un contrasto in ordine alla configurazione dell’aggravante dell’agevolazione mafiosa introdotta nell’ordinamento dall’art. 7 del d.l. 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203, ed oggi inserita nell’art. 416-bis.1 cod. pen., che prevede un aumento di pena in caso di delitti commessi “al fine di agevolare l’attività delle associazioni” previste dall’articolo 416-bis del codice penale, nonché in relazione all’individuazione della disciplina applicabile in caso di concorso di persone nel reato.
Secondo un primo orientamento, tale circostanza è integrata da un atteggiamento di tipo psicologico dell’agente ed essendo riconducibile tra quelle concernenti i motivi a delinquere rientra tra quelle soggettive indicate nell’art. 118 cod. pen., con la conseguenza che non è estensibile ai concorrenti nel reato.
Secondo un contrapposto orientamento, invece, l’aggravante è integrata da un elemento obiettivo, attinente alle modalità dell’azione, ed è quindi riconducibile tra quelle di natura oggettiva ai sensi dell’art. 70 cod. pen., non contemplate dall’art. 118 cod. pen., con conseguente estensibilità ai concorrenti, ai sensi dell’art. 59, secondo comma, cod. pen., purché conosciuta o conoscibile.
Secondo un ulteriore orientamento, infine, la natura dell’aggravante e la relativa disciplina in caso di concorso di persone nel reato dipendono da come tale aggravante si atteggia in concreto e dal reato a cui la stessa accede.
Secondo l’orientamento che ne sostiene la natura soggettiva l’aggravante in esame è integrata da un atteggiamento psicologico, per lo più definito in termini di dolo specifico: occorre cioè che l’agente, oltre alla coscienza e volontà del fatto materiale integrante l’elemento oggettivo del reato base, agisca per un fine particolare (quello di agevolare l’attività dell’associazione di tipo mafioso), la cui realizzazione non è necessaria per l’integrazione dell’aggravante stessa (Sez. 6, n. 9691 del 19/09/1996, Mango, Rv. 206013; Sez. 6, n. 2730 del 28/01/1997, Accetta, Rv. 207532; Sez. 6, n. 5991 del 14/03/1997, Vasile, Rv. 208202; Sez. U, n. 10 del 28/03/2001, Cinalli, Rv. 218377; Sez. U, n. 337 del 18/12/2008, dep. 2009, Antonucci, Rv. 241578; Sez. 5, n. 4037 del 22/11/2013, B., Rv. 258868; Sez.6, n. 44698 del 22/09/2015, Cannizzaro, Rv. 265359; Sez. 6, n. 31874 del 09/05/2017, Ferrante, Rv. 270590; Sez. 6, n. 52910 del 24/10/2018, Vitale; Sez. 6, n. 28212 del 12/10/2017 - dep. 2018 -, Barallo, Rv. 273538; Sez. 6, n. 53691 del 17/10/2018, Belvedere, Rv. 274615; Sez. 6, n. 35677 del 02/05/2017, Mungelli, Rv. 271662; Sez. 1, n. 54085 del 15/11/2017, Quaranta, Rv. 271641).
Così configurata, l’aggravante viene ritenuta di natura soggettiva, in quanto concernente i motivi a delinquere (Sez. 1, n. 52505 del 20/12/2017 - dep. 2018 -, Lamanna, Rv. 276150; Sez. 6, n. 46007 del 06/07/2018, D’Ambrosca, Rv. 274280) o l’intensità del dolo (Sez. 6, n. 11356 del 08/11/2017 - dep. 2018 -, Ardente, Rv. 272525), e riconducibile nell’ambito di quelle contemplate dall’art. 118 cod. pen., che “sono valutate soltanto riguardo alla persona cui si riferiscono” e non si estendono, pertanto, ai concorrenti nel reato (Sez. 3, n. 36364 del 20/05/2015, Mancuso, non mass.; Sez. 3, n. 9142 del 13/01/2016, Basile, Rv. 266464; Sez. 6, n. 29816 del 29/03/2017, Gioffré, Rv. 270602; Sez. 6, n. 25510 del 19/04/2017, Realmuto, Rv. 270158; Sez. 6, n. 35677 del 02/05/2017, Mungelli, Rv. 271662; Sez. 6, n. 43890 del 21/06/2017, Aruta, Rv. 271098; Sez. 6, n. 11356 del 08/11/2017 - dep. 2018 -, Ardente, Rv. 272525 ; Sez. 2, n. 6021 del 29/11/2017 - dep. 2018 -, Lombardo, Rv. 272007; Sez. 1, n. 52505 del 20/12/2017 - dep. 2018 -, Lamanna, Rv. 276150; Sez. 6, n. 46007 del 06/07/2018, D’Ambrosca, Rv. 274280; Sez. 2, n. 53142 del 18/10/2018, Inzillo, Rv. 274685).
Nel senso della natura soggettiva dell’aggravante dell’agevolazione mafiosa si sono già espresse le Sezioni Unite della Corte, nelle due decisioni che si sono occupate di questioni concernenti l’applicazione dell’art. 7 d.l. n. 152 del 1991, diverse da quella relativa alla natura dell’aggravante e ai requisiti necessari per la sua estensione ai concorrenti nel reato.
Nella sentenza “Cinalli” (Sez. U, n. 10 del 28/03/2001, Cinalli, Rv. 218377) l’aggravante dell’agevolazione – a differenza di quella del metodo mafioso – è stata ritenuta dalle Sezioni Unite di “tipo soggettivo”, rilevando che essa “si sostanzia nella volontà specifica di favorire ovvero di facilitare, con il delitto posto in essere, l’attività del gruppo” ed è “relativa alla semplice volontà di favorire, indipendentemente dal risultato, l’attività del gruppo, e cioè qualsiasi manifestazione esteriore del medesimo”; concetto, quest’ultimo “che non coincide con il perseguimento dei fini sociali in cui si sostanzia invece il dolo specifico della figura di cui all’art. 416-bis cod. pen.”.
Secondo quanto ritenuto dalle Sezioni Unite nella sentenza “Antonucci” (Sez. U, n. 337 del 18/12/2008, dep. 2009, Antonucci, Rv. 241578) l’aggravante in esame è di “natura soggettiva”, giacché è “costituita dallo scopo di agevolare, con il delitto posto in essere, l’attività dell’associazione di tipo mafioso”, e, inoltre, si pone in rapporto di specialità con l’aggravante comune dei motivi abietti o futili.
Nell’ambito dell’orientamento che ritiene l’aggravante di natura soggettiva non è tuttavia pacifico quale sia l’elemento soggettivo necessario ad integrare l’aggravante.
La Corte se, infatti, in molte sentenze ritiene che, in considerazione della particolare motivazione a delinquere su cui è incentrata, l’aggravante in esame “è costruita strutturalmente richiedendo la necessaria presenza del dolo specifico” (ex multis: Sez. 6, n. 28212 del 12/10/2017 - dep. 2018 -, Barallo, Rv. 273538; Sez. 6, n. 53691 del 17/10/2018, Belvedere, Rv. 274615; Sez. 6, n. 35677 del 02/05/2017, Mungelli, Rv. 271662), in molte altre, tuttavia, ritiene che l’aggravante non sia esclusa dal fatto che l’agente persegua un diverso scopo, purché sia consapevole di avvantaggiare l’associazione mafiosa (dolo diretto) (Sez. 5, n. 11101 del 04/02/2015, Platania, Rv. 262713; Sez. 3, n. 9142 del 13/01/2016, Basile, Rv. 266464; Sez. 2, n. 53142 del 18/10/2018 , Inzillo, Rv. 274685).
Il tema del concorso di un movente egoistico dell’azione delittuosa è stato approfondito dalla Corte (Sez. 6, n. 29311 del 03/12/2014 - dep. 2015 -, Cioffo, Rv. 264082), rilevando che, ai fini dell’integrazione dell’aggravante in esame, se “non occorre che l’agevolazione rappresenti il movente esclusivo ad anche solo dominante dell’azione criminosa, ben potendo la stessa essere determinata anche da finalità diverse, cominciando da quella di lucro personale”, è tuttavia necessario che sia ravvisabile “un personale interesse dell’agente affinché sia prodotto un vantaggio a favore dell’ente”, e cioè che il fine di agevolare l’associazione mafiosa abbia costituito “lo scopo almeno concorrente dell’agire delittuoso”, non bastando la mera accettazione dell’eventualità o della certezza di un vantaggio per l’ente, cioè il dolo eventuale e il dolo diretto.
Analogamente non appare pacifico, nell’ambito del medesimo orientamento, quale sia il requisito necessario ai fini dell’applicazione della circostanza in caso di concorso di persone nel reato, ai sensi dell’art. 118 cod. pen., e cioè se sia necessario individuare in capo a ciascun concorrente il dolo specifico richiesto dalla norma o se, invece, sia sufficiente che il concorrente abbia arrecato il proprio contributo nella consapevolezza della finalità agevolatrice perseguita dall’agente.
Infatti la Corte, mentre in alcune pronunce richiede la necessità di accertare il dolo specifico di agevolazione in capo a ciascun concorrente a cui deve essere applicata (Sez. 6, n. 35677 del 02/05/2017, Mungelli, Rv. 271662; Sez. 6, n. 8891 del 19/12/2017 - dep. 2018 -, Castiglione, Rv. 272335; Sez. 6, n. 54481 del 06/11/2017, Madaffari, Rv. 271652; Sez. 2, n. 8452 del 21/01/2019, Riela, Rv. 275611), in molte altre ritiene che l’aggravante dell’agevolazione mafiosa possa essere applicata al concorrente nel reato, in base all’art. 118 cod. pen., non soltanto quando risulti che lo stesso abbia agito con lo scopo di agevolare l’attività di un’associazione di tipo mafioso, ma anche quando abbia conosciuto e fatta propria tale finalità, perseguita da altro concorrente, in linea con la giurisprudenza della Corte in tema di applicabilità ai concorrenti di altre aggravanti di natura soggettiva, quali quelle dei motivi abietti o futili, del nesso teleologico, e della premeditazione, espressamente richiamata da alcune pronunce (Sez. 6, n. 25510 del 19/04/2017, Realmuto, Rv. 270158; Sez. 2, n. 6021 del 29/11/2017 - dep. 2018 -, Lombardo, Rv. 272007; Sez. 6, n. 46007 del 06/07/2018, D’Ambrosca, Rv. 274280; Sez. 6, n. 43890 del 21/06/2017, Aruta, Rv. 271098; Sez. 6, n. 11356 del 08/11/2017 - dep. 2018 -, Ardente, Rv. 272525; Sez. 2, n. 53142 del 18/10/2018 , Inzillo, Rv. 274685; Sez. 1, n. 19818 del 23/05/2017 - dep. 2019 -, Tagliavia, Rv. 276188; Sez. 1, n. 52505 del 20/12/2017 - dep. 2018 -, Lamanna, Rv. 276150).
Nell’ambito dell’orientamento in esame, che ritiene l’aggravante integrata da un elemento di natura psicologica, è tuttavia generalmente richiesta la necessaria presenza, ai fini del riconoscimento dell’aggravante, di un elemento di natura oggettiva, costituito dalla direzione o dall’idoneità dell’azione ad agevolare l’associazione mafiosa.
Prevalentemente tale requisito è richiesto a soli fini di prova dell’elemento soggettivo in cui si sostanzia l’aggravante e non quale ulteriore elemento costitutivo necessario ai fini della sua integrazione (Sez. 6, n. 28212 del 12/10/2017 - dep. 2018 -, Barallo, Rv. 273538; Sez. 6, n. 53691 del 17/10/2018, Belvedere, Rv. 274615; Sez. 6, n. 35677 del 02/05/2017, Mungelli, Rv. 271662; Sez. 1, n. 52505 del 20/12/2017 - dep. 2018 -, Lamanna, Rv. 276150; Sez. 3, n. 9142 del 13/01/2016, Basile, Rv. 266464 e Sez. 3, n. 36364 del 20/05/2015, Mancuso, non mass.).
Tuttavia, almeno in una occasione, la Corte ha evidenziato la necessità, ai fini del’integrazione dell’aggravante, di un elemento di natura oggettiva (individuato nell’idoneità del fatto a realizzare il fine dell’agente, e quindi nell’idoneità del fatto ad agevolare l’attività dell’associazione mafiosa) non a meri fini di prova del dolo specifico, bensì quale ulteriore elemento costitutivo dell’aggravante, accanto al dolo specifico, ai fini del rispetto del principio di offensività (Sez. 6, n. 11008 del 07/02/2001, Trimigno, Rv. 218783). In tale occasione la Corte sembra aver configurato una circostanza mista, i cui elementi costitutivi sono uno di natura soggettiva e uno di natura oggettiva, riconducibile tanto a quelle soggettive attinenti ai motivi a delinquere, quanto a quelle oggettive inerenti le modalità della condotta.
La Corte ha avuto altresì occasione di precisare che “anche a voler ritenere che l’aggravante in questione implichi una condotta idonea, secondo una valutazione ex ante, alla realizzazione della finalità di agevolazione, ai fini della valutazione della sua natura giuridica, il profilo del dolo specifico risulta sicuramente assorbente rispetto a quello attinente alle modalità di esecuzione dell’azione”, ritenendo indiscutibile che l’aggravante di cui all’art. 7 d.l. n. 152 del 1991, nella sua dimensione agevolativa, sia denotata in termini di dolo specifico, in quanto dal testo della disposizione normativa proviene una precisa indicazione testuale in tale direzione (Sez. 6, n. 25510 del 19/04/2017, Realmuto, Rv. 270158).
Il contrapposto orientamento ritiene che la circostanza in esame sia integrata da un elemento oggettivo, consistente nell’essere l’azione “rivolta ad agevolare un’associazione di tipo mafioso”, e che sia quindi di natura oggettiva ai sensi dell’art. 70 cod. pen., in quanto concernente le modalità dell’azione, ed estensibile ai concorrenti nel reato, in quanto non riconducibile tra quelle contemplate dall’art. 118 cod. pen.. (Sez. 6, n. 19802 del 22/01/2009, Napolitano, Rv. 244261; Sez. 5, n. 10966 del 08/11/2012, dep. 2013, Minniti, Rv. 255206; Sez. 5, n. 9429 del 13/10/2016 - dep. 2017 -, Mancuso, Rv. 269365; Sez. 2, n. 52025 del 24/11/2016, Vernengo, Rv. 268856.; Sez. 2, n. 24046 del 17/01/2017, Tarantino, Rv. 270300).
Le sentenze riconducibili a tale orientamento per quanto è dato comprendere dalle succinte motivazioni, non ritengono tuttavia sufficiente, ai fini dell’integrazione della circostanza, la colpevole ignoranza dell’elemento oggettivo della funzionalizzazione della condotta all’agevolazione dell’associazione di tipo mafioso.
Ed invero secondo Sez. 6, n. 19802 del 22/01/2009, Napolitano, Rv. 244261, da cui sembra trarre origine l’orientamento che ritiene oggettiva l’aggravante in questione: «L’aggravante è oggettiva ai sensi dell’art. 70, n. 1, cod. pen., perché riguardante una modalità dell’azione in quanto rivolta ad agevolare un’associazione di tipo mafioso, cui corrisponde sotto il profilo soggettivo il dolo specifico, e si trasmette a tutti i concorrenti».
Il principio - così enunciato dalla Corte in tale sentenza, senza ulteriori precisazioni, né argomentazioni - sembrerebbe richiedere espressamente l’accertamento del dolo specifico in capo ad uno concorrenti, ed ammettere l’estensione di tale aggravante agli altri che non abbiano agito in base a tale finalità. La sentenza, tuttavia, non precisa quale sia il criterio di imputazione della circostanza aggravante ai concorrenti, né tramite il ricorso a locuzioni quali quelle di “consapevolezza” o “colpevole ignoranza”, né tramite il richiamo all’art. 59, secondo comma, cod. pen..
Alcune successive pronunce si limitano ad affermare la natura oggettiva dell’aggravante, senza aggiungere alcun argomento a sostegno di tale tesi né chiarire quale sia il criterio di imputazione dell’aggravante all’agente e ai concorrenti nel reato (Sez. 2, n. 52025 del 24/11/2016, Vernengo, Rv. 268856.; Sez. 2, n. 24046 del 17/01/2017, Tarantino, Rv. 270300).
In una occasione la Corte ha affermato che “stante la comunicabilità della circostanza ai corresponsabili nel medesimo reato, è sufficiente che l’aspetto volitivo – espresso nella norma col riferimento al “fine di agevolare” l’associazione mafiosa” – sussista in capo ad alcuni, o anche a uno soltanto di essi”, con la precisazione che per i concorrenti “viene in considerazione soltanto l’aspetto conoscitivo, il cui accertamento è sollecitato dal disposto dell’art. 59, comma secondo, cod. pen.”. (Sez. 5, n. 10966 del 08/11/2012, dep. 2013, Minniti, Rv. 255206).
In altra occasione la Corte ha ritenuto l’aggravante dell’agevolazione mafiosa, siccome di natura oggettiva “attenendo alla natura dell’azione”, estensibile ai concorrenti ai sensi dell’art. 59, secondo comma, cod. pen., anche quando essi “non siano consapevoli della finalizzazione dell’azione delittuosa a vantaggio di un’associazione di stampo mafioso, ma versino in una situazione di ignoranza colpevole” (Sez. 5, n. 9429 del 13/10/2016 - dep. 2017 -, Mancuso, Rv. 269365).
La configurabilità dell’aggravante a carico dei concorrenti che la abbiano colposamente ignorata, ai sensi dell’art. 59, secondo comma, cod. pen., è stata ritenuta dalla Corte anche in altre sentenze che non affermano espressamente la natura oggettiva della circostanza (Sez. 2, n. 13707 del 11/03/2016, Ciarfaglia, Rv. 266518; Sez. 2, n. 11987 del 18/02/2016, Pantisano Trusciglio, Rv. 266681; Sez. 6, n. 24025 del 30/05/2012, Di Mauro, Rv. 253114), ed è stato precisato che la consapevolezza della finalizzazione dell’azione al finanziamento di un’associazione mafiosa è essenziale alla configurazione dell’aggravante ma non è richiesto che tale consapevolezza sia condivisa da parte di tutti i concorrenti, perché trova applicazione il disposto dell’art. 59, secondo comma, cod. pen., che impone di valutare le circostanze a carico dell’agente, anche quando le abbia ignorate per sua colpa (Sez. 6, n. 24025 del 30/05/2012, Di Mauro, Rv. 253114).
Pertanto, le sentenze riconducibili all’orientamento che ritiene di natura oggettiva l’aggravante dell’agevolazione mafiosa, per quanto è dato comprendere dalle succinte motivazioni, non ritengono sufficiente, ai fini dell’integrazione della circostanza, un atteggiamento di ignoranza incolpevole.
L’ignoranza incolpevole, secondo tale orientamento, può essere infatti sufficiente ai fini dell’estensione della circostanza ai concorrenti nel reato, ma non per l’integrazione dell’aggravante, per la quale sembra richiesta la sussistenza, in capo ad almeno uno dei concorrenti, oltre all’elemento oggettivo dell’essere la condotta rivolta all’agevolazione dell’associazione di tipo mafioso, anche quello soggettivo individuato o nel dolo specifico o nella consapevolezza di tale oggettiva funzionalizzazione della condotta.
Si segnala che nessuna delle sentenze riconducibili all’orientamento che ritiene di natura oggettiva l’aggravante dell’agevolazione dà atto del contrasto sul punto che si è registrato nella giurisprudenza della Corte, né, quindi, si confronta con le argomentazioni poste alla base della tesi contrapposta.
L’orientamento intermedio ritiene che la natura dell’aggravante e la relativa disciplina in caso di concorso di persone nel reato dipendano da come la stessa si atteggia in concreto e dal reato a cui essa accede: quando l’aggravante in concreto si configura come un dato oggettivo, che travalica la condotta del singolo agente, e che, piuttosto che denotare una specifica attitudine delittuosa del singolo concorrente, finisce per agevolare la commissione del reato, deve ritenersi estensibile ai concorrenti, in base al principio “ubi commoda ibi incommoda” che deve guidare l’interpretazione nei casi dubbi sino a far ritenere oggettive le aggravanti che abbiano facilitato la commissione del reato. (Sez. 2, n. 22153 del 11/12/2018 – dep. 2019 -, Gumari, Rv. 275588; Sez. 6, n. 53646 del 04/10/2017, Aperi, Rv. 271685).
Ciò viene ritenuto ravvisabile con riferimento al reato associativo allorquando la finalità di agevolare un’associazione mafiosa risulta direttamente connessa alla concreta struttura organizzativa dell’associazione semplice, perché questa si pone in collegamento alla associazione mafiosa (vuoi perché la seconda le garantisce spazi di operatività nei territori controllati, oppure avallo e protezione in cambio dello svolgimento a suo vantaggio di parte della propria attività, vuoi perché la prima “foraggia” la seconda o ne reimpiega i profitti, o contribuisce a formare una “cassa comune” o comunque la agevola con altre modalità), e rappresenta un dato oggettivo e strutturale che riguarda il modo di essere della associazione e, dunque, le modalità di commissione del fatto di reato.
Anche tale orientamento richiede, in via generale, ai fini dell’integrazione dell’aggravante, che l’attività dell’agente esprima comunque una oggettiva capacità di agevolare, almeno potenzialmente, l’associazione criminale, ritenendo necessaria un’interpretazione della norma che prevede l’aggravante in termini che, non confinati entro il tenore letterale della disposizione, si conformino alla struttura di un diritto penale (quale è quello del vigente sistema italiano) del comportamento.
Dall’analisi delle sentenze, e dalla loro lettura anche alla luce delle fattispecie in cui si sono pronunciate, il contrasto sembra, quindi, riguardare:
sia l’individuazione dell’elemento soggettivo necessario ad integrare l’aggravante, dovendosi stabilire se esso consista nel dolo specifico o nella mera consapevolezza della direzione (o idoneità) della condotta ad agevolare l’attività dell’organizzazione criminale (con la puntualizzazione che entrambe le tesi sono sostenute nell’ambito di ciascuno dei contrapposti orientamenti);
sia il requisito necessario per l’“estensione” o l’applicabilità dell’aggravante ai concorrenti nel reato, individuato nel dolo specifico o nella consapevolezza dalle sentenze riconducibili all’orientamento che la ritiene di natura soggettiva, e anche nella mera ignoranza colposa dalle sentenze che la ritengono invece di natura oggettiva.
Infatti, per quanto attiene all’individuazione dell’elemento soggettivo integrante l’aggravante dell’agevolazione mafiosa:
nell’ambito dell’orientamento che ritiene soggettiva l’aggravante l’elemento psicologico necessario ad integrarla, per alcune sentenze, consiste nel dolo specifico (si vedano ex multis: Sez. 5, n. 4037 del 22/11/2013, B., Rv. 258868; Sez.6, n. 44698 del 22/09/2015, Cannizzaro, Rv. 265359; Sez. 6, n. 35677 del 02/05/2017, Mungelli, Rv. 271662; Sez. 6, n. 31874 del 09/05/2017, Ferrante, Rv. 270590; Sez. 6, n. 28212 del 12/10/2017 - dep. 2018 -, Barallo, Rv. 273538; Sez. 6, n. 11356 del 08/11/2017 - dep. 2018 -, Ardente, Rv. 272525; Sez. 1, n. 54085 del 15/11/2017, Quaranta, Rv. 271641; Sez. 1, n. 52505 del 20/12/2017 - dep. 2018-, Lamanna, Rv. 276150; Sez. 6, n. 46007 del 06/07/2018, D’Ambrosca, Rv. 274280 – 02; Sez. 6, n. 53691 del 17/10/2018, Belvedere, Rv. 274615; Sez. 6, n. 52910 del 24/10/2018, Vitale, non mass.), mentre, per altre, è ravvisabile nella consapevolezza che la condotta sia funzionale ad agevolare l’organizzazione criminale (Sez. 5, n. 11101 del 04/02/2015, Platania, Rv. 262713; Sez. 3, n. 36364 del 2015, Mancuso, non mass.; Sez. 2, n. 53142 del 18/10/2018 , Inzillo, Rv. 274685);
analogamente, anche nell’ambito del contrapposto orientamento che ritiene oggettiva l’aggravante, alcune sentenze richiedono, ai fini della sua integrazione, oltre all’elemento oggettivo inerente le modalità della condotta, che in capo ad almeno uno dei concorrenti sia configurabile il dolo specifico (Sez. 6, n. 19802 del 22/01/2009, Napolitano, Rv. 244261; Sez. 5, n. 10966 del 08/11/2012, dep. 2013, Minniti, Rv. 255206), mentre altre ritengono che, oltre all’elemento oggettivo, sia necessaria e sufficiente, in capo ad almeno uno dei concorrenti, la consapevolezza, della oggettiva finalizzazione dell’azione all’agevolazione dell’attività dell’associazione mafiosa (Sez. 6, n. 24025 del 30/05/2012, Di Mauro, Rv. 253114).
Per quanto riguarda la disciplina applicabile in caso di concorso di persone nel reato il contrasto non si riduce alla mera alternativa tra chi sostiene l’applicabilità dell’art. 118, cod. pen., e chi ritiene invece applicabile l’art. 59, secondo comma, cod. pen., e quindi sufficiente l’ignoranza colposa per l’estensione dell’aggravante al concorrente nel reato.
Infatti, nell’ambito dell’orientamento che ritiene di natura soggettiva l’aggravante, si distingue la tesi che richiede, per la sua applicazione al concorrente nel reato, che anch’esso sia animato dal dolo specifico richiesto dalla norma (Sez. 6, n. 35677 del 02/05/2017, Mungelli, Rv. 271662; Sez. 6, n. 8891 del 19/12/2017 - dep. 2018 -, Castiglione, Rv. 272335; Sez. 6, n. 54481 del 06/11/2017, Madaffari, Rv. 271652; Sez. 2, n. 8452 del 21/01/2019, Riela, Rv. 275611; si veda anche Sez. 6, n. 29816 del 29/03/2017, Gioffré, Rv. 270602), da quella che ritiene invece sufficiente la mera consapevolezza da parte del concorrente della finalità perseguita dall’agente (in tal senso sembrerebbero orientate: Sez. 6, n. 25510 del 19/04/2017, Realmuto, Rv. 270158; Sez. 2, n. 6021 del 29/11/2017 - dep. 2018 -, Lombardo, Rv. 272007; Sez. 6, n. 46007 del 06/07/2018, D’Ambrosca, Rv. 274280; Sez. 6, n. 43890 del 21/06/2017, Aruta, Rv. 271098; Sez. 6, n. 11356 del 08/11/2017 - dep. 2018 -, Ardente, Rv. 272525; Sez. 2, n. 53142 del 18/10/2018, Inzillo, Rv. 274685; Sez. 1, n. 19818 del 23/05/2017 - dep. 2019 -, Tagliavia, Rv. 276188; Sez. 1, n. 52505 del 20/12/2017 - dep. 2018 -, Lamanna, Rv. 276150, secondo le quali è sufficiente che il concorrente abbia “fatta propria” la finalità di agevolare l’associazione mafiosa, propria dell’agente ).
Controverso risulta pertanto se sia necessario il dolo specifico in capo a ciascun concorrente, se sia sufficiente la consapevolezza da parte del concorrente della finalità perseguita dall’agente, o se sia sufficiente addirittura la sola ignoranza colposa dell’idoneità della condotta ad agevolare l’attività dell’associazione mafiosa.
L’individuazione dei requisiti necessari per l’applicazione della circostanza in esame al concorrente dipende, altresì, da come si ricostruisca l’elemento soggettivo integrante l’aggravante, essendo evidente che laddove si ritenga sufficiente la mera consapevolezza dell’idoneità della condotta ad agevolare l’attività dell’associazione mafiosa, ai fini del riferimento dell’aggravante tanto a carico dell’agente, quanto a carico del concorrente, ai sensi dell’art. 118 cod. pen., risulta sufficiente tale mera consapevolezza.
La questione controversa risulta connessa con quella della configurabilità dell’aggravante dell’agevolazione mafiosa con riferimento ai reati commessi dagli appartenenti al sodalizio, risolta in senso positivo dalle Sezioni unite “Cinalli” (Sez. U, n. 10 del 28/03/2001, Cinalli, Rv. 218377) , le quali hanno escluso, avuto riguardo all’art. 416-bis cod. pen., che si verta in un’ipotesi di concorso apparente di norme, e quindi che si abbia violazione del principio del ne bis in idem sostanziale, proprio aderendo alla configurazione dell’aggravante in chiave soggettiva, per la cui integrazione è richiesta la semplice volontà di favorire l’attività dell’organizzazione, indipendentemente dal conseguimento di tale risultato, a differenza del reato associativo che postula un effettivo contributo alla causa comune.
Altra questione connessa a quella oggi sottoposta all’esame delle Sezioni Unite è quella relativa ai requisiti, di natura oggettiva e soggettiva, necessari e sufficienti ad integrare il concorso esterno in associazione mafiosa.
L’interpretazione dell’art. 7 d.l. cit. è infatti condizionata dal tema del concorso esterno, per la necessità di individuare un ambito applicativo autonomo per ciascuna delle due figure.
Secondo la giurisprudenza della Corte, ai fini della configurabilità del concorso esterno, sul fronte dell’elemento oggettivo, è necessario un contributo causale effettivo, da valutarsi ex post, al rafforzamento o al consolidamento dell’organizzazione e alla realizzazione, anche parziale, del suo programma criminoso, e sul piano dell’elemento soggettivo è sufficiente il dolo diretto, configurabile anche quando il contributo prestato all’associazione non abbia rappresentato l’obiettivo primario dell’agente ma costituisca il mezzo attraverso il quale raggiungere un diverso scopo finale (Sez. U, n. 16 del 05/10/1994, Demitry, Rv. 199386; Sez. U, n. 22327 del 30/10/2002 - dep. 2003 - Carnevale, Rv. 224181; Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, Mannino, Rv. 231671)
La differenza con la fattispecie aggravata ai sensi dell’art.7 d.l. cit., in linea teorica, se si riconosce all’aggravante dell’agevolazione mafiosa natura soggettiva, si coglie sotto entrambi i profili, soggettivo e oggettivo: infatti l’elemento soggettivo necessario ad integrare l’aggravante viene individuato nel dolo specifico (avente, peraltro ad oggetto l’agevolazione dell’attività dell’associazione e non necessariamente il rafforzamento o consolidamento del sodalizio, né la realizzazione del relativo programma criminoso) mentre l’elemento oggettivo, se e quando richiesto ai fini dell’integrazione dell’aggravante, è individuato nell’idoneità ex ante della condotta, non dovendosi realizzare la finalità perseguita dall’agente affinché possa ritenersi sussistente l’aggravante.
Tale differenza, tuttavia, tende ad attenuarsi ove si ritenga che ai fini dell’integrazione dell’aggravante sia sufficiente, quale elemento psicologico, la mera consapevolezza dell’idoneità della condotta ad agevolare l’associazione mafiosa (come nei casi in cui l’autore del delitto così aggravato persegua, anche, un fine diverso, di natura egoistica), nonché nelle fattispecie concrete in cui il delitto commesso, contestato come aggravato dall’art. 7 d.l. cit., agevoli effettivamente l’associazione mafiosa (magari addirittura contribuendo al rafforzamento o consolidamento del sodalizio, e alla parziale realizzazione del relativo programma criminoso, come in molti casi di favoreggiamento personale di un capo mafia latitante).
Anche se si aderisce alla tesi della natura oggettiva dell’aggravante che ritiene integrata la circostanza in caso di mera consapevolezza dell’essere l’azione oggettivamente rivolta ad agevolare l’attività dell’associazione di tipo mafioso, la differenza con il concorso esterno in associazione mafiosa si fa più sottile, essendo entrambe le figure connotate dal dolo generico, che diverge solo per il suo oggetto, peraltro “sfuggente” (idoneità ex ante, o ex post della condotta, ad agevolare l’attività dell’associazione, o a rafforzare o consolidare il sodalizio), e cogliendosi la differenza sul piano oggettivo della “scivolosa” distinzione tra idoneità ex ante della condotta, ed efficienza causale del contributo, secondo una valutazione ex post.
La giurisprudenza della Corte, oltre a valorizzare la differenza strutturale tra concorso esterno e fattispecie aggravata dall’agevolazione mafiosa (nel senso che per l’integrazione della circostanza, a differenza che per il concorso esterno, non occorre che la finalità di agevolazione si sia realizzata: in tal senso Sez. U, n. 22327 del 30/10/2002 - dep. 2003 - Carnevale, Rv. 224181), tenendo conto dei casi in cui avviene che tale finalità si sia invece in concreto realizzata, e della necessità di accertamento di un elemento oggettivo anche ai fini del riconoscimento dell’aggravante, ha dato rilievo, ai fini della distinzione tra fattispecie aggravata dall’art. 7 d.l. cit. e concorso esterno in associazione mafiosa, al diverso referente causale del contributo, individuato, nel caso di concorso esterno, nel mantenimento o rafforzamento del sodalizio e, nella fattispecie aggravata dall’agevolazione mafiosa, nella agevolazione dell’ “attività” dell’associazione, nonché alla rilevante importanza della “cointeressenza” , che deve caratterizzare il solo concorso esterno (Sez. 2, n. 8452 del 21/01/2019, Riela, Rv. 275611).
Con specifico riferimento al favoreggiamento personale aggravato dall’agevolazione mafiosa è stata esclusa la possibilità di configurare il concorso di reati con il concorso esterno in associazione mafiosa, allorquando sia identica la condotta contestata per entrambi i reati, sia per l’espressa riserva contenuta nell’art. 378 cod. pen., sia perché l’aggravante dell’agevolazione coincide con l’attività del concorrente diretta ad avvantaggiare l’associazione, con la conseguenza che, nel caso in cui un pubblico ufficiale dia sistematicamente informazioni ad uno o più associati su indagini a carico di essi o dell’intero sodalizio, sarà configurabile il concorso nel reato associativo che assorbe quello di favoreggiamento aggravato (Sez. 4, n. 2100 del 10/09/1996 - dep. 1997 - , Mastrorosa, Rv. 208781. Nello stesso senso anche Sez. 2, n. 18376 del 21/03/2013, Cuffaro, Rv. 255838, secondo cui esiste, per previsione normativa un’incompatibilità strutturale tra il reato di favoreggiamento e quello di favoreggiamento aggravato ai sensi dell’art. 7, realizzati attraverso una medesima condotta).
In considerazione dei rilievi mossi dalla dottrina in ordine all’incompatibilità con il principio di offensività di una configurazione dell’aggravante in chiave meramente psicologica appare opportuno qualche cenno in ordine alla giurisprudenza della Corte in tema di altre aggravanti soggettive.
Al riguardo si segnala che, da un lato, la Corte, con riferimento ad altre aggravanti integrate da un elemento di natura psicologica, non ha trovato difficoltà a giustificare l’aumento di pena in ragione di “un atteggiamento interiore particolarmente riprovevole” (Sez. U, n. 40516 del 23/06/2016, Del Vecchio, Rv. 267629, con riferimento all’aggravante della crudeltà) o di “un istinto criminale più spiccato e della più grave pericolosità del soggetto” (Sez. 1, n. 13596 del 28/09/2011 - dep. 2012 -, Corodda, Rv. 252348 e precedenti ivi richiamati, con riferimento all’aggravante dei futili motivi), dando rilievo alle modalità dell’azione in cui tale atteggiamento si è manifestato al solo fine di evitare le derive di un diritto penale dell’atteggiamento interiore, ma senza porsi, riguardo agli elementi accidentali del reato, questioni di compatibilità con il principio di offensività.
Dall’altro lato invece, avuto riguardo all’evoluzione normativa che ha caratterizzato l’aggravante della finalità di terrorismo, è stata messa in luce la rilevanza, proprio sul piano dell’offensività, dell’elemento oggettivo dell’idoneità della condotta a produrre il danno che l’agente si prefigge come fine della sua azione. (Sez. 6, n. 28009 del 15/05/2014, Alberto, Rv. 260077).
Inoltre sembra rilevante, in ordine al contrasto in rassegna, tener conto della giurisprudenza della Corte in tema di estensione ai concorrenti di altre aggravanti soggettive.
Al riguardo si segnala che le circostanze aggravanti soggettive concernenti «le condizioni e le qualità personali del colpevole» (quali ad esempio la qualità di custode di cui all’art. 349, secondo comma, cod. pen.) e quelle riguardanti «i rapporti fra il colpevole e l’offeso», non contemplate dall’art. 118 cod. pen., sono state ritenute, dalla giurisprudenza della Corte prevalente almeno fino al 2010, estensibili ai concorrenti, col solo temperamento di cui all’art. 59, secondo comma cod. pen., cioè in quanto conosciute o conoscibili da parte del concorrente nel reato (si vedano, con riguardo all’aggravante di cui all’art. 349, secondo comma, cod. pen.: Sez. 6, n. 6577 del 26/04/1991, Cuomo, Rv. 187421; Sez. 6, n. 5218 del 10/03/1993, Ferrara, Rv. 194020; Sez. 6, n. 853 del 24/03/1993, Sorrentino, Rv. 194189; Sez. 6, n. 2732 del 20/01/1994, Mazzaglia, Rv. 198249; Sez. 3, n. 35500 del 30/05/2003, Vaghih, Rv. 225878; Sez. 3, n. 35550 del 20/05/2010, Coppola, Rv. 248365; Sez. 3, n. 2283 del 24/11/2017 – dep. 2018 -, Marrone, Rv. 272358; con riferimento all’aggravante di cui all’art. 353, secondo comma, cod. pen.: Sez. 6, n. 18310 del 24/04/2007, Cristiano, Rv. 236455; Sez. 5, n. 806 del 08/03/1993, Arena, Rv. 194140; Sez. 1, n. 4836 del 27/01/2005, Scianna, Rv. 230614; con riferimento a circostanze aggravanti inerenti i rapporti fra il colpevole e l’offeso: Sez. 3, n. 8328 del 30/06/1994, Montegrandi, Rv. 198700).
Tuttavia, fin dai primi anni 90 del secolo scorso la Corte (Sez. 1, n. 297 del 23/09/1991 - dep. 1992 -, Cappelletti, Rv. 190725), rilevando che la riforma del 1990 ha voluto rendere sempre più operativo nella normativa il principio della personalità della responsabilità penale ritenendo estensibili ai concorrenti solo “quelle circostanze la cui ragione giustificativa sia tale da coinvolgerlo”, ha segnalato le notevoli perplessità aperte dall’interpretazione del nuovo testo dell’art. 118 cod. pen., stante il raccordo esistente tra esso e la modifica dell’art. 59 cod. pen. in materia di regime di imputazione delle circostanze, ritenendo non accettabile l’interpretazione secondo cui le aggravanti soggettive non riconducibili a quelle elencate dall’art. 118 cod. pen. dovrebbero ritenersi applicabili al concorrente purché conosciute o ignorate per colpa “perché dilaterebbe eccessivamente l’area di estensibilità al concorrente delle circostanze, in modo irragionevole e, per certi aspetti, anche oltre i limiti indicati dalla norma precedente che prevedeva la comunicabilità delle circostanze aggravanti soggettive solo quando avevano agevolato la esecuzione del reato”.
A partire dal secondo decennio del nuovo secolo si è, quindi, andata affermando nella giurisprudenza della Corte, con specifico riferimento alle circostanze concernenti «le condizioni e le qualità personali del colpevole» (quali ad esempio la qualità di custode di cui all’art. 349, secondo comma, cod. pen. e quella prevista dall’art. 61, n. 6) cod. pen.) e quelle riguardanti «i rapporti fra il colpevole e l’offeso» (quali quella di cui all’art. 4, n. 3, legge 20 febbraio 1958, n. 75, o quella relativa al rapporto di parentela con la vittima prevista dall’art. 600-sexies cod. pen.), un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 118 cod. pen., alla luce degli art. 3, 13 e 27 Cost., secondo cui le circostanze soggettive non riconducibili a quelle indicate nell’art. 118 cod. pen., sono estensibili ai concorrenti solo se, oltre ad essere conosciute dal concorrente, abbiano agevolato la commissione del reato, in quanto una diversa interpretazione comporterebbe un’irragionevole compressione della libertà personale in evidente difetto di esigenze rieducative, del concorrente nel reato attraverso l’assoggettamento a un aumento della durata della detenzione (Sez. 2, Sentenza n. 22136 del 19/02/2013, Nisi, Rv. 255728; Sez. 4, n. 27046, del 01/03/2016, M., Rv. 267731; Sez. 3, Sentenza n. 38870 del 05/04/2018, B., Rv. 273706. Nello stesso senso, ma senza ricorrere a un’interpretazione costituzionalmente orientata: Sez. 3, n. 5029 del 18/10/2011 - dep. 2012 -, Ventura, Rv. 252086).
Specularmente, con riferimento alle aggravanti soggettive riconducibili a quelle elencate nell’art. 118 cod. pen., la Corte (Sez. 1, n. 7205 del 17/05/1994, Caparrotta, Rv. 199812), fin dai primi anni di applicazione della novella del 1990, ha rilevato che la loro rilevanza “strettamente individuale .. ne giustifica l’ambito di applicazione rispetto alla persona a cui si riferiscono”, precisando, tuttavia, che in tale ambito, se la recidiva e l’imputabilità, quali circostanze “inerenti la persona del colpevole” sono in ogni caso inestensibili al concorrente, altre circostanze, come quella della premeditazione, “appaiono invece dotate di una potenziale forza espansiva, il cui concreto dispiegarsi deve essere accertato di volta in volta”. E siccome la locuzione usata dal legislatore nell’art. 118 cod. pen. comporta un quid pluris rispetto alla previsione di cui all’art. 59, secondo comma cod. pen., altrimenti la norma sarebbe priva di un contenuto precettivo autonomo, la mera conoscibilità non è ritenuta sufficiente perché la premeditazione possa comunicarsi al concorrente, mentre la conoscenza effettiva legittima pienamente la sua estensione: “se, infatti il concorrente, pur non avendo direttamente premeditato l’omicidio, nondimeno ad esso partecipa nella piena consapevolezza, maturata prima dell’esaurirsi del proprio volontario apporto alla realizzazione dell’evento criminoso, della altrui premeditazione, la sua volontà, adesiva al progetto, investe e fa propria la particolare intensità dell’altrui dolo, talchè la relativa aggravante non può non essere riferita anche a lui, così come richiede il nuovo art. 118 cod. pen.” (così, testualmente: Sez. 1, n. 7205 del 17/05/1994, Caparrotta, Rv. 199812; nello stesso senso: Sez. 5, n. 8346 del 26/06/1997, Morelli, Rv. 208704, ove la corte ha precisato che la premeditazione attiene all’intensità del dolo; Sez. 1, n. 6182 del 28/04/1997, Matrone, Rv. 207997; Sez. 1, n. 12595 del 16/11/1998, Hass, Rv. 211772; Sez. 1, n. 12473 del 19/12/2001 - dep. 2002 -, Vaccaro, Rv. 221526; Sez. 1, n. 22773 del 25/03/2002, Grimoli, Rv. 221479; Sez. 1, n. 12879 del 24/01/2005, Bagarella, Rv. 231124; Sez. 2, n. 21956 del 16/03/2005, Laraspata, Rv. 231974; Sez. 1, n. 40237 del 10/10/2007, Cacisi, Rv. 237866; Sez. 5, n. 29202 del 11/03/2014, C., Rv. 262383; Sez. 6, n. 56956 del 21/09/2017, Argentieri, Rv. 271952).
Analogamente, anche la circostanza aggravante dell’aver agito per motivi abietti e futili - ritenuta dalla Corte di natura soggettiva, siccome attinente all’intensità del dolo -, ai sensi dell’ art. 118 cod. pen., viene ritenuta configurabile a carico del “concorrente che, con il proprio volontario contributo, abbia dato adesione alla realizzazione dell’evento, rappresentandosi e condividendo gli sviluppi dell’azione esecutiva posta in essere dall’autore materiale del delitto e, perciò, maturando e facendo propria la particolare intensità del dolo che abbia assistito quest’ultima” (Sez. 1, n. 6775 del 28/01/2005, Erra, Rv. 230147; Sez. 1, n. 13596 del 28/09/2011 - dep. 2012 -, Corodda, Rv. 252348; Sez. 1 , n. 50405 del 10/07/2018, Gjergji, Rv. 274538).
Più articolata è, invece, la giurisprudenza della Corte in ordine all’applicabilità dell’aggravante del nesso teleologico al concorrente nel reato.
Se, infatti, può dirsi pacifico il riconoscimento della natura soggettiva di tale aggravante (ex multis: Sez. 1, n. 12584 del 21/10/1994, Riola, Rv. 200071; Sez. 5 n. 1149 del 28/10/1996 - dep. 1997 -, Di Micco, Rv. 206915; Sez. 5, n. 11497 del 26/09/2000, Carbone, Rv. 217977; Sez. 5, n. 57488 del 06/11/2017, Pesarini, Rv. 271873), per lo più inquadrata tra quelle concernenti i motivi a delinquere, tuttavia si registrano differenze, nell’ambito della giurisprudenza di legittimità, in ordine alla configurazione dell’elemento soggettivo necessario ad integrare l’aggravante, e quindi anche a riconoscerne la sussistenza in capo al concorrente nel reato ai sensi dell’art. 118 cod. pen..
Alcune sentenze, infatti, configurando l’elemento soggettivo integrante l’aggravante del nesso teleologico in termini di “dolo diretto o intenzionale”, richiedono, ai fini della sua applicazione al concorrente nel reato, che costui abbia “voluto la finalità conseguita dall’agente” (Sez. 1, n. 12584 del 21/10/1994, Riola, Rv. 200071) ritenendo non sufficiente che il concorrente abbia consapevolezza della finalità del compartecipe (Sez. 5 n. 1149 del 28/10/1996 - dep. 1997 -, Di Micco, Rv. 206915; nello stesso senso sembra orientata Sez. 5, n. 11497 del 26/09/2000, Carbone, Rv. 217977 che ammette la configurabilità dell’aggravante in caso di cd. “dolo condizionato, ben distinto dal dolo eventuale, che concerne la direzione dell’azione voluta all’evento in concreto verificatosi”).
Per altre pronunce, invece, l’aggravante in questione può estendersi al concorrente purché “i motivi a delinquere dell’autore della condotta” rientrino “nella rappresentazione e volizione, anche solo sotto il profilo del dolo eventuale, del concorrente” (Sez. 1, n. 20756 del 02/02/2018, Giangreco, Rv. 273125).
Quest’ultima posizione sembra coerente con l’orientamento secondo cui l’aggravante soggettiva del nesso teleologico “trova fondamento nella consapevole accettazione della commissione di un altro reato, sì che la stessa è pienamente compatibile col dolo indiretto nelle sue due forme del dolo alternativo e di quello eventuale” (Sez. 5, n. 57488 del 06/11/2017, Pesarini, Rv. 271873; nello stesso senso si era già espressa Sez. 1, n. 9068 del 07/06/1979, La Neve, Rv. 143298; sembrerebbe, invece richiedere il dolo diretto: Sez. 5, n. 11497 del 26/09/2000, Carbone, Rv. 217977).
Diversamente la Corte, in tema di reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, ha ritenuto che la circostanza aggravante del fine di profitto, prevista dall’art. 12, comma 3-ter, d.lgs 25 luglio 1998, n. 286 (ritenuta “indiscutibilmente” di natura soggettiva, essendo incentrata su una particolare motivazione a delinquere e sulla specifica direzione finalistica del dolo e della condotta), non sia applicabile ai concorrenti nel reato che, pur consapevoli del profitto altrui, non abbiano agito in base a tale finalità (Sez. 1 , n. 35510 del 30/05/2019, Fantini, Rv. 276613, relativa a una fattispecie in cui la Corte ha escluso che l’aggravante fosse ravvisabile riguardo a un imputato che aveva agito per fini non patrimoniali, volendo far giungere in Italia la moglie a la figlia).
Tanto si evidenzia in questa sede in quanto, secondo la giurisprudenza della Corte la natura soggettiva di una circostanza aggravante, quand’anche riconducibile a quelle espressamente contemplate dall’art. 118 cod. pen., non ne esclude automaticamente l’applicazione ai concorrenti che siano stati consapevoli della sua sussistenza.
Il contrasto è stato rimesso alle Sezioni unite, e la questione controversa è stata così formulata : “Se l’aggravante speciale già prevista dall’art. 7 d.l. 13 maggio 1991, n. 152, ed oggi inserita nell’art. 416-bis.1 cod. pen., che prevede l’aumento di pena quando la condotta tipica sia consumata “al fine di” agevolare l’attività delle associazioni mafiose, abbia natura “oggettiva” concernendo le modalità dell’azione, ovvero abbia natura “soggettiva” concernendo la direzione della volontà”.
Le Sezioni unite si sono pronunciate con sentenza in data 19/12/2017, imp. Chioccini.
Di tale decisione è ad oggi nota la sola informazione provvisoria, del seguente tenore: “L’aggravante agevolativa dell’attività mafiosa ha natura soggettiva e si applica al concorrente solo se da lui conosciuta”.
Dall’informazione provvisoria emerge, quindi, che il Supremo consesso si è discostato dall’orientamento che ritiene l’aggravante di natura oggettiva ed estensibile anche ai concorrenti che la abbiano colposamente ignorata.
Deve attendersi invece il deposito della motivazione per comprendere se le Sezioni unite abbiano ritenuto sufficiente, ai fini dell’integrazione della circostanza aggravante, la sussistenza di un elemento di tipo psicologico, o abbiano ritenuto necessario anche un elemento di natura oggettiva, e se tale elemento psicologico consista nel dolo specifico o nella mera consapevolezza dell’idoneità della condotta ad agevolare l’attività dell’associazione mafiosa.
Sentenze della Corte di cassazione
Sez. 1, n. 9068 del 07/06/1979, La Neve, Rv. 143298
Sez. 6, n. 6577 del 26/04/1991, Cuomo, Rv. 187421
Sez. 5, n. 806 del 08/03/1993, Arena, Rv. 194140
Sez. 6, n. 5218 del 10/03/1993, Ferrara, Rv. 194020
Sez. 6, n. 853 del 24/03/1993, Sorrentino, Rv. 194189
Sez. 6, n. 2732 del 20/01/1994, Mazzaglia, Rv. 198249
Sez. 1, n. 7205 del 17/05/1994, Caparrotta, Rv. 199812
Sez. 3, n. 8328 del 30/06/1994, Montegrandi, Rv. 198700
Sez. U, n. 16 del 05/10/1994, Demitry, Rv. 199386
Sez. 1, n. 12584 del 21/10/1994, Riola, Rv. 200071
Sez. 4, n. 2100 del 10/09/1996 - dep. 1997 - , Mastrorosa, Rv. 208781
Sez. 6, n. 9691 del 19/09/1996, Mango, Rv. 206013
Sez. 5 n. 1149 del 28/10/1996 - dep. 1997 -, Di Micco, Rv. 206915
Sez. 6, n. 2730 del 28/01/1997, Accetta, Rv. 207532
Sez. 1, n. 6182 del 28/04/1997, Matrone, Rv. 207997
Sez. 6, n. 5991 del 14/03/1997, Vasile Rv. 208202
Sez. 5, n. 8346 del 26/06/1997, Morelli, Rv. 208704
Sez. 1, n. 12595 del 16/11/1998, Hass, Rv. 211772
Sez. 5, n. 11497 del 26/09/2000, Carbone, Rv. 217977
Sez. 6, n. 11008 del 07/02/2001, Trimigno, Rv. 218783
Sez. U, n. 10 del 28/03/2001, Cinalli, Rv. 218377
Sez. 1, n. 12473 del 19/12/2001 - dep. 2002 -, Vaccaro, Rv. 221526
Sez. 1, n. 22773 del 25/03/2002, Grimoli, Rv. 221479
Sez. U, n. 22327 del 30/10/2002 - dep. 2003 - Carnevale, Rv. 224181
Sez. 3, n. 35500 del 30/05/2003, Vaghih, Rv. 225878
Sez. 1, n. 12879 del 24/01/2005, Bagarella, Rv. 231124
Sez. 1, n. 4836 del 27/01/2005, Scianna, Rv. 230614
Sez. 1, n. 6775 del 28/01/2005, Erra, Rv. 230147
Sez. 2, n. 21956 del 16/03/2005, Laraspata, Rv. 231974
Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, Mannino, Rv. 231671
Sez. 6, n. 18310 del 24/04/2007, Cristiano, Rv. 236455
Sez. 1, n. 40237 del 10/10/2007, Cacisi, Rv. 237866
Sez. U, n. 337 del 18/12/2008, dep. 2009, Antonucci, Rv. 241578
Sez. 6, n. 19802 del 22/01/2009, Napolitano, Rv. 244261
Sez. 3, n. 35550 del 20/05/2010, Coppola, Rv. 248365
Sez. 1, n. 13596 del 28/09/2011 - dep. 2012 -, Corodda, Rv. 252348
Sez. 3, n. 5029 del 18/10/2011 - dep. 2012 -, Ventura, Rv. 252086
Sez. 6, n. 24025 del 30/05/2012, Di Mauro, Rv. 253114
Sez. 1, n. 49086 del 24/05/2012, Acanfora, Rv. 253962
Sez. 5, n. 10966 del 08/11/2012, dep. 2013, Minniti, Rv. 255206
Sez. 2, n. 22136 del 19/02/2013, Nisi, Rv. 255728
Sez. 2, n. 18376 del 21/03/2013, Cuffaro, Rv. 255838
Sez. 5, n. 4037 del 22/11/2013, B., Rv. 258868
Sez. 5, n. 29202 del 11/03/2014, C., Rv. 262383
Sez. 6, n. 29311 del 03/12/2014 - dep. 2015 -, Cioffo, Rv. 264082
Sez. 5, n. 11101 del 04/02/2015, Platania, Rv. 262713
Sez. 2, n. 12622 del 13/02/2015, Cosentino, Rv. 262776
Sez. 3, n. 36364 del 20/05/2015, Mancuso, non mass.
Sez.6, n. 44698 del 22/09/2015, Cannizzaro, Rv.265359
Sez. 3, n. 9142 del 13/01/2016, Basile, Rv. 266464
Sez. 2, n. 11987 del 18/02/2016, Pantisano Trusciglio, Rv. 266681
Sez. 4, n. 27046, del 01/03/2016, M., Rv. 267731
Sez. 2, n. 13707 del 11/03/2016, Ciarfaglia, Rv. 266518
Sez. U, n. 40516 del 23/06/2016, Del Vecchio, Rv. 267629
Sez. 5, n. 9429 del 13/10/2016 - dep. 2017 -, Mancuso, Rv. 269365
Sez. 2, n. 52025 del 24/11/2016, Vernengo, Rv. 268856
Sez. 2, n. 24046 del 17/01/2017, Tarantino, Rv. 270300
Sez. 6, n. 29816 del 29/03/2017, Gioffré, Rv. 270602
Sez. 6, n. 25510 del 19/04/2017, Realmuto, Rv. 270158
Sez. 6, n. 31874 del 09/05/2017, Ferrante, Rv. 270590
Sez. 6, n. 35677 del 02/05/2017, Mungelli, Rv. 271662
Sez. 1, n. 19818 del 23/05/2017 - dep. 2019 -, Tagliavia, Rv. 276188
Sez. 6, n. 43890 del 21/06/2017, Aruta, Rv. 271098
Sez. 6, n. 56956 del 21/09/2017, Argentieri, Rv. 271952
Sez. 6, n. 28212 del 12/10/2017 - dep. 2018 -, Barallo, Rv. 273538
Sez. 6, n. 54481 del 06/11/2017, Madaffari, Rv. 271652
Sez. 5, n. 57488 del 06/11/2017, Pesarini, Rv. 271873
Sez. 6, n. 11356 del 08/11/2017 - dep. 2018 -, Ardente, Rv. 272525
Sez. 1, n. 54085 del 15/11/2017, Quaranta, Rv. 271641
Sez. 3, n. 2283 del 24/11/2017 – dep. 2018 -, Marrone, Rv. 272358
Sez. 2, n. 6021 del 29/11/2017 - dep. 2018 -, Lombardo, Rv. 272007
Sez. 6, n. 8891 del 19/12/2017 - dep. 2018 -, Castiglione, Rv. 272335
Sez. 1, n. 52505 del 20/12/2017 - dep. 2018-, Lamanna, Rv. 276150
Sez. 3, n. 38870 del 05/04/2018, B., Rv. 273706
Sez. 6, n. 46007 del 06/07/2018, D’Ambrosca, Rv. 274280
Sez. 1, n. 50405 del 10/07/2018, Gjergji, Rv. 274538
Sez. 6, n. 53691 del 17/10/2018, Belvedere, Rv. 274615
Sez. 2, n. 53142 del 18/10/2018, Inzillo, Rv. 274685
Sez. 6, n. 52910 del 24/10/2018, Vitale, non mass.
Sez. 2, n. 8452 del 21/01/2019, Riela, Rv. 275611
Sez. 1, n. 35510 del 30/05/2019, Fantini, Rv. 276613
Proprio a ridosso della pubblicazione della legge 21 maggio 2019, n. 43, intitolata: «Modifica all’art. 416-ter del codice penale in materia di voto di scambio politico-mafioso» ed entrata in vigore l’11 giugno 2019, si registrano due arresti ravvicinati della Corte di cassazione – Sez. 5, n. 26426 del 07/05/2019, Rv. 275638-01, Merola, e Sez. 6, n. 9442 del 20/02/2019, Rv. 275157-01, P.M. in proc. Zullo – conformi nell’enunciare il principio della desumibilità in via indiziaria della prova dell’intesa di scambio. L’enunciazione di tale principio si affaccia per la prima volta nel circuito delle massime, anche se, in quello dei provvedimenti per esteso, già era stata compiuta dalle due gemelle Sez. 6, n. 18846 del 23/02/2018, Eboli, e Sez. 6, n. 18844 del 23/02/2018, Pignataro, cui si aggiunge, in relazione alla medesima vicenda, la consorella Sez. 6, n. 22840 del 18/04/2018, Cesarano. Infine, Sez. 5, n. 26426 del 2019, e Sez. 6, n. 9442 del 2019, sono espressamente richiamate e condivise da Sez. 5, n. 47269 del 15/07/2019, Alcamo. L’obiettiva rilevanza del principio ne impone una trattazione autonoma, che, per ragioni di convenienza espositiva, pare opportuno anteporre all’analisi degli aggiornamenti normativi. In questo modo, quest’ultima potrà criticamente giovarsi dell’esposizione dell’evoluzione giurisprudenziale esitata nel principio stesso, arricchendosi, però, nel contempo, di una sintesi delle riformate caratteristiche del delitto di cui all’art. 416-ter cod. pen., condotta sulla retrospettiva dei precedenti più rappresentativi.
Il piano della prova. Sez. 5, n. 26426 del 2019, e Sez. 6, n. 9442 del 2019, affermano concordemente il principio – che si riporta nella formulazione della massima ricavata da quest’ultimo arresto “sub” Rv. 275157-01 – per cui «l’esistenza dell’intesa per il procacciamento di consensi elettorali con ricorso a modalità mafiose può desumersi anche in via indiziaria, mediante la valorizzazione di indici fattuali sintomatici della natura dell’accordo, quali la fama criminale del procacciatore, l’assoggettamento alla forza intimidatrice promanante dagli affiliati ad associazione di tipo mafioso e l’utilità del loro apporto per il reclutamento elettorale nella zona d’influenza, risultando, per converso, irrilevante il “post factum” costituito dal mancato incremento delle preferenze». A prima lettura, sembrerebbe che la portata del principio si esaurisca sul piano esclusivamente probatorio, enunciando esso due cose:
- che la prova dell’intesa illecita – corrente tra chi promette i voti (ossia il “promittente”, che può essere un appartenente ad un’associazione di tipo mafioso o un emissario non intraneo della stessa ovvero “tout court” un “extraneus”) e chi accetta la promessa del medesimo (ossia il “promissario”, che può essere l’uomo politico o un suo collaboratore o un suo sostenitore o altri avente comunque interesse alla sua elezione) – può essere ricavata anche indiziariamente da una serie di «indicatori sintomatici» esemplificativamente elencati (tanto per recuperare il linguaggio di Sez. 5, n. 26426 del 2019);
- che nel perimetro di detta prova non è compreso l’incremento delle preferenze, non costituendo dunque questo un fattore condizionante l’affermazione giudiziale di esistenza dell’intesa stessa.
Il piano probatorio, tuttavia, rappresenta una finestra aggettante sulla realtà fenomenica, di cui consente la rappresentazione in giudizio mediante l’ingresso dei rammentati «indicatori sintomatici». La pregnanza di questi ultimi, polarizzati sulla fama criminale del procacciatore e sul controllo territoriale dell’associazione di tipo mafioso, consente di reputare raggiunta, e quindi provata, l’intesa ogniqualvolta il terreno di coltura degli accordi sia intriso di mafiosità e l’interlocutore del promissario, ben lungi dall’essere un suo, pur potente, ma onesto sostenitore, goda, non di una generica fama criminale, ma a sua volta di una specifica credibilità mafiosa (che può derivargli – secondo una graduazione decrescente – dall’appartenenza in sé all’associazione, ovvero dalla vicinanza alla stessa o a sue propaggini ovvero ancora dalla mera capacità di intrattenere rapporti con i suoi esponenti di livello tendenzialmente non basilare). In buona sostanza, quel che gli arresti più recenti paiono dire è che, in un contesto mafioso, è di per sé “significativo” – e dunque probatoriamente concludente, salve emergenze di segno contrario – che un politico si rivolga ad un mafioso o ad un soggetto “in odore di mafia” per stipulare un accordo finalizzato alla raccolta di voti sul territorio sottoposto a controllo. La «“mafiosità” del contesto» (Sez. 5, n. 26426 del 2019, par. 1.1, p. 6) costituisce l’unica spiegazione plausibile della condotta del politico, istante per l’incetta di suffragi presso chi sa ragionevolmente avere un “background” sufficiente a garantirgliela. Tale, in effetti, è la testuale conclusione – oltreché, nuovamente, di Sez. 5, n. 26426 del 2019, par. 2.1, p. 7: «[…] si deve rilevare come non si sia individuata alcuna altra ragione per la quale il candidato alle elezioni del consiglio regionale, [promissario], si sia rivolto al [promittente], [per il] tramite [del]l’intermediario […], se non quella della sua prossimità al clan mafioso di riferimento del territorio, capeggiato dai […]», in una realtà territoriale così sovrastata dal controllo camorristico che il clan costringeva i candidati, con metodi autenticamente estorsivi, ad avvalersi di una certa cooperativa per l’affissione dei manifesti elettorali – anche di Sez. 5, n. 47269 del 2019, par. 2.1.3, pp. 3 e 4, che, pur’essa ragionando del «contesto mafioso» in quel di Trapani, replica addirittura fraseologia e costrutti del precedente, limitandosi ad aggiungere, quanto all’intermediario tra una candidata alle elezioni regionali siciliane e la famiglia mafiosa imperante del trapanese, che «anzi proprio l’intermediazione d[el medesimo …], quale soggetto ritenuto insospettabile, ha consentito che si concludesse l’accordo». Il risultato probatorio, compenetrando la lettura fenomenico-ricostruttiva del singolo episodio di contiguità politico-mafiosa con la prova logica dell’unica spiegazione plausibile – alle date condizioni – della condotta del politico, si preserva da ricadute apodittiche, ossequiando il canone della ragionevolezza. D’altra parte, ad avere “appeal” sul politico è la potenza mafiosa di per sé considerata, in grado di astrattamente assicurargli, nel territorio, il “consenso coatto” degli assoggettati, ossia quella marcia in più che al medesimo serve per sbaragliare la concorrenza dei contendenti leali nella competizione elettorale. Icasticamente, Sez. 6, n. 18844 del 2018, scrive che «la “logica causale” dell’accordo e della scelta dell’interlocutore, da parte del candidato, è determinata proprio dalla fama criminale del promittente e dalla consapevolezza delle modalità con cui sarà attuato il reclutamento elettorale» (primo par. di p. 7, virgolette aggiunte).
L’insegnamento testé illustrato trova plastica rispondenza nel raffronto del principio riprodotto in apertura con la fattispecie su cui è intervenuta Sez. 6, n. 9442 del 2019. Si verteva della promessa di chi, in tesi d’accusa, si assumeva essere il capo dell’associazione camorristica egemone di procurare voti ad un candidato alle elezioni comunali – accettante a mezzo del solito intermediario – in cambio della successiva costituzione di una cooperativa di ex-detenuti da assumere per lo svolgimento di servizi di pubblica utilità. I giudici della cautela, pur ritenuta fondata in fatto l’ipotesi accusatoria, avevano respinto la richiesta di misura per difetto dei gravi indizi di colpevolezza, in quanto era stata annullata dal tribunale del riesame, per mancata prova della mafiosità del clan, l’ordinanza con cui al promittente – condannato decenni addietro per il delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen. – era stato contestato di esserne il capo; le estorsioni al medesimo contestate in altro procedimento cautelare non erano aggravate dal metodo mafioso e l’intesa raggiunta non aveva prodotto risultati, avendo il candidato ottenuto, nella zona controllata dal clan, lo stesso numero di preferenze registrate nella precedente tornata elettorale. La Corte, rilevato tra l’altro come l’ordinanza sulla partecipazione del promittente ad un clan camorristico nella qualità di capo sia stata annullata in sede di legittimità, ritiene che, in relazione al voto di scambio, medesimamente i giudici di merito siano incorsi in errore, «per un verso, valorizzando una circostanza, quella del numero delle preferenze conseguite dal candidato […], che costituisce un “post factum” del tutto irrilevante ai fini della configurabilità del delitto in argomento, tenuto conto che è pacifico che questo illecito si consuma nel momento dello scambio delle promesse, a nulla rilevando l’eventuale mancato rispetto degli impegni assunti; per altro verso, sminuendo la portata indiziaria di una serie di elementi di conoscenza offerti dalle carte del procedimento – quali i gravi e specifici precedenti penali del [promittente], l’assenza di un qualsivoglia impegno lavorativo lecito da parte di quest’ultimo ed il tenore delle propalazioni al riguardo fornite da [un] collaboratore di giustizia […] – da [cui] sarebbe stato ben possibile desumere la più che probabile certezza che le parti di quell’accordo avessero dato per scontato che, per la notoria fama criminale del promittente, la promessa di ricerca di quei voti si sarebbe tradotta in una campagna di reclutamento attuata mediante forme di condizionamento basate sul compimento di atti di prepotenza e di sopraffazione tipici dell’agire mafioso» (par. 4, p. 5). Nella direzione dell’assorbente consistenza della «notoria fama criminale del promittente», ancor più emblematico è forse il caso di Sez. 6, n. 18844 del 2018 (comune a Sez. 6, n. 22840 del 2018, e Sez. 6, n. 18846 del 2018, come indicato nel par. 1). Originariamente contestata, anche questa volta in sede cautelare, la duplice violazione degli artt. 416-bis e 416-ter cod. pen., il tribunale del riesame aveva ritenuto insussistenti i gravi indizi di colpevolezza rispetto al primo delitto, nondimeno confermando l’ordinanza genetica con riferimento al voto di scambio politico-mafioso, intercorso tra un noto pluriomicida, già appartenuto alla N.C.O. e successivamente condannato quale esponente di vertice di un clan camorristico, ed un consigliere comunale che, in cambio di sostegno per le imminenti elezioni, aveva promesso di «attivarsi sul fronte politico-amministrativo per ottenere una modifica dello strumento urbanistico comunale, necessaria per la realizzazione di un progetto edilizio di interesse d[i detto pregiudicato] e [e di un] suo stretto collaboratore» (par. 1 del «Ritenuto in fatto», p. 2). Alla censura difensiva volta a dedurre l’erroneità del provvedimento impugnato nella parte in cui, facendo riferimento alla risalente fama criminale del promittente in funzione della partecipazione ad organizzazioni ormai estinte, aveva aderito ad un’inammissibile interpretazione estensiva dell’art. 416-ter cod. pen., non considerando come questo presupponga invece l’esistenza in vita di un’associazione di stampo mafioso, risponde la Corte che, in realtà, i giudici di merito avevano descritto e valorizzato «una pluralità di condotte del [promittente]», tra cui in specie quella di irrogare punizioni e di «dirimere controversie», «dimostrativ[e] degli interessi illeciti coltivati in costanza di detenzione [peraltro scontata in regime domiciliare per motivi di salute che non gli impedivano di circolare liberamente], della considerazione di cui ancora gode[va] e dell’abituale ricorso a modalità mafiose e violente per preservare e consolidare fama e potere criminale nel territorio e nell’ambiente, in cui storicamente aveva operato in posizione egemone, di matrice e marca camorristica» (par. 1, p. 4). In ragione di ciò, correttamente il tribunale aveva «valorizzato la consapevolezza del [promissario] della caratura criminale e del potere di controllo esercitabile dal [promittente] su un consistente numero di elettori», «in forza della capacità intimidatoria», «indipendentemente dalla attuale disponibilità di un proprio sodalizio, potendo [egli], comunque, disporre di fidati collaboratori e di fedeli esecutori dei suoi ordini» (par. 1, p. 5).
La rilevanza, nella dinamica del delitto di cui all’art. 416-ter cod. pen., della «notoria fama criminale» (Sez. 6, n. 9442 del 2019, loc. ult. cit.) o dell’«autorità mafiosa» del promittente (Sez. 6, n. 18844 del 2018, par. 1, p. 6), non obnubila quella normativamente prescritta delle «modalità [di procacciamento dei voti] di cui al terzo comma dell’articolo 416-bis [cod. pen.]» (art. 416-ter, comma 1, cod, pen.).
Trattasi, invero, di due facce della stessa medaglia, sol che si consideri che il promittente non è una monade, ma si inserisce in una rete di rapporti e di collegamenti che egli stesso spende come capacità di coagulare i voti sul candidato prescelto e che quest’ultimo, o chi per lui, mira a volgere a proprio vantaggio, a tal punto da essere disposto a remunerarla senza garanzia del risultato.
Proprio la mancanza di garanzia del risultato – essendo questo indifferente, come visto, sul piano probatorio, poiché “a priori” lo è su quello sostanziale – costituisce la chiave di volta del sistema, saldandosi con la condizione necessaria, ma anche sufficiente, delle qualità mafiose per le quali il promittente è conosciuto ed in ragione delle quali soltanto il promissario, interessato alla sua prestazione, scende a patti con lui. Ciò che si coniuga perfettamente con l’affermazione costante in giurisprudenza per cui è l’intesa in sé ad integrare il reato, che non a caso si atteggia a reato di pericolo [secondo Sez. 1, n. 19230 del 30/11/2015 (dep. 2016), Zappalà, par. 1.2, p. 13, finanche «astratto»], a misura della finalizzazione del suo oggetto all’«acquisizione del consenso elettorale con metodo mafioso» (Sez. 6, n. 18844 del 2018, par. 1, p. 7).
Sviluppando uno spunto di riflessione offerto da Sez. 6, n. 9442 del 2019, par. 4, p. 4, sembra di poter affermare che la valorizzazione della «notoria fama criminale» o dell’«autorità mafiosa» del promittente costituisca l’approdo più recente – e, ci si permette di aggiungere, più avanzato – della giurisprudenza della S.C. con riferimento alle diverse possibili qualità che il medesimo può assumere. Emergerà tuttavia che è stato l’intervento novellistico di cui alla legge 17 aprile 2014, n. 62, a segnare una sorta di battuta d’arresto nell’evoluzione giurisprudenziale, con la conseguenza che detto approdo può essere interpretato come il recupero delle fila di un discorso che viene dal passato, sebbene proiettato verso un orizzonte che indica il futuro. Già un decennio prima della legge n. 62 del 2014, il lavorio esegetico aveva portato ad affermare che, «per la sussistenza del reato […], non [era] necessario che, nello svolgimento della campagna elettorale, ven[issero] posti in essere singoli e individuabili atti di sopraffazione o di minaccia, [essendo] sufficiente che l’indicazione di voto [fosse] percepita all’esterno come proveniente dal “clan” e come tale sorretta dalla forza intimidatrice del vincolo associativo»: in tal senso è la massima di Sez. 1, n. 3859 del 14/01/2004, Rv. 227476-01, P.M. in proc. Milella, in cui la sintesi della fattispecie – che rende conto dell’annullamento con rinvio dell’ordinanza del tribunale del riesame che aveva qualificato il fatto come corruzione elettorale ex art. 96 del decreto del Presidente della Repubblica 30 marzo 1957, n. 361, modificando l’originaria imputazione di delitto ex art. 416-ter cod. pen. sul presupposto che la sola qualità di “mafioso” del promittente non fosse sufficiente né a comprovare la collusione fra candidato ed organizzazione criminale né a dimostrare l’impiego della forza intimidatrice del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento che ne deriva per orientare il voto – deve però essere letta in uno alla motivazione, che enuclea una riflessione aggiuntiva: «[…] il giudice di merito, dopo avere correttamente rilevato che la sola affiliazione ad associazioni di tipo mafioso delle persone contattate dal [politico] per il tramite del [suo collaboratore, sottoposto a misura cautelare] non implicava di per sé il concordato uso della capacità di intimidazione propria del gruppo criminale di appartenenza, avrebbe dovuto poi stabilire se – indipendentemente dalla diretta esplicazione di violenza fisica o morale – il loro interessamento in favore del candidato fosse presentato e percepito dagli elettori come proveniente dal “clan” e sorretto dal potere di fatto da questo esercitato nella zona; ed a tal fine non potevano essere trascurati o ritenuti irrilevanti comportamenti descritti nell’ordinanza: in particolare[, la distribuzione di] buoni-acquisto forniti dal candidato a persone [scelte dagli emissari dell’associazione] nei quartieri rispettivamente controllati […]» (cpv. di p. 6). Fermo dunque il principio enunciato in massima, è anche vero, però, che, stando alla motivazione, «la sola affiliazione ad associazioni di tipo mafioso de[gli interlocutori del politico]» non conduce ad inferire la necessaria deduzione dell’uso della capacità intimidatoria ad oggetto dell’accordo. Su questo punto, un balzo in avanti, ancora in relazione a fatti anteriori alla legge n. 62 del 2014, è compiuto da Sez. 6, n. 37374 del 06/05/2014, Rv. 260167-01, P.M. in proc. Polizzi, che, nell’annullare con rinvio un’ordinanza del tribunale del riesame secondo cui, per l’integrazione del delitto, non era sufficiente la promessa di denaro ad «esponenti di Cosa Nostra» (par. 1 del «Ritenuto in fatto», p. 2, caratteri maiuscoli nell’originale), occorrendo invece che questi avessero fatto ricorso al metodo mafioso, afferma – come riportato in massima – che il delitto di scambio elettorale politico-mafioso è reato di pericolo, con la conseguenza che «è sufficiente che, nell’accordo concernente lo scambio tra voto e denaro o altra utilità, il soggetto che si impegna a reclutare i suffragi sia persona la quale esercita un condizionamento diffuso fondato sulla prepotenza e sulla sopraffazione e le cui indicazioni di voto sono percepite all’esterno come provenienti da un sodalizio mafioso, mentre non sono necessarie né l’attuazione né l’esplicita programmazione di una campagna attuata mediante intimidazioni». Sensibile è la distanza concettuale rispetto al passato, pur in una prospettiva esegetica omogenea, perché, alla stregua di ragionamenti, “mutatis mutandis”, anticipatori delle sentenze del 2018-2019, basta la capacità in sé del promittente ad esercitare un «condizionamento diffuso». La spiegazione risiede in ciò che «la figura incriminatrice contestata […] non prevede[va, “ratione temporis”, …] che il soggetto alla ricerca di voti chied[esse] all’interlocutore mafioso specifiche modalità di attuazione della campagna, e ne otten[esse] la promessa. Se anche la “ratio” dell’incriminazione consiste[va] nello specifico rischio di alterazione del processo democratico che si determina quando il voto viene sollecitato da una organizzazione mafiosa, il suo riflesso sul piano degli elementi di fattispecie si esauri[va] nella logica del comportamento di chi, per proprie esigenze elettorali, promette denaro ad una organizzazione criminale siffatta, ovviamente consapevole della sua natura e dei metodi che la connotano» [Sez. 6, n. 37374 del 2014, par. 2, p. 4, la quale, su tali basi, poco oltre (par. 3, p. 5), conclude che «ciò che caratterizza[va] il reato in questione [era] la particolare qualità del soggetto che promette la campagna di reclutamento, soggetto il quale esercita un condizionamento diffuso e fondato sulla prepotenza e la sopraffazione (Sez. 5^, Sentenza n. 23005 del 22/01/2013, rv. 255502)» (per la precisione, Sez. 5, n. 23005 del 22/01/2013, Rv. 255502, Alagna e altri, è la prima pronuncia ad aver stabilito che, in uno al promissario, espressamente colpito dall’originaria versione dell’art. 416-ter cod. pen., era punibile anche il promittente a titolo di concorso necessario nel reato commesso dal primo). Successivamente alla legge n. 62 del 2014 – qualificante l’oggetto della promessa come il procacciamento di voti «mediante le modalità di cui al terzo comma dell’articolo 416-bis [cod. pen.]» – la giurisprudenza sembra invece idealmente prendere le distanze dalla sufficienza, affermata pochi mesi prima, della capacità del promittente di «esercitare un condizionamento diffuso», sostenendo che, «solo quando il soggetto che si impegna a reclutare i suffragi è persona intranea ad una consorteria di tipo mafioso, ed agisce per conto e nell’interesse di quest’ultima, non è necessario che l’accordo concernente lo scambio tra voto e denaro o altra utilità contempli l’attuazione, o l’esplicita programmazione, di una campagna elettorale mediante intimidazioni, poiché esclusivamente in tal caso il ricorso alle modalità di acquisizione del consenso [nelle forme] di cui all’art. 416-bis, terzo comma, cod. pen. può dirsi immanente all’illecita pattuizione» (Sez. 6, n. 25302 del 19/05/2015, Rv. 263845-01, P.M. in proc. Albero, cui “adde” Sez. 5, n. 47569 del 20/09/2016, Pelle Antonio), mentre, all’opposto, «qualora [tale] soggetto sia una persona estranea alla consorteria di tipo mafioso, ovvero [addirittura] un soggetto intraneo che agisca “uti singulus”, è necessaria la prova della pattuizione delle modalità di procacciamento del consenso con metodo mafioso» [Sez. 1, n. 19230 del 2016, Rv. 266794-01, Zappalà]. Il fattore legittimante la nuova interpretazione è l’ampliamento, alla lettera, del novero soggettivo operato dalla novella, ricavandosi, pertanto, la distinzione dei casi in cui il ricorso alle modalità mafiose è «immanente all’illecita pattuizione» rispetto a quelli in cui non lo è dalla previa distinzione logico-giuridica tra chi è intraneo all’associazione di tipo mafioso e chi non lo è.
La misura del cambiamento segnato dagli arresti del biennio 2018-2019 emerge tangibile ove, ad esempio, si ponga mente alla fattispecie su cui hanno pronunciato Sez. 6, n. 41801 del 16/09/2015 (dep. 2016), Serino, e Sez. 6, n. 31348 del 10/06/2015, Annunziata, comune alla testé evocata Sez. 6, n. 25302 del 2015. Sotto entrambi i profili procedimentale e sostanziale, detta fattispecie è pressoché sovrapponibile a quella di Sez. 6, n. 22840 del 2018, Sez. 6, n. 18846 del 2018, Sez. 6, n. 18844 del 2018, poiché identicamente il tribunale del riesame aveva escluso la ricorrenza in fatto degli estremi di un’associazione camorristica, ma ritenuto, nel contempo, la gravità indiziaria del delitto di cui all’art. 416-ter cod. pen. Nondimeno le sentenze meno recenti sono pervenute a conclusioni ben diverse dalle ultime, rilevando che, «nell’argomentare in ordine alla matrice mafiosa d[el] patto elettorale ed ai profili inerenti il dolo[,] la decisione impugnata manifesta carenze e contraddittorietà tali da imporre l’annullamento»: ciò in quanto, lo svilimento delle «indicazioni dell’accusa proprio con riferimento alla effettiva presenza della forza di intimidazione e sopraffazione sul territorio di riferimento, smarrita dal clan una volta sottoposti a detenzione carceraria i suoi esponenti di maggior rilievo», «colloca necessariamente, a meno di insanabili aporie logiche, gli interlocutori del [promissario] fuori da logiche criminali di matrice associativa e camorristica immediatamente ascrivibili agli stessi. L’esteriorizzazione della matrice mafiosa di un gruppo rappresenta una chiave di lettura imprescindibile nella fattispecie in disamina perché solo attraverso di essa sono consentiti ragionamenti probatori [– notasi –] di tipo logico diversamente non autorizzati[,] sicché[,] se si è escluso, per un verso, che i [promittenti] , malgrado la loro storia criminale pregressa ed un passato associativo incontestato, siano oggi portatori di una presenza sul territorio, anche marcata da iniziative illecite, colorata dalle connotazioni tipiche dell’azione comune di matrice mafiosa, per altro verso non può affermarsi, così come ha mostrato di fare il tribunale, che, nel contrattare con [il promissario], siano ancora rappresentativi di un modo di agire così qualificato»; invero, «nulla esclude che […] l’offerta negoziale prospettata [al promissario] possa essere stata concretata dal riferimento alle modalità di reperimento del consenso elettorale mediante il metodo mafioso, non occorrendo […] che il promittente sia allo stato intraneo ad una associazione mafiosa né che quest’ultima effettivamente esista. In tali casi, per quanto già segnalato, la prova della natura mafiosa del patto sfugge tuttavia ad ogni possibile automatismo logico. L’esponente criminale non agisce in rappresentanza di una associazione effettivamente presente sul territorio cosi come già rappresentato in precedenza dallo stesso tribunale del riesame. Occorreva, dunque, precisare da quali momenti indiziari è stata tratta l’affermazione delle connotazioni oggettive della promessa […]. Per contro, le indicazioni argomentative segnalate nel provvedimento impugnato (la possibilità di muoversi sfruttando l’aurea tracciata in precedenza dalla storia criminale dei protagonisti dell’accordo diversi dal candidato, avvalendosi di contatti e collegamenti favoriti dalla loro pregressa mafiosità) assumono esclusivamente il tenore delle congetture […]» (parr. 5 ss., p. 9 s.).
Fermo quanto precede, si coglieva più sopra una comunanza tra quanto detto da Sez. 6, n. 37374 del 2014, e quanto detto da Sez. 5, n. 47269 del 2019, Sez. 5, n. 26426 del 2019, Sez. 6, n. 9442 del 2019, Sez. 6, n. 22840 del 2018, Sez. 6, n. 18846 del 2018, e Sez. 6, n. 18844 del 2018, in specie circa la figura del promittente, capace di esercitare un «condizionamento diffuso» per l’una e dotato di «fama criminale» per le altre. Non può tuttavia sottacersi che ben diverso è il contesto normativo sotto il vigore del quale sono stati pronunciati quella e queste: all’epoca di Sez. 6, n. 37374 del 2014, nonostante gli enunciati generalizzanti che la contraddistinguono, autore del reato poteva essere, “ex littera legis”, solo un associato, sebbene già la giurisprudenza avesse esteso la categoria dei soggetti attivi; mentre, dopo la legge n. 62 del 2014, autore del reato può essere chiunque. Ne consegue che le sentenze del 2018-2019, quando proclamano la centralità della mafiosità del promittente in funzione della mafiosità del contesto, attingono un contesto mafioso finanche extra-associativo.
Nell’obiettiva diversità delle sentenze del 2015-2016, da una parte, e di quelle del 2018-2019, dall’altra, un punto di convergenza potrebbe, verosimilmente, essere rintracciato nelle rispettive affermazioni delle prime, laddove scrivono che «non [occorre] che il promittente sia allo stato intraneo ad una associazione mafiosa né [– soprattutto –] che quest’ultima effettivamente esista», e delle seconde, laddove scrivono che deve aversi riguardo alla «caratura criminale e [a]l potere di controllo esercitabile dal [promittente]», «indipendentemente dalla attuale disponibilità di un proprio sodalizio, potendo [egli], comunque, disporre di fidati collaboratori e di fedeli esecutori dei suoi ordini». Rilevato un possibile disallineamento tra la riportata affermazione delle sentenze del 2015-2016 e quella, pure in esse contenuta, secondo cui «l’esteriorizzazione della matrice mafiosa di un gruppo rappresenta una chiave di lettura imprescindibile nella fattispecie in disamina», nondimeno, il “trait d’union” tra le due impostazioni illustrate potrebbe essere rappresentato dalla disponibilità, in capo al promittente, «di fidati collaboratori e di fedeli esecutori dei suoi ordini», in grado di accreditarne la mafiosità. Non è necessario che il promittente abbia l’«attuale disponibilità di un proprio sodalizio»; anzi, alla stregua di una posizione dogmatica più avanzata, espressa curiosamente dalla S.C. negli arresti del 2015-2016, propugnanti sul punto conclusioni d massimo rigore, non è necessario neppure che un’associazione di tipo mafioso «effettivamente esista», giacché a venire, essenzialmente, in linea di conto sono le modalità mafiose, che rimandano al metodo mafioso. In considerazione di ciò, non pare inopinato proporre un parallelismo tra l’art. 416-ter cod. pen. e l’art. 7 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, conv. in legge 12 luglio 1991, n. 203, ora art. 416-bis.1 cod. pen.; nondimeno, l’area di punibilità coperta dall’art. 416-ter cod. pen. non potrebbe dirsi esaurita dai cd. delitti elettorali ex artt. 96 e 97 d.P.R. n. 361 del 1957 aggravati ex art. 416-bis.1 cod. pen., sia perché l’art. 416-ter cod. pen. anticipa la soglia della punibilità al mero scambio di promesse, e dunque all’accordo, sia perché, dopo la legge n. 43 del 2019, ad integrare il reato è sufficiente, da un canto, che la promessa di illecito procacciamento dei voti provenga da un associato, indipendentemente dalle modalità mafiose del procacciamento stesso, e, dall’altro, che il promissario offra la mera «disponibilità a soddisfare gli interessi o le esigenze dell’associazione mafiosa». Ciò introduce alla necessità che si renda, brevemente, conto della novella.
Per la seconda volta in meno di due anni, il legislatore ha avvertito l’urgenza di intervenire sull’art. 416-ter cod. pen., a dimostrazione della necessità, per la sopravvivenza stessa della democrazia, che le istituzioni rappresentative siano preservate, non solo “ex post” da permeazioni mafiose volte ad inquinarne le compagini, ma altresì “ex ante” dal pericolo di trame illecite condizionanti le competizioni elettorali, prodromiche all’insediamento “in cathedra” dei corpi politici. Nondimeno, mentre l’art. 15 della legge 23 giugno 2017, n. 103 (nota come “Riforma Orlando”), si era limitata ad un inasprimento della cornice edittale (da sei a dodici anni di reclusione, in luogo della precedente previsione da quattro a dieci anni di reclusione), la legge n. 43 del 2019, assume i tratti di una novellazione più profonda, incidente sia – quantomeno in parte – sulla conformazione della fattispecie, sia – di nuovo – sul trattamento sanzionatorio, da riguardasi però nel suo complesso e non solo in relazione all’entità della cornice edittale. Quanto al primo profilo, emerge la volontà del legislatore di estendere l’ambito di applicazione della disposizione incriminatrice, sul duplice versante soggettivo ed oggettivo. Sul versante soggettivo, autori del reato possono ora essere, oltre che «direttamente» il promittente ed il promissario dei voti, anche eventuali «intermediari» dell’uno o dell’altro, con conseguente realizzabilità sia della promessa che dell’accettazione anche da siffatti personaggi. La modifica più vistosa si registra però sul versante del promittente, che ora può coincidere, esplicitamente, con uno dei «soggetti appartenenti alle associazioni di cui all’articolo 416-bis cod. pen.». L’incidenza ampliativa dell’intervento novellistico sul versante oggettivo concerne, invece, il solo promissario, la cui contro-prestazione, nella dinamica della concorsualità necessaria che lo riguarda, non è più limitata all’«erogazione o [a]lla promessa di erogazione di denaro o di qualunque altra utilità», ma è estesa alla «disponibilità a soddisfare gli interessi o le esigenze dell’associazione mafiosa». Anche in riguardo al trattamento sanzionatorio, la legge n. 43 del 2019 va oltre un ulteriore aumento di pena:
- in primo luogo, l’effetto del sensibile innalzamento di entrambi i limiti della cornice edittale, attestata ora sulla reclusione da dieci a quindici anni, in relazione all’ipotesi divenuta, per così dire, “basilare”, è realizzato attraverso il rinvio del comma 1 dell’art. 416-ter cod. pen. – e l’ulteriore rinvio del comma 2 al comma 1 – alla «pena stabilita nel primo comma dell’articolo 416-bis [cod. pen.]»: talché, “mutatis mutandis”, si finisce per tornare alla versione originaria del delitto, a termini della quale «la pena stabilita dal primo comma dell’articolo 416-bis [cod. pen.] si applica[va] anche a chi ott[eneva] la promessa di voti prevista dal terzo comma del medesimo articolo 416-bis in cambio della erogazione di denaro».
Conviene sin da subito anticipare che, qualora si accedesse alle critiche dei primi autorevoli commenti dottrinali, intesi a sottolineare come l’equiparazione sanzionatoria dell’art. 416-ter cod. pen. all’art. 416-bis cod. pen. non sia sorretta da un’equivalente gravità delle condotte, posta la centralità del disvalore di quelle associative, potrebbe aprirsi un varco per la devoluzione dell’irragionevolezza “intrinseca” della scelta del legislatore della novella al giudizio della Corte Costituzionale. Ciò in quanto quest’ultima si dimostra ormai propensa ad esercitare un penetrante sindacato sull’entità della pena, spingendosi sino al punto di effettuarne direttamente una rimodulazione entro i limiti della proporzionalità e dell’adeguatezza, pur quando la soluzione adottata non sia costituzionalmente obbligata e quindi permanga la possibilità di ulteriori diversi apprezzamenti da parte del legislatore (cfr. in specie la sentenza n. 40 del 23 gennaio 2019, in G.U. 13 marzo 2019, n. 11, la quale, facendo seguito alla sentenza-monito n. 179 del 7 giugno 2017, in G.U. 19 luglio 2017, n. 29, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 73, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, nella parte in cui in cui prevede la pena minima edittale della reclusione nella misura di otto anni anziché di sei anni; detta sentenza porta a maturazione linee evolutive che si rintracciano, andando a ritroso nel tempo, nelle sentenze n. 222 del 25 settembre 2018, in G.U. 12 dicembre 2018, n. 49; n. 236 del 21 settembre 2016, in G.U. 16 novembre 2016, n. 46; n. 68 del 6 marzo 2012, in G. U. 28 marzo 2012, n. 13; n. 341 dell’11 maggio 1994, in G.U. 3 agosto 1994, n. 32);
- in secondo luogo, alla previsione “basilare” di cui ai commi 1 e 2, è venuto affiancandosi un inedito comma 3, che si innesta sull’evoluzione della medesima in funzione dei risultati della competizione elettorale e fa scattare un verticale aumento “secco” di pena, pari alla metà di quella di cui all’art. 416-bis, comma 1, cod. pen., «se colui che ha accettato la promessa di voti, a seguito dell’accordo di cui al primo comma, è risultato eletto nella relativa consultazione elettorale».
Rinviata al prosieguo l’analisi dei problemi strutturali scaturenti da detto innesto, mette qui conto di rilevare come anche l’aumento di pena che ne occupa sia suscettibile di un controllo di costituzionalità in punto di ragionevolezza, viepiù sotto un duplice profilo: sia quanto alla sua entità, che, spingendo la cornice edittale verso limiti particolarmente elevati, esibisce una potenziale distonia rispetto alla griglia delle fattispecie, in teoria più gravi, di cui all’art. 416-bis cod. pen.; sia quanto alla sua misura, che, essendo fissa, potrebbe entrare in rotta di collisione con la salvaguardia delle esigenze di individualizzazione della pena evocate dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 222 del 2018, dichiarativa dell’illegittimità costituzionale dell’art. 216, ultimo comma, l. fall., nella parte in cui prevede le pene accessorie dell’inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale e dell’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa per dieci anni anziché fino a dieci anni;
- in terzo luogo, alla stregua del comma 4 dell’art. 416-ter cod. pen., il trattamento sanzionatorio si completa con l’affiancamento alla pena principale di quella accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici «in caso di condanna per i reati di cui al presente articolo».
L’evidente finalità preventiva incappa nell’estremo rigore sanzionatorio, a proposito del quale riemergono nuovamente dubbi di tenuta costituzionale, data la misura della pena, non solo fissa (come nel comma 3), ma altresì perpetua.
L’ampliamento del novero degli autori del reato agli intermediari del promittente e del promissario dei voti non sembra avere una reale portata estensiva della punibilità, sebbene sia opportuno compiere una precisazione di ordine sistematico. Nell’attuale formulazione dei commi 1 e 2 dell’art. 416-ter cod. pen., l’intermediario è un emissario del promittente (comma 2) o del promissario (comma 1), letteralmente “interposto” nell’effettuazione della promessa o dell’accettazione. “Rebus sic stantibus”, l’intermediario non è autonomamente caratterizzato e la sua punibilità, pur in difetto di uno specifico inserimento nei suddetti commi, avrebbe potuto ricavarsi in applicazione, “quantomeno”, dell’art. 110 cod. pen.: “quantomeno” perché, a prescindere da una condotta concorsuale, l’intermediario non sarebbe sfuggito prima, e non sfuggirebbe ora, alla punibilità quale diretto destinatario dell’incriminazione. Di ciò offre conferma Sez. 6, n. 9442 del 2019, laddove spiega che il delitto p. e p. dall’art. 416-ter cod. pen. «è configurabile nei confronti di “chiunque”, dunque anche del mediatore, oltre che del promittente ‘mafioso’ e del candidato, e sussiste nei suoi elementi costitutivi per il solo fatto che sia stata raggiunta quella intesa, venendo così anticipata la punibilità rispetto alle iniziative che dovessero (o anche non dovessero) essere concretamente adottate per la ricerca di quei voti» (par. 4, pag. 3).
Talché, già punibili intermediari ed interposti, una valenza innovatrice della novella potrebbe “in limine” agganciarsi alla separata considerazione dei rispettivi intermediari del promittente e del promissario.
In argomento, a partire dalla trasformazione della fattispecie operata dalla legge n. 62 del 2014, la S.C. è orientata a ritenere la valenza ‘costitutiva’ dell’accordo illecito, sussumendo il delitto di cui all’art. 416-ter cod. pen. nello schema del cd. reato-contratto (Sez. 1, n. 19230 del 2016, par. 1.2, p. 12), salvo chiedersi se le modalità mafiose già in precedenza caratterizzassero o meno l’accordo (secondo Sez. 6, n. 36382 del 03/06/2014, Rv. 260168-01, Antinoro, il testo sopravvenuto configurava una “lex mitior”, poiché si perdeva la penalizzazione di condotte consistenti in mere intese politico-mafiose, prive di specificazione circa le “modalità” di raccolta dei voti, mentre, secondo Sez. n. 36079 del 10/05/2016, Rv. 268003-01, Costa, esulava alcuna “abolitio criminis”, poiché anche prima era necessaria una «promessa di acquisizione del consenso elettorale facendo ricorso alle tipiche modalità mafiose della sopraffazione e dell’intimidazione»).
Oggi, qualora si traesse spunto dall’estrema dilatazione compiuta dalla legge n. 47 del 2019 sul terreno della contro-prestazione del promissario per affermare che la stessa non ha più, necessariamente, un oggetto «determinato o determinabile» [arg. ex artt. 1325 n. 3) e 1346 cod. civ.], come tale idoneo a fondare la conclusione di un accordo pur con causa illecita (art. 1343 cod. civ.), atteso che alle precise condotte di «erogazione» o «promessa di erogazione di denaro o di qualunque altra utilità» si aggiunge un’indeterminata «disponibilità a soddisfare gli interessi o le esigenze dell’associazione mafiosa»; e qualora, in conseguenza di ciò, si sostenesse che il raggiungimento dell’intesa segna la consumazione del reato solo per il promissario (il quale, con l’accettazione della promessa, conclude l’accordo sullo schema degli artt. 1321 e 1329 cod. civ.), ma non anche per il promittente (la cui promessa resta ferma anche in attesa dell’accettazione), gli intermediari dovrebbero seguire le sorti, distintamente, dei loro referenti, con conseguente polarizzazione della fattispecie concorsuale o sull’uno o sull’altro.
Al di là di ciò, una valenza propriamente innovatrice la legge n. 43 del 2019 avrebbe posseduto se avesse colpito, non già gli intermediari quali soggetti ancillari dei contraenti, ma quei figuri gravitanti nel sottobosco politico che, da “battitori liberi”, si ritagliano il ruolo di “procacciatori d’affari” in specie nell’interesse del promissario (il candidato in cerca di voti), ma anche, disgiuntamente, del promittente (l’associazione mafiosa o il singolo mafioso in cerca di “business”). In tal guisa, però, la condotta dei predetti procacciatori-facilitatori-faccendieri-fornitori di servizi – che non è quella di effettuare ed accettare la promessa, neppure per conto di terzi, ma di far fare e di far accettare la promessa da chi di ragione, sfuggendo così alla sfera applicativa dell’art. 416-ter cod. pen. – avrebbe dovuto essere cesellata in via autonoma rispetto a quella del promittente o del promissario, in quanto rivolta a procurare la disponibilità di costoro.
Assai più complesso è l’inquadramento dell’ulteriore novità sul piano soggettivo, a termini della quale il promittente può essere un appartenente «alle associazioni di cui all’articolo 416-bis cod. pen.».
La novità non pare tale in merito all’allargamento della sfera soggettiva del reato.
Basti pensare che, nella versione originaria dell’art. 416-ter cod. pen., il promittente era “naturaliter” un associato, punito a titolo di concorso nel reato del promissario (Sez. 5, n. 23005 del 2013).
Solo con la legge n. 62 del 2014 si è realizzato il formale “sganciamento” – comunque già guadagnato dalla giurisprudenza (Sez. 1, n. 17455 del 30/01/2018, Alesci, par. 3, p. 6 s. – della condotta del promittente da quella del partecipe, potendo il primo coincidere, ma anche non, con il secondo (Sez. 6, n. 41801 del 2015, par. 3.5, p. 7).
Potrebbe ritenersi, a questo punto, che la legge n. 43 del 2019 abbia una valenza meramente ricognitiva dello stato della giurisprudenza, anche per quel che riguarda l’affermazione secondo cui non è necessaria la prova della pattuizione delle modalità mafiose di procacciamento dei voti se a contrattare nella veste di promittente è un associato. Ciò, in effetti, è quanto parrebbe suggerire una difficoltosa costruzione sintattica e logica del comma 1 dell’art. 416-ter cod. pen., che, ad esito delle modifiche, finisce per giustapporre due entità eterogenee quali la provenienza della promessa e le modalità, non già, però, di questa, bensì del suo oggetto, ossia il procacciamento di voti: in tal guisa, a misura che la promessa promani da un associato, “hoc sufficit”, con conseguente semplificazione degli oneri probatori della pubblica accusa. Ma, come soventemente accade, risolto un problema, ne sorgono altri. Anzitutto, nella versione definitiva della novella, è stato superato il testo licenziato dal Senato della Repubblica in prima lettura, secondo cui al promissario avrebbe dovuto essere nota l’appartenenza del promittente ad un’associazione di tipo mafioso. Nondimeno, detto superamento non obnubila il problema della consapevolezza, o, meglio, del grado di consapevolezza, in capo al promissario, della caratura mafiosa dell’interlocutore, in funzione, peraltro, non soltanto della sua eventuale appartenenza ad una siffatta associazione, ma anche, a prescindere da essa, della sua capacità di garantire comunque la prospettica attuazione delle «modalità di cui al terzo comma dell’art. 416-bis [cod. pen.]». Al riguardo, uno degli pochi precedenti occupatisi, e per vero mai “funditus”, dell’elemento soggettivo del reato – ossia Sez. 1, n. 19230 del 2016, par. 1.2, p. 16 – muove dalla già esaminata premessa che, diverso «dal caso dell’intraneo che agisce nell’interesse dell[’]associazione[,] impegnandola a svolgere una campagna in favore del politico committente», è quello del non partecipe, con riferimento al quale necessita «una prova chiara ed immediata della pattuizione delle modalità del procacciamento cui risulta piegato l’illecito patto di scambio elettorale, non potendosene ricavare la presenza dal mero ruolo di interlocuzione riferito in precedenza [“i.e.”, nella formulazione originaria dell’art. 416-ter cod. pen.] esclusivamente all’organizzazione criminale»; ma da tale premessa ricava una (non esplicita) conclusione comunque distonica da quella auspicata dal Senato in prima lettura: nella prospettiva di tale precedente, infatti, il dolo, anzitutto del promissario, ma parimenti del promittente, resta ancorato alla rappresentazione e volizione dell’accordo volto alla raccolta di voti con modalità mafiose, ragion per cui deve coprire siffatte modalità “specialmente” qualora il promittente sia un non associato, senza necessità, però, che il promissario abbia consapevolezza dell’intraneità o dell’estraneità del promittente all’associazione, la quale è di per sé relegata sullo sfondo, a fronte del rilievo primario della mafiosità delle modalità in sé di raccolta dei voti. Detto ciò, la prospettiva potrebbe cambiare a seguito della legge n. 43 del 2019, nella misura in cui ci si attenesse alla lettera del comma 1 dell’art. 416-ter cod. pen. e quindi si fondasse la punibilità del promissario sul fatto in sé dell’accettazione della promessa di procurare voti che promani da un appartenente ad un’associazione di tipo mafioso. Così opinando, infatti, poiché le «modalità» mafiose di raccolta dei voti non verrebbero più, “in parte qua”, in linea di conto, siccome assorbite dall’appartenenza del promittente all’associazione (di per sé impegnata sul fronte elettorale ai sensi del comma 3 dell’art. 416-bis cod. pen.), potrebbe trovare spazio (sulla china della versione abbandonata nell’approvazione definitiva) un’esegesi volta a colmare il corrispondente “deficit” con un ragionevole indice di consapevolezza del promissario di trattare con un associato. Nondimeno, non richiedendosi, in termini di diritto positivo, che egli abbia conoscenza della qualità dell’interlocutore, dovrebbe essere sufficiente che, al momento della condotta, disponesse di informazioni per rendersene conto o di strumenti per acquisirne notizia, di guisa da vedersi ascritto il reato a titolo di dolo eventuale qualora abbia contrattato accettando il rischio che l’interlocutore fosse un mafioso. Le considerazioni appena svolte consentono di passare al secondo rilievo critico, che si concentra sull’«appartenenza» del promittente ad un’associazione di tipo mafioso. Rimanda essa alla condotta del promittente di «far parte», o partecipare, ad una tale associazione, punita dal comma 1 dell’art. 416-bis cod. pen., ragion per cui si riverberano sul comma 1 dell’art. 416-ter cod. pen. tutti gli arrovellamenti che, nonostante l’intervento miliare delle Sezioni Unite (Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, Rv. 231670-01, Mannino), affliggono la prima disposizione. La “quaestio” si dimostra suscettiva di assumere una dimensione costituzionale e sovranazionale sotto il profilo di una possibile “mancanza di qualità” della legge penale, sindacabile ai sensi degli artt. 25 Cost. e 7 CEDU, dal momento che si scarica sul promissario il compito di discernere, financo in astratto, chi può essere considerato appartenente ad un’associazione di tipo mafioso e chi no [quanto, in particolare, alla dimensione sovranazionale, la Corte EDU – a prescindere da Sez. IV, sentenza del 14 aprile 2015, causa n. 66655/13, Contrada c. Italia (n. 3), fondata sul peculiare presupposto, di cui al par. 66, primo periodo, del testo ufficiale in lingua francese, «que le concours externe en association de type mafieux constitue une infraction d’origine jurisprudentielle», “infrazione” non ancora “conformata” all’epoca di commissione dei fatti da parte dell’agente – si attiene al principio, quale criterio del vaglio da Essa esperibile in tema di legalità penale, che «la loi doit définir clairement les infractions et les peines qui les répriment. Cette condition se trouve remplie lorsque le justiciable peut savoir, à partir du libellé de la disposition pertinente, au besoin à l’aide de l’interprétation qui en est donnée par les tribunaux et le cas échéant après avoir recouru à des conseils éclairés, quels actes et omissions engagent sa responsabilité pénale et quelle peine il encourt de ce chef» (Grande Camera, sentenza del 21 ottobre 2013, causa 42750/09, Del Rio Prada c. Spagna, par. 79, ribadita da Grande Camera, sentenza del 27 gennaio 2015, causa 59552, Rohlena c. Repubblica Ceca, par. 50); un esempio di ritenuta mancanza di qualità della legge, ancorché concernente il settore non penale ex artt. 6 e 7 CEDU delle misure di prevenzione personali, ma, per la portata generale delle argomentazioni, estensibile “a fortiori” alla materia penale, è offerto da Grande Camera, sentenza del 23 febbraio 2017, causa n. 43395/09, de Tommaso c. Italia, par. 117, la quale, in relazione alla pericolosità sociale generica, ritiene che né la legge – ossia l’art. 1 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, ora art. 1 del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 – né la Corte Costituzionale «have clearly identified the “factual evidence” or the specific types of behaviour which must be taken into consideration in order to assess the danger to society posed by the individual and which may give rise to preventive measures»]. Viepiù, nel limbo tra appartenenza e non appartenenza, da sempre trova spazio il concorso esterno: si potrebbe opinare, superando la lettera della legge per abbracciare un punto di vista sistematico [similmente a quanto fatto, nella materia della prevenzione, da Sez. U, n. 111 del 30/11/2017 (dep. 2018), Mancuso], che appartenente ad un’associazione di tipo mafioso ex comma 1 dell’art. 416-ter cod. pen. è anche il concorrente esterno, in quanto responsabile di un’azione, anche isolata, funzionale agli scopi associativi, con esclusione delle situazioni di mera contiguità al gruppo criminale; all’opposto, in applicazione del principio di stretta legalità, si potrebbe replicare che proprio la chiamata in causa dell’art 110 cod. pen. esplicita un’ontologica diversità della condotta partecipativa da quelle concorsuali, in guisa da concludere che solo il partecipe ex comma 1 dell’art. 416-bis cod. pen. può esserlo anche ex comma 1 dell’art. 416-ter cod. pen. Ad ogni modo (fermo che, alla stregua della seconda tesi, potrebbe rimproverarsi al legislatore di aver perso l’occasione di tipizzare la punibilità delle c.d. “facce pulite”, spesso “colletti bianchi”, moltiplicatrici della loro potenza), nuovamente è revocabile in dubbio la tenuta qualitativa dell’incriminazione, incombendo sul promissario il compito di stabilire chi può essere considerato appartenente ad un’associazione mafiosa e chi “semplice” concorrente esterno: compito la cui gravosità si accentua al cospetto dell’ormai costante giurisprudenza interna che ricusa gli approdi della Corte EDU sul concorso esterno (cfr. da ultimo Sez. 1, n. 26686 del 10/04/2019, Rv. 276197-01, Marino, alla stregua di un orientamento che, stante l’informazione provvisoria n. 22 relativa all’udienza pubblica del 24 ottobre 2019 in proc. Genco, trova ormai l’avallo delle Sezioni Unite). Dati per risolti i problemi accennati, residuerebbe pur sempre il dubbio relativo alle caratteristiche dell’accertamento giudiziario dell’appartenenza, atteso che la qualità di associato del promittente non è soltanto un elemento costitutivo della fattispecie, ma un profilo fattuale destinato ad interagire, come visto, con la sfera del promissario. Nei lavoratori preparatori si legge che «la proposta lascia all’interprete il compito di chiarire quando l’interlocutore del politico possa definirsi “appartenente all’associazione mafiosa”; a tal fine potrebbe essere necessaria una condanna definitiva per [il delitto di cui all’art.] 416-bis c.p., oppure essere ritenuta ‘sufficiente’ l’applicazione di una misura di prevenzione in base al Codice antimafia» [Sen. Rep., Serv. St., A.S. n. 510-B, Dossier n. 61 (a cura di C. Andreuccioli), in www.senato.it/leg/18/BGT/Schede/Ddliter/dossier/51426_dossier.htm, p. 2, corsivo nell’originale]. Acuto il riferimento al titolo prevenzionale (che rimanda alla circostanza aggravante di cui all’art. 71 d.lgs. n. 159 del 2011, prevista per una serie di delitti, tra cui quello p. e p. dall’art. 416-ter cod. pen., «commessi da persona sottoposta con provvedimento [– sottolineasi –] definitivo ad una misura di prevenzione personale […]») in parallelo a quello condannatorio, ma il problema sembra che stia a monte, dovendosi stabilire se sia necessario un accertamento definitivo di merito ovvero se sia sufficiente anche un accertamento incidentale, da condursi ad opera del giudice che procede.
Sul piano oggettivo, una prima novità è che la contro-prestazione del promissario può consistere anche nella semplice «disponibilità a soddisfare gli interessi o le esigenze dell’associazione mafiosa». Sono punite, pertanto, anche le mere intese politico-mafiose, allo scopo di bandire qualsiasi convergenza di volontà dell’associazione e del politico rivolta all’appoggio elettorale dell’una in favore dell’altro. I primi commenti evidenziano un’insufficiente tipizzazione del concetto di disponibilità, suscettibile di assumere rilevanza sul piano della tenuta costituzionale della norma. Al di là di questo, due sono le possibili considerazioni sistematiche suggerite da un ideale confronto dialettico con la giurisprudenza:
- in primo luogo, con uno sguardo proiettato sui futuri sviluppi dell’esegesi, se la contro-prestazione del promissario coincide con la sua generica disponibilità a favorire l’associazione, si paventa la necessità di compiere un’“actio finium regundorum” rispetto alla condotta partecipativa.
Invero, definita quest’ultima – a partire da Sez. U, n. 33748 del 2005, par. 4, pp. 26 e 27 – come il “prender parte” dell’agente al fenomeno associativo, «rimanendo a disposizione dell’ente per il perseguimento dei comuni fini criminosi» (Sez. 5, n. 45840 del 14/06/2018, Rv. 274180-01, M.), a misura che si consideri che la disponibilità del promissario è espressa ed attuale, in quanto confluente nell’accordo stretto con il promittente, potrebbe, nella concorrenza di ulteriori indici di detta messa a disposizione, revocarsi in dubbio l’estraneità del promissario, al momento dell’esplicitazione del suo impegno, al contesto associativo. Peraltro, anche a voler far scalare la “proiezione organica” dell’impegno del promissario a dopo l’elezione alla carica, resterebbe il dato di fondo che l’associazione gode sin da subito del suo sostegno, in guisa da potersi ravvisare, quantomeno, un’ipotesi di concorso esterno (potenzialmente destinata ad evolvere in partecipazione).
In argomento, a fungere da faro è la testé citata Sez. U, n. 33748 del 2005, il cui «“thema decidendum”» – per utilizzare le sue stesse parole – «riguarda [“funditus”] quella particolare forma di contiguità alla mafia comunemente definita come “patto di scambio politico-mafioso”» (par. 5, p. 32, corsivo nell’originale). Insegnano Esse che «è [ben] configurabile il concorso esterno nel reato di associazione di tipo mafioso nell’ipotesi di scambio elettorale politico-mafioso, in forza del quale il personaggio politico, a fronte del richiesto appoggio dell’associazione nella competizione elettorale, si impegna ad attivarsi[,] una volta eletto[,] a favore del sodalizio criminoso, pur senza essere organicamente inserito in esso, a condizione che: a) gli impegni assunti dal politico, per l’affidabilità dei protagonisti dell’accordo, per i caratteri strutturali dell’associazione, per il contesto di riferimento e per la specificità dei contenuti, abbiano il carattere della serietà e della concretezza; b) all’esito della verifica probatoria “ex post” della loro efficacia causale risulti accertato, sulla base di massime di esperienza dotate di empirica plausibilità, che gli impegni assunti dal politico abbiano inciso effettivamente e significativamente, di per sé e a prescindere da successive ed eventuali condotte esecutive dell’accordo, sulla conservazione o sul rafforzamento delle capacità operative dell’intera organizzazione criminale o di sue articolazioni settoriali» (Rv. 231670-01; conf., di recente, Sez. 2, n. 45402 del 02/07/2018, Rv. 275510-02, P.G. in proc. Lombardo). Mandando a segno la lezione delle Sezioni Unite – la qual cosa comporta la necessità di coniugare la massima appena riportata con la motivazione – è configurabile, in capo al politico non organico che «si impegna [– con «efficacia causale» –] ad attivarsi[,] una volta eletto[,] a favore del sodalizio criminoso», un’ipotesi di concorso formale tra il delitto di cui agli artt. 110 e 416-bis cod. pen. ed il delitto di cui all’art. 416-ter cod. pen., atteso che «neppure un’ampia e diffusa frammentazione legislativa di autonome e tipiche fattispecie criminose dei vari casi di contiguità mafiosa […] sarebbe comunque in grado di paralizzare l’espansione operativa della clausola generale di estensione della responsabilità per i contributi atipici ed esterni diversi da quelli analiticamente elencati, secondo il modello dettato dall’art. 110 cod. pen. sul concorso di persone nel reato, se non introducendosi una disposizione derogatoria escludente l’applicabilità della suddetta clausola per i reati associativi» (par. 5, p. 34). Nondimeno, qualora in fatto non si ravvisino, nei confronti del promissario, gli estremi del delitto di cui agli artt. 110 e 416-bis cod. pen. (segnatamente per difetto del requisito della causalità della condotta al rafforzamento dell’associazione), s’impone ugualmente “de residuo” la verifica della sussistenza dei presupposti dello scambio elettorale politico-mafioso (in conformità a Sez. 6, n. 8654 del 11/02/2014, Costa, par. 1, p. 5, e Sez. 2, n. 23186 del 05/06/2012, Costa, par. 6.2, pp. 8 e 9, intervenute nell’ambito del medesimo procedimento);
- in secondo luogo, con uno sguardo concentrato sugli ultimi approdi applicativi dell’art. 416-ter cod. pen., di cui, in specie, a Sez. 5, n. 47269 del 2019, Sez. 5, n. 26426 del 2019, Sez. 6, n. 9442 del 2019, esaminate nella prima parte del presente lavoro, affiora una concezione del legislatore della novella che, in quanto ancorata ad una disponibilità del promissario verso un’«associazione mafiosa» (“recte”, un’associazione di tipo mafioso, come più appropriatamente recita la rubrica dell’art. 416-bis cod. pen.), pare meno avanzata della posizione raggiunta dalla S.C. Come visto, Sez. 6, n. 22840 del 2018, Sez. 6, n. 18846 del 2018, e Sez. 6, n. 18844 del 2018, ritengono nient’affatto indispensabile l’«attuale disponibilità – in capo al promittente – di un proprio sodalizio». Donde, portando a compimento tale lezione della giurisprudenza, l’ampliamento della contro-prestazione punibile del promissario – sotteso alla modifica di cui alla legge n. 43 del 2019 – in riguardo alla «disponibilità [del medesimo] a soddisfare gli interessi o le esigenze dell’associazione mafiosa» rischia di apparire disallineato rispetto ad un’architettura della fattispecie orientata a porre l’accento più sulle modalità mafiose che sull’esistenza in sé di un’associazione di tipo mafioso. Ad ogni buon conto, detto ampliamento finisce per godere di un raggio d’azione più limitato rispetto a quello auspicato con la sua introduzione, in quanto destinato ad avere concreta operatività solo nei casi in cui il promittente spenda, sin già in sede di trattative, un collegamento con un’associazione di tipo mafioso.
L’altra novità oggettiva, che attende la prova di più mature concettualizzazioni, è concentrata nell’inedito comma 3 dell’art. 416-ter cod. pen., contemplante un aumento di pena della metà, rispetto alla pena-base del comma 1, «se colui che ha accettato la promessa di voti, a seguito dell’accordo di cui al primo comma, è risultato eletto nella relativa consultazione elettorale». In generale, il comma 3 finisce per intaccare l’affermazione costante – ribadita, infine, da Sez. 5, n. 26426 del 2019, e Sez. 6, n. 9442 del 2019 – secondo cui l’esito delle elezioni è irrilevante, perché quello di scambio elettorale politico-mafioso è un reato di pericolo, che si consuma con il mero accordo.
L’irrilevanza dell’esito delle elezioni è il fattore che consente di ritenere la sussistenza del reato pur quando, alla stregua di quanto recitano le due richiamate sentenze, non si sia verificato un incremento delle preferenze. Peraltro, sebbene questo sia il profilo di maggior rilievo pratico (che normalmente si accompagna alla pretesa dell’associazione di turno di essere comunque remunerata per i propri servigi), val la pena di aggiungere che detta irrilevanza è altresì il fattore che consente di ritenere la sussistenza del reato pur quando si sia verificato un incremento delle preferenze e tuttavia lo stesso non sia probatoriamente ascrivibile all’esercizio dell’intimidazione o comunque all’assoggettamento omertoso dei votanti alle indicazioni loro somministrate: a questo riguardo, sia consentito di rilevare, traendo spunto dalle riflessioni contenute nelle consorelle Sez. 6, n. 37374 del 06/05/2014, Polizzi, par. 4, p. 6, e Sez. 6, n. 19525 del 17/04/2014, Licata, par. 2, p. 6 («[…] rimane indifferente che il gruppo si attivi distribuendo ai singoli elettori, o agli intermediari utilizzati, le utilità economiche percepite, trattandosi di modalità esecutiva che sopraggiunge al perfezionamento dell’accordo, e quindi alla consumazione del reato»), che l’associazione ben può, in alternativa all’uso della forza (anche “solo” intimidatrice), impiegare metodi di “persuasione partecipata”, tipicamente distribuendo regalie in vista delle elezioni e, se del caso, “a consultivo” delle stesse. In conseguenza di quanto precede, l’esito delle elezioni costituisce un “post factum”, che esula dal reato sia sul piano strutturale che, per l’effetto, su quello probatorio. Con il novello comma 3, invece, l’elezione del promissario – la quale, oltretutto, è alcunché di diverso dal mero incremento dei voti – esce dall’area del “post factum” per entrare nel perimetro di una fattispecie “arricchita” rispetto all’ipotesi di base di cui ai commi 1 e 2.
Ciò fa emergere due profili critici:
- il primo riguarda il rapporto tra il risultato elettorale favorevole per il promissario e l’accordo, posto che, di per sé, l’espressione «a seguito dell’accordo», alludendo alla mera “consecutio” del risultato all’accordo, potrebbe risultare neutra ed in definitiva pleonastica.
Qualora si propendesse per tale lettura, l’aumento scatterebbe automaticamente alla vittoria del promissario alle elezioni, sul presupposto, astrattamente ritenuto dal legislatore, che l’accordo abbia comunque influito sul risultato della competizione: in tal modo, si realizzerebbe un’evidente semplificazione in sede applicativa, essendo il P.M. sollevato dalla prova dell’incidenza causale dell’accordo. Un’interpretazione opposta, invece, potrebbe attribuire alla ridetta espressione un significato, non temporale, ma deterministico, in guisa che l’aumento conseguirebbe alla dimostrazione dell’incidenza dell’accordo sul numero di voti raccolti del promissario: dimostrazione che, però, specialmente in difetto della collaborazione del promittente sulle concrete modalità di raccolta dei voti e sugli elettori raggiunti dal messaggio mafioso, rasenta la “probatio diabolica”;
- il secondo è collegato al primo ed attiene alla qualificazione giuridica in sé dell’aumento.
Nei lavori preparatori leggesi che «il terzo comma prevede sostanzialmente un’aggravante di evento» (Sen. Rep., op. loc. ult. cit.): talché l’elezione del promissario dovrebbe costituire l’evento dell’accordo, di per sé integrante il reato, ma, ciò nonostante, sarebbe punibile a titolo di circostanza aggravante.
Tuttavia, alla stregua delle ricostruzioni dogmatiche più diffuse, che evidenziano la contraddittorietà della riduzione ad elemento specializzante, e quindi circostanziale, dell’entità costituente invece il nucleo portante della fattispecie, qual è l’evento, ben potrebbe ritenersi che il comma 3 dell’art. 416-ter cod. pen. introduca un’ipotesi di delitto aggravato dall’evento. Note sono le diverse conseguenze della sussunzione del comma 3 nella categoria delle circostanze o in quella dei delitti aggravati dall’evento. Peraltro, anche in una prospettiva tutta interna a quest’ultima, un fronte problematico potrebbe ulteriormente aprirsi in relazione ai criteri di imputazione soggettiva dell’evento in rapporto, distintamente, al promittente e al promissario: invero, mentre, quanto a quest’ultimo, l’evento sarebbe voluto, quanto al primo, sarebbe indifferente che sia voluto o meno.
Prima di concludere, curiosità vuole che si renda conto della sentenza della Corte costituzionale n. 41 dell’8 marzo 2019, che ha dichiarato non fondata la q.l.c., sollevata per lesione della competenza legislativa esclusiva dello Stato nella materia dell’«ordinamento penale» ex art. 117, comma 2, lett. l), Cost., in relazione all’art. 74 cod. proc. pen., dell’art. 2, comma 1, della legge della Regione Veneto 26 gennaio 2018, n. 1, sollevata per violazione dell’art. 117 Cost., nella parte in cui stabilisce l’obbligo di detta Regione di costituirsi parte civile in tutti i procedimenti penali relativi ai delitti, commessi nel suo territorio, p. e p. dagli artt. 416-bis e 416-ter cod. pen. ovvero consumati o tentati avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis cod. pen. La Corte, rammentato come un simile obbligo sia comune a svariate altre leggi regionali, osserva che «alla norma regionale censurata non può attribuirsi alcun rilievo di carattere ordinamentale o processuale […], non incidendo essa né sul potere del giudice di valutare la legittimazione della Regione a costituirsi parte civile nel processo penale, né potendosi ritenere che essa si sovrapponga a quelle norme dell’ordinamento che fondano l’azione risarcitoria e che ne disciplinano l’esercizio nel processo penale» (par. 3, terzo cpv.). Detta norma, alla luce della particolare gravità dei delitti che ne occupano, «esaurisce, pertanto, la sua funzione all’interno della Regione e, come tale, appare espressione, del tutto legittima, del potere di indirizzo politico-amministrativo spettante al Consiglio regionale nei confronti degli altri organi dell’ente» (ivi, sesto cpv.). A mo’ di chiosa, sia consentito di osservare come recentissime vicende di cronaca dimostrino che l’obbligatorietà della costituzione di parte civile, pur costituzionalmente legittima, può porre delicatissimi problemi di coordinamento con le procedure amministrative, laddove il responsabile dell’emissione dell’atto autorizzatorio della costituzione coincida con il soggetto raggiunto dal procedimento penale, soprattutto se questo pende ancora in fase embrionale.
Sentenze della Corte di cassazione
Sez. 1, n. 3859 del 14/01/2004, Rv. 227476-01, P.M. in proc. Milella
Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, Rv. 231670-01, Mannino
Sez. 2, n. 23186 del 05/06/2012, Costa
Sez. 5, n. 23005 del 22/01/2013, Rv. 255502, Alagna
Sez. 6, n. 37374 del 06/05/2014, Polizzi
Sez. 6, n. 19525 del 17/04/2014, Licata
Sez. 6, n. 8654 del 11/02/2014, Costa
Sez. 6, n. 36382 del 03/06/2014, Rv. 260168-01, Antinoro
Sez. 6, n. 37374 del 06/05/2014, Rv. 260167-01, P.M. in proc. Polizzi
Sez. 1, n. 19230 del 30/11/2015 (dep. 2016), Zappalà
Sez. 6, n. 41801 del 16/09/2015 (dep. 2016), Serino
Sez. 6, n. 31348 del 10/06/2015, Annunziata
Sez. 6, n. 25302 del 19/05/2015, Rv. 263845-01, P.M. in proc. Albero
Sez. 5, n. 47569 del 20/09/2016, Pelle Antonio
Sez. n. 36079 del 10/05/2016, Rv. 268003-01, Costa
Sez. U, n. 111 del 30/11/2017 (dep. 2018), Mancuso
Sez. 2, n. 45402 del 02/07/2018, Lombardo, Rv. 275510-02
Sez. 5, n. 45840 del 14/06/2018, Rv. 274180-01
Sez. 6, n. 22840 del 18/04/2018, cesarano
Sez. 6, n. 18846 del 23/02/2018, Eboli
Sez. 6, n. 18844 del 23/02/2018, Pignataro
Sez. 1, n. 17455 del 30/01/2018, Alesci
Sez. U, udienza 24/10/2019, Genco
Sez. 5, n. 47269 del 15/07/2019, Alcamo
Sez. 5, n. 26426 del 07/05/2019, Rv. 275638-01, Merola
Sez. 1, n. 26686 del 10/04/2019, Rv. 276197-01, Marino
Sez. 6, n. 9442 del 20/02/2019, Rv. 275157-01, P.M. in proc. Zullo
Sentenze della Corte costituzionale
Corte cost., sent. n. 41 dell’8 marzo 2019
Corte cost., sent. n. 40 del 23 gennaio 2019
Corte cost., sent., n. 222 del 25 settembre 2018
Corte cost., sent. n. 236 del 21 settembre 2016
Corte cost., sent. n. 68 del 6 marzo 2012
Corte cost., sent. n. 341 dell’11 maggio 1994
Sentenze della Cedu
Grande Camera, sentenza del 23 febbraio 2017, causa n. 43395/09, de Tommaso c. Italia
Sez. IV, del 14 aprile 2015, causa n. 66655/13, Contrada c. Italia (n. 3)
Grande Camera, sentenza del 27 gennaio 2015, causa 59552/08, Rohlena c. Repubblica Ceca
Grande Camera, sentenza del 21 ottobre 2013, causa 42750/09, Del Rio Prada c. Spagna
La questione rimessa alle Sezioni Unite trae origine da un contrasto di giurisprudenza, assai risalente ed articolato, e tuttora persistente, in tema di illecita concorrenza con violenza e minaccia, con particolare riferimento alla portata della condotta, alle sue caratteristiche, al fine di poter ritenere integrato il reato. Il quesito sottoposto alle Sezioni Unite è stato così formulato: “Se ai fini della configurabilità del reato di illecita concorrenza con violenza o minaccia, sia necessario il compimento di condotte illecite tipicamente concorrenziali o, invece, sia sufficiente anche il solo compimento di atti di violenza o minaccia comunque idonei a contrastare od ostacolare l’altrui libertà di concorrenza”.
La Terza sezione, cui era stato assegnato il ricorso, ha evidenziato che è da tempo radicato, nell’ambito della giurisprudenza della Corte, un contrasto circa il perimetro applicativo della fattispecie ex art. 513 – bis cod. pen., relativo al “se essa intenda reprimere solamente le condotte tipicamente concorrenziali, come definite dall’art. 2598 cod. civ., poste in essere con violenza o minaccia nell’esercizio dell’attività commerciale, ovvero se essa abbracci anche gli atti intimidatori comunque idonei ad impedire al concorrente di autodeterminarsi nell’esercizio della propria attività imprenditoriale”.
Il collegio remittente richiama un primo orientamento, più aderente alla lettera della norma, secondo il quale l’elemento oggettivo del reato consiste nella repressione delle sole condotte illecite tipicamente concorrenziali e competitive (quali il boicottaggio, lo storno di dipendenti, il rifiuto di contrattare), realizzate con atti di violenza o minaccia, che inibiscono la normale dinamica imprenditoriale, non rientrando invece nella fattispecie astratta quelle condotte intimidatorie finalizzate ad ostacolare e contrastare l’altrui libera concorrenza, e però poste al di fuori dell’attività concorrenziale, come nel caso di diretta aggressione ai beni dell’imprenditore concorrente o della sua persona (Sez. 2, n. 49365 del 08/11/2016, Prezioso, Rv. 268515, Sez. 6, n. 44698 del 22/09/2015, Cannizzaro Rv. 265358, Sez. 2, n. 9763 del 10/02/2015, Amadoro, Rv. 263299, Sez. 2, n. 29009 del 27/05/2014, Ciliberti, Rv. 260039, Sez. 3, n. 16195 del 06/03/2013, Fammilume, Rv. 255398, Sez. 1, Sez. 2 n. 6541 del 02/02/2012, Aquino, Rv. 252435, Sez. 1, n. 9750 del 03/02/2010, P.G.c/ Bongiorno, Rv. 246515, Sez. 2, n. 35611 del 27/06/2007, Tarantino, Rv. 237801, Sez.3, n. 46756 del 03/11/2005, Mannone, Rv. 232650).
L’interpretazione richiamata si concentra sulla ratio della norma, intesa come tutela diretta e piena della libera concorrenza, sicché ai fini dell’integrazione del reato, si ritengono atti di concorrenza soltanto quelle condotte concorrenziali ritenute illecite da un punto di vista civilistico, realizzate con metodi di coartazione volti ad ostacolare la normale dinamica imprenditoriale. Tale interpretazione trova il proprio principale supporto nel necessario rispetto del principio di legalità e tassatività, poiché ai fini della ricostruzione del fatto non può essere eliminato proprio ciò che rappresenta l’elemento oggettivo dell’incriminazione e il nucleo fondamentale, ovvero la realizzazione di un atto di concorrenza, che non può essere considerato coincidente, né ricorrente in caso di meri atti di intimidazione, di per sé valutabili tuttavia come violenza o minaccia. Non può dunque giungersi ad un’applicazione dell’art. 513 – bis cod. pen. rispetto ad atti di violenza o minaccia, in relazione ai quali la limitazione della concorrenza rappresenta esclusivamente la mira teleologica dell’agente.
Un secondo orientamento invece ritiene configurabile il delitto previsto dall’art. 513 – bis cod. pen. ogniqualvolta sia realizzato un comportamento che, attraverso l’uso strumentale della violenza o della minaccia, sia idoneo ad impedire al concorrente di autodeterminarsi nell’esercizio della sua attività commerciale, industriale o comunque produttiva. In tal senso atti di concorrenza illecita sono tutti quei comportamenti sia “attivi” che “impeditivi” dell’altrui concorrenza, che, commessi da un imprenditore con violenza o minaccia, sono idonei a falsare il mercato e a consentirgli di acquisire, in danno dell’imprenditore minacciato, illegittime posizioni di vantaggio, senza alcun merito derivante dalla propria capacità operativa (Sez. 2, n. 18122 del 13/04/2016, P.M. in proc. Gencarelli, Rv. 266847, Sez. 3, n. 3868 del 10/12/2015, Inguì, Rv. 266180). Questa diversa opzione ermeneutica trova il proprio fondamento nella voluntas legislatoris, che con l’art. 513 – bis cod. pen., introdotto dall’art. 8 della legge 13 settembre 1982, n. 646, ha inteso reprimere forme di intimidazione che, nello specifico ambiente della criminalità organizzata, specie di stampo mafioso, tendono a controllare e/o a condizionare le attività commerciali e produttive, sebbene il riferimento alle condotte tipiche della criminalità organizzata intenda non già delimitare e dimensionare l’ambito di applicabilità della norma, ma solamente caratterizzare i comportamenti punibili con il ricorso ad un significativo parallelismo (Sez. 3, n. 450 del 15/02/1995, Tamborrini, Rv. 201578). Deve inoltre essere considerato il portato dell’art. 2598 cod. civ. come elemento-guida extrapenale nella definizione della condotta penalisticamente rilevante che, se da una parte prevede ai numeri 1) e 2) casi tipici di concorrenza sleale parassitaria, ovvero attiva, dall’altra al numero 3) contempla una norma di chiusura, secondo la quale sono atti di concorrenza sleale tutti i comportamenti contrari ai principi della correttezza professionale idonei a danneggiare l’altrui azienda. Da ciò consegue che possono essere ritenuti ricompresi nella previsione non solo le condotte tipicamente concorrenziali, ma anche tutti quegli atti intimidatori che siano finalizzati a contrastare o ad ostacolare l’altrui libertà di concorrenza (Sez. 6, n. 50084 del 12/07/2018, Terracciano, Rv. 274288, Sez. 6, n. 38551 del 05/06/2018, D., Rv. 274101, Sez. 2, n. 30406 del 19/06/2018, P.M. in proc. Sergi, Rv. 273374, Sez. 2, n. 9513 del 18/01/2018, Ietto, Rv. 272371, Sez. 2, n. 18122 del 13/04/2016, P.M. in proc. Gencarelli, Rv. 266847, Sez. 6, n. 24741 del 05/05/2015, P.M. in procedimento Iacopino, Rv. 265603, Sez.3, n. 3868 del 10/12/2015, Inguì, Rv. 266180, Sez. 2, n. 15781 del 26/03/2015, Arrichiello, Rv. 263530, Sez.3, n. 44169 del 22/10/2008, Di Nuzzo, Rv. 241683, Sez. 3, n. 44169 del 22/10/2008, Di Nuzzo, Rv. 241683).
Come sottolineato dall’ordinanza di rimessione, la questione proposta all’attenzione delle Sezioni Unite è oggetto di contrasto risalente, caratterizzato da diverse sfumature ed evoluzioni interpretative, anche tenendo conto dell’introduzione nel nostro ordinamento della disciplina sulla concorrenza e delle previsioni del TFUE, in motivazioni articolate e approfondite dalla giurisprudenza più recente.
L’analisi dell’elaborazione della giurisprudenza di legittimità fa emergere una decisa complessità della questione, risultando, in una prima fase temporale, due orientamenti più nettamente contrapposti (ovvero da un lato ritenendosi necessaria, nella realizzazione della condotta, al fine di integrare il delitto ex art. 513 – bis cod. pen., la materiale realizzazione di atti di concorrenza in senso stretto, commessi con coartazione, e dall’altro, invece, ritenendosi integrato il delitto anche in presenza di atti di violenza e minaccia per così dire autonomi e puri, purché finalizzati ad ostacolare o impedire del tutto la libera determinazione imprenditoriale del concorrente imprenditore), mentre in una seconda e più recente fase, che trova la sua base di partenza nella decisione della Sez. 3, n. 44169 del 22/10/2008, Di Nuzzo, Rv. 241683, emerge un orientamento di mediazione, che tende a comporre il contrasto insorto, giungendo ad un’interpretazione orientata anche alla luce delle disposizioni del TFUE e della legge 10 ottobre 1990, n. 287 in tema di concorrenza.
In tal senso, a partire dalla decisione della Sez. 3, n. 3868 del 10/12/2015, Inguì, Rv. 266180, può dirsi consolidato anche un terzo orientamento, che, trovando il proprio fondamento ermeneutico di partenza nel primo orientamento (che richiede la necessaria commissione di atti di concorrenza sleale tipici, commessi con coartazione), arriva a proporre una interpretazione evolutiva del concetto di atti di concorrenza, inteso in senso non restrittivo (anche in considerazione della atipicità della previsione civilistica) e basato sulla clausola presente nella previsione di cui all’art. 2598 n. 3) cod. civ. Si ritiene conseguentemente integrata la condotta di cui all’art. 513 – bis cod. pen. anche nel caso di “atti impeditivi” dell’altrui libera determinazione imprenditoriale, che determinino l’acquisizione di aree di mercato non correlate alla capacità imprenditoriale del soggetto agente (nello stesso senso di recente e in modo articolato Sez. 2, n. 30406 del 19/06/2018, P.M. in proc. Sergi, Rv. 273374, Sez. 6 , n. 50084 del 12/07/2018, Terracciano, Rv. 274288, Sez. 6, n. 50094 del 12/07/2018, PMT c/Alati, Rv. 275717 ).
Un ulteriore profilo oggetto di considerazione nell’elaborazione della giurisprudenza, che si caratterizza per essere trasversale ai diversi orientamenti, è poi quello relativo alla riferibilità o meno delle condotte violente e minacciose esclusivamente all’ambito delle associazioni a delinquere di stampo mafioso o meno. La riflessione trae spunto dalla voluntas del legislatore, espressa chiaramente anche nella relazione di accompagnamento alla legge Rognoni – La Torre e nell’originaria proposta di legge, di porre argine con tale disposizione a tutti quei classici comportamenti intimidatori in campo imprenditoriale riconducibili al metodo mafioso (danneggiamenti, incendi ed altro). La previsione normativa, nella sua definitiva formulazione, ha eliminato il riferimento specifico alle modalità di azione delle associazioni di stampo mafioso, e dunque si è concordemente considerato il campo di incidenza della previsione ex art. 513 – bis cod. pen. in senso ampio e relativo a qualsiasi tipo di attività imprenditoriale, a prescindere dalla sua connotazione mafiosa o meno, purché caratterizzata dall’imprenditorialità del contesto. Nell’ambito di questa ricostruzione non appare tuttavia superfluo ricordare come il materiale riscontro dell’utilizzo di metodi tipicamente mafiosi, in zone caratterizzate da forte infiltrazione di associazioni di tal genere, ha determinato la formulazione di gran parte delle imputazioni ex art. 513 – bis cod. pen., a riprova dell’incidenza e rilevanza della problematica segnalata, durante i lavori preparatori, già nella legge Rognoni – La Torre.
La particolare pervasività di questo fenomeno ha poi nel tempo portato ad un’ampia considerazione, nel ritenere l’effettiva integrazione del reato, del capitale di intimidazione e minaccia accumulato dalle c.d. “mafie storiche”, con la necessaria valutazione dell’evolversi del fenomeno anche per il tramite di c.d. minacce “implicite”, percepite come tali proprio per notorietà e pervasività di dette mafie. Ciò ha determinato anche un’evoluzione interpretativa in ordine al contenuto e portata del comportamento minaccioso, inizialmente ritenuto assolutamente necessario al fine di integrare il delitto in questione, in seguito considerato in prospettive diverse e più articolate, anche quanto al potenziale di intimidazione appunto delle mafie storiche (in questo senso Sez. 6, n. 24741 del 05/05/2015, P.M. in procedimento Iacopino, Rv. 265603 – 01).
Va menzionata Sez. 3, n. 46756 del 03/11/2005, Mannone, Rv. 232650, così massimata: “Il reato di cui all’art. 513 - bis cod. pen. (illecita concorrenza con violenza o minaccia), non è riferibile anche a colui che nell’esercizio di una attività imprenditoriale compie atti intimidatori al fine di contrastare o scoraggiare l’altrui libera concorrenza, atteso che la disposizione in questione, introdotta dall’art. 8 della legge n. 646 del 1982 (cosiddetta legge antimafia), reprime la concorrenza illecita che si concretizza in forme di intimidazione tipiche della criminalità organizzata che tende a controllare, con metodi violenti o mafiosi, le attività commerciali, industriali e più genericamente produttive.”, che ha affrontato il caso di un venditore ambulante che aveva posto in essere atti inequivocabilmente diretti ad impedire ad altro venditore ambulante di esercitare il lavoro in zona che reputava di sua esclusiva pertinenza. Nella condotta posta in essere dall’imputato i giudici di merito hanno riconosciuto una vera e propria condotta di concorrenza sleale, perché volta a raggiungere l’obiettivo di eliminare la presenza dell’antagonista da una parte del territorio di cui si era riservato arbitrariamente la prerogativa di vendita. La decisione in esame, così come la precedente Sez. 6, n. 3492 del 09/01/1989, Spano, Rv. 180706, ritiene che il comportamento posto in essere rappresenti un tipico atto di concorrenza illecita e sleale, che si concretizza anche mediante intimidazioni tipiche della criminalità organizzata, che con metodi violenti tende a controllare le attività commerciali, industriali e produttive, e a condizionarle, con evidente lesione del bene tutelato dalla norma rappresentato dal buon funzionamento del sistema economico. Ne consegue la limitazione della libertà delle persone di determinarsi nel settore. Precisa in motivazione la Corte come la previsione debba essere considerata alla luce della richiesta commissione di atti di concorrenza, ma solo di atti di concorrenza che si pongono “oltre i limiti legali”, con conseguente turbativa del libero mercato, in un “clima di intimidazione e con metodi violenti”. Il testo legislativo deve essere interpretato secondo la Corte individuando l’ambito di applicabilità dell’art. 513 – bis cod. pen. solo con riferimento alle tipiche condotte e comportamenti competitivi che si prestano ad essere realizzati con mezzi vessatori, come il boicottaggio, lo storno di dipendenti e il rifiuto di contrattare. In modo esplicito si chiarisce come non possa essere accolta l’interpretazione che tende ad ammettere l’integrazione del reato nel caso di violenza e minaccia connotata finalisticamente dall’intenzione di scoraggiare l’altrui concorrenza (quindi incidendo sull’elemento soggettivo del reato), poiché questa interpretazione non può essere considerata conforme al testo normativo e pone inevitabili problemi di violazione del principio di legalità e tassatività. Non si può eliminare infatti dall’elemento oggettivo il nucleo essenziale rappresentato dalla realizzazione di un atto di concorrenza. Conclude la Corte sottolineando ancora una volta che: «la previsione non è applicabile ad atti di violenza e minaccia, in relazione ai quali la limitazione della concorrenza è solo la mira teleologica dell’agente; tali condotte rimangono riconducibili ad altre fattispecie preesistenti».
La considerazione di queste decisioni, seppur risalenti nel tempo, evidenzia come gli elementi essenziali del primo orientamento fossero già chiari e focalizzati sin dalla sentenza Spano del 1989, approfonditi e chiariti dalla sentenza Mannone. Tuttavia si deve osservare come la decisione non abbia chiarito in modo esplicito a quale atto di concorrenza sarebbe esattamente riconducibile la condotta dell’imputato, consistente nel minacciare un altro venditore ambulante di allontanarsi dalla zona che riteneva di sua competenza.
Questo stesso comportamento, così come forme non nette di concorrenza parassitaria, saranno infatti considerate da altre decisioni della Corte non rilevanti ai sensi dell’art. 513 – bis cod. pen., bensì ai sensi di altre disposizioni penali, come la violenza privata, la minaccia, l’estorsione, considerate come limiti esterni alle condotte contestate ai sensi dell’art. 513 – bis cod. pen.
Sez. 2, n. 35611 del 27/06/2007, Tarantino, Rv. 237801, ha affrontato in modo articolato e approfondito la questione relativa alla necessità, al fine di ritenere integrato il delitto, della realizzazione di veri e propri atti di concorrenza. Viene infatti esclusa, in relazione ad una condotta del tutto simile a quella oggetto della decisione Mannone (contrasto tra piccoli imprenditori con minaccia per il controllo della zona di lavoro), la responsabilità per il delitto contestato ai sensi dell’art. 513 – bis cod. pen. Richiamando la finalità prevista dalla norma, volta a tutelare l’ordine economico, minacciato da attività o infiltrazioni di tipo mafioso, che rendano impossibile il libero gioco del mercato, la decisione sottolinea che proprio la dizione letterale utilizzata dal legislatore «restringe l’ambito di applicabilità dell’art. 513 – bis cod. pen. alle condotte concorrenziali attuate con mezzi di coartazione che inibiscono la normale dinamica imprenditoriale; pertanto vi rientrano i tipici comportamenti competitivi che si prestano ad essere realizzati con mezzi vessatori (boicottaggio, storno di dipendenti, rifiuto a contrattare), consistendo la condotta tipica nel compimento di atti di concorrenza posti in essere con violenza e minaccia nei confronti di altri soggetti economici operanti nello stesso settore». La sentenza analizza poi il rapporto tra l’art. 513 – bis cod. pen. e altre fattispecie contigue alla stessa, come l’art. 629 cod. pen., e considera integrato tale diverso delitto, essendo la finalità dell’imputato stata proprio quella di salvaguardare il suo patrimonio e non di limitare la concorrenza in senso tecnico.
L’ordinanza di rimessione richiama come decisione riferibile al primo orientamento ermeneutico anche Sez. 1, n. 9750 del 03/02/2010, P.G. in proc. Bongiorno, Rv. 246515, così massimata: «Al fine della configurabilità del delitto di illecita concorrenza con violenza o minaccia, che è reato di pericolo, è del tutto irrilevante la mancanza di un concreto effetto della condotta sul piano dei rapporti commerciali, bastando a integrarlo il solo compimento, con modalità violente o minacciose, di atti di concorrenza». La lettura della motivazione della sentenza, e della fattispecie oggetto di giudizio, fa emergere una situazione più articolata rispetto al principio affermato, che occorre considerare. La motivazione della decisione sembra essere incentrata sull’analisi della natura di reato di pericolo dell’art. 513 – bis cod. pen. e la condotta oggetto di considerazione sembra integrare una vera e propria forma tipica di intimidazione di stampo mafioso, rispetto alla quale viene ritenuta la sussistenza del reato. In questo caso la condotta contestata era relativa alle ritenute infiltrazioni mafiose nell’ambito portuale di Porto Empedocle, con particolare riferimento all’attività di commercializzazione del pesce. In sostanza si trattava di una disputa intervenuta tra due acquirenti di pescato e della richiesta di aiuto formulata da uno degli imputati all’altro imputato, mafioso conclamato, perché intervenisse - intervento effettivamente posto in essere - affinché un terzo commerciante rinunciasse alla pretesa di contratto in esclusiva sul pescato in questione. La Corte ha osservato come il reato si concretizzi con il compimento di quegli atti di concorrenza espletata con violenza e minaccia, ed in ciò si esaurisce, senza alcuna rilevanza per l’eventuale raggiungimento del risultato, ovvero del vantaggio per il singolo commerciante o imprenditore. Non affrontando dunque in modo esplicito la natura dell’atto di intimidazione vera e propria posta in essere da un noto mafioso della zona, la Corte ha ritenuto corretta l’affermazione di responsabilità ai sensi dell’art. 513 – bis cod. pen. Ad una lettura più analitica della motivazione, non sembra allora essere stato affrontato il problema centrale della questione rimessa alle Sezioni Unite, ovvero cosa possa effettivamente integrare la condotta prevista dall’art. 513 – bis cod. pen., senza alcuna enunciazione sul punto al fine di identificare la portata dell’elemento materiale del delitto in questione, tuttavia giungendosi ad una conferma dell’affermazione di responsabilità degli imputati per una condotta che si caratterizza per la sua natura di tipica intimidazione mafiosa, per il rispetto di equilibri voluti proprio in relazione all’appartenenza all’associazione.
Sez. 1, n. 6541 del 02/02/2012, Aquino, Rv. 252435, affronta la questione relativa alla rilevanza, nell’ambito della previsione di cui all’art. 513 – bis cod. pen., della così detta interposizione parassitaria. Secondo l’impostazione accusatoria risultavano posti in essere atti di illecita concorrenza volti al controllo e al condizionamento del mercato della fornitura di ferro, a causa dell’imposizione agli imprenditori del settore di rifornirsi del relativo materiale solo ed esclusivamente da una determinata società, che svolgeva il ruolo di interposta tra le ferriere e le ditte costruttrici, applicando un prezzo maggiorato, grazie alla “minaccia implicita” derivante dalla vicinanza della società interposta alla famiglia mafiosa della zona. Tale condotta veniva presa in considerazione dalla Corte quanto al disposto sequestro preventivo finalizzato alla confisca ex art. 240 cod. pen. Secondo la Corte, la condotta oggetto d’imputazione non risultava connotata da violenza e minaccia, in mancanza di esplicita indicazione in tal senso da parte dell’accusa, soprattutto in quanto correlata alla limitazione della concorrenza, e seppure ci si fosse materialmente trovati di fronte ad una condotta di intermediazione parassitaria, per la mancata indicazione da parte dell’accusa anche del mero metus derivante dalla vicinanza all’associazione mafiosa della società interposta, non era possibile ritenere sussistente il fumus del reato contestato, tanto più non essendo stati indicati i destinatari di siffatto atteggiamento. In sostanza la Corte ha ritenuto che l’interposizione, seppur parassitaria, non sia idonea ad integrare una condotta riconducibile all’art. 513 – bis cod. pen., perché consumata senza che sia stato chiarito l’aspetto relativo all’effettiva ricorrenza di violenza e minaccia da parte dell’organo dell’accusa. Questa decisione si attesta dunque, in un caso di interposizione parassitaria (che avrebbe natura di atto concorrenziale in senso stretto), sull’impossibilità di ritenere fondata la prospettazione a livello di fumus dell’accusa per mancata indicazione dei comportamenti violenti e minacciosi (tale soluzione è stata sostanzialmente sorpassata dalla decisione della Sez. 6, Sentenza n. 24741 del 05/05/2015, P.M. in procedimento Iacopino, Rv. 265603, che ha sottolineato la valenza del capitale intimidatorio acquisito dalle mafie storiche, tanto che il semplice rapporto di vicinanza, contiguità, riferibilità ad una associazione mafiosa di risalente formazione potrebbe giustificare l’intimidazione implicitamente conseguente a tale rapporto).
Sez. 3, n. 16195 del 06/03/2013, Fammilume, Rv. 255398, ha fondato la propria decisione richiamando la inequivocità del dato letterale della disposizione e la necessità di applicare in modo rigoroso, anche per la fattispecie in esame, il principio di legalità. Sez. 2, n. 29009 del 27/05/2014, Ciliberti, Rv. 260039, ha affrontato il tema dei rapporti tra il reato di cui all’art. 513 – bis cod. pen. e gli altri reati che possono trovarsi in rapporto di specialità reciproca con lo stesso (come l’estorsione) e i reati che residuano una volta esclusa la ricorrenza del delitto in questione quando, appunto, non sia stata verificata la ricorrenza di condotte a carattere illecito “tipicamente concorrenziale”. Lo stesso identico percorso argomentativo si rinviene in Sez. 2, n. 9763 del 10/02/2015, Amadoro, Rv. 263299. Sez. 6, n. 44698 del 22/09/2015, Cannizzaro Rv. 265358, ha nuovamente ribadito la necessità del compimento di condotte tipicamente concorrenziali, la Corte ha chiarito come materialmente fossero emerse solo ed esclusivamente azioni a carattere intimidatorio. (Nello stesso senso si è espressa anche Sez. 2, n. 49365 del 08/11/2016, Prezioso, Rv. 268515 e Sez. 2, n. 53139 del 08/11/2016, Cotardo, Rv. 268640).
Può essere interessante osservare che, seppure si riscontri la ripetizione sostanzialmente costante del principio di diritto, tuttavia l’analisi della casistica e dei comportamenti concretamente giudicati sembra far emergere alcune discrasie specialmente nella considerazione dei c.d. atti di intimidazione, spesso commessi in ambito contiguo ad associazioni a delinquere di stampo mafioso, a volte ritenuti in quanto tali atti di concorrenza sleale, senza tuttavia chiarire in quale categoria di atti di concorrenza sleale rientrerebbero, ed invece ritenuti in altre occasioni non rilevanti al fine di poter ritenere integrata la condotta sanzionata ex art. 513 – bis cod. pen., pur residuando la possibilità di un inquadramento in altre fattispecie.
Venendo al secondo indirizzo interpretativo già richiamato, l’analisi deve muovere da Sez. 3, n. 450 del 15/02/1995, Tamborrini, Rv. 201578, secondo cui il reato di illecita concorrenza con minaccia o violenza, di cui all’art. 513 - bis cod. pen., non deve necessariamente realizzarsi in ambienti di criminalità organizzata, nè l’autore deve appartenere a un’organizzazione criminale, nè sono necessari atti di concorrenza nel senso tecnico giuridico di cui all’art. 2595 cod. civ. Infatti, l’art. 513 - bis citato si riferisce a quei comportamenti che, per essere attuati con minaccia o violenza, configurano una concorrenza illecita e si concretizzano in forme di intimidazione, tipiche della criminalità organizzata, che tendono a controllare le attività commerciali, industriali o produttive o, comunque, a condizionare. Il riferimento alle condotte tipiche della criminalità organizzata non intende affatto dimensionare l’ambito di applicabilità della norma (restringendolo alle sole operazioni di criminalità organizzata), ma solo caratterizzare i comportamenti punibili con il ricorso a un significativo parallelismo, che, seppur risalente, già aveva enucleato la diversa opzione ermeneutica nella considerazione della previsione dell’art. 513 – bis cod. pen. Richiamando chiaramente la voluntas del legislatore, la sentenza precisa ambito e connotazione del reato e propone un’interpretazione ampia, proprio al fine di tutelare al massimo il bene protetto dalla norma, ovvero il corretto andamento dell’economia. Nel giungere a tale conclusione chiarisce come l’ambito non possa ritenersi limitato al campo della criminalità organizzata, e che ciò che conta non è tanto la commissione di tipici atti di concorrenza, quanto la realizzazione di una serie di attività violente e minacciose, che proprio per le loro caratteristiche di fatto configurano una concorrenza illecita e tendono a controllare attività commerciali, o comunque a condizionarle nella loro azione. Nella stessa direzione interpretativa si pone anche Sez. 2, n. 13691 del 2005 del 15/03/2005, De Noia Mecenero, Rv. 231129. Le decisioni si caratterizzano per un’interpretazione volta a realizzare la massima portata applicativa dell’art. 513 – bis cod. pen. Ciò, tenuto conto della ratio della legislazione antimafia e della volontà del legislatore di tutelare l’economia pubblica perseguendo fenomeni violenti e intimidatori di fatto limitativi della concorrenza, diversi per le loro caratteristiche rispetto ai comportamenti oggetto di disciplina in campo civilistico, connotati invece, come già detto, nella maggior parte dei casi, dall’uso del mezzo fraudolento.
Tale indirizzo interpretativo tende dunque a realizzare una tutela caratterizzata da immediatezza ed effettività rispetto ad una serie di comportamenti che, seppur non tipicamente concorrenziali, tuttavia incidono fortemente sul sostrato imprenditoriale, grazie a forme di contiguità con le associazioni mafiose, dalle quali traggono metodi e modalità di intimidazione e violenza, anche in contesti assai semplici come quelli del commercio. Proprio la finalità tipica del delitto previsto dall’art. 513 – bis cod. pen. porta infatti, anche nell’ambito di questo orientamento, a considerare la possibilità piena di concorso tra questo delitto e l’estorsione, a causa della diversità dei beni protetti, sebbene entrambi i delitti si esplichino con forme di violenza e intimidazione volti a coartare l’agire della persona (in questo senso Sez. 2, n. 14467 del 28/02/2004, Arangio, Rv. 228719).
Un’analisi centrata invece sul concetto di atto di concorrenza, da intendere in senso ampio come qualsiasi turbativa del libero mercato, e non limitatamente alle indicazioni provenienti dal codice civile, emerge dalla Sez. 3, n. 44169 del 22/10/2008, Di Nuzzo, Rv. 241683, così massimata: «Ai fini dell’integrazione del reato d’illecita concorrenza con violenza o minaccia qualsiasi comportamento violento o intimidatorio idoneo ad impedire al concorrente d’autodeterminarsi nell’esercizio della sua attività commerciale, industriale o comunque produttiva configura un atto di concorrenza illecita. (Fattispecie di danneggiamenti, aggressioni e minacce poste in essere per conto di un negoziante nei confronti di un altro al fine di indurre quest’ultimo a non praticare prezzi di vendita inferiori)». Si evidenzia per la prima volta l’incidenza sulla capacità di autodeterminazione di una serie di comportamenti violenti e minacciosi, enucleando in modo esplicito il concetto di “atti impeditivi” della concorrenza. Questa connotazione della condotta tiene conto del contesto nel quale normalmente maturano i comportamenti oggetto della previsione ex art. 513 – bis cod. pen. e sembra accogliere la chiara voluntas del legislatore in particolare in relazione a comportamenti posti in essere in contesti caratterizzati dalla presenza esplicita di associazioni a delinquere di stampo mafioso o dalla contiguità dei soggetti agenti, seppur imprenditori, alle stesse. La norma tutela dunque non solo il corretto e buon funzionamento dell’economia, ma anche la libera autodeterminazione di chi opera in questo settore. Rileva, cioè, un concetto di concorrenza non solo diretta a distruggere direttamente l’attività del concorrente, ma anche «quella che è diretta ad evitare che possa essere esercitato un atto di concorrenza lecita, come ad esempio il ribasso dei prezzi». Non sono dunque necessari atti di concorrenza intesi in senso tecnico giuridico ai sensi dell’art. 2595 cod. civ. È comunque necessario accedere ad un “significato ampio” del concetto di atto di concorrenza “in modo da includere qualsiasi turbativa al libero mercato, il tutto in linea con lo scopo della norma”. In tal senso si sottolinea come con gli atti di cui all’art. 513 – bis cod. pen., più che a migliorare la posizione di un concorrente rispetto a quella di un altro, tendano a rimuovere le condizioni che rendono possibile la stessa capacità di autodeterminarsi dei soggetti economici.
Sono diverse le decisioni successive, alcune non massimate, che hanno riaffermato, senza sostanziali variazioni, i principi sopra richiamati, mentre un momento di rilevante interesse per la questione posta all’attenzione delle Sezioni Unite è senz’altro rappresentato, come già accennato, da Sez. 3, n. 3868 del 10/12/2015, Inguì, Rv. 266180, così massimata: «La condotta materiale del delitto previsto dall’art. 513 - bis cod. pen. può essere integrata da tutti gli atti di concorrenza sleale di cui all’art. 2598 cod. civ., tra i quali vi rientrano quelli diretti non solo a distruggere l’attività del concorrente, ma anche ad impedire che possa essere esercitato un atto di libera concorrenza, come quello della ricerca di acquisizione di nuove fette di mercato. (In motivazione, la Corte ha affermato che l’art. 2598 cod. civ., da interpretarsi alla luce della normativa comunitaria e della Legge n. 287 del 1990, prevede ai numeri 1) e 2) i casi tipici di concorrenza sleale parassitaria, ovvero attiva, mentre al n. 3) una norma di chiusura secondo cui sono atti di concorrenza sleale tutti i comportamenti contrari ai princìpi della correttezza professionale idonei a danneggiare l’altrui azienda)». La Corte propone un’opzione ermeneutica che, rifacendosi a quanto già affermato da Sez. 2, n. 15781 del 26/03/2015, Arrichiello, Rv. 263530, supera la radicata contrapposizione dei due orientamenti richiamati, escludendo che sia necessaria una rimessione alle Sezioni Unite della questione. Sostanzialmente la Corte richiama il principio già affermato dalla sentenza Spano, secondo la quale la concorrenza deve “non solo essere libera, ma anche liberamente attuata”. In assenza di una definizione penalistica dell’atto di concorrenza, per attuare effettivamente la tutela dell’ordine economico e del libero svolgimento delle attività economiche, il nodo interpretativo è quello di ricavare la nozione di concorrenza, e conseguentemente degli atti posti in essere in tale ambito, dai testi normativi. La motivazione attribuisce rilievo centrale all’art. 2598 cod. civ., che deve tuttavia essere necessariamente interpretato, alla luce della normativa comunitaria e della legge n. 287 del 1990, come affermato dalla giurisprudenza della Corte di cassazione civile (Sez. 1, n. 14394 del 10/08/2012, Rv. 624016), nel senso di prevedere ai numeri 1) e 2), casi tipici di concorrenza sleale c.d. parassitaria ovvero attiva, e poi, al n. 3), una norma di chiusura secondo la quale sarebbero atti di concorrenza sleale tutti i comportamenti contrari “ai principi della correttezza professionale” idonei a danneggiare l’altrui azienda. Si tratta dunque di comportamenti distinti di concorrenza sleale, alternativi gli uni (n. 1 e 2) all’altro (n. 3). Aggiunge la Corte che in questa ultima ipotesi sono stati normalmente ricondotti il boicottaggio, lo storno di dipendenti e di clientela, ma permane in generale la necessità di valutare in concreto i singoli comportamenti oggetto di contestazione, al fine di valutare se ricorra o meno un comportamento contrario ai principi di “correttezza professionale”.
Nello stesso senso si pongono anche Sez. 2, n. 18122 del 13/04/2016, P.M./Gencarelli, Rv. 266847, nonché Sez. 6, n. 38551 del 05/06/2018, D., Rv. 274101 che hanno precisato che la previsione vuole perseguire quei comportamenti violenti e intimidatori che eliminano i presupposti stessi della concorrenza, e non gli atti tipicamente sleali in ambito concorrenziale previsti dal codice civile. L’allargamento alle condotte “impeditive” rappresenta il momento interpretativo centrale delle decisioni, anche alla luce della lettura della disposizione in combinato disposto con le previsioni comunitarie in tema di concorrenza; si sottolinea l’assenza di una definizione penalistica degli atti di concorrenza sleale, con la conseguente necessità di ricavarne la nozione sulla base di norme extrapenali e in particolare dell’art. 2598 cod. civ. Richiamata l’elaborazione sul punto, e la clausola di chiusura di cui al n. 3) dell’art. 2598 cod. civ., l’operazione che deve essere compiuta dal giudice è quella dunque di verificare se il comportamento contestato possa essere ritenuto contrario ai principi di correttezza professionale. (nello stesso senso, sebbene con motivazioni meno articolate: Sez. 2, n. 9513 del 18/01/2018, Ietto, Rv. 272371; Sez. 6, n. 24741 del 05/05/2015, P.M. in procedimento Iacopino, Rv. 265603).
In epoca più recente, tenuto conto dell’evoluzione del primo orientamento interpretativo, con particolare riferimento alla necessaria integrazione del precetto penale al fine di giungere ad una definizione del concetto di atti di concorrenza, si è sostanzialmente consolidato un terzo indirizzo, rappresentato da decisioni che hanno approfondito e strutturato maggiormente il riferimento alla disciplina comunitaria e alla normativa relativa alla concorrenza.
In tal senso si pongono le più recenti Sez. 2, n. 30406 del 19/06/2018, P.M. in proc. Sergi, Rv. 273374; Sez. 6, n. 50084 del 12/07/2018, Terracciano, Rv. 274288; Sez. 6, n. 50094 del 12/07/2018, PMT c/Alati, Rv. 275717. Queste decisioni sembrano essere indicative di una volontà interpretativa volta a mantenere alla previsione dell’art. 513 - bis cod. pen. un reale campo di operatività ed efficacia, a prescindere dal confronto e dalle diverse posizioni che ne hanno inizialmente caratterizzato l’applicazione. Nel tentativo di mediare tra i diversi orientamenti interpretativi in contrasto, queste decisioni attribuiscono un rilievo fondamentale alla ratio della norma, approfondendo il richiamo al concetto di atti di concorrenza per come integrato dalle previsioni comunitarie e dalla disciplina della concorrenza.
Sez. 2, n. 30406 del 19/06/2018, P.M. in proc. Sergi, Rv. 273374, così massimata: «Integra il delitto di cui all’art. 513 - bis cod. pen. qualunque comportamento violento o minatorio posto in essere nell’esercizio di attività imprenditoriale al fine di acquisire una posizione dominante non correlata alla capacità operativa dell’impresa. (In motivazione la Corte ha chiarito che la nozione di atti di concorrenza deve essere interpretata tenendo conto non soltanto delle indicazioni di cui all’art. 2598 cod. civ., ma anche delle intese restrittive della libertà di concorrenza e degli abusi di posizione dominante descritti negli artt. 2 e 3 della legge n. 287 del 1990)», affronta il caso relativo ad un imprenditore che, nell’ambito di un appalto pubblico, tramite il fratello, personaggio di nota caratura mafiosa, effettuava delle chiamate telefoniche allo scopo di impedire ad altre ditte di presentare offerte nel medesimo contesto. Il giudice di merito aveva escluso la sussistenza del reato per l’assenza effettiva di condotte illecite o minacciose, escludendo che tale potesse essere ritenuta la telefonata posta in essere dal fratello dell’imputato nel suo interesse. La Corte ha annullato con rinvio il provvedimento del Tribunale del riesame aderendo all’orientamento interpretativo secondo il quale devono essere considerati atti di concorrenza sleale anche gli “atti impeditivi” dell’altrui libera determinazione imprenditoriale, consolidando in modo deciso l’orientamento di nuova elaborazione secondo il quale si deve accedere ad una più ampia definizione degli atti di concorrenza, da interpretare in un’ottica più ampia, per cui sono tali tutti quegli atti idonei a falsare il mercato e a consentire ad un imprenditore di acquisire in danno di altri imprenditori posizioni dominanti illegittime, senza alcun merito derivante dalle proprie capacità.
In particolare, si afferma come non ci si possa attestare sulla nozione tradizionale di atti di concorrenza, ma occorra integrare tale nozione sia quanto ad attività illecite come la creazione di cartelli tra imprese, sia quanto a condotte volte a concretizzare in modo sempre più esplicito l’abuso di una posizione dominante, anche se acquisita originariamente in modo legittimo. Questa interpretazione tende dunque a sua volta a tipizzare l’atto di concorrenza illecita, ampliandone la nozione ed integrandola mediante il riferimento al complesso delle norme previste in materia, e dunque non solo l’art. 2598 cod. civ., ma anche gli artt. 101 e 102 TFUE e art. 2 e 3 della legge n. 287 del 1990. Partendo da tale base interpretativa l’atto di concorrenza viene identificato con chiarezza “in qualunque atto attivo o impeditivo che consenta l’acquisizione di una posizione dominante non correlata alla capacità operativa dell’impresa”, dunque “qualunque comportamento violento o minatorio”, sia attivo che impeditivo, che sia posto in essere nell’esercizio di un’attività imprenditoriale e sia finalizzato ad ottenere una posizione dominante.
Così proposta la soluzione della questione interpretativa, la Corte poi evidenzia un altro profilo assai rilevante rispetto all’atteggiarsi in generale delle condotte oggetto di contestazione ex art. 513 – bis cod. pen., affermando che «il collegio ritiene che le mafie storiche abbiano un capitale criminale la cui evocazione sortisce un effetto coercitivo parificabile, se non superiore, a quello che si ottiene attraverso il ricorso a forme di minaccia tipica, l’evocazione del capitale criminale delle mafie storiche consente una semplificazione dell’azione criminale in quanto l’effetto intimidatorio si raggiunge attraverso l’evocazione della riconosciuta capacità criminale di gruppi organizzati noti per la consumazione reiterata di efferati crimini contro la persona e non richiede lo spiegamento delle energie coercitive che sono necessarie per l’efficacia di una minaccia ordinaria». Questa decisione sembra dunque riportare l’osservazione e l’analisi della condotta alla ragione che aveva originariamente caratterizzato la volontà del legislatore, e riconosce come molte, diverse e non tipizzate, possano essere le modalità di condizionamento violento e intimidatorio del buon andamento dell’economia.
Sez. 6 , n. 50084 del 12/07/2018, Terracciano, Rv. 274288, Sez. 6, n. 50094 del 12/07/2018, PMT c/Alati, Rv. 275717, a loro volta, richiamano l’allargamento del concetto di atti di concorrenza, ricomprendendo comportamenti sia “attivi” che “impeditivi”, sottolineando l’importanza dell’ interpretazione fornita a suo tempo dalla Terza Sezione, con la decisione n. 3868 del 2015, volta a comporre il contrasto insorto tra le diverse linee interpretative dell’art. 513 – bis cod. pen. Devono dunque essere considerati atti di concorrenza rilevanti sia i classici casi di concorrenza parassitaria ex art. 2598, n. 1) e 2) cod. civ., ovvero attiva, che i comportamenti, rientranti nella norma di chiusura al n. 3), contrari ai principi della correttezza professionale idonei a danneggiare l’altrui azienda.
Quanto alla portata e significato dell’atto di concorrenza, poiché non disciplinato in ambito penale, compiendo un ulteriore approfondimento interpretativo, si afferma che: «occorre precisare come, nel momento in cui una disposizione prevista dall’ordinamento giuridico per disciplinare un fenomeno in campo civile sia utilizzata a fini ermeneutici per dare significato ad un concetto utilizzato in ambito penale, salvo una diversa indicazione normativa, detta disposizione non possa essere riduttivamente letta secondo l’ermeneusi seguita nell’applicazione giurisprudenziale in quello specifico settore del diritto (nella specie civile), che – per definizione – è destinato a regolare il rapporto o l’accadimento sotto un’ottica completamente diversa da quella penalistica”, e in tal senso si deve ritenere che il numero 3) dell’art. 2598 cod. civ. “là dove fa riferimento – con un’espressione all’evidenza aperta – ad ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda, non possa non comprendere fra gli atti di concorrenza sleale anche quei comportamenti violenti o minacciosi in danno di un’azienda concorrente atti ad alterare la libera competizione tra imprese nel procacciamento degli affari, sia pure normalmente estranei al fenomeno della concorrenza sleale in ambito civilistico e commerciale, cui appunto pertiene la disciplina dello stesso art. 2598 cod. civ., in quanto condotte certamente integranti un altro mezzo, contrario alla correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda». Una lettura estensiva della portata della norma, risulta armonica con il bene giuridico tutelato dalla fattispecie, che deve essere individuato non solo nel buon funzionamento dell’intero sistema economico, ma anche nella libertà delle persone di autodeterminarsi nello svolgimento delle attività produttive. Come evidenziato dalla relazione al disegno di legge n. 1581 del 31 marzo 1980 non si può prescindere dalla considerazione che “la mafia, peraltro, opera ormai nel campo delle attività lecite e si consolida l’impresa mafiosa che interviene nelle attività produttive, forte dell’autofinanziamento illecito (sequestro di persona, contrabbando…) e mira all’accaparramento dell’intervento pubblico, scoraggiando la concorrenza … Con la previsione del reato si punisce un comportamento tipico mafioso che è quello di scoraggiare con esplosione di ordigni, danneggiamenti o con violenza alle persone, la concorrenza”. La previsione in questione risponde all’esigenza di affrontare con tempi e modi di reazione rapidi, tipici dello strumento penale, quello che si può considerare il modello evolutivo, non più statico, ma dinamico, della mafia, dove “l’esercizio dell’attività di impresa rappresenta lo sbocco naturale e il centro di interessi del sodalizio criminale”.
Di fatto l’imprenditoria mafiosa, mediante il ricorso a metodi violenti e intimidatori, finisce con lo scoraggiare o eliminare del tutto l’altrui lecita concorrenza, e sfrutta così il proprio inevitabile ed oggettivo vantaggio competitivo per attuare un disegno monopolistico, per settori o aree geografiche di appartenenza, che mette a repentaglio la libera dinamica economica. Ne consegue che, sebbene il legislatore nella sua formulazione definitiva, abbia svincolato la fattispecie da una necessaria connessione con il contesto specifico della criminalità organizzata, tuttavia lo scopo della disposizione è cercare di arginare proprio quelle condotte anticoncorrenziali comunque realizzate con comportamenti violenti o minatori.
Questa lettura trova poi ulteriore conforto nella tutela assicurata all’economia di mercato aperta e in libera concorrenza ai sensi della legge 10 ottobre 1990 n. 287, ma soprattutto alla luce del quadro normativo comunitario (artt. 101, 102, TFUE, art. 120 TFUE, art. 16 CEDU), a carattere prevalente, ex art. 11 e 117 Cost., sulla normativa interna come evidenziato dalla Cassazione civile, Sez.1, n. 14394 del 10/08/2012, Rv. 624016 (così massimata “Nel regime anteriore all’entrata in vigore del Regolamento comunitario n. 1 del 2003 - il quale, sostituendo il precedente Regolamento n. 4 del 1962, ha introdotto una maggiore integrazione tra gli ordinamenti nazionali in relazione alle azioni risarcitorie conseguenti a violazione delle normativa “antitrust”- era già consentito al giudice nazionale, alla luce degli artt.85, 86, 89 e 90 del Trattato dell’Unione europea e della legge 10 ottobre 1990, n. 287, interpretare ed applicare le norme sulla concorrenza sleale- in particolare l’art. 2598 cod. civ. - assumendo come valore di riferimento la tutela della concorrenza. Ne consegue che era possibile allegare quale fonte di danno ingiusto, nell’ambito di un giudizio interindividuale, fattispecie tipiche del diritto “antitrust”; tuttavia, poiché il sistema non vieta, di per sé, il raggiungimento di una posizione dominante, bensì l’abuso della medesima, la dimostrazione che, mediante un certo contratto, è stata raggiunta tale posizione non è prova sufficiente dell’esistenza dell’illecito. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito la quale aveva ritenuto che l’esistenza di un contratto di distribuzione esclusiva per l’Italia non fosse prova sufficiente dell’esistenza di un disegno monopolistico).”
Affrontando la portata delle previsioni del TFUE, occorre ricordare come la giurisprudenza di legittimità penale abbia richiamato gli artt. 101, 102 e 120 (quest’ultimo articolo in generale è considerato il presidio dell’economia di mercato aperta e in libera concorrenza), al fine di definire la portata del concetto di atti di concorrenza, anche tenendo conto della identificazione del concetto di mercato e concorrenza fornita dalla giurisprudenza civile di legittimità con la sentenza della Sez. 1 civ., n. 14394 del 10/08/2012, Rv. 624016. La decisione, richiamata dalla giurisprudenza penale di legittimità più recente, è così massimata: “Nel regime anteriore all’entrata in vigore del Regolamento comunitario n.1 del 2003 - il quale, sostituendo il precedente Regolamento n. 4 del 1962, ha introdotto una maggiore integrazione tra gli ordinamenti nazionali in relazione alle azioni risarcitorie conseguenti a violazione delle normativa “antitrust” - era già consentito al giudice nazionale, alla luce degli artt. 85, 86, 89 e 90 del Trattato dell’Unione europea e della legge 10 ottobre 1990, n. 287, interpretare ed applicare le norme sulla concorrenza sleale - in particolare l’art. 2598 cod. civ. - assumendo come valore di riferimento la tutela della concorrenza. Ne consegue che era possibile allegare quale fonte di danno ingiusto, nell’ambito di un giudizio interindividuale, fattispecie tipiche del diritto “antitrust”; tuttavia, poiché il sistema non vieta, di per sé, il raggiungimento di una posizione dominante, bensì l’abuso della medesima, la dimostrazione che, mediante un certo contratto, è stata raggiunta tale posizione non è prova sufficiente dell’esistenza dell’illecito. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito la quale aveva ritenuto che l’esistenza di un contratto di distribuzione esclusiva per l’Italia non fosse prova sufficiente dell’esistenza di un disegno monopolistico).” Nell’ambito di una controversia tra imprese la Corte ha affermato che: “La dimensione giuridica della concorrenza ha assunto nel nostro sistema la funzione di “valore di riferimento”, giacché gli artt. 85 ed 86 del Trattato hanno imposto limiti nuovi, mirati a proteggere la struttura concorrenziale del mercato anche indipendentemente dall’atteggiamento del soggetto leso. Da ciò il rilievo giuridico qualitativo dei presupposti, apparentemente solo quantitativi, dell’applicazione di tale novità giuridica, quali il “mercato rilevante”, ed il “pregiudizio agli scambi dei paesi aderenti al Trattato”. (Sez. 3 civ., n. 993 del 21/01/2010, Rv. 611386).
Il mercato, dunque, nella nozione introdotta dal Trattato, si identifica con quello concorrenziale. Bene giuridico da tutelare è la competitività. Conseguentemente, già prima del nuovo testo dell’art. 117 Cost., e dunque nel vigore del Trattato, e quindi ancora a seguito dell’entrata in vigore della L. n. 287 del 1990, si può dire certa nel nostro sistema giurisprudenziale la necessità di leggere la disciplina del codice civile parallelamente a quella del Trattato, ovvero considerandone parte integrante la logica antitrust.” La giurisprudenza di legittimità penale ha dunque richiamato quanto evidenziato dalla giurisprudenza di legittimità civile e, in particolare, la necessità di realizzare una piena integrazione tra le fonti comunitarie e la disciplina penale, anche alla luce del disposto dell’art. 2598 cod. civ.
L’art. 101 del TFUE afferma che sono incompatibili con il mercato interno e vietati tutti gli accordi tra imprese, tutte le decisioni di associazioni di imprese, e tutte le pratiche concorrenziali che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza all’interno del mercato interno. Vengono elencati una serie di comportamenti in tal senso rilevanti, nessuno dei quali, occorre sottolinearlo, si caratterizza per l’esercizio di una azione violenta o minacciosa per il raggiungimento dell’obiettivo anticoncorrenziale. L’obiettivo della normativa (recepito negli stessi termini dalla l. 287 del 1990) è quello che la concorrenza non sia falsata nel mercato interno, al fine di incrementare il benessere dei consumatori e realizzare l’integrazione dei mercati nazionali tramite la creazione di un mercato unico. Come è noto gli artt. 101 e 102 del TFUE producono effetti diretti nei rapporti tra i singoli e attribuiscono agli interessati dei diritti che i giudici nazionali devono tutelare, anche perché questi articoli contengono disposizioni di ordine pubblico che devono essere applicate di ufficio dai giudici nazionali. La previsione dell’art.101 tutela non solo la concorrenza attuale tra imprese, ma anche la concorrenza potenziale di e tra imprese, e non solo la concorrenza tra imprese che abbiano concluso un accordo, ma anche tra queste e imprese terze estranee all’accordo. Questa disciplina, come quella dell’art. 102, si applica a “comportamenti di imprese”. La nozione di impresa, in diritto della concorrenza, si fonda su criteri di carattere economico, ed include qualsiasi soggetto, a prescindere dal suo status giuridico e dalle sue modalità di finanziamento, cui possa ascriversi un’attività economica consistente nella fornitura di beni o servizi su un determinato mercato.
La definizione contenuta nell’art. 513 – bis cod. pen. quanto alle caratteristiche del soggetto agente sembra di fatto avvicinarsi a tale definizione. È imprescindibile la riferibilità all’attività d’impresa e ai vantaggi che deriverebbero dalla commissione di comportamenti sleali nell’ambito dello stesso contesto territoriale.
In campo comunitario si è tuttavia costantemente precisato che un’attività che per sua natura esuli dalla sfera degli scambi economici sfugge alle regole di concorrenza dell’Unione. Un elemento questo da considerare rispetto all’ampliamento della portata e rilevanza degli atti di concorrenza, intesi anche come qualsiasi atto di violenza e minaccia, anche implicita. La caratteristica comune a tutti i comportamenti vietati dall’art. 101 TFUE, siano essi accordi, pratiche concordate o decisioni di associazioni di imprese, è che essi richiedono comunque il concorso della volontà di due o più imprese e i comportamenti vietati ricomprendono normalmente forme di collusione aventi la medesima natura, che si distinguono unicamente per la loro intensità e per le forme in cui si manifestano. Sembra dunque emergere una descrizione di comportamenti che, nella generalità dei casi, si dovrebbero caratterizzare per l’uso di un mezzo fraudolento e non di un mezzo violento. Tale mezzo può sia falsare che impedire totalmente la concorrenza, dovendo lo stesso comunque ricorrere, in questo dato cogliendosi quel profilo di profonda inconciliabilità tra l’atteggiarsi in concreto delle forme di concorrenza sleale e la previsione di una condotta definita come concorrenza sleale, ma integrata, a volte, nella formulazione delle contestazioni, da semplici atti di violenza e minaccia. Tutta la casistica relativa all’applicazione del disposto dell’art. 101 TFUE richiama la ricorrenza di una serie di accordi a carattere fraudolento per restringere o escludere la concorrenza, ma sempre e solo con riferimento ad attività tipicamente imprenditoriali (accordi restrittivi per oggetto, per effetto, accordi verticali, cooperazioni orizzontali), mai caratterizzata, anche nelle decisioni della Corte di giustizia, dall’esercizio di violenza o minaccia per il raggiungimento dello scopo anticoncorrenziale.
L’art. 102 del TFUE vieta l’abuso di posizione dominante da parte di una o più imprese sul mercato interno o su una parte sostanziale di questo. In particolare si sanziona lo sfruttamento abusivo di tale posizione sul mercato, non essendo di per sé incompatibile con il mercato la ricorrenza di una posizione dominante, ma l’uso scorretto che della stessa si faccia, per pregiudicare l’ordinario andamento del mercato. La finalità è quella di arginare ogni tipo di pratica che non solo provochi un danno al consumatore, ma anche pregiudichi la sussistenza di una concorrenza effettiva. Si è definita dominante la posizione di potenza economica grazie alla quale l’impresa che la detiene è in grado di ostacolare la persistenza di una concorrenza effettiva sul mercato in questione, ed abbia la possibilità di tenere comportamenti del tutto indipendenti nei confronti dei concorrenti, dei clienti, e, in ultima analisi, dei consumatori. Dall’analisi della giurisprudenza e dei casi che si sono proposti al giudizio della Corte di Giustizia emergono plurimi comportamenti di abuso, con caratteri diversi, ma sempre e restrittivamente riferiti ad attività imprenditoriale e con considerazione di violazioni in tema di ordine pubblico, da riferire però sempre al settore del libero mercato. Non sono invece mai state oggetto di considerazione condotte esclusivamente violente e minatorie poste in essere al fine di condizionare l’andamento del mercato. Tra l’altro è da ricordare che la tutela rispetto a tale previsione si basa su un fondamentale termine di analisi e comparazione che è il concetto di “ mercato rilevante”, sicché è necessario esaminare la struttura del mercato, i suoi fattori condizionanti e la situazione concorrenziale su detto mercato, per poter ritenere la ricorrenza di un abuso di posizione dominante. La definizione del mercato rilevante, normalmente, è il frutto della valutazione del combinato disposto di diversi e numerosi fattori, e, in particolare, dalla combinazione del mercato del prodotto e del mercato geografico rilevante. Su tali elementi-base di valutazione si inserisce poi una serie numerosa di altri fattori, come, ad esempio, la sostituibilità dei prodotti dal punto di vista del consumatore, la sostituibilità sul versante dell’offerta e l’analisi della variazione dei prezzi, per citarne solo alcuni. Una disciplina, dunque, fortemente connotata tecnicamente, che, per avere effettiva rilevanza, deve essere valutata alla luce di parametri economici ed econometrici di sistema. I fattori isolatamente considerati potrebbero essere non decisivi, ma proprio una considerazione d’insieme, e tecnica, di questi elementi potrebbe far ritenere come ricorrente l’abuso.
La valutazione dell’insieme degli elementi caratterizzanti gli artt. 101 e 102 TFUE evidenzia l’estremo tecnicismo dei dati che possono portare ad una effettiva limitazione della concorrenza. Si riscontra un campo di azione assai distante dai casi concreti in generale analizzati dalla giurisprudenza di legittimità penale.
Sebbene si sia in generale ritenuto che rientri nel campo di applicazione dell’art. 102 “qualsiasi comportamento” atto ad ostacolare il mantenimento e lo sviluppo del grado di concorrenza su un mercato (nel quale, a causa della presenza di impresa posizione dominante, il mercato libero sia già sminuito), occorre rilevare, come già anticipato, che nell’ambito della casistica appare non essersi affrontato il caso di condotte poste in essere con violenza o minaccia (mentre ricorrono ad esempio: fissazione di prezzi ingiusti, attività di isolamento artificiale dei mercati nazionali, condizioni di transazione non eque, approvvigionamento esclusivo mediante imposizione di impegni in tal senso, sconti fedeltà, sconti quantitativi, riduzione selettiva dei prezzi, prezzi discriminatori, prezzi predatori, vendite abbinate o aggregate).
Ciò premesso, e considerata la sostanziale omogeneità di previsioni sul punto da parte della l. n. 287 del 1990, occorre portare la riflessione sull’ulteriore dato interpretativo, rappresentato dalla portata dell’art. 2598, n. 3) cod. civ., disposizione che, al fine di piena tutela del libero mercato e della concorrenza, sanziona in via residuale anche tutti i comportamenti, ovvero ogni atto che, in quanto non conforme alla correttezza professionale, sia idoneo, con esame da condurre caso per caso, a danneggiare l’altrui azienda. In questo senso si è espressa con una decisione non recente la Corte di cassazione civile, Sez. 1, n. 10684 del 11/08/2000, Rv. 539494, che ha affermato che: “Nella valutazione dei comportamenti anticoncorrenziali occorre tener conto degli interessi collettivi concorrenti alla dinamica economica, in adesione ai principi ed ai limiti di cui all’art. 41 della Costituzione, finalizzati a garantire che il mercato conservi la qualità strutturale di luogo della libertà di iniziativa economica per tutti i suoi partecipi, ovvero per chiunque pretenda di esercitare tale iniziativa. A tal riguardo la disposizione di cui al n. 3 dell’art. 2598 cod. civ. sanziona, in modo residuale rispetto alle ipotesi specifiche contemplate e descritte ai nn. 1 e 2, ogni atto che, in quanto non conforme alla correttezza professionale, sia idoneo - come da esame da condurre caso per caso - a danneggiare l’altrui azienda.” La formulazione della massima, e il richiamo in generale alla dizione “ogni atto”, sembra poter lasciare spazio ad un’interpretazione finalistica dell’art. 513 – bis cod. pen. Tuttavia occorre considerare come, nella motivazione, la Corte abbia precisato che: “in via di principio è esatto ciò che la corte milanese afferma in ordine alla insussistenza della equazione: illecito di cui all’art. 2598 c.c., n. 3, e violazione di norme pubblicistiche. La Corte Suprema da tempo ha chiarito che nella valutazione dei comportamenti anticoncorrenziali occorre tener conto degli interessi collettivi concorrenti alla dinamica economica, in adesione ai principi ed ai limiti di cui all’art. 41 della Costituzione, finalizzati a garantire che il mercato conservi la qualità strutturale di luogo della libertà di iniziativa economica per tutti i suoi partecipi, ovvero per chiunque pretenda di esercitare tale iniziativa (Sez.1 civ., n. 2634 del 16/04/1983, Rv. 427520 e Sez. 1 civ., n.11859 del 26/11/1997, Rv. 510405). Orbene le diverse fattispecie di cui all’art. 2598 c.c. si collegano a distinte situazioni di fatto, e ciò vale in particolare per quella di cui al n.3 di tale norma, che sanziona, in modo residuale rispetto alle fattispecie di cui ai nn. 1 e 2, ogni atto che in quanto non conforme alla correttezza professionale, è idoneo a danneggiare l’altrui azienda. Il riferimento ad un parametro snello adeguabile ai mutamenti del costume del mercato impone all’interprete di stabilire se un comportamento ancorché non previsto da nn.1 e 2, e ferme restando le eccezioni delle privative, realizzi attualmente o potenzialmente la stessa dannosità anticoncorrenziale (Sez. 1 civ., n.1712 del 27/02/1985, Rv. 439671). Il criterio della correttezza professionale se non viene più spiegato in base ad una concezione corporativa deve dunque essere tratto dalla posizione della concorrenza nel sistema. La concorrenza libera viene lesa ogni volta che l’equilibrio delle condizioni del mercato è compromesso, ed il carattere residuale della previsione consente di evitare che l’obiettivo anticoncorrenziale venga raggiunto con comportamenti che presentano lo stesso disvalore di quelli come tali considerati dal legislatore storico. Consegue la necessità di esaminare caso per caso se il comportamento allegato costituisce illecito, dia esso luogo, o meno, anche a violazione di norme pubblicistiche. Non rientrando siffatte ipotesi dentro una fattispecie astratta a sé stante.
Da sottolineare il punto in cui il collegio ha affermato che: “il criterio della correttezza professionale se non viene più spiegato in base ad una concezione corporativa deve dunque essere tratto dalla posizione della concorrenza nel sistema”. Dunque, anche se l’art. 2598 cod. civ. al n. 3 sembra aprire ad una congerie di casi diversi da quelli tipici, sembra che tali atti diversi si debbano comunque e sempre ritenere inerenti e interni alla concorrenza “nel sistema”, secondo finalità tipiche anticoncorrenziali perseguite da imprenditori in posizione di antagonismo gli uni con gli altri.
Deve quindi emergere un effettivo riscontro che l’atto, seppur atipico rispetto ai n. 1) e 2) dell’art. 2598 cod. civ., sia non solo contrario alla correttezza professionale, ma anche idoneo a danneggiare l’altrui azienda secondo una valutazione tipica concorrenziale (mercato di riferimento e ambito geografico, come già evidenziato).
Si è dunque sottolineata, in ordine alla concorrenza sleale e ai principi di correttezza professionale, la natura di disciplina a carattere oggettivo, come emerge dalla ricorrenza di parametri economici e di mercato quanto alla scorrettezza del comportamento tenuto e, pur evidenziando che una fattispecie abusiva possa essere effettivamente sleale anche sul piano dei rapporti concorrenziali individuali, è affermazione condivisa che la comune finalità della previsione dell’art. 2598 cod. civ. è quella di garantire una sostanziale par condicio fra gli imprenditori in entrambi gli ambiti descritti dai numeri 1) e 2), da una parte, e dal numero 3), dall’altra. Tale previsione deve necessariamente essere letta ed interpretata nel necessario raccordo tra la previsione del codice civile e la disciplina antitrust, in applicazione del superiore principio sancito dall’art. 41 della Costituzione. Ne consegue che dalla correttezza professionale e dall’ordinamento antitrust emerge un divieto di attività escludenti, predatorie o ingannevoli che, sul lato tanto individuale che economico, non comportino benefici al consumatore, al mercato comune e alla collettività.
Rimane dunque da valutare e considerare come debba essere intesa la violazione di norme pubblicistiche, quanto al mancato rispetto da parte dell’imprenditore dei principi di correttezza professionale. È evidente che una lettura ampia, condizionata dalla possibile lesione dei più interessi - economia pubblica e libera determinazione dell’imprenditore - protetti dalle previsioni penalistiche, potrebbe portare a far ritenere compresi in tale violazione anche atti di minaccia e intimidazione, tuttavia è sempre presente la tendenza orientata a limitare l’ambito di rilevanza di dette norme pubblicistiche al contesto applicativo conseguente alla previsione dell’art. 41 della Costituzione. Se infatti la disciplina della concorrenza sleale intende mantenere la potenziale par condicio tra imprese, evitando sviamenti di clientela o illegale articolazione dei fattori produttivi, queste norme pubblicistiche devono essere necessariamente riferite al libero mercato ed ai principi che lo regolano, con una chiara delimitazione di campo in tal senso quanto ai comportamenti rilevanti (in sostanza par condicio e diritto alla lealtà competitiva tra imprese).
Un ulteriore dato, di natura descrittiva, può essere indicativo della particolarità della questione rimessa alle Sezioni Unite, richiamando le specifiche condotte che sono state oggetto di valutazione, in epoca recente, da parte della Corte a seguito di motivi proposti proprio quanto alla ricorrenza o meno di atti di concorrenza ex art. 513 - bis cod. pen. In tal senso occorre ricordare che diverse decisioni hanno affrontato la contestazione relativa ad una serie di attività poste in essere dagli imputati per favorire, nella gestione dei servizi funebri ospedalieri, in territorio di Lamezia Terme, alcune imprese collegate ad associazioni di stampo mafioso e inserite di fatto nel contesto delle stesse. Tale obiettivo, secondo le contestazioni elevate, veniva perseguito mediante una serie di aggressioni fisiche e minacce - avvalendosi del supporto di soggetti pregiudicati legati alla ‘ndrangheta - poste in essere nei confronti degli operatori sanitari, occupando spazi interni ospedalieri con mezzi delle imprese che si volevano favorire nella gestione delle onoranze funebri, accedendo senza alcuna legittimazione ai data-base ospedalieri (Sez. 6, n. 39372 del 18/04/2019, Mauceri; Sez. 6, n. 29903 del 27/03/2019, Putrino; Sez. 6, n. 19946 del 27/03/2019, Di Spena). In questi casi la Corte ha ritenuto non ricorrente la violazione dell’art. 513 – bis cod. pen., aderendo al primo orientamento interpretativo. In altri casi simili è stata invece ritenuta la ricorrenza degli elementi costitutivi del delitto ex art. 513 – bis cod. pen.: in particolare Sez. 2, n. 7011 del 05/11/2018, depositata 2019, Belfiore, ha affrontato il caso di imprese addette al trasporto di degenti da e per il nosocomio di Aversa, che imponevano la loro presenza mediante minacce, violenze e atti di intimidazione. La Corte ha in questo caso ritenuto corretta la contestazione ex art. 513 – bis cod. pen. in adesione al secondo orientamento. Altre decisioni hanno considerato le attività volte a realizzare una gestione monopolistica dell’installazione di macchine da gioco (slot machine), con imposizione di fornitori, mediante minaccia posta in essere da soggetti collegati ad associazioni camorristiche; ciò al fine di creare un mercato totalmente controllato dalle organizzazioni criminali, riscontrando una sorta di boicottaggio, realizzato con tipiche forme di intimidazione mafiosa (Sez. 2, n. 8031 del 06/11/2018, Marciano; Sez. 2, n. 24710 del 06/11/2019, Marciano; Sez. 1, n. 2362/2019 del 11/10/2018, Martino, nonchè Sez. 5, n. 45839 del 05/06/2018, Lo Boido; Sez. 5, n. 27756 del 24/05/2019, Capicchiano, ed ancora Sez. 6, n. 38551 del 06/06/2018, D’Angelo; medesimo tema per Sez. 2, n. 29387 del 31/05/2018, Cuzzocrea; Sez. 2, n. 57811 del 07/12/2018, Cuzzocrea, relative all’eliminazione del concorrente dell’imputato quanto alla fornitura di frutta nel territorio ritenuto di esclusiva competenza dello stesso, con aggressioni fisiche dirette anche nei confronti dei familiari del concorrente).
Atri casi hanno considerato il vasto campo dell’affidamento di appalti di gestione o per la realizzazione di lavori pubblici (Sez. 2, n. 7867 del 22/01/2019, De Masi, Sez. 2, n. 55228 del 27/11/2018, Fava, Sez. 2, n. 4217/2019 del 05/12/2018, Bartolo, Sez. 2, n. 4436/2019 del 18/12/2018, Anello, Sez. 2, n. 44321/2019 del 04/12/2018, Matera; Sez. 2, n. 948/2019 del 21/11/2018, D’Agostino, Sez. 2, n. 57826 del 07/12/2018, PM in proc. Giardino, Sez. 6, n. 49933 del 07/06/2018, Spadafora; Sez. 1, n. 46113 del 16/03/2018, Acri; Sez. 6, n. 39992 del 20/06/2018, Spadafora; Sez. 6, n. 39934 del 06/07/2018, Spadafora, - Sez. 6, n. 57879 del 25/10/2018, Bosta; Sez. 6, n. 49851 del 04/07/2018, Lavorato, Sez. 6, n. 51986 del 25/09/2018, Flotta, Sez. 1, n. 51503 del 11/10/2018, Ferraro, Sez. 6, n. 50096 del 12/07/2018, PM in proc. Alati, Sez. 5, n. 45334 del 12/07/2018, Traini, Sez. 2, n. 41022 del 19/04/2018, Pelle, Sez. 2, n. 28193 del 16/05/2018, PM in proc. Gencarelli, Sez. 2, n. 12205 del 20/02/2018, Sergi; Sez. 2, n. 35454 del 19/04/2018, Sergi. La casistica richiamata sembrerebbe evidenziare una quasi totale riferibilità delle condotte contestate ad ambiti di azione e territoriali tipici delle associazioni a delinquere di stampo mafioso. Non risultano infine affrontati in epoca recente casi che possano essere riferiti a condotte di concorrenza sleale secondo la definizione civilistica di cui sopra si è detto.
Con l’informazione provvisoria n. 24 del 2019 le Sezioni Unite, quanto alla questione rimessa e decisa in data 28 novembre 2019, hanno comunicato la soluzione adottata nel senso che: “È necessario il compimento di atti di concorrenza che, posti in essere nell’esercizio di un’attività commerciale, industriale o comunque produttiva, siano connotati da violenza o minaccia e siano idonei a contrastare od ostacolare la libertà di autodeterminazione dell’impresa concorrente”.
Sentenze della Corte di cassazione
Sez. 2, n. 4710 del 06/11/2019, Marciano
Sez. 5, n. 27756 del 24/05/2019, Capicchiano
Sez. 6, n. 39372 del 18/04/2019, Mauceri
Sez. 6, n. 37520 del 18/04/2019, Rocca, Rv. 276725
Sez. 6, n. 29903 del 27/03/2019, Putrino
Sez. 6, n. 19946 del 27/03/2019, Di Spena
Sez. 2, n. 7867 del 22/01/2019, De Masi
Sez. 2, n. 8031, del 06/11/2018, dep. 2019, Marciano
Sez. 2, n. 7011 del 05/11/2018, dep. 2019, Belfiore
Sez. 2, n. 4436/2019 del 18/12/2018, Anello
Sez. 2, n. 57826 del 07/12/2018, PM/Giardino
Sez. 2, n. 57811 del 07/12/2018, Cuzzocrea
Sez. 2, n. 4217 del 05/12/2018, Bartolo
Sez. 2, n. 44321 del 13/09/2018, Matera
Sez. 2, n. 55228 del 27/11/2018, Fava
Sez. 6, n. 57879 del 25/10/2018, Bosta
Sez. 1, n. 51503 del 11/10/2018, Ferraro
Sez. 1, n. 2362 del 11/10/2018, Martino
Sez. 6, n. 51986 del 25/09/2018, Flotta
Sez. 6, n. 50094 del 12/07/2018, PMT c/Alati, Rv. 275717 – 01
Sez. 6, n. 50084 del 12/07/2018, Terracciano, Rv. 274288 – 01
Sez. 5, n. 45334 del 12/07/2018, Traini
Sez. 6, n. 39934 del 06/07/2018, Spadafora
Sez. 6, n. 49851 del 04/07/2018, Lavorato
Sez. 2, n. 30406 del 19/06/2018, P.M./Sergi, Rv. 273374 - 01
Sez. 6, n. 49933 del 07/06/2018, Spadafora
Sez. 6, n. 38551 del 06/06/2018, D’Angelo
Sez. 6, n. 38551 del 05/06/2018, D., Rv. 274101 - 01
Sez. 5, n. 45839 del 05/06/2018, Lo Boido
Sez. 2, n. 29387 del 31/05/2018, Cuzzocrea
Sez. 2, n. 28193 del 16/05/2018, PM/Gencarelli
Sez. 2, n. 35454 del 19/04/2018, Sez. 2, n. 41022 del 19/04/2018, Pelle
Sez. 1, n. 46113 del 16/03/2018, Acri
Sez. 2, n. 12205 del 20/02/2018, Sergi
Sez. 2, n. 9513 del 18/01/2018, Ietto, Rv. 272371 – 01
Sez. 2, n. 49365 del 08/11/2016, Prezioso, Rv. 268515 - 01
Sez. 2, n. 18122 del 13/04/2016, P.M/ Gencarelli, Rv. 266847 - 01
Sez. 3, n. 3868 del 10/12/2015, Inguì, Rv. 266180 - 01 Sez. 6, n. 44698 del 22/09/2015, Cannizzaro Rv. 265358 - 01
Sez. 3, n. 3868 del 10/12/2015, Inguì, Rv. 266180 – 01
Sez. 6, n. 24741 del 05/05/2015, Cc., P.M/ Iacopino, Rv. 265603 – 01
Sez. 2, n. 15781 del 26/03/2015, Arrichiello, Rv. 263530 - 01
Sez. 2, n. 9763 del 10/02/2015, Amadoro, Rv. 263299 - 01
Sez. 2, n. 29009 del 27/05/2014, Ciliberti, Rv. 260039 – 01
Sez. 3, n. 16195 del 06/03/2013, Fammilume, Rv. 255398 - 01
Sez. 1, n. 6541 del 02/02/2012, Aquino, Rv. 252435 - 01
Sez. 1, n. 9750 del 03/02/2010,P.G./ Bongiorno, Rv. 246515 - 01
Sez. 2, n. 20647 del 11/05/2010, PG/ Corniani, Rv. 247272 - 01
Sez. 3, n. 44169 del 22/10/2008, Di Nuzzo, Rv. 241683 – 01
Sez. 2, n. 35611 del 27/06/2007, Tarantino, Rv. 237801 - 01
Sez. 3, n. 46756 del 03/11/2005, Mannone, Rv. 232650 - 01
Sez. 6, n. 13691 del 2005del 15/03/2005, De Noia Mecenero, Rv. 231129 - 01
Sez. 2, n. 14467 del 28/02/2004, Arangio, Rv. 228719 - 01
Sez. 1, n. 2224 del 01/02/1995, Buzzone Rv. 203900 – 01
Sez. 3, n. 450 del 15/02/1995, Tamborrini, Rv. 201578 – 01
Sez. 1, n. 11993 del 14/11/1995, Di Mauro, Rv. 203050 – 01
Sez. 6, n. 3492 del 09/01/1989, Spano, Rv. 180706 – 01
La disciplina dell’autoriciclaggio trova la propria origine nell’art. 3, comma 3, della l. n. 186 del 2014. In precedenza si era a lungo discusso della rilevanza del c.d. privilegio di autoriciclaggio, che determinava la sostanziale impunità dell’autore del delitto presupposto nel caso in cui proprio tale soggetto si applicasse nel reimpiegare, sostituire o trasferire il denaro, i beni o le altre utilità provenienti dal delitto dallo stesso commesso. Le Convenzioni di Strasburgo e di Varsavia in realtà non imponevano alcun obbligo al fine della introduzione di questo delitto, tuttavia le sollecitazioni emergenti erano molte in considerazione della necessità di colmare un vuoto di disciplina che poteva sia indebolire la legislazione anticorruzione, che lasciare sostanzialmente impunite una serie di condotte molto incidenti sull’ordine economico nel garantire un’effettiva libertà di concorrenza (in tal senso il Rapporto sull’Italia del 2011 dell’OCSE e il Fmi sempre nel rapporto sull’Italia in epoca precedente, anno 2006). L’incidenza di una disciplina volta ad arginare l’afflusso di capitali «sporchi» nell’ambito dell’economia legale era dunque fortemente sentita sia a livello internazionale che interno, tenuto conto della portata endemica del fenomeno corruttivo nel nostro paese, oltre che della diffusività delle associazioni a delinquere di stampo mafioso con le loro più svariate articolazioni, anche economiche. E d’altra parte la rilevanza per il legislatore italiano delle condotte di reimpiego, sostituzione o trasferimento del denaro proveniente dal reato presupposto era già emersa nella previsione dell’art. 12 quinquies del d.l. n. 306 del 1992, definito come autoriciclaggio improprio.
Un chiarimento univoco in tale senso emerge dalla decisione delle Sez. U, n. 25191 del 27/02/2014, Iavarazzo, Rv. 259950, secondo la quale è configurabile il reato di cui all’art. 12 quinquies del d.l. 8 giugno 1992, n. 306, conv. in legge 7 agosto 1992, n. 356 in capo all’autore del delitto presupposto, il quale attribuisca fittiziamente ad altri la titolarità o la disponibilità di denaro, beni o altre utilità, di cui rimanga effettivamente “dominus”, al fine di agevolare una successiva circolazione nel tessuto finanziario, economico e produttivo, poiché la disposizione di cui all’art. 12 quinquies citato consente di perseguire anche i fatti di “auto” ricettazione, riciclaggio o reimpiego. La giurisprudenza aveva infatti già affermato che la previsione aveva la finalità di sanzionare, sotto il profilo dell’elemento oggettivo, tutte quelle condotte che realizzino di fatto una situazione di apparenza, nelle modalità più disparate, con la separazione tra colui o coloro che hanno la titolarità effettiva del denaro o di altre utilità e coloro che, in base ad una fittizia attribuzione, ne risultano formalmente titolari o disponenti. (Cass. Sez. 6, n. 15140 del 12/04/2012, Magiaracina, Rv. 252610). Rientrano in questa disciplina tutte quelle situazioni che determinano un rapporto di signoria e padronanza sul bene da parte dell’autore del reato presupposto, nonostante l’apparente trasferimento ad altri soggetti, al fine ovviamente di eludere le disposizioni in materia di prevenzione a carattere patrimoniale o nell’agevolare la commissione dei reati di cui agli art. 648, 648 – bis o ter cod. pen. Il trasferimento fraudolento è stato disciplinato quale reato a forma libera, con l’effetto evidente di limitare l’autonomia privata delle parti nella realizzazione di negozi giuridici altrimenti leciti per arginare scopi illeciti. Tale previsione non contiene alcuna clausola di esclusione della responsabilità per l’autore dei reati presupposto che hanno prodotto proventi illeciti, individuando ben prima della legge del 2014 la ricorrenza di un’ipotesi tipica di autoriciclaggio, considerata la diretta partecipazione dell’autore del reato al trasferimento fraudolento di valori. In senso sostanzialmente analogo, e dunque all’evidente fine di arginare fenomeni di autoriciclaggio, è sempre stata letta anche la previsione di cui all’art. 11, comma 1, del d.lgs. n. 74 del 2000, che punisce l’attività di simulata alienazione di beni o la realizzazione di altri atti fraudolenti allo scopo di sottrarsi al pagamento delle imposte sui redditi. È in questo contesto che viene dunque introdotta la previsione dell’art. 648-ter.1 cod. pen. che richiama nella sua formulazione la medesima terminologia della disciplina in tema di riciclaggio e reimpiego, prevedendo la sanzione penale per chi, avendo commesso o concorso a commettere un delitto non colposo, impiega, sostituisce, trasferisce in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative, il denaro, i beni o le altre utilità provenienti dalla commissione del delitto presupposto, in modo da ostacolarne concretamente l’identificazione della provenienza delittuosa.
Anche per l’autoriciclaggio, come per il riciclaggio in generale, si è riproposta la riflessione in tema di bene giuridico tutelato ed anche in questo caso si tende a ritenere la ricorrenza di plurioffensività della condotta, sia per quanto riguarda l’amministrazione della giustizia, che per quanto concerne la tutela dell’ordine economico e del risparmio. Quello che sembra caratterizzare in modo più incisivo questa previsione è la volontà del legislatore di garantire il rapporto fiducia quanto al sistema economico e di risparmio complessivamente considerato. Proprio la terminologia utilizzata sembra indicativa della volontà del legislatore di configurare tale delitto come di pericolo in concreto, tanto che l’attività deve risultare idonea “concretamente” ad ostacolare l’identificazione della provenienza illecita di beni, il cui confluire nell’ambito del complessivo ordine economico rappresenta una forma oggettiva di alterazione del mercato e della libera concorrenza. Il reato di caratterizza quale reato “proprio”, considerata l’identificazione del soggetto attivo con colui che ha commesso o concorso a commettere un delitto non colposo, mentre il reato presupposto si deve necessariamente riferire a condotte che possano effettivamente produrre un provento da ripulire, sicché la previsione generalizzata dei reati presupposto può essere, tenuto conto di ciò, letta restrittivamente. Il tema dell’autoriciclaggio ha sempre sollevato critiche relative alla possibile ricorrenza di un bis in idem nei confronti del soggetto autore del reato presupposto, con conseguente violazione del principio di tassatività e certezza del diritto penale.
Quanto al rapporto con altri reati occorre considerare che la condotta si caratterizza per la ricorrenza di un ampliamento rispetto al riciclaggio, essendo stata aggiunta come attività rilevante anche quella imprenditoriale e speculativa. L’interpretazione maggioritaria circa la portata di tali attività tende a circoscriverne l’ambito nel senso di riferire l’attività speculativa, volta a realizzare il maggior guadagno possibile dall’impiego del provento del reato presupposto, in un’attività ad alto rischio, ma pur sempre afferente ad attività commerciali o finanziarie. L’ostacolo concreto che deve essere realizzato al fine di poter impedire la ricostruzione della provenienza illecita del bene può caratterizzarsi in modo più o meno ampio, quale mero allontanamento della somma provento di reato dal patrimonio originario, oppure con una caratterizzazione della condotta in senso più attiva ed incisiva, mediante più articolate attività di occultamento, anche contabile, o con schermature societarie. L’ostacolo all’identificazione dovrebbe essere considerato come un requisito caratteristico della condotta e non come evento del reato, per cui sembra possibile poter ipotizzare per l’autoriciclaggio la non necessità di un effetto dissimulatorio della condotta.
Il delitto dunque, per come configurato, presenta due limiti che ne definiscono portata e ambito: da una parte l’effettivo ostacolo all’identificazione della provenienza delittuosa, dall’altra la previsione d’irrilevanza penale della condotta, ai sensi del quarto comma dell’art. 648 ter.1 cod.pen. nel caso in cui i beni provento del reato presupposto siano destinati al godimento personale. Anche quanto all’elemento soggettivo l’autoriciclaggio si presenta coerente con la previsione in tema di riciclaggio, essendo richiesto il dolo generico, che appunto si caratterizza quale consapevolezza circa la realizzazione del delitto non colposo presupposto e la volontà di impiegarne i proventi nelle attività economiche, speculative e imprenditoriali al fine di ostacolarne l’identificazione.
Proprio la natura di requisito caratteristico della condotta, e non dunque evento del reato, emerge nella decisione della Sez. 2, n. 36121 del24/05/2019, PMT C/ Draebing, Rv. 276974 così massimata: “Ai fini dell’integrazione del reato di autoriciclaggio non occorre che l’agente ponga in essere una condotta di impiego, sostituzione o trasferimento del denaro, beni o altre utilità che comporti un assoluto impedimento alla identificazione della provenienza delittuosa degli stessi, essendo, al contrario, sufficiente una qualunque attività concretamente idonea anche solo ad ostacolare accertamenti sulla loro provenienza”. In applicazione del principio enunciato la Corte ha ritenuto configurabile il reato in presenza di un trasferimento di somme oggetto di distrazione fallimentare su conti stranieri di una società controllante di quella fallita. Il Tribunale della libertà, nel caso concreto, aveva annullato l’ordinanza del G.i.p. quanto alla misura cautelare applicata limitatamente alla contestazione di autoriciclaggio, confermandola invece per le residue imputazioni per i reati di cui all’art. 110 cod. pen. e 216, 219, 223 Legge fallimentare. Veniva riscontrata, ad esito delle indagini, una distrazione fallimentare di circa 39 milioni di euro da parte dell’imputato nella sua qualità di componente del comitato di controllo di una s.r.l. in favore di una società controllante di diritto austriaco, con l’apparente giustificazione dell’attuazione di un sistema di tesoreria accentrata (c.d. cash pooling), nonché ulteriori distrazioni consistenti sia nella cessione di ramo di azienda, che in una serie di operazioni dolose consistenti nella sistematica omissione del versamento dell’IVA per oltre 310 milioni di euro, provocando così il fallimento della s.r.l.. Secondo la prospettazione del Tribunale della libertà il disinvolto trasferimento di enormi somme di denaro non aveva assunto i caratteri tipici del reato di autoriciclaggio, risultando tracciabile il trasferimento di denaro avvenuto mediante bonifici, su conti correnti afferenti al medesimo conto corrente e istituto bancario presso il quale era cliente la società controllante. Il Tribunale escludeva inoltre la ricorrenza delle caratteristiche tipiche dell’autoriciclaggio anche con riferimento alla restituzione di somme da parte della controllante verso la controllata, intese quale forma di reinvestimento in attività economiche di capitali illecitamente accumulati. Il Pubblico Ministero ha contestato con il proprio ricorso il vizio di violazione di legge e di motivazione proprio in ordine al requisito della concretezza ed effettiva ricorrenza di una capacità dissimulatoria, chiarendo che secondo la stessa giurisprudenza della Corte di cassazione è irrilevante la tracciabilità o meno dell’operazione, mentre occorre avere riguardo alla concreta idoneità dispersiva del denaro con un criterio di giudizio ex ante. La Corte ha ritenuto fondato il ricorso ed ha in tal senso richiamato un principio già affermato in tema di riciclaggio da Sez. 2, n. 46319 del 21/09/2016, Cipolla, Rv. 268316, secondo la quale integra il delitto di riciclaggio il compimento di condotte volte non solo ad impedire in modo definitivo, ma anche a rendere difficile l’accertamento della provenienza del denaro, dei beni o delle altre utilità, e ciò anche attraverso operazioni che risultino tracciabili, in quanto l’accertamento o l’astratta individuabilità dell’origine delittuosa del bene non costituiscono l’evento del reato. Integra il reato colui che consapevolmente trasferisce denaro provento di illecito a terzi, essendo dunque irrilevante la tracciabilità dell’operazione (nello stesso senso Sez. 5, n. 21925 del 17/04/2018, Ratto Rv. 273183 – 01), perché ciò che conta è che anche un trasferimento a terzi rende la condotta idonea ad ostacolare l’individuazione del provento delittuoso. In concreto dunque si afferma un principio (riaffermato ancora da Sez. 2, n. 21687 del 05/04/2019, Armelissasso, Rv. 276114 – 02) estensibile al tema dell’autoriciclaggio, seppure in correlazione con il quid pluris richiesto dalla previsione dell’art. 648 ter. 1 cod. pen., secondo la quale l’ostacolo all’identificazione della provenienza delittuosa da delitto debba essere concretamente ravvisabile. Essendo dunque sufficiente la mera realizzazione di un ostacolo concreto all’identificazione della provenienza delittuosa la Corte ha ritenuto in violazione di legge la motivazione del Tribunale della libertà, considerato che il trasferimento era avvenuto a favore di soggetti terzi diversi dal disponente, mediante utilizzazione di conti correnti di destinazione intestati a soggetti stranieri presso istituti bancari ubicati in paesi terzi. In casi del genere secondo l’interpretazione della Corte il mero trasferimento di denaro integra il reato di autoriciclaggio, che si caratterizza quale reato a forma libera, con conseguente rilevanza di qualsiasi condotta di manipolazione, trasferimento di denaro quando idonea ad ostacolare gli accertamenti sulla provenienza dello stesso, ancor più quando al primo trasferimento ne seguano altre verso ulteriori soggetti difficilmente identificabili, anche perché residenti all’estero. Ancora più esplicita nell’affermare il principio della necessaria considerazione ex ante dell’idoneità delle azioni volte ad ostacolare l’identificazione della provenienza illecita dei beni oggetto di autoriciclaggio è Sez. 2, n. 16908 del 05/03/2019, PMT c/ Ventola, Rv. 276419, che ha affermato che: “In tema di autoriciclaggio, l’intervenuta tracciabilità, per effetto delle attività di indagine poste in essere dopo la consumazione del reato, delle operazioni di trasferimento delle utilità provenienti dal delitto presupposto non esclude l’idoneità “ex ante” della condotta ad ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa. (Fattispecie di trasferimento di ingenti somme di denaro tramite bonifici in favore di una costellazione di società estere che, a loro volta, effettuavano nuove operazioni di trasferimento a soggetti fisici e giuridici riconducibili all’indagato).” Anche in questo caso dunque si sottolinea l’idoneità a creare un concreto ostacolo all’identificazione mediante operazioni di trasferimento delle utilità provenienti dal delitto presupposto e si sottolinea, in modo chiaro ed efficace, come tale ostacolo non possa essere escluso solo perché siano state poste in essere incisive attività di indagine a tal fine, proprio perché tali indagini richiedono attività di ricerca, competenze specialistiche che non possono portare nella normalità alla ricostruzione di complicati passaggi societari e finanziari. Nel caso concreto il Tribunale aveva respinto la richiesta di applicazione della misura della custodia cautelare in carcere, negando la ricorrenza degli elementi necessari quanto all’imputazione a titolo di auto riciclaggio. La Corte ha accolto, ritenendolo fondato, il ricorso del Pubblico Ministero, sottolineando come la normativa di riferimento abbia limitato la rilevanza penale delle condotte ai soli casi di sostituzione che avvengano attraverso la reimmissione nel circuito economico finanziario, ovvero imprenditoriale, del denaro o dei beni di provenienza illecita proprio al fine di realizzare quell’effetto dissimultatorio che rappresenta il quid pluris che differenzia la condotta dal mero godimento personale del bene (non punibile), da quella di nascondimento del profitto illecito (punibile). Occorre, dunque, che l’autore del delitto presupposto abbia effettivamente voluto effettuare un impiego, utile, ma comunque caratterizzato dalla finalità di occultare l’origine illecita del denaro o dei beni oggetto del profitto. Le attività svolte dell’indagato, la natura estera della società destinataria dei passaggi di denaro (per la precisione tunisina), la chiara riferibilità delle somme di denaro alla condotta di appropriazione indebita posta in essere precedentemente dall’indagato rendono a parere della Corte fondata la ricostruzione della condotta posta in essere come auto riciclaggio. In concreto si può dunque parlare di tracciabilità solo a posteriori, e grazie alla efficace attività di indagine posta in essere, sicché deve essere riscontrata la idoneità ex ante della condotta posta in essere. Viene esplicitata in questa decisione, richiamando i motivi di ricorso del Pubblico Ministero, la particolare valenza dell’attività di indagine espletata quanto alla ricostruzione degli spostamenti di flussi finanziari, realizzata mediante complicate operazioni dissimulatorie per il tramite di diverse società, anche estere e dunque difficilmente tracciabili.
Il tema della necessaria caratterizzazione della condotta di autoriciclaggio come attività speculativa, ha particolarmente impegnato la Corte in due decisioni che hanno fornito risposte sostanzialmente diverse quanto al reinvestimento in attività di gioco e scommessa. In particolare Sez. 2, n. 13795 del 07/0372019, PMT C/ Sanna, Rv. 275528, ha affrontato il tema, recentemente emerso, della possibilità di autoriciclare consistenti somme provenienti da reato mediante impiego in attività speculative e, segnatamente, nel settore dei giochi e delle scommesse.
La decisione è stata così massimata: “In tema di autoriciclaggio, rientrano nel novero delle attività speculative contemplate dall’art. 648-ter.1, comma primo, cod. pen. anche il gioco d’azzardo e le scommesse, in quanto attività idonee a rendere non tracciabili i proventi del delitto presupposto e, dunque, tali da ostacolare l’identificazione della loro provenienza delittuosa. (In motivazione la Corte ha specificato che la portata del sintagma “attività speculativa”, da intendersi quale investimento ad alto rischio, può essere estesa anche alle predette attività, considerato che il concetto di alea, caratteristico del gioco o della scommessa, non risulta ontologicamente diverso o inconciliabile con quello di rischio calcolabile). In concreto il Tribunale della libertà quanto all’autoriciclaggio aveva ritenuto l’insussistenza del presupposto indiziario, poiché l’impiego di oltre centomila euro nel settore dei giochi e delle scommesse non è stato considerato rientrante tra le attività speculative ai sensi dell’art. 648 ter. 1 cod.pen.
La decisione della Corte ha analizzato ed approfondito, sui motivi della Procura, il concetto e la nozione giuridica di attività speculativa, con particolare riferimento all’attività di investimento di proventi di reato in attività di gioco o scommessa. Viene richiamata la motivazione del Tribunale della libertà, che ha di fatto ritenuto insussistente il presupposto indiziario del delitto di cui all’art. 648 ter. 1 c.p. poiché si potrebbe considerare speculativa esclusivamente quell’attività consistente nello svolgimento di operazioni intese ad ottenere il massimo guadagno in attività commerciali e finanziarie, cercando per lo più di trarre un utile dalla variazione attesa dei prezzi rispetto a quello di acquisto, nello svolgimento di operazioni di investimento da cui ci si propone di realizzare un forte utile. In tal senso il Tribunale ha ritenuto non compresa l’attività d’impiego di denaro in giochi e scommesse, considerando speculativi esclusivamente gli interventi comportanti sì grandi rischi, ma comunque calcolati e finalizzati a ricevere utili, mentre i giochi si caratterizzerebbero per la ricorrenza di una mera alea, senza portare a nessun rientro economico. Si è quindi affermata nel caso in questione la ricorrenza della previsione di cui all’art. 648 ter. 1, comma quarto, cod. pen., ovvero un mero uso e godimento personale del provento di reato in giochi e scommesse.
La decisione in esame richiama l’ampia portata dei motivi presentati dalla Procura della Repubblica, che ha in via principale contestato l’interpretazione fornita nella ricerca del significato del sintagma “attività speculativa”, evidenziando che una lettura guidata dall’art. 12 comma 1 delle preleggi impedisce un’interpretazione sostanzialmente abrogatrice come quella fornita dal Tribunale della libertà, che di fatto finisce per identificare le attività speculative con lo spazio già occupato dai concetti di attività economica, imprenditoriale o finanziaria, che invece rappresentano autonome ipotesi integranti il delitto di riciclaggio. Proprio in relazione all’attività di gioco o scommessa nelle sue diverse articolazioni, la Procura milanese ha contestato l’affermazione secondo la quale tali attività non sarebbero finalizzate a realizzare un utile, considerata la ricorrenza di sofisticati meccanismi capaci di governare l’alea di molti giochi e molti tipi di scommesse, sicché non appare effettivamente ricorrente la possibilità di distinguere attività caratterizzate da un rischio calcolabile e attività, come il gioco, caratterizzate dalla pura alea. Ancora, con i propri motivi, la Procura della Repubblica ha contestato la decisione del Tribunale della libertà quanto alla ricorrenza della clausola di esclusione della punibilità ex art. 648 ter. 1 cod. pen., richiamando la stessa giurisprudenza di legittimità, secondo la quale è possibile l’esenzione di responsabilità solo e soltanto se si goda o si utilizzino i proventi o del delitto presupposto in modo “diretto”, e senza compiere su di essi alcuna operazione idonea ad ostacolarne concretamente la loro provenienza delittuosa. Si ritiene invece tale l’impiego nel gioco, che in caso di vincita consente una giustificazione contabile delle somme del tutto ripulite e difficilmente riconducibili al reato presupposto. A sostegno della propria tesi la Procura ha richiamato diversi studi e in particolare l’analisi dei rischi realizzata presso il Ministero dell’Economia circa la rilevante esposizione del settore del gioco al rischio del riciclaggio.
La Corte di cassazione ha ritenuto fondato il ricorso, richiamando in parte le osservazioni della Procura ed ha affermato che: “in ossequio a quanto disposto dall’art. 12 delle Disposizioni sulla legge in generale, in primo luogo attraverso l’accurata ricerca dell’effettivo significato dell’espressione attività speculativa e tramite la concreta e specifica analisi della ratio legis è possibile giungere ad una ricostruzione completa e costituzionalmente orientata del significato dell’espressione legislativa “attività speculativa”. Tenuto conto della costante giurisprudenza di legittimità si è evidenziato come, anche per le norme penali, sia possibile un’interpretazione estensiva, volta a determinare l’effettiva portata del precetto penale, quando sia palese che il legislatore abbia detto di fatto meno di quanto volesse. E da ciò deriva la conclusione secondo la quale l’interpretazione estensiva non amplia il contenuto effettivo della norma, ma “impedisce che fattispecie ad essa soggette si sottraggano alla sua disciplina per un ingiustificato rispetto della lettera”. L’interpretazione estensiva rappresenta dunque il mezzo utilizzato dalla Corte per arrivare, nel caso in esame, all’esatto accertamento del contenuto della norma attraverso i mezzi consentiti dalla logica e dalla tecnica giuridica. Partendo quindi dall’interpretazione letterale, da integrare in seguito con la ratio legis, la Corte ha sottolineato come il termine attività speculativa abbia una portata molto ampia e, richiamando la voce dell’Enciclopedia delle scienze sociali, edita da Treccani, ha evidenziato come in esso rientri un concetto di attività economica ampia, sicché può essere considerata speculativa qualsiasi decisione o azione di investimento che si basa sulla previsione di effetti futuri, che in questo senso implichi rischio. Si richiama poi la circostanza che in molti contesti il termine speculazione è considerato sinonimo di gioco d’azzardo, e dunque come attività caratterizzata dallo scommettere su un esito incerto, tanto che “entrambi i termini rientrano nella categoria generale dell’investimento (definito come impegnare danaro per ottenere un guadagno)”. Se dunque frequentemente con speculazione si intende un investimento che è ad alto rischio, con l’espressione gioco d’azzardo si tende a connotare un’attività a carattere fortemente speculativo, dove la differenza rilevante rispetto all’ordinaria attività speculativa deve essere individuata nel criterio in base al quale si decide se accettare la scommessa, dunque : “lo speculatore decide l’azione col criterio del confronto tra rischio e rendimento atteso, il giocatore d’azzardo accetta la scommessa anche se l’aspettativa di guadagno non è tale da compensare il rischio dell’operazione”.
Partendo dall’analisi letterale la Corte rileva come attività speculativa e gioco d’azzardo ben possano svolgere linguisticamente il ruolo di sinonimi. La speculazione, proprio per l’alea che la caratterizza, non può dunque essere limitata al ristretto ambito della speculazione finanziaria e borsistica, con la conseguenza che non si riscontrano ostacoli al comprendere nell’attività speculativa anche quelle classificabili come gioco d’azzardo o come scommessa (sportiva o su eventi diversi comunque gestiti da allibratori). Ciò posto, secondo questa decisione, rileva l’impiego di modalità di gioco capaci di controllare l’esito della vincita, con eventuale parziale ritorno del capitale impiegato, che può costituire una utile modalità di sostituzione e ripulitura del profitto delittuoso, in assenza tra l’altro di costi e intermediari per realizzare tale ripulitura.
All’interpretazione letterale, che avvicina l’attività speculativa al gioco d’azzardo, la Corte affianca poi l’esegesi volta alla ricerca dell’effettiva intenzione del legislatore nel prevedere, quale condotta tipica dell’art. 648 ter 1 cod. pen., l’attività speculativa. Fondamentale rilevanza nella ricerca della finalità della previsione normativa ha certamente la caratterizzazione della condotta nel senso del determinare un ostacolo concreto all’identificazione della provenienza delittuosa del bene. Occorre, dunque, che la condotta, nelle sue diverse articolazioni, abbia effettiva e particolare capacità dissimulatoria, elemento questo che costituisce un qualcosa di più rispetto al mero godimento personale dello stesso.
L’intenzione del legislatore, volta a congelare il profitto in mano al soggetto che ha realizzato il reato presupposto, per evitarne un’utilizzazione ancor più offensiva mediante il suo reinserimento non tracciabile nel circuito economico e finanziario, è quella di tutelare al massimo l’ordine economico, rispetto alle condotte ulteriori che l’autore del reato presupposto può porre in essere. L’autore del reato presupposto dunque accetta il rischio di agire e impiegare il denaro nel gioco d’azzardo o nelle scommesse, con la prospettiva di ricavarne un profitto, che può essere anche molto ingente, accettando il rischio di una perdita. Nel caso in cui non ci sia perdita, ma bensì vincita, la ripulitura del denaro che consegue all’attività di gioco e scommessa è evidente. Il denaro ha una nuova veste (parzialmente tutelata dal nostro ordinamento ex art. 1933 cod. civ.), che ne legittima la provenienza e ne consente il nuovo investimento per l’autore del reato. E comunque, anche in caso di perdita, tale denaro viene reimmesso nel mercato economico, alterandone comunque l’andamento. Se dunque per attività speculativa si deve intendere l’impegno di denaro per ottenere un guadagno in questo ambito, secondo la Corte, anche avviando un’interpretazione estensiva, deve certamente rientrare anche il gioco d’azzardo e la scommessa. Una diversa soluzione a carattere restrittivo, come quella proposta dal Tribunale, appare gravemente illogica, non perseguendo un canale di riciclaggio e autoriciclaggio diffusamente riconosciuto, e realizzando un’interpretazione abrogativa della dizione attività speculative, che di fatto dovrebbero essere identificate con gli altri concetti disciplinati dalla previsione di attività economica o finanziaria, dunque per investimenti o negozi caratterizzati da rischio elevato, ma comunque gestibile. La Corte dunque ribadisce il principio di diritto per cui l’agente può andare esente da responsabilità ai sensi dell’art. 648 ter .1 c.p. soltanto se utilizzi e goda dei proventi del delitto presupposto in modo diretto, e senza che compia su di essi alcuna operazione atta ad ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa. Il chiaro riferimento del legislatore alla mera utilizzazione o al godimento personale rende dunque fondata l’interpretazione estensiva proposta, perché un investimento in gioco e scommesse non rappresenta mera utilizzazione, e invece rientra in un ambito atto ad ostacolare la tracciabilità della provenienza delittuosa del bene, correlata al raggiungimento del guadagno (sebbene sottoposto ad alea).
In tal senso la Corte sottolinea anche che comunque “non pare rilevante, ai fini dell’integrazione del reato, il fatto che al gioco consegua o meno una qualche vincita. Infatti il primo comma dell’art. 648 ter .1 cod. pen. incrimina, oltre alla condotta di chi sostituisce i proventi illeciti, anche quella di chi semplicemente li impiega in attività funzionali ad ostacolarne concretamente l’identificazione della provenienza delittuosa, così configurando un’ipotesi di reato a consumazione anticipata”. La conclusione è supportata, a parere del collegio, dall’osservazione che l’impiego speculativo del denaro può ben portare a perdite totali del capitale anche nel caso di impiego su valori, valute, merci, beni o servizi caratterizzato da elevata rischiosità. E anche nel caso in cui si ritenesse necessario il raggiungimento di un qualche risultato economico, rispetto alla provvista impiegata, nulla ostacolerebbe la configurazione del delitto ex art. 648 ter .1 cod. pen. in forma tentata, ove il denaro investito risultasse integralmente perduto. Non può quindi essere ritenuta l’operatività della previsione del comma quarto dell’art. 648 ter 1 cod. pen. nel caso in cui l’attività realizzata rivesta astratta natura speculativa per l’impiego delle somme nelle scommesse e nel gioco d’azzardo, quando proprio tale attività si presenti idonea ad ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa del bene. In conclusione viene quindi richiamata la corretta ermeneusi dell’espressione attività speculativa, che deve necessariamente essere intesa estensivamente, considerato che l’indicazione normativa (attività economiche, finanziarie, imprenditoriali e speculative) non rappresenta un elenco formale, ma sembra piuttosto diretta ad individuare delle macro aree, accumunate dall’impiego del denaro per il conseguimento di un utile, con inevitabile e conseguente inquinamento del circuito economico nel quale vengono immessi denaro o altre utilità provenienti da delitto o delle quali si vuole evitare la possibile riconducibilità quale provento di delitto. Rientra dunque in questo contesto anche l’attività in cui si ricerca il raggiungimento di un utile, pur collegato all’assunzione di un rischio consistente di perdita. Tale alea, certamente intrinseca al gioco d’azzardo, non è a parere della Corte molto diversa da quella che caratterizza alcune attività finanziarie altamente speculative o rischiose (come i derivati, futures, investimento sul mercato obbligazionario).
La decisione da atto nella motivazione della presenza di un precedente della stessa sezione, la Sez. 2, n. 9751 del 13.12.2018, depositata 06.03/2019, PMT c/ Bresciani, Rv. 276499, che ha diversamente considerato, in tema di autoriciclaggio, l’attività di gioco (nel caso di specie rappresentato dal gioco del lotto). Non condivide tuttavia le conclusioni raggiunte da tale decisione che ha escluso la possibilità di comprendere tale forma di gioco tra le attività speculative, considerato che si è raggiunta tale conclusione ritenendo che il rigoroso rispetto del principio di tassatività e determinatezza della norma penale incriminatrice, oltre al divieto di analogia in malam partem, debbano essere ritenute ostative quanto alla comprensione del gioco tra le attività speculative, in assenza di una definizione normativa di attività speculativa.
Nell’ambito della motivazione di questa decisione si evidenzia come si possa effettivamente ritenere ricorrente un’attività speculativa “solo” nel caso in cui ricorra una gestione in modo razionale ed economico del rischio, così da minimizzare le occasioni di perdita e massimizzare quelle di profitto, in presenza di un fenomeno connotato da una consapevole analisi costi - benefici, mentre la causa della prestazione patrimoniale nel gioco non è riconducibile ad un interesse prettamente economico, ma rappresentativa di un intento non patrimoniale, riconosciuto come valida fonte di arricchimento ex art. 1933 cod. civ., ma sprovvisto di tutela giuridica. Nell’affermare il principio predetto la decisione in questione richiama l’art. 23 del T.U.F. (disciplina dei contratti relativi alla prestazione dei servizi di investimento e accessori, con esclusione della applicazione dell’art. 1933 cod. civ. agli strumenti finanziari derivati, ovvero per prodotti dalla portata tipicamente speculativa) e sottolinea come le attività ludiche escludono nel caso in questione qualsiasi abilità del giocatore, che nel recarsi in ricevitoria, puntando una somma al gioco del lotto, sostanzialmente e semplicemente tenta la sorte, per ricavare, con il meccanismo casuale delle estrazioni, una somma maggiore di quella di cui dispone. Un’attività dunque del tutto diversa da quella speculativa in senso stretto, posta in essere dall’investitore che gestisce un rischio. La Sez. 2, n. 9751 del 13.12.2018, depositata 06.03/2019, PMT c/ Bresciani, Rv. 276499, richiama, a sostegno delle proprie conclusioni, la previsione di cui all’art 67 TUIR, che prende in autonoma considerazione le vincite delle lotterie, dei concorsi a premio, dei giochi e delle scommesse organizzati per il pubblico e li ritiene “redditi diversi”, rispetto ai redditi da plusvalenza originati da investimenti speculativi (con riferimento in particolare all’art. 67 TUIR quanto alle plusvalenze realizzate mediante cessioni a titolo oneroso di azioni e strumenti finanziari), che appunto sono disciplinati in modo diverso quanto alla misura e modalità di tassazione. Si sottolinea come l’art. 648 ter.1 cod. pen. si caratterizzi, rispetto al riciclaggio, per la selezione significativa ed evidente delle condotte punibili, mancando da una parte i riferimento ominicomprensivo alle “altre operazioni” idonee ad ostacolare la provenienza delittuosa dei beni oggetto delle operazioni stesse, che hanno rilievo penale ai sensi dell’art. 648 - bis cod. pen., oltre alle condotte di sostituzione e trasferimento, e dovendo essere sottolineato come le condotte di impiego, sostituzione o trasferimento dei beni di provenienza delittuosa, compiute dall’autore del reato presupposto, assumono rilevanza penale solo se poste in essere in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative in quanto in grado di ostacolare concretamente l’identificazione della provenienza delittuosa degli stessi. Devono dunque essere superate a parere della Corte le obiezioni opposte alla disciplina dell’autoriciclaggio mediante il richiamo alle categorie del post factum non punibile e del ne bis in idem sostanziale, considerando la evidente e autonoma lesività, oltre al reato presupposto, delle condotte ulteriori poste in essere dall’autore dello stesso. Tali ulteriori attività devono necessariamente esplicarsi in un ambito caratterizzato tecnicamente e specificatamente dal legislatore.
Nel caso concreto (impiego in puntate al gioco del lotto di somme provento del delitto di appropriazione indebita commessa in danno di più persone offese) è stata esclusa la ricorrenza del fumus del delitto di autoriciclaggio, in applicazione del principio di tassatività e determinatezza della fattispecie penale e del divieto di analogia in malam partem. In sostanza è stata esclusa la riconducibilità del gioco del lotto alle attività speculative, considerata la mancanza di una definizione legislativa in materia penale e tenuto conto, come già detto, delle discipline introdotte in altri settori che possono orientare e supportare la valutazione del giudice al fine della necessaria distinzione tra attività speculativa e attività ludica.
Il panorama interpretativo richiamato è articolato e complesso, così come il fenomeno analizzato e valutato dalla decisioni citate, che presentano evidenti elementi di novità nell’analisi del caso concreto. Il punto centrale della riflessione è la ricerca di un’interpretazione costituzionalmente orientata delle aree semantiche amplissime introdotte dal legislatore con la disciplina dell’autoriciclaggio, tanto che si è dibattuto anche in dottrina in ordine alla portata di tale previsione, da molti ritenuta come un’apertura incondizionata alla punibilità di condotte da considerare come veri e propri elementi post delictum in precedenza non rilevanti penalmente.
Se, tuttavia, questi sono gli elementi di critica da sempre proposti nei confronti della disciplina sull’autoriciclaggio, si deve rilevare come nel giungere ad un’interpretazione estensiva, ma costituzionalmente orientata sulla base della ratio legis della normativa introdotta, trova la sua linea di fondamento nella circostanza che tale disciplina verrebbe altrimenti fortemente depotenziata proprio a causa dell’ampiezza semantica della formulazione utilizzata dal legislatore. Nell’effettuare tale operazione si esclude che la condotta di gioco e scommessa possa rientrare nella disciplina di cui all’art. 648-ter.1, comma 4, c.p. così evidenziando la portata di tale previsione, che deve essere riferita esclusivamente ad un godimento diretto, senza alcuna attività di spostamento o utilizzazione, del provento del reato. La portata dell’art. 648 -ter.1, comma 4, c.p. rende possibile, secondo tale linea ermeneutica, una più chiara delimitazione dell’area semantica relativa alla attività speculativa, nella quale ricomprende senza incertezze, il gioco e la scommessa nelle sue più diverse articolazioni.
D’altro canto non si può non considerare come l’interpretazione restrittiva proposta si ponga in linea di continuità con la necessaria tassatività e prevedibilità della disciplina penale, cercando di delimitare in un’ottica di ragionevole certezza la condotta penalmente rilevante ai sensi dell’art. 648 ter.1 cod. pen.
Sez. 2, n. 37606 del 21/06/2019, Novelli, in fase massimazione, ha affermato che ricorre il delitto di autoriciclaggio anche nel caso in cui vengano sostenute spese di gestione di una società al fine di realizzare concretamente il reinvestimento dei proventi illeciti del reato presupposto (nel caso di specie truffe), poiché le spese di gestione sono funzionali alla generazione di ulteriore profitto, derivante dal reimpiego del provento del reato presupposto. Il Tribunale, in sede di riesame di misure cautelari, confermava il decreto di sequestro preventivo emesso dal giudice per le indagini preliminari quanto ai reati di truffa aggravata, autoriciclaggio e per il reato di cui agli art. 56 cod. pen. e 2635 cod. civ. Il sequestro, oggetto del provvedimento impugnato dal ricorrente in cassazione, è relativo al profitto del reato di autoriciclaggio e al prezzo del reato di cui all’art. 2635 cod. civ.
Il caso concreto concerneva la vendita di diamanti a prezzi maggiorati rispetto al loro valore di mercato, realizzata da una società con la collaborazione di funzionari di banca che indirizzavano all’acquisto numerosi clienti delle banche stesse, inducendoli in concreto in tal senso e fornendo ai clienti false informazioni sul valore dei diamanti e sulle modalità dell’investimento. I diamanti di fatto sarebbero stati consegnati dalla società alle banche, sulla base di accordi precedentemente intercorsi con le stesse. La società conseguentemente avrebbe corrisposto alle banche una somma di denaro per aver indirizzato all’acquisto i clienti degli istituti bancari al fine dello smercio delle pietre preziose. Parte del profitto della truffa, posta in essere con la collaborazione dei funzionari delle banche, veniva impiegato dal ricorrente nell’attività finanziaria della società, che aveva tra l’altro acquistato altre pietre preziose da società estere. Il ricorrente ha sostenuto la violazione dell’art. 648 - ter. 1 cod. pen., in assenza del fumus del reato di riciclaggio, non ricorrendo alcun reale ostacolo concreto all’identificazione della provenienza delittuosa del bene oggetto di reimpiego. Secondo la prospettiva difensiva l’attività imprenditoriale in cui verrebbero investiti i profitti illeciti coinciderebbe esattamente con quella che, in altro capo di imputazione, viene contestata proprio in relazione al reato presupposto. Tra l’altro l’attività di acquisto dei diamanti era secondo la difesa del tutto tracciabile perché inserita nei bilanci della società. Inoltre si sottolineava come ricorresse un’aperta violazione di legge nella determinazione del profitto del reato di autoriciclaggio, perché esaminando i dati del conto economico di bilancio, non sarebbero state considerate alcune voci relative a “costi sostenuti per servizi ed altre voci passive, idonee ad alterare i conteggi” effettuati dalla GdF in ordine all’entità del profitto del reato di autoriciclaggio, mentre tali costi avrebbero dovuto essere considerati come utilizzazione o godimento personale ai sensi dell’art. 648 ter. 1., comma quarto, cod. pen.
La decisione affronta diverse questioni. La prima è quella relativa alla sussistenza del fumus del reato di autoriciclaggio. Su questo punto la Corte ha chiarito che era stato evidenziato già nell’imputazione come il provento delle truffe perpetrate nel 2014 fosse stato reinvestito dalla società nel 2015, così come il provento delle truffe del 2015 reinvestito nel 2016. Da ciò consegue, secondo la Corte, che non ricorre alcuna duplicazione della condotta incriminata, né tanto meno una violazione del principio del ne bis in idem sostanziale, quanto piuttosto una “normale concatenazione temporale in successione tra la commissione del reato presupposto di truffa e l’ottenimento di un profitto da tale reato, con successiva commissione del reato di autoriciclaggio mediante il reimpiego di questo profitto derivante da truffa proprio nella stessa attività imprenditoriale, profitto impiegato appunto nel riacquisto di altri diamanti, diversi da quelli già venduti per una loro successiva rivendita”.
La seconda questione è quella relativa al poter ritenere del tutto tracciabili le operazioni di acquisto dei diamanti con il profitto del reato di truffa. Tale circostanza, secondo la Corte non rappresenta un elemento idoneo ad escludere la sussistenza del delitto di autoriciclaggio, mentre ricorre, ciò nonostante, l’idoneità del reimpiego ad ostacolare concretamente l’identificazione della provenienza delittuosa. Su questo punto la Corte ha ritenuto corretta la decisione del Tribunale che, richiamando costante giurisprudenza di legittimità, ha sostenuto che integra il delitto di autoriciclaggio il compimento di condotte volte non solo ad impedire in modo definitivo, ma anche a rendere difficile l’accertamento della provenienza del denaro, dei beni o delle altre utilità, e ciò anche attraverso operazioni che risultino tracciabili, in quanto l’accertamento, o l’astratta individuabilità, dell’origine delittuosa del bene non costituiscono l’evento del reato. In tal senso si sottolinea che le valutazioni relative alla ricorrenza o meno dei requisiti caratteristici dell’autoriciclaggio devono essere orientate da un criterio ex ante, poiché si ritiene persino ovvio che nel momento in cui, in qualunque contesto di indagine, sia identificata un’operazione finanziaria o imprenditoriale sospetta, sia abbia una “riemersione dell’attività di occultamento, senza che ciò possa escludere, a posteriori, il requisito della concretezza, a meno di non voler ritenere che l’art. 648 ter. 1 cod. pen. prefiguri un’incriminazione impossibile”. Deve dunque essere condivisa, a parere della Corte, l’osservazione del Tribunale secondo il quale l’ostacolo all’identificazione si deve caratterizzare per la sua natura di ostacolo “in concreto”. L’insieme delle attività riscontrate, l’acquisto di diamanti da società estere con il profitto del reato di truffa, ha certamente reso complessa la ricostruzione dei flussi finanziari, con confusione del patrimonio lecito di queste con quello illecito e trasformazione della res illecita (il denaro) in diamanti, con reimmissione degli stessi nel circuito imprenditoriale riferibile alla società per la quale prestava la sua attività il ricorrente.
La terza questione posta è poi quella relativa alla considerazione di simili operazioni (reimpiego del provento di truffa per attività della società) come mera utilizzazione o godimento personale del profitto del reato, così da poter scriminare la condotta ex art. 648 ter .1. comma quarto, cod. pen. La Corte esclude in modo reciso tale possibilità, sottolineando che può andare esente da responsabilità, rispetto al reato di autoriciclaggio, solo chi utilizzi o goda dei proventi del reato presupposto in modo diretto e senza che compia alcuna operazione atta ad ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa. Circostanza non ricorrente nel caso esaminato, poiché la descrizione della condotta aveva senz’altro evidenziato una movimentazione dei proventi del reato di truffa, così che era impossibile poter ritenere che gli stessi fossero di fatto cristallizzati e riferibili ad un mero godimento personale, rimanendo nella esclusiva disponibilità dell’agente del reato presupposto, con conseguente mancata reimmissione nel circuito legale economico. Non vi è dubbio per la Corte quanto alla portata dinamica della condotta posta in essere dal ricorrente, considerato che il provento della truffa aveva di fatto reso ancora più proficua l’attività della società ed era stato oggettivamente reimmesso nel circuito legale il provento del reato grazie all’acquisto, difficilmente tracciabile, di altri diamanti presso società estere. Nell’ambito di tale questione la Corte evidenzia poi un principio, caratterizzato da assoluta novità, in tema di autoriciclaggio, chiarendo che le spese di gestione della società non possono essere considerate come destinate alla mera utilizzazione o godimento personale, e quindi non possono essere escluse ex art. 648 ter .1, comma quarto, cod. pen., dal puro reinvestimento di cui al primo comma. Afferma la Corte che: “anche le spese di gestione sostenute per il reinvestimento dei proventi illeciti del reato presupposto sono funzionali alla generazione di ulteriore profitto (derivante dal reimpiego del provento del reato presupposto) e, quindi, vanno calcolate nell’attività di impiego, sostituzione trasferimento in attività, economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative”.
Il principio di diritto affermato dalla Corte è di particolare interesse nel chiarire in modo sempre più puntuale i confini della condotta di autoriciclaggio e i ristretti limiti in cui l’utilizzo del provento del reato possa essere scriminato ai sensi dell’art. 648-ter.1., comma quarto, cod. pen., con particolare riferimento al caso in esame (caratterizzato dal reimpiego in attività societarie riferibili all’autore del reato presupposto, a seguito di una serie di articolate truffe). In tal senso deve essere ricordato che la disciplina dell’autoriciclaggio trova la propria origine nell’art. 3, comma 3, della l. n. 186 del 2014. Anche per l’autoriciclaggio, come per il riciclaggio in generale, si è riproposta la riflessione in tema di bene giuridico tutelato ed anche in questo caso si tende a ritenere la ricorrenza di plurioffensività della condotta, sia per quanto riguarda l’amministrazione della giustizia, che per quanto concerne la tutela dell’ordine economico e del risparmio. Quello che sembra caratterizzare in modo più incisivo questa previsione è la volontà del legislatore di garantire il rapporto fiducia quanto al sistema economico e di risparmio complessivamente considerato. Proprio la terminologia utilizzata sembra indicativa della volontà del legislatore di configurare tale delitto come di pericolo in concreto, tanto che l’attività deve risultare idonea “concretamente” ad ostacolare l’identificazione della provenienza illecita di beni, il cui confluire nell’ambito del complessivo ordine economico rappresenta una forma oggettiva di alterazione del mercato e della libera concorrenza. Il reato di caratterizza quale reato “proprio”, considerata l’identificazione del soggetto attivo con colui che ha commesso o concorso a commettere un delitto non colposo. Il reato presupposto si deve necessariamente riferire a condotte che possano effettivamente produrre un provento da ripulire, sicché la previsione generalizzata dei reati presupposto può essere, tenuto conto di ciò, letta restrittivamente. La condotta si caratterizza per la ricorrenza di un ampliamento rispetto al riciclaggio, essendo stata aggiunta come attività rilevante anche quella imprenditoriale e speculativa. L’interpretazione maggioritaria circa la portata di tali attività tende a circoscriverne la portata nel senso di riferire l’attività speculativa, volta a realizzare il maggior guadagno possibile dall’impiego del provento del reato presupposto, in un’attività ad alto rischio, ma pur sempre afferente ad attività commerciali o finanziarie.
L’ostacolo concreto che deve essere realizzato, e questo è un punto estremamente rilevante rispetto alla decisione in commento, al fine di poter impedire la ricostruzione della provenienza illecita del bene può caratterizzarsi in modo più o meno ampio, quale mero allontanamento della somma provento di reato dal patrimonio originario, oppure con una caratterizzazione della condotta in senso più attiva ed incisiva, mediante più articolate attività di occultamento, anche contabile, o con schermature societarie. L’ostacolo all’identificazione dovrebbe essere considerato come un requisito caratteristico della condotta e non come evento del reato, per cui sembra possibile poter ipotizzare per l’autoriciclaggio la non necessità di un effetto dissimulatorio della condotta. Il delitto dunque, per come configurato, presenta due limiti che ne definiscono portata e ambito: da una parte l’effettivo ostacolo all’identificazione della provenienza delittuosa, dall’altra la previsione d’irrilevanza penale della condotta, ai sensi del quarto comma dell’art. 648 ter 1 c.p. nel caso in cui i beni provento del reato presupposto siano determinati al godimento personale. Anche quanto all’elemento soggettivo l’autoriciclaggio si presenta coerente con la previsione in tema di riciclaggio, essendo richiesto il dolo generico, che appunto si caratterizza quale consapevolezza circa la realizzazione del delitto non colposo presupposto e la volontà di impiegarne i proventi nella attività economiche, speculative e imprenditoriali al fine di ostacolarne l’identificazione.
Tornando alla decisione in commento, deve essere rilevata un’applicazione rigorosa da parte della Corte dei principi in tema di autoriciclaggio; difatti la Corte ha in concreto rilevato come, nonostante la tracciabilità di alcune operazioni, il complesso di attività societarie, poste in essere ad esito delle truffe realizzate con la collaborazione di funzionari bancari, rappresentano senza alcun dubbio una condotta idonea ad ostacolare non solo in modo definitivo, ma anche a rendere più difficile l’accertamento della provenienza del denaro, dei beni o delle altre utilità.
E in tale ambito afferma un principio assai rilevante, richiamato in una precedente decisione della stessa sezione (Sez. 2, n. 40890, 18/07/2017), che indica al giudice di merito come debba essere accertata e valutata l’effettiva idoneità dell’occultamento del provento del reato: tale accertamento richiede l’applicazione di un criterio ex ante, al fine di considerare nella sua reale portata un’operazione finanziaria o imprenditoriale sospetta, che riemerga solo grazie ad un’approfondita attività d indagine. Il fatto che tale attività d’indagine sia stata proficua non può far ritenere ex post tracciabile la condotta. E il caso concreto lo dimostra, considerato che le indagini sembrano aver riguardato una serie di verifiche relative ad acquisti di materiali preziosi effettuati all’estero (con complessa ricostruzione dei flussi finanziari posti in essere). Ricorre effettivamente, secondo la prospettazione della Corte, la concretezza dell’ostacolo all’identificazione della provenienza del denaro poi riutilizzato in attività societarie varie dal ricorrente.
A questo profilo si collega il principio affermato per la prima volta secondo il quale l’attività di reimpiego del provento del reato presupposto è rilevante anche nel caso in cui il provento del reato presupposto sia stato reinvestito per spese di gestione della società. La base dell’orientamento ermeneutico della Corte è rappresentato dalla particolare dinamicità e fruttuosità di una attività del genere, che determina proprio per le sue caratteristiche il possibile generarsi di ulteriore profitto, derivante dal reimpiego del provento del reato presupposto.
Deve dunque essere considerata la strumentalità della destinazione delle spese di gestione della società alla creazione di ulteriore profitto, chiaramente finanziata dall’esito delle truffe precedentemente poste in essere; il che è del tutto incompatibile con la scriminante di cui al comma quarto dell’art. 648 ter.1 cod. pen., che richiede appunto che il provento del reato sia utilizzato solo ed esclusivamente per beni strettamente personali. L’utilizzo del provento del reato anche per le spese di gestione dell’attività societaria del ricorrente, che proprio grazie a tale attività può proseguire ed accrescersi, non può dunque rientrare nell’ambito del comma quarto, proprio per la sua natura dinamica, che rientra in un’attività a carattere certamente imprenditoriale, altamente speculativa, alimentata dalla commistione di redditi leciti e illeciti nel complessivo patrimonio del ricorrente, che è proprio la finalità che la previsione normativa tende a realizzare a tutela di un corretto andamento dell’attività economica del paese, che sia effettivamente rispondente a canoni di correttezza e trasparenza.
La decisione si allinea dunque al principio espresso anche di recente dalla stessa Sez. 2, n. 13795 del 7/03/2019, PMT c/ Sanna, Rv. 275528 – 02, secondo la quale in tema di autoriciclaggio, l’ipotesi di non punibilità di cui all’art. 648 ter.1, comma quarto, cod. pen. è integrata soltanto nel caso in cui l’agente utilizzi o goda dei beni provento del delitto presupposto in modo diretto e senza compiere su di essi alcuna operazione atta ad ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa, così come da Sez. 2, n. 16908 del 5/03/2019, PMt c/ Ventola, Rv. 276419, secondo la quale in tema di autoriciclaggio, l’intervenuta tracciabilità, per effetto delle attività di indagine poste in essere dopo la consumazione del reato, delle operazioni di trasferimento delle utilità provenienti dal delitto presupposto non esclude l’idoneità “ex ante” della condotta ad ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa. (Fattispecie di trasferimento di ingenti somme di denaro tramite bonifici in favore di una costellazione di società estere che, a loro volta, effettuavano nuove operazioni di trasferimento a soggetti fisici e giuridici riconducibili all’indagato). Può dunque ritenersi condiviso dalla giurisprudenza il principio di diritto per come affermato, nel caso di specie, relativo al necessario riscontro di un utilizzo in modo diretto del bene per poter accedere alla scriminante e alla necessaria attività di valutazione della condotta da parte del giudice mediante l’applicazione di un criterio di idoneità ex ante della condotta concretamente posta in essere per ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa delle utilità derivanti dal reato presupposto.
Il tema della identificazione dell’effettiva capacità dissimulatoria delle attività poste in essere per integrare il reato di autoriciclaggio è oggetto di diverse decisioni in tema di distrazione fallimentare e bancarotta fraudolenta. In particolare Sez. 5, n. 8851 del 01/02/2019, Petricca, Rv. 275495 e Sez. 5, n. 38919 del 05/07/2019, PMT c/De Marco, Rv. 276853 hanno affermato un identico principio di diritto chiarendo che “non integra la condotta di auto riciclaggio il mero trasferimento di somme oggetto di distrazione fallimentare a favore di imprese operative, occorrendo a tal fine un “quid pluris” che denoti l’attitudine dissimulatoria della condotta rispetto alla provenienza delittuosa del bene”. Nel caso concreto affrontato dalla prima decisione il Tribunale del riesame aveva confermato l’ordinanza applicativa degli arresti domiciliari nei confronti degli indagati per i reati di bancarotta fraudolenta e autoriciclaggio, quanto alla condotta di impiego in proprie attività commerciali di somme di denaro provenienti da una s.r.l. agli stessi riferibile in regime di concordato preventivo. La Corte ha annullato con rinvio il provvedimento proprio quanto alla configurabilità dell’autoriciclaggio e delle esigenze cautelari, rilevando che, anche secondo quanto evidenziato da Sez. 2, n. 33074 del 14/07/2016, Babuleac, Rv. 267459, le attività tipiche dell’autoriciclaggio devono avere la caratteristica precipua di essere idonee ad ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa. La formulazione normativa dovrebbe indurre dunque a ritenere l’autoriciclaggio come reato di pericolo concreto, poiché il giudice deve necessariamente valutare l’idoneità specifica della condotta posta in essere dall’agente ad impedire l’identificazione della provenienza delittuosa dei beni.
La necessità che sia posto in essere un ostacolo “concreto” all’identificazione richiede dunque a parere della Corte un contegno che vada oltre la mera ricezione della somma proveniente da reato.
Questo dato valutativo trova poi conferma nella considerazione dei rapporti tra bancarotta e autoriciclaggio, poiché ritenere punibile come auto riciclaggio il mero trasferimento delle somme distratte verso imprese finirebbe per sanzionare penalemente due volte la stessa condotta, proprio quando le somme sottratte alla garanzia patrimoniale dei creditori sociali siano dirette verso imprenditori, generando rispetto a tale situazione specifica “un’ingiustificata sovrapposizione punitiva” tra le due fattispecie. Questa conclusione trova conforto secondo la Corte anche nell’interpretazione della Sez. 2, n. 30401 del 07706/2018, Ceoldo, Rv. 272970, che ha chiaramente definito il concetto secondo il quale il prodotto, profitto, o prezzo dell’autoriciclaggio non coincide con il denaro, i beni o le altre utilità provenienti dal reato presupposto, consistendo invece nei proventi conseguiti dall’impiego di questi ultimi in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali e speculative. Orientamenti conformi sempre in epoca recente sono riscontrabili in Sez. 2, n. 44198 e 44199 del 04/07/2019, PMT c/ Valguarnera, non massimate, che hanno affrontato il caso in imputazione consistente nell’aver distratto l’azienda di una società fallita per reimpiegarla in una nuova società appositamente costituita, mediante la conclusione di un contratto di affitto di azienda. La Corte in questo caso ha chiarito che, essendo l’atto distruttivo identificato esattamente nella conclusione del contratto di cessione di azienda, la mancanza di ulteriori attività dissimulatorie, deve far escludere la possibile sussistenza del reato di autoriciclaggio, che richiede condotte logicamente e cronologicamente differenti rispetto a quelle integranti il reato presupposto, oltre ad accorgimenti dissimulatori volti ad ostacolare l’identificazione della provenienza dei beni. Queste decisioni evidenziano anche un profilo di riflessione particolare per quanto concerne il rapporto tra bancarotta fraudolenta e autoriciclaggio, chiarendo che il reato teoricamente presupposto si consuma in coincidenza con la sentenza dichiarativa di fallimento (in tal senso Sez. 5, n. 40477 del 18/05/2018, Alampi, Rv. 263800), mentre le condotte distrattive imputate, anche quali condotte di autoriciclaggio, sarebbero state realizzate e consumate prima della effettiva possibilità di configurare il reato presupposto. Tuttavia è da sottolineare come questa soluzione, richiamata ai sensi dell’art. 238 della Legge fall., non si applica al caso distrazioni effettuate in caso di concordato preventivo, restando tale ipotesi disciplinata dall’art. 236 della Legge fall., in questo caso è irrilevante che sia stata pronunziata sentenza di fallimento (in tal senso Sez.5, n. 13191 del 11/12/2018, depositata 2019, Casinelli, non massimata).
Una diversa prospettiva sembra invece emergere dalla informazione provvisoria di decisione della Sez. 5, n. 9/2019, Ricorrente Hu Shaojing, secondo la quale il delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione può concorrere, in qualità di reato presupposto, con il delitto di autoriciclaggio, laddove gli atti spoliazione del patrimonio sociale siano dotati di “intrinseca capacità dissimulatoria e determinino l’impiego dei beni, denaro o altre utilità illecitamente sottratti in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative”. In mancanza allo stato della motivazione la diversa prospettazione di questa decisione, almeno nella sua formulazione provvisoria, sembra richiamare il criterio della necessità di valutare ex ante l’idoneità e capacità dissimulatoria degli atti di spoliazione del patrimonio sociale, tenuto conto della rilevanza della attività di indagine allo scopo spesso espletata, già di per sé indice della complessità di ricostruzione dei diversi passaggi dei beni riferibili alla società spogliata.
Sul tema del concorso del terzo al reato di autoriciclaggio è intervenuta Sez. 6, n. 3608 del 07/06/2018, depositata 24/01/2019, Potenza, Rv. 275288, che ha affermato che: “In tema di autoriciclaggio, il soggetto che, non avendo concorso nel delitto presupposto non colposo, ponga in essere la condotta tipica di autoriciclaggio o contribuisca alla realizzazione da parte dell’autore del reato-presupposto delle condotte indicate dall’art. 648-ter.1 cod. pen., risponde di riciclaggio e non di concorso nel delitto di autoriciclaggio essendo quest’ultimo configurabile solo nei confronti dell’ “intraneus”. (Fattispecie in cui l’imputata aveva versato su un libretto di deposito di una cooperativa di consumo, e poi prelevato mediante assegni, denaro provento dell’attività concussiva attuata dal marito).” La Corte ha richiamato le motivazioni di merito chiarendo come nel caso concreto fossero stati posti in essere una serie di comportamenti sintomatici della consapevolezza dell’imputata circa la provenienza illecita del denaro, ostacolando con la sua condotta di deposito e gestione delle somme di denaro la tracciabilità del percorso dei beni provento di reato. In concreto, con i motivi di ricorso, la difesa riteneva comunque necessario inquadrare la condotta posta in essere in concorso in autoriciclaggio piuttosto che riciclaggio, condotta di autoriciclaggio effettivamente posta in essere dal marito della imputata. Tenendo conto sia dell’epoca della commissione del fatto, che delle caratteristiche della condotta la Corte ha escluso recisamente la possibilità di poter configurare, come correttamente ritenuto dal giudice di appello, nel caso in esame una condotta di autoriciclaggio, in mancanza di una effettiva attività economica, imprenditoriale o finanziaria e considerato l’orientamento della Corte di cassazione, che viene condiviso, secondo il quale il concorso nel delitto di auto riciclaggio è configurabile esclusivamente nei confronti dell’intraneus. (Sez. 2, n. 17235 del 17/01/2018, Tucci, Rv. 272652). La decisione dunque ribadisce la prima esplicita decisione della Corte su questo tema secondo la quale in tema di autoriciclaggio, il soggetto che non avendo concorso nel delitto presupposto non colposo, ponga in essere la condotta tipica di autoriciclaggio o contribuisca alla realizzazione da parte dell’autore del reato presupposto a delle condotte indicate dall’art. 648-ter.1 cod. pen., risponde di riciclaggio e non di concorso nel delitto di autoriciclaggio essendo questo configurabile solo nei confronti dell’intraneus.
Appare opportuno ricordare che la sentenza Tucci ha affrontato per la prima volta il tema del concorso dell’extraneus e nel fornire la soluzione richiamata ha richiamato i diversi orientamenti interpretativi, anche in dottrina, quanto alle manifestazioni plurisoggettive del reato di riciclaggio. È rilevante richiamare la portata di questa decisione, quale presupposto di diverse decisioni successive sul tema del concorso nel delitto di autoriciclaggio. Il caso concreto oggetto di giudizio presentava una complessa articolazione, considerato che l’imputata aveva posto in essere plurime operazioni commerciali, finanziarie e societarie mediante le quali faceva rientrare in Italia una notevole quantità di somme di denaro, provento di appropriazione indebita (nell’ambito di note vicende giudiziarie che riguardavano la c.d. “provvista Bonifaci”). Le ingenti somme di denaro detenute all’estero venivano fatte rientrare in Italia per il tramite del meccanismo dello scudo fiscale, per acquistare una società (che possedeva anche la proprietà di quattro appartamenti in Via Trionfale a Roma), le cui quote venivano successivamente cedute ad una società belga, per essere poi riacquistate sempre dall’imputata tramite mandato fiduciario ad un trust, e quindi essere riconsegnate, per il loro valore, al coimputato che finalizzava la nuova disponibilità del denaro ormai “pulito” nell’acquisto degli appartamenti di via Trionfale per un valore di circa due miliardi di lire. L’insieme delle attività di accertamento espletate, e l’esito del dibattimento, dimostravano come l’imputata fosse ispiratrice e artefice di tutte le diverse operazioni di schermatura relative al denaro provento di appropriazione indebita, tanto che veniva riscontrata la presenza di un medesimo domicilio a Roma tra la società di servizi gestita dall’imputata e le società intermediarie estere. Dunque l’attività posta in essere dall’imputata supportava la complessiva attività del coimputato al fine di realizzare un reimpiego in attività, a carattere chiaramente speculativo, delle somme di denaro illegittimamente detenute da quest’ultimo, ripulite dalla imputata, quindi consegnate al coimputato in chiaro accordo con lo stesso. La piena vicinanza tra i due soggetti imputati, la correlazione delle attività dagli stessi poste in essere risultava supportata dalle risultanze dibattimentali acquisite in giudizio. La difesa dell’imputata contestava l’esito del giudizio in primo e secondo grado e riteneva che la stessa dovesse essere eventualmente condannata per l’ipotesi più lieve di concorso in autoriciclaggio, e non per il delitto di riciclaggio come invece deciso dalla Corte di appello. Il caso concreto analizzato dalla Corte si caratterizza dunque per l’affidamento da parte dell’autore del reato presupposto dei proventi dell’attività dallo stesso posta in essere ad un terzo per l’ulteriore attività di impiego. La Corte nella propria decisione ha escluso che la questione potesse essere rimessa alle Sezioni Unite, in mancanza di qualsiasi contrasto sul punto, ma evidenziando invece la ricorrenza di una questione interpretativa caratterizzata da novità, relativa appunto alla qualificazione giuridica della condotta posta in essere dal soggetto extraneus, che abbia fornito un contributo concorsuale rilevante alla condotta di autoriciclaggio posta in essere dal soggetto intraneus.
La motivazione della Corte richiama i diversi orientamenti interpretativi della dottrina sul punto e chiarisce come la maggior parte delle interpretazioni proposte, sia pure con giustificazioni dogmatiche diverse, abbia sostenuto che l’extraneus che concorre con l’autoriciclatore risponde non di concorso nell’autoriciclaggio, ma bensì di riciclaggio. Come detto le giustificazioni dogmatiche sono state diverse e vengono richiamate nella loro portata dalla decisione.
Per un primo orientamento l’insieme costituito dalle condotte tipizzate dall’art. 648-ter.1 cod. pen. “si iscrive completamente in quello disegnato dal combinato disposto delle due disposizioni finitime (648-bis e ter cod. pen.)” e l’elemento specializzante non attiene alle condotte quanto piuttosto alla qualificazione soggettiva dell’autore del reato, con la conseguenza che gli insiemi in discorso si trovano in una relazione di “alternatività reciproca”, con comprensione della disciplina dell’art. 648-ter.1 nell’insieme più ampio determinato dall’art. 648-bis e ter cod. pen.; da tale impostazione consegue che colui che non avendo concorso alla commissione del reato presupposto fornisce un contributo causale all’autoriciclatore non realizzerà una fattispecie di concorso ex art. 117 cod. pen., ma la vera e propria condotta di riciclaggio sussistendone i presupposti.
Per un secondo orientamento invece nel caso di autoriciclaggio si sarebbe in presenza di c.d. “reato di mano propria”, dove l’individuazione di un soggetto qualificato al fine della commissione del delitto rappresenta un “vettore insostituibile di tipicità” e componente decisiva in relazione al disvalore del fatto, con la conseguenza che la messa a disposizione del provento nelle mani del terzo, perché la reimpieghi, sarà destinata a rimanere penalmente irrilevante, perché sarà solo il terzo estraneo a realizzare compiutamente e materialmente l’illecito del quale risponderà a titolo di riciclaggio o reimpiego. Manca in sostanza, secondo tale prospettazione, una condotta tipica del soggetto imputato di autoriciclaggio, la personale esecuzione da parte dell’intraneus, che appunto rappresenta condizione essenziale per la consumazione dell’offesa al bene giuridico tutelato.
Un terzo orientamento, da ritenere minoritario, afferma invece la natura di “reato proprio” dell’autoriciclaggio, sicché appare ammissibile il concorso nel reato di autoriciclaggio ai sensi dell’art. 110 o 117 cod. pen. a seconda che il terzo extraneus abbia o meno consapevolezza della qualifica posseduta dall’intraneus.
La decisione nel risolvere la questione sottoposta a giudizio afferma che la premessa dalla quale l’interprete deve necessariamente partire è la ratio dal quale scaturisce la nuova disciplina, da identificare nella volontà del legislatore di colmare la lacuna derivante dalla sostanziale pregressa irrilevanza delle condotte di autoriciclaggio. Ne consegue l’impossibilità di applicare un regime sanzionatorio più favorevole per chi commetta comunque una condotta riciclatoria, pur se in concorso con l’intraneus imputato del reato di autoriciclaggio, così come la necessaria rilevanza da attribuire a comportamenti dell’intraneus (come la messa disposizione del provento del reato presupposto nelle mani del terzo perché lo reimpieghi) che non integrino tuttavia la “condotta tipica di riciclaggio”, non potendosi dunque ritenere l’autoriciclaggio un reato di mano propria.
Le due fattispecie di riciclaggio ed autoriciclaggio devono dunque essere considerate in una relazione di etereogeneità tra loro, poiché l’autoriciclaggio si caratterizza per la presenza di un elemento di specialità per aggiunta, poiché come osservato da parte della dottrina “il reimpiego del provento non è un tratto costitutivo del riciclaggio, per la cui punizione è sufficiente la ripulitura”. Eterogeneità che deve essere riscontrata anche in relazione all’autore del reato, con carattere addirittura di contrapposizione; infatti il soggetto attivo dell’autoriciclaggio è autore del delitto presupposto, mentre non può essere autore del reato di riciclaggio con impossibilità di riscontrare una relazione di specialità tra le due norme (proprio per la clausola di esclusione che caratterizza la previsione dell’art. 648-bis cod. pen.).
È proprio richiamando la ratio dell’intervento normativo in tema di autoriciclaggio che il Collegio ritiene che il soggetto che “non avendo concorso nel delitto presupposto non colposo, ponga in essere la condotta tipica dell’autoriciclaggio, o comunque contribuisca alla realizzazione da parte dell’intraneus delle condotte tipizzate dall’art. 648 ter.1. cod. pen. continui a rispondere del reato di riciclaggio” ex art. 648- bis cod. pen., e non di concorso nel meno grave delitto di cui all’art. 648-ter.1 cod. pen. Non ricorre una specialità tra le due ipotesi di reato in questione e dunque deve essere rilevata la diversificazione dei titoli di reato rispetto a condotte latu sensu concorrenti, ricorrendo una realizzazione plurisoggettiva di fattispecie definite a soggettività ristretta (in tal senso previsioni analoghe possono essere riscontrate in tema di evasione e procurata evasione, in tema d’infanticidio, interruzione volontaria di gravidanza).
Secondo la decisione della Corte appare condivisibile la prospettazione secondo la quale in schemi di previsioni a soggettività forte appare giustificabile la previsione di diverse risposte sanzionatorie, per attuare soluzioni che oggettivamente determinano delle differenze nelle posizioni concorsuali, e in questo senso deve essere intesa anche la previsione di una sanzione edittale meno grave per l’intraneus (al fine di mitigare il regime del cumulo materiale nei confronti dello stesso perché responsabile di due delitti non necessariamente in concorso ex art. 81 cod. pen.).
Se dunque in conclusione la ratio della nuova previsione è quella di giungere effettivamente alla mera punibilità dell’intraneus, non sussiste a parere della Corte alcuna ragione per la quale giungere ad una modifica della disciplina sul riciclaggio, sia quanto al titolo di reato, che quanto alla risposta sanzionatoria, perché sono oggettivamente rimaste immutate la dinamica e le caratteristiche di realizzazione delle attività riciclatorie. In conclusione dunque la prospettiva adottata dalla Corte ha chiarito che l’art. 648-ter.1. punisce come reato “unicamente le condotte poste in essere dal soggetto che abbia commesso o concorso a commettere il delitto non colposo presupposto, in precedenza non previste e punite come reato.. mentre le condotte concorsuali poste in essere da terzi extranei, per agevolare la condotta di autoriciclaggio posta in essere dal soggetto che abbia commesso o concorso a commettere il reato presupposto, titolare del bene di provenienza delittuosa ripulito, conservano rilevanza penale quale fatto di compartecipazione previsto e punito dall’art. 648-bis cod. pen.”
Alcune decisioni della Corte hanno affrontato, in relazione alla natura istantanea del reato di auto riciclaggio e alle caratteristiche della condotta, il profilo della punibilità e decorrenza della disciplina in tema di autoriciclaggio a seguito della introduzione della fattispecie in questione con la legge 15 dicembre 2014, n. 186. Sez. 2, n. 38838 del 04/072019, PMT c/De Marco, Rv. 277098 ha affermato che: “Il reato di autoriciclaggio ha natura istantanea e si consuma nel momento in cui vengono poste in essere le condotte di impiego, sostituzione o trasformazione di beni costituenti l’oggetto materiale del delitto presupposto, nessun rilievo dovendo quindi riconoscersi, ai fini della consumazione, alla circostanza che gli effetti delle condotte indicate si protraggono nel tempo. (In applicazione del principio, la Corte ha ritenuto non integrasse reato il reimpiego di un’azienda oggetto di bancarotta, effettuato attraverso il trasferimento pluriennale di un ramo dell’azienda medesima avvenuto prima dell’entrata in vigore della legge istitutiva del reato ed i cui effetti si erano protratti anche successivamente).” Il Tribunale di riesame aveva in concreto annullato il sequestro per equivalente disposto nei confronti dell’indagato per il reato di cui all’art. 648 ter. 1 cod. pen., e in tal senso aveva osservato come le attività di cessione e affitto di azienda oggetto del reato di bancarotta non potevano integrare elementi tali da ostacolare, al fine della configurazione dell’autoriciclaggio, l’identificazione della provenienza delittuosa dei beni. La Corte ha ritenuto corretta la ricostruzione del Tribunale della libertà al fine di evitare la doppia punibilità di una medesima condotta, con conseguente impossibilità di ritenere che la medesima condotta, e la sola consumazione della condotta integrante il delitto presupposto, possa integrare ex se anche la diversa ipotesi di autoriciclaggio. La sentenza in esame, dunque, si pone in linea di continuità con le altre decisioni sopra citate in tema di attività dissimulatoria e reati fallimentari, e precisa che i reati contestati, in quanto commessi prima della introduzione dell’art. 648 ter .1 cod. pen., non potevano essere puniti a titolo di autoriciclaggio, considerato che tale reato si consuma nel momento in cui l’autore del reato presupposto pone in essere le condotte di impiego, sostituzione e trasformazione del denaro e dei beni costituenti oggetto materiale del delitto presupposto, ed è quindi fattispecie essenzialmente istantanea. In tal senso, al fine della corretta individuazione del momento consumativo del delitto di auto riciclaggio, la Corte richiama Sez. 2, n. 1857 del 16/11/2016, Ferrari, Rv. 269316, con la quale si era già affermato che il delitto si consuma con la realizzazione dell’effetto dissimulatorio conseguente alle condotte tipiche previste dall’art. 648 bis cod. pen., non essendo invece necessario che il compendio ripulito sia restituito a chi lo aveva movimentato. Nel caso concreto dunque la Corte sottolinea come la condotta contestata, di fatto non imputabile a titolo di auto riciclaggio anche ratione temporis, considerata la consumazione di tutte le supposte condotte dissimulatorie antecedentemente all’entrata in vigore della disciplina in tema di auto riciclaggio, senza che rilevi né la data di dichiarazione del fallimento, né la durata dei contratti stipulati, ovvero l’aggiudicazione di appalti in capo all’azienda fraudolentemente trasferita. Conclude la Corte sottolineando che “seppure si dovesse ritenere possibile che le attività distruttive poste in essere da parte dell’imprenditore dichiarato fallito configurino un’ipotesi di concorso di reati tra la bancarotta fraudolenta e l’autoriciclaggio, quando il bene sottratto alla par condicio credito rum venga poi ad essere impiegato nel tessuto economico produttivo con riutilizzazione dell’oggetto materiale del reato presupposto attraverso ulteriori e successivi passaggi, è però sempre necessario che gli atti di cessione in vendita o concessione di affitto sano successivi all’introduzione della norma incriminatrice (1 gennaio 2015), altrimenti non potendosi contestare le condotte se non in violazione del fondamentale canone di cui agli artt. 25 Cost. e art. 2 cod. pen.”
Un diverso profilo, quanto all’effettiva punibilità del delitto di auto riciclaggio, risulta affrontato dalla Sez. 2, n. 42052 del 19/06/2019, PMT c/ Moretti Cuseri, Rv. 277609, che ha affermato che in tema di riciclaggio ed autoriciclaggio, non è necessario che la sussistenza del delitto presupposto sia stata accertata da una sentenza di condanna passata in giudicato, essendo sufficiente che il fatto costitutivo di tale delitto non sia stato giudizialmente escluso, nella sua materialità, in modo definitivo, e che il giudice procedente per il riciclaggio o autoriciclaggio ne abbia incidentalmente ritenuto la sussistenza, in mancanza imponendosi l’assoluzione dell’imputato perché il fatto non sussiste. Nel caso concreto il Tribunale, adito ex art. 324 cod. proc. pen. aveva parzialmente annullato il decreto di sequestro preventivo, disposto dal g.i.p. in relazione al reato di concorso in auto riciclaggio in funzione della confisca diretta delle disponibilità liquide deidiverso coindagati. Il Pubblico Ministero con l’impugnazione proposta lamentava l’erronea applicazione della legge circa l’affermata impossibilità di valutare la ricorrenza dei reati presupposto dei delitti di riciclaggio e autoriciclaggio perché i relativi elementi erano da riferire a fase delle indagini preliminari, sottolineando che a tal fine poteva essere ritenuta sufficiente anche una mera valutazione incidentale circa la ricorrenza dei reati presupposto. Nell’applicare il principio sopra enunciato al caso concreto, la Corte ha chiarito come fosse orientamento ermeneutico già consolidato in tema di riciclaggio, applicabile anche all’ambito dell’autoriciclaggio, quello secondo il quale il delitto presupposto non deve necessariamente essere accertato in ogni suo estremo fattuale, perché la provenienza delittuosa del bene posseduto può ben essere desunta dalla natura e dalle caratteristiche del bene stesso (in questo senso Sez. 1, n. 29486 del 26/06/2013, Cavalli, Rv. 251028). Si evidenzia come per l’affermazione della responsabilità per il delitto di ricettazione, di riciclaggio e di autoriciclaggio non è richiesto l’accertamento giudiziale del delitto presupposto, né dei suoi autori, né dell’esatta tipologia del reato, potendo il giudice affermarne l’esistenza attraverso prove logiche (Sez. 2, n. 29685 del 05/07/2011, Tartari, Rv. 251028).
In conclusione per poter procedere e ritenere punibile l’autoriciclaggio non è necessario che la sussistenza del delitto presupposto sia stata accertata con sentenza di condanna passata in giudicato, essendo sufficiente a tal fine che il fatto costitutivo di tale delitto non sia stato giudizialmente escluso, nella sua materialità, in modo definitivo. Conseguentemente all’affermazione di tale principio, la Corte ha ritenuto fondata la doglianza del Pubblico Ministero, considerato che il G.i.p. nell’originario decreto aveva considerato incidentalmente, ma in modo esplicito, la configurabilità del necessario fumus dei reati presupposto dei reati di riciclaggio e autoriciclaggio, nonostante la pendenza per gli stessi di mere indagini preliminari, che comunque non impedivano in alcun modo l’accertamento incidentale della loro configurabilità.
Sempre in tema di sequestro preventivo funzionale alla confisca diretta o per equivalente la Sez. 2, n. 22020 del 10/04/2017, Scimone, Rv. 276501, ha affermato che nel caso di consumazione dei delitti di autoriciclaggio e riciclaggio da parte di soggetti diversi, all’autore di tale ultima condotta è sequestrabile “soltanto l’importo del profitto di tale delitto e non anche di quello derivante dalle operazioni poste in essere dall’autore dell’autoriciclaggio, che può avere ad oggetto somme superiori o quantitativi di beni di origine illecita trasferiti a soggetti giuridici differenti”. Con il ricorso proposto avverso il provvedimento del Tribunale della libertà il ricorrente sostanzialmente ha sostenuto la ricorrenza di una violazione di legge quanto alla qualificazione giuridica della condotta dell’extraneus nelle condotte riciclatorie poste in essere dall’autore del delitto presupposto, perché da qualificarsi necessariamente come concorso di persone nel delitto di autoriciclaggio. Lamentava inoltre il ricorrente la violazione del disposto degli art. 321 e 324 cod. proc. pen. in relazione all’art. 648 bis cod. pen. quanto all’individuazione del profitto confiscabile.
La Corte, dopo aver aderito esplicitamente all’orientamento in tema di concorso dell’extraneus in tema di autoriciclaggio, secondo l’orientamento ermeneutico evidenziato da Sez. 2, n. 17235 del 17/01/2018, Tucci, Rv. 272652, ha affermato in tema di profitto confiscabile -identificato nel caso in esame, al fine della confisca per equivalente di denaro, beni e quote sociali, nella misura di 250.000 Euro - che trattandosi di trasferimento in denaro tra diverse società riferibili agli imputati (di diritto estero e italiano) è necessario individuare, o quanto meno prospettare, le condotte a seguito delle quali la somma perveniva ad una delle società per poi essere successivamente essere trasferita ad altra, non potendosi desumere dal generico coinvolgimento degli imputati in azioni delittuose la natura illecita di qualsiasi provvista trasferita. Occorre, dunque, pur non essendo necessario individuare con esattezza il reato presupposto, quanto meno verificare a seguito di quali iniziative e attività l’importo sia stato accumulato. In tale ambito la Corte poi specifica che, una volta esclusa l’imputabilità della condotta a titolo di autoriciclaggio per il terzo extraneus al reato presupposto, qualora questi realizzi opere di ripulitura di capitali di origine illecita, rispondendo per tale attività del reato di riciclaggio, ne derivano necessarie conseguenze anche in tema di profitto del reato sequestrabile in via diretta o per equivalente. I principi normalmente affermati dalla giurisprudenza in tema di profitto confiscabile e sequestrabile per chi concorre nel reato ex art. 110 cod. pen. possono essere applicati solo nel caso in cui si concorra per lo stesso titolo di reato e non per il caso in cui, come per il riciclaggio e autoriciclaggio si concorra a titolo diverso nel reato.
Per il concorrente nelle condotte dell’autoriciclatore, che risponderà solo per il reato di riciclaggio non essendo intervenuto nell’ambito dei reati presupposto, sarà possibile giungere ad sequestro, ai fini della successiva confisca, soltanto dell’importo del profitto di tale delitto e non anche di quello posto in essere dall’autore dell’autoriciclaggio, che può avere ad oggetto somme superiori o quantitativi di beni di origine illecita trasferiti a soggetti giuridici differenti. Quindi secondo la Corte, quanto al soggetto imputato di riciclaggio, non può essere sempre disposto il sequestro dell’intero importo che si assume autoriciclato, perché non concorre nell’autoriciclaggio, ma commette un fatto diverso in cui il profitto è correlato alle sole somme o beni ricevuti ed oggetto di sostituzione, trasformazione ed occultamento. È possibile che in alcune occasioni possa esserci coincidenza tra gli importi dei due reati (quando l’intero profitto illecito derivante dal reato presupposto venga trasferito ad un solo soggetto incaricandolo di compiere le operazioni decettive), ma non sempre ciò accade, considerato che spesso l’autore del delitto presupposto può decidere di variare e ramificare le attività di auto riciclaggio attraverso diversi soggetti che svolgono il ruolo di riciclatori, ai quali vengono trasferite quote del profitto illecito e non l’interezza dello stesso.
Un ulteriore tema certamente rilevante, collegato anche all’ambito di disciplina in tema di sequestro preventivo e confisca, è rappresentato dalla possibilità di considerare provento illecito e dunque frutto di reato presupposto un risparmio di spesa, come quello conseguente alla realizzazione di condotte integrative di reati tributari. Il tema ha una sua consistente rilevanza, considerato l’oggettivo impatto di tali condotte, con riferimento alle imposte evase, sull’ordine pubblico economico. Lo snodo interpretativo fondamentale su questo tema è rappresentato (anche considerata l’elaborazione delle previsioni comunitarie sul tema) dalla possibilità di ritenere effettivamente ricompresi nell’ambito dei reati presupposto del delitto di autoriciclaggio anche i reati tributari connessi alla omessa o non corretta corresponsione di imposte dirette e indirette. Tenendo conto dell’opzione ermeneutica secondo la quale sono esclusi dal novero dei reati presupposto esclusivamente i reati colposi e le contravvenzioni (Sez. 2, n. 6061 del 17/01/2012, Gallo, Rv. 252701, Sez.2, n. 42120 del 09/10/2012, Scimone, Rv. 253831), e considerato il principio affermato in tema di riciclaggio, secondo il quale tra le altre utilità rientra anche il risparmio di spesa, sembra potersi considerare, a determinate condizioni, la possibilità di configurare attività di auto riciclaggio anche nei confronti dell’autore del reato presupposto che abbia posto in essere reati tributari con conseguente risparmio di spesa. Tale interpretazione trova conforto anche nelle diverse decisioni in tema di sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente secondo le quali è sequestrabile non solo un incremento positivo della consistenza del patrimonio del reo, ma anche qualsiasi utilità o vantaggio suscettibile di valutazione patrimoniale o economica che determina un aumento della capacità di arricchimento, godimento o utilizzazione del patrimonio. Anche ai sensi dell’art. 1, coma 143 della l. 244 del 2007 emerge la considerazione del risparmio di spesa derivante dalla commissione di reati tributari come utilità economica, tanto che può essere disposto il sequestro preventivo al fine della successiva confisca. È infatti considerato un dato di esperienza la oggettiva protezione del patrimonio di colui che commette reati tributari evitando così che il suo patrimonio si impoverisca e utilizzando dunque quanto risparmiato eventualmente reimmetendo tale utilità nel circuito economico e finanziario. Ne potrebbe astrattamente conseguire la imputabilità ai sensi dell’art. 648 ter.1 cod. pen. quando ricorra e sia riscontrato l’impiego successivo in attività economiche finanziarie o speculative, con ostacolo concreto all’identificazione dell’attività delittuosa del profitto da evasione. Tuttavia una tale possibilità risulta assai complessa dal punto di vista del riscontro e prova concreta della condotta contestata, e, in tal senso, al fine di evitare una commistione tra diverse ipotesi di delitto (come il reimpiego) e la possibilità di giungere ad una punibilità in diverse occasioni della medesima condotta si è considerata la necessità che le utilità per poter essere rilevanti al fine della contestazione ex art. 648 ter .1 cod. pen. dovrebbero essere certamente e precisamente riconoscibili ex ante rispetto alla parte residua del patrimonio. Se dunque è indubbio il risparmio di spesa derivante da una attività illecita in tema di reati tributari, assai complessa appare la possibilità di individuare su tale patrimonio, rimasto inalterato nella sua consistenza, le attività che potrebbero effettivamente integrare la condotta di auto riciclaggio.
Sentenze della Corte di cassazione
Sez. 5, n. 38919 del 05/07/2019, PMT c/De Marco, Rv. 276853
Sez. 2, n. 44198 e 44199 del 04/07/2019, PMT c/ Valguarnera
Sez. 2, n. 38838 del 04/07/2019, PMT c/De Marco, Rv. 277098
Sez. 2, n. 37606 del 21/06/2019, Novelli
Sez. 2, n. 42052 del 19/06/2019, PMT c/ Moretti Cuseri Sez. 2, n. 36121 del 24/05/2019, PMT c/ Draebing, Rv. 276974
Sez. 2, n. 21687 del 05/04/2019, Armelissasso, Rv. 276114 – 02
Sez. 2, n. 13795 del 07/03/2019, PMT c/ Sanna, Rv. 275528
Sez. 2, n. 16908 del 05/03/2019, PMT c/ Ventola, Rv. 276419
Sez. 5, n. 8851 del 01/02/2019, Petricca, Rv. 275495
Sez. 2, n. 9751 del 13/12/2018, depositata 06.03/2019, PMT c/ Bresciani, Rv. 276499
Sez. 5, n. 13191 del 11/12/2018, depositata 2019, Casinelli
Sez. 2, n. 30401 del 07/06/2018, Ceoldo, Rv. 272970
Sez. 5, n. 40477 del 18/05/2018, Alampi, Rv. 263800
Sez. 5, n. 21925 del 17/04/2018, Ratto Rv. 273183 – 01
Sez. 2, n. 22020 del 10/04/2017, Scimone, Rv. 276501
Sez. 2, n. 1857 del 16/11/2016, Ferrari, Rv. 269316
Sez. 2, n. 46319 del 21/09/2016, Cipolla, Rv. 268316
Sez. 2, n. 33074 del 14/07/2016, Babuleac, Rv. 267459
Sez. U, n.25191 del 27/02/2014, Iavarazzo, Rv. 259950
Sez. 1, n. 29486 del 26/06/2013, Cavalli, Rv. 256108
Sez. 2, n. 42120 del 09/10/2012, Scimone, Rv. 253831
Sez. 6, n. 15140 del 12/04/2012, Magiaracina, Rv. 252610
Sez. 2, n. 6061 del 17/01/2012, Gallo, Rv. 252701
Sez. 2, n. 29685 del 05/07/2011, Tartari, Rv. 251028
Con l’introduzione della legge 2 dicembre 2016, n. 242, il Legislatore è intervenuto a disciplinare il settore della coltivazione della canapa sativa, individuando le tipologie vegetali e gli usi consentiti.
La normativa in questione, all’art. 2, consente la libera coltivazione senza autorizzazione (art. 2) della canapa sativa, indicando gli utilizzi consentiti dei derivati; al contempo, l’art.4 contempla un’espressa esclusione di responsabilità in capo al coltivatore qualora il contenuto complessivo di THC della coltivazione risulti superiore ai limiti ivi indicati.
In mancanza di una disciplina concernente la commercializzazione dei derivati della canapa sativa per usi diversi da quelli espressamente contemplati ed a fronte dell’esenzione da responsabilità prevista dall’art. 4, è insorto un contrasto nella giurisprudenza di legittimità in ordine alla possibilità o meno che la legge n. 242 del 2016 derogasse al testo unico in materia di stupefacenti, consentendo la libera commercializzazione dei prodotti derivati dalla canapa sativa.
L’orientamento prevalente della giurisprudenza di legittimità si è pronunciato nel senso di escludere che la liceità della coltivazione della canapa sativa da parte della legge n. 242 del 2016 avesse comportato una corrispondente liceità della vendita al dettaglio dei prodotti derivanti da tale pianta e potenzialmente aventi natura stupefacente.
In particolare, Sez. 6, n. 56737 del 27/11/2018, Ricci, Rv. 274262, ha affermato che «In tema di stupefacenti, la legge 2 dicembre 2016, n. 242 ha previsto la liceità della sola coltivazione della cannabis sativa L per finalità espresse e tassative, mentre la commercializzazione dei prodotti della coltivazione e le conseguenti condotte di detenzione e cessione di tali derivati continuano a essere sottoposte alla disciplina del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, a condizione che le sostanze presentino comunque un effetto drogante rilevabile. (In motivazione la Corte ha precisato che la “cannabis sativa L” ha natura di sostanza stupefacente, in quanto il generico riferimento alla “cannabis” contenuto nell’art. 14 d.P.R. n. 309 del 1990 e nell’allegata Tabella II è comprensivo di tutte le possibili varianti di tale specie). La Corte ha argomentato tale conclusione valorizzando la previsione di cui all’art. 14 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, e dell’allegata Tabella II, atteso che nell’elencazione delle sostanze stupefacenti, viene indicata la “cannabis” (sotto forma di foglie e inflorescenze, olio, resina), comprensiva di tutte le sue possibili varianti e forme di presentazione. Seguendo tale impostazione, ne deriverebbe che la legge n. 242 del 2016, avrebbe introdotto una disciplina parzialmente derogatoria rendendo lecita, senza preventiva autorizzazione, la sola coltivazione della cannabis sativa L, salvo restando che i prodotti di tale coltivazione continuerebbero ad essere classificati quali sostanze stupefacenti. Nello stesso senso si sono espresse Sez.6, n.52003 del 10/10/2018, Moramarco, Rv.274542; Sez. 4 n. 34332 del 13.6.2018, Durante, Rv. 274763; Sez. 4, n. 57703 del 19/9/2018, Durali, Rv. 274770.
In senso difforme, invece, si è pronunciata Sez. 6, n. 4920 del 29/11/2018 (dep. 2019), Castignani, Rv.274616, secondo cui «In tema di sostanze stupefacenti, è lecita la commercializzazione di inflorescenze di “cannabis sativa L” proveniente da coltivazioni consentite dalla legge 2 dicembre 2016, n. 242, a condizione che i prodotti commercializzati presentino un principio attivo di THC non superiore allo 0.6 %. (In motivazione, la Corte ha precisato che la legge n.242 del 2016 si limita a disciplinare la coltivazione della canapa, senza menzionare la successiva commercializzazione dei prodotti ottenuti da tale attività, in quanto trova applicazione il principio generale che consente la commercializzazione di un bene che non presenti intrinseche caratteristiche di illiceità)».
La Corte è giunta a tale conclusione sulla base di un’articolata argomentazione, che parte dal presupposto secondo cui la varietà di canapa sativa L non rientra nell’ambito applicativo del d.P.R. n. 309 del 1990. Richiamando il testo dell’art.1 della legge n. 242 del 2016, la Corte ha evidenziato come la nuova disciplina «si applica alle coltivazioni di canapa delle varietà ammesse iscritte nel Catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole, ai sensi dell’articolo 17 della direttiva 2002/53/CE del Consiglio, del 13 giugno 2002, le quali non rientrano nell’ambito di applicazione del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309».
Rispetto alle richiamate tesi contrapposte, altre sentenze optavano per una soluzione mediana rispetto a quelle precedentemente emerse.
In particolare, la Terza Sezione, con una pluralità di sentenze aventi contenuto sostanzialmente identico, ha affermato che «In tema di sostanze stupefacenti, è lecita la commercializzazione dei prodotti provenienti da coltivazione di canapa consentita ai sensi della legge 2 dicembre 2016, n. 242. (In motivazione la Corte ha precisato che è lecita la coltivazione che rispetti, congiuntamente, i tre seguenti requisiti: 1) abbia ad oggetto una delle varietà ammesse iscritte nel catalogo europeo delle varietà delle specie di piante agricole, che si caratterizzano per il basso dosaggio di THC; 2) presenti una percentuale di THC nella canapa non superiore allo 0,2%; 3) sia finalizzata alla realizzazione dei prodotti espressamente e tassativamente indicati nell’art. 2, comma 2, l. n. 242 del 2016)» (Sez. 3, n. 7166 del 7/12/2018 – dep. 2019, Bravi, Rv. 275168; in termini sostanzialmente identici si sono espresse anche Sez. 3, n. 7167, del 7/12/2018 – dep. 2019, Sica; Sez. 3, n. 7649, del 7/12/2018 – dep. 2019, Fergember; Sez. 3, n. 10809 del 7/12/2018 – dep. 2019, Totaro; Sez. 3, n. 10810 del 7/12/2018 – dep. 2019, Tiranti).
Le Sezioni Unite, chiamate a risolvere il contrasto giurisprudenziale, hanno sostanzialmente recepito l’orientamento maggioritario, affermando che «In tema di stupefacenti, la cessione, la vendita e, in genere, la commercializzazione al pubblico dei derivati della coltivazione di cannabis sativa L., quali foglie, inflorescenze, olio e resina, integrano il reato di cui all’art. 73, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, anche a fronte di un contenuto di THC inferiore ai valori indicati dall’art. 4, commi 5 e 7, legge 2 dicembre 2016, n. 242, salvo che tali derivati siano, in concreto, privi di ogni efficacia drogante o psicotropa, secondo il principio di offensività. (In motivazione, la Corte ha precisato che la legge 2 dicembre 2016, n. 242, qualifica come lecita unicamente l’attività di coltivazione di canapa delle varietà iscritte nel Catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole, ai sensi dell’art. 17 della direttiva 2002/53/CE del Consiglio, del 13 giugno 2002, per le finalità tassativamente indicate dall’art. 2 della predetta legge)» (Sez. U, n. 30475 del 30/5/2019, Castignani, Rv. 275956).
L’iter argomentativo seguito dalle Sezioni Unite si fonda essenzialmente sul presupposto secondo cui nell’attuale ordinamento penale vige una nozione legale di stupefacente, per cui sono soggette alla normativa che ne vieta la circolazione soltanto le sostanze specificamente indicate negli elenchi appositamente predisposti, che integrano il precetto penale di cui all’art. 73 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309.
A tal proposito è stato richiamato l’insegnamento secondo cui il sistema tabellare è conforme al principio di legalità, poiché è la legge che indica, con idonea specificazione, i presupposti, i caratteri, il contenuto e i limiti dei provvedimenti dell’autorità amministrativa (Sez. U, n. 29316 del 26/02/2015, De Costanzo, Rv. 264263).
Partendo da tale presupposto, le Sezioni Unite hanno operato un compiuto esame della disciplina dettata dal d.P.R. n. 309 del 1990, rilevando come sulla base di tale normativa risulta che:
l’art. 14, comma 1, lett. b), d.P.R. n. 309/1990, stabilisce che nella tabella II sia indicata «la cannabis e i prodotti da essa ottenuti», senza effettuare alcuna distinzione rispetto alle diverse varietà;
la tabella II, inserita dall’art. 1, comma 30, decreto-legge n. 36 del 2014, include, tra le sostanze vietate, «Cannabis (foglie e inflorescenze), Cannabis (olio), Cannabis (resina)», nonché le preparazioni contenenti le predette sostanze in conformità alle modalità di cui alla tabella dei medicinali, senza effettuare alcun riferimento alla percentuale di THC;
l’art. 26, comma 1, d.P.R. n. 309/1990, rubricato Coltivazioni e produzioni vietate, nel testo sostituito dall’art. 1, comma 4, del decreto-legge 20 marzo 2014, n. 36, stabilisce che è vietata nel territorio dello Stato la coltivazione delle piante comprese nelle tabelle I e II di cui all’art. 14, del medesimo testo unico, «ad eccezione della canapa coltivata esclusivamente per la produzione di fibre o per altri usi industriali, diversi da quelli indicati dall’art. 27, consentiti dalla normativa dell’Unione europea»;
l’art. 73, commi 1 e 4, d.P.R. n. 309/1990, nel testo in vigore a seguito della citata sentenza della Corte Costituzionale n. 32 del 2014, che incrimina, tra le diverse condotte ivi elencate, la coltivazione di sostanze stupefacenti o psicotrope di cui alla tabella II dell’art. 14, citato.
Le Sezioni unite hanno sottolineato, inoltre, come la distinzione tra le diverse tipologie di canapa sia stata considerata dal Legislatore il quale, tuttavia, in sede di conversione del d.l. n. 36 del 2014, ha soppresso la parola «indica», che nel testo del decreto qualificava la cannabis, in tal modo discostandosi consapevolmente dalla scelta che era stata operata con il d.l. n. 272 del 2005, che includeva tra le sostanze stupefacenti unicamente la «cannabis indica», non dissimilmente da quanto stabilito nell’originario testo dell’art. 14, d.P.R. n. 309/1990.
Sulla base di tali considerazioni si è affermata la sussistenza della precisa volontà del legislatore del 2014 di qualificare la cannabis quale sostanza stupefacente, in ogni sua varietà, ivi compresa la cannabis sativa.
A fronte dell’indicazione della canapa sativa nell’ambito della tabella II – questione, del resto, non oggetto di contrasto in giurisprudenza – le Sezioni Unite si sono fatte carico di verificare l’eventuale interferenza prodotta dall’introduzione della legge n. 242 del 2016 rispetto all’assetto del testo unico sugli stupefacenti.
La questione, in particolare, ha riguardato l’interpretazione dell’art.1 della legge n. 242 del 2016, il cui secondo comma recita testualmente che « La presente legge si applica alle coltivazioni di canapa delle varietà ammesse iscritte nel Catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole, ai sensi dell’articolo 17 della direttiva 2002/53/CE del Consiglio, del 13 giugno 2002, le quali non rientrano nell’ambito di applicazione del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309».
Quest’ultima locuzione, infatti, era stata interpretata nel senso di ritenere che le varietà di canapa sativa conformi a quelle riportate nel Catalogo comune di matrice europea, non fossero qualificabili quali piante idonee a produrre sostanze stupefacenti, proprio in considerazione della loro intrinseca inidoneità a produrre elevati quantitativi di THC.
Tale soluzione non è stata avallata dalle Sezioni Unite, che hanno valorizzato la normativa europea ed interna volta a promuovere la filiera agro-industriale della canapa sativa, limitatamente agli usi espressamente indicati, tra i quali non rientra l’uso ricreativo.
Partendo da tale premessa, fondata sulla compiuta ricostruzione delle fonti normative in materia, la Corte, nel suo massimo Consesso, ha testualmente affermato che «il sintagma contenuto nell’art. 1, comma 2, legge n. 242 del 2016, ove è stabilito che le coltivazioni di cui si tratta “non rientrano nell’ambito di applicazione del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza”, delinea l’ambito dell’intervento normativo, che riguarda un settore dell’attività agroalimentare ontologicamente estraneo dall’ambito dei divieti stabiliti dal T.U. stup. in tema di coltivazioni. Ciò consente di comprendere appieno, sul piano sistematico, la ragione per la quale la novella non ha effettuato alcuna modifica al dettato del T.U. stup., neppure nell’ambito delle disposizioni che inseriscono la cannabis e i prodotti da essa ottenuti nel delineato sistema tabellare. Infatti, la novella del 2016 non aveva necessità di effettuare alcuna modifica al disposto di cui all’art. 14, d.P.R. n. 309/1990 (che, come sopra rilevato, pure comprende indistintamente la categoria della cannabis) poiché il legislatore del 2016 ha disciplinato lo specifico settore dell’attività della coltivazione industriale di canapa, funzionale esclusivamente alla produzione di fibre o altri usi consentiti dalla normativa dell’Unione europea, attività che non è attinta dal generale divieto di coltivazione, come sancito dal T.U. stup., pure a seguito delle recenti modifiche introdotte all’art. 26, comma 2, T.U. stup., dal ricordato decreto-legge n. 36 del 2014. Rafforza il convincimento rilevare che l’originaria versione dell’art. 1 limitava l’applicazione della legge alle coltivazioni con percentuale di tetraidrocannabinolo inferiore allo 0,3 per cento e che l’art. 5 prevedeva l’introduzione di una modifica espressa del richiamato art. 14, comma 1, lett. a), n. 6, T.U. stup., con l’indicazione di un limite soglia di principio attivo, superiore allo 0,5 per cento: ma si tratta di previsioni che non si rinvengono nel testo della legge n. 242 del 2016, definitivamente approvato».
Sulla base di tali osservazioni, la coltivazione della canapa sativa e la commercializzazione dei suoi derivati sono attività lecite a condizione che siano rivolte agli usi “tassativamente” indicati dall’art. 2, comma 2, legge n. 242 del 2016.
In conclusione le Sezioni unite hanno affermato che «la coltivazione di cannabis sativa L. ad uso agroalimentare, promossa dalla legge n. 242 del 2016, è stata utilmente definita sia mediante l’indicazione della varietà di canapa di cui si tratta, sia in considerazione dello specifico ambito funzionale dell’attività medesima, che non contempla l’estrazione e la commercializzazione di alcun derivato con funzione stupefacente o psicotropa. Pertanto, dalla coltivazione di cannabis sativa L. non possono essere lecitamente realizzati prodotti diversi da quelli elencati dall’art. 2, comma 2, legge n. 242 del 2016 e, in particolare, foglie, inflorescenze, olio e resina».
Né a diversa soluzione può condurre l’espressa possibilità che la canapa sia destinata ad uso alimentare, avendo le Sezioni unite ritenuto che tale modalità di impiego presuppone la presenza di meri “residui” di THC, salvo restando che l’individuazione del limite massimo consentito è rimesso ad un successivo decreto ministeriale (art.5) allo stato non ancora adottato.
Una volta esclusa la possibilità di estendere la disciplina della legge n. 242 del 2016 alla commercializzazione dei derivati della canapa sativa destinati ad usi diversi da quelli contemplati dall’art. 2, le Sezioni Unite hanno affrontato l’ambito di applicazione delle ipotesi di esonero da responsabilità contemplate all’art. 4.
Tale norma prevede che vengano effettuati controlli sulle coltivazioni di canapa mediante il prelevamento di campioni provenienti da colture in pieno campo, ai fini della determinazione quantitativa del contenuto di tetraidrocannabinolo (THC). L’art. 4, comma 5, legge n. 242 del 2016, stabilisce, al riguardo, che, qualora all’esito del controllo il contenuto complessivo di THC della coltivazione risulti superiore allo 0,2 per cento ed entro il limite dello 0,6 per cento, «nessuna responsabilità è posta a carico dell’agricoltore che ha rispettato le prescrizioni di cui alla presente legge»; il successivo comma 7 stabilisce che, in caso di superamento del valore soglia dello 0,6 per cento di THC, l’autorità giudiziaria può disporre il sequestro e la distruzione della coltivazione, fermo restando l’esonero da responsabilità del coltivatore.
Le Sezioni Unite hanno affermato che «Si tratta di misure volte a tutelare esclusivamente l’agricoltore che, pur impiegando qualità consentite, nell’ambito della filiera agroalimentare delineata dalla novella del 2016, coltivi canapa che, nel corso del ciclo produttivo, risulti contenere, nella struttura, una percentuale di THC compresa tra lo 0,2 per cento e lo 0,6 per cento, ovvero superiore a tale limite massimo. Il comma 5 stabilisce che, nel primo caso, nessuna responsabilità è posta a carico dell’agricoltore che ha rispettato le prescrizioni di cui alla presente legge; e il comma 7, nel prevedere la possibilità che vengano disposti il sequestro o la distruzione delle coltivazioni di canapa che, se pure impiantate nel rispetto delle disposizioni stabilite dalla legge, presentino un contenuto di THC superiore allo 0,6 per cento, ribadisce che, anche in tal caso, è esclusa la responsabilità dell’agricoltore. Si tratta di clausole di esclusione della responsabilità che riguardano il solo coltivatore, che realizza le colture di cui all’art.1, legge n. 242 del 2016, per il caso in cui la coltura lecitamente impiantata, in corso di maturazione, presenti percentuali di THC superiori ai valori soglia indicati del medesimo testo normativo del 2106 ».
Per converso, è stata esclusa la possibilità di valorizzare i suddetti limiti quantitativi di principio attivo per ritenere lecita la commercializzazione dei prodotti contenti THC, ove contenenti percentuali inferiori allo 0,6 ovvero allo 0,2 per cento.
Sottolineano le Sezioni Unite come «non assume alcuna rilevanza, al fine di escludere la illiceità della condotta, il mancato superamento delle percentuali di THC di cui all’art. 4, commi 5 e 7, legge n. 242 del 2016, atteso che tali valori riguardano esclusivamente il contenuto consentito di THC presente nella coltivazione - e non nei derivati - nell’ambito della specifica attività di coltivazione agroindustriale della canapa, per gli usi consentiti, delineata dalla stessa novella, anche in riferimento alla erogazione dei contributi al coltivatore, secondo la disciplina sovranazionale già sopra ricordata. Pertanto, la commercializzazione di foglie, inflorescenze, olio e resina, derivanti dalla coltivazione di cannabis sativa L., integra la fattispecie di reato di cui all’art. 73, commi 1 e 4, T.U. stup., atteso che la tabella II richiama testualmente tali derivati della cannabis, senza effettuare alcun riferimento alle concentrazioni di THC presenti nel prodotto. Ed il fatto che la norma incriminatrice di cui all’art. 73, commi 1 e 4, T.U. stup., riguardante la circolazione delle sostanze indicate dalla Tabella II, non effettui alcun riferimento alle concentrazioni di THC presenti nel prodotto commercializzato, non risulta incoerente rispetto ai limiti di tollerabilità di cui all’art. 4, commi 5 e 7, legge n. 242 del 2016, stante la disomogeneità sostanziale dei termini di riferimento. La norma incriminatrice, infatti, riguarda la commercializzazione dei derivati della coltivazione - foglie, inflorescenze, olio e resina - ove si concentra il tetraidrocannabinolo; diversamente, la novella del 2016, nel promuovere la coltivazione agroindustriale della canapa a basso contenuto di THC, proveniente da semente autorizzata, pone dei limiti soglia rispetto alla concentrazione presente nella coltura medesima, rilevanti anche ai fini della erogazione dei benefici economici per il coltivatore ed elenca tassativamente i prodotti che è possibile ottenere dalla coltivazione, tra i quali non sono ricompresi foglie, inflorescenze, olio e resina. »
Una volta affermato che la coltivazione di canapa sativa è consentita solo per la realizzazione dei prodotti destinati agli utilizzi previsti dall’art. 2, legge n. 242 del 2016 e che i limiti di THC contemplati all’art.4 introducono soglie di esclusione della responsabilità riferite ai soli coltivatori, le Sezioni Unite si sono poste il problema della compatibilità di tali conclusioni rispetto al generale principio di offensività della condotta.
Secondo una consolidata giurisprudenza di legittimità, avallata anche da plurime pronunce della Corte costituzionale (da ultimo sent.n. 109 del 2016), deve escludersi la configurabilità del reato di cui all’art. 73, d.P.R. 309 del 1990 lì dove la sostanza oggetto di cessione, pur se astrattamente riconducibile ad una delle tipologie tabellarmente previste, è in concreto inidonea a produrre alcun effetto drogante (Sez. 4, n. 6207 del 12/02/2009, Stefanelli, Rv. 242860; Sez. 4, n. 4324 del 27/10/2015, dep. 2016, Mele, Rv. 265976; Sez. 3, n. 47670 del 09/10/2014, Aiman, Rv. 261160; Sez. 6, n. 8393 del 22/01/2013, Cecconi, Rv. 25485701).
È stato, pertanto, ribadito il principio secondo cui ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 73 del d. P.R. n. 309 del 1990 è necessario dimostrare, con assoluta certezza, che il principio attivo contenuto nella dose destinata allo spaccio, o comunque oggetto di cessione, sia di entità tale da poter produrre in concreto un effetto drogante (in tal senso si veda Sez. 6, n. 6928 del 22/02/2012, Choukrallah, Rv. 252036).
Sulla base di tali principi, le Sezioni Unite hanno affermato che «secondo il vigente quadro normativo, l’offerta a qualsiasi titolo, la distribuzione e la messa in vendita dei derivati dalla coltivazione della cannabis sativa L., infatti, integrano la fattispecie incriminatrice ex art. 73, d.P.R. n. 309/1990. Ciò nondimeno, si impone l’effettuazione della puntuale verifica della concreta offensività delle singole condotte, rispetto all’attitudine delle sostanze a produrre effetti psicotropi. Tanto si afferma, alla luce del canone ermeneutico fondato sul principio di offensività, che, come detto, opera anche sul piano concreto, di talché occorre verificare la rilevanza penale della singola condotta, rispetto alla reale efficacia drogante delle sostanze oggetto di cessione».
È opportuno precisare che le Sezioni Unite non hanno affrontato – né avrebbero potuto, non essendo stato a loro demandato – l’individuazione della soglia di principio attivo di THC a fronte della quale può ritenersi scientificamente dimostrata la produzione di effetti psicotropi; del resto, l’accertamento in concreto dell’efficacia drogante è questione tipicamente di merito.
Per mera completezza, tuttavia, si evidenzia come in pronunce – invero risalenti – la Cassazione ha avuto modo di affrontare la questione della efficacia drogante del THC, recependo le indicazioni scientifiche secondo cui gli effetti psicotropi si producono, di norma, a fronte della presenza di un principio attivo non inferiore allo 0,5% (Sez. 1, n. 5753 del 23/01/1987, Rosi, Rv. 175932; Sez. 1, n. 7530 del 25/06/1989, Bellinger, Rv. 181369; Sez. 4, n. 27404 del 13/11/2007, dep. 2008, Fabris; Sez. 6, n. 5068 del 21/11/1990, Solom, Rv. 187558).
L’aspetto concernente l’individuazione della soglia di effettiva capacità drogante, espressamente riferita ai derivati della canapa sativa, resta, pertanto, oggetto di necessario accertamento in fase di merito.
Sentenze della Corte di cassazione
Sez. U, n. 30475 del 30/5/2019, Castignani, Rv. 275956
Sez. 3, n. 7167, del 7/12/2018 – dep. 2019, Sica
Sez. 3, n. 7649, del 7/12/2018 – dep. 2019, Fergember
Sez. 3, n. 10809 del 7/12/2018 – dep. 2019, Totaro
Sez. 3, n. 10810 del 7/12/2018 – dep. 2019, Tiranti
Sez. 3, n. 7166 del 7/12/2018 – dep. 2019, Bravi, Rv. 275168
Sez. 6, n. 4920 del 29/11/2018- dep. 2019, Castignani, Rv. 274616
Sez. 6, n. 56737 del 27/11/2018, Ricci, Rv. 274262
Sez. 6, n. 52003 del 10/10/2018, Moramarco, Rv. 274542
Sez. 4, n. 57703 del 19/9/2018, Durali, Rv. 274770
Sez. 4 n. 34332 del 13.6.2018, Durante, Rv. 274763
Sez. 4, n. 4324 del 27/10/2015, Mele, Rv. 265976
Sez. U, n. 29316 del 26/02/2015, De Costanzo, Rv. 264263
Sez. 3, n. 47670 del 09/10/2014, Aiman, Rv. 261160
Sez. 6, n. 8393 del 22/01/2013, Cecconi, Rv. 25485701
Nell’anno 2019 si registrano numerose pronunce relative al delitto di traffico organizzato di rifiuti.
Come noto, la fattispecie di cui all’art. 260 del d.lgs. 152 del 2006 ha costituito il primo, e per molti anni l’unico, delitto in materia ambientale.
Con l’art. 3 del d.lgs. 1 marzo 2018, n. 21, disposizioni di attuazione del principio di delega della riserva di codice nella materia penale a norma dell’articolo 1, comma 85, lettera q), della legge 23 giugno 2017, n. 103, la previsione dell’art. 260, abrogata dall’art. 7 del medesimo decreto, è stata integralmente riprodotta nell’art. 452-quaterdecies cod. pen., che è stato a sua volta incluso nel novero dei reati di cui all’art. 51 comma 3 - bis cod. proc. pen. tra le materie di competenza della Direzione distrettuale antimafia.
La giurisprudenza della Suprema Corte nell’anno in rassegna si è pronunciata sia in relazione al previgente art. 260, affermando principi di diritto che evidentemente sono validi anche per il novello articolo 452 – quaterdecies cod.pen., sia su quest’ultimo delitto, in alcuni casi ribadendo approdi interpretativi già esistenti nel panorama di legittimità, in altri elaborandone di nuovi.
Tra le pronunce annoverabili tra quelle “innovative” va menzionata la decisione di Sez. 1, n. 16123 del 12/11/2018, dep. 2019, Gup trib. Roma, Rv. 27639101 in cui si è affrontata la rilevante tematica della competenza per territorio determinata da connessione ex art. 12 cod. proc. pen. tra il reato di attività organizzata per il traffico illecito di rifiuti, di cui all’art. 260, d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, in quanto reato incluso nell’elencazione dell’art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen., ed altri reati di maggiore gravità.
Prima di procedere all’analisi del contenuto di tale decisione è opportuno far riferimento al relativo quadro normativo ed alla interpretazione che ne ha dato la giurisprudenza di legittimità; è inoltre imprescindibile dare conto dell’esistenza di una posizione interpretativa del tutto opposta a quella fornita nella decisione del 2019.
L’art. 51, cod. proc. pen., fissa in linea generale la ripartizione delle funzioni fra i diversi uffici del pubblico ministero; con particolare riferimento al profilo della competenza territoriale, il comma 3 della disposizione citata prevede che dette funzioni, fermo il criterio di attribuzione legato alla fase del procedimento, sono assegnate all’ufficio del pubblico ministero presso il giudice competente a norma del capo II del titolo I del codice di rito, in applicazione di quanto previsto dagli artt. da 4 a 16 dello stesso codice.
Tale previsione è derogata, in base alla disciplina di cui al successivo comma 3 - bis, nelle ipotesi di procedimenti aventi ad oggetto i reati indicati nell’elenco contenuto nel medesimo articolo, elenco progressivamente ampliato dal legislatore rispetto alla originaria previsione normativa di cui all’art. 3 del d.l. 20 novembre 1991, convertito con modificazioni con la l. 20 gennaio 1992, n. 8.
In tal caso, precisa la medesima disposizione, le funzioni indicate nel citato art. 51, comma 1, lett. a, (vale a dire: quelle del pubblico ministero riferite alla fase delle indagini e del giudizio di primo grado) sono attribuite all’ufficio del pubblico ministero presso il tribunale del capoluogo del distretto nel cui ambito ha sede il giudice competente.
La giurisprudenza di legittimità precedente all’inserimento nel novero dei reati cosiddetti distrettuali della violazione prevista dall’art. 260 del Testo unico dell’ambiente, ha interpretato la disposizione nel senso che l’attribuzione delle funzioni inquirenti per tali reati all’ufficio del Pubblico ministero presso il tribunale del capoluogo del distretto nel cui ambito ha sede il giudice competente, comporta una deroga assoluta ed esclusiva alle regole sulla competenza per territorio, anche fuori dagli ambiti distrettuali, perché stabilisce la vis attractiva del reato ricompreso nelle attribuzioni di quell’ufficio inquirente nei confronti dei reati connessi, anche se di maggiore gravità, con la conseguenza che, ai fini della determinazione della competenza, occorre avere riguardo unicamente al luogo di consumazione del reato per il quale vi è l’attribuzione delle predette funzioni alla Procura distrettuale (Sez. 2, n. 19831 del 11/04/2006, Mohammad, Rv. 234664; Sez. 1, n. 40012 del 05/10/2005, confl. comp. in proc. D’Amaro, Rv. 232949; Sez. 1, n. 21354 del 18/05/2005, confl. comp. in proc. Daiu, Rv. 231805, Sez. 6, Sentenza n. 4345 del 30/09/2003, dep. 2004, Arone ed altri, Rv. 228675; Sez. 6, Sentenza n. 2850 del 04/12/2003, dep. 2004, Odigie, Rv. 229767, in tema di concorso tra il delitto associativo di cui all’art. 74 d.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309 e alcuni più gravi reati di importazione, detenzione o cessione di ingenti quantità di sostanze stupefacenti).
Tale principio si riconnette direttamente a quanto già in passato sostenuto dalla Suprema Corte, laddove ebbe ad affermare che il comma 3- bis dell’art. 51, cod. proc. pen., istituisce per i reati in esso elencati una deroga agli ordinari criteri di determinazione della competenza per territorio, di carattere assoluto, con prevalenza della attribuzione al giudice del capoluogo distrettuale su qualunque altra regola di individuazione della competenza (Sez. 4, n. 17386 del 09/03/2006, Sirica, Rv. 233964).
La prima decisione che ha affrontato la tematica della forza attrattiva dell’art 260 del TUA è stata Sez. 3, n. 52512 del 22/05/2014, Pelaggi, Rv. 261511.
In essa si è affermato che, in tema di competenza per territorio, allorquando fra i reati connessi ai sensi dell’art. 12 cod. proc. pen. siano presenti reati di natura non associativa ricompresi fra quelli di cui all’art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen., la deroga al principio generale - per il quale in caso di connessione fra reati la competenza spetta al giudice competente per il reato più grave - è limitata al solo trasferimento al giudice in sede distrettuale della competenza già attribuita, secondo le regole ordinarie, ad altro giudice del medesimo distretto.
Tale decisione ha pertanto escluso che il procedimento per il delitto di cui all’art. 260 d.lgs. n. 152 del 2006, sebbene incluso fra quelli di cui all’art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen., potesse esercitare forza attrattiva rispetto ai procedimenti connessi che riguardino reati più gravi, commessi nel territorio di altro distretto, in quanto non avente struttura associativa.
Sul punto la pronuncia ha evidenziato che l’indirizzo consolidato, dal quale in parte si discostava, si era affermato in riferimento ai reati all’epoca inclusi nell’elenco del 51 comma 3- bis del codice di rito - tra i quali non era stato ancora inserito l’art. 260, d.lgs. 152 del 2006 - consistenti in fattispecie nelle quali il reato di competenza distrettuale era costituito da un reato associativo o comunque strettamente connesso all’ambito associativo, e che, pertanto, i principi di diritto in esso affermati erano da ritenere validi esclusivamente in relazione a tali tipologie di reati.
L’ipotesi prevista dall’art. 260 cit. ad avviso della Corte, meritava, invece, una diversa considerazione, poichè non essendovi, a monte della commissione del reato di traffico illecito di rifiuti, una struttura pluripersonale organizzata, la deroga al criterio generale fissato dall’art. 16, comma 1, cod. proc. pen., secondo cui, nel caso di connessione ex art. 12 cod. proc. pen., la competenza territoriale penale si radica presso il giudice competente per il reato più grave, non avrebbe avuto giustificazione.
In questa prospettiva, la decisione richiamata evidenziava che l’eccezionalità del criterio in deroga derivante dalla previsione di cui all’art. 51, comma 3-bis, cit. «dovrebbe imporre un’interpretazione restrittiva, in guisa da limitare l’operatività del criterio medesimo alle sole ipotesi in cui si tratti di un reato associativo, sia pure in senso lato, così prestando ossequio al principio del giudice naturale precostituito per legge, anche a salvaguardia di un efficiente esercizio del diritto di difesa».
Nella decisione resa da Sez. 1, n. 16123 del 12/11/2018, dep. 2019, Gup trib. Roma, Rv. 27639101, che sviluppa le argomentazioni già contenute in Sez. 1, n. 43599 del 5/7/2017, Gip Tribunale di Nola, n.m., i giudici della prima sezione, ribadiscono quanto affermato dal consolidato orientamento giurisprudenziale della Corte di legittimità in ordine alla vis attractiva del reati ricompresi nell’elencazione di cui all’art. 51 comma 3-bis nei confronti dei reati connessi anche se di maggiore gravità, applicando tale principio alla specifica ipotesi di cui all’art. 260 del TUA, oggi art. 452 - quaterdecies cod. pen.
Chiariscono che la scelta operata all’art. 51, comma 3 - bis, cod. proc. pen. è di natura normativa e predetermina, per una serie di reati, il criterio di attribuzione delle funzioni del pubblico ministero, su cui si ritiene, sulla scorta della comune prospettiva fatta propria dalle interpretazioni richiamate, radicata di riflesso la competenza territoriale del giudice e che, per tale ragione, non vi è motivo di ritenere che la vis acctractiva sia esercitata, all’interno di tale catalogo, dalla sola categoria dei reati associativi come sostenuto da Sez. 3, n. 52512 del 22/05/2014, Pelaggi.
Tale non è stata l’intenzione del legislatore, ed una tale interpretazione, si aggiunge, potrebbe determinare effetti distonici rispetto al principio costituzionale del giudice naturale precostituito per legge, per l’incertezza che obiettivamente da essa deriverebbe.
La Corte afferma che i delitti di cui all’art. 51, comma 3-bis, cit. (al pari di quelli di cui ai successivi commi 3-quater e poi 3-quinquies) individuano, per la maggior parte, fattispecie di natura associativa, ma più in generale evocano condotte antigiuridiche radicate in fenomeni di criminalità organizzata che, alla stregua dell’esperienza vissuta e dei conseguenti rimedi ordinamentali apprestati, necessitano di essere contrastati con indagini che abbiano un coordinamento accentrato negli uffici distrettuali del pubblico ministero disciplinati dallo stesso art. 51, con gli effetti a cascata in punto di competenza territoriale ritenuti ineludibili dall’esegesi richiamata.
Si osserva che molte delle figure criminose incluse nell’art. 51 comma 3 bis - l’art. 260 del TUA, ma anche i reati di cui all’art. 600, 601, 602, 630 cod. pen. - riguardano direttamente reati non aventi carattere associativo, e che a fronte della nettezza del dato normativo, non è possibile pervenire in via interpretativa alla creazione di una sorta di doppio binario nella configurazione delle caratteristiche e dei limiti della corrispondente competenza per territorio determinata da ragioni di connessione «giacché esso si fonderebbe su elementi non risultanti da criteri predeterminati per legge: criteri che il legislatore, pur avendo (con il d.lgs. n. 21 del 2018) mutato la collocazione ordinamentale al reato in esame, da art. 260 d.lgs. n. 152 del 2006 ad art. 452-quaterdecies cod. pen., non ha, allo stato, modificato».
La decisione in rassegna afferma, quindi, il principio di diritto secondo cui in tema di competenza territoriale non è consentito operare alcuna distinzione tra i reati elencati nell’art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen., con la conseguenza che, ove si proceda per uno qualsiasi di essi e per reati connessi, anche più gravi, la competenza territoriale del primo esercita una vis attractiva anche sugli altri, aderendo all’indirizzo maggioritario e rendendo inopportuna l’evocazione del vaglio delle Sezioni Unite, sollecitata da alcuna delle parti.
Tra le pronunce che, invece, hanno consolidato indirizzi ermeneutici preesistenti, va segnalata Sez. 3, n. 16036 del 28/02/2019, Zoccoli, Rv. 27539502, in cui la Terza Sezione ha affermato che il delitto di attività organizzata per il traffico illecito di rifiuti ha natura di reato abituale proprio in quanto necessariamente caratterizzato da una pluralità di condotte, alcune delle quali, se singolarmente considerate, potrebbero non costituire reato e si consuma con la cessazione dell’attività organizzata finalizzata al traffico illecito.
Tale decisione ha dato continuità all’indirizzo giurisprudenziale che ha avuto la sua iniziale espressione in Sez. 3, n. 46705 del 03/11/2009, Caserta, Rv. 245605, in cui si annoverano anche Sez. 3, n. 44629 del 22/10/2015, Bettelli, Rv. 265573; Sez. 3, n. 52838 del 14/07/2016, Serrao, Rv. 268920; Sez. 3, n. 44449 del 15/10/2013, Ghidoli, Rv. 258326; Sez. 3, n. 29619 del 08/07/2010, Leorati e altri, Rv. 248145.
Nella decisione Sez. 3, n. 46705 del 03/11/2009, i giudici di legittimità avevano, infatti, specificato in maniera analitica che il delitto in esame implica una pluralità di condotte in continuità temporale - relative ad una o più delle diverse fasi nella quali si concretizza ordinariamente la gestione dei rifiuti- e più operazioni illegali di soggetti che, al fine di conseguire un ingiusto profitto, fanno della illecita gestione dei rifiuti la loro redditizia, anche se non esclusiva attività.
Queste operazioni, considerate singolarmente, possono essere inquadrate sotto altre e meno gravi fattispecie, ma valutate in modo globale integrano gli estremi del reato previsto dal d. lgs. n. 152 del 2006, art. 260; in altre parole, alla pluralità delle azioni, che è elemento costitutivo del fatto, corrisponde una unica violazione di legge. Pertanto, il reato deve considerarsi abituale dal momento che per il suo perfezionamento è necessaria la realizzazione di più comportamenti della stessa specie, con la conseguenza che la competenza deve essere individuata nel luogo in cui le varie frazioni della condotta, per la loro reiterazione, hanno determinato il comportamento punibile.
Un ulteriore aspetto affrontato dalla Corte di legittimità attiene al significato della nozione di “ingente quantitativo di rifiuti”, requisito necessario per configurare il delitto di attività organizzata per il traffico illecito ex art. 260 d. lgs. n. 152 del 2006 e la nuova disposizione di cui all’art. 452 - quaterdecies cod. pen.
Nella decisione Sez. 3, n. 39952 del 16/04/2019, Radin, in corso di massimazione, si è affermato che la valutazione sulla sussistenza di tale elemento, deve riferirsi al quantitativo complessivo di rifiuti trattati attraverso la pluralità delle operazioni svolte, anche quando queste ultime, singolarmente considerate, possono essere qualificate di modesta entità ed anche quando la condotta si sia svolta in un arco temporale di diversi anni.
Anche in tale ipotesi, la decisione si inserisce in un solco ermeneutico già tracciato da precedenti sentenze, quali ad esempio Sez. 3, n. 46950 del 11/10/2016, Sepe, Rv. 268667, in cui, oltre al principio enunciato, si è anche affermato che l’ingente quantitativo non può essere individuato a priori, attraverso riferimenti esclusivi a dati specifici, quali, ad esempio, quello ponderale, dovendosi al contrario basare su un giudizio complessivo che tenga conto delle peculiari finalità perseguite dalla norma, della natura del reato e della pericolosità per la salute e l’ambiente e nell’ambito del quale l’elemento quantitativo rappresenta solo uno dei parametri di riferimento; e Sez. 3, n. 12433 del 15/11/2005, dep. 2006 P.M. in proc. Costa, Rv. 234009, in cui il principio veniva affermato in relazione alla previgente fattispecie disciplinata dall’art. 53 bis, d.lgs. n. 22 del 1997.
Tra le decisioni del 2019 meritano di essere menzionale due pronunce che hanno affrontato specificamente aspetti relativi al nuovo reato di cui all’art. 452 - quaterdecies cod. pen.
La prima è Sez. 3, n. 43710 del 23/05/2019, Pmt c/ Gianino Francesco, Rv. 276937.
Nella decisione si è affermato che ai fini dell’integrazione del reato di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti, di cui all’art. 452-quaterdecies cod. pen., è sufficiente che anche una sola delle fasi di gestione dei rifiuti avvenga in forma organizzata, in quanto la norma incriminatrice indica in forma alternativa le varie condotte che, nell’ambito del ciclo di gestione, possono assumere rilievo penale.
Nel caso di specie il Tribunale di Catania, in accoglimento della richiesta di riesame presentata dall’indagato, aveva annullato il decreto di sequestro preventivo, in via diretta e per equivalente, disposto dal Giudice per le indagini preliminari del medesimo Tribunale, in relazione alla contestazione del reato di attività organizzata per il traffico illecito di rifiuti, di cui all’art. 452 - quaterdecies cod. pen., essendo stato accertata la sistematica illecita miscelazione di rifiuti sanitari infetti prodotti a bordo di navi con quelli solidi urbani, ascrivibile al titolare di un’agenzia marittima che si occupava di predisporre i documenti relativi agli arrivi e alle partenze delle navi ONG operanti per il soccorso di migranti.
Il tribunale, pur ribadendo la pericolosità delle plurime operazioni di conferimento di rifiuti e l’abitualità della condotta, aveva escluso la configurabilità del reato di cui all’art. 452 - quaterdecies cod. pen., anche per la mancanza dell’allestimento di mezzi e di attività continuative organizzate, cioè di una struttura, anche rudimentale, nel cui alveo ricondurre i traffici illeciti.
In particolare, il giudice di merito aveva affermato che il mancato allestimento di specifiche risorse nell’ambito di una struttura deputata al traffico illecito di rifiuti, lo svolgimento delle attività di raccolta e conferimento dei rifiuti mediante attività semplici, non implicanti l’utilizzo di mezzi né l’esistenza di un’organizzazione - in quanto consistenti nella mera collocazione dei rifiuti sanitari all’interno di sacchi e nello scarico degli stessi sottobordo - non consentiva di qualificare l’attività come “organizzata”.
La Suprema Corte, di contrario avviso, ha in primo luogo ribadito il principio di diritto secondo cui la preparazione e un allestimento di specifiche risorse, anche del tutto rudimentale, richiesta dall’articolo in oggetto, può configurarsi anche in presenza di una struttura organizzativa di tipo imprenditoriale, idonea ed adeguata a realizzare l’obiettivo criminoso preso di mira, anche quando essa non sia destinata, in via esclusiva, alla commissione di attività illecite, con la conseguenza che il reato è configurabile anche quando l’attività criminosa sia marginale o secondaria rispetto all’attività principale lecitamente svolta.
Secondariamente ha aggiunto che anche la semplice titolarità dell’impresa, attraverso la quale l’indagato ponga in essere le condotte oggetto di contestazione, assume di per sé un peso al fine della configurabilità della esistenza di un’attività organizzata.
Quest’ultima può venire in rilievo anche con riferimento solamente a una parte della complessiva attività di raccolta, conferimento e smaltimento di rifiuti, nel senso che non occorre che tutte le fasi di tale attività vengano svolte in forma organizzata e che in ogni fase vi sia la consapevolezza della partecipazione a un’attività illecita e il fine di ingiusto profitto, essendo sufficiente per ritenere configurabile il reato che, nell’ambito di detta complessiva attività, s’inserisca la condotta di chi, al fine di conseguire un ingiusto profitto, costituisca o si avvalga di un’organizzazione allo scopo di realizzare un traffico continuativo e illegale di ingenti quantitativi di rifiuti.
Non è necessario, dunque, che ogni fase della attività di gestione dei rifiuti avvenga in forma organizzata e sia realizzata abusivamente (nel senso anzidetto) e a fine di ingiusto profitto, posto che ciò non è richiesto dalla norma incriminatrice, che, anzi, descrive, chiaramente in forma alternativa, le varie condotte che nell’ambito del ciclo di gestione possono assumere rilievo al fine della configurabilità del delitto di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti.
La seconda è Sez. 3, n. 16056 del 28/02/2019, Berlingeri Antonio, Rv. 27539901, i cui si è affermato anche in relazione alla nuova fattispecie di cui all’art. 452 - quaterdecies, cod. pen., il principio di diritto già enunciato in tema di art. 260 d.lgs. 152 del 2006 secondo cui “il profitto del delitto di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti può consistere non soltanto in un ricavo patrimoniale, ma anche nel vantaggio conseguente dalla mera riduzione dei costi aziendali o nel rafforzamento di una posizione all’interno dell’azienda, ed è ingiusto qualora discenda da una condotta abusiva che, oltre ad essere anticoncorrenziale, può anche essere produttiva di conseguenze negative, in termini di pericolo o di danno, per la integrità dell’ambiente, impedendo il controllo da parte dei soggetti preposti sull’intera filiera dei rifiuti”. (Negli stessi termini Sez. 4, n. 29627 del 21/04/2016, Silva e altri, Rv. 267845 – 01).
Nell’anno 2019, la Suprema Corte, con la decisione Sez. 3, n. 26007 del 05/04/2019, Pucci, Rv. 276015, si è pronunciata in ordine al delitto di inquinamento ambientale di cui all’art. 452 - bis cod. pen., che punisce “chiunque abusivamente cagiona una compromissione o un deterioramento significativi e misurabili: 1) delle acque o dell’aria, o di porzioni estese o significative del suolo o del sottosuolo; 2) di un ecosistema, della biodiversità, anche agraria, della flora o della fauna. Quando l’inquinamento è prodotto in un’area naturale protetta o sottoposta a vincolo paesaggistico, ambientale, storico, artistico, architettonico o archeologico, ovvero in danno di specie animali o vegetali protette, la pena è aumentata”.
La Terza sezione ha affermato il seguente principio di diritto: “il delitto di inquinamento ambientale di cui all’art. 452 - bis cod. pen. costituisce un reato a dolo generico, per la cui punibilità è richiesta la volontà di “abusare” del titolo amministrativo di cui si ha la disponibilità, con la consapevolezza di poter determinare un inquinamento ambientale, essendo punibile, pertanto, anche a titolo di dolo eventuale”.
Nel caso sottoposto all’attenzione della Corte, il gip aveva emesso un decreto di sequestro preventivo di un impianto di depurazione delle acque urbane del comune di Briatico affidato in gestione alla società dell’indagato, nei confronti del quale si procedeva per i reati di cui agli artt. 452 - bis e 635 comma 2 cod. pen., e all’art. 181, in relazione all’art. 142, d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42.
Il sequestro aveva tratto origine dagli accertamenti svolti dalla polizia giudiziaria, che, a seguito dell’ispezione sull’impianto e della istallazione di un sistema di videosorveglianza, aveva riscontrato oltre ad altre criticità, anche la presenza di un bypass, tramite il quale i reflui fognari in esso confluiti senza alcun trattamento in ingresso venivano sversati nella condotta sottomarina.
Avverso tale sequestro, l’indagato aveva proposto istanza di riesame finalizzata a dimostrare che la sua condotta non era sorretta da dolo.
Nella sua difesa, infatti, egli non contestava la presenza del bypass, ma imputava l’esistenza dello stesso alla gestione precedente, ed all’inattività dell’amministrazione comunale che, in occasione della consegna dell’impianto, si era fatta carico di realizzare gli interventi urgenti necessari per evitare il by-pass dei liquami e, nello specifico, di installare il misuratore di portata al bypass secondo l’autorizzazione rilasciata dall’Amministrazione provinciale, attività mai realizzate.
Sosteneva, inoltre, che l’impianto di depurazione presentava tutte le sezioni di trattamento sottodimensionate, e che pertanto il mancato trattamento di una parte dei liquami sarebbe stata collegata a oggettive carenze strutturali e non a un disegno doloso.
Sottolineava, infine, che vi erano stati due appalti di lavoro durante la gestione della società. I lavori del primo erano stati approvati e ultimati prima della data del dissequestro e, nonostante questi, il custode aveva ritenuto l’impianto carente. I secondi, al momento del sequestro non erano ancora stati ultimati, ma erano in corso di esecuzione.
Il Tribunale aveva rigettato l’istanza di riesame in quanto finalizzata a dimostrare la mancanza di dolo dell’indagato, sottolineando che, in fase cautelare, è sufficiente la sola sussistenza dell’astratta sussumibilità dei fatti nella fattispecie di reato di cui all’ipotesi accusatoria, elemento ricorrente nel caso di specie.
L’indagato, aveva, quindi proposto ricorso per cassazione deducendo, con un unico motivo, violazione di legge in relazione agli artt. 321 cod. proc. pen., con riferimento ai reati contestati, osservando che sebbene fosse pacifico che l’autorità giudiziaria si debba limitare a verificare l’astratta configurabilità di un reato, avrebbe anche dovuto verificare se il reato era soggettivamente collegato a colui che subiva il sequestro, il quale avrebbe dovuto essere l’autore del reato.
La Corte, nella decisione citata ha precisato che il delitto di cui all’art. 452 - bis, cod. pen., è reato a dolo generico, per la cui punibilità è richiesta la volontà di “abusare” del titolo amministrativo di cui si ha la disponibilità, con la consapevolezza di poter determinare un inquinamento ambientale, motivo per cui il reato è punibile anche a titolo di dolo eventuale.
Nel caso di specie, ha evidenziato la terza sezione, la società affidataria del servizio di gestione dell’impianto di depurazione, era perfettamente consapevole sin dell’esistenza del by-pass (tanto che nello stesso ricorso si afferma che l’esistenza del sistema by-pass era antecedente alla gestione della stessa), ed aveva, quindi, proseguito la gestione dell’impianto in condizioni di irregolarità pur consapevole di tali condizioni, accettando consapevolmente il rischio del verificarsi dell’evento costituito dall’inquinamento ambientale conseguente alla prosecuzione delle attività.
La decisione si aggiunge alle numerose sentenze di legittimità che hanno chiarito aspetti di rilievo collegati alla nuova fattispecie.
Sul significato da attribuire al concetto di “abusività” della condotta si registrano numerose decisioni: Sez. 3, n. 15865 del 31/01/2017, Rizzo, Rv. 269491; Sez. 3, n. 46170 del 21/09/2016, P.M. in proc. Simonelli, Rv. 268060; Sez. 3, n. 10515 del 27/10/2016; Sorvillo, Rv. 269274, nelle quali da un lato si afferma che è da ritenere abusiva non soltanto la condotta posta in essere in assenza delle prescritte autorizzazioni o sulla base di autorizzazioni scadute o palesemente illegittime o comunque non commisurate alla tipologia di attività richiesta, ma anche quella posta in essere in violazione di leggi statali o regionali - ancorché non strettamente pertinenti al settore ambientale - ovvero di prescrizioni amministrative; dall’altro che, ai fini della integrazione del reato, non è necessario che sia autonomamente e penalmente sanzionata la condotta causante la compromissione o il deterioramento richiesti dalla norma.
Conseguentemente l’abusività della condotta è stata individuata nell’inosservanza delle prescrizioni imposte in un progetto di bonifica (Sez. 3, n. 46170 del 21/9/2016, P.M. in proc. Simonelli, cit.), nella mancanza di autorizzazione allo scarico di un depuratore (Sez. 3, n. 10515 del 27/10/2016, Sorvillo, cit.; Sez. 3, n. 15865 del 31/1/2017, Rizzo, cit.) e nell’esercizio di attività di pesca che, seppure non vietata, sia effettuata con mezzi non consentiti o da soggetti non abilitati (Sez. 3, n. 18934 del 15/3/2017, Catapano).
La Cassazione, nelle sentenze di Sez. 3, n. 46170 del 21/09/2016 P.M. in proc. Simonelli, cit., e di Sez. 3, n. 15865 del 31/01/2017, Izzo, cit., ha inoltre chiarito che il delitto di inquinamento ambientale è reato di danno, integrato da un evento di danneggiamento che, nel caso del “deterioramento”, consiste in una riduzione della cosa che ne costituisce oggetto in uno stato tale da diminuirne in modo apprezzabile, il valore o da impedirne anche parzialmente l’uso, ovvero da renderne necessaria, per il ripristino, un’attività non agevole, mentre, nel caso della “compromissione”, consiste in uno squilibrio funzionale che attiene alla relazione del bene aggredito con l’uomo e ai bisogni o interessi che il bene medesimo deve soddisfare.
Da ciò consegue che non assume rilievo l’eventuale reversibilità del fenomeno inquinante, se non come uno degli elementi di distinzione tra il delitto in esame e quello, più severamente punito, del disastro ambientale di cui all’art. 452 - quater cod. pen; deterioramento e compromissione sono concetti diversi dalla “distruzione”, non equivalgono, in ultima analisi, a una condizione di “tendenziale irrimediabilità” che la norma non prevede.
Il fatto che ai fini del reato di “inquinamento ambientale” non sia richiesta la tendenziale irreversibilità del danno comporta che, fin quando tale irreversibilità non si verifica, anche le condotte poste in essere successivamente all’iniziale deterioramento o compromissione non costituiscono “post factum” non punibile bensì singoli atti di un’unica azione lesiva che spostano in avanti la cessazione della consumazione.
È dunque possibile deteriorare e compromettere quel che lo è già, fino a quando la compromissione o il deterioramento diventano irreversibili o comportano una delle conseguenze tipiche previste dal successivo art. 452-quater, cod. pen.
Quanto alla natura “significativa” e “misurabile” che qualifica il deterioramento ovvero la compromissione, nelle decisioni si è precisato che, ferma la loro funzione selettiva di condotte di maggior rilievo, «il termine “significativo” denota senz’altro incisività e rilevanza, mentre “misurabile” può dirsi ciò che è quantitativamente apprezzabile o, comunque, oggettivamente rilevabile.
L’assenza di espliciti riferimenti a limiti imposti da specifiche disposizioni o a particolari metodiche di analisi consente di escludere l’esistenza di un vincolo assoluto per l’interprete correlato a parametri imposti dalla disciplina di settore, il cui superamento non implica necessariamente una situazione di danno o di pericolo per l’ambiente, potendosi peraltro presentare casi in cui, pur in assenza di limiti imposti normativamente, tale situazione sia di macroscopica evidenza o, comunque, concretamente accertabile.
Ovviamente, tali parametri rappresentano comunque un utile riferimento nel caso in cui possono fornire, considerando lo scostamento tra gli standard prefissati e la sua ripetitività, un elemento concreto di giudizio circa il fatto che la compromissione o il deterioramento causati siano effettivamente significativi come richiesto dalla legge mentre tale condizione, ovviamente, non può farsi automaticamente derivare dal mero superamento dei limiti. (In questi termini Sez. 3, n. 10515 del 27/10/2016, Sorvillo, cit.).
Conseguentemente, l’evento di danno si è ritenuto perfezionato, ad esempio, nella ridotta utilizzazione di un corso d’acqua in conformità alla sua destinazione, quale diretta conseguenza della condotta d’inquinamento (Sez. 3, n. 15865 del 31/1/2017, Rizzo, cit.; Sez. 3, n. 10515 del 27/10/2016, Sorvillo, cit.), nella dispersione in acque marine di sedimenti contenenti sostanze inquinanti quali idrocarburi e metalli pesanti (Sez. 3, n. 46170 del 21/9/2016, P.M. in proc. Simonelli, cit.), nel depauperamento della fauna in una determinata zona con una drastica eliminazione degli esemplari ivi esistenti (Sez. 3, n.18934 del 15/3/2017, Catapano, cit.).
Nella decisione della Sez. 3, n. 28732 del 27/04/2018, Melillo, Rv. 273566 la Suprema Corte ha affermato che la sussistenza degli elementi costitutivi del reato ipotizzato non deve essere necessariamente verificata attraverso un accertamento tecnico specifico.
Sebbene non possa escludersi la necessità, in determinati casi, di verifiche tecniche volte ad accertare la sussistenza e il grado di compromissione o deterioramento di singole matrici ambientali o di un intero ecosistema, possono senz’altro verificarsi situazioni nelle quali simili situazioni siano di macroscopica evidenza, come nel caso di distruzione di flora o fauna immediatamente percepibili, ovvero quando, una volta individuato un determinato contesto ambientale e le caratteristiche che lo contraddistinguono, possano poi direttamente apprezzarsi le conseguenze della condotta contestata. Si tratta, senza dubbio, d’indagini non sempre agevoli, da compiere anche tenendo conto delle condivisibili preoccupazioni espresse dalla dottrina, quando ha fatto notare che, l’accertamento delle conseguenze della condotta potrebbe, in alcuni casi, comportare anche la necessità di un confronto con situazioni preesistenti, impossibile o, comunque, di difficile attuazione in zone industrializzate o fortemente antropizzate per le quali non siano disponibili dati di confronto, ma che non rendono certo indispensabile il ricorso a consulenze o perizie.
La Cassazione, Sez. 3, n. 52436 del 06/07/2017, Campione, Rv. 272842, ha anche precisato che ai fini del sequestro preventivo è sufficiente accertare il deterioramento significativo o la compromissione come altamente probabili, desunti dalla natura e dalla durata nel tempo delle attività abusive.
La Suprema Corte, Sez. 3, n. 50018 del 19/09/2018, Izzo, Rv.274864 Imp., ha anche chiarito che per la sussistenza del reato previsto dall’art. 452 bis cod. pen. non è necessario accertare che ci si trovi di fronte ad un sito contaminato, secondo la definizione di cui all’art. 240, lett. e), d.lgs. 152 del 2006, testo normativo i cui concetti, elaborati in un differente contesto e a diversi fini, in assenza di specifica previsione, non possono essere richiamati per definire gli elementi costitutivi del delitto introdotto dalla successiva I. 22 maggio 2015, n. 68.
L’art. 240 d.lgs. 152 del 2006 e le definizioni in esso contenute valgono a disciplinare l’attività di bonifica dei siti quale prevista dal Titolo V del decreto, in relazione ai profili di rischio sanitario e ambientale sulla salute umana derivanti dall’esposizione prolungata all’azione delle sostanze presenti nelle matrici ambientali contaminate; mentre, invece, con riguardo al reato di inquinamento ambientale, ha quale oggetto di tutela penale l’ambiente in quanto tale e postula l’accertamento di un concreto pregiudizio a questo arrecato, secondo i limiti di rilevanza determinati dalla nuova norma incriminatrice.
Da ultimo appare utile menzionare la decisione Sez. 1, n. 58023 del 17/05/2017, Pellini, Rv. 271840, in cui si è fornita una interpretazione della clausola di riserva contenuta nell’art. 452 - quater cod. pen. “ fuori dei casi previsti dall’art. 434 cod. pen.”, che ha costituito indubbiamente una delle principali criticità interpretative della nuova previsione.
Nella parte motiva dedicata al tema, la prima sezione afferma che non vi è dubbio che la clausola operi sul piano della successione temporale tra norme, e che abbia la valenza di chiarire che non si è inteso abdicare alla tutela penale in materia di ambiente (specie in relazione ai giudizi in corso); e che le condotte di disastro che la giurisprudenza aveva già enucleato in quelle caratteristiche di tipicità strutturale, rilevanti ai fini dell’incriminazione di cui all’art. 434 cod. pen., non sono state sottratte all’intervento penale.
Che tale sia la voluntas legis, si afferma nella decisione, si deduce dai lavori preparatori della riforma e dalla circostanza che l’introduzione dell’art. 452 -quater cod. pen., non ha costituito un’ipotesi di nuova incriminazione di un fatto prima non previsto dalla legge come reato, “poiché il disastro ambientale, sia pur nel paradigma cd. innominato, era già direttamente punito dall’art. 434 cod. pen. in funzione della tutela apprestata costituzionalmente al bene giuridico - materiale di presidio superprimario”.
La nuova norma è, quindi, il risultato di un “trattamento penale modificativo”, in cui il fatto lesivo permane nel suo nucleo essenziale e centrale di disvalore - che il legislatore ha rinnovato - e che risulta descritto, in maggiore aderenza al principio di tassatività, attraverso l’aggiunta di elementi ulteriori, enucleati dalle letture che la stessa giurisprudenza aveva già in passato avuto modo di operare di quel concetto lesivo.
La clausola, riferita a entrambe le figure contenute nell’art. 434 cod. pen. (sia quella di pericolo sia quella di danno di cui al comma 2 della medesima disposizione), ha inteso, quindi, fare salvi i casi di applicazione dell’art. 434 cod. pen. e salvaguardare i processi in corso per i fatti commessi nel vigore della disposizione indicata.
Come noto, nel 2013, di fronte al sempre più frequente fenomeno di combustione di rifiuti e del connesso allarme di pericolo per la salute pubblica, prima dell’entrata in vigore della legge in tema di delitti ambientali, il Legislatore era già intervenuto nella disciplina del sistema sanzionatorio del “Codice dell’Ambiente”, introducendo con l’art. 256 - bis la nuova figura delittuosa di combustione illecita di rifiuti.
La disposizione, introdotta dall’art. 3 del d.l. 10 dicembre 2013, n. 136, convertito con modifiche nella l. 6 febbraio 2014, n. 6, prevede due delitti nei primi due commi, ai quali vengono affiancati tre circostanze aggravanti al primo, al terzo e al quarto comma, un’ipotesi di confisca al quinto comma, ed un illecito amministrativo che costituisce un limite alla rilevanza penale delle condotte indicate al sesto comma.
In particolare, il primo comma recita: “salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque appicca il fuoco a rifiuti abbandonati ovvero depositati in maniera incontrollata è punito con la reclusione da due a cinque anni”.
Nell’anno 2019 la Suprema Corte, nella decisione Sez. 3, n. 17069 del 24/01/2019, Galati, Rv. 275905 ha distinto tale delitto da quello previsto dalla fattispecie di cui all’art. 6 d.l. 6 novembre 2008, n. 172, “misure straordinarie per fronteggiare l’emergenza nel settore dello smaltimento dei rifiuti nella regione Campania, nonché misure urgenti di tutela ambientale”, che costituisce una disciplina eccezionale e temporanea diretta a fronteggiare il “concreto ed attuale stato di emergenza” dello smaltimento dei rifiuti nella regione Campania e destinata a cessare il 31 dicembre 2009.
L’art. 6 citato, al primo comma sanziona con la reclusione fino a tre anni e sei mesi, tra le altre condotte, quella di chiunque, in modo incontrollato o presso siti non autorizzati, nei territori in cui vige lo stato di emergenza nel settore dello smaltimento dei rifiuti dichiarato ai sensi della legge 24 febbraio 1992, n. 225 “incendia rifiuti pericolosi, speciali ovvero rifiuti ingombranti domestici e non, di volume pari ad almeno 0,5 metri cubi e con almeno due delle dimensioni di altezza, lunghezza o larghezza superiori a cinquanta centimetri”, se l’abbandono, lo sversamento, il deposito o l’immissione nelle acque superficiali o sotterranee riguarda rifiuti diversi, si applica la sanzione amministrativa pecuniaria da cento euro a seicento euro.
Attesa la parziale coincidenza degli elementi oggettivi delle due fattispecie la Suprema Corte, nella decisione citata, ha affermato che la condotta del delitto di combustione illecita di rifiuti ha ad oggetto rifiuti abbandonati, pericolosi o meno, mentre la fattispecie di cui all’art. 6 d.l. n. 172 del 2008 sanziona esclusivamente l’incendio di rifiuti pericolosi, speciali o meno. (Nel caso di specie, è stato ravvisato il reato di combustione illecita di rifiuti nell’incendio, all’interno di un terreno di proprietà dell’imputato, di due frigoriferi e di altri oggetti metallici considerati rifiuti non pericolosi).
La Suprema Corte si era già pronunciata in relazione al delitto di cui all’art. 256 - bis: in Sez. 3, n. 52610 del 04/10/2017, Sancilles, Rv. 271359, affermando che per la configurabilità del reato di combustione illecita di rifiuti è sufficiente appiccare il fuoco a rifiuti abbandonati, ovvero depositati in maniera incontrollata, non essendo richiesto, la dimostrazione del danno all’ambiente e il pericolo per la pubblica incolumità.
Si era precisato in particolare che, al pari delle altre fattispecie previste dall’art. 256 del medesimo decreto, la combustione illecita di rifiuti è un reato di pericolo per la cui integrazione non occorre la dimostrazione di aver arrecato un danno all’ambiente.
La circostanza che il legislatore abbia introdotto l’espressa clausola di riserva “salvo che il fatto costituisca più grave reato”, e la tipizzazione della condotta con il termine linguistico “appicca il fuoco”, senza ulteriori specificazioni, a differenza della previsione dell’art. 424 cod. pen. nella quale assume significato e rilevanza penale solo se da esso “sorge il pericolo di un incendio”, costituiscono elementi sulla base dei quali si desume che la fattispecie è un reato di pericolo concreto, per il quale non assume rilievo l’evento dannoso del danno all’ambiente.
In riferimento all’oggetto materiale della condotta, nella stessa decisione si è chiarito che la locuzione “rifiuti abbandonati o depositati in maniera incontrollata” deve essere riferito a quanto previsto dagli artt. 192, commi primo e secondo, 226, comma secondo, e 231, commi primo e secondo del d. lgs. n. 152 del 2006, in linea con il richiamo ad essi operato dall’art. 255 del medesimo d. lgs. nella parte in cui contempla l’illecito amministrativo di abbandono o deposito di rifiuti.
Infine, sempre nella decisione citata, quanto all’elemento soggettivo, si è affermato che, trattandosi di delitto, ed in assenza di specifiche indicazioni, questo è integrato nella forma del dolo generico.
Nella pronuncia Sez. 3, n. 21936 del 05/04/2016, Ascolese, Rv. 267470, si era anche delineato con chiarezza l’ambito applicativo della disposizione, specificando che essa non ricomprendeva le condotte di combustione degli scarti vegetali utilizzati in agricoltura mediante processi e metodi costituenti le normali pratiche agronomiche disciplinate dagli artt. 182, comma 6-bis, e 185, comma 1, lett. f), del citato d. lgs. n. 152 del 2006, posto che al rispetto di dette condizioni tali scarti non erano classificabili quali rifiuti.
Per una migliore comprensione del principio di diritto citato appare utile ricordare che l’ultimo comma dell’art. 256 bis del TUA prevede: “fermo restando quanto previsto dall’articolo 182, comma 6 - bis, le disposizioni del presente articolo non si applicano all’abbruciamento di materiale agricolo o forestale naturale, anche derivato da verde pubblico o privato”.
Il comma 6 - bis dell’art. 182, introdotto dall’art. 14, comma 8, lettera bb), del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 91, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 116, a sua volta stabilisce che le attività di raggruppamento e abbruciamento in piccoli cumuli e in quantità giornaliere non superiori a tre metri steri per ettaro dei materiali vegetali di cui all’articolo 185, comma 1, lettera f), effettuate nel luogo di produzione, costituiscono normali pratiche agricole consentite per il reimpiego dei materiali come sostanze concimanti o ammendanti, e non attività di gestione dei rifiuti.
La richiamata lettera f) dell’art. 185, primo comma, prevede, inoltre che non rientrano nel campo di applicazione della parte quarta del d. lgs. n. 152 del 2006, tra l’altro, la paglia, gli sfalci e potature, nonché l’altro materiale agricolo - forestale naturale non pericoloso utilizzato in agricoltura, nella silvicoltura o per la produzione di energia da tale biomassa mediante processi e con metodi che non danneggiano l’ambiente ne mettono in pericolo la salute umana.
Infine ai sensi del richiamato comma 6 - bis, le attività di raggruppamento e abbruciamento in piccoli cumuli e in quantità giornaliere non superiore a tre metri steri per ettaro, dei materiali vegetali di cui all’art. 185, comma primo, lett. f), effettuate nel luogo di produzione, costituiscono normali pratiche agricole consentite per il reimpiego dei materiali come sostanze concimanti o ammendanti e non attività di gestione dei rifiuti.
La stessa disposizione aggiunge che, in ogni caso, nei periodi di massimo rischio per gli incendi boschivi, dichiarati dalle regioni, la combustione di residui vegetali agricoli e forestali è sempre vietata e che i comuni e le amministrazioni competenti in materia ambientale hanno la facoltà di sospendere, differire o vietare la combustione del materiale in caso di condizioni sfavorevoli o rischi per l’incolumità e la salute umana.
La Suprema Corte, nella decisione citata, nell’interpretare il complesso sistema normativo descritto, ha affermato che gli scarti vegetali sono esclusi dal novero dei rifiuti e che l’abbruciamento in piccoli cumuli e in quantità giornaliere non superiori a tre metri steri per ettaro dei materiali vegetali di cui all’articolo 185, comma primo, lettera f), d.lgs. n. 152 del 2006, effettuate nel luogo di produzione, costituiscono normali pratiche agricole e non attività di gestione dei rifiuti e non sono sanzionate penalmente ai sensi del d.lgs. n. 152 del 2006, artt. 256 e 256 bis.
Negli stessi termini si sono anche espresse Sez. 3, n. 38658 del 15/06/2017, Pizzo, Rv. 270897, e Sez. 3, n. 5504 del 12/01/2016, Lazzarini, Rv. 265838, in cui si è precisato che la combustione di residui vegetali effettuata senza titolo abilitativo nel luogo di produzione oppure di materiale agricolo o forestale naturale, anche derivato da verde pubblico o privato, se commessa al di fuori delle condizioni previste dall’articolo 182, comma 6-bis, primo e secondo periodo, integra la contravvenzione di cui all’art. 256, comma primo, lett. a), d.lgs. 3 aprile 2006 n. 152; mentre la combustione di rifiuti urbani vegetali, abbandonati o depositati in modo incontrollato, provenienti da aree verdi, quali giardini, parchi e aree cimiteriali, è punita esclusivamente in via amministrativa, ai sensi dell’art. 255 del citato d.lgs. n. 152.
Sentenze della Corte di cassazione
Sez. 6, n. 2850 del 04/12/2003 (dep. 2004), Odigie, Rv. 229767
Sez. 6, n. 4345 del 30/09/2003 (dep. 2004 ), Arone ed altri, Rv. 228675
Sez. 1, n. 40012 del 05/10/2005, Confl. comp.in proc. D’Amaro, Rv. 232949
Sez. 1, n. 21354 del 18/05/2005, Confl. comp.in proc. Daiu, Rv. 231805
Sez. 3, n. 12433 del 15/11/2005, dep. 2006 P.M. in proc. Costa, Rv. 234009
Sez. 2, n. 19831 del 11/04/2006, Mohammad, Rv. 234664
Sez. 4, n. 17386 del 09/03/2006, Sirica, Rv. 233964
Sez. 3, n. 46705 del 03/11/2009, Caserta, Rv. 245605
Sez. 3, n. 29619 del 08/07/2010, Leorati e altri, Rv. 248145
Sez. 3, n. 44449 del 15/10/2013, Ghidoli, Rv. 258326
Sez. 3, n. 52512 del 22/05/2014, Pelaggi, Rv. 261511
Sez. 3, n. 44629 del 22/10/2015, Bettelli, Rv. 265573
Sez. 3, n. 10515 del 27/10/2016; Sorvillo, Rv. 269274
Sez. 3, n. 46950 del 11/10/2016, Sepe, Rv. 268667
Sez. 3, n. 46170 del 21/09/2016, P.M. in proc. Simonelli, Rv. 268060
Sez. 3, n. 52838 del 14/07/2016, Serrao, Rv. 268920
Sez. 4, n. 29627 del 21/04/2016, Silva e altri, Rv. 267845
Sez. 3, n. 21936 del 05/04/2016, Ascolese, Rv. 267470
Sez. 3, n. 5504 del 12/01/2016, Lazzarini, Rv. 265838
Sez. 3, n. 52610 del 04/10/2017, Sancilles, Rv. 271359
Sez. 1, n. 43599 del 5/7/2017, Gip Tribunale di Nola
Sez. 1, n. 58023 del 17/05/2017, Pellini, Rv. 271840
Sez. 3, n. 18934 del 15/3/2017, Catapano
Sez. 3, n. 38658 del 15/06/2017, Pizzo, Rv. 270897
Sez. 3, n. 15865 del 31/01/2017, Rizzo, Rv. 269491
Sez. 1, n. 16123 del 12/11/2018, dep. 2019, Gup tribunale Roma, Rv. 27639101
Sez. 3, n. 50018 del 19/09/2018, Izzo, Rv. 274864
Sez. 3, n. 28732 del 27/04/2018, Melillo, Rv. 273565
Sez. 3, n. 43710 del 23/05/2019, Pmt c/ Gianino, Rv. 276937
Sez. 3, n. 26007 del 05/04/2019, Pucci, Rv. 276015
Sez. 3, n. 39952 del 16/04/2019, Radin, n.m.
Sez. 3, n. 16056 del 28/02/2019, Berlingeri, Rv. 27539901
Sez. 3, n. 16036 del 28/02/2019, Zoccoli, Rv. 27539502
Sez. 3, n. 17069 del 24/01/2019,Galati, Rv. 275905
Numerose sono state le pronunzie in tema di circolazione stradale rese dalla Corte di cassazione nel corso dell’anno 2019.
Quelle maggiormente significative, in ragione della materia trattata, possono essere inquadrate in cinque gruppi diversi, distinguendosi pronunzie relative all’omesso avviso al conducente da sottoporre all’alcoltest della facoltà di farsi assistere da un difensore e al termine entro cui dedurre la relativa nullità in caso di procedimento per decreto, pronunzie relative all’onere della prova circa l’idoneità e l’omologazione dell’etilometro, pronunzie relative all’obbligo di dare avviso al conducente della facoltà di farsi assistere da un difensore in caso di prelievo ematico presso una struttura sanitaria, pronunzie relative alla nozione di incidente stradale ai fini dell’integrazione della circostanza aggravante di cui all’art. 186, comma 2-bis, c.d.s. e pronunzie relative all’interpretazione della previsione di cui all’art. 143 c.d.s.
Nel novero delle pronunzie inquadrabili nel primo dei gruppi dianzi indicati si segnala la sentenza Sez. 4, n. 33795 del 17.05.2019, dep. 25.07.2019, Venditto, Rv. 276675, nella quale, con riferimento alla contravvenzione di guida in stato di ebbrezza, si è affermato che la violazione dell’obbligo di dare avviso al conducente da sottoporre all’esame alcolimetrico della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia determina una nullità di ordine generale, deducibile nei termini di cui agli artt. 180 e 182, comma 2, cod. proc. pen., con la conseguenza che, in caso di procedimento per decreto, il momento ultimo entro il quale la nullità può essere dedotta va individuato nella deliberazione della sentenza di primo grado e non nella presentazione dell’atto di opposizione al decreto stesso, essendo le norme sulla nullità di stretta interpretazione e non contenendo l’art. 180 alcun riferimento al decreto penale di condanna e al relativo atto di opposizione.
La pronunzia in oggetto merita menzione in quanto si discosta dal dictum di tre recentissime sentenze, risalenti segnatamente agli anni 2017 e 2018 (Sez. 4, n. 22608 del 04.04.2017, Orlandini, Rv. 270161, Sez. 4, n. 7686 del 16.01.2018, Favaro, Rv. 272465 e Sez. 4, n. 58379 del 12.12.2018, Perin, Rv. 274953), in cui i giudici di legittimità, partendo dal presupposto che la violazione del citato obbligo di avviso genera una nullità di ordine generale, deducibile nei termini di cui all’art. 182, comma 2, cod. proc. pen., avevano concordemente concluso che, ove si fosse proceduto a giudizio ordinario a seguito di opposizione a decreto penale, il momento entro il quale doveva farsi valere tale nullità andava individuato nella presentazione dell’atto di opposizione.
Nello specifico, l’innovativa pronunzia di cui s’è detto trova scaturigine in un’interpretazione del dato normativo più aderente al principio di diritto enunciato da Sez. U, n. 5396 del 29/01/2015, Bianchi, Rv. 263023, massimato nei termini che, di seguito, si trascrivono: «La nullità conseguente al mancato avvertimento al conducente di un veicolo, da sottoporre all’esame alcoolimetrico, della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia, in violazione dell’art. 114 disp. att. cod. proc. pen., può essere tempestivamente dedotta, a norma del combinato disposto degli artt. 180 e 182, comma secondo, secondo periodo, cod. proc. pen., fino al momento della deliberazione della sentenza di primo grado».
Si è ritenuto infatti un obiter il passo motivazionale della pronunzia de qua in cui si è testualmente affermato «Nel caso di specie il difensore, che non ha ricevuto alcun avviso di deposito dell’atto con il quale erano state eseguite le operazioni di alcooltest, ha eccepito la nullità già con la memoria depositata poco dopo la nomina e con altra successiva, e comunque con l’atto di opposizione al decreto penale, atto quest’ultimo che equivale alla sentenza di primo grado, cui si riferisce come termine ultimo l’art. 180 cod. proc. pen., richiamato, come detto, dall’art. 182, comma 2, secondo periodo, cod. proc. pen. Ne discende che l’eccezione è stata tempestivamente dedotta».
Alla stregua di tale asserto, si è quindi concluso che l’unico senso che può attribuirsi al citato passaggio incidentale è che la nullità fatta valere dal difensore nell’atto di opposizione al decreto penale risulta tempestivamente dedotta, non potendosi trarre da esso l’ulteriore principio, peraltro inconciliabile con quello massimato, che l’eccezione di nullità sarebbe stata intempestiva se proposta successivamente all’atto di opposizione, ma comunque prima della deliberazione della sentenza di primo grado.
Di particolare rilevanza appare, poi, un’altra sentenza della Suprema corte – Sez. 4, n. 38618 del 06.06.2019, Bertossi, Rv. 277189 – che, sempre con riguardo alla contravvenzione di guida in stato di ebbrezza, ha affermato che, qualora l’alcoltest risulti positivo, grava sulla parte pubblica l’onere di provare il regolare funzionamento dell’etilometro, la sua omologazione e la sua sottoposizione a revisione.
La pronunzia in oggetto si segnala per essersi discostata dal dictum di numerose altre sentenze, inquadrabili in un consolidato filone interpretativo, inaugurato da Sez. 4, n. 45070 del 30.03.2004, Gervasoni, Rv. 230489 e del quale costituiscono altresì espressione Sez. 4, n. 17463 del 24.03.2011, Neri, Rv. 250324, Sez. 4, n. 42084 del 04.10.2011, Salomone, Rv. 251117, Sez. 4, n. 15187 dell’08.04.2015, Bregoli, Rv. 263154 e Sez. 4, n. 28887 dell’11.06.2019, Cardinali, Rv. 276570.
Le plurime decisioni testè enumerate affermano, infatti, l’opposto principio secondo cui l’esito positivo dell’alcoltest costituisce prova della sussistenza dello stato di ebbrezza ed è onere dell’imputato fornire la prova contraria a tale accertamento, dimostrando vizi o errori di strumentazione o di metodo nell’esecuzione dell’aspirazione.
Il menzionato revirement giurisprudenziale trae spunto dalla sentenza della Corte costituzionale n. 113 del 2015, che ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 45, comma 6, del d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285, nella parte in cui non prevedeva che le apparecchiature impiegate nell’accertamento delle violazioni dei limiti di velocità (cd. autovelox) fossero sottoposte a verifiche periodiche di funzionalità e di taratura.
In particolare, la Corte, recependo l’insegnamento della Consulta secondo cui l’interesse del conducente a ottenere tutela in presenza di accertamenti automatici effettuati con autovelox prevale sulle esigenze di tutela della sicurezza stradale e conformandosi ai più recenti arresti della giurisprudenza civile di legittimità che ne ha esteso la portata al caso degli accertamenti eseguiti con etilometro, ha invertito l’onere della prova, addossandolo all’organo dell’accusa ed evidenziando che tale conclusione se, per un verso, impedisce che uno stesso fatto possa dar luogo a illecito penale e non anche a illecito amministrativo, per altro verso, appare conforme, sul piano processuale, alla regola secondo cui “onus probandi incumbit eo qui dicit”, ossia che spetta al pubblico ministero provare gli elementi costitutivi del fatto di reato dedotto, mentre grava sull’imputato la sola dimostrazione di quelli estintivi o modificativi di una situazione giuridicamente rilevante.
Di portata evidentemente innovativa risulta, ancora, un’altra sentenza della Corte – Sez. 4, n. 11722, del 19.02.2019, Ellera, Rv. 275281 – massimata nei termini che, di seguito, si riportano: «In tema di guida in stato di ebbrezza, la polizia giudiziaria deve dare avviso al conducente della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia, ai sensi degli artt. 356 cod. proc. pen. e 114 disp. att. cod. proc. pen., non soltanto ove richieda l’effettuazione di un prelievo ematico presso una struttura sanitaria ai fini dell’accertamento del tasso alcolemico, ma anche quando richieda che tale ulteriore accertamento venga svolto sul prelievo ematico già operato autonomamente da tale struttura a fini di diagnosi e cura».
Nello specifico, il giudice di legittimità, discostandosi sensibilmente da un precedente consolidato orientamento, ha affermato che non v’è ragione per circoscrivere l’obbligo di avviso alla sola ipotesi in cui vi sia stata richiesta, da parte dell’organo di P.G., di esecuzione del prelievo ematico, dovendosene estendere l’operatività anche al caso in cui tale organo si sia limitato a richiedere l’esecuzione di un’ulteriore analisi su un campione biologico, già prelevato dal personale sanitario per fini diagnostici e/o curativi.
Coerentemente, la Corte ha quindi concluso che il solo caso in cui non v’è necessità di dare avviso al conducente della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia è quello in cui siano i sanitari a procedere all’accertamento del tasso alcolemico e la P.G. rivolga una richiesta sostanzialmente inutile o si limiti ad acquisire la documentazione dell’analisi.
Come anticipato, la pronunzia in oggetto si caratterizza per una chiara portata innovativa rispetto al filone interpretativo formatosi in tema nel precedente quadriennio, secondo cui sussiste l’obbligo di avvertire il conducente coinvolto in un sinistro della facoltà di farsi assistere da un difensore ex artt. 356 cod. proc. pen. e 114 disp. att. cod. proc. pen. in relazione al prelievo ematico presso una struttura sanitaria volto all’accertamento del tasso alcolemico nel solo caso in cui l’esecuzione di tale prelievo non avvenga nell’ambito degli ordinari protocolli sanitari a fini di cura della persona, ma su specifica richiesta dalla polizia giudiziaria e per esclusiva finalità di ricerca della prova della colpevolezza del soggetto indiziato (così Sez. 4, n. 34886 del 06.08.2015, Cortesi, Rv. 264728, Sez. 4, n. 3340 del 22.12.2016, dep. 23.01.2017, Tolazzi, Rv. 268885, Sez. 4, n. 51284 del 10.10.2017, P.G. in proc. Lirussi, Rv. 271935, Sez. 4, n. 6514 del 18.01.2018, Tognini, Rv. 272225 e Sez. 4, n. 49371 del 25.09.2018, C., Rv. 274039).
Nel novero delle pronunzie inquadrabili in tale gruppo merita menzione, in primis, la sentenza Sez. 4, n. 27211, del 21.05.2019, P.G. c/Granelli Stefano, Rv. 275872, in cui la Corte, con riguardo alla contravvenzione di guida in stato di ebbrezza, ha delineato la nozione di incidente stradale, conformandosi a un orientamento ormai consolidato, formatosi a far data dall’anno 2012.
Per ragioni di completezza, si riporta, di seguito, il principio estratto, in sede di massimazione, dalla sentenza in oggetto: «In tema di guida in stato di ebbrezza, ai fini della configurabilità dell’aggravante prevista dall’art. 186, comma 2-bis, cod. strada, deve intendersi per incidente stradale qualsiasi avvenimento inatteso che, interrompendo il normale svolgimento della circolazione, possa provocare pericolo alla collettività, senza che assuma rilevanza l’avvenuto coinvolgimento di terzi o di altri veicoli».
Nella decisione de qua si è quindi perimetrata la nozione di incidente stradale, chiarendosi che tale deve intendersi ogni accadimento, costituente soluzione di continuità nell’ordinario svolgimento della circolazione stradale, che rechi pericolo per la collettività, indipendentemente dall’avvenuto coinvolgimento in esso di altri veicoli o di terze persone.
Come dianzi anticipato, la pronunzia in commento si inserisce in un consolidato filone giurisprudenziale, di cui costituiscono espressione, con riguardo alla contravvenzione di guida in stato di ebbrezza, Sez. 4, n. 42488 del 19.09.2012, Pititto, Rv. 253734 e Sez. 4, 47276 del 06.11.2012, Marziano, Rv. 253921 e, con riguardo alla contravvenzione di guida in stato di alterazione psicofisica per uso di sostanze stupefacenti, Sez. 4, n. 36777 del 02.07.2015, Scudiero, Rv. 264419.
Nella categoria in disamina si inquadrano, inoltre, altre due pronunzie – Sez. 4, n. 14267 del 13.12.2018, dep. 02.04.2019, Pastocchi, Rv. 274575 e Sez. 4, n. 17183 dell’11.01.2019, Gritti, Rv. 275712 – in cui la Corte, sempre con riguardo alla contravvenzione prevista dall’art. 186 del c.d.s., ha chiarito la natura del rapporto che deve necessariamente intercorrere tra lo stato di ebbrezza e il sinistro stradale ai fini della configurabilità dell’aggravante a effetto speciale di cui al comma 2-bis.
Anche in tal caso, per ragioni di completezza, si riporta, di seguito, il principio estratto, in sede di massimazione, dalle sentenze in commento: «In tema di guida in stato di ebbrezza, ai fini della configurabilità dell’aggravante di aver provocato un incidente stradale, prevista dall’art. 186, comma 2-bis, cod. strada, è necessaria la sussistenza di un nesso di strumentalità-occasionalità tra lo stato di ebbrezza e l’incidente, non potendosi giustificare un deteriore trattamento sanzionatorio a carico di chi, pur procedendo illecitamente in stato di ebbrezza, sia stato coinvolto in un incidente stradale privo di ogni connessione con il suo stato di alterazione alcolica».
Nelle decisioni in parola si è quindi precisato che è applicabile l’indicata circostanza aggravante solo nel caso in cui il sinistro stradale sia legato allo stato di ebbrezza da un coefficiente causale, e non anche nella diversa ipotesi in cui l’agente, pur in stato di alterazione per l’utilizzo di alcol, risulti meramente coinvolto in un incidente cui non abbia in alcun modo dato causa.
Le pronunzie de quibus, analogamente a quella dapprima esaminata, s’inseriscono in un filone interpretativo formatosi da un biennio, di cui costituiscono espressione Sez. 4, n. 33760 del 17.05.2017, Magnoni, Rv. 270612 e Sez. 4, n. 54991 del 24.10.2017, Fabris, Rv. 271557.
Da ultimo vanno segnalate, per la loro significatività, talune pronunzie della Corte in tema di interpretazione della previsione di cui all’art. 143 c.d.s.
Viene in rilievo innanzitutto la sentenza Sez. 4, n. 18802 dell’11.04.2019, Catalani, Rv. 275655 – conforme a Sez. 4, n. 50024 del 04.10.2017, Delfino, Rv. 271490 – che, interpretando l’evocata previsione normativa, afferma il principio massimato nei termini che, di seguito, si riportano: «In tema di circolazione stradale, l’obbligo di circolare sulla parte destra della carreggiata e in prossimità del margine destro della medesima, anche quando la strada è libera, previsto dall’art. 143 cod. strada, ha la finalità di garantire un’andatura corretta e regolare nell’ambito della propria corsia di marcia per la tutela del veicolo procedente e degli altri che la percorrono, e non di evitare il rischio dell’improvvisa occupazione della corsia da parte di un veicolo proveniente dalla direzione opposta, sicché, in caso di inosservanza di tale regola cautelare, deve comunque escludersi la responsabilità del conducente per l’incidente dovuto ad invasione della corsia da parte di altro veicolo».
Si sostiene, quindi, nella pronunzia in disamina che, essendo la previsione dell’art. 143 c.d.s. finalizzata a garantire una corretta andatura nella propria corsia di marcia ai veicoli che la percorrono e non ed evitare il rischio d’improvvisa occupazione della stessa da parte di quelli provenienti dall’opposta direzione, deve escludersi la penale responsabilità del conducente per il sinistro occorso in conseguenza dell’invasione della corsia da parte di altro veicolo quand’anche risulti violata l’anzidetta regola cautelare.
In tale ambito merita, poi, menzione la sentenza Sez. 4, n. 14290 del 05.03.2019, Cavallaro, Rv. 275601 – conforme a Sez. 4, n. 2568 del 04.11.2010, dep. 26.01.2011, Berlanda, Rv. 249622 e a Sez. 4, n. 40050 del 29.03.2018, Lenarduzzi, Rv. 273870 – in cui i giudici di legittimità, nell’interpretare la medesima previsione normativa, hanno affermato il divergente principio massimato nei termini che, di seguito, si riportano: «In tema di circolazione stradale, l’art. 143 cod. strada, che prevede l’obbligo di circolare sulla parte destra della carreggiata e di non invadere l’opposta corsia, è volto ad evitare interferenze o urti fra veicoli provenienti da direzioni opposte, con la conseguenza che deve escludersi la responsabilità del conducente che non abbia tenuto strettamente la destra in caso di tamponamento da parte di altro veicolo procedente nella stessa direzione di marcia, a seguito di una manovra di sorpasso vietata».
Nella circostanza si è sostenuto, quindi, che la previsione dell’art. 143 c.d.s., stabilendo l’obbligo di circolare sulla destra della carreggiata e di non invadere l’opposta corsia, è finalizzato a evitare interferenze o urti fra veicoli provenienti da opposte direzioni.
Sentenze della Corte di cassazione
Sez. U, n. 5396 del 29.01.2015, Bianchi, Rv. 263023
Sez. 4, n. 22608 del 04.04.2017, Orlandini, Rv. 270161
Sez. 4, n. 7686 del 16.01.2018, Favaro, Rv. 272465
Sez. 4, n. 58379 del 12.12.2018, Perin, Rv. 274953
Sez. 4, n. 33795 del 17.05.2019, dep. 25.07.2019, Venditto, Rv. 276675
Sez. 4, n. 45070 del 30.03.2004, Gervasoni, Rv. 230489
Sez. 4, n. 17463 del 24.03.2011, Neri, Rv. 250324
Sez. 4, n. 42084 del 04.10.2011, Salomone, Rv. 251117
Sez. 4, n. 15187 dell’08.04.2015, Bregoli, Rv. 263154
Sez. 4, n. 28887 dell’11.06.2019, Cardinali, Rv. 276570
Sez. 4, n. 38618 del 06.06.2019, Bertossi, Rv. 277189
Sez. 4, n. 34886 del 06.08.2015, Cortesi, Rv. 264728
Sez. 4, n. 3340 del 22.12.2016, dep. 23.01.2017, Tolazzi, Rv. 268885
Sez. 4, n. 51284 del 10.10.2017, Lirussi, Rv. 271935
Sez. 4, n. 6514 del 18.01.2018, Tognini, Rv. 272225
Sez. 4, n. 49371 del 25.09.2018, C., Rv. 274039
Sez. 4, n. 11722, del 19.02.2019, Ellera, Rv. 275281
Sez. 4, n. 42488 del 19.09.2012, Pititto, Rv. 253734
Sez. 4, n. 47276 del 06.11.2012, Marziano, Rv. 253921
Sez. 4, n. 36777 del 02.07.2015, Scudiero, Rv. 264419
Sez. 4, n. 33760 del 17.05.2017, Magnoni, Rv. 270612
Sez. 4, n. 54991 del 24.10.2017, Fabris, Rv. 271557
Sez. 4, n. 14267 del 13.12.2018, dep. 02.04.2019, Pastocchi, Rv. 274575
Sez. 4, n. 17183 dell’11.01.2019, Gritti, Rv. 275712
Sez. 4, n. 27211 del 21.05.2019, Granelli Stefano, Rv. 275872
Sez. 4, n. 2568 del 04.11.2010, dep. 26.01.2011, Berlanda, Rv. 249622
Sez. 4, n. 50024 del 04.10.2017, Delfino, Rv. 271490
Sez. 4, n. 40050 del 29.03.2018, Lenarduzzi, Rv. 273870
Sez. 4, n. 14290 del 05.03.2019, Cavallaro, Rv. 275601
Sez. 4, n. 18802 dell’11.04.2019, Catalani, Rv. 275655
I reati fallimentari, la cui trattazione è assegnata per competenza tabellare, fatti salvi i rinvii per annullamento, alla Quinta Sezione della Corte di cassazione, sono stati oggetto nel corso del corrente anno di numerose pronunce che, in parte, hanno meglio definito il percorso nomofilattico già tracciato negli scorsi anni e, in parte, si sono fatte carico di questioni inedite, connesse al continuo mutamento della realtà economico-sociale.
La disciplina delle procedure concorsuali è stata rimodellata di recente dal d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, attuativo della legge 19 ottobre 2017, n.155 e, per effetto di tale intervento normativo, essa è stata ricondotta all’interno del Titolo IX del Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza dedicato alle “Disposizioni penali” (artt. 322-347) senza che ciò abbia comunque comportato l’abrogazione delle disposizioni contenute all’interno della legge fallimentare e, segnatamente, delle disposizioni penali sulla bancarotta. Novità di rilievo è data dalla scomparsa dei termini “fallimento” e “fallito” sostituiti da “liquidazione giudiziale” e ciò ha comportato solo un adeguamento lessicale delle disposizioni di cui alla legge fallimentare che, si ripete, non sono state riformulate.
Le decisioni della Corte che verranno qui di seguito riportate non hanno risentito in linea di massima dell’intervento normativo di cui si è detto avendo l’art. 389 delle disposizioni transitorie previsto che le procedure pendenti alla data di entrata in vigore del decreto legislativo rimangono disciplinate dalla legge fallimentare, anche agli effetti penali.
Una questione che parrebbe ormai risolta, essendosi ulteriormente consolidato nel 2019 l’orientamento pressoché prevalente nella giurisprudenza della Corte, è quella che riguarda la natura giuridica della sentenza di fallimento.
Mentre anche in un recente passato essa era stata considerata quale condizione di esistenza del delitto di bancarotta e quindi elemento costitutivo dello stesso, sia pure sui generis, in quanto sganciato dal fatto e dalla colpevolezza (così, Sez. U., n. 2 del 25/1/1958, Mezzo, Rv. 98004-01 e Sez. U. n. 24468 del 26/2/2009, Rizzoli, Rv. 243587-01), ad oggi, tranne qualche isolata decisione (Sez. 5, n. 40477 del 18/05/2018, Alampi, Rv. 273800-01), oggi viene ormai considerata quasi unanimemente condizione obiettiva di punibilità per cui essa, in tema di bancarotta, ha rilevanza in quanto provvedimento giurisdizionale e non per i fatti da essa accertati.
A tal proposito Sez. 5, n. 2899 del 02/10/2018, dep. 2019, Signoretti, Rv. 274610-01, dopo aver affermato, in tema di bancarotta fraudolenta prefallimentare per distrazione, che la condotta si perfeziona quando l’agente abbia cagionato il depauperamento dell’impresa, destinandone le risorse ad impieghi estranei alla sua attività, ha ribadito che la sentenza dichiarativa di fallimento costituisce una condizione obiettiva di punibilità, poiché si pone come evento estraneo all’offesa tipica e alla sfera di volizione dell’agente. Ed invero, anche se la lettura delle disposizioni di cui all’art. 216 legge fall. indurrebbe, prima facie, all’individuazione nella dichiarazione di fallimento di un elemento interno alla fattispecie incriminatrice, riesce effettivamente di difficile comprensione il fatto che la coscienza e volontà possano investire la sentenza dichiarativa di fallimento che è del tutto estranea alla sfera volitiva del soggetto.
Dalla qualificazione della sentenza di fallimento quale condizione obiettiva di punibilità deriva, così come specificato da Sez. 5, n. 31974 del 13/03/2019, Burani, Rv. 277248-04 e Rv. 277248-03, che il momento consumativo del reato di bancarotta deve essere identificato con l’avveramento della condizione oggettiva di punibilità e il luogo del commesso delitto, funzionale alla determinazione della competenza territoriale, va individuato con riferimento al luogo in cui tale pronuncia è avvenuta. Nel caso in esame, poi, la Corte afferma che non incide sulla competenza territoriale del giudice penale per il reato di bancarotta la sentenza civile dichiarativa dell’incompetenza territoriale (nella specie della Corte di Cassazione) intervenuta dopo l’apertura del dibattimento, non essendo ravvisabile un’ipotesi di nullità della sentenza di fallimento, emessa da giudice incompetente.
La Corte, con la sentenza Sez. 5, n. 25773 del 20/2/2019, Scarpaci, è tornata ad occuparsi della qualificazione della condotta dell’amministratore che, nella fase di dissesto della società, provveda a restituire ai soci i finanziamenti dagli stessi erogati. Nella fattispecie esaminata i finanziamenti erano stati erogati dal medesimo amministratore, uti socius.
La giurisprudenza di legittimità, in relazione a siffatta condotta, non mostra però un orientamento univoco.
Ed invero, con la sentenza Scarpaci si è ha dato seguito alla posizione più rigorosa, secondo cui nella situazione in esame il comportamento dell’amministratore integra gli estremi della bancarotta per distrazione piuttosto che di quella preferenziale (Sez. 5 n. 50495 del 14/6/2018, Sestili, Rv. 274602-01; Sez. 5, n. 49509 del 19/07/2017, Allia, Rv. 271464-01; Sez. 5, n. 50188 del 10/5/17, Mascellani, Rv. 271775-01; Sez. 5, n. 41143 del 20/05/2014, Zavaroni, Rv. 261250-01; Sez. 5, n. 34505 del 06/06/2014, Marchesi, Rv. 264277-01; Sez. 5, n. 42710 del 03/07/2012, De Falco, Rv. 254456-01; Sez. 5, n. 25292 del 30/05/2012, Massocchi, Rv. 253001-01; Sez. 5, n. 2273 del 06/12/2004 - dep. 2005, Martella, Rv. 231289-01) e ciò sulla scorta del rilievo che la restituzione di un finanziamento, in un periodo di difficoltà della società, oltre a violare il divieto di postergazione di cui all’art. 2467 cod civ., assume un significato diverso e più grave rispetto alla mera volontà di privilegiare un creditore in posizione paritaria rispetto a tutti gli altri.
A tale impostazione si contrappone quella seguita dalla quasi coeva Sez. 5, n. 8431 del 1/2/2019, Vesprini, Rv. 276031-01 secondo cui il prelievo di somme quale restituzione di versamenti operati dai soci a titolo di mutuo integra la fattispecie di bancarotta preferenziale, mentre la restituzione di versamenti operati dai soci in conto capitale (o indicati con analoga dizione) integra la fattispecie di bancarotta fraudolenta per distrazione, non dando luogo tali versamenti ad un credito esigibile nel corso della vita della società.
Secondo questo orientamento, che appare in linea con numerose altre decisioni (Sez. 5, n. 32378 del 12/04/2018, Fagiolo, Rv. 273576-01; Sez. 5, n. 5186 del 02/10/2013 - dep. 2014, Giamundo, Rv. 260196-01; Sez. 5, n. 13318 del 14/2/2013, Viale, Rv. 254985-01; Sez. 5, n. 1793 del 10/11/2011 - dep. 2012, N., Rv. 252003-01; Sez. 5 n. 14908 del 7/3/2008, Frigerio, Rv. 239487-01), non avendo i primi apporti di danaro natura di conferimenti di capitale di rischio, essi comportano il sorgere, in capo ai soci, di un credito chirografario, effettivo ed esigibile, senza che dalla sua restituzione consegua un effettivo depauperamento dell’asse patrimoniale.
Nella sentenza Vesprini, il Collegio ricorda, altresì, conformemente all’orientamento consolidato delle Sezioni civili della Corte (Sez. civ. 1, n. 15035 del 08/06/2018, Rv. 649557), che i versamenti operati dai soci in conto capitale, “pur non incrementando immediatamente il capitale sociale, e pur non attribuendo alle relative somme la condizione giuridica propria del capitale (onde non occorre che siano conseguenti ad una specifica deliberazione assembleare di aumento dello stesso), hanno tuttavia una causa che, di norma, è diversa da quella del mutuo ed è assimilabile a quella del capitale di rischio”; siffatti versamenti, dunque, non danno luogo a crediti esigibili nel corso della vita della società e possono essere chiesti dai soci in restituzione solo in caso di scioglimento della società e nei limiti dell’eventuale residuo attivo del bilancio di liquidazione. Se invece tra la società ed i soci è stata convenuta l’erogazione di capitale di credito, anziché di rischio e i soci hanno effettuato versamenti in favore della società a titolo di mutuo (con o senza interessi), riservandosi il diritto alla restituzione anche durante la vita della società, sussiste il conseguente obbligo per quest’ultima di restituire la somma ricevuta alla scadenza convenuta.
Nel tracciare le differenze tra la bancarotta documentale semplice e fraudolenta, Sez. 5, n. 2900 del 2/10/2018, dep. 2019, Pisano, Rv. 274630-01 ha sottolineato il diverso atteggiarsi dell’elemento soggettivo che, mentre nell’ipotesi di bancarotta semplice, ex art. 217, comma secondo, legge fall., può indifferentemente essere costituito dal dolo e dalla colpa riscontrabili quando l’agente ometta, con coscienza e volontà o per semplice negligenza, di tenere le scritture contabili, nella bancarotta fraudolenta documentale (art. 216, comma primo, n. 2, legge fall.), può essere individuato solo nel dolo generico, costituito dalla coscienza e volontà dell’irregolare tenuta delle scritture, con la consapevolezza che ciò renda impossibile la ricostruzione delle vicende del patrimonio dell’imprenditore. Ed invero, tale elemento soggettivo è integrato dalla consapevolezza nell’agente che la confusa tenuta della contabilità possa rendere impossibile la ricostruzione delle vicende del patrimonio e del volume d’affari non essendo necessaria la specifica volontà di impedire la ricostruzione e tantomeno di arrecare pregiudizio ai creditori.
L’arresto indicato si pone in linea, specificandolo meglio, con l’orientamento precedente, già ripetutamente affermato con riferimento alla bancarotta semplice; Sez. 5, n. 53210 del 19/10/2018, Esposito, Rv. 275133 – 02, infatti, aveva considerato la fattispecie punibile anche a titolo di colpa, non ostandovi il tenore dell’art. 42 cod. pen., che esige la previsione espressa della punibilità di un delitto a titolo di colpa, in quanto la nozione di “previsione espressa” non equivale a quella di “previsione esplicita” e, nel caso della bancarotta semplice documentale, la previsione implicita è desumibile dalla definizione come dolosa della bancarotta fraudolenta documentale.
In termini, successivamente si è posta anche Sez. 5, n. 20514 del 22/10/2019, Martino, Rv. 275261 - 01 che, in motivazione, ha ribadito le differenze, sotto il profilo dell’elemento psicologico, tra bancarotta semplice e bancarotta fraudolenta documentale precisando che solo in quest’ultima ipotesi il fattore soggettivo è necessariamente coperto dal dolo, sia pure nella forma generica.
Con riferimento, invece, alla bancarotta fraudolenta documentale, per Sez. 5 , n. 26613 del 22/02/2019 Amidani, Rv. 276910 - 01 il dolo generico deve essere desunto, con metodo logico-inferenziale, dalle modalità della condotta contestata e non dal solo fatto che lo stato delle scritture sia tale da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari, poiché esso costituisce l’elemento materiale del reato ed è comune alla diversa e meno grave fattispecie di bancarotta semplice, incriminata dall’art. 217, comma secondo, legge fall.; né esso può essere dedotto dalla circostanza che l’imprenditore si sia reso irreperibile dopo il fallimento, costituendo detta condotta un posterius rispetto al fatto-reato.
Nella fattispecie, in cui l’imputato era stata assolto da una concorrente imputazione di bancarotta fraudolenta patrimoniale, la Corte ha ritenuto indispensabile una motivazione particolarmente rigorosa sull’elemento soggettivo dell’addebito residuo, la cui prova non poteva giovarsi della presunzione per la quale l’irregolare tenuta delle scritture contabili è di regola funzionale all’occultamento o alla dissimulazione di atti depauperativi del patrimonio sociale.
Nel corso dell’anno trascorso sono state numerose le questioni poste sull’oggetto della bancarotta documentale e cioè le scritture contabili.
Sez. 5, n. 20514 del 2019 Martino, cit., in tema di bancarotta semplice, in linea con quanto sostenuto anche in passato (da ultimo, Sez. 5, n. 20911 del 19/04/2011, Gaiero, Rv. 250407-01), ha ritenuto, sul presupposto che quello in questione è un reato di pericolo presunto, che l’obbligo di tenere le scritture contabili non viene meno sino a quando l’azienda non ha formalmente cessato l’attività, anche in mancanza di passività insolute, occorrendo, a tal fine, la formalizzazione della cessazione con la cancellazione dal registro delle imprese. Il reato in questione, di mera condotta, si configura, quindi, con l’inadempimento al precetto formale di cui all’art. 2214 cod. civ., non potendo riconoscersi rilevanza alcuna riconoscersi alla circostanza che non si verifichi, in concreto, alcun danno per i creditori.
Con riferimento alla bancarotta fraudolenta documentale, sembra ormai consolidata la posizione che non considera equivalenti le condotte di distruzione, occultamento o mancata consegna al curatore della documentazione e l’omessa o irregolare o incompleta tenuta delle scritture contabili; per Sez. 5, n. 26379 del 05/03/2019, Inverardi, Rv. 276650-01, in linea con quanto deciso già in passato dalla Corte, (ex multis, Sez. 5, n. 43977 del 14/7/2017, Pastechi, Rv. 271753-01), la bancarotta fraudolenta documentale prevede due fattispecie alternative, quella di sottrazione o distruzione dei libri e delle scritture contabili e quella di tenuta irregolare degli stessi in quanto, mentre nel primo caso, trattandosi di sottrazione di tali scritture (anche sotto forma di omessa tenuta) alla disponibilità degli organi fallimentari, è necessario il dolo specifico di recare pregiudizio ai creditori, nell’ipotesi di fraudolenta tenuta, il dolo è generico e presuppone un accertamento su libri contabili effettivamente rinvenuti ed esaminati dai predetti organi.
Facendo applicazione del principio, la Corte, in particolare, ha annullato la sentenza di merito che, a fronte della contestazione di un’ipotesi di sottrazione o distruzione della contabilità, aveva affermato la responsabilità dell’imputato per la diversa ipotesi di concorso nell’omessa regolare tenuta delle scritture contabili, dando peraltro atto nella motivazione dell’assenza della prova di una “sia pur parziale tenuta delle scritture contabili”.
Decisamente nuova è, invece, l’affermazione di Sez. 5, n. 34146 del 27/5/2019, Colella, Rv. 277302-01, secondo cui anche la falsificazione del libro soci di una società a responsabilità limitata configura la bancarotta fraudolenta documentale, quando tale condotta incida sulla ricostruzione del patrimonio e degli affari dell’ente.
L’interesse della decisione si sostanzia nel fatto che viene considerata rilevante anche la falsificazione di un libro sociale che, a norma degli artt. 2214 e 2421 cod. civ., non rientra nel novero dei “libri e delle scritture contabili” e nemmeno tra le scritture e i libri obbligatori.
Per giungere alla conclusione indicata, la Corte in premessa ricorda i due diversi orientamenti della giurisprudenza precedente - uno, più risalente, secondo cui solo nel caso di bancarotta documentale dell’imprenditore individuale vengono in considerazione i libri e le scritture contabili previsti dall’art. 2214 cod. civ., mentre per le società commerciali, in forza del richiamo di cui all’art. 223 legge fall., hanno rilevanza tutti i libri che la legge considera, per esse, obbligatori e, quindi, anche quelli elencati nell’art. 2421 cod. civ. (così, Sez. 5, n. 10810 del 20/10/1993, Virgili, Rv. 196305-01); l’altro, relativamente più recente, secondo cui devono essere esclusi dall’oggetto materiale del delitto in questione i libri sociali indicati nelle disposizioni di cui all’art. 2421 cod. civ. poiché essi rappresentano fatti relativi all’organizzazione interna della società e sempre che, però, la loro falsificazione non vada ad incidere direttamente sulla rappresentazione contabile dei fatti di gestione (Sez. 5, n. 182 del 23/11/2006, dep. 2017, Piovesan, Rv. 236045-01) - per poi ritenere che il profilo dirimente non può essere rappresentato dalla natura individuale o collettiva dell’impresa e neanche dall’obbligatorietà o meno di tenuta dei libri, ma dall’incidenza concreta della condotta sulla ricostruzione del patrimonio e degli affari dell’impresa.
Nonostante a seguito delle modifiche dell’art. 2478 cod. civ., operate dal d.l. n. 185 del 2008 convertito nella l. n. 2 del 2009, non sia più obbligatoria, per le società a responsabilità limitata, la tenuta del libro soci, nella fattispecie in esame tale libro era stato tenuto e la sua falsificazione aveva ostacolato, in modo immediato e diretto, la ricostruzione degli affari sociali in quanto, l’imputato, quale liquidatore della società, dopo aver ottenuto la disponibilità di “una firma elettronica” a nome di un terzo, aveva intestato a questo, fittiziamente, le quote della società, gli aveva trasferito la carica di liquidatore e falsificato sia il verbale di assemblea, sia il libro soci nella parte relativa all’annotazione del trasferimento delle quote.
La falsificazione del libro soci aveva impedito la rappresentazione dell’identità sociale, danneggiando così i creditori che, attraverso l’identificazione dei soci, hanno modo di considerare la personale affidabilità di ciascuno.
In conclusione, ciò che rileva, secondo i Giudici, ai fini della bancarotta fraudolenta (e non anche in quella semplice nella quale l’oggetto del reato è costituito dalle sole scritture obbligatorie) non è l’obbligatorietà o meno di un documento, ma l’incidenza di questo nella ricostruzione degli affari sociali.
Con due arresti, la Corte ha confermato la tesi già espressa in passato (sez. 5, n. 19304 del 18/01/2013, Tumminelli, Rv 255439-01 e Sez. 5, n. 13285 del 18/01/2013, Pastorello, Rv. 255063-01) della possibilità di configurare la circostanza attenuante del danno di speciale tenuità, di cui all’art. 219, comma terzo, legge fall, per il delitto di bancarotta fraudolenta documentale, indicando, altresì, in presenza di quali elementi essa può essere concessa.
Sez. 5, n. 7888 del 3/12/2018, dep. 2019, Bovini, Rv. 275345- 01 e Sez. 5, n. 45136 del 27/6/2019, Tirone, hanno ritenuto che la circostanza attenuante in esame deve essere valutata in relazione al danno causato alla massa creditoria, in seguito all’incidenza che le condotte integranti il reato hanno avuto sulla possibilità di esercitare le azioni revocatorie e le altre azioni poste a tutela degli interessi creditori.
Nella prima delle due decisioni, in motivazione, la Corte ha anche osservato che l’occultamento delle scritture contabili, rendendo impossibile la ricostruzione dei fatti di gestione dell’impresa fallita, impedisce la stessa dimostrazione del danno, onde la mancanza delle scritture non può essere utilizzata per presumere circostanze favorevoli all’imputato, salvo che le contenute dimensioni dell’impresa non rendano plausibile la determinazione di un danno particolarmente ridotto.
Nel 2019 la Corte è tornata ad occuparsi del tema delle operazioni infragruppo, riprendendo sul punto sostanzialmente gli orientamenti pregressi, affermazione quest’ultima che non esime dal riportare alcune pronunce che possono essere di interesse, anche per le fattispecie esaminate.
A tal proposito, è di sicuro rilievo quanto affermato da Sez. 5, n. 22860 del 1/3/2019, Chiaro, Rv. 276634-01 che, occupandosi del cd. contratto di cash pooling (che consiste nell’accentare in capo ad un unico soggetto giuridico l’amministrazione delle disponibilità finanziarie di un gruppo societario, operando attraverso la gestione di un unico conto corrente su cui vengono riversati i saldi dei conti correnti di ciascuna società consociata), ha ritenuto che il trasferimento di ingenti risorse dalla controllata alla controllante non può essere di per sé giustificato dal sistema di tesoreria accentrata (cd. cash pooling) in quanto nessun “sistema”, qualunque sia la sua denominazione, giustifica il passaggio di risorse da una società all’altra, anche se facenti parte di un medesimo gruppo, quando la società deprivata si trovi in una situazione di conclamata sofferenza e manchino sia le garanzie di restituzione di quanto trasferito, sia un programma di riassestamento del gruppo volto a superare proprio le problematiche dell’ente in sofferenza.
A nulla giova, quindi, si è sottolineato nella decisione da ultimo riportata, che, a norma dell’art. 2497 cod. civ., sussista una responsabilità della società controllante per i debiti della controllata, poiché tale previsione non impedisce il fallimento della controllata e il danno per i suoi creditori attesa comunque la difficoltà per gli stessi di rivalersi verso un ente diverso da quello con cui si sono instaurati i rapporti commerciali.
Meritevoli di menzione sono anche Sez. 5, n. 10633 del 30/1/2019, Scambia, Rv. 276029-01 (che ha affermato che integra distrazione, rilevante quale ipotesi di bancarotta fraudolenta, il finanziamento erogato in favore di una società dello stesso gruppo in assenza di qualsiasi vantaggio compensativo per la società finanziatrice), Sez. 5, n. 47216 del 10/6/2019, Zanoni, (secondo cui per escludere la natura distrattiva di un’operazione di trasferimento di somme da una società ad altra non è sufficiente allegare la mera partecipazione ad un “gruppo di società”, dovendosi, invece, dimostrare, in maniera specifica, il saldo finale positivo delle operazioni compiute nella logica e nell’interesse di un gruppo ovvero la concreta e fondata prevedibilità di vantaggi compensativi, ex art. 2634 cod. civ, per la società apparentemente danneggiata), Sez. 5, n. 9843 del 12/10/2018, dep. 2019, Rossi, Rv. 275501–01 (per la quale il continuativo rilascio di garanzie, nella specie, fideiussioni bancarie, a favore di altre società del “gruppo”, di cui sia noto lo stato di difficoltà, per importi che esorbitino la capienza del patrimonio della società garante, con ciò determinandone il fallimento, comporta un immediato e sproporzionato sacrificio finanziario per la società garante a fronte di vantaggi aleatori con ragionevoli probabilità di insuccesso, è incompatibile con l’interesse sociale e con i principi di buona e corretta amministrazione) ed, infine, Sez. 5, n. 39043 del 24/9/2019, Corradini, Rv. 276960- 01 (che ha qualificato come “operazione di drenaggio di risorse della fallita” e quindi distrattiva, quella effettuata, in assenza di contropartite, a favore di una controllata con danaro proveniente dal patrimonio personale dell’imprenditore, ma già immesso nel patrimonio sociale, in quanto, una volta immesso nel patrimonio sociale, esso appartiene all’ente e costituisce garanzia delle pretese creditorie).
In tema di concorso di persone nel reato di bancarotta, Sez. 5, n. 37194 dell’11/7/2019, Fede, Rv. 277340-01 si è occupata del quid consistam dell’elemento psicologico, ritenendo che il dolo dell’extraneus richiede la consapevolezza della qualifica di imprenditore del soggetto intraneus, ma non la rappresentazione della sussistenza dei requisiti soggettivi di fallibilità, quali la tipologia e le dimensioni dell’impresa.
Argomenta la Corte, innanzitutto, che il concorso di persone nel reato proprio di bancarotta fraudolenta, regolato dalle norme di cui agli artt. 110 e segg. cod. pen., presuppone l’attività tipica di almeno un intraneus; il contributo causale da parte della condotta dell’extraneus sulla verificazione del fatto e la sua consapevolezza in ordine alla qualifica di imprenditore (assoggettabile, quindi, a fallimento) del soggetto attivo primario. Il criterio di imputazione soggettiva, ricavabile dai principi costituzionali, fatto proprio dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 364 del 1988, richiede che esso sia riferito agli “elementi più significativi della fattispecie tipica di reato” e, tra questi, senza alcun dubbio, nei reati propri rientra la qualità di intraneus.
La consapevolezza della qualità di imprenditore (e, quindi, della sua fallibilità) pertanto, sufficiente per la configurabilità del dolo dell’extraneus senza che, dunque, abbia rilevanza la rappresentazione dei requisiti soggettivi, quali la tipologia e le dimensioni dell’impresa, inerenti alle condizioni previste per la fallibilità, requisiti estranei anche allo scrutinio del giudice penale: fallimento o dissesto, infatti, non “giocano il ruolo di evento” del reato, con la conseguenza che non ha rilevanza la previsione o volontarietà degli stessi da parte dal concorrente extraneus.
Le conclusioni indicate appaiono sostanzialmente in termini con quelle secondo cui il dolo dell’extraneus è configurabile ogni qualvolta egli apporta un contributo causale volontario al depauperamento del patrimonio sociale, non essendo richiesta la consapevolezza dello stato di dissesto della società (da ultimo, ex multis, Sez. 5, n. 54291 del 17/05/2017 Bratomi, Rv. 271837-01; Sez. 5, n. 12414 del 26/01/2016, Morosi, Rv. 267059-01; Sez. 5, n. 9299 del 13/01/2009, Poggi Longostrevi, Rv. 243162-01; Sez. 5, n. 16579 del 24/03/2010, Fiume, Rv. 246879-01).
Per completezza va evidenziato che in giurisprudenza si è anche in più occasioni affermata, con riferimento alla posizione del concorrente extraneus, la necessità da parte di quest’ultimo della conoscenza dello stato di decozione dell’impresa da cui il denaro proviene (Sez. 5, n. 41333 del 27/10/2006, Tisi, Rv. 235766-01; Sez. 5, n. 16388 del 23/3/2011, Barbato, non massimata sul punto; Sez. 5, n. 27367 del 26/04/2011, Rosace, Rv. 250409-01).
In particolare, Sez. 5, n. 16000 del 10/02/2012, Daccò, Rv 252309-01 ha sostenuto che “se è di massima legittimo ipotizzare il concorso del terzo percipiente nel reato dell’imprenditore fallito, occorre, tuttavia, che non sia posta in dubbio la sua conoscenza dello stato di decozione dell’impresa da cui il denaro proviene … Invero, il tratto saliente della nozione di “distrazione fraudolenta” in sé comporta la consapevole ed ingiustificata esposizione a repentaglio delle ragioni dei creditori. La configurazione dell’elemento psicologico è agevole se riferita alla posizione dell’imprenditore: per costui è del tutto logico supporre la conoscenza della consistenza del proprio patrimonio: dunque, anche dei meccanismi produttivi di profitto nonché dei possibili benefici che l’impiego di denaro può procurare alle sorti dell’impresa, nonché del limite oltre il quale l’uscita di ricchezza rappresenta un serio rischio di insolvenza. Per questo versante è corretto ritenere completa la rappresentazione della propria realtà economica e sufficiente ad integrare la penale responsabilità, pertanto, con la dimostrazione di un dolo generico. Ma così non può dirsi per chi, non disponendo di una completa valutazione di questo compendio informativo, non necessariamente ricavi dal dato di uscita del denaro un giudizio di concreto e serio repentaglio agli interessi creditori, tanto più se il versamento sia finalizzato ad un (fondatamente) sperato e perseguito incremento della produttività e di profitto (esito che, se raggiunto, elide il danno da reato). Dunque, per la corretta valutazione della posizione dell’extraneus, il giudice deve giovarsi di una rigorosa dimostrazione del sufficiente contenuto rappresentativo dell’elemento psicologico, focalizzato sul concreto rischio di insolvenza, anche se non qualificato da una specifica volontà di cagionare danno ai creditori dell’imprenditore”.
Di grande interesse è stato l’apporto chiarificatore della Corte in tema di concorso tra le differenti ipotesi di bancarotta e tra queste e altre ipotesi di reato.
Sez. 5, n. 13399 dell’8/2/2019, P.m., Rv. 275094-01, trattando del rapporto con la truffa, ha evidenziato come quest’ultimo delitto, avente ad oggetto il conseguimento di finanziamenti bancari mediante falsificazione dei bilanci e di altra documentazione relativa alla situazione economico-patrimoniale di una società, non assorbe la condotta di bancarotta successivamente realizzata dal medesimo imputato attraverso la sottrazione al ceto creditorio delle somme derivanti dall’anzidetta condotta illecita, trattandosi di fatti illeciti naturalisticamente differenziati.
I due delitti, invece, concorrono tra loro, attesa la radicale differenza tra le due fattispecie per essere diversa sia la condotta (nella truffa consiste nell’induzione in errore determinante l’atto dispositivo, mentre nella bancarotta per distrazione, nel prelievo per fini extrasociali) che il danno (che, nel delitto di truffa, è determinato dall’entità dell’indebita prestazione erogata, mentre, nella bancarotta per distrazione, nel pregiudizio per il creditore e nel nocumento all’affidabilità dei terzi).
Non è, quindi, configurabile l’idem factum - ovvero il medesimo fatto storico naturalistico, inteso quale accadimento materiale comprensivo dell’azione o dell’omissione, del loro oggetto fisico, dell’evento conseguitone e del nesso di causalità con riferimento alle stesse condizioni di tempo, di luogo e di persona -ravvisato, invece, in un precedente arresto della Corte (Sez. 5, n. 25651 del 15 febbraio 2018, Pessotto, Rv. 25651), con riferimento al rapporto fra appropriazione indebita e bancarotta fraudolenta per distrazione.
In due diversi, ma quasi coevi arresti, la Corte si è occupata del rapporto fra bancarotta fraudolenta ed autoriciclaggio; Sez. 5, n. 8851 del 1/2/2019, Petricca, Rv. 275495-01 e Sez. 5, n. 38919 del 05/07/2019, PMT C/De Marco, Rv. 276853-01 hanno entrambe concluso nel senso che il mero trasferimento di somme oggetto di distrazione fallimentare a favore di imprese operative non integra il delitto di cui all’art. 648-ter.1, cod. pen. “occorrendo, a tal fine, un quid pluris che denoti l’attitudine simulatoria della condotta rispetto alla provenienza delittuosa del bene”.
In particolare, nella seconda delle due decisioni citate la Corte, in presenza della stipulazione di un contratto di affitto d’azienda in previsione del fallimento, ha osservato che, in assenza della verifica della concreta idoneità dell’operazione distrattiva ad ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa del bene, applicare entrambe le fattispecie, determinerebbe “un’ingiustificata sovrapposizione punitiva tra la norma sulla bancarotta e quella ex art. 648-ter.1 cod. pen.”.
I principi espressi si pongono in continuità con Sez. 2, n. 30401 del 07/06/2018, Ceoldo, Rv. 272970-01, secondo cui nel delitto di autoriciclaggio il prodotto, il profitto o il prezzo del reato non coincide con il denaro, i beni o le altre utilità provenienti dal reato presupposto, consistendo invece nei proventi conseguiti dall’impiego di questi ultimi in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative e, pertanto, ritenere punibile come autoriciclaggio “il mero trasferimento delle somme distratte verso imprese (sul solo presupposto della fisiologica destinazione delle medesime all’operatività aziendale di queste ultime), finirebbe per sanzionare penalmente due volte la stessa condotta quando le somme sottratte alla garanzia patrimoniale dei creditori sociali siano dirette verso imprenditori, generando rispetto a tale situazione specifica, un’ingiustificata sovrapposizione punitiva tra la norma sulla bancarotta e quella ex art. 648-ter.1 cod. pen.”.
In conclusione, in caso di bancarotta fraudolenta patrimoniale è possibile contestare anche l’autoriciclaggio solo se l’illecito trasferimento di danaro proveniente dalla società fallita a vantaggio di altre imprese gestite dalle medesime persone si sia realizzato mediante condotte che abbiano un’attitudine simulatoria rispetto alla provenienza delittuosa del bene, ossia un contegno che vada oltre la mera ricezione del bene proveniente da reato.
Sempre in tema di concorso, la già citata sentenza n. 1339 del 2019, in motivazione, si è poi occupata nuovamente dei rapporti tra bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale e bancarotta impropria, tematiche già scrutinate in passato dalla Corte (da ultimo, Sez. 5, n. 533 del 14/10/2016, dep. 2017, Zaccaria, Rv. 269019-01) e ha precisato che i reati di bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale (artt. 216 e 223, comma primo, legge fall.) hanno ambiti diversi rispetto alla bancarotta impropria di cui all’art. 223, comma secondo, n. 2, legge fall. in quanto, nel primo caso, vengono in evidenza atti di distrazione o dissipazione di beni societari ovvero di occultamento, distruzione o tenuta di libri e scritture contabili idonei a creare pericolo per le ragioni creditorie senza che occorra che essi abbiano causato il fallimento, ma solo che questo sia stato dichiarato; nel secondo caso, invece, le condotte dolose devono porsi in un nesso eziologico con il fallimento.
Da tale distinzione consegue, per la Corte che, mentre è da escludersi il concorso formale, è, invece, ben possibile il concorso materiale “qualora, oltre ad azioni ricomprese nello schema specifico della bancarotta ex art. 216 l. fall., si siano verificati differenti ed autonomi comportamenti dolosi i quali – concretandosi in abuso o infedeltà nell’esercizio della carica ricoperta o in un atto intrinsecamente pericoloso per l’andamento economico finanziario della società – siano stati causa del fallimento”.
Sulla bancarotta impropria, vanno anche segnalate, Sez. 5, n. 30735 del 5/4/2019, Cassano, Rv. 276996-01 (secondo cui integra il delitto di causazione del fallimento per effetto di operazioni dolose, l’omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto e dei contributi previdenziali e assistenziali che abbia causato il dissesto della società, potendo il reato fallimentare concorrere con quello tributario e con quello previdenziale in ragione della diversità sia dei beni tutelati sia della struttura dei reati), Sez. 5 n. 22488 del 15/2/2019, Apolloni, Rv. 276202-01, (per la quale le operazioni dolose di cui all’art. 223, comma secondo, n. 2, legge fall., possono consistere anche nella compensazione dell’ingente esposizione debitoria della società nei confronti del fisco con crediti inesistenti, in quanto siffatta operazione, comportando l’azzeramento meramente formale dei debiti, consente alla società di operare e contribuisce, in modo prevedibile, ad aggravare il dissesto della stessa determinando il maturarsi di ulteriori debiti con il fisco) e Sez. 5, n. 43562 del 24/10/2019, Vigna, Rv. 277125-01 (secondo cui la fattispecie può essere integrata anche da condotte omissive, ovvero nella sistematica elusione dei doveri imposti dalla legge all’organo amministrativo, quando esse comportino il fallimento della società e un depauperamento del patrimonio non giustificato dall’interesse per l’impresa).
La Cassazione si è occupata anche nel corso dell’anno della tematica della cd. “continuazione fallimentare”.
Sez. 5 n. 20532 del 2/4/2019, Angelini, Rv. 275311 - 01 ha ritenuto che, nel caso in cui all’imputato siano contestati più fatti di bancarotta, la mancata contestazione della circostanza aggravante speciale di cui all’art. 219, comma secondo, n. 1), legge fall. di non integra violazione dell’art. 522 cod. proc. pen., in quanto la predetta circostanza comporta una disciplina più favorevole di quella derivante dalle regole generali sulla determinazione della pena in caso di pluralità di reati e la contestazione di questi ultimi pone l’imputato in condizione di conoscere il significato dell’accusa e di esercitare il diritto di difesa.
Sez. 1, n. 37029 del 14/5/2019, Turri, Rv. 276941-01, invece, in termini con Sez. U. n. 21039 del 27/1/2011, Loy, Rv. 249669-01, ha affermato il principio secondo cui il giudice dell’esecuzione è tenuto ad applicare la disciplina speciale sul concorso di reati prevista dall’art. 219, comma secondo, n. 1, legge fall., nel caso in cui nei confronti di uno stesso soggetto siano state emesse, in procedimenti distinti, ma relativi alla stessa procedura concorsuale, più sentenze irrevocabili per fatti diversi di bancarotta, sempre che il giudice della cognizione non abbia già escluso la unificazione quoad poenam dei suddetti reati.
Nella motivazione della decisione si legge che, sotto il profilo formale, la continuazione fallimentare di cui al citato art. 219 viene configurata quale circostanza aggravante e ciò comporta l’assoggettabilità della stessa al giudizio di bilanciamento con le attenuanti e non l’applicabilità della disciplina della continuazione, di cui al cpv dell’ art. 81 cod. pen.. .
Con riferimento, infine, alla circostanza aggravante del danno patrimoniale di rilevante gravità di cui all’art. 219, comma primo, legge fall., si segnalano due interessanti pronunce, che incentrano l’attenzione soprattutto sulle modalità della sua contestazione.
Sez. 5, n. 14353 del 14/12/2018, dep. 2019, Violini, Rv. 275095-01, ha ritenuto insufficiente, la mera indicazione delle somme oggetto di distrazione, anche se d’importo elevato, in assenza sia del richiamo della disposizione circostanziale dell’art. 219 legge fall., sia della precisazione nel fatto di una qualsiasi notazione dalla quale sia possibile evincere che l’aggravante sia stata contestata, sia pure in fatto.
Sez. 5, n. 34116 del 6/5/2019, Ferri, Rv. 277300-02 ha ulteriormente evidenziato che, in assenza di una specifica indicazione da cui si comprenda che l’aggravante è stata contestata, non basta né la mera indicazione delle somme oggetto di distrazione, anche se di importo elevato, né il generico richiamo alle disposizioni di cui all’art. 219 legge fall., se non sia precisato il riferimento al comma 1 di tale articolo.
La materia dei sequestri, in tema di bancarotta, per la particolare importanza teorico-pratica che riveste, è stata oggetto di interessanti pronunzie anche nel 2019.
Prescindendo in questa sede dall’esame delle questioni sottese alla decisione delle Sez. U, n. 45936 del 26/9/2019, Fallimento di Mantova Petroli s.r.l., Rv. 277257-01, che ha riconosciuto la legittimazione del curatore fallimentare a chiedere la revoca del sequestro preventivo a fini di confisca e ad impugnare i provvedimenti in materia cautelare reale resi prima della dichiarazione di fallimento, di cui si tratterà in altro specifico capitolo, riveste un sicuro interesse, Sez. 5, n. 20000 del 15/3/2019, Fondazione Istituto d’arte e mestieri Vincenzo Roncalli, Rv. 275307-01 ha ribadito quanto già affermato dalla Corte nel 2005 (Sez. 5, n. 43871 del 9/11/11, Gaito, Rv. 232731-01) in punto di legittimità del sequestro preventivo disposto prima della sentenza di fallimento.
La legittimità di siffatto provvedimento, secondo la Corte, discende direttamente dal disposto di cui all’art. 238 legge fall. che consente lo svolgimento di attività di indagine in relazione ai reati di bancarotta purché ricorrano indizi dello stato di insolvenza o concorrano gravi motivi e sia stata presentata domanda per ottenere la dichiarazione di fallimento.
Nella fattispecie, l’ente nei cui confronti era stata disposta la misura era un consorzio, partecipato da soggetti pubblici, avente natura di società commerciale e, pertanto, soggetto al fallimento non rivestendo alcuna rilevanza, a tal fine, la composizione del capitale sociale, le attività in concreto esercitate e le forme di controllo a cui l’ente è assoggettato essendo ad esso applicabile, conformemente a quanto ritenuto anche dalla giurisprudenza civile (Sez. 1 civ., n. 17279 del 02/07/2018, Rv. 649517), l’art. 2221 c.c. in forza del rinvio alle norme del codice civile, contenuto prima nell’art. 4, comma 13, del d.l. n. 95 del 2012, conv. con modif. dalla l. n. 135 del 2012 e poi nell’art. 1, comma 3, del d.lgs. n. 175 del 2016.
Altro problema che si è posto in argomento è quello che concerne l’ammissibilità del sequestro preventivo finalizzato alla confisca del danaro della società fallita che sia stato assegnato ai creditori con piano di riparto dichiarato esecutivo, ma non ancora eseguito.
Sez. 4 n. 7550 del 5/12/2018, dep. 2019, Sansone, Rv. 275129-01 ha ritenuto la legittimità della predetta misura cautelare sulla scorta del rilievo che il decreto del giudice delegato fallimentare, dichiarativo dell’esecutività del piano di riparto, non ha efficacia traslativa della proprietà dei beni ricompresi nella massa fallimentare, poiché con esso il giudice si limita ad accertare la misura dei crediti aventi diritto al riparto e ad ordinare al curatore il pagamento, mentre l’effetto traslativo si produce solo con la materiale traditio del danaro. Ne deriva che sino a tale momento esso è ancora del fallito e, quindi, è sequestrabile da terzi.
La decisione sembra sul punto porsi in contrasto con altra di poco precedente (Sez. 3, n. 45574 del 29/05/2018, E., Rv. 273951– 01) che aveva, invece ritenuto non potersi adottare il sequestro preventivo finalizzato alla confisca di cui all’art. 12-bis, d.lgs. n. 74 del 2000, sui beni già assoggettati alla procedura fallimentare, in quanto la dichiarazione di fallimento importa il venir meno del potere di disporre del proprio patrimonio in capo al fallito, attribuendo al curatore il compito di gestire tale patrimonio al fine di evitarne il depauperamento.
Sempre in tema di sequestro preventivo finalizzato alla confisca, in applicazione tra l’altro del principio di proporzionalità operante anche per le misure cautelari reali, Sez. 5 n. 5868 dell’11/12/2018, dep. 2019, Pungitore, Rv. 275496-01 ha ritenuto illegittimo, in tema di bancarotta fraudolenta, il sequestro preventivo totalitario delle quote di una società, indicata come destinataria di beni distratti dalla società fallita, ove sia stato disposto per un valore eccedente quello attribuito ai beni distratti e senza accertare il collegamento strumentale tra il reato fallimentare e la cosa sequestrata.
Sul sequestro conservativo, infine, vanno segnalate due decisioni.
Secondo Sez. 5, n. 8445 del 1/2/2019, Spinazzè, Rv. 276123-01, mentre per l’adozione del provvedimento è sufficiente che vi sia fondato motivo per ritenere che manchino le garanzie del credito, ossia che il patrimonio del debitore sia, all’attualità, insufficiente per l’adempimento delle obbligazioni di cui all’art. 316, commi 1 e 2, cod. proc. pen., non occorrendo che sia simultaneamente configurabile un futuro depauperamento del debitore medesimo, nell’apprezzamento del periculum in mora, invece, il punto di vista centrale è dato dal credito nei confronti dell’imputato e dal rischio che, all’esito del processo, la garanzia non possa trovare soddisfazione con il patrimonio del condannato; è, quindi, necessario che il provvedimento determini, sia pure in modo approssimativo, ma sulla base comunque di dati oggettivi (quali, ad esempio, il numero delle parti civili, la causale delle pretese risarcitorie, l’ammontare delle somme richieste), il quantum del credito risarcitorio da garantire, non essendo sufficiente il mero riferimento al valore dei beni distratti.
Sez. 5, n. 32468 del 10/10/2019, Wu Yujun, Rv. 276928-01, poi, ha escluso che il danno provocato dall’autore di delitti di bancarotta alla massa fallimentare possa considerarsi limitato alla misura (in ipotesi minore) del passivo fallimentare e, ritenuto, quindi, che il valore dei beni da sottoporre a vincolo debba essere determinato tenendo conto non del solo passivo fallimentare (a meno che non sia stato accertato in via definitiva), ma anche delle spese di procedura e di tutte le ulteriori ragioni di credito, ivi comprese quelle relative ai danni, anche non patrimoniali, cagionati alla società e agli altri soci.
Sentenze della Corte di cassazione
Sez. U, n. 2 del 25/1/1958, Mezzo, Rv. 98004 -01
Sez. 5, n. 10810 del 20/10/1993, Virgili, Rv. 196305 -01
Sez. 5, n. 2273 del 06/12/2004 - dep. 2005-, Martella, Rv. 231289
Sez. 5, n. 41333 del 27/10/2006, Tisi, Rv. 235766 -01
Sez. U, n. 18601 del 28/2/2008, Niccoli, Rv. 239398-01
Sez. 5 n. 14908 del 7/3/2008, Frigerio, Rv. 239487
Sez. 5, n. 9299 del 13/01/2009, Poggi Longostrevi, Rv. 243162-01
Sez. U, n. 24468 del 26/2/2009, Rizzoli, Rv. 243587-01
Sez. 5, n. 16579 del 24/03/2010, Fiume, Rv. 246879-01
Sez. 5, n. 16388 del 23/3/2011, Barbato, Rv. 250108-01
Sez. 5, n. 20911 del 19/04/2011, Gaiero e altri, Rv. 250407-01
Sez. 5, n. 27367 del 26/04/2011, Rosace, Rv. 250409-01
Sez. 5, n. 43871 del 9/11/11, Gaito, Rv. 232731-01
Sez. 5, n. 1793 del 10/11/2011 - dep. 2012-, N, Rv. 252003-01
Sez. 5, n. 16000 del 10/02/2012, Daccò, Rv 252309-01
Sez. 5, n. 25292 del 30/05/2012, Massocchi, Rv. 253001-01
Sez. 5, n. 42710 del 03/07/2012, De Falco, Rv. 254456-01
Sez. 5 n. 13318 del 14/2/2013, Viale, Rv. 254985-01
Sez. 5, n. 19304 del 18/01/2013, Tumminelli, Rv 255439-01
Sez. 5, n. 5186 del 02/10/2013-dep. 2014- Giamundo, Rv. 260196
Sez. 5, n. 41143 del 20/05/2014, Zavaroni, Rv. 261250-01
Sez. 5, n. 34505 del 06/06/2014, Marchesi, Rv. 264277-01
Sez. 5, n. 12414 del 26/01/2016, Morosi, Rv. 267059-01
Sez. 5, n. 533 del 14/10/2016, dep. 2017, Zaccaria, Rv. 269019-01
Sez. 5, n. 17819 del 24/3/2017, Palitta, Rv. 269562-01
Sez. 5, n. 50188 del 10/5/17, Mascellani, Rv. 271775-01
Sez. 5, n. 54291 del 17/05/2017 Bratomi, Rv. 271837-01
Sez. 5, n. 43977 del 14/7/2017, Pastechi, Rv. 271753-01
Sez. 5, n. 49509 del 19/07/2017, Allia, Rv. 271464-01
Sez. 5, n. 25651 del 15/2/ 2018, Pessotto, Rv. 25651-01
Sez. 5, n. 32378 del 12/04/2018, Fagiolo, Rv. 273576-01
Sez. 5, n. 40477 del 18/05/2018, Alampi, Rv. 273800-01
Sez. 3, n. 45574 del 29/05/2018, E., Rv. 273951– 01
Sez. 2, n. 30401 del 07/06/2018, Ceoldo, Rv. 272970-01
Sez. 5 n. 50495 del 14/6/2018, Sestili, Rv. 274602-01
Sez. 5, n. 53210 del 19/10/2018, Esposito, Rv. 275133 - 02
Sez. 5, n. 2900 del 2/10/2018, dep. 2019, Pisano, Rv. 274630-01
Sez. 5, n. 2899 del 02/10/2018, dep. 2019, Signoretti, Rv. 274610
Sez. 5, n. 9843 del 12/10/2018, dep. 2019, Rossi, Rv. 275501-01
Sez. 4, n. 7550 del 5/12/2018, dep. 2019, Sansone, Rv. 275129-01
Sez. 5, n. 6548 del 10/12/2918, dep. 2019, Villa, Rv. 275499-01
Sez. 5, n. 5868 dell’11/12/2018, dep. 2019, Pungitore, Rv. 27549
Sez. 5, n. 14353 del 14/12/2018, dep. 2019, Violini, Rv. 275095
Sez. 5, n. 23609 del 14/12/2018, Musso, Rv. 273473-01
Sez. 5, n. 10633 del 30/1/2019, Scambia, Rv. 2760297-01
Sez. 5, n. 13390 del 23/1/2019, Simonetta
Sez. 5, n. 8851 del 1/2/2019, Petricca, Rv. 275495-01
Sez. 5, n. 8445 del 1/2/2019, Spinazzè, Rv. 276123-01
Sez. 5, n. 8431 del 1/2/2019, Vesprini, Rv. 276031-01
Sez. 5, n. 13399 dell’8/2/2019, P.m. Rv. 275094-01
Sez. 5, n. 22488 del 15/2/2019, Apolloni, Rv. 276202-01
Sez. 5, n. 25773 del 20/2/2019, Scarpaci
Sez. 5, n. 26613 del 22/02/2019 Amidani, Rv. 276910-01
Sez. 5, n. 31974 del 13/3/2019, Burani, Rv 277248
Sez. 5, n. 20000 del 15/3/2019, Fondazione Roncalli, Rv. 275307
Sez. 5, n. 22860 del 1/3/2019, Chiaro, Rv.276634-01
Sez. 5, n. 20532 del 2/4/2019, Angelini, Rv. 275311-01
Sez. 5, n. 34116 del 6/5/2019, Ferri, Rv. 277300-01
Sez. 1, n. 37029 del 14/5/2019, Turri, Rv. 276941-01
Sez. 5, n.34146 del 27/5/2019, Colella, Rv. 277302-01
Sez. 5, n. 32468 del 28/5/2019, Wu Yujun, Rv. 276928- 01
Sez. 5, n. 47216 del 10/6/2019, Zanoni
Sez. 5, n. 45136 del 27/6/2019, Tirone
Sez. 5, n. 37194 dell’11/7/2019, Fede, Rv. 277340-01
Sez. 5, n. 39043 del 24/9/2019, Corradini, Rv. 276960-01
Sez. U, n. 45936 del 26/9/2019, Fall.Mantova Petroli, Rv. 277257
Sez. 5, n. 20514 del 22/10/2019, Martino, Rv. 275261-01
Sez. 5, n. 43562 del 24/10/2019, Vigna, Rv. 277125-01
Sez. 5, n. 7888 del 3/12/2019, Bovini, Rv. 275345-01
Sentenze della Corte di cassazione civile
Sez. 1 civ., n. 15035 del 08/06/2018, Rv. 649557
Sez. 1 civ., n. 17279 del 02/07/2018, Rv. 649517
Sentenze della Corte costituzionale
Corte cost., sent. n. 368 del 1988
Con tre rilevanti dicta la Corte di cassazione nel 2019 interviene sui delitti inerenti il legittimo esercizio delle attività bancarie e finanziarie previsti dagli artt. 131 e 132 d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385 (c.d. testo unico bancario).
Invero nel mercato del credito, soprattutto in una dimensione transnazionale di circolazione del denaro, appaiono sempre più nuove forme di rapporti economici e nuovi prodotti finanziari, con costrutti negoziali atipici che rispondono a esigenze di concorrenza internazionale nel mercato finanziario e alla disponibilità di strumenti finanziari agili.
Ma anche le nuove forme di presenza e negoziazione nel mercato del credito devono rientrare nel contesto di un’attività legittima, in quanto lecita e autorizzata, per il nostro ordinamento giuridico.
Le decisioni de quibus contribuiscono complessivamente a disegnare il quadro interpretativo dei limiti interni ed esterni dell’esercizio legittimo di tali attività, oltre i quali si sconfina nell’abusivismo finanziario e/o bancario.
Con la sentenza della Sez. 5, n. 12777 del 16/11/2018, dep. 2019, Albertazzi, Rv. 275996-01, la Corte interviene su vari profili dell’art. 132 d.lgs. n. 385 del 1993, che incrimina l’abusiva attività finanziaria, la cui condotta è determinata dallo “svolgimento nei confronti del pubblico” di “una o piu’ attivita’ finanziarie previste dall’articolo 106, comma 1, in assenza dell’autorizzazione di cui all’articolo 107 o dell’iscrizione di cui all’articolo 111 ovvero dell’articolo 112”.
Invero, dal combinato disposto di tali disposizioni e in particolare dall’art. 106 d.lgs. n. 385 del 1993, emergono le attività finanziare da autorizzare e riservandole agli intermediari finanziari.
Tali attività sono costituite, innanzi tutto, dall’ “esercizio nei confronti del pubblico dell’attivita’ di concessione di finanziamenti sotto qualsiasi forma”, e dalle attivita’ di: emettere moneta elettronica e prestare servizi di pagamento; prestare solo servizi di pagamento; prestare servizi di investimento; esercitare le altre attivita’ eventualmente consentite dalla legge nonche’ attivita’ connesse o strumentali, nel rispetto delle disposizioni dettate dalla Banca d’Italia.
L’attenzione della Corte con la decisione della Sez. 5, n. 12777 del 16/11/2018, dep. 2019, Albertazzi, Rv. 275996-01 si sofferma sulla definizione di concessione di finanziamenti “sotto qualsiasi forma” che caratterizza l’oggetto della condotta di esercizio di abusiva attività finanziaria.
Il caso giunto all’attenzione della Corte merita evidenza riguardando le attività esercitate indirettamente da un istituto extracomunitario non autorizzato ex art. 106 n. 385 del 1993.
Tale istituto, in particolare, operava quale mandante per erogare finanziamenti “in pool” mediante un istituto italiano, fermo restando che l’istituto extracomunitario mandante esercitava poteri di valutazione autonoma circa il merito creditizio dei beneficiari. Questi ultimi sottoscrivevano la convenzione interbancaria stipulata tra le banche in “pool”, in modo da essere informati della provenienza di una parte della provvista dall’istituto estero. Inoltre il rischio di insolvenza del cliente era ripartito tra la banca italiana e quella estera alla quale era attribuita, ai sensi dell’art. 1705, comma secondo, cod. civ., azione diretta verso i mutuatari.
Il thema decidendum, portato all’attenzione della Corte, è pertanto quello di determinare il rilievo di tale costrutto negoziale interbancario al fine di ricondurlo a una “qualsiasi forma” di finanziamento, che se e in quanto non autorizzato in capo all’istituto straniero, costituisce la condotta incriminata.
La Corte è dell’avviso che compete al giudice penale verificare se, al di là della regolazione apparente dei rapporti tra i soggetti coinvolti nelle operazioni, si configuri “in fatto”, in capo all’istituto privo di autorizzazione, la sostanziale ingerenza nei rapporti scaturiti dall’erogazione delle somme.
Una prima importante argomentazione della Corte respinge la critica secondo cui la Corte territoriale avrebbe in realtà fondato una interpretazione analogica in malam partem della nozione di “concessione di finanziamenti” di cui all’art. 106 n. 385 del 1993, basata sulla sostanza, anzicchè sulla forma, e sulla ratio dell’incriminazione.
A giudizio della Corte di cassazione la dicotomia forma/sostanza non appare pertinente. L’oggetto dell’accertamento giurisdizionale, infatti, per restare nell’ambito delle dicotomie concettuali, appare più propriamente definibile sulla base della dicotomia fatto/diritto: il compito del giudice penale, anche con riferimento alle norme incriminatrici in rapporto di accessorietà con gli altri rami dell’ordinamento, è quello di accertare il fatto, e la sua corrispondenza alla fattispecie di reato contestata, senza che possa ritenersi assorbente ed esclusiva la qualificazione giuridica attribuita dall’agente al fatto.
Muovendo da tale argomentazione, incentrata sull’osservazione del fatto (e non del profilo giuridico attribuito dagli istituti bancari coinvolti), la Corte di cassazione valorizza l’elemento dell’ingerenza nel momento negoziale genetico del finanziamento.
Si osserva infatti che, seppur i due istituti bancari operavano sulla base dello schema del mandato senza rappresentanza, era la convenzione interbancaria a prevedere i poteri di ingerenza dell’istituto bancario straniero, non autorizzato, nella fase precontrattuale (di valutazione del merito creditorio) e contrattuale dei finanziamenti erogati ai singoli mutuatari.
Non secondaria appare altra osservazione circa la fisiologia del rapporto giuridico che sorge dal contratto di mandato: infatti, in forza dell’art. 1705, comma 2, cod. civ. si assicura al mandante una azione diretta nei confronti dei terzi, per esercitare i diritti di credito derivanti dall’esecuzione del mandato, purché non pregiudichi i diritti del mandatario (vedi Sez. U, n. 24772 del 08/10/2008, Rv. 604829 – 01).
La Corte, pertanto, esclude che lo schema contrattuale del mandato senza rappresentanza possa ritenersi di per sé idoneo a ‘schermare’ l’attività diretta di concessione di finanziamenti, in presenza di molteplici indici - negoziali e fattuali - del coinvolgimento dell’istituto mandante.
Merita evidenza al riguardo un’importante ratio decidendi della motivazione di Sez. 5, n. 12777 del 16/11/2018, dep. 2019, Albertazzi, Rv. 275996-01: “per il giudice penale… rileva non il contratto, ma l’attività sottoposta a controllo, non la forma negoziale adottata per il finanziamento quale contratto, bensì la sostanza concreta delle operazioni effettuate quale attività sottoposta a controllo”.
La forma negoziale non può, quindi, creare una sovrastruttura rispetto ai principi del diritto penale del fatto che impongono di accertare quale sia stata in concreto l’attività del soggetto finanziatore e non quale veste giuridica abbia assunto su volontà dello stesso soggetto. Aver costruito il rapporto interbancario quale negozio di mandato non consente per ciò solo di considerare lecita ogni attività svolta in esecuzione di tale mandato.
In definitiva, la norma incriminatrice attribuisce rilevanza alla “attività di concessione di finanziamenti sotto qualsiasi forma”, e pertanto lo schema negoziale del mandato conferito da un istituto straniero non autorizzato a una banca italiana autorizzata, non consente al primo di insinuarsi lecitamente nel mercato nazionale del credito se effettivamente e sostanzialmente rimane il soggetto erogatore del finanziamento – sebbene “in pool” – con un controllo diretto dell’affidabilità e l’azione diretta nei confronti del beneficiario.
Altro requisito previsto dalla fattispecie incriminatrice, concerne lo svolgimento dell’attività “nei confronti del pubblico dell’attività di concessione di finanziamenti…”.
Al riguardo con la decisione della Sez. 5, n. 24447 del 15/02/2019, Spanghero, Rv. 276587-01, la Corte si sofferma su un altro profilo della condotta di esercizio abusivo di attività finanziaria, di cui all’art. 132 d. lgs. n. 385 del 1993, innovato dal d.lgs 27 gennaio 2010, n. 11.
In particolare l’attenzione della Corte si posa sull’elemento costituitivo per cui la condotta di esercizio di un’attività di finanziamento deve rivolgersi “nei confronti del pubblico”.
Con tale locuzione la norma individua una precisa direzione che deve assumere l’abusiva attività finanziaria che, sotto qualsiasi forma, deve pur sempre avere un’apertura verso una cerchia indefinita di soggetti potenzialmente interessati al credito.
Il caso sub iudice era quello di finanziamenti a favore dei propri clienti, acquisiti in forza di una parallela primaria attività imprenditoriale (rivendita di arredamenti), della cui struttura organizzativa ci si avvaleva. Si trattava di una attività rivolta ad una cerchia di persone che, seppure ristretta, era potenzialmente illimitata e comunque indeterminata. Tale connotato, a parere della Corte nella decisione in esame, integra il requisito di destinazione al pubblico dell’attività finanziaria.
La Corte osserva che la concessione di crediti, secondo quanto specificato nel D.M. Tesoro 17 febbraio 2009, n. 29, senza autorizzazione, è comunque un inserimento abusivo nel libero mercato così sottraendosi, da un lato, ai controlli di stabilità e di affidabilità, e dall’altro, operando nei confronti del pubblico.
Proprio con riferimento a tale ultimo aspetto, l’art. 9 del D.M. n. 29 del 2009, definisce “l’esercizio di attività nei confronti del pubblico”, quelle attività indicate negli articoli 3, 4 e 5 “qualora siano svolte nei confronti di terzi con carattere di professionalità”, quindi, in modo organizzato con modalità e strumenti tali da prevedere e consentire la concessione non occasionale di mutui e di finanziamenti, a un numero, non necessariamente vasto, ma potenzialmente indeterminato, di persone (Sez. 5 n. 21927 del 17/05/2018, Gigantini, Rv. 273017; Sez. 5 n. 18317 del 16/12/2016 dep. 2017, Kienesberger, Rv. 269616; Sez. 6 n. 27187 del 13/04/2018, Spinella, Rv. 273583).
Pertanto la destinazione al pubblico dell’attività finanziaria ricorre, secondo l’indirizzo assunto dalla Corte, anche quando l’attività sia in concreto destinata a una cerchia ristretta di persone, purchè, tuttavia, essa venga rivolta a un numero potenzialmente illimitato di soggetti.
La Corte con la Sez. 5, n. 24447 del 15/02/2019, Spanghero, Rv. 276587-01, ritiene superato da tempo l’orientamento che ha affermato la necessità che l’agente ponga in essere una delle condotte indicate dall’art. 106 d.lgs n. 385 del 1993. (così sottraendosi ai controlli di affidabilità e stabilità) operando indiscriminatamente fra il pubblico, così imponendosi la necessità che la predetta attività sia professionalmente organizzata con modalità e strumenti tali da prevedere e consentire la concessione sistematica di un numero indeterminato di mutui e finanziamenti, rivolgendosi a un numero di persone potenzialmente vasto e realizzandosi così quella latitudine di gestione tale da farla trasmigrare dal settore privato a quello pubblico e ricondurla, quindi, nell’ambito di operatività della legge bancaria (Sez. 2 n. 5285 del 02/10/1997, Nasso, Rv. 209597; Sez. 2 n. 4882 del 12/11/2001, dep. 2012, Maione, Rv. 220659).
Non si richiede, in definitiva, che i servizi siano resi “al pubblico” inteso in senso di comunità indifferenziata dei destinatari, poichè, invece, è sufficiente fare riferimento a un concetto “qualitativo” di destinatari, che possono essere anche ricondotti a una ristretta cerchia di soggetti, come nel caso concreto i clienti dell’attività commerciale di vendita di arredamenti.
La Corte, con la sentenza Sez. 5, n. 12777 del 16/11/2018, dep. 2019, Albertazzi, Rv. 275996-01, ci offre un importante obiter dictum che concerne la natura del reato di esercizio abusivo di attività finanziaria, di cui all’art. 132 d.lgs. n. 385 del 1993, quale reato di pericolo che tutela la funzione di controllo della Banca d’Italia sulle attività finanziarie.
Le considerazioni sull’attività incriminata consentono al giudice di legittimità di evidenziare che la tecnica di tutela penale adottata dal legislatore ha strutturato la fattispecie di abusiva attività finanziaria come reato di pericolo astratto laddove le operazioni protratte nel tempo devono essere collegate da un nesso di abitualità strutturato in una condotta unica della quale la ripetizione di una o più delle attività previste dall’art. 106 d.lgs. n. 385 del 1993, costituisce requisito essenziale (già nello stesso senso, Sez. 5, n. 7986 del 12/11/2009, dep. 2010, Gallo, Rv. 246148).
Invero, la Corte osserva che la tecnica di tutela adoperata non risulta apprestata a salvaguardia di percepibili beni giuridici (individuali o collettivi), finali o intermedi, bensì a salvaguardia della funzione, affidata alla Banca d’Italia, di controllare le offese e bilanciare i contrapposti interessi che vengono in rilievo, cui è affidata anche la funzione di controllo preventivo e vigilanza sulle attività finanziarie.
Il bene giuridico tutelato dall’art. 132 d.lgs n. 385 del 1993, pertanto, concerne il controllo preventivo e la vigilanza sulle attività creditizie e di finanziamento, l’esercizio regolare delle attività bancarie e dei servizi di finanziamento, l’ostacolo alla penetrazione, nel mercato creditizio e finanziario, di capitali di provenienza illecita. E tali interessi, sottesi alla tutela penale della funzione di controllo e vigilanza, sono suscettibili di compromissione ed offesa, già attingendo la soglia del pericolo astratto.
Con medesime considerazioni Sez. 5, n. 24447 del 15/02/2019, Spanghero, Rv. 276587-01 giunge a ritenere il reato come di pericolo presunto (in linea con Sez. 5 n. 18317 del 16/12/2016 dep. 2017, Kienesberger, Rv. 269616).
Al di là del predicato del pericolo, presunto o astratto, la condotta abituale dell’esercizio abusivo aggredisce la trasparenza, correttezza e liceità del mercato finanziario, che si avverte anche quando le attività finanziarie siano esercitate indirettamente, mediante schermature formali (come nel caso della banca italiana cui venga conferito un mandato senza rappresentanza da una banca straniera non autorizzata).
Altro importante insegnamento della sentenza Albertazzi della Sezione quinta riguarda il tema della successione di leggi e in particolare la rimodulazione della sanzione penale.
Invero per una superficialità del legislatore intervenuto nel 2010 con la disposizione dell’art. 8, comma 2, d. lgs. 13 agosto 2010, n. 141, che avendo integralmente sostituito il testo originario dell’art. 132 d.lgs. n. 385 del 1993, riformulandone sia la parte precettiva che quella sanzionatoria, ha tacitamente abrogato, con riferimento a detta fattispecie, la previsione dell’art. 39 della legge 28 dicembre 2005, n. 262, che stabiliva il raddoppio delle pene comminate, tra l’altro, dal predetto d.lgs. n. 385 del 1993.
In tal senso si pronuncia Sez. 5, n. 12777 del 16/11/2018 - dep. 2019, Albertazzi, Rv. 275996-02.
La quaestio merita di essere ricostruita con un’analisi diacronica.
L’art. 39 della legge n. 262 del 2005, stabiliva il raddoppio delle pene comminate, tra l’altro, dal predetto d.lgs. n. 385 del 1993 e pertanto anche dall’art. 132.
L’art. 8 d.lgs. n. 141 del 2010, aveva sostituito integralmente l’art. 132 cit.; pertanto si pone la questione di determinare se tale sostituzione abbia fatto venir meno il raddoppio previsto dal citato art. 39, che, in quanto norma di portata generale, resta comunque applicabile a tutti gli altri reati previsti dal d.lgs. n. 385 del 1993.
Al riguardo, si registra un primo orientamento a favore dell’ultrattività del raddoppio delle pene, secondo cui in materia di abusivo esercizio dell’attività di intermediazione finanziaria, la disposizione di cui all’art. 8, comma 2, d.lgs. n. 141 del 2010 non ha abrogato l’aumento di sanzione previsto dall’art. 39 l. n. 262 del 2005 (Sez. 5, n. 18544 del 27/02/2013, Strada, Rv. 255192). Quest’ultima sentenza ha, infatti, evidenziato che l’intervento normativo è incentrato sulla revisione della disciplina dei soggetti operanti nel settore finanziario (così la relazione illustrativa allo schema di decreto legislativo). Orbene, in nessun punto della l. n. 88 del 2009, e precisamente negli artt. 2 e 33 che fissano principi e criteri direttivi della delega legislativa, si fa riferimento ad una modifica delle sanzioni penali previste dal testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia; un eventuale dimezzamento dei livelli edittali, si risolverebbe in un eccesso di delega legislativa, con conseguente illegittimità costituzionale del d.lgs. n. 141 del 2010 (in particolare dell’art. 8).
La Corte nella decisione in commento è di opposto orientamento, rispetto all’ultrattività del raddoppio delle pene previsto dall’art. 39 della legge n. 262 del 2005 anche con riferimento al reato di cui all’art. 132 d.lgs. n. 385 del 1993.
Gli argomenti che depongono a favore di tale interpretazione si sviluppano su un piano di teoria generale ermeneutica.
Innanzitutto, la Corte osserva che l’interpretazione costituzionalmente orientata è possibile ed ammissibile allorquando sia consentita dal tenore letterale della norma; ma l’interpretazione posta a fondamento dell’ultrattività del raddoppio delle pene anche con riferimento all’art. 132 d.lgs. n. 385 del 1993 va ascritta più propriamente all’ambito dell’interpretazione secondo l’intenzione del legislatore (art. 12 disp. prel. cod.civ.), essendo fondata sui limiti della legge delega nell’esercizio della quale è stato emanato l’art. 8 d.lgs. n. 141 del 2010.
La questione in esame non riguarda l’interpretazione della norma, bensì il diverso fenomeno della successione tra le leggi, ed in particolare l’abrogazione parziale.
Pertanto la Corte ci indirizza verso l’art. 15 Preleggi, che prevede le due ipotesi di abrogazione “espressa” e “tacita”. L’abrogazione opera sulle norme, e non sulla fonte di produzione della norma, e nel caso in esame viene in rilievo proprio il fenomeno dell’abrogazione “tacita” per la regolamentazione ex novo ed integrale della medesima materia da parte di una fonte successiva.
Invero, l’art. 39 della legge n. 262 del 2005, tuttora vigente (con riferimento alle altre fattispecie incriminatrici non coinvolte da successioni di leggi), ha previsto: “Le pene previste dal testo unico di cui al decreto legislativo 10 settembre 1993, n. 385, dal testo unico di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, dalla legge 12 agosto 1982, n. 576, sono raddoppiate entro i limiti posti per ciascun tipo di pena dal libro I, titolo II, capo II, del codice penale”.
In conseguenza di tale disposizione, argomenta la medesima decisione, le pene detentive originariamente previste dall’art. 132 d.lgs. n. 385 del 1993, erano, dunque, pari nel minimo ad un anno e nel massimo ad otto anni di reclusione.
Successivamente, però, l’art. 8, comma 2, d.lgs. n. 141 del 2010 così sostituisce l’articolo 132 d.lgs. n. 385 del 1993: “Art. 132. Abusiva attività finanziaria 1. Chiunque svolge, nei confronti del pubblico una o più attività finanziarie previste dall’articolo 106, comma 1, in assenza dell’autorizzazione di cui all’articolo 107 o dell’iscrizione di cui all’articolo 111 ovvero dell’articolo 112, è punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni e con la multa da euro 2.065 ad euro 10.329”.
L’art. 8 d.lgs. n. 141 del 2010 ha, pertanto, sostituito integralmente il testo previgente, in relazione al quale era stato previsto il raddoppio delle pene, operando una vera e propria novazione della fonte di produzione del reato di cui all’art. 132 d.lgs. n. 385 del 1993; reato per il quale, successivamente al raddoppio generalizzato disposto con l’art. 39 legge n. 262 del 2005, ha previsto una pena detentiva da sei mesi a quattro anni di reclusione.
Pertanto conclude la Corte che “la sostituzione della disposizione ha riguardato l’intera norma incriminatrice, sia nella sua dimensione precettiva, che nella sua dimensione sanzionatoria, determinando una abrogazione della cornice edittale risultante dal combinato disposto di cui al previgente art. 132 TUB e all’art. 39 I. 262/2005”.
Ne consegue che, seppur ascrivibile ad una svista legislativa, o ad un difetto di coordinamento, il reato di cui all’art. 132 d.lgs. n. 385 del 1993 è disciplinato da una fonte di produzione - l’art. 8, comma 2, d.lgs. 141/2010 - diversa e successiva a quella in relazione alla quale era stato disposto il raddoppio delle pene con l’art. 39 legge n. 262 del 2005; disposizione, quest’ultima, che, in difetto di coordinamento e di espressa previsione legislativa, non può essere applicata anche alla nuova norma incriminatrice che, nel 2010, ha “sostituito” la precedente, pur nell’ambito di una continuità del tipo di illecito.
Trattandosi di una norma incriminatrice, in relazione alla quale vige, in termini ancor più stringenti, il principio di stretta legalità, va dunque affermato che, nell’ambito di un fenomeno di successione di leggi nel tempo, il reato di esercizio abusivo di attività finanziaria, previsto dall’art. 132 d.lgs. n. 385 del 1993, è stato modificato, non soltanto nella parte precettiva, limitatamente alla individuazione dei soggetti operanti nel settore finanziario, ma altresì nella parte sanzionatoria, con una riduzione dei limiti edittali, ripristinati (non rileva se consapevolmente o meno) nella misura originaria di, rispettivamente, sei mesi e quattro anni di reclusione.
Nella medesima motivazione di Sez. 5, n. 12777 del 16/11/2018, dep. 2019, Albertazzi, Rv. 275996-03, la Corte si occupa di un’altra questione riguardante il valore scusante dei comportamenti dell’autorità di controllo, nella fattispecie la Banca d’Italia.
Il tema si coglie nell’alveo dell’applicazione del principio di buona fede dell’agente ai sensi dell’art. 5 cod. pen. come riletto dalla Corte costituzionale con la nota sentenza n. 364 del 1988.
Sempre in relazione alla contestazione del reato di esercizio abusivo di attività finanziaria ai sensi dell’art. 132 d.lgs. n. 385 del 1993, i ricorrenti avevano evocato, in termini generici, l’esito di alcune ispezioni operate dalla Banca d’Italia, senza alcuna indicazione sui contenuti del mandato ispettivo e della competenza funzionale degli ispettori, e comunque senza allegare il positivo avallo, da parte dell’istituto di vigilanza, della prassi incriminata.
Sulla base di tale comportamento di una pubblica amministrazione, asseritamente tranquillizzante o induttivo di una errata consapevolezza di liceità della condotta, secondo la Corte, non v’è argomento idoneo per sostenere la buona fede scusante.
Infatti, in assenza di un fatto positivo dell’autorità amministrativa, idoneo a ingenerare uno scusabile convincimento di liceità del comportamento, la buona fede non può essere desunta da un mero fatto negativo, quale la mancata rilevazione di irregolarità da parte degli organi di vigilanza o di controllo.
Invero per escludere il dolo del reato di cui all’art. 132 d.lgs. n. 385 del 1993, e in particolare per sostenere l’inevitabilità dell’errore di diritto sul divieto dell’attività di finanziamento ingenerato dal legittimo affidamento creato dalla Banca d’Italia, non è sufficiente che quest’ultima autorità, nel corso degli anni, non abbia mai formulato rilievi espliciti (nel caso di specie sulle operazioni in pool con la banca extracomunitiaria mandante).
A tal riguardo, la Corte, in linea con i principi e i criteri affermati dalla celebre sentenza della Corte Costituzionale n. 364 del 1988, ribadisce che “la valutazione dell’inevitabilità dell’errore di diritto, rilevante ai fini dell’esclusione della colpevolezza, deve tenere conto tanto dei fattori esterni che possono aver determinato nell’agente l’ignoranza della rilevanza penale del suo comportamento, quanto delle conoscenze e delle capacità del medesimo” (Sez. 3, n. 8410 del 25/10/2017, dep. 2018, Venturi, Rv. 272572).
In definitiva in tema di elemento psicologico del reato, la Corte esclude che il comportamento inerte della Banca d’Italia possa aver avuto la forza di ingenerare una ragionevole convinzione della liceità del comportamento degli imputati “in quanto l’ignoranza da parte dell’agente sulla normativa di settore e sull’illiceità della propria condotta è idonea ad escludere la sussistenza della colpa, se indotta da un fattore positivo esterno ricollegabile ad un comportamento della pubblica amministrazione” (Sez. 3, n. 35314 del 20/05/2016, Oggero, Rv. 268000).
La Corte ribadisce che per costituire la buona fede scusante è necessario un elemento positivo tale da indurre nella convinzione della sua liceità, come un provvedimento dell’autorità amministrativa (o una precedente giurisprudenza assolutoria o contraddittoria, una equivoca formulazione del testo della norma). (Sez. 3, n. 29080 del 19/03/2015, Palau, Rv. 264184; Sez. 3, n. 42021 del 18/07/2014, Paris, Rv. 260657).
Al contrario, il dubbio sulla liceità o meno deve indurre il soggetto ad un atteggiamento più attento, fino all’astensione dall’azione se, nonostante tutte le informazioni assunte, permanga tale incertezza, dato che il dubbio, non essendo equiparabile allo stato d’inevitabile ed invincibile ignoranza, è inidoneo ad escludere la consapevolezza dell’illiceità (Sez. 5, n. 2506 del 24/11/2016, dep. 2017, Incardona, Rv. 269074).
Anche in tema di esercizio abusivo di attività finanziaria, quindi, l’ignoranza da parte dell’agente sulla normativa di settore e sull’illiceità della propria condotta è idonea ad escludere la sussistenza dell’elemento soggettivo, soltanto se indotta da un fattore positivo esterno ricollegabile ad un comportamento dell’autorità di vigilanza, non essendo sufficienti – nel caso di specie - i mancati rilievi durante un’ispezione successiva alla concessione dei finanziamenti.
In ordine all’esercizio abusivo di attività finanziaria la Corte ha potuto precisare altresì che le sanzioni amministrative irrogate dalla Banca d’Italia ai sensi dell’art. 145 n. 385 del 1993 non hanno natura sostanzialmente penale ai sensi dell’art. 6 CEDU in quanto, oltre ad essere qualificate come amministrative dalla legge, sono irrogate per fatti diversi da quelli sanzionati penalmente e, in considerazione dei massimi edittali previsti, non presentano un grado di afflittività assimilabile a quello proprio delle sanzioni penali (Sez. 5, n. 12777 del 16/11/2018 - dep. 2019, Albertazzi, Rv. 275996-04).
In conseguenza a tale considerazione sulla natura giuridica, non v’è violazione del principio del ne bis in idem “convenzionale” a causa della concorrenza della sanzione penale e della sanzione amministrativa pecuniaria inflitta dalla Banca d’Italia.
Quest’ultima è irrogata dalla Banca d’Italia ai sensi dell’art. 144 145 d.lgs. n. 385 del 1993, per carenze nell’organizzazione e nei controlli interni e non è equiparabile, quanto a tipologia, severità, incidenza patrimoniale e personale, a quelle irrogate dalla CONSOB ai sensi dell’art. 187-ter d.lgs. 24/02/1998 n. 58, per la manipolazione del mercato.
Di conseguenza, esclusa la natura sostanzialmente penale che appartiene a queste ultime, non si pone un problema di compatibilità con le garanzie riservate ai processi penali dall’art. 6 CEDU a seguito della nota sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 4 marzo 2014, Grande Stevens e altri c. Italia.
Nel caso delle sanzioni amministrative irrogate dalla Banca d’Italia con la procedura di cui all’art. 145 d.lgs. n. 385 del 1993, infatti, non ricorrono gli indici – qualificazione giuridica, natura dell’illecito e grado di severità delle sanzioni - della natura sostanzialmente penale elaborati dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo (i c.d. Engel criteria) nella ormai celebre sentenza dell’8 giugno 1976, Engel c. Paesi Bassi: le sanzioni sono, infatti, qualificate come amministrative, sono irrogate per ipotesi diverse da quelle oggetto di norme penali, ed il grado di afflittività, in considerazione dei massimi edittali previsti, non appare omogeneo a quello proprio delle sanzioni penali.
Con un’importante decisione (Sez. 5, n. 7802 del 29/11/2018 - dep. 2019, Dima, Rv. 275375) la Corte si sofferma sugli elementi costitutivi dell’esercizio abusivo dell’attività bancaria ex art. 131 d.lgs. n. 385 del 1993.
Al fine di dare una definizione netta della nozione di attività bancaria e specificamente di quella di raccolta del risparmio, la Corte si occupa del caso di un’attività posta in essere da una società cooperativa, realizzata sotto una duplice forma: da un lato, mediante depositi “a vista” da parte dei soci su conti di servizio nella disponibilità della società e, dall’altro lato, mediante la stipulazione di contratti di finanziamento in favore della stessa, con obbligo di rimborso e corresponsione di interessi, unitamente all’attività di esercizio del credito mediante erogazione di prestiti ai soci, in violazione dell’art. 11 d.lgs. n. 385 del 1993.
In primo luogo la Corte evidenzia la differenza tra la fattispecie di cui all’art. 130 d.lgs. n. 385 del 1993, che si caratterizza esclusivamente per l’attività di raccolta di risparmio tra il pubblico, e quella di esercizio abusivo di cui all’art. 131 dello stesso testo unico, che richiede anche l’esercizio del credito verso terzi.
In particolare l’esercizio abusivo di attività bancaria di cui all’articolo 131 d.lgs. n. 385 del 1993, viene individuato dalla Corte nella raccolta di risparmio “a vista” presso i soci, attraverso la stipulazione di “contratti di finanziamento” e di “conti di servizio” in forme differenti dalla sottoscrizione di quote, in violazione dell’articolo 11 del medesimo d.lgs. n. 385 del 1993.
Specificamente, secondo il dictum della Corte, affinchè possa trattarsi di una acquisizione di fondi qualificabile (sul piano tecnico normativo) come raccolta di risparmio tra il pubblico, rileva che un soggetto, in virtù di un rapporto giuridicamente rilevante con un terzo, acquisisca la disponibilità materiale e giuridica di somme di denaro, di cui successivamente può liberamente disporre per scopi propri, con l’obbligo di restituirle al terzo stesso in un momento successivo.
Peraltro osserva la Corte che già la deliberazione del CICR del 3 marzo 1994, prima delle modifiche apportate all’art. 11 d.lgs. n. 385 del 1993, prevedeva all’art. 6 che le società possono raccogliere risparmio presso soci, con modalità diverse dall’emissione di strumenti finanziari, purché tale facoltà sia prevista nello statuto. Resta comunque preclusa la raccolta di fondi a vista e ogni forma di raccolta collegata all’emissione o alla gestione di mezzi di pagamento
Pertanto costituisce “raccolta di risparmio”, se operata con l’acquisizione di fondi con obbligo di rimborso, l’acquisizione remunerata attraverso la corresponsione di interessi ai soci (normalmente superiori a quelli praticati dal mercato).
Ciò anche se non “a vista”, in quanto nal caso concreto per la restituzione era previsto un termine, non derogabile a semplice richiesta del finanziatore, se non in casi eccezionali e previa valutazione discrezionale della cooperativa.
In definitiva, ai fini della configurabilità del delitto di cui all’art. 131 d.lgs. n. 385 del 1993, la norma esige unicamente l’esercizio del credito verso terzi, e non richiede affatto che tale attività avvenga nei confronti del pubblico (vale a dire di tutti i soggetti).
Ciò, rende irrilevante, peraltro, ai fini della sussistenza del delitto contestato, la circostanza che destinatari dei finanziamenti (e quindi dell’attività di erogazione del credito) siano stati in concreto i soli soci della cooperativa e mai soggetti alla stessa estranei.
Sentenze della Corte di cassazione
Sez. 2 n. 5285 del 02/10/1997, Nasso, Rv. 209597
Sez. 2 n. 4882 del 12/11/2001, dep. 2002, Maione, Rv. 220659
Sez. U, n. 24772 del 08/10/2008, Rv. 604829 – 01.
Sez. 5, n. 7986 del 12/11/2009, dep. 2010, Gallo, Rv. 246148
Sez. 5, n. 18544 del 27/02/2013, Strada, Rv. 255192
Sez. 3, n. 42021 del 18/07/2014, Paris, Rv. 260657
Sez. 3, n. 29080 del 19/03/2015, Palau, Rv. 264184
Sez. 3, n. 35314 del 20/05/2016, Oggero, Rv. 268000
Sez. 5, n. 2506 del 24/11/2016, dep. 2017, Incardona, Rv. 269074
Sez. 5 n. 18317 del 16/12/2016 dep. 2017, Kienesberger, Rv. 269616
Sez. 3, n. 8410 del 25/10/2017, dep. 2018, Venturi, Rv. 272572
Sez. 6 n. 27187 del 13/04/2018, Spinella, Rv. 273583
Sez. 5 n. 21927 del 17/05/2018, Gigantini, Rv. 273017
Sez. 5, n. 12777 del 16/11/2018, dep. 2019, Albertazzi, Rv. 275996-01
Sez. 5, n. 7802 del 29/11/2018, dep. 2019, Dima, Rv. 275375
Sez. 5, n. 24447 del 15/02/2019, Spanghero, Rv. 276587
Sentenze della Corte costituzionale
Corte cost., sent. n. 364 del 24/03/1988
Sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo
Sentenza 4/3/2014, Grande Stevens e altri c. Italia
Sentenza 8/6/1976, Engel c. Paesi Bassi
All’udienza del 19 dicembre 2019, le Sezioni Unite sono pervenute alla decisione del proc. n. 41356/2018 R.G., ric. Caruso, in relazione alla quale è stata diramata l’informazione provvisoria qui di seguito trascritta:
“Il reato di coltivazione di stupefacenti è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, essendo sufficienti la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente; devono però ritenersi escluse, in quanto non riconducibili all’ambito di applicazione della norma penale, le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica, che, per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell’ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all’uso personale del coltivatore”.
La pronuncia ha impulso dall’ordinanza dell’11/06/2019, pronunciata nel procedimento iscritto al n. 41356/2019 R.G., con cui la Terza sezione aveva registrato contrasti interpretativi nella giurisprudenza di legittimità in relazione alla questione di cui al seguente quesito:
“Se, ai fini della configurabilità del reato di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, è sufficiente che la pianta, conforme al tipo botanico previsto, sia idonea, per grado di maturazione, a produrre sostanza per il consumo, non rilevando la quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, ovvero se è necessario verificare anche che l’attività sia concretamente idonea a ledere la salute pubblica ed a favorire la circolazione della droga alimentandone il mercato. “
Il massimo organo di nomofilachia è stato dunque sollecitato a definire la nozione di offensività in concreto del reato di coltivazione non autorizzata di sostanze stupefacenti, ritenendo la Sezione remittente che dovesse dirimersi l’alternativa tra un’opzione ermenutica secondo la quale, posta la conformità delle piante al tipo botanico vietato, sarebbe a tali fini sufficiente accertare, anche in relazione al grado di maturazione ed alle caratteristiche della coltivazione, la mera idoneità delle stesse a produrre sostanza stupefacente o psicotropa per il consumo, e ciò in vista dell’obiettivo di scongiurare il rischio di diffusione futura della sostanza stupefacente; e quella per cui l’offensività richiederebbe l’ulteriore requisito della idoneità delle piante a ledere la salute intesa come bene collettivo, mediante l’implementazione della provvista di droghe, suscettibile di alimentare il mercato.
Le possibili opzioni ricostruttive, rispetto alla questione controversa, trovano premessa logica nella pronuncia delle Sez. U. n. 28605 del 24/04/2008, Rv. 239920 – Rv. 239921, da cui sono stati enucleati i principi di diritto rispettivamente così massimati:
“Costituisce condotta penalmente rilevante qualsiasi attività non autorizzata di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, anche quando sia realizzata per la destinazione del prodotto ad uso personale. (Conforme, Sez. U. 24 aprile 2008, Valletta, non massimata). (Vedi Corte cost. n. 360 del 1995 e n. 296 del 1996) “.
“Ai fini della punibilità della coltivazione non autorizzata di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, spetta al giudice verificare in concreto l’offensività della condotta ovvero l’idoneità della sostanza ricavata a produrre un effetto drogante rilevabile. (Conforme, Sez. U. 24 aprile 2008, Valletta). (Vedi Corte cost. n. 360 del 1995 e n. 296 del 1996)”.
Punto di partenza delle riflessioni dell’ordinanza rimettente di cui al presente giudizio, la decisione risolse anzitutto il vivace contrasto di posizioni delineatosi con riguardo alla valenza da attribuire alla destinazione del prodotto della coltivazione ad uso esclusivamente personale, affermando che la coltivazione non potesse essere sottratta all’area della repressione penale, quale che sia la finalità di impiego del prodotto.
L’assunto era fondato sui seguenti rilievi:
- su un argomento di carattere testuale, atteso che, anche dopo le modifiche introdotte dalla legge 21 febbraio 2006, n. 49, l’attività di coltivazione non risulta essere richiamata né dall’art. 73, comma 1-bis, d.P.R. n. 309 del 1990, né dal successivo art. 75, comma 1, tra quelle sanzionate solo in ambito amministrativo, a conferma della chiara volontà del legislatore di mantenerne la rilevanza penale (e, d’altra parte, anche la distinzione tra coltivazione “tecnico-agraria” e coltivazione “domestica”, da taluni sostenuta per affermare che quest’ultima sia piuttosto riconducibile alla nozione di detenzione, la quale è penalmente irrilevante se finalizzata al consumo personale, non sembrava trovare riscontro nel dato normativo);
- su un argomento di carattere naturalistico, posto che coltivazione e detenzione sono condotte ontologicamente distinte; tant’è che, quand’anche intrapresa con l’intento di soddisfare esigenze di consumo minime, la coltivazione, a differenza della mera detenzione, è attività suscettibile di creare nuove disponibilità di stupefacenti;
- sulla peculiare connotazione di offensività della coltivazione, che ai tempi la Consulta, con le decisioni richiamate in massima, aveva già evidenziato, da un lato ponendo in risalto che tra coltivazione e consumo personale – a differenza che tra detenzione e consumo personale - difetta un nesso di immediatezza, così che restano congetturali le valutazioni in merito alla destinazione della droga ad uso proprio piuttosto che alla cessione a terzi; dall’altro evidenziando che non è stimabile a priori, con sufficiente grado di precisione, la potenzialità produttiva di una piantagione, la quale implica in sé il rischio di dilatazione del fenomeno degenerativo ed antisociale delle tossicomanie.
Secondo le Sezioni Unite Di Salvia, tutto quanto innanzi vale a spiegare perché il reato di coltivazione, rispetto agli altri delitti in materia di stupefacenti, sia contraddistinto da una significativa anticipazione della tutela penale ad uno stadio antecedente all’insorgere del pericolo concreto e connotato, invece, da pericolo presunto.
L’impostazione, espressamente ispirata all’obiettivo di contenere i gravi rischi per la salute collettiva che l’attività di coltivazione, in virtù della sua potenzialità diffusiva, è in grado di ingenerare, venne tuttavia temperata dalle stesse Sezioni Unite, che proposero una lettura costituzionalmente orientata del dato normativo, peraltro anticipata dalla Consulta, la quale, pur senza negare la compatibilità con il sistema ordinamentale alle fattispecie di pericolo presunto, aveva sostenuto la necessità che venisse accertata l’offensività in concreto delle relative condotte.
In buona sostanza, secondo tale lettura il reato deve sostanziarsi nell’offesa (anche intesa come esposizione a pericolo) di un bene giuridico (nullum crimen sine iniuria), non essendo concepibili fattispecie incriminatrici di pura disobbedienza; e tale principio, che presuppone ed integra la clausola generale di materialità del fatto (che invece assicura contro le incriminazioni di meri atteggiamenti interiori) costituisce ineludibile presidio di garanzia di uno Stato di diritto.
Le Sezioni Unite ribadirono la duplice valenza del principio di offensività, il quale opera: a) sul piano astratto della previsione normativa, in quanto precetto rivolto al legislatore, il quale deve strutturare fattispecie incriminatrici che esprimano in astratto un contenuto lesivo, o comunque la messa in pericolo di un bene/interesse oggetto della tutela penale; b) sul piano concreto dell’applicazione giurisprudenziale, quale criterio interpretativo affidato al giudice, tenuto a “verificare che il fatto di reato abbia effettivamente leso o messo in pericolo il bene o l’interesse tutelato” (così testualmente Corte cost. n. 265 del 2005 e, in senso conforme, nn. 360 del 1995, n. 263 del 2000, n. 519 del 2000, n. 354 del 2002).
In ossequio a tali enunciati, la Corte chiarì che l’offensività va esclusa quando la condotta contestata ed accertata sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico protetto, al riguardo essendo irrilevante il grado dell’offesa; il che si verifica quando la sostanza estraibile non sia idonea a produrre un “effetto stupefacente in concreto rilevabile” (id est ad influenzare in pur minima misura l’attività neuropsichica del consumatore).
Una simile opzione ricostruttiva, che punta il fuoco sulla dimensione dell’offensività, esige una chiara perimetrazione dell’oggettività giuridica della fattispecie incriminatrice in discorso, con l’esatta individuazione dei beni-interessi da essa tutelati, compito cui le Sezioni Unite non si sottrassero.
In tale prospettiva, ritennero che siano tutelati dalla legislazione in materia di stupefacenti la salute collettiva, nonché, sulla scia di Sez. U., n. 9973 del 21/9/1998, Kremi, Rv. 211073, la sicurezza e l’ordine pubblico, rispetto ai quali l’implementazione della provvista di droga costituisce causa di turbativa, nonché la salvaguardia delle giovani generazioni.
Merita segnalare, infine, il monito – sempre attuale - che le Sezioni Unite lanciarono, allorchè, pur nel riconoscimento del ruolo decisivo che ai fini dell’interpretazione dell’offensività compete al giudice, ribadirono il valore delle garanzie di riserva di legge e di tassatività, e ciò ad evitare che le tensioni ideologiche, ora di tipo conservatore e repressivo, ora maggiormente libertarie, sottese al dibattuto tema del contrasto alle tossicodipendenze ed alle possibili strategie attuative degli obiettivi di prevenzione/repressione, possano indurre schemi interpretativi, di ampliamento e dilatazione dell’area del penalmente rilevante, o, al contrario, riduttivi di tale estensione, dagli esiti applicativi incerti e variabili.
I concetti espressi dalle Sezioni Unite Di Salvia furono ripresi, anche per essere oggetto di aspra critica, da parte di alcuni arresti che, sebbene non riconducibili agli orientamenti antagonisti richiamati nell’ordinanza di rimessione, è il caso di ricordare, in quanto hanno largamente influenzato l’elaborazione giurisprudenziale successiva.
Tra questi, Sez. 4, n. 1222 del 28/10/2008, Nicoletti, Rv. 242371, ancorò l’offensività dell’illecito di coltivazione alla capacità, che deve essere effettiva ed attuale, della sostanza ricavabile a determinare un effetto drogante (Sez. 4, n. 4324 del 27/10/2015, Mele, Rv. 265976), ossia a produrre nell’assuntore alterazioni di natura psico-fisica.
Anche tale arresto ricostruì in primis il bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice, ma in senso assai più riduttivo rispetto alle Sezioni Unite Di Salvia.
Difatti, sul rilievo che il bene della libertà personale, cui l’art. 13 Cost. riconosce valore fondamentale, possa essere sacrificato solo a seguito di offesa di un bene-interesse di pari rango, correttamente il presupposto di legittimazione della scelta punitiva in materia di stupefacenti viene individuato nella tutela del bene-salute (dei consumatori attuali e potenziali), il cui presidio costituzionale è negli artt. 2 e 32; al contrario, un’opinione fortemente critica la sentenza espresse nei confronti della lettura plurioffensiva offerta dalle Sez. U. Kremi e recepita dalle Sez. U. Di Salvia, le quali avevano individuato, accanto alla salute, secondo un paradigma di tutela da taluni definito “iperpubblicistico”, l’ulteriore interesse della lotta al mercato della droga ed i valori della sicurezza, dell’ordine pubblico e del normale sviluppo delle giovani generazioni, anch’essi visti come serventi al bene primario della salute, ma non direttamente contemplati dalla Costituzione.
In tal modo, con evidente spostamento di baricentro, il nucleo di offensività del reato di coltivazione, che avrebbe dovuto fungere da parametro di selezione qualitativa della meritevolezza dell’intervento punitivo, veniva ad essere ampliato, affiancandovi beni/interessi di vaga determinazione, fino ad essere sensibilmente ridimensionato come strumento di orientamento dell’intervento punitivo dello Stato.
Di qui l’esigenza, teorizzata dalla medesima decisione, che la condotta tipica del reato di coltivazione illecita abbia ad oggetto sostanze aventi il duplice requisito, formale, della iscrizione nelle tabelle (in ossequio alla concezione legale della nozione di stupefacente, accolta dal sistema), e sostanziale, dell’efficacia stupefacente o psicotropa, la quale ultima resta ineludibile ai fini dell’ offensività del fatto, vieppiù in un ordinamento che ha nella presunzione di non colpevolezza uno dei suoi pilastri fondativi.
Lungo la stessa direttrice ermenutica, ad anni di distanza, Sez. 6, n. 2618 del 21/10/2015, Marongiu, Rv. 265640, avrebbe sostenuto che, in materia di stupefacenti, il pericolo per la salute degli assuntori è essenzialmente collegato a condotte seriali con effetti cumulativi e se, per un verso, tanto giustifica la scelta del legislatore di prevedere un reato di pericolo presunto, per altro verso si rende essenziale, per il principio di necessaria lesività, la dimostrazione della efficacia drogante della sostanza, che deve resistere al canone dell’al di là di ogni ragionevole dubbio, codificato dall’art. 533, comma 1, cod. proc. pen.; sicchè il giudice sarebbe tenuto ad accertare la lesività delle piantumazioni, ma avendo riferimento all’attualità, ossia all’atto dell’accertamento, e non invece in base ad un giudizio predittivo sulle potenzialità di resa della coltura.
In questo scenario, la giurisprudenza dell’ultimo quinquennio si è ancora divisa sulla nozione di offensività, polarizzandosi intorno a distinti indirizzi interpretativi, pur gemmati dal comune ed indiscusso presupposto che la pianta da cui siano estraibili sostanze stupefacenti risulti - quantomeno - conforme al tipo botanico vietato.
Uno degli indirizzi che, secondo l’ordinanza di remissione, ha dato vita al contrasto è quello che slega la verifica dell’efficacia drogante delle sostanze ricavabili dalle colture dal momento dell’accertamento operato dalla polizia giudiziaria.
Le sentenze che ne sono espressione fondano sul presupposto logico-argomentativo che il “coltivare” sia attività che si riferisce all’intero ciclo evolutivo dell’organismo biologico e che l’offensività della condotta di coltivazione in corso non possa ritenersi esclusa dal mancato compimento del processo di maturazione dei vegetali, purchè le piantumazioni in essere all’atto dell’accertamento siano prevedibilmente in grado di rendere, all’esito di un fisiologico processo di sviluppo, quantità significative di prodotto dotato di effetti droganti; sicchè, quel che deve essere valutato, ai detti fini, sono le modalità della coltivazione e, specialmente, l’assenza di fattori ostativi al completamento di tale processo evolutivo ( Sez. 6, n. 25057 del 10/05/2016, Iaffaldano, Rv. 266974; Sez. 4, n. 53337 del 23/11/2016, Trabanelli, Rv. 268695; Sez. 6, n. 52547 del 22/11/2016, Losi, Rv. 268938 – 01; Sez. 6, n. 35654 del 28/04/2017, Nerini, Rv. 270544; Sez. 6, n. 10169 del 10/02/2016, Tamburini, Rv. 266513; Sez. 4, n. 27213 del 21/05/2019, Bongi, Rv. 275877).
A ben vedere, le decisioni che l’ordinanza remittente richiama come espressive di un tale orientamento sembrano piuttosto incentrate sul tema - solo in parte tangente a quello oggetto del quesito sottoposto alle Sezioni Unite - della offensività delle cd. coltivazioni in corso, il cui ciclo di maturazione non sia cioè esaurito all’atto dell’accertamento; e si tratta di decisioni che solo entro certi limiti possono ritenersi contrapposte a quelle che richiedono, ai fini dell’apprezzamento dell’offensività, l’attitudine del prodotto ad implementare la droga circolante ed immettibile nel mercato.
Invero, l’alternativa ermeneutica che le Sezioni Unite hanno risolto con la decisione qui in commento si pone anche in rapporto a coltivazioni giunte a maturazione, ma il cui prodotto abbia un contenuto di principio attivo limitatissimo, con minima efficacia drogante, rispetto alle quali ci si interroghi sul se la condotta attinga la soglia di offensività a prescindere dal quantitativo di prodotto.
In ogni caso, nell’ambito di questo orientamento si è evidenziato - con netta presa di distanza dalla citata sentenza Nicoletti – come l’idoneità offensiva della coltivazione vada valutata in “assoluto” e non possa dipendere da circostanze occasionali e contingenti, quale il momento della individuazione della piantagione da parte della polizia giudiziaria, poiché, diversamente, si perverrebbe all’irrazionale conclusione di escludere la rilevanza penale di una coltivazione anche di notevoli dimensioni, con elevato numero di piante messe a dimora, per il solo fatto che ne sia stata accertata l’esistenza in uno stadio di crescita iniziale e che, esclusivamente per tale circostanza fattuale, sia risultata non produttiva, nell’immediato, di principio attivo ( in tal senso già Sez. 3, n. 21120 del 31/01/2013, Colamartino, Rv. 255427).
In questa prospettiva, Sez. 6, n. 6753 del 09/01/2014, M., Rv. 258998, dopo avere precisato che il legislatore, con l’obiettivo di punire ogni attività che incrementi il rischio di diffusione delle sostanze stupefacenti, arretrando la soglia di tutela fino a colpire le fasi della produzione, ha puntualizzato che la verifica dell’offensività debba essere rapportata al ciclo di sviluppo vegetale delle piante, non potendo essere operata allo stesso modo durante tutto il suo svolgersi.
In particolare, se a fronte di un ciclo vegetale già esaurito il processo di verifica va condotto ex post, di modo che la rilevanza della condotta potrà essere esclusa quando si riscontri l’assenza di efficacia stupefacente o psicotropa del prodotto - in consonanza con l’insegnamento delle Sezioni Unite Di Salvia -, per le ipotesi di vegetali in crescita rileverà, invece, l’attitudine a produrre sostanze utili per il consumo.
Sono espressive dell’indirizzo che declina il concetto di offensività in termini più rigorosamente selettivi dell’area dell’illecito penale alcune decisioni che, oltre alla verifica della conformità della pianta coltivata al tipo botanico proibito ed alla capacità della sostanza, ricavata o ricavabile in futuro, a produrre un effetto drogante, richiedono un quid pluris, e cioè il «concreto pericolo di aumento di disponibilità dello stupefacente e di ulteriore diffusione dello stesso».
Antesignana di questo indirizzo è Sez. 4, n. 25674 del 17/02/2011, Marino, Rv. 250721, a lungo soffermatasi sul tema della offensività e sul suo inquadramento giuridico. In tale pronuncia la Corte escluse che potesse ritenersi offensiva l’attività di coltivazione sottoposta al suo vaglio – relativa ad un’unica piantina in piccolo vaso, contenente un principio attivo di mg. 16 - per l’assoluta modestia della condotta, desumibile dalle sue connotazioni fattuali, ed invocò la figura del reato impossibile di cui all’art. 49 cod. pen.. Richiamate le divergenti teorie formulate dalla dottrina, quella che vi legge la versione “al negativo” del tentativo di cui all’ art. 56 cod. pen., e quella che la ritiene espressione di un principio generale, che integra quello di tipicità formale posto dall’art. 1 cod. pen., la Corte argomentò che la figura del reato impossibile conserva la sua autonomia concettuale se interpretato nel senso di ritenere non punibili le condotte che siano solo apparentemente aderenti al tipo, ma che risultino del tutto carenti di lesività secondo una valutazione a posteriori.
Applicano i medesimi schemi logici, in termini di verifica dell’offensività, una serie di decisioni che fanno riferimento alle caratteristiche della coltivazione ed alla necessità di valutarne il potenziale produttivo.
Richiamate nell’ordinanza di rimessione, esse si distinguono per la comune matrice per cui non è sufficiente considerare il solo dato quantitativo di principio attivo ricavabile dalle singole piante, dovendosi altresì valutare se dalla coltivazione, così come strutturata, possa derivare o meno una produzione di stupefacenti che, secondo un mutato paradigma ricostruttivo, deve essere idonea ad incrementare il mercato; sicchè le produzioni definite trascurabili, per quanto produttive di principio attivo, dovrebbero a loro volta refluire nella categoria del reato impossibile. (tra cui Sez. 3, n. 23082 del 09/05/2013, De Vita, Rv. 256174; Sez. 6, n. 33835 del 08/04/2014, Piredda, Rv. 260170; Sez. 6, n. 8058 del 17/02/2016, Pasta, Rv. 266168; Sez. 4, n. 3787 del 19/01/2016, Festi, Rv. 265740; Sez. 3, n. 36037 del 22/02/2017 ).
Allo stato, dunque, il focus della riflessione giurisprudenziale è puntato sul principio di offensività, quale canone anzitutto rivolto al legislatore, in funzione selettiva dell’area del penalmente rilevante; istanza più che mai avvertita, in uno a quella di un diritto penale “minimo”, a fronte del continuo incremento delle fattispecie penali, determinato dalle crescenti istanze securitarie.
Sebbene non espressamente codificato in Costituzione, né nel codice penale, nondimeno si ritiene che il principio di offensività trovi il suo fondamento nel tessuto connettivo degli artt. 13, 25 e 27 Cost.:
- nell’art. 25, comma 2, il quale richiama il “fatto commesso”, sintagma evocativo non di una condotta meramente disubbidiente, ma di un evento offensivo, e ciò sta a significare che è preclusa l’incriminazione non solo di meri atteggiamenti interiori, ma anche di comportamenti che si risolvano nella violazione di un precetto;
- nell’art. 13 Cost., il quale, nell’affermare l’inviolabilità della libertà personale, ne consente la privazione per effetto della sanzione detentiva soltanto in relazione a condotte che abbiano arrecato apprezzabile offesa a beni dotati di rilievo costituzionale;
- negli artt. 25, comma 3, e 27 Cost. i quali distinguono la funzione delle pene da quella delle misure di sicurezza, presupponendo le prime l’offesa al bene giuridico protetto, mentre le seconde sono applicabili anche in relazione a condotte non lesive di alcun bene giuridico e purtuttavia sintomatiche di pericolosità sociale: un doppio binario che verrebbe negato dalla incriminazione di fatti di mera disobbidienza, la quale finirebbe col trasformare la pena in una misura esclusivamente preventiva, con indebite interferenze di piani che, dovrebbero, invece, rimanere distinti; inoltre, e sotto altro profilo, solo l’incriminazione che si correli ad un fatto offensivo vale a salvaguardare la componente rieducativa (accanto a quella retributiva) della pena stessa.
Nel codice penale, il principio di necessaria offensività sarebbe stato invece recepito dall’art. 49 cod. pen. il quale, piuttosto che rappresentare una pleonastica ripetizione dell’art. 56 cod. pen., volta ad esprimere “in negativo” i requisiti richiesti per la punibilità del tentativo, sarebbe canone ermeneutico estendibile all’intero sistema penale, proiezione della concezione cd. realistica del reato, secondo cui non può esservi reato senza lesione o messa in pericolo “effettiva” del bene protetto. Postulato della concezione in esame è che possa esservi uno scarto tra tipicità e offensività, nel senso che fatti apparentemente conformi al tipo possono essere inidonei a ledere l’ oggetto della tutela; e tuttavia, ad evitare che possa esservi frizione tra offensività e riserva di legge, il ricorso alla categoria del reato impossibile dovrebbe essere circoscritto a casi-limite.
Ad un’area concettuale affine si ascrive l’indirizzo giurisprudenziale che guarda alla ratio dell’incriminazione. Anche questo orientamento muove dall’esigenza di sottrarre all’area della punibilità i c.d. fatti inoffensivi, ma aderenti al tipo: casi in cui la sfasatura tra tipicità ed offesa non è conseguenza di un’imperfetta formulazione tecnico-legislativa della fattispecie, bensì della tensione tra astrattezza normativa e concretezza fattuale. Base normativa dell’emeneusi teleologica della fattispecie incriminatrice, incentrata sulla considerazione degli obiettivi di tutela perseguiti dal legislatore, è, in tal caso, l’art. 12 delle preleggi, che impone all’interprete di valutare l’intentio legis.
Si deve a Sez. 6, n. 22459 del 15/03/2013, Cangemi, Rv. 255732, l’avere inquadrato le acquisizioni in tema di reato di illecita coltivazione nel contesto delle norme interne e sovranazionali, con ampio impegno ricostruttivo.
In particolare, argomentando dalla ratio della disciplina repressiva in materia di stupefacenti la pronuncia ha evidenziato:
a) quanto alla normativa nazionale, che, se il legislatore ha incriminato l’attività di coltivazione – tale definita, senza aggettivazioni – di organismi vegetali da cui sono ritraibili sostanze stupefacenti quale autonoma condotta punibile essa deve ritenersi integrata a cominciare dalla messa a dimora dei semi (tanto si evincerebbe dal dato che non configura il reato di cui all’articolo 73 del d.P.R. n. 309 del 1990, neppure in forma tentata, il commercio delle sementi, il quale refluisce piuttosto nella categoria degli atti meramente preparatori, a connotazione equivoca, non potendosi formulare presunzioni ex ante in ordine all’effettivo impiego (in tal senso Sez. U. n. 47604 del 18/10/2012, Bargelli, Rv. 253552, secondo cui «L’offerta in vendita di semi di piante dalle quali è ricavabile una sostanza drogante, correlata da precise indicazioni botaniche sulla coltivazione delle stesse, non integra il reato dell’art. 82 T. U. stup., salva la possibilità di sussistenza dei presupposti per configurare il delitto previsto dall’art. 414 cod. pen. con riferimento alla condotta di istigazione alla coltivazione di sostanze stupefacenti»);
b) quanto alla normativa sovranazionale, la Decisione Quadro del Consiglio dell’Unione Europea 2004/757/Gai del 25 ottobre 2004, nel dettare norme minime relative agli elementi costitutivi dei reati e alle sanzioni applicabili in materia di narcotraffico, aveva indicato anche la coltivazione - genericamente indicata, e dunque comprensiva di tutte le fasi in cui essa si articola - della cannabis tra le condotte per le quali i singoli Stati devono applicare sanzioni penali. In più, la previsione, nella stessa disposizione, di sanzioni per “la distribuzione di precursori, quando la persona che compie tali atti sia a conoscenza del fatto che essi saranno utilizzati per la produzione o la fabbricazione illecite di stupefacenti” avrebbe dimostrato che la punibilità scatta ancora prima che la sostanza venga ad esistenza.
D’altra parte, la stessa fonte sovranazionale considera la punibilità anche di altre ipotesi in cui vi è il rischio di diffusione di stupefacente, anche se non ancora prodotto, da un lato prescrivendo, sub art. 3, che ciascuno Stato Membro provveda affinchè siano qualificati come reato l’istigazione, la complicità o il tentativo di commettere uno dei reati di cui all’articolo 2; dall’altro rimettendo alla discrezionalità legislativa degli stati membri l’opzione di non punire il tentativo di offerta o di preparazione di stupefacenti di cui all’ articolo 2, paragrafo 1, lettera a) della DQ, nonché il tentativo di detenzione di stupefacenti di cui all’articolo 2, paragrafo 1, lettera c), ma non pure le condotte di coltivazione e di distribuzione di precursori, per le quali permane il vincolo degli Stati membri a punire, anche se non si sia ancora prodotta sostanza di qualità adeguata, anticipandosi così la punizione all’inizio di dette attività.
Al dibattito sui temi risolti dalle Sezioni Unite ha contribuito la Corte costituzionale con pronunce che, sebbene di inammissibilità o di manifesta infondatezza delle questioni di volta in volta sollevate, restano un sicuro ancoraggio per l’interprete.
Con la decisione n. 443 del 1994, venne dichiarata inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli artt. 28, 72, 73 e 75 del d.P.R. n. 309 del 1990, come modificati dal d.P.R. n. 171 del 1993 (il quale aveva recepito l’esito della precedente consultazione referendaria, sopprimendo il riferimento al concetto di “dose media giornaliera” quale parametro fisso ed inderogabile, sintomatico della destinazione delle sostanze stupefacenti o psicotrope all’uso personale), questione che era stata sollevata per la prospettata violazione dei principi di parità di trattamento e di ragionevolezza, nella parte in cui le disposizioni anzidette non escludono l’illiceità penale delle condotte di coltivazione o fabbricazione di sostanze stupefacenti o psicotrope se univocamente destinate all’uso personale.
La Consulta stigmatizzò che il remittente avesse omesso la previa verifica della possibilità di un’esegesi adeguatrice delle norme impugnate, non essendosi interrogato sul se, proprio alla luce e nel quadro del riferito ius superveniens, l’operata depenalizzazione della condotta di chi “comunque detiene” fosse estensibile alle condotte di chi coltiva e fabbrica al fine di destinare il prodotto alle esigenze di consumo personali, così da potersi ritenere sottratta, unitamente a quelle di importazione, acquisto o detenzione per il medesimo fine, alla sfera dell’illiceità penale.
La giurisprudenza successiva non aderì tuttavia a questa direttrice e la questione di legittimità costituzionale dell’art. 75 del d.P.R. n. 309 del 1990 fu riproposta in relazione ai parametri ex artt. 3, 13, 25 e 27 Cost.
Con sentenza n. 360 del 1995, la Consulta valutò infondata la questione, alla luce dell’interpretazione restrittiva fornita dalla Corte di legittimità, evidenziando l’insussistenza della denunciata disparità di trattamento, e ciò in ragione della non assimilabilità della condotta delittuosa di coltivazione, prevista dall’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990, con alcuna di quelle allegate dal giudice remittente come tertia comparationis. Argomentò, al proposito, che la detenzione, l’acquisto e l’importazione di sostanze stupefacenti per uso personale rappresentano condotte collegate immediatamente e direttamente all’uso stesso, e ciò rende non irragionevole un atteggiamento meno rigoroso del legislatore nei confronti di chi, ponendo in essere una condotta direttamente antecedente al consumo, ha già operato una scelta che, pur se illecita, l’ordinamento non intende contrastare nella più rigida forma della sanzione penale (perché incidente sulla sola salute dell’assuntore); laddove, nel caso della coltivazione, l’assenza di un nesso di immediatezza con l’uso personale giustifica una soluzione più severa, ben potendo rientrare nella discrezionalità legislativa anche la propensione a disincentivare comportamenti propedeutici all’approvvigionamento di sostanze stupefacenti per uso personale.
Detto altrimenti, la scelta di non criminalizzare l’assunzione (che rappresenta una nota costante di tale disciplina di settore, pur nelle alterne formulazioni ispirate a maggiore o minor rigidità) implica necessariamente anche la non rilevanza penale di comportamenti che ne sono l’immediato antecedente, quali di norma la detenzione, spesso l’acquisto, talvolta l’importazione; comportamenti la cui linea di confine è stata segnata dalle categorie dapprima della modica quantità, poi della dose media giornaliera, infine dell’uso personale, tutti volti a costituire una sorta di cintura protettiva del nucleo centrale del consumo.
Inoltre, la stessa destinazione ad uso personale si presta ad essere apprezzata in termini diversi nelle situazioni comparate, giacchè, se nella detenzione, come nell’acquisto e nella importazione, il quantitativo di sostanza stupefacente è certo e determinato e consente, unitamente alle ulteriore circostanze soggettive ed oggettive della condotta, la valutazione prognostica della sua destinazione, nella coltivazione tale dato non è invece apprezzabile con sufficiente grado di certezza, sicchè la correlata valutazione della destinazione ad uso personale, piuttosto che a spaccio, risulta maggiormente ipotetica e meno affidabile.
La Corte evidenziò altresì, nella medesima decisione, che l’illiceità penale della coltivazione, ancorchè univocamente destinata all’uso personale, resiste alla verifica condotta ex artt. 25 e 27 Cost., alla stregua del principio di offensività, mantenendo la sua connotazione di reato di pericolo, in quanto idonea ad attentare al bene della salute dei singoli per il solo fatto di arricchire indiscriminatamente la provvista esistente di materia prima e, quindi, di creare in potenza maggiori occasioni di spaccio.
Come già evidenziato nelle proprie precedenti decisioni (n. 133 del 1992, n. 333 del 1991, n. 62 del 1986), la Corte ribadì dunque non essere incompatibile con il principio di offensività la configurazione del reato di coltivazione quale reato di pericolo presunto, non apparendo irragionevole od arbitraria la valutazione prognostica, sottesa alla previsione incriminatrice, di potenziale aggressione al bene giuridico protetto. Diverso profilo, tuttavia, è quello dell’offensività in concreto della condotta – la cui verifica, presupponendo l’accertamento delle note modali di essa, è devoluta al giudice di merito - e la cui mancanza va invece ricondotta alla figura del reato impossibile ex art. 49 cod. pen.
Da ultimo, additando percorsi ermeneutici che sarebbe stati in parte ripresi - a quanto è dato intendere dal tenore della informativa provvisoria - proprio dalle Sezioni Unite in commento, la Consulta non mancò di precisare che costituisce questione meramente interpretativa, e che va pertanto rimessa anch’essa al giudice ordinario, la identificazione – divenuta ormai dirimente - della nozione di coltivazione in termini più o meno restrittivi.
Con la sentenza n. 296 del 1996 e, da ultimo, con la sentenza n. 109 del 2016, il Giudice delle leggi ha dato continuità al nucleo argomentativo della pronuncia n. 360 del 1995 e difeso la strategia legislativa di contrasto alla diffusione della droga, ed il regime diversificato in cui essa si traduce, che, per un verso, vede il tossicodipendente ed il tossicofilo destinatari di sanzioni solo amministrative (comunque significative del disvalore attribuito alla attività di assunzione) e, per altro verso, riconosce rilevanza penale sia alle condotte implicanti la “circolazione’’ della droga («vende, offre o mette in vendita, cede, distribuisce, commercia, trasporta, procura ad altri, invia, passa o spedisce in transito, consegna per qualunque scopo»), sia a quelle apparentemente “neutre’’ («coltiva, produce, fabbrica, estrae, raffina»), che hanno tuttavia l’attitudine ad innescare un meccanismo di creazione di nuove disponibilità, quantitativamente non predeterminate, di prodotto, che ne agevolano indirettamente la diffusione e per tale motivo risultano più insidiose.
Parimenti la Corte ha disatteso l’ulteriore e più specioso profilo di illegittimità sottopostole dal giudice rimettente, afferente alla ingiustificata disparità di trattamento che, a legislazione vigente, verrebbe a determinarsi fra la condotta di chi detenga per uso personale sostanza stupefacente estratta da piante che egli stesso abbia coltivato (condotta che sarebbe inquadrabile nella formula «comunque detiene», presente nella norma censurata, così da essere sanzionata, in tesi, solo in via amministrativa); e la condotta di coltivazione in atto, programmata per uso sempre personale, e perseguita, alla stregua del “diritto vivente’’, ai sensi dell’art. 73 cit. Il vulnus del ragionamento è, per la Corte, nella sua inesatta premessa, per cui la detenzione per uso personale dello stupefacente “autoprodotto’’ renderebbe non punibile la condotta di coltivazione, rimanendo il precedente illecito penale assorbito dal successivo illecito amministrativo; al contrario a rimanere assorbito è, semmai, l’illecito amministrativo, giacché la disponibilità del prodotto della coltivazione non rappresenta altro che l’ultima fase della coltivazione stessa, tale da poter essere qualificata come post factum non punibile, siccome ordinario e coerente sviluppo della condotta penalmente rilevante.
Infine, non pare inopportuno osservare che, pur sostenendo la valenza del principio di offensività in astratto, quale canone selettivo dell’area del penalmente rilevante affidato al legislatore, e dunque suscettibile di sindacato di legittimità, la Consulta ha tendenzialmente ritenuto, negli anni, che l’individuazione delle condotte punibili, come pure la scelta e la quantificazione delle relative sanzioni, appartengano alla discrezionalità legislativa, verso la quale ha adottato una linea di deferente self-restraint, per cui la mancanza di offensività è stata dalla stessa censurata nei soli casi in cui le scelte normative vengano a confliggere in modo manifesto con il criterio di ragionevolezza.
A partire dalle Sezioni Unite Di Salvia, il tema dell’efficacia drogante della sostanza è stato oggetto di analisi da parte della giurisprudenza che, nella mancanza di essa, vede un limite all’offensività.
Alcune pronunce ne hanno meglio puntualizzato la nozione, altre ne hanno presupposto semplicemente l’ineludibilità al fine di ritenere offensiva la condotta di coltivazione di sostanze stupefacenti.
Sez. 4, n. 43184, del 29/10/2013, Carioti, Rv. 258095 (conformemente, Sez. 4, n. 44136 del 27/10/2015, Cinus, Rv. 264910) ha sostenuto che le tabelle ministeriali di cui al d.m. 2006 hanno l’unica finalità di definire, ai sensi dell’art. 73, comma 1-bis, d.P.R. cit., soglie quantitative che, eventualmente in accordo con altre acquisizioni, possono indurre a ritenere che la detenzione delle sostanze stupefacenti sia finalizzata ad uso esclusivamente personale, assumendo a parametro un soggetto assuefatto; il che non esclude affatto che dosi inferiori a quella media abbiano effetto drogante nei confronti di soggetti non dipendenti. E del resto i beni che costituiscono l’oggetto della tutela nelle incriminazioni in tema di stupefacenti, individuati nella salute pubblica, nella sicurezza e nell’ordine pubblico, nonché nella salvaguardia delle giovani generazioni, sono messi in pericolo anche dallo spaccio di dosi contenenti principio attivo inferiore alla dose media singola.
Conclusivamente, il dato ponderale, certamente valorizzabile ai fini dell’accertamento della finalità per la quale si detiene della sostanza stupefacente, non può assumere la medesima valenza con riferimento all’attività di coltivazione, per il semplice motivo che la destinazione al consumo personale della coltivazione stessa non rileva ai fini della punibilità.
Nuova linfa al concetto di efficacia drogante quale parametro valutativo dell’offensività, sia pure con riferimento alla condotta di commercializzazione al pubblico di derivati della cannabis light, promana, poi, dalla recente pronuncia delle Sez. U, n. 30475 del 30/05/2019, Castignani, Rv. 275956. La decisione affronta, tra gli altri, il tema della coltivazione di detta sostanza, a partire dalla ermenusi della legge 2 dicembre 2016, n. 242, contenente disposizioni per la promozione della coltivazione e della filiera agroindustriale della canapa ed introduttiva di un regime di esenzioni per l’esercizio di tale attività agricolturale.
Intervenuta a sciogliere un’aporia interpretativa manifestatosi nella giurisprudenza di legittimità e a comporre una frizione di sistema determinatasi per effetto della novella del 2016, la Corte, nella sua composizione più autorevole, ha sancito che integrano il reato di cui all’art. 73, commi 1 e 4, cit., le condotte di cessione, di vendita e, in genere, la commercializzazione al pubblico, a qualsiasi titolo, dei derivati dalla coltivazione della cannabis sativa L, quali foglie, inflorescenze, olio e resina, anche nell’ipotesi in cui presentino un contenuto di THC inferiore ai valori soglia indicati dall’art. 4, commi 5 e 7 della citata legge n. 242 del 2016; tuttavia, anche in tal caso, il limite alla punibilità è che tali derivati siano in concreto privi di ogni efficacia drogante o psicotropa, secondo il principio di offensività.
In rapida e necessaria sintesi, nello schema argomentativo della Corte, il T.U. stup. è strutturato secondo il sistema tabellare, che assegna valenza legale alla nozione di sostanza stupefacente indicata nelle tabelle, e il quadro normativo in esso delineato (art. 14) evidenzia la precisa volontà del legislatore di qualificare la cannabis quale sostanza stupefacente, in ogni sua varietà. Su tale scenario è intervenuta la legge n. 242 cit., la quale qualifica come lecita unicamente la coltivazione di canapa delle varietà iscritte nel Catalogo comune delle specie di piante agricole, ai sensi dell’art. 17 della direttiva 2002/53/CE del Consiglio dell’Unione Europea del 13 giugno 2002, che avvenga per i seguenti utilizzi, tassativi e perciò insuscettivi di applicazione estensiva o analogica:
1) produzione di alimenti e cosmetici;
2) produzione di semilavorati per forniture alle industrie e alle attività artigianali; 3) produzione di materiale destinato alla pratica del sovescio;
4) produzione di materiale organico destinato ai lavori di bioingegneria o prodotti utili per la bioedilizia;
5) produzione di materiale finalizzato alla fitodepurazione per la bonica di siti inquinati;
5) coltivazioni dedicate alle attività didattiche e dimostrative, nonché di ricerca da parte di istituti pubblici o privati;
6) coltivazioni destinate al florovivaismo.
Tanto premesso, il fatto che nel corpo del testo normativo non vi siano riferimenti alla rilevanza penale della successiva attività di commercializzazione dei beni così prodotti e derivati, ad avviso della Corte, non può essere inteso nel senso che sia sottintesa la liceità della loro commercializzazione senza restrizioni.
Non vi sono, per vero, sufficienti elementi per ritenere che la legge abbia inteso individuare un microsettore normativo - autonomo dalle previsioni incriminatrici di cui all’art. 73 cit. – per la cannabis proveniente dalle coltivazioni consentite, poiché, in un sistema legale e connotato da tassative eccezioni, non possono essere lecitamente realizzati prodotti diversi da quelli elencati dall’art. 2, comma 2, legge n. 242 del 2016 e, in particolare, foglie, inflorescenze, olio e resina.
Da rilevare, infine, che il legislatore ha delineato clausole di esclusione di responsabilità in favore dell’agricoltore, correlate al contenuto di principio attivo. Al comma 5 dell’art. 4 della novella del 2016 è stabilito che, qualora dai previsti controlli sulle coltivazioni di canapa rientranti nel delineato settore agroalimentare, eseguiti mediante il prelevamento di campioni provenienti in pieno campo, “il contenuto complessivo di THC della coltivazione risulti superiore allo 0,2 per cento ed entro il limite dello 0,6 per cento, nessuna responsabilità è posta a carico dell’agricoltore che ha rispettato le prescrizioni di cui alla presente legge”; mentre, per effetto del successivo comma 7, in caso di superamento del valora soglia dello 0,6 per cento di THC, possono essere disposti il sequestro e la distruzione della coltivazione, per ordine dell’autorità giudiziaria, del pari con esonero di responsabilità in capo all’agricoltore.
Si tratta, tuttavia, di clausole esoneratrici che riguardano il solo coltivatore che impianti colture lecite, qualora all’esito del ciclo maturativo si determini una produzione di percentuali di THC superiori ai valori soglia indicati del medesimo testo normativo del 2016; sicchè tali soglie possono operare esclusivamente in relazione al contenuto di THC presente nella coltivazione agroindustriale della cannabis - e non con riguardo ai suoi derivati -, sempre che tale coltivazione avvenga per gli usi permessi dalla novella, anche ai fini dell’erogazione dei benefici contributivi dell’Unione Europea.
Non vi è del resto, in tale esegesi – hanno puntualizzato le Sezioni Unite – alcuna incoerenza, data la disomogeneità dei termini di riferimento, giacchè nei derivati della coltivazione, quali foglie, inflorescenze, olio e resina, sono presenti concentrazioni mediamente superiori di tetraidrocannabinolo, rispetto a quella contenuta nelle sementi lecite.
Sulla base di tali premesse, le Sezioni Unite hanno ribadito il valore primario del principio di offensività al fine di stabilire la rilevanza penale delle condotte in materia di cannabis L., e ciò alla stregua dei pronunciamenti delle Sezioni Unite Di Salvia e, ancor prima, delle Sez. U. n. 47472 del 29/11/2007, Di Rocco, Rv. 237856 (queste ultime stabilirono che, rispetto al reato di cui all’art. 73, d.P.R. n. 309/1990, non rileva il superamento della dose media giornaliera, ma la circostanza che la sostanza ceduta abbia effetto drogante per la singola assunzione dello stupefacente), ed ancora, secondo le direttrici tracciate dalla più volte ricordata sentenza della Corte Costituzionale n. 109 del 2016; ma hanno correlato l’offensività alla efficacia drogante, nel senso che la prima non sussiste ove i derivati della coltivazione siano privi di un tale impatto, che non può essere ancorato al coefficiente dello 0,6% di THC, o comunque ad altri valori, pur convenzionalmente definiti, aventi carattere oggettivo.
Dunque, ancora una volta, si impone al giudice di operare una puntuale verifica della concreta offensività delle singole condotte, ma rispetto all’attitudine delle sostanze a produrre effetti psicotropi, senza il supporto di parametri definiti sulla base dei quali stabilire la soglia drogante, rimanendo l’art. 73 cit., come rilevato in dottrina, norma dall’oggettività giuridica poliedrica e sfuggente.
Vi è dunque concreta evidenza della impossibilità di pre-stabilire, anche ai fini che qui interessano, la nozione di dose ad effetto stupefacente, concetto che non rivestirebbe alcuna validità scientifica poiché è del tutto generico e fa riferimento ad una serie ampia di presupposti ed effetti diversi, non meglio definiti, suscettibili di variare da individuo ad individuo.
Ciò è tanto vero che anche la ricerca nei testi della farmacologia generale non fornisce una risposta al riguardo, mentre l’unico riferimento ufficiale al concetto di soglia drogante, allo stato, è quello contenuto nella Nota del Ministero dell’Interno del luglio 2018, confluita nell’indirizzo operativo comunicato nella Direttiva sulla commercializzazione di canapa n. 11013/110 del 9 maggio 2019, dove si legge: “Le infiorescenze con tenore superiore allo 0,5% rientrano nella nozione di sostanze stupefacenti … per la cannabis, sia la tossicologia forense che la letteratura scientifica individuano tale soglia attorno ai 5 mg di THC che, in termini percentuali, equivalgono allo 0,5%” (calcolato su uno spinello/sigaretta artigianale confezionato da 1 grammo)”.
Ed anche le tabelle redatte dal Ministero della Salute, laddove indicano come parametro la singola dose media, specificando che la quantità di THC assunta per finalità ricreative ritenuta idonea a determinare effetto stupefacente è di 25 mg/dose, indicano un valore puramente convenzionale.
Alla luce di tutto quanto precede, il quesito oggi risolto dalle Sezioni Unite evidenziava non pochi nuclei problematici.
Le differenti prospettive nell’approccio al tema della offensività riflettono, in genere, la tensione tra opposte concezioni assiologiche sui beni che siano realmente meritevoli di tutela penale.
Con riguardo al reato di coltivazione da cui sono ricavabili sostanze stupefacenti, è la differente caratterizzazione del bene giuridico che si ritiene sia tutelato dalla norma incriminatrice ad influenzare le possibili soluzioni al quesito posto: ove detto bene venga identificato nella salute individuale, l’accento tonico è posto sulla efficacia drogante, ovvero sulla idoneità della coltura a produrre sostanza per il consumo, a prescindere dai quantitativi; laddove siano individuati, in un’ottica ampliativa, altri beni giuridici, quali la sicurezza, l’ordine pubblico, nonché la salvaguardia della giovani generazioni, secondo un paradigma di tutela da taluni definito iperpubblicistico, può acquisire senso, invece, il riferimento al mercato.
Quel che pare evidente è che l’offensività, quale criterio selettivo e critico dell’area di rilevanza penale della condotta di coltivazione, ispirato ad una concezione costituzionalmente orientata del reato, rimane un concetto di tipo dinamico e relazionale, e perciò inevitabilmente sfuggente.
I percorsi interpretativi ad oggi tracciati da giurisprudenza e dottrina tendono a bilanciare gli interessi di rilevanza costituzionale in gioco, con soluzioni che divergono a seconda delle strategie di prevenzione/repressione penale preferite, con equilibri in continuo divenire. Le Sezioni Unite “Caruso” - stando al tenore della informazione provvisoria in premessa trascritta – hanno tuttavia individuato alcuni punti fermi.
È consacrata l’impostazione per la quale – stante l’ampiezza della nozione legislativa di coltivazione, riferibile all’intero ciclo evolutivo dei vegetali - il reato è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo estraibile nell’immediatezza; mentre è sufficiente verificare la conformità della pianta al tipo botanico vietato e la sua attitudine, sulla base di un giudizio di tipo predittivo, fondato sulle modalità di coltivazione, a completare il ciclo maturativo ancora in corso e a produrre sostanza stupefacente. Il che significa che la concreta offensività del singolo fatto di coltivazione sarà accertata sulla base di parametri che possono anche prescindere dall’effetto drogante della sostanza.
Ancora, secondo la direttrice suggerita dalla Corte Costituzionale (sentenza n. 360 del 1995), la soluzione adottata dalle Sezioni Unite muove nella direzione di ridefinire la nozione di coltivazione - ciò che consentirà di assumere che determinate condotte, pur apparentemente conformi al tipo, in realtà non attingono la soglia della tipicità legale - e, al tempo stesso, di rivalutare il profilo della destinazione ad uso personale.
In particolare, risultano escluse dall’ambito applicativo della norma penale le attività di coltivazione di minime dimensioni e svolte in forma domestica – ossia quelle su cui la Sezione remittente aveva indirettamente sollecitato, attraverso la segnalazione dei precedenti che hanno dato luogo al contrasto, l’intervento della Corte di legittimità nella sua composizione più autorevole - e che appaiano, al tempo stesso, finalizzate in esclusiva al consumo di chi coltiva; finalità che le Sezioni Unite ritengono possa desumersi da taluni indici significativi, enumerati – verosimilmente a titolo esemplificativo – nella stessa informazione provvisoria, quali le rudimentali tecniche colturali utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, ovvero dall’assenza di ulteriori indici di un loro inserimento nell’ambito del mercato degli stupefacenti.
Il che sembra evocare il ripristino della dicotomia tra coltivazione quale pratica tecnico-agraria e coltivazione domestica, che, al contrario, le Sezioni Unite Di Salvia avevano ritenuto priva di fondamento.
Sembra invece essere disatteso l’indirizzo ermeneutico per il quale, ai fini della offensività, dovrebbe verificarsi che il quantum di principio attivo ritraibile dalla coltivazione sia idoneo ad implementare la droga circolante nel mercato, ovvero in un segmento locale di esso; soluzione in relazione alla quale recente giurisprudenza (Sez. 4, n. 17167 del 27/01/2017, Simoncelli, Rv. 269539 – 01) aveva raccomandato prudenza, sul rilievo che, trattandosi di un mercato clandestino, con conseguente impossibilità di avere a disposizione dati certi e verificabili, il parametro per l’accertamento della inoffensività risulterebbe connotato da non minore vaghezza, con un incremento del tasso di imprevedibilità delle decisioni giudiziarie – oggi sempre più considerato un disvalore in sé - destinato a crescere sensibilmente ove detta lettura fosse prevalsa. E, del resto, anche il concetto di “saturazione del mercato” che, a suo tempo, era stato proposto dalla giurisprudenza con riferimento alla circostanza aggravante dell’ingente quantità di cui all’art. 80, comma 2, d.P.R. n. 309 del 1990, era stato valutato con accenti critici rispetto alla “ratio” della norma, soprattutto per il non agevole accertamento a tal fine richiesto, date le peculiari caratteristiche del mercato illegale e la conseguente impossibilità di disporre di criteri guida che orientino univocamente l’interprete.
Sentenze della Corte di cassazione
Sez. U, n. 9973 del 21/9/1998, Kremi, Rv. 211073
Sez. U, n. 47472 del 29/11/2007, Di Rocco, Rv. 237856
Sez. U, n. 28605 del 24/04/2008, Rv. 239920 – Rv. 239921
Sez. 4, n. 1222 del 28/10/2008, Nicoletti, Rv. 242371
Sez. 4, n. 25674 del 17/02/2011, Marino, Rv. 250721
Sez. U, n. 47604 del 18/10/2012, Bargelli, Rv. 253552
Sez. 3, n. 21120 del 31/01/2013, Colamartino, Rv. 255427
Sez. 6, n. 22459 del 15/03/2013, Cangemi, Rv. 255732
Sez. 4, n. 43184, del 29/10/2013, Carioti, Rv. 258095
Sez. 6, n. 6753 del 09/01/2014, M., Rv. 258998
Sez. 6, n. 33835 del 08/04/2014, Piredda, Rv. 260170
Sez. 6, n. 2618 del 21/10/2015, Marongiu, Rv. 265640
Sez. 4, n. 44136 del 27/10/2015, Cinus, Rv. 264910
Sez. 4, n. 4324 del 27/10/2015, Mele, Rv. 265976
Sez. 6, n. 5254 del 10/11/2015, Pezzato, Rv. 265641
Sez. 4, n. 3787 del 19/01/2016, Festi, Rv. 265740
Sez. 6,n. 10169 del 10/02/2016, Tamburini, Rv. 266513
Sez. 6, n. 8058 del 17/02/2016, Pasta, Rv. 266168
Sez. 6, n. 25057 del 10/05/2016, Iaffaldano, Rv. 266974
Sez. 3, n. 23881 del 23/02/2016, Damioli, Rv. 267382
Sez. 6, n. 52547 del 22/11/2016, Losi, Rv. 268938
Sez. 4, 53337 del 23/11/2016, Trabanelli, Rv. 268695
Sez. 3, n. 36037 del 22/02/2017, Compagnini, Rv. 271805
Sez. 6, n. 35654 del 28/04/2017, Nerini, Rv. 270544
Sez. 4, n. 30238 del 10/05/2017, Tontini, Rv. 270191
Sez. 4, n. 1766 del 16/10/2018, Rv. 275071
Sez. 4, n. 27213 del 21/05/2019, Bongi, Rv. 275877
Sez. U, n. 30475 del 30/05/2019, Castignani, Rv. 275956
Sentenze della Corte Costituzionale
Corte cost., sent. n. 62 del 1986
Corte cost., sent. n. 333 del 1991
Corte cost., sent. n. 133 del 1992
Corte cost., sent. n. 443 del 1994
Corte cost., sent. n. 360 del 1995
Corte cost., sent. 150 del 1996
Corte cost., sent. n. 296 del 1996
Corte cost., sent. n. 414 del 1996
Corte cost., sent. n. 109 del 2016
Corte cost., sent. n. 62 del 1986
Corte cost., sent. n. 345 del 2002
Corte cost., sent. n. 225 del 2008
Corte cost., sent. n. 249 del 2010
Corte cost., sent. n. 32 del 2014
Corte cost., sent. n. 139 del 2014
Corte cost., sent. n. 40 del 2019
Nell’anno in corso è proseguita la lettura costituzionalmente orientata delle prescrizioni imposte con la misura di prevenzione della sorveglianza speciale qualificata. Le Sezioni Unite, con la sentenza n. 46595 del 28/03/2019, dep. 18/11/2019, Acquaviva, Rv. 277007, hanno, infatti, affermato il principio di diritto così massimato: “la prescrizione di non partecipare a pubbliche riunioni, che deve essere in ogni caso disposta in sede di applicazione della misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, ai sensi dell’art. 8, comma 4, d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, si riferisce esclusivamente alle riunioni in luogo pubblico. (In motivazione la Corte ha aggiunto che, ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 75, d.lgs. n. 159 del 2011, il giudice è comunque tenuto a valutare, alla stregua delle specifiche allegazioni dell’interessato e delle risultanze degli atti, se la partecipazione alla pubblica riunione sia giustificata da validi motivi).
La questione è stata rimessa alle Sezioni Unite dalla Prima sezione con l’ordinanza n. 2124 del 19/12/2018 in cui la Corte, nel segnalare il contrasto interpretativo, ha prospettato la necessità di una rilettura della fattispecie incriminatrice di cui all’art. 75, d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159 alla luce dei principi di offensività - considerando penalmente rilevanti solo le condotte “eloquenti”, in quanto espressive di una effettiva volontà di ribellione all’obbligo o al divieto di soggiorno - e di tassatività, in chiave di concreta prevedibilità delle conseguenze della propria condotta. La Corte ha, infine, segnalato il potenziale contrasto con norme costituzionali della prescrizione di non partecipare a pubbliche riunioni, sia per l’assenza di limitazioni oggettive e soggettive che per la sua natura obbligatoria. In particolare, quanto a quest’ultimo aspetto, la Corte ne ha rilevato la possibile frizione con l’esigenza di individualizzazione del contenuto prescrittivo della misura di prevenzione personale che tenga conto, da un lato, della rilevanza dei diritti incisi, e, dall’altro, della obbligatoria correlazione, nel rispetto del canone di proporzionalità, tra la prescrizione imposta e la tipologia di pericolosità manifestata dal soggetto destinatario.
Secondo l’orientamento maggioritario della giurisprudenza di legittimità, ribadito anche successivamente alla sentenza della Corte Edu, De Tommaso c. Italia, il divieto imposto al sorvegliato speciale di non partecipare a pubbliche riunioni, la cui violazione integra il reato di cui all’art. 75, comma 2, d. lgs. n. 159 del 2011, deve essere inteso nel senso di non prendere parte a qualsiasi riunione di più persone in luogo pubblico o aperto al pubblico, al quale abbia facoltà di accesso un numero indeterminato di persone.
Tale interpretazione della prescrizione in esame è stata affermata per la prima volta da Sez. 1, n. 28964 del 11/3/2003, D’Angelo, Rv. 224925 – 01 con riferimento alla partecipazione del sorvegliato speciale ad una partita di calcio allo stadio. Ad avviso della Corte, infatti, la finalità sottesa alla prescrizione in esame, di evitare che l’ordine pubblico venga leso o messo in pericolo, viene conseguita vietando anche la semplice partecipazione a riunioni in cui, in considerazione del numero delle persone effettivamente presenti – o che possono, comunque, intervenire – è difficile il controllo del sottoposto alla misura di prevenzione e più agevole la commissione di reati.
Tale opzione ermeneutica è stata successivamente condivisa da altri tre arresti della Prima sezione, n. 42283 del 24/10/2007, Pesce, Rv. 238113, n. 15870 del 11/03/2015, Carpano, Rv. 263320 e n. 28261 del 8/5/2018, Lo Giudice, Rv. 273295-01. In tale ultimo arresto la Corte, confrontandosi con le critiche espresse al sistema della prevenzione dalla sentenza della Corte Edu, De Tommaso c. Italia e con la successiva rivisitazione del reato di cui all’art. 75, d. lgs. n. 159 del 2011 adottata dalle Sezioni Unite, Paternò (da ultimo ribadita da Sez. 4, n. 42332 del 09/05/2017, Scialpi, Rv. 270764-01), ha affermato che le prescrizioni e gli obblighi indicati nell’art. 8, d.lgs. n. 159 del 2011 continuano ad avere efficacia integrativa del precetto penale tipizzato dall’art. 75, comma 2, d. lgs. n. 159 del 2011, laddove impongano comportamenti specifici e possiedano, in conseguenza di tale imposizione, un contenuto determinato e specifico a cui poter attribuire valore precettivo.
Una diversa lettura della prescrizione in esame è stata, invece, offerta da Sez. 1, n. 31322 del 09/04/2018, Pellegrini, Rv. 273499 che, muovendo dalle censure formulate dalla sentenza della Corte Edu, De Tommaso contro Italia, ha espunto la prescrizione in esame dal contenuto precettivo del reato di cui all’art. 75 d.lgs. n. 159 del 2011 sulla base della medesima lettura “tassativizzante” e tipizzante della fattispecie adottata dalla Sezioni Unite, Paternò, con riferimento alle prescrizioni di vivere onestamente e rispettare le leggi.
La ragione di tale diversa opzione ermeneutica si fonda sull’assenza di una definizione univoca di “pubblica riunione”. La Corte è giunta a tale conclusione analizzando alcune previsioni che ad essa fanno riferimento quali: 1) l’art. 266, comma 3, n. 3, cod. pen. (reato di istigazione di militari a disobbedire la legge) che stabilisce che «agli effetti della legge penale, il reato si considera avvenuto pubblicamente quando il fatto è commesso…in una riunione che, per il luogo in cui è tenuta, o per il numero degli intervenuti, o per lo scopo od oggetto di essa, abbia carattere di riunione non privata»; 2) l’art. 18 T.U.L.P.S. che, al comma 2, prevede che è «considerata pubblica anche una riunione, che, sebbene indetta in forma privata, tuttavia per il luogo in cui sarà tenuta, o per il numero delle persone che dovranno intervenirvi, o per lo scopo o l’oggetto di essa, ha carattere di riunione non privata»; 3) l’art. 4, comma 4, legge 18 aprile 1975, n. 110 che vieta di portare armi nelle pubbliche riunioni anche alle persone munite di licenza. In tale ultima ipotesi, infatti, la giurisprudenza ha ritenuto che, per configurare una “pubblica riunione”, è necessaria la concorrenza di tre requisiti: a) lo scopo comune, che differenzia la riunione dall’occasionale concorso di persone in un determinato luogo; b) la possibilità per chiunque di accedervi, sia pure a determinate condizioni che non riguardino la persona; c) una pluralità di persone riunite (così, Sez. 1, n. 14302 del 23/09/1986, De Palma).
Ad avviso della Corte, dunque, tali definizioni non sono perfettamente sovrapponibili tra loro, ma presentano un’ampiezza tale da esporre la fattispecie di cui al citato art. 75 a censure di legittimità costituzionale per la violazione del canone di determinatezza-tassatività della fattispecie, che rende ingiustificata la grave menomazione del diritto costituzionalmente garantito di riunirsi pacificamente e senz’armi (art. 17 Cost.).
L’esigenza di rimeditare il contenuto della prescrizione in esame alla luce delle censure formulate dalla Corte Edu con la sentenza De Tommaso c. Italia, si è, infine, tradotta in un’altra linea ermeneutica recentemente espressa da Sez. 1, n. 49731 del 06/06/2018, Sassano, Rv. 274456 in cui la Corte, raccogliendo l’invito della Corte costituzionale al giudice penale a considerare il carattere eccezionale delle limitazioni che incidono su diritti costituzionalmente garantiti, ha affermato che i contatti da vietare sono solo quelli che incrementano il rischio di pericolosità che la misura di prevenzione intende controllare. Ne sono, pertanto, escluse, le attività in cui si risolve l’esercizio di diritti di “spessore superprimario”, di presidio costituzionale, che integrano il patrimonio fondamentale del cittadino e che, tra l’altro, permettono l’esercizio di libertà individuali in uno Stato democratico.
Ad avviso della Corte, il giudice ha, pertanto, l’obbligo di indicare le ragioni per cui la prescrizione di non partecipare a pubbliche riunioni si renda, nel caso concreto, necessaria in funzione del controllo della pericolosità sociale del prevenuto, al fine di evitare compressioni generalizzate di una libertà fondamentale, oggetto di presidio costituzionale. Nella fattispecie concreta, il ricorrente sottoposto alla misura della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno nel comune di residenza, era stato condannato in entrambi i gradi di giudizio per il reato di cui all’art. 9, legge n. 1423 del 1956, in quanto, partecipando in due occasioni a comizi elettorali, aveva violato il divieto di partecipare a pubbliche riunioni. In applicazione del principio di diritto sopra esposto, la Corte ha annullato senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste in quanto dal provvedimento impugnato non emergeva alcuna indicazione delle ragioni di limitazione della libertà di partecipare a riunioni pubbliche e comizi elettorali. Ad avviso della Corte, dunque, la prescrizione del divieto di partecipare a pubbliche riunioni si risolve in una compressione generalizzata di una libertà fondamentale se non è correlata all’aspetto della ritenuta pericolosità sociale ed alla specificazione della ragione che la renda necessaria in funzione del controllo di pericolosità.
Le Sezioni Unite, proseguendo nella lettura costituzionalmente e convenzionalmente orientata del contenuto precettivo dell’art. 75, d.lgs. n. 159 del 2011, adottata dalle sentenze delle Sezioni Unite, n. 32923 del 29/05/2014, Singaglia, Rv. 260019 e n. 40776 del 27/04/2017, Paternò, Rv. 270496, hanno adottato una nozione restrittiva del concetto di pubblica riunione con riferimento alle sole riunioni in luogo pubblico.
Tale soluzione rappresenta, dunque, un superamento di tutte le tesi ermeneutiche elaborate dalla giurisprudenza di legittimità sul tema in quanto, oltre a sconfessare la tesi sostenuta dalla sentenza Pellegrini, comporta, rispetto alla diversa tesi sostenuta dall’orientamento maggioritario, una diversa e più circoscritta perimetrazione della prescrizione in esame e, per l’effetto, del contenuto precettivo del reato di cui all’art. 75, comma 2, d.lgs. n. 159 del 2011.
La conclusione cui sono giunte le Sezioni Unite muove dall’analisi delle coordinate ermeneutiche emergenti sia dai precedenti arresti del Supremo Consesso, Sinigaglia e Paternò, che dalla giurisprudenza della Corte costituzionale.
Con la sentenza Sinigaglia, infatti, le Sezioni Unite hanno operato una prima delimitazione del perimetro applicativo della fattispecie incriminatrice in esame espungendo dal contenuto precettivo la condotta relativa all’esibizione della carta di permanenza. Ad avviso del Supremo Consesso, l’omessa esibizione di tale carta, infatti, non configura il reato in esame, bensì la contravvenzione di cui all’art. 650 cod. pen., trattandosi di un vincolo comportamentale imposto al sorvegliato speciale “qualificato” per ragioni di sicurezza ed ordine pubblico.
Riprendendo l’intuizione espressa da una risalente e minoritaria giurisprudenza secondo la quale solo le violazioni delle prescrizioni generiche previste dall’art. 5 della legge n. 1423 del 1956 (oggi art. 8, d. lgs. n. 159 del 2011) che si risolvono «nella vanificazione sostanziale della misura imposta» sono idonee ad integrare la condotta punibile ai sensi dell’art. 9 della stessa legge (in tale senso, si era espressa, sia pure con un obiter, Sez. 1, n. 793 del 20/3/1985, De Silva, Rv. 170592-01), le Sezioni Unite Sinigaglia hanno affermato che il rispetto del principio di offensività impone di ritenere penalmente rilevanti solo le violazioni (degli obblighi e delle prescrizioni) “eloquenti” in quanto espressive di una effettiva volontà di ribellione all’obbligo o al divieto di soggiorno.
Come rilevato dalle Sezioni Unite, Paternò, la sentenza Sinigaglia supera la giurisprudenza di legittimità formatasi dopo le modifiche normative del 2005 alla legge n. 1423 del 1956 per cui ogni violazione delle prescrizioni integrerebbe, quasi automaticamente, il reato di violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale, e, conformemente all’insegnamento della Corte costituzionale che ha da tempo indicato la necessità di operare una selezione delle condotte, negando rilevanza a quelle che non siano sintomatiche sella pericolosità già accertata in sede di giudizio di prevenzione (Corte cost. n. 27 del 1959), richiede al giudice di verificare in concreto se la violazione della prescrizione sia strumentale ad una sorta di “vanificazione” della misura cui si riferisce.
In linea di continuità con tale linea ermeneutica, con la sentenza Paternò, il Supremo Consesso ha ulteriormente espunto dal contenuto precettivo del reato di cui all’art. 75, comma 2, d.l.gs. n. 159 del 2011, le prescrizioni generiche di “vivere onestamente” e di “rispettare le leggi” (Rv. 270496) trattandosi di prescrizioni prive di un contenuto determinato e specifico che si risolvono in un «mero ammonimento di carattere morale».
Tale rilettura alla luce dei canoni di tassatività e determinatezza ha trovato un successivo completamento nella sentenza della Corte costituzionale n. 25 del 2019 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 75, comma 2, d.lgs. n. 159 del 2011 (e, in via conseguenziale, anche dell’art. 75, comma 1 del citato d.lgs.) «nella parte in cui prevede come delitto la violazione degli obblighi e delle prescrizioni inerenti la misura della sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno ove consistente nell’inosservanza delle prescrizioni di “vivere onestamente” e di “rispettare le leggi”.
Proseguendo nell’esame della giurisprudenza della Corte costituzionale, le Sezioni Unite hanno focalizzato l’attenzione sugli arresti relativi alla prescrizione in esame e, più in generale, su quelli relativi alla legittimità costituzionale della fattispecie incriminatrice, con particolare riguardo alla sua conformità ai canoni di proporzionalità e di tassatività e determinatezza.
Quanto al primo aspetto, la Corte costituzionale ha escluso il contrasto della prescrizione di non partecipare a pubbliche riunioni con l’art. 17 Cost. con le sentenze n. 27 del 1959 e n. 126 del 1983. In particolare, con riferimento alla possibilità che tale prescrizione possa incidere sulle relazioni sociali del sorvegliato, dettate da ragioni di lavoro, di affetto o di amicizia, o inibire la possibilità di esercitare i diritti di culto (partecipando a funzioni religiose), politici (partecipando a comizi elettorali), ovvero, infine, la sua partecipazioni a riunioni sportive, la Corte riconobbe un ruolo specifico al giudice penale al quale «non dovrà sfuggire né il carattere eccezionale delle limitazioni di libertà in questione, che non può non riflettersi sul significato da attribuire ai termini adoperati dalla legge, né la distinzione tra i contatti sociali che la legge specificamente indica come pericolosi e quelli che costituiscono il normale e quotidiano svolgimento dei rapporti della vita, inibito, di regola, solo a chi è sottoposto a misure detentive».
Quanto alla legittimità costituzionale della fattispecie, con le sentenze n. 161 del 2009 e 282 del 2010 la Corte costituzionale ha, inoltre, ritenuto il rispetto del principio di proporzionalità della pena nonché, nella sola sentenza del 2010, dei principi di tassatività e determinatezza. In particolare, le Sezioni Unite, hanno richiamato il passaggio argomentativo in cui la Corte costituzionale indicò, quale criterio ermeneutico, la necessità di valutare il singolo elemento descrittivo dell’illecito non isolatamente, bensì in rapporto con gli altri elementi costitutivi della fattispecie e con la disciplina in cui questa si inserisce osservando che «l’inclusione nella formula descrittiva dell’illecito di espressioni sommarie, di vocaboli polisensi, ovvero di clausole generali o concetti elastici, non comporta un vulnus del parametro costituzionale evocato, quando la descrizione complessiva del fatto incriminato consenta comunque al giudice - avuto riguardo alle finalità perseguite dall’incriminazione ed al più ampio contesto ordinamentale in cui essa si colloca - di stabilire il significato di tale elemento mediante un’operazione interpretativa non esorbitante dall’ordinario compito a lui affidato: quando cioè quella descrizione consenta di esprimere un giudizio di corrispondenza della fattispecie concreta alla fattispecie astratta, sorretto da un fondamento ermeneutico controllabile; e, correlativamente, permetta al destinatario della norma di avere una percezione sufficientemente chiara ed immediata del relativo valore precettivo».
Alla luce delle coordinate ermeneutiche emergenti dalla giurisprudenza sia di legittimità che costituzionale, le Sezioni Unite hanno innanzitutto escluso la condivisibilità dell’orientamento espresso dalla sentenza Pellegrini evidenziandone gli aspetti di maggiore criticità in quanto: 1) l’esclusione della prescrizione in esame dal contenuto precettivo dell’art. 75, d.lgs. n. 159 del 2011 per eccessiva genericità della nozione di “pubblica riunione” omette di verificare la possibilità di rinvenire una nozione ristretta e comune a tutte le norme in cui rileva la nozione di pubblica riunione; 2) l’adozione di tale opzione ermeneutica determina una sostanziale disapplicazione della norma interna per difformità rispetto ai principi della CEDU, come interpretati dalla Corte di Strasburgo, omettendo, tuttavia, di sollevare la questione di legittimità costituzionale (si richiamano, in tal senso, Sez. U, n. 27620 del 28/4/2016, Dasgupta; Sez. U, n. 34472 del 19/4/2012, Ercolano; Sez. U, n. 41694 del 18/10/12, Nicosia); 3) tale soluzione non si confronta, inoltre, con la giurisprudenza della Corte costituzionale e con la differente natura della prescrizione di non partecipare a pubbliche riunioni che, a differenza delle prescrizioni di vivere onestamente e rispettare le leggi, non grava su tutti i consociati ed è strettamente connessa alla finalità della sorveglianza speciale.
Con particolare riferimento al primo rilievo critico, le Sezioni Unite hanno affermato che l’art. 17 Cost., nel dettare una disciplina differente per le riunioni in luogo aperto al pubblico rispetto a quelle in luogo pubblico (soggette, a differenza delle prime, a preavviso alle autorità, che possono vietarle per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica) consente di addivenire ad una soluzione interpretativa che fornisca certezza alla nozione di pubblica riunione e, conseguentemente, al precetto penale di cui all’art. 75 d. lgs. n. 159 del 2011.
Osservano, infatti, le Sezioni Unite che se la limitazione del diritto di riunione in ragione di una misura di prevenzione è costituzionalmente legittima solo se si tratta di riunioni in luogo pubblico, deve conseguentemente ritenersi che le “pubbliche riunioni” di cui all’art. 8, comma 4, d.lgs. n. 159 del 2011 sono solo le riunioni in luogo pubblico (quanto alla nozione di “luogo pubblico” e di “luogo aperto al pubblico”, le Sezioni Unite richiamano il consolidato principio di diritto, affermato dalle Sezioni Unite n. 8 del 31/3/1951, Guardigli, Rv. 97110 e costantemente ripreso dalla giurisprudenza più recente, secondo cui la riunione è in luogo pubblico qualora si tenga in luogo - ad esempio una piazza o una strada - su cui ogni persona può liberamente transitare e trattenersi senza che occorra in via normale il permesso della autorità; è in luogo aperto al pubblico, qualora si tenga in luogo chiuso - ad es. un cinema o un teatro - ove l’accesso, anche se subordinato ad apposito biglietto di ingresso, è consentito ad un numero indeterminato di persone; ed è privata, se si tenga in luogo chiuso con la limitazione dell’accesso a persone già nominativamente determinate).
Tale soluzione, prosegue il Supremo Consesso, oltre a soddisfare le esigenze di determinatezza e conoscibilità del precetto, elimina ogni discrezionalità del giudice penale nell’applicazione della norma, riduce al minimo la compressione del diritto di riunione e consente di sanzionare le sole condotte sintomatiche della pericolosità del sottoposto che determinano un annullamento di fatto della misura.
La soluzione interpretativa adottata consente, infine, ai giudici del Supremo Consesso di ritenere non necessaria la verifica obbligatoria che la sentenza Sassano demanda al giudice penale in ordine alla concreta offensività della violazione della prescrizione. Nel riprendere le considerazioni già espresse dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 27 del 1959 in ordine al compito demandato al giudice penale di determinare i concreti elementi di fatto che concorrono a realizzare la fattispecie del reato di trasgressione agli obblighi della sorveglianza speciale, le Sezioni Unite rilevano che il modello di valutazione della violazione della prescrizione di non partecipare a pubbliche riunioni non è difforme da quello espressamente previsto per le altre prescrizioni specifiche. Si rileva, ad esempio, che, per la prescrizione di non uscire dall’abitazione prima di una data ora, è ravvisabile un duplice onere a carico del sottoposto che non intenda rispettare tale prescrizione o che a ciò sia costretto per necessità: 1) avvisare preventivamente l’autorità di pubblica sicurezza deputata al controllo; 2) in sede processuale, evidenziare e fornire la prova delle necessità che lo hanno indotto ad uscire dall’abitazione nelle ore interdette o a ritardare il rientro.
Tale modello di valutazione, proseguono le Sezioni Unite, si adatta anche alla prescrizione di non partecipare a pubbliche riunioni: il sorvegliato speciale potrà, pertanto, chiedere al tribunale l’autorizzazione a partecipare ad una riunione pubblica e, qualora sia chiamato a rispondere della relativa violazione, avrà l’onere di allegare e dimostrare che la sua condotta era inoffensiva in quanto la partecipazione alla pubblica riunione era giustificata da motivi validi.
La Corte ha, inoltre, chiarito che non si tratta di un vero e proprio onere probatorio in quanto il giudice potrà venire a conoscenza dei motivi giustificanti anche sulla base di altre fonti, quale, ad esempio, la stessa polizia giudiziaria.
Né tantomeno, proseguono le Sezioni Unite, tale valutazione implica per il giudice penale un onere di motivazione aggiuntiva sulla offensività della condotta, essendo piuttosto demandata al giudice la valutazione in merito alla presenza o meno di giustificati motivi in ordine alla partecipazione del sottoposto alla pubblica riunione in modo da poter operare, conformemente agli insegnamenti delle Sezioni Unite Sinigaglia e Paternò, una selezione delle condotte penalmente rilevanti.
L’esclusione dalla nozione di “pubblica riunione” delle riunioni in luoghi aperti al pubblico, precisa, infine, la Corte, non determina un indebolimento della misura della sorveglianza speciale dal momento che, ai sensi dell’art. 8, comma 5, d.lgs. n. 159 del 2011, il giudice della prevenzione può sempre personalizzare il contenuto della misura, anche prescrivendo di non partecipare a riunioni in luoghi aperti al pubblico, purché fornisca un’adeguata motivazione che giustifichi tale limitazione alla luce della pericolosità del soggetto e dei conseguenti pericoli per la società.
Sentenze della Corte di cassazione
Sez. U, n. 8 del 31/3/1951, Guardigli, Rv. 97110
Sez. 1, n. 793 del 20/3/1985, De Silva, Rv. 170592-01
Sez. 1, n. 28964 del 11/3/2003, D’Angelo, Rv. 224925
Sez. 1, n. 42283 del 24/10/2007, Pesce, Rv. 238113,
Sez. U, n. 32923 del 29/05/2014, Singaglia, Rv. 260019
Sez. 1, n. 15870 del 11/03/2015, Carpano, Rv. 263320
Sez. U, n. 40776 del 27/04/2017, Paternò, Rv- 270496
Sez. 4, n. 42332 del 09/05/2017, Scialpi, Rv. 270764-01
Sez. 1, n. 31322 del 9/04/2018, Pellegrini, Rv. 273499
Sez. 1, n. 28261 del 8/5/2018, Lo Giudice, Rv. 273295
Sez. 1, n. 49731 del 06/06/2018, Sassano, Rv. 274456
Sez. 1, ord. n. 2124 del 19/12/2018, Acquaviva
Sez. U, n. 46595 del 28/3/2019, Acquaviva, Rv. 277007
Nell’anno in corso è proseguita l’opera nomofilattica della Corte in tema di misure di prevenzione. Con la sentenza pronunciata il 31/01/2019, dep. 17/04/2019, n. 16896, Stangolini, le Sezioni Unite, risolvendo un contrasto interpretativo sorto in merito all’ambito di operatività dell’obbligo di comunicazione delle variazioni patrimoniali, hanno affermato il principio di diritto così massimato: «l’art. 80, d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, relativo all’obbligo per i soggetti già sottoposti a misura di prevenzione personale di comunicare le variazioni del proprio patrimonio, la cui omissione è sanzionata dall’art. 76, comma 7, d.lgs. cit., si applica anche quando il provvedimento che ha disposto la misura è divenuto definitivo in data anteriore all’introduzione di tale obbligo.» (Rv. 275080).
Al fine di meglio comprendere i termini della questione controversa risolta dal Supremo consesso, appare utile ripercorrere l’evoluzione della disciplina in esame.
L’obbligo di comunicazione delle variazioni patrimoniali è stato, infatti, introdotto dall’art. 30, legge 13 settembre 1982, n. 646, nota come legge Rognoni-La Torre. Il testo iniziale della norma ha previsto che: “1. Le persone sottoposte ad una misura di prevenzione disposta ai sensi della legge 31 maggio 1965, n. 575, e i condannati con sentenza definitiva per il delitto previsto dall’articolo 416-bis del codice penale, sono tenuti a comunicare per dieci anni, ed entro trenta giorni dal fatto, al nucleo di polizia tributaria che ha compiuto gli accertamenti di cui all’articolo 2-bis della legge 31 maggio 1965, n. 575, tutte le variazioni nella entità e nella composizione del patrimonio concernenti elementi di valore non inferiore ai 20 milioni di lire; entro il 31 gennaio sono altresì tenuti a comunicare le variazioni intervenute nell’anno precedente, quando concernono elementi di valore non inferiore ai 20 milioni di lire. Sono esclusi i beni destinati al soddisfacimento dei bisogni quotidiani. 2. Il termine di dieci anni decorre dalla data del decreto ovvero dalla data della sentenza definitiva di condanna. 3. Gli obblighi previsti nel primo comma cessano quando la misura di prevenzione è revocata a seguito di ricorso in appello o in cassazione.”
L’inadempimento a tale obbligo di comunicazione, entro i termini di legge, è penalmente sanzionato dal successivo art. 31 con la pena della reclusione da due a sei anni e con la multa da lire 20 milioni a lire 40 milioni. La norma prevede, inoltre, che alla condanna segue la confisca dei beni a qualunque titolo acquistati nonché del corrispettivo dei beni a qualunque titolo alienati.
L’art. 30, comma 1, della legge n. 646 del 1982 è stato modificato dall’art. 11 della legge 19 marzo 1990, n. 55, limitatamente alla categoria dei sottoposti a misura di prevenzione, individuata sia con riferimento alla definitività del provvedimento sia con riferimento alla specificazione della fattispecie di pericolosità-fonte degli indiziati di appartenere alle associazioni mafiose. A seguito di tale modifica, il testo della norma ha, così, previsto che l’obbligo in esame grava, oltre che sui condannati con sentenza definitiva per il reato di cui all’art. 416-bis cod. pen, sulle persone già sottoposte, con provvedimento definitivo, ad una misura di prevenzione ai sensi della legge 31 maggio 1965, n. 575, in quanto indiziate di appartenere alle associazioni previste dall’articolo 1 di tale legge.
Tale specificazione rivela, dunque, l’iniziale volontà del legislatore di escludere dall’obbligo di comunicazione l’area della pericolosità generica.
Tuttavia, con l’art. 7, comma 1, lett. b), della legge 13 agosto 2010, n. 136 (entrata in vigore il 7 settembre 2010) il legislatore ha ulteriormente ampliato le situazioni-fonte dell’obbligo di comunicazione delle variazioni patrimoniali con riferimento sia alla categoria dei condannati con sentenza definitiva, rispetto alla quale sono state aggiunte nuove fattispecie di reato, che a quella delle persone già sottoposte a misura di prevenzione, estesa anche alle fattispecie di pericolosità generica. L’art. 30, comma 1, è stato, infatti, così sostituito: «Le persone condannate con sentenza definitiva per taluno dei reati previsti dall’articolo 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale ovvero per il delitto di cui all’articolo 12-quinquies, comma 1, del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, o già sottoposte, con provvedimento definitivo, ad una misura di prevenzione ai sensi della legge 31 maggio 1965, n. 575, sono tenute a comunicare per dieci anni, ed entro trenta giorni dal fatto, al nucleo di polizia tributaria del luogo di dimora abituale, tutte le variazioni nell’entità e nella composizione del patrimonio concernenti elementi di valore non inferiore ad euro 10.329,14. Entro il 31 gennaio di ciascun anno, i soggetti di cui al periodo precedente sono altresì tenuti a comunicare le variazioni intervenute nell’anno precedente, quando concernono complessivamente elementi di valore non inferiore ad euro 10.329,14. Sono esclusi i beni destinati al soddisfacimento dei bisogni quotidiani».
Come emerge dal tenore letterale della norma, la categoria delle persone “già sottoposte a misura di prevenzione” è stata definita esclusivamente con riferimento alla legge n. 575 del 1965. Detto riferimento consente, dunque, di estendere la platea dei destinatari anche ai sottoposti a misura di prevenzione per pericolosità semplice ai sensi dell’art. 1, n. 1 e 2, della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 ai quali, secondo quanto previsto dall’art. 19 della legge 22 maggio 1975, n. 157, si applica detta legge.
La norma ha, inoltre, previsto la possibilità della confisca per equivalente. È stato, infatti, aggiunto all’art. 31 il seguente comma: «Nei casi in cui non sia possibile procedere alla confisca dei beni acquistati ovvero del corrispettivo dei beni alienati, il giudice ordina la confisca, per un valore equivalente, di somme di denaro, beni o altre utilità dei quali i soggetti di cui all’articolo 30, primo comma, hanno la disponibilità».
Infine, con il d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, la categoria dei sottoposti a misura di prevenzione è stata scorporata dall’art. 30, legge n. 646 del 1982 che oggi riguarda esclusivamente quella dei condannati con sentenza definitiva.
L’art. 80, d.lgs. n. 159 del 2011, con una disposizione sostanzialmente sovrapponibile all’art. 30, ha, infatti, previsto che: “Salvo quanto previsto dall’articolo 30 della legge 13 settembre 1982, n. 646, le persone già sottoposte, con provvedimento definitivo, ad una misura di prevenzione, sono tenute a comunicare per dieci anni, ed entro trenta giorni dal fatto, al nucleo di polizia tributaria del luogo di dimora abituale, tutte le variazioni nell’entità e nella composizione del patrimonio concernenti elementi di valore non inferiore ad euro 10.329,14. Entro il 31 gennaio di ciascun anno, i soggetti di cui al periodo precedente sono altresì tenuti a comunicare le variazioni intervenute nell’anno precedente, quando concernono complessivamente elementi di valore non inferiore ad euro 10.329,14. Sono esclusi i beni destinati al soddisfacimento dei bisogni quotidiani. L’art. 80 prevede, inoltre, al secondo comma che il termine di dieci anni decorre dalla data del decreto ovvero dalla data della sentenza definitiva di condanna. Ai sensi del terzo comma, infine, gli obblighi previsti nel comma 1 cessano quando la misura di prevenzione è a qualunque titolo revocata.
Analoga continuità può ravvisarsi anche per il delitto di omessa comunicazione delle variazioni patrimoniali, disciplinato dall’art. 76, comma 7, d.lgs. n. 159 del 2011 in termini sovrapponibili a quelli dell’art. 31, legge n. 646 del 1982. La norma, infatti, prevede che: “Chiunque, essendovi tenuto, omette di comunicare entro i termini stabiliti dalla legge le variazioni patrimoniali indicate nell’articolo 80 è punito con la reclusione da due a sei anni e con la multa da euro 10.329 a euro 20.658. Alla condanna segue la confisca dei beni a qualunque titolo acquistati nonché del corrispettivo dei beni a qualunque titolo alienati. Nei casi in cui non sia possibile procedere alla confisca dei beni acquistati ovvero del corrispettivo dei beni alienati, il giudice ordina la confisca, per un valore equivalente, di somme di denaro, beni o altre utilità dei quali i soggetti di cui all’articolo 80, comma 1, hanno la disponibilità.”
Con ordinanza n. 51652 del 15/11/2018 la Prima sezione ha rimesso alle Sezioni Unite la decisione sulla questione, oggetto di contrasto interpretativo, relativa al rapporto tra l’acquisizione della condizione soggettiva e la vigenza dell’obbligo di comunicazione delle variazioni patrimoniali, originariamente previsto dall’art. 30 della legge n. 646 del 1982 (oggi, limitatamente alla categorie dei sottoposti a misura di prevenzione, dall’art. 80, d. lgs. n. 159 del 2011) penalmente sanzionato dal successivo art. 31, legge cit.
La fattispecie oggetto di ricorso ha, infatti, posto all’attenzione della Corte la questione relativa alla configurabilità del reato di omessa comunicazione delle variazioni patrimoniali nel caso in cui il soggetto agente sia stato sottoposto a misura di prevenzione ai sensi della legge n. 1423 del 1956 prima dell’entrata in vigore della legge n. 136 del 2010.
Un primo orientamento ermeneutico, inizialmente espresso da Sez. 6, n. 37114 del 06/06/2012, Salvaggio, Rv. 253538, ha ammesso la configurabilità del delitto ponendo l’accento sulla sua natura di reato omissivo istantaneo. Ad avviso della Corte, infatti, ciò che rileva ai fini della configurabilità del reato previsto dall’art. 31, legge n. 646 del 1982 (oggi, art. 80, d.lgs. n. 159 del 0211), è la condotta omissiva del soggetto purché, nel momento in cui si consuma detta omissione, lo stesso si trovi nelle condizioni soggettive e oggettive richieste dalla legge. A tale principio ha dato continuità Sez. 2, n. 28104 del 09/04/2015, Dangeli, Rv. 264137-01 in cui la Corte ha ribadito la natura di reato omissivo istantaneo del reato in argomento la cui consumazione avviene nel luogo in cui le due distinte comunicazioni - l’una, entro i dieci giorni dal fatto e, l’altra, entro il 31 gennaio dell’anno successivo - si sarebbero dovute fare. Pertanto, ciò che rileva, prosegue la Corte, è che in tale momento il soggetto si trovi nelle condizioni soggettive e oggettive richieste dalla legge.
Secondo il diverso orientamento espresso da Sez. 6, n. 41113 del 18/09/2013, Giustozzi, Rv. 256137-01, il delitto in esame non è configurabile nel caso in cui la condanna per il delitto–fonte dell’obbligo di comunicazione riguarda uno dei reati introdotti ex novo dall’art. 7, comma 1, lett. b), legge n. 136 del 2010 e sia intervenuta prima dell’entrata in vigore di detta legge, essendo a tal fine irrilevante, la circostanza, valorizzata dall’opposto orientamento, in merito alla consumazione dell’omissione in epoca successiva. Si è, infatti, affermato che il termine di durata di dieci anni previsto dall’art. 30, legge n. 646 del 1982, è «elemento costitutivo della fattispecie sanzionatoria, dal momento che esso integra e delimita l’ambito temporale “di sospetto e di attenzione” che il legislatore nella sua discrezionalità tecnica, ha voluto precisare e definire, nell’ottica di un quadro dinamico ed aggiornato di controllo decennale sulle variazioni di rilievo (non inferiori ad euro 10.329,14), nell’entità e nella composizione del patrimonio, soltanto di quelle persone che abbiano commesso uno dei reati tassativamente indicati nel catalogo del suindicato art. 30». Ad avviso della Corte, dunque, la condanna per il reato presupposto (ma lo stesso discorso, come rileva l’ordinanza di rimessione, può estendersi al decreto applicativo della misura di prevenzione personale) integra l’elemento normativo della fattispecie, e, come tale, va verificato nella sua sussistenza al tempo dell’entrata in vigore della norma penale che la sanziona.
Le Sezioni Unite hanno sostanzialmente aderito alla prima opzione ermeneutica, muovendo dall’analisi dell’evoluzione normativa della fattispecie incriminatrice e della lettura offertane dalla giurisprudenza di legittimità e dalla Corte costituzionale, più volte chiamata a pronunciarsi sulla legittimità degli artt. 30 e 31 della legge n. 646 del 1982 (Corte cost., ord. n. 442 del 2001, n. 362 e 143 del 2002; Corte cost., sent. n. 81 del 2014 e n. 99 del 2017).
Il reato in esame, infatti, è stato qualificato come reato omissivo proprio «di pura creazione legislativa» (Sez. 2, n. 25974 del 21/05/2013, Mazzagatti, Rv. 256655) connotato, quanto all’elemento soggettivo, dal dolo generico (Sez. 6, n. 36659 del 17/6/2015, Anzalone, Rv. 264666), la cui configurabilità non è esclusa in caso di variazioni patrimoniali compiute con atti pubblici di cui è prevista la trascrizione nei registri immobiliari e la registrazione a fini fiscali (ex plurimis, Sez. 2, n. 25974/2013).
La Corte costituzionale, con le sentenze n. 81 del 2014 e n. 99 del 2017, ha ravvisato la conformità al principio di offensività dell’omissione in esame, considerando gli approdi della giurisprudenza di legittimità (Sez. 5, n. 13077 del 3/12/2015; Sez. 6, n. 24874 del 30/10/2014) sia in merito alla finalità della norma incriminatrice - volta a consentire un controllo patrimoniale penetrante ed analitico della polizia tributaria nei confronti di persone ritenute socialmente pericolose onde accertare per tempo se le variazioni patrimoniali dipendano o meno dallo svolgimento di attività illecite - che alla non surrogabilità dell’obbligo di comunicazione con le forme di pubblicità legale dell’atto dispositivo che non implicano una diretta ed immediata informazione del nucleo di polizia tributaria. Tuttavia, con la sentenza n. 99 del 2017, la Corte Costituzionale, pur riconoscendo l’offensività “in astratto” dell’omissione, ha precisato che spetta, comunque, al giudice la verifica in ordine alla offensività “in concreto” della condotta.
Una volta inquadrata dogmaticamente la fattispecie incriminatrice di cui all’art. 31 legge n. 646 del 1982, oggi prevista dall’art. 76, comma 7, d.lgs. n. 159 del 2011, le Sezioni Unite hanno escluso che l’ampliamento dell’ambito di applicazione della fattispecie incriminatrice, operato dalla legge n. 136 del 2010, abbia inciso sulla struttura essenziale del reato, integrandone il precetto. Ad avviso del Supremo consesso, infatti, il legislatore ha effettuato una selezione dei «fatti penalmente rilevanti» facendo riferimento alla condizione soggettiva del sottoposto a misura di prevenzione (o del condannato definitivo). Tale condizione costituisce, dunque, un mero presupposto per l’insorgenza degli obblighi comunicativi «rispetto al quale la fisionomia del reato e le finalità perseguite dal legislatore restano inalterate, poiché l’incidenza degli interventi normativi succedutisi nel tempo ha solo ridefinito l’ambito di operatività del precetto».
La norma incriminatrice, proseguono le Sezioni Unite, sanziona, infatti, la condotta posta in essere da chiunque, essendovi in quel momento tenuto, omette di comunicare, nei termini specificati, le variazioni patrimoniali eccedenti una soglia determinata. Le modifiche normative hanno, dunque, riguardato esclusivamente il presupposto per l’insorgenza dell’obbligo intervenendo sulla individuazione dei soggetti tenuti alla sua osservanza, senza, tuttavia, alterare la struttura della fattispecie ed il giudizio di disvalore formulato dal legislatore, cosicché, conclude la Corte, non si pone alcun problema di applicabilità dell’art. 2, comma 4, cod. pen., come invocato dal ricorrente.
Il Supremo consesso ha, infine, escluso un possibile contrasto della soluzione interpretativa adottata con il principio di legalità previsto dall’art. 7 CEDU, come interpretato dalla Corte Edu con particolare riferimento al profilo della concreta prevedibilità della sanzione (si richiama, a tal fine, la sentenza della Corte Edu del 21/10/2013, Del Rio Prada c. Spagna). Ciò in quanto la fattispecie incriminatrice è sufficientemente determinata «e la mera condizione di soggetto sottoposto a misura di prevenzione richiede, conseguentemente, a fronte di tale previsione normativa, quantomeno una verifica della portata del precetto e delle eventuali conseguenze di una sua inosservanza e ciò anche nel caso in cui gli effetti della misura siano cessati, essendo chiaramente indicato dalla norma che l’obbligo di comunicazione permane per dieci anni». Analogamente, le Sezioni Unite hanno escluso una possibile incidenza del contrasto interpretativo sulla prevedibilità della decisione giudiziaria. Si è, a tal fine, richiamato quanto affermato da Sez. 5, n. 37857 del 24/4/2018, Fabbrizzi, Rv. 273876 secondo cui la non prevedibilità della decisione giudiziaria, che ne preclude l’applicazione retroattiva, deve certamente escludersi in una situazione di contrasto giurisprudenziale in cui l’esito interpretativo, seppur controverso, è comunque presente, come avvenuto nel caso esaminato dal Supremo consesso, con un numero contenuto di decisioni.
Con la successiva sentenza n. 33859 del 28/5/2019, Bardellino, (in corso di massimazione), la Prima Sezione, dando continuità al principio affermato dalle Sezioni Unite Stangolini, ha, altresì, precisato che nel caso delle misure di prevenzione personale applicate prima della data del 7 settembre 2010, il dies a quo del termine decennale di durata dell’obbligo di comunicazione delle variazioni patrimoniali, non decorre da tale data, bensì da quella della definitività della decisione applicativa della misura, pena la violazione dei principi di tassatività e prevedibilità.
Sentenze della Corte di cassazione
Sez. 6, n. 37114 del 06/06/2012, Salvaggio, Rv. 253538
Sez. 2, n. 25974 del 21/05/2013, Mazzagatti, Rv. 256655
Sez. 6, n. 41113 del 18/09/2013, Giustozzi, Rv, 256137
Sez. 2, n. 28104 del 09/04/2015, Dangeli, Rv. 264137
Sez. 6, n. 36659 del 17/6/2015, Anzalone, Rv. 264666
Sez. 5, n. 37857 del 24/4/2018, Fabbrizzi, Rv. 273876
Sez. 1, ord. n. 51652 del 15/11/2018, Stangolini
Sez. U, n. 16896 del 31/01/2019, Stangolini, Rv. 275080
Sez. 1, n. 33859 del 28/5/2019, Bardellino
Nel complesso e variegato panorama interpretativo che caratterizza la materia della confisca di prevenzione, plurimi sono i profili che hanno formato oggetto di specifici approfondimenti da parte degli arresti giurisprudenziali di legittimità maturati nel corso del 2019, sia con riferimento agli aspetti di carattere sostanziale della disciplina, sia a questioni di matrice più squisitamente processuale. Il medesimo criterio di – almeno tendenziale - ripartizione sistematica costituirà il filo conduttore attraverso il quale si intende sviluppare l’analisi che segue.
Sul versante prettamente sostanziale, il più recente intervento nomofilattico della Corte si è concentrato su alcuni temi che erano già entrati a far parte della elaborazione giurisprudenziale di legittimità sviluppatasi negli ultimi anni sul sistema delle misure di prevenzione personali e patrimoniali, anche in ragione della avvertita necessità di operare una rilettura complessiva del quadro ermeneutico, resa ancor più ineludibile all’indomani della decisione della Corte Edu, Grande Camera del 23 febbraio 2017, nel caso de Tommaso c. Italia, che ha riconosciuto come la disciplina italiana sulle misure di prevenzione non rispettasse gli standard di prevedibilità ed accessibilità imposti dal principio di legalità insito nell’art. 2, Prot. n. 4, CEDU, attinente alla libertà di circolazione, per ritenuta cattiva qualità della legge regolatrice in tema di pericolosità generica, incapace di fornire una descrizione precisa delle condotte pregiudizievoli, con particolare riferimento all’art. 1, lett. a) e b), ed all’art. 8 co. 3 ss. del c.d. codice antimafia.
L’opera di rielaborazione esegetica, ispirata dall’intento di garantire adeguato spazio all’attuazione del principio di tassatività anche in ambito prevenzionale, si è dovuta confrontare, in seguito, anche con le recentissime decisioni della Corte Costituzionale, ed in particolare con la sentenza n. 24 del 2019. “Cuore” di tutte le questioni prospettate avanti alla Consulta era, come noto, l’allegato difetto di precisione delle due fattispecie astratte previste dai numeri 1) e 2) dell’art. 1 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, nella versione modificata dalla legge 3 agosto 1988, n. 327), poi riprodotte nelle lettere a) e b) dell’art. 1 del d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, il quale trova applicazione con riferimento alle proposte di misure di prevenzione depositate a partire dalla data di entrata in vigore del decreto legislativo stesso (13 ottobre 2011). È altrettanto noto che tali disposizioni consentono l’applicazione - da un lato - della misura di prevenzione personale della sorveglianza speciale, con o senza obbligo o divieto di soggiorno, e - dall’altro - delle misure di prevenzione patrimoniali del sequestro e della confisca, a due categorie di destinatari: «coloro che debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che sono abitualmente dediti a traffici delittuosi» (art. 1, n. 1, della legge n. 1423 del 1956, riprodotto in modo pressoché identico dall’art. 1, lettera a, del d.lgs. n. 159 del 2011), e «coloro che per la condotta ed il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose» (art. 1, numero 2, della legge n. 1423 del 1956; art. 1, lettera b, del d.lgs. n. 159 del 2011).
Con la citata sentenza, per quanto qui maggiormente interessa, la Consulta ha dichiarato (punto n. 2 del dispositivo), l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 della legge n. 1423 del 1956, nel testo vigente sino all’entrata in vigore del c.d. codice antimafia, nella parte in cui consente l’applicazione della misura di prevenzione personale della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, con o senza obbligo o divieto di soggiorno, anche ai soggetti indicati nel numero 1) (id est, lett. a) dell’art. 1 del d.lgs. n. 159 del 2011), nonché (punto n. 5) l’illegittimità costituzionale dell’art. 16 del d.lgs. n. 159 del 2011, nella parte in cui stabilisce che le misure di prevenzione del sequestro e della confisca, disciplinate dagli articoli 20 e 24, si applichino anche ai soggetti indicati nell’art. 1, comma 1, lettera a).
In sostanza, dunque, la Corte costituzionale ha sancito, da un lato, la contrarietà alla Carta fondamentale - ed in particolare al principio della necessaria precisione e determinatezza del precetto imposte tanto dall’art. 13 Cost., quanto, in riferimento all’art. 117, comma primo, Cost., dall’art. 2 del Prot. n. 4 CEDU per ciò che concerne le misure di prevenzione personali della sorveglianza speciale, con o senza obbligo o divieto di soggiorno; nonché dall’art. 42 Cost. e, in riferimento all’art. 117, comma primo, Cost., dall’art. 1 del Prot. addiz. CEDU per ciò che concerne le misure patrimoniali del sequestro e della confisca - di tutte le disposizioni oggetto delle questioni ritenute ammissibili (indicate al punto n. 7 della parte motiva), nella parte in cui consentivano di applicare le misure di prevenzione della sorveglianza speciale, con o senza obbligo o divieto di soggiorno, nonchè del sequestro e della confisca ai soggetti indicati nell’art. 1, numero 1), della legge n. 1423 del 1956, poi confluito nell’art. 1, lettera a), del d.lgs. n. 159 del 2011 («coloro che debbano ritenersi, sulla base di elementi di fatto, abitualmente dediti a traffici delittuosi»,), mentre ha diversamente concluso in relazione alla fattispecie contenuta nella lettera b) della medesima norma (rivolta a «coloro che per la condotta ed il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose»), in tal modo offrendo conferma della interpretazione “tassativizzante” dei contenuti della previsione di legge di cui all’odierno art. 1, comma 1, lett. b), del codice antimafia elaborata dalla giurisprudenza di legittimità.
In tale quadro ermeneutico, Sez. 5, n. 38737 del 10/07/2019, Giorgitto, Rv. 276648 ha precisato che la confisca disposta sui beni di un soggetto qualificato come pericoloso sia ai sensi della lett. a) che ai sensi della lett. b) dell’art. 1 del d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, conserva validità a seguito della richiamata sentenza della Corte costituzionale n. 24 del 2019: nella parte motiva, la decisione ha sottolineato che, nella specie, la misura di prevenzione patrimoniale era stata disposta sulla base sia dell’ipotesi ritenuta incostituzionale sia di quella la cui compatibilità con i principi della Carta fondamentale era stata positivamente accertata, così da non consentire alla Corte di scindere i due profili, dato che la superstite ragione della misura la giustificava, comunque, nella sua integralità e, ancor più, considerando che il contenuto del decreto impugnato rispondeva ai requisiti di legittimità individuati dalla Corte costituzionale.
La decisione è destinata ad inserirsi in un quadro valutativo che non registra concordia di orientamenti in ordine alla necessità, in esito alla citata decisione della Consulta ed al fine di darvi attuazione, di pronunziare sentenza di annullamento del provvedimento impugnato con rinvio al giudice di merito.
Sez. 1, n. 27696 del 01/04/2019, Immobiliare Peonia s.r.l., Rv. 275888 ha, in particolare, ritenuto che la Corte, qualora sia investita del ricorso avverso un provvedimento applicativo di misura di prevenzione che, prima della citata dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lett. a), del codice antimafia ad opera della sentenza della Corte cost. n. 24 del 2019, abbia inquadrato la pericolosità sociale del proposto nelle fattispecie di cui alle lett. a) e b) del citato art. 1, «è tenuta a disporre l’annullamento con rinvio di tale provvedimento, atteso che l’operazione di riqualificazione totale o parziale delle fattispecie di pericolosità implica un’attività di verifica che involge profili di merito e necessita la riapertura del contraddittorio tra le parti non consentita dalla trattazione camerale del procedimento di prevenzione».
In altri termini, secondo la pronuncia in esame, l’eventuale nuovo scrutinio degli elementi fattuali che sorreggono il giudizio di pericolosità ai fini prevenzionali, ai fini dell’inquadramento soggettivo, in via esclusiva, nel paradigma di pericolosità ex art. 1, comma 1, lett. b) d.lgs. n.159 del 2011 non può attuarsi in sede di legittimità, non soltanto perché la trattazione camerale del procedimento di prevenzione, ex art. 611 cod. proc. pen., non consente la realizzazione del contraddittorio indispensabile nella dinamica riqualificatoria, sul piano giuridico, del giudizio di pericolosità (si richiamano qui Sez. 6, n. 3716 del 24/11/2015, Caruso, Rv. 266953 e Sez. 6, n. 41767 del 20/6/2017, Boschi, Rv. 271391), ma anche per la ragione che l’eventuale nuovo ed esaustivo inquadramento della pericolosità nella fattispecie di cui alla citata lett. b) esige, per quanto sinora detto, una verifica che involge profili di merito pieno in ordine all’esistenza di tutti i «passaggi esplicativi di quella “opzione tassativizzante”» elaborata dalla giurisprudenza di legittimità e recepita dalla Corte costituzionale.
Analoga soluzione è adottata da Sez. 2, n. 11445 del 08/03/2019, Lauri, Rv. 276061 nell’ipotesi di provvedimento che abbia confermato la misura della sorveglianza speciale, disposta in epoca antecedente alla citata sentenza della Corte costituzionale, senza precisare in quale specifica categoria di pericolosità si inscriva il prevenuto, al fine di verificare se gli elementi di fatto rappresentati ne consentano l’inquadramento nell’ipotesi di cui alla lett. b) dell’art. 1 del d.lgs. citato, unica ancora legittimante l’adozione della misura.
Diversamente opinando rispetto a quanto ritenuto dalle sopra citate decisioni Sez. 6, n. 38077 del 09/05/2019, Falasca, Rv. 276711, ha, invece, affermato che, laddove il compendio istruttorio valorizzato dal provvedimento impugnato permetta di ritenere la sussistenza di condotte delittuose corrispondenti al tipo criminologico dell’art. 1, lett. b), cit., e di inferirne l’attualità della pericolosità sociale del proposto, nonché di stabilire, relativamente alla misura patrimoniale, il momento in cui quelle condotte abbiano raggiunto consistenza e abitualità tali da poter ravvisare una correlazione tra l’acquisto dei beni e la manifestazione di pericolosità, non sia necessario disporre l’annullamento con rinvio di tale provvedimento per una nuova valutazione del materiale probatorio, in quanto lo stesso è già stato delibato nel contraddittorio delle parti e ritenuto sufficiente a ricavarne la ricorrenza dei presupposti delle misure di prevenzione, per essere il proposto annoverabile anche nella categoria criminologica di cui alla citata lett. b) dell’art. 1.
In ogni caso, al di là dell’actio finium regundorum che riguarda la specifica tipologia di pronuncia da adottare nel giudizio di legittimità, resta fermo, come puntualizzato da Sez. 1, n. 8038 del 05/02/2019, Manauro, Rv. 274915 - in ciò ricollegandosi a Sez. 1, n. 32032 del 10/6/2013, De Angelis, Rv. 256451, ed a Sez. 1 n. 29966 del 08/04/2013, Costa, Rv. 256415 - che nel procedimento di prevenzione non si configura una violazione del principio di correlazione tra contestazione e decisione qualora il provvedimento applicativo della misura ritenga sussistente una categoria di pericolosità sociale diversa da quella indicata nella proposta (nella specie oggetto dell’intervento nomofilattico della Corte, la pericolosità generica ex art. 1 e 4, comma 1, lett. c), d.lgs. n. 159 del 2011 a fronte di una proposta impostata su profili di pericolosità c.d. «qualificata» ex art. 4 ,comma 1, lett. a), stesso d.lgs.), purché la nuova definizione giuridica sia fondata sui medesimi elementi di fatto posti a fondamento della proposta, in relazione ai quali sia stato assicurato alla difesa un contraddittorio effettivo e congruo.
Di particolare interesse è, altresì, l’esclusione operata dalla Corte in motivazione circa l’applicabilità nel procedimento di prevenzione dei principi affermati dalla Corte Edu nella sentenza Drassich c. Italia del 11 dicembre 2007 e, dunque, la necessità che la difesa sia chiamata ad interloquire sulla diversa qualificazione della categoria di pericolosità sociale legittimamente ritenuta dal giudice rispetto a quella originariamente ipotizzata in applicazione del generale principio affermato dall’art. 521, comma 1 cod. proc. pen., alla condizione, beninteso, che ricorrano i requisiti della medesimezza degli elementi fattuali posti a fondamento della proposta e dell’esplicazione del contraddittorio in ordine agli stessi.
Resta fermo, infine, che il venir meno, per eventi successivi, dell’accertata pericolosità sociale del prevenuto, non ha influenza alcuna sulla confisca del patrimonio a lui riconducibile, ritenuto frutto o reimpiego delle sue attività illecite; ne consegue, in particolare, che la collaborazione del prevenuto con la giustizia, ancorché determini la cessazione della sua pericolosità, comportando la recisione dei suoi legami di appartenenza con l’ambiente mafioso di riferimento e costituendo elemento idoneo a determinare la revoca delle misure personali, non si riverbera sulla stabilità del provvedimento di confisca, adottato sulla base dell’accertata pericolosità al momento dell’acquisizione dei beni assoggettati alla misura ablativa. (Sez. 5, n. 2471 del 06/12/2018, dep. 2019, Giampà, Rv. 275410).
Il tema dei criteri giuridici da seguire per l’accertamento, ai fini della confisca, della fittizietà dell’intestazione o del trasferimento a terzi di beni in realtà da ritenersi nella perdurante disponibilità del proposto si innesta, notoriamente, sull’esegesi dell’art. 26, comma 2, d.lgs. n. 159 del 2011, secondo cui «[...] fino a prova contraria si presumono fittizi: a) i trasferimenti e le intestazioni, anche a titolo oneroso, effettuati nei due anni antecedenti la proposta della misura di prevenzione nei confronti dell’ascendente, del discendente, dei coniuge o della persona stabilmente convivente, nonché dei parenti entro il sesto grado e degli affini entro il quarto grado; b) i trasferimenti e le intestazioni, a titolo gratuito o fiduciario, effettuati nei due anni antecedenti la proposta della misura di prevenzione».
In tale dimensione ricostruttiva, Sez. 1, Sentenza n. 5286 del 06/02/2018 - dep. 2019 – Seminara, Rv. 274871, ha ritenuto che, ai fini della configurabilità del requisito della convivenza (nella specie, ai sensi degli artt. 2-bis, comma 3, e 2-ter, comma 14, lett. a), della legge 31 maggio 1965, n. 575), non è necessaria la condivisione di una medesima unità abitativa, essendo sufficiente una relazione stabile e duratura, caratterizzata da una comunione di interessi affettivi ed economici. L’applicazione di tale principio ha fatto sì che la Corte abbia ritenuto corretta la valutazione dei giudici di merito, che avevano considerato come convivente, nonostante la mancata coabitazione, la compagna con cui il proposto intratteneva da tempo una relazione sentimentale, rilevando come egli ne frequentasse ordinariamente l’abitazione, proprio per tale motivo sottoposta più volte a perquisizione, e provvedesse a tutte le esigenze economiche della donna, comprese le spese di ristrutturazione della suddetta abitazione.
Sempre in subiecta materia, con particolare riferimento alle allegazioni da parte dei familiari o dei terzi intestatari a fini giustificativi della legittima provenienza dei beni, Sez. 1, n. 12629 del 16/01/2019, P.g. in proc. Macrì, Rv. 274988, riallacciandosi all’approfondito esame effettuato da parte delle Sezioni Unite con la sentenza n. 12621 del 22/12/2016 - dep. 2017 - De Angelis, Rv. 270081-2-3-4-5-6-7, ha affermato che «la sproporzione tra i beni posseduti e le attività economiche del familiare o del terzo intestatario fittizio del bene in favore del proposto non può essere da costoro giustificata adducendo proventi da evasione fiscale, giacché, altrimenti, sarebbero illogicamente rese inoperative le rispettive presunzioni di interposizione fondate, per quanto attiene ai familiari ed al coniuge, sulla massima di comune esperienza della comunanza di interessi patrimoniali e di redditi nell’ambito dell’unità familiare entro cui si colloca la persona socialmente pericolosa, e, per quanto attiene al terzo, sull’accertamento di cui all’art. 26, d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159».
Con riguardo, poi, alla confisca del denaro depositato su un conto corrente intestato alla figlia ed al genero del proposto, con lo stesso non conviventi, Sez. 1, n. 26872 del 05/02/2019, Vazzano, Rv. 276412 ha affermato l’illegittimità del provvedimento ablativo che, in assenza di altri indicatori da valutare secondo il parametro di ragionevolezza temporale, nonché del riscontro dei presupposti di applicabilità dell’art. 26 codice antimafia, desuma il carattere fittizio dell’intestazione dalla sola sproporzione tra l’ammontare di tali somme e i redditi percepiti, senza neanche considerare l’epoca di inizio dell’attività lavorativa dell’affine e quella di accumulo della provvista.
È interessante notare come, in tale prospettiva, la Corte abbia disatteso l’impostazione adottata dal giudice territoriale, il quale aveva ritenuto che l’art. 19, comma 3, del codice antimafia contemplasse una presunzione di appartenenza al proposto dei beni intestati ai familiari. La Corte ha osservato che tale norma, diversamente dal successivo art. 26, non istituisce una presunzione di disponibilità dei beni in capo al proposto, ma il solo obbligo di disporre le speciali indagini nei confronti dei soggetti ivi indicati, in ragione del legame di parentela, coniugio o convivenza che li collega al proposto stesso; norma che, fra l’altro, trova il suo precedente storico nel terzo comma dell’art. 2-bis della legge n. 575 del 1965, del cui testo la disposizione sopravvenuta è meramente ricognitiva.
Piuttosto, ha ancora osservato la Corte, la mancata giustificazione dei redditi o di adeguate capacità patrimoniali può essere valutata come indicatore, unitamente ad altri elementi dimostrativi, dell’incapacità patrimoniale e reddituale in relazione a determinate forme di investimento, laddove il valore dei beni stessi risulti sproporzionato al reddito disponibile di genesi lecita, ma non è sufficiente da sola a legittimare anche l’affermazione che essi effettivamente appartengano a persona diversa, e cioè al proposto, in specie quando fra questo ed i terzi non vi sia alcuna comunanza di vita.
Diversamente da quanto indicato dall’art. 19, comma 3, pertanto, è il solo art. 26 del d.lgs. n. 159 del 2011 ad istituire ipotesi di presunzioni relative per i casi espressamente tipizzati, che non risultano suscettibili di applicazione analogica.
Vi è da aggiungere, a margine di tali considerazioni, che la giurisprudenza di legittimità ha da tempo precisato che il rapporto fra il proposto ed il coniuge, i figli e gli altri conviventi costituisce, pur al di fuori dei casi oggetto delle specifiche presunzioni di cui all’art. 26, comma 2, d.lgs. cit., una circostanza di fatto significativa, con elevata probabilità, della fittizietà della intestazione di beni dei quali il proposto non può dimostrare la lecita provenienza, quando il terzo familiare convivente, che risulta formalmente titolare dei cespiti, è sprovvisto di effettiva capacità economica (cfr. Sez. 1, n. 17743 del 07/03/2014, Rienzi, Rv. 259608; Sez. U, n. 12621 del 22/12/2016 - dep. 2017 - De Angelis, in motivazione al par. 11.1).
Deve trattarsi, tuttavia, come non manca di ricordare la decisione n. 26872/19, «di una condizione di incapienza patrimoniale del terzo legato da vincolo di parentela o convivenza che rilevi oggettivamente in funzione del giudizio di sproporzione e che sia tale da dimostrare ex se attraverso l’inferenza logica una disponibilità del bene in capo al proposto. Là dove faccia difetto una situazione obiettiva con connotazioni siffatte non può procedersi al richiamo di meccanismi presuntivi, per dedurre il requisito obiettivo di disponibilità della res in capo all’indiziato e per ritenere, pertanto, fittizia l’intestazione dei beni che risultino nella formale titolarità del parente o del convivente, al più esposto per voluntas legis alle speciali indagini».
Sotto diverso ma concettualmente convergente profilo, va menzionata, altresì, Sez. 2, n. 27932 del 15/03/2019, Italia, Rv. 276667, che, ponendosi in linea di continuità con i principi già espressi da Sez. 6, n. 35240 del 27/06/2013, Cardone, Rv. 256267, in un’ipotesi di ablazione di un immobile abitativo costituente il reimpiego di redditi derivanti dalla conduzione di fondi acquistati “in regime di sproporzione” e dalla partecipazione a società costituite in assenza di risorse finanziarie lecite, ha ribadito che è legittima la confisca di beni acquistati con il ricavato dalla dismissione di altri beni, la cui acquisizione non trova conforto in una proporzionata disponibilità finanziaria, reddituale o comunque lecita, nel periodo di riferimento, dal momento che anche l’acquisizione successiva dei nuovi beni con i fondi ricavati con le indicate modalità risulterebbe viziata, pur se in via meramente derivativa, dall’originaria illiceità del primo acquisto.
La necessità, ai fini applicativi di una misura di prevenzione patrimoniale, che l’oggetto dell’ablazione corrisponda ai beni di cui il proposto disponga direttamente od indirettamente, che siano di valore sproporzionato al reddito dichiarato o all’attività economica svolta ovvero che «risultino» (nel caso di confisca ex art. 24; nel caso di sequestro ex art. 20, bastano «sufficienti indizi») «essere frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego» si deve necessariamente confrontare con la ricorrente evenienza problematica, che il dettato normativo non regola espressamente, della “confusione” nel patrimonio del proposto, esercente un’impresa commerciale, tra beni di provenienza lecita e beni di provenienza illecita, in un quadro in cui l’esigenza del rispetto dei principi di stretta legalità e di compatibilità costituzionale del sistema è particolarmente stringente.
Al riguardo, è noto che la giurisprudenza di legittimità ha operato una serie di interventi interpretativi tesi ad imporre al giudice incaricato di decidere sulla misura patrimoniale una attenta analisi dei profili fattuali e delle allegazioni difensive per consentire, ove possibile, di distinguere le immissioni di risorse ed i conferimenti di origine illecita, nonché i beni conseguiti attraverso l’impiego di tali mezzi rispetto a quanto risulti legittimamente acquisito, procedendo alla sola confisca pro quota.
In tale contesto, proprio i temi della sottoposizione a sequestro ed a confisca di prevenzione di beni acquistati in parte con provvista lecita e della legittimità di una riduzione pro quota dell’oggetto di tali provvedimenti sono stati oggetto di puntuale scrutinio da parte della giurisprudenza di legittimità nell’arco del 2019.
Non sono mancate, in particolare, pronunce che hanno ribadito il principio secondo cui, allorché la divisione del bene sia giuridicamente ed economicamente possibile, non ne è giustificabile la confisca nella sua totalità, poiché ciò comporterebbe l’ablazione della quota corrispondente alla parte di prezzo pagata con l’impiego di redditi di lecita provenienza; ciò con la precisazione che, per non compromettere le finalità e gli scopi delle misure di prevenzione patrimoniale il giudice deve, comunque, tener conto – sulla base di una valutazione di merito, che non può essere sindacata in sede di legittimità se congruamente motivata - della diversa incidenza economica della frazione lecita e di quella illecita nell’acquisizione del bene, onde la confisca totale dei beni o delle quote può essere disposta nel caso di assoluta, o nettissima, preponderanza delle risorse di natura illecita, tale da rendere del tutto irrisoria la quota di conferimento lecito.
Nella medesima dimensione ermeneutica, Sez. 6, n. 35893 del 20/06/2019, Quacquarelli, Rv. 276832 ha ribadito che non può essere disposta l’ablazione di un bene immobile nella sua interezza ove il pagamento del prezzo di acquisto sia avvenuto in parte con redditi di provenienza lecita, salvo il caso in cui la preponderanza della provvista proveniente da disponibilità prive di giustificazione sia tale da rendere irrisoria, anche per la peculiare natura e consistenza economica del bene, la quota di conferimento lecita. In applicazione di tale principio, la Corte ha, nella specie, ritenuto legittimo il dissequestro di un immobile nei limiti di una quota del 18%, pari all’importo della provvista di provenienza lecita, pur se considerevolmente inferiore rispetto alla quota ritenuta di provenienza illecita.
In termini analoghi, si è affermato che quando risulti che un immobile lecitamente acquisito sia stato ampliato o migliorato con l’impiego di disponibilità economiche prive di giustificazione, la confisca può investire il bene nella sua interezza esclusivamente nel caso in cui le trasformazioni e le addizioni abbiano natura e valore preminente, tale da non consentire una effettiva separazione di distinti valori “pro quota” (Sez. 2, n. 27933 del 15/03/2019, Lampo, Rv. 276211, in continuità con l’orientamento espresso, fra le altre, da Sez. 1, sentenza n. 29186 del 22/04/2013, Ripepi, Rv. 256788).
Ispirata ad omogenei registri, Sez. 6, n. 10105 del 10/10/2018, dep. 2019, Visinoni, Rv. 275426 ha affermato che non è consentita la confisca delle sole parti di un edificio realizzate con il reimpiego di utili costituenti profitto illecito, in quanto esse, per l’inscindibilità delle parti componenti l’immobile, non sono suscettibili di utilizzazione separata.
La decisione si segnala anche per la specifica analisi della questione interpretativa scaturente dall’applicazione del principio dell’accessione, previsto dall’art. 934 cod. civ.: questione risolta nel senso, del resto già fatto proprio da precedenti pronunce della Corte, della legittimità della confisca di un edificio realizzato con fondi di provenienza illecita su un suolo di provenienza lecita, se il primo abbia un valore preponderante rispetto al secondo, poiché, quando un bene si compone di più unità, il regime penalistico cui assoggettare il cespite nella sua interezza è quello proprio della parte di valore economico e di utilizzabilità nettamente prevalenti, diventando irrilevante il principio civilistico dell’accessione. La ratio dell’applicazione di una misura di prevenzione, invero, impone di annettere rilievo al bene di maggior valore economico, essendo necessario colpire i beni prodotti in conseguenza dell’accaparramento di profitti illeciti ed in forza del reimpiego di detti profitti proprio nella realizzazione dei fabbricati; il che impedisce, sul piano economico e funzionale, di scinderne l’unitaria valutazione, rendendoli insuscettibili di una separata utilizzazione (cfr. anche Sez. 6, n. 18807 del 30/10/2012, Rv. 255091; Sez. 6, n. 16151 del 04/02/2014, Rv. 259763).
Il tema del discrimine tra rapporti leciti ed illeciti è stato impostato in modo peculiare con riferimento alle attività economico-imprenditoriali, rispetto alle quali la commistione fra apporti di diversa provenienza finisce spesso per divenire inestricabile, così originando articolate e non sempre coincidenti metodologie di approccio, foriere di risultati ermeneutici diversificati.
Così, in subiecta materia si registrano pronunce secondo cui, «nei limiti del giuridicamente ed economicamente possibile, anche con riferimento ad un’azienda è necessario distinguere tra apporti leciti ed apporti illeciti e sottoporre ad ablazione solo quelle parti o quote di valore (e di patrimonio) riferibili ai secondi; fermo restando che deve ritenersi illecita anche l’impresa in cui l’attività di tale natura risulti, per valore, nettamente prevalente su quella lecita, con la conseguenza che il complesso aziendale è suscettibile di ablazione nella totalità dei beni che lo compongono, in quanto interamente contaminato» (Sez. 6, n. 11666 del 13/02/2019, Catarozzo Rv. 275292), affiancate da altre decisioni che hanno delineato in modo chiaro la costruzione giurisprudenziale dell’impresa mafiosa (cfr., ad esempio, Sez. 5, n. 16311 del 23/01/2014, Di Vicenzo, Rv. 259871), sorretta dal principio in virtù del quale la confisca di prevenzione di un complesso aziendale non può essere disposta solo con riferimento alla quota ideale riconducibile all’utilizzo di risorse illecite, non potendosi distinguere, in ragione del carattere unitario del bene, l’apporto di componenti lecite riferibili alla capacità e alla iniziativa imprenditoriale da quello imputabile ai mezzi illeciti, specie quando il consolidamento e l’espansione dell’attività economica siano stati sin dall’inizio agevolati dall’organizzazione criminale.
Quest’ultima costruzione rappresenta, a ben vedere, una soluzione ispirata dall’esigenza di non deprivare di efficacia il sistema delle misure di prevenzione patrimoniali proprio in un settore, come quello delle attività produttive, in cui si manifesta la maggiore pericolosità delle infiltrazioni di origine mafiosa, che si traducono nella costituzione o nell’acquisizione di aziende già esistenti e che, in ogni caso, condizionano l’origine ed il concreto sviluppo delle iniziative produttive, in quanto costituiscono il terreno di elezione non solo per investire una ricchezza di origine illecita inquinata ma anche per accrescere le possibilità di penetrazione criminale nel tessuto economico e sociale.
Nel caso, poi, di impresa mafiosa costituita in forma societaria, si è affermato che lo stesso ragionamento impone di estendere il sequestro e la confisca a tutto il patrimonio aziendale ed a tutto il capitale sociale, ivi comprese le quote sociali di terzi, nonostante l’origine lecita dei fondi impiegati per la sottoscrizione delle stesse laddove sia accertata la disponibilità sostanziale dell’impresa da parte del proposto e nel caso in cui l’attività economica risulti condotta sin dall’inizio con mezzi illeciti.
In sostanza, il baricentro dell’indagine in tema di confisca non si colloca tanto nel ricercare e discernere quali siano i frutti del reimpiego di specifici proventi non giustificati ma nel verificare se l’attività economica d’impresa si sia espansa ed abbia prodotto redditi beneficiando della sinergia con la consorteria mafiosa, notoriamente rivolta al condizionamento delle attività di impresa.
Non a caso, in una simile prospettiva, si afferma apertamente (da ultimo, Sez. 2, n. 31549 del 06/06/2019, Simply Soc. Coop., in motivazione) che «dinanzi ad un fenomeno di commistione tra attività imprenditoriale ed appartenenza all’associazione mafiosa, sarebbe riduttivo e fuorviante limitarsi a verificare se ogni operazione sia immediatamente caratterizzata da evidenti requisiti di illiceità costituendo, ad esempio, il risultato di una determinata attività delittuosa essendo stata resa possibile la stessa solamente in virtù dell’attivazione di un determinato canale illecito. Tutte le operazioni attuate per il tramite di un’impresa costituita o sviluppatasi grazie all’estrinsecarsi dell’attività mafiosa sul versante economico rimangono geneticamente collegate, più o meno direttamente ad una situazione antigiuridica e finiscono per contribuire alla creazione di quella ricchezza inquinata che il sistema delle misure di prevenzione patrimoniali vuole colpire con la confisca dei beni che rappresentano il frutto di condotte illecite o ne costituiscono il reimpiego».
Una recente declinazione di tale orientamento si rinviene in Sez. 5, n. 32017 del 08/03/2019, Roma, Rv. 277099, secondo cui la confisca (nella specie, disposta ai sensi dell’art. 2-ter della legge 31 maggio 1965, n. 575), di una impresa costituita in forma societaria che abbia stabilmente operato avvalendosi della forza di intimidazione di un’associazione mafiosa o, comunque, in cointeressenza con essa, si estende a tutto il patrimonio aziendale e a tutto il capitale sociale, ivi comprese le quote sociali intestate a terzi, nonostante l’origine lecita dei fondi impiegati per la sottoscrizione delle quote, laddove sia accertata la disponibilità sostanziale della impresa da parte del proposto o l’attività economica risulti condotta, sin dall’inizio, con mezzi illeciti: nel caso esaminato dalla Corte, si era accertato che l’espansione delle aziende confiscate era stata sin dall’inizio agevolata dall’organizzazione mafiosa ed i terzi interessati non avevano comunque fornito elementi idonei a selezionare, nell’ambito del complesso aziendale, i beni di origine lecita.
Un’impostazione non dissimile si coglie in Sez. 6, n. 49750 del 04/07/2019, Diotallevi, in corso di massimazione, per la quale può essere disposta la confisca di tutto il patrimonio immobiliare e societario del proposto in conseguenza della sua pericolosità qualificata, qualora l’apporto di componenti lecite si sia risolto nel consolidamento e nell’espansione della sistematica e reiterata attività di riciclaggio e di reimpiego di preponderanti capitali illeciti e, quindi, nell’accumulazione di ricchezza illecita, nella quale non sia più scindibile la minoritaria quota lecita, stante il risultato sinergico dei capitali impiegati, determinante una loro inestricabile commistione e contaminazione.
Né, sempre in ipotesi di confisca di aziende e quote sociali, assume rilievo impediente rispetto al provvedimento ablativo la costituzione dell’ente in data antecedente al periodo temporale entro il quale sia stata perimetrata la pericolosità del proposto: Sez. 5, n. 19280 del 05/02/2019, Tarantolo, Rv. 276247 ha, in proposito, richiamato l’attenzione sul fatto che la confisca del compendio aziendale e delle quote sociali è consentita anche quando è provato che il valore dei medesimi si sia formato, in via prevalente, nel periodo di tempo correlato all’accertata pericolosità sociale qualificata del proposto – nella specie derivante dall’appartenenza del medesimo ad un sodalizio mafioso, che gli aveva consentito l’aggiudicazione di appalti pubblici costituenti l’attività principale della società -, a nulla rilevando la risalente costituzione di quest’ultima ad un periodo antecedente a quello dell’accertata pericolosità.
In siffatta cornice di disciplina, la Corte non ha mancato di analizzare i rapporti fra vincoli riguardanti il patrimonio aziendale e vincoli avente ad oggetto il capitale sociale, nella particolare ipotesi di dissequestro di una parte minoritaria delle quote sociali: Sez. 1, n. 34094 del 04/07/2019, Cirrincione, Rv. 277309, ha riconosciuto la legittimità del provvedimento che, dissequestrando una quota minoritaria del capitale sociale, mantenga in confisca l’intero patrimonio aziendale, a condizione che sia accertata la natura “mafiosa” dell’impresa, in tale ipotesi non rilevando la disposizione di cui all’art. 24, comma 1–bis del codice antimafia, introdotta dall’art. 5, comma 8, lett. a) della legge 17 ottobre 2017, n. 161, in quanto tale previsione ha bensì introdotto un automatismo tra confisca delle quote societarie e confisca del patrimonio aziendale, ma non ha condizionato la confiscabilità del patrimonio aziendale alla confisca di tutte le quote.
Un complessivo apprezzamento, sia pur necessariamente in chiave di sintesi, del panorama decisorio illustrato consente di evidenziare che l’affermazione dei principi esaminati non assume affatto il significato di disconoscere l’orientamento secondo cui la confisca non può estendersi aprioristicamente ed in modo indiscriminato a tutto il patrimonio del proposto, bensì deve sempre riguardare singoli beni rispetto ai quali siano individuabili le ragioni della illegittima provenienza; gli interventi della Corte si sono, piuttosto, prefissi di riconoscere che tale impostazione, «quando si è di fronte ad una realtà produttiva nel suo complesso e dinamico operare, non può che riferirsi all’intera azienda» (Sez. 2, n. 31549 del 06/06/2019, Simply Soc. Coop., cit.).
Ed è proprio sviluppando gli spunti euristici che si sono illustrati che il criterio ermeneutico in parola dal fenomeno della “impresa mafiosa” e dal suo corredo di “pericolosità qualificata”, è stato, in ultimo, applicato estensivamente anche nei confronti delle imprese, eventualmente gestite in forma societaria, riconducibili ad un soggetto “pericoloso generico”.
È stata la più volte ricordata Sez. 2, n. 31549 del 06/06/2019, Simply Soc. Coop., che costituisce una vera e propria summa delle principali questioni che si agitano in materia di misure di prevenzioni patrimoniali e che rappresenta, dunque, un’efficace fotografia dello stato dell’arte dell’elaborazione giurisprudenziale di legittimità, ad affermare (Rv. 277225 - 07) che «la confisca di prevenzione, anche in ipotesi di pericolosità generica, si estende, quando ricorra un’attività d’impresa esercitata in forma societaria e con strutture imprenditoriali complesse, a tutto il patrimonio aziendale ed all’insieme delle quote nella disponibilità del proposto, anche se formalmente intestate a terzi, ove sia dimostrato che la costituzione delle società ovvero l’acquisizione, anche in via di fatto, delle relative partecipazioni siano strumentali al perseguimento di attività illecite, poiché in tal caso è l’attività economica nel suo complesso, gestita dal soggetto pericoloso, a costituire un fattore patogeno ed inquinante del mercato per la permanente immissione di profitti illeciti che si autoalimentano e confondono con quelli leciti». E, in modo coerente con tali premesse, in motivazione la Corte ha ulteriormente precisato che la confisca può essere estesa agli investimenti con proventi illeciti anche precedenti al periodo di pericolosità, purché sia dimostrata la riferibilità al proposto delle imprese formalmente terze e non sia possibile distinguere, in termini di certezza e di rilevante prevalenza, l’attività imprenditoriale lecita da quella costituente reimpiego o occultamento di profitti illeciti.
Da tale impostazione discendono precise conseguenze in tema di impugnazione del provvedimento ablatorio e di individuazione dei profili dimostrativi coessenziali all’allegazione liberatoria. Premesso che, nel caso di confisca dell’intero capitale sociale di una società e dei beni formalmente intestati alla stessa, legittimati a costituirsi in giudizio, ai sensi dell’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 159 del 2011, ed a proporre impugnazione sono solo le persone fisiche titolari dei diritti nascenti dalle quote sociali e non, invece, la persona giuridica in quanto tale (Sez. 1, n. 35793 del 15/02/2019, Amodeo, Rv. 276939 - 02), si è coerentemente affermato che «il terzo titolare di una quota, sia pur minima (nella specie, dell’1%), di partecipazione in una società oggetto di confisca in quanto nella disponibilità del proposto, soggetto pericoloso generico, al fine di opporsi all’ablazione deve dimostrare non tanto di avere avuto la capacità economica di acquistare tale quota, quanto di avere effettivamente esercitato i propri diritti di socio, ovvero, nel caso in cui abbia, altresì, ricoperto il ruolo di amministratore, di avere gestito in modo autonomo la società e di essere estraneo al complessivo illecito “programma” riferibile al proposto» (Sez. 2, n. 31549 del 06/06/2019, Simply Soc. Coop., Rv. 277225 – 09).
Quanto alla posizione del proposto, va premesso che, in tema di misure patrimoniali, non si assiste ad un’inversione dell’onere della prova, posto che la dimostrazione dei suoi presupposti applicativi, ed in specie la prova della sproporzione patrimoniale è sempre a carico dell’accusa, mentre grava sul proposto, una volta che tale onere sia stato assolto, solo un onere di allegazione diretto a sminuire o ad elidere l’efficacia probatoria degli elementi offerti dall’accusa; allegazione che si giova, ovviamente, dell’indicazione dei dati fattuali che corroborano la prospettazione alternativa favorevole al proposto stesso (in tal senso, si è anche evocato il c.d. “principio di vicinanza della prova” – cfr. Sez. 2, n. 7484 del 21/01/2014, Baroni, Rv. 259245 – ritenuto estensibile al procedimento di prevenzione).
È precisamente in tale quadro di riferimento che la Corte - ancora Sez. 2, n. 31549 del 06/06/2019, Simply Soc. Coop., Rv. 277225 – 08 - ha analizzato la peculiare questione relativa all’incidenza del ricorso al c.d. “scudo fiscale” sul requisito della sproporzione delle condizioni economiche e patrimoniali del proposto.
L’iter argomentativo prescelto muove, innanzitutto, dal rilievo sistematico che, mentre l’art. 240-bis cod. pen. - nel quale è stato trasfuso l’art. 12-sexies del d.l. n. 306 del 1992 per effetto del d.lgs. n. 21 del 2018 -, trattando del denaro, dei beni e delle altre utilità di cui il condannato non può giustificare la provenienza e che sono in valore sproporzionato rispetto al proprio reddito, prevede espressamente che «in ogni caso il condannato non può giustificare la legittima provenienza dei beni sul presupposto che il denaro utilizzato per acquistarli sia provento o reimpiego di evasione fiscale, salvo che l’obbligazione tributaria sia stata estinta mediante adempimento nelle forme di legge», per contro l’art. 24 del d.lgs. n. 159 del 2011 si limita a disporre «in ogni caso il proposto non può giustificare la legittima provenienza dei beni adducendo che il denaro utilizzato per acquistarli sia provento di evasione fiscale».
L’interrogativo circa le ragioni della volontà del legislatore di non intervenire sul citato art. 24, ed in particolare se essa sia o meno connessa alla diversa funzione delle due disposizioni citate, pur se entrambe riferite all’elemento della sproporzione, ha condotto il Collegio decidente a registrare che l’art. 13-bis, comma 4, d.l. 1 luglio 2009, n. 78, convertito dalla legge 3 agosto 2009, n. 102 - come ulteriormente modificato dal d.l. 3 agosto 2009, n. 103, convertito dalla legge 3 ottobre 2009, n. 141 – prevede che «... l’effettivo pagamento dell’imposta comporta, in materia di esclusione della punibilità penale, limitatamente al rimpatrio ed alla regolarizzazione di cui al presente articolo, l’applicazione della disposizione di cui al già vigente articolo 8, comma 6, lettera c), della legge 27 dicembre 2002, n. 289, e successive modificazioni ...»; la norma da ultimo richiamata, a sua volta, contempla «l’esclusione ad ogni effetto della punibilità per i reati tributari di cui agli articoli 2, 3, 4, 5 e 10 del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, nonché per i reati previsti dagli articoli 482, 483, 484, 485, 489, 490, 491-bis e 492 del codice penale, nonché degli articoli 2621, 2622 e 2623 del codice civile, quando tali reati sono stati commessi per eseguire od occultare i predetti reati tributari, ovvero per conseguire il profitto e siano riferiti alla stessa pendenza o situazione tributaria».
Da tale puntuale ricognizione dell’assetto normativo della materia, la decisione in esame trae una prima conseguenza: l’accesso al c.d. “scudo fiscale”, di per sé, incide sulla punibilità degli eventuali reati tributari e sugli altri reati sopra indicati ma, in ogni caso, non trasforma ex se le somme di provenienza illecita in proventi leciti laddove gli stessi derivino da condotte delittuose diverse da quelle specificamente indicate.
A margine di tale considerazione, la Corte annota, altresì, che la propria giurisprudenza in tema di applicazione della speciale causa di non punibilità ex art. 13-bis citato ravvisa il preciso onere dell’interessato di indicare gli specifici elementi da cui poter desumere che le somme rimpatriate o regolarizzate corrispondono a quelle oggetto della condotta incriminata o comunque hanno attinenza con il reato contestato» (Sez. 3, n. 2221 del 06/10/2015 - dep. 2016 - Grossi, Rv. 266012).
Tanto ha convinto la Corte, nella fattispecie sottoposta al suo esame, a ritenere del tutto legittima la decisione di merito impugnata secondo la quale, «in assenza di completa tracciabilità, dalla origine alla emersione, delle somme scudate», non era possibile «sottrarre le medesime alla generalmente affermata, nel patrimonio riconducibile al proposto, confusione e commistione tra proventi di origine lecita (ovvero riconducibili alla evasione fiscale sanata attraverso l’adempimento della obbligazione tributaria nelle forme previste per l’appunto dallo “scudo”) e proventi od incrementi riconducibili a traffici illeciti che ... non si esauriscono, anche sotto il profilo strettamente penale, nella mera violazione di norme tributarie».
Di qui, dunque, l’affermazione del principio di diritto in base al quale il rimpatrio di attività finanziarie e patrimoniali detenute irregolarmente fuori dal territorio dello Stato, ai sensi dell’art. 13-bis del d.l. n. 78 del 2009, convertito con modificazioni dalla legge n. 102 del 2009, come ulteriormente modificato dal d.l. n. 103 del 2009, convertito dalla legge n. 141 del medesimo anno, «non esclude il requisito della sproporzione reddituale e non trasforma ex se le somme di provenienza illecita in proventi leciti, quando non sia adempiuto l’onere, da parte del proposto, di indicare gli specifici elementi da cui desumere che le somme rimpatriate o regolarizzate corrispondono esclusivamente a quelle oggetto delle violazioni penaltributarie a lui contestate».
È noto che la tutela dei diritti dei terzi sui beni sequestrati nel procedimento di prevenzione è regolata dall’art. 52 d.lgs. n. 159 del 2011 che fissa le condizioni richieste per l’inopponibilità nei loro confronti della confisca, e che, con specifico riguardo ai crediti assistiti da diritti reali di garanzia sui beni sequestrati, prevede come prima condizione necessaria, ma non sufficiente, l’anteriorità della costituzione della garanzia rispetto al provvedimento di sequestro.
Si richiede, infatti, che oltre alla predetta condizione di ordine cronologico, vi siano anche altre due condizioni, indicate alla lett. b) del citato articolo, una di carattere fattuale-oggettivo, ovvero che il credito non sia strumentale all’attività illecita o a quella che ne costituisce il frutto o il reimpiego, e l’altra di carattere soggettivo, afferente la dimostrazione della buona fede e dell’inconsapevole affidamento del creditore, con onere della prova a carico del creditore medesimo.
Rispetto al primo requisito, Sez. 5, n. 45460 del 18/10/2019, Italfondiario s.p.a., Rv. 277095 ha sottolineato che il credito garantito da ipoteca iscritta successivamente al sequestro di prevenzione non può ritenersi assistito da una causa legittima di prelazione, essendo espressamente richiesta a tal fine, nella prima parte del primo comma dell’art. 52 cod. antimafia, non modificata dalla legge 17 ottobre 2017, n. 161, l’anteriorità al sequestro tanto del credito, quanto dei diritti reali di garanzia costituiti sui beni oggetto della misura di prevenzione; ne consegue che il creditore non è esentato, in tal caso, dall’onere, previsto dall’art. 52, comma 1, lett. a) del citato decreto, di preventiva ed inutile escussione del restante patrimonio del debitore o di dimostrazione dell’incapienza di quest’ultimo.
Con riferimento all’accertamento del nesso di strumentalità, Sez. 6, n. 14143 del 06/02/2019, Banca Monte dei Paschi di Siena spa, Rv. 275533 ha ritenuto che tale attributo del credito rispetto all’attività criminale del prevenuto può presumersi, fino a prova contraria, nei casi di corrispondenza temporale tra l’insorgenza del credito e l’accertata pericolosità sociale, dovendosi ritenere che l’incrementata disponibilità di mezzi finanziari sia senz’altro idonea ad agevolare, pur indirettamente, la realizzazione di attività illecite. (Fattispecie relativa alla confisca di un terreno acquistato con mutuo ipotecario, erogato nel periodo in cui si erano manifestati gli indizi di appartenenza del proposto ad un sodalizio mafioso, nonché la sperequazione tra acquisti ed entrate del medesimo). Nell’ipotesi di opposizione del terzo creditore all’esclusione del proprio credito dallo stato passivo formato dal giudice delegato ai sensi dell’art. 59, comma 1, cod. antimafia, va menzionata Sez. 5, n. 17968 del 01/03/2019, Ca.Ri.Ge. s.p.a., Rv. 276849, secondo cui lo stesso è ammesso a provare non soltanto la buona fede, ma anche l’assenza del nesso di strumentalità tra il proprio diritto e l’attività illecita del soggetto pericoloso, in quanto, non avendo egli preso parte al procedimento applicativo della misura di prevenzione (celebrato, nel caso di specie, prima della modifica dell’art. 23, comma 4, d.lgs. n. 159 del 2011, introdotta dall’art. 5, comma 7, della legge 17 ottobre 2017, n. 161), risulterebbe altrimenti leso il suo diritto a difendersi in giudizio.
Sul versante delle pronunce riguardanti temi di ordine processuale, il tema dei rapporti fra procedimento per l’applicazione di misure di prevenzione ed istituto della ricusazione, già oggetto di differenti ricostruzioni interpretative, è stato affrontato da Sez. 2, n. 37060 del 11/01/2019, Paltrinieri, Rv. 277038, che, riallacciandosi ad un orientamento già delineato, per quanto non univocamente, dalla giurisprudenza di legittimità più recente, ha affermato che «non è applicabile al procedimento di prevenzione la causa di ricusazione prevista dall’art. 37, comma 1, lett. b) cod. proc. pen. nel caso in cui il giudice abbia in precedenza espresso una valutazione di merito sullo stesso fatto nei confronti del medesimo soggetto in un altro procedimento di prevenzione o in un giudizio penale»: nella specie, l’istanza di ricusazione riguardava due giudici già componenti del collegio del tribunale del riesame che aveva confermato una misura cautelare personale applicata al proposto con riferimento ai reati di usura ed estorsione.
Con tale arresto decisorio, la Corte ha puntualizzato che, per quanto sia ormai incontestata la natura giurisdizionale del procedimento di prevenzione, tuttavia la conformazione normativa di quest’ultimo presenta una connotazione sui generis, non essendo stata storicamente modellata sull’archetipo del giudizio penale cognitivo, ma su quello di tipo esecutivo e, in particolar modo, su quello rivolto all’applicazione delle misure di sicurezza, secondo il riferimento contenuto nell’art. 4, comma 12, legge n. 1423 del 1956, con l’aggiunta, operata dall’art. 7, comma 9, d.lgs. n.159 del 2011, di un esplicito rinvio - per quanto non espressamente regolato - all’art. 666 cod. proc. pen. Proprio la diversità che intercorre fra l’oggetto del giudizio penale e quello del giudizio di prevenzione - l’accertamento della responsabilità per un fatto determinato, quanto al primo; della pericolosità sociale del proposto, quanto al secondo – non consente, ad avviso della decisione, alcuna trasposizione in sede di prevenzione dell’intera disciplina posta a presidio dell’imparzialità del giudice “penale”. In tal senso, la decisione valorizza sia l’insegnamento della Corte costituzionale, la quale (sentenza n. 106 del 2015), ha ribadito che la diversità di oggetto e di scopo dei due procedimenti tollera, sul piano dei valori, scelte diversificate in punto di conformazione normativa del diritto di difesa del soggetto proposto, sia la stessa mancanza, nel cd. codice antimafia, di un’espressa disciplina dei casi di astensione e ricusazione del giudice derivante dall’effetto pregiudicante delle attività svolte in precedenza.
In siffatto quadro ermeneutico, la pronuncia in commento non contesta l’orientamento, già affermatosi, secondo cui anche in sede di prevenzione «la tutela della apparenza di imparzialità va garantita in tutte le ipotesi in cui la persona chiamata a giudicare si trovi in una delle condizioni di “appannamento” della suddetta condizione, di cui all’art. 36, lett. a), b), c), d), e), f) cod. proc. pen.», con conseguente applicabilità degli istituti della astensione e della ricusazione; ma afferma che del tutto differente è il tema del rapporto tra le valutazioni espresse dal giudice penale in una fase diversa del medesimo procedimento (artt. 34, 36, lett. g, e 37 cod. proc. pen.) e la disciplina del procedimento di prevenzione. Non casualmente, del resto – annota la decisione -, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 283 del 2000, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 37, comma 1, cod. proc. pen. nella parte in cui non prevede che possa essere ricusato il giudice che, chiamato a decidere sulla responsabilità di un imputato, abbia espresso in altro procedimento, anche non penale, una valutazione di merito sullo stesso fatto nei confronti del medesimo soggetto, ha espressamente chiarito che «la funzione pregiudicata va a sua volta individuata in una decisione attinente alla responsabilità penale, essendo necessario, perché si verifichi un pregiudizio per l’imparzialità, che il giudice sia chiamato ad esprimere una valutazione di merito collegata alla decisione finale della causa», concludendo nel senso che l’effetto condizionante della decisione assunta in precedenza non può riconoscersi nella situazione inversa, quella del giudice che, dopo aver pronunciato sentenza su un fatto reato (ovvero dopo aver formulato una valutazione in sede cautelare), successivamente sia chiamato a pronunciarsi sull’applicazione di una misura di prevenzione.
Il tema non è affatto, come si può agevolmente arguire, pacifico ricettacolo di uniforme consensus omnium. Di contrario avviso è, ad esempio, Sez. 6, n. 41975 del 02/04/2019, I., in corso di massimazione, la quale ha affermato che la disciplina sulla ricusazione del giudice contenuta nel codice di procedura penale è applicabile anche al procedimento di prevenzione, attesa la natura giurisdizionale dello stesso. Nella specie, la Corte ha ritenuto applicabile l’art. 37, comma 1, lett. b), cod. proc. pen. in un’ipotesi in cui il presidente del collegio incaricato dell’impugnazione avverso il decreto applicativo della misura di prevenzione patrimoniale della confisca, aveva precedentemente applicato, in qualità di g.i.p., la misura cautelare della custodia cautelare in carcere per i medesimi fatti posti a fondamento della misura di prevenzione.
La decisione, dopo essersi analiticamente soffermata sulle implicazioni della «giurisdizionalizzazione» del procedimento di prevenzione, che trova la sua ragion d’essere nel rango costituzionale dei beni – la libertà personale ed il diritto di proprietà e di libera iniziativa economica – che vengono comunque ad essere significativamente incisi da detto procedimento, a prescindere dalla specificità sua propria, ha sottolineato, in conformità alla costante giurisprudenza della Corte EDU, la necessità che l’applicazione della misura sia disposta nel rispetto dei canoni generali di un “giusto” processo garantito dalla legge, fra i quali un rilievo assolutamente primario va riconosciuto all’imparzialità del giudice.
In tale contesto, la decisione contesta recisamente il fondamento del ritenuto carattere “unidirezionale” della richiamata decisione costituzionale, che finirebbe per “sezionare” l’istituto della ricusazione, escludendo la sua applicabilità al procedimento di prevenzione nei casi del giudice che abbia emesso in altro procedimento, quale che esso sia, una precedente decisione di merito nei confronti del medesimo soggetto ed in ordine allo stesso fatto su cui verte il giudizio pregiudicato.
La sentenza osserva, in particolare, che è la stessa sentenza n. 283 del 2000 della Corte costituzionale che non consente di sostenere la tesi della “unidirezionalità”, laddove la Consulta richiama proprie precedenti pronunce, significative del fatto «che il pregiudizio per l’imparzialità-neutralità del giudicante può verificarsi anche nei rapporti tra il procedimento penale e quello di prevenzione, sia quando la valutazione pregiudicante sia stata espressa nel primo in sede di accertamento dei gravi indizi di colpevolezza, quale condizione di applicabilità delle misure cautelari (sentenza n. 306 del 1997), sia quando il rapporto di successione temporale tra attività pregiudicante e funzione pregiudicata sia invertito, per avere il giudice, chiamato a pronunciarsi sulla responsabilità penale di un imputato del delitto di associazione di stampo mafioso, già espresso nell’ambito del procedimento di prevenzione una valutazione sull’esistenza dell’associazione e sull’appartenenza ad essa della persona imputata nel successivo processo penale (ordinanza n. 178 del 1999)».
Tanto giustifica - annota la sentenza n. 41975 del 2019 - un’estensione “bidirezionale” del principio, in forza di una naturale “attitudine estensiva” sua propria, già riconosciuta dalla citata sentenza di legittimità n. 32077/2014. Opinare diversamente, si sostiene, significherebbe relegare il procedimento di prevenzione in un ambito contraddistinto da minor tutela, a fronte di un sistema di garanzie in tema di imparzialità del giudice che è naturalmente ed inscindibilmente connesso allo ius dicere, senza aggettivazioni ulteriori.
In tale composito quadro interpretativo, la più recente giurisprudenza della Corte si è, altresì, occupata degli effetti spiegati dalla presentazione di un’istanza di ricusazione nel corso del procedimento di prevenzione, con particolare riferimento alla sospensione del procedimento e del termine per l’adozione del decreto di confisca sul bene sottoposto a sequestro: Sez. 5, n. 21760 del 29/01/2019, Lampada, Rv. 276892, riallacciandosi all’orientamento di cui è espressione anche Sez. 1, n. 2211 del 12/09/2017 - dep. 2018 -, Lampada, Rv. 272051 ha affermato che «l’ordinanza che dispone la sospensione del procedimento a seguito della dichiarazione di ricusazione del giudice presentata dalla parte, determina la sospensione del termine previsto dall’art. 24, comma 2, d.lgs. n. 159 del 2011 per l’adozione del decreto di confisca sul bene sottoposto a sequestro, per tutto il tempo necessario alla definizione del sub-procedimento di ricusazione, senza incontrare il limite di durata stabilito dall’art. 304, comma 6, cod. proc. pen., che ha natura eccezionale e trova esclusiva giustificazione nelle esigenze di garanzia della libertà personale, presidiate all’art. 13, comma quinto, Cost. (In motivazione, la Corte ha chiarito che il richiamo all’art. 304 cod. proc. pen., effettuato dall’art. 24 del d.lgs. n. 159 del 2011, deve intendersi riferito ai soli commi 1 e 2, che descrivono le ipotesi di sospensione dei termini di custodia cautelare)».
Il caposaldo argomentativo che ben illustra l’impostazione sistematico-interpretativa adottata della decisione della Corte si coglie nell’osservazione che, nelle fonti costituzionali e convenzionali, la previsione espressa del necessario limite massimo di durata riguarda le sole misure provvisorie incidenti sulla libertà personale (art. 13, comma 5, Cost.; art. 5, comma 3, CEDU), e che, pur volendosi ritenere applicabili al procedimento di prevenzione patrimoniale, in forza dell’art. 1 del Prot. add. CEDU sulla tutela della proprietà, i principi del giusto processo di cui all’art. 6 CEDU, nessuna disposizione di tale norma prende in esame la durata di un provvedimento provvisorio, essendo piuttosto prevista la “durata ragionevole” del processo in quanto tale (così come, del resto, nell’art. 111, comma 2, Cost.). Dal che è conseguito, inevitabilmente, il rigetto da parte della Corte della prospettazione difensiva che pretendeva, invece, di parificare durata ragionevole del procedimento e limite di durata di un provvedimento provvisorio, che restano entità giuridiche diverse, posto che tale ultimo limite assume una dimensione endoprocedimentale giustificata solo per il particolare livello del bene oggetto di compressione, mentre la violazione del primo, lungi dal determinare l’inefficacia di atti o provvedimenti, fonda esclusivamente «una forma di indennizzo (equa riparazione), che peraltro la legge vigente riconosce anche in ipotesi di “irragionevole durata” di un procedimento di prevenzione (Sez. 6 - 2 civ., n. 3225 del 11/02/2013, Rv 625239)».
L’opera nomofilattica della Corte in materia di misure di prevenzione non ha mancato di interessarsi ad una variegata gamma di profili attinenti all’individuazione dei provvedimenti impugnabili, alla legittimazione ed all’interesse all’impugnazione, nonché con riferimento a questioni afferenti ai termini ex artt. 24, comma 2, e 27, comma 6, codice antimafia.
Sotto il profilo dell’individuazione dei provvedimenti impugnabili, Sez. 6, n. 13828 del 16/01/2019, Curci, Rv. 275370 ha puntualizzato che il decreto di sequestro finalizzato alla confisca adottato dal presidente della corte d’appello ai sensi dell’art. 22 del d.lgs. n. 159 del 2011, ha natura interinale in quanto sottoposto alla convalida del collegio e, pertanto, non è impugnabile con ricorso per cassazione.
Parimenti, sono stati ritenuti non impugnabili, in difetto di un’esplicita previsione di legge, gli atti gestori del giudice delegato e del tribunale, salvo che, essendo destinati a divenire definitivi e ad incidere su diritti soggettivi, assumano in concreto natura di sentenza, nel qual caso, avverso gli stessi è ammissibile il ricorso straordinario per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost. In applicazione del principio, Sez. 1, n. 35536 del 30/05/2019, Giavelli, Rv. 276938 ha ritenuto inoppugnabile l’ordinanza con cui il tribunale, in sede di incidente di esecuzione, aveva respinto l’opposizione dei terzi intestatari all’ordinanza di vendita di autovetture oggetto di confisca non definitiva, escludendo, altresì, in capo ai medesimi la configurabilità della lesione di un diritto soggettivo al mantenimento del vincolo sino al termine del procedimento legittimante al ricorso straordinario, attesa la previsione, in caso di mancata confisca definitiva, del diritto alla restituzione dei proventi della vendita.
In argomernto, va innanzitutto segnalata Sez. 2, n. 23544 del 13/03/2019, Equitalia Giustizia s.p.a., Rv. 276967 – 01, secondo cui Equitalia Giustizia s.p.a., nella veste di gestore del Fondo Unico Giustizia, non è parte né è legittimata ad intervenire nel procedimento di prevenzione, in quanto ha solo veste di custode e non di titolare di un diritto reale sulle somme che le vengono affidate, onde alla stessa spetta esclusivamente il diritto di ricevere la notifica del provvedimento che incide sulla consistenza patrimoniale del Fondo.
Plurime sono, poi, le pronunce in tema di legittimazione ed interesse ad impugnare il provvedimento di confisca. Sez. 5, n. 5866 del 04/12/2018, dep. 2019, Z., Rv. 275487, ha, in particolare, affermato che la qualità di figli minori conviventi con le persone titolari di diritti reali sui beni confiscati non è tale da attribuire né la legittimazione né l’interesse ad impugnare il provvedimento di confisca, in quanto tali soggetti sono unicamente titolari di un diritto personale atipico di godimento dell’immobile adibito ad abitazione familiare, avente natura meramente derivativa e, quindi, esercitabile soltanto se perduri validamente in capo al familiare il diritto sul bene: si tratta di una posizione giuridica assimilabile a quello del comodatario, realizzando una forma di detenzione qualificata e non per mere ragioni di ospitalità (art. 1168, comma 2, cod. civ.). Va evidenziato come, nell’enunciare tale principio, la Corte abbia operato un pertinente e specifico richiamo alla giurisprudenza delle sezioni civili, fra cui, in particolare, a Sez. 3 civile, n. 10377 del 27/04/2017, C. contro M., Rv. 644066, secondo cui «la convivenza more uxorio, quale formazione sociale che dà vita ad un autentico consorzio familiare, determina, sulla casa di abitazione ove si svolge il programma di vita in comune, un potere di fatto del convivente tale da assumere i connotati tipici di una detenzione qualificata, avente titolo in un negozio giuridico di tipo familiare, ma non incide, salvo diversa disposizione di legge, sul legittimo esercizio dei diritti spettanti ai terzi sull’immobile, sicché tale detenzione del convivente non proprietario, né possessore, è esercitabile ed opponibile ai terzi fin quando perduri la convivenza, mentre, una volta venuta meno la stessa, in conseguenza del decesso del convivente proprietario-possessore, si estingue anche il relativo diritto; ne deriva che, in assenza di una istituzione testamentaria, ovvero della costituzione di un nuovo e diverso titolo di detenzione da parte degli eredi del convivente proprietario, non può ritenersi legittima la protrazione della relazione di fatto tra il bene ed il convivente superstite (già detentore qualificato), restando a carico del soggetto che legittimamente intende rientrare nel possesso del bene, il dovere di concedere a quest’ultimo un termine congruo per la ricerca di una nuova sistemazione abitativa, in virtù dei principi di buona fede e correttezza».
Nel diverso caso di confisca dell’intero capitale sociale di una società e di beni formalmente intestati alla stessa, come già accennato supra, soggetti legittimati a costituirsi in giudizio, ai sensi dell’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 159 del 2011, ed a proporre impugnazione sono state ritenute solo le persone fisiche titolari dei diritti nascenti dalle quote sociali e non, invece, la persona giuridica in quanto tale: in tal senso si è pronunciata Sez. 1, n. 35793 del 15/02/2019, Amodeo, Rv. 276939 - 02, ricollegandosi ad una conforme pronuncia del 2017 (Sez. 1, n. 42238 del 18/05/2017, Mancuso, Rv. 270973).
Con riferimento alla posizione del terzo qualificato come intestatario fittizio dei beni sottoposti a confisca di prevenzione, Sez. 2, n. 31549 del 06/06/2019, Simply Soc. Coop., Rv. 277225 - 04 ha chiarito che «questi può rivendicare esclusivamente l’effettiva titolarità e la proprietà dei beni sottoposti a vincolo, mentre non è legittimato a sostenere che il bene sia di effettiva proprietà del proposto, essendo del tutto estraneo ad ogni questione giuridica relativa ai presupposti per l’applicazione della misura nei confronti di quest’ultimo - quali la condizione di pericolosità, la sproporzione fra il valore del bene confiscato ed il reddito dichiarato, nonché la provenienza del bene stesso - e che solo costui può avere interesse a far valere.
Tale impostazione disattende consapevolmente l’opposto – e, sinora, apparentemente isolato - precedente secondo il quale «in tema di confisca di prevenzione, il terzo che rivendica l’effettiva titolarità e la proprietà dei beni oggetto di vincolo è legittimato ed ha interesse non solo a contestare la fittizietà dell’intestazione, ma anche a far valere l’insussistenza dei presupposti per l’applicazione della misura nei confronti del proposto» (Sez. 5, n. 12374 del 14/12/2017 - dep. 2018 -, La Porta, Rv. 272608) e ribadisce l’orientamento ampiamente maggioritario della giurisprudenza di legittimità secondo la quale sono inammissibili per carenza di legittimazione attiva tanto il ricorso meramente “adesivo” del proposto che, aderendo alla posizione processuale del terzo ritenuto intestatario fittizio, chieda che il bene confiscato sia riconosciuto di proprietà esclusiva del medesimo (cfr. Sez. 2, n. 30935 del 07/05/2015, Ciotta, Rv. 264295; Sez. 6, n. 48274 del 01/12/2015, Vicario, Rv. 265767; Sez. 2, n. 40008 del 12/05/2016, Pomilio, Rv. 268232), quanto il ricorso del terzo che sostenga che il bene è del proposto (cfr., ad es., Sez. 1, n. 50463 del 15/06/2017, Mangione, Rv. 271822; Sez. 5, n. 8922 del 26/10/2015, dep. 2016, Poli, Rv. 266141); ammissibile, invece, è l’impugnazione del terzo che rivendichi l’effettiva proprietà e/o disponibilità autonoma del bene, con il logico corollario che, in tal caso, l’onere di allegazione che su di lui incombe non potrà che riguardare tale esclusivo profilo, restando del tutto estranee al terzo tutte quelle eccezioni che afferiscono esclusivamente alla posizione del proposto, come quelle sopra esemplificate.
Di particolare interesse è, altresì, Sez. 6, n. 26346 del 09/05/2019, Gambino, Rv. 276382, la quale, occupandosi del caso specifico del terzo che, non avendo partecipato al procedimento di prevenzione, accampi l’avvenuto acquisto della proprietà del bene per usucapione, peraltro non ancora accertata in sede civile; tale soggetto, secondo la pronuncia in esame, «ha l’onere di chiedere ed ottenere in sede di incidente di esecuzione la revoca della confisca sul presupposto del proprio possesso ultraventennale, prima di adire il giudice civile, competente in via esclusiva a pronunciarsi sulla fattispecie acquisitiva del diritto reale».
In tale prospettiva, si deve ritenere prevalente l’accertamento in sede penale in ordine alla sussistenza o meno del presupposto di fatto del possesso del bene per oltre 20 anni, fatta salva la competenza propria del giudice civile diretta ad accertare l’avvenuta acquisizione del diritto immobiliare sul bene stesso (Sez. 5, n. 41428, 05/03/2018, Rv. 274598).
Sulla questione esiste, peraltro, un diverso orientamento, secondo cui i terzi sprovvisti di titolo giudizialmente accertato nella competente sede civile da opporre alla confisca di prevenzione, non potrebbero investire il giudice dell’esecuzione al fine di accertare l’esistenza del loro diritto ed ottenere, in tal modo, la revoca della confisca (Sez. 5, n. 33888 del 24/04/2018, Stefanetti, Rv. 273890); si tratta di un orientamento con il quale la decisione recenziore si confronta espressamente, ritenendolo non condivisibile, in quanto la questione relativa alla formazione del titolo spettante alla cognizione del giudice civile non preclude che nella sede penale debba essere, innanzitutto, accertato se il bene si trovi o meno nella disponibilità di fatto del proposto, con la conseguenza che è, semmai, l’accertamento in sede civile dell’acquisto per usucapione ad essere precluso dalla confisca del bene disposta in sede penale e non viceversa.
Da ultimo, sempre in ordine alla posizione del terzo qualificato nel provvedimento di confisca quale intestatario fittizio dei beni oggetto di ablazione, mette conto rilevare che è stata esclusa la legittimazione dello stesso a partecipare al subprocedimento relativo all’approvazione del rendiconto della gestione dei beni confiscati ex art. 43 d.lgs. n. 159 del 2011, ed a presentare osservazioni e contestazioni in merito, non potendosi annoverare fra i soggetti «interessati» ai sensi di detta norma, neppure nel caso in cui la misura patrimoniale non sia esecutiva in pendenza di gravame, ed avendo soltanto titolo per esplicare le proprie difese successivamente, dinanzi allo stesso giudice, nelle forme dell’incidente d’esecuzione. Nell’enunciare tale principio, Sez. 2, n. 16906 del 21/02/2019, Stanek, Rv. 276621 ha, conseguentemente, escluso la legittimazione del terzo a ricorrere per cassazione avverso l’ordinanza resa a definizione di una fase infraprocedimentale cui il medesimo sia rimasto estraneo.
Fra le ragioni a sostegno della decisione, la Corte ha enunciato, fra l’altro, che non ha pregio l’assunto che propugna un’interpretazione del termine «interessati», che figura nell’art. 43 del d.lgs. n. 159 del 2011, di tipo sostanzialistico, svincolata dalle dinamiche proprie del giudizio di prevenzione, e che fonderebbe lo jus postulandi del terzo a prescindere dall’assunzione di veste processuale nel procedimento.
Sempre in tema di legittimazione, di particolare interesse è, infine, Sez. 2, n. 38573 del 17/05/2019, Mediterranea s.p.a., Rv. 277396, che ha riconosciuto la legittimazione del curatore fallimentare a proporre impugnazione avverso il provvedimento di sequestro eseguito nei confronti di una società già dichiarata fallita. La portata nomofilattica della decisione è stata compiutamente analizzata in altra parte della presente Rassegna, dedicata ai rapporrti fra confisca e fallimento, alla quale si rinvia.
Con particolare riferimento al termine previsto dall’art. 24, comma 2, del d.lgs. n. 159 del 2011 per il deposito del decreto di confisca ed al correlativo obbligo di motivazione, Sez. 6, n. 30753 del 28/05/2019, Merlino, Rv. 276467 ha affermato che «il giudice di legittimità può sindacare la motivazione della proroga del termine per il deposito del decreto di confisca, prevista dall’art. 24, comma 2, del d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, in caso di insussistenza radicale del presupposto giustificativo del differimento costituito dalla rilevanza del compendio patrimoniale».
In applicazione di tale principio, la Corte ha annullato l’ordinanza di proroga, che non aveva neppure esplicitato le ragioni di tale pretesa rilevanza, a fronte di un compendio da sottoporre ad ablazione composto da due soli beni immobili e da titoli di modesto valore complessivo, così disattendendo la tesi della pubblica accusa - secondo la quale si sarebbe invaso il terreno del giudizio di merito, esprimendo un giudizio di fatto ontologicamente incompatibile con i limiti del vaglio di legittimità, in contrasto con l’art. 10, comma 3, cod. antimafia – in nome del rilievo che, nella fattispecie considerata, si verte in un caso di motivazione apparente rilevante ai sensi dell’art. 125, comma 3 cod. proc. pen. e, quindi, entro i limiti propri del sindacato di legittimità.
Sempre in relazione alle vicende influenti sulla decorrenza del predetto termine, Sez. 1, n. 35793 del 15/02/2019, Amodeo, Rv. 276939 - 01 si è occupata degli effetti scaturenti dall’accoglimento della richiesta difensiva di rinvio del procedimento per necessità di esame degli atti, affermando che tale rinvio è idoneo a determinare la sospensione dei termini di efficacia della confisca, non versandosi in un’ipotesi di rinvio disposto per esigenze di acquisizione della prova o a seguito di concessione di termini per la difesa - nella specie, ha osservato la Corte, il rinvio non era finalizzato alla preparazione della difesa né era stato richiesto a tal fine dalle difese, libere di consultare anche in udienza la documentazione che, peraltro, risultava depositata ed a disposizione delle parti -, contemplata come causa di esclusione della sospensione dei termini dall’art. 304, comma 1, lett. a), cod. proc. pen., il cui contenuto è richiamato dall’art. 24, comma 2, d.lgs. n. 159 del 2011.
Nel caso, poi, in cui il termine ex art. 24, comma 2 cit. sia inutilmente decorso senza che sia stata disposta la confisca, scatta l’obbligo di restituzione dei beni sequestrati, in mancanza della quale, anche qualora intervenga un nuovo sequestro seguito da confisca, i titolari dei beni potranno richiedere, nelle sedi competenti, gli importi corrispondenti alla illegittima mancata restituzione e fruizione dei beni medesimi tra la data di scadenza del termine e l’imposizione del nuovo vincolo coercitivo: nell’enunciare tale principio, Sez. 6, n. 30752 del 11/04/2019, Calì, Rv. 276466 ha precisato che l’omesso rispetto del termine per decidere sulla confisca e la reiterazione del sequestro senza previamente provvedere alla restituzione dei beni non inficia la successiva confisca, stante l’autonomia della misura ablatoria rispetto al provvedimento anticipatorio.
Questioni interpretative affini si sono agitate, nel panorama decisorio di legittimità del 2019, anche in relazione alla tematica della perdita di efficacia della confisca ai sensi dell’art. 27, comma 6, d.lgs. n. 159 del 2011, norma che introduce un termine perentorio di durata del giudizio di secondo grado, in parallelo alla regola dettata in primo grado dall’art. 24, comma 2, dello stesso decreto, secondo una scansione funzionale a garantire «la speditezza dello stesso in uno con le necessarie garanzie del proposto» (così, la Relazione illustrativa al codice delle leggi antimafia). Sez. 1, n. 21740 del 07/03/2019, Procopio, Rv. 276315 ha puntualizzato che il termine di un anno e sei mesi, previsto dal citato art. 27, comma 6, decorrente dal deposito dell’atto di impugnazione, entro il quale la corte di appello deve provvedere a pena di inefficacia della confisca disposta in primo grado, ha come riferimento finale la data del deposito del decreto motivato, in quanto nel procedimento camerale la deliberazione, in assenza formalizzazione attraverso la lettura del dispositivo, costituisce esclusivamente un momento interno del procedimento, sicché si deve ritenere che il momento rilevante coincida con quello in cui la stessa diviene pubblica, ossia con il deposito del provvedimento motivato, che in tal modo acquista giuridica rilevanza esterna. Sez. 5, n. 52068 del 18/11/2019, Valente, in corso di massiazione, sul versante della successione di leggi, ha precisato che la disposizione di cui all’art. 5, comma 8, legge 17 ottobre 2017, n. 161 – che limita, nel caso di accertamenti peritali, a novanta giorni la sospensione del predetto ermine, di un anno e sei mesi - non si applica ai procedimenti pendenti al momento dell’entrata in vigore della predetta novella.
Nell’ipotesi di pronuncia di inefficacia della confisca per inosservanza del predetto termine perentorio, Sez. 6, n. 41735 del 26/06/2019, Verterano, Rv. 277197, riprendendo i principi espressi da Sez. U, n. 36 del 13/12/2000, dep. 2001, Madonia, Rv. 217668, ha affermato il principio secondo cui non sussiste alcuna preclusione, in assenza di una previsione espressa in tal senso, alla rinnovazione del provvedimento ablativo caducato, stante la natura endoprocessuale di siffatto termine e il carattere meramente formale del vizio. In tal senso, la situazione processuale conseguente alla caducazione della misura di prevenzione patrimoniale appare in tutto assimilabile a quella della perdita di efficacia della misura cautelare per motivi formali, senza che, d’altro canto, a tale opzione ermeneutica sia di ostacolo il principio del “giusto processo” ex artt. 111 Cost. 6 CEDU, non comportando di per sé «alcuna preclusione alla rinnovazione della misura in caso di caducazione per inosservanza delle scansioni temporali previste per l’iter procedimentale – come appunto quella prevista dall’art. 27, comma 6, d.lgs. n. 159 del 2011 -, potendo le “giuste” prerogative difensive trovare piena esplicazione nell’ambito della nuova procedura applicativa».
In altro arresto decisorio (Sez. 6, n. 20572 del 09/05/2019, Posillico, Rv. 275684 – 01), la Corte si è, altresì, soffermata sui profili di legittimità costituzionale, per contrasto con gli artt. 3, 27 e 41 Cost., della norma transitoria di cui all’art. 117, comma 1, d.lgs. n. 159 del 2011, che esclude la perdita di efficacia della confisca, ex art. 27, comma 6, d.lgs. cit., per i procedimenti nei quali, alla data di entrata in vigore di tale decreto, sia già stata formulata la proposta di applicazione, affermando che la stessa è manifestamente infondata, in quanto la scelta di regolare, nei processi in corso, gli effetti di nuovi istituti o delle modifiche a istituti esistenti costituisce espressione di un ragionevole esercizio del potere discrezionale del legislatore.
Infine, va registrato che nella peculiare ipotesi di annullamento senza rinvio del decreto di inammissibilità dell’appello proposto avverso il decreto di confisca, nell’ulteriore giudizio di secondo grado, radicatosi a seguito della trasmissione degli atti da parte della Corte di cassazione, il termine di un anno e sei mesi previsto dall’art. 27, comma 6, cod. antimafia decorre ex novo dal deposito della sentenza di annullamento (così Sez. 1, n. 19357 del 19/03/2019, Aprile, Rv. 275810, la cui motivazione chiarisce che la sentenza di annullamento, con o senza rinvio, non travolge il provvedimento di confisca, ma soltanto la sua conferma, e comporta la rinnovazione della fase volta alla verifica della sua fondatezza, con conseguente decorrenza di un nuovo termine entro il quale deve essere compiuta dal giudice di appello).
Anche l’argomento della tutela dei terzi creditori nella procedura di accertamento dello stato passivo è stato oggetto di particolare attenzione da parte della giurisprudenza della Corte di legittimità nel corso del 2019. Fra le decisioni in materia, Sez. 1, n. 18231 del 26/03/2019, Mps Capital Services Banca per le imprese s.p.a., Rv. 275468 ha stabilito che, ai fini del decorso del termine di trenta giorni entro cui, a norma dell’art. 59, comma 6, del d.lgs. n. 159 del 2011, i creditori esclusi possono proporre opposizione al decreto che rende esecutivo lo stato passivo formato all’esito della verifica dei crediti, è sufficiente la semplice comunicazione dell’avviso di deposito di detto decreto ad opera dell’amministratore giudiziario, senza necessità che alla stessa sia allegato lo stato passivo.
La pronuncia in esame è di particolare rilievo, altresì, in quanto la Corte ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 59, comma 6, cit., nella parte in cui non prescrive l’invio anche dello stato passivo, rilevando come una tale semplificazione rispetto all’art. 97 legge fall., che invece nel fallimento lo prevede, non comprima i diritti del creditore, il quale può agevolmente tutelare le sue ragioni recandosi in cancelleria per accedere all’atto ed estrarne copia.
Sotto il profilo della legittimazione a proporre opposizione al provvedimento di esclusione dallo stato passivo, la Corte (Sez. 5, n. 5721 del 18/01/2019, Vitale, Rv. 275138), premesso che il disposto dei commi 6 e 9 dell’art. 59 d.lgs. n. 159 del 2011 consente ai creditori esclusi dallo stato passivo formato dal giudice delegato di proporre opposizione mediante ricorso al Tribunale che ha applicato la misura di prevenzione, ha escluso che il proposto e l’intestatario fittizio di beni sottoposti a confisca di prevenzione siano legittimati ad impugnare, ai sensi dell’art. 59 citato, il provvedimento di esclusione dallo stato passivo dei diritti di credito vantati da terzi.
È da menzionare, infine, Sez. 5, n. 5865 del 04/12/2018, dep. 2019, Spelta, Rv. 275493, che si è occupata della peculiare ipotesi di estinzione dei crediti erariali per confusione, prevista dall’art. 50, comma 2, d.lgs. n. 159 del 2011: con tale pronuncia, la Corte ha affermato che tale fattispecie estintiva presuppone comunque che il credito erariale sia stato accertato dal giudice delegato, nella sua esistenza e nel grado di privilegio, secondo la procedura di verifica prevista dagli artt. 57 e seguenti dello stesso d.lgs., non configurando la norma citata un’ipotesi di prededuzione che, comportando deroga al principio sistematico della par condicio creditorum, rivestirebbe carattere eccezionale e necessiterebbe di un’espressa ed inequivoca previsione legale.
La soluzione accolta dalla Corte appare pienamente aderente alla dinamica di un sistema improntato alla tutela della par condicio creditorum, nel quale anche la particolare disciplina della confusione estintiva non può che presupporre la valutazione comparativa dei titoli vantati dai terzi. In tal senso, la sentenza osserva, in modo del tutto pertinente, che il rischio paventato dal ricorrente - fautore dell’opposta tesi -, ossia che il compendio confiscato risulterebbe aggredibile dai terzi creditori, lasciando insoddisfatto il credito vantato dallo Stato, e, per tale via, determinando in capo al contribuente una sorta di duplicazione di interventi sanzionatori (in quanto alla confisca definitiva dei beni si sommerebbe la perdurante debenza delle imposte e delle sanzioni dovute in forza dell’accertamento, con asserito contrasto con i principi dettati in tema di bis in idem dalla Corte EDU nella nota sentenza Grande Stevens del 4/4/2014 e la sentenza Johannesson del 18/5/2017) «è del tutto conforme ai principi generali dell’ordinamento» - che assoggetta anche il credito erariale alle regole del concorso - «mentre sarebbe la diversa soluzione propugnata, che sacrifica sempre e comunque, a prescindere dalla tipologia delle cause di prelazione, i diritti dei terzi creditori, a manifestare seri dubbi di tenuta costituzionale».
Un altro tema particolarmente interessato dall’attenzione nomofilattica della Corte di legittimità è certamente quello della revocazione della confisca.
In tale prospettiva, va subito menzionata Sez. 1, n. 18580 del 21/03/2019, Giacchetti, Rv. 275471, che ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 28 cod. antimafia per contrasto con gli artt. 11, 24, 41, 42, 111 e 117 Cost., nella parte in cui, limitando la possibilità di chiedere la revocazione della confisca solo per fatti successivamente scoperti che privino di fondamento originario l’ablazione, esclude l’esperibilità del rimedio straordinario in caso di errore di calcolo nel giudizio di sproporzione tra valore degli acquisti e redditi disponibili, trattandosi di un vizio del provvedimento censurabile attraverso gli ordinari mezzi di impugnazione. A ragionare diversamente, invero, ha osservato la Corte, si finirebbe col piegare l’istituto della revisione alla rilevazione di asseriti errori valutativi esaminabili nel giudizio ordinario, in modo da ottenere una indebita duplicazione del controllo sulla base degli stessi fatti e delle medesime.
In ordine ai rapporti fra istituto della revocazione ed incidente di esecuzione, Sez. 6, n. 23839 del 26/04/2019, Mammoliti, Rv. 275987 ha puntualizzato che il proposto ed il terzo che abbia partecipato al procedimento, qualora intendano ottenere la revoca del provvedimento definitivo di confisca, sono tenuti a presentare istanza di revocazione nei limiti ed alle condizioni di cui all’art. 28 del d.lgs. n. 159 del 2011, essendo invece loro preclusa, in ragione dell’inammissibilità di una rivalutazione dei medesimi fatti sine die e ad nutum, l’instaurazione di un incidente di esecuzione ex art. 666 cod. proc. pen., del quale può giovarsi unicamente il terzo che non abbia partecipato al procedimento per non essere stato messo nelle condizioni di farlo.
In tale dimensione argomentativa, è particolarmente interessante notare come la Corte abbia rigettato la tesi difensiva secondo cui l’incidente di esecuzione dovrebbe costituire un rimedio più ampio di quello previsto dall’art. 28 cit., al fine di supplire alla mancanza di altri mezzi di impugnazione contro le decisioni definitive affette da errori di valutazione delle prove già acquisite nel corso del procedimento di prevenzione: si tratta, secondo la decisione in esame, di un’interpretazione che si pone inevitabilmente in contrasto con il sistema delle impugnazioni previsto per le misure di prevenzione, pretendendo di poter riesaminare senza limiti né preclusioni lo stesso immutato quadro fattuale già delibato in sede di applicazione della misura, con la conseguenza di minare il fondamentale principio della certezza e stabilità delle decisioni giudiziarie, tutelato dal legislatore a garanzia della certezza dei rapporti giuridici e che trova un suo equo contemperamento, con riferimento alla confisca, entro i limiti rigorosi fissati dallo stesso art. 28.
Nella medesima ottica, la Corte ha ricordato che la fisiologica revocabilità delle misure di prevenzione personale, soggette al principio rebus sic stantibus (cfr. l’art. 7 legge n. 1423 del 1956 e l’art. 11 cod. antimafia), in quanto legate alla perdurante verifica dell’attualità della pericolosità, non può estendersi alla misura della confisca, che comportando l’ablazione definitiva del patrimonio frutto dell’accumulazione di proventi illeciti, può essere revocata solo nei limiti previsti dall’art. 28 cit. D’altro canto, il rimedio dell’incidente di esecuzione era stato ammesso dall’orientamento formatosi nella vigenza della confisca ex art. 2-ter della legge 31 maggio 1965, n. 575 soltanto nei confronti del terzo interessato che non avesse potuto partecipare al procedimento di cognizione ed il medesimo principio, ad avviso della Corte, vale anche dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 159 del 2011, essendo ora prevista la partecipazione al procedimento di prevenzione oltre che dei terzi che vantino diritti di proprietà o comproprietà dei beni sequestrati, anche dei terzi che vantino diritti reali o personali di godimento, con la conseguenza che anche questi soggetti possono far valere le proprie ragioni e chiedere l’acquisizione di ogni elemento utile ai fini della decisione nel corso del procedimento di prevenzione, essendo anche legittimati ad avvalersi dei mezzi di impugnazione, ordinari e straordinari previsti dagli artt. 27 e 28 del citato decreto.
In ordine agli ambiti ed ai limiti di impugnabilità dei provvedimenti emessi in tema di revocazione, Sez. 6, n. 37648 del 26/06/2019, Aiello, Rv. 276834 ha escluso che sia ricorribile per cassazione l’ordinanza con cui il giudice, investito della richiesta di revocazione della confisca di prevenzione definitiva, declini la propria competenza e disponga la trasmissione degli atti al giudice ritenuto competente, non essendo previsti rimedi preventivi a fini regolativi della competenza se non nei casi in cui venga elevato conflitto. Nel caso oggetto di giudizio, la corte d’appello, ritenuta competente ex art. 11 cod. proc. pen., come richiamato dall’art. 28 del d.lgs. n. 159 del 2011, a pronunciarsi sulla revocazione, aveva disposto la trasmissione degli atti alla stessa autorità giudiziaria che aveva adottato il provvedimento ablatorio, ritenendola competente in applicazione dalla norma transitoria di cui all’art. 117 del d.lgs. cit.
È, invece, ammissibile il ricorso per cassazione avverso il provvedimento di rigetto della richiesta di revocazione, in quanto lo stesso ha carattere di definitività ed il rinvio operato dall’art. 28 del codice antimafia alle forme dell’art. 630 cod. proc. pen. e seguenti, in tema di revisione delle sentenze di condanna (per effetto della riscrittura operata dall’art. 7, comma 1, lett. a, della legge n. 161 del 2017), implica l’applicabilità anche dell’art. 640 del codice di rito, che prevede la ricorribilità per cassazione del provvedimento definitorio del giudizio di revisione (Sez. 6, n. 31937 del 06/06/2019, Fiorani, Rv. 276472).
Quanto al novero dei motivi che possono essere dedotti con il ricorso per cassazione avverso la decisione di rigetto della richiesta di revocazione, Sez. 1, n. 35763 del 04/06/2019, Grauso, Rv. 277132 e Sez. 1, n. 39601 del 19/06/2019, Castaldo, Rv. 276874 - 02, hanno affermato che tale mezzo di impugnazione non soggiace a limitazioni in ordine ai motivi deducibili, essendo detto ricorso regolato, in forza del già richiamato rinvio dell’art. 28 d.lgs. n. 159 del 2011 alle forme degli artt. 630 e ss. cod. proc. pen., dall’art. 640 cod. proc. pen., che non prevede alcuna limitazione al riguardo.
Tali decisioni, di analogo contenuto, pongono in particolare rilievo come tale conclusione derivi dalla conformazione legislativa dell’istituto della revocazione della confisca: nel suo testo originario, l’articolo 28 d.lgs. n. 159 del 2011 prevedeva, al comma 1, che «la revocazione della decisione definitiva sulla confisca di prevenzione può essere richiesta, nelle forme previste dall’articolo 630 del codice di procedura penale», così realizzando un generico riferimento all’istituto della revisione penale, sul cui modello tipico veniva ricalcato il nuovo istituto della revocazione della confisca; successivamente il legislatore, con la legge n. 161 del 2017, ha ampliato il rinvio tra norme di cui al comma 1 dell’art. 28 (con riferimento alle forme previste dagli articoli 630 e seguenti cod. proc. pen.), completando l’assimilazione funzionale di istituti che aventi comune denominatore della necessità di porre rimedio, se avvenuto, ad un errore giudiziario. In tal senso, è stata ritenuta pienamente ammissibile la deduzione, in sede di ricorso per cassazione avverso il provvedimento che definisce la procedura di merito ex art. 28 cit., del vizio di motivazione (laddove tale tipo di vizio resta non deducibile in cognizione ordinaria della prevenzione), «atteso che la particolare valutazione richiesta al giudice della revocazione - specie a fronte di una ipotesi di contrasto tra esiti dei procedimenti - e la comune matrice degli istituti revocatori (penale e di prevenzione) determina l’effetto di ampliamento della sfera dei possibili controlli realizzabili in sede di legittimità».
In questa cornice di riferimento, è indubbio che, fra i motivi di revocazione, un rilievo peculiare riveste quello fondato sull’esistenza di prove sopravvenute.
In ordine alla stessa nozione di prova sopravvenuta non si registra concordia di orientamenti, dovendosi registrare l’esistenza — almeno in apparenza — di un contrasto quanto al carattere di “novità” della prova che può legittimare la revocazione della confisca di prevenzione. In particolare:
- un primo orientamento ritiene “prova nuova”, rilevante ai fini della revoca ex tunc della misura di prevenzione soltanto quella sopravvenuta rispetto alla conclusione del relativo procedimento e non anche quella deducibile, ma per qualsiasi motivo non dedotta, nell’ambito di esso: da ultimo, in questo senso, si registra Sez. 6, n. 26341 del 09/05/2019, De Virgilio, Rv. 276075, che, a sostegno di tale conclusione, ha valorizzato la previsione di un termine di decadenza per la proposizione della richiesta di revoca, che delimita l’ambito temporale di ammissibilità dell’istituto e lo differenzia dal procedimento di revisione della condanna (cfr. anche Sez. 2, n. 11818 del 07/12/2012 - dep. 2013 -, Ercolano, Rv. 255530; Sez. 6, n. 44609 del 06/10/2015, Alvaro, Rv. 265081; Sez. 5, n. 3031 del 30/11/2017, dep. 2018, Lagaren, Rv. 272104);
- un secondo orientamento, al contrario, postula che gli “elementi nuovi” che giustificano la revoca per difetto genetico dei presupposti di adozione della confisca non devono essere necessariamente sopravvenuti, purché mai valutati nel corso del procedimento di prevenzione, stante il carattere di rimedio straordinario dell’istituto, che non può trasformarsi in un anomalo strumento di impugnazione (Sez. 5, sentenza n. 148 del 04/11/2015 - dep. 2016 -, Baratta, Rv. 265922; Sez. 5, n. 28628 del 24/03/2017, Di Giorgio, Rv. 270238)
In tale contesto ermeneutico, Sez. 2, n. 19414 del 12/03/2019, p.g. in c. Ficara, Rv. 276063 - 01, ha affermato che sono prove sopravvenute rispetto alla conclusione del relativo procedimento, rilevanti ai fini della revoca, anche quelle preesistenti ma non valutate nemmeno implicitamente poiché scoperte dopo che la statuizione sulla confisca è divenuta definitiva.
Nel pervenire ad affermare tale principio, la sentenza in parola ha ricordato che, prima dell’approvazione del d.lgs. n. 159 del 2011, sulla questione erano intervenute le Sezioni Unite (sentenza n. 57 del 19/12/2006, dep. 2007, Auddino, in motivazione), le quali, premesso che la revoca della misura di prevenzione era all’epoca disciplinata ex artt. 7, comma 2, legge. n. 1423 del 1956 e 2-ter legge n. 575 del 1965, in relazione ad un provvedimento definitivo, avevano osservato che questo carattere preclude soltanto la possibilità di rimettere in discussione, con l’istanza, atti od elementi già considerati nel procedimento di prevenzione o in esso deducibili, «con postulazione dunque di prove nuove sopravvenute alla conclusione del procedimento (e sono tali anche quelle non valutate nemmeno implicitamente: S.U., 26 settembre 2001, Pisano), ovvero di inconciliabilità di provvedimenti giudiziari, ovvero di procedimento di prevenzione fondato su atti falsi o su un altro reato».
In relazione all’attuale quadro normativo, contrassegnato dalla previsione dell’art. 28 d.lgs. n. 159 del 2011, che prevede, alla lett. a), quale ipotesi di revocazione della decisione definitiva sulla confisca di prevenzione, la «scoperta di prove nuove decisive, sopravvenute alla conclusione del procedimento», la decisione in esame si riallaccia alla sopra citata Sez. U, n. 624 del 26/09/2001, dep. 2002, Pisano, Rv. 220443 – 01 ed alla giurisprudenza conforme successiva, ormai ferma nel ritenere che “prove nuove”, rilevanti a norma dell’art. 630, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., devono intendersi sia le prove sopravvenute alla sentenza definitiva di condanna, sia quelle scoperte successivamente ad essa; sia, ancora, quelle non acquisite nel precedente giudizio, sia quelle acquisite nel precedente giudizio, ma non valutate neppure implicitamente (purché non si tratti di prove dichiarate inammissibili o ritenute superflue), e indipendentemente dalla circostanza che l’omessa conoscenza da parte del giudice sia imputabile a comportamento processuale negligente o addirittura doloso del condannato, rilevante solo ai fini del diritto alla riparazione dell’errore giudiziario.
Pertanto, individuata una «evidente identità di ratio» rispetto ai descritti approdi ermeneutici in tema di revisione, la decisione in esame ha ritenuto che, anche ai fini della revocazione della confisca di prevenzione continuino (come già in precedenza ritenuto dalle Sezioni Unite con la citata sentenza Auddino) a rientrare tra le prove “sopravvenute”, quelle preesistenti, ma scoperte solo dopo che la revocanda statuizione di confisca sia divenute definitiva e, quindi, non valutate nemmeno implicitamente.
Rispetto al motivo di revocazione configurabile allorché i fatti accertati con sentenze penali definitive, sopravvenute o conosciute in epoca successiva alla conclusione del procedimento di prevenzione, escludano in modo assoluto l’esistenza dei presupposti di applicazione della confisca, Sez. 2, n. 31549 del 06/06/2019, Simply Soc. Coop., Rv. 277225 – 05 ha affermato che, attesa l’autonomia tra procedimento penale e procedimento di prevenzione, il giudice di quest’ultimo può valutare autonomamente i fatti accertati in sede penale, al fine di giungere ad un’affermazione di pericolosità generica del proposto ex art. 1, comma 1, lett. b), d.lgs. n. 159 del 2011, non solo in caso di intervenuta declaratoria di estinzione del reato o di pronuncia di non doversi procedere, ma anche a seguito di sentenza di assoluzione ai sensi dell’art. 530, comma 2, cod. proc. pen., ove risultino delineati con sufficiente chiarezza e nella loro oggettività quei fatti che, pur ritenuti non sufficienti - nel merito o per preclusioni processuali - per una condanna penale ben possono essere posti alla base di un giudizio di pericolosità. Conseguentemente, la medesima decisione (Rv. 277225 – 06) ha concluso che il sopravvenuto giudicato penale di assoluzione non integra automaticamente la causa di revocazione di cui all’art. 28, comma 1, lett. b), cod. antimafia, «attesa l’autonomia del giudizio di prevenzione da quello penale, con la conseguenza che la misura può essere revocata solo ed esclusivamente se il processo penale abbia accertato, nel merito, l’assoluta estraneità del proposto ai fatti reato sulla base dei quali, essendo stato ritenuto pericoloso, era stata ordinata la confisca».
Conforme orientamento ispira Sez. 2, n. 15650 del 14/02/2019, Husovic, Rv. 275778 – 01, secondo cui la revocazione «non consegue automaticamente all’intervenuta assoluzione, con sentenza definitiva, del proposto da una delle imputazioni a suo carico, salvo che il fatto escluso in sede penale sia esattamente lo stesso posto a fondamento del giudizio di pericolosità, non sussistendo altrimenti inconciliabilità di giudicati»; di qui il rigetto del ricorso avverso il provvedimento della corte di appello che aveva confermato la permanenza del giudizio di pericolosità sulla base di decisioni differenti rispetto a quelle assolutorie successivamente intervenute, nonché alla luce del carattere sproporzionato delle consistenti somme di denaro nella disponibilità dei prevenuti, in assenza di redditi dichiarati.
In definitiva, vale il principio in base al quale il limite reale all’autonomia del giudizio di prevenzione è quello derivante della vera e propria negazione in sede penale, con pronuncia irrevocabile, di determinati fatti. In tal senso, Sez. 6, n. 49750 del 04/07/2019, Diotallevi, in corso di massimazione, ha ribadito che il giudice, in sede di verifica della pericolosità del proposto, può rivalutare autonomamente anche i fatti oggetto di un procedimento archiviato, in quanto ha valore ostativo soltanto l’accertamento contenuto nella sentenza irrevocabile di assoluzione, impedendo la negazione penale di un fatto di assumerlo come elemento indiziante ai fini del giudizio di pericolosità sociale.
Analoga impostazione contraddistingue Sez. 1, n. 13638 del 16/01/2019, Ahmetovic, Rv. 275244 – 01, la quale ha puntualizzato che la misura di prevenzione può legittimamente essere mantenuta, pur a fronte di detto giudicato, nei seguenti casi: a) gli elementi di fatto esclusi dal giudicato costituiscono solo una frazione minusvalente degli episodi storici valutati dal giudice della prevenzione; b) il giudizio di prevenzione è fondato su elementi cognitivi indipendenti e diversi da quelli acquisiti in sede penale; c) il tipo di pericolosità prevenzionale si discosta sensibilmente dai contenuti della disposizione incriminatrice oggetto della sentenza penale (è il caso, indicato dalla sentenza a titolo esemplificativo, del rapporto che intercorre tra la nozione di appartenenza e quella di partecipazione alla associazione di cui all’art. 416-bis cod.pen.).
Opportunamente la decisione sottolinea che, in ogni caso, il giudice investito della domanda di revocazione «deve realizzare, a fronte della “smentita fattuale” derivante dal giudicato penale difforme, un nuovo scrutinio della base fattuale su cui si era radicata la prima decisione, non potendosi semplicemente richiamare - senza adeguata elaborazione propria - gli eventuali punti della prima decisione rimasti immuni dalla smentita; in tale contesto è pure possibile una riqualificazione, in sede di decisione sulla domanda di revocazione, della categoria tipica di pericolosità (ad es., da pericolosità qualificata a pericolosità semplice), ove tale nuovo inquadramento sia non solo assistito dalla residua base cognitiva (una volta eliminato il dato oggetto di smentita in sede penale), ma dalla rispondenza ai principi di diritto venuti a consolidarsi sull’argomento».
Da ultimo, sempre in relazione al motivo di revocazione fondato sul contrasto fra giudicati, Sez. 1, n. 39601 del 19/06/2019, Castaldo, Rv. 276874 – 01 ha affrontato l’ipotesi in cui tale contrasto intercorra fra due decisioni definitive emesse in sede di prevenzione, giungendo ad affermare il principio secondo cui l’azione di revocazione ex art. 28, comma 1, lett. b), d.lgs. n. 159 del 2011, «è esperibile anche nel caso di prospettazione di un contrasto tra due decisioni definitive emesse all’esito di procedimenti di prevenzione riguardanti un medesimo soggetto, dovendosi interpretare la richiamata disposizione, nonostante il letterale riferimento al solo contrasto tra il provvedimento di confisca e sentenze penali definitive, alla luce delle finalità della revocazione, in tutto analoghe alla revisione di cui agli artt. 630 ss. cod. proc. pen.»
In ordine ai rapporti fra confisca di prevenzione ed altre tipologia di confisca, particolarmente quella diretta o per equivalente, con le correlative ipotesi di sequestro strumentale all’adozione dell’una o dell’altra forma di ablazione, Sez. 3, n. 30422 del 30/05/2019, p.m. in c. Samarati, Rv. 276789 - 01, ha affermato che l’art. 104-bis disp. att. cod. proc. pen. è una disposizione speciale applicabile alle sole ipotesi di sequestro rivolto alla confisca di prevenzione, non estensibile per via analogica ad istituti diversi, come il sequestro finalizzato alla confisca diretta o quello per equivalente: a conferma del principio affermato, la Corte ha rilevato che l’art. 104-bis, comma 1-quater, disp. att. cod. proc. pen. estende testualmente le sole disposizioni in materia di amministrazione e destinazione dei beni sequestrati e confiscati nonché quelle in materia di tutela dei terzi e di esecuzione del sequestro previste sempre dal codice antimafia al sequestro e alla confisca in casi particolari previsti dall’art. 240-bis cod. pen. o dalle altre disposizioni di legge che a questo articolo rinviano, nonché agli altri casi di sequestro e confisca di beni adottati nei procedimenti relativi ai delitti di cui all’art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen.
In tale dimensione esegetica, Sez. 3, n. 15755 del 15/11/2018, dep. 2019, p.m. in c. Di Saverio, Rv. 276079 – 01 ha riconosciuto che il decreto di sequestro preventivo, finalizzato alla confisca, avente ad oggetto la totalità delle quote o delle azioni di una società non comporta automaticamente l’estensione del vincolo cautelare ai beni che costituiscono il complesso aziendale. A sostegno di tale conclusione, la Corte ha precisato che l’art. 104-bis, comma 1-bis, disp. att. cod. proc. pen., in tema di amministrazione dei beni sottoposti a sequestro preventivo, rinvia alle norme di cui al libro I, titolo III del codice antimafia, che disciplinano l’amministrazione, la gestione e la destinazione dei beni oggetto di sequestro di prevenzione, ma non all’art. 20 di tale decreto legislativo, che prevede l’estensione di diritto a tutti i beni aziendali del sequestro di prevenzione che riguarda partecipazioni societarie totalitarie.
Invero, l’art. 20 è ricompreso nel titolo II del libro I dello stesso decreto legislativo e non nel titolo III, onde il suo ambito di applicazione deve essere limitato al sequestro di prevenzione e non può essere esteso fino a ricomprendere sequestro cautelare. Si tratta di un’interpretazione – osserva la Corte - che trova giustificazione anche in base alle diverse rationes che ispirano i due sistemi, essendo il sistema cautelare regolato dal principio della proporzionalità rispetto all’entità dell’illecito profitto conseguito attraverso il reato.
Resta salva, in ogni caso, l’applicazione delle disposizioni che costituiscono espressione di principi generali: in particolare, Sez. 3, n. 38608 del 18/04/2019, Italfondiario s.p.a., Rv. 277159 - 02 ha affermato che la previsione dell’art. 52 d.lgs. n. 159 del 2011, secondo cui la confisca non pregiudica i diritti di credito dei terzi e i diritti reali di garanzia anteriori al sequestro, sebbene riferita alla cd. confisca di prevenzione, esprime un principio generale, valido anche per gli altri tipi di confisca, diretta o per equivalente, per i quali venga in rilievo la posizione del terzo titolare di diritti di credito o di garanzia, ivi compresa quella in ambito tributario di cui all’art. 12-bis d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74. La medesima decisione ha, conseguentemente, ritenuto (Rv. 277159 – 01) che, in tema di confisca di beni gravati da ipoteca, il terzo acquirente del credito ipotecario, per ottenere il riconoscimento del proprio diritto, che preclude l’estinzione della garanzia reale, deve allegare elementi idonei a rappresentare non solo la sua buona fede, intesa come estraneità all’attività illecita in precedenza realizzata dal contraente colpito dal sequestro, ma anche il suo affidamento incolpevole, inteso come positivo adempimento dell’obbligo di informazione imposto dal caso concreto, volto a escludere una rimproverabilità di tipo colposo.
Con peculiare riferimento ai rapporti fra confisca di prevenzione e c.d. confisca allargata, va menzionata Sez. 1, n. 23508 del 07/05/2018, dep. 2019, Scinardo, Rv. 276200, che, esaminando la questione relativa all’ammissibilità di un provvedimento di confisca allargata (nella specie ex art. 12-sexies del d.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, in legge 7 agosto 1992, n. 356), di beni già costituenti oggetto di confisca definitiva di prevenzione (nella specie ai sensi dell’art. 2-ter, comma 3, della legge n. 575 del 1965), ha affermato che, in ragione della stabilità dell’accertamento sottostante alla definizione del procedimento di prevenzione, è precluso al giudice di merito, che accerta la responsabilità per uno dei delitti elencati nel comma 1 del citato art. 12-sexies, procedere ad un autonomo accertamento dei presupposti comuni ai due tipi di confisca della disponibilità diretta od indiretta dei beni in capo all’interessato e della sproporzione del loro valore rispetto al reddito da questi dichiarato o all’attività economica dal medesimo esercitata. Si tratta di una ratio decidendi affine, pur con opportune precisazioni, a quella che ispira l’enunciazione (propria di Sez. 6, n. 51366 del 17/05/2018, Trovato, Rv. 275879) che la definitività del provvedimento di revoca in sede penale di una misura patrimoniale ex art. 12-sexies d.l. n. 306 del 1992, impedisce, in mancanza di fatti nuovi dedotti, l’adozione di un decreto di confisca nel procedimento di prevenzione avente ad oggetto i medesimi beni, a condizione che la decisione afferisca agli accertamenti in fatto relativi ai presupposti costitutivi comuni. Invero, alla base della decisione sta il rilievo che, nel rapporto fra le due misure ablatorie, pur non potendosi configurare la preclusione derivante dal giudicato, atteso che i due provvedimenti vengono adottati in diversi contesti procedimentali e sulla base di non coincidenti presupposti, è tuttavia configurabile una forma di preclusione processuale che attiene solo al dedotto e non anche al deducibile e che, quindi, viene meno a fronte della sopravvenienza di fatti nuovi.
Sentenze della Corte di cassazione
Sez. U, n. 36 del 13/12/2000, dep. 2001, Madonia, Rv. 217668
Sez. U, n. 624 del 26/09/2001 - dep. 2002 -, Pisano, Rv. 220443
Sez. U, n. 57 del 19/12/2006 - dep. 2007 -, Auddino
Sez. U, n. 12621 del 22/12/2016 - dep. 2017 -, De Angelis, Rv. 270081, 2, 3, 4, 5, 6, 7
Sez. 6, n. 18807 del 30/10/2012, Rv. 255091
Sez. 2, n. 11818 del 07/12/2012 - dep. 2013 -, Ercolano, Rv. 255530
Sez. 6 - 2 civ., n. 3225 del 11/02/2013, Rv 625239
Sez. 1 n. 29966 del 08/04/2013, Costa, Rv. 256415
Sez. 1, n. 32032 del 10/6/2013, De Angelis, Rv. 256451
Sez. 6, n. 35240 del 27/06/2013, Cardone, Rv. 256267
Sez. 2, n. 7484 del 21/01/2014, Baroni, Rv. 259245
Sez. 6, n. 16151 del 04/02/2014, Rv. 259763
Sez. 1, n. 17743 del 07/03/2014, Rienzi, Rv. 259608
Sez. 2, n. 30935 del 07/05/2015, Ciotta, Rv. 264295
Sez. 3, n. 2221 del 06/10/2015 - dep. 2016 - Grossi, Rv. 266012
Sez. 6, n. 44609 del 06/10/2015, Alvaro, Rv. 265081
Sez. 5, n. 8922 del 26/10/2015, dep. 2016, Poli, Rv. 266141
Sez. 5, n. 148 del 04/11/2015 - dep. 2016 -, Baratta, Rv. 265922
Sez. 6, n. 3716 del 24/11/2015, Caruso, Rv. 266953
Sez. 6, n. 48274 del 01/12/2015, Vicario, Rv. 265767
Sez. 2, n. 40008 del 12/05/2016, Pomilio, Rv. 268232
Sez. 5, n. 28628 del 24/03/2017, Di Giorgio, Rv. 270238
Sez. 3 civ. , n. 10377 del 27/04/2017, C. contro M., Rv. 644066
Sez. 1, n. 42238 del 18/05/2017, Mancuso, Rv. 270973
Sez. 1, n. 50463 del 15/06/2017, Mangione, Rv. 271822
Sez. 6, n. 41767 del 20/6/2017, Boschi, Rv. 271391
Sez. 1, n. 2211 del 12/09/2017 - dep. 2018 -, Lampada, Rv. 272051
Sez. 5, n. 3031 del 30/11/2017, dep. 2018, Lagaren, Rv. 272104
Sez. 5, n. 12374 del 14/12/2017 - dep. 2018 -, La Porta, Rv. 272608
Sez. 1, n. 5286 del 06/02/2018 - dep. 2019 – Seminara, Rv. 274871
Sez. 5, n. 41428, 05/03/2018, Rv. 274598
Sez. 5, n. 33888 del 24/04/2018, Stefanetti, Rv. 273890
Sez. 1, n. 23508 del 07/05/2018, dep. 2019, Scinardo, Rv. 276200
Sez. 6, n. 51366 del 17/05/2018, Trovato, Rv. 275879
Sez. 6, n. 10105 del 10/10/2018, dep. 2019, Visinoni, Rv. 275426
Sez. 3, n. 15755 del 15/11/2018, dep. 2019, p.m. in c. Di Saverio, Rv. 276079
Sez. 5, n. 5865 del 04/12/2018, dep. 2019, Spelta, Rv. 275493
Sez. 5, n. 5866 del 04/12/2018, dep. 2019, Z., Rv. 275487
Sez. 5, n. 2471 del 06/12/2018, dep. 2019, Giampà, Rv. 275410
Sez. 2, n. 37060 del 11/01/2019, Paltrinieri, Rv. 277038
Sez. 1, n. 12629 del 16/01/2019, P.g. in proc. Macrì, Rv. 274988
Sez. 1, n. 13638 del 16/01/2019, Ahmetovic, Rv. 275244
Sez. 6, n. 13828 del 16/01/2019, Curci, Rv. 275370
Sez. 5, n. 5721 del 18/01/2019, Vitale, Rv. 275138
Sez. 5, n. 21760 del 29/01/2019, Lampada, Rv. 276892
Sez. 1, n. 8038 del 05/02/2019, Manauro, Rv. 274915
Sez. 5, n. 19280 del 05/02/2019, Tarantolo, Rv. 276247
Sez. 1, n. 26872 del 05/02/2019, Vazzano, Rv. 276412
Sez. 6, n. 14143 del 06/02/2019, Banca Monte dei Paschi di Siena spa, Rv. 275533
Sez. 6, n. 11666 del 13/02/2019, Catarozzo Rv. 275292
Sez. 2, n. 15650 del 14/02/2019, Husovic, Rv. 275778
Sez. 1, n. 35793 del 15/02/2019, Amodeo, Rv. 276939 – 01, 02
Sez. 2, n. 16906 del 21/02/2019, Stanek, Rv. 276621
Sez. 5, n. 17968 del 01/03/2019, Ca.Ri.Ge. s.p.a., Rv. 276849
Sez. 1, n. 21740 del 07/03/2019, Procopio, Rv. 276315
Sez. 2, n. 11445 del 08/03/2019, Lauri, Rv. 276061
Sez. 5, n. 32017 del 08/03/2019, Roma, Rv. 277099
Sez. 2, n. 19414 del 12/03/2019, p.g. in c. Ficara, Rv. 276063
Sez. 2, n. 23544 del 13/03/2019, Equitalia Giustizia s.p.a., Rv. 276967
Sez. 2, n. 27932 del 15/03/2019, Italia, Rv. 276667
Sez. 2, n. 27933 del 15/03/2019, Lampo, Rv. 276211
Sez. 1, n. 19357 del 19/03/2019, Aprile, Rv. 275810
Sez. 1, n. 18580 del 21/03/2019, Giacchetti, Rv. 275471
Sez. 1, n. 18231 del 26/03/2019, Mps Capital Services Banca per le imprese s.p.a., Rv. 275468
Sez. 1, n. 27696 del 01/04/2019, Immobiliare Peonia s.r.l., Rv. 275888
Sez. 6, n. 41975 del 02/04/2019, I.
Sez. 6, n. 30752 del 11/04/2019, Calì, Rv. 276466
Sez. 3, n. 38608 del 18/04/2019, Italfondiario s.p.a., Rv. 277159 – 01, - 02
Sez. 6, n. 23839 del 26/04/2019, Mammoliti, Rv. 275987
Sez. 6, n. 20572 del 09/05/2019, Posillico, Rv. 275684
Sez. 6, n. 26341 del 09/05/2019, De Virgilio, Rv. 276075
Sez. 6, n. 26346 del 09/05/2019, Gambino, Rv. 276382
Sez. 6, n. 38077 del 09/05/2019, Falasca, Rv. 276711
Sez. 2, n. 38573 del 17/05/2019, Mediterranea s.p.a., Rv. 277396
Sez. 6, n. 30753 del 28/05/2019, Merlino, Rv. 276467
Sez. 3, n. 30422 del 30/05/2019, p.m. in c. Samarati, Rv. 276789
Sez. 1, n. 35536 del 30/05/2019, Giavelli, Rv. 276938
Sez. 1, n. 35763 del 04/06/2019, Grauso, Rv. 277132
Sez. 2, n. 31549 del 06/06/2019, Simply Soc. Coop. Rv. 277225 – 04, - 05, - 06, - 07, - 08, - 09
Sez. 6, n. 31937 del 06/06/2019, Fiorani, Rv. 276472
Sez. 1, n. 39601 del 19/06/2019, Castaldo, Rv. 276874 – 01 - 02
Sez. 6, n. 35893 del 20/06/2019, Quacquarelli, Rv. 276832
Sez. 6, n. 37648 del 26/06/2019, Aiello, Rv. 276834
Sez. 6, n. 41735 del 26/06/2019, Verterano, Rv. 277197
Sez. 1, n. 34094 del 04/07/2019, Cirrincione, Rv. 277309
Sez. 6, n. 49750 del 04/07/2019, Diotallevi
Sez. 5, n. 38737 del 10/07/2019, Giorgitto, Rv. 276648
Sez. 5, n. 45460 del 18/10/2019, Italfondiario s.p.a., Rv. 277095
Sez. 5, n. 52068 del 18/11/2019, Valente
Nel corso dell’anno oggetto della presente rassegna, le problematiche concernenti i presupposti ed i limiti applicativi delle diverse forme di confisca contemplate dall’ordinamento sono state al centro di plurime pronunce della Cassazione. Può ben dirsi che la giurisprudenza, pur nella sostanziale continuità rispetto agli orientamenti pregressi, ha apportato significativi contributi volti a chiarire e precisare l’ambito applicativo degli strumenti ablativi dei patrimoni illeciti.
A fronte delle molteplici forme di confisca (diretta e per equivalente, di prevenzione, ex art. 240-bis cod. pen., nei confronti degli enti ex d.lgs. 6 giugno 2001, n. 231), la giurisprudenza ha ovviamente affrontato problematiche diversificate, per alcune delle quali si rinvia agli appositi approfondimenti contenuti nella presente rassegna.
Con riferimento alla confisca ex art. 240 cod. pen., gli aspetti che maggiormente hanno impegnato la giurisprudenza di legittimità sono quelli che concernono la dilatazione dei presupposti applicativi, soprattutto con riguardo alla confisca del denaro, rispetto al quale si è posta la necessità di approfondire sia l’aspetto relativo alla distinzione tra patrimonio illecito e patrimonio lecito, sia a delimitare i limiti entro i quali la confisca può attingere beni nella titolarità di soggetti terzi.
Uno degli aspetti che, nonostante gli interventi anche delle Sezioni unite, continuano ad occupare la giurisprudenza di legittimità è costituito dall’individuazione dei limiti entro i quali è possibile disporre la confisca diretta del denaro quale profitto o prodotto del reato.
Il denaro, costituendo non solo un bene in sé, ma anche misura di valore, ha comportato l’insorgere di specifiche problematiche circa la differenziazione tra i casi di confisca diretta e per equivalente. Ove il denaro, infatti, è acquisito quale valore equivalente al bene rispetto al quale sussiste il rapporto di diretta pertinenzialità con il reato, si è dubitato della possibilità o meno di qualificare l’atto ablatorio in termini di confisca diretta.
È ben noto come la questione sia stata ampiamente esaminata dalle Sezioni Unite che, con le pronunce “Gubert” e “Lucci”, hanno dato un assetto tendenzialmente stabile alla materia.
Secondo l’orientamento accolto dalle Sezioni Unite “Gubert”, nel caso in cui il profitto o il prezzo del reato sia rappresentato da una somma di denaro, questa si confonde con le altre disponibilità economiche dell’autore del fatto, perdendo qualsiasi autonomia quanto alla sua identificabilità fisica. Non avrebbe alcun significato, infatti, né sul piano economico, né su quello giuridico, accertare se la massa monetaria percepita quale profitto o prezzo dell’illecito sia stata spesa, occultata o investita, perché ciò che conta è che le disponibilità monetarie del percipiente si siano accresciute di quella somma. La confisca del prezzo o del profitto del reato rappresentato da denaro, pertanto, è sempre “diretta”, ovunque e presso chiunque sia custodita nell’interesse del reo.
Pertanto, conclude Sez. U, n. 10561 del 30/01/2014, Gubert, Rv. 258647, affermando che «Deve essere tenuto ben presente che la confisca del profitto, quando si tratta di denaro o di beni fungibili, non è confisca per equivalente, ma confisca diretta».
Successivamente, Sez. U, n. 31617 del 26/06/2015, Lucci, Rv. 264437, ha ribadito che «Qualora il prezzo o il profitto c.d. accrescitivo derivante dal reato sia costituito da denaro, la confisca delle somme depositate su conto corrente bancario, di cui il soggetto abbia la disponibilità, deve essere qualificata come confisca diretta e, in considerazione della natura del bene, non necessita della prova del nesso di derivazione diretta tra la somma materialmente oggetto della ablazione e il reato».
La giurisprudenza, dunque, ha preso atto della natura di bene fungibile del denaro, riconoscendo come, ai fini della confisca diretta del profitto, non si possa pretendere l’identità fisica delle somme rinvenute sul conto corrente, nel senso che, per la legittimità dell’ablazione, si debba trattare proprio del denaro derivante dal reato.
Il denaro che perviene su un conto corrente, infatti, si confonde immediatamente con le altre disponibilità economiche dell’autore del reato, perdendo ogni autonomia e divenendo un’appartenenza del reo. Ciò non impedisce la confisca “diretta” perché, a tale fine, conta solo che il patrimonio del reo sia stato accresciuto di un importo pari al profitto.
Da questa conclusione è stata tratta un’importante conseguenza: in considerazione della natura del bene oggetto del provvedimento, per adottare la confisca diretta del denaro non è necessaria la prova del nesso di derivazione tra la somma materialmente oggetto del provvedimento ablatorio e il reato.
I principi sopra richiamati, tuttavia, sono stati affermati con riguardo a situazioni “statiche”, concernenti un patrimonio – costituito anche da somme di denaro – già individuato ed individuabile al momento in cui veniva disposta la confisca (o il sequestro ad essa finalizzato).
Problemi diversi si pongono nel caso in cui il denaro affluisca nel patrimonio del destinatario della confisca dopo la commissione del reato, ovvero nei casi in cui sia data la prova della sicura provenienza lecita del denaro.
L’aver affermato che con riguardo alla confisca del denaro non occorre la dimostrazione del nesso di diretta derivazione dal reato, ha indotto la giurisprudenza ad applicare il principio anche alle ipotesi in cui il denaro è affluito nella disponibilità del destinatario della misura ablatoria in epoca successiva al sequestro finalizzato alla confisca.
Valorizzando la naturale fungibilità del denaro, pertanto, si è giunti alla conclusione secondo cui è legittimo il sequestro finalizzato alla confisca diretta dell’importo pari al profitto del reato «ovunque e presso chiunque custodito e quindi anche di quello pervenuto sui conti e/o depositi in data successiva all’esecuzione del provvedimento genetico» (Sez. 2, n. 29923 del 12/4/2018, Salvini).
Seguendo tale impostazione, l’unico limite è costituito dall’indicazione dell’ammontare del profitto confiscabile, fermo restando che il denaro concretamente suscettibile di apprensione ben può essere sia quello rinvenuto nella disponibilità del destinatario del sequestro in epoca antecedente alla notifica del provvedimento, sia quello che confluisce nelle sue casse in data successiva, essendo in tal caso del tutto irrilevante l’eventuale provenienza lecita.
Rispetto alla pronuncia da ultimo richiamata, ben diversa è la prospettiva con la quale il problema è stato affrontato da Sez. 6, n. 6816 del 29/1/2019, Sena, Rv. 275048, così massimata «In tema di sequestro preventivo funzionale alla confisca, è illegittima l’apprensione diretta delle somme di denaro entrate nel patrimonio del reo in base ad un titolo lecito, ovvero in relazione ad un credito sorto dopo la commissione del reato, che non risultino allo stesso collegate, neppure indirettamente».
La vicenda di cui si è occupata la Corte riguardava il sequestro preventivo finalizzato alla confisca del denaro costituente profitto del reato di esercizio abusivo di professioni sanitarie, realizzato mediante la gestione di una casa di cura. Il sequestro veniva disposto con riguardo all’ammontare complessivo del profitto del reato, ritenendosi irrilevante la distinzione tra il denaro rinvenuto al momento dell’adozione del provvedimento genetico e il denaro che sarebbe entrato in seguito nel patrimonio.
La Sesta Sezione ha affrontato la questione confermando, in linea generale, di aderire al principio secondo cui è legittimo il sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta di una somma di denaro disposto fino alla concorrenza dell’importo integrante il profitto del reato, da rinvenirsi sui conti correnti bancari nella disponibilità anche indiretta dell’indagato. Il principio di fungibilità del denaro, infatti, implica che una volta entrato nel patrimonio del destinatario della misura ablatoria, non ha più rilievo la possibilità o meno di distinguere la provenienza dello stesso.
Ben diversa è, tuttavia, la questione se occorra o meno distinguere tra le somme già esistenti, al momento della esecuzione della misura, nei conti e nei depositi nella disponibilità dell’indagato e le ulteriori somme che sono entrate nel patrimonio del destinatario del sequestro in epoca posteriore a quella data.
Sottolinea la Corte come, ammettendo la possibilità di disporre la confisca diretta del denaro confluito sui conti correnti dell’indagato successivamente al sequestro, si giungerebbe all’effetto di estendere il vincolo anche a beni di provenienza lecita.
Si è affermata, pertanto, la necessità di apportare un correttivo alle conseguenze della fungibilità del denaro e della incidenza di tale aspetto sulla confisca del profitto del reato.
In motivazione, la sentenza “Sena” ritiene maggiormente corretto dare «una diversa esegesi applicativa del principio di diritto enucleabile da quella sentenza delle Sezioni Unite: sentenza dalla cui lettura pare comprendersi che, nell’ipotesi in cui il profitto del reato sia consistito in una somma di denaro, la confisca diretta possa legittimamente avere ad oggetto un importo di pari entità comunque presente nei conti bancari o nei depositi nella disponibilità dell’autore del reato, purché si tratti di denaro già confluito nei conti o nei depositi al momento della commissione del reato ovvero al momento del suo accertamento: solo in tali ipotesi è possibile ragionevolmente sostenere che il denaro è sequestrabile e poi confiscabile in via diretta come profitto accrescitivo, dunque indipendentemente da ogni verifica in ordine al rapporto di concreta pertinenzialità con il reato, perché tale relazione è considerata in via fittizia sussistente proprio per effetto della confusione del profitto concretamente conseguito con tutte le altre disponibilità economiche del reo. Diversamente argomentando, cioè ammettendo che il vincolo reale possa estendersi anche su importi di denaro indistintamente accreditati sui conti o nei depositi dell’autore del reato, sulla base di crediti lecitamente maturati in epoca successiva al momento della commissione del reato - momento che giuridicamente finirebbe per recidere ogni rapporto di pertinenzialità con il reato - si finirebbe obiettivamente per trasformare una confisca diretta in una confisca per equivalente: in quanto avente ad oggetto somme di denaro sì oggetto di movimentazione sui conti o sui depositi nella disponibilità dell’autore del reato, ma che solo con una inaccettabile forzatura possono essere qualificate come profitto accrescitivo, perché del tutto sganciate, dal punto di vista logico e cronologico, dal profitto dell’illecito. D’altro canto, se la finalità della confisca diretta è quella di evitare che chi ha commesso un reato possa beneficiare del profitto che ne è conseguito, bisogna ammettere che tale funzione è assente laddove l’ablazione colpisca somme di denaro entrate nel patrimonio del reo certamente in base ad un titolo lecito ovvero in relazione ad un credito sorto dopo la commissione del reato, e non risulti in alcun modo provato che tali somme siano collegabili, anche indirettamente, all’illecito commesso».
Prosegue la Corte affermando di ritenere che «non sia condivisibile l’indirizzo interpretativo seguito da una parte della giurisprudenza di legittimità, secondo la quale sarebbe sempre possibile estendere, sine die, gli effetti dell’originario provvedimento di sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta del profitto accrescitivo del patrimonio dell’indagato: consentendone l’applicazione (ovviamente nei limiti del quantum del provvedimento ablatorio) anche alle somme affluite, sui conti e sui depositi riferibili al prevenuto, in un momento successivo alla data di esecuzione di quel decreto (così, ad esempio, Sez. 2, n. 29924 del 12/04/2018, Bocchio, peraltro in un caso avente ad oggetto un reato per il quale sarebbe stata, comunque, possibile la confisca per equivalente). Ciò perché, va ribadito, è discutibile che in siffatte ipotesi l’oggetto della misura cautelare sia sempre lo stesso, tenuto conto che il vincolo finirebbe per colpire indiscriminatamente somme che, proprio perché percepite lecitamente e in maniera cronologicamente del tutto scollegata dall’illecito commesso, non possono essere qualificate come profitto accrescitivo, cioè come disponibilità monetaria accresciuta in conseguenza del profitto del reato. Disponibilità che invece - come lasciano intendere le Sezioni Unite nella stessa sentenza “Lucci” - ben potrebbero costituire oggetto di un diverso provvedimento di sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente, laddove ovviamente vi siano i presupposti di legge per applicare una siffatta misura di natura sanzionatoria.
Ad ulteriore dimostrazione della correttezza della tesi sostenuta, si è anche sottolineato come, qualora si ammettesse la confisca del denaro pervenuto nella disponibilità dell’indagato dopo il sequestro, si arriverebbe al paradosso di legittimare il sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta di qualsivoglia somma entrata nel patrimonio dell’imputato in qualsiasi fase o grado del processo, e persino dopo il passaggio in giudicato della sentenza, con la conseguenza di dilatare sine die gli effetti della misura patrimoniale, che finirebbe irragionevolmente per colpire qualsivoglia forma di incremento futuro del patrimonio del reo.
Si è, pertanto, ritenuto preferibile privilegiare il diverso orientamento seguito dalla giurisprudenza, per il quale, in tema di sequestro preventivo funzionale alla confisca, la natura fungibile del denaro non consente la confisca diretta di qualsivoglia somma depositata sul conto corrente bancario del reo, ove si abbia la prova che la stessa non possa in alcun modo, neppure indiretto, considerarsi derivante dal reato (e, pertanto, suo profitto), perché certamente depositata successivamente al momento del perfezionamento del reato (in questo senso Sez. 3, n. 8995 del 30/10/2017, Barletta, Rv. 272353; in senso sostanzialmente conforme anche Sez. 6, n. 15923 del 26/03/2015, Antonelli, Rv. 263124).
La sentenza “Sena” ha chiarito come la fungibilità del denaro non è di per sé sufficiente a rendere irrilevante l’accertamento del nesso di pertinenzialità con il reato, quanto meno nei casi in cui è dimostrato che l’incremento patrimoniale, intervenuto successivamente al sequestro, non è conseguenza del reato.
La questione, tuttavia, è configurabile anche nei casi in cui il denaro oggetto del sequestro è già nella disponibilità del destinatario del sequestro o della confisca, ponendosi anche in tal caso l’esigenza di stabilire se, a fronte della comprovata provenienza lecita di un determinato importo di denaro, la fungibilità dello stesso consenta ugualmente l’ablazione.
In buona sostanza, occorre verificare se il profilo attinente alla pertinenzialità del denaro rispetto al reato risulti in ogni caso recessivo rispetto al principio di fungibilità di tale bene, ovvero se la “confusione” del denaro nel patrimonio del destinatario della confisca ne consenta la diretta apprensione solo a condizione che risulti la certa provenienza lecita.
In tal senso si è pronunciata Sez. 3, n. 41104 del 12/7/2018, Vincenzini, Rv. 274307, secondo cui «In tema di sequestro preventivo funzionale alla confisca, la natura fungibile del denaro non consente la confisca diretta delle somme depositate su conto corrente bancario del reo, ove si abbia la prova che le stesse, non derivando dal reato, non costituiscano profitto dell’illecito. (Fattispecie in tema di reato di omessa dichiarazione di cui all’art. 5 d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, in cui è stato escluso che le somme di denaro depositate sul conto corrente dopo la scadenza del termine per la presentazione della dichiarazione IVA potessero rappresentare il profitto derivante dall’evasione fiscale).»
Con riguardo ai reati tributari, il principio è stato espressamente ribadito da Sez. 3, n. 6348 del 4/10/2018 (dep. 11/2/2019), Torelli, Rv. 274859, secondo cui «ai fini della confisca diretta delle somme sequestrate sul conto corrente bancario dell’imputato, la natura fungibile del denaro non è sufficiente per qualificare come “profitto” del reato l’oggetto del sequestro, essendo necessario anche provare che la disponibilità delle somme, successivamente sequestrate, costituisca un risparmio di spesa conseguito con il mancato versamento dell’imposta. (In motivazione la Corte ha precisato che, per accertare se il denaro costituisce profitto del reato tributario, e, cioè, un risparmio di spesa aggredibile in via diretta, è necessario avere riguardo non all’identità fisica delle somme, ma al valore numerario delle disponibilità giacenti sul conto dell’imputato alla scadenza del termine per il versamento dell’imposta, mentre il denaro versato successivamente a detto termine, che fosse stato sequestrato, non può essere ritenuto “profitto” del reato, ma rappresenta un’unità di misura equivalente al debito fiscale scaduto e non onorato, confiscabile se ricorrono i presupposti per la confisca per equivalente)».
La “confusione” nel patrimonio del titolare delle somme di denaro che in esso confluiscono, pertanto, è un dato che legittima la confisca diretta solo a condizione che non vi siano specifici elementi idonei a dimostrare la provenienza lecita di un determinato importo.
Appare interessante sottolineare come tale principio ha trovato recente applicazione anche con riguardo ad un’ipotesi di confisca allargata.
Con riferimento ad una fattispecie particolare, nella quale veniva in rilievo il profilo della titolarità del denaro da parte di un terzo estraneo al reato, si è affermato che «In tema di sequestro preventivo funzionale alla confisca per sproporzione, eseguito su conto corrente cointestato all’indagato e a soggetto estraneo al reato, la misura cautelare si estende all’intero importo in giacenza, senza che a tal fine rilevino presunzioni o vincoli posti dal codice civile (artt. 1289 e 1834), regolativi dei rapporti interni tra creditori e debitori solidali, ma è fatta salva la facoltà per il terzo di dimostrare l’esclusiva titolarità di tali somme e la conseguente illegittimità del vincolo. (Fattispecie in cui la Corte ha annullato senza rinvio il sequestro di un libretto di deposito postale nominativo cointestato con i genitori dell’indagato, alimentato esclusivamente dai ratei pensionistici di questi ultimi, dai proventi della vendita di un immobile privo di alcun collegamento con la condotta criminosa, nonché dagli investimenti rivenienti dalla medesima provvista lecita)» (Sez. 6, n. 24432 del 18/4/2019, Placenti, Rv. 276278).
Tra le problematiche che, anche nel corso del corrente anno, hanno impegnato la giurisprudenza della cassazione, spicca la complessa tematica della tutela del terzo rispetto alla confisca dei beni.
Si tratta di una questione certamente non nuova, ma che ha inevitabilmente risentito degli interventi normativi recentemente intervenuti in materia, rispetto ai quali la Corte è stata chiamata ad un’opera di delimitazione con riguardo sia dell’ambito applicativo in relazione alle diverse tipologie di confisca, sia all’individuazione dell’ampiezza dei poteri che il terzo può esercitare nel giudizio inerente la confisca.
Il tema è stato oggetto di rinnovato interesse a seguito dell’introduzione dell’art. 104-bis, comma 1-quinquies, disp. att., cod.proc.pen., in base al quale, con riferimento alle ipotesi di confisca disciplinate dall’art. 240-bis cod. pen. o da altre norme che a quella rinviano, «devono essere citati i terzi titolari di diritti reali o personali di godimento sui beni in sequestro, di cui l’imputato risulti avere la disponibilità a qualsiasi titolo».
Si tratta dell’espressa previsione di un contraddittorio allargato ai terzi titolari di diritti sui beni suscettibili di confisca che, invero, traduce un principio generale più volte affermato anche nella giurisprudenza convenzionale (in particolare si veda Corte EDU, 28 giugno 2018, nella causa G.I.E.M. sr. ed altri c. Italia).
Tale pronuncia, pur se resa con espresso riferimento alla confisca urbanistica, ha affermato principi di sistema dei quali la giurisprudenza nazionale deve necessariamente tener conto, anche in relazione a forme diverse di confisca.
Nella citata pronuncia, la Corte EDU ha approfondito il profilo relativo alla tutela del terzo, anche con specifico riferimento ai rapporti tra la persona fisica cui si imputa il reato e la società titolare del bene oggetto di confisca.
La Corte EDU ha ritenuto irrilevante che i legali rappresentanti delle società titolari dei beni da confiscare avessero o meno preso parte al procedimento penale, osservando che in ogni caso «le società erano pertanto terze parti in questi procedimenti» (§266), il che fa sorgere il problema di verificare la conformità rispetto ai parametri dell’art. 7 della CEDU dell’applicazione di «una sanzione penale inflitta a persone giuridiche che, per la loro personalità giuridica distinta, non sono state oggetto di alcun procedimento (penale, amministrativo, civile, ecc.)» (§269).
Inoltre, la Corte EDU ha affermato il principio secondo cui una persona non può essere sanzionata per un atto che coinvolge la responsabilità penale altrui, sicchè la confisca applicata a persone fisiche o giuridiche che non sono state parti nel giudizio all’esito del quale la misura viene disposta, determina la violazione dell’art. 7 della Convenzione.
Acclarata la necessità di riconoscere un apposito ambito di tutela al terzo che subisce la confisca, la giurisprudenza si è interrogata circa la possibilità di applicare il disposto dell’art. 104-bis disp. att. cod. proc. pen. anche al di fuori delle ipotesi di confisca allargata disciplinate dall’art. 240-bis cod. pen.
L’orientamento che si è andato consolidando nel corso del corrente anno è incline a limitare l’applicabilità dell’art. 104-bis disp. att. cod. proc. pen. ai soli casi di confisca espressamente indicati e, quindi, la norma opererebbe nel circoscritto ambito della confisca di prevenzione e di quella disciplinata dall’art. 240-bis cod. pen.
In tal senso si è espressa, Sez. 3, n. 30422 del 30/5/2019, Samarati, Rv. 276789, secondo cui «L’art. 104-bis disp. att. cod. proc. pen. è una disposizione speciale applicabile alle sole ipotesi di sequestro rivolto alla confisca di prevenzione di cui al d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, codice antimafia, non estensibile per via analogica ad istituti diversi, come il sequestro finalizzato alla confisca diretta o quello per equivalente. (In motivazione, la Corte, a conferma di quanto affermato, ha rilevato che l’art. 104-bis, comma 1-quater, disp. att. cod. proc. pen. estende testualmente le sole disposizioni in materia di amministrazione e destinazione dei beni sequestrati e confiscati nonché quelle in materia di tutela dei terzi e di esecuzione del sequestro previste sempre dal codice antimafia al sequestro e alla confisca in casi particolari previsti dall’art. 240-bis cod. pen. o dalle altre disposizioni di legge che a questo articolo rinviano, nonché agli altri casi di sequestro e confisca di beni adottati nei procedimenti relativi ai delitti di cui all’art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen.)».
La citata pronuncia si allinea al precedente costituito dalla sentenza resa da Sez. 2, n. 53384 del 12/10/2018, Lega Nord, Rv. 274242-01, secondo cui «In tema di confisca, la mancata previsione della partecipazione al giudizio dei terzi interessati, al di fuori delle ipotesi previste dagli artt. 104-bis disp. att. cod. proc. pen. e 240-bis cod. pen., non è contraria agli artt. 8 direttiva U.E. 2014/42, 6 e 13 CEDU e 1, I prot. addiz. CEDU in relazione all’art. 117 Cost., potendo gli stessi esercitare rimedi cautelari nel corso del procedimento penale ed incidente di esecuzione avverso la statuizione definitiva della misura reale».
Secondo le menzionate pronunce, pertanto, il terzo titolare del bene sottoposto a confisca non è legittimato a partecipare al giudizio di merito, non essendo consentita un’estensione analogica della nuova disciplina prevista dall’art. 104-bis, disp. att. cod. proc. pen., da ritenersi limitata alle sole ipotesi di confisca allargata di cui all’art. 240-bis cod. proc. pen.
Al fine di evitare che l’esclusione della legittimazione del terzo a partecipare al giudizio possa dar luogo ad una lesione dei propri diritti di difesa, eventualmente facendo sorgere anche il dubbio di legittimità costituzionale, nelle richiamate pronunce si è affermato che l’art. 104-bis disp. att. cod. proc. pen. non costituisce il paradigma generale disciplinante le forme di tutela del terzo, atteso che questi già dispone di due strumenti alternativi, attivabili l’uno in fase cautelare e l’altro in sede esecutiva.
Il riferimento è chiaramente rivolto ai principi affermati da Sez. U, n. 48126 del 20/07/2017, Muscari, Rv. 270938, secondo cui «il terzo rimasto estraneo al processo, formalmente proprietario del bene già in sequestro, di cui sia stata disposta con sentenza la confisca, può chiedere al giudice della cognizione, prima che la pronuncia sia divenuta irrevocabile, la restituzione del bene e, in caso di diniego, proporre appello dinanzi al tribunale del riesame».
In motivazione, la Cassazione ha sottolineato come la necessità di garantire al terzo una forma di intervento immediata e non differita alla fase dell’esecuzione è necessaria in quanto «lo strumento dell’incidente di esecuzione, cui può far ricorso il terzo interessato solo dopo la pronuncia della sentenza di primo grado, è, per sua natura, inidoneo a garantire la pienezza dei diritti difensivi. Tale strumento, infatti, realizza solo in via mediata il diritto alla prova del soggetto istante e risulta indubbiamente influenzato dalla esistenza della decisione irrevocabile posta a monte, nel cui ambito ben potrebbero essere state presi in esame - senza contraddittorio effettivo con il titolare formale del diritto di proprietà - profili di ricostruzione probatoria e valutativi rilevanti anche in rapporto alla condizione giuridica del terzo, in potenziale violazione del principio del contraddittorio inteso come garanzia partecipativa del soggetto interessato ai momenti di elaborazione probatoria».
La tutela in fase cautelare, pertanto, viene ritenuta di per sé garanzia sufficiente per il terzo, soprattutto perché la Corte esclude espressamente che l’eventuale partecipazione al giudizio di merito consentirebbe al proprietario del bene facoltà difensive più ampie rispetto a quelle esercitabili in fase cautelare.
Alla luce delle più recenti pronunce sul tema, il sistema della tutela del terzo titolare di diritti reali sul bene suscettibile di confisca si differenzia notevolmente a seconda della tipologia di atto ablatorio posto in essere.
Ove si tratti di confisca “allargata” ex art. 240-bis cod. pen. o di confisca di prevenzione, il terzo avrà diritto di partecipare al giudizio di merito ai sensi dell’art. 104-bis disp.att. cod.proc.pen.
Viceversa, nei casi di ordinaria confisca ex art. 240 cod. pen., il terzo potrà far valere i propri interessi in sede cautelare o in fase di esecuzione, secondo il meccanismo delineato da Sez. U, n. 48126 del 20/07/2017, Muscari, Rv. 270938.
In ogni caso, la giurisprudenza è concorde nel negare al terzo la possibilità di sindacare la sussistenza degli elementi costitutivi del reato, assumendo una posizione sostanzialmente adesiva a quella dell’imputato.
Si afferma, infatti, che – anche nei casi in cui è ammessa la partecipazione del terzo al giudizio di merito – ciò non implica affatto la legittimazione ad interlocuire anche sul tema della responsabilità penale
Il terzo potrà esercitare il suo diritto di difesa limitatamente ai profili attinenti all’effettiva titolarità o disponibilità del bene sequestrato o confiscato o all’esistenza di relazioni di “collegamento” con l’imputato.
In tal senso si è espressa Sez. 3, n. 36348 del 11/7/2019, Pica, Rv. 276700, secondo cui «In tema di sequestro preventivo, il terzo che affermi di avere diritto alla restituzione del bene oggetto di sequestro, può dedurre, in sede di merito e di legittimità, unicamente la propria effettiva titolarità o disponibilità del bene e l’inesistenza di un proprio contributo al reato attribuito all’indagato, senza potere contestare l’esistenza dei presupposti della misura cautelare. (Fattispecie in tema di sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente ex art. 12-bis d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74)».
Tale pronuncia ha ribadito l’orientamento già affermato in precedenza da Sez. 2, n. 53384 del 12/10/2018, Lega Nord, Rv. 274242-02, secondo cui « In tema di confisca, la legittimazione alla partecipazione al giudizio dei terzi interessati ai sensi dagli artt. 104-bis disp. att. cod. proc. pen. e 240-bis cod. pen., risponde all’esigenza di consentire agli stessi di interloquire sia in merito al collegamento tra il bene oggetto della misura patrimoniale reale e il fatto del reato che in merito alla propria buona fede, esclusa, al contrario, ogni possibilità di intervento in tema di responsabilità penale dell’imputato, altrimenti traducendosi la loro partecipazione in intervento adesivo a favore di costui».
Problematica circoscritta ai soli casi in cui è contemplata la partecipazione del terzo al giudizio di merito, ai sensi dell’art. 104-bis disp. att. cod. proc. pen. è quella relativa all’applicabilità di tale istituto anche ai procedimenti che erano già in corso all’epoca della introduzione della nuova forma di tutela.
Per completezza, si rileva che la partecipazione del terzo era già stata introdotta dall’art. 31 della legge n. 161 del 17 ottobre 2017, con l’inserimento del comma 4-quinquies nel corpo dell’art. 12-sexies del d.l. n. 306 del 1992; successivamente all’approvazione del d.lgs. 1 marzo 2018, n. 21 (c.d. “riserva di codice”), l’istituto è stato trasfuso nell’art. 104-bis disp.att. cod.proc.pen.
Si è posto il problema di stabilire se il terzo potesse o meno intervenire nel giudizio già in corso di celebrazione all’epoca di introduzione del nuovo istituto.
La Corte ha dato risposta negativa al quesito, sostenendo che «In tema di confisca allargata di cui all’art. 12-sexies, d.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito nella legge 7 agosto 1992, n. 356 (oggi art. 240-bis cod. pen.), il terzo interessato dal provvedimento ablatorio che non ha partecipato al processo di primo grado, per non essere ancora entrato in vigore il comma 1-quinques dell’art. 104-bis disp. att cod. proc. pen. (introdotto dall’art. 6 del d.lgs. 1 marzo 2018, n. 21), non ha titolo, in assenza di una norma transitoria che lo consente, ad intervenire nei successivi giudizi di impugnazione e può tutelare la sua posizione sostanziale chiedendo la restituzione al giudice della cognizione, se non è intervenuta sentenza irrevocabile, ovvero proponendo incidente di esecuzione, in presenza di decisione irrevocabile» (Sez. 2, n. 45105 del 4/7/2019, Di Summo, Rv. 276957).
Sentenze della Corte di cassazione
Sez. 2, n. 45105 del 4/7/2019, Di Summo, Rv. 276957
Sez. 3, n. 36348 del 11/7/2019, Pica, Rv. 276700
Sez. 3, n. 30422 del 30/5/2019, Samarati, Rv. 276789
Sez. 6, n. 24432 del 18/4/2019, Placenti, Rv. 276278
Sez. 6, n. 6816 del 29/1/2019, Sena, Rv. 275048
Sez. 3, n. 6348 del 4/10/2018 - 2019 -, Torelli, Rv. 274859
Sez. 2, n. 53384 del 12/10/2018, Lega Nord, Rv. 274242-02
Sez. U, n. 48126 del 20/07/2017, Muscari, Rv. 270938
Sez. 3, n. 41104 del 12/7/2018, Vincenzini, Rv. 274307
Sez. 2, n. 29923 del 12/4/2018, Salvini
Sez. 2, n. 29924 del 12/04/2018, Bocchio
Sez. 3, n. 8995 del 30/10/2017, Barletta, Rv. 272353
Sez. U, n. 31617 del 26/06/2015, Lucci, Rv. 264437
Sez. 6, n. 15923 del 26/03/2015, Antonelli, Rv. 263124
Sez. U, n. 10561 del 30/01/2014, Gubert, Rv. 258647
Il sistema dei reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione prevede una pluralità di misure di carattere patrimoniale, introdotte nel corso degli ultimi anni in funzione evidente di aggravare il carico sanzionatorio per gli autori delle condotte illecite.
Il codice, nel suo testo originario, conteneva, infatti, un’unica ipotesi di confisca, prevista in via generale nell’art. 240 cod. pen., distinta in due fattispecie, facoltativa (comma 1), riferita alle cose che servono o sono destinate a commettere il reato ed a quelle che ne costituiscono il prodotto o il profitto, e obbligatoria (comma 2), riferita alle cose che costituiscono il prezzo del reato o di quelle la cui fabbricazione, uso, porto, alienazione costituisse di per sé reato.
Ad essa si sono poi aggiunte, nell’impianto codicistico, ulteriori misure grazie a normative speciali, introdotte sulla scorta anche delle indicazioni provenienti da fonti sovranazionali, con l’obiettivo di contrastare soprattutto le fattispecie di corruzione.
Questi ultimi strumenti, a differenza della confisca di cui all’art. 240 cod. pen., risultano selettivamente applicabili soltanto ai reati esplicitamente da esse menzionati.
Seguendo il criterio meramente cronologico, la prima di esse è recata dalla legge 29 settembre 2000, n. 300, che, innestando nel codice penale il nuovo art. 322-ter, prevede la confisca obbligatoria, anche per equivalente, del profitto e del prezzo dei reati di cui agli artt. da 314 a 320 cod. pen., anche se commessi dai soggetti di cui agli artt. 321 e 322-bis cod. pen.
Il testo originario, in verità, non aveva espressamente indicato, probabilmente per un lapsus calami, fra le ipotesi per le quali potesse intervenire la confisca per equivalente “il profitto del reato” e questa “omissione” è stata sanata dalla l. 6 novembre 2012, n. 190 (cd legge anticorruzione).
Con la legge 27 dicembre 2006, n. 296 si è invece estesa la possibilità di applicare la confisca cd per sproporzione o allargata, originariamente introdotta dall’art. 12-sexies, d.l. 6 giugno 1992, n. 306, conv. in l. 7 agosto 1992, n. 356 relativamente alle fattispecie di delitti in materia di criminalità organizzata, anche ai reati di cui agli artt. 314, 316, 316-bis, 316-ter, 318, 319, 319-ter, 319-quater, 320, 322, 322-bis e 325 cod. pen..
La fattispecie è oggi stata ricondotta nel codice penale, in particolare nell’art. 240-bis, in virtù del d.lgs 1 marzo 2018, n. 21.
La legge 27 maggio 2015 n. 69 ha introdotto due ulteriori novità.
Con il nuovo art. 322-quater cod. pen., ha previsto che la sentenza di condanna per i delitti di cui agli artt. 314, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater, 320, 322-bis comporti l’obbligo del pagamento “di una somma pari all’ammontare di quanto indebitamente ricevuto dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di un pubblico servizio a titolo di riparazione pecuniaria in favore dell’amministrazione cui il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio appartiene, ovvero, nel caso di cui all’articolo 319-ter, in favore dell’amministrazione della giustizia”, restando impregiudicato il diritto al risarcimento del danno.
Con il comma 1-ter dell’art. 444 cod. proc. pen. ha richiesto quale condizione per “l’ammissibilità della richiesta” di patteggiamento, per i delitti di cui agli artt. 314, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater, 322-bis, la restituzione integrale del prezzo o del profitto.
Infine, con la legge 9 gennaio 2019, n. 3 (la cd spazzacorrotti) si è già operato un duplice significativo intervento ortopedico sull’art. 322-quater cod. pen..
Si è aggiunto all’elenco dei reati che consentono la misura quello di cui all’art. 321 e sostituito l’inciso “di una somma pari all’ammontare di quanto indebitamente ricevuto dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di un pubblico servizio a titolo di riparazione pecuniaria in favore dell’amministrazione cui il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio appartiene, ovvero, nel caso di cui all’articolo 319-ter, in favore dell’amministrazione della giustizia” con quello attuale “di una somma equivalente al prezzo o al profitto del reato a titolo di riparazione pecuniaria in favore dell’amministrazione lesa dalla condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio”.
Un sottosistema, quello descritto in estrema sintesi, alquanto articolato ma anche lacunoso nella regolamentazione, che ha posto non pochi problemi ermeneutici.
Un primo arresto sull’istituto introdotto nel codice di rito era intervenuto già lo scorso anno.
Sez. 6, n. 25257 del 22/03/2018, Perfetti, Rv. 273656-01 aveva, infatti, fornito alcune coordinate ermeneutiche, evidenziando come la restituzione ex art. 444, comma 1-ter cod. proc. pen. debba essere considerata un requisito di natura procedimentale che trova, quindi, applicazione anche ai fatti precedenti la sua entrata in vigore e che opera “ab extrinseco” rispetto all’accordo processuale, senza mutarne l’oggetto né influire sulla confisca di cui all’art. 322-bis.
Due ulteriori interventi del 2019 hanno consentito di inquadrare in modo più preciso la natura della restituzione finalizzata ad ottenere il patteggiamento e soprattutto chiarito il rapporto che può intercorrere con la confisca di cui all’art. 322-bis cod. pen. e la riparazione pecuniaria di cui all’art. 322- quater cod. pen., avendo tutte le misure citate impatto sul medesimo oggetto e cioè sul prezzo o sul profitto del reato.
Sez. 6, n. 16872 del 30/01/2019, Guerra Leoniero, Rv. 275671-01 ha, in premessa, evidenziato come l’obbligo di restituzione integrale per accedere al rito persegue l’obiettivo di evitare che l’autore del reato possa eludere la ripetizione del vantaggio lucrato, imposta dall’art. 322-quater cod. pen.
Una volta effettuata però, la restituzione del profitto del reato, ex art. 444 cod. proc. pen., preclude l’irrogazione delle due sopracitate misure previste dal codice penale, in quanto la contestuale irrogazione si risolverebbe nella violazione del principio del divieto del ne bis in idem sanzionatorio.
Nel caso scrutinato, il giudice di merito aveva applicato al soggetto che aveva già provveduto alla restituzione anche la confisca per equivalente e la Corte ha censurato la specifica statuizione, annullandola senza rinvio, ritenendo ammissibile contro la sentenza il ricorso per cassazione ex art. 448, comma 2-bis cod. proc. pen.
La quasi coeva Sez. 6, n. 15847 del 05/02/2019, Mauro, Rv. 275543-01 solo in apparenza afferma un principio parzialmente diverso, ritenendo che la mancata integrale restituzione del profitto del reato, pur prevista quale condizione di ammissibilità del patteggiamento, legittimi il giudice a disporre la confisca di cui all’art. 322-bis cod. pen..
Per comprendere meglio il significato dell’arresto giurisprudenziale è opportuno fare riferimento alla vicenda sottostante, per i suoi peculiari tratti.
Imputata del delitto di peculato era, in particolare, un’amministratrice di sostegno, per incidens sorella della persona incapace, che aveva bonificato sul proprio conto corrente denaro della sorella tutelata.
Al momento della richiesta di patteggiamento, l’imputata non aveva potuto procedere alla restituzione di cui all’art. 444, comma 1-ter, cod. proc. pen., in quanto l’incapace era deceduta ed essendo lei erede si era verificata la confusione patrimoniale fra coeredi, per cui la restituzione avrebbe dovuta essere destinata a sé stessa.
Nell’applicare la pena concordata, il giudice, evidenziata l’impossibilità della restituzione, aveva però disposto la confisca del profitto, pari alla somma oggetto dell’illecita appropriazione.
La Cassazione, ritenendo con il principio già poco sopra riportato legittima la confisca, ha approfittato della specificità della vicenda per affermare, in motivazione, anche che la disposizione processuale introdotta nel 2015 non ha dato luogo ad alcuna ipotesi di abrogazione parziale implicita dell’art. 322-bis cod. pen..
La restituzione effettuata per ottenere l’ammissione al rito ha come unico effetto soltanto quello di far venir meno il presupposto, in concreto, per applicare la confisca prevista dal codice penale.
La Corte si è anche pronunciata ex professo sulla riparazione pecuniaria, di cui all’art. 322-quater cod. pen..
Sez. 6, n. 12541 del 14/03/2019, Ferraresi, Rv. 275925 – 01, in particolare, ha sciolto due nodi ermeneutici; la natura della nuova misura e a quali provvedimenti conclusivi del processo essa possa conseguire.
Sul primo aspetto fornisce una risposta che appare in linea con i primi approdi dottrinari.
Secondo la Corte, la riparazione ha natura esclusivamente economica, si parametra al vantaggio di natura patrimoniale derivato dalla condotta o al compenso dato o promesso e presenta elementi di indubbio parallelismo con la riparazione pecuniaria, prevista dall’art. 12 della l. 18 febbraio 1948, n. 47 in materia di diffamazione a mezzo stampa.
Questi tratti che la caratterizzano, in uno altresì con le indicazioni provenienti dai lavori preparatori della l. n. 69 del 2015, militano nel senso di qualificare la misura come una sanzione accessoria di natura, però, civile.
La natura lato sensu punitiva di essa giustifica la possibilità di riportarla nell’alveo delle “pene illegali” e quindi di rendere possibile il ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 448, comma 2- bis cod. proc. pen., per rilevare l’eventuale vizio.
Quanto, invece, alla tipologia del provvedimento conclusivo cui può conseguire, la norma del codice penale fa generico riferimento alla “sentenza di condanna”, senza alcuna ulteriore precisazione.
L’endiadi, però, secondo la Corte, può essere agevolmente letta, per ragioni soprattutto di carattere sistematico, come riferentesi a quelle statuizioni rese all’esito di un giudizio ordinario o abbreviato.
Conforta la tesi, quanto al patteggiamento ordinario, la circostanza che nella norma immediatamente precedente del codice penale – e cioè l’art. 323-ter cod. pen. – è contenuto l’espresso riferimento, accanto alla sentenza di condanna, della specifica indicazione anche alla sentenza di applicazione della pena.
Quanto al patteggiamento allargato, pur ammettendosi l’eterogeneità del medesimo rispetto all’altra ipotesi di pena concordata, la conferma della lettura offerta deriva proprio dalla lettura complessiva della riforma recata dalla l n. 69 del 2015.
Quest’ultima nell’introdurre, per entrambe le ipotesi di patteggiamento, al comma 1- ter dell’art. 444 cod. proc. pen. l’obbligo di restituzione non ha fatto, infatti, cenno alcuno alla riparazione pecuniaria, con l’evidente intento di non volerla prevedere.
Questa esclusione da parte del legislatore si giustifica, del resto, anche sul piano della razionalità; l’opposta soluzione avrebbe, infatti, quale conseguenza quella di imporre l’obbligo di riparazione a chi ha già provveduto alla restituzione del prezzo o del profitto, in violazione del principio del ne bis in idem sanzionatorio.
Un tema nuovo mai trattato dalla Corte è quello della compatibilità della confisca allargata, di cui (oggi) all’art. 240- bis cod. pen., e quella del profitto del reato di cui all’art. 322 bis cod. pen..
Se ne è occupato Sez. 1, n. 16122 del 28/02/2018 (dep. 12/04/2019), Spaziante, Rv. 276183 - 01, delle cui affermazioni è opportuno fare menzione, perché finiscono per trattare questioni che coinvolgono in modo più ampio l’istituto in discussione.
Per comprendere meglio i principi indicati dalla Corte è opportuno partire dalla vicenda concreta sottostante.
In sede di patteggiamento per il delitto di corruzione, il giudice aveva disposto la confisca per equivalente del profitto del reato ex art. 322-bis cod. pen.
Successivamente il pubblico ministero, effettuate indagini sul patrimonio dell’autore del reato, aveva richiesto ed ottenuto dal giudice dell’esecuzione la confisca allargata, ritenendo sussistente la sproporzione tra reddito e disponibilità, di una pluralità di beni, anche immobili, del già condannato o di suoi familiari, ritenuti fittizi intestari.
Contro la decisione è stato proposto ricorso in Cassazione, individuando, per quanto qui di interesse, due possibili profili di vizio.
Un primo riguardante la procedura con cui era stata disposta la confisca; viene censurato l’adottato procedimento svoltosi ai sensi dell’art. 667, comma 4, cod. proc. pen., ritenendolo in contrasto con l’art. 7 CEDU, come interpretato dalla sentenze della Corte Edu Varvara c. Italia del 29 ottobre 2013 e Grande Stevens c. Italia del 4 marzo 2014.
La Corte, nel dichiarare infondata la doglianza, evidenzia come le due ben note sentenze del giudice sovranazionale non hanno alcuna attinenza rispetto alla vicenda in esame.
Nella questione scrutinata è intervenuta una sentenza di condanna, sia pure pronunciata all’esito del patteggiamento, quale presupposto della misura ablatoria e nessuna violazione del principio del ne bis in idem può considerarsi verificata, anche per quanto di seguito si dirà.
L’esclusione di ogni possibile tensione della procedura utilizzata con i principi di rango internazionale consente quindi alla Corte un primo importante arresto.
La confisca allargata, così come tante volte affermato dalla giurisprudenza (ex plurimis, Sez. I n. 22752, del 9/03/2007, Billeci, Rv. 236876-01), può essere irrogata sia dal giudice di merito che da quello dell’esecuzione, perché in quest’ultimo caso nessuna limitazione deriva ai diritti dell’imputato o degli eventuali terzi aventi titolo, che potranno far valere nel garantito contraddittorio tutte le loro eventuali doglianze.
La seconda censura, sempre proposta con riferimento anche alle norme sovranazionali (art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’unione Europea, art. 4 del protocollo n. 7 alla CEDU, come interpretato dalla Corte Edu nella già citata sentenza Grande Stevens c. Italia), contesta la violazione del principio del ne bis in idem per essersi aggiunta la confisca per sproporzione a quella già irrogata per equivalente.
La Corte anche in questo respinge il motivo di ricorso, rimarcando la diversità dei presupposti, che giustificano l’adozione delle due misure patrimoniali ed altresì la loro diversa natura, pur in presenza del medesimo reato per il quale è intervenuta condanna.
La confisca ex art. 322-bis cod. pen. riguarda un bene che ha un rapporto pertinenziale con il reato, riferendosi al profitto di esso, e quella disposta per equivalente ha anche natura tipicamente sanzionatoria.
La confisca ex art. 240-bis cod. pen. è, invece, come in precedenza già affermato dalla giurisprudenza (così, tra le altre, Sez. VI, n. 10887 del 11/10/2012, Alfiero, Rv 254786-01), una misura di sicurezza patrimoniale, sia pure atipica, finalizzata ad impedire la commissione di nuovi reati, che vede quale condizione per la sua applicazione l’ingiustificata sproporzione dei beni rispetto ai redditi del condannato e che risulta applicabile a prescindere da qualsiasi collegamento pertinenziale con il reato che funge da presupposto.
Questa diversità strutturale esclude a priori che possa ritenersi violato il principio, ormai di rilevanza comunitaria, del divieto del ne bis in idem sanzionatorio.
Infine, per concludere la disamina della giurisprudenza in materia, va anche menzionata Sez. 2, n. 26969 del 15/05/2019, Portulano, Rv. 276664 – 01, che ha affrontato una tematica già oggetto, nei suoi aspetti in generali, in passato di altri interventi della nomofilachia, e cioè l’individuazione del quid consistam del profitto del reato, in funzione, in particolare, di individuare il quantum di denaro, suscettibile poi di confisca per equivalente.
La vicenda scrutinata, dai contorni molto particolari, riguardava un’imputazione di peculato avente ad oggetto l’attribuzione di voci stipendiali illecitamente percepite dai dirigenti di un’azienda pubblica ed il punto controverso si concentrava sulla computabilità nel quantum, oltre che delle somme effettivamente ricevute dai dirigenti imputati, delle ritenute fiscali e dei contributi previdenziali.
Per decidere del punto controverso, la sentenza in premessa ribadisce l’orientamento consolidato, esplicitato più volte in passato anche in arresti delle Sezioni unite (così, Sez. Un., n. 9149 del 03/07/1996, Chabni Samir, Rv. 205707 - 01; Sez. 6, n. 37556 del 27/09/2007, P.M. in proc. De Petro Mazarino, Rv. 238033 – 01; Sez. 6, n. 1754 del 14/09/2017 Bentini, Rv. 271967 - 01), che il profitto del reato consiste nel vantaggio economico di diretta ed immediata derivazione dal delitto.
È necessaria, quindi, per la sua configurabilità, una correlazione diretta del profitto con il delitto commesso ed una stretta affinità con l’oggetto di questo, in modo da potersi escludere qualsiasi estensione indiscriminata o dilatazione indefinita ad ogni e qualsiasi vantaggio patrimoniale che possa comunque scaturire dal reato.
Declinando il principio in questione alla vicenda concreta, la Corte giunge a conclusioni diverse per le due voci stipendiali.
Non possono considerarsi profitto del reato le ritenute fiscali, che non entrano nel patrimonio dell’autore dell’illecito né realizzano per il predetto alcun vantaggio economico.
Vanno, invece, considerati tali i contributi previdenziali, in quanto essi comportano effetti positivi diretti sul trattamento previdenziale e pensionistico del reo e si possono, quindi, considerare come vantaggi economici, direttamente conseguenti la commissione del delitto.
Sentenze della Corte di cassazione
Sez. U, n. 9149 del 03/07/1996, Chabni Samir, Rv. 205707-01
Sez. 1, n. 22752, del 9/03/2007, Billeci, Rv. 236876-01
Sez. 6, n. 37556 del 27/09/2007, De Petro Mazarino, Rv. 238033-01
Sez. 6, n. 10887 del 11/10/2012, Alfiero, Rv. 254786-01
Sez. 6, n. 1754 del 14/09/2017 Bentini, Rv. 271967 - 01
Sez. 6, n. 25257 del 22/03/2018, Perfetti, Rv. 273656
Sez. 1, n. 16122 del 28/02/2018 (dep. 2019), Spaziante, Rv. 276183
Sez. 6, n. 16872 del 30/01/2019, Guerra, Rv. 275671
Sez. 6, n. 15847 del 05/02/2019, Mauro, Rv. 275543
Sez. 6, n. 12541 del 14/03/2019, Ferraresi, Rv. 275925
Sez. 2, n. 26969 del 15/05/2019, Portulano, Rv. 276664
Con la sentenza della Grande Camera 28/06/2018, emessa nella causa G.I.E.M. S.r.l. ed altri c. Italia, come è noto, la Corte EDU ha affrontato plurimi profili problematici relativi alla confisca urbanistica. Dopo questa decisione, nel corso del 2019, la Corte di cassazione, in una pluralità di decisioni, è stata impegnata nella verifica della conformità della disciplina nazionale ai principi della CEDU sotto diversi aspetti, in particolare nel caso in cui la confisca segua alla dichiarazione di estinzione per intervenuta prescrizione del reato urbanistico. Per una migliore comprensione dei problemi affrontati dalla Corte di legittimità, appare utile una sintetica ricostruzione del tema, che ne segua l’evoluzione anche sul piano cronologico.
L’art. 44, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001 dispone che “la sentenza definitiva del giudice penale che accerta che vi è stata lottizzazione abusiva dispone la confisca dei terreni, abusivamente lottizzati e delle opere abusivamente costruite”. È noto che, per lungo tempo, questa norma è stata pacificamente interpretata nel senso che la confisca dei terreni e delle opere potesse essere disposta anche in assenza di condanna, sul presupposto che, per applicare la misura in esame, fosse sufficiente una sentenza che “accertasse” la lottizzazione abusiva e non occorresse necessariamente una pronuncia di condanna (cfr., tra le altre, Sez. 3, n. 9982 del 05/03/2008, Quattrone, Rv. 238984; in precedenza, Sez. 3, n. 4954 del 08/02/1994, Pene ed altri, Rv. 197506).
Tale conclusione, in particolare, si fondava sulla natura amministrativa della misura, da cui si traeva la conseguenza che non vi sarebbero ostacoli alla sua applicazione non solo in assenza di condanna, ma anche nei confronti di proprietari del bene rimasti estranei al processo penale (Sez. 3, n. 37086 del 07/07/2004, Percinaro, Rv. 230031; secondo Sez. 3, ord. n. 10916 del 3/3/2005, Visconti, Rv. 230984, «La confisca dei terreni abusivamente lottizzati e delle opere realizzate, prevista dall’art. 44, comma 2, d.P.R. 6 giugno 2001 n. 380, deve essere disposta anche nei confronti dei beni dei terzi acquirenti in buona fede ed estranei al reato, i quali potranno fare valere i propri diritti in sede civile, atteso che trattasi di una sanzione amministrativa a natura reale e non personale applicata indipendentemente da una sentenza di condanna e sul solo presupposto dell’accertamento giurisdizionale di una lottizzazione abusiva»).
La confisca urbanistica, più precisamente, secondo l’opinione tradizionalmente condivisa in giurisprudenza, integrerebbe una sanzione emessa dal giudice penale in supplenza rispetto all’analoga misura di competenza dell’autorità amministrativa e non una misura di sicurezza di natura patrimoniale (Sez. 3, n. 36844 del 09/07/2009, Contò, Rv. 244923).
Questa interpretazione, peraltro, produceva il risultato di sottrarre la misura ablatoria alle implicazioni del principio della responsabilità personale, intesa come responsabilità per fatto proprio colpevole, posto che si faceva discendere dall’oggettiva realizzazione della fattispecie di reato effetti incidenti in senso negativo sulla sfera giuridica di soggetti privi di ogni collegamento non solo psicologico, ma anche eziologico con la commissione dell’illecito.
In tale contesto, è intervenuta la sentenza della Corte EDU 30/08/2007 nel caso Sud Fondi c. Italia. La Corte di Strasburgo, come è noto, vagliando analiticamente la confisca urbanistica alla luce dei parametri elaborati nel caso Welch c. Regno Unito, ha affermato la natura essenzialmente penale dell’istituto, in ragione dei suoi scopi prevalentemente repressivi, con la conseguente necessità di conformarlo al rispetto dell’art. 7 CEDU.
In quest’occasione, la Corte EDU ha precisato che il principio di legalità impone che qualunque provvedimento normativo, da cui derivi la possibile inflizione di una sanzione penale ad un individuo, debba rispettare alcune caratteristiche imprescindibili come la conoscibilità e intelligibilità da parte della persona del precetto contenuto nella norma giuridica nonché la prevedibilità delle conseguenze sanzionatorie cui si espone colui che lo viola.
Nella specie, la Corte ha ritenuto che i ricorrenti avessero subito una sanzione penale in assenza di «un legame di natura intellettuale (coscienza e volontà) che permetta di rilevare un elemento di responsabilità nella condotta dell’autore materiale del reato». In altri termini, secondo la Corte europea, non può applicarsi alcuna sanzione penale, se un fatto oggettivamente costituente reato non risulta soggettivamente ascrivibile all’agente quanto meno a titolo di colpa.
La Corte EDU, al contempo, ha ritenuto che la mancanza di una pronuncia di condanna non assumesse valenza determinante al fine di escludere la configurabilità di una sanzione penale in presenza di ulteriori elementi sintomatici attinenti allo scopo, alla gravità e alla qualificazione legislativa della misura.
Dopo tale pronuncia della Corte di Strasburgo, , l’attenzione della giurisprudenza si è incentrata essenzialmente sulla valorizzazione di un principio di “colpevolezza convenzionale”, desumibile dall’art. 7 CEDU ed applicabile anche alla confisca urbanistica in considerazione della ritenuta natura di sanzione penale. La sentenza, infatti, aveva esaminato il rapporto tra la confisca urbanistica e l’assoluzione dell’imputato, mentre aveva lasciato impregiudicato il problema della compatibilità della suddetta sanzione con l’ipotesi di intervenuta prescrizione.
La successiva giurisprudenza di legittimità, infatti, ha ribadito la confiscabilità dei terreni abusivamente lottizzati e delle opere abusivamente costruite, pur in presenza di una causa estintiva del reato, purché sia stato accertata la sussistenza del reato di lottizzazione abusiva tanto sotto il profilo oggettivo, quanto sotto quello soggettivo (Sez. 3, n. 21188 del 30/04/2009, Casasanta e altri, Rv. 243630; Sez. 3, n. 39078 del 13/07/2009, Apponi e altri, Rv. 245347) all’esito di un giudizio in cui sia stato assicurato il contraddittorio e la più ampia partecipazione degli interessati e sia stata accertata l’esistenza di profili quantomeno di colpa sotto l’aspetto dell’imprudenza, della negligenza e del difetto di vigilanza dei soggetti nei confronti dei quali la misura viene ad incidere (Sez. 3, n. 17066 del 04/02/2013, Volpe e altri, Rv. 255112).
Il problema della possibilità di disporre la confisca urbanistica nel caso di intervenuta prescrizione del reato di lottizzazione è stato successivamente preso in esame dalla sentenza della Corte EDU 29/10/2013, Varvara c. Italia. Tale pronuncia ha affermato l’incompatibilità con le garanzie previste dalla CEDU di un sistema in cui una persona dichiarata innocente o, comunque, senza alcun grado di responsabilità penale constatata in una sentenza di colpevolezza subisca una pena. È stato affermato testualmente che «la logica della “pena” e della “punizione”, e la nozione di “guilty” (nella versione inglese) e la corrispondente nozione di “personne coupable” (nella versione francese) depongono a favore di un’interpretazione dell’art. 7 CEDU che esige, per punire, una dichiarazione di responsabilità da parte dei giudici nazionali, che possa permettere di addebitare il reato e di comminare la pena al suo autore».
La Corte di Strasburgo, dunque, ha operato un collegamento fra il concetto di “colpevolezza”, intesa come rimproverabilità di un soggetto per un comportamento, e la necessità che tale comportamento sia accertato da una sentenza di condanna, emessa all’esito di un giudizio cui devono essere collegate le garanzie previste dall’art. 7 CEDU.
La sentenza “Varvara”, pertanto, è stata tendenzialmente interpretata nel senso di ritenere che la conformità della misura ablativa ai principi convenzionali richiederebbe necessariamente il dato formale della definizione del procedimento penale con una sentenza di condanna, escludendo la possibilità di dar rilievo a decisioni che, pur formalmente liberatorie, conterrebbero ugualmente l’accertamento della materiale sussistenza del reato.
È appena il caso di sottolineare come tale soluzione abbia suscitato un intenso dibattito, perché non è stata ritenuta del tutto conforme al principio tradizionalmente seguito dalla CEDU, teso a privilegiare la qualificazione fondata sulla concreta portata degli istituti giuridici, piuttosto che a dare rilievo assorbente alla formalistica regolamentazione nei sistemi giuridici nazionali.
Dopo la sentenza della Corte EDU “Varvara” ha assunto un rinnovato vigore il problema della compatibilità tra la confisca urbanistica e l’intervenuta dichiarazione di prescrizione del reato di lottizzazione.
Il tema è stato particolarmente sentito perché, anche dopo la sentenza Sud Fondi, la Corte di cassazione aveva in più occasioni affermato la compatibilità della confisca con la dichiarazione di prescrizione del reato (cfr., tra le altre, Sez. 3, n. 21188 del 30/04/2009, Casasanta e altri, cit.; Sez. 3, n. 39078 del 13/07/2009, Apponi, cit.), purché fosse accertata la sussistenza della lottizzazione abusiva sotto il profilo oggettivo e soggettivo, nell’ambito di un giudizio che assicuri il contraddittorio e la più ampia partecipazione degli interessati e che verifichi l’esistenza di profili quantomeno di colpa sotto l’aspetto dell’imprudenza, della negligenza e del difetto di vigilanza dei soggetti nei confronti dei quali la misura viene ad incidere (cfr. Sez. 3, n. 17066 del 04/02/2013, Volpe e altri, cit.).
Sul presupposto che, secondo la sentenza “Varvara”, la confisca, in quanto vera e propria sanzione penale, potrebbe essere adottata solo a seguito di sentenza di condanna, la Corte di cassazione ha dubitato della legittimità costituzionale dell’art. 44, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001, per contrasto con gli artt. 2, 9, 32, 41, 42 e 117, primo comma, Cost., nella parte in cui, in forza dell’interpretazione della Corte EDU, tale disposizione «non può applicarsi nel caso di dichiarazione di prescrizione del reato anche qualora la responsabilità penale sia stata accertata in tutti i suoi elementi» (Sez. 3, (ord.) n. 20636 del 20/05/2014, Alessandrini ed altri).
Per ragioni sostanzialmente opposte, inoltre, ha sollevato questione di legittimità costituzionale anche il Tribunale di Teramo, evidenziando come, a fronte del diritto vivente cristallizzato dalla giurisprudenza della Cassazione, che imponeva anche in caso di prescrizione del reato di disporre la confisca, e di una sentenza della Corte EDU che, invece, aveva affermato che una simile statuizione viola l’art. 7 CEDU, la previsione dell’art. 44, comma 2, d.P.R. 380/2001 fosse contraria all’art. 117, primo comma, Cost. in relazione all’art. 7 CEDU (così come interpretato dalla sentenza Varvara) «nella parte in cui consente che l’accertamento nei confronti dell’imputato del reato di lottizzazione abusiva – quale presupposto dell’obbligo per il giudice penale di disporre la confisca dei terreni abusivamente lottizzati e delle opere abusivamente costruite – possa essere contenuto anche in una sentenza che dichiari estinto il reato per intervenuta prescrizione» (Trib. Teramo, (ord.) 17 gennaio 2014, B.C., in Arch. pen. on line).
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 49 del 2015, ha dichiarato inammissibili entrambe le questioni, pur esprimendosi su alcune questioni di primario rilievo, sia di ordine generale, sia specificamente riferite alla confisca urbanistica.
La Corte costituzionale, in particolare, ha fondato la sua pronuncia sul presupposto secondo cui sarebbe «erroneo il convincimento, formulato dai rimettenti come punto di partenza dei dubbi di costituzionalità, che la sentenza Varvara sia univocamente interpretabile nel senso che la confisca urbanistica possa essere disposta solo unitamente ad una sentenza di condanna da parte del giudice per il reato di lottizzazione abusiva». A tale conclusione la Corte è giunta non solo sulla scorta di una serie di argomentazioni in punto di compatibilità tra la sentenza di prescrizione e l’accertamento della sussistenza del reato, ma anche evidenziando come la sentenza “Varvara” non potesse considerarsi alla stregua di un “diritto consolidato” della Corte EDU, tant’è che all’epoca in cui la Consulta si è pronunciata la medesima questione era stata già rimessa alla Grande Camera.
Sulla base di tale presupposto, la Consulta ha ribadito la necessità, ai fini della confisca urbanistica, di un pieno accertamento della responsabilità dell’imputato e della malafede del terzo eventualmente colpito dalla confisca, precisando tuttavia che tale “pieno accertamento” non è affatto precluso nel caso di proscioglimento per prescrizione, atteso che tale pronuncia ben potrebbe «accompagnarsi alla più ampia motivazione sulla responsabilità, ai soli fini della confisca del bene lottizzato»; tale motivazione, secondo il Giudice delle leggi, costituisce un preciso obbligo a carico del giudice, il quale dovrà «attenersi ad adeguati standard probatori e rifuggendo da clausole di stile che non siano capaci di dare conto dell’effettivo apprezzamento compiuto».
Secondo la Consulta, ai fini della confisca urbanistica, occorre aver riguardo «non della forma della pronuncia, ma dalla sostanza dell’accertamento», valorizzando le potenzialità di accertamento del fatto di reato consentite anche qualora venga pronunciata una sentenza di proscioglimento.
In particolare, «la questione da risolvere, secondo i criteri appena enunciati dell’interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente conforme, consiste allora nel decidere se il giudice europeo, quando ragiona espressamente in termini di condanna – nei termini di cui al par. 61 della sentenza Varvara – abbia a mente la forma del pronunciamento del giudice, ovvero la sostanza che necessariamente si accompagna a tale pronuncia, laddove essa infligga una sanzione criminale ai sensi dell’art. 7 CEDU, vale a dire l’accertamento della responsabilità». A tale quesito, la Corte ha risposto accogliendo un’accezione di condanna in senso sostanziale, ritenendo compatibile con gli artt. 6 e 7 CEDU una sanzione penale contenuta in una sentenza diversa da quella di condanna a condizione che in essa sia espresso un giudizio di responsabilità a carico di chi subisce la “pena”.
È stato affermato, infatti, che «nell’ordinamento giuridico italiano la sentenza che accerta la prescrizione di un reato non denuncia alcuna incompatibilità logica o giuridica con un pieno accertamento della responsabilità. Quest’ultimo, anzi, è doveroso qualora si tratti di disporre una confisca urbanistica».
Prendendo atto delle indicazioni contenute nella decisione della Corte costituzionale illustrata (e nell’analoga pronuncia Corte Cost., ord. n. 187 del 2015), la successiva giurisprudenza di legittimità ha ribadito che il proscioglimento per intervenuta prescrizione non osta alla confisca del bene lottizzato, allorquando sia stata accertata, con adeguata motivazione, la sussistenza del reato di lottizzazione abusiva nei suoi elementi costitutivi, oggettivo e soggettivo (Sez. 3, n. 15888 del 08/04/2015, dep. 2016, Sannella e a., Rv. 266628; Sez. 4, n. 31239 del 23/06/2015, Giallombardo, Rv. 264337; Sez. 3, n. 33051 del 10/05/2017, Puglisi e aa., Rv. 270646; Sez. 3, n. 53692 del 13/07/2017, Martino, Rv. 272791; Sez. 3, n. 43630 del 25/06/2018, Tammaro, Rv. 274196).
In seguito, la decisione dei ricorsi ancora pendenti in materia è stata sospesa in attesa della pronuncia sul punto della Grande Camera della Corte EDU, nel frattempo investita, tra l’altro, anche della questione sulla compatibilità con l’art. 7 CEDU dell’applicazione della confisca urbanistica conseguente a lottizzazione abusiva nell’ambito di una pronuncia dichiarativa della prescrizione del reato.
Nel quadro normativo e giurisprudenziale delineato, è sopravvenuta la pronuncia resa dalla Grande Camera della Corte EDU 28/06/2018, nella causa G.I.E.M. S.r.l. ed altri c. Italia.
La sentenza della Corte EDU, proseguendo una sorta di interlocuzione con la pronuncia della Corte costituzionale n. 49 del 2015, ha riaffermato che, in linea teorica, le proprie sentenze hanno tutte ugual valore e, quindi, ha implicitamente criticato la tesi della Consulta secondo cui sarebbe diverso l’effetto di tali decisioni nell’ambito dell’ordinamento interno a seconda che siano espressione di un “diritto consolidato” piuttosto che di un orientamento in fase di formazione che non abbia ancora trovato l’avallo della Grande Camera.
Pur partendo da tale premessa, la Corte EDU ha “reinterpretato” la sentenza Varvara pervenendo, nella sostanza, alla medesima conclusione che aveva indotto la Corte costituzionale ad escludere l’incompatibilità tra la confisca urbanistica e la mancata pronuncia di una sentenza formalmente di condanna.
Per giungere a tale conclusione, la sentenza ha preliminarmente ripercorso le ragioni in base alle quali la confisca urbanistica deve essere considerata, in ambito convenzionale, come una sanzione di natura penale, in tal modo rigettando la tesi sostenuta dal Governo italiano secondo cui andrebbe privilegiata la tesi della natura amministrativa (si veda § 198 della sentenza).
A fronte di tale obiezione, la Corte EDU ha ribadito la natura di sanzione penale sottolineando:
il diretto collegamento fra la misura in questione e la commissione di un reato;
la collocazione sistematica della confisca urbanistica, che è inserita in un articolo rubricato “sanzioni penali”;
la finalità punitiva della confisca urbanistica, desunta, in particolare, dalla natura obbligatoria della confisca urbanistica, tant’è che può essere disposta «in assenza di un danno effettivo o di un rischio concreto per l’ambiente. La confisca può quindi essere applicata anche in assenza di qualsiasi attività concreta volta a trasformare il territorio» (§ 225);
la gravità della misura, ritenuta una «sanzione particolarmente onerosa e intrusiva» (§ 227); la competenza all’adozione della confisca attribuita al giudice penale (§ 228), ritenuto titolare di un potere esercitato in via autonoma e non già in mera supplenza dell’autorità amministrativa.
La Corte EDU, pertanto, ha concluso affermando che «le misure di confisca costituiscono delle “pene” ai sensi dell’art. 7 della Convenzione: tale conclusione, che è il risultato dell’interpretazione autonoma della nozione di “pena” ai sensi dell’articolo 7, comporta l’applicabilità di questa disposizione, anche in assenza di un procedimento penale ai sensi dell’articolo 6» (§ 233).
Sulla scorta di tale premessa, la Corte EDU ha proceduto al vaglio della principale questione rimessa al suo esame, concernente la compatibilità tra la confisca urbanistica e l’adozione di una sentenza di proscioglimento per intervenuta prescrizione (aspetto, peraltro, ritenuto determinante nei confronti del solo ricorrente persona fisica che aveva assunto anche il ruolo di imputato nel procedimento penale celebrato a suo carico e conclusosi con la declaratoria di prescrizione).
Nel risolvere la questione, la Corte ha dovuto necessariamente prendere le mosse dall’affermazione contenuta nella sentenza “Varvara”, lì dove aveva affermato che «La logica della «pena» e della «punizione», e la nozione di «guilty» (nella versione inglese) e la corrispondente nozione di «personne coupable» (nella versione francese), depongono a favore di un’interpretazione dell’articolo 7 che esige, per punire, una dichiarazione di responsabilità da parte dei giudici nazionali, che possa permettere di addebitare il reato e di comminare la pena al suo autore. In mancanza di ciò, la punizione non avrebbe senso (Sud Fondi e altri, sopra citata, § 116). Sarebbe infatti incoerente esigere, da una parte, una base legale accessibile e prevedibile e permettere, dall’altra, una punizione quando, come nel caso di specie, la persona interessata non è stata condannata».
La Corte ha proseguito ribadendo che i principi di legalità e colpevolezza, condensati nell’art. 7 CEDU, nonché la presunzione di non colpevolezza di cui all’art. 6 § 2, non consentono che la confisca venga disposta in assenza di un sostanziale dichiarazione di responsabilità, pur se adottata in mancanza della pronuncia di una formale sentenza di condanna.
Ferma restando l’imprescindibile necessità di garantire il diritto di difesa nella sua massima esplicazione e secondo i parametri di cui all’art. 6 CEDU, la Corte ha affermato che «qualora i tribunali investiti constatino che sussistono tutti gli elementi del reato di lottizzazione abusiva pur pervenendo a un non luogo a procedere, soltanto a causa della prescrizione, tali constatazioni, in sostanza, costituiscono una condanna nel senso dell’articolo 7, che in questo caso non è violato» (§ 261).
Ne deriva che la compatibilità tra la confisca urbanistica e la pronuncia di una sentenza di prescrizione è, in astratto, pienamente conforme ai principi convenzionali, dovendosi invece appuntare l’attenzione sul dato sostanziale dell’avvenuto accertamento dell’esistenza del reato e della colpevolezza dell’imputato, attuando tutte le garanzie proprie della natura penale della sanzione irrogata.
Seguendo la logica “sostanzialista” propria della giurisprudenza CEDU, pertanto, la Corte ha affermato, da un lato, il principio per cui è possibile disporre la confisca urbanistica anche in caso di sentenza di prescrizione; dall’altro, ha ribadito la necessità che la decisione sulla confisca – proprio perché in ottica convenzionale integra una decisione sanzionatoria di tipo penale – debba necessariamente essere adottata secondo standard probatori e con il rispetto delle garanzie proprie delle pronunce formali di condanna.
Acclarata l’astratta ammissibilità della confisca urbanistica adottata all’esito del proscioglimento per prescrizione, la Corte ha delineato gli specifici limiti e le condizioni per l’adozione del provvedimento ablatorio, desunti dalle fattispecie concrete poste a base dei singoli ricorsi esaminati.
Per comprendere i termini della questione appare utile riassumere brevemente la vicenda processuale relativa all’unica persona fisica che ha adito la CEDU (ricorrente Gironda, si vedano i §§ 82-86). Questi, in particolare, era stato tratto a giudizio per rispondere del reato di lottizzazione abusiva ex art. 20 legge n. 47 del 1985; in primo grado, il Tribunale dichiarava non doversi procedere per intervenuta prescrizione; la Corte d’appello annullava la sentenza di primo grado assolvendo l’imputato in relazione al reato di lottizzazione abusiva e revocando il provvedimento di confisca. Successivamente, la Corte di Cassazione, con sentenza Sez. 3, n. 34865 del 22/04/2010, Gironda, n.m., annullava senza rinvio la sentenza della Corte d’appello, ritenendo sussistente il reato di lottizzazione, pur dichiarandolo prescritto, conseguentemente disponendo la confisca dei beni sul presupposto che «Nella specie questa Corte ha verificato che il primo giudice, legittimamente e razionalmente, ha ritenuto integrato in concreto il reato di lottizzazione abusiva nei suoi elementi oggettivo e soggettivo, avendo ravvisato, con argomentazioni logiche, una partecipazione, quanto meno colpevole, alla vicenda lottizzatoria dei soggetti nei confronti dei quali la sanzione è stata adottata, sicché legittima deve ritenersi la conferma della sanzione ablatoria».
La peculiarità del caso specifico, quindi, è costituita dal fatto che la decisione sulla confisca è intervenuta in sede di legittimità, a seguito dell’annullamento di una precedente sentenza assolutoria nel merito.
La Corte EDU ha ritenuto che tale decisione integrasse una violazione della presunzione di non colpevolezza previsto dall’art. 6 § 2, nella misura in cui il giudice di legittimità ha rilevato l’intervenuta prescrizione annullando contestualmente «le decisioni di proscioglimento dei giudici di grado inferiore e si pronuncia sulla colpevolezza della persona interessata» (§316-317).
In buona sostanza, secondo la prospettiva convenzionale, l’accertamento incidentale della colpevolezza non potrebbe essere effettuato in fase di legittimità ed in assenza di una pronuncia di condanna adottata in sede di merito.
La disciplina della confisca urbanistica, poi, è stata oggetto di valutazione anche in relazione alla compatibilità o meno di tale misura sanzionatoria rispetto alla tutela della proprietà accordata dall’art. 1 del Protocollo Addizionale della CEDU.
Tale norma, rubricata come “Protezione della proprietà”, stabilisce che “Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di pubblica utilità e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale. Le disposizioni precedenti non portano pregiudizio al diritto degli Stati di porre in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi o delle ammende”.
Si tratta di una previsione chiaramente volta a contemperare la tutela della proprietà privata con l’attuazione delle finalità di interesse generale, contemplando da un lato la possibilità di limitare se non addirittura privare il titolare del diritto di proprietà, al contempo imponendo un rapporto di stretta proporzionalità tra l’intensità del pregiudizio e le finalità pubbliche perseguite.
I ricorsi proposti avverso la normativa in materia di confisca urbanistica hanno concordemente sottolineato come tale misura sanzionatoria si traduca in una privazione del diritto di proprietà, asseritamente non sorretta da una base giuridica chiara, accessibile e prevedibile, ma soprattutto la misura in esame difetterebbe del profilo della strumentalità e proporzionalità rispetto agli interessi perseguiti.
Con la sentenza “GIEM” la Corte EDU ha richiamato i precedenti specifici in materia, sottolineando che la compatibilità della confisca con il predetto art. 1 Prot. add. va valutata sotto due aspetti.
In primo luogo, occorre considerare che, in astratto, sono legittime le politiche statali finalizzate alla tutela ambientale e della salute delle persone, sicché la confisca potrebbe ritenersi consentita ove direttamente collegata a salvaguardare tali interessi primari, di rilievo pubblicistico.
Esaminando le fattispecie oggetto dei ricorsi, tuttavia, la Corte EDU ha sottolineato come non fosse sussistente la necessaria strumentalità tra la misura sanzionatoria e la tutela dell’ambiente, atteso che in nessun caso si era proceduto alla demolizione dei complessi immobiliari frutto della lottizzazione abusiva ed, anzi, con riferimento ad uno dei beni confiscati vi era stata una delibera dell’ente comunale con la quale veniva espressamente riconosciuto «l’interesse attuale della collettività a mantenere il complesso immobiliare confiscato, tenuto conto della possibilità di utilizzare gli alloggi per far fronte a situazioni di emergenza concedendo, direttamente o indirettamente, l’uso dei beni a titolo oneroso a persone a basso reddito» (§ 297). Sulla scorta di tali osservazioni, la Corte EDU ha dubitato che «la confisca della proprietà dei beni in questione abbia effettivamente contribuito alla tutela dell’ambiente» (§299).
In secondo luogo, la misura deve essere valutata sul profilo relativo alla sua proporzionalità rispetto allo scopo perseguito.
Sul punto, la Corte ha affermato che «Al fine di valutare la proporzionalità della confisca, possono essere presi in considerazione i seguenti elementi: la possibilità di adottare misure meno restrittive, come la demolizione di opere non conformi alle disposizioni pertinenti o l’annullamento del progetto di lottizzazione; la natura illimitata della sanzione derivante dal fatto che può comprendere indifferentemente aree edificate e non edificate e anche aree appartenenti a terzi; il grado di colpa o di imprudenza dei ricorrenti o, quanto meno, il rapporto tra la loro condotta e il reato in questione» (§ 301).
La Corte europea, inoltre, ha precisato che la legittimità della compressione del diritto di proprietà non può in alcun modo ritenersi lecita in assenza di un contraddittorio nell’ambito del quale la persona interessata sia messa in condizione di interloquire con l’autorità competente ad adottare la confisca.
Sulla base di tali premesse, la Corte EDU ha concluso nel senso di ritenere che «L’applicazione automatica della confisca in caso di lottizzazione abusiva prevista – salvo che per i terzi in buona fede – dalla legge italiana è in contrasto con questi principi in quanto non consente al giudice di valutare quali siano gli strumenti più adatti alle circostanze specifiche del caso di specie e, più in generale, di bilanciare lo scopo legittimo soggiacente e i diritti degli interessati colpiti dalla sanzione. Inoltre, non essendo state parti nei procedimenti contestati, le società ricorrenti non hanno beneficiato di alcuna delle garanzie procedurali di cui al precedente paragrafo 302» (§ 303).
In base a tale premessa, la Corte ha ritenuto che, nel caso posto al suo vaglio, vi fosse stata violazione dell’art. 1 del Prot. n. 1 nei confronti di tutti i ricorrenti in ragione del carattere sproporzionato della misura di confisca.
La sentenza “GIEM”, infine, ha affrontato anche il profilo attinente alla tutela dei terzi estranei al giudizio, nei cui confronti la CEDU ha ritenuto sicuramente illegittima la confisca di beni disposta in assenza dell’accertamento di profili di colpevolezza e senza che fosse stata consentita la loro partecipazione al giudizio conclusosi con la confisca.
Nel caso concreto, invero, i legali rappresentanti della società GIEM S.r.l. non avevano rivestito il ruolo di imputati nel procedimento relativo alla lottizzazione abusiva; nel caso delle restanti società ricorrenti, invece, vi era stata quanto meno la partecipazione al procedimento penale dei legali rappresentanti.
Tale diversificazione di posizione è di fondamentale rilievo, in quanto ha consentito alla CEDU di verificare sia l’ipotesi della totale estraneità della società al processo penale, sia il diverso caso in cui, pur a fronte dell’estraneità dell’ente, quanto meno il processo penale si è svolto nei confronti delle persone fisiche che agivano in nome e per conto della persona giuridica.
A fronte della suddetta differenziazione di fattispecie, chiaramente incidenti anche sui concetti di buona e mala fede dell’ente estraneo al processo penale, la CEDU si è espressamente posta il problema di verificare se «le persone fisiche che sono state coinvolte nei procedimenti dinanzi ai tribunali interni abbiano agito e siano state giudicate in quanto tali o come rappresentanti legali delle società» (§ 265).
La risposta non poteva che essere negativa, atteso che il sistema penale italiano – al di là delle fattispecie per le quali è configurabile la responsabilità dell’ente ai sensi del d.lgs. n.231 del 2001 – si fonda sul principio societas delinquere non potest, sicchè il processo penale vede necessariamente quale imputati le sole persone fisiche, evidentemente distinte giuridicamente dall’ente in nome e per conto del quale hanno agito.
Ciò è sufficiente per consentire alla Corte EDU di affermare che «le società erano pertanto terze parti in questi procedimenti» (§266), il che fa sorgere il problema di verificare la conformità rispetto ai parametri dell’art.7 della CEDU dell’applicazione di «una sanzione penale inflitta a persone giuridiche che, per la loro personalità giuridica distinta, non sono state oggetto di alcun procedimento (penale, amministrativo, civile, ecc.)» (§ 269).
La Corte EDU è partita dal presupposto che l’art. 7 della Convenzione presuppone necessariamente la garanzia del principio di colpevolezza, che impone di vietare che nel diritto penale si possa rispondere per un fatto commesso da altri. Infatti, se è vero che ogni persona deve poter stabilire in ogni momento cosa è permesso e cosa è vietato per mezzo di leggi precise e chiare, non si può concepire un sistema che punisca coloro che non sono responsabili, perché il responsabile è stato un terzo. La Grande Camera, pertanto, ha ritenuto che «Nel caso di specie, le società G.I.E.M. S.r.l., Hotel Promotion Bureau S.r.l., R.I.T.A. Sarda S.r.l. e Falgest S.r.l., non sono state parti in alcun procedimento. Solo il legale rappresentante della Hotel Promotion Bureau S.r.l. e della Falgest S.r.l., nonché due membri della R.I.T.A. Sarda S.r.l., sono stati accusati personalmente. Le autorità hanno pertanto applicato una pena alle società ricorrenti per azioni di terzi, nel caso di specie, tranne che nel caso della G.I.E.M. S.r.l., in quanto i loro rappresentanti legali o associati agivano a titolo personale. 273. Infine, in risposta all’affermazione del Governo secondo cui le società Hotel Promotion Bureau S.r.l., R.I.T.A. Sarda S.r.l. e Falgest erano in malafede (paragrafo 264 supra), la Corte rileva che nulla negli elementi acquisiti alla causa fa pensare che la proprietà dei beni sia stata trasferita alle società ricorrenti dai loro rappresentanti legali (si veda, in tal senso, l’articolo 6 della direttiva 2014/42, paragrafo 152, supra). … In conclusione, considerato il principio secondo cui una persona non può essere sanzionata per un atto che coinvolge la responsabilità penale altrui, una misura di confisca applicata, come nel presente caso, a persone fisiche o giuridiche che non sono parti in causa è incompatibile con l’articolo 7».
Appare utile sottolineare che la soluzione recepita dalla Corte EDU è stata oggetto di critiche in dottrina, essendosi in primo luogo ritenuto che, in base allo stesso approccio sostanzialistico recepito dai giudici europei, ben si sarebbe potuto valorizzare il fatto che l’ente, il cui legale rappresentate ha preso parte come imputato al processo penale, non può definirsi del tutto estraneo all’accertamento.
È stato anche evidenziato che esiste una innegabile differenza tra la condizione del terzo in buona fede acquirente del bene e quella della persona giuridica nel cui interesse gli imputati hanno commesso il reato di lottizzazione abusiva. È del tutto evidente, infatti, che in questa seconda ipotesi – ferma restando l’autonomia giuridica dei soggetti coinvolti – vi è una imputabilità del fatto alla società, trattandosi di condotte poste in essere nel suo interesse ed a suo vantaggio.
Sulla base di tali premesse, si è ritenuto che la Corte EDU ben avrebbe potuto assumere una decisione “più flessibile”, volta a consentire le confisca quantomeno nei casi in cui non vi fosse motivo di dubitare che l’accertamento della colpevolezza dell’imputato implichi una equivalente responsabilità della persona giuridica, da valutare sia in relazione al tipo di struttura e compagine societaria, sia in considerazione della conformità o meno della commissione del reato rispetto all’interesse dell’ente.
Dopo la sentenza della Corte EDU “G.I.E.M.”, la Corte di cassazione ha ribadito che il presupposto della confisca urbanistica non è rappresentato da una decisione di condanna, ma dall’accertamento del reato di lottizzazione abusiva, nelle sue componenti oggettiva e soggettiva, con adeguata motivazione e all’esito del contraddittorio delle parti (Sez. 3, n. 8350 del 23/01/2019, Alessandrini ed altri, Rv. 275756 - 05). L’applicazione di tale principio, tuttavia, nel caso in cui sia sopravvenuta l’estinzione del reato per prescrizione, determina una frizione con la previsione dell’immediata declaratoria della causa di estinzione del reato di cui all’art. 129, comma 2, cod. proc. pen.
Sul punto, secondo l’indirizzo che appare prevalente nella giurisprudenza della Corte di legittimità il principio generale dell’immediata declaratoria della causa di estinzione del reato è implicitamente derogato dalle disposizioni speciali che prevedono l’applicazione di misure le quali, per essere disposte, richiedono inevitabilmente la prosecuzione del processo. Tra queste proprio la confisca di cui all’art. 44, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001, la quale, secondo la formulazione della norma, può essere disposta con “la sentenza … che accerta che vi sia stata lottizzazione abusiva”. Ne consegue che «l’accertamento della sussistenza del reato … costituisce un atto dovuto per il giudice, con ogni conseguenza in tema di confisca, anche nel caso in cui la prescrizione sia maturata e, dunque, senza che possa operare l’obbligo di immediata dichiarazione di non punibilità di cui all’art. 129 c.p.p., norma all’evidenza soccombente a fronte della previsione specifica, come espressamente confermato, peraltro, dalla recente introduzione dell’art. 578-bis c.p.p. (inserito dal D.Lgs. 1 marzo 2018, n. 21 e modificato dalla L. 9 gennaio 2019, n. 3), a mente del quale quando è stata ordinata la confisca in casi particolari prevista dall’art. 240-bis c.p., comma 1 e da altre disposizioni di legge (tra le quali la misura urbanistica) o la confisca prevista dall’art. 322-ter c.p., il giudice di appello o la corte di cassazione, nel dichiarare il reato estinto per prescrizione o per amnistia, decidono sull’impugnazione ai soli effetti della confisca, previo accertamento della responsabilità dell’imputato» (Sez. 3, n. 22034 del 11/4/2019, PM in proc. Pintore, Rv. 275969, in una pronuncia con la quale la Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso del Procuratore della Repubblica avverso l’omessa statuizione sulla confisca nella sentenza del Tribunale di Sassari, che aveva dichiarato non doversi procedere per prescrizione ex art. 129 cod. proc. pen. per carenza di specificità; negli stessi termini si è pronunciata anche Sez. 3, n. 42513 del 16/05/2019, PM in proc. Spina ed altri).
Nella sentenza Sez. 3, n. 14005, del 4/12/2018, dep. 2019, PM in proc. Bogni ed altri, Rv. 275356, la Corte ha precisato che, ai fini dell’adozione della confisca, il rispetto dei principi europei presuppone un’analisi giurisdizionale idonea ad accertare l’effettiva sussistenza del reato in tutti i suoi elementi, oggettivi e soggettivi, tramite il rispetto delle garanzie processuali che consentono all’imputato di interloquire sul materiale di causa al fine di esercitare pienamente il proprio diritto di difesa. Tali requisiti non sono certamente soddisfatti dagli atti irripetibili posti in essere nel corso delle indagini, né può farsi riferimento alle misure cautelari disposte durante il procedimento, la cui applicazione è basata su uno standard probatorio che le rende di per sé insuscettibili di assurgere a prova certa della responsabilità penale. Appare significativa anche l’osservazione contenuta in questa decisione secondo cui, anche se il provvedimento ablatorio non fosse disposto dal giudice penale, la repressione delle condotta di lottizzazione continuerebbe ad essere assicurata dalle procedure amministrative di acquisizione delle aree lottizzate al patrimonio comunale, il cui corretto esercizio da parte dell’autorità competente è sempre valutabile in sede di giurisdizione amministrativa e, in caso di inerzia patologica, anche in sede penale.
È illegittima, pertanto, la confisca urbanistica disposta contestualmente al proscioglimento per intervenuta prescrizione dell’imputato, compiuto in appello, ma in sede predibattimentale, senza instaurare il contraddittorio e senza esaminare le doglianze posto con l’atto di appello (cfr. Sez. 3, n. 5936 del 8/11/2018, dep. 2019, Basile).
Il tema in esame, poi, è stato puntualizzato nella sentenza Sez. 3, n. 31282, del 27/3/2019, Grieco e altri, Rv. 277167, nella quale è stata ribadita la necessità del proseguimento del processo penale, pur dopo l’intervenuta prescrizione del reato, richiamando ampiamente la motivazione di Sez. 3, n. 53692 del 13/07/2017, Martino, Rv. 272791. In tale ultima sentenza, è stato precisato che «la questione - circa la compatibilità di un completo accertamento oggettivo e soggettivo della responsabilità da espletare nel contraddittorio delle parti secondo le regole del processo equo (art. 6 CEDU e art. 111 Cost.) con l’obbligo imposto al giudice, in via generale, dall’art. 129 c.p.p. di immediata declaratoria di una causa di non punibilità - impone poi di considerare che il riconoscimento, in capo al giudice, di poteri di accertamento - finalizzati all’adozione di una misura che incide negativamente sulla posizione dell’imputato (seppur nella sola sfera patrimoniale dell’interessato) e che presuppone l’accertamento della penale responsabilità del soggetto - rende recessivo il principio generale dell’obbligo di immediata declaratoria di una causa estintiva del reato rispetto al correlativo e coesistente obbligo di accertamento. Ciò in quanto - essendo proprio detto accertamento richiesto dalla legge (D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, comma 2) e dovendo la disposizione essere interpretata da parte del giudice nazionale in senso convenzionalmente conforme nel senso che, anche in presenza di una causa estintiva del reato, è necessario, per disporre la confisca urbanistica, procedere all’accertamento del reato (nei suoi estremi oggettivi e soggettivi) e verificare la sussistenza di profili quanto meno di colpa nei soggetti incisi dalla misura - il principio generale risulta implicitamente derogato dalle disposizioni speciali che prevedono l’applicazione di misure le quali, per essere disposte, richiedono inevitabilmente la prosecuzione del processo e la conseguente acquisizione delle prove in funzione di quell’accertamento strumentale all’emanazione del provvedimento finale» (così, Sez. 3, n. 53692 del 13/07/2017, Martino, cit.; nello stesso senso, Sez. 3, n. 43630 del 25/06/2018, Tammaro, Rv. 274196).
È stato allora affermato che «il giudice di appello, pur maturata la prescrizione del reato nel corso del dibattimento, è tenuto comunque ad effettuare un accertamento di responsabilità dell’imputato, …, perché a ciò chiamato proprio dalla lettera e dalla ratio dell’art. 44, comma 2, in esame, per come interpretato dalla giurisprudenza di legittimità, costituzionale e convenzionale», tanto che l’accertamento «costituisce un atto dovuto per il giudice, con ogni conseguenza in tema di confisca, anche nel caso in cui la prescrizione sia maturata e, dunque, senza che possa operare l’obbligo di immediata dichiarazione di non punibilità di cui all’art. 129 cod. proc. pen. … in forza delle sollecitazioni istruttorie avanzate dalle parti ed eventualmente con i poteri officiosi di cui all’art. 507 cod. proc. pen. …» (Sez. 3, n. 46392 del 3/10/2019, Abbrescia ed altri, n.m.; per il riconoscimento di un analogo dovere per il giudice di primo grado, si veda Sez. 3, n. 36630 del 11/07/2019, PM in proc. Achenza ed altri).
Secondo la sentenza Sez. 3, n. 31282, del 27/3/2019, Grieco e altri, cit., che ha richiamato anche su questo punto Sez. 3, n. 53692 del 13/07/2017, Martino, cit., l’unico limite a che il processo penale possa progredire limitatamente ad un’azione di accertamento finalizzata alla sola decisione sulla confisca urbanistica è che il reato non risulti estinto prima dell’esercizio dell’azione penale, «poiché in tal caso è impedito al giudice di compiere, nell’ambito di un giudizio che assicuri il contraddittorio e la piena partecipazione degli interessati, l’accertamento del reato (nei suoi estremi oggettivi e soggettivi) e della sussistenza di profili quanto meno di colpa nei soggetti incisi dalla misura, presupposto necessario per disporre la confisca anche in presenza di una causa estintiva del reato» (Sez. 3, n. 53692 del 13/07/2017, Martino, cit.; cfr. anche Sez. 3, n. 35313 del 19/05/2016, Imolese, Rv. 267534). In questi termini, si veda anche Sez. 3, n. 43113 del 17/07/2019, P.G. in proc. Magliuolo, che ha dichiarato inammissibile il ricorso del Procuratore della Repubblica nei confronti della sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione adottata nell’udienza preliminare, disattendendo la richiesta di svolgimento dell’istruttoria al solo fine della confisca.
Su quest’ultimo punto, peraltro, deve rilevarsi che l’art. 578-bis cod. proc. pen., intitolato “Decisione sulla confisca in casi particolari nel caso di estinzione del reato per amnistia o per prescrizione”, introdotto dall’art. 6, comma 4, d.lgs. 1/03/2018, n. 21, recante “Disposizioni di attuazione del principio di delega della riserva di codice nella materia penale a norma dell’articolo 1, comma 85, lettera q), della legge 23/06/2017, n. 103”, stabilisce che “Quando è stata ordinata la confisca in casi particolari prevista dal primo comma dell’articolo 240-bis del codice penale e da altre disposizioni di legge o la confisca prevista dall’articolo 322-ter del codice penale, il giudice di appello o la corte di cassazione, nel dichiarare il reato estinto per prescrizione o per amnistia, decidono sull’impugnazione ai soli effetti della confisca, previo accertamento della responsabilità dell’imputato”. Questa norma pare prevedere, come presupposto per la prosecuzione del giudizio, che sia intervenuta la prescrizione del reato dopo una decisione di condanna, mentre non sembra prevista la prosecuzione del giudizio di primo grado nonostante l’intervenuta estinzione del reato.
Questo profilo problematico, invero, è stato colto da Sez. 3, n. 8350 del 23/01/2019, Alessandrini ed altri, cit. In questa pronuncia, infatti, è stato precisato che l’art. 578-bis cod. proc. pen., per un verso, costituisce una conferma della correttezza della regola secondo cui il giudizio deve proseguire nonostante l’intervenuta prescrizione ai soli fini della confisca urbanistica; per altro verso, questa disposizione presuppone che la confisca sia stata ordinata nel giudizio di primo grado, evidentemente quando il reato non è ancora prescritto e stabilisce che, qualora il giudice di appello o la Corte di cassazione si trovino a dover dichiarare il reato estinto per prescrizione o per amnistia, debbano comunque decidere sull’impugnazione ai soli effetti della confisca, previo accertamento della responsabilità dell’imputato. L’art. 578-bis cod. proc. pen., pertanto, «regola, evidentemente, solo la fase dell’impugnazione ma, da ciò, non può inferirsi il divieto, per il giudice di primo grado, di disporre la confisca nel caso in cui dichiara prescritto il reato nonostante l’avvenuto accertamento della lottizzazione illecita».
Più precisamente, il divieto per il giudice di primo grado di pronunciarsi sulle statuizioni civili si fonda sul disposto dell’art. 538 cod. proc. pen., secondo il quale il giudice decide sulla domanda di restituzione e risarcimento solo quando pronuncia sentenza di condanna. «Tali principi non sono, tuttavia, esportabili in tema di confisca urbanistica, per la quale non vale il disposto dell’art.. 538 cod. proc. pen. ed, anzi, occorre tenere conto che l’accertamento può riguardare atti dell’amministrazione la cui falsità, ove accertata, soggiace ai principi dell’art.. 537, comma 5 cod. proc. pen., che obbliga il giudice alla dichiarazione di falsità anche nel caso di sentenza di proscioglimento» (così Sez. 3, n. 8350 del 23/01/2019, Alessandrini ed altri, cit.).
Va segnalata, infine, Sez. 3, n. 1514 del 14/11/2018, dep. 2019, PG in proc. Bernardini, n.m., secondo cui è legittima l’adozione di una pronuncia predibattimentale ex art. 469 cod. proc. pen. che accerti l’intervenuta prescrizione del reato di lottizzazione abusiva, sussistendone presupposti normativi, tra i quali - oltre che il decorso del lasso temporale dal giorno della cessazione della permanenza dell’illecito previsto dall’art. 157 e ss. cod. pen. - la mancata opposizione delle parti, non dovendo necessariamente darsi corso al dibattimento al fine di accertare il reato e permettere l’emissione della misura della confisca.
Anche dopo la sentenza della Corte EDU G.I.E.M., dunque, la Corte di legittimità ha ribadito l’impostazione seguita da Sez. 3, n. 53692 del 13/7/2017, Martino, cit. (e da Sez. 3, n. 15126 del 5/4/2018, Settani, n.m.), secondo cui l’unica preclusione alla prosecuzione del giudizio ai fini della confisca urbanistica riguarda la necessità che l’azione penale sia stata esercitata prima dell’intervenuta prescrizione; una volta superato tale limite, il giudizio dovrebbe proseguire ordinariamente anche se la prescrizione matura prima che sia stata emessa una sentenza di condanna quanto meno in primo grado.
Tale principio, invero, non pare in linea con quanto sostenuto da Sez. U, n. 31617 del 26/06/2016, Lucci, Rv. 254434, secondo cui «Il giudice, nel dichiarare la estinzione del reato per intervenuta prescrizione, può disporre, a norma dell’art. 240, comma secondo, n. 1 cod. pen., la confisca del prezzo e, ai sensi dell’art. 322 ter cod. pen., la confisca diretta del prezzo o del profitto del reato a condizione che vi sia stata una precedente pronuncia di condanna e che l’accertamento relativo alla sussistenza del reato, alla penale responsabilità dell’imputato e alla qualificazione del bene da confiscare come prezzo o profitto rimanga inalterato nel merito nei successivi gradi di giudizio». Tale pronuncia, in particolare, ha preso espressamente in considerazione l’eventualità che la confisca consegua ad un mero accertamento incidentale della sussistenza del reato concludendo, tuttavia, che «devono pertanto essere respinte le tesi di chi ritiene sufficiente, ai fini della confisca, un mero accertamento incidentale della responsabilità, dal momento che ciò si tradurrebbe in una non consentita trasformazione della confisca in una tipica actio in rem, lumeggiata nel corso del complesso procedimento di approvazione, ma poi non recepita dalla direttiva 2014/42/UE del 3 aprile 2014 relativa “al congelamento e alla confisca dei beni strumentali e dei proventi da reato nell’Unione europea”, dal momento che anche tale strumento della Unione Europea continua a prevedere la condanna come base per la confisca, anche per equivalente, dei beni strumentali e dei proventi da reato. L’accertamento della responsabilità deve dunque confluire in una pronuncia che, non solo sostanzialmente, ma anche formalmente, la dichiari, con la conseguenza che l’esistenza del reato, la circostanza che l’autore dello stesso abbia percepito una somma e che questa abbia rappresentato il prezzo del reato steso, devono aver formato oggetto di una condanna, i cui termini essenziali non abbiano, nel corso del giudizio, subito mutazioni quanto alla sussistenza di un accertamento “al di là dì ogni ragionevole dubbio”». Ne consegue che «L’intervento della prescrizione, dunque, per poter consentire il mantenimento della confisca, deve rivelarsi quale formula terminativa del giudizio anodina in punto di responsabilità, finendo in tal modo per “confermare” la preesistente (e necessaria) pronuncia di condanna, secondo una prospettiva, a ben guardare, non dissimile da quella tracciata dall’art. 578 del codice di rito in tema di decisione sugli effetti civili nel caso di sopravvenuta declaratoria di estinzione del reato per prescrizione».
Sulla base del ragionamento seguito da Sez. U “Lucci”, sembra potersi affermare che l’esistenza di una pronuncia di condanna, quanto meno in primo grado, rappresenti il requisito minimo ed indifferibile per potersi proseguire nei successivi gradi di impugnazione anche al limitato fine di disporre la confisca e nonostante l’intervenuta prescrizione del reato.
Il tema indicato, invero, è stato affrontato dalla Corte di cassazione. Secondo Sez. 3, n. 8350 del 23/01/2019, Alessandrini ed altri, cit., le peculiarità del provvedimento ablatorio urbanistico rispetto ad altre ipotesi di confisca permettono di escludere la possibilità di mutuare le considerazioni espresse nella sentenza Lucci. Al riguardo, è stata richiamata la sentenza Sez. 3, n. 53692 del 13/07/2017, Martino, cit., la quale ha osservato che «i diversificati aspetti che possono caratterizzare l’istituto della confisca impongono di condurre l’analisi non avendo come riferimento un archetipo valido in assoluto, dovendo invece l’interprete concentrarsi sulla particolare ipotesi di confisca, così come positivamente disciplinata dalla legge». L’art. 44, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001, in tema di confisca urbanistica, non opera alcun riferimento alla sentenza penale di condanna per il reato di lottizzazione abusiva, richiedendo solo l’accertamento della responsabilità che non deve essere necessariamente contenuto in una statuizione di condanna.
La sentenza della Grande Camera della Corte EDU 28/06/2018, nella causa G.I.E.M. S.r.l. ed altri c. Italia, dunque, ha affermato che la legittimità della confisca urbanistica prevista dall’art. 44, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001 presuppone il rispetto anche dell’art. 1 CEDU Prot. add., dovendo verificarsi, pertanto, se la compressione del diritto di proprietà determinata dall’applicazione della misura, nel caso concreto, possa ritenersi “proporzionata” alla tutela degli interessi generali dell’ambiente, del paesaggio e della potestà di pianificazione urbanistica pubblica.
Dopo la decisione della Grande Camera, la giurisprudenza di legittimità ha colto la delicatezza di questo profilo, affermando che, ai fini della legittimità della confisca, assume rilievo anche l’aspetto dell’individuazione dei beni oggetto della misura, nel senso che il provvedimento ablatorio è legittimo se limitato ai beni immobili direttamente interessati dall’attività lottizzatoria e ad essa funzionali (Sez. 3, n. 14743 del 20/02/2019, Amodio, Rv. 275392). In particolare, è conforme ai principi convenzionali la confisca di tutte le aree abusivamente lottizzate, indipendentemente dalla presenza o meno di volumi. Tale misura ablatoria, tuttavia, non deve riguardare aree completamente estranee all’attività lottizzatoria abusiva, ponendosi una simile evenienza in contrasto con i principi elaborati dalla Corte europea (Sez. 3, n. 8350 del 23/01/2019, Alessandrini ed altri, cit. in motivazione).
Questa impostazione consiste in una lettura convenzionalmente orientata dell’art. 44, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001, secondo una indicazione che, invero, già si ravvisava nella sentenza “Sud Fondi”, la quale aveva riconosciuto il rilievo dell’attributo della proporzionalità della confisca, osservando che un provvedimento ablatorio riguardante terreni non edificati per una quota pari all’85% del totale, in assenza di un qualsiasi indennizzo, non si giustifica rispetto alla finalità di ripristinare una situazione di conformità alle disposizioni urbanistiche.
La verifica del rispetto del criterio di proporzionalità tra il sacrificio del diritto individuale di proprietà e la tutela degli interessi generali dell’ambiente e della pianificazione territoriale pubblica importa un accertamento di fatto che, per la sua stessa natura, non può essere svolto dalla Corte di legittimità e che, in genere, non si ravvisa nelle sentenze di merito precedenti alla sentenza della Corte EDU G.I.E.M. S.r.l., in quanto questo aspetto non assumeva particolare rilievo. Tanto risulta chiaramente da alcune sentenze della Corte di cassazione che si segnalano per lo sforzo di illustrare i profili di fatto che emergono dalle decisioni di merito e che dimostrano, tuttavia, la loro insufficienza ai fini del giudizio sulla proporzionalità della misura (cfr. Sez. 3, n. 8350 del 23/01/2019, Alessandrini ed altri, in motivazione; Sez. 3, n. 14743 del 20/02/2019, Amodio, cit.; Sez. 3, n. 36694 del 3/07/2019, Candela ed altri; Sez. 3, n. 36695 del 3/07/2019, Palumbo; Sez. 3, n. 38484 del 5/07/2019, Giannattasio ed altro).
Il giudizio di proporzionalità della confisca urbanistica, in particolare, riguarda la valutazione ingerenza sul diritto di proprietà della misura e va tenuto ben distinto da quello della proporzione della confisca come sanzione penale rispetto al fatto reato posto in essere.
La verifica della proporzionalità della misura, inoltre, presuppone una specifica motivazione, non potendo ritenersi sufficiente l’utilizzo nella sentenza di merito di una formula “indefinita” (del tipo, “confisca dei terreni abusivamente lottizzati e delle opere abusivamente costruite”), peraltro corrispondente a quella adoperata dal legislatore nell’art. 44, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001 (Sez. 3, n. 36694 del 3/07/2019, Candela ed altri, cit.; Sez. 3, n. 38484 del 5/07/2019, Giannattasio ed altro, cit.).
La giurisprudenza di legittimità successiva alla sentenza della Grande Camera della Corte EDU 28/06/2018, nella causa G.I.E.M. S.r.l. ed altri c. Italia, invero, è subito apparsa prevalentemente orientata verso la possibilità, da parte della Corte di cassazione, di disporre un giudizio di rinvio limitato alla valutazione della legittimità della confisca urbanistica, richiamando, in modo più o meno motivato, la previsione di cui all’art. 578-bis cod. proc. pen.
Seguendo l’evoluzione della giurisprudenza sul piano strettamente cronologico, più precisamente, secondo la prima tesi emersa nella giurisprudenza di legittimità (Sez. 3, n. 5936 del 8/11/2018, dep. 2019, Basile, cit.), il proscioglimento per intervenuta prescrizione maturato nel corso del processo non osta, sulla base di una lettura costituzionalmente e convenzionalmente orientata, alla confisca del bene oggetto di lottizzazione abusiva, purché sia adottata secondo standard probatori e con il rispetto delle garanzie proprie delle pronunce di condanna. Qualora tale accertamento sia stato omesso, la sentenza della Corte d’appello che ha accertato l’intervenuta prescrizione, confermando la statuizione relativa alla confisca dei terreni e delle opere abusive deve essere annullata senza rinvio «e gli atti debbono essere trasmessi alla Corte d’appello …, affinché, sulla scorta dei suddetti criteri interpretativi e tenendo conto della successiva elaborazione interpretativa di questa Corte, provveda al giudizio sulle impugnazioni proposte dagli imputati».
Il fondamento normativo di tale soluzione pare essere stato ravvisato proprio nell’art. 578-bis cod. proc. pen. secondo cui “Quando è stata ordinata la confisca in casi particolari prevista dal primo comma dell’articolo 240-bis del codice penale e da altre disposizioni di legge, il giudice di appello o la corte di cassazione, nel dichiarare il reato estinto per prescrizione o per amnistia, decidono sull’impugnazione ai soli effetti della confisca, previo accertamento della responsabilità dell’imputato”. Nella sentenza, infatti, è precisato che tale disposizione avrebbe recepito gli orientamenti della corte di legittimità secondo cui, quando il proscioglimento per intervenuta prescrizione è maturato nel corso del giudizio, l’obbligo di accertamento imposto al giudice per l’adozione del provvedimento ablativo prevale su quello generale della immediata declaratoria della causa di non punibilità, ex art. 129 cod. proc. pen. In presenza di detta causa estintiva del reato, il giudice del dibattimento non ha l’obbligo di dichiararla immediatamente ex art. 129 cod. proc. pen., ma deve procedere al necessario accertamento del reato nelle sue componenti, oggettive e soggettive, assicurando alla difesa il più ampio diritto alla prova e al contraddittorio, e a tal fine, pur in presenza della sopravvenuta prescrizione, deve proseguire l’istruttoria dibattimentale; il giudizio deve dunque proseguire, pur a seguito della estinzione per prescrizione del reato, al fine esclusivo dell’accertamento della legittimità della confisca. Quest’ultima, pertanto, deve essere disposta «nella pienezza della cognizione del giudice d’appello».
Il richiamo alla disciplina di cui all’art. 578-bis cod. proc. pen., quale fondamento del nuovo giudizio, nonostante l’intervenuta prescrizione del reato, poi, si ravvisa in una successiva pronuncia in cui è stato disposto l’annullamento con rinvio della sentenza limitatamente alla statuizione relativa alla confisca (Sez. 3, n. 14743 del 20/2/2019, Amodio, cit.).
In particolare, è stato osservato che, in forza di una interpretazione anche convenzionalmente orientata dell’art. 44, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001, sulla valutazione della conformità della confisca conseguente al reato di lottizzazione abusiva al principio di protezione della proprietà di cui all’art. 1 Prot. att. n. 1 della CEDU debba necessariamente incidere anche l’aspetto della individuazione dei beni oggetto della misura: «in tanto potrà dunque parlarsi di confisca legittima ove limitata ai beni immobili direttamente interessati dall’attività lottizzatoria e ad essa funzionali mentre dovrà concludersi in senso opposto, e dunque di misura non rispettosa dei criteri di proporzionalità, se applicata a terreni non direttamente interessati dall’attività lottizzatoria» (Sez. 3, n. 14743 del 20/2/2019, Amodio, cit.). La sentenza di merito che «si è limitata a confermare la generalizzata statuizione di una confisca relativa ai terreni abusivamente lottizzati e alle opere abusivamente realizzate senza operare alcuna distinzione che avrebbe invece dovuto discendere proprio dal principio di proporzionalità e suggerire una mirata selezione alle sole opere funzionali alla trasformazione avvenuta», pertanto, deve essere annullata sul punto. L’impiego di una formula indefinita per l’adozione del provvedimento ablatorio, corrispondente peraltro a quella impiegata dal legislatore, con mancanza di ogni motivazione volta a dar conto della valutazione dei principi di proporzionalità, impone, stante la necessità di un accertamento in fatto sul punto, estraneo ai compiti della Corte di legittimità, l’annullamento con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello della sentenza impugnata.
Secondo questa impostazione, il giudice del rinvio, nonostante sia passata in giudicato la parte della decisione relativa al proscioglimento per l’intervenuta prescrizione del reato di lottizzazione, con ogni ampiezza di potere delibativo, deve valutare i termini di conformità al principio di proporzionalità dell’area applicativa della misura in oggetto (cfr. Sez. 3, n. 14743 del 20/2/2019, Amodio, cit.).
Nella motivazione di questa pronuncia è richiamato l’art. 578-bis cod. proc. pen. per trarvi una conferma al principio secondo cui la sussistenza del reato di lottizzazione abusiva, nelle sue componenti oggettiva e soggettiva, costituisce il presupposto indispensabile per assicurare la legittimità della misura della confisca.
Nella sentenza si legge, in particolare, si legge che «Non è inutile ricordare, del resto, che l’art. 578-bis cod. proc. pen., introdotto con il d.lgs. 1 marzo 2018, n. 21 ed in vigore dal 6 aprile 2018, dispone che “quando è stata ordinata la confisca in casi particolari prevista dal primo comma dell’articolo 240-bis del codice penale e da altre disposizioni di legge, il giudice di appello o la corte di cassazione, nel dichiarare il reato estinto per prescrizione o per amnistia, decidono sull’impugnazione ai soli effetti della confisca, previo accertamento della responsabilità dell’imputato”. Ed anzi, proprio la verifica di tali componenti del reato si pone quale elemento indispensabile di assicurazione della legittimità della misura della confisca, e della sua compatibilità con il principio di legalità dell’art.7 della Convenzione operata laddove l’esito del processo sia quello della prescrizione del reato, come appare emergere dalla decisione della Corte edu Grande Camera, 28/06/2018, Giem e altri c. Italia …».
Nella decisione, inoltre, è stato osservato - richiamando la motivazione di Sez. 3, n. 37472 del 26/6/2008, Belloi e altri, Rv. 241101 - che l’art. 44, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001 prevede la confisca, tanto “dei terreni abusivamente lottizzati”, quanto “delle opere abusivamente costruite”, cosicché la misura appare contemplata indipendentemente dalla edificazione. «Ciò non può comportare tuttavia che, se pure … la confisca possa operare con riguardo a tutte le aree abusivamente lottizzate, indipendentemente dalla presenza o meno di edifici, una tale misura ablativa possa riguardare aree completamente estranee all’attività lottizzatoria abusiva …». Sulla base dei principi costituzionali e convenzionali, infatti, «i “terreni lottizzati” ovvero “rientranti nel generale progetto lottizzatorio” vanno identificati in quelli che risultano oggetto di un’operazione di frazionamento preordinata ad agevolarne l’utilizzazione a scopo edilizio. Ove esista, pertanto, un preventivo frazionamento, va confiscata tutta l’area interessata da tale frazionamento, nonché dalla previsione delle relative infrastrutture ed opere di urbanizzazione, indipendentemente dall’attività di edificazione posta concretamente in essere. Nell’ipotesi, invece, in cui non sia stato predisposto un frazionamento fondiario e tuttavia si sia conferito, di fatto, un diverso assetto ad una porzione di territorio comunale, la confisca va limitata a quella porzione territoriale effettivamente interessata dalla vendita di lotti separati, dalla edificazione e dalla realizzazione di infrastrutture» (Sez. 3, n. 14743 del 20/2/2019, Amodio, cit.).
Il riferimento alla disciplina prevista dall’art. 578-bis cod. proc. pen. come strumento processuale che permette la prosecuzione del giudizio nonostante la prescrizione del reato urbanistico, quindi, si rinviene in una successiva pronunce che, tuttavia, non ha concluso per una decisione di annullamento con rinvio, bensì con una pronuncia di inammissibilità, per la carenza di specificità del ricorso introduttivo della Procura.
Si allude a Sez. 3, n. 22034 del 11/4/2019, PM in proc. Pintore, Rv. 275969, che ha dichiarato inammissibile il ricorso del Procuratore della Repubblica avverso l’omessa statuizione sulla confisca nella sentenza del Tribunale di Sassari, che aveva dichiarato non doversi procedere per prescrizione ex art. 129 cod. proc. pen.. In questa pronuncia, è stato precisato che il principio generale dell’immediata declaratoria della causa di estinzione del reato è implicitamente derogato dalle disposizioni speciali che prevedono l’applicazione di misure le quali, per essere disposte, richiedono inevitabilmente la prosecuzione del processo. Tra queste proprio la confisca di cui all’art. 44, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001, la quale può essere disposta con “la sentenza … che accerta che vi sia stata lottizzazione abusiva”. Ne consegue che «l’accertamento della sussistenza del reato … costituisce un atto dovuto per il giudice, con ogni conseguenza in tema di confisca, anche nel caso in cui la prescrizione sia maturata e, dunque, senza che possa operare l’obbligo di immediata dichiarazione di non punibilità di cui all’art. 129 c.p.p., norma all’evidenza soccombente a fronte della previsione specifica, come espressamente confermato, peraltro, dalla recente introduzione dell’art. 578-bis c.p.p. (inserito dal D.Lgs. 1 marzo 2018, n. 21 e modificato dalla L. 9 gennaio 2019, n. 3), a mente del quale quando è stata ordinata la confisca in casi particolari prevista dall’art. 240-bis c.p., comma 1 e da altre disposizioni di legge (tra le quali la misura urbanistica) o la confisca prevista dall’art. 322-ter c.p., il giudice di appello o la corte di cassazione, nel dichiarare il reato estinto per prescrizione o per amnistia, decidono sull’impugnazione ai soli effetti della confisca, previo accertamento della responsabilità dell’imputato».
Per mera completezza va evidenziato che la soluzione dell’annullamento con rinvio limitatamente alla statuizione relativa alla confisca è stata seguita da altre pronunce, in modo sostanzialmente immotivato quanto allo strumento processuale che giustifica il provvedimento o, comunque, senza richiamare l’art. 578-bis cod. proc. pen. Si allude, in particolare, a Sez. 3, n. 36695 del 3/07/2019, Palumbo, n.m. e Sez. 3, n. 36694 del 3/07/2019, Candela ed altri, n.m., che si segnalano per lo sforzo di illustrare i profili di fatto emergenti dalle decisioni di merito al fine di dimostrare la loro insufficienza ai fini del giudizio sulla proporzionalità della misura e, dunque, la necessità del giudizio di rinvio, nonché a Sez. 3, n. 43119 del 17/07/2019, Falconi, n.m
Il fondamento normativo del nuovo giudizio è stato individuato da altre pronunce sull’applicazione analogica della disciplina di ipotesi diverse di confisca, piuttosto che sull’art. 578-bis cod. proc. pen., peraltro comunque richiamato nella sola ratio normativa.
Si allude alla tesi espressa da Sez. 3, n. 31282, del 27/3/2019, Grieco e altri, cit. che ha disposto l’annullamento senza rinvio della sentenza di appello, che aveva confermato la condanna già inflitta dal giudice di primo grado, per essere il reato di lottizzazione estinto per prescrizione, ritenendo compatibile tale decisione con l’annullamento con rinvio della medesima sentenza impugnata limitatamente alle statuizioni relative alla confisca.
In questa decisione, la Corte ha premesso che, in considerazione delle plurime modalità di realizzazione del reato di lottizzazione abusiva (che può assumere la forma negoziale, materiale o mista) e del bene oggetto di tutela penale (il monopolio comunale sulle scelte di programmazione urbanistica del territorio), la misura della confisca va limitata a quei beni che siano stati interessati dall’attività illecita, evitando una generalizzata ablazione della proprietà che, in quanto sproporzionata ed eccessivamente onerosa, si porrebbe in contrasto con l’art. 1, del Prot. 1. In particolare, richiamando Sez. 3, n. 830 del 23/01/2019, Alessandrini, 272756, è stato rilevato che «se la lottizzazione abusiva riguarda “quei beni immobili (terreni e manufatti) direttamente interessati dall’attività lottizzatoria e ad essa funzionali” “deve conseguentemente ritenersi conforme ai principi convenzionali la confisca di tutte le aree abusivamente lottizzate, indipendentemente dalla presenza o meno di volumi, mentre tale misura ablativa non potrebbe mai riguardare aree completamente estranee all’attività lottizzatoria abusiva nel senso dianzi delineato, ponendosi una simile evenienza platealmente in contrasto con i richiamati principi”».
Il giudizio circa l’estensione della confisca, tuttavia, costituisce una valutazione di merito preclusa alla Corte di legittimità. S’impone, pertanto, l’annullamento della sentenza impugnata che abbia omesso tale giudizio nella parte relativa alla statuizione sulla confisca.
Secondo la sentenza in commento, l’annullamento con rinvio limitatamente alla confisca non è esclusa dal contestuale annullamento senza rinvio della sentenza per essere il reato urbanistico prescritto per diverse ragioni.
In primo luogo, sebbene la prescrizione del reato impedisce di regola la prosecuzione del processo, determinando l’obbligo dell’immediata declaratoria della causa di non punibilità ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen., detta regola non può trovare applicazione allorquando il processo penale debba proseguire con riguardo a profili di accertamento funzionali all’adozione di pronunce che la legge demanda al giudice penale e che sono diverse, e ulteriori, rispetto alla cognizione sull’azione penale strettamente intesa, preclusa dopo l’intervenuta estinzione del reato per prescrizione.
Si pensi, ad esempio, all’applicazione della misura di sicurezza patrimoniale della confisca, che, per l’art. 236, comma secondo, cod. pen., non è impedita dalla sopravvenuta estinzione del reato. Nel caso di estinzione del reato, infatti, il giudice dispone di poteri di accertamento finalizzati all’applicazione della confisca non solo sulle cose oggettivamente criminose per loro intrinseca natura (art. 240, comma secondo, n. 2, cod. pen.), ma anche su quelle che sono considerate tali dal legislatore per il loro collegamento con uno specifico fatto - reato (Sez. 1, n. 2453 del 04/12/2008, dep. 2009, Squillante e a., Rv. 243027; in senso conforme, Sez. 2, n. 32273 del 25/05/2010, Pastore, Rv. 248409).
La prosecuzione del giudizio ai soli fini della statuizione sulla confisca, nonostante l’intervenuta prescrizione del reato di lottizzazione, secondo la giurisprudenza di legittimità, deve avvenire anche con riguardo alla pronuncia sulla falsità di documenti attribuita al giudice penale dall’art. 537 cod. proc. pen. (cfr. Sez. 3, n. 7908 del 15/01/2015, Onori, Rv. 262516, secondo cui, in tema di sentenza dichiarativa di estinzione del reato per intervenuta prescrizione, la falsità di un documento può essere dichiarata, ai sensi dell’art. 537 cod. proc. pen., solo se le risultanze processuali siano tali da consentire di affermare che essa sia stata positivamente accertata, sulla base delle norme che regolano l’acquisizione e la valutazione della prova nel processo penale - ha annullato con rinvio per nuovo esame la statuizione di falsità delle attestazioni contenute in dichiarazioni sostitutive di atti di notorietà allegate a domande di condono edilizio, con riferimento ad imputati per i quali era stata applicata, nella fase di merito, la causa estintiva; cfr. anche, Sez. 3, n. 5789 del 18/12/2007, dep. 2008, Nappi, Rv. 238797; più di recente, Sez. 2, n. 13911 del 17/03/2016, Lo Schiavo, Rv. 266389, secondo cui «in tema di delitti contro la fede pubblica, in caso di dichiarazione di estinzione del reato per prescrizione, è comunque necessario procedere all’accertamento della eventuale falsità del documento, sia al fine di applicare la misura di sicurezza patrimoniale prevista dall’art. 240, comma secondo, n. 2, cod. pen, che al fine di pronunciare la dichiarazione prevista dall’art. 537, comma 4, cod. proc. pen. con conseguente annullamento con rinvio della sentenza d’appello che, limitandosi a ritenere insufficiente l’accertamento emergente dalla motivazione della sentenza di primo grado, non aveva effettuato un’autonoma valutazione sulla falsità dei titoli oggetto del giudizio».
Secondo Sez. 3, n. 31282, del 27/3/2019, Grieco e altri, cit., inoltre, la regola della prosecuzione del giudizio nonostante l’estinzione del reato ai soli fini della valutazione della legittimità della confisca trova autorevole avallo nella pronuncia Sez. U, n. 38834 del 10/07/2008, De Maio, secondo la quale che, rispetto all’obbligo dell’immediata declaratoria di estinzione del reato, la circostanza che il giudice possa procedere ad accertamenti ai fini dell’adozione della misura della confisca non può affatto considerarsi in linea di principio “anomala”.
Nella motivazione della sentenza Sez. U “De Maio”, infatti, è stato illustrato come molteplici modifiche legislative ed incisive evoluzioni giurisprudenziali abbiano portato a riconoscere al giudice ampi poteri di accertamento del fatto nel caso in cui ciò sia necessario ai fini di un pronuncia sull’azione civile, tanto che la parte civile può proporre impugnazione, ai soli effetti della responsabilità civile, contro la sentenza di proscioglimento pronunciata nel giudizio (art. 576 cod. proc. pen.), con la conseguenza che il giudice può pervenire all’affermazione della responsabilità dell’imputato, anche se nei confronti di costui sia dichiarata l’estinzione del reato per prescrizione, per un fatto previsto dalla legge come reato, che giustifica la condanna alle restituzioni ed al risarcimento del danno (Sez. U, n. 27614 del 29/03/2007, Lista, Rv. 236537; Sez. U, n. 25083 del 11/07/2006, Negri, Rv. 233918; Sez. 2, n. 897 del 24/10/2003, dep. 2004, Cantamessa, Rv. 227966).
Secondo la sentenza in commento, inoltre, anche la legislazione speciale riconosce al giudice la possibilità di procedere ad accertamenti nonostante l’intervenuta causa di estensione del reato.
Ad esempio, proprio in tema di lottizzazione abusiva, l’art. 44, comma 2, d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, stabilisce che il giudice penale dispone la confisca dei terreni abusivamente lottizzati e delle opere abusivamente costruite, con la “sentenza definitiva” che “accerta che vi è stata lottizzazione abusiva”. Tale disposizione viene interpretata nel senso che essa prevede l’obbligatorietà della confisca indipendentemente da una pronuncia di condanna, in conseguenza all’accertamento giudiziale della sussistenza del reato di lottizzazione abusiva, salvo il caso di assoluzione per insussistenza del fatto (da ultimo, Sez. 3, n. 9982 del 21/11/2007, dep. 2008, Quattrone, Rv. 238984; Sez. 3, n. 37086 del 7/07/2004, Perniciaro, Rv. 230031).
L’art. 301, comma primo, d.P.R. 23/01/1973, n. 43, inoltre, dispone che “nei casi di contrabbando è sempre ordinata la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono l’oggetto ovvero il prodotto o il profitto”. Al riguardo, la giurisprudenza è conforme nel ritenere che la confisca possa essere disposta sebbene il reato sia dichiarato estinto per prescrizione, sempre che non sia escluso il rapporto tra la res ed il fatto di contrabbando (da ultimo, Sez. 3, n. 38724 del 21/09/2007, Del Duca, Rv. 237924; Sez. 3, n. 4739 del 26/11/2001, dep. 2002, Vanni, Rv. 221054.
La compatibilità con le regole generali della prosecuzione del processo penale a fini diversi da quelli dell’applicazione delle sanzioni penali strettamente intese, quando ciò sia necessario con riguardo ad accertamenti demandati al giudice penale e nonostante l’intervenuta prescrizione del reato (nella specie intervenuta nel giudizio d’impugnazione), trova ulteriori conferme in successivi orientamenti della giurisprudenza della Sezioni unite.
Si allude, da un lato, alla decisione con cui, tra l’altro, si è affermato che il giudice, nel dichiarare la estinzione del reato per intervenuta prescrizione, può disporre, a norma dell’art. 240, comma secondo, n. 1, cod. pen. la confisca del prezzo e, ai sensi dell’art. 322-ter cod. pen., la confisca diretta del prezzo o del profitto del reato a condizione che vi sia stata una precedente pronuncia di condanna e che l’accertamento relativo alla sussistenza del reato, alla penale responsabilità dell’imputato e alla qualificazione del bene da confiscare come prezzo o profitto rimanga inalterato nel merito nei successivi gradi di giudizio (Sez. U, n. 31617 del 26/06/2015, Lucci, Rv. 264434).
La necessità della prosecuzione del giudizio, nonostante la sopravvenuta causa di estinzione del reato, poi, è stata prevista dal legislatore nell’art. 578-bis cod. proc. pen. secondo cui, laddove ne ricorrano le condizioni e siano necessari ulteriori accertamenti in fatto ai fini della decisione sulla confisca, occorre la prosecuzione del giudizio d’impugnazione a reato prescritto, così come l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata da parte della Corte di legittimità, al pari di quanto comunemente si ritiene, sia pur con necessità d’investire il giudice civile ex art. 622 cod. proc. pen., nel caso dell’analoga fattispecie di cui all’art. 578 cod. proc. pen.
Nella Sez. 3, n. 31282, del 27/3/2019, Grieco e altri, cit., infine, per giustificare il provvedimento di annullamento con rinvio limitatamente alla confisca e, dunque, la necessità del proseguimento del processo penale, pur dopo l’intervenuta prescrizione del reato, è stata richiamata ampiamente la motivazione di Sez. 3, n. 53692 del 13/07/2017, Martino, Rv. 272791. In tale sentenza, è stato precisato che «la questione - circa la compatibilità di un completo accertamento oggettivo e soggettivo della responsabilità da espletare nel contraddittorio delle parti secondo le regole del processo equo (art. 6 CEDU e art. 111 Cost.) con l’obbligo imposto al giudice, in via generale, dall’art. 129 c.p.p. di immediata declaratoria di una causa di non punibilità - impone poi di considerare che il riconoscimento, in capo al giudice, di poteri di accertamento - finalizzati all’adozione di una misura che incide negativamente sulla posizione dell’imputato (seppur nella sola sfera patrimoniale dell’interessato) e che presuppone l’accertamento della penale responsabilità del soggetto - rende recessivo il principio generale dell’obbligo di immediata declaratoria di una causa estintiva del reato rispetto al correlativo e coesistente obbligo di accertamento. Ciò in quanto - essendo proprio detto accertamento richiesto dalla legge (D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, comma 2) e dovendo la disposizione essere interpretata da parte del giudice nazionale in senso convenzionalmente conforme nel senso che, anche in presenza di una causa estintiva del reato, è necessario, per disporre la confisca urbanistica, procedere all’accertamento del reato (nei suoi estremi oggettivi e soggettivi) e verificare la sussistenza di profili quanto meno di colpa nei soggetti incisi dalla misura - il principio generale risulta implicitamente derogato dalle disposizioni speciali che prevedono l’applicazione di misure le quali, per essere disposte, richiedono inevitabilmente la prosecuzione del processo e la conseguente acquisizione delle prove in funzione di quell’accertamento strumentale all’emanazione del provvedimento finale» (così, Sez. 3, n. 53692 del 13/07/2017, Martino, cit.; nello stesso senso, Sez. 3, n. 43630 del 25/06/2018, Tammaro, Rv. 274196).
Secondo la sentenza Sez. 3, n. 31282, del 27/3/2019, Grieco e altri, cit., che ha richiamato anche su questo punto Sez. 3, n. 53692 del 13/07/2017, Martino, cit. in conclusione, l’unico limite a che il processo penale possa progredire limitatamente ad un’azione di accertamento finalizzata alla sola decisione sulla confisca urbanistica è che il reato non risulti estinto prima dell’esercizio dell’azione penale, «poichè in tal caso è impedito al giudice di compiere, nell’ambito di un giudizio che assicuri il contraddittorio e la piena partecipazione degli interessati, l’accertamento del reato (nei suoi estremi oggettivi e soggettivi) e della sussistenza di profili quanto meno di colpa nei soggetti incisi dalla misura, presupposto necessario per disporre la confisca anche in presenza di una causa estintiva del reato» (Sez. 3, n. 53692 del 13/07/2017, Martino, cit.; cfr. anche Sez. 3, n. 35313 del 19/05/2016, Imolese, Rv. 267534).
L’indirizzo appena illustrato è stato poi ribadito da altre pronunce della Corte (Sez. 3, n. 38484 del 5/07/2019, Giannattasio ed altro, cit.; Sez. 3, n.47094 del 12/09/2019, Ventura; Sez. 3, n. 47280 del 12/09/2019, Cancelli ed altro, in via di mass.), che hanno annullato la sentenza di appello che aveva confermato la confisca urbanistica limitatamente alla statuizione relativa a tale misura, dichiarando inammissibili o rigettando nel resto i ricorsi.
In queste pronunce, la Corte ha precisato che l’annullamento con rinvio risulta necessitato proprio dalla esigenza di garantire una interpretazione “convenzionalmente” orientata della norma di cui all’art. 44, comma secondo, d.P.R. n. 380 del 2001, secondo l’esegesi fatta propria dalla Corte EDU dell’art. 1 del Protocollo n. 1 alla CEDU. La Corte di Strasburgo, infatti, ha sempre tenuto in particolare considerazione l’esigenza di un giusto equilibrio tra l’ingerenza sul diritto del singolo e le esigenze di salvaguardia dell’interesse generale, considerando conformi ai principi della Convenzione, pur tenendo conto della specificità dei singoli casi sottoposti alla sua attenzione, interventi radicali e definitivi in spregio alle previsioni della pianificazione urbanistica, effettuando tale apprezzamento attraverso un’analisi globale dei vari interessi, anche mediante la verifica del comportamento tenuto dei mezzi utilizzati dallo stato, delle modalità di attuazione del provvedimento, specie per quanto riguarda l’obbligo delle autorità di agire in modo tempestivo, corretto e coerente. A tal proposito, «la misura ablativa non rispetta sicuramente i criteri di proporzionalità se applicata a terreni che non sono direttamente interessati dall’attività lottizzatoria e che il giudice del merito può senz’altro individuare, limitando la misura alle sole aree abusivamente lottizzate, venendo assicurate agli interessati, per le diverse ipotesi, anche in sede di esecuzione, le garanzie del contraddittorio, restando la confisca e la conseguente perdita della proprietà una misura residuale, assunta dal giudice penale sempreché non sia già intervenuta l’autorità amministrativa e soggetta ai diversi esiti come in precedenza ricordato». Il rispetto del criterio di proporzionalità, pertanto, presuppone un accertamento di merito che, ove non sia stato compiuto, deve essere svolto dalla Corte di appello in sede di rinvio, in un procedimento in cui può essere assicurato il contraddittorio.
La Corte, quindi, ha ribadito che l’obbligo dell’immediata declaratoria della causa di non punibilità ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen., e, dunque, anche per l’intervenuta prescrizione, non può trovare applicazione allorquando il processo penale debba proseguire con riguardo a profili di accertamento funzionali all’adozione di pronunce che la legge demanda al giudice penale e che sono diverse, e ulteriori, rispetto alla cognizione sull’azione penale strettamente intesa, desumendo tale principio:
- dalla disciplina della misura di sicurezza patrimoniale della confisca, che, per l’art. 236, secondo comma, cod. pen. (che esclude l’applicazione della regola generale statuita nell’art. 210, primo comma, cod. pen.) non è impedita dalla sopravvenuta estinzione del reato;
- dalla disciplina relativa alla pronuncia sulla falsità di documenti attribuita al giudice penale dall’art. 537 cod. proc. pen., secondo cui detta falsità può essere dichiarata anche in caso di prescrizione del reato, sole se le risultanze processuali siano tali da consentire di affermare che essa sia stata accertata;
- dall’art. 425, comma 4, cod. proc. pen., secondo cui il giudice dell’udienza preliminare può pronunciare sentenza di non luogo a procedere anche se ritiene che dal proscioglimento dovrebbe conseguire l’applicazione della misura di sicurezza della confisca;
- dalla legislazione speciale, come interpretata dalla costante giurisprudenza di legittimità, in tema proprio di confisca urbanistica, in tema di confisca conseguente alla violazione delle leggi doganali ex art. 301 d.P.R. n. 43 del 1973 (rispetto alla quale l’indirizzo consolidato è nel senso che la misura possa essere disposta sebbene il reato venga dichiarato estinto per prescrizione, sempre che non venga escluso il rapporto tra la res ed il fatto di contrabbando, così da ultimo, Sez. 3, n. 38724 del 21/09/2007, Del Duca, Rv. 237924).
Secondo queste decisioni, la linea evolutiva circa la compatibilità con le regole generali della prosecuzione del processo penale a fini diversi da quelli dell’applicazione delle sanzioni penali strettamente intese, trova ulteriori conferme:
- nell’indirizzo delle Sezioni unite secondo cui il giudice, nel dichiarare l’estinzione del reato per intervenuta prescrizione, può disporre, a norma dell’art. 240, comma secondo, n. 1 cod. pen., la confisca del prezzo e, ai sensi dell’art. 322 ter cod. pen., la confisca diretta del prezzo o del profitto del reato a condizione che vi sia stata una precedente pronuncia di condanna e che l’accertamento relativo alla sussistenza del reato, alla penale responsabilità dell’imputato e alla qualificazione del bene da confiscare come prezzo o profitto rimanga inalterato nel merito nei successivi gradi di giudizio (Sez. U, n. 31617 del 26/06/2015, Lucci, Rv. 264434);
- nella previsione di cui all’art. 578-bis cod. proc. pen., secondo cui, laddove ne ricorrano le condizioni e siano necessari ulteriori accertamenti in fatto ai fini della decisione sulla confisca, è consentita la prosecuzione del giudizio d’impugnazione a reato prescritto, così come l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata da parte della Corte di legittimità, al pari di quanto comunemente si ritiene, sia pur con necessità d’investire il giudice civile ex art. 622 cod. proc. pen., nel caso dell’analoga fattispecie di cui all’art. 578 cod. proc. pen. (cfr. Sez. U, n. 40109 del 18/07/2013, Sciortino, Rv. 256087).
La possibilità di rinvenire nel codice di rito una disposizione che giustifichi lo svolgimento di un nuovo giudizio di merito nonostante l’intervenuta prescrizione del reato di lottizzazione è stata esclusa dall’ordinanza Sez. 3, n. 42042 del 22/10/2019, Perroni, con la quale è stato rimesso alle Sezioni Unite il seguente quesito: “Se, in caso di declaratoria di estinzione per prescrizione del reato di lottizzazione abusiva, sia consentito l’annullamento con rinvio limitatamente alla statuizione sulla confisca ai fini della valutazione da parte del giudice di rinvio della proporzionalità della misura, secondo il principio indicato dalla sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’uomo 28 giugno 2018, G.I.E.M. S.r.l. e altri c. Italia”.
Nell’ordinanza di rimessione, invero, non è stato illustrato, non è stata disconosciuta la necessità di un nuovo giudizio di merito ai fini della valutazione della legittimità della confisca e, segnatamente, della proporzionalità della limitazione del diritto di proprietà rispetto alla tutela di interessi confliggenti, essendo invece, stata posta in discussione la possibilità di rinvenire una disposizione processuale che permetta l’annullamento con rinvio alla Corte di appello della sola statuizione sulla confisca.
L’art. 6, comma 4, d.lgs. 1/03/2018, n. 21, recante “Disposizioni di attuazione del principio di delega della riserva di codice nella materia penale a norma dell’articolo 1, comma 85, lettera q), della legge 23/06/2017, n. 103”, in particolare, ha introdotto l’art. 578-bis cod. proc. pen., intitolato “Decisione sulla confisca in casi particolari nel caso di estinzione del reato per amnistia o per prescrizione”. Secondo questa disposizione, “Quando è stata ordinata la confisca in casi particolari prevista dal primo comma dell’articolo 240-bis del codice penale e da altre disposizioni di legge o la confisca prevista dall’articolo 322-ter del codice penale, il giudice di appello o la corte di cassazione, nel dichiarare il reato estinto per prescrizione o per amnistia, decidono sull’impugnazione ai soli effetti della confisca, previo accertamento della responsabilità dell’imputato”.
Nell’ordinanza di rimessione, è stato escluso che la norma illustrata possa giustificare la restituzione degli atti alla Corte di appello per la valutazione indicata.
È stato osservato che l’art. 578-bis cod. proc. pen. è frutto del trasferimento nel codice di rito, ad opera del d.lgs. n. 21 del 2018 (che ha attuato la delega per la riserva di codice), dell’art. 12-sexies, comma 4-septies, d.l. n. 306 del 1992 (comma peraltro introdotto dalla legge 21/10/2017, n. 161, di riforma del Codice antimafia) che disciplina la cd. confisca allargata.
La disposizione richiama espressamente l’art. 240-bis cod. pen. che disciplina la confisca in “casi particolari”, tra le quali non rientra la confisca urbanistica. La stessa disposizione, poi, fa riferimento alla confisca prevista “da altre disposizioni di legge”. Tra queste, però, non potrebbe essere ricompresa l’art. 44, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001 perché l’inciso deve riferirsi piuttosto al reato di cui all’art. 295, comma 2, d.P.R. n. 43 del 1973 ed a quello di cui all’art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990, in quanto il nuovo art. 3-bis cod. pen. ha stabilito che, se una materia è disciplinata in un testo unico, le disposizioni che la riguardano devono essere inserite all’interno di tale corpus normativo e nei testi unici in materia di stupefacenti e di contrabbando sono state previste nuove disposizioni sulla confisca cd. allargata.
Secondo l’ordinanza di rimessione, pertanto, «l’art. 578-bis cod. proc. pen., è stato espressamente formulato in modo che ne fosse consentita applicazione anche ai reati in materia di contrabbando e di sostanze stupefacenti». In questo modo si spiega l’inciso dopo il richiamo alla confisca di cui all’art. 240-bis cod. pen. “e da altre disposizioni di legge”, che, di conseguenza, non può giustificare l’annullamento con rinvio al giudice di appello della statuizione relativa alla confisca urbanistica.
È poi precisato che l’art. 1, comma 4, lett. f), della legge 9/01/2019, n. 3, recante “Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici”, ha aggiunto alle ipotesi di confisca “allargata” anche quella per equivalente, con l’introduzione dell’inciso “o la confisca prevista dall’art. 322-ter del codice penale”. L’uso della congiunzione disgiuntiva “o”, in particolare, renderebbe evidente sia la diversa natura della natura ablatoria rispetto alla confisca di cui all’art. 240-bis cod. pen., sia, per quello che più rileva nel caso di specie, la voluntas legis di limitare tassativamente l’applicabilità della norma processuale alle specifiche confische menzionate.
Un dato che viene rimarcato per escludere che possa farsi ricorso all’art. 578-bis cod. proc. pen. è rappresentato dalla differente natura della confisca urbanistica rispetto a quella “allargata” o, meglio, “per sproporzione” ovvero a quella “per equivalente”. Il profilo di differenza sarebbe desumibile dal tratto della pertinenzialità rispetto al reato di lottizzazione abusiva che, come è noto, manca sia nella confisca per sproporzione, sia in quella per equivalente.
La natura di “sanzione penale” della confisca urbanistica, inoltre, esclude che la disciplina processuale della stessa possa essere assimilata a quella della confisca della res illicita ex art. 240 cod. pen. che ha natura di misura di sicurezza. Ad esempio, nel caso della confisca di sostanza stupefacente o di materiale pedopornografico, la prosecuzione del giudizio penale ai soli fini della applicazione della misura di sicurezza, nonostante l’intervenuta prescrizione del reato, è giustificata dalla natura intrinsecamente illecita del bene attinto e dalla sua pericolosità. rispetto all’obbligo di immediata declaratoria di estinzione del reato, pertanto, non è del tutto anomalo che il giudice di merito possa procedere ad ulteriori accertamenti (Sez. U n. 38834 del 10/7/2008, PM in proc. De Maio, cit.). Lo stesso non potrebbe affermarsi, in mancanza di una disposizione processuale che consenta alla Corte di Cassazione che pronuncia sentenza di annullamento senza rinvio per prescrizione del reato di lottizzazione abusiva, di disporre anche il rinvio al giudice di appello al fine di verificare la conformità della disposta confisca al criterio di proporzionalità imposto dalla sentenza della Corte EDU G.I.E.M.
È stato aggiunto, poi, che, nel caso in cui si ritenesse che è proprio l’art. 578-bis cod. proc. pen. a legittimare l’annullamento con rinvio ai fini della valutazione della proporzionalità della confisca urbanistica rispetto al reato di lottizzazione accertato, la norma potrebbe essere ritenuta costituzionalmente illegittima per eccesso di delega. L’art. 1, comma 85, lettera q), della legge 23/06/2017, n. 103 ha introdotto il principio di delega della riserva di codice nella materia penale sostanziale. Il decreto legislativo delegato, invece, ha inserito una norma nel codice di procedura penale, per di più di portata innovativa, non compresa tra i principi e criteri direttivi della legge delega.
Secondo l’ordinanza di rimessione, pertanto, emergerebbe un evidente vizio di eccesso di delega per contrasto con l’art. 76 Cost., rispetto al quale dovrebbe essere sollevata questione di legittimità costituzionale, rilevante e non manifestamente infondata, con richiesta alla Corte Costituzionale di decisione “eliminatoria” della norma.
La fonte normativa che, nel caso dell’accertamento della intervenuta estinzione per prescrizione del reato di lottizzazione, permette l’annullamento con rinvio della sola statuizione relativa alla confisca urbanistica, non potrebbe individuarsi neppure nell’art. 622 cod. proc. pen., del quale non può procedersi ad un’applicazione analogica. Quest’ultima norma, infatti, si riferisce soltanto all’annullamento della sentenza ai soli effetti civili e, comunque, prevede il rinvio “quando occorre al giudice civile competente per valore in grado di appello, anche se l’annullamento ha per oggetto una sentenza inappellabile”.
La sentenza della Corte EDU “GIEM”, come è stato evidenziato, ha affrontato anche il profilo attinente alla tutela dei terzi proprietari dei terreni abusivamente lottizzati e delle opere abusivamente costruite, rimasti estranei al giudizio, ritenendo illegittima la confisca dei loro beni se disposta in assenza dell’accertamento della loro colpevolezza e senza che sia stata consentita la loro partecipazione al giudizio. Nel caso posto al vaglio della Corte, infatti, i legali rappresentanti della società G.I.E.M. S.r.l. non erano stati imputati nel procedimento relativo alla lottizzazione abusiva, né la società era stata parte del giudizio, esulando il reato contestato da quelli di cui al d.lgs. n. 231 del 2001 sulla responsabilità degli enti (mentre nel caso delle restanti società ricorrenti, invece, vi era stata quanto meno la partecipazione al procedimento penale dei loro amministratori).
Anche questo tema è stato preso in esame dalla giurisprudenza di legittimità successiva alla pronuncia della Corte di Strasburgo, che si è soffermata, in particolare, sulla posizione della persona giuridica titolare “reale” o “fittizia” dei terreni illecitamente lottizzati o dei beni abusivamente costruiti.
Secondo Sez. 3, n. 42115 del 19/06/2019, Capital service S.p.a., Rv. 277057, in particolare, il principio espresso dalla Corte di Strasburgo nella sentenza G.I.E.M. S.r.l. riguarda «la posizione della persona giuridica quale vero e proprio “terzo”, nel senso di soggetto del tutto estraneo ai fatti per cui si procede in sede penale e, appunto per questo, in linea di principio, e salvo prova contraria, sostanzialmente “in buona fede”, tanto che la stessa sentenza … (la sentenza G.I.E.M., n.d.r.) sottolinea la necessità di verificare se le persone fisiche sottoposte a processo penale per l’abusiva lottizzazione abbiano agito e siano state processate in quanto tali o in quanto legali rappresentanti delle società».
In questa prospettiva, secondo Sez. 3, n. 8350 del 23/01/2019, Alessandrini, Rv. 275756 – 02, cit., pertanto, non sono soggetti terzi, estranei al reato, né la persona giuridica proprietaria dell’area abusivamente lottizzata, che riceve i vantaggi e le utilità conseguenti al reato, essendo normalmente committente degli interventi in essa realizzati e parte degli atti negoziali relativi e di ogni altra attività che viene attuata, né quella che è titolare apparente dei beni, la quale rappresenta solo lo schermo attraverso il quale il reo, effettivo proprietario degli stessi, agisce nel proprio esclusivo interesse, difettando, in entrambi i casi, il necessario requisito della buona fede di tale soggetto giuridico.
Peculiare appare la posizione del terzo acquirente dei beni immobili oggetto del reato di lottizzazione abusiva, che sia rimasto analogamente estraneo al giudizio. Secondo Sez. 3, n. 36310 del 5/07/2019, Motisi, in via di mass., la verifica della sussistenza della sua buona fede, che preclude l’adozione di un provvedimento di confisca, presuppone non solo che il terzo abbia partecipato inconsapevolmente all’operazione illecita, e che, dunque, non sia concorrente nel reato, ma anche che abbia adempiuto ai doveri di informazione e di conoscenza richiesti dall’ordinaria diligenza. Non è in buona fede, pertanto, il terzo che non abbia acquisito elementi circa le previsioni urbanistiche e della pianificazione di zona, in quanto con tale imprudente e negligente condotta si è posto colposamente in una situazione di inconsapevolezza che apporta un determinante contributo causale all’attività illecita del venditore.
Nella stessa sentenza Sez. 3, n. 36310 del 5/07/2019, Motisi, cit., peraltro, è stato precisato che non basta a sostenere la mancanza della buona fede del terzo, che vale a giustificarne l’assoggettamento alla confisca, la sola ricostruzione di una rete di rapporti personali con i concorrenti nel reato di lottizzazione, sia pure particolarmente qualificati come il legame di parentela, a maggior ragione se l’accertamento dell’illegittimità della lottizzazione è intervenuto a distanza di anni dall’acquisto del bene da parte dello stesso terzo. La posizione dei terzi acquirenti degli immobili deve essere valutata prescindendo da automatismi, non potendo sostenersi la loro mala fede per il solo fatto di essere legati da un rapporto di parentela con un soggetto affiliato ad un’organizzazione criminale di stampo mafioso, direttamente collegato agli assetti imprenditoriali che avevano realizzato la lottizzazione abusiva (Sez. 3, n. 48200 del 25/09/2019, Cimino ed altro).
La buona fede dei terzi acquirenti e sub-acquirenti, inoltre, è stata esclusa in considerazione delle modalità delle singole compravendite, in un caso in cui la vendita riguardava delle quote indivise e un’estensione dei singoli lotti incompatibile con la destinazione agricola dichiarata nell’atto (Sez. 3, n. 44517 del 17/07/2019, D’Alba, in via di mass.); analogamente, è stata reputata non plausibile la qualificazione come terzi in buona fede di coloro che, in presenza di certificato di destinazione urbanistica agricola e senza essere agricoltori, avevano acquistato i terreni e, poi, sulla base di un permesso di costruire volturato, provveduto ad edificare (Sez. 3, n. 41942 del 19/06/2019, Capoluongo ed altri, n.m.).
La Corte di cassazione, nel 2019, ha precisato che la mancata partecipazione al giudizio della persona giuridica in nome e per conto del quale l’attività illecita è stata posta in essere non osta alla confisca dei suoi beni, ove in detto giudizio sia stata accertata la lottizzazione, in quanto a detto non può attribuirsi la qualifica di terzo estraneo, non riscontrandosi il necessario presupposto della buona fede (Sez. 3, n. 42115 del 19/06/2019, Capital service S.p.a., cit.).
In particolare, qualora l’attività illecita sia stata posta in essere dagli amministratori “di fatto” di una persona giuridica e non sia frutto di un’autonoma iniziativa di costoro implicante la rottura del rapporto organico, sono soggetti a confisca i beni dell’ente in nome e per conto del quale l’attività è stata compiuta, non potendosi riconoscere a quest’ultimo la qualifica di terzo estraneo, in quanto difetta il necessario requisito della buona fede (Sez. 3, n. 42115 del 19/06/2019, Capital service S.p.a., cit.).
Il solo fatto dell’assoluzione degli amministratori di diritto, ritenuti estranei alle condotte lottizzatorie, inoltre, non basta per attribuire alla società acquirente dei beni oggetto del reato di lottizzazione la qualifica di terzo in buona fede, perché il giudizio sull’estraneità del terzo deve effettuarsi sulla base di parametri che tengono conto della concreta realtà storica dei fatti, rispetto alla quale rileva l’azione per conto della società degli amministratori di diritto, e non dei dati meramente formali (Sez. 3, n. 42115 del 19/06/2019, Capital service S.p.a., cit.).
La Corte di cassazione ha anche affrontato il tema della individuazione degli strumenti che l’ordinamento appresta per la tutela del terzo rimasto estraneo al processo di cognizione avverso il provvedimento di confisca urbanistica emesso dal giudice penale.
Secondo Sez. 3, n. 17399 del 20/03/2019, Unicredit Leasing S.p.a., n.m., il principio espresso dall’art. 7 CEDU, come interpretato nella sentenza della Corte EDU nella causa G.I.E.M. S.r.l. e altri contro Italia, è rispettato per mezzo della partecipazione del terzo, persona giuridica, al procedimento di esecuzione, in cui detto terzo può dedurre tutte le questioni, di fatto e di diritto, che avrebbe potuto far valere nel giudizio di merito, cui è rimasto estraneo. Nella stessa sentenza, la Corte ha aggiunto che, pur non trovando applicazione l’ipotesi di cui all’art. 104-bis, comma 1-quinquies, disp. att. cod. proc. pen., che invece riguarda la disciplina del sequestro finalizzata alla confisca “allargata” o “per sproporzione” di cui all’art. 240 bis cod. pen., prima del passaggio in giudicato della sentenza di condanna, il terzo estraneo, sia esso persona fisica o persona giuridica, proprietario del bene oggetto di un provvedimento ablatorio, ha comunque la possibilità di tutelare le proprie ragioni già nel giudizio cognizione. Il terzo, formalmente proprietario del bene già in sequestro, di cui sia stata disposta con sentenza la confisca, infatti, se rimasto estraneo al processo, può chiedere al giudice della cognizione, prima che la pronuncia sia divenuta irrevocabile, la restituzione del bene e, in caso di diniego, proporre appello dinanzi al tribunale del riesame (Sez. U, n. 48126 del 20/07/2017, Muscari e altro, Rv. 270938).
Negli stessi termini Sez. 3, n. 42115 del 19/06/2019, Capital service S.p.a., cit. ha ribadito che la tutela del terzo, nei confronti del quale, proprio per la mancata partecipazione al giudizio, la sentenza irrevocabile che ha accertato la lottizzazione abusiva non fa stato, è sostanzialmente assicurata dalla possibilità di far valere davanti al giudice dell’esecuzione i diritti vantati su un bene confiscato (da ultimo, conforme Sez. 3, n. 43104 del 10/07/2019, Munari Domenico, secondo cui nell’ipotesi in cui il terzo non abbia avuto modo di far valere le proprie pretese davanti al giudice della cognizione, soccorre la competenza generale del giudice dell’esecuzione; cfr. anche Sez. 1, n. 4096/19 del 24/10/2018, Lacatus, Rv. 276163; Sez. 1, n. 27201 del 30/5/2013, Can, Rv. 257599; Sez. 1, n. 3311/12 del 11/11/2011, Lonati, Rv. 251845).
Nel procedimento di esecuzione, in particolare, è assicurato il contraddittorio e il diritto di difesa, anche attraverso la nomina di un difensore di ufficio all’interessato che ne sia privo, essendo previsto lo stesso debba essere sentito se ne fa richiesta ed essendo riconosciuti al giudice dell’esecuzione ampi poteri istruttori, tanto che egli può richiedere alle autorità competenti i documenti e le informazioni di cui abbia bisogno e, se occorre, assumere le prove, sempre nel rispetto del contraddittorio, ai sensi dell’art. 666, comma 5, cod. proc. pen.
Sotto altro profilo, poi, nel procedimento di esecuzione è altresì assicurata la pubblicità dell’udienza, atteso che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 109 del 2015, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 666, comma 3, 667, comma 4, e 676 cod. proc. pen. nella parte in cui non consentono che, su istanza degli interessati, il procedimento di opposizione contro l’ordinanza in materia di applicazione della confisca si svolga, davanti al giudice dell’esecuzione, nelle forme dell’udienza pubblica. In sintesi, secondo la Corte di legittimità, «il sistema di garanzie processuali concessegli nel sistema normativo attualmente vigente, tra cui appunto la possibilità di esperire l’incidente di esecuzione, è da ritenersi conforme ai principi costituzionali e convenzionali anche nei casi in cui non sia prevista la sua partecipazione al giudizio di cognizione, non imponendosi affatto l’applicazione analogica o evolutiva di altri modelli processuali, e non traendosi contrarie indicazioni dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo» (così, Sez. 3, n. 42115 del 19/06/2019, Capital service S.p.a., cit.).
Per completare l’esposizione dei principali arresti della giurisprudenza di legittimità del 2019 in tema di lottizzazione abusiva appare opportuno anche riferire che la Corte, con la sentenza Sez. 3, n. 36695 del 3/07/2019, Palumbo, cit., ha ribadito che è pacifica la natura permanente della contravvenzione di lottizzazione abusiva. La permanenza cessa con la sentenza di primo grado (in precedenza, Sez. 3, n. 19732 del 26/04/2007, Monacelli, Rv. 236750). Nel contempo, la stessa sentenza ha precisato che, in tema di reato permanente, quando l’ipotesi di incolpazione sia formulata a “contestazione chiusa”, ovvero con l’indicazione della data iniziale e finale dell’attività delittuosa contestata, il protrarsi dell’offesa al di là dei limiti temporali fissati impone un’ulteriore specifica incolpazione, perché costituisce fatto diverso rispetto a quello oggetto di imputazione (in precedenza, negli stessi termini, Sez. 3, n. 29701 del 14/05/2008, Scotese e altri, Rv. 240750).
Ai fini della determinazione dell’epoca di consumazione del reato, la Corte ha ribadito che la lottizzazione abusiva può presentarsi non solo con la realizzazione di attività materiali, ma anche nella forma c.d. cartolare o negoziale (Sez. 3, n. 42136 del 21/05/2019, Capuano). In questo caso, si tratta di contravvenzione a consumazione anticipata, nel senso che il reato è integrato non solo dalla trasformazione effettiva del territorio, ma da qualsiasi attività che oggettivamente comporti anche solo il pericolo di una urbanizzazione non prevista o diversa da quella programmata (Sez. 3, n. 36397 del 17/04/2019, Taranto, in via di mass.; in precedenza, Sez. 3, n. 37383 del 16/07/2013, Desimine e altri, Rv. 256519). La giurisprudenza ha pure ricavato dalla definizione fornita dall’art. 30 del d.P.R. n. 380 del 2001 un’ipotesi di lottizzazione mista, in quanto caratterizzata dalla compresenza di attività materiali e negoziali (Sez. 3, n. 44517 del 17/07/2019, D’Alba, in via di mass.).
Ai fini della configurabilità del reato di lottizzazione abusiva negoziale o cartolare, l’elencazione degli elementi indiziari di cui all’art. 30, comma 1, d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 non è tassativa, né tali elementi devono sussistere contemporaneamente, in quanto è sufficiente per l’integrazione del reato anche la presenza di uno solo di essi, purché risulti inequivoca la destinazione a scopo edificatorio del terreno (Sez. 3, n. 36397 del 17/04/2019, Taranto, cit.; in precedenza, Sez. 3, n. 27739 del 06/06/2008, Berloni, Rv. 240603). Peraltro, perché sia integrato il reato, il frazionamento di un terreno non deve necessariamente avvenire mediante apposita operazione catastale che preceda le vendite o gli atti di disposizione, ma può realizzarsi con ogni altra forma di suddivisione fattuale dello stesso; l’espressione lottizzazione, infatti, da intendersi in modo atecnico, si riferisce a qualsiasi attività giuridica che abbia per effetto la suddivisione in lotti di un’area di più ampia estensione, comunque predisposta od attuata, attribuendone la disponibilità a terzi al fine di realizzare una non consentita trasformazione urbanistica od edilizia del territorio (Sez. 3, n. 36397 del 17/04/2019, Taranto, cit.).
Quanto alla lottizzazione materiale, invece, integra il reato di lottizzazione abusiva di cui all’art. 44, comma primo, lett. c), d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, l’esecuzione di opere in violazione di una convenzione di lottizzazione, in quanto quest’ultima, inserendosi nel procedimento di pianificazione urbanistica che si conclude con l’approvazione del piano di lottizzazione, configura un modulo organizzativo attraverso cui si imprime un determinato statuto ai beni che ne formano oggetto (Sez. 3, n. 42136 del 21/05/2019, Capuano, cit.); inoltre, integra il reato anche l’edificazione realizzata, in assenza di piano attuativo, in un fondo ubicato in zona già urbanizzata, qualora la situazione di fatto richieda un intervento idoneo a restituire efficienza all’abitato mediante il riordino o la definizione ex novo di un disegno urbanistico dell’area, essendo esclusa la necessità dello strumento attuativo nel solo caso in cui tale situazione sia con esso del tutto incompatibile a causa della pressoché completa edificazione della zona (Sez. 3, n. 47280 del 12/09/2019, Cancelli ed altro, cit.).
In particolare, la modifica di destinazione d’uso di un complesso alberghiero realizzata, sin dal sorgere dell’edificio, attraverso la vendita di singole unità immobiliari a privati configura il reato di lottizzazione abusiva, laddove manchi un’organizzazione imprenditoriale preposta alla gestione dei servizi comuni e alla concessione in locazione dei singoli appartamenti compravenduti secondo le regole comuni del contratto d’albergo, atteso che in tale ipotesi le singole unità perdono la originaria destinazione d’uso alberghiera per assumere quella residenziale. In tale caso, è irrilevante è la titolarità della proprietà della struttura immobiliare, che indifferentemente può appartenere ad un solo soggetto proprietario oppure ad una pluralità di soggetti (Sez. 3, n. 42136 del 21/05/2019, Capuano, cit.).
La Corte ha anche ribadito, sempre in tema di lottizzazione materiale, che integra la contravvenzione in esame la realizzazione, all’interno di un’area adibita a campeggio, di una struttura ricettiva che presenta le caratteristiche di un insediamento residenziale stabile, posto che il campeggio presuppone allestimenti e servizi finalizzati alla sosta o ad un soggiorno occasionale e limitato nel tempo, comportando di contro una siffatta struttura il sostanziale stravolgimento dell’originario assetto definito mediante pianificazione (Sez. 3, n. 41941 del 19/06/2019, Panico; Sez. 3, n. 8970 del 23/01/2019, Scifoni, Rv. 275929).
La contravvenzione in esame, inoltre, si configura come reato a consumazione alternativa, potendo realizzarsi sia quando manchi un provvedimento di autorizzazione, sia quando quest’ultimo sussista ma contrasti con le prescrizioni degli strumenti urbanistici, in quanto grava sui soggetti che predispongono un piano di lottizzazione, sui titolari di concessione, sui committenti e costruttori l’obbligo di controllare la conformità dell’intera lottizzazione e delle singole opere alla normativa urbanistica e alle previsioni di pianificazione (Sez. 3, n. 42136 del 21/05/2019, Capuano, cit.; Sez. 3, n. 36397 del 17/04/2019, Taranto, cit.; Sez. U, n. 5115 del 28/11/2001, dep. 2002, Salvini, Rv. 220708; Sez. 3, n. 33051 del 10/05/2017, Puglisi e aa., Rv. 270645).
La misura di cui all’art. 44, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001 comporta l’acquisizione di diritto del terreno al patrimonio comunale con effetto dalla data di irrevocabilità della sentenza (Sez. 3, n. 43880 del 9/07/2019, S.S.; in precedenza, Sez. 3, n. 22557 del 02/04/2003, Rv. 225308, secondo cui con il passaggio in giudicato della sentenza che, all’esito del procedimento per lottizzazione abusiva, ha disposto, la confisca dei terreni, questi transitano “ipso iure” nel patrimonio del Comune senza la necessità, a differenza di quanto avviene con il provvedimento ex art. 31 d.P.R. n. 380 del 2001, di una fase esecutiva, atteso che l’efficacia traslativa coattiva è prodotta, per espresso dettato normativo, dalla sentenza che la contiene).
Dalla data indicata il condannato non può più disporre del bene confiscato in quanto irrevocabilmente uscito dal suo patrimonio. Ne deriva che tale bene non può nemmeno essere trasmesso agli eredi, né può costituire oggetto di atti dispositivi a titolo oneroso. In caso di successione ereditaria, dunque, non rileva la buona fede dell’erede, bensì l’oggettiva inesistenza di una situazione soggettiva attiva in capo a quest’ultimo mai trasmessa dal “de cuius” (Sez. 3, n. 43880 del 9/07/2019, S.S.; in precedenza, Sez. 3, n. 47729 dell’11/04/2018, Rv. 274969).
Anche nel 2019, poi, la Corte ha ribadito che l’autorizzazione a lottizzare emessa successivamente, così come l’approvazione di un piano di recupero urbanistico, non configurano ipotesi di sanatoria della lottizzazione con estinzione del reato di lottizzazione abusiva, ma impediscono solo l’adozione del provvedimento di confisca, stante l’avvenuto riconoscimento di conformità postuma della lottizzazione agli strumenti urbanistici generali vigenti sul territorio (Sez. 3, n. 42136 del 21/05/2019, Capuano, cit.; cfr., in precedenza, Sez. 3, n. 4373 del 13/12/2013, dep. 2014, Franco, Rv. 258921; Sez. 3, n. 23154 del 18/05/2006, Scalici, Rv. 234476).
Più in particolare, il provvedimento di sanatoria legittimamente emanato prima del passaggio in giudicato della sentenza comporta l’impossibilità per il giudice di disporre la confisca, perché l’autorità amministrativa competente, riconoscendo ex post la conformità della lottizzazione agli strumenti urbanistici generali vigenti sul territorio, ha inteso evidentemente lasciare il terreno lottizzato alla disponibilità dei proprietari, rinunciando implicitamente ad acquisirlo al patrimonio indisponibile del Comune. Dopo il passaggio in giudicato, invece, l’amministrazione comunale conserva la piena ed incondizionata potestà di programmazione e di gestione del territorio, dovendosi però escludere che il successivo adeguamento degli immobili acquisiti agli standard urbanistici già vigenti ovvero l’adozione di nuovi strumenti urbanistici integri una fonte di retro-trasferimento della proprietà in favore dei privati già destinatari dell’ordine di confisca. Resta tuttavia la possibilità, qualora ragioni di opportunità e di convenienza consiglino di destinare l’area lottizzata alla edificazione, che l’amministrazione decida di non esercitare in proprio le iniziative edificatorie e di non conservare la proprietà sui terreni e sui manufatti che eventualmente vi insistono, facendo ricorso ad atti contrattuali volontari ed a titolo oneroso che trasferiscano la proprietà a tutti o parte dei precedenti proprietari (Sez. 3, n. 43880 del 9/07/2019, S.S., cit.; si segnala, peraltro, che Sez. 3, n. 35219 del 11/4/2007, Arcieri e altri, Rv. 237372; Sez. 3, n. 47272 del 30/11/2005, lacopino ed altri, Rv. 232998 ammettono la possibilità di revoca della confisca anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza).
Il sopravvenuto rilascio di un permesso di costruire, invece, può eventualmente legittimare, ricorrendone i presupposti, soltanto le opere che costituiscono oggetto della lottizzazione, ma non comporta alcuna valutazione di conformità di tutta la lottizzazione alle scelte generali di pianificazione urbanistica, con la conseguenza che il rilascio di più titoli abilitativi nell’area interessata da una lottizzazione abusiva non rende lecita tale attività (Sez. 3, n. 44517 del 17/07/2019, D.S.).
Sentenze della Corte di cassazione
Sez. 3, n. 4954 del 08/02/1994, Pene ed altri, Rv. 197506
Sez. 3, n. 4739 del 26/11/2001, dep. 2002, Vanni, Rv. 221054
Sez. 2, n. 897 del 24/10/2003, dep. 2004, Cantamessa, Rv. 227966
Sez. 3, n. 37086 del 07/07/2004, Percinaro, Rv. 230031
Sez. 3, ord. n. 10916 del 3/3/2005, Visconti, Rv. 230984
Sez. 3, n. 47272 del 30/11/2005, Iacopino ed altri, Rv. 232998
Sez. U, n. 25083 del 11/07/2006, Negri, Rv. 233918
Sez. U, n. 27614 del 29/03/2007, Lista, Rv. 236537
Sez. 3, n. 35219 del 11/4/2007, Arcieri e altri, Rv. 237372
Sez. 3, n. 19732 del 26/04/2007, Monacelli, Rv. 236750
Sez. 3, n. 38724 del 21/09/2007, Del Duca, Rv. 237924
Sez. 3, n. 9982 del 21/11/2007, dep. 2008, Quattrone, Rv. 238984
Sez. 3, n. 5789 del 18/12/2007, dep. 2008, Nappi, Rv. 238797
Sez. 3, n. 9982 del 05/03/2008, Quattrone, Rv. 238984
Sez. 3, n. 27739 del 06/06/2008, Berloni, Rv. 240603
Sez. 3, n. 21188 del 30/04/2009, Casasanta e altri, Rv. 243630
Sez. 3, n. 36844 del 09/07/2009, Contò, Rv. 244923
Sez. 3, n. 39078 del 13/07/2009, Apponi e altri, Rv. 245347
Sez. 2, n. 32273 del 25/05/2010, Pastore, Rv. 248409
Sez. 1, n. 3311/12 del 11/11/2011, Lonati, Rv. 251845
Sez. 1, n. 27201 del 30/5/2013, Can, Rv. 257599
Sez. 3, n. 17066 del 04/02/2013, Volpe, Rv. 255112
Sez. 3, n. 37383 del 16/07/2013, Desimine, Rv. 256519
Sez. 3, n. 7908 del 15/01/2015, Onori, Rv. 262516
Sez. 3, n. 15888 del 08/04/2015, dep. 2016, Sannella e a., Rv. 266628
Sez. 4, n. 31239 del 23/06/2015, Giallombardo, Rv. 264337
Sez. U, n. 31617 del 26/06/2015, Lucci, Rv. 264434
Sez. 2, n. 13911 del 17/03/2016, Lo Schiavo, Rv. 266389
Sez. 3, n. 35313 del 19/05/2016, Imolese, Rv. 267534
Sez. U, n. 31617 del 26/06/2016, Lucci, Rv. 254434
Sez. 3, n. 33051 del 10/05/2017, Puglisi e aa., Rv. 270646
Sez. 3, n. 53692 del 13/07/2017, Martino, Rv. 272791
Sez. U, n. 48126 del 20/07/2017, Muscari e altro, Rv. 270938
Sez. 3, n. 43630 del 25/06/2018, Tammaro, Rv. 274196
Sez. 3, n. 37472 del 26/6/2008, Belloi e altri, Rv. 241101
Sez. 1, n. 4096/19 del 24/10/2018, Lacatus, Rv. 276163
Sez. 3, n. 5936 del 8/11/2018, dep. 2019, Basile
Sez. 3, n. 1514 del 14/11/2018, dep. 2019, Bernardini
Sez. 3, n. 14005, del 4/12/2018, dep. 2019, Rv. 275356
Sez. 1, n. 2453 del 04/12/2008, dep. 2009, Squillante e a., Rv. 243027
Sez. 3, n. 8350 del 23/01/2019, Alessandrini ed altri, Rv. 275756
Sez. 3, n. 8970 del 23/01/2019, Scifoni, Rv. 275929
Sez. 3, n. 14743 del 20/02/2019, Amodio, Rv. 275392
Sez. 3, n. 17399 del 20/03/2019, Unicredit Leasing S.p.a
Sez. 3, n. 31282, del 27/3/2019, Grieco e altri, Rv. 277167
Sez. 3, n. 22034 del 11/4/2019, PM in proc. Pintore, Rv. 275969
Sez. 3, n. 36397 del 17/04/2019, Taranto
Sez. 3, n. 42513 del 16/05/2019, PM in proc. Spina e
Sez. 3, n. 42136 del 21/05/2019, Capuano
Sez. 3, n. 42115 del 19/06/2019, Capital service S.p.a., Rv. 277057
Sez. 3, n. 41941 del 19/06/2019, Panico
Sez. 3, n. 41942 del 19/06/2019, Capoluongo
Sez. 3, n. 36694 del 3/07/2019, Candela
Sez. 3, n. 36695 del 3/07/2019, Palumbo
Sez. 3, n. 36310 del 5/07/2019, Motisi
Sez. 3, n. 38484 del 5/07/2019, Giannattasio
Sez. 3, n. 43880 del 9/07/2019, S.S.
Sez. 3, n. 36630 del 11/07/2019, PM in proc. Achenza
Sez. 3, n. 43119 del 17/07/2019, Falconi,
Sez. 3, n. 44517 del 17/07/2019, D’Alba
Sez. 3, n. 48200 del 25/09/2019, Cimino ed altro
Sez. 3, n. 46392 del 3/10/2019, Abbrescia
Sez. 3, (ord.) n. 42042 del 22/10/2019, Perroni