PARTE TERZA QUESTIONI DI DIRITTO PROCESSUALE --- SEZIONE I --- GIURISDIZIONE E COMPETENZA

  • giudice
  • competenza per materia

CAPITOLO I

COMPETENZA DEL GIUDICE SUPERIORE IN RELAZIONE AD UN REATO DI COMPETENZA DEL GIUDICE DI PACE

(di Andrea Antonio Salemme )

Sommario

1 Introduzione. - 2 Riqualificazione del fatto in un reato di competenza del giudice di pace. - 3 Sopravvenuto difetto di connessione determinante l’attrazione del reato di competenza del giudice di pace nella competenza del giudice superiore. - 4 Analisi unitaria delle questioni controverse devolute alle Sezioni Unite. - 5 Orientamento maggioritario. - 6 Orientamento minoritario. - 7 Riconducibilità all’orientamento minoritario della giurisprudenza della Corte Costituzionale. - 8 Le decisioni delle Sezioni Unite. - 9 Rapporto tra regola ed eccezione. - 10 Giurisprudenza successiva agli interventi delle Sezioni Unite. - 11 Conclusioni. - Indice delle sentenze citate

1. Introduzione.

Nell’ambito di due procedimenti chiamati alla medesima udienza del 27 settembre 2018, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione sono state richieste di pronunciarsi sul tema della cd. competenza per materia per eccesso del tribunale ed eventualmente della corte d’assise rispetto ad un reato attribuito dalla legge alla competenza del giudice di pace.

Sussisteva, invero, un contrasto di giurisprudenza circa il potere, o meno, del giudice superiore di decidere anche sul reato di competenza del giudice di pace.

Gli angoli di visuale – necessariamente specifici – dai quali le Sezioni Unite hanno affrontato il tema che ne occupa erano delineati da due articolate ordinanze “gemelle” della Quinta Sezione, la n. 35292 del 14/06/2018, Balais, e la n. 35293 del 14/06/2018, Treskine, cui hanno fatto seguito due sentenze parimenti “gemelle”, entrambe deliberate alla predetta udienza ed entrambe depositate il 3 luglio 2019.

2. Riqualificazione del fatto in un reato di competenza del giudice di pace.

Con la sentenza n. 28908 del 27/09/2018 (dep. 2019), Rv. 275869-01, Balais, le Sezioni Unite, risolvendo un contrasto di giurisprudenza acuitosi negli ultimi anni, hanno affermato il seguente principio di diritto: «L’incompetenza a conoscere dei reati appartenenti alla cognizione del giudice di pace deve essere dichiarata dal giudice togato in ogni stato e grado del processo ex art. 48 d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, in deroga al regime ordinario di cui agli artt. 23, comma 2, e 24, comma 2, cod. proc. pen., ferma restando, in caso di riqualificazione del fatto in un reato di competenza del giudice di pace, la competenza del giudice togato in applicazione del criterio della “perpetuatio iurisdictionis”, purché il reato gli sia stato correttamente attribuito “ab origine” e la riqualificazione sia dovuta ad acquisizioni probatorie sopravvenute nel corso del processo».

In particolare, la questione devoluta alle Sezioni Unite, giusta Sez. 5, n. 35292 del 2018, di rimessione degli atti al Primo Presidente, era «se il tribunale, a seguito della riqualificazione del fatto originariamente contestato in un reato di competenza del giudice di pace, debba dichiarare la propria incompetenza per materia in favore del giudice di pace e disporre la trasmissione degli atti al pubblico ministero, ai sensi dell’art. 48 D.Lgs. 28 agosto 2000, n. 274».

3. Sopravvenuto difetto di connessione determinante l’attrazione del reato di competenza del giudice di pace nella competenza del giudice superiore.

Come anticipato in apertura, il tema che investiva le Sezioni Unite si presentava più ampio di quello loro rimesso da Sez. 5, n. 35292 del 2018, poiché, contemporaneamente, giusta Sez. 5, n. 35293 del 2018, Treskine, le stesse erano altresì chiamate a pronunciare sulla questione affine, e per vero complementare, ma non coincidente, riassumibile nell’interrogativo «se, nel caso di connessione tra procedimenti di competenza del giudice di pace e procedimenti del tribunale, quest’ultimo, con la sentenza con cui assolve l’imputato dal reato di sua competenza, debba dichiarare la propria incompetenza per materia in ordine al residuo reato e disporre la trasmissione degli atti al pubblico ministero, ai sensi dell’art. 48 D.Lgs. 28 agosto 2000, n. 274».

Avuto riguardo a detta seconda questione, con la sentenza n. 28909 del 27/09/2018 (dep. 2019), Rv. 275870-01, Treskine, le Sezioni Unite, risolvendo dunque il “parallelo” contrasto di giurisprudenza, hanno affermato il seguente principio di diritto: «L’incompetenza a conoscere dei reati appartenenti alla cognizione del giudice di pace deve essere dichiarata dal giudice togato in ogni stato e grado del processo ex art. 48 d. lgs. 28 agosto 2000, n. 274, in deroga al regime ordinario di cui agli artt. 23, comma 2, e 24, comma 2, cod. proc. pen., fermo restando che la sopravvenuta mancanza del vincolo di connessione, giustificativo della competenza del giudice togato anche per il reato minore, non determina, in applicazione del criterio della “perpetuatio iurisdictionis”, il venir meno di quest’ultima, purché “ab origine” correttamente individuata».

4. Analisi unitaria delle questioni controverse devolute alle Sezioni Unite.

Effettivamente, in una complessiva visione sistematica, volta a sussumere entrambe le questioni devolute alle Sezioni Unite in un unitario antecedente logico, a sua volta inserito nel contesto delle peculiarità che caratterizzano il procedimento dinanzi al giudice di pace rispetto al procedimento ordinario, ben può rilevarsi come le “res controversae” involgessero un problema del pari unitario, dibattuto tanto in dottrina quanto, e forse soprattutto, in giurisprudenza. Detto problema pone l’alternativa se il giudice superiore sia gravato dell’obbligo, «in ogni stato e grado del processo», secondo quanto prevede l’art. 48 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274, di dichiarare la propria incompetenza in favore del giudice di pace, oppure se, una volta maturato il termine dell’art. 491, comma 1, cod. proc. pen., entro cui, stanti gli artt. 21, comma 3, e 23, comma 2, cod. proc. pen., deve essere eccepita anche l’incompetenza per materia per eccesso pur derivante da connessione, sia legittimato – ed in tal caso a quali condizioni – a trattenere comunque la competenza per il reato del giudice di pace.

La scaturigine dell’esposta perplessa alternativa deriva dall’“incipit” dell’art. 48 D.Lgs. n. 274 del 2000, giacché la formula: «In ogni stato e grado del processo» (che, peraltro, esclude di per sé la fase delle indagini preliminari) può essere interpretata sia nel senso che il giudice superiore deve sempre declinare la competenza in favore del giudice di pace, a prescindere dallo stato e dal grado in cui versa il processo, sia nel senso che la regola della rilevabilità (anche) “ex officio” dell’incompetenza per materia per eccesso pur derivante da connessione deve essere coordinata con la disciplina codicistica dell’eccezione e del rilievo di quel tipo di incompetenza, di guisa che, superato il termine dell’art. 491, comma 1, cod. proc. pen., la competenza del giudice superiore si consolida anche per il residuo reato del giudice di pace.

5. Orientamento maggioritario.

In argomento, si contrapponevano due orientamenti.

L’orientamento maggioritario ricusava la tesi che accorda prevalenza all’art. 48 D.Lgs. n. 274 del 2000 sulla disciplina codicistica e, quanto specificamente alla questione oggetto della sentenza Balais, ossia quella della derubricazione “in melius” di un reato più grave in un reato del giudice di pace, sosteneva l’applicabilità del principio della “perpetuatio iurisdictionis” tanto qualora la derubricazione fosse ritenuta dal giudice di primo grado in sentenza, difettando una tempestiva (o prospettica o semplicemente ormai non più possibile) eccezione di incompetenza (Sez. 5, n. 4673 del 25/11/2016, Tramonti; Id., n. 28651 del 02/05/2016, Seletto; Id., n. 25763 del 13/03/2015, Signorelli; Id., n. 39943 del 24/10/2008, F.F.), quanto qualora ad operare la derubricazione fosse il giudice di appello.

Le uniche due sentenze massimate riguardano questo secondo caso e, sovrapponibilmente, affermano che «la corte di appello, quando, riqualificando un fatto giudicato dal tribunale, lo riconduce ad una fattispecie di reato di competenza del giudice di pace, può decidere, anche fuori dai casi previsti dall’art. 6 del D.Lgs. n. 74 del 2000, nel merito della impugnazione senza dover trasmettere gli atti al pubblico ministero e dichiarare contestualmente la competenza del giudice di pace» (Sez. 5, n. 42827 del 16/07/2014, Rv. 262114, Schintu, e Sez. 3, n. 21257 del 05/02/2014, Rv. 259655, C., cui “adde”, per un’espressa conferma del principio, Sez. 5, n. 37207 del 26/04/2017, Schintu, resa nei confronti del medesimo imputato di Sez. 5, n. 42827 del 2014).

Appartenevano “a fortiori” all’orientamento maggioritario le sentenze che, a proposito della questione, oggetto della seconda rimessione alle Sezioni Unite, decisa con la sentenza Treskine, ossia quella relativa alle sorti del reato del giudice di pace in caso di scioglimento del vincolo connettivo che lo avvince ad un reato più grave, proclamavano “apertis verbis” che l’incompetenza per eccesso in favore del giudice di pace dovesse essere eccepita o rilevata entro la barriera preclusiva di cui all’art. 491, comma 1, cod. proc. pen., richiamato dagli artt. 21, comma 3, e 23, comma 2, cod. proc. pen., non rilevando, in senso contrario, il pur apparentemente contrastante tenore letterale dell’art. 48 D.Lgs. n. 274 del 2000, siccome non incidente sulla generale applicabilità della disciplina codicistica.

La “regula iuris” è consacrata da tre sentenze massimate (Sez. 5, n. 25499 del 27/03/2015, Rv. 265144, Spadaro e altro; Sez. 5, n. 15727 del 22/01/2014, Rv. 260560, P.G. in proc. Bartolo; Sez. 3, n. 31484 del 12/06/2008, Rv. 240752, Infante), cui se ne aggiungono svariate non massimate (Sez. 7, n. 38195 del 22/05/2018, Aiello e altro; Sez. 4, n. 1321 del 19/10/2016, Guggiari; Sez. 5, n. 46695 del 03/10/2016, Cattabiani; Sez. 6, n. 43348 del 28/09/2016, Milazzo; Sez. 5, n. 21697 del 26/05/2009, S.S.).

6. Orientamento minoritario.

All’orientamento dominante si contrapponeva una sola sentenza massimata – Sez. 3, n. 12636 del 02/03/2010, Rv. 246816, Ding e altro – secondo cui «la violazione della disciplina sulla competenza per materia del giudice di pace […] determina l’annullamento senza rinvio da parte della Corte di cassazione della sentenza del giudice monocratico, con conseguente restituzione degli atti al pubblico ministero procedente».

L’insegnamento in parola era ripreso da alcune sentenze non massimate: in particolare, Sez. 5, n. 43486 del 07/04/2014, Quitadamo, e Sez. 5, n. 32995 del 17/04/2012, Rossetti, cui si affiancava altresì Sez. 5, n. 43359 del 02/07/2013, Fiorenti, la quale, nondimeno, lo citava per ritenere la rilevabilità officiosa dell’incompetenza, non per difetto, ma per eccesso.

7. Riconducibilità all’orientamento minoritario della giurisprudenza della Corte Costituzionale.

Peraltro l’orientamento minoritario era allineato alla costante giurisprudenza della Corte Costituzionale, che da sempre interpreta la competenza per materia del giudice di pace come tendenzialmente esclusiva, anche a motivo delle particolarità del rito (Corte Costituzionale, ud. 24/02/2016, dep. 09/03/2016, n. 50, ord.; Id., ud. 22/10/2014, dep. 28/10/2014, n. 245, ord.; Id., ud. 10/03/2014, dep. 13/03/2014, n. 47, sent.), conseguentemente propendendo per la natura derogatoria dell’art. 48 D.Lgs. n. 274 del 2000 rispetto agli artt. 21, 23, 491, comma 1, e(d anche) 521 cod. proc. pen. (Corte Costituzionale, ud. 18/04/2011, dep. 20/04/2011, n. 144, ord.; Id., ud. 03/11/2010, dep.11/11/2010, n. 318, ord.; Id., ud. 05/07/2010, dep. 08/07/2010, n. 252, ord.).

8. Le decisioni delle Sezioni Unite.

Le Sezioni Unite, in entrambe le sentenze in disamina, a composizione dei rispettivi conflitti, propugnano una soluzione in certo qual modo intermedia rispetto alle posizioni dei due orientamenti in contrasto.

Su un piano generale, convengono Esse esplicitamente con l’orientamento minoritario sulla necessità di assicurare la primazia dell’art. 48 D.Lgs. n. 274 del 2000 rispetto alle regole codicistiche dell’incompetenza per materia per eccesso, dal primo conseguentemente derogate, in ragione della «specificità della giurisdizione onoraria» e della «peculiarità del procedimento davanti al giudice di pace», siccome funzionali – come rimarcato dalla Corte Costituzionale nelle pronunce citate in coda alla disamina dell’orientamento minoritario ed altresì da Sez. U, n. 53683 del 22/06/2017, Rv. 271587-01, P.G. in proc. Perini e altro, che ha escluso l’applicabilità della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, prevista dall’art. 131-bis cod. pen., nel procedimento davanti al giudice di pace – alla «composizione del dissidio interindividuale» attraverso la «conciliazione tra le parti»: specificità e peculiarità che riverberano i propri effetti sulla competenza del giudice di pace per i reati “minori” che la legge riserva al medesimo e, tendenzialmente, salvo esplicite previsioni in senso contrario, al medesimo soltanto, alla stregua di un “hortus clausus”.

In tale prospettiva, secondo le Sezioni Unite, va «riconosciuto all’art. 48 [cit.] il ruolo di “custode della separatezza” della giurisdizione onoraria», talché «appare difficile sostenere che [esso] non abbia la capacità di derogare alla disciplina codicistica di cui all’art. 23, comma 2, cod. proc. pen.».

Fermo quanto precede, ritengono però al contempo le Sezioni Unite che la rilevata primazia dell’art. 48 D.Lgs. n. 274 del 2000 – «destinata ad assicurare un carattere tendenzialmente esclusivo alla giurisdizione di pace» – non sia assoluta.

Viene in linea di conto la natura derogatoria di detto articolo in rapporto al Codice di rito, giacché, qualora esso non esistesse, «non vi è dubbio che il giudice ordinario conserverebbe sempre la sua competenza – salvo tempestiva eccezione – e la conserverebbe utilizzando il […] principio della “perpetuatio iurisdictionis” (“rectius”: “competentiae)”». Quest’ultimo, a sua volta, se trova copertura nell’esigenza, esplicitata dall’art. 111, comma 3, Cost., di assicurare una ragionevole durata del procedimento, può tuttavia porsi in conflitto con il principio, parimenti fondamentale ai sensi dell’art. 25, comma 1, Cost., del giudice naturale precostituito per legge.

Orbene, nel dichiarato intento di realizzare un delicato punto di equilibrio tra tutte le prospettive in gioco, le Sezioni Unite indicano la soluzione del dubbio interpretativo affermando che, «se la competenza del giudice ordinario è stata individuata correttamente, nel rispetto delle disposizioni processuali, comprese quelle previste dal D.Lgs. [n.] 274 del 2000, il fatto che venga meno il reato più grave, ad esempio per effetto di una assoluzione parziale che determini la scomparsa del vincolo di connessione ovvero […] a seguito di riqualificazione, non determina l’operatività dell’art. 48 [cit.]».

Ciò significa che il “discrimen” di ogni valutazione si situa per così dire “a monte” dei fisiologici sviluppi del giudizio (sia di primo che di secondo grado), atteso che acquisisce rilievo unicamente il radicamento della cognizione del giudice superiore anche per il reato del giudice di pace al momento dell’esercizio dell’azione penale: se esso non è corretto, perché inosservante delle regole attributive della competenza, non può non trovare applicazione (a motivo della sua perentoria formulazione) l’art. 48 D.Lgs. n. 274 del 2000, con conseguente rilevabilità dell’incompetenza, a qualsiasi causa dovuta, «in ogni stato e grado del processo»; se invece esso è corretto, perché osservante di tali regole, sarebbe irragionevole rimettere in discussione il tema della (sopravvenuta) incompetenza alla luce di evoluzioni venute a maturarsi solo in costanza di processo, ragion per cui l’ambito applicativo dell’art. 48 cit. soffre, «anche a garanzia del principio del giudice naturale precostituito per legge», la compressione derivante dall’operatività del principio della “perpetuatio iurisdictionis”.

9. Rapporto tra regola ed eccezione.

In definitiva, l’art. 48 D.Lgs. n. 274 del 2000, derogatorio in specie dell’art. 23, comma 2, cod. proc. pen., si atteggia a “regola” intesa a presidiare la speciale giurisdizione onoraria, che tuttavia soffre dell’“eccezione” a termine della quale le vicende modificative di un rapporto processuale “ab origine” legittimamente instaurato non retroagiscono sulla competenza.

Combinando regola ed eccezione (alla stregua, sia consentito di sottolineare ulteriormente, della «necessari[a individuazione di] un punto di bilanciamento tra il rispetto del principio della garanzia del giudice naturale e quello della ragionevole durata del processo», la portata sistematica della regola si riduce a misura dell’ampiezza dell’eccezione, dovendosi concludere che l’art. 48 D.Lgs. n. 274 del 2000 finisca per operare «solo nel caso in cui la competenza al giudice diverso da quello di pace sia stata individuata erroneamente», giacché «attribuire un diverso e più generale ambito applicativo all’art. 48 cit. porterebbe ad una irragionevole disapplicazione delle regole sulla competenza».

10. Giurisprudenza successiva agli interventi delle Sezioni Unite.

Nella giurisprudenza successiva agli interventi delle Sezioni Unite, la sentenza Treskine è richiamata, in motivazione, da Sez. U, n. 48590 del 18/04/2019, Rv. 277304-01, confl. comp. Tr. Genova in comp. coll., che, investita del tema del riparto di attribuzioni tra giudice monocratico e giudice collegiale nel caso di scioglimento della connessione tra reati attribuiti, l’uno, al giudice monocratico e, l’altro, al giudice collegiale, afferma, in primo luogo, che «l’attribuzione determinata da ragioni di connessione va valutata al momento del rinvio a giudizio e non sulla base dei fatti così come contestati nella richiesta del pubblico ministero» (Rv. 277304-01) e, in secondo luogo, che «il giudice dell’udienza preliminare che, all’esito di tale fase, pronunci sentenza di non luogo a procedere in ordine al reato determinante la cognizione collegiale, deve disporre il rinvio a giudizio dinanzi al tribunale in composizione monocratica e non la restituzione degli atti al pubblico ministero», dacché detta restituzione, «ai sensi dell’art. 33-sexies cod. proc. pen., è necessaria nei soli casi in cui, già in relazione all’originaria imputazione, fosse previsto l’esercizio dell’azione penale mediante citazione diretta» (Rv. 277304-02).

La sentenza Treskine è evocata a proposito del primo asserto, in relazione al quale la Corte osserva che «il principio della “perpetuatio iurisdictionis”, inteso come immutabilità della competenza[, e dunque anche degli «effetti della connessione sulla composizione del giudice», giusta la rubrica dell’art. 33-quater cod. proc. pen.,] a fini di certezza ed economia processuale e di tutela della ragionevole durata del processo, non può che riferirsi alla determinazione della regiudicanda risultante dal complessivo vaglio del giudice dell’udienza preliminare sull’accusa formulata dal pubblico ministero e alla conseguente individuazione del giudice naturale operata sulla base dell’esito di quel controllo e degli addebiti contestati nel decreto di rinvio a giudizio». Osserva la Corte che, «frutto di una risalente esperienza giudiziaria penale, ribadita anche con l’avvento del processo del 1988, tale principio trova la sua origine nell’esigenza di rendere stabile l’attribuzione di un determinato procedimento al giudice naturale, evitando che vicende processuali, sostanziali od anche normative sopravvenute possano incidere sul rapporto processuale (Sez. U, Treskine […])»; ma, «proprio in considerazione della funzione della “perpetuatio iurisdictionis” [(«di evitare che la competenza, una volta stabilizzata perché sottoposta al vaglio del giudice in relazione all’addebito definitivamente determinato, possa subire modifiche in corso di svolgimento del giudizio, garantendo anche al giudice di poter adeguare la qualificazione giuridica del fatto senza privarsi della competenza»)], si comprende la ragione per cui il suo ambito operativo si collochi dopo il passaggio alla fase del giudizio, allorché si rende necessario garantire quella “stabilità” di competenza che, invece, non è funzionale nel corso delle indagini preliminari» (par. 3.5, pp. 10 e 11).

11. Conclusioni.

Combinando le sentenze Balais e Treskine – tenuto conto che anche nella prima emerge il principio della “perpetuatio iurisdictionis” – con Sez. U, n. 48590 del 2019, Rv. 277304-01, sembra di doversi concludere che l’identica condizione legittimante l’operatività delle clausole di salvezza che caratterizzano entrambe le massime estratte dalle prime – ossia la corretta individuazione “ab origine” della competenza del giudice togato anche per il reato minore (che consente la sterilizzazione degli effetti della sopravvenuta mancanza del vincolo connettivo in applicazione del principio della “perpetuatio iurisdictionis”, pur nell’ipotesi di riqualificazione dovuta ad acquisizioni probatorie sopravvenute) – si appresta a dover essere apprezzata, in ultimo, con riferimento ai reati che prevedono la celebrazione dell’udienza preliminare, al momento del rinvio a giudizio.

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. 5, n. 39943 del 24/10/2008, F.F.

Sez. 3, n. 31484 del 12/06/2008, Rv. 240752, Infante

Sez. 5, n. 21697 del 26/05/2009, S.S.

Sez. 3, n. 12636 del 02/03/2010, Rv. 246816, Ding

Sez. 5, n. 32995 del 17/04/2012, Rossetti

Sez. 5, n. 43359 del 02/07/2013, Fiorenti

Sez. 5, n. 42827 del 16/07/2014, Rv. 262114, Schintu

Sez. 5, n. 43486 del 07/04/2014, Quitadamo

Sez. 3, n. 21257 del 05/02/2014, Rv. 259655, C.,

Sez. 5, n. 15727 del 22/01/2014, Rv. 260560, P.G. in proc. Bartolo

Sez. 5, n. 25499 del 27/03/2015, Rv. 265144, Spadaro

Sez. 5, n. 25763 del 13/03/2015, Signorelli

Sez. 5, n. 4673 del 25/11/2016, Tramonti

Sez. 4, n. 1321 del 19/10/2016, Guggiari

Sez. 5, n. 46695 del 03/10/2016, Cattabiani

Sez. 6, n. 43348 del 28/09/2016, Milazzo

Sez. 5, n. 28651 del 02/05/2016, Seletto

Sez. U, n. 53683 del 22/06/2017, Rv. 271587-01, Perini

Sez. 5, n. 37207 del 26/04/2017, Schintu

Sez. U, n. 28909 del 27/09/2018 (dep. 2019), Rv. 275870-01, Treskine

Sez. U, n. 28908 del 27/09/2018 (dep. 2019), Rv. 275869-01, Balais

Sez. 5, n. 35293 del 14/06/2018. Treskine

Sez. 5, n. 35292 del 14/06/2018, Balais

Sez. 7, n. 38195 del 22/05/2018, Aiello

Sez. U, n. 48590 del 18/04/2019, Rv. 277304-01, tr. Genova in comp. coll., Rv. 277304-01 e Rv. 277304-02

Sentenze della Corte costituzionale

Corte cost., sent. n. 50 del 24/02/2016

Corte cost., sent. n. 245 del 22/10/2014

Corte cost., sent. n. 47 del 10/03/2014

Corte cost., sent. n. 144 del 18/04/2011

Corte cost., sent. n. 318 del 03/11/2010

Corte cost., sent. n. 252 del 05/07/2010

  • ripartizione delle competenze

Capitolo II

LE SEZIONI UNITE SUL RIPARTO DI ATTRIBUZIONE PER CONNESSIONE TRA GIUDICE MONOCRATICO E COLLEGIALE

(di Paolo Di Geronimo )

Sommario

1 La fattispecie esaminata e le ragioni del contrasto. - 2 Competenza ed attribuzione, profili differenziali. - 3 La perpetuatio jurisdictionis. - 4 Il rinvio a giudizio dinanzi al tribunale monocratico. - 5 I casi riconducibili all’art. 33-sexies cod. proc. pen. - 6 Gli effetti del venir meno della connessione. - 7 Ulteriori ambiti di applicabilità del principio: la competenza per connessione. - 7.1 Diversa qualificazione giuridica del fatto ed effetti sull’attribuzione. - Indice delle sentenze citate

1. La fattispecie esaminata e le ragioni del contrasto.

Alle Sezioni unite si chiedeva di stabilire se l’attribuzione del procedimento alla cognizione del tribunale in composizione monocratica o collegiale, determinata da ragioni di connessione, vada valutata con riferimento al momento in cui ha luogo il rinvio a giudizio, tenendo conto anche degli effetti di una pronuncia di non luogo a procedere che comporti il venir meno del vincolo di connessione; in tal caso, si poneva l’ulteriore quesito di indicare se, residuando solo reati per i quali è prevista la citazione diretta, il giudice dell’udienza preliminare dovesse disporre il giudizio dinanzi al tribunale in composizione monocratica, ovvero la restituzione degli atti al pubblico ministero.

Nel caso oggetto del ricorso, il pubblico ministero formulava la richiesta di rinvio a giudizio contestando contravvenzioni in materia ambientale ed il reato di abuso d’ufficio, fattispecie comportante la cognizione del tribunale in composizione collegiale e, quindi, anche la celebrazione dell’udienza preliminare.

Il giudice dell’udienza preliminare emetteva sentenza di non luogo a procedere per il reato di cui all’art. 323 cod.pen. e, ritenendo che tale pronuncia avesse determinato il venir meno della cognizione del tribunale in composizione collegiale, disponeva il rinvio a giudizio per i residui capi di imputazione dinanzi al tribunale in composizione monocratica, pur trattandosi di reati per i quali sarebbe stata consentita la citazione diretta a giudizio.

Il giudice monocratico disponeva la trasmissione degli atti al tribunale in composizione collegiale, ritenendo che il criterio di attribuzione per i reati connessi dovesse essere valutato al momento del deposito della richiesta di rinvio a giudizio, sicchè, l’attribuzione al collegio non era venuta meno per effetto della pronuncia di una sentenza di non luogo a procedere in relazione al reato che determinava l’attrazione dell’intero procedimento alla cognizione del tribunale collegiale.

A fronte di tale decisione, il collegio sollevava conflitto di competenza, ritenendo più corretta la tesi secondo cui, se nell’udienza preliminare interviene il proscioglimento per il reato attributo al collegio, va disposto il rinvio a giudizio per le restanti imputazioni dinanzi al giudice naturale e, quindi, al tribunale in composizione monocratica, anche qualora per i reati residui è prevista la citazione diretta.

La Prima sezione rilevava la sussistenza di un contrasto circa l’individuazione del momento in cui il riparto tra cognizione del tribunale in composizione monocratica e collegiale diviene insuscettibile di modificazioni.

L’orientamento più recente depone nel senso di radicare la cognizione con riferimento al momento in cui viene esercitata l’azione penale.

In tal senso si è espressa Sez. 1, n. 69 del 17/10/2013 - dep. 02/01/2014, Mone, Rv. 258395, emessa in relazione ad una fattispecie totalmente sovrapponibile a quella oggetto del ricorso rimesso alle Sezioni Unite.

La questione è stata risolta partendo dal presupposto secondo cui le regole sulla competenza derivante dalla connessione costituiscono un criterio originario ed autonomo di attribuzione della competenza, il quale, in applicazione del principio della perpetuatio iurisdictionis, opera per tutto il corso del processo anche nel caso in cui, in seguito a provvedimento di separazione o per altro motivo, siano venute meno le ragioni che hanno determinato l’originario radicamento della competenza per connessione.

Secondo tale impostazione, quindi, il termine a decorrere dal quale diviene definitiva ed irrevocabile l’attribuzione della competenza per connessione deve individuarsi nel momento in cui il procedimento penale assume natura giurisdizionale, mediante l’esercizio dell’azione penale con la richiesta di rinvio a giudizio depositata dal pubblico ministero nella cancelleria del giudice, essendo irrilevanti le vicende successive.

In senso difforme si è pronunciata Sez. 6, n. 38298 del 09/07/2003, Gastaldello, Rv. 227047, intervenuta a seguito del ricorso proposto dal pubblico ministero avverso il provvedimento con il quale il giudice dell’udienza preliminare, dopo aver dichiarato non doversi procedere in relazione al reato che determinava la competenza collegiale, disponeva la restituzione degli atti al pubblico ministero, in quanto le restanti imputazioni non solo non erano rimesse alla cognizione del collegio, ma non richiedevano neppure la celebrazione dell’udienza preliminare, trattandosi di reati per i quali era prevista la citazione diretta a giudizio.

In quell’occasione, la Cassazione ha affermato che la forza attrattiva della competenza del Tribunale in composizione collegiale, prevista dall’art. 33-quater cod. proc. pen., viene meno qualora il giudice dell’udienza preliminare ritenga - a seguito dell’attribuzione al fatto contestato di una qualificazione giuridica diversa ovvero del venir meno delle ragioni di connessione - di essere stato erroneamente investito della richiesta di rinvio a giudizio in relazione ad un reato per il quale è prevista la citazione diretta, dovendo pertanto disporre la trasmissione degli atti al P.M. a norma dell’art. 33-sexies cod. proc. pen., perché emetta il decreto di citazione a giudizio nei confronti degli imputati per diverso reato attribuito al Tribunale in composizione monocratica.

Le due pronunce esaminate si pongono evidentemente in contrasto tra di loro, nella misura in cui la prima esclude che le vicende dell’imputazione intervenute nel corso o all’esito dell’udienza preliminare possano incidere sul criterio di attribuzione della cognizione; la seconda pronuncia, al contrario, attribuisce rilievo all’eventuale diversa qualificazione od alla pronuncia di sentenza di non luogo a procedere che determini il venir meno della connessione ex art.33-quater cod.proc.pen.

Tale contrasto involge evidentemente una problematica più ampia, relativa al momento in cui la connessione – quale criterio originario di determinazione della competenza, ma anche del riparto tra organo monocratico e collegiale – si stabilizza impedendo che fatti successivi possano scindere il legame tra i reati oggetto di accertamento.

2. Competenza ed attribuzione, profili differenziali.

Nel risolvere la problematica in esame, le Sezioni Unite sono partite dall’osservazione secondo cui la connessione tra reati è un criterio previsto sia per stabilire la competenza tra giudici appartenenti ad uffici diversi (artt. 15 e 16, cod.proc.pen.), che per regolare il riparto di attribuzione tra giudice monocratico e collegiale (art. 33-quater, cod. proc. pen. ).

In entrambe le ipotesi, la connessione costituisce il criterio che rende necessaria la deroga agli ordinari criteri di competenza o di attribuzione, salvo restando che l’ambito rispetto al quale la connessione opera è nettamente distinto.

La nozione di riparto di attribuzione è un concetto che solo in via descrittiva può assimilarsi alla nozione di competenza, atteso che quest’ultima contraddistingue esclusivamente i rapporti tra uffici giudiziari diversi e non all’interno del medesimo ufficio.

L’ontologica differenza fra competenza ed attribuzione trova del resto conferma nel disposto dell’art. 33, comma 3, cod. proc. pen., che esclude espressamente il vizio di attribuzione tra quelli concernenti la capacità del giudice, nonché nella collocazione sistematica degli artt. 33 bis e seg. cod. proc. pen., inseriti in Capi separati (VI e VI bis) e non all’interno di quello disciplinante il riparto di competenza (Capo II).

La disciplina del riparto di attribuzione è, dunque, un mero criterio interno di assegnazione dei procedimenti tra tribunale in composizione monocratica e collegiale, basato sul dichiarato principio per cui dove sussiste la connessione tra più procedimenti, alcuni dei quali rimessi alla cognizione del tribunale collegiale, a quest’ultimo organo spetta la cognizione dell’intero procedimento, sul presupposto della necessaria attrazione delle imputazioni meno gravi a quelle più gravi.

A conforto della diversa valenza della disciplina che riguarda il riparto di attribuzione, le Sezioni unite hanno richiamato la consolidata giurisprudenza costituzionale (Corte cost., sent. n. 419 del 1998; Corte cost., sent. n. 181 del 2001; Corte cost., sent. n. 30 del 2011), secondo cui il principio di precostituzione del giudice naturale non opera con riferimento nel riparto alla diversa articolazione dell’organo giudicante, interna al medesimo ufficio giudiziario.

3. La perpetuatio jurisdictionis.

Fatte le necessarie distinzioni tra competenza e riparto di attribuzione interna, le Sezioni Unite hanno dato atto di come il criterio basato sulla connessione impone di stabilire se ed in quale momento l’attrazione del reato più grave determina la definitiva operatività del criterio, sulla base del principio della perpetuatio jurisdictionis.

Si tratta di problematica che, con riferimento al profilo della competenza per connessione, ha dato a sua volta luogo ad un contrasto in giurisprudenza.

Secondo l’orientamento minoritario e più risalente nel tempo, la competenza determinata da ragioni di connessione assume i connotati della definitività solo a seguito del rinvio a giudizio, nel quale viene cristallizzato il thema decidendum sul quale il giudice del dibattimento deve pronunciarsi. Ne consegue che ove le ragioni di connessione vengano meno prima della fase dibattimentale, i relativi procedimenti devono essere restituiti ai giudici ordinariamente competenti a trattarli (Sez. 1, n. 2739 del 14/5/1998, Campigli, Rv. 210722; Sez. 1, n. 3308 del 12/5/1997, Olivieri, Rv. 207757; Sez. 6, n. 2211 del 2/6/1997, Avagnano, Rv. 209329; Sez. 6, n. 22426 del 22/4/2008, Sarandria, Rv. 240512; Sez. 6, n. 21840 del 24/05/2012, Cava, Rv. 252793).

Secondo un diverso orientamento, la competenza per connessione va necessariamente determinata all’atto dell’esercizio dell’azione penale, con la conseguenza che, una volta formalizzata l’imputazione con la richiesta di rinvio a giudizio, le vicende successive risultano inidonee ad incidere sul riparto di competenza, che va determinato con criterio ex ante, sulla scorta degli elementi disponibili al momento della formulazione dell’imputazione, in attuazione del principio della perpetuatio jurisdictionis (Sez. 6, n. 33435 del 4/5/2006, Battistella, Rv. 234350; Sez. 6, n. 1131 del 12/12/1996 - dep. 1997, Cama, Rv. 206901; Sez. 1, n. 3312 del 8/7/1992, Maltese, Rv. 191755; Sez. 4, n. 14699 del 12/12/2012, Perez, Rv. 255498).

Nell’affrontare i richiamati difformi orientamenti, la Sezioni unite hanno richiamato le osservazioni svolte da Sez. U, n. 27343 del 28/2/2013, Taricco, Rv. 255345. Tale pronuncia ha incidentalmente affrontato la questione relativa al momento nel quale il criterio di riparto della competenza per connessione determina la definitiva individuazione del giudice cui è rimessa la cognizione del processo e la concreta operatività della regola della perpetuatio jurisdictionis, affermando testualmente che «nell’attuale codice di procedura penale la contestazione è, nella fase delle indagini preliminari, per così dire fluttuante, cosicché il thema decidendum del processo si cristallizza soltanto con il rinvio a giudizio». Essa precisa ulteriormente che se «i criteri di attribuzione della competenza riguardano sia la fase delle indagini che quella del giudizio, è pure vero che la competenza diviene definitiva soltanto con la fase del giudizio».

Tale impostazione è stata ritenuta l’unica in grado di garantire l’effettivo svolgimento da parte del giudice dell’udienza preliminare della funzione di controllo sulla corretta formulazione dell’imputazione che, pertanto, diviene definitiva solo all’esito della predetta udienza.

Se l’imputazione si cristallizza solo con il decreto che dispone il giudizio, ne consegue necessariamente che le modifiche alla regiudicanda prodotte dalla sentenza di non luogo a procedere, che determini il venir meno dell’imputazione dotata di vis attractiva, si riflettono necessariamente sull’individuazione del giudice - monocratico o collegiale - dinanzi al quale si dovrà celebrare il giudizio. Si tratta, peraltro, di una soluzione che salvaguarda la funzione di vaglio preliminare attribuita al g.u.p. in ordine all’imputazione formulata dal pubblico ministero e impedisce che le scelte dell’organo dell’accusa possano - pur quando manifestamente erronee o infondate - rendere immodificabile l’attribuzione della competenza a un giudice che, in difetto dell’operatività del criterio della connessione, ne sarebbe privo.

Pertanto, l’eventuale proscioglimento relativo al reato che determina lo spostamento della competenza per connessione deve essere necessariamente considerato al fine di ripristinare l’ordinario riparto di competenza erroneamente alterato dalla contestazione di un reato ritenuto - nei termini di irreversibile evidenza richiesti per l’adozione di una sentenza di non luogo a procedere - non sussistente o in concreto non perseguibile.

Le Sezioni unite si sono poste il problema di vagliare la compatibilità del principio sopra affermato con quello secondo cui la competenza per connessione costituisce un originario di riparto della competenza, ritenendo che solo ammettendo il controllo del giudice dell’udienza preliminare si garantisce la salvaguardia del principio di precostituzione del giudice naturale, evitando che l’individuazione della competenza sia frutto di valutazioni del pubblico ministero sottratto ad un adeguato potere di controllo.

Sulla base di tali argomentazioni, la Sezioni unite hanno concluso nel senso di ritenere che l’applicazione delle regole sul riparto dell’attribuzione della cognizione tra tribunale in composizione collegiale o monocratica vada operata tenendo conto dell’esito dell’udienza preliminare. Il principio affermato da Sez. U, n. 48590 del 29/11/2019, Sacco, Rv. 277304-01 è stato, pertanto, così massimato «In tema di riparto tra giudice monocratico e collegiale, l’attribuzione determinata da ragioni di connessione va valutata al momento del rinvio a giudizio e non sulla base dei fatti così come contestati nella richiesta del pubblico ministero. (In motivazione, la Corte ha affermato che il principio della “perpetuatio iurisdictionis”, inteso come immutabilità della competenza a fini di certezza ed economia processuale e di tutela della ragionevole durata del processo, non può che riferirsi alla contestazione risultante dal complessivo vaglio del giudice dell’udienza preliminare sull’accusa formulata dal pubblico ministero e alla conseguente individuazione del giudice naturale operata sulla base dell’esito di quel controllo)».

4. Il rinvio a giudizio dinanzi al tribunale monocratico.

Una volta affermato il principio secondo cui la connessione – ai fini del riparto di competenza o di attribuzione – deve sussistere all’esito dell’udienza preliminare, si pone necessariamente il problema conseguenziale relativo al tipo di provvedimento che il g.u.p. dovrà adottare.

Le fattispecie in concreto ipotizzabili sono evidentemente due e si distinguono a seconda che, per i reati attribuiti al giudice monocratico, sia o meno prevista l’udienza preliminare.

Nella prima eventualità non si pongono problemi di sorta, atteso che il venir meno del reato che determinava l’attribuzione al collegio non incide sul regime della fase precedente al giudizio, nella misura in cui il residuale reato di competenza del giudice monocratico richieda ugualmente la celebrazione dell’udienza preliminare. La modifica, che il giudice dell’udienza preliminare determina per effetto della sentenza di non luogo a procedere, incide unicamente sull’attribuzione monocratica o collegiale prevista per i reati residui, ma lascia inalterata la necessità dell’udienza preliminare.

Ben diversa – e più problematica – è la fattispecie che si verifica ove per i residui reati attribuiti al giudice monocratico è prevista la citazione diretta a giudizio.

Le Sezioni unite sono partite dall’osservazione secondo cui le soluzioni astrattamente praticabili sono due.

La prima potrebbe essere quella di prevedere che il giudice dell’udienza preliminare, una volta determinato il venir meno della cognizione collegiale, disponga la restituzione degli atti al pubblico ministero, al fine di consentirgli di esercitare l’azione mediante la citazione diretta a giudizio. Si tratta di una soluzione che da un lato riconduce il procedimento nell’iter che avrebbe dovuto assumere fin dal principio, ma al contempo determina una obiettiva regressione dello stesso, atteso che dalla fase dell’udienza preliminare, comportante l’avvenuto esercizio dell’azione penale, si tornerebbe alla fase delle indagini per consentire al pubblico ministero il nuovo esercizio dell’azione nelle forme corrette della citazione diretta a giudizio.

La soluzione alternativa sarebbe quella di consentire direttamente al giudice per l’udienza preliminare, una volta pronunciata la sentenza di non luogo a procedere per il reato attribuito al collegio, di disporre il rinvio a giudizio dinanzi al giudice monocratico per le residue imputazioni, pur se per queste ultime sarebbe stata sufficiente la citazione diretta a giudizio.

Tale soluzione appare ictu oculi maggiormente rispettosa del principio di economica processuale e di celere definizione del giudizio, determinando l’immediato passaggio del procedimento alla fase del dibattimento, evitando la restituzione degli atti al pubblico ministero all’esclusivo fine di consentire a quest’ultimo il corretto esercizio dell’azione mediante la citazione diretta a giudizio.

La questione, pertanto, è stata risolta da Sez.U, n. 48590 del 29/11/2019, Sacco, Rv. 277304-02 nel senso di ritenere che «In tema di riparto tra giudice monocratico e collegiale, il giudice dell’udienza preliminare che, all’esito di tale fase, pronunci sentenza di non luogo a procedere in ordine al reato determinante la cognizione collegiale, deve disporre il rinvio a giudizio dinanzi al tribunale in composizione monocratica e non la restituzione degli atti al pubblico ministero. (In motivazione, la Corte ha precisato che la restituzione degli atti al pubblico ministero, ai sensi dell’art.33-sexies cod. proc. pen., è necessaria nei soli casi in cui, già in relazione all’originaria imputazione, fosse previsto l’esercizio dell’azione penale mediante citazione diretta).»

5. I casi riconducibili all’art. 33-sexies cod. proc. pen.

Per poter giungere a sostenere la possibilità che il giudice dell’udienza preliminare, una volta disposto il non luogo a procedere per il reato rimesso alla cognizione collegiale, possa disporre direttamente il rinvio a giudizio per le restanti ipotesi di competenza del giudice monocratico, anziché la restituzione degli atti al pubblico ministero, le Sezioni unite hanno dovuto delimitare l’ambito applicativo dell’art.33-sexies cod.proc.pen.

Quest’ultima norma, infatti, dispone testualmente che «Se nell’udienza preliminare il giudice ritiene che per il reato deve procedersi con citazione diretta a giudizio pronuncia, nei casi previsti dall’articolo 550, ordinanza di trasmissione degli atti al pubblico ministero per l’emissione del decreto di citazione a giudizio», sicchè sembrerebbe escludere la possibilità di un rinvio a giudizio anche con riguardo a reati per i quali non è prevista l’udienza preliminare.

Le Sezioni unite hanno affermato, tuttavia, che la disciplina dell’art. 33-sexies cod. proc. pen. va letta congiuntamente a quella relativa al termine entro il quale rilevare od eccepire l’inosservanza delle disposizioni relative alla cognizione monocratica o collegiale. L’art. 33-quinquies cod. proc. pen., infatti, stabilisce che l’erronea individuazione dell’attribuzione collegiale o monocratica deve essere eccepita o rilevata a pena di decadenza “prima della conclusione dell’udienza preliminare o, se questa manchi, entro il termine previsto dall’art. 491, comma”.

Dalla correlazione tra il rimedio (restituzione degli atti al p.m.) ed il termine per rilevare il vizio dell’azione, se ne deduce che il modulo procedurale previsto all’art. 33-sexies cod. proc. pen. è riferito ai casi in cui il vizio nella modalità dell’esercizio dell’azione è rilevabile dalla stessa formulazione dell’imputazione. L’ipotesi disciplinata dalla citata norma, pertanto, concerne le ipotesi in cui i fatti-reato, così come contestati dal pubblico ministero e senza che vi sia alcun intervento da parte del giudice, richiedono la citazione diretta a giudizio (vedi, Sez. 5, n. 31975 del 10/07/2008, Ragazzoni, Rv. 241162).

La previsione di termini preclusivi richiede infatti necessariamente la preesistenza, e quindi la conoscibilità per le parti, del presupposto per l’esercizio della facoltà, sicché il regime dell’eccezione di parte di cui all’art. 33 -quinquies cod. proc. pen. e la relativa decadenza devono necessariamente riferirsi all’imputazione originaria così come formulata dal pubblico ministero e non si applicano alla diversa ipotesi del mutamento dell’imputazione per effetto di una sopravvenuta diversa valutazione da parte del giudice dell’udienza preliminare.

6. Gli effetti del venir meno della connessione.

Ben diversa è, invece, l’ipotesi che si verifica qualora il pubblico ministero – avendo ipotizzato la connessione tra reati rimessi al collegio e reati a citazione diretta – ha correttamente chiesto il rinvio a giudizio. In tal caso, non opera il precetto di cui all’art.33-sexies cod.proc.pen., proprio perché il giudice dell’udienza preliminare è stato legittimamente investito della cognizione dei reati per i quali è richiesta l’udienza preliminare.

Il fatto che, all’esito dell’udienza preliminare e per effetto di una sentenza di non luogo a procedere limitata al solo reato che imponeva la richiesta di rinvio a giudizio, siano residuati solo reati a citazione diretta, non impone la restituzione degli atti al pubblico ministero, bensì legittima il rinvio a giudizio direttamente dinanzi al giudice monocratico.

7. Ulteriori ambiti di applicabilità del principio: la competenza per connessione.

I principi affermati dalle Sezioni unite consentono di fornire una possibile soluzione anche a problematiche similari a quella oggetto dell’ordinanza di rimessione.

In linea generale, va rimarcato come le Sezioni unite hanno ritenuto che il principio della perpetuatio iurisdictionis non è espressamente menzionato dal codice di procedura penale, mentre l’art. 5 cod. proc. civ. prevede che «la giurisdizione e la competenza si determinano con riguardo alla legge vigente e allo stato di fatto esistente al momento della proposizione della domanda, e non hanno rilevanza rispetto ad esse i successivi mutamenti della legge o dello stato medesimo». Tuttavia, si riconosce la natura generale del principio, che trova la sua origine nell’esigenza di rendere stabile l’attribuzione di un determinato procedimento al giudice naturale, evitando che vicende processuali, sostanziali od anche normative sopravvenute possano incidere sul rapporto processuale (Sez. U, n. 28909 del 27/9/2018, Treskine, Rv. 275870).

La finalità, pertanto, è essenzialmente quella di evitare che la competenza, una volta stabilizzata perché sottoposta al vaglio del giudice in relazione all’addebito definitivamente determinato, possa subire modifiche in corso di svolgimento del giudizio, garantendo anche al giudice di poter adeguare la qualificazione giuridica del fatto senza privarsi della competenza. Al contempo, la perpetuatio iurisdictionis assicura il rispetto dei principi di certezza ed economia processuale, ed è funzionale all’interesse dell’amministrazione giudiziaria alla ragionevole durata del processo, tutelato dall’art. 111, terzo comma, Cost.

Proprio in considerazione della funzione della perpetuatio iurisdictionis, le Sezioni unite hanno affermato che l’ambito operativo dell’istituto si colloca dopo il passaggio alla fase del giudizio, allorché si rende necessario garantire quella “stabilità” di competenza che, invece, non è funzionale nel corso delle indagini preliminari.

Oltre alle considerazioni che sono conseguite da tale affermazione con riguardo al profilo specifico del riparto di attribuzione tra giudice monocratico e collegiale, pare corretto estendere il principio anche alle similari problematiche che si pongono nel caso di competenza per connessione.

Del resto, le Sezioni unite – dopo aver tenuto a distinguere la competenza per connessione dall’analogo criterio di riparto della attribuzione – hanno chiaramente affermato come l’erronea individuazione della competenza per connessione non vincola il giudice dell’udienza preliminare, al quale è demandato il vaglio sul corretto esercizio dell’azione penale.

Sulla base delle argomentazioni riguardanti tale aspetto, pare corretto ritenere che la sentenza delle Sezioni unite indichi un criterio che concerne non già il solo caso in cui venga meno il reato che determina, per effetto della connessione, l’attribuzione della cognizione al giudice monocratico, anziché al collegio. Analogo principio, infatti, è specularmente applicabile anche alle ipotesi in cui la connessione, successivamente venuta meno all’esito dell’udienza preliminare, aveva comportato lo spostamento della competenza.

Le Sezioni unite si esprimono chiaramente in favore di tale soluzione, lì dove testualmente si afferma che la competenza per connessione, pur essendo un criterio autonomo ed originario di attribuzione della competenza, si determina stabilmente soltanto attraverso il vaglio giurisdizionale sull’esercizio dell’azione penale compiuto dal giudice nei termini stabiliti dal codice di rito a pena di decadenza.

Con la conseguenza che l’eventuale proscioglimento relativo al reato che determina lo spostamento della competenza per connessione deve essere necessariamente considerato al fine di ripristinare l’ordinario riparto di competenza erroneamente alterato dalla contestazione di un reato ritenuto - nei termini di irreversibile evidenza richiesti per l’adozione di una sentenza di non luogo a procedere - non sussistente o in concreto non perseguibile.

7.1. Diversa qualificazione giuridica del fatto ed effetti sull’attribuzione.

Il principio di diritto affermato dalle Sezioni unite è espressamente calibrato con riferimento all’ipotesi in cui l’attribuzione al giudice monocratico, anziché al collegio, sia frutto della pronuncia di una sentenza di non luogo a procedere relativamente al reato che determinava la cognizione dell’organo collegiale.

La regola, tuttavia, dovrebbe trovare identica applicazione anche nella diversa ipotesi in cui il giudice dell’udienza preliminare dia al fatto contestato una diversa qualificazione giuridica, da cui consegua l’attribuzione al tribunale monocratico con citazione diretta.

Anche in tale ipotesi, la necessità di modificare il rito consegue al controllo compiuto dal giudice dell’udienza preliminare sulla correttezza dell’imputazione, sicchè si tratta di una fattispecie similare a quella che si realizza allorchè il giudice dell’udienza preliminare, adottando una sentenza di non luogo a procedere, fa venir meno le ragioni della connessione ex art. 33-quater cod.proc.pen.

In entrambe le fattispecie, infatti, l’esigenza di mutamento del rito non nasce dall’originaria erronea indicazione del rito da seguire da parte del pubblico ministero, bensì da una diversa valutazione sulla qualificazione giuridica, ovvero sulla sostenibilità dell’accusa in giudizio, valutazioni entrambe frutto dell’esercizio di quel potere di controllo preventivo che è proprio del giudice dell’udienza preliminare.

Fatta tale premessa, occorre dar atto dell’esistenza di un contrasto in merito alle conseguenze della diversa qualificazione del fatto all’esito dell’udienza preliminare.

Secondo un primo orientamento, è abnorme, in quanto determina una indebita regressione del processo, il provvedimento del giudice dell’udienza preliminare il quale, investito della richiesta di rinvio a giudizio per un reato che prevede la celebrazione dell’udienza preliminare, disponga, previa riqualificazione giuridica del fatto, la restituzione degli atti al pubblico ministero, ai sensi dell’art. 33-sexies cod.proc.pen., affinchè proceda con citazione diretta (Sez. 5, n. 10531 del 20/02/2018, Lazzarini, Rv. 272593; in senso sostanzialmente conforme Sez. 5, n. 35153 del 19/04/2016, Branca, Rv. 267766; Sez. 3, n. 51424 del 18/09/2014, Longhi, Rv. 261397).

Secondo un contrario orientamento, non è abnorme il provvedimento con cui il giudice dell’udienza preliminare dispone la restituzione degli atti al pubblico ministero sul presupposto della diversa qualificazione del fatto (Sez. 6, n. 6945 del 13/2/2019, Alioti; in senso conforme si veda Sez. 1, n. 47766 del 06/11/2008, Longari, Rv. 242747; Sez. 6, n. 41037 del 20/10/2009, Betti, Rv. 245033).

Applicando i principi elaborati dalle Sezioni unite, si ritiene che il suddetto contrasto dovrebbe essere agevolmente risolto privilegiando la tesi secondo cui l’imputazione diviene definitiva solo all’atto del passaggio alla fase del giudizio e, quindi, l’eventuale diversa qualificazione compiuta dal giudice dell’udienza preliminare dovrebbe produrre effetti anche in ordine all’individuazione dell’organo giudicante cui è attribuita la cognizione del diverso reato risultante all’esito del vaglio compiuto in udienza preliminare.

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. U, n. 48590 del 29/11/2019, Sacco, Rv. 277304

Sez. 6, n. 6945 del 13/2/2019, Alioti

Sez. U, n. 28909 del 27/9/2018, Treskine, Rv. 275870

Sez. 5, n. 10531 del 20/02/2018, Lazzarini, Rv. 272593

Sez. 5, n. 35153 del 19/04/2016, Branca, Rv. 267766

Sez. 3, n. 51424 del 18/09/2014, Longhi, Rv. 261397

Sez. 1, n. 69 del 17/10/2013, Mone, Rv. 258395

Sez. U, n. 27343 del 28/2/2013, Taricco, Rv. 255345

Sez. 4, n. 14699 del 12/12/2012, Perez, Rv. 255498

Sez. 6, n. 21840 del 24/05/2012, Cava, Rv. 252793

Sez. 1, n. 47766 del 06/11/2008, Longari, Rv. 242747

Sez. 6, n. 41037 del 20/10/2009, Betti, Rv. 245033

Sez. 5, n. 31975 del 10/07/2008, Ragazzoni, Rv. 241162

Sez. 6, n. 22426 del 22/4/2008, Sarandria, Rv. 240512

Sez. 6, n. 33435 del 4/5/2006, Battistella, Rv. 234350

Sez. 6, n. 38298 del 09/07/2003, Gastaldello, Rv. 227047

Sez. 1, n. 2739 del 14/5/1998, Campigli, Rv. 210722

Sez. 1, n. 3308 del 12/5/1997, Olivieri, Rv. 207757

Sez. 6, n. 2211 del 2/6/1997, Avagnano, Rv. 209329

Sez. 6, n. 1131 del 12/12/1996, Cama, Rv. 206901

Sez. 1, n. 3312 del 8/7/1992, Maltese, Rv. 191755

SEZIONE II MISURE CAUTELARI REALI

  • sequestro di beni
  • confisca di beni
  • fallimento

CAPITOLO I

IL REVIREMENT DELLE SEZIONI UNITE SULLA LEGITTIMAZIONE DEL CURATORE A CONTRASTARE IL SEQUESTRO FINALIZZATO ALLA CONFISCA

(di Raffaele Piccirillo )

Sommario

1 I precedenti arresti delle Sezioni Unite. - 1.1 La soluzione Focarelli: la legittimazione del curatore quale riflesso della funzione istituzionale della procedura e dell’ufficio fallimentare. - 1.2 Il principio Uniland: il disconoscimento della legittimazione del curatore in quanto non portatore di diritti reali. - 2 L’insoddisfazione della giurisprudenza per il principio Uniland. - 3 La questione rimessa alle Sezioni Unite e la lettura dell’art. 618, comma 1-bis, cod. proc. pen. - 4 Le caratteristiche del caso e la proposta di distinguishing. - 5 L’inevitabilità del confronto con il principio Uniland. - 5.1 L’estensione del principio Uniland al di là dei casi di sequestro ex art. 19-53 d.lgs. n. 231 del 2001. - 5.2 L’inconferente richiamo del principio di consecuzione delle procedure concorsuali. - 5.3 Non è vero che il principio Uniland presuppone la concorrenza di vincoli legittimi. - 6 Le ragioni del cambio di rotta. - 6.1 La centralità degli artt. 322, 322-bis e 325 cod. proc. pen. e la distinta fisionomia dell’avente diritto alla restituzione. - 6.2 Il curatore fallimentare titolare di una disponibilità autonoma e giuridicamente tutelata dei beni fallimentari. - 6.3 L’interesse concreto del curatore a contrastare il sequestro. - 6.4 Le conclusioni delle Sezioni Unite e il nuovo Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza. - 6.5 L’autonoma legittimazione del curatore e l’opponibilità del giudicato formatosi sull’impugnazione del debitore fallito. - 7 Legittimità del sequestro del denaro a fini di confisca diretta del profitto del reato tributario e oneri di allegazione del ricorrente. - 8 La legittimazione del curatore a impugnare il sequestro di prevenzione. - Indice delle sentenze citate

1. I precedenti arresti delle Sezioni Unite.

Con la decisione n. 45936 del 26/09/2019, Fall. Mantova Petroli s.r.l. in liquidazione, Rv. 277257-01 le Sezioni Unite sono ritornate, per la terza volta in quindici anni, sul tema della legittimazione del curatore a contrastare, con istanze di revoca e con impugnazioni, il sequestro preventivo disposto a fini di confisca su beni ricompresi, in potenza o in atto, nell’attivo fallimentare.

Nelle occasioni precedenti (Sez. U, n. 29951 24/05/2004, Focarelli e Sez. U, n. 11170 del 25/09/2014 - dep. 2015, Uniland s.p.a.), il tema non costituiva oggetto diretto delle controversie interpretative rimesse alle Sezioni unite, al centro delle quali stava la questione della permeabilità, o meno, del sequestro penale alle ragioni della procedura concorsuale, nel caso in cui le due procedure concorressero sui medesimi beni.

I dicta sulla legittimazione del curatore rispondevano alla necessità di risolvere la questione preliminare dell’ammissibilità dell’impugnazione e riflettevano, nel loro contraddirsi, un diverso approccio al tema generale dei rapporti tra il sequestro penale e lo spossessamento fallimentare: più pragmatico l’approccio del 2004; più ideologico quello del 2014.

L’insoddisfazione di giurisprudenza e dottrina per il principio di più recente enunciazione e per le sue implicazioni è stata intercettata dalla Terza Sezione, con l’ordinanza n. 22602 del 16/04/2019, emessa in applicazione della recente disposizione dell’art. 618, comma 1-bis c.p.p., che per la prima volta concentra l’attenzione del massimo organo della nomofilachia sul tema della legittimazione, formulando un quesito (Se il curatore fallimentare sia legittimato a chiedere la revoca del sequestro preventivo a fini di confisca e ad impugnare i provvedimenti in materia cautelare reale quando il vincolo penale sia stato disposto prima della dichiarazione di fallimento), la cui comprensione non può prescindere da qualche passaggio retrospettivo.

1.1. La soluzione Focarelli: la legittimazione del curatore quale riflesso della funzione istituzionale della procedura e dell’ufficio fallimentare.

Il precedente più risalente è costituito da Sez. U, n. 29951 24/05/2004, Focarelli, per lungo tempo leading case sul tema dei rapporti tra ablazione penale e vincolo fallimentare.

Come si è detto, la questione devoluta verteva sul «se sia consentito il sequestro preventivo finalizzato alla confisca facoltativa di beni provento di attività illecita dell’indagato e di pertinenza di impresa dichiarata fallita», e cioè sul se la privazione della disponibilità dei beni determinata dalla procedura fallimentare fosse in grado di assorbire le esigenze proprie del vincolo penale, tanto da precluderne l’imposizione o da implicarne la revoca.

Le Sezioni Unite rispondevano al quesito, subordinando la legittimità del sequestro preventivo, funzionale alla confisca facoltativa, di beni provento di attività illecita e appartenenti ad un’impresa dichiarata fallita, nei cui confronti sia instaurata la relativa procedura concorsuale, alla condizione «che il giudice, nell’esercizio del suo potere discrezionale, dia motivatamente conto della prevalenza delle ragioni sottese alla confisca rispetto a quelle attinenti alla tutela dei legittimi interessi dei creditori nella procedura fallimentare» (Rv. 228165-01).

In un obiter, il Collegio procedeva poi alla definizione dei rapporti tra il fallimento e altre tipologie di sequestro, operando le seguenti distinzioni: a) il sequestro probatorio può legittimamente essere disposto su beni già appresi al fallimento e, se anteriore alla dichiarazione di fallimento, conserva la propria efficacia anche in seguito alla sopravvenuta apertura della procedura concorsuale, trattandosi di una misura strumentale alle esigenze processuali, che persegue il superiore interesse della ricerca della verità nel procedimento penale; b) il sequestro conservativo previsto dall’art. 316 cod. proc. pen., in quanto strumentale e prodromico ad una esecuzione individuale nei confronti del debitore ex delicto, rientra, in caso di fallimento dell’obbligato, nell’area di operatività del divieto di cui all’art. 51 l. fall., secondo cui dal giorno della dichiarazione di fallimento nessuna azione individuale esecutiva può essere iniziata o proseguita sui beni compresi nel fallimento; c) il sequestro preventivo c.d. impeditivo, previsto dall’art. 321 comma 1 cod. proc. pen., di beni appartenenti ad un’impresa dichiarata fallita è legittimo, a condizione che il giudice, nel discrezionale giudizio sulla pericolosità della res, operi una valutazione di bilanciamento del motivo di cautela e delle ragioni attinenti alla tutela dei legittimi interessi dei creditori, anche attraverso la considerazione dello svolgimento in concreto della procedura concorsuale; d) il sequestro preventivo avente ad oggetto un bene confiscabile in via obbligatoria deve ritenersi assolutamente insensibile alla procedura fallimentare, prevalendo l’esigenza di inibire l’utilizzazione di un bene intrinsecamente e oggettivamente “pericoloso” in vista della sua definitiva acquisizione da parte dello Stato.

Al centro dell’argomentazione stava la funzione pubblicistica della procedura e dell’ufficio fallimentare che, precludendo soluzioni improntate all’incondizionata prevalenza del vincolo penale, imponeva, ogni qualvolta fosse possibile (al netto cioè dei casi del sequestro probatorio e del sequestro finalizzato alla confisca obbligatoria), il raccordo informativo tra il giudice penale e quello fallimentare e il bilanciamento funzionale delle esigenze sottese alle procedure concorrenti.

Da questa impostazione discendeva il pieno riconoscimento della legittimazione del curatore a contrastare il sequestro penale imposto sui beni già compresi nell’attivo fallimentare o suscettibili di essere ad esso acquisiti.

In quanto ausiliario di giustizia, connotato da terzietà - e non rappresentante degli interessi privati del fallito o dei singoli creditori - il curatore del fallimento «è sicuramente legittimato a proporre sia l’istanza di riesame del provvedimento di sequestro preventivo sia quella di revoca della misura, ai sensi dell’art. 322 c.p.p.(nonché a proporre ricorso per Cassazione, exart. 325 c.p.p., avverso le relative ordinanze emesse dal tribunale per il riesame). Egli, invero, agisce in tal modo (previa rituale autorizzazione del giudice delegato), per la rimozione di un atto pregiudizievole ai fini della reintegrazione del patrimonio, attendendo alla sua funzione istituzionale rivolta alla ricostruzione dell’attivo fallimentare».

1.2. Il principio Uniland: il disconoscimento della legittimazione del curatore in quanto non portatore di diritti reali.

Neppure nel 2014, si trattava di un sequestro disposto, ai sensi degli artt. 19-53 d.lgs. n. 231 del 2001 e la controversia interpretativa verteva su due aspetti: a) Se, per disporre il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente a norma dell’art. 19, comma secondo, d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, con riferimento a beni di pertinenza della massa attiva di un fallimento, il giudice penale possa limitarsi ad accertare la confiscabilità dei cespiti, senza prendere in considerazione le esigenze tutelate dalla procedura concorsuale, o debba invece procedere ad una valutazione comparativa tra le ragioni di questa, e segnatamente dei creditori in buona fede, e quelle afferenti alla pretesa punitiva dello Stato; b) in quest’ultimo caso, se la verifica delle ragioni dei singoli creditori, al fine di accertarne la buona fede, debba essere compiuta dal giudice penale o, invece, dal giudice fallimentare, eventualmente in applicazione analogica della disciplina dei sequestri di prevenzione di cui al titolo IV del d. lgs. 6 settembre 2011, n. 159 (cd. codice antimafia).

La questione principale rappresentava un postumo problematico dell’indicazione contenuta nel richiamato obiter della sentenza Focarelli. Si trattava di stabilire se il sequestro funzionale alla confisca obbligatoria, destinato secondo quel principio, a prevalere in ogni caso sul vincolo fallimentare fosse soltanto quello inteso ad assicurare la confisca di cose in sé pericolose, secondo il modello codicistico dell’art. 240 cod. pen.; o se, invece, assumesse rilevanza, a prescindere dalla natura dei beni, la connotazione normativa della confisca, nel qual caso il sequestro all’ente avrebbe dovuto essere ritenuto insensibile alle ragioni della procedura fallimentare.

Con soluzione per certi versi sorprendente, Sez. U, n. 11170 del 25/09/2014 - dep. 2015, Uniland s.p.a., negarono preliminarmente la legittimazione del curatore, dettando un principio che, pur apparentemente circoscritto all’ambito del procedimento nei confronti dell’ente, fondava su argomentazioni estensibili al di fuori di quel contesto e che perciò si atteggiava quale ribaltamento del precedente del 2004.

Si affermò che «In tema di responsabilità da reato degli enti, il curatore fallimentare non è legittimato a proporre impugnazione avverso il provvedimento di sequestro preventivo funzionale alla confisca dei beni della società fallita» (Rv. 263685-01).

Anche questa volta la soluzione del problema discendeva dall’ottica prescelta per la ricostruzione generale del tema dei rapporti tra sequestro/confisca e procedura concorsuale.

In quella ricostruzione giocava un ruolo centrale la disposizione dell’art. 19 d. lgs. n. 231 del 2001, e in particolare alla clausola di salvaguardia dei diritti acquisiti dai terzi in buona fede che, secondo la Corte, esigerebbe la titolarità del diritto di proprietà o di un diritto reale sui beni passibili di apprensione in sede penale.

Sennonché di un tale diritto non sono titolari i creditori, almeno fino a quando la procedura fallimentare non si sia conclusa con l’approvazione del piano di riparto e l’assegnazione dei beni, e non è titolare il curatore che ne rappresenta gli interessi.

«E’, infatti, evidente che coloro che si insinuano nel fallimento vantando un diritto di credito non possono essere ritenuti per tale solo fatto titolari di un diritto reale sul bene ai sensi e per gli effetti previsti dall’art. 19 del decreto sulla responsabilità degli enti, perché sarà proprio con la procedura fallimentare che, sulla scorta delle scritture contabili e degli altri elementi conoscitivi propri della procedura, si stabilirà se il credito vantato possa o meno essere ammesso al passivo fallimentare. Il curatore nel contempo individuerà tutti i beni che debbono formare la massa attiva del fallimento, arricchendola degli eventuali esiti favorevoli di azioni revocatorie, e soltanto alla fine della procedura si potrà, previa vendita dei beni ed autorizzazione da parte del giudice delegato del piano di riparto, procedere alla assegnazione dei beni ai creditori. E’ soltanto in questo momento che i creditori potranno essere ritenuti titolari di un diritto sui beni che potranno far valere nelle sedi adeguate (p. 24)».

Conseguiva che la tutela degli interessi della par condicio creditorum con il vincolo penale non poteva che essere differita a tale momento, quando il curatore aveva ormai esaurito il suo compito e la legittimazione ad agire non poteva spettare che ai creditori assegnatari o agli eventuali acquirenti dei beni:

«La sede adeguata ove far valere i diritti del terzo non potrà essere, nella ipotesi dinanzi indicata, che quella dell’incidente di esecuzione. Infatti, come si è già notato, il legislatore ha demandato al giudice penale che deve disporre il sequestro dei beni ex art. 19 d.lgs n. 231 del 2001 e/o la confisca degli stessi l’onere di salvaguardare i diritti dei terzi acquisiti in buona fede; quindi è il competente giudice della cognizione penale che prima di disporre il sequestro e/o la confisca dovrà valutare se la titolarità del bene sia stata acquisita dal terzo in buona fede. Quando, però, sia stata pronunciata sentenza definitiva di condanna dell’ente e sia stata disposta la confisca dei beni appartenenti allo stesso, il giudice competente a decidere sulla istanza del terzo non potrà che essere il giudice dell’esecuzione penale, che, ai sensi degli artt. 665 e s. cod. proc. pen., è chiamato a risolvere, su istanza delle parti interessate, tutte le questioni che attengono alla esecuzione dei provvedimenti giudiziari definitivi» (p. 25).

2. L’insoddisfazione della giurisprudenza per il principio Uniland.

Non hanno tardato a manifestarsi nella giurisprudenza successiva all’arresto nomofilattico del 2014, i segni dell’insoddisfazione per l’assetto delineato da quella pronuncia.

A meno di un anno dal deposito della decisione cominciava a delinearsi un indirizzo che temperava i rigori del principio, ammettendo la legittimazione del curatore a contrastare il sequestro che fosse stato disposto dopo la dichiarazione di fallimento.

Alle origini di questa linea interpretativa – del cui consolidamento danno conto tanto la sezione remittente quanto l’ultima pronuncia delle ultime Sezioni Unite (pag. 9 della motivazione) – si pone la decisione Sez. 3, n. 42469 del 12/07/2016, Amista, Rv. 268015-01, attinente, così come il caso trattato nella sentenza Mantova Petroli s.p.a., a un sequestro preventivo disposto a fini di confisca del profitto dei reati di cui agli artt. 2 e 8 d.lgs. n. 74 del 2000.

In quella decisione si enuncia il principio di diritto così massimato:

«Il curatore fallimentare non è legittimato a proporre impugnazione avverso il provvedimento di sequestro preventivo, anche per equivalente, emesso anteriormente alla dichiarazione di fallimento di un’impresa, in quanto non è titolare di alcun diritto sui beni del fallito, né in proprio, né quale rappresentante dei creditori del fallito i quali, prima della conclusione della procedura concorsuale, non hanno alcun diritto restitutorio sui beni. (In motivazione la Corte ha precisato che la legittimazione per impugnare consegue alla effettiva disponibilità del bene e che, invece, la dichiarazione di fallimento successiva al sequestro non conferisce alla procedura la disponibilità dei beni del fallito in considerazione del fatto che, da un lato, questi ne conserva il diritto di proprietà e, dall’altro, che il pregresso vincolo penale assorbe ogni potere fattuale su tali beni, escludendo ogni disponibilità diversa sugli stessi)».

Muovendosi ancora nelle pieghe della motivazione Uniland, la Terza Sezione affermava che – dovendosi conferire alla nozione di disponibilità, nel settore delle cautele reali, «contenuto esclusivamente fattuale, corrispondente in sostanza all’istituto civile del possesso» - laddove il sequestro penale e la sua esecuzione precedono il fallimento, quest’ultimo non può acquisire la disponibilità dei beni caduti sotto il vincolo penale, «onde non può a tale potere fattuale aggrapparsi per conseguire una legittimazione ad impugnare il vincolo penale».

Quindi si osservava, incidentalmente, che se la carenza del possesso ha rilevanza decisiva per affermare che il curatore, oltre a non poter vantare una posizione di diritto restitutorio, non può neppure qualificarsi come «soggetto al quale le cose sono state (in fatto) sequestrate» (a termini degli artt. 322, 322-bis e 325 cod. proc. pen.), «il quadro finale avrebbe potuto forse essere diverso nel caso in cui il sequestro preventivo finalizzato a confisca avesse investita una massa attiva fallimentare – essendo già stato dichiarato il fallimento ed avendo già il curatore preso in suo possesso gestorio i beni del fallito». In questo caso, la barriera del difetto di legittimazione potrebbe non riuscire a «districa(re) l’eventuale conflitto tra gli interessi salvaguardati a mezzo della sanzione penale della confisca e della cautela a essa prodromica da un lato e gli interessi inclusi nella procedura fallimentare dall’altro».

L’affermazione incidentale della sentenza Amista diviene risolutivo principio di diritto nella decisione Sez. 3, n. 45574 del 29/05/2018, Evangelista, Rv. 273951-01: «In tema di reati tributari, il sequestro preventivo finalizzato alla confisca di cui all’art. 12-bis, d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, non può essere adottato sui beni già assoggettati alla procedura fallimentare, in quanto la dichiarazione di fallimento importa il venir meno del potere di disporre del proprio patrimonio in capo al fallito, attribuendo al curatore il compito di gestire tale patrimonio al fine di evitarne il depauperamento».

Non assumeva rilievo, nel caso di specie, il tema della legittimazione impugnatoria del curatore perché questa era stata riconosciuta dal tribunale del riesame impugnato, che era però pervenuto al rigetto dell’appello sul presupposto della natura obbligatoria e sanzionatoria della confisca ex art. 12-bis d.lgs. n. 74 del 2000 cautelata con il sequestro di specie, dalla quale faceva discendere la prevalenza su ogni altra ragione dell’esigenza di «inibire l’utilizzazione di un bene in vista della sua definitiva acquisizione da parte dello Stato».

Secondo la Terza Sezione, il giudice territoriale era incorso in più d’un equivoco nell’applicazione dei principi dettati dalla sentenza Uniland ad un caso che si presentava radicalmente diverso, per il fatto di avere ad oggetto un sequestro disposto su beni già entrati nell’attivo fallimentare.

La preesistenza della procedura fallimentare imponeva – secondo la Corte - una diametrale inversione di prospettiva, «traducendosi in un ostacolo che relega ad un ruolo del tutto secondario la natura rivestita dalla confisca cui è finalizzato il sequestro», posto che l’indisponibilità dei beni in capo al fallito, posta a presidio degli interessi pubblicistici (gli stessi evidenziati dalla decisione Amista: «necessità che il tracollo dell’impresa non si estenda a macchia di leopardo ai soggetti che con questa abbiano avuto rapporti») non ne consente l’assoggettabilità al vincolo penale.

Seguiva il richiamo della nozione di disponibilità quale potere di fatto sul bene, già costituito in capo all’ufficio fallimentare, con la sottolineatura della sufficienza di tale condizione di fatto a fondare la legittimazione processuale del curatore quale “persona alla quale le cose sono state sequestrate”, legittimazione alla quale non poteva conseguire la negazione della tutela che il fallimento merita in quanto possessore terzo rispetto al reato.

Non sono mancati segnali di più radicale rottura con il principio dettato nel 2014, pronunce nelle quali, cioè, si ammise la possibilità che, a prescindere dal riferimento cronologico alla posteriorità o meno del sequestro rispetto alla dichiarazione di fallimento, si affermò la necessità di verifica in concreto dell’interesse del curatore, quale soggetto deputato all’amministrazione dei beni, a chiedere la revoca o ad impugnare il provvedimento cautelare (Sez. 3, n. 37439 del 07/03/2017, Cosentino; Sez. 6, n. 37638 del 13/02/2019, Fallimento Radio Tele Europa s.r.l.; Sez. 3, n. 17749 del 17/12/2018 – dep. 2019, Casa di cura Trusso s.p.a., Rv. 275453; Sez. 3, n. 47737 del 24/09/2018, Fallimento Paninvest s.p.a., Rv. 275438; Sez. 3, n. 45578 del 6/06/2018, Fallimento Laziale RE.MA.PRI. s.n.c.).

3. La questione rimessa alle Sezioni Unite e la lettura dell’art. 618, comma 1-bis, cod. proc. pen.

Il tenore delle ultime decisioni richiamate nel paragrafo precedente è risultato evidentemente troppo stridente con il principio enunciato dalla sentenza Uniland e perciò la Terza Sezione, con ordinanza n. 22602 del 16/04/2019, ha rimesso alle Sezioni Unite la questione vertente sul «Se il curatore fallimentare sia legittimato a chiedere la revoca del sequestro preventivo a fini di confisca e ad impugnare i provvedimenti in materia cautelare reale quando il vincolo penale sia stato disposto prima della dichiarazione di fallimento».

La rimessione è avvenuta ai sensi dell’art. 618-comma 1-bis, cod, proc. pen., disposizione introdotta dall’art. 1, comma 66, legge 23 giugno 2017, n. 103, che impone la re-investitura del Collegio nomofilattico, ogniqualvolta una sezione della corte ritenga di non condividere il principio di diritto enunciato in precedenza dal medesimo organo.

La sezione remittente condivideva evidentemente l’indirizzo secondo il quale l’ipotesi di rimessione obbligatoria deve trovare applicazione anche con riferimento ai principi enunciati in decisioni intervenute prima dell’entrata in vigore della nuova disposizione (Sez. U, n. 36072 del 19/04/2018, Botticelli, Rv. 273549-01).

Implicitamente aderendo a questa lettura, la sentenza Sez. U., n. 45936 del 26/09/2019, Fall. Mantova Petroli s.r.l. in liquidazione aggiunge che la necessità di propiziare il nuovo intervento nomofilattico non viene meno nel caso in cui il precedente dictum investa un tema che – come nel caso di specie - non costituiva diretto oggetto della questione in interpretativa in precedenza devoluta. Quello che conta è che, sia pure «nello sviluppo dell’argomentazione» dedicata alla controversia interpretativa fondante la rimessione, il precedente abbia fornito una «precisa indicazione di principio», «nell’ottica del cui superamento si giustifica la rimessione della relativa questione secondo la previsione dell’art. 618, comma 1-bis, cod. proc. pen.» (pag. 8 del considerato in diritto).

4. Le caratteristiche del caso e la proposta di distinguishing.

Tre caratteristiche del caso avrebbero consentito, secondo l’originaria prospettazione della curatela ricorrente, di riconoscere la sua legittimazione a contrastare il sequestro in parola, prescindendo dal principio enunciato dalle Sezioni Unite nella decisione Uniland.

a) Il provvedimento in parola aveva per oggetto un sequestro disposto, nel contesto del procedimento a carico degli amministratori della Mantova Petroli s.r.l. in liquidazione, per violazioni tributarie (omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto), a fini di assicurazione della confisca diretta del profitto prevista dall’art. 12-bis d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74. Non sarebbe stato dunque applicabile il principio Uniland, espresso in relazione ad un caso di sequestro per equivalente disposto nei confronti dell’ente ai sensi degli artt. 19-53 del d.lgs. n. 231 del 2001.

b) L’appello della curatela, dichiarato inammissibile dal Tribunale del riesame con la decisione impugnata, era incentrato (anche) sulla contestazione della legittimità del vincolo, che sarebbe stato apposto su somme di denaro non qualificabili come provento del contestato reato tributario. Non si tratta (soltanto) di dirimere la questione della coesistenza di due vincoli entrambi legittimi, alla quale dovrebbe intendersi circoscritto il diniego della legittimazione del curatore.

c) Al tempo dell’imposizione del vincolo penale, la società interessata, pur non essendo stata ancora dichiarata fallita, aveva già richiesto l’ammissione al concordato preventivo. Il principio di consecuzione delle procedure concorsuali imponeva pertanto di retrodatare gli effetti della sopravvenuta dichiarazione di fallimento ad un’epoca anteriore al sequestro. Ne conseguirebbe l’applicabilità al caso dello stabilizzato principio che riconosce la legittimazione del curatore ad agire contro i vincoli penali apposti su beni già entrati nell’attivo fallimentare (v. supra).

5. L’inevitabilità del confronto con il principio Uniland.

Condividendo la prospettiva illustrata nell’ordinanza di rimessione del ricorso, le Sezioni Unite hanno ritenuto inevitabile il confronto con il precedente Uniland, non trovando persuasiva la prospettiva di immunizzazione del caso singolo avanzata dal ricorrente.

5.1. L’estensione del principio Uniland al di là dei casi di sequestro ex art. 19-53 d.lgs. n. 231 del 2001.

In primo luogo, il Collegio esclude che la portata del diniego della legittimazione del curatore a contrastare il vincolo penale, per come affermato nella decisione del 2014, possa intendersi circoscritta al sequestro disposto ai fini della confisca di cui all’art. 19 d.lgs. n. 231 del 2001.

Gli argomenti utilizzati nella decisione del 2014 impongono di ritenere quel diniego esteso all’intero ambito dei provvedimenti cautelari finalizzati a confisca, come del resto affermato da Sez. 3, n. 23388 del 01/03/2016, Ivone, Rv. 267346-01, con specifico riferimento a un caso di sequestro finalizzato alla confisca disposta per reati tributari.

In particolare, la Corte segnala il respiro generale degli argomenti spesi nella precedente decisione delle Sezioni Unite, per escludere da un lato la sussistenza di un diritto reale, esercitabile iure proprio o iure representationis dal curatore sui beni del fallito; per dubitare, dall’altro, della configurabilità di un interesse concreto del medesimo a contrastare il vincolo penale:

«Nella sentenza Uniland si osservava infatti che la dichiarazione di fallimento non trasferisce alla curatela la proprietà dei beni del fallito, ma solo l’amministrazione e la disponibilità degli stessi. Se ne desumeva pertanto che nessun diritto reale su tali beni può essere riconosciuto al curatore, il quale ha unicamente compiti gestionali, mirati al soddisfacimento dei creditori; e si aggiungeva che il curatore neppure esercita diritti in rappresentanza dei creditori stessi, i quali, fino alla conclusione della procedura concorsuale, vantano una mera pretesa sui beni del fallito e non hanno quindi alcun titolo per la restituzione degli stessi. Ponendosi altresì in dubbio, nella sentenza indicata, che il curatore abbia un interesse concreto tutelabile ad opporsi a provvedimenti di sequestro e confisca che non recano effettivo pregiudizio alla integrità della massa fallimentare, la cui tutela è oggetto delle funzioni della curatela, dal momento che lo Stato può far valere il suo diritto sui beni solo alla conclusione della procedura e con la salvaguardia dei diritti dei creditori» (Par. 2. del considerato in diritto).

Occorre in effetti considerare che l’art. 53, comma 1 del d.lgs. n. 231 del 2001, che assumeva rilevanza nel caso Uniland, rinvia alle disposizioni del codice di rito in tema di sequestro preventivo e relative impugnazioni (artt. 322 e 322-bis c.p.p.), disposizioni delle quali la Corte aveva evidentemente fornito una lettura limitativa che non poteva non condizionare la soluzione del tema in relazione ad altre tipologie di sequestro a fini di confisca.

Per quanto poi specificamente attiene all’influenza di quella decisione sul problema della legittimazione del curatore a contrastare il sequestro a fini di confisca disposto per reati tributari (che viene in gioco nel caso di specie), la giurisprudenza delle sezioni semplici era più volte pervenuta alla conclusione che quanto detto nella sentenza Uniland in relazione all’art. 19 d.lgs. n. 231 del 2001, vale a fortiori per il sequestro finalizzato alla confisca ex artt. 322-ter cod. pen. e 12-bis, comma 1, d.lgs. n. 74 del 2000.

Nella decisione Sez. 3, n. 23388 del 01/03/2016, Ivone, Rv. 267346, richiamata sinteticamente dalla sentenza in esame, si individuava il cuore della ratio decidendi esibita dalla sentenza Uniland nella insufficienza di una pretesa creditoria a fondare un diritto restitutorio e la connessa legittimazione processuale e si affermava che detta ratio, nel sequestro disposto a fini di confisca del profitto dei reati tributari, è persino più cogente che nel contesto del procedimento all’ente.

Mentre, infatti, l’art. 19 d.lgs., n. 231 del 2001 fa salvi i “diritti acquisiti” dai terzi di buona fede, l’art. 322-ter cod. pen. (così come il vigente art. 12-bis, comma 1, d. lgs. n. 74 del 2000, introdotto dal d.lgs. n. 158 del 2015) riferisce la salvaguardia ai beni che “appartengano” a persona estranea al reato.

Analogamente, Sez. 3, n. 28090 del 16/05/2017, Falcone, n.m., sempre in materia di confisca del profitto di un reato tributario (art. 10-bis d. lgs. n. 74 del 2000), affermava che la validità del principio Uniland (Rv. 263685) «deve essere a fortiori ribadita allorquando la dichiarazione di fallimento della società i cui beni siano stati colpiti dal provvedimento di sequestro sia successiva a quest’ultimo» e che - non potendo revocarsi in dubbio, nel caso di specie, la piena disponibilità dei beni al momento dell’esecuzione del sequestro da parte dell’indagato – detti beni non avrebbero certamente potuto essere inclusi nell’attivo di un fallimento non ancora dichiarato, il cui sopravvento comunque «non determina alcuna successione a titolo particolare del curatore al fallito, quantunque quest’ultimo perda per effetto della sentenza dichiarativa del fallimento l’amministrazione e il potere di disporre dei suoi beni».

5.2. L’inconferente richiamo del principio di consecuzione delle procedure concorsuali.

Il richiamo del principio di consecuzione delle procedure concorsuali, operato dal ricorrente per retrodatare gli effetti della dichiarazione di fallimento all’epoca della domanda di ammissione al concordato preventivo, in modo da propiziare l’applicazione al caso della giurisprudenza di cui al precedente par. 2), è reputato inconferente dalle Sezioni Unite del 2019.

Il principio di consecuzione, dice in sostanza la Corte, risponde all’esclusiva finalità di individuare gli atti depauperativi della massa fallimentare passibili di revocatoria ai sensi dell’art. 67 l. fall., come risulta dal dato testuale dell’art. 69-bis, comma secondo, l. fall., a termini del quale, nel caso in cui alla domanda di concordato preventivo segua la dichiarazione di fallimento, i termini previsti per l’individuazione degli atti dispositivi soggetti ad azioni revocatorie, in quanto compiuti in un determinato periodo antecedente la declaratoria di fallimento, decorrono dalla data di pubblicazione della domanda di concordato nel registro delle imprese.

In questa limitata accezione il principio è costantemente inteso dalle sezioni civili della Corte (Sez. 1 civ., n, 15724 del 11/06/2019, Rv. 654456; Sez. 1 civ., n. 25728 del 14/12/2016, Rv. 642756; Sez. 1 civ., n. 5924 del 14/03/2016, Rv. 639058; Sez. 1 civ., n. 2335 del 17/02/2012, Rv. 621348).

E’ la stessa giurisprudenza civilistica ad evidenziare la non assimilabilità del concordato preventivo al fallimento, ai fini che qui interessano, quando afferma che il debitore ammesso al concordato preventivo subisce uno spossessamento attenuato dei suoi beni, nel senso che di essi mantiene non solo la proprietà, ma anche l’amministrazione e la disponibilità, sia pure con le limitazioni proprie di quella particolare procedura concorsuale (Sez. 5 civ., n. 4728 del 25/02/2008, Rv. 602013; Sez. 5 civ., n. 6211 del 16/03/2007, Rv. 597037).

La consapevolezza di questo dato induce, in ambito penale, l’affermazione per la quale «È legittimo il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente dei beni mobili ed immobili nella disponibilità dell’unico socio di una società ammessa al concordato preventivo, atteso che il debitore conserva l’amministrazione e la disponibilità dei beni nell’ambito della procedura» (Sez. 3, n. 13996 del 08/02/2012, Verlato, Rv. 252618 – 01).

Se così è, non v’è margine di estensione analogica del principio affermato dalla giurisprudenza Amista al caso di sequestro successivo alla domanda di ammissione al concordato rpeventivo:

«Proprio il passaggio dell’amministrazione e della disponibilità dei beni del fallito da quest’ultimo alla curatela, per effetto della dichiarazione di fallimento, costituisce infatti […] il presupposto dell’orientamento che attribuisce al curatore la legittimazione all’impugnazione dei provvedimenti di sequestro disposti successivamente a quella declaratoria; in mancanza del quale vengono meno i requisiti per il riconoscimento di tale legittimazione, secondo l’orientamento indicato, relativamente ai provvedimenti di sequestro emessi precedentemente alla dichiarazione di fallimento pur se di seguito a una pregressa domanda di ammissione del fallito al concordato preventivo, la quale non attribuisce alla curatela quel potere di fatto sui beni sequestrati che ne giustificherebbe la facoltà di impugnazione. Anche per il caso in esame, nel quale ricorrono le condizioni appena descritte, il principio affermato nella sentenza Uniland, pur se precisato dalla successiva giurisprudenza di cui si è detto, escluderebbe pertanto la legittimazione della curatela all’impugnazione che ha dato luogo all’ordinanza oggetto del ricorso in discussione».

5.3. Non è vero che il principio Uniland presuppone la concorrenza di vincoli legittimi.

Non ha avuto miglior sorte l’argomento dei ricorrenti inteso a limitare l’ambito applicativo del principio Uniland al caso nel quale non viene in contestazione la sussistenza dei presupposti del sequestro, ma soltanto il tema della prevalenza o cedevolezza del vincolo penale, legittimamente imposto, rispetto al vincolo fallimentare.

La smentita di questa prospettiva - implicita nel ragionamento della Corte – trova fondamento inequivocabile nella lettura della decisione del 2014.

Il primo motivo di ricorso formulato dalla ricorrente Uniland ineriva, infatti, la violazione degli artt. 2, 5, 19 e 53 d.lgs. n. 231 del 2001, per essere stato il sequestro adottato e mantenuto per un reato che non figurava (e non figura) nell’elenco di quelli che possono dar luogo alla responsabilità dell’ente ex art. 24 ss. d.lgs. n. 231 del 2001. Era infatti accaduto che il reato societario (artt. 2632 cod. civ. e 25-ter d. lgs. n. 231 del 2001) contestato nella fase generica della misura fosse stato riqualificato, nei confronti dell’organo apicale della società, dopo l’avvio della procedura concorsuale, in bancarotta societaria (non ricompresa nell’elenco di cui sopra), lasciando immutata la contestazione nei confronti dell’ente.

Le Sezioni Unite riconobbero, incidentalmente, la fondatezza della censura affermando che «In tema di responsabilità degli enti ai sensi del d.lgs. 231/2001, il reato contestato alla persona fisica deve corrispondere a quello chiamato a fungere da presupposto per la responsabilità della persona giuridica» (Rv. 263679-01).

Nell’iter argomentativo si evocavano il principio di doppia legalità che impronta il sistema della responsabilità dell’ente (art. 2 d.lgs. cit.); i precedenti di legittimità in tema di reato complesso non annoverato nell’elenco di cui agli art. 24 ss. d.lgs. cit. ma incorporante una fattispecie che invece vi è compresa (Sez. 2, n. 41488 del 29/09/2009, Rimoldi); la corretta interpretazione del principio di autonomia della responsabilità dell’ente (art. 8 d.lgs. cit.).

Ciononostante, il ricorso fu dichiarato inammissibile per il difetto di legittimazione del curatore impugnante.

6. Le ragioni del cambio di rotta.

Ricusata ogni via di fuga, le Sezioni Unite 2019 procedono alla critica serrata del precedente del 2014, assecondando le ragioni illustrate nell’ordinanza di remissione e i rilievi di molti commentatori della sentenza Uniland.

6.1. La centralità degli artt. 322, 322-bis e 325 cod. proc. pen. e la distinta fisionomia dell’avente diritto alla restituzione.

È determinante il dato certo di carattere normativo desumibile dalle norme processuali dedicate specificamente al tema dell’impugnazione dei provvedimenti cautelari reali, a partire da quella che regola l’appello avverso le ordinanze di sequestro preventivo (art. 322-bis cod. proc. pen.), e cioè alla procedura sulla quale si era innestato il ricorso assegnato.

La disposizione attribuisce la legittimazione - oltre che al pubblico ministero, all’imputato e al suo difensore - anche alla «persona alla quale le cose sono state sequestrate e quella che avrebbe diritto alla loro restituzione». Nello stesso senso si esprimono l’art. 322, in materia di riesame del decreto di sequestro preventivo e l’art. 325, a proposito del ricorso per cassazione avverso le ordinanze che decidono nelle procedure di riesame e di appello.

Da questa formulazione – dice la Corte - risulta in primo luogo evidente la non sovrapponibilità della categoria soggettiva persona alla quale le cose sono state sequestrate a quella della persona che avrebbe diritto alla loro restituzione.

Si tratta di «soggetti diversi e non coincidenti. L’avente diritto alla restituzione, come riconosciuto dalla giurisprudenza di legittimità, può essere individuato in una persona diversa da quella a cui il bene è stato sequestrato (Sez. 2, n. 51753 del 03/12/2013, Casella, Rv. 257359; Sez. 2, n. 39247 del 08/10/2010, Gaias, Rv. 248772)». La sua distinta fisionomia è chiaramente definita dalle decisioni che lo individuano quale soggetto portatore di un proprio interesse meritevole di tutela (Sez. 6, n. 2599 del 27/05/1994, Della Volta, Rv. 199051), che può discendere anche da un rapporto di fatto con il bene, non essendo necessaria la titolarità del diritto reale che, invece, caratterizza la nozione di «persona alla quale le cose sono state sequestrate».

Si è per tal via riconosciuta la legittimazione a impugnare dei possessori e dei detentori qualificati dei beni caduti in sequestro, come il conduttore di un immobile (Sez. 3, n. 26196 del 22/04/2010, Vicidomini, Rv. 247693) o il promissario acquirente già immesso nel possesso del bene (Sez. 3, n. 42918 del 22/10/2009, Soto, Rv. 245222).

6.2. Il curatore fallimentare titolare di una disponibilità autonoma e giuridicamente tutelata dei beni fallimentari.

Alla tipologia di rapporto appena definita appartiene la relazione del curatore con i beni del fallimento, quale si può desumere dalle disposizioni della legge fallimentare che ne definiscono la missione istituzionale e le prerogative.

La giurisprudenza civilistica del resto – notano le Sezioni Unite - qualifica esplicitamente il curatore come detentore dei beni del fallimento (Sez. 2 civ., n. 16853 del 11/08/2005, Rv. 585055). E si tratta senz’altro di una detenzione qualificata, anche per il carattere pubblicistico della funzione per la quale la stessa è attribuita.

E’ inevitabile il richiamo degli artt. 42, comma 1 e 43 l. fall.

In altre decisioni, anticipatrici della svolta, si erano individuati ulteriori referenti normativi di settore negli artt. 31, 51 e 240 l. fall.:

«Più in particolare, il curatore, che cumula la legittimazione ad agire che gli deriva dalla gestione patrimoniale degli affari del fallito e la legittimazione ad agire che gli deriva dalla rappresentanza degli interessi patrimoniali dei creditori che, ai sensi dell’art. 51 l. fall., non possono iniziare o proseguire azioni esecutive individuali, ma devono sottoporre la loro pretesa all’accertamento degli organi fallimentari secondo le regole proprie del concorso, è un soggetto che: a) ai sensi dell’art. 31 l. fall., ha l’amministrazione del patrimonio fallimentare e compie tutte le operazioni della procedura sotto la vigilanza del giudice delegato e del comitato dei creditori, nell’ambito delle funzioni ad esso attribuite, stando in giudizio con l’autorizzazione del giudice delegato, salvo che in alcuni casi specificati dalla legge; b) ai sensi dell’art. 42 l. fall., a seguito della sentenza che dichiara il fallimento, ha l’amministrazione e la disponibilità dei beni del fallito esistenti alla data della dichiarazione di fallimento, a meno che il curatore, previa autorizzazione del comitato dei creditori, non abbia rinunciato alla relativa acquisizione; c) ai sensi dell’art. 43 l. fall., sta in giudizio nelle controversie, anche in corso, relative ai rapporti patrimoniali del fallito, il quale può intervenire in giudizio personalmente solo per le questioni dalle quali può dipendere un’imputazione di bancarotta a suo carico o se l’intervento è previsto dalla legge (o, va aggiunto, se il curatore ha mostrato disinteresse rispetto a quella lite, per esempio l’impugnativa di un avviso di accertamento tributario o di una cartella esattoriale); d) ai sensi dell’art. 240 l. fall. può costituirsi parte civile nel procedimento per bancarotta fraudolenta a carico del fallito con la puntualizzazione che, laddove abbia manifestato il relativo disinteresse, alla costituzione possono provvedere i creditori in proprio, i quali hanno sempre e comunque una legittimazione autonoma allorquando intendano far valere un titolo di azione propria personale» (Sez. 3, n. 37439 del 07/03/2017, Cosentino; ripresa da Sez. 3, n. 17749 del 17/12/2018, Casa di cura Trusso s.p.a. in liquidazione, Rv. 275453).

Quello che conta però è la sottolineatura della strumentalità dell’acquisizione della disponibilità dei beni del fallito da parte degli organi della procedura fallimentare e la funzione di amministrazione della massa attiva nella prospettiva della conservazione della stessa ai fini della tutela dell’interesse dei creditori e la connessione tra il profilo sostanziale e quello processuale della rappresentanza in giudizio, ex art. 43 l. fall., dei rapporti di diritto patrimoniale compresi nel fallimento (Sez. 2 civ., n. 11737 del 15/05/2013, Rv. 626734).

È evidente in queste affermazioni il recupero della prospettiva Focarelli sopra illustrata.

6.3. L’interesse concreto del curatore a contrastare il sequestro.

È a questo punto aperta la strada per il superamento del dubbio palesato dalla decisione Uniland sull’interesse concreto del curatore a reagire all’imposizione del sequestro penale.

«È assai dubbio – si leggeva nei passaggi finali di quella motivazione - anche che il curatore fallimentare possa avere un interesse concreto giuridicamente tutelabile ad opporsi ai provvedimenti di sequestro e confisca, perché la massa fallimentare, la cui integrità il curatore è tenuto a garantire, non subisce alcun pregiudizio da tali provvedimenti, in quanto lo Stato, come si è posto in evidenza, potrà far valere il suo diritto sui beni sottoposti a vincolo fallimentare, salvaguardando i diritti riconosciuti ai creditori, soltanto a conclusione della procedura».

L’osservazione rifletteva il carattere ideologico dell’approccio generale, secondo il quale «i due vincoli possono coesistere e […] l’uno non ostacola l’altro, anzi, sotto certi profili, si può dire che il sequestro prima e la confisca poi tutelano in misura rafforzata gli interessi del ceto creditorio» (pag. 23 della sentenza Uniland).

Per le Sezioni Unite del 2019, al contrario, proprio la circostanza che il curatore «si appalesa anche in termini di fatto come l’unico soggetto destinatario dell’eventuale restituzione del bene, nelle sue funzioni di rappresentanza del fallimento e di amministrazione del relativo patrimonio» e che a lui faccia capo la funzione di salvaguardia della massa fallimentare «non consente […] di escludere l’attualità di un siffatto interesse nella rimozione di vincoli comunque potenzialmente incidenti sulla valutazione della consistenza patrimoniale dell’attivo».

Sembrano così convalidate dall’ultima pronuncia alcune proposizioni dell’ordinanza di rimessione e di quella giurisprudenza che, discostandosi dalle affrettate generalizzazioni della decisione Uniland, aveva propugnato un metodo di verifica caso per caso, alla stregua del quale ben potevano darsi casi nei quali il curatore fosse l’unico soggetto concretamente interessato a contrastare il sequestro.

Nell’esposizione delle ragioni di dissenso dal principio Uniland, la Terza Sezione segnalava che il mancato riconoscimento della legittimazione ad impugnare del curatore priva il ceto creditorio di concreta tutela «quando il sequestro grava su beni in relazione ai quali è ragionevole contestare la legittimità di una eventuale confisca» e che ad una tale contestazione il debitore potrebbe non essere in concreto interessato, «ad esempio, perché gravato da enormi passività», con la conseguenza che «l’insussistenza dei presupposti per disporre l’ablazione sarebbe rimessa esclusivamente al rilievo officioso del giudice».

Nella già citata Sez. 3, n. 37439 del 07/03/2017, Cosentino, n.m. (par. 5) si legge: «Quanto all’interesse ad impugnare, l’idea secondo la quale l’interessato coincida sempre con l’indagato o con la società fallita è tutta da verificare in concreto, perché, allorquando sui beni siano apposti plurimi vincoli, è ben possibile che l’indagato non abbia alcun interesse, mentre la curatela ne abbia molteplici, sicché negarle seccamente la legittimazione, sulla base di una tralaticia applicazione del principio della sentenza Uniland finisce per negare la tutela dell’avente diritto. Per contro, generalizzare la legittimazione del curatore all’impugnativa, negandola all’indagato o al legale rappresentante della società fallita pure conduce ad un diniego di tutela quando la curatela abbia dimostrato disinteresse per quell’azione giudiziale».

In Sez. 3, n. 17749 del 17/12/2018, Casa di cura Trusso s.p.a. in liquidazione, Rv. 275453 (pag. 6 s.) si osservava poi che la salvaguardia delle esigenze di tutela della massa fallimentare, ove si fosse optato per la pedissequa applicazione del principio Uniland, «potrebbe essere rimessa alla non certa volontà ora dell’indagato ora, laddove si tratti di persona diversa, di colui che era il legale rappresentante della società fallita (il cui interesse alla conservazione della integrità della massa fallimentare è, tuttavia, assai meno pressante di quello riscontrabile in capo al soggetto incaricato di gestirla e di portarla, nella misura più ricca possibile, al soddisfacimento, all’esito della procedura concorsuale, delle istanze restitutorie del “ceto creditorio”) anche nel caso in cui il provvedimento cautelare reale fosse stato, in ipotesi, emesso in assenza delle condizioni, delle forme e nella misura che lo avrebbero potuto giustificare e, pertanto, anche nel caso in cui lo stesso fosse del tutto illegittimo». Il principio del diniego generalizzato della legittimazione del curatore – si aggiungeva - doveva confrontarsi con l’ipotesi concreta che non fosse chiaramente ravvisabile «un reale interesse nei soggetti ritenuti legittimati ad impugnare la misura, considerato che costoro non si gioverebbero, o comunque si gioverebbero solo in via subordinata rispetto al fallimento, dell’eventuale accoglimento della loro richiesta impugnatoria».

6.4. Le conclusioni delle Sezioni Unite e il nuovo Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza.

Una volta abbattuta la barriera eretta attraverso l’amputazione interpretativa degli artt. 322, 322-bis, 325 cod. proc. pen. e il generalizzato diniego dell’interesse concreto del curatore a reagire al sequestro penale, la conclusione delle Sezioni Unite non può essere che quella dell’incondizionato riconoscimento della legittimazione dell’organo fallimentare.

Non ha fondamento – dice la Corte - la limitazione della legittimazione del curatore alle impugnazioni riguardanti beni sequestrati successivamente alla dichiarazione di fallimento, prospettata dall’indirizzo giurisprudenziale formatosi successivamente alla sentenza Uniland.

«La legittimazione all’impugnazione del curatore, in quanto derivante dalla sua posizione di soggetto avente diritto alla restituzione dei beni sequestrati, investe necessariamente la totalità dei beni facenti parte dell’attivo fallimentare. Ciò corrisponde peraltro al dato normativo rinvenibile nel già rammentato contenuto dell’art. 42 legge fall., per il quale la dichiarazione di fallimento, privandone il fallito, conferisce alla curatela la disponibilità di tutti i beni di quest’ultimo esistenti alla data del fallimento; e quindi anche di quelli già sottoposti a sequestro. Non può pertanto essere impedito al curatore di far valere le ragioni della procedura fallimentare con riguardo a tali beni, essi pure facenti parte dell’attivo fallimentare entrato nella disponibilità della curatela, avverso il vincolo apposto sugli stessi».

Nel loro incedere, le Sezioni Unite implicitamente disattendono una possibile ragione di conservazione del principio dettato dalla sentenza del 2014, una ragione collegata all’intervenuta emanazione del d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 (Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza), che entrerà in vigore il 15 agosto 2020, il cui art. 320 espressamente sancisce la legittimazione del curatore a impugnare il provvedimento di sequestro: «Contro il decreto di sequestro e le ordinanze in materia di sequestro il curatore può proporre richiesta di riesame e appello nei casi, nei termini e con le modalità previsti dal codice di procedura penale. Nei predetti termini e modalità il curatore è legittimato a proporre ricorso per cassazione».

Nella decisione Sez. 2, n. 27262 del 16/04/2019, Curatela Fallimento Eurocoop Società Cooperativa in liquidazione, Rv. 276284-01 si era osservato che, se è vero che la nuova disposizione palesa l’insoddisfazione del legislatore per «l’attuale consolidato assetto giurisprudenziale», è anche vero che di tale innovativa previsione non vi sarebbe stato bisogno se già il quadro normativo attuale consentisse al curatore di agire. E perciò, pur riconoscendone i limiti («il provvedimento cautelare non sarebbe più passibile di impugnazione, mancando nel fallito la disponibilità dei beni e l’interesse ad agire»), la Seconda Sezione non aveva ritenuto che ciò costituisse ragione sufficiente «per discostarsi dal consolidato orientamento di questa Corte».

Le Sezioni Unite non hanno temuto di anticipare l’entrata in vigore della nuova disposizione, ritenendo evidentemente che essa non rappresenta una reale novità ma un chiarimento di quanto già desumibile dalla lettura sistematica delle norme vigenti.

6.5. L’autonoma legittimazione del curatore e l’opponibilità del giudicato formatosi sull’impugnazione del debitore fallito.

La soluzione della questione devoluta ha inciso sull’esito di un altro motivo di ricorso, quello con il quale si era contestato il passaggio della decisione impugnata nel quale il Tribunale, investito dalla curatela in sede d’appello, riteneva precluse alcune questioni, per essersi sulle stesse già espresso in un provvedimento, non impugnato, emesso a seguito del riesame proposto dal legale rappresentante della società, procedimento al quale la curatela erta rimasta estranea.

L’autonomia della legittimazione del curatore e delle sue ragioni sostanziali – dice la Corte (par. 10) – impedisce una tale soluzione:

«Una volta ritenuta l’autonoma legittimazione della curatela all’impugnazione dei provvedimenti in materia di sequestro, la decisione sull’istanza di riesame del sequestro proposta dalla Mantova Petroli, pronunciata in un giudizio al quale la curatela era estranea, non può considerarsi in alcun modo preclusiva dell’impugnazione del curatore, intesa a far valere le diverse ragioni attinenti al rapporto fra il vincolo penale sotteso al sequestro e quello derivante dalla procedura fallimentare, evidentemente estranee al giudizio di riesame attivata dalla società dichiarata fallita».

7. Legittimità del sequestro del denaro a fini di confisca diretta del profitto del reato tributario e oneri di allegazione del ricorrente.

Risolte le questioni preliminari, il Collegio ha rigettato il motivo di ricorso tendente a escludere la qualificazione del compendio sequestrato come profitto confiscabile

Lo scrutinio era consentito dal fatto che il giudice dell’appello cautelare, pur avendo confermato la decisione di inammissibilità per difetto di legittimazione pronunciata dal gip sull’istanza di revoca presentata dal curatore ricorrente, aveva comunque verificato tali profili.

Il ricorso evidenziava che il sequestro aveva attinto somme di denaro acquisite dalla società a notevole distanza di tempo dalla scadenza dell’obbligazione tributaria violata. Parte di esse provenivano da rimesse effettuate (da società controllanti) dopo la domanda di ammissione al concordato preventivo.

Non era pertanto possibile qualificare quel denaro come profitto diretto del reato tributario contestato, e cioè quale “risparmio di spesa”, corrispondente al mancato decremento del patrimonio del debitore che non adempie tempestivamente all’obbligazione tributaria (Sez. U, n. 18374 del 31/01/2013, Adami, Rv. 255036-01).

La semplificazione probatoria consentita dalla sentenza Sez. U, n. 31617 del 26/06/2015, Lucci, Rv. 264437, con riferimento all’apprensione di somme di denaro depositate su conti correnti nella disponibilità del trasgressore, deve misurarsi con le precisazioni formulate nelle più recenti decisioni della Corte specificamente dedicate al tema dell’ablazione da reato tributario.

Si è affermato, in quelle pronunce, che il giudice può sì disinteressarsi dell’identità fisica delle somme rinvenute con quelle derivanti dal reato tributario, ma ciò non lo esonera dal confrontarsi con l’ipotesi che le somme rinvenute sul conto in sequestro «non possano proprio in alcun modo derivare dal reato», né possano rappresentare «il risultato della mancata decurtazione del patrimonio conseguente al mancato versamento delle imposte».

In questo senso si esprime Sez. 3, n. 8995 del 30/10/2017, Barletta, Rv. 272353-01, in un caso nel quale si era accertato che le somme cadute in sequestro derivavano dalle rimesse effettuate da terzi successivamente alla scadenza del termine dell’obbligazione tributaria. Sulla stessa linea si colloca il precedente (richiamato nell’ordinanza di rimessione) Sez. 3, n. 6348 del 04/10/2018, Torelli, Rv. 274859-01, dove si afferma che «in tema di reati tributari, ai fini della confisca diretta delle somme sequestrate sul conto corrente bancario dell’imputato, la natura fungibile del denaro non è sufficiente per qualificare come “profitto” del reato l’oggetto del sequestro, essendo necessario anche provare che la disponibilità delle somme, successivamente sequestrate, costituisca un risparmio di spesa conseguito con il mancato versamento dell’imposta»; e si indica un metodo di verifica imperniato sul confronto tra le disponibilità rinvenute al momento dell’apposizione del vincolo penale e quelle presenti al momento della scadenza del debito tributario.

Ribadita la validità delle coordinate giuridiche testé richiamate, le Sezioni Unite hanno ritenuto che l’ordinanza impugnata si fosse conformata a quelle indicazioni (par. 11).

Il Tribunale aveva infatti dato conto di come i versamenti effettuati in corrispondenza della domanda di ammissione al concordato preventivo e della dichiarazione di fallimento erano stati effettuati da società del medesimo gruppo e costituivano il rientro di somme di denaro che, in precedenza, la Mantova Petroli s.p.a. aveva effettuato in favore delle controllanti, in corrispondenza dell’evasione delle imposte e allo scopo precipuo di sottrarsi agli obblighi tributari.

Il giudice del merito non aveva dunque evitato il confronto con la data di acquisizione delle risorse sequestrate. Aveva, invece, preso atto della strumentalità dell’operazione di cash pooling rappresentata dal ricorrente, del «mero giroconto intercorso fra la Mantova Petroli e le controllanti» con finalità di elusione dell’obbligazione tributaria e delle conseguenze del suo inadempimento.

Dal canto suo, il ricorrente aveva disatteso l’onere di allegazione stabilito da Sez. 3, n. 41104 del 12/07/2018, Vincenzini, Rv. 274307-01: «il legale rappresentante della società […] che ritiene di aver diritto alla restituzione [delle somme cadute in sequestro] ha l’onere di allegare la prova che il denaro giacente sul conto […] fosse di derivazione diversa dal risparmio di imposta e successiva al compimento del reato sicché non poteva configurarsi come profitto». Onere che, nella decisione, si atteggia quale condizione operativa del principio garantista per il quale «in tema di sequestro preventivo funzionale alla confisca, la natura fungibile del denaro non consente la confisca diretta delle somme depositate su conto corrente bancario del reo, ove si abbia la prova che le stesse, non derivando dal reato, non costituiscano profitto dell’illecito».

8. La legittimazione del curatore a impugnare il sequestro di prevenzione.

Nella decisione Sez. 2, n. 38573 del 17/05/2019, Mediterranea s.p.a., Rv. 277396, la Corte ha riconosciuto la legittimazione del curatore ad impugnare il sequestro di prevenzione intervenuto dopo la dichiarazione di fallimento.

L’articolata motivazione valorizza da un lato la funzione istituzionale del curatore, così come ricostruita da Sez. U, n. 45936 del 26/09/2019, Fall. Mantova Petroli s.r.l. in liquidazione (non ancora intervenuta al tempo della decisione) e, prima ancora, dalla richiamata decisione Focarelli; dall’altro, mette in luce alcuni profili peculiari della disciplina del d.lgs. 6 novembre 2011, n. 159, quale risultante dalla modifica introdotta con d.lgs. 17 ottobre 2017, n. 161.

Al decreto del 2017 si deve anzitutto l’introduzione della previsione dell’autonoma impugnabilità del sequestro di prevenzione, nel testo dell’art. 27 d. lgs. cit., che oggi annovera anche i provvedimenti con i quali il tribunale dispone l’applicazione del sequestro, mentre prima menzionava i soli provvedimenti dispositivi della confisca e quelli che revocano la misura cautelare.

Lo stesso provvedimento ha poi apportato significative modifiche degli artt. 63 e 64 del Codice antimafia, dedicati ai rapporti tra il sequestro di prevenzione e le procedure concorsuali, distinguendo il caso della dichiarazione di fallimento successiva al sequestro (art. 63), da quello della dichiarazione anteriore (art. 64).

Le innovazioni valorizzate dalla decisione consistono nell’inserzione, sia nell’una che nell’altra disposizione (art. 64, comma 1 e 63, comma 6), di una necessaria interlocuzione del giudice fallimentare con il curatore e il comitato dei creditori, prima dell’adozione dei provvedimenti intesi a tutelare l’esecuzione del sequestro di prevenzione.

Con particolare riferimento alla previsione dell’art. 64 (confacente al caso di specie, nel quale si trattava di sequestro successivo alla dichiarazione di fallimento), la Corte osserva che la previsione di un’obbligatoria finestra di ascolto del curatore (“sentito il curatore”), prima che il giudice delegato possa disporre la separazione dei beni in sequestro dalla massa attiva del fallimento, ha il senso «di sottolineare la funzione pubblica del curatore medesimo, che sviluppa una interlocuzione ritenuta necessaria con gli altri organi del fallimento ai fini dell’individuazione dei beni da conferire all’amministratore delle procedure di prevenzione».

La ratio di tali modifiche si ricollega dunque alla funzione pubblica nell’ambito dell’amministrazione della giustizia» riconosciuta al curatore dalla decisione Focarelli.

Ed è a tali disposizioni che bisogna guardare quando si tratti del sequestro, anziché a quella dell’art. 52 dello stesso Codice antimafia, impropriamente richiamata dal giudice territoriale nell’ordinanza impugnata, ove si negava la legittimazione del curatore sul presupposto che «lo strumento a garanzia dei creditori, se la massa fallimentare coincide con i beni sottoposti al sequestro, è […] il subprocedimento di cui agli art. 52 ss. d.lgs. n. 159/2011, in virtù del quale il Tribunale, sentiti il curatore e il comitato dei creditori, dichiara chiuso il fallimento, con possibilità per i creditori di essere soddisfatti davanti al Giudice della prevenzione, previa verifica della loro buona fede e del carattere non strumentale dei crediti all’attività illecita». Un’affermazione che riecheggia la tesi del realizzo differito dei diritti dei creditori, enunciata dalla decisione Uniland (espressamente citata nell’ordinanza impugnata) per pervenire ad analogo esito.

In realtà, osserva la Seconda Sezione, l’art. 52 cit. è norma che attiene alla confisca e che non si presta a regolare il tema dell’impugnazione del sequestro «che, in quanto misura cautelare, e quindi provvisoria, può anche essere in tutto o in parte revocata o annullata, facendo con ciò recuperare al curatore, nel coordinamento con gli altri organi del fallimento, la potestà gestoria sui beni della massa fallimentare».

Neppure è appropriata la citazione della decisione Uniland, avuto riguardo sia alla diversità dei contesti (procedimento all’ente verso procedimento di prevenzione); sia alla circostanza che lo stesso principio Uniland è declinato dalla giurisprudenza successiva nel senso di non precludere la legittimazione del curatore nel caso di sequestro intervenuto, come nel caso di specie, dopo la dichiarazione di fallimento (la sentenza Mediterranea s.p.a. riprende la massima della decisione Sez. 3, n. 42469 del 12/07/2016, Amista, Rv. 268015-01, che abbiamo analizzato nel par. 2 di questo capitolo).

Infine, anche la sentenza della Seconda sezione si confronta con il novum costituito dall’art. 320 del d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 (Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza), che entrerà in vigore il 15 agosto 2020, per affermare che quella disposizione, pacificamente riferibile ad ogni tipologia di sequestro senza distinzioni, non fa che confermare «la correttezza della soluzione adottata con la presente sentenza, rispondendo all’esigenza di renderla più chiara ed esplicita, non soggetta ad incertezze esegetiche».

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione penale

Sez. 6, n. 2599 del 27/05/1994, Della Volta, Rv. 199051

Sez. U, n. 29951 24/05/2004, Focarelli, Rv. 228163-228166

Sez. 3, n. 42918 del 22/10/2009, Soto, Rv. 245222

Sez. 3, n. 26196 del 22/04/2010, Vicidomini, Rv. 247693

Sez. 2, n. 39247 del 08/10/2010, Gaias, Rv. 248772

Sez. 3, n. 13996 del 08/02/2012, Verlato, Rv. 252618

Sez. U, n. 18374 del 31/01/2013, Adami, Rv. 255036

Sez. 2, n. 51753 del 03/12/2013, Casella, Rv. 257359

Sez. U, n. 11170 del 25/09/2014 - dep. 2015, Uniland s.p.a., Rv. 263679-263685

Sez. U, n. 31617 del 26/06/2015, Lucci, Rv. 264437

Sez. 3, n. 23388 del 01/03/2016, Ivone, Rv. 267346

Sez. 3, n. 42469 del 12/07/2016, Amista, Rv. 268015

Sez. 3, n. 37439 del 07/03/2017, Cosentino

Sez. 3, n. 28090 del 16/05/2017, Falcone, n.m.

Sez. 3, n. 8995 del 30/10/2017, Barletta, Rv. 272353

Sez. 3, n. 45574 del 29/05/2018, Evangelista, Rv. 273951

Sez. 3, n. 45578 del 6/06/2018, Fallimento Laziale RE.MA.PRI. s.n.c.

Sez. 3, n. 41104 del 12/07/2018, Vincenzini, Rv. 274307-01

Sez. 3, n. 47737 del 24/09/2018, Fallimento Paninvest s.p.a., Rv. 275438

Sez. 3, n. 6348 del 04/10/2018, Torelli, Rv. 274859

Sez. 3, n. 17749 del 17/12/2018, Casa di cura Trusso s.p.a. in liquidazione, Rv. 275453

Sez. 6, n. 37638 del 13/02/2019, Fallimento Radio Tele Europa s.r.l.

Sez. 2, n. 27262 del 16/04/2019, Curatela Fallimento Eurocoop Società Cooperativa in liquidazione, Rv. 276284-01

Sez. U, n. 45936 del 26/09/2019, Fall. Mantova Petroli s.r.l. in liquidazione, Rv. 277257

Sez. 2, n. 38573 del 17/05/2019, Mediterranea s.p.a., Rv. 277396

Sentenze della Corte di cassazione civile

Sez. 2 civ., n. 16853 del 11/08/2005, Rv. 585055

Sez. 5 civ., n. 6211 del 16/03/2007, Rv. 597037

Sez. 5 civ., n. 4728 del 25/02/2008, Rv. 602013

Sez. 1 civ., n. 2335 del 17/02/2012, Rv. 621348

Sez. 2 civ., n. 11737 del 15/05/2013, Rv. 626734

Sez. 1 civ., n. 5924 del 14/03/2016, Rv. 639058

Sez. 1 civ., n. 25728 del 14/12/2016, Rv. 642756

Sez. 1 civ., n, 15724 del 11/06/2019, Rv. 654456

SEZIONE III PROVE

  • sequestro di beni
  • prova

CAPITOLO I

ANNULLAMENTO DEL SEQUESTRO PROBATORIO E DIVIETO DI RESTITUZIONE DELLE COSE SEQUESTRATE DI CUI ALL’ART. 324, COMMA 7, COD. PROC. PEN.

(di Andrea Antonio Salemme )

Sommario

1 Ordinanza di rimessione e questioni controverse. - 2 Considerazioni preliminari sulle questioni controverse. - 3 Orientamento maggioritario in generale. - 3.1 Estensione del divieto di restituzione di cui all’art. 324, comma 7, cod. proc. pen., al sequestro probatorio. - 3.2 Natura di principio generale dell’art. 324, comma 7, cod. proc. pen. - 3.3 Non restituibilità di cose soggette a confisca obbligatoria anche se sequestrate in plurimi esemplari. - 3.4 Estensione del divieto di restituzione al caso di perdita di efficacia del provvedimento di sequestro probatorio. - 3.5 Estensione del divieto di restituzione a cose soggette a confisca obbligatoria in forza di disposizioni diverse dall’art. 240, comma 2, cod. pen. - 4 Orientamento minoritario. - 4.1 La tesi dell’applicabilità del divieto di restituzione ai soli casi di perdita di efficacia del sequestro probatorio per motivi formali. - 5 Orientamento intermedio. - 6 La decisione delle Sezioni Unite: i principi di diritto la soluzione del caso. - 6.1 Analisi della decisione in relazione alla prima questione controversa. - 6.2 Analisi della decisione in relazione alla seconda questione controversa. - Indice delle sentenze citate

1. Ordinanza di rimessione e questioni controverse.

Sez. 3, n. 56683 del 22/11/2018, Bellucci, investiva il Primo Presidente affinché volesse valutare la rimessione degli atti alle Sezioni Unite sulle questioni controverse – in quanto oggetto di conflitti di giurisprudenza – così cristallizzate nella formulazione dell’Ufficio del Massimario: «Se il divieto di restituzione di cui all’art. 324, comma 7, cod. proc. pen. operi, oltre che in caso di revoca del sequestro preventivo, anche in caso di annullamento del decreto di sequestro probatorio, e se tale divieto possa riguardare, oltre alle cose soggette a confisca obbligatoria ex art. 240, comma 2, cod. pen., anche le cose soggette a confisca obbligatoria contemplata da previsioni speciali».

Il caso sottoposto alla cognizione di detta Sezione riguardava l’annullamento, per difetto di motivazione, del decreto con cui il P.M. aveva convalidato, trattandosi di corpo del reato o comunque di cose pertinenti al reato, il sequestro, disposto d’urgenza dalla P.G. ai sensi dell’art. 354 cod. proc. pen., di numerosi uccelli tenuti dall’indagato in isolamento per essere utilizzati come richiami; nonostante l’annullamento, aveva il tribunale mantenuto il vincolo ai sensi dell’art. 324, comma 7, cod. proc. pen., essendo gli uccelli suscettibili di confisca obbligatoria ai sensi dell’art. 544-sexies cod. pen., stante la contestazione all’indagato del delitto di maltrattamenti p. e p. dall’art. 544-ter cod. proc. pen.

Ricorreva per cassazione l’indagato, denunciando che l’ordinanza impugnata aveva errato nel fondare il mantenimento del vincolo sull’art. 324, comma 7, cod. proc. pen., in primo luogo, perché tale disposizione – dettata esclusivamente in tema di revoca del sequestro preventivo – non può applicarsi altresì all’annullamento di un decreto di convalida di sequestro probatorio; e, in secondo luogo, perché essa – nel prevedere testualmente il divieto di restituzione di cose soggette a confisca obbligatoria ex art. 240, comma 2, cod. pen. – non può essere analogicamente estesa “in malam partem”, sino a ricomprendere nel divieto anche cose soggette a confisca obbligatoria in forza di disposizioni diverse.

Il Primo Presidente, ravvisando il contrasto, assegnava la trattazione alle Sezioni Unite.

2. Considerazioni preliminari sulle questioni controverse.

Il contrasto denunciato nell’ordinanza di rimessione tra un orientamento (maggioritario) secondo cui il divieto di restituzione ex art. 324, comma 7, cod. proc. pen. si applica anche in caso di caducazione (ed in particolare di annullamento) del sequestro probatorio ed un orientamento (minoritario) attestato su posizioni opposte si registra, in realtà, essenzialmente, nella contrapposizione tra le pronunce del primo e la tesi che, in seno al secondo, evidenzia come detto divieto, nella disciplina del sequestro preventivo, sia testualmente collegato alla revoca, non potendo quindi trovare ingresso altresì in sede di riesame del provvedimento del sequestro probatorio, con riferimento al quale la revoca non è prevista. Al di là di ciò, il contrasto è in certo qual modo “sfumato”, dal momento che il principio volto ad affermare il divieto di restituzione delle cose soggette a confisca obbligatoria ex art. 324, comma 7, cod. proc. pen. non è altrimenti revocato in dubbio.

Piuttosto un orientamento intermedio ritiene tale principio inapplicabile, non in assoluto, bensì solo al cospetto di specifiche previsioni di confisca obbligatoria, aventi ad oggetto “res” ritenute non intrinsecamente (od immediatamente) pericolose alla stregua dell’art. 240, comma 2, cod. pen.

Detto orientamento impinge sulla seconda questione controversa, imperniata sulla portata dell’entità del rinvio effettuato dall’art. 324, comma 7, cod. proc. pen. all’art. 240, comma 2, cod. pen.

3. Orientamento maggioritario in generale.

L’orientamento maggioritario afferma l’applicabilità dell’art. 324, comma 7, cod. proc. pen. al riesame del sequestro probatorio, ancorché sul fondamento di giustificazioni non del tutto coincidenti: talvolta, si limita ad affrontare il tema sotto il profilo dell’innesto, nel procedimento di riesame del sequestro probatorio, del divieto di restituzione previsto dall’art. 324, comma 7, cod. proc. pen., in forza dei richiami di cui agli artt. 257, comma 1, e 355, comma 3, cod. proc. pen.; in un numero cospicuo di pronunce, si spinge più a fondo, sostenendo che il suddetto divieto costituisce un principio generale del procedimento penale.

3.1. Estensione del divieto di restituzione di cui all’art. 324, comma 7, cod. proc. pen., al sequestro probatorio.

Le ragioni essenziali dell’applicazione del divieto di restituzione delle cose soggette a confisca obbligatoria ex art. 240, comma 2, cod. pen. – che l’art. 324, comma 7, cod. proc. pen. codifica in tema di sequestro preventivo – anche nel riesame del sequestro probatorio si evincono da ultimo in Sez. 3, n. 41558 del 19/07/2017, Flace, Rv. 270890 – 01, la cui massima, coniugante il principio di diritto con la fattispecie, dichiara che «i prodotti alimentari in cattivo stato di conservazione o alterati, la cui detenzione per la vendita, somministrazione e distribuzione per il consumo integrano i reati di cui all’art. 5, lett. b) e c), legge n. 283 del 1962, sono destinati a confisca obbligatoria e, pertanto, non possono essere in nessun caso restituiti all’interessato, neppure quando siano venute meno le esigenze probatorie per le quali sia stato disposto il sequestro, trovando applicazione il divieto di cui all’art. 324, comma 7, cod. proc. pen., applicabile tanto al sequestro preventivo che a quello probatorio». La massima deve essere collegata alla motivazione, nella parte in cui la Corte scrive che la «disposizione contenuta nell’art. 324, 7° comma, cod. proc. pen. [è] applicabile tanto al sequestro preventivo che a quello probatorio come attesta il richiamo ad essa operato dall’art. 355, 3° comma, cod. proc. pen.» e che «i beni[, come nella specie,] soggetti a confisca obbligatoria non possono essere restituiti in nessun caso all’interessato, neppure, così come puntualizzato dalla giurisprudenza di questa Corte, quando siano stati sequestrati dalla polizia giudiziaria di propria iniziativa e per finalità esclusivamente probatorie […]. Pur essendo il sequestro probatorio disposto con la finalità di conservare immutate le caratteristiche del corpo di reato nel tempo necessario all’accertamento dei fatti, la disposizione di cui all’art. 324, 7° comma, prevale tuttavia sulle esigenze “lato sensu” istruttorie, trovando l’eccezionalità della previsione giustificazione nella finalità di evitare che attraverso la disponibilità del bene, la cui pericolosità non è suscettibile di valutazioni discrezionali, ma è presunta direttamente dalla legge, si protragga l’illiceità della condotta, indipendentemente dalle ragioni che abbiano determinato l’adozione della misura» (ultime righe di p. 3 e prime di p. 4).

Cita a sostegno la Corte Sez. 5, n. 8701 del 17/06/1992, Bazzani, Rv. 191822 - 01, e Sez. 6, n. 265 del 30/01/1992, Tamaro, Rv. 190776 – 01, al fine di tracciare un parallelo tra il divieto di restituzione e la previsione di confisca obbligatoria nel caso di proscioglimento dell’imputato (per amnistia, come nella sentenza Bazzani, o per estinzione del reato, come nella sentenza Tamaro). In buona sostanza – secondo la Corte – a fronte di “res” suscettibili di confisca obbligatoria, quantomeno, stando alla fattispecie, ai sensi dell’art. 240, comma 2, vieppiù n. 2), cod. pen., le «ragioni» – “recte”, le finalità – «che [hanno] determinato l’adozione della misura», divengono irrilevanti: la qual cosa, al fondo, equivale a dire che la stessa distinzione tipica del sequestro preventivo dal sequestro probatorio sostanzialmente si annulla.

3.2. Natura di principio generale dell’art. 324, comma 7, cod. proc. pen.

La posizione più diffusa nella giurisprudenza maggioritaria afferma la natura di «principio generale» riferita al divieto di restituzione della cose soggette a confisca obbligatoria.

Secondo Sez. 2, n. 16523 del 07/03/2017, Rv. 269700 – 01, Lucente e altro, il divieto «opera non solo in sede di riesame, ma anche in sede di procedimento per la restituzione delle cose sottoposte a sequestro probatorio, ex artt. 262 e 263 cod. proc. pen., ancorché in assenza di una espressa previsione in tal senso, giacché l’esaurimento delle finalità istruttorie – presupposto del venir meno del vincolo di indisponibilità sulla “res” e della conseguente restituzione – non può, comunque, vanificare o pregiudicare la concreta attuazione della misura di sicurezza obbligatoria».

Sulla medesima china della sentenza Lucente si pone quella serie di pronunce inclini a proclamare, con minime varianti lessicali, che «le cose che soggiacciono a confisca obbligatoria non possono essere in nessun caso restituite all’interessato», neppure «quando siano state sequestrate dalla polizia giudiziaria di propria iniziativa e per finalità esclusivamente probatorie».

Rilevano Sez. 3, n. 17918 del 06/12/2016 (dep. 2017), Rv. 269628 – 01, P.M. in proc. Rena e Romi SHPK (dalla prima parte della cui massima sono tratte le citazioni appena riprodotte); Sez. 2, n. 3185 del 06/11/2012 (dep. 2013), Rv. 254508 – 01, Di Guida; Sez. 4, n. 6383 del 18/01/2007, Rv. 236106 – 01, Barbareschi; Sez. 2, n. 494 del 01/12/2004 (dep. 2005), Rv. 230865 - 01 Schipani; Sez. 3, n. 17310 del 12/03/2003, Rv. 224789 – 01, PM in proc. Xu Fenghua; Sez. 3, n. 65 del 11/01/1995, Rv. 201563 – 01, Bozzato; Sez. 5, n. 1170 del 06/05/1992, Rv. 190827 – 01, Tagliaferri.

Tali pronunce evidenziano come il sequestro probatorio ed il sequestro preventivo abbiano una piattaforma oggettiva comune, poiché possono cadere entrambi sul corpo del reato, il quale, alla stregua della definizione datane dall’art. 253, comma 2, cod. proc. pen., avente valenza generale, è integrato da cose «suscettibili di confisca ai sensi dell’art. 240 cod. pen.» (confisca genericamente intesa, non rilevando, a questo stadio, se facoltativa od obbligatoria) (cfr. in part. la sentenza Tagliaferri). Le due tipologie di sequestro, pur nella diversità dei presupposti, convergono verso la confisca, ragion per cui, anche con riferimento al sequestro effettuato “motu proprio” dalla P.G. per finalità esclusivamente istruttorie, l’intrinseca confiscabilità, viepiù obbligatoria ex art. 240, comma 2, cod. pen., delle “res” fornisce la giustificazione dell’importazione, espressamente sancita dall’art. 355, comma 3, cod. proc. pen., del divieto di restituzione codificato dall’art. 324, comma 7, cod. proc. pen. per il (solo) sequestro preventivo.

3.3. Non restituibilità di cose soggette a confisca obbligatoria anche se sequestrate in plurimi esemplari.

Un posto di interesse è occupato da Sez. 5, n. 23240 del 18/05/2005, Rv. 231902 – 01, Zhu, non tanto per via della ripetizione del principio secondo cui, «in tema di sequestro, non è dovuta la restituzione all’interessato del bene sottoposto a sequestro probatorio, quando il medesimo sia assoggettabile a confisca» (curiosamente non anche “obbligatoria”), quanto per via della diffusissima fattispecie, essendo il principio riferito alla sottoposizione a vincolo di borse, portafogli e cappelli nei confronti di un indagato per i delitti di cui agli artt. 474 e 648 c.p. Stando alla motivazione, «del tutto priva di consistenza è […] la finale deduzione, relativa alla pretesa di mantenere il sequestro “su un solo esemplare per ogni diversa specie di capo sequestrato”, a fronte del rilievo di confiscabilità e conseguente distruzione esteso […] a tutta la merce in sequestro» (penult. par. di p. 4).

3.4. Estensione del divieto di restituzione al caso di perdita di efficacia del provvedimento di sequestro probatorio.

Deve essere ascritto all’orientamento maggioritario l’avviso che, facendosi carico della dizione letterale dell’art. 324, comma 7, cod. proc. pen., a termini della quale soltanto «la revoca del provvedimento di sequestro […] non può essere disposta nei casi indicati nell’articolo 240 comma 2 del codice penale», estende nondimeno il divieto di restituzione anche a casi diversi.

Oltre alla sentenza Lucente, sopra esaminato, deve aversi riguardo a Sez. 3, n. 8542 del 24/01/2001, Rv. 218331 – 01, Giglioli, a proposito di un caso nella prassi di gran lunga più diffuso della revoca, ossia la perdita di efficacia del provvedimento (nella specie avente ad oggetto videogiochi destinati al giuoco d’azzardo) per il mancato rispetto delle cadenze procedimentali.

3.5. Estensione del divieto di restituzione a cose soggette a confisca obbligatoria in forza di disposizioni diverse dall’art. 240, comma 2, cod. pen.

La pronuncia più recente dell’orientamento maggioritario è la sentenza Rena, la quale (come la sentenza Lucente, resa in tema di illecito trasferimento di valori ex art. 12-quinques della legge 7 agosto 1992, n. 356), si spinge oltre la riaffermazione del principio che si ripete dalla sentenza Tagliaferri, sostenendo, nell’avventurarsi sul terreno della seconda questione controversa, che la restituzione è preclusa anche per le cose di cui è bensì prevista la confisca obbligatoria, ma in forza di una disposizione di legge diversa dall’art. 240, comma 2, cod. pen. La Corte – nel giudicare illegittima, in accoglimento del ricorso del P.M., l’ordinanza con cui il tribunale del riesame, a seguito di impugnazione proposta nell’interesse della società proprietaria, aveva annullato il decreto di convalida del sequestro probatorio del mezzo utilizzato per il trasporto di rifiuti, ordinandone la restituzione – rileva che, per quanto l’art. 324, comma 7, cod. proc. pen., «richiamato espressamente dall’art. 355, comma 3, cod. proc. pen.», statuisca che «la revoca del provvedimento di sequestro non può essere disposta “nei casi indicati nell’art. 240, comma 2, del codice penale”», tuttavia l’art. 259, comma 2, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, realizza un’«estensione» del dettato dell’art. 240, comma 2, cod. pen.», di cui descrive un’«ipotesi speciale», dal momento che, in difetto dell’art. 259, comma 2, cit. «il veicolo con il quale è stata commessa la contravvenzione […] andrebbe ricondotto, seguendo le linee tracciate dall’art. 240 cod. pen., nel novero delle cose indicate nel primo comma di detto articolo, soggette a confisca facoltativa […]. Il mezzo di trasporto non è, infatti, “ex se” una “res” tale da non poter restare in circolazione prescindendo dal soggetto che ne aveva la disponibilità e dall’esito del giudizio, ma una “res” da considerarsi pericolosa solo in relazione a quel soggetto (che ha utilizzato il veicolo per la commissione del reato di illecito trasporto di rifiuti)» (par. 2, p. 3). Propone dunque la Corte «una interpretazione teleologica e sistematica delle norme in esame», onde concludere che il «sequestro non possa essere revocato, ai sensi dell’art. 324[,] comma 7[,] cod. pen, quando, per tassativo disposto legislativo (art. 240, comma 2, cod. pen. o norme speciali, come nella specie l’art. 259, comma 2, d.lgs. n. 152 [del] 2006), sia prevista la confisca obbligatoria» (ivi, p. 4).

La sentenza Rena riprende un ampio stralcio della motivazione di Sez. 3, n. 10710 del 28/01/2009, Rv. 243106 – 01, Girardi, che, intervenuta parimenti in materia di disciplina penale della gestione dei rifiuti, non riguarda tuttavia un caso di sequestro probatorio (alla stregua della massima: «Anche a seguito dell’intervenuta autorizzazione al trasporto […], non può essere disposta la restituzione del mezzo adibito al trasporto illecito di rifiuti che sia stato oggetto di sequestro preventivo finalizzato alla confisca, in quanto il sequestro preventivo “delle cose di cui è consentita la confisca” si giustifica non per la pericolosità intrinseca della cosa, ma per la funzione general-preventiva e dissuasiva attribuitale dal legislatore»).

La teorica della specialità non è una novità della sentenza Rena, trovandosi sostenuta anche in Sez. 2, n. 35100 del 10/06/2015, Rv. 264511 – 01, Di Domenico e altri, a dire della quale «la somma di denaro, oggetto del reato di riciclaggio, non può, al venir meno delle esigenze che ne hanno legittimato il sequestro probatorio, essere restituita all’interessato, ostandovi il disposto dell’art. 324, comma settimo, cod. proc. pen., [in quanto si tratta] di cosa oggetto di confisca obbligatoria ai sensi dell’art. 648-quater cod. pen., che costituisce ipotesi speciale rispetto a quella prevista dall’art. 240, comma secondo, cod. pen.».

Identicamente, Sez. 2, n. 35029 del 26/05/2010, Rv. 248237 – 01, Capirello e altro, proclama che il veicolo utilizzato per trasportare capi di abbigliamento e scarpe con marchi contraffatti «non può essere restituito all’esito del giudizio di riesame del decreto che ha imposto il vincolo cautelare, trattandosi di bene destinato a confisca obbligatoria»: una confisca, quella prevista dall’art. 474-bis cod. pen., che, pur in difetto dell’esplicitazione da parte della Corte del relativo concetto come nella sentenza Di Domenico, alla stregua dell’insegnamento di quest’ultima, costituisce altra ipotesi speciale rispetto all’art. 240, comma 2, cod. pen.

4. Orientamento minoritario.

La tesi della non revocabilità, in sede di riesame, del provvedimento di sequestro probatorio. L’enunciazione più risalente – nella forma, peraltro, di “ratio” aggiuntiva alla vera “ratio dedicendi” – della conclusione dell’inapplicabilità “tout court” del divieto di cui all’art. 324, comma 7, cod. proc. pen. al riesame del provvedimento di sequestro probatorio si incontra in Sez. 3, n. 46974 del 29/10/2003, Rv. 228331 – 01, Montella. Stando alla massima, «in tema di riesame dei provvedimenti di sequestro probatorio, qualora la misura impugnata divenga inefficace a norma del comma decimo dell’art. 309 cod. proc. pen., le cose oggetto del provvedimento devono essere restituite all’avente diritto quand’anche ricorra uno dei casi di cui al secondo comma dell’art. 240 cod. pen. (confisca obbligatoria), dato che il divieto posto per tali casi dall’art. 324 comma settimo del codice di rito – norma tra l’altro dettata con riferimento diretto al solo sequestro preventivo – riguarda le ipotesi di revoca del provvedimento (e non quelle, diverse, di dichiarata inefficacia della misura), e d’altra parte il sequestro probatorio non è suscettibile di revoca, potendo solo essere disposta, ai sensi dell’art. 262 cod. proc. pen., la restituzione delle cose sequestrate».

Come si può vedere, il principio è ritagliato sull’ipotesi della dichiarazione di inefficacia del provvedimento di sequestro probatorio per violazione dei termini di cui all’art. 309, comma 10, cod. proc. pen. e sulla ritenuta impossibilità di estendere a detta ipotesi la previsione dell’art. 324, comma 7, cod. proc. pen. in quanto riferentesi esclusivamente alla revoca. Detto ciò, a mo’ di aggiunta, la decisione in commento – che tra l’altro si segnala per essere stata disposta direttamente dalla Suprema Corte la restituzione dei prodotti caseari recanti marchio imitativo in sequestro – specifica che il sequestro probatorio non è di per se stesso suscettibile di revoca, dal momento che è prevista soltanto la restituzione delle cose sequestrate ex art. 262 cod. proc. pen.

La non predicabilità della revoca anche del sequestro probatorio, in specie come esito del riesame del provvedimento che lo dispone, non è, per vero, univoca.

Un’affermazione “funditus” riferita al riesame del sequestro probatorio si rinviene in Sez. 6, n. 41627 del 07/10/2009 Rv. 245494 - 01 Furgiuele, secondo cui, «in tema di sequestro probatorio, è inibito al tribunale del riesame, una volta riconosciuta la sussistenza del “fumus commissi delicti”, disporre la revoca del provvedimento sulla base della sopravvenuta estinzione per prescrizione del reato contestato, dovendo la relativa istanza di dissequestro e restituzione essere proposta solo dinanzi al P.M. procedente». Nello stesso senso, si era espressa Sez. 3, n. 39714 del 18/09/2003, Rv. 226345 – 01, Hartl, con riferimento ad una fattispecie di convalida del sequestro probatorio concernente un edificio in corso di abusiva realizzazione, per il quale era stata, successivamente all’imposizione del vincolo, rilasciata concessione edilizia in sanatoria.

Le sentenze Furgiuele e Hartl sono tuttavia contrastate da svariate altre, intese a sostenere che «l’esistenza di una causa di non punibilità deve essere sommariamente verificata anche nella fase del riesame, quando essa risulti immediatamente dagli atti di causa e, in tali ipotesi, il giudice deve trarre tutte le conseguenze opportune [in termini, dunque, non solo di annullamento, ma anche di revoca] nell’ambito esclusivo del controllo della sussistenza dei presupposti del provvedimento adottato dall’autorità che procede, con riferimento all’astratta configurabilità del reato ipotizzato» [così Sez. 2, n. 19180 del 16/04/2013, Rv. 255409 – 01, Nicita; conf. Sez. 2, n. 862 del 02/12/2002 (dep. 2003), Rv. 223479 – 01, Rindi; Sez. 3, n. 2859 del 04/11/1998, Rv. 212483 – 01, P.M. in proc. Agustoni F. ed altro; Sez. 3, n. 2092 del 07/05/1996, Rv. 204729 – 01, Cervati].

4.1. La tesi dell’applicabilità del divieto di restituzione ai soli casi di perdita di efficacia del sequestro probatorio per motivi formali.

Una sentenza dell’orientamento minoritario rimasta isolata, nell’affrontare “ex professo” il presupposto dell’art. 324, comma 7, cod. proc. pen., ritiene – in certo qual modo, però, prendendo le distanze dalla sentenza Montella – che detta disposizione «non [sia] di generale applicabilità ma si riferisc[a] ai soli casi [– si badi –] in cui il sequestro perda efficacia per motivi meramente formali[,] connessi al mancato rispetto dei termini entro i quali il tribunale deve ricevere gli atti e provvedere sul riesame»: in tal senso si esprime la massima di Sez. 3, n. 40190 del 10/10/2007, Rv. 237938 – 01, P.M. in proc. Giglia, relativamente ad un caso in cui il tribunale del riesame aveva annullato la convalida del sequestro di un quadro, riconosciuto come falso, per mancanza di motivazione sulla strumentalità probatoria del bene.

Recentemente, si registra una sentenza che – in relazione ad un caso in cui il tribunale del riesame aveva annullato il provvedimento di sequestro di due fucili parimenti per mancanza di motivazione, non disponendone tuttavia la restituzione perché soggetti a confisca obbligatoria – porta a compiuta teorizzazione l’affermazione incidentale della sentenza Montella (tuttavia non citata in motivazione, ove è richiamata solo la sentenza Frati) sull’inapplicabilità al riesame del provvedimento di sequestro probatorio dell’art. 324, comma 7, cod. proc. pen.; trattasi di Sez. 1, n. 58050 del 18/10/2017, Rv. 271614 – 01, Cerquini e altro, secondo cui, «in caso di annullamento del decreto di sequestro probatorio, il tribunale del riesame deve disporre la restituzione del bene, salvo che il vincolo non debba permanere in ragione di un distinto provvedimento di sequestro conservativo o preventivo, non potendo trovare applicazione la regola espressa dall’art. 324, comma 7, cod. proc. pen. in tema di sequestro preventivo […]».

5. Orientamento intermedio.

Limitazione del divieto di restituzione ai soli casi dell’art. 240, comma 2, cod. pen. ed inestensibilità dello stesso “in malam partem”. L’orientamento intermedio, che consente di addentrarsi “funditus” nella seconda questione controversa, non contesta, alla stessa stregua di quello maggioritario, l’applicabilità del divieto di restituzione ex art. 324, comma 7, cod. proc. pen. anche nel riesame del provvedimento di sequestro probatorio, ma, in concreto, raggiunge di frequente gli esiti di quello minoritario, disconoscendo l’applicabilità di detto divieto in relazione ad ipotesi di confisca pur definita dalla legge obbligatoria, ma esulanti dalla previsione dell’art. 240, comma 2, cod. pen.

In esso spicca un gruppo di quattro pronunce storiche (Sez. 4, n. 34459 del 12/07/2011, Rv. 251102 – 01, Zamora Guevara; Sez. 3, n. 18545 del 07/04/2010, Rv. 247156 – 01, De Bosi; Sez. 3, n. 44279 del 07/11/2007, Rv. 238287 – 01, P.M. in proc. Mazzotta; Sez. 3, n. 2949 del 11/01/2005, Rv. 230868 – 01, Gazziero), cui se ne aggiunge una recentissima (Sez. 6, n. 54792 del 15/11/2018, Rv. 274637, Rizzo), le quali spiegano, già nelle massime, che il riferimento alla confisca obbligatoria deve intendersi limitato ai soli casi dell’art. 240, comma 2, cod. pen., giacché, diversamente, si realizzerebbe un’inammissibile estensione analogica.

La Corte, chiamando in causa l’inammissibilità di un’analogia “in malam partem”, ha ritenuto a più riprese che il divieto di restituzione «non trov[i] applicazione per l’ipotesi contemplata dall’art. 301 d.P.R. n. 43 del 1973 in materia di contrabbando doganale, in relazione alle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e alle cose che ne sono l’oggetto ovvero il prodotto o il profitto, in quanto [l’art. 324, comma 7, cod. proc. pen.], derogando al principio generale della revocabilità della misura reale, non è suscettibile di interpretazione analogica»: così Sez. 3, n. 35784 del 15/02/2017, Rv. 270727 – 01, P.M. in proc. Volpi; Sez. 3, n. 27139 del 22/04/2015, Rv. 264186 – 01, Lan e altri, e Sez. 3, n. 41200 del 10/10/2008, Rv. 241531 – 01, Tringali; “a ritroso”, Sez. 3, n. 268 del 30/01/1995, Rv. 201562 – 01, Schiena].

Sez. 3, n. 7673 del 10/01/2012, Rv. 252093 – 01, P.M. in proc. Napoletano, ha giudicato legittima la restituzione di prodotti alimentari confezionati in barattoli recanti etichetta mendace ma genuini, osservando, in motivazione, che «l’art. 324 c.p.p., comma 7 – onde evitare che un bene sia restituito e successivamente confiscato – pone un limite alla revoca del sequestro che non può essere disposto nei casi indicati dall’art. 240 c.p., comma 2» (ultime righe del fg. 1).

Infine, il riferimento alla mancanza di una «sicura “ratio”» valevole a sostenere un parallelo con l’art. 240, comma 2, cod. pen. ricorre (come già in Sez. 3, n. 7673 del 2012) in Sez. 4, n. 1640 del 22/05/1998, Rv. 210989 – 01, Toracca, concernente però, “a priori”, il riesame di un provvedimento di sequestro, non probatorio, ma preventivo (enuncia, infatti, la massima che, «in tema di riesame del decreto di sequestro preventivo[,] il divieto di revoca, previsto dall’art. 324 comma 7 cod. proc. pen., riguarda solo i casi di confisca obbligatoria previsti dall’art. 240 comma 2 cod. pen., cui non può essere equiparato quello previsto dall’art. 12-sexies [della] legge 7 agosto 1992, n. 356, sia perché non si coglie una sicura “ratio” a favore dell’equiparazione sia perché in materia il legislatore, quando ha voluto (art. 321 cod. pen.), ha nominato la confisca obbligatoria senza restrittivi riferimenti all’art. 240 comma 2 cod. pen.»).

6. La decisione delle Sezioni Unite: i principi di diritto la soluzione del caso.

Sez. U, n. 40847 del 30/05/2019, Bellucci, dà risposta ad entrambe le questioni controverse, sostenendo, quanto alla prima, che «il divieto di restituzione previsto dall’art. 324, comma 7, cod. proc. pen. opera, oltre che con riguardo al sequestro preventivo, anche in caso di annullamento del decreto di sequestro probatorio» (Rv. 276690 – 01) e, quanto alla seconda, che detto divieto «riguarda soltanto le cose soggette a confisca obbligatoria ai sensi dell’art. 240, secondo comma, cod. pen., restando escluse quelle soggette a confisca obbligatoria ai sensi di previsioni speciali, salvo che tali previsioni richiamino il predetto art. 240, secondo comma, cod. pen. o, comunque, si riferiscano al prezzo del reato o a cose la fabbricazione, l’uso, il porto, la detenzione o l’alienazione delle quali costituisce reato» (Rv. 276690 – 02).

In applicazione dei suddetti principi, giudicano le Sezioni Unite fondata la seconda censura del ricorrente.

La suscettibilità della confisca obbligatoria degli uccelli utilizzati come richiami ai sensi dell’art. 544-sexies cod. pen. è inidonea, infatti, a sorreggere il divieto di restituzione degli stessi ai sensi dell’art. 324, comma 7, cod. proc. pen., in quanto si tratta «di una confisca obbligatoria contemplata da una previsione speciale che non richiama l’art. 240, secondo comma, cod. pen. né è sostanzialmente riconducibile alle categorie di cose contemplate da tale disposizione, non avendo per oggetto cose intrinsecamente pericolose, ma animali la cui detenzione è normalmente lecita» (par. 7, pp. 18 e 19).

6.1. Analisi della decisione in relazione alla prima questione controversa.

In riferimento alla prima questione, gli argomenti addotti a sostegno della soluzione prescelta sono sostanzialmente due, uno di ordine letterale ed un altro di ordine storico-sistematico:

- quello letterale muove dal tenore degli «artt. 257, comma 1, e 355, comma 3, cod. proc. pen., i quali, nel disciplinare l’impugnazione del decreto di sequestro probatorio emesso dall’autorità giudiziaria e del decreto di convalida, da parte del pubblico ministero, del sequestro probatorio eseguito su iniziativa della polizia giudiziaria, richiamano il procedimento di riesame delle misure cautelari reali, di cui all’art. 324 cod. proc. pen., senza operare alcuna distinzione tra i vari commi di tale articolo; con la conseguenza che il richiamo deve intendersi evidentemente riferito anche al divieto di restituzione di cui al comma 7» (par. 3.1, p. 9);

- quello di ordine storico-sistematico fa perno sull’ «identità dei rimedi avverso i due tipi di sequestr[o probatorio e preventivo[, derivante] dalla loro comune matrice e dalla predisposizione di un unico mezzo di impugnazione, il riesame, nel sistema del codice del 1930, nell’ambito del quale il riferimento alla revoca del sequestro trovava giustificazione nella generale previsione della revoca come rimedio fisiologico utilizzabile in sede di riesame; previsione, riprodotta in via meramente tralatizia nel nuovo art. 324, comma 7[, cod. proc. pen.], pur nell’ambito di un sistema in cui la revoca non rientra più fra gli esiti del procedimento di riesame» (par. 3.2, p. 9). In effetti, è noto come l’enucleazione delle finalità preventive nel sequestro previsto dall’art. 321 cod. proc. pen. rappresenti una novità, volta ad evitare, attraverso una tipizzazione dei relativi presupposti, gli abusi che avevano caratterizzato il vecchio ed unico «sequestro per il procedimento penale» (libro II, titolo II: «Dell’istruzione formale», capo VI) o, “breviter”, sequestro penale.

In ragione delle esposte considerazioni – secondo la Corte – è «pienamente condivisibile» l’assunto per cui il divieto di restituzione di cui all’art. 324, comma 7, cod. proc. pen. costituisce «espressione del principio generale secondo cui le cose di cui all’art. 240, secondo comma, cod. pen. non possono comunque essere restituite, essendo […] oggetto della misura di sicurezza obbligatoria, in conseguenza della loro particolare natura» (par. 3.3, pp. 8-9).

6.2. Analisi della decisione in relazione alla seconda questione controversa.

Il richiamo alla giustificazione della portata generale del divieto che ne occupa conduce alla trattazione della seconda questione controversa, nel risolvere la quale la Corte sposa il maggioritario (quanto ad essa) orientamento restrittivo, «che interpreta in senso quasi letterale la locuzione “nei casi indicati nell’articolo 240 comma 2 del codice penale”, contenuta nell’art. 324, comma 7, cod. proc. pen., consentendo che il divieto di restituzione ivi previsto sia esteso al più alle ipotesi di confisca previste da norme speciali, ma comunque riconducibili, nella sostanza, alla categoria dell’art. 240, secondo comma, cod. pen.» (par. 4.3, p. 14). Invero – secondo la Corte – è «insuperabile, sul piano letterale il riferimento alle sole confische di cui all’art. 240, secondo comma, cod. pen., aventi ad oggetto, nella formulazione originaria della norma, le cose intrinsecamente pericolose, per le quali la restituzione è comunque esclusa ben al di là della fase cautelare e indipendentemente dall’esito del giudizio di merito. Ed è questa intrinseca pericolosità che distingueva, nell’originaria intenzione del legislatore, tali tipologie di confisca dalle confische obbligatorie previste da altre disposizioni» (par. 5, p. 16).

Il fattore di complicazione rappresentato, «già in origine, dalla compresenza, nell’ambito del richiamato secondo comma, del n. 1), riferito al prezzo del reato, di per sé normalmente rappresentato da denaro o beni fungibili e, dunque, privo di intrinseca pericolosità» (loc. ult. cit.), trova oggi adeguata sistemazione concettuale e disciplinare alla luce della richiamata e condivisa Sez. U, n. 31617 del 26/06/2015, Rv. 264434, Lucci, la quale – in superamento di Sez. U, n. 38834 del 10/07/2008, Rv. 240565, De Maio, e di Sez. U, n. 5 del 25/03/1993, Rv. 193119, Carlea, secondo cui «la confisca del prezzo del reato si distingueva dalla confisca delle cose ai sensi del n. 2) dell’art. 240 cod. pen., esigendo, a differenza di queste, una sentenza di condanna, al cospetto della quale scattava la previsione di obbligatorietà» – insegna che «il giudice, nel dichiarare la estinzione del reato per intervenuta prescrizione, può disporre, a norma dell’art. 240, comma secondo, n. 1 cod. pen., la confisca del prezzo e, ai sensi dell’art. 322-ter cod. pen., la confisca diretta del prezzo o del profitto del reato a condizione che vi sia stata una precedente pronuncia di condanna e che l’accertamento relativo alla sussistenza del reato, alla penale responsabilità dell’imputato e alla qualificazione del bene da confiscare come prezzo o profitto rimanga inalterato nel merito nei successivi gradi di giudizio». Invero la lezione della sentenza Lucci «garantisce una maggiore uniformità alle due categorie dei numeri 1) e 2) del richiamato secondo comma, giacché per entrambe la confisca può prescindere dalla condanna, anche se in relazione al prezzo presuppone necessariamente che vi sia stato un accertamento di responsabilità comunque divenuto definitivo» (ivi, p. 17).

Nel quadro testé descritto, la sola limitatissima estensione consentita del divieto di restituzione attiene a «quelle confische che, pur previste da disposizioni diverse, riguardino cose intrinsecamente pericolose, perché tali cose rientrerebbero comunque nell’ambito di applicazione dell’art. 240, secondo comma, cod. pen., se non fossero contemplate da leggi speciali»; diversamente, il superamento di tale limite estremo al fine di attingere «tutti i casi di confisca obbligatoria, diversi da quelli ricadenti nella previsione dell’art. 240, secondo comma, cod. pen., costituirebbe un’applicazione analogica della norma, che non appare corretta sul piano ermeneutico, perché, pur trattandosi di disposizione processuale, deve essere considerata la particolare funzione che il divieto di restituzione assolve» (loc. ult. cit.).

D’altronde – rileva conclusivamente la Corte – la soluzione raggiunta è coerente con gli approdi da tempo predicati dalla giurisprudenza pressoché totalitaria in relazione al decreto penale di condanna, orientata ad interpretare in senso restrittivo l’art. 460, comma 2, cod. proc. pen., che prevede, con una formula sostanzialmente identica a quella dell’art. 324, comma 7, cod. proc. pen. [Sez. 3, n. 43547 del 27/04/2016, Rv. 267923, Gardelli; Sez. 3, n. 18774 del 29/02/2012, Rv. 252622, Staicue; Sez. 3, n. 36063 del 07/07/2009, Rv. 244607, Renna; Sez. 3, n. 24659 del 19/03/2009, Rv. 244019, Mongardi; Sez. 3, n. 26548 del 22/05/2008, Rv. 240343, Mazzucato; “contra” soltanto Sez. 3, n. 4545 del 04/12/2007 (dep. 2008), Rv. 238852, Pennino].

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. 5, n. 8701 del 17/06/1992, Rv. 191822 – 01, Bazzani

Sez. 5, n. 1170 del 06/05/1992, Rv. 190827 – 01, Tagliaferri

Sez. 6, n. 265 del 30/01/1992, Rv. 190776 – 01, Tamaro

Sez. U, n. 5 del 25/03/1993, Rv. 193119, Carlea

Sez. 3, n. 268 del 30/01/1995, Rv. 201562 – 01, Schiena

Sez. 3, n. 65 del 11/01/1995, Rv. 201563 – 01, Bozzato

Sez. 3, n. 2092 del 07/05/1996, Rv. 204729 – 01, Cervati

Sez. 3, n. 2859 del 04/11/1998, Rv. 212483 – 01, Agustoni F.

Sez. 4, n. 1640 del 22/05/1998, Rv. 210989 – 01, Toracca

Sez. 3, n. 8542 del 24/01/2001, Rv. 218331 – 01, Giglioli

Sez. 2, n. 862 del 02/12/2002 (dep. 2003), Rv. 223479 – 01, Rindi

Sez. 3, n. 46974 del 29/10/2003, Rv. 228331 – 01, Montella

Sez. 3, n. 39714 del 18/09/2003, Rv. 226345 – 01, Hartl

Sez. 3, n. 17310 del 12/03/2003, Rv. 224789 – 01, Xu Fenghua

Sez. 2, n. 494 del 01/12/2004 (dep. 2005), Rv. 230865 - 01 Schipani

Sez. 5, n. 23240 del 18/05/2005, Rv. 231902 – 01, Zhu

Sez. 3, n. 2949 del 11/01/2005, Rv. 230868 – 01, Gazziero

Sez. 3, n. 4545 del 04/12/2007 (dep. 2008), Rv. 238852, Pennino

Sez. 3, n. 44279 del 07/11/2007, Rv. 238287 – 01, Mazzotta

Sez. 4, n. 6383 del 18/01/2007, Rv. 236106 – 01, Barbareschi

Sez. 3, n. 41200 del 10/10/2008, Rv. 241531 – 01, Tringali

Sez. U, n. 38834 del 10/07/2008, Rv. 240565, De Maio

Sez. 3, n. 26548 del 22/05/2008, Rv. 240343, Mazzucato

Sez. 6, n. 41627 del 07/10/2009 Rv. 245494 - 01 Furgiuele

Sez. 3, n. 36063 del 07/07/2009, Rv. 244607, Renna

Sez. 3, n. 24659 del 19/03/2009, Rv. 244019, Mongardi

Sez. 3, n. 10710 del 28/01/2009, Rv. 243106 – 01, Girardi

Sez. 2, n. 35029 del 26/05/2010, Rv. 248237 – 01, Capirello e altro

Sez. 3, n. 18545 del 07/04/2010, Rv. 247156 – 01, De Bosi

Sez. 4, n. 34459 del 12/07/2011, Rv. 251102 – 01, Zamora Guevara

Sez. 3, n. 18774 del 29/02/2012, Rv. 252622, Staicue

Sez. 3, n. 7673 del 10/01/2012, Rv. 252093 – 01, Napoletano

Sez. 2, n. 3185 del 06/11/2012 (dep. 2013), Rv. 254508 – 01, Di Guida

Sez. 2, n. 19180 del 16/04/2013, Rv. 255409 – 01, Nicita

Sez. U, n. 31617 del 26/06/2015, Rv. 264434, Lucci

Sez. 2, n. 35100 del 10/06/2015, Rv. 264511 – 01, Di Domenico

Sez. 3, n. 27139 del 22/04/2015, Rv. 264186 – 01, Lan

Sez. 3, n. 43547 del 27/04/2016, Rv. 267923, Gardelli

Sez. 3, n. 17918 del 06/12/2016 (dep. 2017), Rv. 269628 – 01, Rena e Romi SHPK

Sez. 1, n. 58050 del 18/10/2017, Rv. 271614 – 01, Cerquini e altro

Sez. 3, n. 41558 del 19/07/2017, Rv. 270890 – 01, Flace

Sez. 2, n. 16523 del 07/03/2017 Cc., Rv. 269700 – 01, Lucente e altro

Sez. 3, n. 35784 del 15/02/2017, Rv. 270727 – 01, P.M. in proc. Volpi

Sez. 3, n. 56683 del 22/11/2018, Bellucci

Sez. 6, n. 54792 del 15/11/2018, Rv. 274637, Rizzo

Sez. U, n. 40847 del 30/05/2019, Rv. 276690 – 01 e Rv. 276690 – 02, Bellucci

  • prova

CAPITOLO II

L’UTILIZZAZIONE DEI RISULTATI DELLE INTERCETTAZIONI IN PROCEDIMENTI DIVERSI

(di Luigi Giordano )

Sommario

1 La vicenda oggetto del giudizio. - 2 Il fondamento costituzionale della disciplina delle intercettazioni. - 3 segue: la giurisprudenza costituzionale sull’art. 270 cod. proc. pen. - 4 segue: la portata del provvedimento autorizzativo delle intercettazioni secondo la Costituzione. - 5 Gli indirizzi giurisprudenzali sulla nozione di “diverso procedimento”: la tesi prevalente. - 6 segue: La tesi che assicura rilievo alla formale unitarietà iniziale del procedimento. - 7 segue: La tesi che equipara la nozie di “procedimento” a quella di “reato”. - 8 Il contrasto giurisprudenziale sulla necessità del rispetto dei presupposti di cui all’art. 266 cod. proc. pen. - 9 Le ragioni della mancata condivisione del secondo indirizzo illustrato. - 10 Le ragioni della mancata condivisione del terzo indirizzo illustrato. - 11 Le ragioni dell’accoglimento del primo indirizzo illustrato. Il “legame” sostanziale tra i reati. - 12 segue: La connessione e la coincidenza della “regiudicanda”. - 13 segue: L’insufficienza del mero collegamento tra le indagini ex art. 371 cod. proc. pen. - 14 segue: Il principio espresso dalle Sezioni Unite. - Indice delle sentenze citate

1. La vicenda oggetto del giudizio.

Le Sezioni Unite, con sentenza pronunciata alla camera di consiglio del 28 novembre 2019, dep. il 2 gennaio 2020, n. 51, Cavallo e altro, Rv. 277395, hanno affrontato la questione di diritto che è stata così sintetizzata: “Se il divieto di utilizzazione dei risultati delle intercettazioni in procedimenti diversi da quelli per i quali le intercettazioni siano state disposte, di cui all’art. 270 cod. proc. pen., riguardi anche i reati non oggetto della intercettazione ab origine disposta e che, privi di collegamento strutturale, probatorio e finalistico con quelli invece già oggetto di essa, siano emersi dalle stesse operazioni di intercettazione”.

La Corte di appello di Brescia, in particolare, aveva condannato gli imputati per i reati di peculato e di falsità ideologica e materiale in atto pubblico. Avverso questa decisione, nel ricorso per cassazione, uno degli imputati ha eccepito, tra l’altro, l’inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni da cui era stata tratta la prova dei reali a lui ascritti per la violazione del divieto di cui all’art. 270 cod. proc. pen. Dette captazioni, infatti, erano state autorizzate per fare luce su un’ipotesi di utilizzazione illegittima di notizie riservate, ricondotta alla fattispecie penale di cui all’art. 326, comma terzo, cod. pen. Le captazioni erano finalizzate a ricostruire la rete degli informatori di cui si avvalevano alcune persone nell’interesse di una società. L’inchiesta si era progressivamente allargata, coinvolgendo taluni militari di una stazione dei carabinieri, risultati in contatto con tali soggetti. Lo sviluppo delle indagini e le risultanze delle operazioni di intercettazione avevano condotto il G.I.P. ad autorizzare la proroga delle operazioni in corso e lo svolgimento di nuove intercettazioni di utenze telefoniche in possesso di alcuni carabinieri della predetta stazione. In questo contesto, erano emersi gli elementi di prova dei reati di falso e di peculato. Secondo le decisioni di merito, infatti, alcuni militari avevano organizzato un’operazione di sequestro di droga e di denaro ai danni di una persona, con l’intesa di dividere tra di loro e con il ricorrente, Comandante della stazione di appartenenza, una parte della somma rinvenuta, redigendo, a tale scopo, verbali falsi, recanti anche la sottoscrizione apocrifa di uno dei essi. Tra questi reati emersi nel corso delle intercettazioni e quelli per i quali le captazioni erano state autorizzate, secondo il ricorrente, non sussisterebbe alcun nesso, con la conseguenza che dovrebbe trovare applicazione la clausola di esclusione probatoria di cui all’art. 270 cod. proc. pen.

2. Il fondamento costituzionale della disciplina delle intercettazioni.

La Corte ha premesso che l’esame della questione controversa deve essere compiuto nell’ambito del quadro costituzionale di riferimento.

L’art. 15 Cost., in particolare, tutela due distinti interessi, «quello inerente alla libertà ed alla segretezza delle comunicazioni, riconosciuto come connaturale ai diritti della personalità definiti inviolabili dall’art. 2 Cost., e quello connesso all’esigenza di prevenire e reprimere i reati, vale a dire ad un bene anch’esso oggetto di protezione costituzionale» (Corte cost., sent. n. 34 del 1973).

Il diritto alla libertà e alla segretezza della corrispondenza e di ogni altro mezzo di comunicazione è strettamente attinente al nucleo essenziale dei valori di personalità, tanto che la giurisprudenza costituzionale lo qualifica come «parte necessaria di quello spazio vitale che circonda la persona e senza il quale questa non può esistere e svilupparsi in armonia con i postulati della dignità umana», caratterizzando la sua inviolabilità in una duplice prospettiva: in base all’art. 2 Cost., «il diritto a una comunicazione libera e segreta è inviolabile, nel senso generale che il suo contenuto essenziale non può essere oggetto di revisione costituzionale, in quanto incorpora un valore della personalità avente un carattere fondante rispetto al sistema democratico voluto dal Costituente», mentre, in base all’art. 15 Cost., «lo stesso diritto è inviolabile nel senso che il suo contenuto di valore non può subire restrizioni o limitazioni da alcuno dei poteri costituiti se non in ragione dell’inderogabile soddisfacimento di un interesse pubblico primario costituzionalmente rilevante, sempreché l’intervento limitativo posto in essere sia strettamente necessario alla tutela di quell’interesse e sia rispettata la duplice garanzia che la disciplina prevista risponda ai requisiti propri della riserva assoluta di legge e la misura limitativa sia disposta con atto motivato dell’autorità giudiziaria» (Corte cost., sent. n. 366 del 1991).

L’esigenza di repressione dei reati, invero, corrisponde «a un interesse pubblico primario, costituzionalmente rilevante, il cui soddisfacimento è assolutamente inderogabile». Tale interesse giustifica «anche il ricorso a un mezzo dotato di formidabile capacità intrusiva, quale l’intercettazione telefonica»; d’altra parte, «le restrizioni alla libertà e alla segretezza delle comunicazioni conseguenti alle intercettazioni telefoniche sono sottoposte a condizioni di validità particolarmente rigorose, commisurate alla natura indubbiamente eccezionale dei limiti apponibili a un diritto personale di carattere inviolabile, quale la libertà e la segretezza delle comunicazioni» (Corte cost., sent. n. 366 del 1991). Ne consegue che «l’atto dell’autorità giudiziaria con il quale vengono autorizzate le intercettazioni telefoniche deve essere “puntualmente motivato”», ossia «deve avere una “adeguata e specifica motivazione”» (Corte cost., sent. n. 366 del 1991; Corte cost., sent. n. 34 del 1973).

3. segue: la giurisprudenza costituzionale sull’art. 270 cod. proc. pen.

La Corte costituzionale si è occupata anche della disciplina dell’art. 270 cod. proc. pen., chiarendo che la libertà della comunicazione «risulterebbe pregiudicata, gravemente scoraggiata o, comunque turbata ove la sua garanzia non comportasse il divieto di divulgazione o di utilizzazione successiva delle notizie di cui si è venuti a conoscenza a seguito di una legittima autorizzazione di intercettazioni al fine dell’accertamento in giudizio di determinati reati», sicché «l’utilizzazione come prova in altro procedimento trasformerebbe l’intervento del giudice richiesto dall’art. 15 della Costituzione in un’inammissibile “autorizzazione in bianco”, con conseguente lesione della “sfera privata” legata alla garanzia della libertà di comunicazione e al connesso diritto di riservatezza incombente su tutti coloro che ne siano venuti a conoscenza per motivi di ufficio» (Corte cost., sent. n. 366 del 1991; sent. n. 63 del 1994). L’art. 270, comma 1, cod. proc. pen., pertanto, rappresenta «una norma del tutto eccezionale»: «la possibilità di utilizzare i risultati delle intercettazioni disposte nell’ambito di un determinato processo limitatamente ai procedimenti diversi, relativi all’accertamento di reati per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza, risponde all’esigenza di ammettere una deroga alla regola generale del divieto di utilizzazione delle intercettazioni in altri procedimenti, giustificata dall’interesse dell’accertamento dei reati di maggiore gravità».

4. segue: la portata del provvedimento autorizzativo delle intercettazioni secondo la Costituzione.

Le Sezioni Unite hanno riassunto le indicazioni offerte dalla giurisprudenza costituzionale, sottolineando che l’autorizzazione del giudice non si limita a legittimare il ricorso al mezzo di ricerca della prova, ma circoscrive l’utilizzazione dei suoi risultati ai fatti-reato che all’autorizzazione stessa risultino riconducibili: essa, infatti, deve dar conto dei «soggetti da sottoporre al controllo» e dei «fatti costituenti reato per i quali in concreto si procede» (Corte cost., sent. n. 366 del 1991). Quest’ultimo riferimento comporta la delimitazione dell’utilizzabilità probatoria dei risultati dell’intercettazione ai reati riconducibili all’autorizzazione giudiziale. Tale delimitazione, a sua volta, è condizione essenziale affinché l’intervento giudiziale abilitativo non si trasformi in una “autorizzazione in bianco”.

L’eccezione a tale regola è rappresentata dall’utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni per l’accertamento giudiziale di reati diversi da quelli riconducibili al provvedimento autorizzatorio motivato, ossia per l’accertamento dei reati per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza. L’impiego probatorio di tali esiti è costituzionalmente legittimo perché circoscritto a casi eccezionali «tassativamente indicati dalla legge» e, comunque, è limitato «all’accertamento di una categoria predeterminata di reati presuntivamente capaci di destare particolare allarme sociale», ossia per l’accertamento di «reati di maggiore gravità» (Corte cost., sent. n. 63 del 1994).

Fuori da tali eccezionali casi, l’autorizzazione del giudice costituisce non solo il fondamento di legittimazione del ricorso all’intercettazione, ma anche il limite all’utilizzabilità probatoria dei relativi risultati ai soli reati riconducibili alla stessa autorizzazione.

Una volta illustrati i principi costituzionali che regolano il mezzo di ricerca della prova in esame, la Corte ha rilevato che la disciplina codicistica delle intercettazioni è conforme alla portata attribuita dalla Costituzione all’autorizzazione giudiziale. Al giudice, infatti, è attribuita «una funzione di controllo e di garanzia, essendogli riservato il potere di autorizzare l’atto ovvero di convalidarlo, nel caso peculiare in cui l’urgenza non consenta un suo intervento preventivo» (Relazioni al progetto preliminare e al testo definitivo del codice di procedura penale, in Supp. Ord. n. 2 alla G.U. n. 250 del 24 ottobre 1988 – Serie generale). La disciplina ex art. 270, comma 1, cod. proc. pen., secondo cui l’utilizzazione in procedimenti diversi è «ammessa solo se i risultati delle intercettazioni siano indispensabili per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in fragranza» (Relazioni al progetto preliminare e al testo definitivo del codice di procedura penale, cit.) - conferma che, di regola, l’utilizzo probatorio di detti risultati è vietato per i reati non riconducibili all’autorizzazione del giudice.

5. Gli indirizzi giurisprudenzali sulla nozione di “diverso procedimento”: la tesi prevalente.

La sentenza, quindi, ha illustrato gli indirizzi giurisprudenziali che si sono formati in relazione ai limiti di operatività del divieto di cui all’art. 270 cod. proc. pen., precisando, al fine di definire con chiarezza il perimetro della questione controversa, che non è in discussione l’orientamento consolidato, secondo cui il divieto di utilizzazione dei risultati delle intercettazioni in procedimenti diversi da quelli nei quali sono state disposte attiene solo alla valutazione di tali risultati come elementi di prova, ma non preclude la possibilità di dedurre dagli stessi notizie di nuovi reati, quale punto di partenza di nuove indagini (Sez. 2, n. 17759 del 13/12/2016, dep. 2017, Cante, Rv. 270219; conf. Sez. 2, n. 19699 del 23/04/2010, Trotta, Rv. 247104; Sez. 4, n. 2596 del 03/10/2006, dep. 2007, Abate, Rv. 236115; Sez. 5, n. 23894 del 02/05/2003, Luciani, Rv. 225946; Sez. 6, n. 31 del 26/11/2002, dep. 2003, Chiarenza, Rv. 225709) e che neppure viene in rilievo l’ipotesi in cui la conversazione intercettata costituisca corpo del reato, essendo utilizzabile, in quanto tale, nel processo penale (Sez. U, n. 32697 del 26/06/2014, Floris, Rv. 259776).

Orbene, secondo l’indirizzo giurisprudenziale maggioritario, la definizione di “procedimento diverso” non coincide con quella di “diverso reato” (ex plurimis, Sez. 6, n. 1972 del 16/05/1997, Pacini Battaglia, Rv. 210044; Sez. 2, n. 9579 del 19/01/2004, Amato, Rv. 228384; Sez. 4, n. 7320 del 19/01/2010, Verdoscia, Rv. 246697; più di recente, Sez. 3, n. 52503 del 23/09/2014, Sarantsev, Rv. 261971; Sez. 2, n. 43434 del 05/07/2013, Bianco, Rv. 257834), essendo la prima più ampia della seconda, né può essere ricollegata a un dato di ordine meramente formale, come il numero di iscrizione nel registro della notizia di reato (ex plurimis, Sez. 6, n. 1972 del 1997, Pacini Battaglia, cit.; Sez. 1, n. 46075 del 04/11/2004, Kunsmonas, Rv. 230505; Sez. 2, n. 7995 del 03/02/2006, Polignano; Sez. 3, n. 29473 del 09/05/2012, Rv. 253161; più di recente, Sez. 2, n. 3253 del 10/10/2013, dep. 2014, Costa, Rv. 258591; Sez. 2, n. 27473 del 29/05/2014, Lo Re), perché la formale unità dei procedimenti, sotto un unico numero di registro generale, non può fungere da schermo per l’utilizzabilità indiscriminata delle intercettazioni, facendo convivere tra di loro procedimenti privi di un reale collegamento (Sez. 3, n. 33598 del 08/04/2015, Vasilas). Essa, invece, si riferisce al contenuto della notizia di reato, ossia al fatto-reato in relazione al quale il pubblico ministero e la polizia giudiziaria svolgono le indagini necessarie per le determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale (ex plurimis, Sez. 6, n. 5192 del 25/02/1997, Gunnella, Rv. 209306; Sez. 3, n. 29856 del 24/04/2018, La Volla, Rv. 275389).

Il legame tra la notizia di reato in relazione alla quale è stata autorizzata l’intercettazione e quella emersa dai risultati dell’intercettazione che, se riconosciuto, esclude la diversità dei procedimenti e, con essa, il divieto di utilizzazione di cui all’art. 270, comma 1, cod. proc. pen., pertanto, è delineato in una prospettiva sostanzialistica, facendo riferimento ad indagini strettamente connesse e collegate sotto il profilo oggettivo, probatorio e finalistico al reato alla cui definizione il mezzo di ricerca della prova è stato autorizzato (ex plurimis, Sez. 6, n. 2135 del 10/05/1994, Rizzo, Rv. 199917; Sez. 3, n. 1208 del 14/04/1998, Romagnolo, Rv. 210950; Sez. 1, n. 2930 del 17/12/2002, dep. 2003, Semeraro, Rv. 223170; Sez. 3, n. 348 del 13/11/2007, dep. 2008, Ndoja, Rv. 238779; Sez. 6, n. 11472 del 02/12/2009, dep. 2010, Paviglianiti, Rv. 246524; più di recente, Sez. 6, n. 46244 del 15/11/2012, Filippi, Rv. 254285; Sez. 6, n. 20910 del 15/03/2012, Avena, Rv. 252863; Sez. 5, n. 26693 del 20/01/2015, Catanzaro, Rv. 264001; Sez. 5, n. 32779 del 10/05/2016, Bacchi; Sez. 3, n. 28516 del 28/02/2018, Marotta, Rv. 273226), non potendosi risolvere nell’esistenza di un collegamento meramente fattuale ed occasionale (Sez. 3, n. 2608 del 05/11/2015, dep. 2016, Pulvirenti, Rv. 266423), ma essendo necessaria la sussistenza di una connessione ex art. 12 cod. proc. pen. o di un collegamento ex art. 371, comma 2, lett. b) e c), sotto il profilo oggettivo, probatorio o finalistico (ex plurimis, Sez. 6, n. 6702 del 16/12/2014, dep. 2015, La Volla, Rv. 262496; Sez. 3, n. 33598 del 08/04/2015, Vasilas).

A questo primo orientamento ha aderito anche la sentenza Sez. U, n. 32697 del 26/06/2014, Floris, la quale, peraltro, ha affermato il principio secondo cui «la conversazione o comunicazione intercettata costituisce corpo del reato unitamente al supporto che la contiene, in quanto tale utilizzabile nel processo penale, solo allorché essa stessa integri ed esaurisca la condotta criminosa».

6. segue: La tesi che assicura rilievo alla formale unitarietà iniziale del procedimento.

Un diverso indirizzo, invece, valorizzando l’inerenza delle risultanze relative a reati diversi da quelli oggetto del provvedimento autorizzativo al medesimo procedimento in cui il mezzo di ricerca della prova è stato disposto, sostiene che, qualora l’intercettazione sia legittimamente autorizzata all’interno di un determinato procedimento concernente uno dei reati di cui all’art. 266 cod. proc. pen., i suoi esiti sono utilizzabili anche per gli altri reati di cui emerga la conoscenza dall’attività di captazione; nel caso in cui si tratti di reati oggetto di un procedimento diverso ab origine, invece, l’utilizzazione è subordinata alla sussistenza dei parametri indicati espressamente dall’art. 270 cod. proc. pen., e, cioè, all’indispensabilità ed all’obbligatorietà dell’arresto in flagranza (ex plurimis, Sez. 2, n. 9500 del 23/02/2016, De Angelis, Rv. 267784; Sez. 5, n. 26817 del 04/03/2016, Iodice, Rv. 267889; Sez. 6, n. 41317 del 15/07/2015, Rosatelli, Rv. 265004; Sez. 4, n. 29907 del 08/04/2015, Della Rocca, Rv. 264382). Il dato dell’unitarietà iniziale del procedimento segna, dunque, nella prospettiva del secondo orientamento, il limite dell’operatività del divieto di utilizzazione ex art. 270, comma 1, cod. proc. pen.

7. segue: La tesi che equipara la nozie di “procedimento” a quella di “reato”.

Nella giurisprudenza di legittimità, inoltre, si è formato pure un terzo indirizzo, che invero appare più risalente, secondo cui, al di fuori dei casi tassativamente indicati nell’art. 270 cod. proc. pen., non è consentita l’utilizzazione in un procedimento penale delle risultanze emerse da intercettazioni telefoniche disposte in altro procedimento, neppure quando i due procedimenti siano strettamente connessi sotto il profilo oggettivo e probatorio (Sez. 3, n. 9993 del 03/07/1991, Cerra, Rv. 188356). In contrapposizione al primo orientamento, in particolare, è stato osservato che la nozione di “diverso procedimento” ex art. 270, comma 1, cod. proc. pen. va ricollegata «al dato della alterità o non uguaglianza del procedimento, in quanto instaurato in relazione ad una notizia di reato che deriva da un fatto storicamente diverso da quelli fatto oggetto delle indagini relativi ad altro, differente, anche se connesso, procedimento», sicché ricomprendere in essa la connessione o il collegamento dei procedimenti comporterebbe «la sostanziale elusione del divieto in detta disposizione sancito dal legislatore» (Sez. 4, n. 4169 del 11/12/2008, dep. 2009, Mucciarone, Rv. 242836; più di recente, in analoga prospettiva, Sez. 2, n. 49930 del 11/12/2012, Perri, Rv. 253916).

8. Il contrasto giurisprudenziale sulla necessità del rispetto dei presupposti di cui all’art. 266 cod. proc. pen.

Nel delineare gli indirizzi contrapposti, le Sezioni unite hanno rilevato che, nell’ambito dei primi due orientamenti illustrati, si è manifestata una importante divergenza sul punto relativo alla necessità o meno, ai fini dell’utilizzabilità dei risultati delle captazioni, che il reato emerso nel corso dell’intercettazione – diverso da quello per il quale il mezzo di ricerca della prova è stato ab origine disposto - rientri nei limiti di ammissibilità previsti dall’art. 266 cod. proc. pen.

Con riguardo al primo indirizzo, infatti, al quesito è stata data risposta affermativa, sostenendo che, seppur non possono considerarsi pertinenti a “diverso procedimento” risultanze di intercettazioni concernenti fatti strettamente connessi a quello cui si riferisce l’autorizzazione giudiziale, detti esiti possono essere utilizzati soltanto nel caso in cui, per il reato cui si riferiscono, il controllo avrebbe potuto essere autonomamente disposto a norma dell’art. 266 cod. proc. pen. (Sez. 6, n. 4942 del 15/01/2004, Kolakowska Bozena, Rv. 229999; conf. Sez. 1, n. 14595 del 17/11/1999, Toscano, Rv. 216206).

In senso diametralmente opposto, sempre con riferimento al primo indirizzo, è stata sostenuta anche l’opposta soluzione, affermando che i risultati delle intercettazioni telefoniche disposte per uno dei reati rientranti tra quelli indicati nell’art. 266 cod. proc. pen. sono utilizzabili relativamente ad altri reati che emergano dall’attività di captazione, anche se per essi le intercettazioni non sarebbero state consentite, sempre che tra il contenuto dell’originaria notizia di reato alla base dell’autorizzazione e quello dei reati per cui si procede separatamente sussista una stretta connessione sotto il profilo oggettivo, probatorio o finalistico, tale che il relativo procedimento non possa ritenersi diverso (Sez. 5, n. 45535 del 16/03/2016, Damiani De Paula, Rv. 268453).

Lo stesso contrasto si rinviene con riferimento al secondo orientamento.

Secondo una prospettiva, difatti, qualora l’intercettazione sia legittimamente autorizzata all’interno di un determinato procedimento concernente uno dei reati di cui all’art. 266 cod. proc. pen., i suoi esiti sono utilizzabili anche per tutti gli altri reati relativi al medesimo procedimento, purché, in relazione ad essi, il controllo avrebbe potuto essere autonomamente disposto ai sensi del medesimo art. 266 (Sez. 2, n. 1924 del 18/12/2015, dep. 2016, Roberti, Rv. 265989; Sez. 6, n. 27820 del 17/06/2015, Morena, Rv. 264087; Sez. 6, n. 53418 del 04/11/2014, De Col, Rv. 261838).

Nella seconda direzione, invece, è stato affermato che i risultati delle intercettazioni telefoniche disposte per uno dei reati rientranti tra quelli indicati all’art. 266 cod. proc. pen. sono utilizzabili pure relativamente ad altri reati che emergano dall’attività di captazione, anche se per essi le intercettazioni non sarebbero state consentite (Sez. 6, n. 19496 del 21/02/2018, Cante, Rv. 273277; Sez. 5, n. 15288 del 09/02/2018, Trani, Rv. 272852; Sez. 6, n. 31984 del 26/04/2017, Rv. 270431; Sez. F, n. 35536 del 23/08/2016, Tagliapietra, Rv. 267598; Sez. 6, n. 22276 del 05/04/2012, Maggioni, Rv. 252870; Sez. 3, n. 39761 del 22/09/2010, Rv. 248557).

In merito a questo contrasto, la cui risoluzione è apparsa alle Sezioni unite strettamente legata a quella della questione rimessa al suo vaglio, la Corte ha affermato che il reato accertato sulla base dell’intercettazione autorizzata invece per la ricerca della prova di altro reato deve rientrare nei limiti di ammissibilità delle captazioni di cui all’art. 266 cod. proc. pen.

Il catalogo dei reati per i quali il ricorso alle intercettazioni è ammissibile, infatti, «definisce il perimetro legale all’interno del quale il giudice deve operare le valutazioni relative alla sussistenza, nella fattispecie concreta, dei presupposti dell’autorizzazione». La previsione di limiti di ammissibilità delle intercettazioni è una diretta espressione della riserva assoluta di legge ex art. 15 Cost., che governa la materia delle intercettazioni, e dell’istanza di rigorosa - e inderogabile - tassatività che da essa discende (cfr. Corte cost., sent. n. 63 del 1994), riconnettendosi alla «natura indubbiamente eccezionale dei limiti apponibili a un diritto personale di carattere inviolabile, quale la libertà e la segretezza delle comunicazioni (art. 15 della Costituzione)» (Corte cost., sent. n. 366 del 1991). Consentire l’utilizzazione probatoria dell’intercettazione in relazione a reati che non rientrano nei limiti di ammissibilità fissati dalla legge si tradurrebbe, come la giurisprudenza di legittimità ha già avuto modo di rimarcare, «nel surrettizio, inevitabile aggiramento di tali limiti, «con grave pregiudizio per gli interessi sostanziali tutelati dall’art. 266 cod. proc. pen. che intende porre un limite alla interferenza nella libertà e segretezza delle comunicazioni in conformità all’art. 15 della Costituzione» (Sez. 6, n. 4942 del 2004, Kolakowska Bozena, cit.; conf., nella prospettiva del secondo orientamento, Sez. 1, n. 24819 del 12/07/2016, Boccardi).

La sentenza, pertanto, ha concluso sul punto che l’utilizzabilità dei risultati di intercettazioni disposte nell’ambito di un “medesimo procedimento” presuppone che i reati diversi da quelli per i quali il mezzo di ricerca della prova è stato autorizzato rientrino nei limiti di ammissibilità delle intercettazioni stabiliti dalla legge.

9. Le ragioni della mancata condivisione del secondo indirizzo illustrato.

Fatta questa precisazione, la Corte ha ritenuto non condivisibile il secondo indirizzo giurisprudenziale formatosi in merito all’interpretazione dell’art. 270 cod. proc. pen. e, segnatamente, quello che assicura rilievo all’unitarietà iniziale del procedimento per escludere l’operatività del divieto previsto da tale norma. Quest’impostazione, infatti, fa leva su una nozione formale di “procedimento”, in quanto connotato da un determinato numero di iscrizione nei registri delle notizie di reato. Nel lessico del codice di procedura penale, tuttavia, il riferimento al “procedimento” si presenta tutt’altro che univoco: in termini generali, esso viene giustapposto al “processo”, così delineando «una netta scansione tra il procedimento, che si articola nelle indagini preliminari, e il processo, che nasce quando il pubblico ministero imbocca la strada della formulazione dell’accusa rendendo ineludibile la pronuncia giurisdizionale» (Relazioni al progetto preliminare e al testo definitivo del codice di procedura penale, cit.); nella stessa terminologia codicistica, però, il termine “procedimento” allude anche al singolo reato commesso da una persona (art. 12 cod. proc. pen.). Ora, che, ai fini della definizione della portata del divieto probatorio di cui all’art. 270 cod. proc. pen., la nozione di “procedimento” vada intesa nell’accezione formale presupposta dall’indirizzo in esame è affermazione che, proprio per la plurivocità semantica del termine, si risolve in una petizione di principio, non trovando una specifica giustificazione sul terreno dell’interpretazione sistematica.

Come la giurisprudenza di legittimità ha già avuto modo di rimarcare, però, «la formale unità dei procedimenti, sotto un unico numero di registro generale, non può fungere da schermo per l’utilizzabilità indiscriminata delle intercettazioni, facendo convivere tra di loro procedimenti privi di collegamento reale» (Sez. 3, n. 33598 del 08/04/2015, Vasilas): in altri termini, svincolata da qualsiasi legame sostanziale tra il reato per il quale il mezzo di ricerca della prova è stato autorizzato e l’ulteriore reato emerso dai risultati dell’intercettazione, la definizione della portata del divieto probatorio ex art. 270, comma 1, cod. proc. pen. viene schiacciata sul “contenitore dell’attività di indagine» e, di conseguenza, delineata sulla base di fattori del tutto casuali, relativi alla “sede” procedimentale (unitaria o separata) - e, dunque, forieri di dubbi di legittimità costituzionale.

Il criterio formale dell’inerenza del “nuovo” reato al medesimo «contenitore dell’attività di indagine» sul quale si fonda il secondo orientamento, dunque, ne mette in luce l’incompatibilità con la portata dell’autorizzazione giudiziale delineata dall’art. 15 Cost., che, come si è già illustrato, investe l’utilizzazione probatoria dei risultati dell’intercettazione e non solo l’impiego del mezzo di ricerca della prova. Di conseguenza, ritenere utilizzabili i risultati dell’intercettazione disposta per uno dei reati di cui all’art. 266 cod. proc. pen. anche per gli altri reati di cui è emersa la conoscenza grazie all’intercettazione stessa e ciò indipendentemente da qualsiasi legame sostanziale tra il primo e i secondi significherebbe imprimere all’autorizzazione del giudice quella connotazione di “autorizzazione in bianco” messa al bando dalla giurisprudenza costituzionale.

10. Le ragioni della mancata condivisione del terzo indirizzo illustrato.

Le Sezioni Unite, inoltre, non hanno condiviso neppure il terzo indirizzo, il quale muove da una considerazione della nozione di “procedimento” come sinonimo di “reato”, alla cui stregua l’esistenza di un legame sostanziale tra il reato in relazione al quale l’intercettazione è stata autorizzata e il reato accertato grazie ai risultati della stessa non sarebbe idoneo ad inibire l’operatività del divieto probatorio (Sez. 4, n. 4169 del 2008, dep. 2009, Mucciarone, cit.).

La tesi non è stata condivisa perché, correlando la nozione di “procedimento” all’iscrizione nel registro di cui all’art. 335 cod. proc. pen., dovrebbe essere considerato “diverso procedimento” quello iscritto nei confronti di una persona nota per un certo reato a seguito delle intercettazioni disposte in un procedimento contro ignoti per quel medesimo fatto-reato, mentre è pacifico che, se un’intercettazione telefonica è validamente autorizzata, essa può essere utilizzata nei confronti di qualsiasi persona a carico della quale faccia emergere elementi di responsabilità per quel reato (Sez. 6, n. 9822 del 01/07/1992, Pellegrino, Rv. 192008). Del resto, sarebbe all’evidenza irrazionale una disciplina che consentisse il ricorso all’intercettazione in un procedimento contro ignoti e ne precludesse poi l’utilizzabilità nel confronti dell’autore del reato scoperto grazie all’intercettazione stessa.

11. Le ragioni dell’accoglimento del primo indirizzo illustrato. Il “legame” sostanziale tra i reati.

Le Sezioni Unite, invece, hanno accolto l’impostazione del primo orientamento giurisprudenziale, che fa leva su una nozione “sostanziale” di “diverso procedimento”, la quale non coincide con un “diverso reato”, né può essere ricollegata a un dato di ordine meramente formale, come il numero di iscrizione nel registro della notizia di reato. Ricorre lo stesso procedimento – o, al contrario non è configurabile la diversità tra procedimenti presupposto per l’operatività del divieto di cui all’art. 270 cod. proc. pen. – anche quando si tratti di reati diversi, purché sussista un legame sostanziale tra di loro.

La Corte, tuttavia, ha ritenuto necessarie alcune puntualizzazioni su quale sia il “legame sostanziale” tra il reato in relazione al quale l’autorizzazione all’intercettazione è stata emessa e quello emerso grazie ai risultati di tale intercettazione che rende quest’ultimo reato riconducibile al provvedimento autorizzatorio e, dunque, in linea con l’art. 15 Cost., che vieta “autorizzazioni in bianco”.

Come si è visto, detto legame sostanziale è individuato dalla giurisprudenza di legittimità richiamando, ora, l’esistenza di una connessione sotto il profilo oggettivo, probatorio o finalistico tra il contenuto dell’originaria notizia di reato, per la quale sono state disposte le intercettazioni, e i reati per i quali si procede, ora, la sussistenza, tra i due fatti-reato pur storicamente differenti, di ipotesi di connessione ex art. 12 cod. proc. pen. o, comunque, di collegamento ex art. 371, comma 2, lett. b) e c), cod. proc. pen. sotto il profilo oggettivo, probatorio e finalistico. Questi due criteri di individuazione del legame sostanziale, secondo la Corte, si prestano, però, a diverse valutazioni.

12. segue: La connessione e la coincidenza della “regiudicanda”.

La connessione ex art. 12 cod. proc. pen. riguarda procedimenti tra i quali esiste una relazione in virtù della quale la regiudicanda oggetto di ciascuno viene, anche solo in parte, a coincidere con quella oggetto degli altri: si tratta, come è noto, di ipotesi che il codice di rito pone a base di un criterio attributivo della competenza autonomo e originario (ex plurimis, Sez. U, n. 27343 del 28/02/2013, Taricco, Rv. 255345). Il carattere originario della connessione ex art. 12 cod. proc. pen. rende ragione del rilievo dottrinale secondo cui essa è un riflesso della connessione sostanziale dei reati: con specifico riferimento al caso di connessione di cui alla lett. c) dell’art. 12 cit., in particolare, si è rilevato come esso si fondi su un «legame oggettivo tra due o più reati» (Sez. U, n. 53390 del 26/10/2017, Patroni Griffi, Rv. 271223), un legame, dunque, indipendente dalla vicenda procedimentale; analoga connessione sostanziale - prima ancora che processuale - sussiste in presenza, oltre che di un concorso formale di reati, di un reato continuato (lett. b), in considerazione del requisito del medesimo disegno criminoso, per la cui integrazione è necessario «che, al momento della commissione del primo reato della serie, i successivi fossero stati realmente già programmati almeno nelle loro linee essenziali» (Sez. U, n. 28659 del 18/05/2017, Gargiulo, Rv. 270074).

In caso di imputazioni connesse ex art. 12 cod. proc. pen., dunque, il procedimento relativo al reato per il quale l’autorizzazione è stata espressamente concessa non può considerarsi “diverso” rispetto a quello relativo al reato accertato in forza dei risultati dell’intercettazione. La parziale coincidenza della regiudicanda oggetto dei procedimenti connessi e, dunque, il legame sostanziale - e non meramente processuale - tra i diversi fatti-reato consente di ricondurre ai «fatti costituenti reato per i quali in concreto si procede» (Corte cost., sent. n. 366 del 1991), di cui al provvedimento autorizzatorio dell’intercettazione, anche quelli oggetto delle imputazioni connesse accertati attraverso i risultati della stessa intercettazione: il legame sostanziale tra essi, infatti, esclude che l’autorizzazione del giudice assuma la fisionomia di un’”autorizzazione in bianco”.

13. segue: L’insufficienza del mero collegamento tra le indagini ex art. 371 cod. proc. pen.

A diverse conclusioni, invece, deve giungersi con riferimento all’altro criterio valorizzato dal primo orientamento, ossia a quello basato sul collegamento investigativo di cui all’art. 371 cod. proc. pen. (fuori dei casi di connessione, naturalmente).

Invero, anche nelle ipotesi delineate dalla lett. b) del comma 2, dell’art. 371 cod. proc. pen. il collegamento, così come configurato dal legislatore codicistico, risponde ad esigenze di efficace conduzione delle indagini, ma le relazioni tra i reati alla base dell’istituto non presuppongono quel necessario legame originario e sostanziale che, come si è visto, consente invece di ricondurre anche il reato oggetto del procedimento connesso ex art. 12 cod. proc. pen. all’originaria autorizzazione.

Con specifico riguardo alle prime due ipotesi della disposizione, infatti, si tratta di relazioni intercorrenti non già tra il reato in riferimento al quale è stata emessa l’autorizzazione e quello messo in luce dall’intercettazione, ma tra le “conseguenze” del primo e il secondo ovvero di relazioni che si risolvono in una mera “occasionalità” tra la commissione dell’uno e dell’altro: si tratta, dunque, di relazioni “deboli”.

Questo rilievo è valido a fortiori per le altre figure di collegamento delineate dalla lett. b) del comma 2 dell’art. 371 cod. proc. pen., considerate fin dalla formulazione originaria della disposizione codicistica nella sola prospettiva dell’efficace conduzione delle indagini. Né in senso contrario può argomentarsi evocando la disciplina della riunione di processi, che richiama sia i casi di connessione, sia quelli di collegamento ex art. 371, comma 2, lett. b), cod. proc. pen., perché l’istituto di cui all’art. 17 cod. proc. pen. si risolve in un «criterio di mera organizzazione del lavoro giudiziario» (Corte cost., ord. n. 247 del 1998; conf. Sez. U, n. 27343 del 28/02/2013, Taricco), criterio inidoneo ad esprimere il legame sostanziale tra i diversi reati indispensabile per considerare “non diverso” il procedimento ai sensi dell’art. 270 cod. proc. pen.

D’altra parte, la giurisprudenza di legittimità che ha accolto il primo orientamento illustrato in precedenza sull’interpretazione dell’art. 270 cod. proc. pen. ha avvertito le difficoltà sottese all’assunzione del collegamento ex art. 371 cod. proc. pen. quale «criterio di valutazione sostanzialistico» ai fini in esame e, quanto alla lett. c) del comma 2, ne ha limitato la portata, sul piano dell’utilizzabilità, alle intercettazioni legittimamente autorizzate nel medesimo procedimento, posto che, si è osservato, diversamente ragionando e presupponendosi sempre e comunque come “stessa fonte” l’intercettazione eseguita in un procedimento ed utilizzandola quindi indiscriminatamente nei diversi procedimenti, sarebbe eluso il divieto di cui all’art. 270, comma 1, cod. proc. pen., rendendo sempre possibile l’utilizzo delle captazioni nel diverso procedimento fondato sulle risultanze delle medesime intercettazioni (così, ex plurimis, Sez. 3, n. 29856 del 2018, La Volla, cit.). Quest’ultima soluzione, tuttavia, non è stata condivisa dalle Sezioni Unite: oltre ad innestare nell’assetto incentrato su un criterio di valutazione sostanzialistico un diverso criterio eminentemente formale (l’identità di procedimento), con tutte le insuperabili aporie già messe in luce, la limitazione indicata non risolve il problema decisivo, ossia l’individuazione di un criterio che assicuri la sussistenza di un legame sostanziale e “forte” tra i reati, così da poterne escludere la riferibilità, ai fini della disciplina di cui all’art. 270 cod. proc. pen., a “procedimenti diversi”. Pertanto, il divieto probatorio dell’utilizzo di intercettazioni in relazione a reati diversi da quelli in relazione ai quali l’autorizzazione del giudice è stata adottata è destinato ad operare in presenza di un rapporto tra i reati riconducibile - fuori dai casi di connessione - alle ipotesi di collegamento tra indagini.

14. segue: Il principio espresso dalle Sezioni Unite.

Alla luce della nozione di “procedimenti diversi” delineata, la Corte ha concluso che - ferma restando l’utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni che risultino indispensabili per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza - non rientrano nella sfera del divieto di cui all’art. 270 cod. proc. pen. di utilizzazione dei risultati di intercettazioni in procedimenti diversi da quelli per i quali le stesse siano state autorizzate solo i reati, accertati in virtù dei risultati delle intercettazioni, che risultano connessi ex art. 12 cod. proc. pen. a quelli in relazione ai quali l’autorizzazione era stata ab origine disposta: quando hanno ad oggetto reati connessi, dunque, i procedimenti non sono “diversi” e non opera il divieto di utilizzazione probatoria di cui all’art. 270 cod. proc. pen.

La sentenza, pertanto, è stata così massimata: “In tema di intercettazioni, il divieto di cui all’art. 270 cod. proc. pen. di utilizzazione dei risultati delle captazioni in procedimenti diversi da quelli per i quali le stesse siano state autorizzate – salvo che risultino indispensabili per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza – non opera con riferimento agli esiti relativi ai soli reati che risultino connessi, ex art. 12 cod. proc. pen., a quelli in relazione ai quali l’autorizzazione era stata ab origine disposta, sempreché rientrino nei limiti di ammissibilità previsti dall’art. 266 cod. proc. pen”.

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. 3, n. 9993 del 03/07/1991, Cerra, Rv. 188356

Sez. 6, n. 9822 del 01/07/1992, Pellegrino, Rv. 192008

Sez. 6, n. 2135 del 10/05/1994, Rizzo, Rv. 199917

Sez. 6, n. 5192 del 25/02/1997, Gunnella, Rv. 209306

Sez. 6, n. 1972 del 16/05/1997, Pacini Battaglia, Rv. 210044

Sez. 3, n. 1208 del 14/04/1998, Romagnolo, Rv. 210950

Sez. 1, n. 14595 del 17/11/1999, Toscano, Rv. 216206

Sez. 6, n. 31 del 26/11/2002, dep. 2003, Chiarenza, Rv. 225709

Sez. 1, n. 2930 del 17/12/2002, dep. 2003, Semeraro, Rv. 223170

Sez. 5, n. 23894 del 02/05/2003, Luciani, Rv. 225946

Sez. 2, n. 9579 del 19/01/2004, Amato, Rv. 228384

Sez. 6, n. 4942 del 15/01/2004, Kolakowska Bozena, Rv. 229999

Sez. 3, n. 348 del 13/11/2007, dep. 2008, Ndoja, Rv. 238779

Sez. 2, n. 27473 del 29/05/2014, Lo Re

Sez. 1, n. 46075 del 04/11/2004, Kunsmonas, Rv. 230505

Sez. 2, n. 7995 del 03/02/2006, Polignano

Sez. 4, n. 2596 del 03/10/2006, dep. 2007, Abate, Rv. 236115

Sez. 4, n. 4169 del 11/12/2008, dep. 2009, Mucciarone, Rv. 242836

Sez. 6, n. 11472 del 02/12/2009, dep. 2010, Paviglianiti, Rv. 246524

Sez. 4, n. 7320 del 19/01/2010, Verdoscia, Rv. 246697

Sez. 2, n. 19699 del 23/04/2010, Trotta, Rv. 247104

Sez. 3, n. 39761 del 22/09/2010, Rv. 248557

Sez. 6, n. 20910 del 15/03/2012, Avena, Rv. 252863

Sez. 6, n. 22276 del 05/04/2012, Maggioni, Rv. 252870

Sez. 3, n. 29473 del 09/05/2012, Rv. 253161

Sez. 6, n. 46244 del 15/11/2012, Filippi, Rv. 254285

Sez. 2, n. 49930 del 11/12/2012, Perri, Rv. 253916

Sez. U, n. 27343 del 28/02/2013, Taricco, Rv. 255345

Sez. 2, n. 43434 del 05/07/2013, Bianco, Rv. 257834

Sez. 2, n. 3253 del 10/10/2013, dep. 2014, Costa, Rv. 258591

Sez. U, n. 32697 del 26/06/2014, Floris, Rv. 259776

Sez. 3, n. 52503 del 23/09/2014, Sarantsev, Rv. 261971

Sez. 6, n. 53418 del 04/11/2014, De Col, Rv. 261838

Sez. 6, n. 6702 del 16/12/2014, dep. 2015, La Volla, Rv. 262496

Sez. 5, n. 26693 del 20/01/2015, Catanzaro, Rv. 264001

Sez. 3, n. 33598 del 08/04/2015, Vasilas

Sez. 4, n. 29907 del 08/04/2015, Della Rocca, Rv. 264382

Sez. 6, n. 27820 del 17/06/2015, Morena, Rv. 264087

Sez. 6, n. 41317 del 15/07/2015, Rosatelli, Rv. 265004

Sez. 3, n. 2608 del 05/11/2015, dep. 2016, Pulvirenti, Rv. 266423

Sez. 2, n. 1924 del 18/12/2015, dep. 2016, Roberti, Rv. 265989

Sez. 2, n. 9500 del 23/02/2016, De Angelis, Rv. 267784

Sez. 5, n. 26817 del 04/03/2016, Iodice, Rv. 267889

Sez. 5, n. 45535 del 16/03/2016, Damiani De Paula, Rv. 268453

Sez. 5, n. 32779 del 10/05/2016, Bacchi

Sez. 1, n. 24819 del 12/07/2016, Boccardi

Sez. F, n. 35536 del 23/08/2016, Tagliapietra, Rv. 267598

Sez. 2, n. 17759 del 13/12/2016, dep. 2017, Cante, Rv. 270219

Sez. 6, n. 31984 del 26/04/2017, Rv. 270431

Sez. U, n. 28659 del 18/05/2017, Gargiulo, Rv. 270074

Sez. U, n. 53390 del 26/10/2017, Patroni Griffi, Rv. 271223

Sez. 5, n. 15288 del 09/02/2018, Trani, Rv. 272852

Sez. 6, n. 19496 del 21/02/2018, Cante, Rv. 273277

Sez. 3, n. 28516 del 28/02/2018, Marotta, Rv. 273226

Sez. 3, n. 29856 del 24/04/2018, La Volla, Rv. 275389

Sez. U, n. 51 del 28/11/2019, dep. 2020, Cavallo, Rv. 277395

  • giudice
  • procedura penale

CAPITOLO III

MUTAMENTO DEL GIUDICE E RINNNOVAZIONE DEL DIBATTIMENTO

(di Stefania Riccio )

Sommario

1 Le questioni rimesse in tema di principio di immutabilità ex art. 525 cod. proc.pen. - 2 Se il principio di immutabilità richieda l’identità del giudice che decide con il giudice che ammette la prova. Gli indirizzi in contrasto. - 3 Le modalità di prestazione del consnso alle letture, quali strumenti di riutilizzo delle prove assunte dal giudice in differente composizione. Gli orientamenti contrapposti. - 4 Le soluzioni delle Sezioni Unite. Il nuovo portocollo operativo della rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale. - Indice delle sentenze citate

1. Le questioni rimesse in tema di principio di immutabilità ex art. 525 cod. proc.pen.

Con sentenza n. 41736, pronunciata il 30/05/2019 ud. (dep. il 10/10/2019), Bajrami, Rv. 276754, le Sezioni Unite hanno affermato i principi di diritto così massimati:

“Il principio di immutabilità di cui all’art. 525 cod. proc. pen. richiede che il giudice che provvede alla deliberazione della sentenza sia non solo lo stesso che ha assunto la prova ma anche quello che l’ha ammessa, fermo restando che i provvedimenti sull’ammissione della prova emessi dal giudice diversamente composto conservano efficacia se non espressamente modificati o revocati.”

“L’intervenuto mutamento della composizione del giudice attribuisce alle parti il diritto di chiedere sia prove nuove sia, indicandone specificamente le ragioni, la rinnovazione di quelle già assunte dal giudice di originaria composizione, fermi restando i poteri di valutazione del giudice di cui agli artt. 190 e 495 cod. proc. pen. anche con riguardo alla non manifesta superfluità della rinnovazione stessa.”

“In caso di rinnovazione del dibattimento per mutamento del giudice, il consenso delle parti alla lettura degli atti già assunti dal giudice di originaria composizione non è necessario con riguardo agli esami testimoniali la cui ripetizione non abbia avuto luogo perché non richiesta, non ammessa o non più possibile.”

“La facoltà per le parti di richiedere, in caso di mutamento del giudice, la rinnovazione degli esami testimoniali presuppone la necessaria previa indicazione, da parte delle stesse, dei soggetti da riesaminare nella lista ritualmente depositata di cui all’art. 468 cod. proc. pen.”

La pronuncia ha avuto impulso dalla ordinanza della Sesta sezione, n. 2977 del 15/01/2019, che aveva registrato contrasti interpretativi nella giurisprudenza di legittimità ed invocato l’intervento del massimo organo di nomofilachia con riferimento:

- al perimetro applicativo del principio di immutabilità del giudice, codificato dall’art. 525, comma 2, cod. proc. pen., essendo controverso se esso richiedesse l’identità fisica del giudice monocratico (o di composizione, in caso di collegio) che valuta la prova con quello che (oltre ad averla assunta) ne abbia disposto l’ammissione;

- al meccanismo di recupero mediante lettura, ex art. 511 cod. proc. pen., delle prove dichiarative acquisite dal giudice in differente composizione, quanto ai presupposti in presenza dei quali il consenso delle parti potesse ritenersi effettivamente prestato.

2. Se il principio di immutabilità richieda l’identità del giudice che decide con il giudice che ammette la prova. Gli indirizzi in contrasto.

Il fulcro della prima questione rimessa sta nel significato da attribuire al sintagma “partecipazione al dibattimento”, che l’art. 525 cod. proc. pen. connette al principio di immutabilità, laddove stabilisce che “Alla deliberazione concorrono a pena di nullità assoluta gli stessi giudici che hanno partecipato al dibattimento”.

Secondo una prima ipotesi ricostruttiva – preferita dalla Sezione rimettente – sarebbe consono alla fisiologia del sistema che il giudice che delibera la sentenza sia semplicemente quello che abbia assunto la prova, in quanto posto nelle migliori condizioni per valutarne il risultato. Così come plasticamente evidenziato dalla Corte Costituzionale con ordinanza n. 205 del 2010, la partecipazione al momento dinamico di formazione della prova orale assicura difatti il migliore esercizio della funzione valutativo-decisoria, permettendo di cogliere inediti connotati (espressivi, o comunque non verbali) “specialmente prodotti dal metodo dialettico dell’esame e controesame”, che è sempre utile valorizzare, in quanto incidono sulla qualità del giudizio in termini di affidabilità ed attendibilità; ed è di questo patrimonio cognitivo, costituito anche da impressioni e ricordi, che il giudice acquisisce grazie al contatto diretto con la fonte dichiarativa, che occorre scongiurare la dispersione. In una visione più ampia, il processo accusatorio, di cui è pilastro fondativo il contraddittorio – inteso nella duplice valenza, oggettiva e soggettiva, come metodo euristico di accertamento del fatto imputativo, ma anche come diritto dell’imputato al confronto con le fonti di accusa (right of confrontation), in funzione del miglior esercizio dei diritti di difesa – enfatizza questo nesso funzionale che lega istruzione e decisione, quale corollario dei principi di oralità-immediatezza.

Da tali premesse discenderebbe che a nulla rileva che l’ammissione dei mezzi di prova – la quale precede l’assunzione - sia stata disposta da diverso magistrato (in tal senso si vedano Sez. 5, n. 1759 del 04/10/2011, Della Bona, Rv. 251727; Sez. 3, n. 42509 del 25/09/2008, Bagalini, Rv. 241534; Sez. 2, n. 16626 del 28/02/2007, Guarnieri, Rv. 236651; Sez. 6, n. 9446 del 10/07/2000, D’Ambrosio, Rv. 217933).

In una differente prospettiva si pone l’orientamento il quale, nell’interpretare la nozione di dibattimento, valorizza piuttosto il dato testuale e sistematico, per evincerne l’esistenza di un vincolo indissolubile (anche) tra ammissione della prova e deliberazione della sentenza.

Nell’impianto codicistico, il dibattimento ha il suo incipit nella dichiarazione di apertura e si articola nell’esposizione introduttiva e nelle richieste di prova, nell’adozione dei provvedimenti relativi all’ammissione, ed infine nell’assunzione delle prove ammesse secondo le regole codificate negli artt. 496 e ss. cod. proc. pen.; onde il mutamento del giudice imporrebbe la riedizione dell’intera sequenza procedimentale, comprensiva dell’ordinanza ammissiva.

La più ampia declinazione del principio di immutabilità, che ne consegue, poggia sull’idea che anche le ordinanze istruttorie costituiscano momento ineludibile del processo di formazione dibattimentale della prova, restando esclusi dalla necessità della rinnovazione solo i provvedimenti giudiziali che non hanno alcuna influenza sulla decisione di merito, siccome mirati all’impostazione ed all’ordinato svolgimento del processo, quali le attività introduttive (gli atti urgenti ex art. 467 cod. proc. pen., l’autorizzazione alla citazione di testimoni, la verifica della regolare costituzione del rapporto processuale), la decisione delle questioni preliminari ex art. 491 cod. proc. pen., la stessa dichiarazione di apertura del dibattimento (siccome atto inessenziale, la cui mancanza non ridonda in alcuna patologia processuale), nonché le attività meramente ordinatorie, come, ad esempio, le ordinanze di sospensione e rinvio del dibattimento (Sez. 4, n. 48765 del 15/07/2016, Incerti, Rv. 268875).

3. Le modalità di prestazione del consnso alle letture, quali strumenti di riutilizzo delle prove assunte dal giudice in differente composizione. Gli orientamenti contrapposti.

La seconda asimmetria interpretativa rilevata dalla Sezione rimettente riguarda, come detto, le letture ex art. 511, comma 2, cod. proc. pen. e le modalità di prestazione dell’eventuale consenso rispetto a detto congegno di ‘riutilizzo’ dei verbali di prove assunte innanzi a giudice diverso.

Punto di partenza delle riflessioni sviluppate dalla Sezione rimettente, come pure delle Sezioni Unite qui in commento, è al riguardo, la sentenza Sez. U. n. 2 del 15/01/1999, Iannasso, Rv. 212395, così massimata: “Nel caso di rinnovazione del dibattimento a causa del mutamento della persona del giudice monocratico o della composizione del giudice collegiale, la testimonianza raccolta dal primo giudice non è utilizzabile per la decisione mediante semplice lettura, senza ripetere l’esame del dichiarante, quando questo possa avere luogo e sia stato richiesto da una delle parti. (Nell’enunciare il principio di cui in massima, la S.C. ha, peraltro, affermato che allorquando, nel corso del dibattimento rinnovato a causa del mutamento del giudice, nessuna delle parti riproponga la richiesta di ammissione della prova assunta in precedenza, il giudice può di ufficio disporre la lettura delle dichiarazioni precedentemente raccolte nel contraddittorio delle parti e inserite legittimamente negli atti dibattimentali). (V. Corte Cost. 3 febbraio 1994 n. 17 e Corte Cost., 3 aprile 1996 n. 99)”.

Tra i passaggi argomentativi di questa storica decisione rientra l’avere posto in correlazione la norma cristallizzata nell’art. 525 cod. proc. pen. con quella di cui all’art. 511 cod. proc. pen., regolativa delle letture, quale strumento di raccordo tra fasi o segmenti processuali distinti (anche improntati a criteri di assunzione antitetici), con cui vengono selezionati i materiali cognitivi utilizzabili ai fini del decidere; tanto sul presupposto logico – affermato anche dalle pronunce della Corte costituzionale n. 17 del 1994 e n. 99 del 1996 – che gli atti istruttori assunti innanzi a diverso giudice, e confluiti nel fascicolo dibattimentale, legittimamente vi permangono, ai sensi dell’art. 515 cod. proc. pen., anche dopo la sostituzione del giudice, siccome non affetti da alcun vizio genetico (per il solo fatto di essere stati raccolti in una fase pregressa) e regolarmente espletati nel contraddittorio delle parti; sicchè essi divengono fruibili, appunto, attraverso le letture.

In questa ottica, uno snodo decisivo è costituito dalla sfuggente dizione dell’art. 511, comma 2, cit., a tenore del quale la lettura dei verbali di dichiarazioni è disposta solo dopo l’esame della persona che le ha rese “a meno che l’esame non abbia luogo”; condizione che, a partire dalla sentenza Iannasso, la Corte ha ritenuto potesse realizzarsi tanto per irripetibilità (id est per sopravvenuta impossibilità di nuova audizione della fonte dichiarativa) quanto per volontà delle parti, con l’ulteriore specificazione che nulla osta, in mancanza di una previsione normativa che ne imponga una manifestazione espressa, a che la volontà di consentire si intenda implicita nella mancata richiesta di riedizione della prova stessa.

Schematizzando, per le Sezioni Unite Iannasso:

- nel procedimento formativo della prova vanno distitinti il momento della formazione, cui sovrintende l’art. 111 Cost. con il relativo corredo di garanzie, da quello, logicamente e cronologicamente successivo, dell’acquisizione che ne consente l’utilizzabilità, cui si riferisce invece il regime delle letture, dovendo essere evitate commistioni tra piani non sovrapponibili;

- laddove nessuna delle parti, dopo la rinnovazione, domandi la riassunzione, il giudice può supplire alla loro inerzia procedendovi d’ufficio, simmetricamente a quanto previsto per le prove assunte in incidente probatorio;

- al contrario, solo la richiesta di riassunzione della prova e la sua rinnovata ammissione impediscono di dare lettura delle dichiarazioni raccolte nella pregressa fase, senza avere dapprima proceduto all’esame del dichiarante, in difetto del consenso delle parti (salvo il caso che si tratti di procedimenti cui si applica il regime dell’art. 190-bis cod. proc. pen.).

Dalla stessa sentenza e da avveduta dottrina si è poi evidenziato come attraverso il consenso non si determini alcuna sanatoria – non possibile - della nullità assoluta che l’art. 525 cod. proc. pen. commina per la violazione del principio di immutabilità, atteso che le letture costituiscono null’altro che una modalità alternativa di acquisizione della prova, attraverso la quale si realizza una forma di partecipazione (sia pure mediata) del giudice alla costruzione di essa.

Su questo sostrato teorico si innestano dunque le due alternative prospettazioni di cui al secondo quesito posto alle Sezioni Unite, che possono riassumersi come segue.

Secondo la prima, prevalente e condivisa anche dalla Sezione rimettente, il consenso, quale elemento condizionante l’attivazione delle concrete modalità realizzative della rinnovazione – lettura, in luogo della reiterazione dell’atto istruttorio orale – ben può ritenersi implicito nella mancata richiesta di riassunzione, secondo un meccanismo di acquiescenza che sarebbe disancorato da ulteriori presupposti; e ciò sul rilievo che le parti, assistite da difesa tecnica, debbano assumere nel processo un ruolo consapevole (essendo il mutamento del giudice, peraltro, un dato di immediata ed oggettiva percezione) ed esprimere una partecipazione attiva e altresì conforme al dovere di lealtà processuale (Sez 1, n. 1712 del 14/02/2000, Morabito, Rv. 215290). Dunque, non si tratterebbe di attribuire alla mancata richiesta di rinnovazione valenza di sanatoria, ma di correlare a comportamenti meramente passivi delle parti significato di rinuncia a facoltà e prerogative (in tal senso, cfr. Sez. 5, n. 5581 del 30/09/2013, dep. 2014, Righi, Rv. 259518; Sez. 6, n. 53118 del 08/10/2014, Colorisi, Rv. 262295; Sez. 5, n. 44537 del 10/03/2015, Barillari, Rv. 264683.).

La seconda e minoritaria opzione ricostruttiva, muovendo dall’assunto per cui la lettura delle prove dichiarative acquisite da diverso giudice configuri deroga alla regola aurea del contraddittorio nel momento formativo della prova, ex art.111, comma 5, Cost., ha ritenuto invece che il comportamento silente delle parti abbia valenza neutra e che il consenso tacito debba fondarsi su presupposti inequivoci, id est su circostanze significative. Tanto si traduce nella necessità che il giudice quantomeno evidenzi alle parti l’intervenuto mutamento di composizione. Per altri, più rigorosi, modelli, il giudice subentrato dovrebbe acquisire dalle parti le determinazioni in ordine al modo in cui esse intendano procedere alla rinnovazione ed esplicitare le proprie in un provvedimento formale (Sez. 3, n. 17692 del 14/12/2018, T., Rv. 275172).

4. Le soluzioni delle Sezioni Unite. Il nuovo portocollo operativo della rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale.

Dopo ampia ricognizione degli orientamenti in contrasto, le Sezioni Unite, in ordine alla prima questione, pur aderendo all’impostazione per la quale il dibattimento ha il suo momento iniziale nella dichiarazione di apertura sicchè risulta arbitrario limitarne l’oggetto alla sola istruzione ovvero ad un segmento di essa, motivo per il quale l’immutabilità atterrebbe anche alla ammissione delle prove, nondimeno reputano non necessario che il giudice subentrato rinnovi formalmente l’ordinanza ammissiva; tanto sul presupposto che i provvedimenti emessi da giudice diversamente composto, ove non revocati o modificati, conservino efficacia.

Con attento impegno ricostruttivo, le Sezioni Unite desumono l’immanenza nel sistema di un principio di conservazione degli atti processuali – in tema di mutamento della composizione del giudice - da una trama di disposizioni, individuate anzitutto nell’art. 525, comma 2, ultimo inciso, cod. proc. pen., nella parte in cui si dispone che, ove alla deliberazione debbano concorrere i giudici supplenti in sostituzione dei titolari impediti, i provvedimenti anteriori conservano efficacia se non espressamente revocati; secondariamente, negli artt. 42, comma 2, cod. proc. pen., e nella norma transitoria di cui all’art.1, comma 2, della legge 23 dicembre 1996, n. 652, con riguardo agli atti istruttori assunti prima, rispettivamente, dell’accoglimento della dichiarazione di astensione o ricusazione del giudice, ovvero nei casi di incompatibilità.

Al fondo del ragionamento vi è l’idea che il principio di immutabilità, che rientra tra le garanzie di un processo equo – nella lettura che la Corte EDU ha offerto dell’art. 6, §§ 1, 3, lett. b) e lett. d), Convenzione EDU, traducendolo nel diritto ad interrogare e far interrogare i testi a carico - non sia declinabile in termini assoluti, ma vada calibrato sulla concreta dinamica processuale; e soprattutto, non possa risolversi nell’attribuzione alle parti del diritto a vedere replicati, senza alcun beneficio addizionale, provvedimenti in precedenza adottati, specie ove si tratti di ordinanze, come quelle istruttorie, non definitive e rivedibili quando il giudice ne ravvisi le condizioni, ed attività dibattimentali ultronee.

L’affermazione appare dichiaratamente ispirata all’istanza costituzionalizzata ex art. 111 Cost., di contenimento dei tempi del processo, sul rilievo che, in uno scenario a congenito turn over dei magistrati, in cui la rinnovazione del dibattimento è dinamica destinata in astratto a ripetersi anche più volte nel corso dello stesso giudizio, essi potrebbero dilatarsi a dismisura, con notevole dispendio di tempo e risorse, di per sé confliggente con l’esigenza di efficienza del sistema.

In questa ottica le Sezioni Unite hanno ritenuto di definire un protocollo operativo della rinnovazione in forza del quale, dopo il mutamento del giudice, si impongono la regressione alla fase degli atti preliminari e la successiva riedizione della sequenza dibattimentale nella sua interezza, a partire dalla dichiarazione di apertura; e tale sequenza deve svilupparsi con le medesime cadenze e secondo la disciplina regolativa di cui agli artt. 493 e ss. cod. proc. pen.

Il che, necessariamente sintetizzandosi, sta a significare:

che sono le parti che vi abbiano interesse a dovere formulare le richieste di prova, nuove o reiterative di quelle assunte dal giudice in differente composizione, salvo che non ritenga il giudice stesso, d’iniziativa o su sollecitazione delle parti, di attivare i propri poteri officiosi ex art. 507 cod. proc. pen. (ove concorrano i presupposti applicativi di tale disposizione);

che l’esercizio della facoltà di prova pressuppone la necessaria previa indicazione ad opera delle parti richiedenti, in lista ritualmente depositata ai sensi dell’art. 468 cod. proc. pen., non solo dei soggetti da riesaminare ma anche delle circostanze su cui dovrà vertere l’esame (adempimenti in funzione dei quali potrà essere concesso, se richiesto, un breve termine).

La Corte ha sul punto ritenuto di puntualizzare che sono legittimate a chiedere la rinnovazione delle prove dichiarative esclusivamente le parti che avessero in precedenza inserito quei dichiaranti nella propria lista ritualmente depositata (in applicazione del consolidato principio giurisprudenziale per il quale, quando una parte non fa richiesta di ammissione ovvero rinuncia al proprio teste già ammesso, le altre parti hanno diritto a procedervi solo se questo sia inserito nella loro lista testimoniale).

Anche la fase successiva, relativa all’ammissione delle richieste istruttorie nel dibattimento rinnovato, è disciplinata dalle disposizioni di cui agli artt. 495 e ss. cod. proc. pen., sicchè resta attribuito al giudice il potere-dovere di valutare dette richieste in relazione ai parametri enunciati ex art. 190 cod. proc. pen., i quali vengono interpretati in chiave selettiva, al fine di assicurare l’imperativo costituzionale della ragionevole durata del processo.

In applicazione, in particolare, del parametro della non manifesta superfluità, rapportato a tale peculiare fase, non è escluso che il giudice possa valutare non utile la reiterazione degli esami in precedenza svolti dinanzi al giudice diversamente composto, ove le parti non abbiano evidenziato nelle loro istanze quelle “decisive” ragioni per le quali la nuova escussione non si risolverà in una pedissequa reiterazione della precedente.

Il che significa che, esclusa l’esistenza di un diritto di natura potestativa delle parti alla riassunzione delle prove, la fase di ammissione non si sottrae al potere delibativo del giudice; e, anzi, nel dibattimento rinnovato, il filtro valutativo giudiziale risulterà ancor più pregnante (poiché la valutazione della non superfluità dovrà essere operata anche in relazione all’istruttoria già svolta), al punto da evocare quello previsto ex art. 190-bis cod. proc. pen..

Depongono per l’operata ricostruzione – ad avviso della Corte - ragioni di simmetria con la disciplina dettata dall’art. 238, comma 5, cod. proc. pen., atteso che una diversa esegesi condurrebbe al paradosso della non utilizzabilità ai fini del decidere di prove elaborate nel corso del dibattimento celebratosi innanzi al giudice successivamente mutato, assunte in una condizione di contraddittorio pieno, a fronte di una norma processuale che riconosce utilizzabilità ad attività probatorie compiute in situazioni di contraddittorio imperfetto, come quelle formate in un diverso procedimento.

In questo circuito dibattimentale che si riattiva, l’aspetto differenziale sta nel fatto che, ove il giudice abbia ammesso la prova, perché non vietata dalla legge e non manifestamente superflua od irrilevante, egli è vincolato ad assumerla, con possibilità di disporre la lettura dei verbali delle precedenti dichiarazioni solo dopo lo svolgimento del nuovo esame.

Conclusivamente, sciogliendo il nodo esegetico costituito dall’art. 511 cod. proc. pen., le Sezioni Unite ritengono che, se lo strumento delle letture sia pienamente fruibile per il recupero dei verbali di dichiarazioni rese dinanzi a giudice diversamente composto, la condizione cui la norma subordina l’operatività di tale meccanismo di recupero, che, cioè, «l’esame non abbia luogo», si realizzi non solo quando l’esame sia non più possibile per irripetibilità sopravvenuta ovvero per non essere stato richiesto dalle parti, ma anche quando, pur richiesto, non sia stato ammesso perché valutato manifestamente superfluo.

Secondo un paradigma ricostruttivo in parte diverso rispetto a quello della sentenza Iannasso – la quale, ribadita l’articolazione della prova nelle fasi della formazione e acquisizione, aveva costruito sul comportamento consenziente delle parti il recupero dei materiali cognitivi della fase pregressa - le Sezioni Unite Bajrami definiscono una rinnovazione scandita in fasi rigide, ricalcata sull’ordinario dibattimento, spostando piuttosto il fuoco sul ruolo attivo che le parti sono tenute ad assumere per ottenere la rinnovazione.

Rispetto al descritto congegno, il consenso di queste alla lettura ex art. 511, comma 2, cod. proc. pen. risulta ridimensionato.

Così, per un verso, è negata al consenso rilevanza “sanante”, in rapporto alla previsione di nullità assoluta di cui agli artt. 525, comma 2 e 179 cod. proc. pen., nell’ipotesi in cui la ripetizione dell’esame sia stata chiesta ed ammessa, ma il nuovo esame, pur possibile, non sta stato assunto ed in suo luogo sia stata disposta la lettura; per altro verso, il consenso viene qualificato superfluo quando la ripetizione dell’esame non abbia avuto luogo sia per la mancata richiesta di rinnovazione della parte che ne aveva domandato l’ammissione, sia perché la ripetizione non sia stata ammessa, sia quando essa non sia più possibile.

Sotto altro profilo, la Corte osserva come il modello così delineato non sia dissonante con la lettura che la Corte EDU ha proposto dell’art. 6, §§ 1, 3, lett. b) e lett. d), Convenzione EDU, nelle decisioni 9 luglio 2002, caso P.K. c. Finlandia e 10 febbraio 2005, Graviano c. Italia, le quali, pur ribadendo il valore di garanzia del principio di immutabilità – in connessione con il diritto di interrogare e far interrogare i testi a carico – hanno evidenziato come esso sia un principio non assoluto, bensì modulabile in presenza di circostanze che giustifichino la deroga all’oralità; sicchè il processo non potrebbe essere ritenuto iniquo sol perché, in esito al mutamento della composizione del giudice, non si sia proceduto al riascolto dei testimoni, a condizione che l’imputato abbia goduto di garanzie procedurali idonee a controbilanciare la privazione del right of confrontation. A tal proposito, la decisione in commento evidenzia come l’ausilio tecnico della verbalizzazione con il mezzo della stenotipia e la contestuale registrazione fonografica sdrammatizzino il problema della mediazione del primo giudice tra le effettive dichiarazioni e la relativa verbalizzazione, rendendo le stesse integralmente conoscibili dal nuovo giudicante, sì da rendere recessivo lo stesso principio di oralità - immediatezza.

Conclusivamente, a fronte dei percorsi interpretativi di giudirisprudenza e dottrina, sino ad oggi snodatisi alla ricerca di un complicato punto di equilibrio tra gli interessi di rilevanza costituzionale coinvolti dai temi affrontati, ossia il principio di ‘’immediatezza’’ in senso soggettivo da un lato, e i canoni della “non dispersione dei mezzi di prova” e della “ragionevole durata del processo”, dall’altro, le Sezioni Unite appaiono dischiudere soluzioni di contemperamento delle contrapposte istanze, incentrate sulla valorizzazione della professionalità degli attori del processo (delle parti, chiamate a promuovere iniziative non pedissequamente ripetitive del già fatto, ma anche del giudice, tenuto ad una interazione attenta con esse), nonché sull’esigenza di non dispersione di materiali cognitivi già legittimamente formati ed acquisiti proprio nel rispetto del contraddittorio, matrice comune dello stesso principio di immediatezza.

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. U, n. 2 del 15/01/1999, Iannasso, Rv. 212395

Sez 1, n. 1712 del 14/02/2000, Morabito, Rv. 215290

Sez. 6, n. 9446 del 10/07/2000, D’Ambrosio, Rv. 217933

Sez. 2, n. 16626 del 28/02/2007, Guarnieri, Rv. 236651

Sez. 3, n. 42509 del 25/09/2008, Bagalini, Rv. 241534

Sez. 5, n. 1759 del 04/10/2011, Della Bona, Rv. 251727

Sez. 4, n. 48765 del 15/07/2016, Incerti, Rv. 268875

Sez. U, n. 41736 del 30/05/2019, Bajrami, Rv. 276754

Sentenze della corte EDU

Corte EDU, 9 luglio 2002, caso P.K. c. Finlandia

Corte Edu, 10 febbraio 2005, Graviano C. Italia

  • consulenza e perizia
  • prova

CAPITOLO IV

OVERTURNING SFAVOREVOLE E OBBLIGO DI RINNOVAZIONE IN APPELLO DELLA PROVA PER ESPERTI NELLA DECISIONE SEZ. U, PAVAN DEVIS. ELEMENTI DI CONTINUITÀ CON L’ANTERIORE DIRITTO VIVENTE NELLE PRIME LETTURE DELLA CORTE DI CASSAZIONE DEL NUOVO ART. 603, COMMA 3-BIS COD. PROC. PEN.

(di Raffaele Piccirillo )

Sommario

I. I. Parte prima. 1. Gli antefatti e il contesto della decisione Sez. U, n. 14426 del 21/12/2018, dep. 2019, Pavan Devis. - 2 Il contrasto interpretativo. - 2.1 L’indirizzo prevalente. - 2.2 L’indirizzo minoritario. - 3 Il primo principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite nella decisione Pavan Devis. - 3.1 La caratterizzazione dichiarativa della perizia e gli elementi di assimilazione all’esame testimoniale nella disciplina interna e nella giurisprudenza convenzionale. - 3.2 Il depotenziamento dell’assioma della neutralità della perizia. - 3.3 La sintonia con i precedenti Franzese, Cozzini e Cantore in tema di prova scientifica. - 3.4 La possibile decisività della perizia e della consulenza tecnica. - 3.5 L’estensione della regola della rinnovazione istruttoria al contributo del consulente di parte. - 3.6 I modi della rinnovazione istruttoria: l’alternativa tra il rinnovo dell’incarico peritale e il mero riascolto del perito esaminato in primo grado. - 4 Il secondo principio affermato dalle Sezioni Unite: diversa classificazione ratione temporis del vizio di omessa rinnovazione. - 4.1 La soluzione del caso: il contributo peritale acquisito in forma esclusivamente cartolare non è “prova dichiarativa”. - 4.2 La distinzione del contributo peritale acquisito in forma esclusivamente cartolare dalle dichiarazioni rese nelle indagini preliminari acquisite al giudizio abbreviato. - 4.3 La non decisività della rivalutazione della prova per esperti nel caso Pavan Devis. - II Parte seconda. 5. La continuità della decisione Pavan Devis con il principio Patalano, in tema di obbligo della rinnovazione istruttoria della prova dichiarativa rivalutata nel giudizio abbreviato d’appello e la decisione Corte cost. n. 124 del 2019. - 6 L’art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen. e l’appello della parte civile. - 7 L’individuazione delle prove da rinnovare in appello, alla stregua dell’art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen.: il rapporto tra rinnovazione istruttoria e specificità dei motivi di appello. - 8 Diversa valutazione della prova dichiarativa. Nozione. - 9 Rinnovazione istruttoria in appello e incompatibilità del giudice. - Indice delle sentenze citate

I.. I. Parte prima. 1. Gli antefatti e il contesto della decisione Sez. U, n. 14426 del 21/12/2018, dep. 2019, Pavan Devis.

Con la decisione n. 14426 del 21/12/2018, dep. 2019, Pavan Devis, Rv. 275112-01 e 275112-03, le Sezioni Unite hanno segnato una nuova tappa nel percorso risolutivo del problema della «ontologica contraddittorietà della decisione sulla colpevolezza dell’imputato derivante da due sentenze dal contenuto antitetico […] fondate sulle medesime prove» e sulla “modalità processuale”, con la quale si deve garantire, in una situazione siffatta, il diritto di difesa e del contraddittorio (§2 del Considerato in diritto).

L’antefatto è costituito dai tre arresti succedutisi nel biennio 2016-2018 (Sez. U, n. 27620 del 28.4.2016, Dasgupta, Sez. U, n. 18620 del 19/1/2017, Patalano e Sez. U, n. 14800 del 21/12/2017 - dep. 2018, Troise), con i quali si è consolidato l’adattamento del sistema interno al fair trial convenzionale, per il quale «those who have the responsibility for deciding the guilt or innocence of an accused ought, in principle, to be able to hear witnesses in person and assess their trustworthniness», poiché «the assessment of the trustworthiness of a witness is a complex task wich usually cannot be achieved by a mere reading of his or her recorded words» (Corte EDU del 5 luglio 2011, Dan c. Moldavia).

Le decisioni citate avevano consacrato l’insufficienza, in determinati casi, dei rimedi tradizionali escogitati dalla giurisprudenza interna, prima di essere condizionata dal dictum dei giudici di Strasburgo, per rendere compatibile la natura tendenzialmente cartolare del giudizio d’appello con il canone del ragionevole dubbio, immanente al sistema già prima di essere codificato nel 2006 e ancorato alla presunzione costituzionale di innocenza:

il principio del contraddittorio cartolare: «nell’ipotesi di omesso esame, da parte del giudice, di risultanze probatorie acquisite e decisive, la condanna in secondo grado dell’imputato già prosciolto con formula ampiamente liberatoria nel precedente grado di giudizio non si sottrae al sindacato della Corte di cassazione per lo specifico profilo del vizio di mancanza della motivazione “ex” art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., purché l’imputato medesimo, per quanto carente di interesse all’appello, abbia comunque prospettato al giudice di tale grado, mediante memorie, atti, dichiarazioni verbalizzate, l’avvenuta acquisizione dibattimentale di altre e diverse prove, favorevoli e nel contempo decisive, pretermesse dal giudice di primo grado nell’economia di quel giudizio, oltre quelle apprezzate e utilizzate per fondare la decisione assolutoria. In detta evenienza al giudice di legittimità spetta verificare, senza possibilità di accesso agli atti, ma attraverso il raffronto tra la richiesta di valutazione della prova e il provvedimento impugnato che abbia omesso di dare ad essa risposta, se la prova, in tesi risolutiva, assunta sia effettivamente tale e se quindi la denunciata omissione sia idonea a inficiare la decisione di merito» (Sez. U, n. 45276 del 30/10/2003, Andreotti, Rv. 226093 e Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, Mannino, Rv. 231674);

il principio della motivazione rafforzata: «il giudice di appello che riformi totalmente la decisione di primo grado ha l’obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato» (Sez. U, Mannino. Rv. 231679).

Il recupero del contraddittorio orale e immediato sulla prova dichiarativa, la cui rivalutazione sia stata decisiva per il ribaltamento della decisione assolutoria di primo grado, va a integrare i rimedi tradizionali; si atteggia, anzi, come condizione di efficacia di quegli stessi rimedi. L’apporto informativo che deriva dalla diretta percezione della prova orale è condizione essenziale della correttezza e completezza del ragionamento sull’apprezzamento degli elementi di prova, tanto più in relazione all’accresciuto standard argomentativo imposto per la riforma di una sentenza assolutoria dalla regola del “ragionevole dubbio”, che, come già osservato, si collega direttamente al principio della presunzione di innocenza» (Sez. U, Dasgupta, § 8.1. del Considerato in diritto).

Nell’esercizio del compito adattativo, le Sezioni Unite avevano ritagliato, nella disciplina dell’art. 603 cod. proc. pen. – che concepiva la rinnovazione istruttoria in appello come evenienza residuale o addirittura eccezionale (Sez. U, n. 2780 del 24/01/1996, Panigoni; Sez. U, n. 12602 del 17/12/2015 – dep. 2016, Ricci, Rv. 266820) - uno spazio idoneo alla configurazione di una nuova ipotesi di riedizione obbligatoria, anche d’ufficio, del mezzo di prova, capace di soddisfare l’inedita funzione del ripristino dell’oralità/immediatezza, nel caso in cui al giudice d’appello si prospetti l’eventualità della reinterpretazione in peius delle risultanze della prova dichiarativa assunta in primo grado.

Lo spazio applicativo assegnato dal diritto vivente al nuovo istituto era esteso ad ogni tipologia di giudizio che fosse governata dal canone decisorio del ragionevole dubbio: non solo il giudizio d’appello ordinario, ma anche quello abbreviato, caratterizzato o meno da integrazioni istruttorie ex art. 438, comma 5 o 441, comma 5 cod. proc. pen.; non solo l’overturning sfavorevole, stimolato dall’appello del pubblico ministero, ma anche quello innescato dall’appello della parte civile ai soli effetti civili (per approfondimenti v. infra §§ 4.2.1. e 5.).

Il percorso tracciato dal diritto vivente è stato (almeno tendenzialmente) codificato dal legislatore (art.1, comma 58 della legge n. 103 del 26/06/2017, n. 103), con la previsione dell’art. 603, comma 3-bis cod. proc. pen., a termini della quale «Nel caso di appello del pubblico ministero per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, il giudice dispone la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale».

Sebbene non direttamente applicabile al caso di specie – che attiene ad una sentenza d’appello pronunciata prima del 3 agosto 2017, data di entrata in vigore della legge Orlando – la disposizione è reputata nella sentenza Pavan Devis «ineludibile punto di riferimento per la soluzione dei casi controversi» (§ 2.6. del Considerato in diritto). Alle conseguenze della sua violazione è dedicato un’apposita enunciazione di principio (§11).

Per quanto ispirata dal diritto vivente (v. la Relazione introduttiva al ddl n. 2798, presentato dal Ministro della Giustizia alla Camera dei deputati il 23 dicembre 2014), la regola legale si presenta laconica e, per certi versi, almeno prima facie, distonica con quella versata dall’anteriore giurisprudenza nel calco dell’art. 603, comma 3, cod. proc. pen.

Di qui l’interrogativo circa la perdurante attualità delle affermazioni in tema di applicazione della rinnovazione obbligatoria al giudizio abbreviato (non espressamente menzionato dalla nuova disposizione) e al giudizio d’appello innescato dalla parte civile; o ancora quello relativo all’estensione della rinnovazione obbligatoria.

Con questi interrogativi si sono misurate nell’anno trascorso sia le Sezioni Penali della Corte di cassazione che la Corte costituzionale, elaborando risposte, per lo più conservative dei pregressi assetti interpretativi, delle quali si darà conto in appositi paragrafi di questo contributo.

2. Il contrasto interpretativo.

Il contrasto interpretativo, devoluto dalla Seconda sezione con l’ordinanza n. 41737 del 23/05/2018, verteva sui mezzi di prova attraverso i quali è, di norma, veicolata nel giudizio la prova scientifica.

Le Sezioni Unite erano, in particolare, chiamate a stabilire «Se la dichiarazione resa dal perito o dal consulente tecnico costituisca o meno prova dichiarativa assimilabile a quella del testimone, rispetto alla quale, se decisiva, il giudice di appello avrebbe l’obbligo di procedere alla rinnovazione dibattimentale, nel caso di riforma della sentenza di assoluzione sulla base di un diverso apprezzamento di essa».

In prima approssimazione, si trattava di stabilire se dovesse attribuirsi carattere esemplificativo o tassativo all’elenco tipologico compilato da Sez. U, Dasgupta (Rv. 267488), quando avevano affermato: «La necessità per il giudice dell’appello di procedere, anche d’ufficio, alla rinnovazione dibattimentale della prova dichiarativa nel caso di riforma della sentenza di assoluzione sulla base di un diverso apprezzamento dell’attendibilità di una dichiarazione ritenuta decisiva, non consente distinzioni a seconda della qualità soggettiva del dichiarante e vale: a) per il testimone “puro”; b) per quello c.d. assistito; c) per il coimputato in procedimento connesso; d) per il coimputato nello stesso procedimento (fermo restando che, in questi ultimi due casi, l’eventuale rifiuto di sottoporsi all’esame non potrà comportare conseguenze pregiudizievoli per l’imputato); e) per il soggetto “vulnerabile” (salva la valutazione del giudice sulla indefettibile necessità di sottoporre il soggetto debole, sia pure con le dovute cautele, ad un ulteriore stress); f) per l’imputato che abbia reso dichiarazioni “in causa propria” (dal cui rifiuto non potrebbe, tuttavia, conseguire alcuna preclusione all’accoglimento della impugnazione)».

2.1. L’indirizzo prevalente.

L’indirizzo maggioritario della giurisprudenza di legittimità propugnava, già prima della sentenza Dasgupta, una soluzione che estendeva all’esame dei periti e dei consulenti tecnici di parte, i richiamati principi della giurisprudenza convenzionale e nazionale, sul presupposto dell’assimilazione oggettiva dell’esame di costoro alla prova dichiarativa fornita dai testimoni:

«Il giudice di appello non può procedere alla reformatio in peius di una sentenza assolutoria basandosi sulla mera rivalutazione delle perizie e delle consulenze in atti, ma deve procedere al riascolto degli autori degli elaborati, già sentiti nel dibattimento di primo grado, incorrendo, in assenza di tale adempimento, nella violazione del principio del giusto processo ai sensi dell’art. 6 CEDU, così come interpretato dalla sentenza Dan c. Moldavia del 5 luglio 2011 della Corte europea dei diritti dell’uomo» (Sez. 4, n. 36736 del 27/04/2018, Anello, Rv 273872. Nello stesso senso: Sez. 4, n. 14654 del 28/02/2018, D’Angelo, Rv 273908; Sez. 4, n. 14649 del 21/02/2018, Lumaca, Rv 273907; Sez. 4, n. 9400 del 25/01/2017, Gashi, n.m.; Sez. 4, n. 6366 del 06/12/2016, dep. 2017, Maggi, Rv 269035; Sez. 2, n. 34843 del 01/07/2015, Sagone, Rv 264542).

E’ utile, per la comprensione di alcuni passaggi della decisione adottata dalle Sezioni Unite nel 2019, una ricostruzione più analitica del caso trattato dalla decisione Anello.

Il dipendente di un’impresa di gestione di una cabinovia, trovandosi nell’area di passaggio delle vetture, in corrispondenza dell’avanstazione situata a monte dell’impianto, era stato investito alle spalle da una delle vetture ed era precipitato su una rete di protezione che, non reggendone il peso, si era aperta determinando la caduta del lavoratore da un’altezza di 5/6 metri.

Dall’incidente erano derivate al lavoratore lesioni multiple con indebolimento permanente della deambulazione e dell’organo della respirazione, con incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni per un periodo superiore a quaranta giorni. Erano stati tratti a giudizio il datore di lavoro, il responsabile del servizio di protezione e prevenzione e il direttore di esercizio dell’impianto, nessuno dei quali rivestiva dette qualifiche al momento dell’installazione della rete.

La decisione assolutoria del giudice di primo grado e quella di condanna della Corte d’appello convergevano, oltre che nella ricostruzione della dinamica del sinistro, nella descrizione delle caratteristiche della rete che non aveva retto all’urto: formata da due parti legate a mezzo di un filo di nylon, la rete non era definibile come rete anticaduta, nonostante fosse accompagnata, al momento dell’acquisto, da una certificazione che falsamente attestava il superamento di prove statiche di tenuta; la cucitura delle due parti, realizzata verosimilmente a mano, aveva determinato la rottura.

La frattura valutativa si concentrava su due aspetti: la sussistenza di un obbligo periodico di sostituzione della rete in capo alla società che gestiva l’impianto; la visibilità del vizio, il cui rilievo in sede di regolari controlli avrebbe consentito di evitare il sinistro.

Il Tribunale aveva ricostruito le norme di settore vigenti all’epoca dei fatti, configurando un obbligo di controllo riconducibile al dovere di diligenza imposto dalla natura dell’impianto e dalla funzione della rete, obbligo non scandito però da “una vera e propria periodicità, normativamente non imposta”. Avendo accertato che detti controlli non furono effettuati nei cinque anni trascorsi dall’apertura dell’impianto alla data del sinistro, aveva però ritenuto che sulla rottura non aveva inciso l’usura e che decisivo era invece stato il vizio originario della rete (la sua scomposizione in due parti), occultato dal produttore con la falsa certificazione di accompagnamento e il mascheramento delle cuciture.

Tanto considerato, il Tribunale aveva concluso che “l’eventuale periodico controllo non avrebbe consentito ad alcuno degli imputati di avvedersi del vizio occulto, posto che nessuno dei medesimi aveva all’epoca dell’installazione la qualifica rivestita al momento del sinistro”. Avevano giocato un ruolo decisivo nel ragionamento probatorio del Tribunale le dichiarazioni del qualificato consulente di parte privata, in tema di obblighi precauzionali vigenti all’epoca del sinistro, causa della rottura e visibilità del vizio della rete; e quelle del perito del tribunale e dello stesso consulente del pubblico ministero, negative o perplesse sia per quanto atteneva alla visibilità del vizio dopo l’installazione della rete (la cucitura delle due parti non era stata rilevata neppure dal consulente del pubblico ministero nel corso delle indagini ed era emersa soltanto dopo l’esame accurato del reperto svolto dal perito del Tribunale), sia per quanto atteneva alla sussistenza e all’eventuale incidenza di un problema di usura della protezione.

La Corte d’appello aveva, al contrario, ritenuto che la manutenzione periodica e i controlli di routine (pacificamente mancati) avrebbero consentito di smascherare il presunto vizio occulto ed evitare il sinistro, stante la chiara visibilità dei fili di congiungimento dei due spezzoni.

Ricostruendo la theory of the case, la Quarta sezione riscontrava «una profonda discrasia (…) una difformità di valutazione su un tessuto probatorio invariato, che conduce ad una valutazione antitetica circa l’idoneità del controllo tecnico omesso a svelare il grave difetto materiale della rete, in assenza del riascolto degli autori degli elaborati tecnici, su un punto decisivo della controversia, dai medesimi espressamente esaminato e rispetto al quale il giudice della riforma della sentenza assolutoria dissente dal primo».

In detta situazione l’applicazione della regola di derivazione convenzionale della rinnovazione istruttoria si imponeva, posto che: «il sapere tecnico contenuto nelle perizie e nelle consulenze va a confluire nelle dichiarazioni formulate dagli esperti in sede di esame. Sicché, per utilizzarne il narrato scientifico, il giudice, che voglia attribuirvi un significato differente da quello già ritenuto dalla sentenza impugnata, deve risentire i tecnici, onde formulare un giudizio che ponga a confronto fra loro i contenuti delle risposte al fine, eventualmente, di trarne conclusioni diverse da quelle fatte proprie dal primo giudice, ma senza omettere la loro comparazione».

A fortiori, tanto doveva ritenersi in considerazione della natura ibrida delle dichiarazioni del consulente degli imputati che «portando all’interno dell’esame anche un elemento di natura più squisitamente testimoniale, ha chiarito che la cucitura – per come egli stesso ha potuto verificarla – non era visibile ad occhio nudo e che egli stesso non sarebbe stato capace di rendersene conto, se non ne avesse avuto conoscenza».

Aderendo alla ricostruzione della decisione Dasgupta, la Quarta sezione individuava la radice del principio di rinnovazione, anche nel caso di prova scientifica, «nel diritto di contraddire alle valutazioni dissonanti sulla narrazione dei dichiaranti, senza consentire che il giudice della riforma in senso peggiorativo si limiti ad introdurre note di dissenso della valutazione ad esse attribuita, in assenza di un nuovo momento processuale di confronto ed analisi, indispensabile nel rovesciamento del giudizio, anche al fine di assicurare che il superamento del ragionevole dubbio trovi una sua concreta giustificazione nell’imprescindibile principio dell’immediatezza del contraddittorio».

Significativo, per quanto in seguito diremo, è il passaggio finale della motivazione Anello che collega il principio della rinnovazione istruttoria al problema della verifica della causalità omissiva, così come tematizzato dalla sentenza Sez. U, n. 30328 del 10/7/2002, Franzese. Il mancato riascolto degli esperti – dice la Quarta sezione – ha pregiudicato «la tenuta del cd. giudizio controfattuale, cioè di quell’operazione logica che eliminando dalla realtà la condizione costituita da una determinata condotta umana, verifica se il fatto oggetto del giudizio sarebbe egualmente accaduto».

2.2. L’indirizzo minoritario.

Ad opposta conclusione pervenivano due decisioni (Sez. 3, n. 57863 del 18/10/2017, Colleoni, Rv 271812; Sez. 5, n. 1691 del 14/09/2016, dep. 2017, Abbruzzo, RV 269529) che differenziavano il contributo probatorio degli esperti da quello dei testimoni in senso stretto, sotto due profili diversi e complementari.

Si affermava che «pur se il perito ed i consulenti tecnici sentiti in dibattimento hanno la veste di testimoni, la loro relazione forma parte integrante della deposizione ed inoltre essi sono chiamati a formulare un parere tecnico rispetto al quale il giudice può discostarsi purché argomenti congruamente la propria diversa opinione».

L’affermazione poteva scindersi in due proposizioni: la prima sottolineava la minor rilevanza della componente dichiarativa nell’apporto fornito al processo dal consulente o dal perito rispetto alla componente cartolare (la relazione scritta che forma parte integrante della deposizione); la seconda segnala la dimensione valutativa (parere tecnico), anziché fattuale, dell’apporto fornito dai professionisti esperti, rispetto ai quali pertanto – proseguiva l’argomentazione della sentenza Colleoni – non può porsi un problema di verifica diretta e immediata dell’attendibilità del dichiarante, o meglio non può porsi in termini coincidenti con quelli che giustificano l’obbligo della rinnovazione istruttoria in appello in caso di overturning sfavorevole.

Diversamente da quanto accade per la prova rappresentativa del testimone, nel caso di prova tecnica – osservava la Terza sezione nella decisione Colleoni - «non si tratta di stabilire l’attendibilità del dichiarante e la credibilità del racconto sotto il profilo della congruenza, linearità e assenza di elementi perturbatori dell’attendibilità, ma di valutare la deposizione del perito alla luce dell’indirizzo ermeneutico in tema di valutazione della prova scientifica, in virtù dei principi del libero convincimento del giudice e di insussistenza di una prova legale o di una graduazione delle prove, il giudice ha la possibilità di scegliere, fra le varie tesi scientifiche prospettate da differenti periti di ufficio e consulenti di parte, quella che ritiene condivisibile, purché dia conto, con motivazione accurata ed approfondita delle ragioni del suo dissenso o della scelta operata e dimostri di essersi soffermato sulle tesi che ha ritenuto di disattendere, confutando in modo specifico le deduzioni contrarie delle parti, sicché una simile valutazione, ove sia stata effettuata in maniera congrua in sede di merito, non è sindacabile dal giudice di legittimità».

Il principio del libero convincimento, insieme al brocardo “iudex peritus peritorum” e all’assioma della “neutralità della perizia”, fungevano così da argomenti di immunizzazione della prova critica su base tecnico-scientifica dal principio della rinnovazione in caso di overturning sfavorevole, ferma restando la vincolatività del canone della motivazione rafforzata.

3. Il primo principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite nella decisione Pavan Devis.

La prima delle due massime ufficiali estratte dalla decisione in commento indica inequivocabilmente il dissenso del Collegio per la prospettiva della generalizzata immunizzazione della prova critica a base scientifica dalla regola della rinnovazione istruttoria, nel caso di ribaltamento della sentenza assolutoria di primo grado:

«Le dichiarazioni rese dal perito o dal consulente tecnico nel corso del dibattimento, in quanto veicolate nel processo a mezzo del linguaggio verbale, costituiscono prove dichiarative, sicché sussiste, per il giudice di appello che, sul diverso apprezzamento di esse, fondi, sempreché decisive, la riforma della sentenza di assoluzione, l’obbligo di procedere alla loro rinnovazione dibattimentale attraverso l’esame del perito o del consulente, mentre analogo obbligo non sussiste ove la relazione scritta del perito o del consulente tecnico sia stata acquisita mediante lettura, ivi difettando la natura dichiarativa della prova» (Rv. 275112-01).

Il principio esprime il rifiuto per qualsiasi differenziazione dello statuto della perizia e della consulenza incentrato sul contenuto dell’informazione probatoria veicolata per loro tramite nel giudizio.

Quello che conta è la caratterizzazione dichiarativa del mezzo e l’impatto decisivo dell’informazione acquisita nella formazione del convincimento di colpevolezza o non colpevolezza dell’imputato; non la qualità “rappresentativa” o, invece, “critico-tecnica” dei suoi contenuti.

Depongono in questo senso il testo legislativo che «nella sua asettica onnicomprensività, non consente un’interpretazione che restringa l’obbligo di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale alle sole dichiarazioni testimoniali con esclusione di quelle del perito»; ma anche la ratio sottostante all’implementazione del principio del contraddittorio, che non ammette distinzioni tra le prove espletate a mezzo del linguaggio verbale, posto che sia la prova dichiarativa che quella critica possono essere «diversamente valutate nei diversi gradi del giudizio di merito, ed entrambe possono essere decisive per assolvere o condannare l’imputato» (§ 7.3.).

3.1. La caratterizzazione dichiarativa della perizia e gli elementi di assimilazione all’esame testimoniale nella disciplina interna e nella giurisprudenza convenzionale.

Con specifico riferimento alla perizia, la Corte mette in risalto gli indicatori dell’assimilazione legislativa tra la perizia e la testimonianza, sotto il profilo della garanzia del contraddittorio, a prescindere dalla polivalenza del suo ruolo e delle operazioni che formano oggetto dell’incarico, che, in base all’art. 220 cod. proc. pen., possono consistere nello svolgimento di indagini e nell’acquisizione di dati (attività percipiente), o nell’espressione di valutazioni (attività deducente).

Un primo indicatore è costituito dalla sedes materiae che individua tanto la perizia e la consulenza, quanto la testimonianza quali mezzi di prova (artt. 194-243 cod. proc. pen.).

Rileva poi il dato testuale dell’art. 227 cod. proc. pen. che prevede, in prima battuta, la risposta orale immediata, a norma del primo comma; e, solo nel caso di «accertamenti di particolare complessità», la risposta a mezzo di una relazione scritta, da depositare entro il termine stabilito dal giudice (commi quarto e quinto), relazione che però non comporta – osserva il Collegio - l’omissione del contraddittorio orale, ma soltanto il suo differimento, posto che «a norma degli artt. 501-511 cod. proc. pen„ la relazione è letta e acquisita agli atti dell’istruttoria dibattimentale, solo dopo che il perito sia stato esaminato nel contraddittorio delle parti».

E’ significativo, a tale riguardo, il fatto che le Sezioni Unite sinteticamente richiamino la decisione Sez. 4, n. 36613 del 03/10/2006, De Rossi, RV 235374, capofila dell’orientamento per il quale - anche nel caso di perizia assunta con incidente probatorio - «costituiscono momenti indefettibili del procedimento di formazione della prova l’esposizione orale del parere del perito in udienza e il successivo eventuale esame del perito ad opera delle parti, e ciò si desume dal richiamo, contenuto nell’articolo 401, comma quinto, cod. proc. pen., alle “forme” di assunzione delle prove stabilite per il dibattimento». Orientamento (ripreso da Sez. 1, n. 44847 del 5/11/2008, Valenti e altro, Rv. 242192) con il quale si confutava la lettura riduttiva dell’esposizione e dell’esame orale del perito, propugnata dall’indirizzo per il quale, invece, l’assunzione anticipata della perizia in sede incidentale non richiede, successivamente al deposito dell’elaborato, anche l’esame orale del perito, in quanto il rinvio alle forme di assunzione delle prove stabilite nel giudizio, compiuto dall’art. 401 c.p.p., comma 5, deve intendersi nei limiti di compatibilità connaturati alla specialità della sede ed alle esigenze acceleratorie proprie della fase (Sez. 5, n. 6808 del 15/12/1998, Anastassiades, Rv. 213467; Sez. 4, n. 44495 del 17/9/2004, Volpe, Rv. 230351).

Ulteriori profili di assimilazione il Collegio ritrae dalle dichiarazioni di impegno che sia il perito (art. 226 cod. proc. pen.) che il testimone (art. 497 cod. proc. pen.) devono assumere prima di deporre o accettare l’incarico, con differenze che attengono al diverso oggetto del narrato; nonché dalle conseguenze penali previste per il caso di falsa testimonianza (art. 372 cod. pen.) o di falsa perizia o interpretazione (art. 373 cod. pen.).

La clausola dell’art. 501 cod. proc. pen., in tema di modalità dell’esame di periti e consulenti, con il suo richiamo alle “disposizioni sull’esame dei testimoni in quanto applicabili”, è letta dalle Sezioni Unite (sintoniche con la dottrina), come un rimando alle regole che attengono al metodo dell’esame incrociato ex art 498 cod. proc. pen.; alle contestazioni ex art. 500 cod. proc. pen., «al fine di stigmatizzare contraddizioni o lacune espositive di natura fattuale e valutative, sia rispetto a quanto affermato nel corso dell’esame sia rispetto a quanto scritto nella relazione previamente depositata»; al confronto, ex art. 211 cod. proc. pen., fra perito e consulenti di parte (Sez. 1, n. 34947 del 24/05/2006, Di Liberti, Rv. 235253).

Il ruolo peculiare del “testimone esperto” non incide dunque, nella prospettiva del legislatore, sull’ampiezza della garanzia del contraddittorio, che deve misurarsi non già con il contenuto percipiente o deducente del contributo peritale, ma con la «centralità che spesso la perizia assume ai fini della decisione».

In considerazione di ciò, il legislatore garantisce il contraddittorio non soltanto, come si è detto, nella fase dell’illustrazione dell’esito delle indagini tecniche (art. 501 cod. proc. pen.) ma, prima ancora, nel corso dello svolgimento dell’incarico peritale, concedendo alle parti la possibilità di nominare propri consulenti (art. 225 cod., proc. pen.).

L’ottica convenzionale conferma l’equiparazione tra il perito e il testimone.

Il Collegio (§ 6) richiama le numerose pronunce che estendono all’escussione dell’expert witness le regole del fair trial, posto il “peso significativo” che la deposizione dell’esperto nominato dal tribunale può avere nella valutazione giudiziale delle questioni rimesse alla sua competenza scientifica (Corte EDU, del 12/05/2016, Poletan e Azirovik c. Macedonia; Corte EDU 11 dicembre 2008, Shulepova c. Russia).

Accade così che il principio della parità delle armi, sia declinato nel senso di comportare, nel contesto della expert evidence come in quello della testimonianza ‘comune’:

- il diritto all’audizione di persone che possono essere chiamate, a qualsiasi titolo, dalla parte che vi abbia interesse a sostenere la propria tesi (Corte EDU del 26/03/2006, Doorson c. Paesi Bassi la possibilità di nominare un “contro-esperto” (Corte EDU del 06/05/1985, Bônisch c. Austria); la possibilità di partecipare all’esame delle persone (cross examination) sentite dal perito e di prendere tempestiva cognizione dei documenti utilizzati dal perito nell’espletamento del suo incarico (Corte EDU del 18/03/1997, Mantovanelli c. Francia);

- il diritto di esaminare direttamente i periti (Corte EDU del 27/03/2014, Matytsina c. Russia; Corte EDU del 12/05/2016, Poletan e Azirovik c. Macedonia);

- la violazione del diritto di difesa e, quindi del giusto processo nel caso in cui il giudice neghi immotivatamente il diritto della parte di chiedere una controperizia, quando il perito, in sede dibattimentale, muti radicalmente l’opinione che aveva espresso nella relazione scritta; o quando il Collegio peritale sia formato in maggioranza da professionisti dipendenti dalla struttura chiamata a rispondere dei danni subiti dalla persona offesa (Corte EDU del 02/01/2002, G.B. c. Francia).

3.2. Il depotenziamento dell’assioma della neutralità della perizia.

Nei §§ 5.1 e 5.2 della motivazione, il Collegio procede alla critica serrata dell’uso improprio che la tesi minoritaria fa delle formule “neutralità della perizia” e “libero convincimento del giudice”, a fini di amputazione pregiudiziale del diritto delle parti al contraddittorio nel contesto della prova scientifica.

Con riferimento alla prima formula, la Corte osserva anzitutto come sia problematico assegnare questa etichetta nei casi in cui il perito è chiamato a “svolgere indagini o acquisire dati”, e cioè a compiere un’attività di natura percettiva sulla quale sarà poi chiamato a riferire nel dibattimento, citando emblematicamente il caso trattato nella richiamata decisione Anello del 2018, Anello (v. supra § 2.1.), nella quale la Quarta sezione aveva sottolineato la natura ibrida delle dichiarazioni del consulente degli imputati che portava «all’interno dell’esame anche un elemento di natura più squisitamente testimoniale».

Ma l’embricazione, nel mandato di periti e consulenti, di componenti critiche e rappresentative non ha, secondo il Collegio, carattere soltanto contingente:

«Anche ove al perito sia conferito l’incarico di effettuare solo valutazioni, sarebbe pur sempre arduo fissare una rigida linea di demarcazione fra il momento valutativo (che sarebbe caratteristica esclusiva della prova cd. critico-indiziaria) e quello rappresentativo (tipico della prova dichiarativa testimoniale), proprio perché la valutazione viene pur sempre richiesta su fatti che, spesso, il perito ha percepito nell’ambito dell’incarico affidatogli».

Tanto premesso, la Corte recepisce la critica dottrinaria all’uso dell’assioma della neutralità della perizia a fini di sottrazione del mezzo di prova al pieno dispiegarsi della dinamica del contraddittorio.

«Nessuna prova è di per sé neutra (perché altrimenti sarebbe irrilevante) ma lo è solo nel momento in cui ne viene chiesta l’ammissione non potendosi in quella fase conoscerne l’esito, nel mentre diventa a favore o contro, una volta che sia espletata. […] una cosa è la terzietà del perito, altra cosa sono le conclusioni alle quali egli perviene».

Non sono le norme che presidiano la “terzietà” del perito (artt. 222-223-226 cod. proc. pen.) e il suo obbligo di rispettare l’impegno assunto (artt. 373-374-375 cod. pen.) a rilevare in subiecta materia.

Quello che conta ai nostri fini è che «anche in relazione ai giudizi di natura squisitamente tecnico-scientifica può essere svolta una valutazione in termini di verità-falsità», dice la Corte, citando il precedente Sez. U, n. 51824 del 25/09/2014, Guidi, Rv. 261187 che, su tale base concettuale, risolveva il contrasto inerente la configurabilità del delitto di intralcio alla giustizia nel caso del tentativo di corruzione di un consulente tecnico del pubblico ministero.

In quel caso, le Sezioni Unite avevano ritenuto configurabile il delitto sub specie di induzione del consulente ai delitti di false informazioni al pubblico ministero o di falsa testimonianza non soltanto in relazione all’esposizione di dati storici, ma «anche quando l’incarico affidato implica la formulazione di giudizi di natura tecnico-scientifica», agganciandosi ad una precisa tradizione ermeneutica che fa capo alle decisioni Sez. 5, n. 3552 del 09/02/1999, Andronico, Rv. 213366 e Sez, 1, n. 45373 del 10/6/2013, Capogrosso, Rv. 257895.

Le decisioni da ultimo citate pongono in risalto la connotazione informativa delle valutazioni ancorate a parametri tecnico-scientifici, rispetto alle quali può ben porsi un problema di verifica dell’attendibilità, distinguendole da quelle consistenti nell’espressione di mere propensioni, gusti o atteggiamenti personali, delle quali potrebbe predicarsi al più la sincerità o l’insincerità. Per tal via, con il solido conforto di alcuni dati testuali (primo fra tutti, l’art. 373 cod. pen. che configura il mendacio nel parere reso dal perito), giungono a ritenere configurabile il falso ideologico della diagnosi medica (decisione Andronico) e della relazione del consulente tecnico del pubblico ministero (sentenza Capogrosso).

3.3. La sintonia con i precedenti Franzese, Cozzini e Cantore in tema di prova scientifica.

È l’introduzione nelle aule giudiziarie del principio di falsificabilità della prova, con il correlato abbandono del “metodo induttivo per enumerazione” ad aver posto in risalto la crucialità del contraddittorio nella raccolta della prova critica a base scientifica.

«Se è vero […] che nessun metodo scientifico per la sua intrinseca fallibilità può dimostrare la verità di una legge scientifica, ne consegue, inevitabilmente, che anche la perizia non può essere considerata portatrice di una verità assoluta (e, quindi, “neutra”) tanto più in quei casi in cui il perito - del tutto legittimamente - sia fautore di una tesi scientifica piuttosto che di un’altra».

Si deve dunque alle decisioni Sez. U. n. 30328 del 10/07/2002, Franzese, Rv. 222138-222139, Sez. 4, n. 43786 del 17/09/2010, Cozzini, Rv. 248943-248944 e Sez. 4, n. 16237 del 29/01/2013, Cantore, Rv. 255105 la svolta concettuale alla quale le Sezioni Unite del 2019 intendono dare continuità.

Era stata la decisione Cozzini, affinando il precedente Franzese, a fornire una nozione alta e non autoritaria del libero convincimento e del brocardo iudex peritus peritorum: una nozione che, per così dire, sta dentro il contraddittorio, che si raccorda con l’obbligo di motivazione e che è funzionale al presidio della qualità dell’informazione scientifica che entra nel processo, dell’imparzialità e della competenza dell’esperto, della validità del metodo.

«Il sapere scientifico – si legge in quella decisione - costituisce un indispensabile strumento al servizio del giudice di merito: si tratta di tentare di metabolizzare la complessità e di pervenire, così, ad una spiegazione degli accadimenti che risulti infine comprensibile per tutti, ostensibile. Tale passaggio dal complesso ed oscuro ad un definito, corroborato enunciato fattuale richiede non di rado la soluzione di problemi che riguardano da un lato l’affidabilità, l’imparzialità, delle informazioni che, solitamente attraverso l’indagine peritale, penetrano nel processo; e dall’altro attengono alla logica correttezza delle inferenze che vengono elaborate facendo leva, appunto, sulle generalizzazioni esplicative elaborate dalla scienza. Tali momenti topici dell’indagine fattuale vengono discussi nella dialettica processuale e conducono infine al giudizio critico che il giudice di merito è chiamato ad esprimere sulle valutazioni tecniche compiute nel processo. La razionale ponderazione, naturalmente, trova il suo momento di obiettiva emersione nella motivazione della sentenza, in cui occorre in primo luogo dar conto del controllo esercitato sull’affidabilità delle basi scientifiche del giudizio. Si tratta di valutare l’autorità scientifica dell’esperto che trasferisce nel processo la sua conoscenza della scienza; ma anche di comprendere, soprattutto nei casi più problematici, se gli enunciati che vengono proposti trovano comune accettazione nella comunità scientifica. Da questo punto di vista il giudice è effettivamente, nel senso più alto, peritus peritorum: custode e garante della scientificità della conoscenza fattuale espressa dal processo».

Ponendosi in continuità con quell’approccio, la decisione Pavan Devis (§ 5.1.) identifica la necessità di verificare «l’attendibilità del perito, l’affidabilità del metodo scientifico utilizzato e la sua corretta applicazione alla concreta fattispecie processuale», come le ragioni del ruolo decisivo del contraddittorio, individuandolo anche come strumento utile a distinguere «le irrilevanti o false opinioni del perito (cd. junk science) dai pareri motivati sulla base di leggi e metodiche scientificamente sperimentate ed accreditate dalla comunità scientifica».

Il contraddittorio è insomma, nella prospettiva della Corte, l’antidoto metodologico alle insidie che, secondo autorevole dottrina, minacciano l’alleanza necessaria tra scienza e processo: i. la cattiva scienza, e cioè l’impiego di strumenti tecnico-scientifici incapaci di garantire un margine sufficiente di affidabilità e attendibilità; ii. il cattivo scienziato, e cioè l’esperto che applica male un pur convalidato metodo di accertamento tecnico-scientifico; iii. il cattivo uso processuale della scienza, e cioè l’uso improprio e fuorviante della scienza da parte del giudice in sede decisionale.

3.4. La possibile decisività della perizia e della consulenza tecnica.

Acclarata la riferibilità ai mezzi di prova in oggetto della forma dichiarativa, richiesta tanto dalla regola giurisprudenziale quanto dalla disposizione legale che l’ha poi recepita (art. 603, comma 3-bis, cod, proc. pen.), la Corte procede alla dimostrazione della portata decisiva che la rivisitazione del risultato probatorio acquisito con tali mezzi può avere nella formazione del convincimento del giudice.

A tal fine, si censura l’inconferente richiamo dell’indirizzo minoritario al cospicuo filone giurisprudenziale che, invocando il carattere neutro della perizia, tende ad escludere il rilievo dell’accertamento peritale quale prova decisiva, a termini dell’art. 495, comma 2, cod. proc. pen., della cui mancata assunzione in appello la parte può dolersi ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. d) cod. proc. pen. (v. Sez. U, n. 39746 del 23/03/2017, A., Rv. 270936, richiamata con altre nelle decisioni Abbruzzo e Colleoni).

«Il quesito di diritto oggetto del presente giudizio – si legge a pag. 14 della motivazione - non riguarda la questione se l’imputato abbia o meno il diritto alla controprova a mezzo di una perizia, ma il diverso problema se, in grado di appello, debba essere rinnovata l’istruttoria e, quindi, garantito il contraddittorio limitatamente ad una perizia, già ammessa ed espletata nel giudizio di primo grado e ritenuta decisiva per l’assoluzione dell’imputato, ma che il giudice di appello valuta, all’opposto, in senso accusatorio».

Parimenti impropria – una volta chiarito come possa porsi un problema di attendibilità della valutazione informativa degli esperti - è l’evocazione del principio del libero convincimento e dell’insindacabilità in sede di legittimità della scelta compiuta dal giudice tra le diverse valutazioni prospettate dagli esperti di parte e dal perito d’ufficio (v. supra § 2.2.), posto che «l’art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen. non mette in discussione né il principio del libero convincimento, né quello della insindacabilità, in sede di cassazione, della suddetta decisione ma – osserva il Collegio - si limita solo a stabilire la modalità con la quale il giudice di appello può giungere ad una diversa valutazione della prova dichiarativa dalla quale consegua la riforma dell’assoluzione di primo grado: per il nuovo comma 3-bis, ciò che è essenziale è che il giudice di appello, ove ritenga di dare una lettura diversa della suddetta prova, abbia l’obbligo (non più la facoltà) di rinnovare l’istruttoria perché solo tale metodo è stato ritenuto idoneo a dissipare i dubbi e le incertezze insorti sulla colpevolezza dell’imputato: libero, poi, il giudice di appello, una volta rinnovata l’istruttoria, anche di andare in contrario avviso del giudice di primo grado e, quindi, di condannare l’imputato fornendo una motivazione (rafforzata) che, ove sia congrua e coerente con la prova espletata, resta incensurabile in sede di legittimità».

La nozione di decisività con la quale occorre confrontarsi è quella indicata dalla decisione Dasgupta (Rv. 267491-01), dove si afferma che «[....] ai fini della valutazione del giudice di appello investito di una impugnazione del pubblico ministero avverso una sentenza di assoluzione, devono ritenersi prove dichiarative “decisive” quelle che, sulla base della sentenza di primo grado, hanno determinato o anche soltanto contribuito a determinare un esito liberatorio, e che, pur in presenza di altre fonti probatorie di diversa natura, se espunte dal complesso del materiale probatorio, si rivelano potenzialmente idonee a incidere sull’esito del giudizio di appello, nell’alternativa “proscioglimento-condanna”. Appaiono parimenti “decisive” quelle prove dichiarative che, ritenute di scarso o nullo valore probatorio dal primo giudice, siano, nella prospettiva dell’appellante, rilevanti, da sole o insieme ad altri elementi di prova, ai fini dell’esito di condanna. Non potrebbe invece ritenersi “decisivo” un apporto dichiarativo il cui valore probatorio, che in sé considerato non possa formare oggetto di diversificate valutazioni tra primo e secondo grado, si combini con fonti di prova di diversa natura non adeguatamente valorizzate o erroneamente considerate o addirittura pretermesse dal primo giudice, ricevendo soltanto da queste, nella valutazione del giudice di appello, un significato risolutivo ai fini dell’affermazione della responsabilità [ ...

Le Sezioni Unite avevano in effetti sagomato nel 2016 una nozione ad hoc di necessità della rinnovazione, una nozione che si emancipa, per un verso, dai casi di incompletezza del quadro probatorio contemplati dalla versione originaria dell’art. 603, comma 3, cod. proc. pen.; per altro verso, dal concetto che assume rilievo ai sensi del combinato disposto degli artt. 495, comma 2 e 606, comma 1, lett. d) cod. proc. pen., dove risalta la prova che, ove esperita, avrebbe sicuramente determinato una diversa pronuncia.

Una nozione peculiare, che si collega all’esigenza che il convincimento del giudice d’appello, nei casi in cui sia in questione il principio del ragionevole dubbio, replichi l’andamento del giudizio di primo grado fondandosi su prove dichiarative direttamente assunte” (§ 8.1 della motivazione Dasgupta) e che richiama lo scenario dell’overturning in peius «dove assumono rilievo «non prove negate ma prove da riassumere, il cui contenuto rappresentativo si era già completamente dispiegato in primo grado, e ha dunque formato già oggetto della decisione impugnata, che proprio su di esso ha fondato l’esito assolutorio» (§ 10).

Alla stregua di questa nozione, sembra dire la sentenza Pavan Devis, perizie e consulenze ben possono veicolare informazioni decisive.

3.5. L’estensione della regola della rinnovazione istruttoria al contributo del consulente di parte.

I capisaldi del ragionamento sviluppato per dimostrare l’estensione al perito della regola della rinnovazione istruttoria conducono le Sezioni Unite a identiche conclusioni per quanto concerne il contributo del consulente tecnico di parte che, come il perito, può espletare il suo mandato oralmente, ove venga esaminato sulla base del combinato disposto degli artt. 468, commi 1 e 2, e 501 cod. proc. pen.; per iscritto, ove si limiti ad esprimere il proprio parere a mezzo di memorie:

«Anche per il consulente tecnico, può, pertanto, ripetersi, mutatis mutandis, ciò che si è detto in relazione al perito: ove il consulente sia esaminato ex art. 501 cod. proc. pen. e la sua dichiarazione sia posta dal giudice di primo grado a fondamento della sentenza assolutoria, la suddetta dichiarazione va ritenuta, agli effetti di cui all’art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen., “prova dichiarativa” con la conseguenza che, ove il giudice di appello ritenga di rivalutare in senso peggiorativo per l’imputato quelle dichiarazioni, ha l’obbligo giuridico di rinnovare l’istruttoria dibattimentale».

La ratio decidendi è compendiabile in due passaggi argomentativi.

Nel primo, si evidenzia come, anche per il contributo del consulente, la giurisprudenza di legittimità sia intervenuta (con l’autorevole avallo di Corte cost. n. 33 del 1999) a sancirne l’equiparazione alla testimonianza: «In tema di istruzione dibattimentale, il giudice può legittimamente desumere elementi di prova dall’esame del consulente tecnico di cui le parti abbiano chiesto ed ottenuto l’ammissione, stante l’assimilazione della sua posizione a quella del testimone, senza necessità di dover disporre apposita perizia se, con adeguata e logica motivazione, dimostri che essa non è indispensabile per essere gli elementi forniti dall’ausiliario privi di incertezze, scientificamente corretti e basati su argomentazioni logiche e convincenti» (Sez. 4, n. 25127 del 26/04/2018, Olteanu, Rv. 273406. Conf. Sez. 3, n. 4672 del 22/10/2014, L., Rv. 262469).

Nel secondo, si osserva che il profilo differenziale - ruolo “di parte” del contributo consulenziale versus “terzietà” del perito d’ufficio - non ha influenza sulla specifica questione in esame:

«Il punto, lo si ripete - ai limitati fini dell’art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen. - non è questo, ma l’effetto che ha avuto la consulenza nella decisione del giudice di primo grado. Se, alla base della sentenza di assoluzione è stata posta proprio la consulenza di parte, ogni discussione sulla sua minore “oggettività” resta superata dalla decisione del giudice che, evidentemente ha ritenuto l’apporto del consulente obiettivo ed affidabile e, comunque, maggiormente attendibile rispetto alla stessa perizia ove anche questa sia stata disposta. Di conseguenza, ove la sentenza sia appellata, si ripropone la medesima situazione già illustrata in relazione alla perizia in quanto il giudice di appello si trova di fronte alla seguente alternativa: a) confermare la sentenza assolutoria senza obbligo di rinnovare l’istruttoria, perché l’obbligo di rinnovazione è previsto solo ove il giudice di appello intenda riformare in pejus la sentenza di assoluzione; b) condannare l’imputato a fronte della sentenza assolutoria di primo grado: in tal caso, ha l’obbligo di rinnovare l’istruttoria».

3.6. I modi della rinnovazione istruttoria: l’alternativa tra il rinnovo dell’incarico peritale e il mero riascolto del perito esaminato in primo grado.

Accomunato lo statuto della prova per esperti a quello della prova rappresentativa, le Sezioni Unite hanno cura di precisare che «rinnovazione dell’istruttoria in appello non significa rinnovazione sempre e comunque anche della perizia: significa solo che il giudice di appello, individuati i punti critici della relazione peritale, ha l’obbligo di convocare il perito ed esaminarlo, nel contraddittorio orale delle parti, su quei punti secondo le stesse modalità previste nel giudizio di primo grado dall’art. 501 cod. proc. pen».

La Corte non precisa il criterio discretivo, che dev’essere probabilmente individuato nella dimensione qualitativa e quantitativa della rivisitazione del quadro probatorio consacrato dalla decisione di primo grado.

Se, per esempio, la critica del pubblico ministero appellante investe l’abilitazione o la qualità professionale dell’esperto, l’accreditamento scientifico o la pertinenza al caso del metodo utilizzato, il giudice d’appello che condivida le perplessità dovrà verosimilmente conferire un nuovo incarico. Se, invece, impregiudicati il professionista e il suo metodo, viene in gioco la necessità del confronto dell’imputato con alcune risultanze, suscettive di rivisitazione in peius, al ripristino del contraddittorio potrà bastare la reiterazione dell’esame.

4. Il secondo principio affermato dalle Sezioni Unite: diversa classificazione ratione temporis del vizio di omessa rinnovazione.

Dopo aver condotto l’esame della questione sul presupposto che la previsione legale dell’art. 603, comma 3-bis cod. proc. pen., per quanto non applicabile ratione temporis al caso di specie, costituisce «l’ineludibile punto di riferimento per la soluzione dei casi controversi», la Corte non ha potuto fare a meno di distinguere l’inquadramento del vizio di omessa rinnovazione istruttoria, a seconda che la decisione impugnata sia stata emessa prima o dopo l’entrata in vigore della novella.

In relazione al primo caso, il Collegio ha ribadito l’affermazione della decisione Dasgupta, secondo la quale «l’evenienza del mancato rispetto da parte del giudice di appello del dovere di procedere alla rinnovazione delle fonti dichiarative in vista della reformatio in pejus va inquadrata non nell’ambito di una violazione di legge ma in quello di un vizio di motivazione».

In relazione al secondo caso, invece, il vizio determina una nullità di ordine generale a regime intermedio della sentenza, denunciabile in sede di giudizio di legittimità a norma dell’art. 606, comma 1 lett. c), cod. proc. pen.

Laddove poi, trattandosi di relazione peritale acquisita esclusivamente in forma cartolare, non trovi applicazione l’obbligo de quo né nella sua declinazione giurisprudenziale, né in quella successivamente recepita dal legislatore, «la decisione è sindacabile per vizio di motivazione ex art. 606, comma 1 lett. e), cod. proc. pen., sempre che la prova negata, confrontata con le ragioni addotte a sostegno della decisione, sia di natura tale da potere determinare una diversa conclusione del processo.» (Rv. 275112-03).

Ed è proprio alla stregua di quest’ultimo principio che la Corte ha risolto lo specifico caso devoluto al suo esame, pervenendo al rigetto del ricorso.

4.1. La soluzione del caso: il contributo peritale acquisito in forma esclusivamente cartolare non è “prova dichiarativa”.

Non si tratta della rivalutazione in peius di una prova dichiarativa.

Questa è, in estrema sintesi, la ragione per la quale le Sezioni Unite hanno ritenuto inapplicabile il principio dettato dalle decisioni Dasgupta, Patalano e Troise alla vicenda occorsa al ricorrente, dopo averne affermato, in termini generali, l’estensione al contributo dell’expert witness.

La perizia antropometrica, i cui esiti incerti avevano condizionato la decisione assolutoria del Tribunale, era stata acquisita in forma puramente cartolare, avendo le parti rinunciato, già in primo grado, all’esame del perito, come loro consentito dal combinato disposto degli artt. 495, comma 4-bis e 511, comma 2 cod. proc. pen.: disposizioni – nota la Corte - compatibili sia con l’art. 111, comma quinto Cost., sia con i principi convenzionali, che ammettono la rinuncia al contraddittorio, purché volontaria, consapevole, inequivoca e non contrastante con l’interesse pubblico (Corte Edu, 26 settembre 2017, Fornataro c. Italia; Corte Edu, 26 aprile 2016, Kashlev c. Estonia; Corte EDU, Gr. Ch., 17 settembre 2009, Scoppola c. Italia).

L’esclusione dell’obbligo nel caso di rivalutazione in peius della prova cartolare – pacificamente affermata nella giurisprudenza interna e sovranazionale, e ribadita dal legislatore del 2017 – “ha una sua razionalità”: «se è comprensibile la ragione per cui il legislatore ha stabilito l’obbligo di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, obbligando il giudice di appello, prima di condannare l’imputato assolto, a ripetere la prova dichiarativa (l’esame del perito) al fine di chiarire e dissipare i dubbi insorti sulla diversa valutazione di quella prova, uguale ragione non è rinvenibile nell’ipotesi in cui ci si trovi di fronte all’acquisizione di un semplice atto scritto (la relazione peritale) su cui non vi è mai stato alcun contraddittorio orale. In quest’ultima ipotesi, invero, non si tratterebbe più di rinnovare il medesimo atto istruttorio svolto nel giudizio di primo grado, ma di compiere, ex novo, un diverso atto istruttorio (esame del perito) al quale le parti avevano rinunciato».

Il principio è stato recentemente ripreso da Sez. 5, n. 2493 del 16/12/2019 – dep. 2020, Romei, che ne ha esteso la portata al caso in cui la rinunzia all’esame dell’esperto sia avvenuta non nel giudizio di primo grado, ma in quello d’appello.

Secondo la Quinta sezione quanto affermato dalle Sezioni unite nella decisione Pavan Devis «a fortiori può valere ad attribuire rilievo legittimante in tal senso ad un accordo raggiunto in sede di gravame, non ostandovi disposizioni specifiche sul punto e data la generale applicabilità delle regole del giudizio di primo grado a quello di appello».

4.2. La distinzione del contributo peritale acquisito in forma esclusivamente cartolare dalle dichiarazioni rese nelle indagini preliminari acquisite al giudizio abbreviato.

Il caso della relazione peritale acquisita già in primo grado in forma puramente cartolare non può essere confuso con quello del giudizio abbreviato non condizionato, in relazione al quale tanto la sentenza Dasgupta (Rv. 267487), in un obiter, quanto, ex professo, la decisione Patalano avevano affermato l’estensione del principio della rinnovazione istruttoria, in omaggio al canone decisorio del ragionevole dubbio e alla necessità di assicurare, anche in questo caso, la riproposizione dell’atto probatorio «secondo il metodo epistemologicamente più appagante, quello orale ed immediato, che caratterizza la formazione della prova nel modello accusatorio» (Rv. 269785).

In un obiter della decisione Sez. U, n. 14800 del 21/12/2017 - dep. 2018, Troise (par. 7.3 del Considerato in diritto) si era affermata la perdurante validità dell’estensione, a seguito della novella del 2017, dato che l’art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen. «non contempla eccezioni di sorta, ma consente l’applicabilità della regola posta dal nuovo comma 3-bis ad ogni tipo di giudizio, ivi compresi i procedimenti svoltisi con il rito abbreviato».

La decisione Sez. 6, n. 53336 del 24/10/2017, Garbin, Rv. 271716 aveva poi affermato l’applicazione della regola alle dichiarazioni rese in fase di indagini e acquisite al fascicolo del dibattimento con l’accordo delle parti, ai sensi dell’art. 493, comma 3, cod. proc. pen.

Il principio era stato, invero, richiamato nell’ordinanza di rimessione, dove la Seconda sezione esprimeva il convincimento che l’esigenza di ripristino dei canoni di oralità/immediatezza sussistesse anche nel caso di specie, e fosse anzi «tanto più avvertita quando, come nel caso in esame, il perito e il consulente siano pervenuti a conclusioni diverse sulla base di indagini non condotte con lo stesso metodo o quando, soprattutto, in primo grado, il perito non sia stato ascoltato, ma l’istruttoria sia stata compiuta attraverso la lettura della perizia su accordo delle parti».

Le Sezioni Unite dissentono da questo punto di vista.

Nel giudizio abbreviato – osservano - la rinnovazione ha ad oggetto la verbalizzazione di dichiarazioni rese da persone informate sui fatti nel corso delle indagini preliminari, e quindi pur sempre informazioni veicolate nel processo a mezzo del linguaggio verbale; mentre, nel caso di specie, «non vi è alcuna “dichiarazione” del perito, ma solo una relazione da questi scritta sui quesiti assegnatigli e, sulla quale il contraddittorio si attiva solo cartolarmente attraverso il deposito di eventuali memorie tecniche di parte» (pag. 21 della motivazione).

Il distinguishing non pregiudica la B.A.R.D. Rule, se si considera – aggiunge la Corte - che «la problematica della rinnovazione obbligatoria dell’istruttoria attiene a quella dell’ammissibilità delle prove (non a caso il legislatore l’ha inserita, con il comma 3-bis, nell’art. 603 cod. proc. pen.), nel mentre la regola di cui all’art. 533, comma1, cod. proc. pen., opera a valle del processo e cioè nel momento della decisione, decisione che non può che essere presa sulla base del materiale probatorio legittimamente acquisito agli atti (nella specie: la sola relazione peritale) ed il cui controllo, in sede di legittimità, non può che avvenire verificando se la motivazione sia o meno affetta da alcuno dei vizi motivazionali di cui all’art. 606 lett. e) cod. proc. pen.».

4.3. La non decisività della rivalutazione della prova per esperti nel caso Pavan Devis.

L’analisi delle decisioni divergenti di primo e secondo grado conduce la Corte a rilevare ulteriori profili di estraneità della vicenda di Pavan Devis all’ambito applicativo del principio enunciato negli arresti Dasgupta e Patalano.

Non era stato l’esito difforme della consulenza tecnica antropometrica del pubblico ministero e dell’elaborato peritale a determinare il ribaltamento della decisione assolutoria.

In realtà, perizia e consulenza convergevano nel rilievo di numerosi profili di corrispondenza tra il soggetto effigiato nei fotogrammi estratti dalla videoregistrazione della rapina, eseguita mediante l’impianto installato presso l’istituto bancario e anche nelle conclusioni valutative. Sebbene con diversi accenti (il consulente si era espresso in termini di elevata probabilità dell’identificazione; il perito aveva sottolineato che le corrispondenze attenevano a caratteristiche generali, e non a “contrassegni identificativi individualizzanti”), nessuno degli esperti aveva espresso certezze sul fatto che il rapinatore si identificasse con l’imputato.

Anche volendo soprassedere sul dato della veicolazione in forma “non verbale” del contributo peritale, occorreva allora prendere atto della carenza di una diversa valutazione della medesima prova da parte dei giudici di primo e secondo grado, presupposto ineludibile tanto della regola giurisprudenziale, che postula un overturning dovuto al «diverso apprezzamento dell’attendibilità di una dichiarazione ritenuta decisiva» (ex plurimis, Sez. U, Dasgupta, Rv. 267488); quanto della, più sintetica formula legale, che comunque richiede un appello del pubblico ministero presentato «per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa» (art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen.).

Decisiva era stata, invece, la cucitura compiuta dalla Corte d’appello dell’indizio di natura tecnica con altri elementi di prova, sottaciuti o sottovalutati dal Tribunale, elementi desunti dalla diretta constatazione, da parte del giudice di seconda istanza, della “fortissima ed evidentissima” somiglianza tra il rapinatore e l’imputato; ma anche dal tracciamento che aveva localizzato l’utenza telefonica mobile intestata all’imputato in prossimità dei luoghi di svolgimento della rapina e del furto dell’auto utilizzata per commetterla.

Il tracciamento – liquidato dal giudice di primo grado con l’asserzione per la quale non può attribuirsi valore universale alla massima di esperienza secondo la quale «è solo l’intestatario ad avere, in ogni momento, la disponibilità dell’utenza» - rivelava, in realtà, che l’utenza in parola, si era spostata – sia dopo il furto dell’auto che dopo la rapina – dall’Emilia, e segnatamente dalla zona di Correggio (luogo di commissione dei delitti) verso il Veneto, e più precisamente a Padova, dove l’imputato risultava documentalmente risiedere. Nessun indizio era stato del resto acquisito – neppure dalle parole dell’imputato - a conferma dell’ipotesi che altri si fossero impossessati del telefono nei giorni del furto e della rapina.

Si trattava dunque di un caso di valutazione incompleta e frazionata del quadro probatorio, al cospetto della quale, anche quando si tratti di prova dichiarativa, la sentenza Dasgupta (pag. 17), esclude l’obbligo di rinnovazione, posto che «non potrebbe ritenersi “decisivo” un apporto dichiarativo il cui valore probatorio, che in sé considerato non possa formare oggetto di diversificate valutazioni tra primo e secondo grado, si combini con fonti di prova di diversa natura non adeguatamente valorizzate o erroneamente considerate o addirittura pretermesse dal primo giudice, ricevendo soltanto da queste, nella valutazione del giudice di appello, un significato risolutivo ai fini dell’affermazione della responsabilità» (Conf. Sez. 6, n. 34541 del 12/03/2019, Berlingeri, Rv. 276691; Sez. 6, n. 47722 del 06/10/2015, Arcone, Rv. 265879; Sez. 2, n. 41736 del 22/09/2015, Di Trapani, Rv. 264682; Sez. 3, n. 45453 del 18/09/2014, P., Rv. 260867; Sez. 6, n. 18456 del 01/07/2014, dep. 2015, Marziali, Rv. 263944).

Sostanzialmente identico è il principio enunciato da Sez. 5, n. 33372 del 28/03/2017, Carosella, Rv. 270471, per il quale: «Non sussiste l’obbligo di procedere alla rinnovazione della prova testimoniale decisiva per la riforma in appello dell’assoluzione, quando l’attendibilità della deposizione è valutata in maniera del tutto identica dal giudice di appello, il quale si limita a procedere ad un diverso apprezzamento del complessivo compendio probatorio ovvero ad una diversa interpretazione della fattispecie incriminatrice». Principio espresso in relazione ad una fattispecie nella quale la Corte di appello aveva riconosciuto la penale responsabilità del ricorrente per il delitto di lesioni, esclusa dal giudice di primo grado sulla base del contrasto tra le deposizioni dei testi a carico e quelle dei testi a discarico, valorizzando il contenuto del referto medico di pronto soccorso la cui valenza dimostrativa non era stata considerata nella pronuncia assolutoria.

Tanto considerato, le Sezioni Unite reputano la decisione della Corte d’appello munita di quell’attributo di «forza persuasiva superiore» che dissolve il ragionevole dubbio, forza persuasiva che, come detto, deve caratterizzare la riforma in pejus, sia quando si tratti di fattispecie processuale coperta dall’art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen., sia quando si tratti di vicenda estranea all’ambito applicativo della disposizione.

II. Parte seconda. 5. La continuità della decisione Pavan Devis con il principio Patalano, in tema di obbligo della rinnovazione istruttoria della prova dichiarativa rivalutata nel giudizio abbreviato d’appello e la decisione Corte cost. n. 124 del 2019.

La scelta delle Sezioni Unite di differenziare il caso, senza rimettere in discussione l’estensione al giudizio abbreviato, anche non condizionato, del principio della rinnovazione istruttoria obbligatoria, non è del tutto scontata e consente di aprire una finestra su alcuni importanti sviluppi della tematica verificatisi nell’anno appena trascorso.

Secondo alcuni commentatori, le Sezioni unite, con la sentenza Patalano, si erano attestate su una linea più avanzata di quanto fosse richiesto dalla stessa giurisprudenza convenzionale (Corte EDU del 26 settembre 2017, Fornataro c. Italia,).

Il maggior rigore della giurisprudenza di legittimità italiana si spiega - come detto - con la valorizzazione del canone del ragionevole dubbio che non costituisce uno standard minimo applicabile dalla Corte di Strasburgo ai 47 Stati Parte della Convenzione, come del resto accade per altri principi dell’ordinamento italiano (si pensi alla cross examination o all’obbligo di motivazione razionale delle decisioni di condanna e de libertate).

Si è osservato che il canone del ragionevole dubbio è dettato al livello della legge ordinaria e che l’aver ancorato (anche) ad esso - anziché ai soli principi di oralità e immediatezza menzionati dalla giurisprudenza convenzionale - la ricostruzione del sistema abbia prodotto disarmonie sotto il profilo del bilanciamento con le esigenze di protezione del testimone persona offesa e della minor tutela della razionalità della decisione d’appello che ribalta la condanna in primo grado.

Le perplessità hanno avuto immediato riflesso nei primi commenti del nuovo art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen., traducendosi nell’auspicio che i giudici si discostino da quanto affermato dalle Sezioni unite in relazione all’art. 603, comma 3, cod. proc. pen.

A tal fine avrebbero dovuto considerarsi:

“a) il silenzio della legge. In base al diritto vivente prima della riforma, era pacifico che, fermi restando i poteri officiosi del giudice, nell’abbreviato di appello le parti non avessero diritto alla rinnovazione; il legislatore, volendo disporre diversamente, lo avrebbe esplicitato;

b) la Costituzione. Il contraddittorio è un diritto dell’imputato che può essere oggetto di rinuncia. Tale rinuncia costituisce estrinsecazione del suo diritto di difesa. Per tutelare il criterio del ragionevole dubbio, nell’eventualità di una decisione sfavorevole, non si può vanificare la scelta difensiva di un determinato metodo probatorio.

Le critiche non hanno lasciato insensibile la giurisprudenza di merito.

Proprio in considerazione del prevedibile condizionamento del pregresso diritto vivente sull’interpretazione della nuova disposizione, la Corte d’Appello di Trento ha promosso un incidente di costituzionalità (Ord. n. 45 del 20/12/2017, pubblicata in G.U. n. 11 del 14/3/2018).

Il Giudice remittente ha, in particolare, dubitato della compatibilità della norma (laddove interpretata nel senso dell’estensione al giudizio abbreviato) con gli artt. 111 e 117 Cost.

In relazione all’art. 111 Cost., veniva in particolare evidenziato il contrasto con il canone di ragionevole durata del processo che imporrebbe il “mantenimento del sinallagma” tra rinuncia alla formazione della prova nel contraddittorio e riduzione della pena per tutta la durata del procedimento, in un contesto nel quale il comma quinto dello stesso articolo ha peraltro costituzionalizzato il giudizio abbreviato. L’alterazione del sinallagma pregiudicherebbe inoltre irragionevolmente la parità delle parti in quanto, mentre l’imputato conserva il diritto alla riduzione premiale anche nel caso di condanna sopravvenuta in appello, il pubblico ministero si vedrebbe preclusa la facoltà di «utilizzare le prove assunte e cartolarizzate nelle indagini preliminari».

Sul versante dell’art. 117 Cost., il giudice remittente, che trattava un caso di violenza sessuale e lesioni, segnalava il contrasto della “illogica rinnovazione della deposizione della persona offesa nel giudizio abbreviato d’appello” con l’art. 20 della Direttiva 2012/29/UE, recepita con d. lgs. 15 dicembre 2015, n. 212 che impone che «il numero delle audizioni della vittima sia limitato al minimo».

Di queste perplessità ha fatto giustizia la Corte costituzionale, con la sentenza n. 124 del 2019, intervenuta circa un mese dopo l’intervento delle Sezioni Unite che qui si esamina.

L’ipotizzato contrasto con il principio della ragionevole durata del processo è stato escluso, in considerazione del necessario contemperamento di detto valore con il complesso delle altre garanzie costituzionali e della validità della ratio giustificativa della regola in discussione, quale esibita dal diritto vivente e ripresa dal legislatore, che richiama la garanzia costituzionale e convenzionale del giusto processo e della presunzione di innocenza proclamata dall’art. 27, secondo comma, Cost.

L’asserita violazione dell’art. 111, quinto comma, Cost. è confutata sul presupposto dell’impossibilità di leggere nella disposizione, che abilita eccezionali deroghe, su base consensuale, alla regola della formazione della prova nel contraddittorio delle parti, la prescrizione per la quale «una volta che l’imputato abbia prestato il proprio consenso a essere giudicato allo stato degli atti, una tale modalità di giudizio debba necessariamente valere per ogni fase del processo compresa quella di appello». D’altro canto – osserva la Consulta - la norma costituzionale demanda alla legge la puntuale disciplina dei processi fondati sulla rinuncia dell’imputato al contraddittorio, affidando al suo discrezionale apprezzamento la ricerca di un equilibrio inteso ad assicurare che il processo mantenga caratteristiche di complessiva equità e soddisfi «l’obiettivo ultimo della correttezza della decisione», che è appunto ciò di cui la disposizione censurata - nel significato attribuitole dal diritto vivente - si fa carico.

Non ha avuto miglior sorte la censura formulata con riferimento all’art. 117, primo comma, Cost. in relazione all’art. 20 della direttiva 2012/29/UE, che prescrive che il numero delle audizioni della vittima sia limitato al minimo.

Al riguardo, la Consulta propone una lettura più completa della disposizione comunitaria invocata dal giudice remittente («fatti salvi i diritti della difesa e nel rispetto della discrezionalità giudiziale, gli Stati membri provvedono a che durante le indagini penali: [...] b) il numero delle audizioni della vittima sia limitato al minimo e le audizioni abbiano luogo solo se strettamente necessarie ai fini dell’indagine penale»), per sottolineare:

a) che il divieto della rinnovazione superflua dell’audizione della vittima sancito dall’art. 20 riguarda la sola fase delle indagini penali, che corrispondono - nel contesto italiano - alle indagini preliminari, e non si estende dunque alla fase del processo, che la stessa direttiva (art. 23) definisce con l’espressione «procedimento giudiziario», nella quale è pacifico che la persona offesa debba poter essere sentita - eventualmente con modalità protette, ove si tratti di vittima vulnerabile - nel contraddittorio tra le parti;

b) che il divieto fa comunque salvi - in conformità a quanto previsto in generale nel considerando n. 58 - i diritti della difesa, «tra i quali si iscrive, in posizione eminente, il diritto al contraddittorio nella formazione della prova».

Può in definitiva leggersi nella decisione della Consulta, l’autorevole convalida dell’impianto assiologico del diritto vivente e, insieme, l’espressa conferma della perdurante validità della regola che estende al giudizio abbreviato d’appello l’obbligo di rinnovazione istruttoria della prova dichiarativa decisiva, quale principio applicativo dell’art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen.

In linea con detto orientamento si pone Sez. 4, n. 29538 del 28/05/2019, Calcinoni, Rv. 276596: «In caso di appello della sentenza assolutoria da parte del pubblico ministero, l’obbligo di rinnovazione dell’istruttoria previsto dall’art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen., opera anche ove tale sentenza sia stata emessa all’esito di un giudizio abbreviato non condizionato, ed è limitato alle sole prove dichiarative decisive ai fini della valutazione di responsabilità». (Conf. Sez. 4, n. 5890 del 21/12/2018 (dep. 2019), M., Rv. 275119).

6. L’art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen. e l’appello della parte civile.

La codificazione del diritto vivente operata dalla disposizione introdotta nel 2017 fa registrare, almeno sul piano dell’evidenza testuale, una significativa discrasia per quanto attiene all’estensione della regola dell’obbligo di rinnovazione istruttoria al giudizio d’appello celebrato su iniziativa della sola parte civile e ai soli effetti civili.

L’art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen. sembra infatti circoscrivere la prescrizione al solo «caso di appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento»; mentre la decisione Dasgupta (con riferimento al giudizio ordinario) e l’arresto Patalano (con riferimento al giudizio abbreviato) avevano affermato che «Il giudice di appello che riformi, ai soli fini civili, la sentenza assolutoria di primo grado sulla base di un diverso apprezzamento dell’attendibilità di una prova dichiarativa ritenuta decisiva, è obbligato a rinnovare l’istruzione dibattimentale, anche d’ufficio» (Rv. 267489 e Rv. 269787).

A fondamento della scelta stava la considerazione che «anche in questo caso (viene) in gioco la garanzia del giusto processo a favore dell’imputato coinvolto in un procedimento penale, dove i meccanismi e le regole sulla formazione della prova non subiscono distinzioni a seconda degli interessi in gioco, pur se di natura esclusivamente civilistica» (Sez. U, Dasgupta, in motivazione).

La decisione Sez. U, Pavan Devis sembra assegnare alla novità legislativa un rilievo vincolante, almeno per le vicende processuali regolate dall’art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen. (e cioè per i giudizi d’appello celebrati dopo il 3 agosto 2017).

Nel par. 2.6. della motivazione, infatti, procedendo all’elencazione delle condizioni legali di operatività dell’obbligo di rinnovazione, il Collegio enumera, sotto la lettera a), la condizione «che il soggetto impugnante sia il pubblico ministero (non, quindi, la parte civile)».

Non si tratta però di un’enunciazione di principio, né tanto meno di un’affermazione funzionale alla risoluzione della questione interpretativa o del caso devoluto che, come si è visto, atteneva ad un appello proposto dal pubblico ministero.

Di diverso segno è l’orientamento delle Sezioni semplici della Corte, a partire da Sez. 6, n. 12215 del 12/02/2019, Caprara, Rv. 275167 che, confrontandosi con la disposizione introdotta dalla novella, ribadisce la precedente regola giurisprudenziale, sul presupposto che «il disposto dell’art. 603, comma 3 -bis, nel fissare la disciplina per il caso di riforma della decisione di primo grado su appello del P.M., non detta una regola diversa per la situazione in cui la riforma discenda dall’impugnazione proposta dalla sola parte civile, né si pone in antitesi rispetto al principio sancito dalle Sezioni Unite sul punto» e che inoltre tale soluzione è «l’unica coerente sia con il dato sistematico - nella parte in cui prevede uno statuto probatorio unitario per l’accertamento nel processo penale della responsabilità penale e civile -, sia, e soprattutto, con il diritto di difesa presidiato dalla Carta Fondamentale e dal diritto convenzionale, che non può declinarsi in modo differenziato, con un conseguente diverso grado di tutela, a seconda se vengano in rilievo profili penali o meramente civili». (Conf. Sez. 5, n. 38082 del 4/04/2019, Clemente, Rv. 276933; Sez. 5, n. 32854 del 15/04/2019, Gatto, Rv. 277000. Implicitamente nello stesso senso, si esprime Sez. 4, n. 5890 del 21/12/2018 - dep. 2019, M., Rv. 275119).

La soluzione non sorprende, se si considera che l’istituto in parola fu sagomato dalla giurisprudenza – sull’impulso della giurisprudenza convenzionale – prendendo spunto da una norma, l’art. 603, comma 3, cod. proc. pen.) che si occupava d’altro.

7. L’individuazione delle prove da rinnovare in appello, alla stregua dell’art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen.: il rapporto tra rinnovazione istruttoria e specificità dei motivi di appello.

La formula dell’art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen., nella parte in cui non menziona espressamente il requisito di decisività della prova dichiarativa da rinnovare e fa conseguire all’appello proposto dal pubblico ministero per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, la «rinnovazione dell’istruzione dibattimentale» ha innescato il dubbio che la prescrizione imponga la riedizione di tutte le prove acquisite in primo grado e non solo di quelle che hanno formato oggetto di decisiva rivalutazione.

Un obiter della decisione Troise (§7.2.) escludeva, in realtà, questa ipotesi interpretativa, individuando nella specificità dei motivi prospettati dall’appellante e nella lettura complessiva dell’art. 603 cod. proc. pen.. i selettori capaci di ricondurre la regola entro confini compatibili con il principio della ragionevole durata.

Con riguardo al primo profilo, si osservava che la formulazione del nuovo comma 3-bis dell’art. 603 andava inquadrata all’interno del contesto normativo «che, non solo, impone al soggetto impugnante una specifica delineazione dei temi oggetto del contraddittorio ma, al contempo, mira ad un sensibile rafforzamento del controllo sulla specificità dei motivi di appello e, prima ancora, della stessa sostanza argomentativa della decisione di primo grado. Ne discende che, anche in caso di appello avverso la sentenza di proscioglimento, il pubblico ministero è tenuto a rispettare i requisiti di specificità richiesti dall’art. 581, criticando gli errori commessi dal giudice di primo grado nella valutazione della prova dichiarativa e motivando in modo adeguato le proprie richieste, anche istruttorie, al secondo giudice».

Sotto il secondo profilo, si richiamava l’attenzione sulla circostanza che lo stilema «il giudice dispone la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale» riproduce esattamente quelle utilizzate nei primi tre commi della medesima disposizione normativa, per significare una riedizione istruttoria che è pacificamente circoscritta in ragione dei presupposti di ciascuna ipotesi (la sola prova assolutamente necessair, la sola prova omessa e decisiva, e via dicendo).

L’argomentazione della sentenza Troise è ripresa, con riferimento, questa volta, a un caso ricadente sotto la nuova disposizione, da Sez. 1, n. 12928 del 7/11/2018 – dep- 2019, P., Rv. 276318, per fondare il principio: «In caso di impugnazione della sentenza assolutoria da parte del pubblico ministero, l’obbligo di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, previsto dall’art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen., non riguarda tutte le prove dichiarative assunte in primo grado, ma solo quelle che, secondo le ragioni specificatamente prospettate nell’atto di impugnazione, siano state oggetto di erronea valutazione da parte del giudice di primo grado e siano ritenute decisive ai fini della valutazione di responsabilità».

Nello stesso senso si è espressa Sez. 2, n. 5231 del 13/12/2018 – dep. 2019, Prundari, Rv. 276050, in risposta ad un motivo di ricorso che contestava la scelta del giudice d’appello di rinnovare le sole testimonianze “decisive” delle quali il Tribunale aveva “erroneamente” (secondo la prospettazione del pubblico ministero appellante), escluso l’intrinseca attendibilità per ritenuto “contagio dichiarativo”, e non anche quelle, incontestate, delle quali la difesa avrebbe auspicato la riedizione quali elementi di conferma o smentita. In relazione a queste ultime – ha osservato la Seconda sezione – non vige l’obbligo di cui all’art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen., ma la discrezionalità giudiziale, guidata dai criteri indicati nei primi tre commi dello stesso articolo.

Nella decisione Sez. 5, n. 19730 del 16/04/2019, P., Rv. 275997, il legame tra obbligo di rinnovazione e specificità dei motivi di impugnazione proposti dal pubblico ministero, declinato secondo i rigorosi parametri della decisione Sez. U, n. 8825 del 27/10/2016, Galtelli, Rv. 268822, possa condizionare l’insorgenza e la misura dell’obbligo di rinnovazione: «Incombe sulla parte pubblica – dice la Corte - l’obbligo di indicare «le prove dichiarative che siano state oggetto di erronea valutazione da parte del giudice di primo grado e che vengano considerate decisive ai fini dello scioglimento dell’alternativa “proscioglimento-condanna”, e le ragioni di confutazione degli argomenti spesi nella sentenza impugnata per sostenere le conclusioni circa l’apprezzamento delle prove stesse, siccome contrastato con il gravame». In applicazione del principio, la Corte perviene al rigetto del ricorso proposto dal procuratore generale avverso una sentenza d’appello, confermativa dell’esito assolutorio di primo grado, in un caso nel quale l’atto di appello si presentava generico perché privo di confronto con i motivi della decisione di prima istanza, che aveva analiticamente indicato le ragioni della ritenuta inattendibilità intrinseca delle dichiarazioni della persona offesa di una presunta violenza sessuale.

La decisione è importante anche per aver precisato come la rinnovazione non debba necessariamente essere disposta in limine litis, e cioè a ridosso e sulla sola scorta dell’atto di appello, ma anche all’esito della discussione.

Anche questo è un profilo di continuità dell’istituto codicistico con quello già elaborato dal diritto vivente.

Nella decisione Dasgupta si osservava, infatti, che se è vero che di norma è il contenuto dell’atto di impugnazione ad «offrire al giudice d’appello, sin dall’inizio del dibattimento, una chiara prospettiva circa la doverosità della rinnovazione della istruzione», nulla toglie che «le deduzioni dell’appellante, a prima vista valutate infondate o non aderenti al contenuto delle prove dichiarative, possano ricevere diverso apprezzamento in camera di consiglio; con la conseguenza che il collegio, in tal caso, non potrà pervenire a sentenza, dovendo riaprire l’udienza […] invitando le parti a interloquire circa la prospettiva di una rinnovazione dell’istruzione dibattimentale ex art. 603 cod. proc. pen. e pronunciare ordinanza solo all’esito di tale interlocuzione».

Una cauta estensione della rinnovazione a prove dichiarative ulteriori rispetto a quelle diversamente valutate sembra leggersi in Sez. 4, n. 5890 del 21/12/2018 - dep. 2019, M., Rv. 275119: « Il giudice di appello che riformi, ai soli fini civili, la sentenza assolutoria di primo grado, anche emessa all’esito di giudizio abbreviato, sulla base di un diverso apprezzamento dell’attendibilità di una prova dichiarativa ritenuta decisiva, non può limitare la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale alle prove dichiarative ritenute inattendibili dal primo giudice, dovendola, invece, estendere anche a quelle diverse poste in relazione di “collegamento e interferenza” con le prime».

Dalla motivazione si desume che, in realtà, la prova dichiarativa “collegata o interferente” con quella delle parti civili, risentite in appello, aveva formato anch’essa oggetto di diversa valutazione nei due gradi di giudizio, essendo stata ritenuta attendibile in primo grado, tanto da concorrere allo screditamento di alcuni aspetti decisivi della deposizione delle parti civili; e inattendibile in appello, dove si era, anche per questo, pervenuti al ribaltamento della decisione assolutoria.

E’ la stessa Seconda sezione ad evidenziare la peculiarità del caso di specie, richiamando la nozione di prova decisiva declinata nel già richiamato principio della sentenza Dasgupta, nozione che include le prove «che hanno soltanto contribuito a determinare un esito liberatorio, e che, pur in presenza di altre fonti probatorie di diversa natura, se espunte dal complesso del materiale probatorio, si rivelano potenzialmente inidonee a incidere sull’esito del giudizio di appello, nell’alternativa proscioglimento-condanna».

La mancata riassunzione aveva comportato la violazione del dovere di motivazione rafforzata, del cui assolvimento l’istituto della rinnovazione istruttoria è strumento. La Corte d’appello aveva, infatti, trascurato che «la opposta conclusione del primo giudice era dipesa da un ponderato bilanciamento di diverse fonti testimoniali, di talché il chiarimento istruttorio di una delle fonti di prova non poteva prescindere da una contestuale rivisitazione delle ulteriori fonti dichiarative, già esaminate dalla sentenza di primo grado, previa rinnovazione dei passaggi salienti che avevano giustificato la pronuncia assolutoria del primo giudice».

8. Diversa valutazione della prova dichiarativa. Nozione.

Un importante precisazione del presupposto normativo indicato come “diversa valutazione della prova dichiarativa” è formulata da Sez. 5, n. 27751 del 24/05/2019, O., Rv. 276987: «Ai fini della rinnovazione dell’istruttoria in appello ex art. 603, comma 3-bis cod. proc. pen., per “motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa” devono intendersi non solo quelli concernenti la questione dell’attendibilità dei dichiaranti, ma tutti quelli che implicano una “diversa interpretazione” delle risultanze delle prove dichiarative, posto che un “fatto” non sempre presenta una consistenza oggettiva di natura astratta e asettica, ma è talvolta mediato attraverso l’interpretazione che ne dà il dichiarante, con la conseguenza che la risultanza probatoria risente di tale mediazione che incide sull’approccio valutativo del giudice, anch’esso pertanto mediato».

La fattispecie atteneva al mancato riesame delle vittime di atti persecutori, giustificata dalla Corte d’appello con la circostanza che il giudice di primo grado, nell’assolvere l’imputato, non aveva dubitato della credibilità delle fonti di prova ma della possibilità di cogliere nelle loro dichiarazioni gli elementi costitutivi del delitto contestato.

Il percorso argomentativo fa appello anzitutto al dato testuale che parla di «diversa valutazione della prova dichiarativa», senza circoscrivere il tema a quello dell’attendibilità intrinseca della stessa.

La disposizione – aggiunge la Corte - corrisponde alla lettera e allo spirito del precedente Dasgupta, nel quale si afferma che l’obbligo di rinnovazione riguarda «l’ipotesi in cui il giudice di appello interpreti le risultanze delle prove dichiarative in termini antitetici alle conclusioni assunte dal primo giudice»; ed ancora che «non rileva, ai fini dell’esclusione della doverosità della riassunzione […] che il contenuto di essa, come raccolto in primo grado, non presenti “ambiguità” o non necessiti di “chiarimenti” o “integrazioni” […] in quanto una simile valutazione che compisse il giudice di appello fonderebbe non su un apprezzamento diretto della fonte dichiarativa ma sul resoconto documentale di quanto registrato in primo grado, con ciò venendosi a riprodurre il vizio di apprezzamento meramente cartolare degli elementi di prova».

9. Rinnovazione istruttoria in appello e incompatibilità del giudice.

La sentenza Sez. 5, n. 2493 del 16/12/2019 – dep. 2020, Romei dichiara manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen., in relazione agli artt. 3, comma 2, 24, comma 2 e 111 Cost., nella parte in cui non prevede che, in sede di appello, alla deliberazione della sentenza non debbano concorrere gli stessi giudici che hanno disposto la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale.

La Corte ha escluso la valenza pregiudicante della decisione in parola sulla base, anzitutto, del dato testuale che non postula, quale prodromo del provvedimento di rinnovazione, una preventiva delibazione del giudice d’appello rispetto alla possibilità di condannare l’imputato assolto in primo grado.

La ratio garantistica dell’istituto, che il legislatore riprende dal pregresso diritto vivente, lo individua come «paradigma metodologico imposto al Giudice di appello quando l’impugnazione tenda a mettere in discussione, mediante la sollecitazione di una diversa lettura della prova dichiarativa, la decisione liberatoria del primo Giudice, senza che detta rinnovazione abbia, nelle intenzioni del legislatore, alcun esito scontato».

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. U, n. 2780 del 24/01/1996, Panigoni, Rv. 203974

Sez. 5, n. 6808 del 15/12/1998, Anastassiades, Rv. 213467

Sez. 5, n. 3552 del 09/02/1999, Andronico, Rv. 213366

Sez. U, n. 30328 del 10/07/2002, Franzese, Rv. 222138-222139

Sez. U, n. 45276 del 30/10/2003, Andreotti, Rv. 226093

Sez. 4, n. 44495 del 17/9/2004, Volpe, Rv. 230351

Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, Mannino, Rv. 231674

Sez. 1, n. 34947 del 24/05/2006, Di Liberti, Rv. 235253

Sez. 4, n. 36613 del 03/10/2006, De Rossi, RV 235374

Sez. 1, n. 44847 del 5/11/2008, Valenti e altro, Rv. 242192

Sez. 4, n. 43786 del 17/09/2010, Cozzini, Rv. 248943-248944

Sez. 4, n. 16237 del 29/01/2013, Cantore, Rv. 255105

Sez, 1, n. 45373 del 10/6/2013, Capogrosso, Rv. 257895

Sez. 6, n. 18456 del 01/07/2014, dep. 2015, Marziali, Rv. 263944

Sez. 3, n. 45453 del 18/09/2014, P., Rv. 260867

Sez. U, n. 51824 del 25/09/2014, Guidi, Rv. 261187

Sez. 3, n. 4672 del 22/10/2014, L., Rv. 262469

Sez. 2, n. 34843 del 01/07/2015, Sagone, Rv 264542

Sez. 2, n. 41736 del 22/09/2015, Di Trapani, Rv. 264682

Sez. 6, n. 47722 del 06/10/2015, Arcone, Rv. 265879

Sez. U, n. 12602 del 17/12/2015 – dep. 2016, Ricci, Rv. 266820

Sez. U, n. 27620 del 28/4/2016, Dasgupta, Rv. 267486-267492

Sez. 5, n. 1691 del 14/09/2016, dep. 2017, Abbruzzo, Rv. 269529

Sez. 4, n. 6366 del 06/12/2016, dep. 2017, Maggi, Rv 269035

Sez. U, n. 18620 del 19/1/2017, Patalano, Rv. 269785-269787

Sez. 4, n. 9400 del 25/01/2017, Gashi, n.m.

Sez. U, n. 39746 del 23/03/2017, A., Rv. 270936

Sez. 3, n. 57863 del 18/10/2017, Colleoni, Rv 271812

Sez. 6, n. 53336 del 24/10/2017, Garbin, Rv. 271716

Sez. U, n. 14800 del 21/12/2017 - dep. 2018, Troise, Rv. 272430-272431

Sez. 4, n. 14649 del 21/02/2018, Lumaca, Rv 273907

Sez. 4, n. 14654 del 28/02/2018, D’Angelo, Rv 273908

Sez. 4, n. 25127 del 26/04/2018, Olteanu, Rv. 273406

Sez. 4, n. 36736 del 27/04/2018, Anello, Rv 273872

Sez. 1, n. 12928 del 7/11/2018 – dep. 2019, P., Rv. 276318

Sez. 2, n. 5231 del 13/12/2018 – dep. 2019, Prundari, Rv. 276050

Sez. 4, n. 5890 del 21/12/2018 - dep. 2019, M., Rv. 275119

Sez. U, n. 14426 del 21/12/2018, dep. 2019, Pavan Devis, Rv. 275112-01 e 275112-03

Sez. 4, n. 5890 del 21/12/2018 - dep. 2019, M., Rv. 275119

Sez. 6, n. 12215 del 12/02/2019, Caprara, Rv. 275167

Sez. 6, n. 34541 del 12/03/2019, Berlingeri, Rv. 276691

Sez. 5, n. 38082 del 4/04/2019, Clemente, Rv. 276933

Sez. 5, n. 32854 del 15/04/2019, Gatto, Rv. 277000

Sez. 5, n. 19730 del 16/04/2019, P., Rv. 275997

Sez. 5, n. 27751 del 24/05/2019, O., Rv. 276987

Sez. 4, n. 29538 del 28/05/2019, Calcinoni, Rv. 276596

Sez. 5, n. 2493 del 16/12/2019 – dep. 2020, Romei

Sentenze della Corte costituzionale

Corte cost., sent. n. 33 del 1999

Corte cost., sent. n. 124 del 2019

Sentenze della Corte EDU

Corte EDU del 06/05/1985, Bônisch c. Austria

Corte EDU del 18/03/1997, Mantovanelli c. Francia

Corte EDU del 02/01/2002, G.B. c. Francia

Corte EDU del 26/03/2006, Doorson c. Paesi Bassi

Corte EDU del 11/12/2008, Shulepova c. Russia

Corte EDU, Gr. Ch. del 17/09 2009, Scoppola c. Italia

Corte EDU del 27/03/2014, Matytsina c. Russia

Corte EDU del 26/04/2016, Kashlev c. Estonia

Corte EDU, del 12/05/2016, Poletan e Azirovik c. Macedonia

Corte Edu del 26/09/2017, Fornataro c. Italia

SEZIONE IV PARTECIPAZIONE AL PROCESSO

  • domicilio
  • diritti della difesa

CAPITOLO I

ELEZIONE DI DOMICILIO PRESSO IL DIFENSORE D’UFFICIO E CONOSCENZA DEL PROCEDIMENTO

(di Anna Mauro )

Sommario

1 Premessa. - 2 La questione di diritto rimessa alle Sezioni Unite. - 3 I termini del contrasto: la tesi dell’insufficienza della sola elezione di domicilio presso il difensore d’ufficio a costituire presupposto idoneo per la dichiarazione di assenza dell’imputato. - 4 (segue) La tesi della sufficienza dell’elezione di domicilio presso il difensore d’ufficio, già nella fase delle indagini preliminari, per legittimare la dichiarazione di assenza dell’imputato. - 5 Le presunzioni di conoscenza ex art. 420-bis, comma 2 cod. proc. pen. e l’elezione di domicilio presso il difensore d’ufficio. - 6 La latitanza quale presupposto per la celebrazione del processo in absentia. - 7 Considerazioni conclusive. - Indice delle sentenze citate

1. Premessa.

La Prima sezione della Corte di Cassazione, con ordinanza n. 9114 del 29.1.2019, ha rimesso alle Sezioni Unite la questione concernente l’idoneità, ai fini della dichiarazione di assenza, dell’elezione di domicilio presso il difensore d’ufficio effettuata dall’interessato dinanzi alla polizia giudiziaria in sede di identificazione. Il contrasto di opinioni che si registra nella giurisprudenza della Corte di cassazione in merito alla questione rimessa al vaglio delle Sezioni Unite, di cui si dirà meglio nel prosieguo, è significativo, malgrado le riforme che si sono succedute nel tempo e la rivisitazione del rito contumaciale, di una certa inadeguatezza del complesso di norme che regolano il processo in absentia a rafforzare le garanzie (in primis il diritto di difesa e allo svolgimento di un equo processo) a tutela dell’imputato, involontariamente non comparso nel processo. Siffatta inadeguatezza trova la sua ragion d’essere nelle obiettive difficoltà che si incontrano nell’individuazione di un punto di equilibrio tra il diritto, di rango costituzionale e sovranazionale, dell’imputato di essere messo in condizione di intervenire nel proprio processo e di difendersi e l’interesse pubblico sia ad ostacolare chi cerca di sottrarsi al giudizio, sia a definire in tempi ragionevoli i processi penali e, quindi, in ultima analisi, ad attuare la pretesa punitiva dello Stato.

Le Sezioni Unite hanno sulla questione così deciso: “La sola elezione di domicilio presso il difensore d’ufficio, da parte dell’indagato, non è di per sé presupposto idoneo per la dichiarazione di assenza di cui all’art. 420-bis cod. proc. pen., dovendo il giudice in ogni caso verificare, anche in presenza di altri elementi, che vi sia stata un’effettiva instaurazione del rapporto professionale tra il legale domiciliatario e l’indagato, tale da fargli ritenere con certezza che quest’ultimo abbia conoscenza del procedimento ovvero si sia sottratto volontariamente alla conoscenza del procedimento stesso (principio espresso con riferimento ad una fattispecie rientrante nella disciplina previgente all’introduzione del comma 4-bis dell’art. 162 cod. proc. pen.).

Ad oggi, di tale decisione è nota la sola informazione provvisoria.

2. La questione di diritto rimessa alle Sezioni Unite.

Il questo specificatamente proposto alle Sezioni Unite è stato il seguente: “Se, ai fini della pronuncia della dichiarazione di assenza di cui all’art. 420-bis cod. proc. pen., integri di per sé presupposto idoneo l’intervenuta elezione da parte dell’indagato di domicilio presso il difensore d’ufficio nominatogli o, là dove non lo sia, possa comunque diventarlo nel concorso di altri elementi indicativi con certezza della conoscenza del procedimento o della volontaria sottrazione alla predetta conoscenza del procedimento o dei suoi atti”. Il caso riguardava un soggetto che, sbarcato in Italia avendo effettuato il trasporto di 106 cittadini extracomunitari da Alessandria d’Egitto, dopo quattro giorni dallo sbarco, veniva sottoposto a identificazione da parte della squadra mobile e dichiarava altre generalità riferite a persona minorenne; nel verbale, in cui si dava atto che si sarebbe aperto un procedimento a suo carico per la violazione dell’art. 12, comma 3, legge n. 286 del 1998, l’interpellato dichiarava di essere privo di difensore di fiducia e, pertanto, gli veniva nominato un difensore d’ufficio. Il processo di primo grado, in cui l’imputato non compariva, si concludeva con la condanna per i delitti di associazione per delinquere finalizzata all’introduzione illegale di stranieri in Italia, di procurato ingresso illegale di 106 cittadini extracomunitari nel territorio italiano e di false dichiarazioni rese alla polizia di Stato. Nel processo d’appello, svoltosi anch’esso con la sola presenza del difensore d’ufficio, la Corte territoriale dichiarava d’ufficio la nullità della sentenza impugnata in quanto pronunziata a seguito di dichiarazione di assenza emessa in carenza dei presupposti di legge poiché la dichiarazione di domicilio effettuata presso il difensore d’ufficio in sede di redazione del verbale di identificazione, ad avviso della Corte, non era idonea a far desumere la conoscenza dell’esistenza del procedimento penale a carico del dichiarante, procedimento, peraltro, non ancora ancora iniziato mancando l’iscrizione del nome della persona sottoposta ad indagini nel registro delle notizie di reato. A fondamento della decisione adottata, i giudici d’appello rilevavano, tra l’altro, che nel verbale di identificazione si faceva riferimento ad “un eventuale procedimento penale” e che, quindi, la persona identificata non solo a quella data non poteva considerarsi indagato, ma non poteva neanche avere la certezza che nei suoi confronti si sarebbe instaurato un procedimento penale di cui, successivamente, essendosi allontanato dalla struttura ove era stato collocato e non essendo stato mai più rintracciato, non aveva più potuto ricevere alcun atto. Per la Corte territoriale, dunque, nonostante il giudizio si fosse svolto alla presenza del difensore d’ufficio che aveva anche proposto impugnazione, non poteva che ravvisarsi una nullità assoluta e insanabile in quanto all’imputato era stata preclusa la possibilità di partecipare al giudizio e di proporre motivi personali d’appello.

La Sezione rimettente, dopo avere messo in luce la sussistenza, in merito alla questione, di due diverse posizioni della giurisprudenza della Corte, dà quindi conto della peculiarità del caso concreto, a suo avviso “potenzialmente idonea ad influire sulla decisione, se non a determinarla tout court”, da ravvisarsi nella dichiarazione di latitanza dell’imputato destinatario della misura cautelare della custodia in carcere, disposta circa due anni dopo lo sbarco e mai attuata attese le vane ricerche della polizia giudiziaria. Questo dato, ad avviso del collegio, è di grande rilevanza in quanto la dichiarazione di latitanza, a norma del primo comma dell’art. 296 cod. proc. pen., presuppone che la sottrazione alla custodia cautelare sia stata volontaria e lascia supporre la persistenza del medesimo atteggiamento dell’imputato anche con riferimento alla conoscenza del processo, dato, quest’ultimo, rilevante, a norma dell’ultima parte del secondo comma dell’art. 420-bis, ai fini della legittimità della dichiarazione di assenza.

3. I termini del contrasto: la tesi dell’insufficienza della sola elezione di domicilio presso il difensore d’ufficio a costituire presupposto idoneo per la dichiarazione di assenza dell’imputato.

Secondo un primo orientamento della giurisprudenza di legittimità, la garanzia dell’elezione di domicilio effettuata al momento dell’identificazione della polizia giudiziaria e riferita al difensore d’ufficio contestualmente nominato, non è sufficiente a legittimare la declaratoria di assenza. Tale opzione interpretativa, a cui si rifanno diverse decisioni, alcune anche precedenti alla novella del 2014, (cfr. ad es. Sez. 2, n. 9441 del 24/1/2017, Seli, Rv. 269221-01; Sez. 5, n. 44123 del 14/11/2007, Bacalanovic, Rv. 237973-01; Sez. 1, n. 16416 del 2/3/2017, Somai, Rv. 269843-01; Sez. 2, n. 12639 del 4/3/2015, Prroj, Rv 262929-01; Sez. 1, n. 39818 del 20/10/2010, Mammì, Rv. 249015-01; Sez. 2, n. 4987 del 22/12/2011, Vujovic, Rv 251801-01) si pone in sintonia in primis con le decisioni della Corte EDU (ex multis, Colozza c. Italia, 12/2/1985, 27; Yavuz c. Austria, 27/5/2004, 45; Novoselov c. Russia, 8/7/2004) secondo cui la legittimità del procedimento in absentia può ritenersi solo ove risulti che l’imputato abbia avuto effettiva conoscenza del processo a suo carico e delle conseguenze che ne possano scaturire e abbia rinunziato ad avvalersi del suo diritto di essere presente in udienza e di parteciparvi effettivamente e si fondano, inoltre, sul presupposto secondo cui, per stabilire se vi sia stata o meno rinuncia inequivoca a comparire, occorre verificare, necessariamente e preliminarmente, se l’imputato abbia avuto conoscenza, non soltanto della possibilità di un procedimento a suo carico, ma anche dell’esistenza effettiva di un processo e del contenuto dell’accusa sulla quale è chiamato a difendersi in giudizio e tale conoscenza deve essere effettiva e, cioè, la comunicazione del procedimento deve essere stata veicolata attraverso un atto giuridico rispondente a precise condizioni formali e sostanziali, idonee a permettere all’imputato l’esercizio concreto dei suoi diritti.

Da ultimo, tale tesi è stata sostenuta anche da Sez. 5, n. 10443 del 7.2.2019, Nguia, Rv. 276124-01 che, in tema di restituzione del termine per proporre opposizione al decreto penale di condanna, ha affermato che la notifica del decreto presso il difensore d’ufficio domiciliatario, benché formalmente corretta, non era di per sé idonea ad assicurare, secondo un’interpretazione costituzionalmente orientata, la conoscenza effettiva dell’atto. Nella specie, l’imputato si era rifiutato di sottoscrivere il verbale, ma tale omessa sottoscrizione, si è affermato in sentenza, non poteva considerarsi motivo di nullità non avendo l’interessato indicato il motivo per cui non aveva inteso sottoscrivere e il suo atteggiamento, quindi, non poteva intendersi “mirato alla revoca della dichiarazione verbalizzata”. Osserva, però, la Corte che la “validità formale” dell’elezione di domicilio e, quindi, della notifica “non può ritenersi di per sé idonea a dimostrare l’effettiva conoscenza del provvedimento in capo all’imputato, salvo che la conoscenza non emerga aliunde ovvero non si dimostri che il difensore è riuscito a rintracciare il proprio assistito e ad instaurare un effettivo rapporto processuale con lui”. A sostegno di tale tesi si richiama la sentenza della Corte costituzionale n. 504 del 13/11/2000, nonché la disposizione di cui al comma 4-bis dell’art. 162 cod. proc. pen., introdotta dall’art. 1 della legge 23 giugno 2017, n. 103, per “porre un argine alle situazioni formalmente corrette, ma sostanzialmente elusive delle garanzie di effettività della conoscenza degli atti”, in cui un soggetto, sottoposto ad indagini, privo di un difensore di fiducia e a cui sia stato nominato un difensore d’ufficio, non abbia un effettivo contatto con questi diventando, quindi, la consegna al solo difensore di copia degli atti destinati all’assistito, in mancanza di alcun contatto tra i due, un mero “simulacro di conoscenza dell’atto”.

Da ultimo, la necessità della conoscenza effettiva del processo non surrogabile dalla conoscenza meramente formale dello stesso derivante dal mero rispetto delle norme dettate in tema di procedimento notificatorio è stata affermata da Sez. U, n. 28912 del 28/2/2019, Innaro, Rv. 275716 di cui si è già trattato in altro capitolo di questa Rassegna a cui si rimanda.

4. (segue) La tesi della sufficienza dell’elezione di domicilio presso il difensore d’ufficio, già nella fase delle indagini preliminari, per legittimare la dichiarazione di assenza dell’imputato.

Come già ricordato in premessa, altre decisioni hanno diversamente ritenuto che “in tema di processo in assenza, è valida la notificazione all’imputato presso il difensore d’ufficio domiciliatario, indicato nel corso delle indagini preliminari, in ragione della presunzione legale di conoscenza del procedimento prevista dall’art. 420-bis cod. proc. pen., superabile solo nel caso in cui risulta (ai sensi del successivo art. 420-ter, comma 1, cod. proc. pen.) che l’assenza è dovuta ad assoluta impossibilità di comparire per caso fortuito, forza maggiore o altro legittimo impedimento” (Sez. 5, n. 40848 del 13/7/2017, Fanici, Rv. 271015-01). Nello stesso senso, successivamente, si sono pronunziate Sez. 4, n. 32065 del 7/5/2019, Bianchi, Rv. 276707-01; Sez. 2, n. 39158 del 10/9/2019, Hafid Aiumin, Rv. 277100; Sez. 4, n. 49916 del 16/10/2018, F., Rv. 273999-01; Sez. 2, n. 25996 del 23/5/2018, Geusa, Rv. 272987-01 e Sez. 5, n. 36855 del 7/7/2016, Baron, Rv. 267322-01.

Per tali decisioni deve essere valorizzato l’onere di diligenza in capo all’accusato senza distinguere che questi abbia avuto notizia del procedimento nella sola fase investigativa piuttosto che in quella processuale. Si sottolinea, in particolare, che, con la riforma del procedimento in absentia, le garanzie dell’imputato all’effettiva partecipazione al suo processo sono subordinate ad un rigoroso accertamento in quanto la disposizione di cui all’art. 420-bis, comma 2, cod. proc. pen., fa esplicito riferimento al “procedimento penale”, ossia ad una sequenza di atti e pone in capo all’accusato un preciso onere di diligenza che si sostanzia sia nel dovere di informarsi circa lo stato della progressione processuale, sia nell’onere di esercitare le facoltà ed i diritti che gli sono riconosciuti ogni qualvolta egli abbia conoscenza dell’esistenza del processo, di talché la verifica da parte del giudice dello stato di conoscenza incolpevole non è limitato alla sola fase “processuale”, ma anche a quella procedimentale con la conseguenza che la conoscenza dell’esistenza del procedimento, anche se provata in relazione ad una fase germinale dello stesso, determina nei confronti dell’accusato un onere di diligenza che si esprime anche nel dovere di mantenere contatti con il difensore, pur se questi sia stato nominato d’ufficio.

L’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite condivide tale ultimo orientamento e afferma che, per espressa volontà del legislatore, il processo in absentia “è ammesso in una serie di casi analiticamente descritti … tutti connotati dal ricorrere di circostanze tali da indurre lo stesso legislatore a presumere che l’imputato abbia avuto con certezza conoscenza del procedimento ovvero si sia volontariamente sottratto a tale conoscenza … la lista delle predette situazioni processuali si esaurisce con un’ipotesi di chiusura che ne esplicita il connotato comune (e cioè la presunzione di certezza della predetta conoscenza) correlandola anche a qualsiasi altra situazione processuale (...ovvero risulti comunque..”), non espressamente descritta, ma capace di portare il giudice alla stessa conclusione con riferimento al caso concreto. Il sindacato sulla correttezza della presunzione, riferita alla specifica fattispecie processuale sottoposta al vaglio del giudice del merito, è stato circoscritto, dallo stesso legislatore, a casi del tutto particolari quando, come testualmente previsto dall’art. 420-ter cod. proc. pen., il giudice abbia cioè la certezza o anche soltanto il dubbio che l’assenza dell’imputato, pure formalmente citato in modo regolare e versante in una delle situazioni sopra descritte, sia dovuta ad assoluta impossibilità di comparire per caso fortuito o forza maggiore. Peraltro, quando ad investire il giudice sia non la certezza, ma soltanto il dubbio, la stessa norma prevede, nel comma 2, ultima parte, che tale dubbio sia liberamente valutato dal giudice medesimo, senza poter formare oggetto di discussione successiva né motivo di impugnazione”.

In senso conforme ai principi espressi da tale decisione deve richiamarsi, da ultimo, Sez. 4, n. 49916 del 2018, cit. secondo cui “in tema di rescissione del giudicato, deve escludersi l’incolpevole mancata conoscenza del processo, con conseguente inammissibilità del ricorso di cui all’art. 629-bis, comma 3, cod. proc. pen., nel caso in cui risulti che l’imputato abbia, nella fase delle indagini preliminari, eletto domicilio presso il difensore di ufficio, derivando da ciò una presunzione di conoscenza del processo che legittima il giudice a procedere in assenza dell’imputato, sul quale grava l’onere di attivarsi per tenere contatti informativi con il proprio difensore sullo sviluppo del procedimento.”

In tali sentenze, partendo dal rilievo che la legge n. 64 del 2014 ha trasformato in modo radicale la disciplina del processo in absentia prevedendo, contrariamente a quanto avveniva in costanza della normativa previgente, nel caso di prova dell’incolpevole conoscenza del processo da parte dell’imputato assente, l’integrale reiezione del processo e non solo la restituzione di un termine determinato, eventualmente collocato in una fase avanzata del processo, si evidenzia che siffatto effetto integralmente restitutorio intanto è consentito in quanto si accerti, in modo rigoroso, un’incolpevole mancata conoscenza del processo che non può sussistere ogni qualvolta si riscontri in capo all’imputato un comportamento scarsamente diligente, a far data dalla fase iniziale del procedimento, desumibile dall’ elezione di domicilio, dalla nomina di un difensore di fiducia, dall’applicazione di una misura precautelare o cautelare, ovvero dal ricevimento personale della notifica dell’avviso di udienza.

Con particolare riferimento all’elezione di domicilio, anche presso il difensore di fiducia o d’ufficio, Sez. 2, n. 14787 del 25/1/2017, Xhami, Rv. 269554-01; Sez. 2, n. 33574 del 14/7/2016, Suso, Rv. 267499-01; Sez. 5, n. 12445 del 13/11/2015 ( dep. 2016), Degasperi, Rv. 266368-01 hanno ritenuto che da essa - pur se avvenuta in sede di identificazione da parte della polizia giudiziaria - deriva una presunzione di conoscenza del processo che legittima il giudice a procedere in assenza dell’imputato. Si valorizza, in tali sentenze, l’onere di diligenza che grava sull’imputato il quale, una volta a conoscenza che potrebbe essere instaurato nei suoi confronti un processo, ha l’onere di tenere contatti informativi con il proprio difensore sullo sviluppo del procedimento; “l’ignoranza incolpevole non deve, pertanto, essere valutata in relazione ai singoli atti della progressione processuale, dato che la conoscenza dell’esistenza del procedimento, seppure provata in relazione ad una fase germinale dello stesso, genera un onere di diligenza che si esprime anche nel dovere di mantenere contatti con il difensore, sia esso di fiducia, che di ufficio”(così, Sez. 2, n. 14787 del 2017, cit.). A conferma di tale tesi, nella già citata sentenza Degasperi, si confronta l’art. 175, co. 2 cod. proc. pen. nella formulazione antecedente alla modifica intervenuta con l’art. 11, co. 6, l. 28 aprile 2014, n. 67 con la nuova formulazione e si richiama il disposto di cui all’art. 625-ter co. 1, cod. proc. pen. (che ha riguardo all’istituto della rescissione introdotto nell’ordinamento processuale penale dalla già menzionata l. n. 67/2014) e si afferma che, a seguito della riforma, “si è verificato un mutamento di prospettiva che non consente di applicare i principi affermati in precedenza dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui, con specifico riferimento all’impugnazione della sentenza contumaciale, era configurabile il diritto dell’imputato alla rimessione in termini ogni qualvolta non vi fosse stata effettiva conoscenza del processo, per tale dovendosi intendere quella che comprenda l’imputazione formulata con la vocatio in iudicium, escludendosi che tale conoscenza potesse essere presunta quando non risultasse dimostrato che il difensore d’ufficio, destinatario delle notifiche, fosse riuscito a mettersi in contatto con l’assistito e ad instaurare con lo stesso un effettivo rapporto professionale”.

Si evidenzia, quindi, che l’art. 420-bis, cod. proc. pen. stabilisce che, fatti salvi i casi di legittimo impedimento a comparire di cui al successivo art. 420-ter, il giudice procede in assenza dell’imputato, non solo quando questo, anche se impedito, abbia espressamente rinunziato a comparire (comma 1), ma anche quando “nel corso del procedimento abbia dichiarato o eletto domicilio ovvero sia stato arrestato, fermato o sottoposto a misura cautelare ovvero abbia nominato un difensore di fiducia, nonché nel caso in cui l’imputato assente abbia ricevuto personalmente la notificazione dell’avviso dell’udienza ovvero risulti comunque con certezza che lo stesso è a conoscenza del procedimento o di atti del medesimo” (comma 2) e che, pertanto, dall’elezione di domicilio deriva una presunzione di conoscenza del processo che legittima il giudice a procedere in assenza dell’imputato e a concludere il processo anche con una sentenza di condanna idonea a passare in giudicato, contro la quale l’interessato potrà far valere l’allegata mancata conoscenza nei limiti di cui all’art. 625-ter cod. proc. pen. provando, quindi, che la mancata conoscenza non sia dipesa da un suo comportamento colposo. In altri termini, non potrebbe disconoscersi che l’attuale sistema processuale, a differenza del codice del 1930 che affidava in via prevalente all’iniziativa del giudice le sorti del processo, ha previsto oneri di informazione e di collaborazione a carico delle parti che, insieme al giudice, hanno la responsabilità dell’andamento del processo al fine di evitare lungaggini o addirittura paralisi dello stesso. E tra gli oneri strumentali ai poteri ad essi conferiti vi sarebbe anche quello di informarsi sul corso del procedimento e sui suoi contenuti.

5. Le presunzioni di conoscenza ex art. 420-bis, comma 2 cod. proc. pen. e l’elezione di domicilio presso il difensore d’ufficio.

Nell’art. 420-bis, comma 2, cod. proc. pen. vengono individuate alcune situazioni che, presupponendo la conoscenza certa del procedimento anche in una fase embrionale, consentono, a loro volta, di presumere la conoscenza dell’udienza e legittimano la celebrazione del processo nell’assenza dell’imputato: la dichiarazione o elezione di domicilio; la sottoposizione ad arresto, fermo o misura cautelare; la nomina di un difensore di fiducia. Nell’ultima parte del comma 2, il legislatore prevede inoltre che il giudice possa procedere in assenza qualora “risulti comunque con certezza che l’imputato assente è a conoscenza del procedimento o di atti dello stesso”.

La presunzione di conoscenza è forte e qualificata se nel corso del procedimento l’indagato è stato arrestato o fermato o sottoposto a misura cautelare, non potendo egli dubitare, in questi casi, che un procedimento penale si è aperto nei suoi confronti per un fatto che gli è stato contestato e in relazione al quale può difendersi. Non molto dissimile è la situazione in cui sia stato nominato un difensore di fiducia e ciò in considerazione dell’esistenza di un legame professionale tra difensore e indagato che perdura anche nel caso di dismissione del mandato; in tal caso, infatti, il difensore ha il dovere deontologico di informare il proprio assistito sugli sviluppi del procedimento di cui abbia avuto conoscenza o, comunque, di informarlo sulle possibilità di acquisire tale conoscenza.

A tale ultima situazione non può, certo, parificarsi quella in cui il domicilio sia stato eletto presso un difensore d’ufficio. Mentre, infatti, il legame con il difensore di fiducia dovrebbe, di regola, garantire l’esistenza di un canale comunicativo con l’assistito, nel caso di nomina di un difensore d’ufficio, in difetto di ulteriori indici specifici, è difficile poter presumere l’effettiva instaurazione di un rapporto (a maggior ragione prima dell’entrata in vigore della l. n. 103/2017) poiché, in tal caso, non è raro che manchi qualunque contatto tra l’indagato e il difensore domiciliatario. E’ frequente, infatti, che la dichiarazione o elezione di domicilio da parte dell’indagato ai fini delle notificazioni venga ricevuta dall’autorità procedente nel primo atto di indagini preliminari compiuto con l’intervento dell’interessato; essa, spesso, avviene da parte di soggetti stranieri, senza fissa dimora e in condizioni di vita assai precarie, a distanza di tempo dall’emissione dell’atto di citazione a giudizio e presenta un contenuto variabile: di solito viene indicato il numero attribuito nel registro generale delle notizie di reato che consente all’indagato di risalire al procedimento aperto nei suoi confronti (che nella vicenda concreta, sottesa alla decisione qui in commento, non era stato riportato in quanto al momento dell’elezione di domicilio non si era ancora proceduto all’iscrizione nel registro dei reati) e si fa riferimento all’addebito provvisorio, del tutto approssimativo e scarno. Ricavare dalla sola elezione di domicilio presso il difensore d’ufficio un indice rivelatore della conoscenza del processo è sicuramente un’operazione non semplice tant’è che il legislatore, probabilmente anche avendo riguardo a fattispecie in cui, dopo l’identificazione ed elezione di domicilio, si perdono completamente le tracce delle persone identificate, ha avvertito la necessità (già in nuce con la previsione di cui all’art. 28 disp. att. cod. proc. pen. che prevede la comunicazione senza ritardo all’imputato del nominativo del difensore nominato d’ufficio, anche al fine di consentire la costruzione di un rapporto tra indagato e suo difensore) di introdurre, ad opera dell’art. 1, legge 23 giugno 2017, n. 103, la disposizione di cui al comma 4-bis dell’art. 162 cod. proc. pen. secondo cui “l’elezione di domicilio presso il difensore d’ufficio non ha effetto se l’autorità che precede non riceve, unitamente alla dichiarazione di elezione, l’assenso del difensore domiciliatario”.

Tale disposizione è stata voluta, seguendo le indicazioni della Corte costituzionale che, chiamata a pronunziarsi sulla legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 161 e 163 cod. proc. pen. “nella parte in cui non prevedono la notifica personale dell’atto introduttivo del giudizio penale, quantomeno nell’ipotesi di elezione di domicilio presso il difensore d’ufficio”, con la sentenza n. 31 del 5/10/2016 (dep. nel 2017), ha implicitamente riconosciuto che, nei casi di elezione di domicilio presso un difensore d’ufficio, la possibilità di procedere in assenza dell’imputato è compatibile con le norme costituzionali solo se, in concreto, vi è stato “un rapporto di informazione tra il legale, benché nominato d’ufficio, e l’assistito”; essa è volta a risolvere il difficile problema dell’effettività della conoscenza, da parte dell’indagato, di un procedimento penale a suo carico sulla base della sola elezione di domicilio presso il difensore d’ufficio, nella prassi, spesso, inconsapevole di siffatta elezione in quanto non comunicatagli. In forza di tale nomina, molto spesso, la notifica degli atti poteva ritenersi “formalmente” eseguita e tale mera apparenza di regolarità consentiva la prosecuzione meramente formale del procedimento a tutto discapito dell’effettività del diritto di difesa in quanto, nella stragrande maggioranza di casi, all’elezione di domicilio non seguiva alcun contatto tra l’indagato e il difensore domiciliatario.

In forza della disposizione da ultimo introdotta, ove, dunque, l’elezione di domicilio non sia assentita dal difensore, essa non ha effetto e, quindi, non sono configurabili le conseguenze di cui all’art. 161 cod. proc. pen., non potrà procedersi in assenza a norma dell’art. 420-bis, comma 2, cod. proc. pen. e troveranno applicazione le disposizioni di cui agli artt. 157 e 159 cod. proc. pen. L’elezione di domicilio presso il difensore d’ufficio, ove non assentita, dunque, è stata riconosciuta dal legislatore non idonea a fondare presunzioni di conoscenza del procedimento e del processo che, dunque, non può essere iniziato e non può portare ad una condanna sino a che non si verifichino le condizioni di cui all’art. 420-quinquies, comma 2, cod. proc. pen.

Orbene, i fatti processuali rilevanti nella vicenda in esame (identificazione dell’indagato, emissione del decreto di latitanza, vocatio in iudicium innanzi alla corte d’assise) sono tutti riferibili ad un periodo precedente all’introduzione di siffatta disposizione, ma si osserva nell’ordinanza di rimessione che, anche se “non può discorrersi di applicazione retroattiva della disposizione indicata, resta da chiarire se il criterio dalla medesima fissato … determini l’emersione di un dato rilevante in chiave interpretativa del quadro normativo stesso” ossia se sia possibile una lettura costituzionalmente orientata delle norme in questione che consenta di ritenere, in via di principio, insufficiente l’elezione di domicilio presso il difensore d’ufficio, ma in concreto adeguata ove concorrano altri elementi che permettano di ritenere che l’indagato, domiciliato presso il difensore d’ufficio, sia a conoscenza del procedimento o si sia volontariamente sottratto alla conoscenza del procedimento o di atti del medesimo.

Deve aggiungersi che, nell’ottica di un processo a carattere accusatorio che si fonda, quindi, sul principio che la verità si può meglio accertare quanto più le funzioni processuali sono suddivise tra soggetti titolari di interessi contrapposti e tra loro antagonisti, costituisce principio indefettibile per il regolare e corretto esercizio della giurisdizione il pieno rispetto del diritto dell’accusato di presenziare al “suo” processo e, per altro verso, il diritto dello stesso, manifestato in modo espresso o tacito, ma inequivocabile, di rinunziare liberamente alla partecipazione, ossia di non collaborare, senza che ciò comporti sanzioni palesi o occulte. In applicazione dell’art. 6 della Convenzione Edu, e in armonia a quanto stabilito dalla Corte europea (per tutte sentenza del 10/11/2004 Sejdovic c. Italia), un processo potrebbe, inoltre, considerarsi “equo” solo quando: l’accusato sia informato della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico in modo che egli sia in grado di difendersi nel merito; egli sia consapevole dell’esistenza di un processo a suo carico e sia stato messo in condizione di esservi presente o di rinunciarvi scientemente e volontariamente; esistano sia strumenti preventivi idonei a evitare lo svolgimento di processi nei confronti di imputati inconsapevoli, sia strumenti riparatori idonei ad assicurare l’esercizio del diritto di difesa in un nuovo e successivo giudizio.

6. La latitanza quale presupposto per la celebrazione del processo in absentia.

Per la Sezione remittente, altra ipotesi assimilabile ad una presunzione forte, è quella in cui l’indagato sia stato dichiarato latitante prima del compimento di uno degli atti di cui all’art. 420-bis, cod. proc. pen. Tale dato, si afferma, è tutt’altro che irrilevante posto che la dichiarazione di latitanza presuppone la volontaria sottrazione all’esecuzione di un provvedimento restrittivo (custodia cautelare, arresti domiciliari, divieto di espatrio, obbligo di dimora, ordine con cui si dispone la carcerazione); essa, quindi, “si profila, in linea di principio, coniugata con il tessuto normativo dell’art. 420-bis cod. proc. pen., con particolare riguardo all’ipotesi in cui l’imputato si sia volontariamente sottratto alla conoscenza del procedimento o di atti del medesimo, idoneo a costituire una situazione di fatto … idonea in via autonoma a legittimare la qualificazione dell’imputato come soggetto assente nella vicenda procedimentale e processuale successiva al decreto di latitanza”. Tale tesi parrebbe esaltare l’assonanza dei termini adoperati dal legislatore per cui chi si sottrae volontariamente all’esecuzione di una misura cautelare realizza una condotta avente rilevanza ai fini della dichiarazione di assenza.

Orbene, è questo un tema assai delicato e, per certi versi, reso ancor più problematico dalla sentenza delle Sez. U, n. 18822 del 27/3/2014, Avram, Rv. 258792 concernente la validità della dichiarazione di latitanza del soggetto dimorante all’estero ove si è ritenuta non necessaria l’applicazione dell’art. 169, comma 4, cod. proc. pen. in punto di ampiezza e qualità delle attività di ricerca.

Il legislatore richiede, per la dichiarazione di latitanza, non solo il mero elemento oggettivo della frustrazione della pretesa coercitiva statale, ma anche un elemento psicologico costituito dalla volontà del soggetto di impedire l’esecuzione della misura cautelare, la cui sussistenza deve essere esaminata con particolare attenzione. L’elemento soggettivo è, dunque, il tratto che caratterizza l’istituto della latitanza - la cui definizione e disciplina sono affidate agli artt. 295 e 296 cod. proc. pen. che non sono stati modificati dalla novella del 2014 - e dovrebbe presupporre, come si è detto, da parte dell’autorità giudiziaria un rigoroso accertamento delle informazioni che risultano dal verbale di vane ricerche, non potendo dichiararsi la latitanza nel caso di indagini incomplete o quando permangano dubbi sui motivi per cui non è stato possibile rintracciare il ricercato.

Orbene, la dichiarazione di latitanza e gli accertamenti che la precedono non sempre garantiscono l’effettiva conoscenza del processo e il semplice mancato ritrovamento dell’indagato non dovrebbe consentire di risalire tour court ad una consapevole rinunzia a comparire o alla volontaria sottrazione al processo. Si richiama, sul punto, la sentenza delle Sez. un. n. 21035, del 26/3/2003, Caridi, Rv. 224134 che, in motivazione, precisa che devono essere tenuti distinti i profili afferenti ai diversi istituti della latitanza e della contumacia in quanto improntati a presupposti e a finalità differenti. Affermano le Sezioni Unite che i predetti istituti “non sono sovrapponibili e tra loro coincidenti, nel senso, tra l’altro, che lo stato di latitanza … può non precludere la delibazione del presupposto fondante lo stato di contumacia, ossia l’assoluto impedimento a comparire dell’imputato, per fatti susseguenti alla assunzione di quella qualificazione giuridica soggettiva da parte dell’imputato medesimo, ed in riferimento al suo diritto di autodifesa”. Chiarisce ancora la Corte che i due istituti sono concettualmente diversi in quanto per la latitanza è sufficiente e necessaria solo la volontaria sottrazione ad uno dei provvedimenti indicati dalla legge, mentre per la contumacia è necessario, specificamente, che, al momento della scelta di partecipare o meno all’udienza, la volontà sia libera, la non partecipazione al giudizio non imposta, ma scelta.

Ne deriva che nel caso di un imputato assistito da un difensore d’ufficio, le notificazioni effettuate a quest’ultimo dovrebbero essere considerate inidonee a dimostrare l’effettiva conoscenza del procedimento salvo che non risulti la sussistenza di un rapporto professionale. In termini con tale affermazione la Corte di cassazione, in tema di restituzione del termine ex art. 175 cod. proc. pen., (Sez. 6, n. 19219 del 2/3/2017, Cobo, Rv. 270029-01 e Sez. 6, n. 14743 del 20/1/2018, Tair, Rv. 272654) ha affermato che “L’avvenuta dichiarazione di latitanza dell’imputato, assistito da difensore d’ufficio, non costituisce, di per sé, elemento idoneo ad escludere la mancata incolpevole conoscenza del procedimento”.

La prospettazione, secondo cui la sottrazione del ricercato all’esecuzione della misura in uno con l’elezione di domicilio presso il difensore d’ufficio effettuata all’atto dell’identificazione da parte della polizia sarebbero dati sufficienti per motivare la decisione di procedere in absentia, andrebbe dunque raffrontata con i principi della giurisprudenza nazionale e sovranazionale. In particolare, intanto la dichiarazione di latitanza potrebbe portare all’instaurazione corretta del processo in assenza, rispettosa delle prescrizioni sovranazionali e delle decisioni della Corte di cassazione, solo ove non fondata su ricerche incomplete, presunzioni o altre applicazioni superficiali delle disposizioni normative in materia che potrebbero sottovalutare il connotato essenziale dell’istituto, ossia l’elemento psicologico, e rappresentare una situazione non rispondente alla realtà dei fatti. Del resto, proprio la “gestione negligente della fase investigativa” ha costituito la ragione fondamentale delle condanne riportate dall’Italia a Strasburgo sia nel caso Colozza in cui l’imputato, prima di essere dichiarato latitante e poi contumace non era stato debitamente ricercato, sia nel caso Somogyi in cui l’avviso di fissazione dell’udienza preliminare era stato notificato all’estero tramite lettera raccomandata e l’imputato aveva disconosciuto la firma apposta sulla cartolina attestante la ricezione dell’atto.

Ove il decreto ex art. 295 cod. proc. pen. non costituisca un dato certo su cui fondare una presunzione assoluta di conoscenza, il giudice del merito, allora, dovrebbe rivalutare gli elementi che hanno portato alla dichiarazione di latitanza e, nel caso dovesse accertare la mancanza di completezza delle ricerche effettuate dalla polizia giudiziaria, o non ritenere, in base agli atti, che l’impossibilità di eseguire la misura cautelare sia stata dovuta alla volontà del ricercato, dovrebbe dichiarare la nullità del decreto di latitanza e di tutte le notificazioni eseguite sulla base di esso.

7. Considerazioni conclusive.

Come già accennato in premessa, il procedimento rimesso alla Prima sezione è stato definito dalle Sezioni Unite con sentenza non ancora depositata. Dall’informazione provvisoria diffusa dopo l’udienza pare potersi affermare che il Massimo collegio abbia avvertito la necessità di contemperare gli interessi di cui si è detto in premessa, fornendo un’interpretazione delle norme in questione utile per evitare l’effetto paradossale di un arretramento della tutela rispetto alla regolamentazione anteriore relativa al rito contumaciale, rito modificato proprio per impedire la celebrazione di processi nei confronti di imputati inconsapevoli. La presenza dell’imputato nel processo costituisce, infatti, una garanzia e un obbligo, e, nel caso di processo in assenza, la lettura delle norme che lo disciplinano fornita dalle Sezioni Unite, nella decisione qui in commento, si pone nella direzione tendenzialmente volta assicurare pienamente la tutela del diritto al contraddittorio e del diritto alla difesa conformemente a quanto stabilito negli artt. 111 e 24, co. 2 della Costituzione.

L’esercizio di tali diritti presuppone, infatti, la partecipazione attiva dell’imputato a sua volta fondata sulla conoscenza dell’accusa e degli atti su cui essa poggia anche se, per altro verso, è fin troppo ovvio ritenere che l’assenza dell’imputato dalla scena processuale non possa di per sé paralizzare l’attività giudiziaria e il processo.

Sicuramente, come affermato dalle Sezioni Unite, la sola elezione di domicilio presso un difensore d’ufficio da parte di un indagato non è elemento sufficiente per costituire la solida base su cui ancorare la sicura certezza della sua consapevolezza dell’esistenza e dello sviluppo di un procedimento nei suoi confronti e ciò, è da ritenersi, anche alla luce degli interventi normativi intervenuti successivamente ai fatti di causa (l. 23 giugno 2017, n. 103 che ha introdotto nell’ordinamento processuale penale, l’art. 162, co. 4-bis) che, pur non trovando applicazione diretta nella vicenda in esame, appaiono sintomatici dell’esigenza avvertita dal legislatore, sull’onda dei moniti della Corte costituzionale, di assicurare un contatto tra il domiciliatario e il domiciliato che possa fornire certezze in ordine alla conoscenza da parte di quest’ultimo del procedimento e al suo volontario disinteresse verso di esso.

È compito allora del giudice, come emerge dalla notizia di decisione, valutare la presenza di altri elementi che, oltre all’elezione di domicilio presso un difensore d’ufficio, possano consentire di affermare che vi sia stata un’effettiva instaurazione del rapporto tra legale domiciliatario e indagato tale da far ritenere che quest’ultimo abbia avuto conoscenza del procedimento e che abbia inteso volontariamente sottrarsi ad esso.

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. U, n. 21035, del 26/3/2003, Caridi, Rv. 224134

Sez. 5, n. 44123 del 14/11/2007, Bacalanovic, Rv. 237973-01

Sez. 1, n. 39818 del 20/10/2010, Mammì, Rv. 249015-01

Sez. 2, n. 4987 del 22/12/2011, Vujovic, Rv 251801-01

Sez. U, n. 18822 del 27/3/2014, Avram, Rv. 258792

Sez. 2, n. 12639 del 4/3/2015, Prroj, Rv 262929-01

Sez. 5, n. 12445 del 13/11/2015 (dep. 2016), Degasperi, Rv. 266368-01

Sez. 5, n. 36855 del 7/7/2016, Baron, Rv. 267322-01

Sez. 2, n. 33574 del 14/7/2016, Suso, Rv. 267499-01

Sez. 2, n. 14787 del 25/1/2017, Xhami, Rv. 269554-01

Sez. 2, n. 9441 del 24/1/2017, Seli, Rv. 269221-01

Sez. 6, n. 19219 del 2/3/2017, Cobo, Rv. 270029-01

Sez. 1, n. 16416 del 2/3/2017, Somai, Rv. 269843-01

Sez. 5, n. 40848 del 13/7/2017, Fanici, Rv. 271015-01

Sez. 6, n. 14743 del 20/1/2018, Tair, Rv. 272654

Sez. 2, n. 25996 del 23/5/2018, Geusa, Rv. 272987-01

Sez. 4, n. 49916 del 16/10/2018, F., Rv. 273999-01

Sez. 5, n. 10443 del 7.2.2019, Nguia, Rv. 276124-01

Sez. U, n. 28912 del 28/2/2019, Innaro, Rv. 275716

Sez. 4, n. 32065 del 7/5/2019, Bianchi, Rv. 276707-01

Sez. 2, n. 39158 del 10/9/2019, Hafid Aiumin, Rv. 277100

Sentenze della Corte costituzionale

Corte cost., sent. n. 504 del 13/11/2000

Corte cost., sent. n. 31 del 5/10/2016 ( dep. nel 2017)

Sentenze della Corte EDU

Corte EDU, Colozza c. Italia, 12/2/1985, 27

Corte EDU, Sejdovic c. Italia, 10/11/2004

Corte EDU Yakuz c. Austria, 27/5/2004, 45

Corte EDU Novoselov c. Russia, 8/7/2004

  • procedura penale
  • abrogazione

CAPITOLO II

L’ABROGAZIONE TACITA DELLA NOTIFICA ALL’IMPUTATO ASSENTE DELLA SENTENZA EMESSA NEL GIUDIZIO ABBREVIATO

(di Raffaele Piccirillo )

Sommario

1 Il caso e la questione controversa. - 2 La linea giurisprudenziale maggioritaria. - 3 La linea antiabrogazionista della giurisprudenza minoritaria. - 4 Il principio enunciato da Sez. U, n. 698 del 24/10/2019 – dep. 2020, Sinito, Rv. 277470. L’impianto della decisione. - 4.1 La ricostruzione diacronica della disciplina della costituzione dell’imputato nel giudizio abbreviato dal Codice del 1988 alla legge Carotti. - 4.2 L’abrogazione dell’istituto contumaciale e della notifica ex art. 548, comma 3, cod. proc. pen. - 4.3 Nessuna reviviscenza dell’obbligo di notifica della decisione dopo la legge n. 67 del 2014. - 4.4 Confutazione del paventato contrasto della tesi abrogazionista con i principi CEDU: la superfluità della notifica della decisione nel sistema in absentia. - Indice delle sentenze citate

1. Il caso e la questione controversa.

Con l’ordinanza n. 6377 emessa il 17 dicembre 2018, la Terza Sezione rimetteva alle Sezioni Unite la soluzione della seguente questione interpretativa: “Se, anche successivamente alla riforma della disciplina del processo in absentia di cui alla legge 28 aprile 2014, n. 67, l’estratto della sentenza emessa all’esito del rito abbreviato debba essere notificato all’imputato non comparso”.

L’adempimento in parola è previsto dal combinato disposto degli artt. 442, comma 3, cod. proc. pen. («La sentenza è notificata all’imputato che non sia comparso») e dell’art. 134 disp. att. cod. proc. pen. («La sentenza emessa nel giudizio abbreviato è notificata per estratto all’imputato non comparso, unitamente all’avviso di deposito della sentenza medesima»), disposizioni rimaste inalterate a seguito dei diversi interventi di riforma della disciplina del rito speciale, e di interpolazione dello stesso art. 442 cod. proc. pen., succedutisi fino ai nostri giorni.

La questione devoluta era dirimente per la decisione dell’unico motivo di ricorso proposto avverso la decisione con la quale la Corte d’appello di Milano aveva dichiarato inammissibile per tardività l’appello proposto dalla ricorrente avverso la condanna riportata nel giudizio abbreviato di primo grado, adducendo l’intervenuta scadenza dei termini previsti dall’art. 585, comma 1 lett. b), cod. proc. pen.

Il ricorso evidenziava che, non essendo mai stata effettuata la notifica prevista dalle disposizioni sopra riportate, il termine non aveva in realtà mai cominciato a decorrere.

2. La linea giurisprudenziale maggioritaria.

L’indirizzo prevalente delle sezioni della Corte, inaugurato dalla decisione Sez. 1, n. 31049 del 22/05/2018, Careri, Rv. 273485, si era espresso nel senso dell’abrogazione tacita della norma: «La sentenza emessa a seguito di rito abbreviato non deve essere notificata all’imputato che non sia comparso per tutto il corso del giudizio, in quanto la previsione contenuta negli artt. 442, comma 3, cod. proc. pen. e 134 disp. att. stesso codice deve ritenersi implicitamente abrogata dalla legge 28 aprile 2014, n. 67, che ha introdotto la nuova disciplina sull’assenza, volta a garantire l’effettiva conoscenza del processo ed a ricondurre ad una determinazione consapevole e volontaria la mancata partecipazione dell’imputato, rappresentato ad ogni effetto del suo difensore, ed ha modificato, altresì, l’art. 548, comma 3, cod. proc. pen., eliminando l’obbligo di notifica dell’avviso di deposito della sentenza all’imputato contumace. (In motivazione, la Corte ha affermato che una diversa interpretazione non si sottrarrebbe a censure di incostituzionalità per ingiustificata disparità di trattamento rispetto alla disciplina del giudizio ordinario).

Alla stessa linea interpretativa aderivano le decisioni Sez. 2, n. 57918 del 25/09/2018, A., Rv. 2744473; Sez. 5, n. 57097 del 27/09/2018, S., Rv. 274391; Sez. 5, n. 22831 del 22/03/2019, S., Rv. 275405; Sez. 1, n. 8011 del 26/10/2018, Derjai; Sez. 1, n. 7100 del 16/01/2019, Puricella; Sez. 5, n. 19713 del 18/03/2019, Faggiano; Sez. 6, n. 12536 del 16/01/2019, Batidiane, Rv. 273677.

3. La linea antiabrogazionista della giurisprudenza minoritaria.

A questo orientamento se ne contrapponeva un altro per il quale «la sentenza emessa a seguito di rito abbreviato deve essere notificata all’imputato che non sia comparso per tutto il corso del giudizio, in quanto le previsioni contenute negli artt. 442, comma 3, cod. proc. pen. e 134 disp. att. stesso codice non possono ritenersi implicitamente abrogate dalla legge 28 aprile 2014, n. 67, che ha introdotto la nuova disciplina sull’assenza» (Sez. 3, n. 32505 del 19/01/2018, G., Rv. 273695).

In prima approssimazione, la disarticolazione della tesi dell’abrogazione implicita (evocata attraverso il richiamo di Sez. 3, n. 49164 del 6/10/2015, B., Rv. 265318-01, non essendo ancora intervenuta la decisione Careri) fondava sui seguenti argomenti.

a) Strumentalità dell’avviso in parola alla tutela del diritto fondamentale dell’imputato assente per tutta la durata del giudizio «alla piena conoscenza del risultato del processo, per la valutazione dell’eventuale impugnazione». La ratio risaltava nel confronto con la diversa regola dettata in tema di patteggiamento, richiamata attraverso la citazione di Sez. 3, n. 16690 del 26/02/2014, Casavecchia, Rv. 259300-01: «Nel caso in cui l’imputato abbia rilasciato procura speciale al difensore per procedere all’applicazione della pena su richiesta delle parti, non può farsi luogo alla declaratoria di contumacia, sicché la lettura in dibattimento del dispositivo e della motivazione contestuale equivale a notificazione della sentenza e da essa decorre il termine di quindici giorni per proporre impugnazione, non rilevando che all’imputato siano stati comunque effettuati avvisi dell’avvenuto deposito del provvedimento».

b) Scarsa persuasività dell’assunto secondo il quale il legislatore del 2014 abbia involontariamente «dimenticato di abrogare due norme importanti, come l’art. 442, comma 3, cod. proc. pen. e 134, disp. att. cod. proc. pen.», nel momento in cui interveniva «in maniera organica e completa sul codice di rito».

c) Incompatibilità della tesi dell’abrogazione tacita o del difetto di coordinamento legislativo, che nel caso di specie implicherebbe una sanzione processuale per l’imputato, con i principi convenzionali del giusto processo («che richiede sempre, per le norme penali e processuali penali un’interpretazione restrittiva e in favor rei») e dell’interpretazione ragionevole, da intendersi «come un sotto-criterio del principio di prevedibilità della norma (divieto di applicare la legge penale a detrimento dell’accusato)», affermato da Corte Edu, 25/11/1997, Grigoriades c. Grecia.

d) Confutazione dell’argomento incentrato sulla rappresentanza difensiva dell’imputato nel giudizio abbreviato, che striderebbe con il principio affermato in tema di diritto dell’imputato latitante, rappresentato dal difensore ai sensi dell’art. 165, comma 3, cod. proc. pen., alla notifica dell’estratto della decisione (Sez. 2, n. 10568 del 25/02/2003, Racise, Rv. 224335). Questa decisione, si afferma, dimostrerebbe che «la rappresentanza del difensore, da sola, non è idonea a far ritenere non dovuta la notifica».

Al medesimo orientamento vengono ascritte, dall’ordinanza di rimessione, altre pronunce concernenti la notifica all’imputato assente della decisione d’appello, per lo più intervenute prima della sentenza Careri (Sez. 3, n. 29286 del 27/03/2015, Fanale, Rv. 264301-01; Sez. 1, n. 33540 del 03/11/2015, Carini), e comunque, anche quando successive a quella pronuncia (Sez. 5, n. 10353 del 4/02/2019, Bontempo), prive di elementi di specifico confronto con gli argomenti dell’indirizzo avverso.

Il principio enunciato nella decisione Fanale, citata (ora adesivamente, ora criticamente) da molte pronunce in termini, recita: «In tema di giudizio abbreviato in grado di appello, l’imputato non comparso nel procedimento in camera di consiglio ha diritto alla notificazione dell’avviso di deposito del provvedimento che definisce il giudizio, ai sensi dell’art. 128 cod. proc. pen., anche se dello stesso è stata data lettura in udienza, sicché il termine per proporre impugnazione decorre solo dalla data della notificazione e non già da quella in cui sia avvenuta la pubblicazione della sentenza».

L’ordinanza di rimessione evidenziava l’incidenza del contrasto interpretativo sulle prassi degli uffici giudiziari «poiché alcuni continuano ad effettuare le notifiche suddette (all’imputato non comparso per tutto il giudizio abbreviato) ed altri uffici non le dispongono».

4. Il principio enunciato da Sez. U, n. 698 del 24/10/2019 – dep. 2020, Sinito, Rv. 277470. L’impianto della decisione.

Le Sezioni Unite hanno risolto la controversia interpretativa, aderendo all’indirizzo maggioritario ed enunciando il seguente principio di diritto: «A seguito della riforma della disciplina sulla contumacia, l’estratto della sentenza emessa nel giudizio abbreviato non deve più essere notificato, ai sensi degli artt. 442, comma 3, cod. proc. pen. e 134, disp. att. cod. proc. pen., all’imputato assente».

4.1. La ricostruzione diacronica della disciplina della costituzione dell’imputato nel giudizio abbreviato dal Codice del 1988 alla legge Carotti.

Il punto di partenza del ragionamento sviluppato dalla Corte consiste nella ricostruzione diacronica del quadro normativo pertinente, in termini che riproducono la storicizzazione effettuata nella decisione capofila dell’indirizzo maggioritario (Sez. 1, n. 31049 del 22/05/2018, Careri, Rv. 273485) con alcune, significative, puntualizzazioni.

L’operazione conduce la Corte a ritenere che, in realtà, le disposizioni in esame erano state già abrogate per effetto della legge della legge n. 479 del 1999 (cd. legge Carotti). Fu questa infatti ad estendere all’udienza preliminare, sede regolativa del giudizio abbreviato (art. 441, comma 1, cod. proc. pen.), l’istituto della contumacia che non era, invece, previsto nell’originaria configurazione del rito speciale.

Si determinò con quell’intervento il superamento della ratio essendi delle norme in discussione, come individuata dalla Relazione al progetto preliminare e al testo definitivo del codice di procedura penale del 1988 (§ 6.1.), nella quale si legge: «dal momento che la disciplina della contumacia non può trovare applicazione per l’udienza preliminare, ma considerato che quest’ultima ed il correlativo giudizio abbreviato possono ritualmente celebrarsi anche in assenza dell’imputato, è sembrato opportuno prevedere espressamente che la sentenza debba essere notificata all’imputato non comparso».

Era insomma un’esigenza di parallelismo tra i riti che potevano concludersi con la definizione nel merito della regiudicanda ad aver ispirato la previsione codicistica in parola. Quella previsione non aveva più ragion d’essere, una volta che, con l’estensione dell’istituto contumaciale, anche il condannato in abbreviato era divenuto beneficiario della notifica prevista dall’art. 548, comma 3, cod. proc. pen.

La riforma del ‘99 comportò anche una significativa innovazione terminologica dello status dell’imputato che avesse optato per il rito speciale.

La condizione del “non comparso”, alla quale fa riferimento la disposizione dell’art. 442, comma 3, cod. proc. pen., non fu più riferibile all’imputato nel giudizio abbreviato, o quanto meno non servì più a designare l’imputato non costituitosi nel giudizio abbreviato o nell’udienza preliminare:

«l’imputato, anche in quest’ultimo giudizio, (così come nel giudizio a cognizione ordinaria) assunse, alternativamente lo status di imputato “presente” (ove avesse assistito di persona al processo), “assente” (ove avesse acconsentito, anche se impedito, alla celebrazione del processo, o se detenuto, avesse rifiutato di assistervi: previgente art. 420-quinquies cod. proc. pen.) o “contumace” anche nel caso in cui al difensore fosse stata rilasciata procura speciale per la richiesta di ammissione al rito abbreviato: in terminis, Sez. 2, n. 40443 del 29/10/2008, Crapella, Rv. 241873-01; Sez. 4, n. 26671 del 26/05/2009, Sonnendorfen, Rv. 244508 – 01. La locuzione “non comparso” fu, invece, riservata all’imputato che, dopo essere comparso (e, quindi, dichiarato presente), si fosse allontanato dall’aula (art. 420-quinquies, nella versione della legge n. 479 del 1999) o non fosse comparso alle udienze successive (art. 420-bis nella versione della L. n. 67 del 2014): in questo caso, l’imputato – considerato presente – deve intendersi rappresentato dal difensore».

Per le ragioni indicate, la legge Carotti determinò, secondo il Collegio, un fenomeno di perfetta sovrapponibilità di due norme gerarchicamente equi-ordinate che, per il principio di coerenza dell’ordinamento giuridico, andava risolto ritenendo la disposizione dell’art. 442, comma 3, cod. proc. pen. tacitamente abrogata dall’omologo art. 548, comma 3, cod. proc. pen., che aveva visto espansa la sua portata in modo da assorbire l’esigenza di garanzia dell’imputato giudicato con il rito abbreviato.

Del fenomeno avevano preso atto diverse pronunce emesse nella vigenza della legge Carotti:

«Il suddetto dilemma interpretativo va, quindi, sciolto affermando in adesione alla giurisprudenza formatasi sul punto (Sez. 1, n. 24116 del 27/05/2009, Carcagnolo, Rv. 243972; sez. 6, n. 29356 del 08/06/2006, Rv.235092, Mascolo; Sez. 1, n. 36860 del 29/09/2005, Matarrese, Rv. 232586; Sez. 6, n. 35215 del 19/04/2017, S., Rv. 270911) che, a far data dal 2 gennaio 2000, e cioè dall’entrata in vigore della legge n. 479 del 2000, agli imputati giudicati con il rito abbreviato e dichiarati “contumaci”, si applicò, in via esclusiva, la norma di cui all’art. 548, comma 3, cod. proc. pen. e non più quella dell’art. 442, comma 3 cod. proc. pen., essendo stata questa tacitamente abrogata».

4.2. L’abrogazione dell’istituto contumaciale e della notifica ex art. 548, comma 3, cod. proc. pen.

Alla disciplina della legge Carotti ha poi fatto seguito, per impulso della Corte EDU (nel par. 2.3, la motivazione richiama Corte EDU, Pititto c. Italia, 12/06/2007; Corte EDU, Kollcaku c. Italia, 08/02/2007; Corte EDU, Sedovic c. Italia, 10/11/2014; Corte EDU, Somogyi c. Italia, 18/05/2004), la legge n. 67 del 2014 con la quale l’istituto della contumacia fu rimpiazzato da quello dell’assenza dell’imputato, pacificamente applicabile anche al giudizio abbreviato (v. tra le altre, Sez. 5, n. 19713 del 18/03/2019).

A detta innovazione si deve l’abrogazione dell’art. 548, comma 3, cod. proc. pen., e cioè della disposizione che, come detto, dal 2 gennaio 2000, disciplinava la notifica dell’estratto della sentenza di condanna, tanto per l’imputato non costituitosi nel giudizio ordinario, quanto per quello che avesse compiuto analoga scelta nel giudizio abbreviato.

Neppure in questa occasione il legislatore ha avuto cura di abrogare espressamente gli artt. 442, comma 3, cod. proc. pen. e 134 disp. att. cod. proc. pen. La dimenticanza ebbe, questa volta, risvolti più problematici:

«Il problema della compatibilità delle due norme, però, in concreto, si pose rare volte durante il periodo che va dall’entrata in vigore della legge n. 479 del 1999 all’entrata in vigore della legge n. 67 del 2014, per l’ovvia ed intuitiva ragione che, qualunque norma si ritenesse applicabile, all’imputato dichiarato contumace e giudicato con il rito abbreviato, andava comunque notificato l’estratto della sentenza contumaciale, proprio perché non vi era più alcuna differenza fra imputato contumace giudicato con rito ordinario e imputato contumace giudicato con rito abbreviato. Il problema, invece, si pose, nel momento in cui la legge n. 67 del 2014 abrogò la contumacia (e, con essa, anche la norma che, all’art. 548, comma 3, disponeva la notifica dell’estratto contumaciale), ma senza nulla disporre ancora una volta - in ordine al combinato disposto degli artt. 442, comma 3, cod. proc. pen. e 134 disp. att. cod. proc. pen. che, quindi, essendo rimasto formalmente in vigore, pareva essere ancora applicabile, sebbene al (solo) rito abbreviato».

Il differente impatto dei due interventi normativi non giustifica la soluzione auspicata dall’indirizzo minoritario. E qui la Corte sviluppa due tematiche: la prima, per escludere che l’abrogazione del sistema contumaciale abbia comportato la reviviscenza della notifica dell’estratto contumaciale della sentenza resa nel giudizio abbreviato, tacitamente abrogata dalla legge Carotti; la seconda, per evidenziare come l’abrogazione di quell’adempimento non comporti alcuna violazione dei principi del fair trial.

4.3. Nessuna reviviscenza dell’obbligo di notifica della decisione dopo la legge n. 67 del 2014.

Il Collegio si rifà all’insegnamento del giudice delle leggi che esclude l’operatività “in via generale e automatica” della tesi della reviviscenza perché questa «avrebbe come effetto il ritorno in vigore di disposizioni da tempo soppresse, con conseguenze imprevedibili per lo stesso legislatore, rappresentativo o referendario, e per le autorità chiamate a interpretare e applicare tali norme, con ricadute negative in termini di certezza del diritto; principio che è essenziale per il sistema delle fonti» (Corte cost., n. 13 del 2012, ripresa da Corte cost. n. 218 del 2015).

Le ipotesi ammesse dalla Consulta riguardano: a) l’annullamento da parte del giudice costituzionale di una norma abrogatrice di una norma precedente, come si è verificato con la dichiarazione di incostituzionalità della legge n. 49 del 2006, a seguito della quale ripresero vigore, in materia di traffico di droghe leggere, le cornici edittali del d.P.R. n. 309 del 1990; b) il ripristino previsto, in via eccezionale e in modo espresso, dallo stesso legislatore; c) l’abrogazione di una disciplina speciale che determina la riespansione di quella generale.

La vicenda normativa qui considerata non rientra in nessuna di queste ipotesi essendosi introdotta, anche con l’intervento del 2014, una disciplina ex novo della materia che non lascia «spazio alcuno alla possibilità di riespansione del combinato disposto degli artt. 442, comma 3, cod. proc. pen. e 134 disp. att. cod. proc. pen.» (par. 4.3).

Del resto, il ripristino dell’obbligo di notifica a favore, a questo punto, del solo imputato che abbia optato per il rito speciale comporterebbe la disparità di trattamento già segnalata dall’indirizzo maggioritario. Nella decisione Careri del 2018 si osservava che una tale soluzione «finirebbe per sortire effetti incostituzionali, creando una ingiustificata disparità di trattamento tra chi sia giudicato col rito abbreviato e chi scelga il giudizio ordinario, perché, a fronte della pari condizione di assenza, soltanto il primo avrebbe diritto alla notificazione dell’estratto della sentenza, sebbene rappresentato ed assistito da un difensore munito di procura speciale, che contribuisce ad assicurargli certa conoscenza del processo, cui ha scelto di non prendere parte».

Non ha pregio – osservano a questo punto le Sezioni Unite - l’argomento della tesi minoritaria incentrato sulla disparità di trattamento che, una volta esclusa la notifica di cui agli artt. 442, comma 3, cod. proc. pen. e 134 disp. att. cod. proc. pen., verrebbe a determinarsi tra l’imputato comune e il latitante.

In realtà, valgono per il latitante le medesime regole, in tema di costituzione in giudizio, che valgono per l’imputato libero o detenuto.

La peculiarità attiene unicamente alle stringenti ricerche richieste dalla legge per poter procedere alla dichiarazione di cui all’art. 295 cod. proc. pen. e alla notifica mediante consegna di copia al difensore che lo rappresenta ad ogni effetto (art. 165 cod. proc. pen.). L’incompletezza delle ricerche potrebbe ripercuotersi sulla verifica richiesta dall’art. 420-bis, comma 2, cod. proc. pen. (conoscenza del procedimento o volontaria sottrazione alla conoscenza del procedimento o di atti del medesimo), nelle battute iniziali del procedimento in assenza.

Nessuna norma vigente prescrive, invece, che al latitante continui a spettare la notifica della decisione di primo grado, abrogata in termini generali dalla legge n. 67 del 2014. Anche per l’imputato latitante del giudizio abbreviato dunque la notifica dovuta prima dell’ultima riforma (a quella fase era riferita la decisione Sez. 3, n. 10568 del 25/02/2003, Racise, Rv. 224335, richiamata dall’indirizzo minoritario) è oggi inattuale.

4.4. Confutazione del paventato contrasto della tesi abrogazionista con i principi CEDU: la superfluità della notifica della decisione nel sistema in absentia.

Nel paragrafo 6 della motivazione, il Collegio confuta il paventato contrasto della tesi dell’abrogazione tacita della notifica in parola con i principi convenzionali.

Con riferimento al principio di prevedibilità della norma, inteso come divieto di applicare la legge penale a detrimento dell’accusato, il Collegio ha buon gioco nel rilevare che il caso richiamato dall’ordinanza di rimessione e dalla giurisprudenza antiabrogazionista (Corte Edu, 25/11/1997, Grigoriades c. Grecia), attiene in realtà alla precisione/determinatezza della fattispecie incriminatrice.

In effetti, la decisione affrontava il tema della conformità al canone della lex certa, dettato dall’art. 7 della Convenzione, di una disposizione incriminatrice, l’art. 74 del codice penale militare greco, che incriminava un reato assimilabile al nostro vilipendio (“insulte au drapeau ou aux forces armées”), con la formula «Encourt une peine d’emprisonnement d’au moins six mois tout membre des forces armées qui insulte le drapeau, les forces armées ou un emblème de leur commandement. S’il s’agit d’un officier, il est également privé de son grade». La Corte EDU richiamava (§37) la propria giurisprudenza - secondo la quale «il diritto interno applicabile deve essere formulato con un livello di precisione sufficiente a consentire alle persone interessate – avvalendosi, se del caso, di assistenza tecnica – di prevedere, “à un degré raisonnable dans les circonstances de la cause”, le conseguenze potenziali di una determinata condotta» (§ 37) – per poi escludere, nel caso di specie, la lamentata violazione: «Certo, l’articolo […] era formulato in termini molto ampi. La Corte ritiene tuttavia che esso corrispondeva all’indicata esigenza di prevedibilità. Se si considera il significato comune del termine “insultare” – che è identico a quello del verbo “offendere” – il ricorrente avrebbe dovuto essere perfettamente consapevole di correre il rischio di incorrere in una sanzione penale. Ne deriva che la censurata “ingerenza” era prevista dalla legge » (§ 38).

Evidenziato come analoghi principi fossero stati enunciati nei più recenti casi Corte EDU, 14/04/2015, Contrada c. Italia e 23/02/2017, De Tommaso c. Italia, le Sezioni Unite osservano che l’art. 7 CEDU – a detta degli stessi giudici di Strasburgo (Corte EDU, 17/09/2009, Scoppola c. Italia, 17) - «non è un principio dell’ordinamento processuale» ed «è pertanto improprio veicolare, tout court, in ambito sicuramente processuale – com’è la questione in esame – principi che, pacificamente, attengono al diritto penale sostanziale» (par. 6).

L’ordinamento processuale è, invece, regolato dal principio tempus regit actum che trova il suo riscontro interno nell’art. 11 delle preleggi (Sez. U, n. 27919 del 31/03/2011, Ambrogio, Rv. 250196; Sez. U, n. 44895 del 17/07/2014, Pinna, Rv. 260927).

Il principio è pienamente osservato nel caso in esame, posto che «non è in discussione che l’abrogazione della notifica dell’estratto della sentenza si applica dal 2 gennaio 2000 e cioè dall’entrata in vigore della legge n. 479 del 2000; che gli atti compiuti nel vigore della legge previgente restano validi; che la nuova disciplina, non ha effetto retroattivo».

Alla considerazione di ordine formale, fa seguito un rilievo inteso a escludere che, nel caso di specie, si sia verificata una modifica globalmente peggiorativa dell’assetto precedente.

Aderendo alla prospettiva del filone Careri, il Collegio sottolinea l’incremento di garanzie che il sistema introdotto nel 2014 ha realizzato rispetto a quello previgente, un incremento che è tale da non far rimpiangere l’abolizione della notifica, segnalandone anzi, anche sul piano funzionale, l’inattualità.

La notifica aveva, infatti, un senso nel sistema contumaciale «in quanto, essendo questo fondato su una presunzione, aveva una funzione di garanzia essendo tesa a notiziare l’imputato (potenzialmente restato all’oscuro del processo) dell’esito del processo al fine di consentirgli di proporre eventualmente impugnazione».

L’adempimento è del tutto superfluo nel nuovo contesto normativo (artt. 420-bis, 420-ter, 420-quater, 420-quinquies cod. proc. pen.) che «prevede una serie di accertamenti in fatto molto rigorosi prima che si possa procedere in absentia e che rende, pertanto, del tutto superflua la notifica dell’estratto di quella sentenza della quale l’imputato è sicuramente a conoscenza».

Si tratta di un nuovo equilibrio che, avuto riguardo anche agli impulsi sovranazionali che lo hanno determinato, non determina frizioni con il fair trial, tanto più che, nell’ottica “sostanzialistica” della Corte EDU, «ciò che rileva è se vi sia una lesione delle garanzie da parte dell’ordinamento nazionale, non le modalità con le quali quelle garanzie vengono tutelate».

Nessun ostacolo, a questo punto, si frappone alla ricezione della tesi dell’abrogazione tacita della notifica in parola, ai sensi dell’art. 15 delle preleggi e del criterio logico che vi è sotteso, disposizione con la quale – conclude la Corte – «la tesi qui non condivisa non si è mai realmente misurata».

5. L’impregiudicata tutela dell’affidamento incolpevole e gli scenari per il prospective overruling in ambito penale.

In un inciso, che conclude il ragionamento sulla legittimità convenzionale della soluzione adottata, il Collegio afferma: «Peraltro, va precisato che, nella presente fattispecie, resta impregiudicata la problematica dell’affidamento incolpevole derivante da un imprevedibile mutamento della giurisprudenza».

La laconicità dell’enunciato non consente deduzioni certe.

Considerato il contesto, è però probabile che la Corte abbia voluto esprimere, sul piano generale, una cauta apertura verso il cd. prospective overruling, ovvero verso quel meccanismo di tutela della parità delle parti nel processo, che «consente di limitare gli effetti retroattivi del mutamento giurisprudenziale e di sterilizzare degli effetti applicativi della legge processuale nel caso di una nuova interpretazione resa dal giudice di legittimità, pur sempre riconducibile alla legge interpretata, ma potenzialmente idonea a pregiudicare la tutela giurisdizionale della parte che ha ispirato la propria condotta processuale all’interpretazione precedentemente seguita, facendo su di essa legittimo affidamento» (Sez. U civili, n. 4135 del 12/02/2019, § 11.6 della motivazione).

Se così fosse, si tratterebbe di un’apertura importante, non constando precedenti applicazioni del meccanismo da parte della giurisprudenza penale di legittimità.

E’ un segno forse di consapevolezza delle nuove responsabilità insite nel carattere (relativamente) vincolante che il dictum delle Sezioni unite ha assunto, in forza dell’introduzione dell’art. 618, comma 1-bis cod. proc. pen., da parte della legge 23 giugno 2017, n. 103. Una disposizione che, consacrando il concorso della giurisdizione nomofilattica alla “nomopoiesi” (jus constitutionis), avvicina l’esperienza italiana a quella dei paesi di common law, dove il prospective overruling è indispensabile temperamento dello stare decisis.

La materia della decisione rientra nell’ambito elettivo di applicazione della decisione pro futuro, se si guardano i precedenti della giurisprudenza civile di legittimità che riguardano questioni di decadenza, preclusione di facoltà processuali, inammissibilità di impugnazioni, come quelle che vengono in gioco nel caso di specie. E del resto, la base legale del meccanismo è comunemente individuata nell’art. art. 153, comma 2, cod. proc. civ. («La parte che dimostra di essere incorsa in decadenze per causa ad essa non imputabile può chiedere al giudice di essere rimessa in termini.»), la disposizione che, nel processo civile, assolve funzione omologa a quella dell’art. 175 cod. proc. pen.

Dall’esperienza civilistica si traggono utili indicazioni sui presupposti di operatività del prospective overruling, che possono aiutarci a formulare ipotesi sul perché la Corte non abbia ritenuto di applicarlo al caso di specie; sul perché cioè non abbia scelto di affermare pro futuro il principio dell’inattualità della notifica della decisione resa all’esito del giudizio abbreviato, sterilizzandone gli effetti nei confronti della ricorrente che, al tempo dell’appello dichiarato inammissibile, poteva aver fatto affidamento sulla persistenza formale delle disposizioni più volte richiamate.

I presupposti attengono da un lato alle caratteristiche del mutamento giurisprudenziale che può giustificare l’uso del meccanismo; dall’altro, ai requisiti dell’affidamento del cittadino nella persistenza della regola, perché questo sia meritevole di tutela.

Intanto, può darsi che la Corte non abbia ritenuto di trovarsi al cospetto di un mutamento imprevedibile della giurisprudenza che, per essere idoneo a vanificare l’effettività del diritto di azione e di difesa, deve presentarsi «se non proprio repentino, quanto meno inatteso, o comunque privo di preventivi segnali anticipatori del suo manifestarsi, quali possono essere quelli di un, sia pur larvato, dibattito dottrinale o di un qualche significativo intervento giurisprudenziale sul tema» (Sez. U civ., n. 17402 del 12/10/2012, Rv. 623574-01); non essendo sufficiente la variazione di indirizzo che si innesta su un quadro di incertezza interpretativa delle norme processuali, in assenza di un orientamento consolidato della Corte di cassazione; così come dell’affidamento riposto dalla parte in un orientamento che non è poi prevalso (Sez. 6 civ., Ord. n. 3782 del 15/02/2018, Rv. 647980-01).

Se si considerano i passaggi della decisione in esame relativi ai pronunciamenti della giurisprudenza di legittimità che, almeno dal 2005, ritenevano abrogate dalla legge Carotti le previsioni degli artt. 442, comma 3, cod. proc. pen. e 134 disp., att. cod. proc. pen., in favore dell’art. 548, comma 3, cod. proc. pen. (decisioni Matarrese, Mascolo e Carcagnolo, richiamate nel par. 4.1), è plausibile che la Corte non abbia ritenuto l’indirizzo abrogazionista davvero privo di segni premonitori.

In aggiunta, o in alternativa, a questa ipotesi devono considerarsi i contenuti di forte responsabilizzazione del difensore tecnico, enucleabili dalla giurisprudenza civile in materia.

In un arresto recente (Sez. U civ., n. 4135 del 12/02/2019, §§12.3.1-12.4), la Corte esalta il ruolo della difesa tecnica, coinvolgendola nella funzione nomopoietica che è imposta dalla complessità dei processi interpretativi ed è «distribuita tra tutti i soggetti dell’ordinamento, continuamente alimentata dal dibattito processuale». Si fa appello al precetto dell’art. 1176, comma 2, cod. civ. e al «fondamentale dovere di precauzione», declinato nel senso che «nella pluralità dei significati plausibili inclusi nel potenziale semantico del testo legislativo, deve scegliere quello più rigoroso, ovvero il senso che ponga la parte assistita quanto più possibile al riparo da decadenze e preclusioni».

Riecheggiano in queste parole principi frequentemente affermati dalla giurisprudenza penale intervenuta in casi tipologicamente affini a quello risolto dalla decisione in commento, o con esso coincidenti (Sez. 6, n. 35215 del 19/04/2017, S., Rv. 270911).

Si consideri, tra le altre, Sez. 2, n. 48737 del 21/07/2016, Startari, Rv. 268438–01: «L’inesatto adempimento della prestazione professionale da parte del difensore di fiducia, a qualsiasi causa ascrivibile, non è idoneo a realizzare le ipotesi di caso fortuito o forza maggiore, che si concretano in forze impeditive non altrimenti vincibili, le quali legittimano la restituzione nel termine, poiché consistono in una falsa rappresentazione della realtà, superabile mediante la normale diligenza ed attenzione; né può essere esclusa, in via presuntiva, la sussistenza di un onere dell’assistito di vigilare sull’esatta osservanza dell’incarico conferito, nei casi in cui il controllo sull’adempimento defensionale non sia impedito al comune cittadino da un complesso quadro normativo. (Nella specie, la S.C. ha escluso la possibilità di restituzione in termini per proporre impugnazione, non ravvisando caso fortuito o forza maggiore nell’omesso controllo del deposito della sentenza da parte del difensore di fiducia, e nella conseguente mancata verifica del decorso del termine per impugnare)».

Può darsi allora che l’assistenza del difensore tecnico e procuratore speciale – iscritto per di più nel foro milanese, ove le prassi di cancelleria degli uffici giudiziari da tempo ritengono superato l’adempimento in parola - abbia inciso sulla scelta di ritenere la tardiva proposizione dell’appello ascrivibile, nel caso di specie, a inescusabile errore di diritto, piuttosto che ad incertezza normativa oggettiva (Sez. L, ord. n. 25667 del 27/10/2017, Rv. 646378; Sez. 5 civ., ord. n. 15452 del 13/06/2018, Rv. 649184).

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione penale

Sez. U, n. 6706 del 31/5/1991, Pitteri, Rv. 187640

Sez. U, n. 16 del 15/12/1992 (dep. 1993), Cicero, Rv. 192806

Sez. U, n. 1 del 19/01/1994, Coronato, Rv. 196714

Sez. U, n. 1 del 19/01/2000, Tuzzolino, Rv. 216237

Sez. U, n. 35399 del 24/06/2010, F.

Sez. U, n. 27919 del 31/03/2011, Ambrogio, Rv. 250195-250196

Sez. U, n. 4694 del 27/10/2011, Casani, Rv. 251272

Sez. 2, n. 4354 del 17/10/1994, Miceli, Rv. 199705

Sez. 5, n. 8942 del 19/06/1995, Dimichino

Sez. 1, n. 5887 del 5/05/1997, Gruber, Rv. 207929-01

Sez. 2, n. 10568 del 25/02/2003, Racise, Rv. 224335

Sez. 6, n. 10062 del 2/12/2004, Bernabei, Rv. 231117

Sez. 3, n. 17846 del 23/03/2005, Sposetti, Rv. 231985

Sez. 1, n. 36860 del 29/09/2005, Matarrese, Rv. 232586-01

Sez. 6, n. 29356 del 08/06/2006, Mascolo, Rv. 235092-01

Sez. 6, n. 33259 del 14/05/2007, Di Martino, Rv. 237484 - 01

Sez. 1, n. 31699 del 15/04/2010, Pietrantonio, n.m.

Sez. 4, n. 31657 del 20/05/2010, Di Roma, Rv. 248098–01

Sez. 3, n. 35740 del 08/06/2011, Ndoye, Rv. 251239–01

Sez. 6, n. 32955 del 07/06/2012, Cataldo, Rv. 253117-01

Sez. 4, n. 41392 del 24/09/2013, Perdonò, Rv. 256403-01

Sez. 6,n. 14830 del 26/02/2014, Alaimo, Rv. 259502-01

Sez. U, n. 44895 del 17/07/2014, Pinna, Rv. 260927

Sez. 5, n. 19279 del 27/03/2015, S., Rv. 264849–01

Sez. 2, n. 23749 del 08/05/2015, Bracchi, Rv. 264228-01

Sez. 3, n. 49164 del 6/10/2015, B., Rv. 265318

Sez. 1, n. 33540 del 3/11/2015 (dep. 2016), Carini

Sez. 2, n. 48737 del 21/07/2016, Startari, Rv. 268438–01

Sez. 6, n. 35215 del 19/04/2017, S., Rv. 270911

Sez. 3, n. 32505 del 19/01/2018, G., Rv. 273695

Sez. 6, n. 27188 del 27/04/2018, Stoica

Sez. 2, n. 57918 del 25/09/2018, A., Rv. 2744473

Sez. 5, n. 57097 del 27/09/2018, S., Rv. 274391.

Sez. 1, n. 8011 del 26/10/2018, Derjai

Sez. 1, n. 7100 del 16/01/2019, Puricella

Sez. 6, n. 12536 del 16/01/2019, Batidiane

Sez. 6, Ordinanza n. 9435 del 29/01/2019

Sez. 5, n. 10353 del 4/02/2019, Bontempo

Sez. 5, n. 19713 del 18/03/2019, Faggiano

Sez. 5, n. 22831 del 22/03/2019, S., Rv. 275405

Le pronunce della Corte di cassazione civile

Sez. U, n. 17402 del 12/10/2012, Rv. 623574-01

Sez. U, n. 4135 del 12/02/2019, Rv. 652852-01

Sez. L, Ordinanza n. 25667 del 27/10/2017, Rv. 646378

Sez. 6, Ord. n. 3782 del 15/02/2018, Rv. 647980-01

Sez. 5 civ., ord. n. 15452 del 13/06/2018, Rv. 649184

Sentenze della Corte costituzionale

Corte cost., sent. n. 13 del 2012

Corte cost., sent. n. 218 del 2015

Sentenze della Corte EDU

Corte Edu del 25/11/1997, Grigoriades c. Grecia

Corte EDU del 18/05/2004, Somogyi c. Italia

Corte EDU del 08/02/2007, Kollcaku c. Italia

Corte EDU del 12/06/2007, Pititto c. Italia

Corte EDU del 17/09/2009, Scoppola c. Italia

Corte EDU del 10/11/2014, Sedovic c. Italia

Corte EDU del 14/04/2015, Contrada c. Italia

Corte EDU del 23/02/2017, De Tommaso c. Italia

SEZIONE V PROCEDIMENTI SPECIALI

  • diritti della difesa

CAPITOLO I

ABBREVIATO CONDIZIONATO E MODIFICA DELL’IMPUTAZIONE NON COLLEGATA ALL’ATTIVITA’ INTEGRATIVA ESPLETATA

(di Marzia Minutillo Turtur )

Sommario

1 La questione controversa. - 2 La giurisprudenza di legittimità sul tema. - 3 La sentenza della Corte costituzionale n. 140 del 2010. - 4 Considerazioni di sintesi. - Indice delle sentenze citate

1. La questione controversa.

La questione rimessa alle Sezioni Unite trae origine da un contrasto di giurisprudenza sul tema della possibilità di modificare l’imputazione, o effettuare una contestazione suppletiva, in sede di giudizio abbreviato condizionato, quando la modifica dell’imputazione non sia in alcun modo collegata all’attività integrativa espletata, bensì si ricolleghi ad atti di indagine già noti e desumibili dalle indagini preliminari. Nel caso concreto affrontato veniva disposto il giudizio immediato per le imputazioni di omicidio e incendio. L’imputato chiedeva ritualmente di accedere al rito abbreviato, condizionato ad un accertamento peritale sul proprio telefono cellulare; rito ammesso dal giudice contestualmente ad ulteriori integrazioni istruttorie disposte d’ufficio. Venivano, quindi, realizzate le attività disposte d’ufficio e il Pubblico Ministero, prima ancora dell’espletamento dell’accertamento peritale, contestava in via suppletiva alcune aggravanti da riferire all’omicidio contestato, tra le quali quella dei motivi abietti e futili (in considerazione della gelosia che aveva spinto l’imputato ad agire), nonché un ulteriore capo di imputazione relativo all’occultamento di cadavere. La difesa dell’imputato sia dinnanzi al G.i.p. nell’immediatezza, che dinnanzi alla Corte d’Assise d’appello con i motivi di appello, rilevava l’inammissibilità di siffatte contestazioni poiché non correlate in alcun modo alle integrazioni probatorie richieste e disposte. Sia il G.i.p. che la Corte d’Assise di appello di Perugia hanno rigettato l’eccezione in tal senso proposta e l’imputato veniva condannato dalla Corte d’Assiste di appello di Perugia per il delitto di omicidio aggravato dai motivi abietti e futili, esclusa la premeditazione, nonché in ordine ai delitti, unificati dalla continuazione, di danneggiamento di veicolo seguito da pericolo di incendio e occultamento di cadavere, alla pena di trenta anni di reclusione, già diminuita ex art. 442, comma 2, cod. proc. pen. Il difensore dell’imputato ha proposto ricorso per cassazione articolando quattro motivi. Quanto alla questione rimessa alle Sezioni Unite della Corte, ha dedotto, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. c), la violazione della legge processuale, e segnatamente degli art. 438, 441, e 441- bis cod. proc. pen. In particolare il difensore ha sostenuto che la modifica dell’imputazione - quanto alle aggravanti dell’omicidio e alla nuova contestazione del delitto di occultamento di cadavere - non correlata in alcun modo all’integrazione probatoria espletata e ammessa in sede di abbreviato condizionato, sarebbe nulla, considerata la patologia riscontrata nell’azione del Pubblico Ministero, come evidenziata anche dalla decisione n. 140 del 2010 della Corte costituzionale.

La Prima Sezione penale ha rimesso la questione alle Sezioni Unite ed ha evidenziato che la questione della ritualità delle contestazioni suppletive elevate dal Pubblico Ministero nel corso del giudizio di primo grado (abbreviato condizionato) appare suscettibile di dar luogo a contrasto in seno alla giurisprudenza della Corte, con conseguente rimessione alle Sezioni Unite ex art. 618, comma 1, cod. proc. pen. della questione così formulata: «Se nel corso del giudizio abbreviato condizionato ad integrazione probatoria o nel quale l’integrazione sia stata disposta dal giudice, sia consentito procedere alla modificazione dell’imputazione o a contestazioni suppletive con riguardo a fatti già desumibili dagli atti delle indagini preliminari e non collegati agli esiti dei predetti atti istruttori». Il collegio ha osservato come sia da ritenere esatta la premessa da cui muove il ricorso, considerato che le contestazioni oggetto del motivo di ricorso concernevano effettivamente fatti già risultanti dagli atti d’indagine espletati al momento dell’esercizio dell’azione penale, a seguito del quale l’imputato si era determinato a richiedere il rito abbreviato (tradimento all’origine del movente gelosia e vendetta, qualificato dall’accusa come motivo abietto e futile, così come l’avvenuto occultamento del cadavere). Si trattava dunque di elementi già parte del compendio investigativo prima che venisse emessa l’ordinanza ammissiva del rito. La perizia fonica richiesta dall’imputato e l’esame del medico legale disposto dal giudice non avevano alcuna correlazione con le modificazioni operate dal Pubblico Ministero, nonostante il richiamo effettuato dallo stesso a tali attività nell’ambito delle proprie richieste. Il collegio remittente ha sottolineato come il movente passionale, così come l’occultamento del cadavere, fossero emersi a pochi giorni dal ritrovamento dell’auto, proprio grazie alle dichiarazioni confessorie dell’imputato e al contributo dichiarativo della moglie dello stesso. Non può quindi considerarsi ricorrente alcun nesso tra il contenuto dell’accusa suppletiva e le risultanze integrative del giudizio abbreviato condizionato richiesto dall’imputato ed ammesso dal giudice. Ciò premesso, è stata richiamata la presenza nell’ambito della giurisprudenza di legittimità di un orientamento interpretativo, considerato costante e radicato anche dal giudice di primo e di secondo grado, che afferma senza alcun dubbio la possibilità in caso di rito abbreviato condizionato di articolare contestazioni, ex art. 423 cod. proc. pen., che non derivino da nuove emergenze, ma riguardino fatti o circostanze già in atti. (Sez. 2, Sentenza n. 23466 del 09/06/2005, Scozzari, Rv. 231993, Sez. 5, Sentenza n. 7047 del 27/11/2008, Reinhard, Rv. 242962).

È stato tuttavia evidenziato come in tali decisioni non venga affrontata direttamente la questione della legittimità delle contestazioni suppletive basate su materiale non collegato all’integrazione istruttoria in sede di giudizio abbreviato condizionato; tale possibilità viene di fatto implicitamente ammessa, mentre l’oggetto della decisione è rappresentato dalla possibilità per l’imputato di esercitare lo ius poenitendi concesso dall’art. 441 – bis cod. proc. pen. In concreto la facoltà di recedere dal rito speciale è stata negata e si è affermato che i fatti oggetto della contestazione sono privi del connotato della novità, perché già compresi tra gli atti d’indagine, senza alcuna necessità di tutela rispetto ad iniziative che l’imputato ben avrebbe potuto prevedere (nello stesso senso Sez. 6, Sentenza n. 5200 del 15/11/2017, Ribaj, Rv. 272214). È stata inoltre richiamata Sez. 4, n. 48280 del 26/09/2017 Squillante, Rv. 271293, secondo la quale in sede di giudizio abbreviato, in presenza di integrazione istruttoria disposta ex art. 441, comma 5, cod. proc. pen., è legittima la modifica dell’imputazione da parte del Pubblico Ministero mediante contestazione suppletiva, anche quando i fatti oggetto della nuova contestazione siano emersi nel corso delle indagini preliminari, decisione che si pone quindi in continuità con la giurisprudenza di legittimità relativa all’art. 423 cod. proc. pen., da interpretare quale attuazione della direttiva contenuta nell’art. 2, punto 52, della legge delega 16 Febbraio 1987, n. 81 (che prevede la facoltà per il legislatore delegato di assegnare al Pubblico Ministero “nell’udienza preliminare” il potere di modificare l’imputazione e procedere a nuove contestazioni). Nel percorso motivazionale di questa decisione si giunge ad un’equiparazione piena tra la disciplina prevista per l’udienza preliminare e la disciplina relativa al giudizio abbreviato condizionato, equiparazione che non viene condivisa dal collegio remittente. Tale conclusione è da ritenere, secondo l’ordinanza di rimessione, in contrasto con la disciplina positiva del rito speciale che, per quanto riguarda il caso di abbreviato c.d. “puro” ai sensi dell’art. 441, comma 1, cod. proc. pen., preclude qualsiasi variante dell’originaria imputazione, come chiarito dall’espressa esclusione dell’applicazione nell’ambito del giudizio abbreviato, ex art. 441, comma 1, dell’art. 423 cod. proc. pen., con cristallizzazione dell’accusa (elemento questo considerato fondamentale nella prospettiva di un vantaggio effettivo per l’imputato nell’accesso al rito).

In applicazione di tale disciplina la Corte di cassazione ha più volte sottolineato, come evidenzia l’ordinanza di rimessione, che la violazione della previsione in questione determina una nullità a regime intermedio della sentenza pronunciata all’esito di tale giudizio. (Sez. 1, Sentenza n. 3758 del 07/11/2013, Costa, Rv. 258260, Sez. 6, Sentenza n. 13117 del 19/01/2010, Yassine, Rv. 246680, Sez. 4, Sentenza n. 12259 del 14/02/2007, Biasotto, Rv. 236199). Sicché se è sempre possibile la mera riqualificazione in diritto dell’imputazione, tuttavia il giudizio abbreviato puro deve svolgersi secondo la sua struttura tipica, ovvero allo stato degli atti. Ciò posto, a parere del collegio remittente, le deroghe alla disciplina generale introdotte con la legge 479 del 1999, con l’ammissione del giudizio abbreviato condizionato, e conseguentemente con la nuova previsione di possibili contestazioni suppletive, devono essere interpretate e considerate come eccezioni al regime ordinario, non estensibili oltre il sistema di specifico riferimento (art. 438, comma 5, e art. 441, comma 5, cod. proc. pen.). Esclusivamente l’emersione di elementi di novità giustifica una sopravvenuta correlazione dell’imputazione alle diversità emerse dall’istruttoria richiesta dall’imputato o disposta dal giudice. In mancanza si creerebbe un’ingiustificata disparità di trattamento tra un giudizio abbreviato che, nel caso sia stato condizionato dall’imputato, pur in assenza di elementi di novità, potrebbe portare a contestazioni suppletive, rispetto ad un giudizio abbreviato “puro” rispetto al quale tali nuove contestazioni non sono ammissibili, essendone esclusa la possibilità ai sensi dell’art. 423 cod. proc. pen.

Viene quindi rilevata una asimmetria sistematica nella concessione di un così ampio e incodizionato ius variandi della pubblica accusa in danno dell’imputato, rispetto a fatti e circostanze che avrebbero potuto essere oggetto di considerazione da parte del Pubblico Ministero sin dall’inizio, realizzando una oggettiva situazione di patologia processuale (errori, inerzie o colpevoli omissioni del P.M.). Viene richiamato anche il chiaro fondamento costituzionale nell’interpretazione proposta ai sensi della decisione n. 140 del 2010 della Corte costituzionale che, nel dichiarare infondata la questione di legittimità del rito abbreviato nella parte in cui non consente al Pubblico Ministero di effettuare contestazioni suppletive anche in assenza di integrazioni probatorie disposte dal giudice, sulla base di atti e circostanze già in atti e note all’imputato, ha giudicato errata la tesi ermeneutica secondo la quale nell’abbreviato con integrazione probatoria la contestazione suppletiva possa prescindere dagli esiti di quest’ultima ed effettuarsi sulla base di circostanze già risultanti dagli atti. L’adeguamento dell’imputazione può essere conseguenza solo ed esclusivamente di un arricchimento della piattaforma probatoria. Rimane infatti immutata la previsione di cui all’art. 441, comma 1, cod. proc. pen. ed è solo in via di mera eccezione al sistema complessivamente previsto che si consente al Pubblico Ministero in sede di giudizio abbreviato di formulare contestazioni suppletive, ma solo in caso di modificazione della base cognitiva quale conseguenza diretta dell’integrazione disposta. Deve dunque secondo il collegio essere esclusa la possibilità di rivalutare a posteriori elementi già acquisiti in precedenza al fine di giungere ad un ampliamento dell’accusa.

La contestazione c.d. “patologica”, oggetto anche di successive valutazioni della Corte costituzionale, seppure relative alla fase dibattimentale, evidenzia la posizione diversa e deteriore nella quale l’imputato viene a trovarsi, suo malgrado, quanto alla facoltà di accesso consapevole a riti alternativi. (Corte cost. n. 273 del 2012, n. 273 del 2014, n. 139 del 2015, n. 206 del 2017).

2. La giurisprudenza di legittimità sul tema.

Come sottolineato dall’ordinanza di rimessione, la questione proposta all’attenzione delle Sezioni Unite avrebbe potuto essere oggetto di potenziale contrasto. Non è stato, infatti, riscontrato uno sviluppo autonomo della questione, così come posta, nella giurisprudenza di legittimità secondo filoni interpretativi contrapposti.

La problematica interpretativa è stata affrontata implicitamente nelle prime decisioni, citate anche dall’ordinanza di remissione, con riferimento allo ius poenitendi. In altre decisioni è stata considerata indirettamente, in relazione al vizio di nullità della sentenza che decida su un’imputazione contestata patologicamente ed, esplicitamente, dalla sola decisione della Sezione 4, n. 48280 del 26/09/2017, Squillante, Rv. 271293.

Occorre tuttavia considerare come il tema delle c.d. contestazioni suppletive a carattere “patologico” sia stato indagato e considerato in modo ampio e rilevante dalla giurisprudenza di legittimità e costituzionale quanto alla loro proponibilità in dibattimento, sia in relazione al fatto diverso nelle sue diverse declinazioni, che in considerazione del fatto nuovo, al fine di garantire a posteriori all’imputato il pieno accesso al rito abbreviato e agli altri riti alternativi, considerata l’intervenuta modifica dell’imputazione (sulla base di elementi già presenti nella fase di indagine).

Da ricordare per la sua particolare rilevanza in tal senso la decisione delle Sez. U, n. 16 del 19/06/1996, Di Francesco, Rv. 205619, che ha esaminato il tema del fatto nuovo e diverso nelle più varie articolazioni, incentrando la decisione sulla differenza tra modifica del fatto e della sua qualificazione giuridica, affermando che il fatto è un dato empirico, fenomenico, un dato della realtà, un accadimento, un episodio della vita umana, e dunque la fattispecie concreta e non la fattispecie astratta costituita dallo schema legale. È proprio in questo contesto che l’art. 423, comma 1, cod. proc. pen. stabilisce che spetta solo al Pubblico Ministero rilevare e contestare che il fatto è empiricamente diverso da quello descritto nel capo di imputazione, e in tal senso fatto diverso e dunque più ricco è stato ritenuto anche il caso in cui alla descrizione iniziale si aggiunga una circostanza aggravante

Tornando alla questione sollevata, dunque, l’imputazione avrebbe dovuto essere valutata adeguatamente nella sua completa articolazione per giungere ad una scelta piena e consapevole quanto ad un giudizio alternativo al dibattimento. Come è noto, inizialmente la giurisprudenza di legittimità aveva avuto un atteggiamento non favorevole all’estensione al rito abbreviato della disciplina relativa alle nuove contestazioni in dibattimento a carattere patologico, con possibilità per l’imputato di richiedere la rimessione in termini per l’accesso al rito. Ciò anche in considerazione dell’elaborazione della giurisprudenza di legittimità, in particolare di Sez. U, n.4del28/10/1998, Barbagallo, Rv.212757, che pur considerando ammissibili le contestazioni tardive, escludeva la possibilità di una rimessione in termini per articolare richiesta di abbreviato in base ad una pretesa assunzione del rischio da parte dell’imputato. La Giurisprudenza costituzionale non aveva invece escluso l’irragionevolezza della preclusione, rilevando però l’inammissibilità di un intervento manipolativo, considerata la preminenza in materia della discrezionalità rimessa al legislatore. In seguito, tuttavia, nonostante diversi richiami al legislatore allo scopo di integrare la disciplina delle contestazioni tardive in dibattimento quanto al rito abbreviato, è intervenuta la prima decisione della Corte cost. a contenuto additivo, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 517 cod. proc. pen. nella parte in cui non prevedeva la facoltà dell’imputato di richiedere il giudizio abbreviato quanto al reato concorrente contestato in dibattimento, ma basato su circostanze che già risultavano dagli atti di indagine preliminare, al momento dell’esercizio dell’azione penale, nonché ad esito di c.d. autorimessione l’illegittimità costituzionale dell’art. 516 cod. proc. pen. per quanto riguarda il fatto diverso contestato in dibattimento con le medesime caratteristiche (Corte cost. n. 333 del 2009). È emerso chiaramente in queste decisioni come la scelta di accesso al rito per l’imputato non possa essere condizionata e limitata a causa di negligenza del Pubblico Ministero. Rileva, quindi, un’efficace considerazione del diritto di difesa dell’imputato a fronte dell’ordinaria fluidità dell’accusa in dibattimento, che appunto trova un limite nella necessità di un corretto esercizio della azione penale. Dunque, quando muta in itinere il tema d’accusa, l’imputato deve poter rivedere le proprie opzioni riguardo al rito da seguire.

Ciò premesso, il tema che emerge quale conseguenza della questione sollevata è l’esercizio di un pieno diritto di difesa da parte dell’imputato, anche alla luce delle decisioni della Corte EDU (il riferimento principale è ovviamente alla decisione della Corte EDU c.d. Drassich/1 del 11/12/2007, che ha affermato il diritto dell’imputato ad essere informato del contenuto dell’accusa ai sensi dell’art. 6, par. 3, CEDU con riguardo non solo ai fatti materiali attribuiti all’imputato, ma anche alla qualificazione giuridica degli stessi; la sentenza in questione ha evidenziato la stretta correlazione tra il diritto di essere informato della natura e del motivo dell’accusa e il diritto di disporre del tempo e delle possibilità necessarie per preparare la difesa; in tal senso appare rilevante considerare come tutta la giurisprudenza di legittimità successiva abbia ribadito l’inammissibilità dell’attribuzione della qualificazione giuridica diversa del fatto con atto a sorpresa, mentre è imposto il rispetto di comunicazioni alle parti per garantire il diritto di difesa, tra le molte Sez. 4 n. 2340 del 29/11/2017, D.S., Rv. 271758, che ha in particolare annullato la decisione in relazione alla diversa qualificazione di una circostanza aggravante in tema di furto, da destrezza a uso del mezzo fraudolento).

L’imputato deve essere posto in condizione di scegliere quale via di giudizio adire, con piena cognizione dell’imputazione articolata dalla pubblica accusa.

La riflessione si estende anche alla proposizione di contestazioni suppletive “patologiche“ in sede di abbreviato condizionato, ma in termini diversi che coinvolgono la lealtà processuale tra le parti, la distinzione tra udienza preliminare e giudizio abbreviato quanto alla c.d. “fluidità dell’accusa” (che caratterizza proprio l’udienza preliminare), il pieno affidamento dell’imputato nella correttezza dell’operato della pubblica accusa, la necessità di consentire un’approfondita e completa articolazione del diritto di difesa nella scelta di accedere anche al rito abbreviato condizionato.

La prospettiva dell’imputato si confronta tuttavia con altri principi fondamentali del nostro ordinamento, non ultimo quello dell’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale, che, se risulta garantito in relazione all’eventuale emersione di un fatto nuovo (che potrà sempre essere contestato in separato procedimento penale da parte del Pubblico Ministero), appare invece perdere definitivamente parte della sua incisività e completezza nel caso in cui l’eventuale contestazione suppletiva “patologica” riguardi una circostanza aggravante, elemento che, a parere sia della dottrina che della giurisprudenza, determina di per sé la diversità del fatto oggetto di imputazione, incidendo la sua previsione sulla consistenza e ampiezza della risposta sanzionatoria. Occorre ricordare in tal senso che la possibilità di accedere al rito abbreviato dalla sede di dibattimentale è stata affermata dalla Corte cost. n. 139 del 2015 nel caso di contestazione di una circostanza aggravante, con una pronuncia di illegittimità parziale dell’art. 517 cod. proc. pen.

Il principio era già stato affermato dalla Corte cost. con la decisione n. 184 del 2014 quanto al patteggiamento e, in quella sede, si era sottolineato come la trasformazione dell’originaria imputazione in una ipotesi circostanziata comporti un mutamento del quadro processuale, incidendo, anche solo potenzialmente, sulla quantità e sulla qualità della risposta sanzionatoria, o sul regime di procedibilità per il reato contestato. Elemento che rileva ancor più nel caso in cui la contestazione si possa definire “patologica” perché già presente nella fase di acquisizione degli atti di indagine preliminare. In questa sede si è dunque pienamente recuperata la distinzione, da alcuni ritenuta superata, tra contestazioni fisiologiche e contestazioni patologiche (si era infatti affermato che la contestazione fisiologica è in dibattimento addirittura più imprevedibile di quella patologica).

Diverse le pronunzie che hanno considerato, seppure non sempre in modo diretto, la questione rimessa. Sez. 2, n. 23466 del 09/06/2005, Scozzari, Rv. 231993, afferma che l’art. 441- bis cod. proc. pen., prevedendo che in sede di giudizio abbreviato l’imputato a fronte delle contestazioni previste dall’art. 423, comma 1, cod. proc. pen., possa chiedere che il processo prosegua con il rito ordinario, rinunciando al rito abbreviato, non si applica se le nuove contestazioni non derivano da nuove emergenze, ma riguardano fatti o circostanze già in atti, e quindi noti all’imputato quando ebbe ad avanzare la richiesta di rito abbreviato.

La difesa del ricorrente aveva rilevato come nel corso del giudizio il Pubblico Ministero avesse contestato un fatto nuovo, ex art. 423, comma 2, cod. proc. pen. senza notifica del verbale all’imputato contumace, al fine di acquisire il suo eventuale consenso o meno a procedere con il rito abbreviato quanto alla nuova contestazione. La Corte ha ritenuto che la lettura dell’art. 441 – bis cod. proc. pen. (che prevede che l’imputato ammesso al rito abbreviato possa chiedere che il rito prosegua nelle forme ordinarie nei casi di giudizio abbreviato condizionato ex art. 438, comma 5, cod. proc. pen. e di integrazione probatoria ex art. 441, comma 5, cod. proc. pen. quando il Pubblico Ministero proceda a contestazioni perché il fatto risulta diverso ex art. 423, comma 1, cod. proc. pen.) «non dà spazio ad incertezze interpretative, nel senso che l’imputato può chiedere che si proceda con il rito ordinario solo con riguardo a quei fatti, oggetto di nuova contestazione del P.M. perché scaturiti da integrazioni probatorie, sia richieste dall’imputato stesso, sia disposte dal giudice. Tant’è vero che l’art. 423, comma 1 e 2, cod. proc. pen., che pure prevede e disciplina il caso di nuove contestazioni all’imputato, non contempla per questo la possibilità di revocare la richiesta di rito abbreviato».

In sostanza la ratio della disposizione deve essere colta secondo questa decisione, nel fatto che la scelta del rito speciale non può essere ritenuta vincolante per fatti che non erano conosciuti, né conoscibili dall’imputato, mentre, ove non ricorra alcuna integrazione probatoria, e le nuove contestazioni non derivino da nuove emergenze, si tratta di fatti “noti” all’imputato e la nuova contestazione prescinde dall’esito dell’eventuale integrazione, senza alcuna possibilità quindi per l’imputato di rinunciare al rito prescelto. Appare evidente come, secondo questa opzione ermeneutica, in realtà non ricorra un fatto nuovo. Nessuna lesione del diritto di difesa può essere considerata ricorrente, poiché l’imputato nello scegliere di accedere al rito abbreviato era pienamente a conoscenza di tutti gli elementi poi confluiti nella nuova contestazione.

Lo stesso principio risulta espresso da Sez. 5, n. 7047 del 27/11/2008, Reinhard, Rv. 242952, che afferma che non ricorre alcun profilo di novità, ma al contrario una mera specificazione degli elementi già acquisiti, nel caso in cui la pubblica accusa provveda a realizzare una qualificazione giuridica diversa del fatto come furto consumato, anziché come tentato, rimanendo gli elementi descrittivi riportati esattamente gli stessi. Nonostante la massimazione del principio in senso del tutto conforme alla decisione della Seconda Sezione sopra citata, la situazione concreta oggetto di giudizio appare diversa, riferibile ad un caso di qualificazione giuridica del fatto da ritenere diverso perché aggravato e consumato, e non meramente tentato. Non ricorre la contestazione di fatto nuovo, e dunque un profilo interpretativo in qualche modo avvicinabile alla situazione considerata dall’ordinanza di rimessione (anche il riferimento alla precedente giurisprudenza di legittimità richiamata in motivazione, relativa alla ricorrenza o meno della contestazione di un fatto nuovo, non appare del tutto conducente rispetto alla decisione).

Sez. 6, n. 5200 del 15/11/2017, Ribaj, Rv. 272214, richiama il principio in questione e chiarisce come non si possa considerare fatto nuovo l’integrazione dell’imputazione di cui all’art. 73, comma 1, del d.P.R. n. 309 del 1990, mediante l’indicazione del quantitativo di sostanza stupefacente. Questa decisione, sintetica nel suo percorso motivazionale, ancora una volta di fatto non affronta la questione nei termini di un’effettiva novità della contestazione in abbreviato condizionato caratterizzata da “patologia” perché basata su elementi già presenti in fase di indagine e diversi rispetto alla originaria imputazione, ma richiama un caso particolare rappresentato dalla precisazione inserita nella descrizione materiale del fatto, rimasto lo stesso nei suoi elementi costitutivi e distintivi. Anche in questo caso la questione era stata posta in relazione alla possibilità dell’imputato di revocare la scelta del rito abbreviato per accedere al rito ordinario.

Sez. 4, n. 48280 del 26/09/2017, Squillante, Rv. 271293, afferma per la prima volta in modo esplicito che in sede di giudizio abbreviato, ove sia stata disposta l’integrazione probatoria a norma dell’art. 441, comma 5, cod. proc. pen. è legittima la modifica dell’imputazione da parte del P.M., mediante contestazione suppletiva, anche quando i fatti oggetto della nuova contestazione erano già emersi nel corso delle indagini preliminari. Nel caso di specie, a seguito di integrazione probatoria disposta dal giudice ex art. 441, comma 5, cod. proc. pen., il P.M. aveva formulato contestazione suppletiva delle aggravanti di cui all’art. 186, comma 2 – bis, e 186 bis del Codice della Strada, basate tuttavia su dati oggettivamente preesistenti all’integrazione probatoria. Il collegio ha ritenuto legittima la contestazione suppletiva, precisando che ai sensi dell’art. 441 – bis, comma 1, cod. proc. pen., come già evidenziato dalla precedente giurisprudenza della Corte di cassazione, è legittima la modifica dell’imputazione mediante contestazione suppletiva anche quando i fatti oggetto della nuova contestazione erano già emersi nel corso delle indagini preliminari (e richiama in tal senso Sez.1,n.13349del17/05/2012, D., Rv.255049). Ciò in considerazione della portata dell’art. 423 cod. proc. pen. quale norma di diretta attuazione della direttiva contenuta nell’art. 2, punto 52, della legge delega 16 febbraio 1987, n. 81, che si limita ad indicare al legislatore delegato di prevedere per il Pubblico Ministero “nell’udienza preliminare” il potere di modificare l’imputazione e procedere a nuove contestazioni.

Questa decisione ritiene che il criterio evidenziato anche da Sez. 1, n. 13349 del 17/05/2012, D., Rv. 255049, quanto alla legge delega, pur se riferito esplicitamente alla sola udienza preliminare, debba essere esteso, valendo gli stessi criteri, anche al giudizio abbreviato condizionato, non ricorrendo nel caso in esame alcuna lesione del diritto di difesa (tra l’altro neanche denunciata dal ricorrente).

Quanto a questa decisione occorre tuttavia considerare come l’ambito di riferimento dei precedenti richiamati, quale orientamento costante, è sempre da individuare nell’udienza preliminare. In tal senso: - Sez. 1, n. 11993 del 14/11/1995, Di Mauro, Rv. 203050, che ritiene possibile la modifica dell’imputazione anche quando sia stata già avanzata, ma non ancora ammessa, la richiesta di giudizio abbreviato; - Sez. 3, n. 1506 del 4/12/1997, Pasqualetti, Rv. 209791, che richiama la possibilità per il P.M. di procedere, nel corso dell’udienza preliminare, a nuove contestazioni anche se i nuovi elementi non siano emersi in sede di udienza preliminare, bensì già nel corso delle indagini preliminari; - Sez. 3, n. 14433 del 04/12/2013, Z., Rv. 259719, secondo la quale il giudizio abbreviato richiesto dall’imputato a seguito di notificazione del decreto di giudizio immediato non può essere considerato già instaurato a seguito del decreto di fissazione dell’udienza, ma si apre soltanto con l’adozione dell’ordinanza di ammissione, sicché sino all’adozione di quest’ultima non è precluso al Pubblico Ministero il potere di effettuare contestazioni suppletive indipendentemente dai casi previsti dall’art. 441 – bis cod. proc. pen.

Sez. 5, n. 48879 del 17/09/2018, L., Rv. 274159, ha confermato l’orientamento relativo all’ammissibilità di nuove contestazioni, anche tardive, affermando che l’art. 441-bis cod. proc. pen. non si applica se le nuove contestazioni non derivino da nuove emergenze, ma riguardano fatti o circostanze già in atti, e quindi noti all’imputato quando ebbe ad avanzare la richiesta di rito abbreviato. Nel caso in esame la fattispecie era tuttavia relativa alla correzione di un mero errore materiale in ordine alla data del commesso reato.

Altre decisioni hanno affrontato il tema più generale della struttura del giudizio abbreviato e chiariscono che deve svolgersi secondo la sua struttura tipica, e cioè allo stato degli atti, con conseguente immutabilità dell’originaria imputazione, senza alcuna possibilità per il Pubblico Ministero di modificarne il contenuto, pena la nullità della sentenza che si formi su fatti e circostanze ulteriori che siano stati eventualmente contestati (Sez. 3, n. 35624 del 11/07/2007, Terlizzi, Rv. 237293).

Sez. 4, n. 3758 del 03/06/2014, Costa, Rv. 263196, esprime lo stesso principio, chiarendo che la nullità conseguente ad una modifica non consentita determina una nullità a regime intermedio, considerato che per il giudizio abbreviato l’art. 441, comma 1, cod. proc. pen., nel richiamare le disposizioni dell’udienza preliminare esclude l’applicazione dell’art. 423 cod. proc. pen. Lo stesso principio, relativo alle caratteristiche della nullità, in caso di modifica dell’imputazione nel corso di giudizio abbreviato puro e non condizionato, era stato affermato da Sez. 6, n. 13117 del 19/01/2010, Sghiri Yassine, Rv. 246680, relativamente al riconoscimento di circostanza aggravante e conseguente contestazione suppletiva. Nello stesso identico senso Sez. 4, n. 12259 del 14/02/2007, Biasotto, Rv. 236199 ed anche Sez. 2, n. 11953 del 29/01/2014, D’Alba, Rv. 258067 (quanto alla contestazione suppletiva dell’aggravante di più persone riunite), dove si è evidenziato che la nullità, a regime intermedio, è posta a garanzia del complesso delle facoltà e dei poteri che la legge attribuisce all’imputato e al suo difensore e che sono implicite nel diritto di difesa, i quali trovano presidio nella disposizione di cui alla lettera c) dell’art. 178 cod. proc. pen. Emerge nel percorso motivazionale di questa decisione in modo chiaro la necessità di arginare le contestazioni “a sorpresa” del Pubblico Ministero, proprio perché ritenute in piena violazione del diritto di difesa dell’imputato e del suo difensore “che hanno optato per il giudizio abbreviato sulla base di una determinata imputazione e vedono poi il giudice chiamato a pronunziarsi su una imputazione diversa rispetto a quella da essi considerata ai fini della scelta del rito” (significativa rispetto a questo orientamento appare anche Sez.4, n. 26653 del 22/04/2009, PG / Sarti, Rv. 244505, conforme recentemente, anche se massimata su diverso profilo, Sez. 2, n. 18617 del 08/02/2017, PG/ Davicco, Rv. 269743), che ha ritenuto illegittime anche modifiche dell’imputazione favorevoli all’accusato, consistenti nell’eliminazione di un’aggravante in precedenza contestata.). In questa decisione, così come in Sez. 2, n. 35350 del 17709/2010, Percuoco, Rv. 248544, si specifica la ratio della previsione di cui all’art. 441, comma 1, cod. proc. pen., ovvero la volontà del legislatore di evitare di esporre l’imputato ad una “fluidità” dell’accusa incompatibile con la rinuncia alla prova che si cristallizza “irretrattabilmente con la richiesta di abbreviato condizionato”, perché “qualsiasi modifica dell’impianto dell’accusa, intervenuta dopo la scelta del rito, che non si riduca ad una mera differente qualificazione giuridica di un fatto altrimenti immutato, esporrebbe l’imputato alle conseguenze di una scelta processuale maturata in relazione ad un diverso contesto accusatorio, senza poter più recuperare il proprio diritto costituzionale a difendersi anche provando”.

La lealtà processuale impone dunque, ex art. 111 Cost., che la cornice di riferimento entro la quale è stata operata una scelta così impegnativa, come quella di rinunciare al dibattimento, sia immutabile.

Le argomentazioni spese da queste decisioni, pur se relative, nella maggior parte dei casi, a ipotesi di giudizio abbreviato “puro”, rivelano la loro particolare rilevanza e incidenza rispetto alla questione posta con l’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite.

La volontà del legislatore di garantire l’imputato, che rinuncia a difendersi provando in dibattimento, dovrebbe essere riscontrata anche in relazione al caso di giudizio abbreviato condizionato nell’ambito del quale le modifiche dell’imputazione non trovino alcun aggancio nella attività di integrazione probatoria richiesta o disposta d’ufficio.

Se infatti tali integrazioni non rilevano quanto alla contestazione patologica proposta, la scelta dell’imputato nel giudizio abbreviato dovrebbe essere garantita nello stesso modo, ovvero scelta di accesso al rito rinunciando a difendersi provando solo alle condizioni date dallo stato degli atti.

Il collegio nell’ordinanza di rimessione ha evidenziato come in caso contrario la disparità di trattamento in situazioni sostanzialmente analoghe sarebbe di tutta evidenza. Queste ultime decisioni dunque, pur non affrontando direttamente il tema posto nella questione, rappresentano un incisivo quadro di riferimento della normativa in tema di giudizio abbreviato e del necessario rispetto del diritto di difesa dell’imputato.

3. La sentenza della Corte costituzionale n. 140 del 2010.

La sentenza, citata anche nell’ordinanza di rimessione, è intervenuta sul giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 441 e 441- bis del cod. proc. pen. nella parte in cui non prevedono che, nel corso del giudizio abbreviato, il Pubblico Ministero possa effettuare contestazioni suppletive nei casi di cui all’art. 12, comma 1, lett. b) del medesimo codice “anche in assenza di integrazioni probatorie disposte dal giudice e sulla base di fatti e circostanze già in atti e noti all’imputato”. Viene dunque affrontato un tema sostanzialmente analogo a quello oggetto di rimessione, incentrandosi però la riflessione sulla possibile realizzazione di contestazioni suppletive sostanzialmente “patologiche” nel giudizio abbreviato incondizionato, situazione di fatto equiparabile a quella in cui, pur nell’ambito di giudizio abbreviato condizionato, vengano proposte contestazioni suppletive in assenza di qualsiasi nuovo elemento derivante dall’integrazione probatoria, e dunque direttamente collegate ad elementi già in atti nella fase delle indagini preliminari.

Il caso concreto oggetto di giudizio era relativo ad imputazione di numerose persone per il delitto di associazione a delinquere finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti, con successiva contestazione suppletiva da parte del Pubblico Ministero di un ulteriore reato in materia di stupefacenti solo per alcuni imputati, legato dal vincolo della continuazione al reato principale. A sostegno della propria riflessione il Giudice remittente aveva richiamato Sez. U, n. 4 del 28/10/1998, Barbagallo, Rv. 212757, nell’ambito della quale si è affermato come il Pubblico Ministero possa procedere alla contestazione suppletiva di un reato concorrente o di una circostanza aggravante nel giudizio ordinario, non soltanto a fronte di nuove risultanze dibattimentali, ma anche sulla base di elementi già acquisiti nella fase delle indagini preliminari. In sostanza, secondo la decisione delle Sez. U. Barbagallo, la contestazione suppletiva “patologica” può rappresentare un’eventualità fisiologica del sistema ispirato alla centralità del dibattimento, e, a tal fine, non appare condivisibile una mera interpretazione letterale, e non coordinata sistematicamente, del disposto dell’articolo 517 cod. proc. pen., che parla di elementi emersi “nel corso” del dibattimento, poiché una soluzione del genere si risolverebbe in “un formalismo esasperato ed ingiustificato”, in mancanza di qualsiasi lesione, sempre secondo la lettura delle Sezioni Unite, del diritto di difesa nel caso di nuove contestazioni basate non sull’esito del dibattimento, ma su elementi già raccolti nel corso delle indagini preliminari, dunque del tutto noti all’imputato e al suo difensore.

È proprio in relazione alla decisione delle Sez. U. Barabagallo che il remittente ritiene comprensibile l’emersione dell’orientamento di legittimità (citato anche nell’ordinanza di rimessione che ha sollevato la questione) che ha affermato che anche nel giudizio abbreviato, una volta disposta un’attività di integrazione probatoria, le contestazioni suppletive siano ammissibili non soltanto se derivanti dalla nuove prove assunte, ma anche quando trovino fondamento in fatti e circostanze già in atti, tanto che l’imputato in questi casi non potrebbe neanche esercitare lo ius poenitendi previsto esclusivamente dall’art. 441 – bis cod. proc. pen.

Tale interpretazione della giurisprudenza di legittimità viene condivisa dal remittente dinnanzi alla Corte costituzionale anche in considerazione della riforma del giudizio abbreviato, caratterizzato da una maggiore “fluidità” dell’accusa, tanto sul versante probatorio che su quello dell’imputazione.

Una diversa disciplina relativa alla riscontrata ammissibilità di una contestazione suppletiva “patologica” nel corso del giudizio abbreviato condizionato, esclusa invece per il giudizio abbreviato puro rappresenterebbe per il remittente una violazione del principio del giusto processo e dei valori costituzionali sanciti nell’art. 111 Cost. In sostanza non si potrebbe inibire al Pubblico Ministero di formulare un’imputazione pienamente correlata all’insieme degli atti delle indagini preliminari, del tutto noti all’imputato, in applicazione del principio di lealtà processuale delle parti.

In entrambi i casi infatti la necessità di integrare l’imputazione deriverebbe da un’omissione del Pubblico Ministero, con la conseguenza che un’interpretazione ostativa limiterebbe l’esercizio dell’azione penale, con possibile violazione del diritto di difesa, poiché l’imputato potrebbe trovare più conveniente una trattazione congiunta delle diverse imputazioni (specialmente nel caso in cui i fatti risultino avvinti dalla continuazione).

La Corte costituzionale ha ritenuto infondata nel merito la questione, evidenziando in primo luogo come l’orientamento citato dal remittente (in particolare le sentenze Scozzari e Reinhard) non si possa ritenere affatto consolidato, soprattutto considerato che la sentenza Reinhard ha ad oggetto una questione relativa ad una mera riqualificazione giuridica del fatto e non una contestazione suppletiva. La prima, come già evidenziato in precedenza, afferma infatti che l’art. 441- bis cod. proc. pen., prevedendo che in sede di giudizio abbreviato l’imputato a fronte delle contestazioni previste dall’art. 423, comma 1, cod. proc. pen., possa chiedere che il processo prosegua con il rito ordinario, rinunciando al rito abbreviato, non si applica se le nuove contestazioni non derivano da nuove emergenze, ma riguardano fatti o circostanze già in atti, e quindi noti all’imputato quando ebbe ad avanzare la richiesta di rito abbreviato; la seconda che non ricorre alcun profilo di novità, ma al contrario una mera specificazione degli elementi già acquisiti, nel caso in cui la pubblica accusa provveda a realizzare una qualificazione giuridica diversa del fatto come furto consumato, anziché come tentato, rimanendo gli elementi descrittivi riportati esattamente gli stessi.

Le decisioni in questione vengono poi esplicitamente ritenute non solo non incontrovertibili sul piano ermeneutico, ma addirittura foriere di un assetto in sé incompatibile con la Costituzione.

In tal senso la Corte - pur richiamando la giurisprudenza di legittimità e la propria sentenza n. 333 del 2009 (che hanno complessivamente considerato ammissibili le contestazioni suppletive “patologiche” in dibattimento, derivanti da elementi emersi per la prima volta nel corso dell’udienza preliminare o anche dai soli atti già acquisiti dal pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari) – ha evidenziato come nella soluzione interpretativa della questione occorra tener conto delle peculiarità del rito abbreviato, poiché l’assetto normativo predisposto dal legislatore possiede una sua intrinseca razionalità.

Originariamente il giudizio abbreviato era stato infatti configurato come rito “allo stato degli atti”, senza alcuna possibilità di integrazioni probatorie, e proprio per questo motivo l’art. 441, comma 1, cod. proc. pen., nell’operare un generale rinvio, nei limiti della compatibilità, alla disciplina dell’udienza preliminare, escludeva l’applicabilità dell’istituto della modificazione dell’imputazione ex art. 423 cod. proc. pen.

La ratio di tale previsione viene individuata dalla Corte nell’esigenza di realizzare una funzione di garanzia per l’imputato, oltre che una logica premiale. L’imputato accetta di essere giudicato sulla base degli atti raccolti nelle indagini preliminari, ma solo con esclusivo riferimento all’imputazione formulata dal Pubblico Ministero, ed è proprio questa formulazione ed accusa, per come formalizzata, a delimitare l’ambito della sua rinuncia alla formazione della prova in contradditorio.

Questa dimensione di garanzia, per come articolata dal legislatore, è stata ritenuta immune da vizi di costituzionalità, in quanto coerente con la struttura e finalità del rito (sentenza n. 378 del 1997).

Precisa tuttavia la Corte che, con l’introduzione delle modifiche al rito abbreviato (legge 16 dicembre 1999, n. 479), sono stati introdotti “in via di eccezione” meccanismi di adeguamento dell’imputazione in conseguenza delle nuove acquisizioni probatorie derivanti dalla richiesta di condizionamento del rito.

Nuove contestazioni sono dunque possibili “unicamente nei casi di modificazione della base cognitiva a seguito dell’attivazione dei meccanismi di integrazione probatoria”.

Con la possibilità conseguente per l’imputato, nel caso in cui si tratti delle contestazioni previste dall’art. 423, comma 1, cod. proc. pen. (fatto diverso, reato connesso a norma dell’art. 12, comma 1, lett. b) o circostanza aggravante) di esercitare lo ius poenitendi o articolare richiesta di ammissione di nuove prove ex art. 441 - bis cod. proc. pen.

La Corte sottolinea, e la circostanza appare assai rilevante quanto alla questione rimessa, che non possa essere ritenuta ormai acquisita l’idea di un giudizio abbreviato del tutto fluido quanto all’imputazione, mentre invece si deve ritenere che “le eccezioni introdotte restano strettamente legate alle fattispecie che le giustificano: vale a dire che il Pubblico Ministero possa effettuare le nuove contestazioni solo quando affiori la necessità di adattare l’imputazione a nuove risultanze processuali, scaturenti da iniziative probatorie assunte nell’ambito del rito alternativo”.

Rimane quindi del tutto escluso che “dette iniziative – tanto più se rimaste prive di seguito – possano rappresentare una patente di legittimazione per rivalutare, a scopo di ampliamento dell’accusa, elementi già acquisiti in precedenza, e fino a quel momento, non posti ad oggetto dell’azione penale”.

Inoltre viene evidenziato come l’indirizzo giurisprudenziale relativo alla possibilità di modifiche dell’imputazione anche nel caso di abbreviato incondizionato giunge di fatto a risultati contrari al dettato costituzionale quando esclude qualsiasi possibilità per l’imputato di esercitare nel caso lo ius poenitendi.

Altre decisioni della Corte hanno infatti chiarito (n. 333 del 2009 e 265 del 1994) che le valutazioni dell’imputato in ordine alla convenienza dei riti alternativi al dibattimento dipendono anzitutto dalla concreta impostazione data al processo dal Pubblico Ministero, sicché quando per “evenienze patologiche”, quali gli errori o le omissioni del Pubblico Ministero sull’individuazione del fatto o del titolo del reato, l’imputazione subisce una variazione sostanziale, l’imputato deve essere necessariamente rimesso in termini per compiere le suddette valutazioni, pena la violazione del diritto di difesa e del principio di eguaglianza, considerata l’evidente discriminazione che si verrebbe a determinare a seconda “della maggiore o minore esattezza o completezza della discrezionale valutazione delle risultanze delle indagini preliminari operata dal Pubblico Ministero nell’esercitare l’azione penale”.

Questo principio, affermato in relazione alle nuove contestazioni dibattimentali e alla possibilità di passaggio dal rito ordinario ai riti alternativi, non può a parere della Corte operare in direzione inversa, poiché con la richiesta di giudizio abbreviato l’imputato accetta di essere giudicato con rito semplificato in relazione ai reati già contestati.

E tale “rinuncia a difendersi provando in dibattimento” rappresenta un apprezzamento della convenienza del rito stesso dal punto di vista della difesa, sicché non sarebbe “costituzionalmente accettabile che egli venisse a trovarsi vincolato dalla sua scelta anche in relazione ad ulteriori reati concorrenti che, stando all’indirizzo interpretativo in discussione, potrebbero essergli contestati a fronte delle evenienze patologiche di cui si è detto”.

La giurisprudenza di legittimità richiamata viene considerata dalla Corte costituzionale intanto non apprezzabile in termini di diritto vivente, non incontestabile sul piano ermeneutico e comunque non compatibile con i principi costituzionali, tanto più che il Pubblico Ministero manterrebbe intatta la possibilità di esercitare separatamente l’azione penale per il reato connesso, non tempestivamente contestato. Né alcun aggravio viene riscontrato a carico dell’imputato per lo svolgimento in processi separati di reati eventualmente avvinti dalla continuazione, considerata la possibilità di esercitare pienamente il diritto stesso con pienezza di garanzie in fase esecutiva.

4. Considerazioni di sintesi.

In attesa della motivazione della decisione delle Sezioni Unite, occorre considerare come alla questione sollevata nei seguenti termini: «Se nel corso del giudizio abbreviato condizionato ad integrazione probatoria o nel quale l’integrazione sia stata disposta dal giudice, sia consentito procedere alla modificazione dell’imputazione o a contestazioni suppletive con riguardo a fatti già desumibili dagli atti delle indagini preliminari e non collegati agli esiti dei predetti atti istruttori», è stata fornita risposta negativa.

Ciò posto appare opportuno in via conclusiva formulare alcune osservazioni di sintesi, difatti, premesso che la questione rimessa alle Sezioni Unite è stata oggetto di una riflessione della giurisprudenza di legittimità esplicitatasi, a ben vedere, solamente con la decisione della Sez. 4, n. 48280 del 26/03/2017, Squillante, occorre, però, sottolineare che: - la necessaria considerazione del contenuto pattizio della scelta del rito abbreviato; - la limitazione del concetto di fluidità dell’accusa come elemento da riferire in modo ampio solo ed esclusivamente alla fase della udienza preliminare (e del dibattimento) piuttosto che a quella del rito abbreviato; - la riferibilità della disciplina dell’art. 423 cod. proc. pen. in sede di abbreviato solo ed esclusivamente ai casi di modificazione del volume della prova ad esito di integrazione probatoria richiesta dalla parte o dal giudice; - la corretta considerazione del diritto dell’imputato ad un pieno esercizio del diritto di difesa rappresentano altrettanti elementi evidenziati in modo univoco dalla Corte cost. nella sentenza n. 140 del 2010, già in epoca precedente alla decisione della Corte costituzionale, in senso diverso da quello adottato dalla suddetta decisione.

Un’interpretazione orientata, anche con riferimento ai principi enucleati dalla Corte EDU, rende sempre più evidente l’emersione della necessaria tutela del diritto di difesa dell’imputato nel giungere alla scelta di un rito pur sempre a prova contratta, che deve trovare il proprio limite nella formulazione dell’accusa.

La tendenza ad interpretare restrittivamente il potere di modificare con contestazioni suppletive l’imputazione nel rito abbreviato trova per la maggior parte delle riflessioni sul punto la propria giustificazione nelle caratteristiche proprie del rito, anche a seguito delle modifiche introdotte dalla c.d. Legge Carotti, senza incidere sul principio di obbligatorietà della azione penale. Sembrano tuttavia permanere degli spazi di riflessione quanto al caso in cui oggetto della contestazione suppletiva sia una circostanza aggravante del delitto (come nel caso in esame per la ricorrenza dei motivi abbietti e futili). Infatti, tenuto conto dell’impostazione della giurisprudenza di legittimità e della Corte costituzionale quanto al fatto circostanziato quale fatto diverso - sia per la diversa incidenza della risposta sanzionatoria, che per la presenza di elementi fattuali aggiuntivi, che incidono nella descrizione del comportamento contestato - si potrebbe determinare, nel caso di contestazione suppletiva di circostanza aggravante a carattere “patologico”, la perdita di alcuni elementi essenziali del fatto, che non sembrano recuperabili altrimenti (con esercizio separato dell’azione come per il fatto del tutto nuovo).

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione penale

Sez. 5, n. 48879 del 17/09/2018, L., Rv. 274159 – 01

Sez. 4, n. 48280del26/09/2017Squillante, Rv.271293 – 01

Sez. 5, n. 33870del07/04/2017, Crescenzo, Rv.270475 – 01

Sez. 6, n. 5200del15/11/2017, Ribaj, Rv.272214 – 01

Sez. 2, n. 18617 del 08/02/2017, PG/ Davicco, Rv. 269743 -01

Sez. 2, n. 11953del29/01/2014, D’Alba, Rv.258067 - 01

Sez. 3, n. 14433 del 04/12/2013, Z., Rv. 259719 -01

Sez. 1, n. 3758del07/11/2013, Costa, Rv.258260 – 01

Sez. 2, n. 859del18/12/2012, Chiapolino, Rv.254186 – 01

Sez. 1, n. 13349del17/05/2012, D., Rv.255049 – 01

Sez. 2, n. 35350del17/09/2010, Percuoco, Rv.248544 - 01

Sez. 6, n. 13117del19/01/2010, Sghiri Yassine, Rv.246680 – 01

Sez. 4, n. 26653 del 22/04/2009, PG / Sarti, Rv. 244505 – 01

Sez. 5, n. 7047del27/11/2008, Reinhard, Rv.242962 – 01

Sez. 3, n. 35624 del 11/07/2007, Terlizzi, Rv. 237293 – 01

Sez. 4, n. 36936 del 12/06/2007, PM/ Gamba, Rv. 237238 – 01

Sez. 4, n. 21548del23/03/2007, Manca, Rv.236728 – 01

Sez. 4, n. 12259del14/02/2007, Biasotto, Rv.236199 – 01

Sez. 2, n. 23466del09/06/2005, Scozzari, Rv.231993 - 01

Sez. 6, n. 36310 del 07/07/2005, Notari, Rv. 232407 – 01 Sez. U, n. 44711 del 27/10/2004, Wajib, Rv. 229175 -01

Sez.U, n. 4 del 28/10/1998, Barbagallo, Rv.212757 – 01

Sez. 3, n. 1506 del 4/12/1997, Pasqualetti, Rv. 209791 – 01 Sez. U, n. 16 del 19/06/1996, Di Francesco, Rv. 205619 -01

Sez. 1, n. 11993 del 14/11/1995, Di Mauro, Rv. 203050 – 01

Sentenze della Corte costituzionale

Corte cost., sent. n. 206 del 2017

Corte cost., sent. n. 216 del 2016

Corte cost., sent. n. 139 del 2015

Corte cost., sent. n. 273 del 2014

Corte cost., sent. n. 237 del 2012

Corte cost., sent. n. 140 del 2010

Corte cost., sent. n. 333 del 2009

Corte cost., sent. n. 378 del 1997

Corte cost., sent. n. 265 del 1994

Corte cost., sent. n. 88 del 1992

Corte cost., sent. n. 92 del 1992

SEZIONE VI IMPUGNAZIONI

  • diritti della difesa

CAPITOLO I

RESTITUZIONE NEL TERMINE PER IMPUGNARE LA SENTENZA CONTUMACIALE ED EFFETTIVA CONOSCENZA DEL PROCEDIMENTO

(di Anna Mauro )

Sommario

1 Premessa. - 2 Il caso. - 3 La rimessione alle Sezioni Unite. - 4 La decisione delle Sezioni Unite. - Indice delle sentenze citate

1. Premessa.

Le Sezioni Unite penali, con sentenza n. 28912 del 28/2/2019, Innaro, Rv. 275716, hanno affermato il seguente principio di diritto: “Ai fini della restituzione nel termine per impugnare la sentenza contumaciale ex art. 175, comma 2, cod. proc. pen., nella formulazione antecedente alla modifica operata con legge n. 67 del 28 aprile 2014, l’effettiva conoscenza del procedimento deve essere riferita all’accusa contenuta in un provvedimento formale di vocatio in iudicium sicché tale non può ritenersi la conoscenza dell’accusa contenuta nell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, fermo restando che l’imputato non deve avere rinunciato a comparire ovvero a proporre impugnazione oppure non deve essersi deliberatamente sottratto a tale conoscenza.”

2. Il caso.

Il caso trae origine dalla decisione del giudice dell’esecuzione di rigettare sia l’istanza di revoca di una sentenza di condanna, sia la richiesta di restituzione nel termine presentata dal condannato ai sensi dell’art. 175, comma 2, cod, proc. pen., nella formulazione antecedente alla modifica operata con legge n. 67 del 2014, sulla base del rilievo che doveva ritenersi acquisita la conoscenza del procedimento da parte del ricorrente – il quale lamentava di non aver avuto conoscenza né del decreto di citazione a giudizio, né dell’estratto contumaciale della sentenza – in considerazione della regolarità delle notifiche eseguite nei suoi confronti nel processo di cognizione. Ed invero, la notifica dell’avviso di conclusioni delle indagini preliminari era stata eseguita nelle mani della moglie dell’indagato, capace e convivente con lo stesso, presso il domicilio da quest’ultimo eletto nel verbale redatto innanzi all’Autorità di polizia giudiziaria e le notifiche successive, ossia quella del decreto di citazione a giudizio e quella dell’estratto contumaciale della sentenza, erano state effettuate a norma dell’art. 161, comma 4, cod. proc. pen., in considerazione del tentativo infruttuoso di notifica al domicilio eletto. Per il giudice dell’esecuzione, quindi, doveva ritenersi corretta la formazione del titolo esecutivo in quanto la notifica dell’avviso ex art. 415-bis cod. proc. pen., per come eseguita, dimostrava che il ricorrente aveva avuto effettiva conoscenza del procedimento a suo carico.

3. La rimessione alle Sezioni Unite.

La Prima sezione della Cassazione, assegnataria del processo, ha investito le Sezioni Unite a norma dell’art. 618, comma 1, cod. proc. pen. formulando il seguente quesito: “Se ai fini dell’esperimento del rimedio processuale previsto dall’art. 175, comma 2, cod. proc. pen. nel testo previgente, l’effettiva conoscenza del procedimento, da parte dell’imputato rimasto contumace nel giudizio, debba essere riferita alla conoscenza dell’accusa contenuta in un provvedimento formale di vocatio in iudicium o possa essere riferita anche alla conoscenza dell’accusa contenuta nell’avviso di conclusione delle indagini preliminari”.

Nell’ordinanza si dà conto dell’esistenza, nella giurisprudenza di legittimità, di due orientamenti: il primo, maggioritario, (ex multis, Sez. 1, n. 29851 del 24/6/2009, Cari, Rv. 244316-01; Sez. 1, n. 3746 del 16/1/2009, Del Duca, Rv. 242535-01; Sez. 4, n. 41860 del 17/6/2009, Tagliabue, Rv. 245438-01; Sez. 4, n. 8104 del 15/11/2013, Djordjevic, Rv. 259350-01; Sez. 1, n. 6736 del 12/2/2014, Farago, Rv.259629-01; Sez. 1, n. 14272 del 9/3/2006, Coppola, RV. 233516; Sez. 4, n. 29977 del 19/6/2006, Hudorovic, Rv. 235238-01; Sez. 6, n. 26834 del 24/3/2015, Kobernyk, Rv. 263992-01) secondo cui, in ipotesi assimilabili a quella in esame, per superare la presunzione di ignoranza del procedimento da parte dell’imputato rimasto contumace, occorre la prova della conoscenza dell’accusa contenuta in un provvedimento formale di vocatio in iudicium davanti all’organo giurisdizionale che lo deve giudicare, che presuppone la regolarità della citazione a giudizio; il secondo, da ritenersi minoritario e al quale il Collegio ritiene di aderire ( Sez. 2, n. 43452 del 3/7/2013, Baloc, Rv. 256822-01; Sez. 1, n. 32984 del 15/6/2010, Condello, Rv. 248008-01; Sez. 2, n. 8410 del 24/1/2006, Pisaturo, Rv. 233692-01; Sez. 2, n. 8414 del 25/1/2006, Perrella, Rv. 233694-01), secondo cui, per superare la presunzione di non conoscenza del procedimento di cui si controverte, è sufficiente la prova della conoscenza dell’accusa contenuta nell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, notificato all’indagato che è, quindi, messo in grado di desumere che vi sarà un processo nei suoi confronti. Per il collegio remittente, in buona sostanza, è sufficiente la conoscenza dell’esistenza del procedimento anche se in fase soltanto embrionale purché essa sia ricollegabile ad atti a contenuto giurisdizionale, ai quali è conseguita la precisa scelta dell’imputato di non osservarli.

Aderendo al primo orientamento, nel caso in esame, il giudice dell’esecuzione non avrebbe potuto presumere, sulla scorta della sola formale ritualità delle notifiche, l’effettiva conoscenza del processo da parte dell’imputato poiché il decreto di citazione a giudizio era stato notificato in mani del difensore d’ufficio; recependo, invece, la seconda opzione interpretativa, avrebbe potuto condividere (così come ha fatto) la decisione del giudice della cognizione in quanto l’avviso di conclusione delle indagini preliminari era stato ritualmente notificato a mani della moglie dell’indagato, capace e che si dichiarava convivente, al domicilio eletto da quest’ultimo.

Orbene, il quesito sottoposto riveste notevole interesse sia perché, nonostante esso riguardi un caso ricadente sotto una disciplina ormai riformata, la restituzione del termine per impugnare la sentenza pronunziata in contumacia continua ad applicarsi, attesa la previsione di cui all’art. 1, comma 2, L. 11 agosto 2014, n. 118, ai procedimenti in cui l’imputato sia stato dichiarato contumace prima dell’entrata in vigore del nuovo regime e non sia stato emesso il decreto di irreperibilità, sia perché, soprattutto, viene richiesto alle Sezioni Unite di interpretare la nuova disciplina sull’ “assenza” e di individuare i criteri utili per focalizzare i casi in cui, potendosi ritenere acquisita, in capo all’interessato, l’effettiva conoscenza del procedimento, possa procedersi nonostante la sua assenza. Se, infatti, prima della riforma del 2014, la prova dell’“effettiva conoscenza del procedimento” riguardava esclusivamente la restituzione del termine per impugnare la sentenza contumaciale, adesso riveste carattere centrale in quanto, a mente del rinnovato art. 420-bis cod. proc. pen., costituisce il presupposto per legittimare la celebrazione del processo in absentia. Ed invero, se prima dell’intervento della novella del 2014, si privilegiava il sistema della conoscenza legale del processo e il giudizio si svolgeva in contumacia se le notifiche erano state formalmente eseguite, ora occorre verificare se l’assenza dell’imputato nel giudizio dipenda da scelte volontarie e consapevoli o da ignoranza dell’esistenza di un processo a suo carico.

4. La decisione delle Sezioni Unite.

Le Sezioni Unite, nell’affermare il principio di diritto sopra riportato, hanno innanzitutto osservato che il contrasto segnalato dalla sezione a ben vedere non è del tutto evidente e che i ritenuti differenti orientamenti della giurisprudenza della Corte sono piuttosto ravvicinati tra loro in quanto la tesi minoritaria è stata affermata espressamente solo dalla sezione remittente, mentre le altre poche decisioni richiamate a sostegno della stessa o valorizzano (così, Sez. 2, n. 43452 del 3/7/2013, Baloc, cit.), una pluralità di atti di contenuto “giurisdizionale” (tra cui non rientra, quindi, l’avviso del pubblico ministero di conclusioni delle indagini), anche se precedenti all’instaurazione del giudizio, quali, ad esempio, l’interrogatorio in sede di udienza di convalida, l’ordinanza di convalida e l’ordinanza applicativa della misura cautelare o fanno riferimento (così, Sez. 2, n. 8414 del 25/1/2006, Perrella, cit.) a fattispecie concrete del tutto particolari dove è da ritenersi dimostrata anche la volontaria sottrazione alla conoscenza degli atti.

Il Supremo collegio osserva, quindi, che il contrasto segnalato rileva per un diverso e più ampio tema, dovendosi stabilire se la conoscenza debba riguardare “il processo” o, come ritenuto dall’orientamento minoritario, atti anteriori al processo che, però, ne consentano di definire il futuro contenuto e comportino il conseguente onere di attivazione dell’interessato per conoscere gli ulteriori ed eventuali sviluppi del procedimento intentato a suo carico.

In assoluta sintonia con le decisioni della Corte di Strasburgo in subiecta materia, che nonostante il silenzio serbato dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo sul punto, hanno da tempo ritenuto che il diritto dell’imputato ad essere presente al processo costituisca ormai principio di civiltà giuridica universalmente acquisito (determinate è da ritenersi, sul punto, Corte EDU, 10 novembre 2004, Sejdovic c. Italia), le Sezioni Unite hanno valorizzato l’orientamento più restrittivo argomentando come segue.

La premessa da cui occorre partire è l’irrilevanza, nell’argomento in esame, dell’interpretazione letterale del termine “procedimento” utilizzato nell’art. 175, comma 2, cod. proc. pen. che porterebbe a ritenere che il legislatore abbia inteso far riferimento alla conoscenza di qualsiasi atto successivo all’iscrizione ex art. 335 cod. proc. pen. E’ proprio il dato testuale, infatti, che non consente di ritenere decisiva siffatta interpretazione in quanto il legislatore fa un uso generale del termine “procedimento” anche con riferimento a situazioni in cui, senza dubbio alcuno, si ha riguardo al processo (si pensi al terzo comma dell’art. 175 cod. proc. pen. in cui si legge “ciascun grado del procedimento”; al vigente art. 629-bis in cui si utilizzano indifferentemente i due termini; alla disposizione transitoria (L. n. 118/2014) che nel disciplinare il passaggio tra processo in contumacia e processo in assenza utilizza il termine “procedimento” con riferimento alla dichiarazione di contumacia e alla lettura del dispositivo).

Le Sezioni Unite, quindi, dopo aver sottolineato l’irrilevanza del dato testuale, evidenziano che nel sistema della contumacia, come delineato dopo la riforma del 2005, il soggetto condannato, se non informato “effettivamente” del “procedimento”, ha il diritto incondizionato ad impugnare la sentenza di condanna tranne che non venga provato che egli abbia avuto conoscenza, non legale, ma effettiva, del processo, ossia del contenuto dell’accusa e della data e del luogo di svolgimento, a nulla rilevando, a tali fini, che egli abbia avuto conoscenza del procedimento. La prova idonea a superare la presunzione di cui all’art. 175, comma 2, cod. proc. pen. previgente non può essere rappresentata dal solo dato della notifica, anche se a mani proprie, dell’avviso di conclusioni delle indagini preliminari. Non a caso il decreto-legge n. 17 del 2005, convertito con modificazioni dalla legge n. 60 del 2005, nel preambolo precisa che “occorre garantire il diritto incondizionato all’impugnazione delle sentenze contumaciali e dei decreti di condanna da parte delle persone condannate nei casi in cui esse non sono state informate in modo effettivo dell’esistenza di un procedimento a loro carico …” al fine di “armonizzare l’ordinamento giuridico interno al nuovo sistema di consegna tra gli Stati dell’Unione europea che consente … di rifiutare l’esecuzione del mandato di cattura europeo emesso in base ad una sentenza di condanna in contumacia ove non sia garantita, sempre che ne ricorrano i presupposti, la possibilità di un nuovo processo”.

Il passaggio dal sistema della contumacia a quello della contumacia consapevole, in base alle riforme del 2008 e del 2005, consente di affermare, anche in tema di regolarità formale della notifica, un principio opposto a quello previgente: mentre prima era consentito procedere quando la notifica era rituale anche nei confronti degli irreperibili in quanto la garanzia per l’imputato era data dalla presenza del difensore d’ufficio, ora è possibile processare solo chi sia a conoscenza del processo, indipendentemente dall’esistenza di una notifica formalmente regolare. Se quindi “il sistema di conoscenza legale in base a notifiche regolari non incide sulla questione della conoscenza effettiva”, per le Sezioni Unite, contrariamente a quanto ritenuto dall’ordinanza di rimessione, è del tutto irrilevante considerare il fatto che la notifica sia conforme al sistema occorrendo, invece, verificare se essa abbia consentito la conoscenza personale effettiva tenendo conto, ad esempio, della reale e stabile convivenza di chi abbia ricevuto l’atto o del carattere elusivo dell’indicazione di un domicilio presso il quale era certa l’impossibilità di reperimento della parte personalmente o di qualunque altro soggetto che potesse ricevere l’atto.

La conoscenza effettiva del processo nei termini anzidetti, dunque, non solo non può essere assicurata da qualunque forma di contatto con gli inquirenti, ma neanche può ritenersi raggiunta con la conoscenza da parte dell’indagato dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari in quanto tale atto – anche se deve contenere la “sommaria” enunciazione del fatto per il quale si procede, le norme che si assumono violate, la data e il luogo del fatto, nonché l’avvertimento che la documentazione relativa alle indagini espletate è depositata presso la segreteria del pubblico ministero e che l’indagato e il suo difensore possono prenderne visione e estrarne copia, nonché l’avvertimento che, entro venti giorni, l’indagato ha facoltà di presentare memorie, di produrre documenti, di depositare atti di indagine difensiva, di chiedere al pubblico ministero il compimento di ulteriori indagini ovvero di essere sottoposto ad interrogatorio o, infine, di presentarsi per rilasciare dichiarazioni – per le Sezioni Unite, altro non è che una comunicazione fatta dal pubblico ministero senza alcuna indicazione sul futuro sviluppo del procedimento e senza alcuna utile informazione sul futuro ed eventuale processo e, soprattutto, senza alcuna previsione di un onere per l’indagato di mantenersi informato sui futuri sviluppi del procedimento tale da superare l’obbligo di citazione in giudizio. Trattasi di un atto molto diverso da quelli tassativamente elencati nell’art. 420-bis, comma 2, cod. proc. pen. da cui il legislatore fa derivare l’onere dell’interessato di tenersi informato e, per il Supremo collegio, l’esclusione di tale atto da un elenco tassativo non può considerarsi del tutto casuale, ma è piuttosto espressione della valutazione da parte del legislatore della limitata rilevanza della conoscenza da parte dell’indagato dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari poiché essa non porta alla sicura consapevolezza della pendenza del processo non contenendo né data, né luogo dell’udienza, né l’esplicito avvertimento delle conseguenze derivanti dall’assenza dell’indagato dalla scena processuale. La rinunzia a comparire, dunque, intanto potrà ritenersi consapevolmente effettuata in quanto il titolare di tale diritto abbia effettiva conoscenza di un’accusa ormai cristallizzata, contenuta in un provvedimento formale di vocatio in iudicium che, per sui contenuti, traccia il limite del potere decisorio del giudice.

Tale opzione interpretativa è del tutto coerente non solo con l’attuale disciplina del processo in assenza, ma anche con gli insegnamenti della Corte di Strasburgo e con gli atti normativi adottati dal legislatore dell’Unione; ed invero, anche se tra i diritti assicurati dalla Convenzione europea all’imputato volti a garantirgli un “equo processo”, non figura espressamente quello di essere presente al proprio processo, la Corte europea ha ribadito più volte che tale facoltà va desunta dall’oggetto e dalle finalità dell’art. 6, considerato nella sua globalità, in quanto il “diritto dell’ imputato a difendersi personalmente”; “di interrogare o fare interrogare i testimoni”; “di farsi assistere gratuitamente da un interprete, se non comprende o non parla la lingua usata in udienza”, espressamente riconosciuti nei commi c), d) ed e) del paragrafo 3, risulterebbero delle mere formule astratte se non si garantisse anche la presenza dell’imputato in udienza.

Proprio in funzione di tali diritti, infatti, per la Corte EDU è “di capitale importanza che l’imputato sia presente in udienza” e “informare qualcuno di un processo intentato contro di lui è un atto giudiziario di tale importanza che deve essere effettuato in conformità con i requisiti procedurali e sostanziali capaci di garantire l’esercizio effettivo dei diritti da parte dell’imputato. La conoscenza vaga ed informale non può bastare” (così, caso Poitrimol c.Francia, sentenza del 23 novembre 1993, par 35; caso Sejdovic, cit.; Corte di giustizia, caso Openbaar Ministerie c. Pawel Dworzecki, n. 108 del 11/5/2016 che ha affermato la necessità che l’interessato sia citato personalmente o abbia comunque un’informazione ufficiale della data e del luogo fissato per il processo).

In ultimo, con la direttiva 2016/343/UE del Parlamento europeo e del Consiglio sul “rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali” (approvata il 9 marzo 2016 e il cui termine di recepimento è scaduto il 1 aprile 2018), il legislatore europeo è tornato nuovamente ad occuparsi dei diritti che devono essere riconosciuti all’imputato perché un processo penale si possa considerare equo.

A norma dell’art. 8, rubricato “diritto di presenziare al processo”, la possibilità per gli stati membri di disciplinare, a livello nazionale, la celebrazione di un processo penale in assenza dell’imputato, è subordinata alla garanzia che essi assicurino a indagati e imputati “il diritto di presenziare al proprio processo”; nel caso di processo svolto in absentia “l’indagato o imputato deve essere stato informato in tempo adeguato del processo e delle conseguenze della mancata comparizione; oppure …. (deve essere) rappresentato da un difensore” nominato dall’interessato o d’ufficio.

Per quanto riguarda i rimedi restitutori, è previsto dal combinato disposto degli artt. 8, comma 4 e 9, che là dove l’interessato non sia stato presente al processo, lo stesso sia informato della possibilità di “impugnare la decisione o ad un altro mezzo di ricorso giurisdizionale, che consenta di riesaminare il merito della causa, incluso l’esame di nuove prove, e possa condurre alla riforma della decisione originaria”.

In particolare, per quanto riguarda lo specifico profilo della conoscenza, al n. 36 del “considerando” della direttiva si legge che “il fatto che l’indagato o imputato sia informato del processo dovrebbe esser inteso nel senso che l’interessato è citato personalmente o è informato ufficialmente con altri mezzi della data e del luogo fissati per il processo in modo da consentirgli di venire a conoscenza del processo”. Al n. 12 del “considerando” della Direttiva si legge, infine, che essa “dovrebbe applicarsi ad ogni fase del procedimento penale fino a che non diventi definitiva la decisione che stabilisce in maniera finale se l’indagato o imputato abbia commesso il reato”.

Le Sezioni Unite, quindi, interpretando le norme interne alla luce della fonte europea hanno escluso che l’avviso ex art. 415-bis cod. proc. pen. sia sufficiente per assicurare la conoscenza effettiva della pendenza del processo posto che non contiene alcuna informazione sul futuro sviluppo del procedimento (data e luogo dell’udienza, preliminare o dibattimentale, né l’esplicito avvertimento che il processo potrà comunque celebrarsi in contumacia o assenza), né impone all’interessato alcun onere di mantenersi informato sui futuri ed eventuali sviluppi del procedimento. La conoscenza del procedimento, dunque, deve essere riferita alla conoscenza effettiva di un provvedimento formale di vocatio in iudicium e il sistema di conoscenza legale in base a notifiche regolari non è sufficiente a tal fine. Sull’interessato grava un onere di allegazione, ma non di prova, in ordine alle ragioni di mancata conoscenza; la presunzione di ignoranza del procedimento da parte del contumace può essere superata, dunque, solo dalla verifica da parte del giudice del fatto che l’interessato sia stato consapevole dello svolgimento di un processo nei suoi confronti a cui egli volontariamente e consapevolmente abbia inteso non partecipare conoscendo la regiudicanda identica all’imputazione che accompagna la vocatio in iudicium.

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. 2, n. 8410 del 24/1/2006, Pisaturo, Rv. 233692-01

Sez. 2, n. 8414 del 25/1/2006, Perrella, Rv. 233694

Sez. 1, n. 14272 del 9/3/2006, Coppola, Rv. 233516

Sez. 4, n. 29977 del 19/6/2006, Hudorovic, Rv. 235238-01

Sez. 1, n. 3746 del 16/1/2009, Del Duca, Rv. 242535-01

Sez. 1, n. 29851 del 24/6/2009, Cari, Rv. 244316-01

Sez. 4, n. 41860 del 17/6/2009, Tagliabue, Rv. 245438-01

Sez. 1, n. 32984 del 15/6/2010, Condello, Rv. 248008-01

Sez. 2, n. 43452 del 3/7/2013, Baloc, Rv. 256822-01

Sez. 4, n. 8104 del 15/11/2013, Djordjevic, Rv. 259350-01

Sez. 1, n. 6736 del 12/2/2014, Farago, Rv.259629-01

Sez. 6, n. 26834 del 24/3/2015, Kobernyk, Rv. 263992-01

Sentenze della Corte EDU

Corte EDU del 10/11/2004, Sejdovic c. Italia

Corte EDU del 23/11/1993, Poitrimol c.Francia

Sentenze della Corte di giustizia

Corte di giustizia, n. 108, 11/5/2016, Openbaar Ministerie c. Pawel Dworzecki

  • prescrizione dell'azione

CAPITOLO II

SENTENZA DI ESTINZIONE DEL REATO PER PRESCRIZIONE E INTERESSE AD IMPUGNARE DELLA PARTE CIVILE

(di Maria Cristina Amoroso )

Sommario

1 Premessa. - 2 La normativa di riferimento. - 3 La giurisprudenza di legittimità sulla questione controversa. L’orientamento affermativo della ammissibilità dell’impugnazione. - 4 L’orientamento negativo. - 5 L’indirizzo intermedio. - 6 La rimessione alle Sezioni Unite. - 7 Le Sezioni Unite n. 28911 del 28 marzo 2019. - Indice delle sentenze citate

1. Premessa.

Nell’anno 2019 le Sezioni Unite sono state chiamate a risolvere la questione di diritto: «se sia ammissibile il ricorso della parte civile avverso la sentenza che, su impugnazione di detta parte, abbia confermato la pronuncia di primo grado che, senza entrare nel merito, abbia dichiarato l’estinzione del reato per prescrizione».

2. La normativa di riferimento.

Per comprendere i termini del contrasto appare opportuno ricordare che la previsione di cui all’art. 576 cod. proc. pen. prevede la possibilità della parte civile di proporre impugnazione contro «i capi della sentenza di condanna che riguardano l’azione civile» nonché, limitatamente «ai soli effetti della responsabilità civile, contro la sentenza di proscioglimento pronunciata nel giudizio».

Tale potere si profila attualmente come autonomo rispetto all’impugnazione del PM, ancorché, nella versione originaria, la norma strutturasse il rimedio sul gravame accordato a quest’ultimo.

Dopo l’intervento della Corte costituzionale del 6/2/ 2007 n. 32, che ha di fatto spianato la strada alla decisione sul tema adottata da Sez. U, n. 2761 del 29/3/2007, P.C. in proc. Lista, Rv. 236537, non vi è più alcun dubbio che la disposizione, nella sua formulazione successiva alla l. 20 febbraio 2006 n. 46, che ha eliminato dalla norma l’inciso “con il mezzo previsto dal pubblico ministero”, è pacificamente riferibile non solo al ricorso per cassazione, ma anche al giudizio di appello.

A seguito dell’intervento delle Sezioni Unite n. 6509 del 2012, l’impugnazione della parte civile è ammissibile anche quando non contenga l’espressa indicazione che l’atto è proposto ai soli effetti civili (Sez. U, n. 6509 del 20/12/ 2012, dep. febbraio 2013, P.C. in proc. Colucci e altri, Rv. 254130).

Sotto il profilo formale, l’impugnazione de qua è disciplinata dalle regole ordinarie del processo penale poiché il carattere civilistico della causa non incide sul versante della sua trattazione: prosciolto l’imputato, qualora l’unico impugnante sia la parte civile, pur non potendosi scalfire i capi penali, divenuti ormai irrevocabili, tornano sub iudice le questioni relative al se l’imputato abbia o no commesso il fatto, ma solo ai fini civili, originando un giudizio penale, quanto a tema e forme.

La latitudine della nozione di “sentenze di proscioglimento pronunciate nel giudizio”, categoria generale all’interno della quale il codice distingue tra sentenze di non doversi procedere e sentenze di assoluzione, ha indotto la giurisprudenza e la dottrina ad interrogarsi sul tema della legittimazione e dell’interesse ad agire della parte civile avverso le sentenze di proscioglimento per prescrizione, e sui corrispondenti poteri del giudice, in un contesto, come quello attuale, connotato dal venir meno del principio della tendenziale separatezza degli ambiti di tutela civile e penale.

La questione, pur inserendosi nel più ampio dibattito giurisprudenziale e dottrinale riferito a tutte le cause di proscioglimento, presenta caratteristiche peculiari.

Diversamente dalle sentenze di assoluzione, quelle di non doversi procedere non contengono, solitamente, un accertamento del fatto storico ma si limitano a statuire su aspetti processuali che impediscono tale accertamento; ciò solleva dubbi sul se la parte civile sia legittimata e abbia interesse ad impugnare una sentenza “meramente processuale”.

3. La giurisprudenza di legittimità sulla questione controversa. L’orientamento affermativo della ammissibilità dell’impugnazione.

Nella giurisprudenza di legittimità antecedente l’intervento delle Sezioni Unite si erano delineate tre tesi.

Un primo indirizzo ermeneutico, sosteneva l’ammissibilità dell’impugnazione della parte civile avverso la sentenza di proscioglimento per prescrizione del giudice di primo grado, ai soli effetti civili, sulla base della previsione dell’art. 576 cod. proc. pen., che, in deroga l’art. 538 cod. proc. pen., consente al giudice di provvedere sulla domanda relativa ai risarcimenti ed alle restituzioni, anche in mancanza di una precedente statuizione, nonostante la sentenza di proscioglimento non sia destinata, ai sensi dell’art. 652 cod. proc. pen. ad avere effetti in un eventuale giudizio civile.

Nella decisione che ha dato inizialmente vita a tale orientamento, ovvero Sez. 2, n. 9263 del 2/2/2012, P.C. in proc. Nese, Rv. 252706, ribaditi i principi di diritto affermati dalle Sezioni Unite n. 25083 del 11/7/2006, Negri ed altro, Rv. 233918, si affermava che l’interesse della parte civile all’impugnazione della sentenza di proscioglimento, alla luce del sistema che consente alla stessa restituzione e risarcimenti, «non è discutibile» in quanto naturale conseguenza del diritto accordato alla stessa di tutelare i propri interessi in sede penale piuttosto che in sede civile, anche quando la sentenza è di non doversi procedere per estinzione del reato, ex art. 531 cod. proc. pen., poiché l’art. 576 cod. proc. pen. facoltizza la parte civile ad impugnare, senza limite alcuno, “la sentenza di proscioglimento pronunciata nel giudizio”, fra cui è compresa anche la “dichiarazione di estinzione del reato” e quindi anche la sentenza di prescrizione dichiarata dal primo giudice.

La seconda sezione chiarì che il principio secondo cui ove il reato venga dichiarato estinto per prescrizione il giudice d’appello non può pronunciare sugli effetti civili e, se la suddetta causa di estinzione non è rilevata dal primo giudice ma viene rilevata in appello o anche in cassazione, il giudice di grado superiore non solo deve dichiarare la declaratoria di estinzione del reato ma eliminare anche le statuizione relative alla parte civile, è applicabile all’ipotesi della prescrizione correttamente dichiarata, che preclude un accertamento sulle restituzioni ed il risarcimento del danno della parte civile, ma non può essere applicato al caso in cui la sentenza di prescrizione sia stata erroneamente dichiarata.

Nel caso in cui sia dedotta l’erroneità della dichiarata prescrizione, infatti, il giudice dell’appello, investito ai sensi dell’art. 576 cod. proc. pen., può o respingere l’impugnazione ritenendo corretta la decisione del primo giudice - e in questo caso rimane ferma anche la mancata decisione sulle domande civili, sicché alla parte civile salvo, ovviamente, il ricorso per cassazione, non rimane che riproporre le sue domande in sede civile - o accogliere l’appello ritenendo che il primo giudice abbia erroneamente dichiarato estinto il reato per prescrizione.

In quest’ultimo caso, il giudice dell’impugnazione è investito ex novo, sia pure ai soli effetti civili, della cognizione del giudizio penale sicché, deve delibare sulla responsabilità dell’imputato, e, ove, incidentalmente, lo ritenga colpevole, decidere sulle domande civili.

In altri termini, avendo l’impugnazione un effetto, per così dire “retroattivo”, il giudice di secondo grado deve rapportarsi al momento in cui il primo ha pronunciato la sentenza e, quindi, decidere come se fosse al suo posto; sicché, ove accerti che questi ha errato nel dichiarare la prescrizione, deve decidere, ai soli fini civili, prima nel merito e, poi, sulle domande civili quand’anche dovesse, poi, nuovamente dichiarare l’estinzione del reato per prescrizione nel frattempo sopravvenuta.

Negare alla parte tale facoltà, si affemò nella decisione citata, avrebbe significato privarla di un rimedio contro un’erronea dichiarazione di prescrizione, tanto più nelle ipotesi in cui il giudice penale, prima di dichiarare la prescrizione, è entrato nel merito ed ha riconosciuto la colpevolezza dell’imputato.

La pronuncia chiarì, inoltre, che nella diversa ipotesi in cui la prescrizione si sarebbe dovuta pronunziare in primo grado, in luogo della formula più liberatoria, allora, il giudice dell’ impugnazione, sebbene adìto ai sensi dell’art. 576 cod. proc. pen., avrebbe potuto provvedere agli effetti civili, per effetto dell’art. 538 comma 1 cod. proc. pen.».

I principi enunciati nella decisione illustrata vennero pedissequamente ribaditi dalle pronunce di Sez. 2, n. 40069 del 14/6/2013, P.C. in proc. Giancaspro, Rv. 256356 e Sez. 2, n. 7041 del 28/11/2012, dep. 2013, Caleca e altri, Rv. 254999, e Sez. 2, n. 48667 del 5/11/2014 Bonacina e altro, non massimata, in cui, pur richiamandosi le decisioni dell’orientamento affermativo, il ricorso delle parti civili, viene dichiarato manifestamente infondato, in quanto con l’appello le stesse non avevano dedotto, sia pure ai soli effetti civili, l’erroneità della declaratoria della prescrizione da parte del giudice di primo grado.

4. L’orientamento negativo.

Un diverso orientamento, invece, escludeva la facoltà della parte civile di impugnare le sentenze dichiarative di estinzione del reato.

A sostegno di tale interpretazione si faceva leva, in primo luogo, sulla dichiarata “primazia” dell’art. 538 cod. proc. pen., che, impedendo al giudice di delibare sulla domanda civile al di fuori dei casi di condanna, viene considerato prevalente sulla disposizione dell’art. 576 cod. proc. pen., che consente alla parte civile di impugnare le sentenze di proscioglimento, in quanto sarebbe del tutto asistematica una soluzione interpretativa che finisse per consentire alla parte civile di ottenere dal giudice dell’impugnazione una statuizione sulla propria domanda vietata invece al giudice di primo grado.

In secondo luogo si affermava, come già chiarito, che la sentenza di prescrizione è priva di effetti pregiudizievoli per la parte civile non producendo effetti nel giudizio civile per le restituzioni e per il risarcimento del danno ai sensi dell’art. 652 cod. proc. pen. (Sez. 6, n. 19540 del 21/03/2013, Failla, Rv. 255668; Sez. 4, n. 3789 del 19/01/2016, Gitto, Rv. 265741; con riguardo al secondo profilo, Sez. 2, n. 952 del 28/11/2017, Pasquali; Sez. 4, n. 18384 del 20/12/2017, dep. 2018, Medicina Democratica, Rv. 273262; Sez. 5, n. 12757 del 14/10/2016, Lorusso).

5. L’indirizzo intermedio.

Un terzo indirizzo “intermedio”, di cui è espressione Sez. 6, n. 21533 del 13/03/2018, P., Rv. 272930, pur prendendo le mosse dalle considerazioni svolte dall’orientamento “affermativo”, introdusse una variante volta a “conciliare” le due diverse prospettive fin qui esaminate.

Nella decisione, da un lato vennero riproposti gli enunciati di Sez. 2, n. 9263 del 02/02/2012, Nese, cit., in ordine alla facoltà riconosciuta alla parte civile dall’art. 576 di impugnare incondizionatamente le sentenze di proscioglimento e, tra esse, quelle “di prescrizione” e al correlato potere del giudice di appello, una volta accertata l’erroneità della declaratoria di prescrizione in primo grado, di delibare ex novo e con effetto retroattivo, sia pure ai soli effetti civili, sulla responsabilità dell’imputato, e l’incongruità di ogni considerazione circa l’assenza di pregiudizio derivante alla parte civile dalla sentenza di prescrizione, rientrando nell’insindacabile scelta della stessa la decisione circa l’esercizio delle proprie ragioni in sede civile o penale (tanto più essendo degno di tutela un tale interesse in quanto diverso il criterio di valutazione della prova, ancorato a parametri strettamente tipizzati quello proprio del processo civile, ed invece improntato al principio di atipicità quello del processo penale).

Dall’altro, si aggiunse (in ciò risiedendo la variante esegetica che contraddistinguerebbe l’opzione in parola), che l’impugnazione della parte civile avverso la sentenza dichiarativa della prescrizione sarebbe possibile solo là dove l’erronea statuizione sia intervenuta per effetto e quale risultato di una valutazione del merito, posto che solo in tal modo si realizzerebbe «quell’accertamento sulla colpevolezza e quindi nel merito suscettibile di pregiudicare le ragioni della parte civile e di legittimare così un interesse attuale e concreto a proporre appello».

Infine si delineò un ulteriore approccio esegetico, anch’esso qualificabile come intermedio, perché volto a contemperare le due diverse impostazioni, e di cui sono espressione Sez. l, n. 13941 del 08/01/2015, Ciconte, Rv. 263065 e Sez. 2, n. 52195 del 07/10/2016, Sciscione, Rv. 268668.

In queste pronunce si affermò che, in ragione della mancanza nella sentenza di prescrizione di un’affermazione di responsabilità che possa giustificare, secondo quanto discendente dalle previsioni degli artt. 538 e 578 cod. proc. pen., la pronuncia sulla domanda civile, il potere di impugnazione della parte civile e quello decisorio del giudice del gravame sono circoscritti alla sola rimozione dell’efficacia di giudicato rappresentata dalla sentenza di proscioglimento, senza che possa a ciò far seguito alcuna pronuncia sulla pretesa civilistica, suscettibile di proseguire in sede civile senza alcun pregiudizio rappresentato da un giudicato ormai rimosso.

6. La rimessione alle Sezioni Unite.

La Quinta Sezione penale, con ordinanza n. 2291, del 21 novembre 2018, depositata in data 19 dicembre 2018, in cui veniva rilevata la divergente risposta fornita dalla giurisprudenza di legittimità all’interrogativo sulla ammissibilità dell’impugnazione della parte civile avverso la sentenza di proscioglimento dichiarativa dell’estinzione del reato per prescrizione rimise la questione alle Sezioni unite.

Nel caso di specie, la parte civile aveva proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza di secondo grado che aveva respinto l’appello da essa proposto nei confronti della sentenza di primo grado di proscioglimento per prescrizione.

7. Le Sezioni Unite n. 28911 del 28 marzo 2019.

Le Sezioni Unite della Suprema Corte, con sentenza n. 28911 del 28 marzo 2019, dep. 3 luglio 2019, Massaria C/ Papaleo, hanno affermato il principio di diritto così massimato: «Nei confronti della sentenza di primo grado che abbia dichiarato l’estinzione del reato per intervenuta prescrizione, così come nei confronti della sentenza di appello che tale decisione abbia confermato, è ammissibile l’impugnazione della parte civile ove con la stessa si contesti l’erroneità di detta dichiarazione.(In motivazione la Corte ha precisato che la legittimazione della parte civile ad impugnare deriva direttamente dalla previsione dell’art. 576, comma 1, cod. proc. pen., mentre l’interesse concreto deve individuarsi nella finalità di ottenere, in caso di appello, il ribaltamento della prima pronuncia e l’affermazione di responsabilità dell’imputato, sia pure ai soli fini delle statuizioni civili, e, in caso di ricorso in cassazione, l’annullamento della sentenza con rinvio al giudice civile in grado di appello, ex art. 622 cod. proc. pen., senza la necessità di iniziare “ex novo” il giudizio civile)». (Rv. 275953 – 01).

Le Sezioni Unite risolvono il contrasto condividendo l’indirizzo giurisprudenziale che ammette l’impugnazione proposta dalla parte civile avverso la sentenza di estinzione del reato per prescrizione, a condizione che, con la stessa, si contesti la fondatezza di tale conclusione.

A supporto della soluzione fornita le Sezioni Unite valorizzano il contenuto della attuale formulazione dell’art. 576 cod. proc. pen., che a differenza l’art. 195 del codice di rito previgente - che riconosceva alla parte civile il solo potere di proporre, ove si trattasse di sentenza impugnabile dal pubblico ministero, l’impugnazione contro le disposizioni della sentenza concernenti i suoi interessi civili, in caso di “condanna dell’imputato” – ha ampliato il novero delle sentenze impugnabili, includendo in esse, oltre che la già considerata pronuncia di condanna, anche quella di “proscioglimento”, sia pure sempre nell’ambito di una pretesa volta unicamente alla rivisitazione dei soli effetti civili.

Ciò precisato, il Supremo Consesso afferma che il significato da attribuire alla nozione di “sentenza di proscioglimento” va rinvenuto in quanto già affermato dalle stesse Sezioni Unite (Sez. U., n. 40049 del 29/05/2008, Guerra, Rv. 240815), e dalla unanime dottrina, secondo cui sono tali sia le sentenze di non doversi procedere sia le sentenze di assoluzione, essendo tale sintassi unicamente intesa ad escludere le sentenze di non luogo a procedere pronunciate nell’udienza preliminare.

Le Sezioni Unite rimarcano, inoltre, la non persuasività delle argomentazioni poste a fondamento della giurisprudenza che nega l’ammissibilità dell’impugnazione della parte civile avverso le sentenze dichiarative della prescrizione in ragione di una carenza di legittimazione di quest’ultima dettata dalla necessità di evitare che il giudice di appello eserciti poteri non riconosciuti neppure al giudice di primo grado; non tanto e non solo, si afferma, in ragione di una prevalenza della previsione dell’art. 576 sull’art. 538, in quanto “di natura derogatoria” la prima sulla seconda, ma soprattutto perché le due disposizioni, lungi dall’essere incompatibili, delineano, invece, un sistema la cui finalità è quella di garantire alla parte civile, proprio nei casi in cui la sentenza di condanna sia mancata per effetto di una denunciata erronea affermazione di intervenuta prescrizione del reato, di ottenere comunque rimedio in sede di impugnazione, sia pure sempre ai soli effetti civili.

La soluzione si fonda altresì sui principi delle Sezioni U., n. 25083 del 11/07/2006, Negri, Rv. 233918, in cui, tra l’altro, si è affermato che « il giudice dell’impugnazione, adito ai sensi dell’art. 576 cod. proc. pen., ha, nei limiti del devoluto e agli effetti della devoluzione, i poteri che il giudice di primo grado avrebbe dovuto esercitare. Se si convince che tale giudice ha sbagliato nell’assolvere l’imputato ben può affermare la responsabilità di costui agli effetti civili e (come indirettamente conferma il disposto di cui all’art. 622 cod. proc. pen.) condannarlo al risarcimento o alle restituzioni, in quanto l’accertamento incidentale equivale virtualmente - oggi per allora - alla condanna di cui all’art. 538, comma 1, cod. proc. pen., che non venne pronunziata per errore» (nel medesimo senso, Sez. 1, n. 17321 del 26/04/2007, Viviano, Rv. 236599 e Sez. 6, n. 41479 del 25/10/2011, V., Rv. 251061, con riferimento a sentenza di proscioglimento nel merito).

L’adesione alla tesi opposta a quella dell’ammissibilità della impugnazione in esame, per le Sezioni Unite determinerebbe una incongrua interpretazione dell’art. 576 cod. proc. pen. che, al di là del dato letterale inequivoco, finirebbe per svilire il senso stesso della ratio e della finalità ontologica di ogni mezzo di impugnazione che è evidentemente quello di correggere decisioni “erronee”, frustrando le aspettative della parte civile che consistono, legittimamente, nel pretendere che il giudizio penale non si arresti alla constatata prescrizione del reato, ma prosegua al fine di valutare se la stessa sia stata erroneamente o meno dichiarata e di ottenere così il risultato che, con la propria costituzione, si prefiggeva.

Nemmeno persuadono, aggiunge la Corte, le decisioni di segno negativo fondate sulla carenza di un interesse concreto ad agire in capo alla parte civile nel caso di impugnazioni avverso la sentenza di prescrizione.

Sul punto si osserva che quanto in esse affermato circa la possibilità per detta parte di percorrere comunque, una volta definita la “vicenda penale” con esito di proscioglimento per ragioni di maturata prescrizione, la via civile senza che da tale proscioglimento possano in essa derivare ripercussioni negative, non è circostanza idonea a rendere “neutra” la declaratoria di estinzione e a far ritenere recessivo qualunque interesse della parte ad insistere nel perseguire, all’interno del giudizio penale, a mezzo di impugnazione, un diverso, più favorevole, esito.

L’interesse della parte civile, ravvisabile “anche” quando tenda ad evitare conseguenze extra penali pregiudizievoli o ad assicurarsi effetti penali più favorevoli che l’ordinamento faccia dipendere dalla pronuncia domandata (Sez. 6, n. 35989 del 01/07/2015, Vittorini, Rv. 265604), non significa, infatti, che la possibilità di assicurarsi quegli stessi vantaggi al di fuori del processo penale possa annullare l’interesse ad attenerli, ancor prima e in modo processualmente più rapido e conveniente, innanzitutto in sede penale, e ciò vieppiù in quanto l’accertamento in sede penale non soffre delle preclusioni e dei limiti previsti in sede civile in considerazione soprattutto del differente criterio di valutazione della prova, collegato a parametri predeterminati e fondato invece, nel processo penale, sul principio di atipicità.

In proposito le Sezioni Unite hanno affermato che con la costituzione di parte civile, il danneggiato che ha inteso trasferire in sede penale l’azione civile di danno ha «interesse ad ottenere nel giudizio penale il massimo di quanto può essergli riconosciuto» sì che non gli si può negare l’interesse ad impugnare la decisione di proscioglimento anche quando questa manchi di efficacia preclusiva (Sez. U, n. 40049 del 29/05/2008, Guerra, Rv. 240815).

Del resto, precisa la Corte, anche in caso di assoluzione perché il fatto non costituisce reato, le limitazioni all’efficacia del giudicato previste dall’art. 652 cod. proc. pen. non incidono sull’estensione del diritto all’impugnazione; si evidenzia che anche in tali ipotesi, ove si ritenesse il contrario, la parte civile che intendesse impugnare la sentenza assolutoria sarebbe costretta a rinunciare agli esiti dell’accertamento compiuto nel processo penale e a riavviare ab initio l’accertamento in sede civile, con conseguente allungamento dei tempi processuali (Sez. 2, n. 41784 del 18/07/2018, Edilscavi, Rv. 275416, e Sez. 2, n. 36930 del 04/07/2018, Addonisio, Rv. 273519).

Le Sezioni Unite sottolineano anche le ragioni per le quali la soluzione prescelta, a differenza di quanto sostenuto dai fautori dell’interpretazione opposta, è perfettamente in linea con la giurisprudenza costituzionale ed europea.

In riferimento al primo profilo si precisa che la più volte ribadita affermazione della Corte Costituzionale, da ultimo con la sentenza n. 12 del 2016, ripresa anche da Sez. U, n. 46688 del 29/09/2016, Schirru, Rv. 267884, secondo cui «ogni separazione dell’azione civile dall’ambito del processo penale non può essere considerata una menomazione o una esclusione del diritto alla tutela giurisdizionale giacché la configurazione di quest’ultima, in vista delle esigenze proprie del processo penale, è affidata al legislatore» e secondo cui «l’impossibilità di ottenere una decisione sulla domanda risarcitoria laddove il processo penale si concluda con una sentenza di proscioglimento per qualunque causa [... ] costituisce [... ] uno degli elementi dei quali il danneggiato deve tener conto nel quadro della valutazione comparativa dei vantaggi e degli svantaggi delle due alternative che gli sono offerte» , non comporta quale corollario, tanto più in presenza della specifica previsione dell’art. 576 cod. proc. pen., che la persistente azionabilità della pretesa risarcitoria in sede civile, considerato come rimedio di pari efficacia, renda l’esito assolutorio necessariamente immune, in sede penale, da censure mosse proprio al fine di ottenere, con i mezzi di impugnazione, la tutela che la costituzione di parte civile è funzionalmente diretta a perseguire.

Passando al secondo dei profili citati, le Sezioni unite contestano che l’orientamento restrittivo possa ragionevolmente fondarsi sul fatto che la Corte di Strasburgo non ritenga contrastante, con il principio del giusto processo dell’art. 6 della Convenzione Edu, un regime processuale (quale sarebbe quello che, in definitiva, risulterebbe ove si recepisse l’orientamento “restrittivo”) che comporti il mancato esame della domanda della parte civile per il fatto di un mancato epilogo “condannatorio”, a fronte della possibilità per la stessa parte di fruire di altri rimedi accessibili ed efficaci per far valere le proprie pretese individuabili, nell’ordinamento italiano, nella possibilità di rivolgersi comunque al giudice civile ( Corte Edu, Sez.3, 25/06/2013, Associazione delle persone vittime del sistema s.e. Rompetrol s.a. e s.e. Geomin s.a. e altri c. Romania, e Sez. l, 04/10/2007, Forum Maritime s.a. c. Romania); la conformità alla regolamentazione sovranazionale di un sistema di tutela più “limitato”, specificano le Sezioni Unite, non sarebbe evidentemente valido motivo per disconoscere quello, più ampio, eventualmente assicurato dal diritto interno alla luce di quanto previsto nell’art. 53 della Convenzione Edu circa il divieto di interpretare le disposizioni della stessa in modo da limitare o pregiudicare i diritti dell’uomo e le libertà fondamentali che possano essere riconosciuti in base alle leggi di ogni Parte contraente o in base a ogni altro accordo al quale essa partecipi.

Le Sezioni Unite confutano altresì le descritte posizioni espressione dall’orientamento intermedio osservando, da un lato, che l’art. 576 cod. proc. pen. non prevede quale condizione dell’ammissibilità dell’impugnazione una “incursione nel merito del giudice” e, dall’altro, che sarebbe inutiliter data una decisione del giudice d’appello che si limiti a rimuovere la dichiarazione di prescrizione senza decidere nuovamente agli effetti civili, posto che tale rimozione non porterebbe alcun vantaggio alla parte civile che, in difetto di valore di giudicato ai sensi dell’art. 652 cod. proc. pen, potrebbe comunque proporre la propria azione dinanzi al giudice non penale.

Rassegnate le motivazioni che hanno indotto a propendere per la soluzione affermativa, le Sezioni Unite delineano le condizioni alle quali un’eventuale impugnazione della parte civile avverso la sentenza dichiarativa della prescrizione è da ritenere ammissibile, tenendo conto della necessità, più volte affermata in giurisprudenza, che l’azione sia sorretta da un interesse concreto diretto ad un risultato pratico favorevole, che non potrebbe mai essere costituito da quello finalizzato alla mera correttezza della decisione.

Affermano quindi il principio di diritto così massimato: «La valutazione dell’interesse ad impugnare, sussistente allorché il gravame sia in concreto idoneo a determinare, con l’eliminazione del provvedimento impugnato, una situazione pratica più favorevole per l’impugnante, va operata con riferimento alla prospettazione rappresentata nel mezzo di impugnazione e non alla effettiva fondatezza della pretesa azionata» ( Rv. 275953 – 02).

Alle condizioni indicate dalle Sezioni Unite, la parte civile potrà impugnare presso il giudice d’appello la decisione di primo grado dichiarativa di prescrizione deducendone l’erroneità, con un duplice esito: in caso di giudizio che accertasse correttamente adottata la decisione di primo grado dichiarativa dell’estinzione, resterebbe ferma, perché corretta, la mancata decisione in ordine alle statuizioni civili; ove invece si riscontrasse l’erroneità della ritenuta prescrizione, il giudice di appello, delibando “ora per allora”, nel merito, in ordine alla sussistenza della responsabilità penale, dovrebbe, ove ritenuta sussistente, decidere, in conseguenza, pur lasciando fermo l’epilogo penale, insensibile alla impugnazione della sola parte civile, anche sulle statuizioni civili secondo quanto disposto dagli artt. 538 e ss. cod. proc. pen. indipendentemente da ogni prescrizione nel frattempo maturata nel giudizio di appello; e ciò, tanto più laddove già il giudice di primo grado, pur dichiarando la prescrizione, avesse (come nel caso di specie) già accertato nel merito la responsabilità dell’imputato.

Dopo aver aggiunto che la soluzione favorevole va adottata anche in riferimento al ricorso per Cassazione, le Sezioni Unite si soffermano sulle peculiarità di tale tipologia di impugnazione, al fine di chiarire se sia configurabile, anche in tale ipotesi, un interesse concreto della parte civile ad agire.

A tale scopo precisano che, a differenza di quanto avviene per l’impugnazione di merito, l’accoglimento del ricorso per cassazione della parte civile nei confronti della sentenza di proscioglimento comporta l’annullamento con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello. (tra le altre, da ultimo, Sez. 6, n. 5888 del 21/01/2014, Bresciani, Rv. 258999 e Sez. 6, n. 44685 del 23/09/2015, N., Rv. 265561); militano in tal senso il dato testuale dell’art. 622 cod. proc. pen, e ragioni sistematiche fondate sulla circostanza che l’esito penale del proscioglimento, non è più “rivedibile”, neanche solo “virtualmente”, come invece possibile al giudice di merito di secondo grado, e che pertanto al giudice di legittimità, inibita ogni possibile prosecuzione del giudizio penale, non resta altra scelta che restituire la cognizione in sede di rinvio all’organo giudiziario cui appartiene naturalmente, secondo quanto affermato dalle Sezioni unite n. 306 del 30/11/1974, Buzzi, Rv. 128995: “ [... ], a seguito del ricorso della parte civile avverso la pronuncia penale, il giudice penale non può, in caso di accoglimento del ricorso, continuare nell’esercizio di una giurisdizione che non gli è propria, come in qualunque altro caso in cui l’azione civile non trova più un addentellato in sede penale».

Tanto rappresentato, le S. U. affermano che anche nell’ipotesi dell’impugnazione in cassazione avverso la decisione di prescrizione, in cui apparentemente sembrerebbe mancare l’interesse della parte civile a ricorrere dovendo, comunque, la sua domanda essere trattata in sede civile, sussiste comunque un interesse concreto a perseguire le proprie istanze in sede penale, giacché, non mutando la sede del giudizio, detta parte non dovrà ricominciare dal primo grado - come previsto in caso di sentenza penale non impugnata dalla parte civile e passata in giudicato - ma da quello di appello, e le sarà consentito di godere di tempi più celeri, quale vantaggio, ancor più concreto ove la sentenza di prescrizione non si sia semplicemente arrestata a constatare la mancanza di elementi tale da imporre l’assoluzione nel merito ex art. 129 cod. proc. pen. ma abbia accertato, sia pure solo incidentalmente, la responsabilità dell’imputato, con la conseguente possibilità di valorizzare gli elementi di prova già emersi in sede penale, pur nell’assenza di ogni efficacia di giudicato della sentenza.

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sezioni unite n. 306 del 30/11/1974, Buzzi, Rv. 128995

Sez. 1, n. 17321 del 26/04/2007, Viviano, Rv. 236599

Sez. U, n. 2761 del 29/3/ 2007, P.C. in proc. Lista, Rv. 236537

Sez. U, n. 40049 del 29/05/2008, Guerra, Rv. 240815

Sez. 6, n. 41479 del 25/10/2011, V., Rv. 251061

Sez. 2, n. 9263 del 2/2/ 2012, P.C. in proc. Nese, Rv. 252706

Sez. U, n. 6509 del 20/12/2012, dep. 2013, Colucci, Rv. 254130

Sez. 2, n. 7041 del 28/11/ 2012, dep. 2013, Caleca e altri, Rv. 254999

Sez. 2, n. 40069 del 14/6/2013, P.C. in proc. Giancaspro, Rv. 256356

Sez. 6, n. 19540 del 21/03/2013, Failla, Rv. 255668

Sez. 2, n. 48667 del 5/11/2014 Bonacina, n.m.

Sez. 6, n. 5888 del 21/01/2014, Bresciani, Rv. 258999

Sez. l, n. 13941 del 08/01/2015, Ciconte, Rv. 263065

Sez. 6, n. 44685 del 23/09/2015, N., Rv. 265561

Sez. 6, n. 35989 del 01/07/2015, Vittorini, Rv. 265604

Sez. 5, n. 12757 del 14/10/2016, Lorusso

Sez. 2, n. 52195 del 07/10/2016, Sciscione, Rv. 268668

Sez. U, n. 46688 del 29/09/2016, Schirru, Rv. 267884

Sez. 4, n. 3789 del 19/01/2016, Gitto, Rv. 265741

Sez. 4, n. 18384 del 20/12/2017, dep. 2018, Medicina Dem., Rv. 273262

Sez. 2, n. 952 del 28/11/2017, Pasquali

Sez. 6, n. 21533 del 13/03/2018, P., Rv. 272930

Sez. 5, ord. n. 2291, del 21/11/2018, Massaria C/ Papaleo

Sez. 2, n. 41784 del 18/07/2018, Edilscavi, Rv. 275416

Sez. 2, n. 36930 del 04/07/2018, Addonisio, Rv. 273519

Sez. U, n. 28911 del 28/03/2019, Massaria C/ Papaleo

Sentenze della Corte costituzionale

Corte cost., sent. n. 32 del 2007

Sentenze della Corte EDU

Sez. 3, 25/06/2013, Associazione delle persone vittime del sistema s.e. Rompetrol s.a. e s.e. Geomin s.a. e altri c. Romania,

Sez. l, 04/10/2007, Forum Maritime s.a. c. Romania

  • mafia

CAPITOLO III

LA RICORRIBILITA’ IN CASSAZIONE DEL PROVVEDIMENTO CON CUI IL TRIBUNALE NEGHI L’APPLICAZIONE DEL CONTROLLO GIUDIZIARIO EX ART. 34-BIS, COMMA 6, D. LGS. N. 159/2011

(di Gennaro Sessa )

Sommario

1 Il quesito sottoposto alle Sezioni unite. - 2 L’orientamento giurisprudenziale favorevole all’impugnabilità del provvedimento del tribunale. - 3 L’orientamento giurisprudenziale contrario all’impugnabilità del provvedimento del tribunale. - 4 Il contributo offerto alla soluzione del contrasto da Sez. 1, n. 29487 del 07.05.2019, Tribunale di Catanzaro c./Tribunale di Trento. - 5 La decisione delle Sezioni Unite. - Indice delle sentenze citate

1. Il quesito sottoposto alle Sezioni unite.

Nel corso dell’anno 2019 ha formato oggetto di esame da parte delle Sezioni unite la seguente questione controversa: «Se il provvedimento con cui il tribunale competente per le misure di prevenzione neghi l’applicazione del controllo giudiziario richiesto ex art. 34-bis, comma 6, del d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, sia impugnabile con ricorso per cassazione».

Il delinearsi di due contrapposti orientamenti – l’uno assertore della ricorribilità per cassazione di tale provvedimento, l’altro sostenitore della sua inoppugnabilità – ha reso necessario l’intervento della Corte a Sezioni unite.

La trattazione del ricorso è stata rimessa al supremo consesso con ordinanza della Sesta sezione penale n. 903 del 15.05.2019 (dep. il successivo 03.06.2019).

Nello specifico, i giudici remittenti hanno rilevato l’esistenza di un contrasto, interno alla giurisprudenza di legittimità, sul tema dell’impugnabilità con ricorso per cassazione del provvedimento del tribunale per le misure di prevenzione reiettivo della richiesta di applicazione del controllo giudiziario, avanzata ai sensi dell’art. 34-bis, comma 6, d.lgs. n. 159 del 2011.

L’ordinanza di rimessione ha pertanto individuato un primo orientamento, secondo cui avverso tale provvedimento è proponibile ricorso per cassazione, da parte dei soggetti interessati, secondo il procedimento di carattere generale previsto dall’art. 127, comma 7, cod. proc. pen., evidenziando che, nelle pronunzie allo stesso riconducibili, si è sostenuto che il richiamo alle forme del procedimento in camera di consiglio fornisce l’addentellato normativo, secondo un modello idoneo a contemperare le esigenze di celerità, proprie di un procedimento a carattere para-incidentale, con la necessità di assicurare il controllo di legittimità, imposto, ex art. 111 Cost., dalla interferenza con diritti soggettivi costituzionalmente garantiti, inferendone l’assunto che il provvedimento emesso dal tribunale ex art. 34-bis, comma 6, d.lgs. n. 159 del 2011 è impugnabile con il solo ricorso per cassazione e soltanto per violazione di legge ex art. 10, comma 3, d.lgs. citato.

L’anzidetta ordinanza ha individuato poi un opposto orientamento che esclude l’impugnabilità del provvedimento de quo sul rilievo che il rinvio all’art. 127 cod. proc. pen., operato in altre norme dello stesso codice con la formula «secondo le forme previste» o con altre equivalenti, riguarda le regole di svolgimento dell’udienza camerale e non implica la completa ricezione del modello procedimentale ivi descritto, compreso il ricorso in sede di legittimità, confermando l’assunto il fatto che il legislatore, per diverse disposizioni contenenti tale rinvio, ha previsto espressamente quel rimedio.

Si è quindi evidenziato che, secondo l’indicata opzione ermeneutica, il richiamo all’art. 127 cod. proc. pen., contenuto nell’art. 34-bis, comma 6, d.lgs. n. 159 del 2011, riguarderebbe esclusivamente la forma partecipata del procedimento, in quanto non può estendersi ai mezzi di impugnazione, per i quali vale il principio di tassatività sancito dall’art. 568, comma 1, cod. proc. pen., aggiungendosi che l’argomentazione posta a fondamento di detta tesi fonda sulla triplice considerazione che la disciplina del controllo giudiziario non prevede un mezzo d’impugnazione, né contiene un rinvio al procedimento applicativo delle misure di prevenzione personali o patrimoniali o al sistema di impugnazione dei provvedimenti patrimoniali di cui agli artt. 27 e 10 del d.lgs. n. 159 del 2011, che anche nella subiecta materia vige il principio di tassatività di cui all’art. 568, comma 1, cod. proc. pen. e che la mancata previsione di uno specifico mezzo d’impugnazione non è casuale, ove si tenga conto della disposizione di segno opposto contenuta nell’art. 34, comma 7, del d.lgs. cit, egualmente introdotto dalla novella n. 161 del 2017.

Né, per altro verso, risulterebbe conducente il richiamo all’art. 111 Cost., dal momento che il provvedimento ex art. 34-bis, comma 6, d.lgs. n. 159 del 2011 non incide sulla libertà personale, né concerne l’esercizio di diritti di rango costituzionale e la decisione del tribunale della prevenzione ha comunquw carattere provvisorio, sempre rivedibile in forza di elementi che possono sopravvenire fino alla stabilizzazione degli effetti della misura di prevenzione amministrativa, sicchè l’attribuzione a tale organo di un potere di controllo sui presupposti legittimanti l’applicazione delle interdittive antimafia finirebbe col duplicare i controlli sulla legittimità delle stesse.

2. L’orientamento giurisprudenziale favorevole all’impugnabilità del provvedimento del tribunale.

L’orientamento favorevole all’impugnabilità del provvedimento del tribunale che neghi l’applicazione del controllo giudiziario richiesto ai sensi del citato art. 34-bis, comma 6, si è formato a partire da Sez. 5, n. 34526 del 02.07.2018, Eurostrade s.r.l., Rv. 273646, decisione in cui la Corte, nel dichiarare l’inammissibilità del gravame proposto dal patrocinatore dell’impresa, ha rilevato che il richiamo alle forme del procedimento in camera di consiglio di cui all’art. 127 cod. proc. pen. fornisce l’addentellato normativo per ritenere che avverso l’ordinanza del tribunale – sia essa di accoglimento o di rigetto – i soggetti interessati possono proporre ricorso per cassazione, giusta la previsione del comma 7 del citato art. 127, aggiungendo che si è previsto un modello snello, idoneo a contemperare le esigenze di celerità, proprie di un procedimento a carattere para-incidentale, con la necessità di assicurare il controllo di legittimità, imposto, ex art. 111 Cost., dalla interferenza con diritti soggettivi costituzionalmente garantiti, quale è la libertà d’impresa e concludendo che il provvedimento emesso dal tribunale ai sensi del comma 6 del citato art. 34-bis è impugnabile soltanto mediante ricorso per cassazione.

Nel breve volgere di alcuni mesi, si sono uniformate a tale decisione Sez. 2, n. 14586 del 13.02.2019, C.L.P. Sviluppo Industriale s.p.a., non massimata e Sez. 2, n. 16105 del 15.03.2019, Panges Prefabbricati s.r.l., Rv. 276530, pronunzie analogamente dichiarative dell’inammissibilità delle proposte impugnazioni, in cui la Corte ha implicitamente ammesso la ricorribilità per cassazione dei provvedimenti gravati, omettendo l’indicazione delle ragioni fondanti l’assunto.

Nello stesso filone interpretativo si è inserita, poi, Sez. 2, n. 17451 del 14.02.2019, Fradel Costruzioni soc. coop., Rv. 276331, in cui la Corte, nel pronunciare l’inammissibilità dell’impugnazione azionata dal patrocinatore dell’impresa, ha ritenuto condivisibile l’orientamento secondo cui il provvedimento di rigetto della richiesta di controllo giudiziario formulata, ai sensi dell’art. 34-bis, comma 6, d.lgs. n. 159 del 2011, dall’impresa destinataria dell’interdittiva antimafia è impugnabile con ricorso per cassazione ex art. 127, comma 7, cod. proc. pen.

Perfettamente in linea con l’indicata opzione ermeneutica risulta altresì Sez. 2, n. 18564 del 13.02.2019, Consorzio Sociale COIN Società Cooperativa Sociale, Rv. 275419, in cui la Corte, pronunciando ancora una volta l’inammissibilità del proposto gravame, ha ribadito, innanzitutto, che è impugnabile con ricorso per cassazione ex art. 127, comma 7, cod. proc. pen. il provvedimento di rigetto della richiesta di controllo giudiziario, formulata dall’impresa destinataria dell’informazione antimafia interdittiva, ai sensi dell’art. 34-bis, comma 6, d.lgs. n. 159 del 2011.

Il giudice di legittimità ha riaffermato, ancora, che il richiamo alle forme del procedimento in camera di consiglio di cui all’art. 127 cod. proc. pen., contenuto nel comma sesto dell’art. 34-bis d.lgs. 159/2011, come modificato dalla legge 161 del 2017, fornisce l’addentellato normativo per ritenere che avverso l’ordinanza del tribunale – sia essa di accoglimento o di rigetto – i soggetti interessati possono proporre ricorso per cassazione, giusta la previsione del comma 7 del citato art. 127 e che si è previsto, in tal modo, un modello snello, idoneo a contemperare le esigenze di celerità, proprie di un procedimento a carattere para-incidentale, con la necessità di assicurare il controllo di legittimità, imposto, ex art. 111 Cost., dalla interferenza con diritti soggettivi costituzionalmente garantiti, quale è la libertà d’impresa.

Da ultimo, la Corte ha aggiunto che il giudizio di legittimità non potrà in alcun modo avere a oggetto aspetti riconducibili ai presupposti per l’emissione delle interdittive antimafia, ma dovrà limitarsi a valutare le eventuali illegittimità del procedimento ex art. 34-bis codice antimafia ovvero l’errata valutazione dei presupposti di legge per ammettere il controllo giudiziario, nei limiti propri del giudizio di legittimità in tema di misure di prevenzione, in cui è preclusa l’analisi di circostanze di fatto e l’unico vizio deducibile è la violazione di legge ex art. 10, comma terzo, d.lgs. n. 159/2011.

Nello specifico, ha sostenuto che, comportando l’adozione del controllo giudiziario la sospensione degli effetti delle interdittive emesse dall’organo amministrativo, il procedimento instaurato tramite la richiesta di controllo giudiziario avanzata dalla parte interessata e l’impugnativa del provvedimento potrebbero portare a un’indebita duplicazione di procedimenti aventi a oggetto la legittimità delle interdittive, la cui valutazione resta esclusivamente di competenza della giustizia amministrativa, in sede di ricorso giurisdizionale.

Nel medesimo filone interpretativo si collocano, infine, due ulteriori decisioni della Suprema Corte.

Ci si riferisce, innanzitutto, alla pronunzia di Sez. 2, n. 27856 del 22.03.2019, FO.SA.CO. s.r.l., non massimata, dichiarativa dell’inammissibilità della proposta impugnazione, in cui il giudice di legittimità, come già avvenuto in precedenti occasioni, ha implicitamente ammesso la ricorribilità per cassazione del provvedimento gravato, senza indicare, tuttavia, le ragioni fondanti l’assunto.

Sulla stessa linea si colloca, poi, Sez. 2, n. 31280 del 12.04.2019, New Ecology s.r.l., Rv. 276332, in cui la Corte ha sostenuto che il provvedimento di rigetto della richiesta di controllo giudiziario formulata, ai sensi dell’art. 34-bis, comma 6, d. lgs. 6 settembre 2011, n. 159, dall’impresa destinataria dell’informazione antimafia interdittiva è impugnabile esclusivamente con il ricorso per cassazione ex art. 127, comma 7, cod. proc. pen., e non con l’appello, stante l’operatività, anche nella materia della prevenzione, del principio di tassatività dei mezzi d’impugnazione, giusta il disposto degli artt. 10 e 27 d.lgs. citato, che indicano, con elencazione tassativa, i provvedimenti impugnabili, senza ricomprendervi quello reiettivo in oggetto.

Nella pronunzia di cui trattasi il giudice di legittimità, facendo proprie talune considerazioni precedentemente svolte da Sez. 2, n. 18564 del 13.02.2019, Consorzio Sociale COIN Società Cooperativa Sociale, Rv. 275419, ha aggiunto, inoltre, che la peculiarità del provvedimento di rigetto giustifica la limitazione dell’oggetto dell’impugnazione ai soli vizi derivanti dalla violazione di legge, poiché un rimedio impugnatorio, con rivalutazione del merito, determinerebbe un’inutile duplicazione del giudizio amministrativo, non coerente con l’assetto della misura.

3. L’orientamento giurisprudenziale contrario all’impugnabilità del provvedimento del tribunale.

Il diverso orientamento, assertivo della non impugnabilità del provvedimento del tribunale che neghi l’applicazione del controllo giudiziario richiesto ai sensi del citato art. 34-bis, comma 6, ha iniziato a delinearsi, nella giurisprudenza di legittimità, in tempi più recenti e, segnatamente, a far data dal trascorso mese di aprile del corrente anno.

Aderisce a tale opzione ermeneutica innanzitutto Sez. 6, n. 22889 del 04.04.2019, Consorzio Go Service s.c.a.r.l., Rv. 275531.

Con tale decisione la Corte, nel dichiarare l’inammissibilità dell’impugnazione azionata dal patrocinatore dell’impresa, ha premesso che la misura del controllo giudiziario di cui all’art. 34-bis, comma 6, d.lgs. n. 159 del 2011 ha una natura del tutto peculiare, nella quale vengono in contatto istituti diversi per struttura e caratteri: da un lato quello del controllo giudiziario regolato, in generale, dalla norma citata e dall’altro l’informazione antimafia interdittiva di cui all’art. 84 d.lgs. n. 159 del 2011».

Ha rilevato, quindi, che il comma 6 dell’art. 34-bis prevede che le imprese destinatarie di informazione interdittiva antimafia che abbiano proposto impugnazione avverso il provvedimento del prefetto possono chiedere al tribunale competente per le misure di prevenzione l’applicazione del controllo giudiziario di cui alla lett. b) del comma 2 della stessa disposizione, aggiungendo che l’iter procedimentale della richiesta è disciplinato dal medesimo comma 6 e che la conseguenza della disposta misura del controllo giudiziario richiesto dall’impresa è la sospensione degli effetti prodotti dall’informazione prefettizia, esito che rende evidente la vantaggiosità dell’ammissione al controllo giudiziario per le aziende contaminate che intendano essere depurate e rimanere sul mercato.

Ha aggiunto ancora che, rispetto alla generale figura del controllo giudiziario di azienda adottabile dal tribunale quale misura di prevenzione di carattere patrimoniale non ablatoria, l’istituto in esame si caratterizza per la previsione di specifici requisiti del soggetto che può avanzare la richiesta (le imprese già destinatarie di informazione antimafia interdittiva) e dell’ulteriore condizione che l’impresa richiedente abbia proposto impugnazione avverso il provvedimento prefettizio.

Alla stregua di quanto posto in rilievo, ha sostenuto che i riferimenti normativi che regolano l’istituto inducono a escludere che la disciplina positiva ne preveda un mezzo di impugnazione, ove si consideri che anche nella materia della prevenzione opera il principio di tassatività (che presiede al regime delle impugnazioni ai sensi dell’art. 568, comma 1, cod. proc. pen.) e che la sintetica regolamentazione non contiene alcun rinvio al procedimento applicativo delle misure di prevenzione personali e patrimoniali ovvero al sistema di impugnazione dei provvedimenti patrimoniali, recato dagli artt. 27 e 10 del d.lgs. n. 159 del 2011.

Ha rilevato poi che una conferma della non casualità del vuoto di previsione può essere tratta dalla specificazione, inserita nell’ultimo comma dell’art. 34 dalla novella n. 161 del 2017, di un richiamo ai mezzi di impugnazione esperibili avverso quel provvedimento, circostanza che sembrerebbe confermare a contrario, per inevitabile valutazione sistematica del nuovo testo normativo, l’assenza del diritto all’impugnazione nel caso che ci occupa.

Con riferimento al rinvio alle forme di cui all’art. 127 cod. proc. pen., ha sostenuto che in giurisprudenza si è costantemente ritenuto che tale rinvio riguardasse la sola regola di svolgimento dell’udienza camerale e non implicasse, di per sé, la ricezione completa del modello procedimentale descritto in detta norma, ivi compreso il ricorso in sede di legittimità, tanto che, per diverse disposizioni contenenti il rinvio, il legislatore ha espressamente previsto l’esperibilità del rimedio de quo (in tal senso: Sez. U., n. 17 del 06.11.1992, Bernini e altri, Rv. 191786)».

Ha affermato inoltre che non appare decisivo neanche il richiamo all’art. 111 Cost., in quanto il provvedimento adottato dal tribunale di prevenzione ai sensi del comma 6 dell’art. 34-bis d.lgs. n. 159 del 2011 non incide sulla libertà personale, ma attiene alla libertà di impresa e non ha, comunque, natura sostanziale di sentenza o di provvedimento giurisdizionale suscettibile di assumere carattere di definitività.

Ha chiarito infatti che la decisione del tribunale della prevenzione – sia di accoglimento che di rigetto della richiesta dell’interessato – si caratterizza per il contenuto provvisorio della statuizione, alla quale inerisce l’attribuzione di decisione rebus sic stantibus, sempre rivedibile in forza di elementi nuovi che possono sopraggiungere fino al momento in cui, attraverso il giudicato amministrativo, gli effetti della misura siano stabilizzati.

Ha aggiunto che non è casuale né approssimativa la scelta del Legislatore di prevedere, come requisito della domanda di ammissione al controllo giudiziario, l’impugnazione del relativo provvedimento e di descrivere le conseguenze dell’ordinanza ammissiva con l’espressione “sospende gli effetti” (indicazione che comporta la necessità che il procedimento di impugnazione in sede amministrativa sia ancora pendente), evidenziando che la ratio e la funzione dell’istituto non possono ragionevolmente consistere nell’aggiramento della misura interdittiva amministrativa, ovvero in una sua anomala impugnativa dinanzi al tribunale della prevenzione, con la produzione degli effetti tipici di tale decisione di annullamento o revoca.

Ha coerentemente concluso che la norma delinea la previsione che l’azienda interessata, fintanto che sia pendente l’impugnazione e sia in corso la contestazione della legittimità del provvedimento amministrativo, può rivolgersi al tribunale di prevenzione, demandandogli la verifica della sussistenza dei requisiti di applicazione di una misura meno stringente di quella applicata in sede amministrativa e della quale, in caso di accoglimento della richiesta, sono sospesi gli effetti, precisando che deve, invece, escludersi qualsiasi potere di controllo da parte del tribunale di prevenzione sui presupposti che legittimano l’applicazione dell’interdittiva antimafia, venendo, altrimenti, a realizzarsi un’illegittima invasione delle sfere di competenza dell’autorità amministrativa e un’illegittima duplicazione di procedimenti aventi a oggetto la legittimità delle interdittive.

Ha aggiunto ancora che un definitivo esito decisorio non si produce neanche in caso d’inammissibilità o di rigetto della richiesta dell’impresa destinataria di informazione prefettizia antimafia per carenza dei requisiti che legittimano il ricorso all’applicazione della misura, atteso che tale conclusione non solo non è positivamente prevista sotto forma di preclusione o decadenza, ma, soprattutto, non è in linea con i descritti requisiti soggettivi e presupposti di accesso alla misura del controllo giudiziario a richiesta della parte privata.

Da ultimo, ha sostenuto che non ricorrono i presupposti affinchè possa ritenersi che il provvedimento impugnato presenti caratteri di abnormità, ove si consideri che tale categoria è stata elaborata dalla giurisprudenza con l’intento dichiarato di introdurre un correttivo al principio della tassatività dei mezzi di impugnazione e di apprestare il rimedio del ricorso per cassazione contro provvedimenti che, pur non essendo oggettivamente impugnabili, risultino, tuttavia, affetti da anomalie genetiche o funzionali così radicali da non poter essere inquadrati in nessuno schema legale e che tale evenienza non ricorre nel caso in esame poiché il provvedimento adottato non si discosta, né diverge dalle previsioni della norma e dell’intero e organico sistema della legge in materia di misure di prevenzione.

Si collocano poi nel filone interpretativo in disamina cinque ulteriori pronunzie, successivamente rese dalla Corte.

Ci si riferisce, in specie, a Sez. 6, n. 26342 del 09.05.2019, Lucianò, Rv. 275954, a Sez. 6, n. 26349 del 09.05.2019, P.M. c. Eurostrade s.r.l., a Sez. 6, n. 35431 del 09.05.2019, Labate, a Sez. 6, n. 38071 del 09.05.2019, Gienne Costruzioni s.r.l., e a Sez. 6, n. 38072 del 09.05.2019, Scaramuzzino.

Le pronunzie in questione, con percorsi motivazionali pressochè sovrapponibili, recepiscono buona parte delle argomentazioni spese da Sez. 6, n. 22889 del 04.04.2019, Consorzio Go Service s.c.a.r.l., Rv. 275531, arricchendone l’ordito di considerazioni e spunti ulteriori.

Nello specifico, in Sez. 6, n. 26342 del 09.05.2019, Lucianò, Rv. 275954, la Corte premette che, secondo un consolidato orientamento formatosi prima della riforma introdotta con la legge n. 161/2017, la disciplina delle impugnazioni in materia di misure di prevenzione si uniformava al principio di tassatività, con la conseguenza che, essendo precluso il ricorso all’interpretazione analogica, i provvedimenti non contemplati negli artt. 10 e 27 d.lgs. n. 159 del 2011 o in altre disposizioni espresse che richiamassero tali norme, erano ritenuti insuscettibili di impugnativa, fatto salvo l’incidente di esecuzione, nei limitati casi in cui detto istituto potesse trovare applicazione.

Premette altresì che il principio di tassatività dei mezzi di impugnazione in materia di misure di prevenzione è stato affermato con riguardo alla questione della impugnabilità dei provvedimenti di sequestro di prevenzione e di rigetto della relativa istanza di revoca, considerati insuscettibili di impugnazione già prima dell’introduzione del codice antimafia e che, anche dopo l’entrata in vigore del d.lgs. 159/2011, sono stati ritenuti soggetti unicamente al rimedio dell’opposizione nelle forme dell’incidente di esecuzione ex art. 667, comma 4, cod. proc. pen., da proporsi davanti allo stesso giudice della prevenzione.

Sostiene, quindi, che è sufficiente leggere i primi due commi del citato art. 27 per evincerne il carattere tassativo dell’elencazione dei provvedimenti concernenti le misure di prevenzione patrimoniali riportata al comma 1 (per i quali opera il richiamo, contenuto al comma 2, delle disposizioni previste dall’art. 10, dedicato alla disciplina delle impugnazioni), aggiungendo che dal combinato disposto delle due predette disposizioni si desume che sono soggetti al ricorso, anche nel merito, davanti alla Corte d’Appello e al ricorso per cassazione per violazione di legge avverso i decreti emessi dalla corte di appello i provvedimenti con i quali il tribunale dispone: a) la confisca dei beni sequestrati; b) l’applicazione, il diniego o la revoca del sequestro; c) il rigetto della richiesta di confisca; d) la restituzione della cauzione; e) la liberazione delle garanzie; f) la confisca della cauzione; g) l’esecuzione sui beni costituiti in garanzia e concludendo che, sulla base del principio di tassatività, è stata esclusa la possibilità di impugnare, in sede di legittimità, la misura dell’amministrazione giudiziaria di cui all’art. 34 del d.lgs. 159/2011, al di fuori dei casi espressamente previsti dal comma 7 del medesimo articolo, relativi all’impugnabilità dei provvedimenti conclusivi che possono essere adottati al termine del periodo di amministrazione giudiziaria (ovvero la revoca con controllo giudiziario e la confisca).

Assume pertanto la Corte che, tenuto conto della vigenza nella subiecta materia del principio di tassatività dei mezzi di impugnazione, appare distonica e asistematica l’interpretazione posta a fondamento dell’affermata proponibilità del ricorso per cassazione quale unico mezzo di impugnazione avverso la decisione del tribunale sull’istanza avanzata ex art. 34-bis, comma 6, del d.lgs. 159/2011, che àncora il proprio assunto al richiamo alle forme del procedimento in camera di consiglio di cui all’art. 127 cod. proc. pen., e quindi al comma 7, che prevede il ricorso per cassazione avverso l’ordinanza emessa all’esito dell’udienza camerale.

Sostiene, per converso, che la nuova misura di prevenzione patrimoniale del controllo giudiziario non rientra tra i provvedimenti suscettibili di essere impugnati secondo il vigente sistema delle impugnazioni del codice antimafia, atteso che, sotto il profilo della voluntas legis, non può esservi dubbio che se il Legislatore avesse ritenuto di sottoporre il provvedimento al sistema delle impugnazioni, non avrebbe limitato la modifica dell’art. 27 ai soli provvedimenti concernenti il sequestro di prevenzione e che, sotto il profilo della ratio legis, appare incoerente con il sistema prevedere l’impugnabilità del provvedimento che rigetta o accoglie la richiesta di applicazione del controllo giudiziario, a fronte della non prevista impugnabilità dei provvedimenti che dispongono o rigettano la richiesta di applicazione della misura dell’amministrazione giudiziaria di cui all’art. 34 cit.

Conclude, pertanto, che il richiamo alle forme del procedimento in camera di consiglio, contenuto nel comma 6 dell’art. 34-bis, non può essere esteso all’intera procedura camerale regolata dall’art. 127 cod. proc. pen., e quindi anche al riconoscimento della possibilità di proporre ricorso per cassazione, giusta la previsione del comma 7, ove si consideri che una tale interpretazione avrebbe l’effetto di introdurre un mezzo di impugnazione – quale quello del ricorso per cassazione – che, per il richiamo operato al procedimento camerale, andrebbe inteso come esperibile per tutti i motivi indicati nell’art. 606, comma 1, cod. proc. pen., e quindi anche per vizio della motivazione, determinando una palese disarmonia con il sistema delle impugnazioni delle misure di prevenzione.

Chiarisce poi ulteriormente che l’interpretazione secondo cui il ricorso per cassazione dovrebbe soggiacere al limite previsto dall’art. 10 del d.lgs. 159/2011 non può essere seguita, perché in palese contrasto con il dato testuale normativo, non potendosi ritenere richiamato per relationem il mezzo d’impugnazione previsto dal comma 7 dell’art. 127 cod. proc. pen. e poi ritenere che tale richiamo sia solo parziale, perché in contrasto con il sistema delle impugnazioni regolato dall’art. 10 del citato codice antimafia.

Aggiunge ancora che neppure si pone la necessità di assicurare il controllo di legittimità, imposto ex art. 111 Cost. dalla interferenza con diritti soggettivi costituzionalmente garantiti, qual è la libertà d’impresa, perché il provvedimento di rigetto dell’istanza di applicazione della misura di prevenzione non esercita alcun effetto diretto sulla gestione e sull’amministrazione dell’attività di impresa.

Rileva, infatti, la Corte che la norma di cui all’art. 34-bis, comma 6, d.lgs. n. 159/2011 prevede che le imprese destinatarie dell’interdittiva antimafia possano farsi esse stesse promotrici dell’applicazione della misura di prevenzione patrimoniale del controllo giudiziario dell’azienda, ma solo dopo avere previamente proposto impugnazione avverso il provvedimento del prefetto, aggiungendo che, solo in tale eventualità, possono scegliere se subire gli effetti ostativi del provvedimento amministrativo, attendendo l’esito dell’impugnazione davanti al giudice amministrativo, oppure sottoporsi al sistema dei controlli previsti dalla misura di prevenzione.

Osserva, quindi, che si tratta, all’evidenza, di una possibile opzione dell’impresa, che non legittima alcun diritto incondizionato all’accoglimento dell’istanza, essendo rimessa al giudice della prevenzione la valutazione degli elementi sintomatici del pericolo di infiltrazione mafiosa e della gravità del rischio del condizionamento e rileva ancora che il controllo giudiziario si inserisce nel novero delle misure di prevenzione che hanno come loro scopo prioritario quello di salvaguardare l’interesse dello Stato ad assicurare che l’attività di impresa non sia utilizzata come strumento per accrescere lo sviluppo delle associazioni mafiose.

Aggiunge, poi, che tale misura può essere applicata – secondo la sua più fisiologica procedura – su richiesta della procura distrettuale procedente, e non su iniziativa della stessa impresa privata, inferendo da tale circostanza che l’ammissione al controllo giudiziario non può essere considerato come l’espressione di un diritto, atteso che il diritto al libero esercizio dell’impresa non è compromesso dal diniego dell’applicazione della misura di prevenzione richiesta dalla parte, ma dall’applicazione dell’interdittiva antimafia, cui si ricollegano le limitazioni legali all’autonomia contrattuale per le superiori ragioni di salvaguardia dell’economia dalle infiltrazioni della criminalità mafiosa, con l’ulteriore conseguenza che il diritto alla libertà di impresa trova piena tutela nella competente sede giudiziaria amministrativa, attraverso i rimedi che sono previsti in quella diversa sede giurisdizionale.

Conclude, quindi, la Corte che la diversa impostazione ribalta la naturale finalità delle misure di prevenzione, tra cui può anche rientrare lo scopo di tutelare il titolare dell’impresa dai condizionamenti mafiosi di natura intimidatoria, ma giammai la finalità di favorire attraverso la sua applicazione l’elusione degli effetti legittimamente imposti da altra misura di prevenzione di carattere amministrativo, aggiungendo che la mancanza di mezzi di impugnazione appare coerente con la natura provvisoria e con le finalità di carattere esplorativo e investigativo che la misura del controllo giudiziario espleta.

Come sopra anticipato, si iscrivono nel medesimo filone interpretativo anche Sez. 6, n. 38071 del 09.05.2019, Gienne Costruzioni s.r.l., non massimata, Sez. 6, n. 38072 del 09.05.2019, Scaramuzzino, non massimata e Sez. 6, n. 35431 del 09.05.2019, Labate, non massimata.

Delle indicate pronunzie le prime due si connotano per orditi argomentativi, pressoché sovrapponibili, che ribadiscono e sviluppano ulteriormente la totalità delle argomentazioni in precedenza spese da Sez. 6, n. 22889 del 04.04.2019, Consorzio Go Service s.c.a.r.l., Rv. 275531 e da Sez. 6, n. 26342 del 09.05.2019, Lucianò, Rv. 275954.

Di maggior rilievo ai fini che qui interessano è invece l’apparato motivo di Sez. 6, n. 35431 del 09.05.2019, Labate, non massimata, pronunzia intervenuta successivamente a quella da ultimo scrutinata, che, prendendo atto delle conclusioni alle quali la stessa era pervenuta, e ribadendo l’assenza di norme di segno contrario, ha avuto cura di specificare, con argomenti ulteriori, la non ricorribilità per cassazione del provvedimento reiettivo.

La Corte afferma infatti che la richiesta del privato ex art. 34-bis, comma 6, d.lgs. n. 159/2011 è, a tutti gli effetti, una misura di prevenzione a carattere patrimoniale che si instaura in mancanza di una pregressa procedura di prevenzione, chiarendo che, attraverso tale richiesta, i soggetti titolari e/o responsabili del compendio economico, che sino a quel momento hanno potuto operare liberamente e in autonomia sul mercato, in quanto interessati dalla notifica dell’interdittiva antimafia, possono decidere di affidare l’ambito di libertà collegato alla propria attività imprenditoriale al tribunale di prevenzione, di fatto consegnando l’azienda alla gestione controllata dell’amministratore nominato dal tribunale o dal giudice delegato, cui vengono riconosciuti penetranti poteri di ricostruzione e controllo dell’intero assetto economico-finanziario; poteri che possono giungere all’applicazione di una più gravosa misura di prevenzione quale l’amministrazione giudiziaria che, a sua volta, può condurre al sequestro e alla confisca del compendio ex art. 34, comma 6, d.lgs. cit.

Sostiene ulteriormente che, ai fini dell’ipotizzata limitazione della libertà di impresa, risulta irrilevante la circostanza che all’accoglimento consegua la sospensione degli effetti della misura interdittiva antimafia emessa dal prefetto (misura che opera in distinto e ben separato ambito amministrativo) e conclude, infine, che l’effetto sospensivo previsto dall’art. 94 d.lgs. cit. promana ex lege direttamente dal chiaro tenore dell’art. 34-bis, comma 7, d.lgs. e non potrebbe in alcun modo essere determinato dalla diretta decisione del giudice ordinario, non potendo ipotizzarsi che l’ordinamento abbia concesso allo stesso un concorrente potere di sospensione (rispetto a quello ordinariamente riconosciuto al giudice amministrativo) del provvedimento amministrativo non soggetto ad alcuna impugnazione, evenienza che risulterebbe eccentrica, tenuto conto dei criteri posti a presidio del riparto e dell’autonomia delle distinte sfere afferenti alla giurisdizione ordinaria e amministrativa.

4. Il contributo offerto alla soluzione del contrasto da Sez. 1, n. 29487 del 07.05.2019, Tribunale di Catanzaro c./Tribunale di Trento.

Di non minore rilevo risulta, poi, la pronunzia di Sez. 1, n. 29487 del 07.05.2019, Tribunale di Catanzaro c./Tribunale di Trento, Sezione Distrettuale Misure di prevenzione, Rv. 276305, che, nel dirimere un conflitto negativo di competenza, si è diffusa in un’articolata ricostruzione della figura disciplinata dall’art. 34-bis, comma 6, d.lgs. n. 159/2011, giungendo alla conclusione che il procedimento attivato dalla parte privata ha natura giurisdizionale, con le implicazioni che logicamente discendono da tale asserto.

Nello specifico, la Corte ha rilevato innanzitutto che si tratta di un particolare caso, introdotto dal Legislatore con legge n. 161 del 17 ottobre 2017, che vede la misura di prevenzione applicata su domanda non già della parte pubblica, ma della parte privata.

Ne ha poi illustrato le specifiche finalità, asserendo che l’esigenza di contrasto della pericolosità economico/patrimoniale, in un sistema giuridico che ricollega le limitazioni di diritti costituzionalmente protetti a una base legale appropriata e a momenti cognitivi giurisdizionali, hanno condotto il Legislatore del 2017 a incrementare, in sede di misure di prevenzione, la potenzialità applicativa degli strumenti rappresentati – in campo patrimoniale – dall’amministrazione giudiziaria dei beni connessi ad attività economiche (art. 34) e del controllo giudiziario delle aziende (art. 34-bis), visti con modalità di intervento potenzialmente alternativo rispetto all’ordinario binomio sequestro/confisca dei beni del soggetto portatore di pericolosità».

Ha aggiunto che deve ritenersi che le disposizioni contenute nell’art. 34 e nell’art. 34-bis del d.lgs. n. 159 del 2011 vadano lette congiuntamente in quanto costituiscono un “sotto-sistema” basato sulla necessità di diversificazione della risposta giudiziaria prevenzionale al fenomeno della “contaminazione” dell’attività d’impresa da parte della criminalità organizzata e che la conferma della volontà del Legislatore di creare forme di intervento diversificate si ricava dal testo dell’art. 20 del d.lgs. citato, in tema di sequestro, per come anch’esso risulta novellato ai sensi dell’art. 5 l. n. 161 del 2017.

Ha altresì posto in rilevo che, in sede di proposta di sequestro, il Tribunale può ritenere sussistenti non già i presupposti tipici della misura richiesta, ma, in alternativa, proprio quelli dell’amministrazione giudiziaria (art. 34) o del controllo giudiziario delle aziende (art. 34-bis), inferendone che lo sforzo richiesto al Tribunale della Prevenzione è quello di realizzare una calibrata qualificazione della “relazione” intercorrente tra i beni in questione e il soggetto indicato come portatore di pericolosità sociale.

Ha quindi evidenziato che, una volta adottate le misure del controllo o della amministrazione giudiziaria, il Tribunale della Prevenzione, anche in esito alle verifiche disposte durante la vigenza delle stesse, può mutare la prima qualificazione e transitare in una tipologia prevenzionale diversa, adottando la misura più adeguata e ha concluso che la domanda della parte privata, nel particolare caso dell’art. 34-bis, comma 6 (domanda successiva a interdittiva antimafia), è di fatto una richiesta di applicazione di una misura di prevenzione patrimoniale, in quanto l’azienda che sino a quel momento ha operato liberamente sul mercato, a fronte della notifica dell’interdittiva, può decidere di “consegnarsi” al Tribunale della Prevenzione, consapevole del fatto che se da un lato ciò rimuove le inibizioni alla prosecuzione della attività (art. 34-bis, comma 7), dall’altro si apre una fase di “gestione condivisa” con l’amministratore nominato dal Tribunale, il cui esercizio può portare all’applicazione di più gravosa misura di prevenzione.

Alla stregua delle articolate considerazioni esposte, la Corte ha conclusivamente sostenuto la giurisdizionalità piena del procedimento attivato dalla parte privata, in ragione dell’appartenenza della disposizione di cui all’art. 34-bis a un “sotto-sistema” teso alla individuazione, da parte del Tribunale della Prevenzione, dell’intervento più adeguato al caso concreto sottoposto ad esame.

5. La decisione delle Sezioni Unite.

Con la decisione assunta all’udienza del 26.09.2019, le Sezioni unite hanno dato risposta al quesito dianzi riportato, affermando che «il provvedimento con cui il tribunale competente per le misure di prevenzione neghi l’applicazione del controllo giudiziario richiesto ex art. 34-bis, comma 6, del d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, è impugnabile con ricorso alla corte di appello anche per il merito».

Ha premesso innanzitutto il Supremo consesso che entrambe le opzioni interpretative sostenute presentano limiti che le rendono inadatte a fornire al problema una risposta complessivamente appagante, rilevando che si rende necessaria una ricostruzione del sistema delle impugnazioni delle misure di prevenzione patrimoniali autonoma rispetto alla ricerca di una volontà chiarificatrice del Legislatore del Codice antimafia.

In tale prospettiva si è quindi osservato che i limiti concernenti l’opzione favorevole alla ammissibilità del solo ricorso per cassazione sono rappresentati, in primis, dalla non decisività del richiamo contenuto nell’art. 34-bis alle forme dell’art. 127 cod. proc. pen., aggiungendosi che non v’è motivo per discostarsi dall’insegnamento delle Sez. U. Bernini, che hanno affermato essere tale richiamo – operato con la formula “secondo le forme previste” – del tutto neutro, in quanto la regolamentazione della procedura camerale e del contraddittorio che in essa deve essere garantito non determina l’automatica applicazione del comma 7 di quella norma e quindi del principio di ricorribilità per cassazione, senza limiti, del provvedimento emesso all’esito.

Né, per altro verso, assume rilievo determinante il principio di tassatività dei mezzi di impugnazione, ove si consideri che in giurisprudenza non si è mancato di fare ricorso, in tema di impugnazioni, al principio dell’interpretazione analogica, alla stregua dell’art. 12 preleggi, quando si è trattato di sopperire a una lacuna o ad una deficienza del sistema in relazione a un caso analogo e che un sostegno a tale assunto può rinvenirsi nella previsione dell’art. 10 d.lgs. 159/2011, concepito come norma generale di impugnazione, anche per il merito, delle misure di prevenzione personale, ma estensibile anche ai provvedimenti in tema di misure di prevenzione patrimoniale che rechino un vulnus a posizioni costituzionalmente garantite.

Egualmente in conferente appare poi, secondo la Corte, l’evocazione della regola generale sull’impugnazione con ricorso, di cui all’art. 111, comma 7, Cost., atteso che i provvedimenti dei quali si discute non attengono alla materia della libertà personale e non hanno il connotato di definitività proprio delle sentenze, così come improprio risulta la presa di posizione, di parte di talune pronunzie, sulla necessaria delimitazione dei motivi di ricorso alla sola violazione di legge, posto che l’argomento sistematico utilizzato – e cioè il riferimento alla analoga previsione contenuta nell’art. 10, comma 3, d.lgs. 159/2011 – finisce per attribuire a tale precetto proprio quella valenza di norma generale e di sistema che si vuole contemporaneamente disconoscere.

Con riguardo, invece, all’opposto orientamento, si è posto in rilievo che i profili di criticità risiedono essenzialmente nella ritenuta possibilità di individuare una volontà certa del Legislatore di escludere i provvedimenti in materia di controllo giudiziario dal novero di quelli in qualche modo impugnabili, evidenziandosi che, nella vicenda di specie, si è avuto un Legislatore che ha parlato in maniera occasionale e poco coerente più che un Legislatore volutamente silenzioso.

Alla stregua di tali premesse, si è infatti sostenuto che è da escludere che l’art. 27 d.lgs. 159/2011, contenente un elenco di provvedimenti impugnabili con l’appello anche per il merito, tracci un perimetro chiuso, rivelandolo l’analisi storico-giuridica del vigente art. 34, comma 6, ultima parte, d.lgs. cit., norma che, come già ricordato, prevede la stessa impugnabilità descritta dall’art. 27 anche per i provvedimenti di revoca della amministrazione giudiziaria, con disposizione del controllo giudiziario o della confisca.

D’altro canto, il precetto de quo aveva fatto la sua prima comparsa a margine dell’originario testo dell’art. 34, e segnatamente in calce al previgente comma 7 di tale norma, appositamente interpolato dall’art. 5, comma 1, lett. a), del d.lgs. 13 ottobre 2013, n. 153, creando uno scompenso sul terreno dei “casi analoghi”, perché, col prevedere l’appellabilità della confisca emessa all’atto della revoca dell’amministrazione giudiziaria, vi ha aggiunto, per simmetria, l’appellabilità anche del controllo giudiziario, che rappresentava, con la confisca, l’altro possibile sbocco della situazione conclusa con la revoca.

Si è pertanto rilevato che, allorquando con la successiva legge n. 161/2017 il testo dell’art. 34, comma 7, è rifluito nel nuovo art. 34, comma 6, ed è stato contestualmente disciplinato in modo autonomo l’istituto del controllo giudiziario con l’introduzione del nuovo art. 34-bis, è balzata all’evidenza la incongruenza dell’accostamento di una previsione differenziata dell’impugnabilità di decisioni su oggetti del tutto assibilabili, atteso che il controllo giudiziario apparirebbe appellabile se emesso all’esito della procedura della amministrazione giudiziaria e non impugnabile se emesso in modo autonomo.

Tirando le fila del ragionamento svolto, il Supremo consesso ha affermato che, se per colmare tale scompenso deve ritenersi ammissibile il ricorso al sistema impugnatorio di cui al combinato disposto degli artt. 27 e 10 d.lgs. n. 159 del 2011 con riferimento al provvedimento impositivo del controllo giudiziario, l’applicazione analogica deve investire anche i provvedimenti diversi sul tema e, segnatamente, quello reiettivo della domanda della parte privata, sostenendo che, qualora non si addivenisse a tale conclusione, si creerebbe un’ingiustificata disparità di trattamento nella tutela degli opposti interessi perseguiti da ciascuno dei soggetti legittimati, in quanto non appare condivisibile l’assunto secondo cui la parte privata non sarebbe titolare, nel caso descritto, di un interesse perseguibile dinanzi alla giurisdizione della prevenzione, per essere avvenuta la limitazione alla libertà di impresa ad opera del provvedimento prefettizio, aggredibile nella sola sede giudiziaria amministrativa.

Nella medesima ottica, ha rimarcato ancora che, sebbene sia indubbio che il tribunale non abbia potere di sindacato sulla legittimità dell’interdittiva antimafia adottata dal prefetto, per la evidente autonomia dei mandati delle due giurisdizioni, risulta comunque devoluta alla sua cognizione l’intera gamma delle situazioni richiamate dall’art. 34-bis, comma 6, d.lgs. 159/2011, aggiungendo che all’intervento effettuato dal Legislatore del 2017 sull’art. 27 del d.lgs. n. 159/2011 non va riconosciuta la valenza di avere delineato un elenco tassativo, ma, piuttosto, la finalità di perseguire un tendenziale completamento del catalogo dei provvedimenti impugnabili in base al criterio del caso analogo, in quanto si è ampliato e integrato il novero dei provvedimenti in tema di sequestro, confisca e cauzione impugnabili in maniera omogenea, con la conseguenza che le decisioni del tribunale sulle richieste in tema di controllo giudiziario, al pari di quelle sulla ammissione all’amministrazione giudiziaria (legate con le prime in unico sotto-sistema), debbono ritenersi soggette al mezzo di impugnazione generale previsto dall’art. 10 d.lgs. n. 159/2011, come già testimoniato, per le altre misure patrimoniali, dal richiamo contenuto nell’art. 27 e nell’art. 34, comma 6, ultima parte, e come del resto reso necessario dal dovere di sopperire a ingiustificate aporie normative, pur in presenza di effetti del tutto assimilabili su beni e interessi tutelati dall’ordinamento.

Alla stregua delle osservazioni complessivamente esposte, il Supremo consesso ha concluso, quindi, che «il provvedimento con cui il tribunale competente per le misure di prevenzione neghi l’applicazione del controllo giudiziario richiesto ex art. 34-bis, comma 6, del d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, è impugnabile con ricorso alla corte di appello anche per il merito».

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. 5, n. 34526 del 02.07.2018, Eurostrade s.r.l., Rv. 273646

Sez. 2, n. 14586 del 13.02.2019, C.L.P. Sviluppo Industriale

Sez. 2, n. 18564 del 13.02.2019, Consorzio Sociale COIN Società Cooperativa Sociale, Rv. 275419.

Sez. 2, n. 17451 del 14.02.2019, Fradel Costruzioni soc. coop., Rv. 276331

Sez. 2, n. 16105 del 15.03.2019, Panges Prefabbricati s.r.l., Rv. 276530

Sez. 2, n. 27856 del 22.03.2019, FO.SA.CO. s.r.l.,

Sez. 2, n. 31280 del 12.04.2019, New Ecology s.r.l., Rv. 276332

Sez. U, n. 17 del 06.11.1992, Bernini e altri, Rv. 191786

Sez. 6, n. 22889 del 04.04.2019, Consorzio Go Service s.c.a.r.l., Rv. 275531

Sez. 6, n. 26342 del 09.05.2019, Lucianò, Rv. 275954

Sez. 6, n. 26349 del 09.05.2019, P.M. c. Eurostrade s.r.l., Sez. 6, n. 35431 del 09.05.2019, Labate,

Sez. 6, n. 38071 del 09.05.2019, Gienne Costruzioni s.r.l., Sez. 6, n. 38072 del 09.05.2019, Scaramuzzino,

Sez. 1, n. 29487 del 07.05.2019, Tribunale di Catanzaro c./Tribunale di Trento, Sezione Distrettuale Misure di prevenzione, Rv. 276305.

  • ricorso per annullamento
  • sanzione penale

CAPITOLO IV

LA RICORRIBILITA’ IN CASSAZIONE DELLA SENTENZA DI PATTEGGIAMENTO PER VIZIO RELATIVO ALL’APPLICAZIONE DI UNA MISURA DI SICUREZZA O DI UNA SANZIONE AMMINISTRATIVA ACCESSORIA

(di Debora Tripiccione )

Sommario

1 Premessa. - 2 La modifica del regime di impugnazione della sentenza di patteggiamento. - 3 La questione relativa alla ricorribilità del punto concernente l’applicazione di una misura di sicurezza. - 3.1 La soluzione prospettata nell’ordinanza di rimessione. - 4 La questione relativa alla ricorribilità del punto concernente l’applicazione della sanzione amministrativa accessoria. - Indice delle sentenze citate

1. Premessa.

Nell’anno in corso le Sezioni Unite, con due sentenze emesse all’udienza del 26 settembre 2019, (Melzani e Savin), hanno affrontato il tema dell’ammissibilità del ricorso per cassazione relativo al punto della sentenza di applicazione della pena relativo all’applicazione delle misure di sicurezza (Savin) e delle sanzioni amministrative (Melzani).

Le questioni controverse hanno avuto origine dalla modifica del regime di impugnazione introdotta all’art. 448, comma 2-bis cod. proc. pen. dall’art. 1, comma 50, della legge 23 giugno 2017, n. 103.

Secondo quanto si legge nelle rispettive informazione provvisorie, la Corte ha risolto entrambe le questioni ritenendo ammissibile il ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 606 cod. proc. pen. a condizione che, quanto alle misure di sicurezza, personali o patrimoniali, queste non abbiano formato oggetto dell’accordo delle parti.

2. La modifica del regime di impugnazione della sentenza di patteggiamento.

Con la riforma attuata con la legge 23 giugno 2017, n. 103 è stata positivizzata la disciplina della ricorribilità per cassazione della sentenza di applicazione della pena attraverso la previsione nel novello comma 2-bis all’art. 448 cod. proc. pen. di specifici casi di ricorso relativi all’accordo (in quanto formato illegittimamente o non tradotto fedelmente nella sentenza) ovvero ad alcuni significativi aspetti del contenuto della sentenza (circoscritti ai profili dell’erronea qualificazione giuridica del fatto e all’illegalità della pena o della misura di sicurezza).

La ratio di tale limitazione può desumersi dalla Relazione governativa di accompagno del d.d.l. (A.C. 2798) che, recependo le valutazioni già espresse dalla Commissione ministeriale Canzio, così afferma: «Anzitutto si reputa che il modulo consensuale di definizione del processo, proprio del cosiddetto patteggiamento, non meriti l’attuale, troppo ampia ricorribilità per cassazione, constatato, d’altra parte, l’esito largamente prevalente di inammissibilità dei relativi ricorsi, con inutile dispendio di tempo e di costi organizzativi. Si ritiene pertanto di limitarne la ricorribilità ai soli casi in cui l’accordo non si sia formato legittimamente o non si sia tradotto fedelmente nella sentenza, ovvero il suo contenuto presenti profili di illegalità per la qualificazione giuridica del fatto, per la pena o per la misura di sicurezza, applicata od omessa. La proposta di riforma è diretta, per un verso, a scoraggiare i ricorsi meramente defatigatori e, per altro verso, ad accelerare la formazione del giudicato, anche mediante la più agile procedura di correzione degli errori materiali nelle ipotesi di erronea determinazione della sanzione, la cui eliminazione non comporti tuttavia una modificazione essenziale dell’atto e per le quali pure la Corte di cassazione procede alla rettificazione ex articolo 619 del codice di procedura penale.»

La giurisprudenza di legittimità si è pronunciata sui singoli motivi di ricorso previsti dall’art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen. utilizzando canoni di giudizio sostanzialmente uniformi a quelli adottati prima della riforma del 2017.

Le prime pronunce di legittimità relative al motivo di ricorso concernente l’espressione della volontà dell’imputato, seguendo una linea ermeneutica già tracciata prima della riforma (Sez. 6, n. 2099 del 24/05/1995, Basciano, Rv. 202152), hanno, infatti, escluso la possibilità di proporre ripensamenti o asseriti vizi di volontà o di intelligenza se non si traducono in censure di nullità per le quali vige il principio di tassatività (Sez. 4, n. 54580 del 19/9/2018, Sentimenti, Rv. 274505). Sez. 6, n. 38454 del 14/7/2017, Arigò, Rv. 270850 ha, inoltre, precisato che spetta al giudice accertare d’ufficio la capacità di intendere e di volere dell’imputato e la sua capacità di stare in giudizio, ritenendo invalido l’accordo negoziale allorché emerga, anche successivamente all’emissione della sentenza, che l’imputato non aveva tali capacità al momento in cui ha espresso la sua volontà.

Anche il motivo relativo all’erronea qualificazione giuridica del fatto è stato interpretato dalla Corte in continuità con l’indirizzo ermeneutico consolidatosi prima della riforma. Sez. 1, n. 15553 del 20/3/2018, Maugeri, Rv. 272619-01, ha infatti affermato che: “In tema di applicazione della pena su richiesta delle parti, la possibilità di ricorrere per cassazione deducendo, ai sensi dell’art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen., introdotto dall’art. 1, comma 50, della legge 23 giugno 2017, n. 103, l’erronea qualificazione del fatto contenuto in sentenza è limitata ai soli casi di errore manifesto, con conseguente inammissibilità della denuncia di errori valutativi in diritto che non risultino evidenti dal testo del provvedimento impugnato.” (in senso conforme anche Sez. 6, n. 53178 del 20/11/2018, Misani; Sez. 1, n. 21442 del 29/4/2019, Redondi). Ed ancora, Sez. 6, n. 2721 del 8/1/2018, Bouaroua, Rv. 272026, ha affermato che l’erronea qualificazione giuridica del fatto ritenuto in sentenza può costituire motivo di ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen., come modificato dalla legge 23 giugno 2017, n. 103, solo quando detta qualificazione risulti, con indiscussa immediatezza, palesemente eccentrica rispetto al contenuto del capo di imputazione o sia frutto di un errore manifesto.

In posizione di netta discontinuità rispetto al precedente consolidato orientamento ermeneutico, la giurisprudenza di legittimità ha, invece, ritenuto che, a seguito dello specifico regime di impugnazione della sentenza di patteggiamento descritto all’art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen., non è più deducibile il vizio relativo all’omessa valutazione da parte del giudice delle condizioni per pronunciare sentenza di proscioglimento ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen.

Sez. 2, n. 4727 del 11/1/2018, Oboroceanu, Rv. 272014 ha, al riguardo, affermato che, sebbene nulla sia mutato nella struttura della sentenza ex art. 444 cod. proc. pen., cosicché il giudice del patteggiamento ha sempre l’obbligo di accertare che non sussista una delle cause di proscioglimento previste dall’art. 129 cod. proc. pen., tuttavia, per effetto del combinato disposto degli artt. 444 e 448 cod. proc. pen., l’eventuale omissione della motivazione sul punto non è più censurabile con ricorso per cassazione che, in tal caso, provvede a dichiarare l’inammissibilità con ordinanza “de plano” ai sensi dell’art. 610, comma 5-bis, cod. proc. pen. Ciò in quanto, prosegue la Corte, «l’intento perseguito dal legislatore è quello di evitare un’analisi della motivazione della sentenza di patteggiamento sull’affermazione di colpevolezza dinanzi al giudice di legittimità, dovendosi invece dare rilievo al consenso prestato dall’imputato, personalmente o a mezzo di procuratore speciale, e, quindi all’implicito riconoscimento di responsabilità che rende poi contraddittorio e superfluo il giudizio di impugnazione sullo svolgimento dei fatti» (in senso conforme, Sez. 6, n. 3819 del 19/12/2018, Boutamara e Sez. 6, n. 6136 del 19/12/2018, Kamberi secondo cui la novella rappresenta un’ulteriore evoluzione della precedente giurisprudenza di legittimità che disconosceva all’imputato il potere di rimettere in discussione i profili oggettivi e soggettivi della fattispecie su cui era caduto l’accordo in quanto coperti dal patteggiamento, conformando il ridotto obbligo di motivazione alla base negoziale del rito; nonché da ultimo, Sez. 1, n. 21442 del 29/4/2019, Redondi). La Corte ha, inoltre, considerato il tenore dell’art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen., quale espressione di un regime speciale di impugnazione delle statuizioni della sentenza di patteggiamento, rientranti o meno nel perimetro dell’accordo, che, dunque, prevale sulla disciplina generale di cui all’art. 606, comma 1, cod. proc. pen, escludendone l’applicazione.

3. La questione relativa alla ricorribilità del punto concernente l’applicazione di una misura di sicurezza.

Con ordinanza n. 17770 del 16/1/2019 la Sesta sezione della Corte di cassazione ha rimesso alle Sezioni Unite la questione relativa all’ammissibilità del ricorso per cassazione avverso la sentenza di patteggiamento con cui si deduca il vizio di motivazione in ordine all’applicazione di una misura di sicurezza, personale o patrimoniale.

L’orientamento favorevole alla ricorribilità per cassazione giunge a tale conclusione sulla base di due differenti impostazioni ermeneutiche, l’una fondata sull’oggetto “eventuale” dell’accordo sulla pena, l’altra sulla elaborazione della nozione di illegalità delle misure di sicurezza.

La prima impostazione individua il regime impugnatorio applicabile alla sentenza di patteggiamento muovendo dalla diversità intensità dell’onere di motivazione gravante sul giudice in relazione ai diversi punti della sentenza. Secondo un consolidato principio di diritto, tale obbligo di motivazione, imposto dagli artt. 111 Cost. e 125 cod. proc. pen., deve essere conformato alla natura giuridica della sentenza di applicazione della pena, rispetto alla quale, pur non potendosi ridurre il compito del giudice ad una mera presa d’atto, lo sviluppo delle linee argomentative è necessariamente correlato all’esistenza dell’atto negoziale con cui l’imputato dispensa l’accusa dall’onere di provare i fatti dedotti nell’imputazione. Pertanto, mentre rispetto a tali punti si ritiene sufficiente una motivazione sintetica, è, invece, necessaria una specifica motivazione con riferimento alle ulteriori statuizioni estranee all’accordo, rispetto alle quali si riespande il potere discrezionale del giudice.

Sulla base di tali coordinate ermeneutiche, si è, pertanto, ritenuto ammissibile il ricorso per cassazione avente ad oggetto il vizio di motivazione in ordine alla confisca del denaro e la violazione dell’art. 240 cod. pen., in quanto riguarda una statuizione estranea al concordato sulla pena che, dunque, è ricorribile indipendentemente dai limiti previsti dall’art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen., secondo le regole generali (Sez. 3, n. 30064 del 23/05/2018, Lika (Rv. 273830-01). Tale principio è stato successivamente ribadito da Sez. 4, n. 22824 del 17/04/2018, Daouk e da Sez. 6, n. 53178 del 20/11/2018, Misani.

La distinzione tra statuizioni interne ed esterne all’accordo è stata ripresa da Sez. 1, n. 11595 del 9/1/2019, Cabiddu, Rv. 275059 per affermare l’ammissibilità del ricorso per cassazione avverso la sentenza di applicazione della pena in relazione alla omessa applicazione della confisca obbligatoria (nella specie, si trattava del porto illegale di un fucile). Ad avviso della Corte, infatti, tale omissione si traduce nel vizio di inosservanza di una norma sostanziale e, quindi, in un aspetto di illegalità della pronuncia, peraltro estraneo all’accordo raggiunto tra le parti, «cui non sarebbe consentito patteggiare la sottoposizione o meno a confisca dell’oggetto di uno dei reati contestati con effetti vincolanti per le determinazioni che il giudice è chiamato ad assumere.»

Secondo una diversa impostazione ermeneutica, l’ammissibilità del ricorso per cassazione avente ad oggetto la mancata o apparente motivazione circa l’applicazione della confisca consegue alla sua sussumibilità nell’ambito della nozione di illegalità della misura di sicurezza, rilevante come violazione di legge” ai sensi dell’art. 111, comma 7, Cost. (Sez. 3, n. 4252 del 15/01/2019, Caruso, Rv. 274946-01). Secondo tale arresto, infatti, la nozione di illegalità della misura di sicurezza non è definibile adottando i medesimi parametri elaborati dalla giurisprudenza per determinare il significato della nozione di pena illegale e ricomprende tutti i casi in cui la misura è disposta in violazione dei presupposti e dei limiti stabiliti dalla legge per la sua applicazione (Rv. 274946-02). Nella fattispecie concreta, la sentenza di patteggiamento, emessa in relazione al reato di illecita detenzione di sostanza stupefacente, aveva disposto la confisca del denaro in sequestro. Con il ricorso per cassazione l’imputato lamentava i vizi di violazione di legge e di motivazione in quanto la misura ablatoria era stata disposta senza motivazione né alcun riferimento alla disposizione di legge applicata.

Ponendosi in termini critici rispetto all’orientamento appena esaminato, la Corte ha innanzitutto osservato che il disposto del comma 2-bis dell’art. 448 cod. proc. pen. non prevede alcuna distinzione tra le varie statuizioni del provvedimento decisorio. Si sottolinea, inoltre, che la norma, contemplando anche l’illegalità della misura di sicurezza, si riferisce proprio ad una statuizione che generalmente si ritiene estranea all’accordo delle parti, o comunque, “non negoziabile” con effetti vincolanti per il giudice (salvo l’obbligo di motivazione sulla decisione adottata, come sottolineato, tra le tante, da Sez. 2, n. 19945 del 19/4/2012, Toseroni, Rv. 252825-01 e da Sez. 5, n. 1154 del 22/3/2013, Defina, Rv. 258819-01). Ciò rende difficilmente praticabile, ad avviso della Corte, la soluzione che limita l’operatività del disposto di cui all’art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen. alle statuizioni oggetto di preventivo accordo.

Fatta questa premessa logica, la Corte si è interrogata sulla nozione di “illegalità della misura di sicurezza” che, a differenza di quella di “pena illegale” non è stata oggetto di particolare approfondimento nella giurisprudenza di legittimità. Secondo il solco ermeneutico tracciato dalle Sezioni Unite (in particolare, Sez. U., n. 40986 del 19/7/2018, Pittalà, Rv. 273934-01 e 273934-02 e Sez. U., n. 33040 del 26/2/2015, Jazouli, Rv. 264205-01 e 264207-01) è illegale la pena che, per specie o per quantità non corrisponde a quella astrattamente prevista per la fattispecie incriminatrice o che, comunque, è stata determinata attraverso un procedimento di commisurazione basato su una cornice edittale inapplicabile, perché dichiarata costituzionalmente illegittima o perché individuata in violazione del divieto di irretroattività della legge più sfavorevole.

Ad avviso della Corte, tale nozione non può essere automaticamente adottata con riferimento alle misure di sicurezza, essendo difficile ipotizzare, soprattutto nei casi di confisca ai sensi degli artt. 240 e 240-bis cod. pen., ovvero di espulsione o allontanamento dello straniero dallo Stato, «una misura che per specie o per quantità non corrisponda a quella astrattamente prevista o che sia determinata dal giudice sulla base di un procedimento di commisurazione basato su parametri edittali inapplicabili». Si afferma, dunque, che la nozione di “misura di sicurezza illegale” può essere ricostruita secondo un perimetro più ampio di quello delineato per la pena.

Tale impostazione muove dall’intuizione ermeneutica contenuta in una risalente decisione secondo cui «Tutto ciò che si riferisce alla erronea applicazione di una misura di sicurezza fuori dei casi consentiti, in quanto violazione del più ampio principio di legalità (art 199 cod. pen. e 25 Costituzione), cui è sottoposto, come le pene, anche il regime delle misure di sicurezza, rientra nel potere decisorio ex officio della Corte di Cassazione che, se rileva una causa di illegalità della misura di sicurezza, deve provvedere ad eliminarla». (Sez. 3, n. 1044 del 10/7/1967, Bertolini, Rv. 105611).

Un altro spunto di riflessione è suggerito dal principio affermato da Sez. 3, n. 46049 del 28/03/2018, C., Rv. 274697 secondo cui, la confisca per equivalente, avendo natura sanzionatoria, «partecipa alla disciplina delle sanzioni penali, con la conseguenza che essa non può essere disposta ed eseguita per un valore superiore al profitto del reato, risolvendosi, in caso contrario, nell’applicazione di una pena illegale, alla quale sarebbe pienamente equiparabile, sicché, nel caso di superamento del valore confiscato rispetto al prezzo o profitto del reato, l’importo deve essere ridotto anche d’ufficio».

Sulla base degli indizi ermeneutici ricavabili dai pochi arresti sul tema, la Corte giunge, dunque, alla conclusione che «la nozione di “misura di sicurezza illegale” sembra far riferimento alle misure di sicurezza applicate in violazione dei presupposti e dei limiti stabiliti dalla legge».

Tale conclusione, inferibile anche dal testo degli artt. 25, comma 2, Cost. e 199 cod. pen., risulta, ad avviso della Corte, coerente con i diversi presupposti applicativi delle pene rispetto alle misure di sicurezza: mentre, infatti, le prime conseguono all’accertamento di un reato e, nei casi previsti, alla esclusione di una causa di non punibilità, le seconde richiedono una valutazione ulteriore rispetto a quella relativa alla sussistenza della fattispecie di reato (o di quasi reato) presupposta, quale, a seconda dei casi, l’accertamento della pericolosità sociale ovvero, ai fini dell’applicazione della confisca facoltativa, la valutazione del nesso di strumentalità o di derivazione tra il bene e il reato. Pertanto, ad avviso della Corte, sembra ragionevole ammettere che mentre il controllo di legalità della pena, una volta accertata l’esistenza del reato, possa essere limitato alla sola verifica della cornice edittale, quello di legalità della misura di sicurezza debba, invece, estendersi anche ai presupposti e ai limiti stabiliti dalla legge per la sua applicazione.

Tale interpretazione, prosegue la Corte, consente di assicurare il rispetto della garanzia costituzionale del controllo di legalità di tutte le sentenze ed i provvedimenti sulla libertà personale nel cui ambito la giurisprudenza di legittimità ha ricondotto sia gli “errores in iudicando” o “in procedendo”, sia quei vizi della motivazione così radicali da rendere l’apparato argomentativo posto a sostegno del provvedimento del tutto mancante o privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza e, quindi, inidoneo a rendere comprensibile l’itinerario logico seguito dal giudice.

Si aggiunge, inoltre, che tale conclusione risulta coerente con i principi enunciati dalla giurisprudenza, costituzionale e di legittimità, in tema di motivazione della sentenza di applicazione della pena che, precisa la Corte, ai fini dell’applicazione delle misure di sicurezza, richiede un discorso giustificativo più approfondito e più analitico di quello richiesto per l’accertamento del reato e la determinazione della pena, trattandosi di statuizioni non correlabili ad alcun atto negoziale con cui l’imputato dispensa l’accusa dall’onere di provare i fatti dedotti nell’imputazione o concorda la pena.

La più ampia nozione di illegalità della misura di sicurezza appare, dunque, ad avviso della Corte, coerente con l’esigenza costituzionale della motivazione della sentenza e con il principio della ricorribilità in cassazione in relazione agli errori di diritto.

Tali conclusioni, afferma la Corte, appaiono coerenti con l’art. 2, Prot. 7, CEDU, in forza del quale ciascun condannato ha diritto ad un giudizio di controllo da parte di un giudice superiore, che, secondo la giurisprudenza della Corte Edu, costituisce oggetto di un ampio margine di apprezzamento da parte degli Stati (Corte Edu del 25/07/2017, Rostovtev c. Ucraina; Corte Edu, del 29/4/2014, Natsvlishili e Togonidze c. Georgia; Corte Edu del 13/02/2001, Krombach c. Francia).

La soluzione ermeneutica proposta dalla sentenza Caruso è stata condivisa da Sez. 3, n. 15525 del 15/2/2019, Bozzi, Rv. 275862 secondo cui la nozione di misura di sicurezza illegale comprende - oltre ai casi in cui la misura di sicurezza venga disposta: a) in sede di patteggiamento “infrabiennale” (limitatamente, in tale ipotesi, alle misure di sicurezza diverse dalla confisca); b) nei casi non espressamente previsti dalla legge; c) oltre i limiti dalla legge stessa stabiliti; d) nei casi di abolitio criminis e di declaratoria di incostituzionalità - anche i casi «in cui risultino violati i presupposti e i limiti stabiliti dalla legge per la sua applicazione, allorquando l’adozione si risolva in un’erronea applicazione di una misura di sicurezza fuori dei casi consentiti (Sez. 3, n. 1044 del 10/07/1967, Bertolini, Rv. 105611)». La Corte rileva, inoltre, la possibile frizione della soluzione proposta dall’opposto orientamento ermeneutico con i principi costituzionali (art. 111, commi 6 e 7 Cost.) e sovranazionali (sull’equo processo e sul doppio grado di giurisdizione) considerando che la drastica limitazione della proponibilità del ricorso per cassazione, escludendo in toto il vizio di motivazione e frazionando il vizio di violazione di legge con la selezione dei motivi proponibili, può essere giustificata solo in relazione alla pena concordata tra le parti, ma non alle misure di sicurezza che esulano dal patto.

Tale più ampia nozione di illegalità della misura di sicurezza è stata estesa da Sez. 3, n. 20781 del 17/12/2018 (dep. 14/5/2019), El Ghazzani, Rv. 275530, anche all’ipotesi di omessa applicazione della misura di sicurezza (nella specie, l’espulsione dello straniero ai sensi dell’art. 86 d.P.R. n. 309 del 1990). Ad avviso della Corte, infatti, sebbene l’applicazione della misura di sicurezza dell’espulsione implichi l’esercizio del potere discrezionale del giudice, richiedendo sia il preventivo accertamento della pericolosità sociale del condannato che l’esame comparativo della sua condizione familiare con gli altri criteri di valutazione indicati dall’art. 133 cod. pen. (si richiama a tal fine, Sez. 4, n. 52137 del 17/10/2017, Talbi, Rv. 2712657-01), ciò non significa che sia legittima l’assoluta assenza di valutazione del caso concreto da parte del giudice del patteggiamento. Ponendosi, dunque, in posizione di inconsapevole contrasto con quanto sostenuto da Sez. 6, n. 6136 del 19/12/2018, Kamberi, Rv. 275034, la Corte ha, pertanto, affermato che, in caso di omessa applicazione della misura di sicurezza dell’espulsione dello straniero prevista dalla legge (e di omessa valutazione in assoluto sulla pericolosità), il trattamento sanzionatorio per il caso concreto è diverso da quello stabilito dalla legge, risolvendosi nella violazione “della pena legalmente prevista” dalla norma. Sulla base di tali coordinate ermeneutiche la Corte ha, pertanto, ritenuto impugnabile da parte del pubblico ministero la sentenza di patteggiamento che abbia omesso di disporre, o di valutare, l’espulsione dello straniero per uno dei reati indicati dall’art. 86 d.P.R. n. 309 del 1990.

La Corte, inoltre, ha espresso un giudizio fortemente critico nei confronti della tesi contraria alla deducibilità del vizio di motivazione sulla sussistenza dei presupposti di una misura di sicurezza o del vizio relativo alla sua applicazione fuori dai casi previsti dalla legge. Si afferma, infatti, che poiché la misura di sicurezza (personale) incide in modo concreto e diretto sulla libertà personale, «un sacrifico del ricorso per cassazione (ritenuto non ammissibile ex art. 448, comma 2-bis cod. proc. pen.) in ragione e in contropartita della celerità e del premio (sconto di pena) per il rito del patteggiamento risulterebbe certamente incostituzionale». Pertanto, ad avviso della Corte, l’unica soluzione costituzionalmente orientata è quella di ritenere ammissibile il ricorso per cassazione ex art. 111, comma 7, Cost. nelle ipotesi di omessa applicazione o di illegittima applicazione con una sentenza di patteggiamento della misura di sicurezza.

Sulla base di considerazioni sostanzialmente analoghe, Sez. 3, n. 29428 del 8/5/2019, Scarpulla, Rv. 275896, ha ritenuto ammissibile il ricorso del pubblico ministero avente ad oggetto l’omessa applicazione della confisca, diretta o per equivalente, prevista dall’art. 12-bis, d.lgs. 10/3/2000, n. 74, con la sentenza di patteggiamento per il reato di omesso versamento di IVA.

L’inammissibilità del ricorso per cassazione con il quale si deduca l’omessa motivazione in ordine alle ragioni della confisca del profitto del reato è stata affermata da Sez. 6, n. 3819 del 19/12/2018, Boutamara, Rv. 274962 e Sez. 6, n. 7630 del 19/12/2018, Fall, Rv. 275210. Motivo di impugnazione, in entrambe le fattispecie, era il vizio di motivazione della confisca del denaro disposta con la sentenza di applicazione della pena concordata tra le parti in relazione al reato cui all’art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990.

Ad avviso della Corte, con l’introduzione dello specifico regime di impugnazione previsto dal comma 1-bis dell’art. 448 cod. proc. pen., il vizio di motivazione resta estraneo al sindacato di legittimità, ristretto al solo profilo della illegalità della misura di sicurezza. La riforma del 2017, osserva ancora la Corte, ha introdotto un regime speciale di impugnazione della sentenza di patteggiamento, giustificato dall’origine concordata del provvedimento impugnato, che, prevedendo specifici e tassativi casi di ricorso (riguardanti, peraltro, anche punti della decisione estranei all’accordo, come quello relativo alle misure di sicurezza), prevale sulla disciplina generale di cui all’art. 606, comma 1, cod. proc. pen, escludendone l’applicazione.

Pertanto, ad avviso della Corte, non può ritenersi condivisibile il principio affermato dall’opposto orientamento che, valorizzando l’estraneità all’accordo sull’applicazione della pena del punto relativo alla misura di sicurezza, considera ammissibile il ricorso per cassazione, così “recuperando” i motivi di ricorso previsti in via generale dall’art. 606 comma 1, cod. proc. pen. Si afferma, infatti, che tale interpretazione si risolve in una interpretatio abrogans della norma «rievocando obblighi di motivazione e correlati mezzi di ricorso vigenti precedentemente alla riforma, che – invece – ha voluto accomunare l’illegalità della pena a quella della confisca limitando espressamente il ricorso per cassazione a dette ipotesi, nell’ambito di una tassatività già affermata dalla giurisprudenza di questa Corte».

Le conclusioni cui giunge la Corte poggiano, oltre che sul dato testuale, anche sulla ratio della riforma del 2017, quale emerge dalla Relazione governativa di accompagnamento del d.d.l. (A.C. 2798 – XVII Legislatura) che, in relazione all’art. 1, comma 50, della legge n. 103 del 2017, introduttivo del comma 2-bis dell’art. 448 cod. proc. pen., esprime un giudizio di non meritevolezza dell’«attuale troppo ampia ricorribilità per cassazione, per il verificato largo esito di inammissibilità dei ricorsi, con il conseguente apprezzamento dell’«inutile dispendio di tempo e di costi organizzativi». L’analisi della ratio ispiratrice della riforma rivela, dunque, la ragionevolezza della limitazione del ricorso per cassazione avverso le sentenze di patteggiamento nel dichiarato intento del legislatore di scoraggiare i ricorsi defatigatori e di «accelerare la formazione del giudicato».

Quanto alla nozione di illegalità della misura di sicurezza, ad avviso della Corte, è possibile mutuare i criteri elaborati dalla giurisprudenza di legittimità in tema di illegalità della pena, cosicché può ritenersi tale la misura non prevista dall’ordinamento giuridico per il caso concreto oggetto di giudizio, sia quella eccedente, per specie e quantità, i relativi limiti legali.

Ad avviso della Corte, infatti, mentre la categoria della illegalità predica la totale estraneità a sistema della pena come della misura di sicurezza, per la sua irrimediabile deviazione dal modello tipico, la fattispecie del vizio di motivazione evoca, invece, una causa di illegittimità della sentenza di merito, emendabile nel rapporto tra giudizio rescindente di legittimità e giudizio rescissorio di merito.

L’illegalità della misura di sicurezza, prosegue la Corte, costituisce, dunque, il presupposto logico di ogni censura della motivazione della sentenza di patteggiamento sul relativo punto della decisione, che, dunque, è deducibile nella misura in cui si accompagna alla «plausibile prospettazione di quella specifica violazione di legge penale,- evocata nel comma 2-bis dell’art. 448 e sopra descritta – rappresentata dalla illegalità dell’applicata misura di sicurezza.» Ove, infatti, si prospettasse un vizio di motivazione in punto di misura di sicurezza, senza prefigurare l’inosservanza o l’erronea applicazione delle rilevanti norme sostanziali in materia, il ricorso sarebbe inammissibile per carenza di interesse, in quanto l’eventuale accoglimento della doglianza non sortirebbe alcun effetto favorevole in sede di rinvio (si richiama Sez. 6, n. 47722 del 6/10/2015, Arcone, Rv. 265878-01).

Tale soluzione, secondo quanto afferma in conclusione la Corte, risulta coerente con i principi costituzionali e convenzionali. Innanzitutto, come può desumersi anche dalla previsione di una specifica disciplina transitoria per l’art. 448, comma 2-bis, cod. proc pen., la scelta del rito alternativo, ove la volontà sia immune da vizi, implica una consapevole accettazione delle parti del limitato regime di impugnazione previsto dalla legge, anche con riferimento ai punti della sentenza che, pur non rientrando nel perimetro dell’accordo sulla pena, rientrano, tuttavia, nell’area della ragionevole prevedibilità, come nel caso dell’applicazione di una misura di sicurezza prevista dalla legge, quanto a specie, oggetto e durata/ammontare.

Tale interpretazione, prosegue la Corte, oltre a rispettare l’art. 111, commi 6 e 7, Cost. (il vizio deducibile, se correttamente prospettato, comprende e assorbe i vizi di motivazione), è conforme ai principi costituzionali del giusto processo e del diritto di difesa (quale espressione della libertà di esercizio delle facoltà difensive attraverso la scelta tra il giudizio ordinario, con la correlata possibilità di esperire i mezzi di impugnazione, e la richiesta di patteggiamento, con i conseguenti benefici e limiti previsti dalla legge).

Con riferimento alle garanzie dell’equo processo e del doppio grado di giurisdizione, la Corte richiama, infine, la giurisprudenza della Corte Edu che considera il patteggiamento quale rinuncia da parte dell’imputato ad una serie di diritti e garanzie procedurali che, ove, accompagnata da garanzie minime commisurate alla sua importanza e non contraria al pubblico interesse, fa apparire ragionevole la mancata previsione della possibilità di ricorrere ad un giudice superiore. Si richiama, a tal fine, la sentenza della Corte Edu, del 29/4/2014, Natsylishvili e Togonidze c. Georgia che, in considerazione dell’ampio margine di discrezionalità di cui godono gli Stati contraenti ai sensi dell’art. 2, Prot. 7, CEDU, nonché dei vantaggi connessi alla sentenza di patteggiamento, in termini di rapidità della decisione e di riduzione del carico di lavoro di tribunali, pubblici ministeri e avvocati, ha ritenuto «normale che l’ambito di esercizio del diritto al controllo della decisione per mezzo delle impugnazioni sia più limitato per una condanna basata su un patteggiamento, che rappresenta una rinuncia al diritto di avere la causa penale contro l’accusato esaminata nel merito, rispetto a una condanna pronunciata all’esito di un giudizio ordinario».

Identiche considerazioni sono state svolte da Sez. 6, n. 5875 del 19/12/2018, Chtibi, con riferimento all’insufficiente motivazione della confisca, successivamente ripresa da Sez. 1, n. 21407 del 19/3/2019, Scaglione con riferimento alla dedotta illogicità della motivazione della confisca disposta ai sensi dell’art. 240-bis cod. pen. in relazione al reato di cui all’art. 648 cod. pen.

Sulla base di analoghe ragioni di carattere testuale, sistematico e logico è stato, altresì, dichiarato inammissibile il ricorso del pubblico ministero avente ad oggetto la mancata applicazione di una misura di sicurezza, personale o patrimoniale (Sez. 3, n. 45559 del 07/03/2018, Handa, Rv. 273950, Sez. 6, n. 6136 del 19/12/2018, Kamberi, Rv. 275034 e Sez. 3, n. 10954 del 17/1/2019, Kondaj, Rv. 275840, tutte in tema di omessa applicazione dell’espulsione dello straniero ai sensi dell’art. 86 d.P.R. n. 309 del 1990; Sez. 6, n. 13827 del 16/01/2019, Jarmouni, Rv. 275240, in tema di mancata applicazione della confisca).

In particolare, la sentenza Kamberi, nel richiamare il testo della relazione governativa di accompagnamento del d.d.l. (A.C. 2798-XVII Legislatura), ha escluso che possa ritenersi refluita nel testo normativo l’intenzione ivi espressa secondo cui l’art. 448, comma 2-bis cod. proc. pen. si applica all’ipotesi di illegalità della misura di sicurezza applicata o omessa. Ad avviso della Corte, infatti, l’illegalità della misura di sicurezza non può essere equiparata alla violazione dell’obbligo di valutarne l’emissione, atteso che l’obbligatorietà della sua applicazione (nella specie, l’espulsione dello straniero ai sensi dell’art. 86 d.P.R. n. 309 del 1990) non coincide con l’automaticità della sua applicazione a seguito della condanna, essendo necessario il previo accertamento della pericolosità sociale del condannato.

La Corte ha, inoltre, escluso che dalla inammissibilità del ricorso per cassazione nel caso di omessa applicazione della misura di sicurezza personale, consegua un vuoto di tutela in quanto tale omissione è emendabile a seguito di ricorso del pubblico ministero al magistrato di sorveglianza, ai sensi del combinato disposto degli artt. 205, comma 2, n. 1 cod. pen. e 679 cod. proc. pen. (in senso conforme, anche Sez. 6, n. 6136 del 19/12/2018, Xhelamaj e Sez. 3, n. 10954 del 17/1/2019, Kondaj, Rv. 275840).

A conclusioni parzialmente difformi, quanto al rimedio esperibile, è giunta Sez. 6, n. 9434 del 29/1/2019, Homri, Rv. 275679-01 che, pur ritenendo inammissibile il ricorso per cassazione proposto dal pubblico ministero avverso l’omessa pronuncia dell’espulsione dello straniero con la sentenza di patteggiamento per uno dei reati previsti dall’art. 86 d.P.R. n. 309 del 1990, ha disposto la conversione del ricorso in appello al tribunale di sorveglianza ai sensi del combinato disposto degli artt. 579, comma 2, e 680, comma 2, cod. proc. pen.

Ad avviso della Corte, infatti, poiché la statuizione in questione è estranea all’accordo e, anche se concordata tra le parti, è, comunque, soggetta alla valutazione da parte del giudice del presupposto sostanziale della pericolosità sociale e, quindi, allo stesso vaglio richiesto per l’applicazione delle medesima misura con la sentenza di condanna, sotto tale limitato profilo, la sentenza di patteggiamento può essere equiparata ad una sentenza di condanna. In tal caso, prosegue la Corte, non può valere l’inappellabilità prevista dall’art. 448, comma 2, cod. proc. pen. e, analogamente all’ipotesi in cui il giudice applichi la pena richiesta dall’imputato all’esito del dibattimento, ritenendo ingiustificato il dissenso del pubblico ministero, deve ritenersi che le parti abbiano il diritto di appellare la sentenza di patteggiamento, «non essendovi ragione di escludere l’appellabilità innanzi al tribunale di sorveglianza della sentenza per le disposizioni che investano la decisione sull’applicazione della misura di sicurezza in quanto non comprese nell’accordo sulla pena».

Quanto alla omessa applicazione della confisca obbligatoria ex art. 12-sexies, d.l. 8 giugno 1992, n. 356, conv. in legge 7 agosto 1992, n. 356, la sentenza Jarmouni ha individuato il rimedio esperibile nell’incidente di esecuzione (si richiama, tra le altre, Sez. U n. 29022 del 30/5/2001, Derouach, Rv. 219221).

3.1. La soluzione prospettata nell’ordinanza di rimessione.

La Corte rimettente ha, innanzitutto, messo in luce le criticità dell’ordinamento contrario alla ricorribilità della sentenza di patteggiamento.

Quanto alla misura di sicurezza patrimoniale, si rileva l’assenza di un confronto con la tematica della natura poliforme dell’istituto della confisca che, secondo la direttrice ermeneutica tracciata dalla Corte Costituzionale sin dal 1961, raccoglie sotto un unico nomen iuris svariate tipologie di istituti, tutti accomunati dall’effetto del trasferimento coattivo di beni economici al patrimonio pubblico. Osserva, in particolare, la Corte che il proliferare, nell’ultimo quarto di secolo, di forme di confisca obbligatoria, che per loro natura rendono più sfumato il rapporto tra pericolosità della cosa e pericolosità del reo, l’introduzione di nuove forme di confisca nell’ambito della legislazione di contrasto alla criminalità organizzata, unitamente alla progressiva moltiplicazione delle forme di confisca per equivalente, hanno messo in crisi le costruzioni dogmatiche elaborate in passato evidenziando la problematica identificazione di un istituto effettivamente unitario. Sottolinea, inoltre, la Corte che tale tema è stato oggetto di numerose pronunce in sede europea ove si è registrata una revisione del concetto di “pena” al fine di estendere a talune forme di confisca sia le garanzie di prevedibilità ed accessibilità previste dall’art. 7 CEDU che le prerogative in tema di processo equo sancite dall’art. 6 CEDU (tra cui, soprattutto, la presunzione di innocenza prevista dal par. 2).

Ad avviso della Corte rimettente, la soluzione in esame presenta, inoltre, elementi di frizione con l’esigenza di tutela dei diritti la cui compressione, dinanzi alla non impugnabilità di una statuizione priva di motivazione, finisce per essere rimessa all’arbitrio soggettivo del giudicante. Osserva, infatti, la Corte che, accanto al criterio della “ragionevole prevedibilità” delle statuizioni esterne al patto, valorizzato da tale orientamento quale “clausola di salvaguardia” contro l’arbitrio del giudicante (la cui violazione «rende la confisca – e più in generale, la misura di sicurezza patrimoniale - di dubbia legalità»), occorre tenere conto del c.d. test di proporzionalità che, sebbene ancorato alla disciplina delle misure cautelari personali ed alla tutela dei diritti inviolabili, trova nel sistema una valenza più ampia, travalicando il perimetro della liberà personale, «per divenire termine necessario di raffronto tra la compressione dei diritti quesiti e la giustificazione della loro limitazione» (principio, affermato, in ambito sovranazionale sia dalle fonti dell’Unione - quali l’art. 5, par. 3 e 4, T.U.E. e gli artt. 49, par. 3 e 52, par. 1 della Carta dei diritti fondamentali - che dal sistema della CEDU).

Ad avviso della Corte, dunque, anche nel caso in cui non rilevi il tema della tutela dei diritti fondamentali, il principio di proporzionalità può rappresentare un termine di paragone per lo sviluppo di nuovi modelli di ragionamento giuridico, assolvendo una duplice funzione sia strumentale, per un’adeguata tutela dei diritti individuali in ambito processuale penale, che finalistica, come parametro per verificare la giustizia della soluzione adottata nel caso concreto.

Muovendo da tale criterio ermeneutico, la Corte rimettente ravvisa all’interno dell’orientamento favorevole alla ricorribilità per cassazione una soluzione adeguata all’esigenza di conformare il dato normativo ai principi costituzionali ed alla natura pattizia del rito allorchè, distinguendo le statuizioni della sentenza di patteggiamento tra quelle che recepiscono l’accordo, il cui oggetto è tipizzato dall’art. 444 cod. proc. pen., e quelle ad esso esterne, (Sez. 3, n. 30064 del 23/05/2018, Lika, Rv. 273830 e da Sez. 4, n. 22824 del 17/4/2018, Daouk) circoscrive alle prime la limitazione del potere di impugnazione

Tale impostazione ermeneutica viene ulteriormente sviluppata dalla Corte rimettente alla luce dei recenti approdi della giurisprudenza di legittimità che hanno esteso il perimetro del patto anche alle statuizioni tradizionalmente considerate “esterne”, quale la confisca. In tal caso, tuttavia, si esclude che siffatte pattuizioni abbiano un effetto vincolante per il giudice sul quale grava solo un onere di motivazione qualora provveda in termini difformi da quelli concordati, non potendosi estendere al punto relativo alla confisca le caratteristiche di sinteticità della motivazione tipiche della sentenza di patteggiamento (si richiamano, tra le tante, Sez. 6, n. 54977 del 14/10/2016, Orsi, Rv. 268740; Sez. 2, n. 1934 del 18/12/2015, Spagnuolo, Rv. 265823).

Da tale principio, ad avviso della Sezione rimettente, è, dunque, desumibile una possibile e alternativa interpretazione dell’art. 448 comma 2-bis cod. proc. pen. che ne circoscrive l’applicazione, quanto al motivo di ricorso relativo all’illegalità della misura di sicurezza, alla sentenza di patteggiamento che recepisca un accordo esteso anche a tali statuizioni esterne. Si afferma, pertanto, che, qualora la sentenza di patteggiamento recepisca un accordo a contenuto complesso, esteso anche alle misure di sicurezza, il giudice è esonerato dall’onere di motivare specificamente sul punto, e la sentenza sarà impugnabile entro i limiti previsti dall’art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen. Diversamente, nell’ipotesi in cui il giudice disponga una misura di sicurezza su cui non è intervenuto alcun accordo tra le parti, il potere di impugnazione non potrebbe non ricomprendere anche il sindacato sulla motivazione del provvedimento e troverebbe il suo fondamento giustificativo nella norma generale di cui all’art. 606 cod. proc. pen.

4. La questione relativa alla ricorribilità del punto concernente l’applicazione della sanzione amministrativa accessoria.

Con ordinanza n. 22113 del 16/5/2019 la Quarta sezione della Corte di cassazione, ha rimesso alle Sezioni Unite un’analoga questione, oggetto di un contrasto interpretativo, relativa all’ammissibilità del ricorso per cassazione avverso la sentenza di patteggiamento che deduca un vizio relativo all’applicazione o all’omessa applicazione di sanzioni amministrative accessorie.

Un primo orientamento ha ritenuto ammissibile tale ricorso in considerazione del carattere autonomo delle sanzioni amministrative accessorie, non riconducibile alle categorie delle pene e delle misure di sicurezza contemplate dal comma 2-bis dell’art. 448 cod. proc. pen., nonché della loro estraneità all’accordo sulla pena (Sez. 4, n. 29179 del 23/5/2018, Stratta, Rv. 273091-01 e Sez. 4, n. 7554 del 24/01/2019, Re, tutte in tema di omessa applicazione della sanzione amministrativa accessoria; Sez. 6, n. 15848 del 5/2/2019, Moretti, Rv. 275224 in tema di omesso raddoppio della sanzione della sospensione della patente di guida; Sez. 4, n. 18942 del 27/03/2019, Bruna, Rv. 275435-01 in tema di omessa motivazione sulla durata della sanzione amministrativa applicata in misura prossima al “medio edittale”).

In particolare, la sentenza Stratta ha ritenuto ammissibile il ricorso del pubblico ministero che deduceva la violazione dell’art. 222 cod. strada per l’omessa applicazione con la sentenza di patteggiamento per il reato di cui all’art. 589, commi 1 e 2 cod. pen. della sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida ed ha annullato con rinvio la sentenza, limitatamente a tale omessa statuizione. La Corte, ponendo l’accento sul carattere autonomo della sanzione amministrativa accessoria rispetto alle pene e alle misure di sicurezza, ha escluso che la stessa rientri nell’ambito di «positivizzazione dell’art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen.» ed ha ritenuto che le relative statuizioni possano formare oggetto di ricorso per cassazione ai sensi della disciplina generale dettata dall’art. 606, comma 2, cod. proc. pen. In conformità con l’insegnamento della Corte Costituzionale (si richiama, a tal fine la sentenza n. 49 del 2015), la Corte, ha, inoltre, ribadito che le sanzioni amministrative accessorie hanno proprie peculiari caratteristiche che le distinguono dalla pena, a cui non è possibile equipararle, neppure sulla scorta della mera, eventuale, ricorrenza di caratteri comuni. Pertanto, prosegue la Corte, «proprio in ragione di tale natura, esse si collocano al di fuori della sfera di operatività dell’accordo che investe il patteggiamento propriamente detto».

Sempre in tema di omessa applicazione della sanzione amministrativa della sospensione della patente di guida, Sez. 4, n. 7554 del 24/01/2019, Re, nel ribadire il principio di diritto affermato dalla sentenza Stratta, ha affermato che le sanzioni amministrative accessorie, in considerazione del loro carattere autonomo rispetto alle pene accessorie, non rientrano tra quelle espressamente escluse dall’art. 445 cod. proc. pen. (Sez. 4, n. 27994 del 3/7/2012, Marcel, Rv. 253591) e devono, pertanto, essere applicate con la sentenza di patteggiamento anche se non oggetto di accordo (si richiamano, Sez. 2, n. 49461 del 26/11/2013, Cargnello, Rv. 257871 e Sez. 4, n. 36868 del 14/3/2007, Francavilla, Rv. 237231).

Ad analoghe conclusioni è giunta Sez. 4, n. 18942 del 27/3/2019, Bruna, Rv. 275435-01, con riferimento al vizio di motivazione relativo alla durata della sanzione amministrativa della sospensione della patente di guida (applicata, nella specie, in misura superiore al medio edittale). Oltre a ritenere ammissibile il ricorso del condannato, secondo la disciplina generale dettata dall’art. 606, comma 2, cod. proc. pen., la Corte ha ritenuto sussistente il vizio di motivazione, ribadendo il principio già affermato da Sez. 4, n. 21574 del 29/01/2014, Armanetti, Rv. 259211 secondo cui il giudice che applichi con la sentenza di patteggiamento la sanzione amministrativa della sospensione della patente di guida non deve fornire una motivazione sul punto allorché si attesti non oltre la media edittale e non constino specifici elementi di meritevolezza in favore dell’imputato.

In continuità con il principio affermato dalla sentenza Stratta, anche Sez. 6, n. 15848 del 5/2/2019, Moretti, Rv. 275224 ha ritenuto ammissibile, ai sensi dell’art. 606 cod. proc. pen., il ricorso per cassazione del pubblico ministero avverso il punto della sentenza di patteggiamento relativo all’applicazione della sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida in misura inferiore al minimo legale (a seguito dell’omesso raddoppio della durata in caso di appartenenza del veicolo a terzi). La Corte, infatti, ha aderito all’opzione ermeneutica che limita l’ambito di applicabilità dell’art. 448, comma 2-bis cod. proc. pen. alle statuizioni che hanno formato oggetto del patto processuale, anche se estese ad aspetti ulteriori rispetto agli essentialia negotii (si richiama a tal fine, Sez. 6, n. 54977 del 14/10/2016, Orsi, Rv. 268740 sugli effetti non vincolanti del patto esteso alla confisca). Ciò comporta che, per tutti gli aspetti esclusi dal patteggiamento, perché non suscettibili di accordo o non considerati dalle parti, è possibile adire il giudice di legittimità secondo le regole generali. Tali considerazioni, conclude la Corte, consentono, inoltre, di affermare la ricorribilità in cassazione della sentenza di patteggiamento che abbia omesso di disporre la sospensione della patente di guida, trattandosi di una sanzione amministrativa accessoria che, «non soltanto non è riconducibile alle categorie della pena e delle misure di sicurezza, indicate nel citato art. 448, comma 2-bis, ma soprattutto non può formare oggetto di accordo tra le parti» .

Altro orientamento ha, invece, ritenuto inammissibile il ricorso per cassazione proposto in ordine al vizio di motivazione concernente la durata della sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida (Sez. 6, n. 14721 del 19/12/2018, Lodato, Rv. 275241). Nella fattispecie, l’imputato aveva impugnato la sentenza di patteggiamento relativa al reato di cui all’art. 186, comma 7, cod. strada, deducendo il vizio di motivazione in ordine alla durata della sanzione amministrativa della sospensione della patente, in quanto applicata in misura superiore al minimo (dodici mesi, rispetto al minimo di sei mesi) senza alcuna motivazione in merito ai parametri valorizzati. La Corte, pur concordando con le argomentazioni del P.G. in merito al carattere “implicito” della motivazione che non superi la media edittale (nella specie calcolata in mesi quindici), è giunta alla conclusione della inammissibilità del ricorso in considerazione del carattere speciale della disciplina introdotta all’art. 448, comma 2-bis cod. proc. pen. che, individuando in modo tassativo e derogatorio i casi di ricorso (si richiama, in tal senso, Sez. 6, n. 3819 del 19/12/2018, Boutamara, Rv. 274962 in tema di omessa motivazione della confisca disposta con la sentenza di patteggiamento), non consente di applicare la disciplina generale di cui all’art. 606, comma 1, cod. proc. pen. Ad avviso della Corte, l’analisi del dato testuale trova, peraltro, riscontro nella ratio della riforma del 2017, esplicitata nella Relazione governativa di accompagno del d.d.l. (A.C. 2798 – XVII Legislatura) ove, con riferimento all’art. 1, comma 50, della legge n. 103 del 2017, introduttivo del comma 2-bis dell’art. 448 cod. proc. pen., esprime un giudizio di non meritevolezza dell’attuale troppo ampia ricorribilità per cassazione della sentenza di patteggiamento, per il verificato largo esito di inammissibilità dei ricorsi, con il conseguente apprezzamento dell’«inutile dispendio di tempo e di costi organizzativi».

Si afferma, pertanto, che, con la riforma, oltre a recepirsi nella formale disposizione di legge gli esiti della elaborazione giurisprudenziale in tema di impugnazione della sentenza di patteggiamento, si è sancita la non ricorribilità dell’eventuale vizio di motivazione sul punto relativo alla verifica della sussistenza di cause di proscioglimento ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen. senza, tuttavia, incidere, sul persistente obbligo di accertamento gravante sul giudice. In tal modo, prosegue la Corte, si è ulteriormente circoscritta la già limitata ricorribilità della pronuncia di cui all’art. 444 cod. proc. pen, attraverso l’ulteriore valorizzazione del riconoscimento di responsabilità implicito nel consenso prestato dall’imputato personalmente o mediante procuratore speciale. Analoghe considerazioni valgono, ad avviso della Corte, per le ulteriori restrizioni previste con riferimento alla ricorribilità dei vizi concernenti la pena o le misure di sicurezza.

Procedendo, dunque, all’esame del vizio concernente le sanzioni amministrative accessorie, la Corte, ponendosi in posizione di contrasto con quanto sostenuto da Sez. 4, n. 29179 del 23/05/2018, Stratta, Rv. 273091, ha escluso che il silenzio dell’art. 448, comma 2-bis cod. proc. pen. relativamente alle sanzioni amministrative accessorie possa consentire il rinvio alle disposizioni generali sancite all’art. 606 cod. proc. pen. Si sottolinea, infatti, l’evidente asimmetria che si verrebbe ad introdurre nel regime delle impugnazioni della sentenza di patteggiamento connotato, da un lato, dalle restrizioni alla deducibilità del vizio di motivazione per le statuizioni relative alle misure di sicurezza, nonostante la loro estraneità all’accordo, e, dall’altro, dall’ampio regime riservato per le sanzioni amministrative accessorie. Analoga asimmetria viene segnalata in relazione alle restrizioni alla possibilità di impugnare i punti della sentenza concernenti il reato, cui la sanzione amministrativa accede quale automatica conseguenza, svolgendo una funzione riparatoria dell’interesse pubblico correlato al valore primario tutelato dalla norma penale.

La soluzione adottata, secondo quanto afferma in conclusione la Corte, risulta coerente con i principi costituzionali e convenzionali in tema di equo processo e diritto di difesa. Innanzitutto, come può desumersi anche dalla previsione di una specifica disciplina transitoria per il novellato art. 448, comma 2-bis, cod. proc pen., la scelta del rito alternativo, ove la volontà sia immune da vizi, implica anche una consapevole accettazione delle parti del limitato regime di impugnazione previsto dalla legge, anche con riferimento ai punti della sentenza che, pur non rientrando nel perimetro dell’accordo sulla pena, rientrano, tuttavia, nell’area della ragionevole prevedibilità, come nel caso dell’applicazione di una sanzione amministrativa accessoria, che discende direttamente dalla sussistenza del fatto reato oggetto della sentenza e di cui la legge contempla specie, oggetto e durata (o ammontare).

Quanto alla coerenza con i principi costituzionali, osserva la Corte che tale interpretazione, oltre a rispettare l’art. 111, commi 6 e 7 Cost. (il vizio deducibile, se correttamente prospettato, comprende e assorbe i vizi di motivazione) è conforme alle esigenze di tutela dei principi del giusto processo e del diritto di difesa (quale espressione della libertà di esercizio delle facoltà difensive attraverso il giudizio ordinario, con la correlata possibilità di esperire i mezzi di impugnazione, ovvero di presentare richiesta di patteggiamento, con i conseguenti benefici e limiti previsti dalla legge).

Quanto alla conformità alla CEDU della soluzione adottata, la Corte ha, infine, richiamato la giurisprudenza della Corte Edu che considera la richiesta di patteggiamento quale consapevole rinuncia da parte dell’imputato ad una serie di diritti e garanzie procedurali che, ove accompagnata da garanzie minime commisurate alla sua importanza e non contraria al pubblico interesse, fa apparire ragionevole la mancata previsione della possibilità di ricorrere ad un giudice superiore, trattandosi di ipotesi diversa da quella basata su condanna emessa all’esito di giudizio ordinario. Si richiama, a tal fine, la sentenza della Corte Edu, del 29/4/2014, Natsylishvili e Togonidze c. Georgia che, in considerazione dell’ampio margine di discrezionalità di cui godono gli Stati contraenti ai sensi dell’art. 2, Prot. 7 Cedu nonché dei vantaggi connessi alla sentenza di patteggiamento in termini di rapidità della decisione e di riduzione del carico di lavoro di tribunali, pubblici ministeri e avvocati, ha ritenuto «normale che l’ambito di esercizio del diritto al controllo della decisione per mezzo delle impugnazioni sia più limitato per una condanna basata su un patteggiamento, che rappresenta una rinuncia al diritto di avere la causa penale contro l’accusato esaminata nel merito, rispetto a una condanna pronunciata all’esito di un giudizio ordinario».

Il percorso logico seguito dalla sentenza Lodato è stato ripreso da Sez. 6, n. 15845 del 7/1/2019, Pulvirenti, Rv. 275897-01, per dichiarare l’inammissibilità del ricorso con cui l’imputato lamentava l’omessa motivazione sulla durata della sospensione della patente di guida (nella specie, applicata nella misura massima di due anni).

Nell’ordinanza di rimessione la Corte ha individuato le criticità di tale secondo orientamento in quanto: 1) non considera che le esigenze deflattive non possono giungere al punto di comprimere i diritti delle parti in misura tale da precluderne la tutela giurisdizionale in presenza di statuizioni oggettivamente in contrasto con disposizioni di legge; 2) non individua il rimedio esperibile per far valere i vizi concernenti l’applicazione delle sanzioni amministrative accessorie in maniera difforme dallo schema legale ovvero la loro omessa applicazione.

Ad avviso della Corte rimettente, tali rimedi potrebbero essere individuati nella procedura di correzione dell’errore materiale o nella proposizione dell’incidente di esecuzione, ma entrambe le soluzioni si prospettano di non facile applicazione.

L’adozione della prima soluzione richiederebbe, infatti, il superamento dell’opzione interpretativa che circoscrive il ricorso a tale procedura solo per porre rimedio ad imprecisioni, omissioni di elementi che debbono necessariamente essere ricompresi nel provvedimento e, più in generale, a discrasie formali la cui correzione non implica l’esercizio di un potere discrezionale. L’adesione alla seconda soluzione dovrebbe, invece, tenere conto del principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite con la sentenza Basile (n. 6240 del 27/11/2014, Rv. 262327-01) secondo cui «L’applicazione di una pena accessoria extra o contra legem da parte del giudice della cognizione può essere rilevata, anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza, dal giudice dell’esecuzione purché essa sia determinata per legge ovvero determinabile, senza alcuna discrezionalità, nella specie e nella durata, e non derivi da errore valutativo del giudice della cognizione».

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. 3, n. 1044 del 10/7/1967, Bertolini, Rv. 105611

Sez. 6, n. 2099 del 24/05/1995, Basciano, Rv. 202152

Sez. U, n. 29022 del 30/5/2001, Derouach, Rv. 219221

Sez. 4, n. 36868 del 14/3/2007, Francavilla, Rv. 237231

Sez. 2, n. 19945 del 19/4/2012, Toseroni, Rv. 252825

Sez. 4, n. 27994 del 3/7/2012, Marcel, Rv. 253591

Sez. 5, n. 1154 del 22/3/2013, Defina, Rv. 258819

Sez. 2, n. 49461 del 26/11/2013, Cargnello, Rv. 257871

Sez. 4, n. 21574 del 29/01/2014, Armanetti, Rv. 259211

Sez. U, n. 33040 del 26/2/2015, Jazouli, Rv. 264205-01 e 264207-01

Sez. 6, n. 47722 del 6/10/2015, Arcone, Rv. 265878-01

Sez. 2, n. 1934 del 18/12/2015, Spagnuolo, Rv. 265823

Sez. 6, n. 54977 del 14/10/2016, Orsi, Rv. 268740

Sez. 6, n. 38454 del 14/7/2017, Arigò, Rv. 270850

Sez. 4, n. 52137 del 17/10/2017, Talbi, Rv. 2712657

Sez. 6, n. 2721 del 8/1/2018, Bouaroua, Rv. 272026

Sez. 3, n. 45559 del 07/03/2018, Handa, Rv. 273950

Sez. 1, n. 15553 del 20/3/2018, Maugeri, Rv. 272619

Sez. 3, n. 46049 del 28/03/2018, C., Rv. 274697-01

Sez. 4, n. 22824 del 17/04/2018, Daouk

Sez. 4, n. 29179 del 23/5/2018, Stratta, Rv. 273091

Sez. 3, n. 30064 del 23/05/2018, Lika, Rv. 273830

Sez. U, n. 40986 del 19/7/2018, Pittalà, Rv. 273934-01 e 273934-02

Sez. 2, n. 4727 del 11/1/2018, Oboroceanu, Rv. 272014

Sez. 4, n. 54580 del 19/9/2018, Sentimenti, Rv. 274505-01

Sez. 6, n. 53178 del 20/11/2018, Misani

Sez. 3, n. 20781 del 17/12/2018, El Ghazzani, Rv. 275530

Sez. 6, n. 3819 del 19/12/2018, Boutamara, Rv. 274962

Sez. 6, n. 5875 del 19/12/2018, Chtibi,

Sez. 6, n. 6136 del 19/12/2018, Kamberi, Rv. 275034

Sez. 6, n. 7630 del 19/12/2018, Fall, Rv. 275210

Sez. 6, n. 14721 del 19/12/2018, Lodato, Rv. 275241

Sez. 6, ord. n. 17770 del 16/1/2019, Savin

Sez. 6, n. 15845 del 7/1/2019, Pulvirenti, Rv. 275897-01

Sez. 1, n. 11595 del 9/1/2019, Cabiddu, Rv. 275059

Sez. 6, n. 13827 del 16/01/2019, Jarmouni, Rv. 275240

Sez. 6, n. 9434 del 29/1/2019, Homri, Rv. 275679-01

Sez. 3, n. 4252 del 15/01/2019, Caruso, Rv. 274946-01 e 274946-02

Sez. 3, n. 10954 del 17/1/2019, Kondaj, Rv. 275840

Sez. 4, n. 7554 del 24/01/2019, Re

Sez. 6, n. 15848 del 5/2/2019, Moretti, Rv. 275224

Sez. 3, n. 15525 del 15/2/2019, Bozzi, Rv. 275862

Sez. 1, n. 21407 del 19/3/2019, Scaglione

Sez. 4, n. 18942 del 27/03/2019, Bruna, Rv. 275435

Sez. 1, n. 21442 del 29/4/2019, Redondi.

Sez. 3, n. 29428 del 8/5/2019, Scarpulla, Rv. 275896

Sez. 4, ord. n. 22113 del 16/5/2019, Melzani

  • azione civile

CAPITOLO V

IL GIUDIZIO DI RINVIO EX ART. 622 COD. PROC. PEN.

(di Paola Proto Pisani )

Sommario

1 Premessa. - 2 La giurisprudenza penale della Corte in tema di regole applicabili nel giudizio di rinvio innanzi al giudice civile. - 3 La giurisprudenza civile della Corte in tema di regole applicabili nel giudizio di rinvio innanzi al giudice civile. - 4 L’ambito di applicazione dell’art. 622 cod. proc. pen. secondo la giurisprudenza penale della Corte. - 4.1 Le recenti sentenze della Corte di cassazione. - 5 Questioni in tema di ammissibilità dell’impugnazione della parte civile delle sentenze di proscioglimento. - Indice delle sentenze citate

1. Premessa.

Nell’anno in rassegna si è registrato un contrasto tra le sezioni penali e quelle civili della Corte di cassazione in ordine alle regole applicabili al giudizio di rinvio innanzi al “giudice civile competente per valore in grado d’appello” che, ai sensi dell’art. 622 cod. proc. pen., consegue all’annullamento, ad opera della Corte di cassazione penale delle sole “disposizioni o capi che riguardano l’azione civile” o all’accoglimento del ricorso della parte civile contro la sentenza di assoluzione dell’imputato, casi in cui la sentenza penale è divenuta irrevocabile agli effetti penali, ma non anche agli effetti civili.

Le Sezioni penali della Corte, infatti ritengono applicabili in tale giudizio le regole processuali e probatorie del giudizio penale, ed enunciano il principio di diritto a cui pretendono che il giudice civile del rinvio si uniformi.

La Corte di cassazione civile, invece, ritiene che nel giudizio di rinvio innanzi al giudice civile debbano trovare applicazione le regole processuali e probatorie civili. Ed escludendo che la Corte di cassazione penale, in sede di annullamento con rinvio ex art. 622 cod. proc. pen., abbia il potere di stabilire quali siano le regole e le forme da applicare in tale giudizio, ritiene privo di efficacia l’eventuale principio di diritto enunciato.

Il contrasto attiene non soltanto all’individuazione delle regole (processuali e probatorie, civili o penali) applicabili nel giudizio di rinvio ex art. 622 cod. proc. pen., ma altresì all’individuazione dell’articolazione (civile o penale) della Corte di cassazione a cui spetti il potere di stabilire quali siano tali regole; e si presenta tanto più grave in quanto non esiste una sede deputata a dirimere la difformità tra le interpretazioni fornite dalle sezioni civili e quelle penali della Corte.

La giurisprudenza penale della Corte ha, tuttavia, iniziato ad individuare dei casi di annullamento delle sole disposizioni civili della sentenza penale, a cui non consegue il rinvio al giudice civile, nonostante l’intervenuta irrevocabilità della sentenza agli effetti penali, e nei quali il giudizio di legittimità si definisce o con l’annullamento senza rinvio delle statuizioni civili di condanna, o con il rinvio al giudice penale.

Tale interpretazione - che rimedita, in senso restrittivo, l’ambito applicativo dell’art. 622 cod. proc. pen. con correlativo ampliamento dei casi di annullamento senza rinvio o con rinvio al giudice penale – se venisse sviluppata ed estesa oltre i casi in cui sono intervenute le pronunce della Corte di cassazione penale, potrebbe evitare il rinvio al giudice civile ad opera della Corte di cassazione penale nei casi in cui è controverso quali regole debbano trovarvi applicazione, e così eliminare in radice le ragioni del contrasto tra le due articolazioni della Corte.

2. La giurisprudenza penale della Corte in tema di regole applicabili nel giudizio di rinvio innanzi al giudice civile.

La giurisprudenza penale della Corte, almeno fino all’inizio del 2019, ha mantenuto fermo l’orientamento, inaugurato negli ultimi anni, secondo cui in caso di accoglimento del ricorso per cassazione ai soli effetti civili, ai sensi dell’art. 622 cod. proc. pen., nel successivo giudizio di rinvio il giudice civile “è tenuto a valutare la sussistenza della responsabilità dell’imputato secondo i parametri del giudizio penale e non facendo applicazione delle regole proprie del giudizio civile” (Sez. 4,n. 412 del 16/11/2018 -dep. 2019-, De Santis, Rv. 274831; Sez.4, n. 5898 del 17/01/2019, Borsi, Rv. 275266; Sez. 4,n. 5901 del 18/01/2019, Oliva, Rv. 275122).

Tale principio di diritto inizialmente è stato affermato con specifico riferimento all’applicabilità delle regole di giudizio del diritto penale ai fini dell’accertamento del nesso di causalità nel giudizio di rinvio innanzi al giudice civile, (Sez. 4, n. 11193 del 10/02/2015, Cortesi, Rv. 262708; Sez. 4, n. 27045 del 4/02/ 2016, Di Flaviano, Rv. 267730) e, quindi, del criterio dell’ “elevato grado di credibilità razionale” enunciato dalle Sezioni unite Franzese (Sez. U,n. 30328 del 10/07/2002, Franzese, Rv. 222138) e non delle distinte regole di giudizio consolidatesi nella giurisprudenza civile della preponderanza dell’evidenza o del “più probabile che non” (Sez. U, n. 576 del 10/11/ 2008, Rv. 600899; Sez. U, n. 584 del 10/11/2008, n. 584, Rv. 600921).

Lo stesso principio è stato inoltre affermato dalla Corte in caso di annullamento della sentenza impugnata per omessa rinnovazione dell’istruzione dibattimentale nell’ipotesi di riforma, anche ai soli effetti civili, della sentenza assolutoria di primo grado sulla base di un diverso apprezzamento dell’attendibilità di una prova dichiarativa ritenuta decisiva, stabilendo che il giudice civile del rinvio debba tener conto dei principi affermati dalla Corte di Strasburgo e da Sez. U, 19 gennaio 2017, n. 18620, Patalano, Rv. 269787 e Sez. U, 28 aprile 2016, n. 27620, Dasgupta, Rv. 267489 (Sez. 4, n. 45786 dell’11/10/2016, Assaiante, Rv. 268517 e Sez. 4, dell’8/06/ 2017, n. 34878, Soriano, Rv. 271065, che hanno annullato, con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello, la sentenza della Corte d’appello che, in riforma della pronuncia assolutoria di primo grado, ritenuta la responsabilità dell’imputato aveva dichiarato non doversi procedere nei confronti del medesimo per essersi il reato estinto per prescrizione, dichiarandolo responsabile ai fini civili e condannandolo al risarcimento del danno in favore della costituita parte civile).

Inoltre la Corte ha stabilito che “la prova inutilizzabile nel processo penale, perché assunta in violazione di un espresso divieto probatorio, non potrà essere utilizzata nel giudizio civile, atteso che diversamente, si realizzerebbe una sostanziale elusione dell’accertamento compiuto in sede penale” (Sez 4, n. 43896 del 8/02/2018, Luvaro, 274223-02).

L’applicabilità, nel giudizio di rinvio innanzi al giudice civile ex art. 622 cod. proc. pen., delle regole di giudizio del processo penale, anziché di quello civile, si spiega, secondo la giurisprudenza penale della Corte in quanto “l’azione civile che viene esercitata nel processo penale è quella per il risarcimento del danno patrimoniale o non, cagionato dal reato, ai sensi dell’art. 185 cod. pen. e art. 74 cod. proc. pen. ; con la conseguenza che nella sede civile, coinvolta per effetto della presente pronunzia, la natura della domanda non muta. Si dovrà cioè valutare incidentalmente l’esistenza di un fatto di reato in tutte le sue componenti obiettive e subiettive, alla luce delle norme che regolano la responsabilità penale; prima tra tutte quella della causalità omissiva alla stregua dei principi espressi dalla giurisprudenza sopra richiamata” (Sez. 4, n. 27045 del 4/02/ 2016, Di Flaviano, Rv. 267730).

Nella sentenza Luvaro la Corte di cassazione penale, rifacendosi all configurazione che di tale giudizio aveva dato la Corte di cassazione civile almeno fino al 2017, ritiene che i limiti e l’oggetto del giudizio di rinvio siano quelli fissati nella sentenza di annullamento ai sensi dell’art. 622 cod. proc. pen., con la conseguenza che la fase successiva non si presenta autonoma dalla vicenda del processo penale, ma ne rappresenta - sia pure ai fini della sola statuizione sugli effetti civili - la prosecuzione avanti alla giurisdizione ordinaria civile successivamente all’intervenuta fase di cassazione in sede penale, nell’ambito della quale le parti devono riproporre la controversia nei medesimi termini e nel medesimo stato di istruzione anteriore alla decisione della Corte di cassazione, senza tendenziale possibilità di svolgere una nuova attività assertiva o probatoria, salvi i casi in cui tale attività sia resa necessaria da fatti sopravvenuti o dalla sentenza della Corte. Quindi, individuata l’azione civile esercitata nel processo penale in “quella per il risarcimento del danno, patrimoniale o non, cagionato dal reato, ai sensi dell’art. 185 cod. pen. e art. 74 cod. proc. pen.” la Corte rileva che “davanti al giudice civile, coinvolto per effetto del rinvio contenuto nell’art. 622 cod. proc. pen., la natura della domanda non muta (Sez. 4, n. 27045 del 04/02/2016, Flaviano, Rv. 267730; Sez. 4, n. 11193 del 10/02/2015, Cortesi, Rv. 262708); oggetto del giudizio risarcitorio è il prodromico accertamento incidentale della esistenza di un fatto di reato in tutte le sue componenti obiettive e subiettive, ma al giudice civile non è consentita la utilizzazione di una prova dichiarata inutilizzabile nel processo penale. L’art. 622 cod. proc. pen. dispone una piena translatio del giudizio sulla domanda civile superstite a quello penale operata dal giudice di legittimità penale, pur se “fermi gli effetti penali della sentenza” che, nel caso in esame, attengono alla estinzione del reato per maturata prescrizione. L’annullamento con rinvio della Corte non ha ad oggetto la restituzione dell’azione civile “all’organo giudiziario cui essa appartiene”, ma opera una translatio della competenza funzionale del giudice penale a quello civile. L’oggetto del giudizio di rinvio è costituito da tutto quello che rimane da decidere in ordine all’azione civile, esercitata nell’ambito del processo penale”.

Nell’anno in rassegna la Corte (Sez. 4,n. 412 del 16/11/2018 - dep.2019 -, De Santis, Rv. 274831) nell’annullare con rinvio al giudice civile ex art. 622 cod. proc.

pen. la sentenza d’appello che aveva confermato la sentenza di condanna tre medici per il reato di omicidio colposo, per vizio di motivazione in ordine all’accertamento del nesso di causalità e al rigetto della richiesta di rinnovo dell’istruttoria dibattimentale - richiamando la giurisprudenza più recente secondo cui “in tema di responsabilità degli esercenti la professione sanitaria, in base all’art. 2, quarto comma, cod. pen., la motivazione della sentenza di merito deve indicare se il caso concreto sia regolato da linee-guida o, in mancanza, da buone pratiche clinico-assistenziali, valutare il nesso di causa tenendo conto del comportamento salvifico indicato dai predetti parametri, specificare di quale forma di colpa si tratti (se di colpa generica o specifica, e se di colpa per imperizia, o per negligenza o imprudenza), appurare se ed in quale misura la condotta del sanitario si sia discostata da linee-guida o da buone pratiche clinico assistenziali” (sul punto si vedano Sez. 4, n. 24384 del 26/04/2018, Masoni, Rv. 273536; Sez. 4, n. 37794 del 22/06/2018, De Renzo, Rv. 273463 Sez. 4,n. 33405 del 13/04/2018, D., Rv. 273422) - ha demandato espressamente al giudice di rinvio la questione relativa alla selezione della norma più favorevole, “da applicarsi nel caso di specie”, tra quella di cui all’art. 3, comma 1, d.l. 13 settembre 2012, n. 158 e quella di cui all’art. 590-sexies cod. pen. introdotto dalla legge 8 marzo 2017, n. 24, da applicarsi nel caso di specie, in cui l’evento si era verificato in data antecedente all’entrata in vigore del cd. decreto Balduzzi, ribadendo il principio secondo cui “in caso di annullamento con rinvio ai soli effetti civili per intervenuta prescrizione del reato della sentenza d’appello, il giudice civile del rinvio è tenuto a valutare la sussistenza della responsabilità dell’imputato secondo i parametri del giudizio penale e non facendo applicazione delle regole proprie del giudizio civile”.

Sempre in tema di responsabilità professionale sanitaria Sez. 4,n. 5901 del 18/01/2019, Oliva, Rv. 275122, nell’annullare con rinvio davanti al giudice civile la sentenza di assoluzione impugnata, limitatamente agli effetti civili, ha ribadito l’applicabilità della regola di giudizio propria del giudizio penale “della ragionevole, umana certezza dell’esito salvifico delle condotte omesse, alla stregua delle informazioni di sfondo in ordine all’ordinario andamento della patologia in questione e delle peculiarità del caso concreto”, in quanto l’azione civile che viene esercitata nel processo penale “è quella per il risarcimento del danno patrimoniale o non, cagionato dal reato, ai sensi dell’art. 185 cod. pen. e art. 74 cod. proc. pen.; con la conseguenza che nella sede civile, coinvolta per effetto della presente pronunzia, la natura della domanda non muta. Si dovrà cioè valutare incidentalmente l’esistenza di un fatto di reato in tutte le sue componenti obiettive e subiettive, alla luce delle norme che regolano la responsabilità penale; prima tra tutte quella della causalità omissiva alla stregua dei principi espressi dalla giurisprudenza sopra richiamata”.

Infine nell’anno in rassegna anche Sez. 4, n. 5898 del 17/01/2019, Borsi, Rv. 275266, nell’annullare con rinvio, ai soli effetti civili, la sentenza di condanna per il reato di lesioni gravissime riportate da un motociclista durante le esercitazioni di una competizione sportiva, dichiarando l’estinzione del reato per intervenuta prescrizione, ha ribadito l’applicabilità – ad opera del giudice civile del rinvio - della regola di giudizio del diritto penale e dei principi elaborati dalla Corte in tema di valutazione del comportamento della persona offesa nella valutazione della sussistenza del nesso causale e della sua (eventuale) interruzione, “essendo in questione, ai sensi dell’art. 185 cod. en., il danno da reato e non mutando la natura risarcitoria della domanda proposta, ai sensi dell’art. 74 cod. proc. pen., innanzi al giudice penale”.

Alla base delle sentenze della Corte di cassazione penale in rassegna sembra esservi una (implicita) configurazione del giudizio di rinvio ex art. 622 cod. proc. pen. quale fase rescissoria dell’impugnazione svoltasi davanti alla Corte di cassazione penale e come prosecuzione in senso stretto del giudizio penale, sia pure ai soli fini della decisione sull’azione civile.

In questa chiave si spiega, infatti, perché la Corte di cassazione penale richieda che nel giudizio di rinvio ex art. 622 cod. proc. pen. la domanda di risarcimento del danno proposta in sede penale possa trovare accoglimento solo se e in quanto sussistano i presupposti per l’accertamento – sia pure incidentale – della responsabilità penale, secondo i parametri del giudizio penale, coerentemente con la complessiva disciplina dell’azione civile nel processo penale.

Tale disciplina prevede, infatti, che nel giudizio di primo grado il giudice si pronunci sull’azione civile solo in caso di pronuncia di sentenza di condanna (art. 538 cod. proc. pen.), e che, in caso di appello proposto dalla sola parte civile avverso la sentenza di proscioglimento ai sensi dell’art. 576 cod. proc. pen., il giudice possa accogliere la domanda della parte civile solo ove sussistano i presupposti per l’accertamento – incidenter tantum – della responsabilità penale dell’imputato, secondo i parametri del giudizio penale.

In proposito si segnala la recente pronuncia con cui la Corte costituzionale (Corte cost., 3 aprile 2019, n. 176) ha dichiarato infondata la questione di legittimità, sollevata in relazione agli artt. 3 e 111 Cost., dell’art. 576 cod. proc. pen., “nella parte in cui prevede che la parte civile possa proporre al giudice penale anziché al giudice civile impugnazione ai soli effetti della responsabilità civile contro la sentenza di proscioglimento pronunciata nel giudizio”, quando la vicenda penale in senso stretto si sia esaurita (nel senso dell’irrevocabilità della pronuncia assolutoria) e rimanga, nella sostanza, solo una controversia civile, talchè l’impugnazione dovrebbe potersi porre al giudice civile piuttosto che al giudice penale.

In tale sentenza il giudice delle leggi ha riconosciuto la ragionevolezza della deroga, prevista dall’art. 576 cod. proc. pen., al carattere accessorio dell’azione civile esercitata nel processo penale rispetto all’azione penale desumibile dall’art. 538 cod. proc. pen., e al principio di separazione dei giudizi civile e penale, in ragione del “criterio per cui essendo stata la sentenza di primo grado pronunciata da un giudice penale con le regole processualpenalistiche, anche il giudizio d’appello è devoluto a un giudice penale (quello dell’impugnazione) secondo le norme dello stesso codice di rito”, e affermando la coerenza “con l’impianto del codice di rito che, una volta esercitata l’azione civile nel processo penale, la pronuncia sulle pretese restitutorie o risarcitorie della parte civile avvenga in quella sede … con la conseguenza che le regole di rito siano quelle del processo penale”.

3. La giurisprudenza civile della Corte in tema di regole applicabili nel giudizio di rinvio innanzi al giudice civile.

Nella giurisprudenza civile della Corte si è andato affermando, nell’anno in rassegna, un orientamento in contrasto con quello appena descritto, e altresì con il precedente orientamento della Corte di cassazione civile in tema di configurazione del giudizo di rinvio innanzi al giudice civile ex art. 622 cod. proc. pen., che ha approfondito tale tema ed ha affermato l’applicabilità in tale giudizio delle regole processuali e (soprattutto) probatorie del giudizio civile, ed ha escluso la configurabilità di un potere della Corte di cassazione penale, in sede di annullamento ai sensi della disposizione citata, di enunciare principi di diritto ai quali il giudice del rinvio debba uniformarsi.

Il nuovo orientamento della Corte di cassazione civile era stato preannunciato da una sentenza del 2017 (Sez. 3, n. 9358 del 12/04/2017, Rv. 644002), nella quale la Corte - riguardo al motivo di ricorso attinente alla dedotta violazione dei limiti fissati dalla legge al giudizio di rinvio (in un caso in cui la Corte di cassazione penale, in sede di annullamento di una sentenza di condanna contenente anche statuizioni civili, per la mancata applicazione nella sentenza impugnata dei criteri affermati dalle Sezioni unite Franzese in tema di nesso causale, aveva rilevato la prescrizione del reato e conseguentemente disposto il rinvio ai soli effetti civili al giudice civile in grado d’appello ai sensi dell’art. 622 cod. proc. pen.) aveva affermato che “riassunto il processo nella sede civile, il giudice di rinvio non era affatto vincolato, nella ricostruzione del fatto, a quanto accertato dal giudice penale (…) E’ vero che, tecnicamente, il giudizio di rinvio è regolato dagli artt. 392 – 394 cod. proc. civ., ma è altrettanto evidente che non è per questo in alcun modo ipotizzabile un vincolo come quello che consegue all’enunciazione di un principio di diritto ai sensi dell’art. 384, secondo comma, cod. proc. civ. da parte di questa Corte”; con conseguente libertà del giudice civile “nella ricostruzione dei fatti e nella loro valutazione” e applicabilità, del criterio civilistico del “più probabile che non” nella valutazione del nesso causale, in luogo di quello tipico del processo penale dell’alta probabilità logica.

Il tema è stato approfondite nell’anno in rassegna dalla Terza sezione civile della Corte in una serie di sentenze (Sez. 3, n. 15859 del 12/06/2019, Rv. 654290; Sez. 3, n. 16916 del 25/06/2019, Rv. 654433; Sez. 3, n. 22515 del 10/09/2019; Sez. 3, n. 22516 del 10/09/2019; Sez. 3, n. 22518 del 10/09/2019; Sez. 3, n. 22519 del 10/09/2019; Sez. 3, n. 22520 del 10/09/2019; Sez. 3, n. 22729 del 12/09/2019, Rv. 655473; Sez. 3, n. 25917 del 15/10/2019, Rv. 655376; Sez. 3, n. 25918 del 15/10/2019, Rv. 655377).

In tali pronunce (si veda, in particolare, la motivazione di Sez. 3, n. 15859 del 12/06/2019, Rv. 654290) la Terza sezione civile della Corte ha escluso che il giudizio di rinvio ex art. 622 cod. proc. pen. costituisca la fase rescissoria dell’impugnazione svoltasi davanti alla Corte di cassazione penale e la prosecuzione in senso stretto del giudizio penale, ritenendo che tale giudizio si configuri, invece, come giudizio autonomo, sia in senso strutturale che funzionale.

Escludendo che il giudizio di rinvio ex art. 622 cod. proc. pen. costituisca un giudizio di rinvio in senso tecnico, la Corte di cassazione civile:

ha affermato l’applicabilità delle regole processuali e (soprattutto) probatorie del processo civile;

ha negato la configurabilità del potere della Corte di cassazione penale di stabilire, in sede di annullamento ex art. 622 cod. proc. pen., principi di diritto ai quali il giudice civile del rinvio debba uniformarsi, ritenendo gli artt. 173, comma 2, disp. att. cod. proc. pen., e 384 cod. proc. civ. applicabili nei soli casi di rinvio in senso tecnico.

Viene, pertanto, affermata l’inefficacia e l’irrilevanza “in guisa di principio di diritto indeclinabile ed ineludibile in sede di giudizio civile di rinvio” del vincolo posto dalla Cassazione penale in tema di regole, processuali e probatorie da applicarsi nel giudizio dinanzi alla Corte d’appello civile, competente per valore, in sede di rinvio ex art. 622 cod. proc. pen.

Tale affermazione viene espressa e ampiamente motivata in un obiter dicta sia da Sez. 3, n. 15859 del 12/06/2019, Rv. 654290 (che rappresenta la sentenza base che affronta in modo sistematico la questione della configurazione del giudizio civile di rinvio e offre, in numerosi obiter dicta, la soluzione di molte delle possibili questioni connesse, alla quale le successive sentenze della Terza Sezione civile fanno espresso richiamo nelle motivazioni), sia, con motivazione gemella, da Sez. 3, n. 16916 del 25/06/2019, Rv. 654433.

Lo stesso principio, oltre che espresso, è stato anche applicato da Sez. 3, n. 22520 del 10/09/2019, cit., e da Sez. 3, n. 22518 del 10/09/2019 cit..

Nel giudizio civile di rinvio ex art. 622 cod. proc. pen. vengono ritenute applicabili le regole processuali e probatorie del processo civile perché si ritiene che – a seguito del passaggio in giudicato della decisione agli effetti penali – venga meno la giustificazione delle deroghe, previste dal codice di procedura penale, alle modalità di istruzione e accertamento dell’azione civile esercitata nel processo penale; tale giustificazione viene individuata nel necessario collegamento tra la decisione sulla domanda della parte civile e la condanna dell’imputato (art. 538 cod. proc. pen.) e, nelle ipotesi eccezionali in cui il codice di rito penale prevede la pronuncia sull’azione civile in caso di proscioglimento dell’imputato (artt. 576 e 578 cod. proc. pen.), nel potenziale persistere del conflitto sui capi penali, o nella circostanza che si tratta di una “decisione comunque emessa da un giudice penale, su un’impugnazione proposta avverso una sentenza penale e nel corso di un processo penale”.

Con l’intervento del giudicato agli effetti penali e l’esaurimento della fase penale del giudizio verrebbe meno “la ragione stessa di attrazione dell’illecito civile nell’ambito delle regole della responsabilità penale”, con la conseguenza che è “coerente con la stessa ragion d’essere dell’intero assetto normativo destinato a disciplinare la materia”, che la domanda risarcitoria venga esaminata secondo le regole proprie dell’illecito aquiliano, volte all’individuazione del soggetto su cui far ricadere le conseguenze risarcitorie del danno verificatosi nella sfera giuridica della vittima e non a comminare una sanzione penale.

A sostegno di tale conclusione vengono richiamati anche i principi della parità e originarietà dei diversi ordini giurisdizionali, della separazione e dell’autonomia del giudizio civile rispetto a quello penale (Corte cost., sent. n. 168 del 2006; Corte cost., sent. n. 23 del 2015).

Si richiama, inoltre, l’insegnamento della Corte costituzionale secondo cui le differenze di disciplina dell’azione civile esercitata nel processo penale, rispetto a quella prevista dal codice di rito civile, sono ragionevoli solo se e in quanto dipendenti dalle finalità tipiche del processo penale (Corte cost., sent. n. 353 del 1994; Corte cost., sent. 532 del 1995; Corte cost., sent. n. 94 del 1996; Corte cost., ord. n. 424 del 1998; Corte cost., sent. n. 12 del 2016); e in ordine al principio di separazione dei giudizi, penale e civile, che ispira il generale assetto del codice del 1988, per la prevalenza assegnata all’esigenza di sollecita definizione del processo penale rispetto all’interesse del soggetto danneggiato di esperire la propria azione nel processo penale.

Secondo la Corte di cassazione civile, quindi, il legislatore, con la previsione di cui all’art. 622 cod. proc. pen., avrebbe scartato la scelta del rinvio al giudice penale, non prospettandosi più un potenziale conflitto sui capi penali della sentenza, privilegiando la scelta della “rimessione” delle parti davanti al giudice civile, essendo venute meno le ragioni che avevano originariamente giustificato il sacrificio dell’azione civile alle ragioni dell’accertamento penale.

Con il passaggio in giudicato della sentenza penale agli effetti penali, secondo la Corte si realizza “la definitiva scissione tra le materie sottoposte a giudizio, mediante la restituzione dell’azione civile - con il giudizio di ‘rinvio’, che più opportunamente andrebbe definito di rimessione - all’organo giudiziario cui essa appartiene naturalmente”, e viene “rimessa in discussione la res in iudicium deducta, nella specie costituita da una situazione soggettiva ed oggettiva del tutto autonoma (il fatto illecito) rispetto a quella posta a fondamento della doverosa comminatoria della sanzione penale (il reato)”.

Nelle pronunce in rassegna viene segnalato, peraltro, come la diversa soluzione della configurazione del giudizio di rinvio ex art. 622 cod. proc. pen. quale giudizio prosecutorio di quello svoltosi davanti al giudice penale, imponendo al giudice civile una pronuncia sull’esatta interpretazione di norme penali, processuali e probatorie, aprirebbe “il rischio che la Corte di Cassazione, nella sua duplice articolazione, civile e penale, pervenga a soluzioni interpretative contrastanti all’interno del medesimo processo, suscettibili di indebolire la funzione nomofilattica dell’indirizzo ermeneutico espresso dal giudice di legittimità”.

Nell’assumere consapevolmente e motivatamente una posizione in contrasto con quella presa dalla Corte di cassazione penale nelle citate sentenze Assaiante, Soriano, Luvaro e De Santis, la Terza sezione civile ritiene che il il potere di stabilire quali siano le regole e le forme da applicare nel giudizio di rinvio ex art. 622 cod. proc. pen., spetti alla Corte di cassazione civile, e stigmatizza la dissonanza dei principi affermati in tali pronunce rispetto a quelli affermati:

dalle Sezioni Unite penali nella sentenza “Sciortino” (Sez. U,n. 40109 del 18/07/2013, Sciortino, Rv. 256087), che hanno individuato la ratio della scelta del rinvio al giudice civile “nel principio di economia processuale che vieta il permanere del giudizio in sede penale nella mancanza di un interesse penalistico alla vicenda”, e che hanno ritenuto conseguentemente “inevitabile l’applicazione delle regole e delle forme della procedura civile”;

sezioni Unite penali nella sentenza “Guerra” (Sez. U, n. 40049 del 29/05/2008, Guerra, Rv. 240815) secondo cui spetta alle sezioni civili della Corte il compito di fornire l’esatta interpretazione delle disposizioni che regolano gli effetti nei giudizi civili delle decisioni dettate in altre sedi, compresa quella penale, dovendo il giudice penale tendere ad un’interpretazione uniforme onde evitare contrasti di giurisprudenza tanto più gravi in quanto non è prevista una sede deputata alla loro composizione.

La nuova configurazione del giudizio di rinvio ex art. 622 cod. proc. pen. consente alla Corte di cassazione civile di rimeditare la questione dei limiti processuali imposti dalla sua natura cd. chiusa, ed in particolare di affermare (in importanti obiter dicta):

l’ammissibilità dell’emendatio della domanda (richiamando in proposito Sez. U, n. 12310 del 15/06/2015, Rv. 635536; Sez.U., n. 22404 del 13/09/2018, Rv. 650451) ai fini della prospettazione di elementi costitutivi dell’illecito civile diversi da quelli allegati nell’atto di costituzione di parte civile, che integrano gli elementi costitutivi del reato in relazione al quale si è svolto il processo penale, così consentendo che nel giudizio civile, rispetto alle fattispecie di reato a condotta vincolata, possano essere fatte valere, e legittimamente valutate modalità di condotta diverse da quelle tipizzate dalla norma penale, e, sotto il profilo dell’elemento soggettivo dell’illecito, la colpa (civile, autonoma dalla nozione di colpa penale) anche ove nel processo penale si sia proceduto per un reato punito esclusivamente a titolo di dolo;

l’ammissibilità in di una eventuale, diversa qualificazione del titolo di responsabilità ascritta al danneggiante, ove i fatti costitutivi posti a fondamento dell’atto di costituzione di parte civile siano gli stessi che il giudice di appello è chiamato ad esaminare; ritenendo che, in tal caso, la tutela del diritto di difesa del danneggiante possa essere garantita dal disposto dell’art. 101, secondo comma, cod. proc. civ..

Conseguentemente alla ritenuta applicabilità delle regole probatorie e processuali civili nelle pronunce in rassegna, la Terza sezione civile afferma (in parte in principi di diritto e in altra parte in importanti obiter dicta):

che, stante la norma di cui all’art. 246 cod. proc. civ., deve escludersi l’efficacia probatoria delle dichiarazioni rese in sede penale, in veste di testimone, dalla parte civile (principio di diritto, questo, espresso ed applicato da Sez. 3, n. 16916 del 25/06/2019, Rv. 654433, in tal modo discostandosi dal dictum espresso da Sez. 3, n. 13068 del 14/07/2004, Rv. 574569);

che, contrariamente a quanto affermato dalla Corte di cassazione penale nella citata sentenza Luvaro (Sez. 4, n. 43896 dell’8/02/2018, Luvaro, 274223), il giudice civile del rinvio può legittimamente porre a fondamento della propria decisione anche prove inutilizzabili nel processo penale, come le dichiarazioni c.d. autoindizianti rese da un soggetto in un procedimento penale; ciò sia in ragione dell’ammissibilità nel processo civile delle prove atipiche - in mancanza di una norma di chiusura sulla tassatività dei mezzi di prova - sia perché l’utilizzabilità è categoria del solo rito penale, ignota al processo civile;

che l’obbligo di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale - imposto in ambito penalistico dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo ai fini della riforma della sentenza assolutoria di primo grado in ossequio della regola di giudizio “al di la di ogni ragionevole dubbio” e della garanzia costituzionale della presunzione di non colpevolezza di cui all’art. 27, secondo comma, Cost. – non è applicabile ai giudizi risarcitori civili, governati dalla diversa regola probatoria del “più probabile che non”;

che il giudice civile, nel giudizio di rinvio, può porre a fondamento della propria decisione l’istruzione probatoria compiuta in sede penale, quale prova atipica, essendo svincolato dalla valutazione fornita dal giudice penale, e senza che rilevino le peculiari regole in materia di ammissione e di assunzione delle prove relative al diverso ambito penalistico nel quale sono state assunte, in ragione del principio del libero convincimento, e del principio di parità tra il processo penale e quello civile;

che nel giudizio di rinvio non siano applicabili le regole processuali penali in tema di nesso causale, bensì quelle civili, con la conseguente sufficienza di un minor grado certezza in ordine alla sussistenza degli elementi costitutivi dell’illecito, secondo il canone civilistico del “più probabile che non” (principio di diritto questo, espresso ed applicato da: Sez. 3, n. 15859 del 12/06/2019, Rv. 654290; Sez. 3, n. 22518 del 10/09/2019; Sez. 3, n. 22519 del 10/09/2019 e Sez. 3, n. 22520 del 10/09/2019); rilevando, in proposito, che “alla luce degli stessi criteri di ragionevolezza, di effettività della tutela e di bilanciamento di interessi più volte affermati dal Giudice delle leggi e dalle Corti sovranazionali, non appare conforme a diritto vincolare il giudizio civile alle regole processuali penali, imponendo un trattamento differenziato a seconda che la pretesa civile della persona offesa venga azionata nel processo penale oppure in quello civile, una volta che il primo abbia definitivamente esaurito la sua funzione”; tanto più considerando che tale trattamento differenziato potrebbe “determinare effetti paradossali nel caso in cui due persone danneggiate dallo stesso fatto illecito (danno parentale per uccisione di un congiunto) scelgano l’una di costituirsi parte civile nel giudizio penale e l’altra di esercitare l’azione di risarcimento dei danni in quello civile. In tale caso, all’esito del rinvio al giudice civile ex art. 622 cod. proc. pen., nonostante la rinnovata dimensione (soltanto) civilistica del procedimento, l’una potrebbe vedersi rigettare la domanda risarcitoria, l’altra vederla accolta dal giudice adito in conseguenza della applicazione di una diversa regola causale - così ponendosi, a tacer d’altro, un evidente problema di conformità a Costituzione di una siffatta interpretazione”;

che l’esistenza di una causa di giustificazione e/o di non punibilità prevista dalla legge penale e riconosciuta in quel giudizio non precluda l’accoglimento della domanda risarcitoria in sede civile, in base ad un’autonoma valutazione, ritenendo che ciò sia confermato dalla recente riforma della responsabilità sanitaria (art. 7 della legge n. 24 del 2017), nonché dalla ancor più recente riforma della legittima difesa.

Nell’ambito del nuovo orientamento inaugurato dalla Terza sezione civile in ordine alla configurazione del giudizio di rinvio ex art. 622 cod. proc. pen. e alle regole ivi applicabili, oltre alle pronunce fino richiamate, si segnala Sez. 3, n. 22515 del 10/09/2019, nella quale la Corte, rigettando motivo di ricorso con cui era stata dedotta la violazione dell’art. 384, secondo comma, cod. proc. pen. (per avere la corte d’appello civile in sede di rinvio escluso l’esistenza di un giudicato implicito in punto di sussistenza del nesso causale e della posizione di garanzia dell’imputato), ha escluso la configurabilità, nel giudizio di rinvio ex art. 622 cod. proc. pen., di “alcun vincolo paragonabile a quello di cui all’art. 384, secondo comma cod. proc. civ.”, e ha riconoscito il potere del giudice civile del rinvio di procedere autonomamente alla valutazione e all’accertamento di tutti i fatti rilevanti in base alle regole processuali e sostanziali proprie del giudizio civile.

Diversamente orientata sembra Sez. 3, n. 25918 del 15/10/2019, Rv. 655377 che ha ritenuto che il giudice del rinvio debba “rivalutare il fatto ex novo, evitando di fondare il giudizio secondo gli schemi già ritenuti illogici o insufficienti dal giudice di legittimità”, potendo ritenersi per acquisita la sussistenza di quegli elementi (nella specie l’elemento oggettivo del reato) non messi “in discussione dalla Corte di legittimità, costituenti il presupposto per la successiva valutazione dell’elemento soggettivo dell’illecito”.

4. L’ambito di applicazione dell’art. 622 cod. proc. pen. secondo la giurisprudenza penale della Corte.

In ordine all’ambito di applicazione dell’art. 622 cod. proc. pen. si ricorda che l’art. 622 cod. proc. pen., rubricato “Annullamento della sentenza ai soli effetti civili” prevede che qualora in sede di legittimità la sentenza, “fermi gli effetti penali”, sia annullata limitatamente alle disposizioni o ai capi riguardanti l’azione civile o sia accolto il ricorso della (sola) parte civile contro la sentenza di proscioglimento la Corte “rinvia, quando occorre, al giudice civile competente per valore in grado di appello anche se l’annullamento ha per oggetto una sentenza inappellabile”.

Il giudizio di rinvio innanzi al giudice civile può aver luogo, in base alla lettera dell’art. 622 cod. proc. pen., non solo a seguito di impugnazione della sentenza penale di condanna e di suo annullamento ai soli effetti civili, ma anche a seguito di impugnazione, da parte della sola parte civile, della sentenza di proscioglimento, ai sensi dell’art. 576 cod. proc. pen., e di suo annullamento ai soli effetti civili.

La ratio della norma è comunemente individuata in quella di evitare ulteriori interventi del giudice penale ove non vi sia più nulla da accertare agli effetti penali.

La disposizione di cui all’art. 622 cod. proc. pen., nella parte in cui prevede il rinvio al giudice civile (competente per valore in grado d’appello) quando la Corte di cassazione “fermi gli effetti penali della sentenza … annulla solamente le disposizioni o i capi che riguardano l’azione civile”, riproduce la disposizione di cui all’art. 541 cod. proc. pen. abrogato, che aveva riguardo al caso classico di impugnazione di una sentenza penale di condanna anche agli effetti civili, annullata dalla Corte di cassazione ai soli effetti civili, ad esempio per un errore nella liquidazione dei danni.

La stessa disposizione, invece, nella parte in cui prevede il rinvio al giudice civile (competente per valore in grado d’appello) quando la Corte di cassazione accoglie il ricorso della (sola) parte civile contro la sentenza di proscioglimento dell’imputato è il frutto del recepimento, da parte del legislatore del 1988, dell’ampliamento dell’ambito applicativo dell’ art. 541 cod. proc. pen. abrogato, operato da Sez. U, n. 306 del 30/11/1974, Buzzi, Rv. 128995, a seguito dell’introduzione, nel sistema previgente, della possibilità di ricorso per cassazione della parte civile avverso le sentenze di proscioglimento ad opera delle decisioni n. 1 del 1970 e n. 29 del 1972 della Corte costituzionale.

Si è così determinato un ampliamento dell’ambito del rinvio al giudice civile da parte della Corte di cassazione penale, anche in casi in cui non si sia formato in sede penale un definitivo accertamento sull’an della responsabilità, accomunandosi due ipotesi eterogenee: quella dell’annullamento dei soli capi civili della sentenza penale di condanna (ad esempio, perché i danni risultano male liquidati) e quella dell’accoglimento del ricorso della (sola) parte civile contro la sentenza di proscioglimento.

L’ambito di applicazione del rinvio al giudice civile da parte della Corte di cassazione penale è stato poi ulteriormente ampliato, in via interpretativa, dalle Sezioni unite penali della Corte (Sez. U,n. 40109 del 18/07/2013, Sciortino, Rv. 256087) che hanno ritenuto applicabile l’art. 622 cod. proc. pen. anche nel caso di accoglimento del ricorso per cassazione proposto dall’imputato avverso la sentenza con cui il giudice di appello, dichiarando non doversi procedere per intervenuta prescrizione del reato (o per intervenuta amnistia), abbia confermato le statuizioni civili senza motivare, a tal fine, in ordine alla responsabilità dell’imputato.

Con tale sentenza le Sezioni unite hanno risolto il contrasto sorto nella giurisprudenza di legittimità pronunciatasi, nell’ipotesi in esame, ora a favore dell’annullamento con rinvio al giudice penale ora per l’applicabilità dell’art. 622 cod. proc. pen., nella affermata consapevolezza che “il tema proposto involge scelte di sistema attinenti ai rapporti tra azione civile ed azione penale nell’attuale assetto codicistico, ispirato al favor separationis; al contempo, comporta ricadute immediate sull’ampiezza della tutela riconosciuta alla parte civile, attese le diverse forme del giudizio di rinvio, a seconda che esso sia disposto verso il giudice civile ovvero verso il giudice penale, con le consequenziali diverse regole procedimentali e probatorie”.

Le Sezioni unite hanno ripudiato l’orientamento secondo cui, quando il giudice di appello abbia rilevato la sopravvenuta prescrizione del reato senza motivare in ordine alla ritenuta responsabilità dell’imputato in relazione alle confermate statuizioni civili, la Corte di cassazione dovrebbe annullare la sentenza con rinvio allo stesso giudice penale che ha emesso il provvedimento impugnato e non a quello civile competente per valore in grado di appello, come stabilito dall’art. 622 cod. proc. pen., presupponendo tale disposizione (laddove prevede “fermi gli effetti penali della sentenza”) o il già definitivo accertamento della responsabilità penale o l’accoglimento dell’impugnazione proposta dalla sola parte civile avverso sentenza di proscioglimento.

Le Sezioni unite hanno aderito invece al contrapposto orientamento valorizzando l’argomento secondo cui la ratio della scelta del rinvio al giudice civile, operata dall’art. 622 cod. proc. pen., è da ravvisarsi nel “principio di economia che vieta il permanere del giudizio in sede penale in mancanza di un interesse penalistico alla vicenda”, e ritenendo che non possa condurre a diversa conclusione neppure “la considerazione che la disciplina che rinvia al giudice civile ogni questione superstite sulla responsabilità civile nascente dal reato rende inevitabile l’applicazione delle regole e delle forme della procedura civile, che potrebbero ritenersi meno favorevoli agli interessi del danneggiato dal reato rispetto a quelle del processo penale, dominato dall’azione pubblica di cui può ben beneficiare indirettamente il danneggiato dal reato. Si tratta però di evenienza che il danneggiato può ben prospettarsi al momento dell’esercizio dell’azione civile nel processo penale, di cui conosce preventivamente procedure e possibili esiti, comprese le eventualità che in presenza di cause di estinzione del reato o di improcedibilità dell’azione penale venga a mancare un accertamento della responsabilità penale dell’imputato e che in caso di translatio judici l’azione per il risarcimento del danno debba essere riassunta davanti al giudice civile competente per valore in grado di appello. Resta naturalmente fermo che, in presenza di un danno da reato, il danneggiato, in sede di rinvio, può sollecitare davanti al giudice civile anche il riconoscimento del danno non patrimoniale, negli ampi termini definiti dalla giurisprudenza civile (per tutte, da ultimo, Sez. U civ., n. 26972 del 11/11/2008, Rv. 605490 e 605491). Sul versante delle aspettative dell’imputato, poi, il perseguimento dell’interesse a un pieno accertamento della sua innocenza, anche ai fini della responsabilità civile, può ben essere assicurato dall’opzione di rinuncia alla prescrizione (art. 157, comma settimo, cod. pen.) o all’amnistia (ex Corte cost., sent. n. 175 del 1971). Va infine osservato, per completezza, che l’ampia dizione dell’art. 622 cod. proc. pen. non ammette distinzioni di sorta in relazione alla natura del vizio che inficia le statuizioni civili assunte dal giudice penale; che potranno riguardare sia vizi di motivazione in relazione ai capi o ai punti oggetto del ricorso sia violazioni di legge, comprese quelle afferenti a norme di natura procedurale, relative al rapporto processuale scaturente dall’azione civile nel processo penale”.

In questa presa di posizione in ordine all’interpretazione dell’art. 622 cod. proc. pen. le Sezioni unite penali appaiono in linea con la giurisprudenza della Corte di cassazione civile in ordine all’applicabilità nel giudizio di rinvio delle regole del processo civile, a cui sono da ricondursi anche quelle probatorie in tema di accertamento del nesso causale.

Nulla si rinviene, invece, in tale sentenza in ordine alla (diversa) questione relativa alla natura del giudizio di rinvio ex art. 622 cod. proc. pen. (prosecuzione del processo penale, ai soli effetti civili ovvero giudizio autonomo), e alla connessa questione della configurabilità o meno di un vincolo del giudice del rinvio rispetto alle statuizioni contenute nella sentenza della Corte di cassazione penale.

Si precisa che secondo le Sezioni Unite Sciortino la via dell’annullamento con rinvio al giudice penale (d’appello, che se avesse correttamente osservato la disposizione di cui all’art. 578 cod. proc. pen., attraverso il pieno accertamento dei fatti ai fini della responsabilità civile, sarebbe potuto pervenire ad escludere oltre alla responsabilità civile, anche quella penale, e anche ai sensi del comma 2 dell’art. 530 cod. proc. pen., in applicazione dei principi espressi dalle Sezioni Unite Tettamanti) non può essere considerata percorribile né nell’ipotesi (oggetto del ricorso portato all’attenzione delle Sezioni Unite Sciortino) di un ricorso dell’imputato che investa solo il capo relativo alla responsabilità civile “restando preclusa, in virtù del principio devolutivo, ogni incidenza sul capo penale, su cui è stata espressa una decisione irrevocabile” né nell’ipotesi in cui l’imputato con il suo ricorso ritenga di investire formalmente anche il capo penale, dovendosi in tal caso ritenere inammissibile il ricorso sul capo penale “in virtù del principio, in particolare affermato, come visto, dalle Sezioni Unite Tettamanti, secondo cui in presenza dell’accertamento di una causa di estinzione del reato non sono deducibili in sede di legittimità vizi di motivazione che investano il merito della responsabilità penale”, pena lo stravolgimento delle finalità e dei meccanismi decisori della giustizia penale, “in dipendenza da interessi civili ancora sub iudice che devono essere invece isolati e portati all’esame del giudice naturalmente competente ad esaminarli”.

La giurisprudenza successiva si è conformata ai principi affermati dalle Sezioni unite Sciortino con riferimento al caso di accoglimento del ricorso per cassazione dell’imputato avverso la sentenza con cui il giudice di appello dichiari non doversi procedere per intervenuta prescrizione senza motivare in ordine alla responsabilità dell’imputato ai fini delle statuizioni civili (Sez. 4, n. 44685 del 23/09/2015, N., Rv. 265561; Sez. 6, n. 5888 del 21/01/2014, Bresciani, Rv. 258999; Sez. 1, n. 42039 del 14/01/2014, Simigliani, Rv. 260508).

Tuttavia, è stato ritenuto che “in caso di estinzione del reato dichiarata in appello, l’omessa motivazione in ordine alla causa di proscioglimento nel merito che la parte, con specifici motivi, abbia prospettato come “evidente”, comporta l’annullamento della sentenza con rinvio al giudice penale, attesi gli effetti penali del “decisum” (Sez. 5, n. 3525 del 15/10/2013, Miano, Rv. 259533).

Peraltro la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto applicabile l’art. 622 cod. proc. pen. oltre i confini segnati dalla lettera della disposizione e dall’interpretazione datane dalle Sezioni Unite Sciortino e segnatamente nel caso di concorso di un vizio di motivazione in punto di affermata responsabilità penale dell’imputato condannato anche al risarcimento del danno in favore della parte civile e di una sopravvenuta causa di estinzione del reato, rilevata nel giudizio di legittimità (Sez. 4, n. 34878 dell’8/06/2017, Soriano, Rv. 271065; Sez. 4, n. 29627 del 21/04/2016, Silva Rv. 267844 ; Sez. 5, n. 15015 del 23/02/2012, Genovese, Rv. 252487; Sez. 5, n. 594 del 16/11/2011 - dep. 2012 -, Perrone, Rv. 252665; Sez. 2,n. 32577 del 27/04/2010, Preti, Rv. 247973 Sez. 6, n. 26299 del 03/06/2009, Tamborrini, Rv. 244533; Sez. 4,n. 14450 del 19/03/2009, Stafissi, Rv. 244002; Sez. 5,n. 9399 del 05/02/2007, Palazzi, Rv. 235843. Contra, e cioè nel senso che “qualora, in sede di legittimità, si riscontri, unitamente alla sopravvenuta prescrizione del reato, anche un vizio di motivazione in ordine alla ritenuta responsabilità dell’imputato, condannato dal giudice di merito anche al risarcimento del danno in favore della parte civile, la Corte di cassazione, oltre ad annullare senza rinvio la sentenza impugnata, ai fini penali, in conseguenza della suddetta causa estintiva, deve annullarla, quanto alle statuizioni civili, con rinvio allo stesso giudice penale che ha emesso il provvedimento impugnato e non al giudice civile competente per valore in grado di appello, ai sensi dell’art. 622 cod. proc. pen., presupponendo infatti tale ultima norma o il già definitivo accertamento della responsabilità penale o l’accoglimento dell’impugnazione proposta dalla sola parte civile avverso sentenza di proscioglimento”: Sez. 3, n. 15653 del 27/02/2008, Colombo, Rv. 239865; Sez. 5, n. 21251 del 26/03/2013, Vergati, Rv. 255654).

Nel diverso caso di contestuale ricorrenza, nel giudizio di cassazione, di una causa di estinzione del reato e di una nullità processuale le Sezioni unite della Cassazione (Sez. U., n. 17179 del 27/02/2002, Conti, Rv. 221403) hanno ritenuto che il principio di immediata declaratoria di determinate cause di non punibilità sancito dall’art. 129 cod. proc. pen. impone che sia data prevalenza alla prima, salvi i casi in cui l’operatività della causa estintiva presupponga specifici accertamenti e valutazioni riservati al giudice di merito, ove assume rilievo pregiudiziale la nullità, in quanto funzionale alla necessaria rinnovazione del relativo giudizio, e quello della sentenza di merito, afflitta da nullità processuale assoluta ed insanabile, che ha deciso non solo in ordine al reato, per il quale è sopravvenuta la prescrizione, ma anche in ordine alle restituzioni o al risarcimento dei danni cagionati dal reato.

In tal caso, secondo le Sezioni Unite “la nullità, anche se non funzionale alla operatività della prescrizione, deve essere comunque rilevata e dichiarata in sede di legittimità, perché si riverbera sulla validità delle statuizioni civili. Se la nullità travolge il giudizio di secondo grado, ma non quello di primo grado, conclusosi con sentenza di condanna, la Corte di cassazione, fermo restando l’obbligo dell’immediata dichiarazione di estinzione del reato per sopravvenuta prescrizione, deve annullare la sentenza impugnata anche con riferimento ai capi che riguardano l’azione civile e rinviare, ex art 622 cod. proc. pen., al giudice civile competente per valore in grado di appello. Se la nullità travolge sia il giudizio di secondo grado che quello di primo grado, le relative sentenze vanno annullate senza rinvio: la pacifica prescrizione sopravvenuta del reato, infatti, definisce l’aspetto penale, mentre i capi della sentenza relativi agli interessi civili vanno, per così dire, azzerati, perché viene meno una delle condizioni per l’applicabilità dell’art. 578 cod. proc. pen.., vale a dire l’esistenza di una valida sentenza di condanna anche generica dell’imputato, pronunciata a favore della parte civile in primo grado o in appello.”

E’ opportuno segnalare che l’indicata applicabilità dell’art. 622 cod. proc. pen. allorquando venga rilevata nel giudizio di legittimità una sopravvenuta causa di estinzione del reato, e con il ricorso per cassazione sia stato fatto valere dall’imputato, condannato anche al risarcimento del danno in favore della parte civile, una nullità processuale che travolge il giudizio di secondo grado, non costituisce un principio di diritto affermato dalle Sezioni unite, bensì un obiter dicta, in quanto le Sezioni unite Conti si sono pronunciate in una fattispecie di nullità assoluta ed insanabile del decreto di citazione a giudizio, cioè con riferimento ad un’ipotesi di nullità del giudizio di primo grado, e non d’appello.

I principi affermati dalle Sezioni unite Conti hanno trovato solo parziale conferma nella giurisprudenza successiva, in cui, infatti, se da un lato si rinvengono casi di annullamento senza rinvio delle statuizioni civili in accoglimento di ricorso per cassazione dell’imputato con cui viene fatta valere una nullità verificatasi nel giudizio di primo grado (Sez. 4, n. 42461 del 09/05/2018, Todaro, Rv. 274764; Sez. 2, n. 3221, del 7/01/2014, Macchia, Rv. 258817; Sez. 5, n. 26064 del 9/06/2005, Colonna, Rv. 231916), dall’altro lato vi sono anche casi in cui la Corte di cassazione, ritenuto fondato il ricorso dell’imputato riguardo a una nullità verificatasi nel giudizio di primo grado (definito con sentenza di condanna penale e al risarcimento dei danni) anziché annullare senza rinvio tanto la sentenza di primo grado quanto quella di appello (con cui era stato dichiarato non doversi procedere per prescrizione con conferma delle statuizioni civili), si è limitata ad annullare la sentenza di appello con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello (Sez. 1, n. 36296 del 3/11/2015, Saba, Rv. 268260; Sez. 5, n. 39395 del 17/09/2008, Scambia, Rv. 241733; Sez. 5, n. 38228 del 24/06/2008, , Maurizi, Rv. 241314).

L’art. 622 cod. proc. pen. ha, altresì trovato applicazione in caso di annullamento (per nuovo esame sul nesso causale), in accoglimento del ricorso per cassazione dell’imputato, della sentenza con cui la Corte d’appello, in accoglimento dell’appello della sola parte civile avverso la sentenza di primo grado di assoluzione per insufficienza della prova del nesso causale, ritenuta la sussistenza del nesso causale, ha condannato l’imputato ai soli effetti civili (Sez. 4, n. 45920 del 28/10/2009, Fiorini; Sez. 4, n. 9170 del 14/02/2013, R.C., Rv. 255397; Sez. 4, n. 10615 del 4/12/2013, Perrotta, Rv. 256337).

Tale caso non è scontato che rientri nell’ambito di applicazione dell’art. 622 cod. proc. pen. perché tale norma contemplando il caso in cui “fermi gli effetti penali della sentenza” la cassazione annulli “solamente le disposizioni o i capi che riguardano l’azione civile”, potrebbe interpretarsi nel senso di presupporre un ricorso per cassazione proposto dall’imputato anche agli effetti penali avverso una sentenza penale di condanna contenente anche statuizioni civili, e accolto solo con riferimento ai motivi attinenti a tali statuizioni civili, con conseguente passaggio in giudicato della condanna penale.

D’altra parte, l’art. 622 cod. proc. pen. è stato applicato anche in caso di annullamento da parte della Corte di cassazione della sentenza di appello con cui è dichiarata l’inammissibilità della impugnazione proposta dalla parte civile (Sez. 4, 14/07/2011, n. 46812, De Angelis; contra, nel senso che “l’annullamento da parte della Corte di cassazione della sentenza di appello con cui è dichiarata l’inammissibilità della impugnazione proposta dalla parte civile, impone, ai sensi dell’art. 623, comma primo, lett. c), cod. proc. pen., il rinvio del processo al giudice penale”: Sez. 2, n. 35794 del 18/06/2013, Epifania, Rv. 257404; Sez. 2, n. 5072 del 31/01/2006, Pensa Rv. 233273; Sez. 2, n. 897 del 24/10/2003 – dep. 2004 -, Cantamessa, Rv. 227966. In argomento si segnala anche Sez. 2, n. 28924 del 26/06/2014, Varriale, Rv. 261821, che ha affermato il principio di diritto così massimato “Quando il giudice di appello, a seguito di gravame proposto dall’imputato e dalla parte civile, abbia confermato la sentenza di condanna di primo grado, omettendo di esaminare l’impugnazione della parte civile, la Corte di cassazione deve annullare la sentenza con rinvio allo stesso giudice penale che ha emesso il provvedimento impugnato e non al giudice civile competente per valore in grado di appello, ai sensi dell’art. 622 cod. proc. pen.”).

4.1. Le recenti sentenze della Corte di cassazione.

Dopo l’intervento delle sentenze della Terza sezione civile appena esaminate si è registrata, nell’ambito della giurisprudenza penale della Corte, una pronuncia (Sez. 6, n. 31921 del 06/06/2019, De Angelis, Rv. 277285) che, in assoluta controtendenza rispetto al costante progressivo ampliamento, in via interpretativa, dell’ambito di applicazione dell’art. 622 cod. proc. pen., ha affermato il principio di diritto così massimato “In tema di giudizio per cassazione, il rinvio al giudice civile, ai sensi dell’art. 622 cod. proc. pen., non può essere disposto qualora l’annullamento delle disposizioni o dei capi della sentenza impugnata concernenti l’azione civile dipenda dalla fondatezza del ricorso dell’imputato agli effetti penali”.

In applicazione di tale principio, la Corte, ritenuto fondato il ricorso dell’imputato sul punto della operata riforma in appello della sentenza assolutoria di primo grado per violazione del dovere di rinnovazione dell’istruttoria ex art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen., ha annullato senza rinvio la sentenza di condanna, contenente anche statuizioni civili.

Nella fattispecie l’annullamento senza rinvio, agli effetti penali, della sentenza di condanna pronunciata in grado d’appello si è imposto per l’intervenuta estinzione dei reati, per prescrizione maturata dopo la sentenza di secondo grado; contenendo la sentenza impugnata anche statuizioni civili il ricorso dell’imputato è stato esaminato ai sensi dell’art. 578 cod. proc. pen., e ritenuto fondato, con conseguente annullamento senza rinvio della sentenza impugnata anche agli effetti civili.

La Corte ha ritenuto non sussistenti, nel caso al suo esame, i presupposti per l’applicazione dell’art. 622 cod. proc. pen., e, quindi per l’annullamento con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello “in quanto l’annullamento pronunciato non riguarda solamente le disposizioni o i capi concernenti l’azione civile, essendo stata cassata la decisione gravata anche agli effetti penali, né essendo l’annullamento la conseguenza dell’accoglimento di un ricorso della parte civile”.

Nell’escludere l’operatività dell’art. 622 cod. proc. pen. la Sesta sezione della Corte ha, altresì, rilevato che “ciò vale tanto più in un relazione ad una fattispecie … nella quale è stata accertata la violazione di una specifica norma del codice di procedura penale in materia di mancata ammissione ed assunzione di una prova dichiarativa, violazione che, avendo viziato la decisione sulla responsabilità, l’aveva resa tamquam non esset”.

Secondo la Corte, inoltre, deve considerarsi che un rinvio dinanzi al giudice civile di appello sarebbe stato fonte “di una ulteriore distonia di sistema, finendo per ‘costringere’ tale giudice ad uniformarsi alla questione di diritto decisa con questa sentenza, riesaminando le statuizioni contenute nella pronuncia assolutoria di primo grado e facendo applicazione di una regola processuale che, espressione dei principi di immediatezza e di oralità, è in realtà regola propria del processo penale”.

La soluzione offerta dalla Sesta sezione penale della Corte, nel caso al suo esame, alla denunciata “distonia di sistema” – diversamente da quella offerta dalla Terza sezione civile della Corte che, con le sentenze in rassegna, ha negato che il giudizio di rinvio innanzi al giudice civile costituisca la fase rescissoria dell’impugnazione (penale) svoltasi innanzi alla Corte di cassazione penale – non è quella di rinviare al giudice civile astenendosi dall’enunciare principi di diritto a cui questi debba uniformarsi, bensì quella di annullare senza rinvio la sentenza impugnata, ritenendo le statuizioni civili in essa contenute tamquam non esset, in quanto pronunciate in violazione di una regola processuale penale prevista a pena di nullità.

La declaratoria di annullamento senza rinvio, se da un lato evita che il processo penale possa definirsi con statuizioni civili adottate in violazione del sistema processuale penale e al contempo la “distonia di sistema” di un giudice civile costretto a uniformarsi a un principio di diritto (processuale) penale, dall’altro lato “non sacrifica in maniera irreparabile le ragioni dell’attuale parte civile, in quanto le stesse potranno essere fatte valere dall’interessato in un nuovo autonomo giudizio nella sua sede propria, quella civile, senza che le determinazioni della relativa autorità giudiziaria possano essere in alcun modo pregiudicate dalla presente sentenza di proscioglimento per intervenuta prescrizione dei reati, che non rientra tra quelle per le quali, ai sensi degli artt. 651 e segg. cod. proc. pen., trovano applicazione le norme sulla efficacia del giudicato penale nel giudizio civile”.

Con tale pronuncia la Corte di cassazione penale sembra rimeditare l’interpretazione estensiva dell’art. 622 cod. proc. pen., affermatasi nella precedente giurisprudenza penale della Corte, e a ridimensionare l’ambito applicativo di tale norma.

Sembra, in particolare, che la Sesta sezione penale si discosti dall’orientamento che ritiene applicabile l’art. 622 cod. proc. pen. allorquando venga rilevata nel giudizio di legittimità una sopravvenuta causa di estinzione del reato, e con il ricorso per cassazione sia stato fatto valere dall’imputato, condannato anche al risarcimento del danno in favore della parte civile, una nullità processuale che travolge il giudizio di secondo grado (Sez. 6,n. 44685 del 23/09/2015, N., Rv. 265561. Nello stesso senso, sebbene in un obiter dicta, Sez. U., n. 17179 del 27/02/2002, Conti, Rv. 221403).

Tale ripensamento potrebbe avere dei riflessi (per così dire un’efficacia espansiva) in ordine alla diversa ipotesi di concorso, nel medesimo giudizio di legittimità, tra una sopravvenuta causa di estinzione del reato e un vizio di motivazione in punto di affermata responsabilità penale dell’imputato condannato anche al risarcimento del danno in favore della parte civile, nella quale la giurisprudenza di legittimità sopra citata ha ritenuto applicabile l’art. 622 cod. proc. pen., oltre i confini segnati dalla lettera della disposizione e dall’interpretazione datane dalle Sezioni Unite Sciortino.

La strada del ridimensionamento dell’ambito applicativo dell’art. 622 cod. proc. pen. appare intrapresa dalla Corte di cassazione penale anche in un’altra pronuncia, secondo quanto si apprende dalla “notizia di decisione” n. 1 del 2020 della Corte di cassazione.

La Terza Sezione penale della Corte, infatti, all’udienza pubblica del 9 gennaio 2019, ha annullato una sentenza d’appello di condanna ai soli effetti civili, per violazione dell’art. 603 comma 3-bis cod. proc. pen.., disponendo, però, il rinvio al giudice penale per nuovo esame, sia pure ai soli effetti civili.

Anche in tal caso, come in quello deciso dalla Sesta sezione penale, l’annullamento è conseguito all’accoglimento del ricorso per cassazione dell’imputato, con il quale sembrerebbe, però, che a differenza che nel caso deciso dalla Sesta sezione, l’impugnazione fosse stata proposta ai soli effetti civili.

Si attende il deposito della motivazione di tale pronuncia per comprendere quali ragioni abbiano indotto la Corte a ritenere inapplicabile l’art. 622 cod. proc. pen. in un’ipotesi di intervenuta irrevocabilità, ai soli effetti penali, della sentenza di assoluzione, e quali ragioni la abbiano indotta a ritenere percorribile la strada del rinvio al giudice penale, che consente di addivenire a una pronuncia sull’azione civile esercitata nel processo penale secondo le regole processuali penali.

5. Questioni in tema di ammissibilità dell’impugnazione della parte civile delle sentenze di proscioglimento.

Se la prima reazione della Corte di cassazione penale alla configurazione, ad opera della Terza sezione civile della Corte, del giudizio civile di rinvio quale giudizio civile autonomo rispetto a quello svoltosi in sede penale, è stata quella di iniziare un ripensamento, in senso restrittivo, dell’ambito applicativo dell’art. 622 cod. proc. pen., non può escludersi tuttavia che la questione coinvolga anche quella, connessa, dell’ammissibilità dell’impugnazione della parte civile delle sentenze di proscioglimento.

In proposito si ricorda che nell’anno in rassegna continua a registrarsi, nell’ambito della giurisprudenza penale della Corte, il contrasto in ordine all’ammissibilità del ricorso per cassazione della parte civile avverso la sentenza di assoluzione con la formula “perché il fatto non costituisce reato”.

Ed invero secondo talune pronunce della Quarta Sezione è inammissibile per carenza di interesse il ricorso per cassazione della parte civile avverso la sentenza di assoluzione con la formula “perché il fatto non costituisce reato”, trattandosi di accertamento che non ha efficacia di giudicato nell’eventuale giudizio civile per le restituzioni e il risarcimento del danno (Sez. 4,n. 33255 del 09/07/2019, Luparello, Rv. 276598; Sez. 4, n. 25141 del 14/03/2019, De Toma, Rv. 276338; Sez. 4, n. 18781 del 12/03/2019, Montaguti, Rv. 275761; Sez. 4, n. 42460 del 09/05/2018, Scolavino, Rv. 274367), mentre, secondo un orientamento contrapposto, tale ricorso deve ritenersi ammissibile, valorizzandosi, ai fini del riconoscimento della sussistenza dell’interesse all’impugnazione, l’argomento, consacrato dalle sezioni unite Guerra (Sez. U, n. 40049 del 29/05/2008, Guerra, Rv. 240815) secondo cui “le limitazioni all’efficacia del giudicato, previste dall’art. 652 cod. proc. pen. non incidono sull’estensione del diritto all’impugnazione, che è riconosciuto in termini generali alla parte civile dall’art. 576 cod. proc. pen., dal momento che chi intraprende il giudizio civile dopo avere già ottenuto in sede penale il riconoscimento della responsabilità per fatto illecito della controparte si giova di tale accertamento e si trova in una posizione migliore di chi deve cominciarlo dall’inizio” (Sez. 5, n. 27318 del 07/03/2019, Mazzini, Rv. 276640; Sez. 5, n. 103619 del 06/02/2019, R., Rv. 276344; Sez. 2, n. 41784 del 18/07/2018, Tola, Rv. 275416; Sez. 2, n. 36930 del 04/07/2018, Addonisio, Rv. 273519).

L’orientamento che ritiene inammissibile, per carenza di interesse, il ricorso per cassazione della parte della parte civile avverso la sentenza di assoluzione con la formula “perché il fatto non costituisce reato”- oltre a ritenere che la disciplina dell’impugnazione della parte civile delle sentenze di proscioglimento, di cui all’art. 576 cod. proc. pen., incontra il limite dell’interesse all’impugnazione, delimitato dal testo dell’art. 652 cod. proc. pen., che esclude l’efficacia di giudicato della sentenza di assoluzione, quanto all’accertamento della mancanza dell’elemento psicologico del reato, nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni e il risarcimento del danno - valorizza, quali ulteriori argomenti della carenza di un concreto interesse della parte civile all’impugnazione:

il fatto che dall’annullamento della sentenza impugnata “non può derivare alcuna diretta statuizione di condanna civile” (Sez. 4, n. 33255 del 9/07/2019, Luparello, Rv. 276598; Sez. 4, n. 25141 del 14/03/2019, De Toma, Rv. 276338) né la reviviscenza delle statuizioni civili eventualmente assunte dal giudice di primo grado (Sez. 4, n. 18781 del 12/03/2019, Montaguti, Rv. 275761; Sez. 4, n. 42460 del 09/05/2018, Scolavino, Rv. 274367);

la circostanza che la parte ricorrente non vanta un interesse concreto e attuale “ad un nuovo accertamento dei fatti che non possa essere autonomamente svolto dal giudice civile con domanda proposta dinanzi a detta autorità” (Sez. 4, n. 42460 del 09/05/2018, Scolavino, Rv. 274367), “con poteri di accertamento e di verifica istruttoria, su impulso delle parti, certamente più diffusi e penetranti rispetto a quelli rimessi all’eventuale giudice di rinvio ai sensi dell’art. 622 cod. proc. pen.” (Sez. 4, n. 33255 del 9/07/2019, Luparello, Rv. 276598; Sez. 4, n. 25141 del 14/03/2019, De Toma, Rv. 276338; Sez. 4, n. 18781 del 12/03/2019, Montaguti, Rv. 275761).

L’orientamento contrapposto, invece – oltre a dare atto che la questione controversa è stata già risolta dalle Sezioni unite Guerra, (Sez. U, n. 40049 del 29/05/2008, Guerra, Rv. 240815), le quali hanno riconosciuto l’interesse della parte civile ad impugnare la sentenza di assoluzione “perché il fatto non costituisce reato”, sebbene priva di efficacia di giudicato nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni o il risarcimento del danno – ritiene che .il diritto all’impugnazione, che è riconosciuto in termini generali alla parte civile dall’art. 576 cod. proc. pen., “non soffre alcuna limitazione in relazione alla formula di assoluzione, dato che la scelta di esercitare i propri diritti in sede penale implica che la parte abbia la prerogativa di percorrere l’intero itinerario processuale previsto per le impugnazioni a nulla rilevando le limitazioni all’efficacia di giudicato previste dall’art. 652 cod. proc. pen., che non incidono sull’estensione del diritto all’impugnazione, ma operano sul piano dell’efficacia del giudicato penale nel giudizio civile” (Sez. 5, n. 27318 del 07/03/2019, Mazzini, Rv. 276640; Sez. 2, n. 41784 del 18/07/2018, Tola, Rv. 275416; Sez. 2, n. 36930 del 04/07/2018, Addonisio, Rv. 273519).

Viene, d’altra parte, evidenziato che, a seguire la tesi opposta che propone l’inammissibilità, “si costringerebbe la parte civile che intende impugnare la sentenza assolutoria perché il fatto non costituisce reato, a rinunciare agli esiti dell’accertamento compiuto nel processo penale ed a riavviare ab initio l’accertamento in sede civile, con grave nocumento anche per i tempi complessivi dell’accertamento giurisdizionale” (Sez. 5, n. 27318 del 07/03/2019, Mazzini, Rv. 276640; Sez. 2, n. 41784 del 18/07/2018, Tola, Rv. 275416; Sez. 2, n. 36930 del 04/07/2018, Addonisio, Rv. 273519).

Infine è stato osservato che l’interesse immediato e concreto della parte civile, che abbia già partecipato a uno o più gradi del giudizio penale, terminati con una sentenza a sé sfavorevole, a chiederne la riforma in appello o l’annullamento in cassazione, consiste nell’interesse a giungere a una statuizione di condanna almeno agli effetti civili. E si è rilevato che la sussistenza di tale interesse – di cui non si è mai dubitato in relazione alla fase d’appello (ritenendosi sempre consentito alla parte civile, ai sensi dell’art. 576 cod. proc. pen., di proporre appello contro la sentenza di assoluzione al fine di addivenire a una sentenza di condanna dell’appellato al risarcimento dei danni) - è ravvisabile anche nel caso di ricorso per cassazione, in quanto l’annullamento agli effetti civili della sentenza di assoluzione consente alla parte civile, nel giudizio di rinvio, di rinnovare le proprie pretese e ragioni (Sez. 5, n. 103619 del 06/02/2019, R., Rv. 276344).

Nell’anno in rassegna la questione relativa alla sussistenza o meno dell’interesse della parte civile ad impugnare la sentenza di assoluzione adottata con la formula “perché il fatto non costituisce reato” è stata rimessa alle Sezioni unite dalla Seconda sezione, con ordinanza n. 14080 del 15/03/2019. Il Presidente Aggiunto, con provvedimento in data 10 maggio 2019, ha disposto la restituzione degli atti del procedimento, a norma dell’art. 172 disp. att. cod. proc. pen., rilevando che sulla questione si sono già pronunciate le Sezioni unite Guerra che, chiamate a risolvere un diverso contrasto - avente ad oggetto la sussistenza o meno dell’interesse della parte civile a proporre ricorso per cassazione per ottenere la modifica della formula di proscioglimento dell’imputato - hanno affermato la sussistenza dell’interesse della parte civile ad impugnare la sentenza di assoluzione adottata con la formula “perché il fatto non costituisce reato”; nello stesso provvedimento si rileva inoltre che le Sezioni unite, dopo l’introduzione dell’art. 618, comma 1-bis, cod. proc. pen., hanno sostenuto che il principio del precedente, relativamente vincolante, trova applicazione anche per i “dicta” enunciati dalle Sezioni unite prima della riforma, con la conseguenza che “i principi affermati dalla sentenza Guerra, in quanto ancor oggi vincolanti, non possono essere disattesi se non per mezzo della rimessione della questione alle stesse Sezioni unite”

Argomenti rilevanti in ordine alla questione giuridica oggetto del contrasto in rassegna sono desumibili dalla motivazione della sentenza “Papaleo”, pronunciata dalle Sezioni Unite (Sez. U., n. 28911 del 28/03/2019, Papaleo, Rv. 275953), chiamate a risolvere la diversa questione dell’ammissibilità dell’impugnazione della parte civile avverso la sentenza che abbia dichiarato l’estinzione del reato per prescrizione.

Con tale pronuncia le Sezioni unite hanno disatteso l’orientamento che negava l’ammissibilità di tale impugnazione, e che era fondato, da un lato, sulla dichiarata primazia dell’art. 538 cod. proc. pen. (che, impedendo al giudice di deliberare sulla domanda civile al di fuori dei casi di condanna, dovrebbe prevalere sulla disposizione di cui all’art. 576 cod. proc. pen., che consente alla parte civile l’impugnazione delle sentenze di proscioglimento), e, dall’altro lato, sulla considerazione della mancanza di effetto pregiudizievole per la parte civile della sentenza di prescrizione, non facendo stato nel giudizio civile per le restituzioni e per il risarcimento del danno ai sensi dell’art. 652 cod. proc. pen.

Nella sentenza Papaleo la Corte, per arrivare ad affermare l’ammissibilità dell’impugnazione della parte civile della sentenza che abbia dichiarato l’estinzione del reato per prescrizione, ha affrontato la questione sotto il duplice profilo della legittimazione a ricorrere e dell’interesse all’impugnazione.

Sotto il profilo della legittimazione a ricorrere la Corte, ribadendo i principi affermati dalle sezioni unite “Guerra” e “Negri” (Sez. U, n. 40049 del 29/05/2008, Guerra, Rv. 240815; Sez. U, n. 25083 del 11/07/2006, Negri, Rv. 233918), ha affermato che in base all’art. 576 cod. proc. pen. la parte civile è legittimata all’impugnazione di tutte le sentenze di proscioglimento pronunciate nel giudizio, senza alcuna distinzione (e quindi anche quelle prive di efficacia di giudicato nel giudizio civile e amministrativo), e senza che alcuna limitazione possa desumersi dalla previsione di cui all’art. 538 cod. proc. pen., stante la natura derogatoria della previsione dell’art. 576 rispetto a quella dell’art. 538 cod. proc. pen. e il diverso ambito applicativo delle due norme, consentendo l’art. 576 cod. proc. pen. alla parte civile di ottenere la condanna al risarcimento dei danni in sede di appello, laddove in primo grado sia mancata la sentenza condanna.

Sotto il profilo della sussistenza dell’interesse a ricorrere la Corte ha escluso la rilevanza della mancanza di efficacia di giudicato nel giudizio civile di danno ai sensi dell’art. 652 cod. proc. pen. della sentenza oggetto di impugnazione della parte civile, sulla base della considerazione “che, se lo stesso sistema ha riconosciuto al danneggiato la possibilità di azionare la propria pretesa di carattere civilistico percorrendo, oltre alla via del giudizio civile, anche quella del giudizio penale mediante la costituzione in esso di parte civile, una interpretazione che venisse a ritenere insussistente l’interesse alla impugnazione nel processo penale sol perché sarebbe pur sempre possibile la residua azione civile si tradurrebbe nella sostanziale ripulsa dello stesso congegno normativo e nella indebita “amputazione” di una facoltà riconosciuta dallo stesso legislatore; né può condividersi un ragionamento che, rispetto all’interesse a che, con il mezzo di impugnazione, si possa ottenere un risultato più favorevole rispetto a quello avutosi per effetto della decisione impugnata, privilegi, fino a farla diventare esclusiva, la valutazione di elementi esterni a quelli del raffronto, appunto, tra contenuto della decisione impugnata (che non sia venuta, ovviamente, meno per altre ragioni) e contenuto della decisione che, attraverso l’impugnazione, si intenda perseguire”.

Ritenendo che la possibilità, per la parte civile, di assicurarsi quegli stessi vantaggi al di fuori del processo penale, non possa annullare l’interesse ad ottenerli, ancor prima e in modo processualmente più rapido e conveniente, innanzitutto in sede penale, nella sentenza Papaleo è stato, quindi, ribadito il principio (già affermato da Sez. U, n. 40049 del 29/05/2008, Guerra, Rv. 240815), secondo cui “avendo il danneggiato, con la costituzione di parte civile, inteso trasferire in sede penale l’azione civile di danno, lo stesso ha ‘interesse ad ottenere nel giudizio penale il massimo di quanto può essergli riconosciuto’ sì che non gli si può negare l’interesse ad impugnare la decisione di proscioglimento anche quando questa manchi, come è nel caso in esame, di efficacia preclusiva”; è stata inoltre ritenuta condivisibile (e applicabile a fortiori alle sentenze di proscioglimento per estinzione del reato) la considerazione, svolta da alcune delle sentenze riconducibili a uno dei due orientamenti contrastanti in rassegna, che, “in caso di assoluzione perché il fatto non costituisce reato, le limitazioni all’efficacia di giudicato, previste dall’art. 652 cod. proc. pen., non incidono sull’estensione del diritto all’impugnazione, riconosciuto in termini generali alla parte civile nel processo penale dall’art. 576 cod. proc. pen., giacché, tra l’altro, ove si ritenesse il contrario, la parte civile che intendesse impugnare la sentenza assolutoria sarebbe costretta a rinunciare agli esiti dell’accertamento compiuto nel processo penale e a riavviare ab initio l’accertamento in sede civile, con conseguente allungamento dei tempi processuali (Sez. 2, n. 41784 del 18/07/2018, Edilscavi, Rv. 275416, e Sez. 2, n. 36930 del 04/07/2018, Addonisio, Rv. 273519)”.

Sotto il profilo della necessaria concretezza da cui deve essere caratterizzato l’interesse all’impugnazione la sentenza Papaleo, dopo aver ribadito che essa deve essere “parametrata al raffronto tra quanto statuito dalla sentenza impugnata e quanto, con l’impugnazione svolta, si vorrebbe invece ottenere”, ne rileva la sussistenza:

sia in caso di appello della parte civile - potendo in tal caso il giudice dell’impugnazione, ove questa sia fondata, decidere, fermo l’epilogo penale della vicenda, sulla domanda di restituzioni e/o di risarcimento del danno;

sia in caso di ricorso per cassazione, potendo “la parte civile ottenere, per effetto della proposizione del ricorso, la condanna in sede civile al risarcimento dei danni e alle restituzioni, in tempi più rapidi dell’ordinario e senza la necessità, cui invece la stessa sarebbe sottoposta ove ricorso non vi fosse stato, di iniziare ex novo il separato giudizio civile”, atteso che, in caso di accoglimento del ricorso della parte civile nei confronti di sentenza di proscioglimento, la Corte di cassazione deve annullare quest’ultima con rinvio al giudice civile competente per valore in grado d’appello in base al disposto di cui all’art. 622 cod. proc. pen.

In altri termini il requisito dell’interesse alla base del ricorso per cassazione della parte civile avverso la sentenza di proscioglimento priva di efficacia extrapenale viene ravvisato dalle Sezioni unite, nella sentenza Papaleo, nel concreto vantaggio costituito dal fatto che, “per effetto della previsione di cui all’art. 622 cod. proc. pen., il giudizio civile non debba ricominciare dal primo grado, come invece nel caso di sentenza penale non impugnata dalla parte civile e passata in giudicato, ma da quello di appello, in tal modo consentendosi alla parte civile di godere di tempi più celeri”; e ciò anche in considerazione del fatto che i poteri del giudice civile di valutare le risultanze del giudizio penale dovrebbero essere i medesimi sia che il giudizio civile segua all’annullamento con rinvio a norma dell’art. 622 cod. proc. pen., sia che sia instaurato “ex novo” a seguito del passaggio in giudicato della sentenza di proscioglimento priva di efficacia extrapenale.

Alla luce di tale sentenza delle Sezioni unite, oltre che della sentenza “Guerra”, sembrerebbe perdere consistenza l’argomento, posto a sostegno dell’orientamento che ritiene inammissibile l’impugnazione della parte civile avverso la sentenza di assoluzione per mancanza dell’elemento soggettivo del reato, fondato sulla mancanza di efficacia extrapenale di tale sentenza.

Il contrasto in rassegna sembrerebbe dunque focalizzarsi sulla questione se il rinvio al giudice civile ai sensi dell’art. 622 cod. proc. pen., conseguente all’accoglimento del ricorso per cassazione della parte civile avverso la sentenza di assoluzione “perché il fatto non costituisce reato”, in luogo dell’instaurazione “ex novo” del giudizio civile dal primo grado, risponda ad un interesse concreto e attuale della parte civile.

Si è già evidenziato, infatti, che le sentenze che affermano l’ammissibilità del ricorso per cassazione della parte civile valorizzano la possibilità per la parte civile di giovarsi dell’accertamento svolto in sede penale, e la sua conseguente migliore posizione rispetto a quella di chi comincia dall’inizio, nonché il pregiudizio, sul piano dei tempi processuali, conseguente all’instaurazione “ab initio” del giudizio civile, mentre quelle riconducibili all’opposto orientamento, danno rilievo ai maggiori poteri di accertamento e verifica istruttoria, su impulso delle parti, di cui dispone il giudice civile in caso di processo instaurato dal primo grado, rispetto a quelli di cui dispone nel giudizio di rinvio ex art. 622 cod. proc. pen.

Così prospettato il contrasto in rassegna, il riconoscimento della sussistenza o meno dell’interesse all’impugnazione della parte civile nei confronti delle sentenze di proscioglimento che non fanno stato nel processo civile potrebbe risentire della (contrastata) configurazione giuridica del giudizio di rinvio al giudice civile competente per valore in grado d’appello, conseguente all’annullamento ex art. 622 cod. proc. pen., in ordine alla quale sono state pronunciate dalla Terza sezione civile della Corte le sopra esaminate sentenze (in particolare Sez. 3, n. 15859 del 12/06/2019, Rv. 654290, e Sez. 3, n. 16916 del 25/06/2019, Rv. 654433).

Tali pronunce della Terza sezione civile, infatti, avendo escluso sia che il giudizio civile di rinvio ex art. 622 cod. proc. pen. costituisca la fase rescissoria dell’impugnazione svoltasi davanti alla Corte di cassazione penale, sia la conseguente configurabilità del potere della Corte di cassazione penale, in sede di annullamento ai sensi della predetta disposizione, di enunciare principi di diritto vincolanti in tale giudizio di rinvio, indeboliscono l’argomento secondo cui l’interesse della parte civile a impugnare con il ricorso per cassazione le sentenze di proscioglimento prive di efficacia di giudicato nel giudizio civile andrebbe riconosciuto in quanto la scelta di esercitare l’azione civile in sede penale implica la “la prerogativa di percorrere l’intero itinerario processuale previsto per le impugnazioni ” (Sez. 5, n. 27318 del 07/03/2019, Mazzini, Rv. 276640; Sez. 2, n. 41784 del 18/07/2018, Tola, Rv. 275416; Sez. 2, n. 36930 del 04/07/2018, Addonisio, Rv. 273519) e di “beneficiare” degli “esiti dell’accertamento compiuto nel processo penale” (Sez. 5, n. 27318 del 07/03/2019, Mazzini, Rv. 276640; Sez. 2, n. 41784 del 18/07/2018, Tola, Rv. 275416; Sez. 2, n. 36930 del 04/07/2018, Addonisio, Rv. 273519), in modo diverso e più ampio che instaurando ex novo un processo civile dal primo grado.

D’altra parte anche l’affermata applicabilità, nel giudizio di rinvio innanzi al giudice civile, delle regole probatorie del processo civile, e la conseguente negazione dell’efficacia probatoria della testimonianza resa nel processo penale dalla parte civile può incidere in senso negativo sull’argomento che, ai fini del riconoscimento dell’interesse all’impugnazione della parte civile, valorizza la possibilità per la parte civile di giovarsi dell’accertamento svolto in sede penale, e la sua conseguente migliore posizione rispetto a quella di chi comincia un processo dall’inizio.

. Indice delle sentenze citate

Sentenze penali della Corte di cassazione

Sez. U, n. 306 del 30/11/1974, Buzzi, Rv. 128995

Sez. U, n. 17179 del 27/02/2002, Conti, Rv. 221403

Sez. U, n. 30328 del 10/07/2002, Franzese, Rv. 222138

Sez. 2, n. 897 del 24/10/2003 – dep. 2004 -, Cantamessa, Rv. 227966

Sez. 5, n. 26064 del 9/06/2005, Colonna, Rv. 231916

Sez. 2, n. 5072 del 31/01/2006, Pensa Rv. 233273

Sez. U, n. 25083 del 11/07/2006, Negri, Rv. 233918

Sez. 5, n. 9399 del 05/02/2007, Palazzi, Rv. 235843

Sez. 3, n. 15653 del 27/02/2008, Colombo, Rv. 239865

Sez. U, n. 40049 del 29/05/2008, Guerra, Rv. 240815

Sez. 5, n. 38228 del 24/06/2008, , Maurizi, Rv. 241314

Sez. 5, n. 39395 del 17/09/2008, Scambia, Rv. 241733

Sez. 4, n. 14450 del 19/03/2009, Stafissi, Rv. 244002

Sez. 6, n. 26299 del 03/06/2009, Tamborrini, Rv. 244533

Sez. 4, n. 45920 del 28/10/2009, Fiorini

Sez. 2, n. 32577 del 27/04/2010, Preti, Rv. 247973

Sez. 4, 14/07/2011, n. 46812, De Angelis

Sez. 5, n. 594 del 16/11/2011 - dep. 2012 -, Perrone, Rv. 252665

Sez. 5, n. 15015 del 23/02/2012, Genovese, Rv. 252487

Sez. 4, n. 9170 del 14/02/2013, R.C., Rv. 255397

Sez. 5, n. 21251 del 26/03/2013, Vergati, Rv. 255654

Sez. 2, n. 35794 del 18/06/2013, Epifania, Rv. 257404

Sez. U,n. 40109 del 18/07/2013, Sciortino, Rv. 256087

Sez. 5, n. 3525 del 15/10/2013, Miano, Rv. 259533

Sez. 4, n. 10615 del 4/12/2013, Perrotta, Rv. 256337

Sez. 1, n. 42039 del 14/01/2014, Simigliani, Rv. 260508

Sez. 2, n. 3221, del 7/01/2014, Macchia, Rv. 258817

Sez. 6, n. 5888 del 21/01/2014, Bresciani, Rv. 258999

Sez. 2, n. 28924 del 26/06/2014, Varriale, Rv. 261821

Sez. 4, n. 11193 del 10/02/2015, Cortesi, Rv. 262708

Sez. 6, n. 44685 del 23/09/2015, N., Rv. 265561

Sez. 4, n. 44685 del 23/09/2015, N., Rv. 265561

Sez. 1, n. 36296 del 3/11/2015, Saba, Rv. 268260

Sez. 4, n. 27045 del 4/02/ 2016, Di Flaviano, Rv. 267730

Sez. 4, n. 29627 del 21/04/2016, Silva, Rv. 267844

Sez. 4, n. 45786 dell’11/10/2016, Assaiante, Rv. 268517

Sez. 4, n. 34878 dell’8/06/2017, Soriano, Rv. 271065

Sez 4, n. 43896 dell’8/02/2018, Luvaro, 274223

Sez. 4, n. 33405 del 13/04/2018, D., Rv. 273422

Sez. 4, n. 24384 del 26/04/2018, Masoni, Rv. 273536

Sez. 4, n. 42461 del 09/05/2018, Todaro, Rv. 274764

Sez. 4, n. 42460 del 09/05/2018, Scolavino, Rv. 274367

Sez. 4, n. 37794 del 22/06/2018, De Renzo, Rv. 273463

Sez. 2, n. 36930 del 04/07/2018, Addonisio, Rv. 273519

Sez. 2, n. 41784 del 18/07/2018, Tola, Rv. 275416

Sez. 4, n. 412 del 16/11/2018 - dep. 2019-, De Santis, Rv. 274831

Sez. 4, n. 5901 del 18/01/2019, Oliva, Rv. 275122

Sez. 4, n. 5898 del 17/01/2019, Borsi, Rv. 275266

Sez. 5, n. 103619 del 06/02/2019, R., Rv. 276344

Sez. 5, n. 27318 del 07/03/2019, Mazzini, Rv. 276640

Sez. 4, n. 18781 del 12/03/2019, Montaguti, Rv. 275761

Sez. 4, n. 25141 del 14/03/2019, De Toma, Rv. 276338

Sez. U, n. 28911 del 28/03/2019, Papaleo, Rv. 275953

Sez. 6, n. 31921 del 06/06/2019, De Angelis, Rv. 277285

Sez. 4, n. 33255 del 09/07/2019, Luparello, Rv. 276598

Sentenze civili della Corte di cassazione

Sez. 2, n. 5965 del 25/03/2004, Rv. 571531

Sez. 3, n. 13068 del 14/07/2004, Rv. 574569

Sez. U, n. 576 del 10/11/ 2008, Rv. 600899

Sez. U, n. 584 del 10/11/2008, Rv. 600921

Sez. 2, Sentenza n. 12577 del 04/06/2014, Rv. 630956

Sez. U, n. 12310 del 15/06/2015, Rv. 635536

Sez. 3, n. 9358 del 12/04/2017, Rv. 644002

Sez. U., n. 22404 del 13/09/2018, Rv. 650451

Sez. 3, n. 15859 del 12/06/2019, Rv. 654290

Sez. 3, n. 16916 del 25/06/2019, Rv. 654433

Sez. 3, n. 22515 del 10/09/2019

Sez. 3, n. 22516 del 10/09/2019

Sez. 3, n. 22518 del 10/09/2019

Sez. 3, n. 22519 del 10/09/2019

Sez. 3, n. 22520 del 10/09/2019

Sez. 3, n. 22729 del 12/09/2019, Rv. 655473

Sez. 3, n. 25917 del 15/10/2019, Rv. 655376

Sez. 3, n. 25918 del 15/10/2019, Rv. 655377

Sentenze della Corte costituzionale

Corte cost., sent. n. 1 del 1970

Corte cost., sent. n. 29 del 1972

Corte cost., sent. n. 353 del 1994

Corte cost., sent. 532 del 1995

Corte cost., sent. n. 94 del 1996

Corte cost., ord. n. 424 del 1998

Corte cost., sent. n. 168 del 2006

Corte cost., sent. n. 23 del 2015

Corte cost., sent. n. 12 del 2016

  • sanzione penale

CAPITOLO VI

L’AMMISSIBILITA’ DELLA REVISIONE DELLA SENTENZA CHE DICHIARANDO NON DOVERSI PROCEDERE PER L’ESTINZIONE DEL REATO CONFERMI LE STATUIZIONI CIVILI

(di Paola Proto Pisani )

Sommario

1 Premessa. - 2 Il contrasto risolto dalle Sezioni Unite. - 3 La sentenza delle Sezioni Unite Milanesi. - 4 Le questioni ancora aperte in tema di revisione delle sentenze di proscioglimento. - Indice delle sentenze citate

1. Premessa.

Le Sezioni Unite con la sentenza “Milanesi” (Sez. U, n. 6141 del 25/10/2018, dep. 2019, Milanesi, Rv. 274627), risolvendo il contrasto sul punto, hanno affermato l’ammissibilità, sia agli effetti penali sia agli effetti civili, della revisione della sentenza irrevocabile con cui il giudice d’appello, ai sensi dell’art. 578 cod. proc. pen., dichiarando l’estinzione del reato per prescrizione, confermi la condanna dell’imputato al risarcimento del danno in favore della parte civile.

La questione attiene all’interpretazione dell’art. 629 cod. proc. pen. - che contempla, quale oggetto della revisione, le sentenze irrevocabili di condanna e non anche quelle di proscioglimento – e dell’art. 632 cod. proc. pen. che individua nel “condannato” il soggetto legittimato alla richiesta di revisione.

2. Il contrasto risolto dalle Sezioni Unite.

Secondo l’orientamento maggioritario fino all’intervento delle Sezioni Unite, la revisione delle sentenze di condanna ai soli effetti civili doveva ritenersi inammissibile, in ragione della lettera dell’art. 629 cod. proc. pen. e del principio di tassatività delle impugnazioni, dovendosi intendere per “sentenze di condanna” le sole sentenze di condanna agli effetti penali (Sez. 5, n. 2393 del 2/12/2010, Pavesi, Rv. 249781; Sez. 3, n. 24155 del 3/3/2011 Bernardelli, Rv. 250631; Sez. 2, n. 8864 del 23/02/2016, Martelli, non mass.; Sez. 2, n. 53678 del 25/10/2017, Ricupati, Rv. 271367; Sez. 2, n. 2656 del 9/11/2016, Calabrò, Rv. 269528; nella giurisprudenza più risalente avevano escluso l’ammissibilità della revisione della sentenza che abbia dichiarato estinto il reato per amnistia: Sez. 5, n. 15973 del 24/02/2004, Decio, Rv. 228763; Sez. 6, n. 4231 del 30/11/1992, Melis, Rv. 193457; Sez. 1, n. 1672 del 15/04/1992, Bonaceto, Rv. 190002).

Veniva, altresì, rilevato, che la tesi avversata avrebbe comportato la “paradossale conseguenza” di consentire al prosciolto condannato ai soli effetti civili la revisione in ipotesi più ampie di quelle previste per la revocazione civile; mentre la mancanza di qualsivoglia rimedio avverso una sentenza “ingiusta” pregiudizievole sotto il solo profilo civilistico poteva giustificarsi in ragione della scelta processuale dell’imputato di non rinunciare alla prescrizione (Sez. 2, n. 53678 del 25/10/2017, Ricupati, Rv. 271367).

Secondo l’orientamento minoritario (Sez. 5, n. 46707 del 3/10/2016, Panizzi, Rv. 269939), invece, il rimedio straordinario doveva ritenersi ammissibile, in base all’interpretazione letterale degli artt. 629 e 632 cod. proc. pen., poiché la decisione che accoglie l’azione civile esercitata nel processo penale costituisce una sentenza di condanna, e, dunque, l’imputato è “condannato” alle restituzioni ed al risarcimento del danno.

Pur escludendo la revisione delle sentenze di proscioglimento, si riteneva, tuttavia, che l’esclusione della possibilità di rivisitazione degli effetti penali non implicasse il difetto di legittimazione riguardo alle statuizioni civili, pregiudizievoli per l’imputato, contenute nella sentenza di proscioglimento.

Si osservava, inoltre, che, altrimenti, il prosciolto ingiustamente condannato agli effetti civili sarebbe rimasto privo di tutela, non potendo ricorrere alla revocazione civile; escludendosi, peraltro, un’irragionevole disparità di trattamento del danneggiato connessa ai diversi e più ristretti limiti che caratterizzano tale istituto, stante la sua libertà di scegliere la sede (civile o penale) in cui esercitare l’azione di risarcimento, con conseguente accettazione delle regole proprie del rito opzionato.

La questione si pone in quanto, in deroga al principio – desumibile dall’art. 538 cod. proc. pen. – secondo cui il giudice penale si pronuncia sull’azione civile esercitata nel processo penale soltanto quando emette sentenza di condanna agli effetti penali, sono ravvisabili due ipotesi eccezionali di pronuncia sull’azione civile anche in caso di sentenza di proscioglimento.

La prima è quella prevista dall’art. 578 cod. proc. pen., secondo cui, nel caso in cui sia stata pronunciata condanna, anche generica, alle restituzioni o al risarcimento del danno cagionato dal reato, il giudice dell’impugnazione, nel dichiarare estinto il reato per amnistia o per prescrizione, decide sull’impugnazione “ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli effetti civili”. Ed in proposito le Sezioni unite penali (Sez. U., n. 35490 del 28/05/2009, Tettamanti, Rv. 244273) hanno precisato che il giudice d’appello, ove all’esito dell’esame delle prove ritenga il compendio probatorio ambivalente, tale da comportare un’assoluzione ai sensi dell’art. 530, comma 2, cod. proc. pen., dovrà non soltanto revocare le statuizioni civili, ma, altresì, pronunciare l’assoluzione nel merito, in tal caso prevalendo il proscioglimento per insufficienza di prove sulla dichiarazione immediata di una causa di non punibilità.

La seconda eccezione si verifica nel caso di accoglimento dell’impugnazione proposta dalla sola parte civile, ai sensi dell’art. 576 cod. proc. pen., avverso la sentenza di proscioglimento dell’imputato. Le Sezioni unite penali (Sez. U., n. 25083 dell’11/07/2006, Negri, Rv. 233918) hanno, infatti, ritenuto che l’art. 576 cod. proc. pen. conferisce al giudice dell’impugnazione il potere di decidere sulla domanda al risarcimento e alle restituzioni, pur in mancanza di una precedente statuizione sul punto.

3. La sentenza delle Sezioni Unite Milanesi.

Le Sezioni unite rilevano che il problema dell’ammissibilità della revisione della sentenza dichiarativa dell’estinzione del reato per prescrizione (o per amnistia) che, decidendo sull’impugnazione ai soli effetti civili, ai sensi dell’art. 578 cod. proc. pen. confermi la condanna dell’imputato al risarcimento dei danni (o alle restituzioni) in favore della parte civile, si pone sia agli effetti penali, in riferimento alla possibilità di ottenere il proscioglimento nel merito, con formula più favorevole, sia agli effetti civili, in riferimento alla finalità di vedere caducate le statuizioni civili.

Così impostato il problema risolvono il contrasto affermando l’ammissibilità, anche agli effetti penali, della revisione, proposta ai sensi dell’art. 630, lett. c), cod. proc. pen., nel caso considerato.

Tale interpretazione si fonda essenzialmente sull’analisi:

del presupposto della legittimazione ad esperire la revisione, individuato nello status di «condannato», inteso - in linea con la sentenza delle Sezioni unite “Nunziata” (Sez. U., n. 13199 del 21/07/2016, Nunziata, Rv. 269788 - 269789 -269790 – 269791) - come «il soggetto che ha esaurito tutti i gradi del sistema delle impugnazioni ordinarie e rispetto al quale si è formato il giudicato in ordine alla decisione che lo riguarda»;

e del fondamento costituzionale dell’istituto della revisione, ravvisato - in linea con la giurisprudenza della Corte costituzionale (Corte cost., sent. n. 28 del 1969) già recepita da quella delle Sezioni unite penali (Sez. U, n. 624 del 26/09/2001, Pisano, Rv. 220443; Sez. U, n. 13199 del 21/07/2016, Nunziata, Rv. 269788 - 269789 - 269790 - 269791) - nell’art. 24, quarto comma, Cost. e nell’«esigenza di altissimo valore etico e sociale, di assicurare, senza limiti di tempo e anche quando la pena sia stata espiata o sia estinta, la tutela dell’innocente, nell’ambito della più generale garanzia, di espresso rilievo costituzionale, accordata ai diritti inviolabili della personalità» (Corte cost., sent. n. 28 del 1969).

L’ammissibilità della revisione viene, infatti, affermata riconoscendosi all’imputato lo status di “condannato”, non essendovi traccia, nel testo dell’art. 629 cod. proc. pen., della possibile rilevanza della distinzione tra la condanna agli effetti penali e quella agli effetti civili, e non ravvisandosi alcun elemento nella disciplina della revisione che ne comporti un’incompatibilità logica o strutturale nei confronti della condanna ai soli effetti civili: la circostanza che l’imputato sia stato «evocato in giudizio tanto sulla base della azione penale quanto in forza della azione civile esercitata nel processo penale, non può che comportare una ontologica identità di diritti processuali, a meno che la legge espressamente non distingua i due profili», come ritenuto dalle sezioni unite nella sentenza “Marani” (Sez. U., n. 28719 del 21/06/2012, Marani, Rv. 252695) che ha esteso al condannato ai soli effetti civili la legittimazione al ricorso straordinario per errore di fatto.

La revisione viene, inoltre, ritenuta ammissibile perché la statuizione di condanna ai soli effetti civili, contenendo «una implicita quanto ineludibile affermazione di responsabilità tout court operata, a cognizione piena, in relazione al fatto-reato causativo del danno», è suscettibile, se ingiusta, di arrecare pregiudizio all’interessato con riguardo non soltanto alla sfera patrimoniale, ma anche a quella dei diritti della personalità.

L’idoneità della pronuncia a produrre «un apprezzabile pregiudizio al diritto all’onore dell’imputato, con superamento – in concreto – della presunzione costituzionale di non colpevolezza», pur non essendo costui condannato agli effetti penali, rivela che la negazione della legittimazione alla revisione potrebbe porsi in contrasto con l’art. 3 della Costituzione, per l’irragionevolezza del diverso trattamento di situazioni che presentino analoghi profili di pregiudizio.

A sostegno dell’interpretazione prescelta viene, inoltre, rilevata la mancanza di un rimedio contro il giudicato – stante l’inapplicabilità della revocazione civile, in difetto di un’espressa previsione normativa che legittimi la revoca, da parte del giudice civile, della sentenza pronunciata dal giudice penale– non giustificata dalla facoltà per l’imputato di rinunziare alla prescrizione, non potendosi far derivare dal mancato esercizio di tale facoltà effetti pregiudizievoli non previsti dalla legge, in ossequio al principio di non contraddizione.

Peraltro, i diversi e più ristretti limiti che caratterizzano la revocazione non costituiscono un’ingiustificata disparità di trattamento del danneggiato a seconda della sede, civile o penale, in cui l’azione civile sia esercitata, in quanto egli è libero di scegliere tale sede, e deve, conseguentemente accettare le regole proprie del rito opzionato.

La valorizzazione del fondamento costituzionale della revisione e dello status di condannato, ai fini della risoluzione della questione controversa, consente alle Sezioni unite, pur senza formulare principi di diritto al riguardo, di tracciare i limiti all’ampliamento dell’ambito di ammissibilità della revisione operato con la sentenza in rassegna.

Viene, infatti, esclusa l’ammissibilità della revisione della sentenza che si limiti a dichiarare l’estinzione del reato (per prescrizione o anche per altra causa), in quanto in difetto di contestuali statuizioni civili, al soggetto istante non spetta la qualifica di “condannato”, e la sentenza non è idonea ad arrecare pregiudizi alla sua onorabilità, ostandovi la presunzione costituzionale di non colpevolezza fino alla condanna definitiva.

Viceversa, l’impugnazione straordinaria è ritenuta ammissibile riguardo all’ipotesi disciplinata dall’art. 578-bis cod. proc. pen., per l’analogia tra tale disciplina e quella prevista dall’art. 578 cod. proc. pen., ritenendo che anche in tal caso vada «riconosciuto lo status soggettivo di condannato (sia pure limitatamente alle statuizioni di confisca che conseguano all’incidentale accertamento di responsabilità richiesto dalla norma)».

Viene rilevato, infine, che l’impossibilità della revisione potrebbe porre un problema “in astratto” con riferimento alle sentenze di proscioglimento conseguente ad un’amnistia o all’applicazione del perdono giudiziale ovvero all’accertamento del difetto di imputabilità, le quali postulano un quanto meno implicito accertamento di responsabilità e dalle quali, quindi, potrebbero conseguire effetti pregiudizievoli per l’imputato (ad esempio l’applicazione di misure di sicurezza).

Le Sezioni Unite, ritenendo ammissibile la revisione nel caso considerato anche al fine di vedere sostituita la formula del proscioglimento con altra più favorevole, si pongono e risolvono la questione rimessa secondo un’impostazione diversa da quella propria degli orientamenti in contrasto, accomunati, invece, dall’affermazione del difetto di legittimazione dell’interessato ad ottenere la rivisitazione degli effetti penali della sentenza di proscioglimento.

In tal modo possono valorizzare, a sostegno dell’ammissibilità della revisione, il fondamento costituzionale dell’istituto e i possibili effetti pregiudizievoli, riguardo al diritto all’onore dell’imputato, della sentenza di proscioglimento per prescrizione (che, nel caso di cui all’art. 578 cod. proc. pen., presuppone un accertamento sia pure incidentale della responsabilità dell’imputato in relazione al fatto-reato a lui ascritto).

L’esigenza di tutela di diritti fondamentali, seppure diversi dalla libertà personale, sui quali incide il processo penale, a cui viene ancorata l’esperibilità della revisione nel caso in esame, costituisce una valida ragione giustificatrice della maggiore estensione del rimedio contro il giudicato penale rispetto alla revocazione civile.

La tutela degli interessi patrimoniali dell’imputato, viene, in tal modo, a beneficiare in modo indiretto del più ampio ambito di rivisitazione del giudicato penale (di proscioglimento), così come avviene pacificamente in caso di revisione della sentenza di condanna agli effetti penali che contenga anche statuizioni civili.

Ciò in linea con la giurisprudenza della Corte costituzionale secondo cui l’azione civile esercitata nel processo penale, assumendo carattere accessorio e subordinato rispetto all’azione penale, «è destinata a subire tutte le conseguenze e gli adattamenti derivanti dalla funzione e dalla struttura del processo penale» (Corte cost., sent. n. 353 del 1994), con conseguente ragionevolezza delle differenze di disciplina dell’azione civile esercitata nel processo penale, rispetto all’azione risarcitoria esercitata in sede civile, dipendenti dalle “finalità tipiche del processo penale” (Corte cost., ord. n. 115 del 1992, Corte cost., sent. n. 75 del 2001, Corte cost., ord. n. 300 del 2004 e Corte cost., sent. n. 34 del 2018), anche in considerazione del fatto l’azione civile può essere esercitata nella sede sua propria fin dall’inizio (Corte cost., sent. n. 532 del 1995). Pertanto, una volta che il danneggiato, previa valutazione comparativa dei vantaggi e degli svantaggi insiti nella opzione concessagli, scelga di esercitare l’azione civile nel processo penale, anziché nella sede propria, “non è dato sfuggire agli effetti che da tale inserimento conseguono, per via della struttura e della funzione del processo penale” (Corte cost., sent. n. 94 del 1996, Corte cost., ord. n. 424 del 1998 e Corte cost. sent. n. 12 del 2016).

4. Le questioni ancora aperte in tema di revisione delle sentenze di proscioglimento.

A seguito dell’intervento delle Sezioni unite resta aperta la questione dell’ammissibilità della revisione della sentenza d’appello che, in riforma della sentenza di assoluzione di primo grado, appellata tanto dal pubblico ministero quanto dalla parte civile ai sensi dell’art. 576 cod. proc. pen., abbia dichiarato l’estinzione del reato per qualsiasi causa e accolto l’impugnazione della parte civile, condannando (per la prima volta) l’imputato al risarcimento dei danni nei suoi confronti.

Nonché quella dell’ammissibilità della revisione della sentenza d’appello che, in parziale riforma della sentenza di assoluzione di primo grado, appellata dalla sola parte civile ai sensi dell’art. 576 cod. proc. pen., abbia condannato (per la prima volta) l’imputato al risarcimento dei danni, fermi gli effetti penali della sentenza di assoluzione di primo grado.

Sebbene la sentenza in esame non si sia espressamente pronunciata sulla questione, nel primo caso sussistono entrambi i presupposti (status di condannato, sia pure soltanto agli effetti civili, ed esigenza di tutela del diritto all’onore dell’imputato prosciolto per prescrizione con una sentenza che contiene un accertamento incidentale della sua responsabilità penale) che hanno indotto le Sezioni Unite ad affermare l’ammissibilità della revisione nel diverso caso di cui all’art. 578 cod. proc. pen.

Peraltro, in più punti la motivazione della sentenza in rassegna equipara il caso, riconducibile all’art. 578 cod. proc. pen., in cui il giudice dell’impugnazione, dichiarando non doversi procedere per estinzione del reato, confermi le statuizioni civili della sentenza impugnata, a quello, riconducibile all’art. 576 cod. proc. pen., in cui il giudice dell’impugnazione, dichiarando non doversi procedere per estinzione del reato, disponga per la prima volta la condanna dell’imputato alle restituzioni o al risarcimento del danno (punti 2.1. primo capoverso, 3.1., 7., 9 penultimo capoverso, 10, primo capoverso).

Nel secondo caso, invece, anche se all’imputato può riconoscersi lo status di condannato, potrebbe dubitarsi della sussistenza di un’esigenza di tutela della sfera dei suoi diritti della personalità, almeno allorquando l’assoluzione contenuta nella sentenza di primo grado, e divenuta irrevocabile agli effetti penali, sia stata pronunciata con formula ampiamente liberatoria.

Sotto un diverso profilo resta, altresì, aperto il problema, segnalato ma non risolto dalla sentenza in esame, dell’ammissibilità della revisione avverso le sentenze di proscioglimento prive di statuizioni civili ma che, contenendo un accertamento incidentale della responsabilità dell’imputato, possano produrre effetti per lui pregiudizievoli, anche soltanto riguardo alla sfera dei diritti della personalità.

In tale ipotesi, invero, manca uno dei due presupposti su cui la sentenza in rassegna fonda la soluzione dell’ammissibilità della revisione nel caso considerato, e cioè lo status di condannato. E’ tuttavia presente l’altro presupposto, e cioè l’esigenza di tutela della sfera dei diritti della personalità dell’imputato prosciolto, che ha fatto propendere le Sezioni unite per l’interpretazione prescelta proprio perché la contrapposta tesi dell’inammissibilità della revisione avrebbe potuto porsi in contrasto con l’art. 3 Cost., per l’irragionevole disparità di trattamento di situazioni connotate da analoghi profili di pregiudizio.

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. 1, n. 1672 del 15/04/1992, Bonaceto, Rv. 190002

Sez. 6, n. 4231 del 30/11/1992, Melis, Rv. 193457

Sez. U, n. 624 del 26/09/2001, Pisano, Rv. 220443

Sez. 5, n. 15973 del 24/02/2004, Decio, Rv. 228763

Sez. U, n. 25083 dell’11/07/2006, Negri, Rv. 233918

Sez. U, n. 35490 del 28/05/2009, Tettamanti, Rv. 244273

Sez. 5, n. 2393 del 2/12/2010, Pavesi, Rv. 249781

Sez. 3, n. 24155 del 3/3/2011 Bernardelli, Rv. 250631

Sez. U., n. 28719 del 21/06/2012, Marani, Rv. 252695

Sez. 2, n. 8864 del 23/02/2016, Martelli, non mass.

Sez. U, n. 13199 del 21/07/2016, Nunziata, Rv. 269788 - 269789 -269790 – 269791

Sez. 5, n. 46707 del 3/10/2016, Panizzi, Rv. 269939

Sez. 2, n. 2656 del 9/11/2016, Calabrò, Rv. 269528

Sez. 2, n. 53678 del 25/10/2017, Ricupati, Rv. 271367

Sez. U, n. 6141 del 25/10/2018, dep. 2019, Milanesi, Rv. 274627

Sentenze della Corte costituzionale

Corte cost., sent. n. 28 del 1969

Corte cost., ord. n. 115 del 1992

Corte cost., sent. n. 353 del 1994

Corte cost., sent. n. 532 del 1995

Corte cost., sent. n. 94 del 1996

Corte cost., ord. n. 424 del 1998

Corte cost., sent. n. 75 del 2001

Corte cost., ord. n. 300 del 2004

Corte cost. sent. n. 12 del 2016

Corte cost., sent. n. 34 del 2018

  • mafia

CAPITOLO VII

LE SEZIONI UNITE SUI “FRATELLI MINORI” DI CONTRADA

(di Paolo Di Geronimo )

Sommario

1 La sentenza della Corte EDU sul caso “Contrada” - 2 L’adeguamento alla sentenza “Contrada”. - 3 L’estensione ai “fratelli minori” della sentenza “Contrada”: la tesi contraria. - 3.1 La sentenza “Esti” e la contestazione della natura giurisprudenziale del concorso esterno. - 3.2 Le sentenze “Marfia” e “Marino”. - 4 La diversa impostazione seguita nell’ordinanza di rimessione. - 4.1 La prevedibilità soggettiva. - 5 L’estensibilità erga alios dei principi affermati dalla Corte EDU nel caso “Contrada”. - 6 La soluzione accolta dalle Sezioni unite Genco. - Indice delle sentenze citate

1. La sentenza della Corte EDU sul caso “Contrada”

Le Sezioni unite sono state chiamate a pronunciarsi sulla possibilità o meno di estendere i principi affermati dalla sentenza della Corte EDU del 14 aprile 2015 emessa in relazione al caso Contrada contro Italia, nei confronti di soggetti non impugnanti in sede europea, ma che tuttavia si trovino nella medesima siutazione di fatto.

La problematica è sorta dopo che la Corte EDU si è pronunciata in ordine alla compatibilità della condanna emessa nei confronti del Contrada per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, riferita all’arco temporale intercorrente tra il 1979 ed il 1988, allorquando la giurisprudenza non era univoca in ordine alla configurabilità dell’ipotesi concorsuale nel reato associativo.

Il Contrada deduceva dinanzi alla Corte EDU la violazione dell’art.7 della Convenzione, ritenendo che il reato di concorso esterno in associazione mafiosa fosse una figura di creazione sostanzialmente giurisprudenziale e che solo in epoca successiva ai fatti oggetto dell’imputazione la giurisprudenza era pervenuta ad un’esatta ricostruzione della fattispecie.

A fronte della suddetta contestazione, il Governo italiano indicava la giurisprudenza di legittimità che aveva affermato la configurabilità del concorso esterno nel reato associativo, sia con riguardo alla specifica ipotesi dell’associazione di stampo mafioso, sia con riguardo a forme di criminalità organizzata di altro genere, sostenendo che la giurisprudenza – fin da epoca antecedente ai fatti contestati al Contrada – aveva ampiamente riconosciuto la figura del concorso esterno.

La Corte EDU, in risposta a tali argomentazioni, ha affermato che il concorso esterno in associazione di tipo mafioso è una creazione della giurisprudenza avviata in decisioni che risalgono alla fine degli anni ottanta, ossia posteriore ai fatti per i quali il ricorrente è stato condannato e che si è consolidata con la sentenza della Corte di cassazione Demitry.

Proseguendo in tale ragionamento, la Corte è giunta alla conclusione che l’evoluzione giurisprudenziale in questa materia, posteriore ai fatti ascritti al ricorrente, dimostra che, all’epoca in cui tali fatti sarebbero avvenuti, il ricorrente non poteva ragionevolmente prevedere le conseguenze, in termini di sanzione, delle sue presunte azioni, in quanto l’esistenza del reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso all’epoca dei fatti era oggetto di interpretazioni giurisprudenziali divergenti.

L’incertezza tra i diversi orientamenti giurisprudenziali in materia ed il fatto che solo nel 1994, a seguito della pronuncia delle Sezioni unite, si sia consolidata la nozione stessa di concorso esterno nel reato associativo, hanno indotto la Corte EDU a ritenere violato l’art. 7 della convenzione.

È stato affermato il principio secondo cui «la legge deve definire chiaramente i reati e le pene che li reprimono. Questo requisito è soddisfatto se la persona sottoposta a giudizio può sapere, a partire dal testo della disposizione pertinente, se necessario con l’assistenza dell’interpretazione che ne viene data dai tribunali e, se del caso, dopo aver avuto ricorso a consulenti illuminati, per quali atti e omissioni le viene attribuita una responsabilità penale e di quale pena è passibile per tali atti».

Valorizzando il ruolo che la giurisprudenza svolge nel chiarire la portata delle norme incriminatrici, la Corte EDU ha concluso nel senso che «è solo nella sentenza Demitry, pronunciata dalle Sezioni unite della Corte di cassazione il 5 ottobre 1994, che quest’ultima ha fornito per la prima volta una elaborazione della materia controversa, esponendo gli orientamenti che negano e quelli che riconoscono l’esistenza del reato in questione e, nell’intento di porre fine ai conflitti giurisprudenziali in materia, ha finalmente ammesso in maniera esplicita l’esistenza del reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso nell’ordinamento giuridico interno».

2. L’adeguamento alla sentenza “Contrada”.

A seguito della pronuncia della Corte EDU, si è posto il problema di verificare se e mediante quali strumenti processuali la sentenza dichiarativa della violazione dell’art. 7 CEDU dovesse trovare esecuzione nell’ambito della giurisdizione nazionale.

Il Contrada ha adito due vie alternative, promuovendo sia un ricorso in sede esecutiva che istanza di revisione. L’invocata revisione ex art. 630 cod. proc. pen. veniva rigettata dalla Corte di appello di Caltanissetta, la cui sentenza veniva impugnata con ricorso per cassazione al quale, tuttavia, il condannato rinunciava.

L’incidente di esecuzione, invece, veniva promosso dinanzi alla Corte d’appello di Palermo che rigettava l’istanza con ordinanza del 11 ottobre 2016, avverso la quale il Contrada proponeva ricorso per cassazione fondato su due motivi: con il primo si deduceva che il provvedimento impugnato aveva eluso la decisione adottata dalla Corte EDU, nella misura in cui riteneva che a seguito di tale pronuncia non residuasse alcun obbligo ex art.46 CEDU; con il secondo motivo, si chiedeva, in via subordinata, la rimessione alla Corte costituzionale della questione di legittimità dell’art. 673 cod. proc. pen., nella parte in cui tale norma non prevede espressamente l’ipotesi della revoca della sentenza di condanna quale strumento per dare esecuzione alla pronuncia europea.

Il ricorso veniva deciso da Sez. 1, n. 43112 del 6/7/2017, Contrada, Rv. 273905, con la quale si procedeva alla ricostruzione dei rapporti tra decisioni della Corte EDU ed obbligo di conformazione nell’ordinamento interno, individuando anche gli strumenti processuali a ciò idonei.

Schematizzando l’iter argomentativo sul quale si fonda la predetta sentenza, il punto di partenza è sicuramente individuabile nel riconoscimento dell’obbligo di conformazione alle sentenze della Corte EDU, discendente dall’art. 46 della Convenzione, in base alla quale le parti contraenti si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte “nelle controversie nelle quali sono parti”. La Prima sezione ha precisato, altresì, che le sentenze della Corte EDU sono immediatamente produttive di diritti ed obblighi nei confronti delle parti in causa, nei cui riguardi lo Stato è tenuto ad eliminare, fin dove è possibile, le conseguenze pregiudizievoli della violazione riscontrata.

Accertata la sussistenza di un obbligo di rimuovere il pregiudizio conseguente alla violazione della convenzione, la sentenza ha affrontato l’ulteriore problema concernente l’individuazione degli strumenti in concreto attivabili, concludendo nel senso che – nel caso in questione – l’ordinamento interno predispone un adeguato rimedio processuale individuabile nell’incidente di esecuzione.

A tale conclusione si giunge evidenziando in primo luogo come l’avvenuta espiazione della pena non esclude di per sé la permanenza di ulteriori effetti penali derivanti dalla condanna, rispetto ai quali l’interessato può vantare una legittima pretesa affinchè venga disposta la loro cessazione.

Al contempo, è stata richiamata l’ampia elaborazione giurisprudenziale che ha visto notevolmente ampliati i poteri del giudice dell’esecuzione, secondo il principio per cui il genus delle doglianze che può essere posto a fondamento dell’incidente di esecuzione è molto ampio ed investe tutti quei vizi che, al di là delle specifiche previsioni espresse, non potrebbero farsi valere altrimenti (Sez. U, n. 34472 del 24/10/2013, Ercolano, Rv. 252933).

La Prima sezione, pertanto, ha concluso nel senso di ritenere che la «sentenza pronunziata dalla Corte EDU nel caso Contrada contro Italia non impone interventi in executivis differenti da quelli legittimati dalle disposizioni degli artt. 666 e 670 cod. proc. pen. Non sussistendo, del resto, alcun limite letterale o sistematico all’applicazione al caso in esame di detti poteri, gli artt. 666 e 670 cod. proc. pen. non possono che essere interpretati nel senso di consentire l’eliminazione degli effetti pregiudizievoli derivanti da una condanna emessa dal giudice italiano in violazione di una norma della Convenzione EDU, dovendosi ribadire che garante della legalità della sentenza in fase esecutiva è il giudice dell’esecuzione, cui compete, se necessario, di ricondurre la decisione censurata ai canoni della legittimità (Sez. U, n. 42858 del 29/05/2014, Gatto, cit.).

In conclusione, non resta che riconoscere che, a seguito della decisione emessa dalla Corte EDU il 14/04/2015, che ha dichiarato che la sentenza di condanna emessa nei confronti di Bruno Contrada dalla Corte di appello di Palermo il 25/02/2006, divenuta irrevocabile il 10/05/2007, violerebbe l’art. 7 CEDU, tale pronuncia non è suscettibile di ulteriore esecuzione e non è produttiva di ulteriori effetti penali.»

Individuato nell’incidente di esecuzione il rimedio idoneo a dare esecuzione alla sentenza della Corte EDU, la Prima sezione ha escluso l’applicabilità di ulteriori istituti processuali.

In particolare, si è sostenuto che non sia possibile procedere alla revoca del giudicato di condanna ai sensi dell’art. 673 cod. proc. pen., in quanto tale misura non sarebbe richiesta dalla sentenza della Corte europea, come desumibile sia dall’assenza di riferimenti testuali a tale possibilità, sia dalle statuizioni relative al rigetto della domanda di equa soddisfazione contenuta al punto 4 del dispositivo della sentenza “Contrada”; del resto, la violazione riscontrata dalla Corte EDU non è in alcun modo assimilabile all’ipotesi della sopravvenuta abolitio criminis, atteso che il reato per il quale è intervenuta la condanna continua ad essere previsto dalla legislazione nazionale.

Parimenti è stata ritenuta non percorribile la via della “revisione europea” così come introdotta a seguito della sentenza della Corte cost., n. 113 del 2011, in quanto nel caso di specie «non si verte in alcuna ipotesi di violazione delle regole del giusto processo e che la decisione della Corte di Strasburgo, per la sua natura e per le ragioni su cui si fonda, non implica né appare superabile da alcuna rinnovazione di attività processuale o probatoria».

In definitiva, quindi, la sentenza della Prima sezione si è limitata a dichiarare ineseguibile ed improduttiva di effetti penali la sentenza di condanna emessa nei confronti del Contrada in violazione dell’art. 7 della CEDU, ritenendo che tale limitato effetto non richiede né il ricorso alla riapertura del processo, né consente l’adozione di una pronuncia in sede esecutiva equiparabile alla revoca della sentenza di condanna prevista ex art. 673 cod. proc. pen.

3. L’estensione ai “fratelli minori” della sentenza “Contrada”: la tesi contraria.

All’indomani della sentenza della Corte EDU sul caso “Contrada”, si è inevitabilmente posto l’interrogativo circa la sorte dei plurimi soggetti condannati per la fattispecie di concorso esterno in reato associativo per una condotta che si collocava nel periodo antecedente la sentenza delle Sezioni unite “Demitry”, a far data dalla quale – secondo la prospettiva della Corte europea – l’ipotesi di reato in questione avrebbe assunto quegli elementi di tassatività e determinatezza richiesti dall’art. 7 CEDU.

La giurisprudenza maggioritaria ha ritenuto, sia pur con diversità di argomenti, che il principio affermato dalla Corte EDU nei confronti del Contrata, non fosse estensibile a soggetti non ricorrenti in sede europea.

Tra le pronunce che maggiormente hanno approfondito la questione, va richiamata la sentenza resa da Sez. 1, n. 44193 del 11/10/2016, Dell’Utri, Rv. 267861.

La vicenda processuale in questione aveva avuto ad oggetto la contestazione del reato di concorso esterno in associazione mafiosa con riferimento al periodo di tempo intercorrente tra il 1978 ed il 1992. La conseguente condanna, pertanto, era riferita ad un arco temporale nel quale, stando ai principi affermati dalla Corte EDU nel caso “Contrada”, non era concretamente prevedibile la configurabilità del reato associativo a titolo di concorso ex art.110 cod.pen., atteso che la “definitiva” consacrazione giurisprudenziale del reato di concorso esterno nella fattispecie associativa si sarebbe collocata non prima del 1994, a seguito della pronuncia della sentenza “Demitry” delle Sezioni unite.

Sulla base del mero confronto tra il dato temporale e la tipologia di reato ascritta, il Dell’Utri ha sostenuto l’estensione nei suoi confronti del dictum della sentenza “Contrada”, evocando la assoluta sovrapponibilità della propria posizione rispetto a quella esaminata dalla Corte EDU.

La Corte d’Appello di Palermo, adita quale giudice dell’esecuzione, dichiarava inammissibile la domanda evidenziando come, pur avendo la posizione del ricorrente evidenti analogie rispetto a quella del Contrada, non fosse consentito ai sensi dell’art. 673 cod.proc.pen. revocare una decisione definitiva sulla base di una decisione delle Corte EDU resa nei confronti di un soggetto diverso, atteso che tale possibilità sarebbe prevista nei soli casi di abrogazione o declaratoria di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice.

La Corte d’Appello di Palermo riteneva anche la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale delle norme incriminatrici in oggetto, sottolineando come la sentenza “Contrada” non aveva natura di “sentenza pilota”, né individuava un problema di carattere strutturale dell’ordinamento interno. Secondo tale impostazione, la sentenza “Contrada” avrebbe una portata strettamente limitata al caso esaminato, come desumibile dal fatto che la violazione del divieto di retroattività e prevedibilità della legge penale è stato riconosciuto in favore del Contrada sul presupposto che questi aveva sollevato la questione fin dal giudizio di merito.

In conclusione, la Corte d’Appello ha escluso l’estensione erga alios dei principi affermati dalla Corte EDU nei confronti del solo Contrada.

Il ricorso per cassazione proposto avverso tale decisione dal Dell’Utri è stato rigettato da Sez. 1, n. 44193 del 11/10/2016, Rv. 267861, con la quale si è affermato il principio secondo cui «Lo strumento per adeguare l’ordinamento interno ad una decisione definitiva della Corte EDU va individuato, in via principale, nella revisione introdotta dalla sentenza additiva della Corte costituzionale n. 113 del 2011, applicabile sia nelle ipotesi di vizi procedurali rilevanti ex art. 6 della Convenzione EDU, sia in quelle di violazione dell’art. 7 della stessa Convenzione che non implichino un vizio assoluto di responsabilità (per l’assenza di una norma incriminatrice al momento del fatto), ma solo un difetto di prevedibilità della sanzione - ferma restando la responsabilità penale - o che comunque lascino aperte più soluzioni del caso; lo strumento dell’incidente di esecuzione, invece, può essere utilizzato solo quando l’intervento di rimozione o modifica del giudicato sia privo di contenuto discrezionale, risolvendosi nell’applicazione di altro e ben identificato precetto senza necessità della previa declaratoria di illegittimità costituzionale di alcuna norma, fermo restando che, qualora l’incidente di esecuzione sia promosso per estendere gli effetti favorevoli della sentenza della Corte EDU ad un soggetto diverso da quello che l’aveva adita, è necessario anche che la predetta decisione (pur non adottata nelle forme della “sentenza pilota”) abbia una obiettiva ed effettiva portata generale, e che la posizione dell’istante sia identica a quella del caso deciso dalla Corte di Strasburgo».

Nel solco delineato dalla sentenza “Dell’Utri” si inserisce anche la successiva pronuncia resa da Sez. 1, n. 53610 del 10/4/2017, Gorgone, n.m., con la quale è stato rigettato il ricorso proposto avverso l’ordinanza resa dal Tribunale di Palermo, in funzione di giudice dell’esecuzione, che dichiarava inammissibile l’istanza di revoca della sentenza proposta dal condannato per il delitto di concorso esterno in associazione mafiosa commesso in epoca anteriore al 1994.

La Prima sezione ha rigettato il ricorso, ribadendo che lo strumento per adeguare l’ordinamento interno ad una decisione definitiva della Corte EDU va individuato, in via principale, nella revisione introdotta dalla sentenza additiva della Corte costituzionale n. 113 del 2011, applicabile sia nelle ipotesi di vizi procedurali rilevanti ex art. 6 della Convenzione EDU, sia in quelle di violazione dell’art. 7 della stessa Convenzione che non implichino un vizio assoluto di responsabilità (per l’assenza di una norma incriminatrice al momento del fatto), ma solo un difetto di prevedibilità della sanzione - ferma restando la responsabilità penale - o che comunque lascino aperte più soluzioni del caso; lo strumento dell’incidente di esecuzione, invece, può essere utilizzato solo quando l’intervento di rimozione o modifica del giudicato sia privo di contenuto discrezionale, risolvendosi nell’applicazione di altro e ben identificato precetto senza necessità della previa declaratoria di illegittimità costituzionale di alcuna norma, fermo restando che, qualora l’incidente di esecuzione sia promosso per estendere gli effetti favorevoli della sentenza della Corte EDU ad un soggetto diverso da quello che l’aveva adita, è necessario anche che la predetta decisione (pur non adottata nelle forme della “sentenza pilota”) abbia una obiettiva ed effettiva portata generale, e che la posizione dell’istante sia identica a quella del caso deciso dalla Corte di Strasburgo.

Con la decisione in commento, pertanto, la Prima sezione ha negato l’identità delle posizioni di Contrada e Gorgone: per la diversa epoca di consumazione del delitto (pur sempre precedente alla sentenza Demitry del 1994); per avere Contrada sempre contestato davanti al giudice nazionale la prevedibilità della sanzione, sostenendo la possibilità di qualificare diversamente la condotta nel reato di favoreggiamento personale, sostanzialmente fin dall’inizio evocando la violazione dell’art. 7 CEDU, mentre la difesa di Gorgone non rivendica una tale linea processuale.

In definitiva, la Corte ha escluso in radice che l’incidente di esecuzione potesse ritenersi la sede idonea per la ridiscussione della legalità convenzionale della decisione definitiva di condanna emessa nei confronti del Gorgone, atteso che non emergeva alcuna conclusione obbligata nel senso della rimozione della affermazione di penale responsabilità.

3.1. La sentenza “Esti” e la contestazione della natura giurisprudenziale del concorso esterno.

Si ascrive all’orientamento che nega la sussistenza dei presupposti per l’estensione erga alios dei principi affermati dalla sentenza della Corte EDU nei confronti del Contrada, anche la sentenza resa da Sez. 1, n. 8661 del 12/1/2018, Esti, Rv. 272797, secondo cui «I principi affermati dalla sentenza della Corte EDU del 14 aprile 2015 nel procedimento Contrada contro Italia, in ordine alla natura di fattispecie di creazione giurisprudenziale del concorso esterno in associazione mafiosa, non possono essere estesi a casi diversi, in quanto, fermi restando gli obblighi di conformazione imposti dall’art. 46 CEDU, che operano limitatamente al caso di cui si controverte, il sistema penale nazionale è ispirato al modello della legalità formale in cui non solo non è ammissibile alcun reato di “origine giurisprudenziale”, ma la punibilità delle condotte illecite trova il suo fondamento nei principi di legalità e tassatività. (In motivazione la Corte ha affermato che le Sezioni unite penali, con la sentenza n. 33478 del 2005, non hanno dato vita ad una nuova fattispecie incriminatrice, ma, attraverso la clausola generale prevista dell’art. 110 cod. pen., hanno riconosciuto la responsabilità per l’apporto che l’agente fornisce al gruppo criminale, senza esserne affiliato e nella consapevolezza di tale estraneità)».

Nella citata sentenza, oltre a richiamarsi i principi affermati nella pronuncia resa nei confronti di Dell’Utri, si pone l’attenzione essenzialmente su due aspetti.

Il primo concerne l’esatta delimitazione dell’obbligo di conformazione rispetto alle sentenze pronunciate dalla Corte EDU previsto dall’art.46 della Convenzione.

Precisa la Prima sezione che le decisioni della Corte EDU sono immediatamente produttive di diritti e obblighi nei confronti delle sole parti in causa, imponendo allo Stato di conformarvisi, eliminando le conseguenze pregiudizievoli della violazione riscontrata. Occorre, pertanto, ribadire, in linea con quanto affermato dalla Cassazione nel caso “Contrada” (Sez. 1, n. 43112 del 06/07/2017, Contrada, cit.), che la disposizione «dell’art. 46 CEDU, nelle ipotesi di violazioni delle norme del testo convenzionale, impone al giudice nazionale, limitatamente al caso di cui si controverte, di conformarsi alle sentenze definitive della Corte EDU, i cui effetti si estendono sia allo Stato sia alle altre parti coinvolte dalla decisione che tale violazione ha censurato».

L’estensione del principio affermato inter partes a posizioni processuali di soggetti diversi dal ricorrente in sede europea è consentito a determinati presupposti che non sono stati ritenuti sussistenti nel caso di specie.

In particolare, la sentenza in commento ha appuntato l’attenzione sulla ratio decidendi che sorregge la sentenza della Corte EDU nel caso Contrada, operando una sostanziale critica del risultato cui giunge.

Si legge in motivazione che «fermi restando gli obblighi di conformazione previsti dall’art. 46 CEDU, di cui si è già detto, l’affermazione della Corte EDU si pone in termini problematici rispetto al modello di legalità formale al quale è ispirato il nostro sistema penale, in cui non solo non è ammissibile alcun reato di “origine giurisprudenziale”, ma la punibilità delle condotte illecite trova il suo fondamento nei principi di legalità e di tassatività. Tali profili di problematicità appaiono ulteriormente accentuati dal fatto che il modello di punibilità del concorso esterno in associazione di tipo mafioso prefigurato dalle Sezioni unite (Sez. U, n. 33478 del 12/07/2005, Mannino, Rv. 231671) e più volte richiamato adesivamente dalla Corte EDU - nei paragrafi 18, 30 e 72 della decisione in esame - non consente alcun equivoco interpretativo in ordine alle ragioni che legittimano nel sistema penale italiano l’istituto concorsuale in esame ».

Si sostiene nella sentenza “Esti” che le Sezioni unite “Demitry” non hanno dato vita a una nuova fattispecie incriminatrice, ma si sono limitate a fornire una ricostruzione sistematica armonica con il nostro ordinamento, ribadendo che la responsabilità penale per il contributo fornito dal concorrente esterno a un’associazione di tipo mafioso trae origine dalla sua consapevolezza di contribuire con il proprio apporto a un’attività illecita svolta in forma associata, di cui il soggetto attivo del reato conosce gli obiettivi generali e la struttura associativa, pur senza volervi aderire formalmente. Ne consegue che, attraverso la clausola generale prevista dell’art. 110 cod. pen., si attribuisce alle fattispecie associative una responsabilità di carattere generale per l’apporto concorsuale che l’agente fornisce al gruppo criminale, senza esserne affiliato e nella consapevolezza di tale estraneità.

Ferma restando l’assenza di discrezionalità del giudice dell’esecuzione nel conformarsi alle decisioni della Corte EDU imposta dalla previsione dell’art. 46 CEDU limitatamente al caso di cui si controverte, i principi affermati nella sentenza “Contrada” non risultano esportabili nell’ordinamento italiano, il quale non contempla la possibilità di fattispecie di creazione giurisprudenziale.

3.2. Le sentenze “Marfia” e “Marino”.

Pur inserendosi dichiaratamente nel filone interpretativo avviato con la sentenza “Esti”, sono meritevoli di autonomo esame le pronunce rese da Sez. 1, n. 26686 del 10/04/2019, Marino, Rv. 276197, secondo cui «La decisione della Corte EDU del 14 aprile 2015 nel procedimento Contrada contro Italia non può essere estesa a casi diversi da quello che ne forma direttamente oggetto, in relazione al quale soltanto vigono gli obblighi di conformazione imposti dall’art. 46 CEDU, in quanto l’assunto per il quale il concorso esterno in associazione di tipo mafioso costituirebbe reato di “creazione giurisprudenziale” non corrisponde alla realtà dell’ordinamento penale nazionale che si ispira al modello della legalità formale»; nonché da Sez. 1, 36509 del 12/6/2018, Marfia, Rv. 273615, secondo cui «La decisione della Corte EDU del 14 aprile 2015 nel procedimento Contrada contro Italia non può essere estesa a casi diversi da quello che ne forma direttamente oggetto, in relazione al quale soltanto vigono gli obblighi di conformazione imposti dall’art. 46 CEDU, in quanto l’assunto per il quale il concorso esterno in associazione di tipo mafioso costituirebbe reato di “creazione giurisprudenziale” non corrisponde alla realtà dell’ordinamento penale nazionale che si ispira al modello della legalità formale. (In motivazione la Corte ha affermato che le Sezioni unite penali, nelle decisioni che affermano la configurabilità del reato in parola, osservano i principi di legalità e tassatività delle fattispecie incriminatrici e delle relative sanzioni, fondandosi sulla combinazione tra la norma incriminatrice speciale e l’art. 110 cod. pen.)».

Quest’ultima pronuncia, oltre a ribadire l’impossibilità di configurare nel nostro ordinamento un reato di “creazione giurisprudenziale”, ha espressamente valutato se a seguito della sentenza della Corte EDU nel caso “Contrada”, si ponesse la necessità di valutare la legittimità costituzionale delle norme che fanno prevalere l’intangibilità del giudicato formatosi nei confronti di soggetti diversi dal ricorrente in sede europea.

La Prima sezione ha effettuato una sintetica ricognizione dei principi affermati in materia dalla Corte costituzionale, rilevando come quest’ultima « ha costantemente affermato che le norme della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali integrano, quali norme interposte, il parametro costituzionale espresso dall’art. 117, comma 1, Cost., nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali (Corte cost., sent. n. 264 del 2012; Corte cost., sent. n. 349 del 2007). In questa cornice, nel caso in cui si profili un contrasto tra una norma interna e una norma della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, il giudice nazionale deve preventivamente verificare la possibilità di un’interpretazione conforme alla disposizione convenzionale, ricorrendo agli ordinari strumenti di ermeneutica giuridica (Corte cost., sent. n. 236 del 2011; Corte cost., sent. n. 93 del 2010). Se l’esito di tale verifica preliminare risulta negativo - al contrario di quanto riscontrabile nel caso in esame - e il contrasto non può essere risolto in via interpretativa, il giudice italiano, non potendo disapplicare la norma convenzionale, avendola ritenuta in contrasto con l’ordinamento costituzionale, deve denunciarne l’incompatibilità, proponendo «una questione di legittimità costituzionale in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., ovvero all’art. 10, primo comma, Cost., ove si tratti di una norma convenzionale ricognitiva di una norma del diritto internazionale generalmente riconosciuta [...]» (Corte cost., sent. n. 264, cit.). La Corte costituzionale, a sua volta, non può sostituire sic et simpliciter la sua interpretazione di una norma della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali a quella fornita in occasione della sua applicazione al caso di specie dalla Corte EDU, perché così facendo supererebbe i confini delle proprie competenze, in violazione dell’impegno assunto dallo Stato italiano con la sottoscrizione del trattato internazionale. Ne consegue che la disposizione convenzionale, laddove ritenuta contrastante con la Costituzione, diviene oggetto di un giudizio di bilanciamento - finalizzato a verificare la sussistenza di un vuoto di tutela normativa rilevante in relazione a un diritto costituzionalmente garantito - che dovrà essere preliminarmente valutato dal giudice nazionale e successivamente eseguito dal Giudice delle leggi, con le modalità con cui opera nei giudizi di sua competenza (Corte cost., sent. n. 113 del 2011; Corte cost., sent. n. 311 del 2009). Il richiamo di tali parametri costituzionali impone di escludere che, nel caso in esame, sussista un controlimite che imponga la conformazione del giudice italiano alla pronuncia emessa dalla Corte EDU il 14/04/2015 nel caso Contrada contro Italia, in casi differenti da quelli definiti con la decisione in questione, mediante la proposizione di una questione di legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 7 CEDU. Non sussistono, innanzitutto, le condizioni preliminari per ipotizzare l’esistenza di un controlimite che imponga al giudice italiano di conformarsi alla sentenza della Corte EDU, atteso che - come evidenziato nei paragrafi 3.1 e 3.2 - nel nostro ordinamento il giudice dell’esecuzione dispone di ampi poteri di intervento sul giudicato, riconosciutigli dagli artt. 666 e 670 cod. proc. pen., che gli permettono di dare esecuzione alla decisione comunitaria presupposta (Sez. U, n. 42858 del 29/05/2014, Gatto, cit.). Ne discende che i poteri di cui dispone il giudice dell’esecuzione non consentono di prefigurare la ricorrenza di controlimiti che impongano di dare esecuzione all’obbligo di conformazione previsto dall’art. 46 CEDU, per configurare i quali occorrerebbe affermare che, nel caso in esame, non è possibile un’interpretazione della norma interna conforme alla norma convenzionale. Non ricorre, inoltre, la seconda delle due condizioni indispensabili per ipotizzare la ricorrenza di un controlimite che imponga al Giudice italiano la conformazione alla decisione emessa dalla Corte EDU il 14/04/2015, costituito da un vuoto di tutela rilevante in relazione a un diritto fondamentale, costituzionalmente garantito (Corte cost., sent. n. 113, cit.; Corte cost., sent. n. 311, cit.). A ben vedere, nel caso che ci riguarda, ci si trova di fronte a una situazione esattamente inversa a quella prefigurata dalla Corte costituzionale (Corte cost., sent. n. 113, cit.; Corte cost., sent. n. 311, cit.), atteso che l’individuazione di eventuali controlimiti, in conseguenza dei quali sollevare questione di legittimità costituzionale, non mirerebbe a garantire un diritto fondamentale della persona, ma, al contrario, a estendere la portata applicativa della fattispecie di cui agli artt. 110 e 416-bis cod. pen., in violazione del modello costituzionale di legalità formale delle norme incriminatrici, la cui osservanza è imposta dai parametri ermeneutici che si sono richiamati nel paragrafo 3.3, cui si deve rinviare. Queste considerazioni impongono di escludere la ricorrenza di controlimiti che impongano al Giudice italiano di conformarsi alla decisione emessa dalla Corte EDU il 14/04/2015 al di fuori della vicenda giurisdizionale decisa da tale pronuncia».

Sulla base di tale argomentazione, la Prima sezione ha concluso nel senso di escludere che la condanna per il reato di concorso esterno in fattispecie associativa – relativa a fatti antecedenti alla pronuncia “Mannino” delle Sezioni unite - abbia concretizzato una violazione degli artt. 117, comma 1, Cost., 7 e 46 CEDU, apparendo tale decisione conforme al modello di legalità formale su cui si fonda l’applicazione del concorso nell’associazione di tipo mafioso nel nostro ordinamento.

4. La diversa impostazione seguita nell’ordinanza di rimessione.

Rispetto alle posizioni espresse nelle sentenze che hanno escluso l’applicabilità dei principi affermati nella sentenza “Contrada” a soggetti diversi dal ricorrente in sede europea, Sez. 6, ord. n. 21767 del 17/5/2019, Genco, nel rimettere la questione alle Sezioni unite, ha sollevato una serie di questioni problematiche, ritenendo che le soluzioni offerte dalla giurisprudenza della Cassazione non siano uniformi, né soddisfacenti.

In primo luogo, è stata evidenziata la necessità di verificare esattamente la portata e l’estensione dei principi sui quali si fonda la pronuncia della Corte EDU, contestando che sul punto ci si possa limitare a ritenere incompatibile con l’ordinamento italiano l’affermazione secondo cui il concorso esterno nel reato associativo sia una figura di “creazione giurisprudenziale”.

In particolare, l’ordinanza di rimessione critica il principio recepito nella sentenza “Esti”, secondo cui il nostro ordinamento non consentirebbe la “creazione giurisprudenziale” di fattispecie di reato.

La Sesta sezione non condivide tale approccio, evidenziando che «al di là della poco felice espressione utilizzata dalla Corte EDU per definire la fattispecie del concorso esterno in associazione mafiosa, la sentenza sul caso Contrada rivela nel percorso argomentativo di aver ben inteso che la fonte del precetto avesse la sua base legale nel codice penale, avendo ritenuto piuttosto di “creazione” giurisprudenziale il risultato della combinazione, in precedenza inedita, di due disposizioni incriminatrici nella specie rilevanti».

Prosegue la Sesta sezione, affermando che «la sentenza Esti sembra non considerare che, nell’interpretazione dell’art. 7, par. 1, CEDU (nel testo inglese: “No one shall be held guilty of any criminal offence on account of any act or omission which did not constitute a criminal offence under national or international law at the time when it was committed. Nor shall a heavier penalty be imposed than the one that was applicable at the time the criminal offence was committed”), la nozione di “law” (o “droit”, nel testo francese), quale fonte del precetto penale e della relativa sanzione, è costantemente riferita dalla Corte EDU tanto al diritto di produzione legislativa quanto a quello di derivazione giurisprudenziale, inteso come “diritto vivente”, risolvendosi la garanzia del principio del nullum crimen piuttosto nella qualità della fonte, che deve pur sempre rispondere ai criteri di accessibilità e prevedibilità.

La Corte EDU, invero, ha ritenuto violato l’art. 7 cit. anche in relazione ad una norma scritta, astrattamente idonea a giustificare l’addebito, in assenza di una giurisprudenza uniforme nazionale (sent. 6/10/2011, Soros contro Francia), ovvero in presenza di “imprevedibili” mutamenti interpretativi in malam partem di una norma in ordine alla configurabilità di un reato (Corte EDU, sent. 10/10/2006, Pessino contro Francia; 22/09/1995, S.W. contro Regno Unito).

Pertanto, anche la legge più indeterminata, potrebbe da sola essere compatibile con il principio di legalità europea se l’incertezza della sua formulazione sia compensata da una giurisprudenza applicativa uniforme; così come viene a porsi in contrasto con il principio di legalità quella legge che, per quanto formulata in maniera chiara e precisa, sia caratterizzata da un’interpretazione giurisprudenziale non uniforme. Quindi, il peso della “certezza applicativa” sembra prevalere nella giurisprudenza della Corte EDU sul valore della determinatezza testuale.

In definitiva, la Corte EDU, lungi dal censurare il ruolo interpretativo della giurisprudenza in materia penale, assegna alla stessa un rilievo determinante nel rendere “prevedibile” e quindi compatibile all’art. 7 CEDU un testo di legge (in tal senso, Corte EDU, sent. 22/09/1995, S.W. contro Regno Unito)».

La lettura che viene data della sentenza “Contrada” si pone, pertanto, in contrasto con le affermazioni seguite da parte della giurisprudenza di legittimità, nella misura in cui si afferma che la Corte EDU non censura affatto il ruolo interpretativo del giudice nazionale, bensì attribuisce un ruolo determinante alla giurisprudenza proprio nella misura in cui si ritiene che quest’ultima contribuisce a rendere prevedibile e, quindi, compatibile con l’art.7 CEDU, il testo normativo.

Un principio analogo, del resto, è stato già espresso da Sez. U, n. 18288 del 12/01/2010, Beschi, Rv. 246651, secondo cui il concetto di legalità del diritto ingloba sia il diritto di produzione legislativa che quello di derivazione giurisprudenziale, riconoscendo al giudice un ruolo fondamentale nella individuazione dell’esatta portata della norma penale, il cui significato è reso esplicito dalla combinazione del dato legislativo e di quello interpretativo. Si è affermato in tale pronuncia che «il diritto vivente postula, quindi, la mediazione accertativa della giurisprudenza, nel senso che deve riconoscersi ai giudici un margine di discrezionalità, che comporta una componente limitatamente “creativa” della interpretazione, la quale, senza varcare la “linea di rottura” col dato positivo ed evadere da questo, assume un ruolo centrale nella precisazione del contenuto e della latitudine applicativa della norma e assolve sostanzialmente una funzione integrativa della medesima».

Questi principi sono stati richiamati dalla Corte Suprema in terna di prevedibilità di un’interpretazione del giudice di legittimità in malam partem di una norma incriminatrice (tra le tante, Sez. 5, n. 47510 del 09/07/2018, Dilaghi, Rv. 274406).

Secondo la Corte, l’art. 7 CEDU - così come interpretato dalla giurisprudenza della Corte EDU - non consente l’applicazione retroattiva dell’interpretazione giurisprudenziale più sfavorevole di una norma penale solo quando il risultato interpretativo non era ragionevolmente prevedibile nel momento in cui la violazione è stata commessa (Sez. 5, n. 37857 del 24/04/2018, Fabbrizzi, Rv. 273876).

In definitiva, non consegue alcuna violazione dell’art.7 CEDU qualora la giurisprudenza nazionale muti il proprio orientamento nell’interpretazione di una norma legislativa, anche in materia penale, a condizione che tale mutamento sia ragionevolmente prevedibile dal destinatario della norma.

Sulla scorta di tali argomentazioni, l’ordinanza di rimessione propende per escludere che la questione circa l’estensione erga alios dei principi affermati nella sentenza “Contrada” possa risolversi valorizzando unicamente il dato secondo cui il nostro ordinamento non consente la “creazione giurisprudenziale” di nuove figure di reato.

In definitiva, quindi, il problema centrale non riguarderebbe tanto l’individuazione della fonte del precetto penale, quanto la prevedibilità che una determinata condotta integri o meno un reato e della corrispondente sanzione irrogabile.

4.1. La prevedibilità soggettiva.

L’ordinanza di rimessione, dopo aver ritenuto non condivisibile l’approccio seguito dalla sentenza “Esti”, ha esaminato la diversa soluzione recepita nella sentenza “Dell’Utri” evidenziando come quest’ultima abbia correttamente incentrato l’attenzione sul profilo della “prevedibilità” della soluzione giurisprudenziale favorevole al riconoscimento del concorso esterno nel reato associativo, al fine di escludere la necessità della revisione di precedenti sentenze di condanna emesse nei confronti di soggetti diversi dal ricorrente in sede europea.

Tuttavia, anche la soluzione recepita nella pronuncia “Dell’Utri” non è stata ritenuta appagante nella misura in cui si incentra sulla valorizzazione di una nozione di “prevedibilità” della decisione prettamente soggettiva e non oggettiva.

Nell’ordinanza di rimessione si ritiene, invece, che la Corte EDU ha «valutato la prevedibilità ponendosi nella prospettiva della colpevolezza del ricorrente al quale muovere un rimprovero personale (attese anche le sue specifiche qualità e conoscenze professionali) ma ha ritenuto dirimente ed assorbente esaminare la certezza del diritto penale, quindi in senso oggettivo.

La nozione di prevedibilità convenzionale accolta dalla sentenza Contrada non sarebbe meramente un problema di colpevolezza, ma verrebbe ad avvicinarsi a una idea di legalità formale (la tipicità), seppur indipendente dalla riserva di legge.

La sentenza Contrada della Corte EDU si risolverebbe pertanto in un giudizio di insufficiente determinatezza/tipicità della norma prima del 1994, ancorato ad un parametro oggettivo (e formale).

I giudici di Strasburgo, partendo dall’assunto che il concorso esterno in associazione mafiosa sia una infracion d’origin jurisprdentielle, fanno infatti leva sull’esistenza di un contrasto tra le sezioni semplici della Cassazione per giungere tout court alla conclusione che la condanna per concorso esterno fosse imprevedibile per il ricorrente.

Si tratta di una nozione quindi di prevedibilità in senso oggettivo, che non trova peraltro essa stessa pacifiche applicazioni nella giurisprudenza della Corte EDU, essendosi valorizzato come indice di prevedibilità i fisiologici mutamenti socioculturali, tali da giustificare la comune contezza della illiceità della condotta (i cosiddetti reati “naturali”, Corte EDU, sent. 22/11/1995 S.W. contro Regno Unito); in altri casi è stata la tipologia dei destinatari della norma, che ha consentito di superare il dubbio sulla liceità della condotta fonte di un dovere di astensione dall’azione o quantomeno di grande prudenza (Corte EDU, sent. 01/09/2016, X e Y contro Francia)».

La Sesta sezione precisa, inoltre, che la questione relativa alla prevedibilità o meno della condanna non deve neppure essere valutata alla luce del comportamento processuale tenuto dall’imputato e, quindi, non è legata al fatto che il condannato abbia o meno contestato la configurabilità del reato sotto il profilo della indeterminatezza del precetto.

Si afferma nell’ordinanza di rimessione che «non appare dirimente per la posizione del presente ricorrente la componente soggettiva del giudizio di prevedibilità rintracciata dalla sentenza Dell’Utri nel mero comportamento processuale, dovendo la prevedibilità essere vagliata al momento della condotta, e non essenzialmente al momento del processo. Quest’ultima sembra rilevare nella misura in cui viene a condizionare la ricevibilità del ricorso a Strasburgo da parte di chi intenda dolersi della violazione, dovendo dimostrare di aver esaurito i rimedi interni, sempre che gli stessi si dimostrino effettivi in pratica e non con ogni evidenza votati all’insuccesso (nel senso che una tale questione, se pur proposta, non avrebbe trovato all’epoca alcuna considerazione)».

5. L’estensibilità erga alios dei principi affermati dalla Corte EDU nel caso “Contrada”.

L’opzione interpretativa favorevole a ritenere che la sentenza della Corte EDU ha affermato un deficit di prevedibilità avente fondamento oggettivo e non soggettivo, rende maggiormente pressante il profilo in ordine alla applicabilità nei confronti dei cosiddetti “fratelli minori” di Contrada.

Sostiene la Sesta sezione che la Corte EDU non ha affatto individuato un profilo di lesione dell’art. 7 circoscritto al singolo processo, bensì ha evidenziato un vulnus sistemico avendo «inteso censurare tout court la qualità della base legale della norma incriminatrice e della pena».

Accedendo a tale impostazione, ne conseguirebbe che dovrebbe riconoscersi la violazione dell’art.7 in tutti i casi in cui sia intervenuta una sentenza di condanna per concorso esterno in reato associativo commesso in epoca antecedente al 1994, epoca in cui la “fonte giurisprudenziale” ha dato corpo ed ha eliminato i precedenti dubbi interpretativi concernenti l’esatta portata degli artt. 110 e 416-bis cod. pen.

Tale soluzione non troverebbe ostacolo neppure nell’obiezione secondo cui l’incertezza interpretativa evidenziata dalla Corte EDU avrebbe riguardato non già l’offensività e la rilevanza penale delle condotte ascritte ai condannati, bensì la sola qualificabilità delle stesse in termini di concorso esterno in reato associativo, ovvero di partecipazione all’associazione criminosa.

Invero, sottolinea la Sesta sezione come le condotte di concorso esterno ben potevano dar luogo a figure criminose di minor gravità, quali il favoreggiamento, se non addirittura porsi in alternativa con l’esclusione di qualsivoglia responsabilità penale dei soggetti che sono stati condannati a titolo di concorso. Anche sotto tale profilo, pertanto, non può escludersi la rilevanza della prevedibilità del reato per il quale è successivamente intervenuta la pronuncia di condanna.

Per quanto attiene ai rimedi esperibili dai cosiddetti “fratelli minori” di Contrada, la Sesta sezione sottolinea come « Dalla diversa ampiezza della portata della sentenza della Corte EDU sul caso Contrada discendono implicazioni non irrilevanti anche in ordine alla tipologia di rimedio utilizzabile per conformarsi ad essa.

Infatti, aderendo all’orientamento accolto dalla sentenza Dell’Utri, resterebbe aperta la questione della esperibilità della revisione “europea” al di fuori dei casi direttamente esaminati dal giudice europeo, risultando l’opzione seguita dalla suddetta pronunzia anch’essa controversa e problematica, come si è esposto in precedenza.

La sentenza Dell’Utri ha ritenuto che l’obbligo di introdurre strumenti di “riapertura” o di “riesame” delle sentenze definitive interne sia applicabile a tutti i casi in cui possa risultare necessario, nel caso concreto, il superamento del giudicato, per adeguarsi ad una violazione sostanziale accertata dalla Corte EDU, anche al di fuori dell’esecuzione specifica richiesta dalla sentenza Europea».

Infine, la stessa ordinanza di rimessione, pur in un’ottica chiaramente favorevole all’estensione dei principi affermati dalla sentenza “Contrada” anche nei confronti dei c.d. “fratelli minori”, prospettava la necessità di investire della questione la Corte costituzionale.

6. La soluzione accolta dalle Sezioni unite Genco.

Le Sezioni unite, con decisione assunta all’udienza del 24/10/2019 di cui non è stata depositata la motivazione, hanno escluso l’estensione dei principi affermati dalla sentenza della Corte EDU nel caso “Contrata” in favore di terzi non ricorrenti in sede europea.

Allo stato è nota la sola notizia di decisione, nella quale si indica che la pronuncia assunta dalla Corte si fonda sul principio secondo cui « la sentenza della Corte EDU del 14/4/2015 Contrada c. Italia non è una “sentenza pilota” e non può considerarsi espressione di una giurisprudenza europea consolidata».

Sulla base della sintetica ratio indicata nella notizia di decisione, è ipotizzabile che le Sezioni unite abbiano in primo luogo escluso la natura di “sentenza pilota” della pronuncia resa dalla Corte EDU sul caso Contrada.

L’ordinamento convenzionale prevede un’ipotesi di espressa estensione dei principi erga alios, costituito dalle cosiddette sentenze “pilota”, che vengono adottate in base all’art. 61 del Regolamento CEDU e che presuppongono la pendenza di una pluralità di ricorsi vertenti sulla medesima problematica. Codificando una prassi manifestatasi in più pronunce della Corte EDU, la norma richiamata prevede che, ove la Corte accerti una violazione strutturale dell’ordinamento statale alla quale consegue la proposizione di una pluralità di ricorsi di identico contenuto, si possa adottare una sentenza “pilota” che indichi allo Stato parte del giudizio la natura del problema strutturale o sistemico o della disfunzione da essa constatata e il tipo di misure riparatorie che la Parte contraente interessata deve adottare a livello interno in applicazione del dispositivo della sentenza. Al contempo, la Corte può rinviare l’esame di tutti i ricorsi che traggono origine da uno stesso motivo in attesa dell’adozione delle misure riparatorie indicate nel dispositivo della sentenza pilota.

Tuttavia, la sentenza “Contrada” non può definirsi quale “sentenza pilota” e, cioè, come sentenza relativa all’accertamento di una situazione interna a carattere generale, tale da determinare un problema strutturale dell’ordinamento interno rispetto alla violazione di un precetto convenzionale. Nella predetta pronuncia, infatti, non è in alcun modo richiamata la particolare procedura prevista dall’art. 61, del Regolamento della Corte EDU, come pure non risulta seguita la particolare procedura prevista per la trattazione, per la diffusione e per il controllo dell’attuazione delle indicazioni conseguenti all’emissione di una “sentenza pilota” (art. 61, co.10).

L’ulteriore argomento che, stando alla notizia di decisione, è stato recepito dalle Sezioni unite per escludere l’estensione della sentenza “Contrada” ai c.d. “fratelli minori”, si fonda sul fatto che i principi sottesi alla predetta pronuncia non sono espressione di una giurisprudenza europea consolidata.

Si tratta di un argomento che valorizza i principi già in precedenza recepiti da Corte cost., sent. n. 49 del 2015, secondo cui l’obbligo del giudice nazionali di conformarsi all’interpretazione della CEDU implica la necessità di valutare l’interpretazione delle norme convenzionali fornita dalla Corte EDU non già sulla base di una singola pronuncia, bensì ricostruendo i principi “consolidati” in materia desumibili dalla complessiva elaborazione giurisprudenziale. Tale esigenza è stata espressamente desunta sia dal fatto che le pronunce della Corte di Strasburgo sono inevitabilmente condizionate dalla specificità del caso concreto sottoposto alla sua attenzione, sia dall’esigenza di tener conto delle diverse e non sempre sovrapponibili interpretazioni fornite dalla giurisprudenza europea.

È plausibile ritenere, pertanto, che le Sezioni unite non abbiano ritenuto che la sentenza “Contrada” corrisponda all’interpretazione consolidata della nozione di prevedibilità recepita dalla Corte EDU, con la conseguenza che il giudice nazionale non è tenuto ad estendere il medesimo principio anche nei confronti diversi da quelli che hanno ottenuto il pronunciamento favorevole in sede europea.

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. 6, ord. n. 21767 del 17/5/2019, Genco

Sez. 1, n. 26686 del 10/04/2019, Marino, Rv. 276197

Sez. 5, n. 47510 del 09/07/2018, Dilaghi, Rv. 274406

Sez. 1, 36509 del 12/6/2018, Marfia, Rv. 273615

Sez. 5, n. 37857 del 24/04/2018, Fabbrizzi, Rv. 273876

Sez. 1, n. 8661 del 12/1/2018, Esti, Rv. 272797

Sez. 1, n.43112 del 6/7/2017, Contrada, Rv. 273905

Sez. 1, n. 53610 del 10/4/2017, Gorgone, n.m.

Sez. 1, n. 44193 del 11/10/2016, Dell’Utri, Rv. 267861

Sez. U, n. 42858 del 29/05/2014, Gatto, Rv. 260696

Sez. U, n. 34472 del 24/10/2013, Ercolano, Rv. 252933

Sez. U, n. 18288 del 12/01/2010, Beschi, Rv. 246651

Sez. U, n. 33478 del 12/07/2005, Mannino, Rv. 231671

Sentenze della Corte costituzionale

Corte cost., sent. n. 49 del 2015

Corte cost., sent. n. 236 del 2011

Corte cost., sent. n. 113 del 2011

Corte cost., sent. n. 93 del 2010

Corte cost., sent. n. 311 del 2009

Sentenze della Corte EDU

Corte EDU, sent. 01/09/2016, X e Y c. Francia

Corte EDU, sent. 14/4/2015 Contrada c. Italia

Corte EDU, sent. 10/10/2006, Pessino c. Francia

Corte EDU, sent. 22/09/1995, S.W. c. Regno Unito

SEZIONE VII ESECUZIONE

  • esecuzione della pena

CAPITOLO I

RECENTI QUESTIONI IN TEMA DI DIVIETO DI SOSPENSIONE DELL’ORDINE DI ESECUZIONE E DI CONCESSIONE DEI BENEFICI PENITENZIARI PER I CONDANNATI PER REATI OSTATIVI

(di Debora Tripiccione )

Sommario

1 L’origine dell’art. 4-bis ord. pen. e le sue successive modifiche. - 2 La compatibilità costituzionale. - 2.1 (segue) e convenzionale. - 3 L’inserimento dei reati contro la pubblica amministrazione: questioni di diritto intertemporale. - 4 Ulteriori questioni applicative: i reati aggravati ai sensi dell’art. 7 d.l. n. 152 del 1991. - 4.1 La portata del rinvio dell’art. 656, comma 9, cod. proc. pen. all’art. 4-bis ord. pen. - 5 Il presupposto dell’utile collaborazione. - 6 Lo scioglimento del cumulo in caso di provvedimento di unificazione di pene concorrenti comprendente un titolo per reato ostativo. - Indice delle sentenze citate

1. L’origine dell’art. 4-bis ord. pen. e le sue successive modifiche.

L’art. 4-bis ord. pen. fu introdotto con la legislazione emergenziale degli anni ’90 e, in particolare, con il d.l. 13 maggio 1991, convertito in legge 12 luglio 1991, n. 203 (provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata).

L’obiettivo perseguito era quello di introdurre una disciplina differenziata di carattere restrittivo per la concessione dei beneifici penitenziari, esclusa la liberazione anticipata, e delle misure alternative alla detenzione ai condannati per taluni gravi delitti, inizialmente riconducibili nell’ambito della criminalità oganizzata, comune o politica.

La norma prevede differenti condizioni di accesso distinguendo tre categorie di reati ostativi. Nella c.d. prima fascia, comprendente inizialmente l’associazione di tipo mafioso, i relativi “delitti-satellite”, il sequestro di persona a scopo di estorsione e l’associazione finalizzata al narcotraffico, l’accesso ai benefici e alle misure alternative è condizionato all’acquisizione di elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva e alla collaborazione con la giustizia (quest’ultima condizione fu introdotta subito dopo la strage di Capaci del 23 maggio 1992 con il d.l. n. 306 del 1992, convertito nella legge n. 356 del 1992) alla quale sono state successivamente equiparate, su impulso della Corte costituzionale (sentenze n. 68 del 1995, n. 357 del 1994 e n. 306 del 1993), la collaborazione impossibile e la collaborazione oggettivamente irrilevante (art. 4-bis, comma 1-bis, ord. pen.).

Il catalogo dei reati ricompresi in tale fascia è stato progressivamente ampliato dal legislatore attraverso l’introduzione di fattispecie criminose eterogenee, quali, in tema di immigrazione clandestina, il reato di cui all’art. 12, commi 1 e 3, d. lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (introdotto dal d.l. 18 febbraio 2015, n. 7, convertito in legge 17 aprile 2015, n. 43) e, da ultimo i reati contro la pubblica amministrazione di cui agli artt. 314, comma 1, 317, 318, 319, 319-bis, 319-ter, 319-quater, comma 1, 320, 321, 322, e 322-bis cod. pen. (introdotti dalla legge 9 gennaio 2019, n. 3).

Alla base di tale meccanismo vi è, dunque, la presunzione legislativa che la commissione di determinati delitti riveli l’appartenenza dell’autore alla criminalità organizzata o il suo collegamento con la stessa e costituisca indice di elevata pericolosità incompatibile con l’ammissione del condannato ai benefici penitenziari extramurari. La scelta di collaborare con la giustizia viene, pertanto, assunta, in questa prospettiva, come la sola idonea ad esprimere con certezza la volontà di emenda del condannato e, dunque, a rimuovere l’ostacolo alla concessione delle misure, in ragione della sua valenza “rescissoria” di tale legame.

Come sottolineato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 239 del 2014, a tale obiettivo si coniuga quello di incentivare, per ragioni investigative e di politica criminale generale, la collaborazione con la giustizia dei soggetti appartenenti o “contigui” ad associazioni criminose.

Nella c.d. seconda fascia si iscrivono, invece, i reati previsti dal comma 1-ter dell’art. 4-bis (tra cui quelli previsti dagli artt. 575, 600-bis, commi 2 e 3, 628, comma 3 e 629 comma 2, cod. pen.), anch’essi oggetto di progressivo ampliamento, in relazione ai quali, come rilevato dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 253 del 2019, le connessioni con la criminalità organizzata, nelle valutazioni del legislatore, sono reputate meramente eventuali sicché il superamento della presunzione di pericolosità è condizionato - in termini inversi, dal punto di vista probatorio rispetto alle fattispecie di “prima fascia” - alla insussistenza di elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva.

Nella c.d. terza fascia si iscivono, infine, i delitti di cui agli artt. 600-bis, 600-ter, 600-quater, 600-quinquies, 609-bis, 609-ter, 609-quater, 609-quinquies, 609-terdecies, 609-octies e 609-undecies, cod. pen., per i quali i benefici possono essere concessi solo sulla base dei risultati dell’osservazione scientifica della personalità condotta collegialmente in istituto per almeno un anno.

2. La compatibilità costituzionale.

La Corte costituzionale è stata più volte chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale di tale disciplina soprattutto in relazione alla possibile frizione con l’art. 27, comma 3, Cost.

In linea di principio, quanto alla prevalenza accordata dalla disciplina in esame alle finalità di prevenzione generale e di difesa sociale, già con la sentenza n. 306 del 1993 la Corte costituzionale ha innanzitutto ribadito «che tra le finalità che la Costituzione assegna alla pena - da un lato, quella di prevenzione generale e difesa sociale, con i connessi caratteri di afflittività e retributività, e, dall’altro, quelle di prevenzione speciale e di rieducazione, che tendenzialmente comportano una certa flessibilità della pena in funzione dell’obiettivo di risocializzazione del reo - non può stabilirsi a priori una gerarchia statica ed assoluta che valga una volta per tutte ed in ogni condizione (cfr. sentenza n. 282 del 1989). Il legislatore può cioè - nei limiti della ragionevolezza - far tendenzialmente prevalere, di volta in volta, l’una o l’altra finalità della pena, ma a patto che nessuna di esse ne risulti obliterata.».

Successivamente, in tema di liberazione condizionale, la Corte costituzionale ha escluso il contrasto con la funzione rieducativa della pena dell’art. 4-bis, comma 1, primo periodo, ord. pen. che ne condiziona la concessione alla collaborazione con la giustizia. Ad avviso del Giudice delle leggi, infatti, tale disciplina non preclude in modo automatico, assoluto e definitivo l’accesso al beneficio, ma consente al condannato - che sia nelle condizioni oggettive e giuridiche di farlo - di scegliere se collaborare o non ed eventualmente di cambiare la propria scelta (Corte cost. n. 135 del 2003).

Un importante segnale di frattura con tale linea ermeneutica si è avuto con la sentenza n. 239 del 2014 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale per violazione degli artt. 3, 29, 30 e 31 Cost. dell’art. 4-bis, comma 1, ord. pen. nella parte in cui non esclude dal divieto di concessione dei benefici penitenziari sia la misura della detenzione domiciliare speciale prevista dall’art. 47-quinquies ord. pen. che la detenzione domiciliare prevista dall’art. 47-ter, comma 1, lett. a ) e b ), della medesima legge, ferma restando la condizione dell’insussistenza di un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti.

Secondo la Corte costituzionale, infatti, la scelta legislativa di accomunare fattispecie tra loro profondamente diversificate contrasta con i parametri costituzionali sopra indicati alla luce della ratio storica primaria del regime in questione nonché della diversa finalità sottesa ai benefici penitenziari ivi ricompresi. Rileva, infatti, la Corte che nella misura della detenzione domiciliare speciale, pur essendo presente una finalità di reinserimento sociale del condannato, costituente l’obiettivo comune di tutte le misure alternative alla detenzione, assume un rilievo del tutto prioritario l’interesse di un soggetto debole, distinto dal condannato e particolarmente meritevole di protezione, quale quello del minore in tenera età ad instaurare un rapporto quanto più possibile “normale” con la madre (o, eventualmente, con il padre) in una fase nevralgica del suo sviluppo. Ad avviso della Corte, dunque, la subordinazione dell’accesso alle misure alternative ad un indice legale del “ravvedimento” del condannato (la condotta collaborativa) può risultare giustificabile quando si discute di misure che hanno di mira, in via esclusiva, la risocializzazione dell’autore della condotta illecita, mentre cessa di esserlo quando al centro della tutela si collochi, come nel caso della detenzione domiciliare speciale, un interesse “esterno” ed eterogeneo.

Il regime delle preclusioni introdotto dall’art. 4-bis è stato oggetto di una ulteriore censura con la sentenza n. 149 del 2018 con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 58-quater, ord. pen. che stabilisce una preclusione assoluta alla concessione dei benefici previsti dal comma 1 dell’art. 4-bis per i condannati all’ergastolo per i delitti di cui all’art. 289-bis e 630 cod. pen. che abbiano cagionato la morte del sequestrato se non abbiano effettivamente espiato almeno ventisei anni (la norma prevede, invece, il limite dei due terzi della pena irrogata in caso di pena temporanea).

Secondo il Giudice delle leggi, infatti, il carattere automatico della preclusione temporale all’accesso ai benefici penitenziari per i condannati all’ergastolo, impedendo al giudice qualsiasi valutazione individualizzata sul concreto percorso compiuto dal condannato durante l’esecuzione della pena stessa, in ragione soltanto del titolo di reato che supporta la condanna, contrasta con la finalità rieducativa della pena, finalità che sottende anche la pena dell’ergastolo. La Corte ha, infatti, precisato che la propria costante giurisprudenza «ha indicato come criterio «costituzionalmente vincolante» quello che esclude «rigidi automatismi e richiede sia resa possibile invece una valutazione individualizzata e caso per caso» nella materia dei benefici penitenziari (sentenza n. 436 del 1999), in particolare laddove l’automatismo sia connesso a presunzioni iuris et de iure di maggiore pericolosità legate al titolo del reato commesso (sentenza n. 90 del 2017), giacché ove non fosse consentito il ricorso a criteri individualizzanti «l’opzione repressiva finirebbe] per relegare nell’ombra il profilo rieducativo» (sentenza n. 257 del 2006), instaurando di conseguenza un automatismo «sicuramente in contrasto con i principi di proporzionalità ed individualizzazione della pena» (sentenza n. 255 del 2006; in senso conforme, sentenze n. 189 del 2010, n. 78 del 2007, n. 445 del 1997, n. 504 del 1995)».

Con la successiva sentenza del 9 ottobre 2019, n. 229 la Corte Costituzionale, rimuovendo la disparità di trattamento venuta a crearsi in relazione ai condannati a pena temporanea per i medesimi titoli di reato, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 58-quater, comma 4, ord. pen. nella parte in cui si applica ai condannati a pena detentiva temporanea per i delitti di cui agli artt. 630 e 289-bis cod. pen. che abbiano cagionato la morte del sequestrato. La Corte ha, infatti, rilevato che, per effetto della precedente sentenza n. 149 del 2018, mentre i condannati alla pena dell’ergastolo che abbiano cagionato la morte del sequestrato, possono accedere al beneficio del permesso premio, in caso di collaborazione o condizioni equiparate, dopo aver espiato dieci anni di pena, riducibili sino a otto anni grazie alla liberazione anticipata, i condannati a pena detentiva temporanea per il medesimo titolo delittuoso possono, invece, accedere al predetto beneficio, a parità di condizioni quanto alla collaborazione con la giustizia, solo dopo aver scontato i due terzi della pena inflitta, senza poter beneficiare di alcuna riduzione di tale termine a titolo di liberazione anticipata.

In continuità con tale linea ermeneutica volta a superare ogni automatismo, privilegiando la flessibilità ed il carattere individualizzato della valutazione giudiziale, la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 253 del 2019, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, ord. pen. nella parte in cui non prevede che ai detenuti per i delitti di cui all’art. 416-bis cod. pen. e per quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo o al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste - nonché, in via conseguenziale, anche per gli altri delitti previsti dalla norma – possano essere concessi permessi premio anche in assenza della collaborazione con la giustizia ai sensi dell’art. 58-ter del medesimo ord. pen., allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, sia il pericolo di ripristino di tali collegamenti.

La questione è stata rimessa alla Corte costituzionale con l’ordinanza n. 57913 emessa dalla Sez. 1 il 20/11/2018, Cannizzaro, Rv. 274659 (seguita da analoga ordinanza emessa dal Tribunale di Sorveglianza di Perugia il 28 maggio 2019). Nella fattispecie concreta sottoposta all’esame del Giudice di legittimità il magistrato di sorveglianza aveva dichiarato inammissibile la domanda di permesso premio ex art. 30-ter ord. pen. – per la cui concessione è necessario che i condannati all’ergastolo abbiano scontato almeno dieci anni, abbiano tenuto in carcere una regolare condotta e non siano socialmente pericolosi - presentata da un detenuto, che espiava la pena dell’ergastolo con isolamento diurno, per carenza del requisito della collaborazione con la giustizia. La Corte ha innanzitutto analizzato il requisito della pericolosità sociale alla luce della giurisprudenza della Corte Costituzionale che, in relazione all’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., ha ritenuto le presunzioni assolute, ove limitative dei diritti fondamentali, in contrasto con il principio di uguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali ovvero «se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit» (Corte cost. n. 57 del 2013; Corte cost. n. 48 del 2015).

Alla luce di tali principi, la Corte ha, dunque, dubitato della ragionevolezza della disposizione che, senza consentire al giudice di verificare in concreto la permanenza delle condizioni di pericolosità sociale, sulla base della scelta di non collaborare con la giustizia – che può essere dettata da ragioni che prescindono dal percorso rieducativo - preclude ad un’ampia categoria di condannati per fattispecie criminose eterogenee, senza distinguere, in particolare, tra gli affiliati a un’organizzazione mafiosa e gli autori di un delitto commesso avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis cod. pen., il diritto di ricevere un trattamento penitenziario rivolto alla risocializzazione. In particolare, la Corte ha ritenuto che l’innalzamento della scelta collaborativa a prova legale non solo del ravvedimento, ma anche dell’assenza di pericolosità, non tiene conto della diversità strutturale del permesso premio ex art. 30-ter ord. pen. e condiziona negativamente il trattamento del detenuto in violazione dell’art. 27 Cost.

La Corte costituzionale, nel ritenere fondata tale questione, ha innanzitutto perimetrato l’oggetto del giudizio alla sola legittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, ord pen. - nella parte in cui preclude l’accesso ai permessi premio ai condannati per i reati di partecipazione ad associazione mafiosa o e di “contesto mafioso” che non collaborino con la giustizia - escludendo che la valutazione di compatibilità costituzionale riguardi l’intera disciplina del c.d. ergastolo ostativo (questione che, rileva ancora la Corte, sarebbe, invece, rientrata nell’oggetto del giudizio ove le ordinanze di rimessione avessero investito anche l’art. 2, comma 2, d.l. 13 maggio 1991, n. 152, convertito con modificazioni nella legge 12 luglio1991, n. 203 che, richiamando l’art. 176 cod. pen., non consente di concedere la liberazione condizionale al condannato all’ergastolo che non collabora con la giustizia e che abbia già scontato ventisei anni effettivi di carcere, così trasformando la pena perpetua de iure in pena perpetua de facto.)

Ciò premesso, ad avviso della Corte, la presunzione di attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, introdotta all’art. 4-bis, comma 1, ord. pen., non è di per sé costituzionalmente illegittima – non essendo irragionevole presumere che il condannato che non collabora mantenga vivi i legami con l’organizzazione criminale di originaria appartenenza – tuttavia, il suo carattere assoluto si pone in contrasto con gli artt. 3 e 27, comma 3, Cost.

Secondo il Giudice delle leggi, infatti, vengono in rilievo tre distinti e complementari profili:

alla assolutezza della presunzione sono collegate esigenze investigative, di politica criminale e di sicurezza collettiva che incidono sull’esecuzione della pena, con conseguenze ulteriormente afflittive per il detenuto non collaborante.

Tale assolutezza impedisce, inoltre, di valutare il percorso carcerario del condannato, secondo criteri individualizzanti che tengano conto anche delle ragioni che hanno indotto il detenuto al silenzio, in contrasto con la funzione rieducativa della pena.

L’assolutezza di tale presunzione si basa su una generalizzazione che può, invece, essere contraddetta, a determinate rigorose condizioni, dalla formulazione di allegazioni contrarie che ne smentiscono il presupposto e che devono poter essere oggetto di specifica ed individualizzante valutazione da parte della magistratura di sorveglianza.

Quanto al primo profilo, la Corte rileva, infatti, come la disciplina in esame prefiguri sostanzialmente uno scambio tra informazioni utili a fini investigativi e la conseguente possibilità di accedere ad un normale percorso di trattamento penitenziario, ricollegando alla scelta compita dal detenuto un aggravio o un’agevolazione del trattamento carcerario. Sollecitata dall’ordinanza di rimessione in merito alla rilevanza del diritto al silenzio nella fase esecutiva della pena, la Corte costituzionale - richiamando la propria precedente giurisprudenza (Corte Cost. n. 165 del 2008, n. 282 del 2008 e n. 33 del 2002) che lo ha considerato quale «corollario essenziale del diritto di difesa riconosciuto dall’art. 24 Cost.» - ha, altresì, aggiunto che l’attuale formulazione dell’art. 4-bis, comma 1, ord. pen., anche in nome di prevalenti esigenze di carattere investigativo e di politica criminale, «opera una deformante trasfigurazione della libertà di non collaborare ai sensi dell’art. 58-ter or. pen.». che, garantita nel processo quale vero e proprio diritto, si trasforma in fase esecutiva quale condizione di accesso ai benefici penitenziari, ponendo al detenuto un gravoso onere che non solo richiede la denuncia a carico di terzi, ma rischia di determinare autoincriminazioni per fatti non ancora giudicati.

Quanto al secondo profilo, la Corte ha considerato che il permesso-premio, almeno per le pene medio-lunghe, costituisce parte del programma trattamentale e ed assolve ad una funzione “pedagogico-propulsiva” (si richiamano le sentenze n. 504 del 1995, 445 del 1997, e n. 257 del 2006), permettendo al detenuto di fruire dei primi spazi di libertà ed agli operatori penitenziari di osservarne gli effetti. La preclusione assoluta conseguente alla scelta non collaborativa finisce, ad avviso della Corte, per relegare nell’ombra il profilo rieducativo, in contrasto con i principi di proporzionalità e individualizzazione della pena.

Quanto al terzo profilo, la Corte costituzionale, pur riconoscendo l’importanza delle ragioni che si pongono alla base della presunzione assoluta di collegamento del detenuto con l’associazione mafiosa, ha affermato che la ragione che induce a riconoscerne il carattere relativo si fonda sul ruolo centrale che nella fase esecutiva della pena assume il trascorrere del tempo cui possono accompagnarsi rilevanti trasformazioni sia della personalità del detenuto che del contesto esterno al carcere (essendo possibile ipotizzare che l’associazione criminale di riferimento non esista più «perché interamente sgominata o per naturale estinzione.»). Da ciò consegue, dunque, l’irragionevolezza di una presunzione che, a prescindere da tale valutazione in concreto, presupponga l’immutabilità sia della personalità del condannato che del contesto esterno di riferimento, in contrasto con gli artt. 3 e 27, comma 3, Cost.

Una volta riconosciuto il carattere relativo della presunzione di attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, la Corte costituzionale ha posto l’accento sul regime probatorio rafforzato, condizionante l’accesso al beneficio, fondato sull’acquisizione di stringenti informazioni non solo sull’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, indicato quale criterio costituzionalmente necessario per superare il carattere assoluto della presunzione rinvenibile nella formulazione anche attuale dell’art. 4-bis ord. pen., ma anche sugli elementi che escludono il pericolo di un loro ripristino, tenuto conto delle concrete circostanze personali ed ambientali.

Quanto alla fonte di tali elementi, la Corte costituzionale, nel precisare che sul condannato grava un mero onere di allegazione, ha escluso l’idoneità, ai fini del superamento della presunzione relativa, della sola regolare condotta carceraria, della mera partecipazione al percorso rieducativo o di una soltanto dichiarata dissociazione, essendo, invece, imprescindibile l’acquisizione di altri, congrui, specifici elementi. La magistratura di sorveglianza deciderà, dunque, sulla base di specifiche informazioni, provenienti dal competente comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica nonché dalla comunicazione del Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo o del Procuratore distrettuale, fermo restando che, conclude, infine, la Corte costituzionale, in caso di informazioni negative, incombe sullo stesso detenuto l’onere di fornire veri e propri elementi di prova a sostegno della sua istanza non potendosi, in tal caso, limitare alla sola allegazione degli elementi a favore.

Va, infine, precisato che, benché le ordinanze di rimessione si riferissero ai reati di criminalità organizzata di matrice mafiosa (delitti di cui all’art. 416-bis cod. pen. e commessi avvalendosi delle condizioni previste da tale norma o al fine di agevolare l’attività delle associazioni in essa previste), la Corte costituzionale ha ritenuto di estendere il profilo di illegittimità costituzionale relativo al carattere assoluto della presunzione anche alla medesima disciplina prevista per le altre fattispecie delittuose previste dall’art. 4-bis, comma 1, ord. pen.

Va, infine, aggiunto che nell’anno in corso, Sez. 1, n. 9126 del 18/2/2019, Marchi, Rv. 274883 ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 47-ter, ord. pen., con riferimento alla irragionevolezza della presunzione assoluta di pericolosità sottesa alla condanna per un reato ostativo ed al suo contrasto con la funzione rieducativa della pena, nella parte in cui preclude ai condannati per i reati di cui all’art. 4-bis ord. pen. l’accesso alla particolare forma di detenzione domiciliare prevista per le pene detentive inferiori a due anni di reclusione, senza riservare alcuna rilevanza alla concreta pericolosità del soggetto, così violando i principi della personalità e finalità rieducativa della pena e di progressività del trattamento penitenziario.

2.1. (segue) e convenzionale.

Anche la Corte Edu si è più volte pronunciata sul tema della compatibilità convenzionale della pena dell’ergastolo, soprattutto con l’art. 3 della Convenzione che pone il divieto tortura e di pene o trattamenti inumani e degradanti (Corte Edu 12/2/2008, Kafkaris c. Cipro; Corte Edu 11/10/2011 Schuchter c. Italia; Corte Edu 17/1/2012 Vinter e altri c. Regno Unito). In linea generale, la Corte ha affermato che la condanna alla pena dell’ergastolo di un delinquente adulto di per sé non contrasta con l’art. 3 CEDU o altra disposizione, a condizione che non si tratti di una pena irridicubile (Corte Edu 12/2/2008, Kafkaris c. Cipro, § 97) che privi il condannato della possibilità di essere liberato (Corte Edu, Nivette c. Francia, Einhorn c. Francia; Stanford c. Regno Unito del 12 dicembre 2002, e Wynne c. Regno Unito del 22 maggio 2003). Secondo la giurisprudenza della Corte Edu, infatti, la Convenzione non conferisce al condannato un diritto ad essere liberato sotto condizione né quello di veder riesaminare la propria pena dalle autorità interne, giudiziarie o amministrative, in vista di un condono o di una interruzione definitiva di quest’ultima (Kafkaris sopra citata, § 98); tuttavia, le esigenze sottese al divieto di cui all’art. 3 CEDU richiedono che il diritto nazionale offra la possibilità di rivedere la pena a vita allo scopo di commutarla, sospenderla o di porvi fine o ancora di liberare il detenuto sotto condizione, nonostante il carattere extragiudiziario della procedura.

Il tema della irriducibilità della pena è stato successivamente ripreso dalla recente sentenza della Corte Edu del 12 giugno 2019 per affermare l’incompatibilità con l’art. 3 della Cedu dell’ergastolo ostativo (Viola c. Italia). Tale sentenza, peraltro, è oggi definitiva a seguito della decisione della Grande Camera che all’udienza del 9 ottobre 2019 ha respinto la richiesta di rinvio presentata dal Governo Italiano ai sensi dell’art. 43, §1, della CEDU.

Nel caso concreto, la Corte ha ritenuto sussistente la violazione dell’art. 3 CEDU in relazione al trattamento subito dal ricorrente, il quale, condannato all’ergastolo con isolamento diurno per reati ostativi ai sensi dell’art. 4-bis, comma 1, ord. pen. (tra cui, il reato di cui all’art. 416-bis cod. pen.), dopo essere stato sottoposto per più di cinque anni al regime detentivo speciale di cui all’art. 41-bis ord. pen., si era visto respingere le richieste di permesso premio e di liberazione condizionale, nonostante le positive relazioni trattamentali, in considerazione della mancanza dei presupposti previsti dalla norma, difettando, in particolare, la condizione dell’utile collaborazione o della collaborazione impossibile.

La Corte Edu, pur considerando che la legislazione nazionale non preclude in maniera assoluta l’accesso alla libertà condizionata e agli altri benefici previsti dal sistema penitenziario, ha focalizzato l’attenzione sulla condizione della collaborazione con la giustizia, esprimendo perplessità sia sulla esistenza di una libertà di scelta al riguardo sia sulla opportunità di stabilire un’equivalenza tra la mancanza di collaborazione e la pericolosità sociale del condannato. Ad avviso della Corte Edu, infatti, la mancanza di collaborazione non può essere sempre imputata ad una scelta libera e volontaria, né giustificata soltanto dalla persistenza dell’adesione ai «valori criminali» ed al mantenimento di legami con il gruppo di appartenenza. Osserva, inoltre, la Corte che la stessa scelta collaborativa, oltre che dettata da finalità utilitaristiche, potrebbe non rispondere ad un’effettiva dissociazione del condannato dall’ambiente criminale.

Tali considerazioni, prosegue la Corte Edu, unitamente all’analisi dei principi ispiratori del sistema penitenziario italiano, fondato sulla progressività del trattamento carcerario, finiscono, dunque, per minare la stabilità del rapporto di equivalenza tra l’assenza di collaborazione e la presunzione inconfutabile di pericolosità sociale. In particolare, con riferimento al caso concreto, ad avviso della Corte, tale presunzione ha privato il ricorrente della prospettiva realistica di liberazione, rendendo la sua condizione in contrasto con l’art. 3 CEDU: ciò in quanto, da un lato, non è consentita alcuna possibilità di dimostrare che non sussiste più alcun motivo legittimo che giustifichi il suo mantenimento in detenzione e, dall’altro, si ancora la presunzione di pericolosità al momento di commissione dei fatti senza considerare del percorso di reinserimento e dei progressi eventualmente compiuti a partire dalla condanna.

Al di là delle specifiche circostanze del caso concreto, con la sentenza Viola la Corte Edu ha riscontrato una violazione di carattere strutturale dell’art. 3 CEDU conseguente al fatto che «la presunzione inconfutabile di pericolosità, prevista in materia di ergastolo per i reati di cui all’articolo 4 bis della legge sull’ordinamento penitenziario, derivante dall’assenza di collaborazione con la giustizia, rischia di privare i condannati per tali reati di qualsiasi prospettiva di liberazione e della possibilità di ottenere un riesame della pena.»

In ragione della natura della violazione riscontrata, prosegue, infine, la Corte Edu, «lo Stato deve mettere a punto, preferibilmente su iniziativa legislativa, una riforma del regime della reclusione a vita che garantisca la possibilità di un riesame della pena, il che permetterebbe alle autorità di determinare se, durante l’esecuzione di quest’ultima, il detenuto si sia talmente evoluto e abbia fatto progressi tali verso la propria correzione che nessun motivo legittimo in ordine alla pena giustifichi più il suo mantenimento in detenzione, e al condannato di beneficiare così del diritto di sapere ciò che deve fare perché la sua liberazione sia presa in considerazione e quali siano le condizioni applicabili.»

3. L’inserimento dei reati contro la pubblica amministrazione: questioni di diritto intertemporale.

La legge 9 gennaio 2019, n. 3 (c.d. spazzacorrotti) ha ulteriormente ampliato il catalogo dei reati di “prima fascia” includendo nel comma 1 dell’art. 4-bis ord. pen. i reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione previsti dagli artt. agli artt. 314, comma 1, 317, 318, 319, 319-bis, 319-ter, 319-quater, comma 1, 320, 321, 322, e 322-bis cod. pen.

Secondo quanto emerge dalla Relazione ministeriale, la ratio della modifica normativa è quella di spezzare la catena di omertà che solitamente circonda tali fattispecie criminose, specialmente le ipotesi corruttive, subordinando, così, l’accesso ai benefici penitenziari previsti dall’art. 4-bis al presupposto della collaborazione con la giustizia, o della collaborazione impossibile o irrilevante.

L’inclusione di tali reati nel catalogo dei reati ostativi ha determinato, quale effetto immediato, l’estensione del divieto di sospensione dell’esecuzione previsto dall’art. 656, comma 9, lett. a), cod. proc. pen. Tuttavia l’assenza di una disciplina transitoria ha subito fatto emergere il problema della disciplina applicabile per le sentenze emesse prima dell’entrata in vigore della legge n. 3 del 2019.

La soluzione della questione postula, innanzitutto la soluzione di un problema di fondo sulla natura sostanziale o processuale delle disposizioni che attengono all’esecuzione della pena e, in particolare dell’art. 4-bis, comma, 1, ord. pen., richiamata dall’art. 656, comma 9, lett. a) cod. proc. pen. in funzione anticipatoria degli effetti.

Ove, infatti, si riconosca la natura di norma sostanziale incidente sulla qualità della pena, la stessa rientrerebbe nella sfera di operatività dell’art. 25, comma 2, Cost. cosicchè dovrebbe trovare applicazione la disciplina dell’art. 2 cod. pen. In tal caso, dunque, la nuova disciplina che preclude la sospensione dell’esecuzione per i delitti contro la p.a. contemplati all’art. 4-bis ord. pen. dovrebbe applicarsi ai soli reati commessi successivamente all’entrata in vigore della legge n. 3 del 2019.

Diversamente, ove si affermi la natura processuale della norma, dovrebbe trovare applicazione il principio tempus regit actum, secondo cui la validità degli atti è regolata dalla legge in vigore al tempo della loro formazione.

La giurisprudenza di legittimità, uniformandosi al principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite Lista con la sentenza n. 24561 del 30/05/2006, Rv. 233976, aderisce alla tesi della natura processuale. Secondo quanto chiarito dalle Sezioni Unite, infatti, tali disposizioni, non riguardando l’accertamento del reato e l’irrogazione della pena, ma soltanto le modalità esecutive della stessa, non hanno carattere di norme penali sostanziali e, pertanto (in assenza di una specifica disciplina transitoria), soggiacciono al principio “tempus regit actum”, e non alle regole dettate in materia di successione di norme penali nel tempo dall’art. 2 cod. pen., e dall’art. 25 della Costituzione.

Quanto alla nozione di “atto”, il Supremo consesso ha chiarito che la stessa non può coincidere con l’intero processo, ma deve essere rapportata “allo stesso grado di atomizzazione che presentano le concrete e specifiche vicende disciplinate dalla norma processuale coinvolta nella successione”. Ciò, tuttavia, non significa avallare una nozione indifferenziata di “atto” processuale, poiché, precisano le Sezioni Unite, al fine di stabilire correttamente il regime applicabile, deve aversi riguardo anche alle “dimensioni temporali” del medesimo in base al quale è necessario distinguere tre categorie di atti: 1) l’atto con effetti istantanei; 2) l’atto che, pur essendo di esecuzione istantanea, presuppone una fase di preparazione e di deliberazione più o meno lunga ed è strettamente ancorato ad altro atto che lo legittima e che finisce con l’assumere rilievo centrale; 3) l’atto che ha “carattere strumentale e preparatorio” rispetto ad una successiva attività del procedimento, con la quale va a integrarsi e completarsi in uno spazio temporale anch’esso più o meno ampio, dando luogo ad una fattispecie processuale complessa.

Sulla base di tale nozione di “atto”, letta alla luce del principio dell’affidamento, Sez. 1, n. 25212 del 3/5/2019, Pullo, Rv. 276144, pur ribadendo la natura processuale della norma che dispone il divieto di sospensione dell’esecuzione, ha specificato che l’atto cui fare riferimento, ai fini della individuazione del regime normativo applicabile, deve essere individuato nella sospensione dell’ordine di esecuzione ove alla stessa sia seguita dall’istanza di misura alternativa. Ad avviso della Corte, infatti, la sospensione dell’ordine di esecuzione rientra nella categoria degli atti a spiccato carattere strumentale che si inserisce in una più ampia fattispecie di natura complessa, costituita, oltre che dalla sospensione, dalla richiesta di misura alternativa e dalla decisione del tribunale di sorveglianza. Per tale ragione, la Corte ha ritenuto che nei casi in cui, prima dell’entrata in vigore della legge n. 3 del 2019, siano stati emessi l’ordine di esecuzione ed il contestuale provvedimento di sospensione, seguiti dalla richiesta di concessione di misure alternative, l’atto complesso è stato già compiuto cosicché il provvedimento di sospensione dell’esecuzione non può essere revocato sulla base della nuova disciplina.

Tale principio è stato ulteriormente ampliato da Sez. 1, n. 39609 del 9/7/2019, Coci, Rv. 276946, che, alla luce del diritto - sotteso alle regole del giusto processo (artt. 111 Cost. e 6 CEDU) - al mantenimento, nell’ambito di ciascun segmento processuale omogeneo, delle iniziali “regole del gioco”, specie se esse hanno costituito la base di specifiche scelte processuali, ha ritenuto sufficiente, ai fini dell’individuazione del regime temporale applicabile, la sola sospensione dell’ordine di esecuzione, indipendentemente dal fatto che la richiesta di misura alternativa sia stata presentata successivamente all’entrata in vigore della nuova disciplina (conf. Sez. 1, n. 43280 del 25/09/2019, Fogliamanzillo). La pendenza del rapporto esecutivo, avviato con l’emissione dell’ordine di carcerazione con contestuale decreto di sospensione determina, dunque, lo statuto normativo applicabile, secondo il disposto dell’art. 11 disp. prel. cod. civ. (Sez. 1, n. 48499 del 20/9/2019, Vitale).

Nella giurisprudenza di merito sono, invece, emersi diversi orientamenti: da un lato, sono state sollevate numerose questioni di costituzionalità - ora dell’art. 1, comma 6, lett. b), della legge n. 3 del 2019, nella parte in cui ha modificato l’art. 4-bis, comma 1, ord. pen., ora direttamente dell’art. 656, comma 9, lett. a) cod. proc. pen, con riferimento alla carenza di una disciplina transitoria - mentre, dall’altro, si è prospettata, un’interpretazione volta a superare il “diritto vivente” delle Sezioni Unite, fondata sulla considerazione che anche le modalità di esecuzione rappresentano la sostanza della pena.

In particolare, in tutti i provvedimenti di rimessione (Corte di Appello di Lecce, ordinanza del 27 marzo 2019; Tribunale di Sorveglianza di Venezia, ordinanza del 2 aprile 2019; Tribunale di Brindisi, ordinanza del 17 aprile 2019; Corte di Appello di Palermo, ordinanza del 29 maggio 2019) si è posto l’accento sulla frizione della nuova disciplina, introdotta “a sorpresa” e senza disposizione transitorie, con i principi costituzionali consacrati agli artt. 3, 24, 25 e 117 Cost., avuto riguardo all’art. 7 CEDU.

Con riferimento alla sospetta violazione del principio di legalità, costituzionale e convenzionale, si è, infatti, rilevato che il mutamento in itinere delle regole sull’esecuzione della pena per i reati contro la pubblica amministrazione, senza la previsione di una disciplina transitoria, ha determinato un passaggio a sorpresa e non prevedibile al momento della commissione del reato ad una sanzione con necessaria incarcerazione, vanificando, così, il legittimo affidamento del condannato a vedersi sospeso l’ordine di esecuzione della pena detentiva in caso di condanna ad una pena inferiore a quattro anni di reclusione. Si afferma, infatti, che le modifiche normative hanno determinato una vera e propria trasformazione della tipologia di pena eseguibile, con l’obiettivo di un suo inasprimento.

Alcuni arresti della giurisprudenza di merito hanno, invece, ritenuto la natura sostanziale dell’art. 656, comma 9, cod. proc. pen. in considerazione della sua diretta incidenza sulla natura afflittiva della pena. Tale orientamento riprende l’approccio in chiave sostanzialistica espresso dalla stessa Corte Edu con la sentenza del 9 febbraio 2005, Welch c. Regno Unito, in cui la Corte sottolinea la necessità di valutare ai fini della qualificazione di una data misura come pena se essa sia stata imposta a seguito di condanna, la natura e lo scopo della misura, la sua qualificazione nel diritto interno, le procedure correlate alla sua adozione ed esecuzione e la sua severità. Si è, dunque, affermato che l’applicazione della nuova disciplina contenuta all’art. 656, comma 9, cod. proc. pen. a colui che ha commesso il fatto prima della sua approvazione, non si riverbera solo sulla modalità di esecuzione della pena, ma sulla stessa natura della sanzione di cui impone l’iniziale esecuzione, con conseguente esposizione del condannato ai rischi desocializzanti e criminogeni del passaggio in carcere, anche se il soggetto risulterà meritevole di accedere ad una misura alternativa.

Tale ultima interpretazione è stata disattesa dalla Corte di cassazione che, tuttavia, con l’ordinanza n. 31853 del 18/06/2019, Pascali, ha sollevato la questione di legittimità costituzionale, con riferimento agli artt. 3 e 27 Cost., dell’art.1, comma 6, lett. b), della legge 9 gennaio 2019, n. 3, nella parte in cui inserisce nel catalogo di cui all’art. 4-bis, comma 1, ord. pen. il riferimento al delitto di peculato di cui all’art. 314, comma 1, cod. pen.

Quanto al tema del diritto transitorio, la Corte ha escluso un contrasto con il principio di legalità sia costituzionale che convenzionale in quanto la modifica dell’art. 4-bis, ord. pen. e, di riflesso, della disposizione contenuta all’art. 656, comma 9, lett. a) cod. proc. pen., non preclude l’accesso alle misure alternative per i condannati per i delitti ostativi, ma ne modifica, sia pure in termini peggiorativi, le condizioni legali di accesso, senza incidere sulla tipologia della sanzione penale né della sua durata (si richiamano, a tal fine, le sentenze della Corte Edu nei casi Scoppola c. Italia e Del Rio Prada c. Italia). In particolare, quanto ai canoni di accessibilità e prevedibilità, la Corte ha escluso che la predeterminazione legale delle possibilità di accesso alle misure alternative possa avere una funzione di orientamento della condotta del soggetto, e, pur ribadendo la natura processuale delle disposizioni in esame, si è, tuttavia, interrogata sulla ragionevolezza della presunzione legale di persistente ed accentuata pericolosità del condannato per il delitto di peculato, che ne ha fondato l’inclusione nel catalogo dei reati ostativi di cui all’art. 4-bis con tutte le conseguenze in punto di limitazione della discrezionalità del giudice in tema di accesso alle misure alternative. Alla base della questione di costituzionalità vi è proprio la riscontrata carenza di una congrua base logico-empirica capace di giustificare siffatta presunzione di accentuata e persistente pericolosità dell’autore del peculato, trattandosi di una condotta di approfittamento di una preesistente situazione di fatto per fini di arricchimento personale, connotata dall’assenza dell’uso di violenza o minaccia, che la rendono difficilmente inquadrabile in «contesti di criminalità organizzata o evocativi di comportamenti omertosi».

Sotto tale profilo viene, dunque, in rilievo la possibile frizione non solo con il principio di uguaglianza, ma anche con il principio della finalità rieducativa della pena atteso che l’inclusione del reato nel catalogo di quelli ostativi ne comporta l’attrazione in un sottosistema che, al di là dei profili di gravità della condotta e del concreto trattamento sanzionatorio irrogato, rende marginale la discrezionalità del giudice, privilegiando l’aspetto di prevenzione generale a fini di deterrenza.

Sez. F, n. 45319 del 7/11/2019, Binetti, (in corso di massimazione) ha, infine, escluso che il giudice dell’esecuzione, dopo avere sollevato una questione di costituzionalità analoga a quella sollevata dalla Corte di cassazione, possa sospendere l’efficacia dell’ordine di carcerazione emesso dal p.m., anticipando gli effetti di un eventuale pronuncia favorevole della Corte costituzionale.

4. Ulteriori questioni applicative: i reati aggravati ai sensi dell’art. 7 d.l. n. 152 del 1991.

Nell’anno in corso la Corte si è nuovamente pronunciata sul carattere ostativo dei reati aggravati ai sensi dell’art. 7 d.l. 13 maggio 1991, n. 152 convertito nella legge 12 luglio 1991, n. 203. In linea di continuità con la precedente giurisprudenza, Sez. 1, n. 473 del 10/07/2018 (dep. 8/1/2019), Iacovelli, Rv. 276156, ha affermato che il divieto di concessione dei benefici penitenziari opera anche quando l’aggravante non sia stata formalmente contestata, ma sia verificata come sussistente attraverso l’esame del contenuto della sentenza di condanna, dovendosi avere riguardo alla qualificazione sostanziale dei delitti giudicati (Conf. tra le altre, Sez. 1, n. 40043 del 5/7/2013, Parabita, Rv. 257408; Sez. 1, n. 4091 del 7/1/2010, Dragone, Rv. 246053).

Tale principio di diritto muove dalla consolidata linea ermeneutica che attribuisce al giudice dell’esecuzione, al magistrato e al tribunale di sorveglianza, il potere-dovere di interpretare il giudicato e di renderne espliciti il contenuto e i limiti, ricavando dalla sentenza irrevocabile di condanna tutti gli elementi, anche non chiaramente espressi, che siano necessari per il normale esercizio delle funzioni loro attribuite (si veda, da ultimo, Sez. 1, n. 14984 del 13/03/2019, Versaci, Rv. 275063).

Un isolato arresto, espresso da Sez. 1, n.42815 del 6/5/2016, Incognito, Rv. 268334, ha, invece, ritenuto escluso tale potere di interpretazione della sentenza di condanna ai fini della eventuale rilevanza “ostativa” dell’aggravante in esame, qualora non formalmente contestata né riconosciuta sussistente dal giudice della cognizione.

Sez. 1, n. 33565 del 21/05/2019, Commisso, Rv. 276496, ponendosi in posizione di consapevole contrasto con tale arresto, ha innanzitutto posto l’accento sulla lettera dell’art. 4-bis ord. pen rilevando che tale norma non richiama espressamente la circostanza aggravante di cui all’art. 7 della legge n. 203 del 1991, ma richiede soltanto che il delitto già giudicato sia accertato come commesso avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis cod. pen. o al fine di agevolare l’attività dell’associazione di stampo mafioso. In coerenza con tale considerazione, prosegue ancora la Corte, è la stessa ratio della disposizione che disciplina in senso limitativo l’accesso ai benefici penitenziari senza introdurre alcuna distinzione in riferimento al momento di commissione dei reati, se antecedente o successivo all’entrata in vigore della legge n. 203 del 1991. Va, inoltre, considerato, conclude la Corte, che il legislatore, quando ha inteso assegnare una specifica rilevanza alla contestazione formale dell’aggravante in esame, lo ha fatto esplicitamente come si rinviene nell’art. 1 della legge n. 241 del 2006 che esclude l’applicabilità dell’indulto nei confronti dei condannati per i quali sia stata contestata e ritenuta la predetta circostanza aggravante.

4.1. La portata del rinvio dell’art. 656, comma 9, cod. proc. pen. all’art. 4-bis ord. pen.

Altro tema affrontato nell’anno in corso attiene alla natura del rinvio contenuto nell’art. 656, comma 9, lett. a) cod. proc. pen. all’art. 4-bis ord. pen.

Sez. 1, n. 27354 del 17/5/2019, D., Rv. 276490, ha chiarito al riguardo che tale rinvio è funzionale alla sola incorporazione dei delitti ostativi contemplati dalla norma, ma non si riferisce anche ai presupposti previsti dal predetto art. 4-bis per l’accesso ai benefici penitenziari (conf. Sez. 1, n. 26832 del 26/3/2004, Moncada, Rv. 229054).

5. Il presupposto dell’utile collaborazione.

Come visto nel par. 1, l’accesso ai benefici penitenziari, esclusa la liberazione anticipata, per i detenuti o internati per reati di “prima fascia” è condizionato alla collaborazione con la giustizia – cui sono equiparate la collaborazione impossibile o oggettivamente irrilevante - a norma dell’art. 58 ter ord. pen. o dell’art. 323-bis, comma 2, cod. pen.

Il riferimento a tale ultima norma è stato inserito dalla legge 9 gennaio 2019, n.3 in correlazione con l’inserimento nel catalogo dei reati di prima fascia dei reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione. L’art. 323-bis, comma 2, cod. pen., prevede, infatti, una circostanza attenuante ad effetto speciale con riduzione della pena da un terzo a due terzi, per chi, in relazione ai delitti previsti dgli artt. 318, 319, 319-ter, 319-quater, 320, 321, 322 e 322-bis, si sia efficacemente adoperato per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, per assicurare le prove dei reati e per l’individuazione degli altri responsabili ovvero per il sequestro delle somme o altre utilità trasferite.

Innanzitutto, deve rilevarsi che l’elenco dei reati previsti da tale norma non coincide con quelli inseriti nel catalogo dei reati ostativi che ricomprende anche i delitti di peculato (art. 314 cod. pen.) e di concussione (art. 317 cod. pen.).

Occorre allora chiedersi se il riferimento alle due norme in tema di collaborazione con la giustizia sia alternativo, potendo indifferentemente venire in rilievo l’una o l’altra disposizione, ovvero la valutazione della condizione per i reati previsti dall’art. 323-bis cod. pen. debba essere necessariamente svolta nei termini previsti da tale norma, escludendosi la rilevanza di condotte, comunque collaborative, ma di altra natura.

Il quesito sorge in quanto l’art. 323-bis cod. pen. sembra richiedere delle condotte collaborative che attengono strettamente al reato per cui si procede o, in fase esecutiva, per cui è intervenuta condanna. Secondo un orientamento della giurisprudenza di legittimità, infatti, tale correlazione non è indispensabile ai fini dell’accertamento del requisito della collaborazione a norma dell’art. 58-ter ord. pen., potendo a tal fine, rilevare non soltanto i comportamenti di collaborazione che ineriscono al delitto per cui è in esecuzione la custodia o la pena, ma anche gli apporti informativi che hanno consentito la repressione o prevenzione di condotte criminose diverse da esso, in coerenza con la “ratio legis” che ha inteso incentivare il fatto obiettivo della collaborazione (Sez. 1, n. 58075 del 26/10/2017, Cagnazzo, Rv. 271616; Sez. 1, n. 7968 del 8/1/2016, Cacalano, Rv. 266239).

In particolare, la sentenza Cagnazzo ha posto l’accento sulla necessità che si tratti di contributi informativi integranti un “aiuto concreto” per l’autorità di polizia o per quella giudiziaria, da intendersi come apporto non oggettivamente irrilevante e, quindi, dotato di una reale efficacia ai fini della ricostruzione dei fatti e dell’accertamento delle responsabilità, che contribuisce alla formazione in dibattimento di prove indispensabili per dimostrare la responsabilità degli imputati e determinarne la condanna.

Si tratta, comunque, di un’interpretazione non univoca del requisito. Secondo altro orientamento ermeneutico, infatti, la collaborazione con la giustizia, non può essere generica né limitata all’ammissione delle proprie responsabilità, ma deve essere specificamente riferita a fatti e reati oggetto della condanna in relazione alla quale si chiede il beneficio (Sez. 1, n. 43659 del 18/10/2007, Miraglia, Rv. 238689). Tale orientamento è stato ripreso nell’anno in corso, da Sez. 1, n. 45330 del 2/7/2019, (dep. 7/11/2019), Celli, (in corso di massimazione) in cui la Corte ha ribadito che l’accertamento dell’utile collaborazione non può essere limitato ai soli delitti ostativi, ma deve ritenersi esteso a tutti i delitti che siano con questi finalisticamente collegati, in quanto riconducibili ad una medesima risoluzione criminosa, atteso che l’unicità del reato continuato postula un giudizio globale sulla personalità del condannato e del suo concreto ravvedimento, con riferimento a tutti i fatti e le responsabilità oggetto del processo sfociato nella sentenza definitiva (si veda, in tal senso, tra le tante, Sez. 1, n. 43391 del 3/10/2014, Cuffaro, Rv. 261145).

Ciò detto, va, comunque, rilevato che il dato letterale dell’art. 4-bis, comma 1, ord. pen. e, in particolare, la scelta del legislatore di inserire il riferimento all’art. 323-bis, cod. pen. separato dalla disgiuntiva “o” e prima dell’elencazione del catalogo dei reati cui si riferiscono le due norme, dovrebbe indurre a ritenere che le due norme, con riferimento ai reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione previsti dall’art. 323-bis, cod. pen., possano rilevare alternativamente al fine di valorizzare la più ampia collaborazione possibile da parte del condannato.

Quanto alla valutazione relativa alla decisività e concretezza del contributo informativo, Sez. 1, n. 6764 del 21/11/2018 (dep. 12/2/2019), Mascia, Rv. 274804 ha affrontato il tema con riferimento al contributo concernente la responsabilità di terzi rispetto ai quali il procedimento si trovi ancora nella fase delle indagini preliminari.

Nella fattispecie, infatti, il tribunale di sorveglianza aveva rigettato la richiesta di riconoscimento della collaborazione con la giustizia ritenendo insufficenti, in quanto prive di ulteriori approfondimenti, le informazioni rese dal condannato relative a fattispecie di reato per cui erano ancora in corso le indagini preliminari.

La Corte ha rilevato che la definizione normativa non esclude che, in presenza di informazioni concenenti la resposabilità di terzi, il relativo procedimento possa ancora trovarsi nella fase delle indagini preliminari. Ciò in quanto la valutazione di utilità e concretezza del contributo non richiede che lo stesso abbia già determinato l’esercizio dell’azione penale o un giudizio di condanna, potendo, comunque, il tribunale di sorveglianza procedere, sulla scorta delle verifiche di attendibilità proprie della fase, a formulare una ragionevole prognosi in ordine alla realizzabilità di prove idonee a dimostrare i fatti oggetto delle accuse.

La Corte ha, inoltre, escluso che tale principio di diritto si ponga in linea di discontinuità con i due precedenti arresti espressi da Sez. 1, n. 58075/2017, Rv. 276166 e da Sez. 1, n. 7968/2016, Rv. 266239 che, nel descrivere le caratteristiche del contributo hanno fatto riferimento alla formazione della prova in dibattimento. In particolare la sentenza n. 7968 del 2016, nell’esaminare il requisito di concretezza, ha affermato che «si può parlare di collaborazione piena solo quando le dichiarazioni o l’attività del collaboratore contribuiscono alla formazione in dibattimento di prove che si rivelino indispensabili per dimostrare la responsabilità degli imputati e determinarne la condanna. Qualora l’ausilio del collaborante sia volto alla <<cattura degli autori dei reati>>, la collaborazione va valutata sotto il profilo delle conseguenze prodotte sul piano fattuale, che debbono tradursi in un obiettivo contributo allo smantellamento dell’organizzazione e dei suoi adepti.»

Nel confrontarsi con tali affermazioni, la sentenza Mascia ha ritenuto che, in realtà, la Corte si sia limitata a ribadire i tratti di decisività dell’apporto secondo i parametri della verifica giudiziale demandata alla competenza esclusiva del tribunale di sorveglianza che, ai sensi dell’art. 58-ter, comma 2, ord. pen. provvederà “assunte le necessarie informazioni e sentito il pubblico ministero presso il giudice competente per i reati in ordine ai quali è stata prestata la collaborazione”.

In applicazione di tale principio la Corte ha annullato con rinvio il provvedimento del tribunale di sorveglianza che, limitandosi a dare atto della fase in cui si trovava il procedimento, non aveva considerato le informazioni fornite dal pubblico ministero procedente in merito alla decisività e concretezza del contributo fornito in relazione alle successive iniziative investigative e di natura cautelare.

Si segnala, infine, che in caso di dubbio sulla sussistenza del presupposto dell’impossibilità o dell’irrilevanza della collaborazione, Sez. 1, n. 29869 del 16/4/2019, Lamberti, Rv. 276405 ha escluso che tale dubbio possa risolversi in danno dell’istante, “dovendo trovare applicazione, anche in questa materia, la regola di giudizio secondo cui, se due significati possono ugualmente essere attribuiti a un dato probatorio, deve privilegiarsi quello più favorevole all’interessato, che può essere accantonato solo ove risulti inconciliabile con altri univoci elementi di segno opposto».

6. Lo scioglimento del cumulo in caso di provvedimento di unificazione di pene concorrenti comprendente un titolo per reato ostativo.

Secondo la costante giurisprudenza della Corte, è legittimo lo scioglimento del cumulo nel corso dell’esecuzione, qualora occorra procedere al giudizio sull’ammissibilità della domanda di concessione di un beneficio penitenziario (nella specie, si trattava della detenzione domiciliare ex art. 47-ter, ord. pen.), ostacolata dalla circostanza che nel cumulo è compreso un titolo di reato ostativo, al fine di verificare se il condannato ha già espiato la parte di pena relativa a tale delitto (Sez. 1, n. 5158 del 17/1/2012, Marino, Rv. 251860 in tema di detenzione domiciliare ex art. 47-ter ord. pen e Sez. 1, n. 2285 del 3/12/2013, Di Palo, Rv. 258403, in tema di affidamento terapeutico ex art. 94, comma 1, d.P.R. n. 309 del 1990).

Quanto al criterio da adottare in caso di cumulo dell’ergastolo con pene detentive temporanee inflitte anche per reato ostativo ex art. 4-bis, comma 1, ord. pen., ridotte ed eseguite ai sensi dell’art. 72 cod. pen. nella forma dell’isolamento diurno, Sez 1, n. 5669 del 8/1/2019, Schiavo, Rv. 274872, ha affermato che, ai fini della concessione di permessi premio, è necessario procedere allo scioglimento del cumulo per la verifica della già intervenuta espiazione della pena temporanea imputabile al reato ostativo, da determinarsi in misura pari alla metà della pena originariamente inflitta per tale reato, e, all’esito positivo di detta verifica, appurare se il “quantum” di pena espiata, al netto dell’espiazione per il delitto ostativo, raggiunga la soglia di anni dieci di pena detentiva, necessaria ai fini del riconoscimento del beneficio ex art. 30-ter, comma 4, ord. pen. in relazione a condanna alla pena dell’ergostolo, senza distinzione se qualificato o meno da un periodo di isolamento diurno.

Diversamente, in caso di unificazione di pene temporanee concorrenti, comprendente anche una condanna per reato ostativo alla concessione di benefici penitenziari (nella specie, si trattava sempre di un permesso premio), Sez. 1, n. 18239 del 26/3/2019, Di Mondo, Rv. 275670, ha affermato che, ai fini dello scioglimento del cumulo, la pena relativa al reato ostativo va considerata nella sua entità originaria senza operare alcuna riduzione in conseguenza dell’eventuale applicazione del criterio moderatore di cui all’art. 78 cod. pen. determinata dal superamento della soglia massima di anni trenta di pena detentiva. La Corte ha, infatti, osservato che la legge non ha previsto un meccanismo di riduzione proporzionale delle pene cumulate, in modo da imporre un abbattimento che, ai fini della riduzione complessiva ad anni trenta, possa tenere conto della consistenza quantitativa. In caso di cumulo di pene detentive temporanee che superino i trenta anni, l’applicazione del temperamento previsto dall’art. 78 cod. pen. avviene, dunque, senza alcuna considerazione dell’entità delle singole pene che in esso confluisono cosicchè la riduzione prevista dalla legge alla soglia dei trenta anni opera con modalità identche, «quale che sia l’ammontare complessivo delle pene cumulate, se di poco superiore la soglia dei trenta anni o se di gran lunga superiore». Sulla base di tali considerazioni la Corte si è posta in posizione di consapevole contrasto con il principio affermato da Sez. 1, n. 6013 del 19/12/2016, Papalia, secondo cui, ai fini dello scioglimento del cumulo per l’individuazione della pena da imputare alla condanna per reato ostativo, «è necessario mediante un’operazione algebrica valutare in che proporzione detto criterio ha inciso sulla pena complessiva risultante dal cumulo materiale, così da applicare la percentuale ottenuta sui reati ostativi e su quelli non ostativi».

Si segnala, tuttavia, che il principio affermato dalla sentenza Papalia è stato recentemenete ribadito da Sez. 1, n. 35794 del 8/3/2019, Farina, Rv. 276723, che, sempre in tema di permesso premio, ha affermato che, ai fini dello scioglimento del cumulo, è necessario individuare il titolo di reato effettivamente in espiazione, valutando, mediante un’operazione algebrica, in che proporzione il criterio moderatore di cui all’art. 78 cod. pen. abbia inciso sulla pena complessiva risultante dal cumulo materiale, così da applicare la percentuale ottenuta su ciascun reato, ed imputando la frazione già espiata all’esecuzione dei reati ostativi.

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. 1, n. 26832 del 26/3/2004, Moncada, Rv. 229054

Sez. U, n. 24561 del 30/05/2006, Rv. 233976

Sez. 1, n. 43659 del 18/10/2007, Miraglia, Rv. 238689

Sez. 1, n. 4091 del 7/1/2010, Dragone, Rv. 246053

Sez. 1, n. 5158 del 17/1/2012, Marino, Rv. 251860

Sez. 1, n. 40043 del 5/7/2013, Parabita, Rv. 257408

Sez. 1, n. 2285 del 3/12/2013, Di Palo, Rv. 258403

Sez. 1, n. 43391 del 3/10/2014, Cuffaro, Rv. 261145

Sez. 1, n. 7968 del 8/1/2016, Cacalano, Rv. 266239

Sez. 1, n.42815 del 6/5/2016, Incognito, Rv. 268334

Sez. 1, n. 6013 del 19/12/2016, Papalia

Sez. 1, n. 58075 del 26/10/2017, Cagnazzo, Rv. 271616

Sez. 1, n. 57913, del 20/11/2018, Cannizzaro, Rv. 274659

Sez. 1, n. 6764 del 21/11/2018 (dep. 12/2/2019), Mascia, Rv. 274804

Sez. 1, n. 473 del 10/07/2018 (dep. 8/1/2019), Iacovelli, Rv. 276156

Sez. 1, n. 6764 del 21/11/2018 (dep. 12/2/2019), Mascia, Rv. 274804

Sez 1, n. 5669 del 8/1/2019, Schiavo, Rv. 274872

Sez. 1, n. 9126 del 18/2/2019, Marchi, Rv. 274883

Sez. 1, n. 35794 del 8/3/2019, Farina, Rv. 276723

Sez. 1, n. 14984 del 13/03/2019, Versaci, Rv. 275063

Sez. 1, n. 18239 del 26/3/2019, Di Mondo, Rv. 275670

Sez. 1, n. 25212 del 3/5/2019, Pullo, Rv. 276144

Sez. 1, n. 29869 del 16/4/2019, Lamberti, Rv. 276405

Sez. 1, n. 27354 del 17/5/2019, D., Rv. 276490,

Sez. 1, n. 33565 del 21/05/2019, Commisso, Rv. 276496

Sez. 1, n. 31853 del 18/06/2019, Pascali,

Sez. 1, n. 45330 del 2/7/2019, Celli

Sez. 1, n. 39609 del 9/7/2019, Coci, Rv. 276946

Sez. 1, n. 43280 del 25/09/2019, Fogliamanzillo

Sez. F, n. 45319 del 7/11/2019

Sentenze della corte costituzionale

Corte cost., sent. n. 306 del 1993

Corte cost., sent. n. 135 del 2003

Corte cost., sent. n. 239 del 2014

Corte cost., sent. n. 149 del 2018

Corte cost., sent. n. 229 del 2019

Corte cost., sent. n. 253 del 2019

Sentenze della corte europea dei diritti dell’uomo

Corte Edu, del 12/12/2002, Nivette c. Francia; Einhorn c. Francia; Stanford c. Regno Unito

Corte Edu, del 22/5/2003, Wynne c. Regno Unito

Corte Edu, del 9/2/2005, Welch c. Regno Unito

Corte Edu, del 12/2/2008, Kafkaris c. Cipro

Corte Edu, del 11/10/2011, Schuchter c. Italia

Corte Edu, del 17/1/2012, Vinter e altri c. Regno Unito

Corte Edu, del 12/6/2019, Viola c. Italia

Giurisprudenza di merito

Corte di Appello di Lecce, ordinanza del 27 marzo 2019

Tribunale di Sorveglianza di Venezia, ordinanza del 2 aprile 2019 Tribunale di Brindisi, ordinanza del 17 aprile 2019

Corte di Appello di Palermo, ordinanza del 29 maggio 2019

  • cittadino straniero
  • esecuzione della pena

CAPITOLO II

L’ESPULSIONE DELLO STRANIERO QUALE MISURA ALTERNATIVA ALLA DETENZIONE

(di Fulvio Filocamo )

Sommario

1 Premessa. - 2 Aspetti procedurali. - 2.1 Le impugnazioni. - 2.2 Le verifiche del giudice. - 2.3 Compatibilità con le altre misure alternative alla detenzione. - 3 Le cause ostative. - Indice delle sentenze citate

1. Premessa.

L’espulsione dello straniero è un’atipica misura alternativa alla detenzione, attualmente disciplinata dall’art. 16, comma 5 e ssgg., del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, come modificato dall’art. 15 della legge 30 luglio 2002, n. 189 e, diversamente dalle altre, è obbligatoria in presenza dei requisiti richiesti dalla legge, essendo finalizzata a ridurre il sovraffollamento carcerario. Si applica nei confronti dello straniero, identificato e detenuto, che debba scontare una pena - anche residua - non superiore a due anni e che rientri nelle ipotesi indicate dall’art. 13, comma 2, d.lgs. n. 286 del 1998 (detenuto extracomunitario che sia irregolare sul territorio dello Stato ovvero che sia passibile dell’applicazione di una misura di prevenzione), salvo che rientri nei casi previsti dal successivo art. 19.

A seguito delle modifiche apportate dall’art. 6, comma primo, lettera a) del d.l. 23 dicembre 2013, n. 146, convertito nella legge 21 febbraio 2014, n. 10, in ogni caso essa non può essere disposta in caso di condanna per i delitti previsti dall’articolo 12, commi 1, 3, 3-bis e 3-ter, del d.lgs. n. 286 del 1998, ovvero per uno o più delitti previsti dall’articolo 407, comma 2, lettera a) del codice di procedura penale, fatta eccezione per quelli consumati o tentati di cui agli articoli 628, terzo comma e 629, secondo comma, del codice penale. Tale novella è stata ritenuta applicabile anche per reati commessi ed accertati prima della sua entrata in vigore, per i quali la misura non era precedentemente contemplata, ritenuto che le previsioni relative all’esecuzione delle pene detentive ed alle misure alternative alla detenzione non hanno natura di norme penali sostanziali e sono soggette, in caso di successione di leggi, al principio del “tempus regit actum” (Sez. 1, n. 52578 del 11/11/2014, Nika, Rv. 262199). La questione relativa alla sua applicabilità in caso di cumulo giuridico di più condanne, di cui almeno una irrogata per un reato ostativo, oggetto di decisioni contrastanti da parte della Corte di cassazione (Sez. 1, n. 42173 del 16/09/2013, Fadhlaoui, Rv. 257169, per la soluzione affermativa, mentre Sez. 1, Sentenza n. 35620 del 20/06/2013, Duraj, Rv. 256847, per quella contraria), è stata risolta da Legislatore, con la modifica disposta al comma 5 dell’art. 16 t.u. imm. da parte della legge n. 189 del 2002, prevedendo che l’espulsione possa essere disposta dopo che sia stata espiata la parte di pena relativa alla condanna per i reati ostativi.

Questa particolare ipotesi di espulsione, riservata alla competenza del giudice di sorveglianza ed avente natura amministrativa, ha sollevato dubbi sulla propria conformità alla Costituzione non essendo richiesto il consenso dell’interessato (art. 2 Cost.), per la necessità di adottarla in maniera automatica senza tener conto di situazioni penitenziarie diverse (art. 3 Cost.) e per essere estranea a qualsiasi finalità rieducativa (art. 27 Cost.). Tutte le questioni sollevate sono state ritenute manifestamente infondate dalla Corte Costituzionale con l’ordinanza n. 369 del 1999 e n. 226 del 2004, non essendo possibile considerarla come una sanzione penale, con esclusione, quindi delle relative garanzie sul piano sostanziale e processuale. Riconosciutale una natura amministrativa, l’espulsione è condizionata dal fatto che lo straniero debba trovarsi in una delle situazioni per le quali comunque dovrebbe essere espulso ex art. 13 t.u. imm., così anticipandosi l’effetto piuttosto che attendere l’intera espiazione della pena. L’istituto è comunque assistito dalle garanzie presenti per l’espulsione amministrativa, espressamente previste anche dallo stesso art. 16, comma 5, ma l’espulsione non può essere considerata come una sanzione amministrativa ai sensi e per gli effetti della legge 24 novembre 1981, n. 689, con la conseguenza che non è applicabile il principio di irretroattività (Sez. 1, n. 4429 del 24/01/2006, Ismaili, Rv. 233196).

2. Aspetti procedurali.

Il magistrato di sorveglianza è il giudice competente a provvedere, con decreto motivato senza formalità, una volta verificata la sussistenza dei requisiti di legge (detenuto extracomunitario identificato privo di titolo per permanere in Italia ovvero che sia passibile dell’applicazione di una misura di prevenzione). Dopo la novella del 2014 sopra citata, sono state implementate le garanzie a tutela dell’espellendo con la previsione che il decreto di espulsione debba essere comunicato non solo allo straniero destinatario del provvedimento, ma anche al suo difensore (di fiducia ovvero nominato d’ufficio) ed al pubblico ministero, che possono proporre opposizione, entro il termine perentorio di dieci giorni, al tribunale di sorveglianza.

2.1. Le impugnazioni.

La misura, infatti, pur avendo natura amministrativa, è emessa a seguito di procedimento giurisdizionale e contro di essa è previsto il solo rimedio dell’opposizione, non potendo, invece, disporsi la sua disapplicazione nell’ambito di altri procedimenti (Sez. 1, n. 48160 del 23/10/2013, Saoudi, Rv. 257718). Il procedimento di opposizione è disciplinato dall’art. 666 cod. proc. pen. con la conseguenza che è affetto da nullità assoluta il provvedimento adottato dal tribunale di sorveglianza a seguito di procedimento “de plano” (Sez. 1, n. 7144 del 07/02/2008, Tyjany, Rv. 239167). Il procedimento si svolge, ai sensi del combinato disposto degli artt. 678 e 666 cod. proc. pen., in camera di consiglio con la partecipazione necessaria del difensore, con la conseguenza che l’omessa notifica dell’avviso di fissazione della data dell’udienza al difensore dell’interessato dà luogo ad una nullità di ordine generale rilevabile in ogni stato e grado del procedimento ai sensi degli artt. 178 lett. c) e 179, comma primo, cod. proc. pen. (Sez. 1, n. 11643 del 11/03/2005, Olarte Diaz, Rv. 231592).

Tale rimedio è esperibile non solo contro il provvedimento di espulsione, ma anche contro il suo rigetto, poiché lo straniero che rientri nelle condizioni di legge per fruire della misura alternativa dell’espulsione è titolare di un vero e proprio diritto ad essere espulso dal territorio dello Stato, potendo essa costituire condizione più favorevole rispetto alla prosecuzione dell’espiazione in carcere (Sez. 1, n. 38042 del 26/05/2017, Lamaj, Rv. 270987), anche nel caso di applicazione della pena su richiesta delle parti ex art. 444 cod. proc. pen. sebbene non previsto espressamente nell’accordo (Sez. 6, n. 33884 del 15/04/2015, B., Rv. 264457). Analogamente, trattandosi di materia relativa allo “status libertatis”, lo straniero è legittimato a proporre ricorso per cassazione contro il provvedimento con cui sia stata respinta la sua richiesta intesa ad ottenere tale espulsione (Sez. 1, n. 10752 del 18/02/2009, Gega, Rv. 242895) ed è ammissibile anche il ricorso per cassazione per violazione di legge avverso il provvedimento da parte del pubblico ministero (Sez. 1, n. 47771 del 06/11/2008, P.M. in proc. Trimi, Rv. 242508), anche se detti provvedimenti non sono immediatamente ricorribili per cassazione, in quanto opponibili davanti al Ttribunale di sorveglianza ed estranei all’area di applicazione della regola fissata dall’art. 569, comma 1, cod. proc. pen. (Sez. 1, n. 53182 del 05/11/2014, Chan, Rv. 261607).

Nel caso di opposizione si applicano le regole generali previste in materia di impugnazioni per cui essa deve essere corredata dai prescritti motivi (Sez. 1, n. 38699 del 28/09/2007, Sanif, Rv. 238047) a pena di inammissibilità e questi possono essere formulati successivamente alla dichiarazione, ma pur sempre entro il termine stabilito per la presentazione dell’impugnazione (Sez. 1, n. 41753 del 16/09/2013, Liassa, Rv. 256982).

2.2. Le verifiche del giudice.

Il magistrato di sorveglianza, per assicurarsi della condizione di irregolarità e di espellibilità dello straniero, ai fini dell’operatività del divieto ex art. 19 t.u. imm. di espulsione dello straniero verso uno Stato nel quale egli possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, sesso, lingua, cittadinanza, religione, opinioni politiche, condizioni personali o sociali, non può considerare la semplice affermazione del relativo rischio da parte dell’interessato, ma occorre che lo “status” di rifugiato sia accertato dall’apposita Commissione centrale per il riconoscimento di esso ovvero, qualora la Commissione non si sia pronunciata, che il giudice chiamato a disporre l’espulsione accerti, in via incidentale, la sussistenza dei presupposti che potrebbero condurre, in concreto, al detto riconoscimento (Sez. 1, n. 2239 del 17/12/2004, Bouffenech, Rv. 230546). Diversamente, non compete al giudice, pronunciarsi in ordine alla esistenza o meno delle condizioni per il rinnovo del permesso di soggiorno, anche quando sia già stato tempestivamente richiesto (Sez. 1, n. 3500 del 11/01/2007, Arab, Rv. 235743).

Nel 2019 la Corte di cassazione ha avuto la possibilità di pronunciarsi sul caso di un condannato, passibile di espulsione quale misura alternativa, per reati commessi in minore età, stabilendo che il giudice di sorveglianza è tenuto ad accertare, in via incidentale, se eventualmente ricorrano – all’esito dell’osservazione penitenziaria protratta per un adeguato periodo di tempo – i presupposti legittimanti il riconoscimento in suo favore dello speciale permesso di soggiorno di cui al successivo art. 18, comma 6, t.u. imm. (Sez. 1, n. 28299 del 27/05/2019, R., Rv. 276414).

2.3. Compatibilità con le altre misure alternative alla detenzione.

Il Legislatore, nonostante le reiterate modifiche apportate alla norma disciplinante l’espulsione quale misura alternativa alla detenzione, non ha mai affrontato la questione relativa alla sua compatibilità o sovrapponibilità con le altre misure alternative, lasciando che le relative soluzioni fossero individuate dalla giurisprudenza. La Corte di cassazione, considerando l’espulsione come misura alternativa “atipica” introdotta al fine di ridurre il sovraffollamento carcerario, ha stabilito con le sue decisioni quali debbano essere i rapporti con gli altri benefici concedibili in sede esecutiva.

Di fondamentale importanza è stato, a questo fine, l’orientamento accolto dalle Sezioni unite “Alloussi”, secondo il quale le misure alternative alla detenzione in carcere (nella specie l’affidamento in prova al servizio sociale), possono essere, qualora ricorrano le condizioni stabilite dall’ordinamento penitenziario, applicate anche allo straniero extracomunitario che sia entrato illegalmente nel territorio dello Stato e sia privo del permesso di soggiorno (Sez. U, n. 14500 del 28/03/2006, Alloussi, Rv. 233420). Detta pronuncia, consentendo l’ammissione alle misure alternative alla detenzione tipiche anche per lo straniero che avrebbe potuto essere espulso dal magistrato di sorveglianza, ha considerato prevalente - rispetto all’esigenza di ridurre la popolazione carceraria - la finalità rieducativa e di reinserimento sociale ex art. 27 Cost. (insieme all’uguale dignità delle persone ex artt. 2 e 3 Cost.), alla quale non possono essere considerati estranei i cittadini extracomunitari che siano entrati illegittimamente nel territorio dello Stato ovvero vi permangano in modo irregolare. L’accesso ad una misura alternativa alla detenzione carceraria da parte dello straniero extracomunitario irregolare o passibile di misura di prevenzione non consente l’applicazione dell’espulsione da parte del magistrato di sorveglianza poiché il soggetto che sarebbe dovuto essere espulso, non essendo più detenuto in carcere, non rientra tra i destinatari della misura, anzi il provvedimento di ammissione rappresenta il titolo che ne consente la permanenza e l’eventuale svolgimento di un’attività lavorativa laddove autorizzata, sospendendo anche l’eventuale esecuzione dell’espulsione amministrativa (Sez. 1, n. 22161 del 18/05/2005, Ben Dhafer, Rv. 232104).

Analogamente, successivamente alla decisione a Sezioni Unite, è stato quindi ritenuto che l’espulsione non può essere disposta nei confronti dello straniero che, per il fatto oggetto della condanna da eseguire, si trovi e permanga agli arresti domiciliari, a seguito della sospensione dell’esecuzione ai sensi dell’art. 656, comma 10, cod. proc. pen. (Sez. 1, n. 5171 del 29/09/2015, Meta, Rv. 266218), anche se deve darsi atto dell’esistenza di una pronuncia difforme (Sez. 1, n. 104 del 27/11/2012, Skhembi, Rv. 254165).

La Corte di cassazione nel corso del 2019 ha avuto modo di confermare detta linea interpretativa secondo la quale l’espulsione non è applicabile a soggetti che già si trovino ad espiare la pena con un’altra misura alternativa come la detenzione domiciliare (Sez. 1, n. 43855 del 25/09/2019, De La Cruz Gonzales Santa Marilyn).

Sempre nel 2019 la Suprema corte ha stabilito che il divieto di concessione di alcuni benefici penitenziari per un periodo di anni tre, previsto dall’art. 58-quater ord. pen. in caso di revoca di una misura alternativa alla detenzione (nella specie, affidamento in prova cd. terapeutico) non si applichi in relazione all’espulsione dello straniero di cui all’art. 16, comma 5, del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, atteso che detta espulsione, in quanto misura amministrativa finalizzata ad evitare il sovraffollamento penitenziario, non configura propriamente un beneficio penitenziario ed il citato art. 58-quater ord. pen., stabilendo limiti alla ordinaria fruizione dei benefici dallo stesso contemplati, è disposizione di stretta interpretazione e, quindi, insuscettibile di applicazione al di fuori delle ipotesi espressamente previste (Sez. 1, n. 38040 del 09/04/2019, Qosja Dritan, Rv. 276845).

Da ultimo è stato ritenuto che la pendenza del ricorso per cassazione avverso il provvedimento di diniego di un’altra misura alternativa, già richiesta e negata, non sia ostativa all’adozione del provvedimento di espulsione da parte del magistrato di sorveglianza (Sez. 1, n. 33153 del 15/05/2019, Curri Sokol, Rv. 276495).

Rispetto alla liberazione anticipata, la pregressa concessione al condannato extracomunitario della liberazione anticipata, incidendo esclusivamente sulla durata della pena senza comportarne la liberazione, non è di ostacolo all’espulsione così disposta (Sez. 1, n. 17255 del 17/03/2008, Lagji, Rv. 239623). Così come l’ammissione alla misura alternativa della semilibertà non impedisce l’emissione del decreto di espulsione a titolo di sanzione alternativa, dal momento che la semilibertà comporta comunque la permanenza del condannato in un istituto penitenziario, sebbene limitatamente a determinati orari (Sez. 1, n. 39781 del 13/10/2005, Iselaci, Rv. 232514)e, allo stesso modo, i benefici premiali del lavoro esterno e dei permessi premio, non comportando la fuoriuscita del condannato dal circuito carcerario, non sono di ostacolo all’assunzione del provvedimento di espulsione (Sez. 1, n. 44143 del 16/02/2016, Ben Fraj Zouhair, Rv. 268290).

3. Le cause ostative.

L’art. 16 t.u. imm., al comma 9, rinvia al successivo art. 19 per le cause ostative all’espulsione quale misura alternativa alla detenzione le quali - analogamente alle altre ipotesi di espulsione - sono fondate sul rispetto dei diritti fondamentali della persona e sono rappresentate dal pericolo che l’espulso possa essere oggetti di persecuzioni nel Paese d’origine e di destinazione, ovvero dalla minore età, salvo seguire il genitore o affidatario espulso, dal possesso di una carta di soggiorno, salvo quanto disposto dal comma 9, dalla convivenza con parenti entro il secondo grado o con il coniuge di nazionalità italiana e, infine, lo stato di gravidanza, comprensivo dei sei mesi successivi alla nascita del figlio al quale il genitore provvede (esteso anche al padre dalla Sentenza Corte cost. n. 376 del 2000).

Il divieto è assoluto per la prima ipotesi (comma 1), mentre è relativo nelle seguenti ove ricorrano esigenze di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato.

Le cause ostative ivi previste, come specificato anche recentemente dalla Corte di cassazione, non hanno natura tassativa, ma devono essere interpretate alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 252 del 2001, secondo la quale il provvedimento di espulsione disposto nei confronti di persona irregolarmente soggiornante nello Stato non può essere eseguito qualora dall’esecuzione derivi un irreparabile pregiudizio per la salute dell’individuo; ne consegue che, in caso di seria patologia cronica del condannato, il giudice è tenuto a verificare in concreto, esercitando i poteri istruttori di cui dispone, se e con quali effetti l’espulsione possa privare il predetto di cure irrinunciabili, pur diverse da quelle di pronto soccorso e di medicina di urgenza (Sez. 1, n. 16383 del 15/03/2019, Mlouki Hamed, Rv. 275245), allo stesso modo, nel caso di condannato affetto da grave disabilità, ancorché questa non rientri tra le condizioni legislativamente poste a fondamento del divieto di espulsione, il giudice è comunque tenuto a verificare, in concreto, se del caso anche ricorrendo a mezzi istruttori, che l’espulsione non leda il nucleo irriducibile del diritto alla salute garantito dall’art. 32 Cost. (Sez. 1, n. 38041 del 26/05/2017, Mokaadi, Rv. 270975).

Sempre negli ultimi anni è stata considerata come causa ostativa all’espulsione la convivenza “more uxorio” con un cittadino italiano, laddove accertata come sussistente al momento in cui deve porsi in esecuzione il provvedimento, trattandosi di una condizione del tutto omogenea rispetto a quella del coniuge, specificamente menzionata dall’art. 19, comma 2, lett. c), d. lgs. 25 luglio 1998, n. 286, tenuto conto, altresì, della parificazione del convivente di fatto al coniuge, ai fini delle facoltà previste dall’ordinamento penitenziario, effettuata dall’art. 1, comma 38 della legge 20 maggio 2016, n. 76 (Sez. 1, n. 16385 del 15/03/2019, Chigri Mohammed, Rv. 276184 e Sez. 1, n. 44182 del 27/06/2016, Zagoudi, Rv. 268038), così superando il precedente orientamento giurisprudenziale, emerso in assenza della legge n. 76 del 2016, che aveva considerato la convivenza “more uxorio” con una cittadina italiana, e il successivo matrimonio non seguito da convivenza per effetto del sopraggiunto stato di detenzione, non ostativi all’applicazione dell’espulsione dello straniero a titolo di misura alternativa alla detenzione (Sez. 1, n. 16446 del 16/03/2010, Noua, Rv. 247452).

La non tassatività delle cause ostative all’espulsione era già stata affermata dalla Suprema corte in quanto tali ipotesi devono essere integrate attraverso l’analisi delle fonti sovranazionali – quali la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, la Carta di Nizza e le Direttive U.E. sul tema – tese a fornire tutela ai soggetti cui spetta il riconoscimento non solo dello “status” di rifugiato, ma anche della cd. “protezione sussidiaria”, spettante anche nell’ipotesi di minaccia grave alla vita di un civile derivante da violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale (Sez. 1, n. 41949 del 04/04/2018, S., Rv. 273973).

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. 1, n. 2239 del 17/12/2004, Bouffenech, Rv. 230546

Sez. 1, n. 39781 del 13/10/2005, Iselaci, Rv. 232514

Sez. 1, n. 22161 del 18/05/2005, Ben Dhafer, Rv. 232104

Sez. 1, n. 11643 del 11/03/2005, Olarte Diaz, Rv. 231592

Sez. U, n. 14500 del 28/03/2006, Alloussi, Rv. 233420

Sez. 1, n. 4429 del 24/01/2006, Ismaili, Rv. 233196

Sez. 1, n. 3500 del 11/01/2007, Arab, Rv. 235743

Sez. 1, n. 38699 del 28/09/2007, Sanif, Rv. 238047

Sez. 1, n. 7144 del 07/02/2008, Tyjany, Rv. 239167

Sez. 1, n. 17255 del 17/03/2008, Lagji, Rv. 239623

Sez. 1, n. 47771 del 06/11/2008, Trimi, Rv. 242508

Sez. 1, n. 10752 del 18/02/2009, Gega, Rv. 242895

Sez. 1, n. 16446 del 16/03/2010, Noua, Rv. 247452

Sez. 1, n. 104 del 27/11/2012, Skhembi, Rv. 254165

Sez. 1, n. 48160 del 23/10/2013, Saoudi, Rv. 257718

Sez. 1, n. 42173 del 16/09/2013, Fadhlaoui, Rv. 257169

Sez. 1, n. 35620 del 20/06/2013, Duraj, Rv. 256847

Sez. 1, n. 41753 del 16/09/2013, Liassa, Rv. 256982

Sez. 1, n. 53182 del 05/11/2014, Chan, Rv. 261607

Sez. 1, n. 52578 del 11/11/2014, Nika, Rv. 262199

Sez. 1, n. 5171 del 29/09/2015, Meta, Rv. 266218

Sez. 6, n. 33884 del 15/04/2015, B., Rv. 264457

Sez. 1, n. 44143 del 16/02/2016, Ben Fraj Zouhair, Rv. 268290

Sez. 6, n. 33884 del 15/04/2015, B., Rv. 264457

Sez. 1, n. 44182 del 27/06/2016, Zagoudi, Rv. 268038

Sez. 1, n. 38042 del 26/05/2017, Lamaj, Rv. 270987

Sez. 1, n. 38041 del 26/05/2017, Mokaadi, Rv. 270975

Sez. 1, n. 41949 del 04/04/2018, S., Rv. 273973

Sez. 1, n. 28299 del 27/05/2019, R., Rv. 276414

Sez. 1, n. 43855 del 25/09/2019, De La Cruz Gonzales

Sez. 1, n. 38040 del 09/04/2019, Qosja Dritan, Rv. 276845

Sez. 1, n. 33153 del 15/05/2019, Curri Sokol, Rv. 276495

Sez. 1, n. 16383 del 15/03/2019, Mlouki Hamed, Rv. 275245

Sez. 1, n. 16385 del 15/03/2019, Chigri, Rv. 276184

SEZIONE VIII RAPPORTI GIURISDIZIONALI CON AUTORITÀ STRANIERE

  • cooperazione giudiziaria in materia penale (UE)
  • prova

CAPITOLO II

L’ORDINE DI INDAGINE EUROPEO

(di Andrea Venegoni )

Sommario

1 Premessa. - 2 Autonomia del provvedimento di riconoscimento. - 3 Questioni processuali. - 4 Impugnazioni. - Indice delle sentenze citate

1. Premessa.

È uno strumento previsto dalla direttiva 2014/41/UE per migliorare la cooperazione giudiziaria nell’Unione Europea, introducendo il principio del mutuo riconoscimento nell’acquisizione e circolazione della prova, in sostituzione del precedente concetto di “mutua assistenza”.

Il principio del mutuo riconoscimento è quello su cui si sono basati fin dai primi anni 2000 gli strumenti normativi dell’Unione Europea in materia di cooperazione giudiziaria penale, nell’ambito di quello che all’epoca si definiva il “terzo pilastro”, a partire dalla decisione quadro 2002/584/GAI sul mandato di arresto europeo, relativa, però, non all’acquisizione della prova, ma alla consegna delle persone.

Successivamente, altre decisioni quadro - sempre fondate sul principio del mutuo riconoscimento - sono state adottate dall’Unione Europea per regolare l’acquisizione e la circolazione di specifici atti compiuti nel corso di un’indagine penale, come il sequestro e la confisca.

Mancava, invece, uno strumento che applicasse tale principio all’acquisizione e circolazione delle prove penali in generale.

Tale carenza è stata, appunto, colmata in gran parte con la suddetta direttiva del 2014, adottata ormai nel nuovo quadro giuridico ed istituzionale dell’Unione Europea a seguito del Trattato di Lisbona (da cui la denominazione dell’atto come “direttiva” al posto delle precedenti “decisioni quadro”, aspetto che non è soltanto formale, ma ha valore sostanziale).

La direttiva è stata recepita in Italia con il d.lgs. 21 giugno 2017, n. 108, coevo ad un intervento di modifica organica del libro XI del codice di procedura penale che ha, tra l’altro, consacrato il principio del mutuo riconoscimento come quello su cui si basa la cooeprazione giudiziaria all’interno della UE (art. 696-bis cod. proc. pen.).

Sono, quindi, ormai pochi gli atti compiuti in un’indagine penale che non rientrino nella disciplina dell’ordine investigativo europeo; tra essi, vale però la pena di citare il sequestro ai fini di confisca, non essendo uno strumento finalizzato all’acquisizione di una prova.

In questo breve arco di tempo dall’entrata in vigore della normativa italiana, l’O.I.E. ha già avuto un ampio e diffusissimo utilizzo nelle indagini.

Naturalmente, per motivi temporali di sviluppo dei procedimenti, non sono ancora numerose le sentenze della Corte di cassazione che se ne sono occupate, sebbene inizino a registrarsi le prime pronunce della stessa su alcuni aspetti particolari della procedura.

Queste riguardano essenzialmente la procedura “passiva”, cioè quella in cui l’autorità giudiziaria italiana riceve per l’esecuzione in Italia l’ordine di indagine dall’autorità di un altro Stato Membro della UE.

2. Autonomia del provvedimento di riconoscimento.

In tal caso, il d.lgs n. 108 del 2017, prevede, in sintesi, un riconoscimento della legittimità dell’atto emesso dall’autorità giudiziaria italiana, ed in particolare dal p.m. distrettuale, prima della sua esecuzione (art. 4, d. lgs. 108 del 2017).

Tale atto, come di vedrà anche successivamente, è autonomo dalla richiesta dall’autorità estera e dal provvedimento con cui la autorità italiana ordina l’esecuzione della misura.

Il concetto è espresso molto chiaramente da Sez. 6, n. 14413 del 7/2/2019, Brega, Rv. 275535, secondo cui, in tema di ordine europeo di indagine passivo concernente l’adozione di un provvedimento di perquisizione e sequestro, il decreto di riconoscimento che il pubblico ministero deve emettere, ex art. 4, comma 4, d.lgs. 21 giugno 2017 n. 108, è atto autonomo rispetto ai successivi atti esecutivi. Ciò comporta, come conseguenza, che esso deve essere motivato, ai sensi dell’art. 125, comma 3, cod. proc. pen., in relazione a presupposti e limiti della procedura di cooperazione giudiziaria, sicché non ne costituisce un equipollente il decreto di sequestro probatorio, nella cui motivazione sia trasposto il contenuto dell’ordine dell’autorità straniera.

Tale principio è stato ribadito anche da Sez. 6, n. 8320 del 31/1/2019, Creo Elia, Rv. 275732 – 02, che ha chiarito che, in caso di richiesta perquisizione e sequestro, la trasposizione dell’ordine europeo di indagine nel decreto che dispone la suddetta misura adottato dall’autorità che provvede all’esecuzione non è equipollente alla comunicazione del decreto di riconoscimento emesso dal pubblico ministero, atteso che solo quest’ultimo garantisce il controllo sostanziale in ordine alla legittima esecuzione della c.d. “eurordinanza” ed è suscettibile di rimedi impugnatori per vizi propri e del tutto diversi rispetto a quelli esperibili avverso gli atti di indagine o di assunzione probatoria.

3. Questioni processuali.

L’art. 4, comma 4 del d.lgs. 108 del 2017 prevede che il decreto di riconoscimento sia comunicato, dalla segreteria del pubblico ministero che ha proceduto al riconoscimento, al difensore dell’indagato entro il termine stabilito ai fini dell’avviso cui egli ha diritto per il compimento dell’atto, in base alla legge italiana. Nel caso in cui la legge italiana non preveda il previo avviso, il decreto di riconoscimento è comunicato al momento del compimento dell’atto o immediatamente dopo.

La comuicazione è finalizzata alla possibile impugnazione del decreto di riconoscimento, sotto forma di opposizione ad esso.

Sez. 6, n. 8320 del 31/1/2019, Creo Elia, Rv. 275732 – 01, si è occupata di un caso, relativo ad un ordine europeo di indagine passivo, avente ad oggetto la richiesta di atti di perquisizione e sequestro, in cui la comunicazione al difensore del decreto di riconoscimento era stata tardiva, perchè compiuta oltre i termini previsti dall’art. 4 sopra citato. La Corte ha ritenuto che ciò integri una violazione del diritto di difesa, in quanto non consente all’indagato ed al suo difensore di proporre tempestiva opposizione al giudice per le indagini preliminari, eccependo la presenza di ragioni ostative all’esecuzione degli atti richiesti, e di impedire in tal modo la trasmissione, in caso di accoglimento dell’opposizione stessa, dei risultati di prova acquisiti sul territorio dello Stato.

4. Impugnazioni.

L’aspetto forse ad oggi più dibattuto in tema di procedura per l’esecuzione di un ordine di indagine europeo è quello che attiene all’impugnazione dello stesso.

Nella procedura c.d. “passiva”, come si è visto, la normativa prevede che il primo atto sia il riconoscimento dell’atto da parte dell’autorità giudiziaria italiana, anteriormente all’esecuzione dell’atto richiesto.

In quanto atto autonomo, la giurisprudenza che sta iniziando a confrontarsi con la pratica dell’ordine investigativo europeo ritiene, allora, il decreto di riconoscimento anche autonomamente impugnabile.

Detto questo, però, è sorta incertezza su cosa l’indagato possa impugnare in Italia, e cioè il solo decreto di riconoscimento o anche la misura in sé, e con quale procedura, se con l’opposizione al decreto di riconoscimento o con l’impugnazione davanti al tribunale del riesame.

La Corte di cassazione ha cercato di fare chiarezza su tali aspetti.

Sez. 6, n. 11491 del 14/2/2019, Bonanno, Rv. 275291, ha affermato che, nel procedimento per l’esecuzione dell’ordine europeo d’indagine, è impugnabile il solo decreto di riconoscimento del pubblico ministero mediante l’opposizione prevista dall’art. 13, del d.lgs. 21 giugno 2017, n. 108, mentre avverso l’atto d’indagine dell’autorità giudiziaria dello Stato membro, anche quando si tratti di sequestro a fini probatori, è preclusa la procedura di riesame. In motivazione la Corte ha chiarito che, ove si consentisse una duplice impugnazione, l’una contro il decreto di riconoscimento, l’altra avverso l’atto di esecuzione, si instaurerebbero due autonome e parallele procedure con effetti del tutto scoordinati tra loro.

Tale sentenza, come si vede, ritiene che, a differenza del decreto di riconoscimento, contro l’atto investigativo oggetto della procedura di cooperazione non sia possibile l’impugnazione in Italia, neppure davanti al tribunale del riesame.

Su posizione parzialmente diversa si pone Sez. 3, n. 5940 dell’11/10/2018, Brega, Rv. 274855-01, secondo cui la disposizione di cui all’art. 13, d.lgs. 21 giugno 2017, n. 108, che disciplina il sistema delle impugnazioni nell’ambito della procedura passiva, si riferisce a tutti gli atti previsti dall’art. 4 del medesimo d.lgs., con la conseguenza che l’opposizione al giudice per le indagini preliminari è il rimedio esperibile dall’indagato o dal suo difensore non solo avverso il decreto motivato di riconoscimento dell’ordine richiesto dall’estero, ma anche nei confronti di tutti i provvedimenti attuativi dell’ordine medesimo, incluso il decreto di perquisizione e di sequestro, per il quale, pertanto, è precluso il ricorso al tribunale del riesame. In motivazione la Corte ha precisato che è diverso il sistema delle impugnazioni nell’ambito della procedura attiva, in quanto l’art. 28 dello stesso decreto legislativo, riferendosi specificamente all’ordine di indagine avente ad oggetto il sequestro a fini di prova, prevede che la persona sottoposta alle indagini, l’imputato, il suo difensore o la persona alla quale la prova o il bene sono stati sequestrati e quella che avrebbe diritto alla loro restituzione, possono proporre richiesta di riesame ai sensi dell’art. 324 cod. proc. pen. e che si applicano altresì le previsioni di cui agli artt. 322-bis e 325 cod. proc. pen.

Su posizione ancora diversa Sez. 6, n. 8320 del 31/1/2019, Creo Elia, Rv. 275732-03, che ritiene che il decreto di riconoscimento, emesso dal pubblico ministero ai sensi dell’art.4 d.lgs 21 giugno 2017, n. 108, sia impugnabile esclusivamente mediante l’opposizione al giudice per le indagini preliminari prevista dall’art.13, d.lgs. n. 108 del 2017, mentre avverso il decreto di sequestro, eseguito in adempimento dell’O.I.E., è proponibile l’ordinario ricorso per riesame. In questo caso, la Corte ha precisato che i verbali degli atti cui il difensore ha diritto di assistere devono essere depositati nella segreteria del pubblico ministero, ai sensi dell’art. 366, comma 1, cod. proc. pen., stante l’espresso rinvio a tale norma contenuto nell’art. 4, comma 8, d.lgs. n. 108 del 2017, in modo da consentire l’esperibilità dei mezzi di impugnazione “equivalenti a quelli disponibili in un caso interno analogo”, come espressamente stabilito dall’art. 14, par. 1, 2014/41/UE.

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. 3, n. 5940 dell’11/10/2018, Brega, Rv. 274855

Sez. 6, n. 8320 del 31/1/2019, Creo Elia, Rv. 275732

Sez. 6, n. 14413 del 7/2/2019, Brega, Rv. 275535

Sez. 6, n. 11491 del 14/2/2019, Bonanno, Rv. 275291

PARTE QUARTA SPESE DI GIUSTIZIA --- SEZIONE I --- INDENNITA' DI CUSTODIA

  • sequestro di beni

CAPITOLO I

LA COMPETENZA ALLA LIQUIDAZIONE DEI COMPENSI AL CUSTODE GIUDIZIARIO: CHI E’ IL “MAGISTRATO CHE PROCEDE”?

(di Elena Carusillo )

Sommario

1 Il quesito sottoposto alle Sezioni unite. - 2 Le ragioni della questione controversa. - 3 La giurisprudenza di legittimità sulla questione controversa. - 4 Il decreto di archiviazione e la sua natura. - 5 La sentenza delle Sezioni Unite “Seghaier”: una traccia per la soluzione della questione. - 6 La ricaduta della decisione sulla dichiarazione di incompetenza. - 7 La decisione. - Indice delle sentenze citate

1. Il quesito sottoposto alle Sezioni unite.

Le Sezioni Unite della Corte di cassazione sono state chiamate a pronunciarsi sulla questione volta a stabilire “se la competenza a provvedere sulla istanza di liquidazione delle spese di custodia dei beni in sequestro, presentata successivamente alla pronuncia del provvedimento di archiviazione, spetti al giudice per le indagini preliminari o al pubblico ministero”. La vicenda trae la sua origine dal ricorso proposto dal Procuratore generale avverso l’ordinanza con la quale il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Firenze aveva declinato la propria competenza a provvedere sulla richiesta di liquidazione del compenso, avanzata dal custode giudiziario per l’attività di custodia dei beni in sequestro, e restituito gli atti al pubblico ministero, sul presupposto che, ai sensi dell’art. 168, comma 1, del Testo Unico in materia di spese di giustizia (d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115), la liquidazione delle spettanze agli ausiliari del magistrato e dell’indennità di custodia dovesse ricadere nella sfera di competenza del pubblico ministero quale magistrato procedente al momento della presentazione della domanda, al quale gli atti erano stati restituiti, ai sensi dell’art. 409 comma 1, cod. proc. pen., con il decreto di archiviazione.

La Quarta sezione, con ordinanza n.56334 del 5/12/2018, rimetteva la trattazione del ricorso al supremo consesso sul rilievo dell’esistenza di un contrasto giurisprudenziale di tipo interpretativo in merito al significato da ascrivere alla locuzione “magistrato che procede” contenuta nell’art. 168, comma 1, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, sia in termini di individuazione dell’autorità giudiziaria competente a provvedere, sia in termini di ricaduta della decisione sul provvedimento con il quale il giudice per le indagini preliminari, dichiaratosi incompetente, aveva disposto la restituzione degli atti al pubblico ministero.

Ad avviso del collegio rimettente, infatti, in caso di attribuzione della competenza al giudice per le indagini preliminari il provvedimento restitutorio si sarebbe profilato come abnorme in quanto idoneo a determinare una stasi del procedimento, superabile da parte del pubblico ministero soltanto con il compimento di un atto esorbitante dalla propria competenza e pertanto illegittimo; diversamente, in caso di attribuzione della competenza all’ufficio del pubblico ministero, il provvedimento sarebbe stato legittimo ed il ricorso del pubblico ministero inammissibile in quanto proposto nei confronti di un provvedimento inoppugnabile per il principio di tassatività dei mezzi d’impugnazione di cui all’art. 568 cod. proc. pen.

Nell’ordinanza di rimessione venivano richiamati sia arresti che individuavano il criterio interpretativo della locuzione “magistrato che procede” in termini di disponibilità materiale del fascicolo al momento della presentazione della richiesta di liquidazione dopo l’archiviazione del procedimento e che attribuivano, pertanto, la competenza al pubblico ministero sul presupposto che il fascicolo, una volta archiviato dal giudice per le indagini preliminari, ritorna presso l’ufficio del pubblico ministero (Sez. 4, n. 54227 del 14/09/2018, n.m.; Sez. 4, n. 2212 del 01/10/2014, dep. 2015, Ignoti, Rv. 261765; Sez. 4, n. 7468 del 11/12/2012, dep. 2013, Ignoti, Rv.254516; Sez. 4, n. 26993 del 05/05/2004, Demo, Rv.229661), sia arresti che attribuivano la competenza a decidere al giudice per le indagini preliminari quale autorità procedente in relazione alla funzione esercitata e, dunque, in un’ottica avulsa dalla materiale collocazione degli atti (Sez. 4, n. 834 del 13/09/2017, dep. 2018, Ignoti, Rv. 271748; Sez. 4, n. 34335 del 04/05/2011, Pronesti, n.m.; Sez. 5, n. 9222 del 10/02/2006, Ignoti, Rv. 233770; Sez. 4, n. 27915 del 13/04/2005, Ditta Truch Cars, Rv. 231811). La divergenza tra tali epiloghi decisori si poneva, pertanto, a fondamento della rimessione alle Sezioni Unite.

2. Le ragioni della questione controversa.

Per meglio comprendere le ragioni fondanti il contrasto interpretativo sviluppatosi tra le Sezioni semplici sul valore e significato da attribuire alla locuzione “magistrato che procede”, occorre ricordare che la materia delle spese di giustizia, inizialmente disciplinata dalla legge 1 dicembre 1956 n. 1426, recante norme sui compensi spettanti ai periti, consulenti tecnici, interpreti e traduttori per le operazioni eseguite a richiesta dell’autorità giudiziaria, successivamente, sia in ambito civile che penale, era stata regolamentata con la legge 8 luglio 1980 n. 319 che, all’art. 11, devolveva la competenza relativa alla liquidazione degli onorari al magistrato che aveva effettuato la nomina. Tale legge era stata poi abrogata (con esclusione dell’art. 4 relativo alle modalità di determinazione degli onorari in base alle vacazioni) ad opera del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia”, con il quale il Legislatore aveva mirato a sistemare organicamente, attraverso una attività ricognitiva (Sez. U, n. 19289 del 25/02/2004, Lustri, Rv. 227355), quella “stratificazione di norme formatasi nel corso di ben centocinquanta anni”, succedutesi “senza una complessiva visione organica”, sia pur nei limiti della delega che, pur conferendo “alle disposizioni del testo unico un contenuto sicuramente innovativo” non gli consentiva di spingersi ad operare modifiche sostanziali della disciplina se non necessarie alla “stessa opera di coordinamento e armonizzazione espressamente delegata” (Sez. U, n. 9605 del 28/11/2013, Seghaier, Rv. 257989). Nei limiti del ristretto alveo compilativo riconosciuto al Testo unico si inquadrava l’operazione compiuta dal Legislatore che nel formulare l’art. 168 d.P.R. n. 115 del 2002 aveva sostituito, con riferimento all’autorità competente alla liquidazione, il termine “magistrato” a quello di giudice e pubblico ministero. Ad avviso della giurisprudenza di legittimità, con questa operazione il Legislatore aveva inteso valorizzare la figura dell’organo giudiziario che “ha la disponibilità e la signoria sugli atti al momento della liquidazione” (in tema di liquidazione delle spese relative alle fatture emesse dai gestori di telefonia per l’acquisizione di tabulati telefonici, Sez. 4, n. 21757 del 10/05/2006, Romano, Rv. 234519; Sez. 1, n. 21703 del 21/05/2008, Bertone, Rv. 240078; Sez. 4, n. 19650 del 04/02/2009, Musumeci, Rv. 243444), a cui è “demandata la decisione nel merito” (Sez. 4, n. 34184 del 12/01/2012, Cifarelli, Rv. 253499 - 01).

3. La giurisprudenza di legittimità sulla questione controversa.

Sulla specifica questione sottoposta al vaglio delle Sezioni Unite, relativa alla interpretazione del significato da ascrivere alla locuzione “magistrato che procede” contenuta nell’art. 168 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 in caso di istanza di liquidazione dei compensi delle spettanze agli ausiliari del magistrato e dell’indennità di custodia dei beni sequestrati presentata dopo il provvedimento di archiviazione, si registravano pronunce di legittimità non univoche.

In epoca di poco antecedente all’approvazione del Testo unico, Sez. U, n. 25161 del 24/04/2002, Fabrizi, Rv. 221660, chiamata a decidere in merito alla individuazione del regime della prescrizione del compenso dovuto al custode di cose sequestrate nell’ambito di un procedimento penale, aveva fornito un criterio di individuazione del magistrato competente a provvedere in ordine alle necessarie incombenze, nelle varie fasi processuali, affermando il principio di diritto secondo il quale “la competenza a deliberare sulla richiesta di anticipazione o liquidazione finale del compenso presentata dal custode di cose sequestrate nell’ambito di procedimento penale appartiene, nella fase successiva alla sentenza irrevocabile, al giudice dell’esecuzione, nella fase delle indagini preliminari al pubblico ministero il quale provvede con decreto motivato, nel corso del giudizio di cognizione, al giudice che ha la disponibilità del procedimento il quale provvede “de plano”, osservandosi, in tutti i casi, le forme stabilite per il procedimento di esecuzione a norma dell’art. 666 cod. proc. pen.” sul presupposto che, poiché “la disposizione dell’art. 265 cod. proc. pen. riproduce esattamente il dettato dell’art. 626 del codice di rito previgente, in relazione al quale la giurisprudenza di legittimità era concorde nel ritenere che la competenza appartenesse al giudice dell’esecuzione dopo la sentenza irrevocabile ed al giudice avente la disponibilità del procedimento durante la pendenza del giudizio di cognizione, i medesimi criteri - tenuto conto della stretta connessione tra dissequestro e restituzione delle cose sequestrate e pagamento delle spese di custodia (art. 262, 2° comma, c.p.p. e art. 84 disp. att. c.p.p.) - fossero validi anche nella disciplina del nuovo codice di rito.

La sentenza “Fabrizi”, nel richiamare l’orientamento formatosi nella vigenza del codice di procedura penale abrogato secondo il quale “la competenza a liquidare il compenso al custode giudiziario spetta al giudice dell’esecuzione dopo la sentenza irrevocabile e al giudice che ha la disponibilità del procedimento nel corso del giudizio, apparendo logico che siano unificati nello stesso organo il potere di disporre circa la restituzione delle cose sequestrate e circa il suddetto compenso, essendo subordinata la restituzione al recupero delle spese di custodia sostenute dallo Stato” (Sez. 1, n. 1437 del 04/05/1979, Angioini Rv. 142373; Sez. 1, n. 804 del 05/04/1978, Hagler, Rv. 138723), aveva collegato la competenza dell’autorità giudiziaria al potere di disposizione sulle cose sequestrate (artt. 263 e ss. Cod. proc. pen.) e di liquidazione del compenso all’ausiliario per la subordinazione della restituzione al recupero delle spese anticipate dall’Erario. Con l’approvazione del Testo unico, in merito alla locuzione “magistrato che procede”, di cui all’art. 168 d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, si formavano due differenti orientamenti giurisprudenziali, il primo dei quali fondava sul principio di diritto affermato da Sez. 4, n. 26993 del 05/05/2004, Demo, Rv. 229661, secondo il quale “è competente il P.M. a decidere sulla richiesta di liquidazione del compenso del custode qualora il procedimento si concluda con provvedimento di archiviazione”, atteso che “con la richiesta di archiviazione il giudice per le indagini preliminari non viene investito del procedimento ma viene chiamato esclusivamente a svolgere un controllo di legalità sulla determinazione del pubblico ministero di non esercitare l’azione penale”. Il principio è stato ribadito più di recente in ulteriori arresti di legittimità nei quali si è affermato che la locuzione “magistrato che procede” è riferibile al magistrato che ha la materiale disponibilità degli atti al momento della richiesta di liquidazione, da individuarsi, dopo l’archiviazione del procedimento e la trasmissione degli atti all’ufficio di procura, nel pubblico ministero (Sez. 4, n. 54227 del 14/09/2018, Ignoti, Rv. 274428; Sez. 4, n. 54827 del 14/09/2018, Ignoti, Rv. 274276; nonché, in tema di liquidazione di spese relative ad intercettazioni telefoniche, Sez. 4, n. 54826 del 2018 n.m.; Sez. 4 n. 6657 del 19/01/2017, P.M. in proc. G.i.p. Trib. Napoli, Rv. 269037; Sez. 4, n. 2212 del 01/10/2014, dep. 2015, Ignoti, Rv. 261765).

In contrapposizione a tale indirizzo, in altre pronunce si è affermato il principio secondo il quale, anche in caso di archiviazione già disposta, la competenza a decidere sulla liquidazione dei compensi al custode appartiene al giudice per le indagini preliminari quale autorità procedente, a nulla rilevando la materiale trasmissione del fascicolo processuale agli archivi della procura (Sez. 5, n. 2924 del 12/11/2013, dep. 2014, Ignoti, Rv. 257939; Sez. 5, n.9222 del 10/02/2006, PM c/ignoti, Rv. 233770; Sez. 4, n. 32314 del 20/01/2005, Trionfo, Rv. 231724; Sez. 4, n. 11195 del 26/01/2005, Paolucci, Rv. 231196), poiché la competenza alla liquidazione delle spettanze agli ausiliari del magistrato e dell’indennità di custodia è del giudice dell’esecuzione. Il ragionamento della Corte prendeva le mosse da un’operazione di interpretazione logico-sistematica dell’art. 263, comma 6, cod. proc. pen. che, nello stabilire che dopo la sentenza non più soggetta a impugnazione sulla restituzione delle cose sequestrate provvede il giudice dell’esecuzione, dava vita ad una previsione, essa stessa, espressione di un principio di carattere generale in base al quale, qualora alla restituzione del bene non abbia provveduto il giudice che procede ed il procedimento sia stato “definito”, ossia non esiste più un giudice di cognizione, l’interessato deve rivolgersi al giudice dell’esecuzione (Sez. 1, n. 15997 del 28/2/2014, Villa, Rv. 259912), regola questa “da applicarsi anche al provvedimento di archiviazione, atteso che esso definisce la fase delle indagini preliminari, facendo sì che tutti i poteri conferiti al pubblico ministero ed al giudice per le indagini preliminari passino a quest’ultimo, ma in funzione di giudice dell’esecuzione, ai sensi dell’art. 665 cod. proc. pen.” (Così Sez. 4, n. 43885 del 10/07/2018, Ignoti, Rv. 274268).

4. Il decreto di archiviazione e la sua natura.

Ai fini dell’esame della questione interpretativa rimessa al vaglio della Corte e riferita ad una istanza di liquidazione dei compensi presentata dopo il provvedimento di archiviazione, giova segnalare che sulla natura del detto provvedimento, a differenza di quanto affermato (o meglio auspicato) nel corso dei lavori preparatori, allorchè si era escluso che potesse riproporsi qualsiasi disputa sulla natura del provvedimento di archiviazione “decisamente collocato fuori dall’area della giurisdizionalità” (Rel. prog. prel. c.p.p., pag. 100 in G.U. Serie Generale n. 250 del 24.10.1988, non erano affatto sopiti i dubbi sorti già nella vigenza del codice di procedura penale abrogato. Invero, la giurisprudenza di legittimità in taluni arresti aveva affermato: che al provvedimento di archiviazione del giudice per le indagini preliminari non poteva riconoscersi natura giurisdizionale trattandosi di un atto privo di statuizioni o accertamenti processualmente certi benché emesso da un giudice (Sez. 1, n. 8881 del 10/07/2000, Malcangi, Rv. 216919); che con il provvedimento di archiviazione “il giudice si pone come garante della legalità, in ordine all’esercizio dell’azione penale, e non come risolutore di un conflitto di interessi” (Sez. 5, n. 6059 del 13/11/1998, dep. 1999, Fortunato, Rv. 212643,); che il provvedimento di archiviazione, sebbene non contenga statuizioni o accertamenti processualmente certi rappresenta un punto fermo del processo inteso come “qualunque procedimento contenzioso o non contenzioso di natura giurisdizionale” (Sez. 3, n. 39191 del 18/06/2014, Ventura, Rv. 260391; Sez. 6, n. 26189 del 4.06.2009, Merenda e altro, Rv. 244553; Sez. 1, n. 8881 del 10/07/2000, Malcangi, Rv. 216919; Sez. 5, n. 6059 del 13-11-1998, dep. 1999, Fortunato, Rv. 212643; Sez. 5, n. 1334 del 22.10.1991 dep. 1992, Panicucci, Rv. 189199); che a dirimere ogni dubbio sul carattere non giurisdizionale del provvedimento di archiviazione, soccorrerebbero la sua collocazione all’interno della fase preprocessuale e la sua insuscettibilità a “passare in giudicato” sebbene lo stesso sia dotato, in virtù del disposto dell’art. 414, di una limitata efficacia preclusiva (Sez U, n. 9 del 22/03/2000, Finocchiaro, Rv. 216004; Sez. 3 n. 3908 del 28/01/2010, S., Rv. 246022; Sez. 5, n. 1344 del 22/10/1991 (dep. 1992), Panicucci, Rv. 189199). In merito alla efficacia preclusiva del provvedimento di archiviazione la Corte costituzionale, nel dichiarare non fondata la questione di legittimità, sollevata in riferimento all’art. 24 Cost., dell’art. 555 cod. proc. pen., comma 2, in relazione all’art. 414 cod. proc. pen. vigente nella parte in cui non consente di rilevare o eccepire la nullità del decreto di citazione a giudizio nel caso di mancata autorizzazione alla riapertura delle indagini preliminari, ha assegnato al provvedimento del giudice per le indagini preliminari che autorizza lo svolgimento delle nuove indagini la sostanziale natura di condizione di procedibilità, con la conseguenza che la richiesta di rinvio a giudizio formulata dal pubblico ministero dopo l’archiviazione e senza previa autorizzazione alla riapertura delle indagini, determina l’improcedibilità dell’azione penale, che dev’essere dichiarata dal giudice competente a decidere sul merito ex artt. 129, 425, 469 e 529 cod. proc. pen. Dunque, ad avviso della Corte costituzionale, in difetto del provvedimento autorizzativo del giudice per le indagini preliminari, è precluso al pubblico ministero di espletare nuove indagini e di promuovere l’azione penale (Corte cost. 95/27 e, più di recente, Corte cost. ‘03/56). In questa ottica, la restituzione degli atti al pubblico ministero, ai sensi dell’art. 409 cod. proc. pen., sembrerebbe rispondente alla sola esigenza di lasciare nella disponibilità della parte pubblica quanto necessario ad una rivisitazione della vicenda, allorchè si profili la necessità di compiere nuove investigazioni; di conseguenza il decreto di archiviazione, chiudendo la fase del procedimento rappresentata dalle indagini preliminari svolte, infruttuosamente, dalla pubblica accusa, costituirebbe l’elemento di cesura che segna la fine di un percorso, impedendo la prosecuzione della fase procedimentale, salva la possibilità di una riapertura con l’intervento del giudice ai sensi dell’art. 414 cod. proc. pen. (Sez. 5, n. 33057 del 10/07/2007, Gianoglio, Rv. 237581, in tema di efficacia preclusiva del decreto in merito alla “notitia criminis” e non al fatto).

5. La sentenza delle Sezioni Unite “Seghaier”: una traccia per la soluzione della questione.

Un importante spunto di riflessione per la questione rimessa al vaglio delle Sezioni unite si rinviene nel principio di diritto affermato da Sez. U, n. 9605/14 del 28/11/2013, Seghaier, Rv. 257989-01, secondo il quale “alla liquidazione dei compensi dovuti al consulente tecnico nominato dal P.M. deve provvedere lo stesso P.M. che ha conferito l’incarico, anche nel caso in cui il procedimento sia passato ad una fase successiva” in considerazione dello stretto vincolo fiduciario che intercorre tra l’autorità giudiziaria che designa e il soggetto designato quale perito o consulente. Nella specie, le Sezioni Unite se da un lato valorizzavano la regola di competenza delineata per il perito e il consulente del pubblico ministero contenuta nell’art. 73 disp. att. cod. proc. pen., che rinvia all’osservanza delle disposizioni previste per il perito e, quindi, all’art. 232 cod. proc. pen., il quale stabilisce espressamente che il compenso al perito è liquidato dal giudice che ha disposto la perizia a prescindere dalla fase in cui si trova il procedimento nel momento della richiesta di liquidazione, tuttavia dall’altro sottolineavano che la regola individuata con riguardo a perito e consulente del P.M., derivando da una speciale disposizione normativa, non avrebbe potuto incidere in alcun modo “sulla regola fissata, in via generale, dall’art. 168 T.U. per il custode e gli altri ausiliari ivi menzionati”. Nella decisione si sottolineava così la netta distinzione tra il rapporto fiduciario che si istaura tra il pubblico ministero e il consulente tecnico e il rapporto intercorrente tra il magistrato e gli altri ausiliari temporaneamente incaricati di una pubblica funzione sulla base della nomina loro conferita dall’organo giudiziario e da questi scelti, sulla base di un potere discrezionale, in considerazione della natura e della funzione svolta (Cass. Civile, Sez. 1, n. 4714 del 12/07/1983, Rv. 429606).

L’affermazione di Sez. U, n. 9605/14 del 28/11/2013, Seghaier, Rv. 257989-01, secondo la quale l’individuazione dell’autorità giudiziaria competente per la liquidazione delle spettanze agli ausiliari del magistrato, diversi dal consulente tecnico, deve avvenire tenendo conto della assenza di quel rapporto fiduciario esistente tra quest’ultimo e il pubblico ministero, non è stata tuttavia utile a dirimere il contrasto in relazione alla individuazione dell’autorità giudiziaria competente per la liquidazione dell’indennità di custodia a seguito di provvedimento di archiviazione.

Invero, sul solco tracciato dalla precedente giurisprudenza dominante, alcune pronunce hanno individuato in procedimento conclusosi con l’archiviazione, il “magistrato che procede”, indicato all’art. 168 d.P.R. n. 115 del 2002, nel giudice per le indagini preliminari dichiarando l’abnormità “per la stasi processuale che ne deriva” del “provvedimento con il quale il giudice per le indagini preliminari, disposta l’archiviazione, rimetta al pubblico ministero la decisione sulla richiesta di liquidazione del compenso spettante al custode giudiziario”, spiegando, per un verso, che l’attribuzione della competenza al giudice per le indagini preliminari nasce dalla circostanza che, in procedimento conclusosi con provvedimento di archiviazione, è proprio questi il giudice dell’esecuzione (Sez. 4, n. 834 del 13/09/2017, dep. 2018, Ignoti, Rv. 271748) ed evidenziando, dall’altro, come ai fini della competenza sia irrilevante la collocazione “fisica” del fascicolo archiviato presso altro ufficio e come invece la disponibilità del medesimo sia da ritenersi propria del giudice per le indagini preliminari che ha definito il procedimento accogliendo la richiesta di archiviazione formulata dal pubblico ministero, in ragione della funzione di giudice dell’esecuzione dallo stesso esercitata (Sez. 4, n. 43885 del 10/07/2018, Ignoti, Rv. 274268).

Seguendo un apparentemente difforme orientamento ricollegabile alla già citata pronuncia di Sez. 4, n. 26993 del 05/05/2004, Demo, Rv. 229661, altri recenti arresti, seppure numericamente ridotti, hanno invece evidenziato che, in caso di procedimento conclusosi con provvedimento di archiviazione e restituzione degli atti alla procura, la competenza alla liquidazione delle spese di custodia “spetta al pubblico ministero quale magistrato che procede, ai sensi dell’art. 168, d.P.R. n. 115 del 30 maggio 2002”, in quanto “magistrato che ha materialmente la disponibilità degli atti al momento della richiesta di liquidazione dopo l’archiviazione del procedimento (Sez. 4, n. 54227 del 14/09/2018, ignoti, Rv. 274428; Sez. 4, n. 6657 del 19/01/2017, G.i.p. Trib. Napoli, Rv. 269037; Sez. 4, n. 2212 del 01/10/2014, dep. 2015, ignoti, Rv. 261765). Da ultimo Sez. 4 n. 54827 del 14/09/2018, ignoti, Rv. 274276, richiamando l’art. 3 d.P.R. n. 115 del 2002, il quale contiene le definizioni valevoli ai fini della lettura dello strumento normativo, ha posto l’attenzione sulla definizione di “magistrato” (riferibile tanto al giudice che al pubblico ministero) e sul significato della locuzione “che procede”, riconoscendo validità al criterio della materiale disponibilità degli atti al momento in cui sorge la necessità di procedere (quindi, per il caso che ci occupa, la presentazione dell’istanza di liquidazione)”. Nel fare ciò la Quarta sezione, richiamando gli insegnamenti della sentenza “Seghaier” ha precisato che “pur addivenendo a soluzione diversa nel caso all’esame in quella sede (nel quale ha ritenuto di preminente rilievo il rapporto fiduciario tra il consulente e l’organo che lo ha nominato, in base al coordinato disposto di cui all’art. 73 disp. att. cod. proc. pen. e 232 cod. proc. pen.)”, tale pronuncia avrebbe ripreso e fatto proprio “il più condivisibile orientamento espresso da altre pronunce nelle quali si è dato rilievo al criterio della disponibilità degli atti, in conformità ai principi, sia pure incidentalmente, affermati dalle sezioni unite di questa Corte nella sentenza n. 9605 del 2013 già citata [cfr. Sez. 4 n. 7468 dell’11/12/2012 Cc. (dep. 14/02/2013), Rv. 254516; n. 2212 dell’01/10/2014 Cc. (dep. 16/01/2015), P.M. in proc. ignoti, Rv. 261765]”.

In queste decisioni, la Corte sembra dare rilievo in via esclusiva al riferimento contenuto nella pronuncia “Seghaier” allorchè individua il “magistrato che ha la disponibilità degli atti” in quello che ha la disponibilità materiale del fascicolo al momento in cui sorge la necessità di procedere a seguito di istanza di liquidazione presentata successivamente al provvedimento di archiviazione e restituzione degli atti al pubblico ministero.

6. La ricaduta della decisione sulla dichiarazione di incompetenza.

La Quarta sezione nel rimettere al vaglio delle Sezioni unite la risoluzione del contrasto interpretativo sul significato da ascrivere alla locuzione “magistrato che procede” contenuta nell’art. 168., comma 1, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, ne ha sottolineato, come dianzi accennato, la ricaduta sul provvedimento con il quale il giudice per le indagini preliminari, a seguito della propria dichiarazione di incompetenza, restituisce gli atti al pubblico ministero, prospettando che:

alla risposta al quesito in termini di attribuzione della competenza al giudice per le indagini preliminari, conseguirebbe l’abnormità del provvedimento perché idoneo a determinare una stasi del procedimento, superabile da parte del pubblico ministero soltanto con il compimento di un atto esorbitante dalla propria competenza e pertanto illegittimo;

alla risposta al quesito in termini di attribuzione della competenza all’ufficio del pubblico ministero, conseguirebbe la legittimità del provvedimento e la conseguente dichiarazione di inammissibilità del ricorso del pubblico ministero in quanto proposto nei confronti di un provvedimento inoppugnabile per il principio di tassatività dei mezzi d’impugnazione di cui all’art. 568 cod. proc. pen.

In un arresto, rimasto isolato, i giudici di legittimità avevano intravisto nel procedimento di liquidazione, un autonomo subprocedimento le cui vicende sono disciplinate, fuori del codice, dal d.P.R. n. 115 del 2002 con esclusione di qualsiasi ricaduta su di esso delle patologie o dei vizi processuali propri del provvedimento con il quale il giudice restituisce al pubblico ministero la richiesta di liquidazione di compensi “in quanto la previsione di uno speciale procedimento di opposizione per le controversie riguardanti la liquidazione degli onorari agli ausiliari farebbe venir meno l’irreversibilità della stasi procedimentale che costituisce il presupposto necessario dell’abnormità” (Sez. 3, n. 28181 del 29/02/2012, Alemanni, Rv. 254327).

Diversamente, per la gran parte, la giurisprudenza della Corte di cassazione ha qualificato come abnorme “il provvedimento del giudice innanzi al quale pende il processo con cui venga disposta la restituzione al pubblico ministero della richiesta di liquidazione delle competenze professionali presentata dal custode giudiziario (tra le tante: Sez. 4, n. 7468 del 11/12/2012, P.M. in proc. c/ ignoti, Rv. 254516; Sez. 5 n. 9222 del 10/02/2006 PM in proc. c/ignoti Rv. 233770; Sez. 4, n. 4211 del 09/11/2005, P.M. in proc. c/ ignoti, Rv. 233399).

È da sottolineare che in tema di risoluzione delle controversie in materia di onorari agli ausiliari, i giudici di legittimità hanno ritenuto talora percorribile la strada del ricorso per cassazione per abnormità del provvedimento, talaltra configurabile un conflitto di competenza tra autorità giudiziarie, nella specie giudice e pubblico ministero. In particolare, nel ritenere ammissibile il conflitto negativo Sez. 1, n. 46673 del 10/10/2012, Rv. 254022, evidenziava che proprio in controversie in materia di onorari agli ausiliari l’organo requirente ha competenze e poteri decisionali analoghi a quelli del giudice, rispetto al quale si pone in posizione paritetica (Sez. 1, n. 46673 del 10/10/2012, Rv. 254022).

Di segno contrario, quella giurisprudenza che ravvisa la configurabilità di un conflitto di competenza solo allorchè due giudici, con provvedimento esplicito, prendano o rifiutino di prendere cognizione del processo in modo da realizzare una situazione d’inerzia processuale e una alternativa non altrimenti risolvibile, e che lo esclude come possibile tra un giudice ed un pubblico ministero che è parte, sia pure pubblica, nel processo penale con la conseguenza che, a fronte del provvedimento declinatorio di competenza emesso dal giudice, al pubblico ministero non resterebbe che prendere atto, come ogni altra parte del procedimento, delle statuizioni del giudice, fatti salvi i mezzi d’impugnazione previsti dalla legge (Sez. 1, n. 1405 del 21/05/1990, Paci Rv. 184589; Sez. 1, n. 3254 del 06/07/1992, Piersigilli, Rv. 191385; Sez. 1, n. 3880 del 06/10/1992, Panetta Rv. 192181; Sez. 1, n. 714 del 19/02/1993, Egizio Rv. 193396; Sez. 1, n. 1555 del 06/04/1994, Di Mattina ed altri Rv. 197658; Sez. 1, n. 451 del 21/01/2000, Carbonara Rv. 215378; Sez. 1, n. 17357 del 09/04/2009, Carletti Rv. 243568; Sez. 1, n. 26733 del 05/05/2009, Buccella ed altri Rv. 244649). Sez. U. n. 9605 del 28/11/2013, Seghaier, Rv. 257989, che ha affrontato la questione relativa all’individuazione dell’autorità giudiziaria competente per la liquidazione delle spettanze al consulente tecnico, con riferimento a questo differente profilo ha affermato che il conflitto di competenza è configurabile solo tra organi giurisdizionali e che, pertanto, una situazione di conflittualità tra il pubblico ministero, che è una parte anche se pubblica del processo, e il giudice non è inquadrabile neppure sotto il profilo dei “casi analoghi” previsti dall’art. 28 cod. proc. pen., così facendo rivivere il percorso alternativo, già imboccato dalla precedente giurisprudenza, che qualificava il provvedimento con cui il giudice restituisce al pubblico ministero la richiesta di liquidazione di compensi come abnorme ed impugnabile con ricorso per cassazione (Sez. 1, n. 3256 del 06/07/1992, Loreti ed altro Rv. 191593) in assenza di specifici mezzi di gravame per tali tipologie di atti e a fronte della necessità del suo annullamento in quanto idoneo a determinare la stasi del procedimento e l’impossibilità di proseguirlo (Sez. 3, n. 3010 del 09/07/1996, Cammarata Rv. 206058; Sez. 1, n. 1560 del 23/02/1999, Bentivegna, Rv. 213879; Sez. 3, n. 818 del 17/11/2015, Bartone Rv. 266176). L’istituto dell’abnormità del provvedimento che, per la sua flessibilità e capacità di adattamento a nuove e imprevedibili situazioni, è sempre sfuggito a una tassativa tipizzazione o classificazione esaustiva, che ne avrebbe pregiudicato la “funzione di valvola di sfogo” per i provvedimenti giudiziari anomali, è divenuto allora lo strumento risolutivo della stasi processuale cagionata dai contrasti tra giudice e pubblico ministero in materia di competenza alla liquidazione delle spese di custodia (Sez. 4 n. 43885 del 10/07/2018 ignoti, Rv. 274268 – 01; Sez. 4 n. 54227 del 14/09/2018 ignoti, Rv. 274428 – 01; Sez. 4, n. 834 del 13/09/2017 Cc. (dep. 11/01/2018) ignoti, Rv. 271748 – 01; Sez. 4 n. 2924 del 2014 ignoti, Rv. 257939 - 01; Sez. 4 n. 31324 del 2005 Trionfo, Rv. 231724 - 01; Sez. 4 n. 27915 del 2005 Ditta Truch Cars, Rv. 231811 - 01; n. 4211 del 09/11/2005 (dep. 02/02/2006) Ignoti, Rv. 233399 - 01) e compensi al consulente tecnico del pubblico ministero (Sez. 4, n. 21319 del 11/12/2012 Cc. (dep. 17/05/2013) Pinetti, Rv. 255281 – 01; Sez. 5 n. 7710 del 09/12/2008 (dep. 20/02/2009 Gabellone, Rv. 242947 – 01; Sez. 4 n. 15147 del 29/01/2008 2008 ignoti, Rv. 239732 - 01), dovendosi escludere che “la decisione di natura meramente processuale con la quale il g.i.p. si limita a trasmettere gli atti per competenza al pubblico ministero possa essere equiparata a un provvedimento sostanzialmente reiettivo dell’istanza nel merito e, come tale, quindi, impugnabile” (Sez. U, n. 9605 del 28/11/2013, Seghaier, Rv. 257989; Sez. 4, n. 26993 del 05/05/2004, Demo, Rv. 229660; Sez. U, n. 19289 del 25/02/2004, Lustri, Rv. 227355, in tema di competenza a decidere sulla domanda di ammissione al patrocinio a spese dello Stato.

7. La decisione.

Con la decisione assunta all’udienza del 18 aprile 2019, della quale oggi si attende il deposito della motivazione della sentenza per verificare le ragioni poste a fondamento della soluzione prescelta, essendo nota soltanto la soluzione adottata, le Sezioni Unite hanno dato risposta al quesito riportato in apertura affermando che “la competenza spetta al giudice per le indagini preliminari in funzione di giudice dell’esecuzione”.

Evidentemente, il Supremo consesso ha condiviso l’orientamento giurisprudenziale in forza del quale si era qualificato come abnorme, per la stasi processuale che ne deriva, il provvedimento con cui il giudice per le indagini preliminari, disposta l’archiviazione, aveva restituito gli atti al pubblico ministero per la liquidazione delle spese di custodia dei beni in sequestro, in quanto la relativa competenza spetta al giudice dell’esecuzione, quale “magistrato che procede” ai sensi dell’art. 168 del T.U. sulle spese di giustizia (Sez. 4 , n. 43885 del 10/07/2018, PM C/Ignoti, Rv. 274268). Successivamente alla data del 18 aprile 2019, e nel breve lasso temporale successivo, risultano talune pronunzie delle Sezioni semplici che danno conto dell’allineamento alla decisione delle Sezioni Unite (Sez. 4, n. 45757 del 12/11/2019, P.M., n.m.; Sez. 4, n. 45758 del 12/11/2019, PM, n.m.; Sez. 4, n. 24944 del 9/05/2019, P.M., n.m.).

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. 1, n. 804 del 05/04/1978, Hagler, Rv. 138723

Sez. 1, n. 1437 del 04/05/1979, Angioini Rv. 142373

Sez. 1, n. 1405 del 21/05/1990, Paci Rv. 184589

Sez. 5, n. 1334 del 22.10.1991 dep. 1992, Panicucci, Rv. 189199

Sez. 1, n. 3254 del 06/07/1992, Piersigilli, Rv. 191385

Sez. 1, n. 3256 del 06/07/1992, Loreti Rv. 191593

Sez. 1, n. 3880 del 06/10/1992, Panetta Rv. 192181

Sez. 1, n. 714 del 19/02/1993, Egizio, Rv. 193396

Sez. 1, n. 1555 del 06/04/1994, Di Mattina, Rv. 197658

Sez. 3, n. 3010 del 09/07/1996, Cammarata Rv. 206058

Sez. 5, n. 6059 del 13/11/1998, dep. 1999, Fortunato, Rv. 212643

Sez. 1, n. 1560 del 23/02/1999, Bentivegna, Rv. 213879

Sez. 1, n. 451 del 21/01/2000, Carbonara Rv. 215378

Sez. U, n. 9 del 22/03/2000, Finocchiaro, Rv. 216004

Sez. 1, n. 8881 del 10/07/2000, Malcangi, Rv. 216919

Sez. U, n. 25161 del 24/04/2002, Fabrizi, Rv. 221660

Sez. U, n. 19289 del 25/02/2004, Lustri, Rv. 227355

Sez. 4, n. 26993 del 05/05/2004, Demo, Rv.229661

Sez. 4, n. 32314 del 20/01/2005, Trionfo, Rv. 231724

Sez. 4, n. 11195 del 26/01/2005, Paolucci, Rv. 231196

Sez. 4, n. 27915 del 13/04/2005, Ditta Truch Cars, Rv. 231811

Sez. 4, n. 4211 del 09/11/2005, P.M. in proc. c/ ignoti, Rv. 233399

Sez. 5, n. 9222 del 10/02/2006, Ignoti, Rv. 233770

Sez. 4, n. 21757 del 10/05/2006, Romano, Rv. 234519

Sez. 5, n. 33057 del 10/07/2007, Gianoglio, Rv. 237581

Sez. 4, n. 15147 del 29/01/2008, Ignoti, Rv. 239732

Sez. 1, n. 21703 del 21/05/2008, Bertone, Rv. 240078

Sez. 5, n. 7710 del 09/12/2008 dep. 2009, Gabellone, Rv. 242947

Sez. 4, n. 19650 del 04/02/2009, Musumeci, Rv. 243444

Sez. 1, n. 17357 del 09/04/2009, Carletti Rv. 243568

Sez. 1, n. 26733 del 05/05/2009, Buccella Rv. 244649

Sez. 6, n. 26189 del 4/06/2009, Merenda, Rv. 244553

Sez. 3, n. 3908 del 28/01/2010, S., Rv. 246022

Sez. 4, n. 34335 del 04/05/2011, Pronesti, n.m.

Sez. 4, n. 34184 del 12/01/2012, Cifarelli, Rv. 253499

Sez. 3, n. 28181 del 29/02/2012, Alemanni, Rv. 254327

Sez. 1, n. 46673 del 10/10/2012, Confl. comp. in proc. Bacaio, Rv. 254022

Sez. 4, n. 7468 del 11/12/2012, dep. 2013, Ignoti, Rv.254516

Sez. 4, n. 21319 del 11/12/2012 dep. 2013, Pinetti, Rv. 255281

Sez. 5, n. 2924 del 12/11/2013, dep. 2014, Ignoti, Rv. 257939

Sez. U, n. 9605 del 28/11/2013, Seghaier, Rv. 257989

Sez. 1, n. 15997 del 28/2/2014, Villa, Rv. 259912

Sez. 3, n. 39191 del 18/06/2014, Ventura, Rv. 260391

Sez. 4, n. 2212 del 01/10/2014, dep. 2015, Ignoti, Rv. 261765

Sez. 3, n. 818 del 17/11/2015, Bartone Rv. 266176

Sez. 4, n. 6657 del 19/01/2017, P.M. in proc. G.i.p. Trib. Napoli, Rv. 269037

Sez. 4, n. 834 del 13/09/2017, dep. 2018, Ignoti, Rv. 271748

Sez. 4, n. 54826 del 14/09/2018, imp. PM, n.m.;

Sez. 4, n. 54827 del 14/09/2018, Ignoti, Rv. 274276

Sez. 4, n. 54227 del 14/09/2018, Ignoti, Rv. 274428

Sez. 4, n. 43885 del 10/07/2018, Ignoti, Rv. 274268

Sez. 4, n. 24944 del 9/05/2019, P.M., n.m.

Sez. 4, n. 45757 del 12/11/2019, P.M., n.m.

Sez. 4, n. 45758 del 12/11/2019, PM, n.m.

Sentenze della Corte Costituzionale

Corte cost., sent. n. 27 del 1995

Corte cost., sent. n. 56 del 2003

SEZIONE II PATROCINIO A SPESE DELLO STATO

  • patrocinio gratuito

CAPITOLO I

PARTE CIVILE AMMESSA AL PATROCINIO A SPESE DELLO STATO E POTERI DELLA CORTE DI CASSAZIONE SUI PROVVEDIMENTI DI LIQUIDAZIONE

(di Andrea Antonio Salemme )

Sommario

1 Questione controversa. - 2 Orientamento maggioritario in generale. - 2.1 Orientamento maggioritario esplicito. - 2.2 Orientamento maggioritario implicito. - 3 Il “leading case” dell’orientamento minoritario. - 3.1 Orientamento minoritario e giudizio di legittimità. - 3.2 Riconducibilità all’orientamento minoritario della giurisprudenza della Corte costituzionale. - 4 Orientamento intermedio. - 5 La decisione delle Sezioni Unite. - 6 Riflessioni conclusive. - Indice delle sentenze citate

1. Questione controversa.

Sez. 1, n. 22819 del 28 marzo-23 maggio 2019, De Falco, ravvisato un contrasto di giurisprudenza, ha rimesso al Primo Presidente per l’assegnazione alle Sezioni Unite la questione controversa così riassunta dall’Ufficio del Massimario: «Se, nel giudizio di legittimità, la competenza a provvedere in ordine alla liquidazione delle spese processuali sostenute dalla parte civile ammessa al patrocinio a carico dello Stato, ai sensi dell’art. 541 cod. proc. pen., ed alla emissione del decreto di liquidazione degli onorari e delle spese a beneficio del difensore della predetta parte civile, ai sensi dell’art. 83, comma 2, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, spetti alla Corte di cassazione ovvero al giudice del rinvio o a quello che ha pronunciato la sentenza passata in giudicato».

2. Orientamento maggioritario in generale.

L’orientamento maggioritario nega che la Corte di cassazione, la quale condanni l’imputato soccombente a rifondere all’erario dello Stato, ex art. 100, comma 3, t.u.s.g., le spese di costituzione della parte civile ammessa al patrocinio a spese dello Stato, debba altresì procedere, viepiù in sentenza, a liquidare il compenso che lo Stato è onerato di corrispondere al difensore della ridetta parte. Non vi sono pronunce massimate. Con riguardo alle non massimate, occorre distinguere tra quelle che esplicitamente affermano che la Corte di cassazione non ha il potere di liquidare il compenso del difensore e quelle che siffatto principio sottintendono, in quanto, concretamente, non liquidano “anche” tale compenso in uno al regolamento delle spese.

2.1. Orientamento maggioritario esplicito.

Sono ascrivibili all’orientamento maggioritario esplicito le seguenti pronunce:

- Sez. 5, n. 8218 del 18/01/2018, Murtas, la quale giudica infondata un’istanza di correzione di errore materiale, promossa dalla parte civile ammessa al patrocinio per non aver una precedente sentenza della S.C. posto a carico dell’erario dello Stato la liquidazione del compenso del difensore in misura eguale alla somma liquidata ex art. 541 cod. proc. pen., motivando nel senso che, «in primo luogo, a norma dell’art. 83 comma 2 d.P.R. n. 115/2002, alla liquidazione dell’onorario e delle spese sostenute dalla parte del giudizio di cassazione ammessa al patrocinio a carico dello Stato non provvede il giudice di legittimità bensì il giudice di rinvio, ovvero quello che ha pronunciato la sentenza passata in giudicato […]. Peraltro, la stessa sentenza della Suprema Corte, che condanna l’imputato al pagamento delle spese in favore della parte civile ammessa al beneficio, deve semmai, a norma dell’art. 110 comma 3° d.P.R. 115/2002, disporre il pagamento di tali spese “in favore” dello Stato» (pagamento che la precedente sentenza aveva “implicitamente” disposto, liquidando il “quantum” in dispositivo pur senza indicare “expressis verbis” il soggetto creditore nell’erario dello Stato);

- Sez. 2, n. 43356 del 21/10/2015, Zecca, la quale giudica parzialmente fondata un’analoga istanza (riferita a sentenza che aveva erroneamente condannato l’imputato alla rifusione delle spese alla parte civile), motivando che «il dispositivo e la motivazione della sentenza […] devono essere corretti nel senso che la condanna dei ricorrenti deve essere riferita al versamento delle somme indicate a favore dell’erario e non della parte civile, ai sensi dell’art. 110 d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115. Per quanto riguarda invece la liquidazione dell’onorario al difensore di parte civile la competenza appartiene alla corte d’appello […] ai sensi dell’art. 83 d.P.R. 212/2002».

2.2. Orientamento maggioritario implicito.

Accanto ad un orientamento maggioritario esplicito, ve n’è uno implicito, in seno al quale le pronunce si differenziano in due sottogruppi, sotto il profilo della determinazione del “quantum” al cui pagamento l’imputato è condannato in favore dell’erario dello Stato. La maggior parte di esse si limita ad una quantificazione secca di dette spese sul tacito presupposto dell’applicazione dei pertinenti criteri regolamentari, senza dunque i contenimenti e le decurtazioni discendenti dal t.u.s.g. (Sez. 2, n. 11647 del 05/02/2019, Ben Said; Sez. 4, n. 29314 del 05/06/2018, Vivanet; Sez. 5, n. 44915 del 27/04/2018, Musumeci; Sez. 2, n. 16054 del 20/03/2018, Natalizio; Sez. 1, n. 21091 del 08/02/2018, Riccio e altri; Sez. 5, n. 11960 del 07/12/2017 (dep. 2018), Ripamonti e altri; Sez. 1, n. 7784 del 27/11/2017 (dep. 2018), Parola; Sez. 2, n. 12856 del 27/01/2017, Viorel; Sez. 1, n. 7308 del 21/12/2016 (dep. 2017), Graziano; Sez. 5, n. 2186 del 14/11/2016 (dep. 2017), Antonucci). Invece alcune pronunce della Sez. 1 – la quale, nondimeno, come visto, esprime anche pronunce riconducibili al sottogruppo più numeroso – ritengono di dover quantificare le spese già computando nella liquidazione ex art. 541 cod. proc. pen. l’abbattimento di un terzo ai sensi dell’art. 106-bis t.u.s.g. (Sez. 1, n. 10551 del 07/11/2018 (dep. 2019), L.; Sez. 1, n. 46118 del 12/04/2018, Garau A. e altro; Sez. 1, n. 41124 del 10/04/2018, PG Roma in proc. Petrianni). La differenziazione che ne consegue rileva sul piano dei rapporti tra le due liquidazioni imputato-Stato, di cui agli artt. 541 cod. proc. pen. e 100 t.u.s.g., e Stato-difensore di p.c., di cui all’art. 82 t.u.s.g.: se l’indirizzo maggioritario pare “naturaliter” orientato alla totale autonomia dei rapporti imputato-Stato e Stato-difensore di p.c., che genera una possibile, ma fisiologica, differenza nelle rispettive liquidazioni, l’abbattimento di un terzo già inglobato nel primo rapporto sembrerebbe invece postulare la coincidenza della relativa liquidazione con la liquidazione afferente al secondo rapporto, giacché, diversamente, esso dovrebbe incidere soltanto su quest’ultimo. Su detto ulteriore piano, le pronunce della Sez. 1 in ultimo evocate, da un alto, dimostrano che non è necessitato che dalla coincidenza delle due liquidazioni imputato-Stato e Stato-difensore di p.c. discenda l’affermazione della competenza della Corte di cassazione a disporre anche la seconda; ma, dall’altro, per ciò solo, pongono l’interrogativo circa l’‘utilità’ di una seconda liquidazione ad opera del giudice di merito ex art. 83, comma 2, t.u.s.g. meramente ripetitiva della prima. Peraltro, in contrario avviso rispetto alle stesse, si registrano Sez. 4, n. 42844 del 09/10/2008, Rv. 241336-01, Amato, e Sez. 4, n. 26663 del 10/04/2008, Amato. Segnatamente, la massima della prima enuncia il principio che «il giudice, quando condanna l’imputato alla refusione delle spese processuali sostenute dalla parte civile, liquida gli onorari spettanti al difensore di quest’ultima senza essere vincolato ai criteri previsti per la liquidazione dei medesimi onorari dalla disciplina del patrocinio a spese dello Stato». La massima va letta in uno alla motivazione, alla stregua della quale la S.C. ritiene non condivisibile la tesi che «nella liquidazione in favore del difensore non poss[a]no essere riconosciuti importi maggiori di quelli già riconosciuti con la sentenza di condanna, da devolvere allo Stato, in quanto ciò esporrebbe lo Stato al rischio di non recuperare per intero, dall’imputato, quanto corrisponde al difensore», poiché «nessuna disposizione di legge è rinvenibile nel senso di vincolare la liquidazione in favore del difensore alla misura fissata dal giudice penale in sentenza. Ed anzi […] esiste una disposizione che è di segno opposto, laddove si precisa, con l’art. 82 sopra già richiamato, che la liquidazione dell’onorario e delle spese in favore del difensore della parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato non possono superare i valori medi tariffari […]».

3. Il “leading case” dell’orientamento minoritario.

Passando alla disamina dell’orientamento minoritario, la particolarità dello stesso risiede in ciò che fa derivare il dato della competenza della Corte di cassazione (anche) sulla liquidazione del compenso al difensore della parte civile vittoriosa ammessa al patrocinio a spese dello Stato – competenza da esercitarsi direttamente in sentenza (e dunque non con separato provvedimento ex artt. 82, comma 1, e 83, comma 1, t.u.s.g.) – dalla premessa della necessaria coincidenza tra le due liquidazioni nei rapporti imputato-Stato e Stato-difensore di p.c.: in tal modo, però, si sovrappongono due piani distinti, che, seppure per ragioni di opportunità collegati, non lo sono di necessità, come dimostrano le pronunce della Sez. 1, di cui all’indirizzo minoritario implicito sopra esaminato, che inglobano l’abbattimento dell’art. 106-bis t.u.s.g. nella liquidazione delle spese di procedimento, ma ricusano comunque di liquidare il compenso al difensore. In seno all’indirizzo che ne occupa, la fondamentale Sez. 6, n. 46537 del 08/11/2011, Rv. 251383-01, F., afferma che «l’importo che l’imputato, condannato a rifondere le spese sostenute dalla parte civile ammessa al beneficio del patrocinio, è tenuto a corrispondere allo Stato ex art. 110 del d.P.R. n. 115 del 2002 deve coincidere con la somma che il giudice liquida in favore del difensore della parte civile stessa ex art. 82 del d.P.R. cit., dovendo quindi anche tale liquidazione essere contenuta nel dispositivo della sentenza di condanna». Pare utile, dato anche il rilievo che la pronuncia ha avuto in letteratura, riassumerne brevemente la motivazione. La S.C., intervenuta a porre rimedio – annullando la sentenza senza rinvio e decidendo nel merito ex art. 620, lett. l), cod. proc. pen. – all’errore compiuto dal giudice di merito che, in sede di “patteggiamento”, aveva condannato l’imputato a rifondere le spese alla parte civile, anziché, come avrebbe dovuto ai sensi dell’art. 110 t.u.s.g., all’erario dello Stato, osserva quanto segue:

- la fattispecie «apparentemente vede il contrasto tra due discipline»: la quantificazione delle spese ex art. 541 cod. proc. pen., che segue la tariffa professionale ed è uno dei capi della sentenza, e la liquidazione del compenso al difensore della parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato, che segue egualmente la tariffa professionale, ma soggiace al limite del valore medio delle voci di cui all’art. 82, comma 1, t,u,s,g, oltreché, come più recentemente stabilito giusta legge 27 dicembre 2013, n. 147, all’abbattimento di un terzo di cui all’art. 106-bis t.u.s.g.;

- si applica l’art. 110, comma 3, t.us.g., di guisa che la liquidazione ex art. 541 cod. proc. pen. deve essere fatta in favore dello Stato;

- talché «vi è la sovrapposizione di tre “relazioni”: quella tra l’imputato e la parte civile, quella tra l’imputato e lo Stato, quella tra lo Stato e la parte civile»;

- «la somma che il giudice con la sentenza deve porre a carico dell’imputato deve coincidere con quella, a carico dello Stato, che lo stesso giudice deve liquidare al difensore della parte civile, con il decreto ex art. 82 t.u.s.g.», onde evitare che lo Stato si avvantaggi di un ingiustificato arricchimento, qualora ricevesse, per la prestazione del difensore di parte civile, più di quanto è tenuto a corrispondere al medesimo, ovvero subisca ingiustificati danni, qualora ricevesse dall’imputato, in ragione della soccombenza, meno di quanto è tenuto a corrisponde a tale difensore);

- rispetto al caso in cui la sentenza penale contiene il riconoscimento della responsabilità dell’imputato anche ai fini civili e la sua condanna alla rifusione delle spese, con riferimento al quale trova applicazione esclusivamente la disciplina di cui agli artt. 82 e 110 t.u.s.g., in quanto normativa successiva e speciale rispetto all’art. 541 cod. proc. pen., nei due casi eccezionali dell’assoluzione dell’imputato e della compensazione delle spese, le rispettive discipline del t.u.s.g. e del Codice di rito mantengono, per ragioni logiche prima ancora che giuridiche, la propria autonomia;

- sul piano processuale, «la necessaria coincidenza tra le somme relative al rapporto imputato-Stato ed a quello Stato-parte civile si ottiene agevolmente liquidando direttamente con la sentenza al difensore le spese di difesa sostenute dalla parte civile ammessa al patrocinio […]. Si tratta [non di una] soluzione sistematica quanto […] della conseguenza immediata dell’applicazione concreta della specialità della disciplina dell’art. 110 t.u.s.g. rispetto all’art. 541 c.p.p.»;

- sempre sul piano processuale, «conseguenza sistematica ulteriore è che le impugnazioni relative all’“an debeatur” sono disciplinate dal codice di rito […], mentre quelle relative al “quantum debeatur” sono disciplinate dal D.P.R. n. 115 del 2002, artt. 84 e 170 (che prevedono la partecipazione di tutte le parti processuali interessate) […]».

Sez. 6, n. 46537 del 2011 è ribadita, in generale, da Sez. 6, n. 15435 del 20/03/2014, C.R., e, soprattutto, da Sez. 6, n. 20552 del 06/03/2019, Rv. 275734-01, Setti c. Farsane, la quale ultima ne cristallizza un ulteriore innovativo approdo processuale, nel senso che il mancato inserimento della liquidazione disposta in favore del difensore della parte civile ai sensi dell’art 82 t.u.s.g. nel dispositivo della sentenza «integra un mero errore materiale omissivo, emendabile con la procedura di correzione innanzi al giudice che ha emesso il provvedimento».

3.1. Orientamento minoritario e giudizio di legittimità.

Quanto poi, specificamente, al giudizio di legittimità, le pronunce successive a Sez. 6, n. 46537 del 2011, sviluppano l’esigenza che la Corte di cassazione, affinché possa essere messa nelle condizioni di effettuare “uno acto” le due liquidazioni (coincidenti) nei rapporti imputato-Stato e Stato-difensore di p.c., disponga di una nota delle spese conforme all’art. 82 t.u.s.g. (ma altresì all’art. 106-bis dello stesso testo), giacché altrimenti ritorna operativa la competenza del giudice di cui all’art. 83, comma 2, t.u.s.g.: in tal senso depongono, alla lettera, le massime estratte da due pronunce non più recentissime: Sez. 4, n. 20044 del 17/03/2015, Rv. 263866-01, S. e altri, che riprende Sez. 6, n. 3885 del 18/01/2012, Rv. 252135-01, Iovine.

Nel dettaglio:

- Sez. 4, n. 20044 del 2015, in costanza di “regolare” nota delle spese, effettua direttamente la liquidazione delle spese in nome del principio della coincidenza delle liquidazioni (degno di nota è che, constando la condanna dell’imputato anche in favore di parti civili non ammesse al patrocinio a spese dello Stato, la somma liquidata a queste è identica alla somma liquidata all’erario dello Stato per quelle ammesse, dal che, pur nel silenzio della motivazione, pare di doversi dedurre che entrambe siano state contenute entro i medi tariffari);

- Sez. 6, n. 3885 del 2012, in un caso in cui, invece, non era stata depositata “regolare” nota delle spese, rileva che «la doverosa osservanza del principio di coincidenza delle somme […] impone di limitare la statuizione nel dispositivo di questa sentenza alla sola condanna nell’“an” […], riservando contestualmente a successivo decreto di liquidazione del giudice del merito, D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 83, comma 2, la determinazione del “quantum” […]. La soluzione evita paralisi procedimentali, non sacrifica alcun interesse tutelato e appare sistematicamente coerente e rispettosa delle diverse logiche e discipline, codicistica e speciale».

Sulla stessa china di Sez. 6, n. 3885 del 2012, si pone, tra le sentenze non massimate, Sez. 4, n. 52538 del 09/11/2017, Filareto.

3.2. Riconducibilità all’orientamento minoritario della giurisprudenza della Corte costituzionale.

Nella giurisprudenza della Corte costituzionale, due ordinanze di inammissibilità delle q.l.c. dell’art. 130 t.u.s.g., la n. 122 del 40 maggio 2016 e la n. 270 del 28 novembre 2012, chiamano in causa, trascorrendo dalla materia civile a quella penale, Sez. 6, n. 46537 del 2011, cui sembra di potersi dire che prestino adesione, laddove sostengono che le due liquidazioni dei rapporti imputato-Stato e Stato-difensore di p.c. devono coincidere. In particolare, con riguardo all’ordinanza n. 270 del 2012, al rimettente che denunciava l’irragionevolezza della dimidiazione «nel caso in cui la parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato sia risultata vittoriosa in giudizio, poiché in tale ipotesi il giudice, nel condannare il soccombente a corrispondere alle casse dello Stato le spese di lite, non potrebbe che determinarne l’ammontare applicando, senza abbattimenti, le tariffe forensi, con la conseguenza che l’erario incasserà dal soccombente l’intera somma liquidata dal giudice, ma ne riverserà al difensore della parte ammessa al beneficio solo la metà, trattenendo il resto, fatto che costituisce una vera e propria entrata tributaria», risponde il Giudice delle leggi «che, per un verso, deve essere escluso […] che, ove sia pronunziata condanna alle spese di giudizio a carico della controparte del soggetto ammesso al beneficio del patrocinio a spese dello Stato, vi sia una “iniusta locupletatio” dell’erario, atteso che, anche recentemente, la giurisprudenza di legittimità ha puntualizzato che la somma che, ai sensi dell’art. 133 d.lgs. n. 115 del 2002, va rifusa in favore dello Stato deve coincidere con quella che lo Stato liquida al difensore del soggetto non abbiente (Corte di cassazione, Sez. VI penale, 8 novembre 2011, n. 46537)», e «che, per altro verso, nel meccanismo attraverso il quale si procede alla liquidazione dei compensi spettanti al difensore che abbia difeso in giudizi diversi da quelli penali la parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato, e che comporta l’abbattimento nella misura della metà della somma risultante in base alle tariffe professionali, non è dato riscontrare alcuna forma di prelievo tributario, trattandosi semplicemente di una, parzialmente diversa, modalità di determinazione dei compensi medesimi – giustificata […] dalla diversità, rispetto a quelli penali, dei procedimenti giurisdizionali cui si riferisce – tale da condurre ad un risultato economicamente inferiore rispetto a quello cui si sarebbe giunti applicando il criterio ordinario».

4. Orientamento intermedio.

Tra i due orientamenti maggioritario e minoritario se ne situa uno intermedio, in cui confluiscono Sez. 6, n. 6509 del 08/01/2019, Carola, e Sez. 6, n. 51387 del 03/11/2016, Foti c. Errigo, intese, senza sostanziale motivazione, a tenere indenne la Corte di cassazione, non solo dall’incombente di liquidare il compenso del difensore della parte civile vittoriosa ammessa al patrocinio a spese dello Stato, ma altresì da quello di liquidare le spese che l’imputato, in quanto soccombente, deve versare all’erario dello Stato. Tali pronunce, processualmente, condividono con l’orientamento maggioritario l’affermazione dell’incompetenza della Corte di cassazione e comunque del “giudice del processo” ad effettuare la liquidazione del compenso del difensore della parte civile vittoriosa ammessa al patrocinio, in rigorosa osservanza, dall’angolo di visuale del giudizio di legittimità, dell’art. 83, comma 2, t.u.s.g.; sostanzialmente, però, accedono all’indirizzo minoritario laddove, attraverso una condanna generica (“rectius”, generico-condizionata) dell’imputato alla rifusione all’erario dello Stato delle spese di costituzione di parte civile nella misura successivamente liquidanda ex artt. 82 e 83 t.u.s.g., presuppongono che il “quantum” della liquidazione relativa al rapporto imputato-Stato debba coincidere con quello della liquidazione relativa al rapporto Stato-difensore di p.c., giacché la seconda liquidazione è determinata in funzione delle regole di cui agli artt. 82 e 106-bis t.u.s.g. ed è proprio essa che costituisce l’oggetto della condanna generica nei confronti dell’imputato in favore dell’erario dello Stato. Nella concretezza del ragionamento e viepiù della decisione rassegnata in dispositivo, le pronunce di cui si tratta vengono curiosamente a coincidere con la sopra ricordata Sez. 6, n. 3885 del 2012, la quale, nei soli casi in cui, nondimeno, sia impossibile per la Corte di cassazione liquidare direttamente il compenso del difensore, ne demanda il compito al giudice dell’art. 83, comma 2, t.u.s.g.

5. La decisione delle Sezioni Unite.

Alla stregua dell’informazione provvisoria n. 17 relativa all’udienza camerale del 26/09/2019, le Sezioni Unite hanno deciso che «nel giudizio di legittimità spetta alla Corte di cassazione provvedere, ai sensi dell’art. 541 cod. proc. pen., alla condanna generica dell’imputato ricorrente al pagamento delle spese processuali sostenute dalla parte civile ammessa al patrocinio a spese dello Stato; spetta al giudice del rinvio o a quello che ha pronunciato la sentenza passata in giudicato la liquidazione di tali spese mediante l’emissione del decreto di pagamento ai sensi degli artt. 82 e 83 d.P.R. n. 115/2002». Con la dovuta prudenza, in ragione dell’attesa del deposito delle motivazioni della sentenza, parrebbe che le Sezioni Unite non si siano limitate ad abbracciare gli esiti dell’orientamento maggioritario, ma, verosimilmente, si siano fatte carico altresì della questione, loro pure implicitamente devoluta, della coincidenza o meno delle liquidazioni nei rapporti parte soccombente-Stato e Stato-difensore della parte vittoriosa, risolvendola in senso affermativo: ciò che induce a ritenere che, in definitiva, la soluzione propugnata dalle Sezioni Unite coincida con quella dell’orientamento intermedio da ultimo descritto. Questo, effettivamente, ha il pregio di contemperare, da un lato, l’insussistenza dell’attribuzione di generalizzati poteri decisori di merito alla Corte di cassazione, per l’effetto sollevata, in ragione di una condanna meramente generica dell’imputato al pagamento delle spese, dall’emissione di un provvedimento di liquidazione anomalmente non impugnabile; dall’altro lato, l’osservanza delle indicazioni promananti dalla giurisprudenza della Corte costituzionale in punto di necessaria coincidenza tra le due liquidazioni nei rapporti parte soccombente (in specie, imputato)-Stato e Stato-difensore della parte vittoriosa (in specie, parte civile).

6. Riflessioni conclusive.

Se dovesse essere confermata, nelle motivazioni della sentenza, la lettura dell’informazione provvisoria nei termini che testé ci si è fatto lecito di prospettare, le Sezioni Unite si fregerebbero dell’esercizio di un potere nomofilattico almeno in parte “sincronizzato” con la giurisprudenza civile. Con riferimento alla prima parte dell’informazione provvisoria, infatti, Esse si allineano alla costante giurisprudenza civile, che declina la competenza della Corte di cassazione in favore del giudice di merito anche in vicende esitanti nella vittoria della parte ammessa al patrocinio.Rilevante è che siffatta affermazione sia ripetuta, pur con laconica motivazione (a verosimile conferma della ritenuta pacificità del principio), non solo dalla Sezioni semplici (Cass. Civ., Sez. I, n. 9384 del 16/04/2018, B.P. c. M.F., e Cass. Civ., Sez. 6-1, n. 17971 del 20/07/2017, N.M. c. S.S.), ma addirittura dalle Sezioni Unite [Cass. Civ., Sez. U, n. 22792 del 04/12/2012 (dep. 2013), R. c. Min. Giust. e Min. Int.].

Rilevante è altresì, con riguardo alla concreta conformazione del dispositivo della sentenza, che tutte le pronunce concludano nel senso di una mera condanna del ricorrente «a corrispondere le spese del giudizio di legittimità all’Amministrazione Finanziaria dello Stato» (così, letteralmente, la prima), condanna per l’effetto generico-condizionata. Con riferimento alla seconda parte dell’informazione provvisoria, poi, le Sezioni Unite potrebbero, prospetticamente, fornire un qualificato punto di vista, a misura che l’attribuzione «al giudice del rinvio o a quello che ha pronunciato la sentenza passata in giudicato» dell’incombenza relativa all’emissione del decreto di pagamento ai sensi degli artt. 82 e 83 t.u.s.g. realizza l’effetto di assicurare la necessaria coincidenza tra le due liquidazioni nei rapporti parte soccombente (in specie, imputato)-Stato e Stato-difensore della parte vittoriosa (in specie, parte civile). L’arresto delle Sezioni Unite, infatti, interviene giocoforza sulla bipartizione di posizioni recentemente manifestatasi in seno alla stessa giurisprudenza civile tra un gruppo di pronunce che sostengono la suddetta necessaria coincidenza ed altro gruppo che invece la negano:

- al primo appartengono Cass. Civ., Sez. 6-2, n. 21611 del 18/07/2017, Stievanin c. Min. Giust., e Cass. Civ., Sez. 6-2, n. 18167 del 16/09/2016, Rv. 641094-01, Salcina e altro c. Min. Giust., la quale ultima, in motivazione, richiama adesivamente Sez. 6, n. 46537 del 2011, a proposito della quale sostiene che – come confermato da C. cost. n. 270 del 2002 – enunci un principio generale, applicabile sia nella materia penale che in quella civile;

- al secondo appartengono Cass. Civ., Sez. 6-L, n. 11590 del 03/05/2019, Rv. 653764-01, I. c. L., e Cass. Civ., Sez. 2, n. 22017 del 11/09/2018, Rv. 650319-01. C. c. Min. Giust. Segnatamente viene in linea di conto quest’ultima, secondo cui, «qualora risulti vittoriosa la parte ammessa al detto patrocinio, il giudice civile, diversamente da quello penale, non è tenuto a quantificare in misura uguale le somme dovute dal soccombente allo Stato ex art. 133 del d.P.R. n. 115 del 2002 e quelle dovute dallo Stato al difensore del non abbiente, ai sensi degli artt. 82 e 130 del medesimo d.P.R., alla luce delle peculiarità che caratterizzano il sistema processual-penalistico di patrocinio a spese dello Stato e del fatto che, in caso contrario, si verificherebbe una disapplicazione del summenzionato art. 130. In tal modo, si evita che la parte soccombente verso quella non abbiente sia avvantaggiata rispetto agli altri soccombenti e si consente allo Stato, tramite l’eventuale incasso di somme maggiori rispetto a quelle liquidate al singolo difensore, di compensare le situazioni di mancato recupero di quanto corrisposto e di contribuire al funzionamento del sistema nella sua globalità».

L’autorevolezza dell’arresto delle Sezioni Unite potrebbe fungere sincreticamente, in una prospettiva nomofilattica globale, da criterio orientatore anche della giurisprudenza civile soltanto qualora si ritenesse che il versante penale del patrocinio a spese dello Stato non descriva una disciplina peculiare e separata rispetto al versante civile. Diversamente, la giurisprudenza civile si troverebbe a fare i conti, pur’essa, con la questione della necessaria coincidenza o meno delle liquidazioni, risolvendola all’interno di un sistema chiuso, potenzialmente idoneo ad esitare in soluzioni non coincidenti con quelle della giurisprudenza penale.

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione penale

Sez. 4, n. 42844 del 09/10/2008, Rv. 241336-01, Amato

Sez. 4, n. 26663 del 10/04/2008, Amato

Sez. 6, n. 46537 del 08/11/2011, Rv. 251383-01, F.

Sez. 6, n. 3885 del 18/01/2012, Rv. 252135-01, Iovine

Sez. 6, n. 15435 del 20/03/2014, C.R.

Sez. 2, n. 43356 del 21/10/2015, Zecca

Sez. 4, n. 20044 del 17/03/2015, Rv. 263866-01, S. e altri

Sez. 1, n. 7308 del 21/12/2016 (dep. 2017), Graziano

Sez. 5, n. 2186 del 14/11/2016 (dep. 2017), Antonucci

Sez. 6, n. 51387 del 03/11/2016, Foti c. Errigo

Sez. 5, n. 11960 del 07/12/2017 (dep. 2018), Ripamonti e altri

Sez. 1, n. 7784 del 27/11/2017 (dep. 2018), Parola

Sez. 4, n. 52538 del 09/11/2017, Filareto

Sez. 2, n. 12856 del 27/01/2017, Viorel

Sez. 1, n. 10551 del 07/11/2018 (dep. 2019), L.

Sez. 4, n. 29314 del 05/06/2018, Vivanet

Sez. 5, n. 44915 del 27/04/2018, Musumeci

Sez. 1, n. 46118 del 12/04/2018, Garau A. e altro

Sez. 1, n. 41124 del 10/04/2018, PG Roma in proc. Petrianni

Sez. 2, n. 16054 del 20/03/2018, Natalizio

Sez. 1, n. 21091 del 08/02/2018, Riccio e altri

Sez. 5, n. 8218 del 18/01/2018, Murtas

Sez. U, 26/09/2019, De Falco

Sez. 1, n. 22819 del 28 marzo-23 maggio 2019, De Falco

Sez. 6, n. 20552 del 06/03/2019, Rv. 275734-01, Setti c. Farsane

Sez. 2, n. 11647 del 05/02/2019, Ben Said

Sez. 6, n. 6509 del 08/01/2019, Carola e altra

Sentenze della Corte di cassazione civile

Cass. Civ., Sez. 6-L, n. 11590 del 03/05/2019, Rv. 653764-01, I. c. L.

Cass. Civ., Sez. 2, n. 22017 del 11/09/2018, Rv. 650319-01. C. c. Min. Giust.

Cass. Civ., Sez. I, n. 9384 del 16/04/2018, B.P. c. M.F.

Cass. Civ., Sez. 6-1, n. 17971 del 20/07/2017, N.M. c. S.S.

Cass. Civ., Sez. 6-2, n. 21611 del 18/07/2017, Stievanin c. Min. Giust.

Cass. Civ., Sez. 6-2, n. 18167 del 16/09/2016, Rv. 641094-01, Salcina e altro c. Min. Giust.

Cass. Civ., Sez. U, n. 22792 del 04/12/2012 (dep. 2013), R. c. Min. Giust. e Min. Int.

Sentenze della Corte costituzionale

Corte cost., ord. n. 122 del 40 maggio 2016

Corte cost., ord. n. 270 del 28 novembre 2012

  • patrocinio gratuito
  • esecuzione della sentenza

CAPITOLO II

FALSITA’ O INCOMPLETEZZA DELLA DICHIARAZIONE PER L’AMMISSIONE AL GRATUITO PATROCINIO E MANCATO SUPERAMENTO DEL LIMITE DI REDDITO

(di Elena Carusillo )

Sommario

1 Il quesito sottoposto alle Sezioni unite. - 2 L’origine della questione controversa. - 3 Natura giuridica e profili strutturali dell’istituto del patrocinio difensivo: cenni. - 4 Il potere di controllo dell’autocertificazione da parte del giudice: la giurisrudenza sul punto. - 5 La revoca di cui all’art. 95 d.P.R. n. 115 del 2002. - 6 La sentenza delle Sezioni Unite “Infanti” e la ricaduta sulla successiva giurisprudenza. - 7 Le ipotesi di revoca di cui all’art. 112 d.P.R. n. 115 del 2002. - 8 La natura del provvedimento di revoca. - 9 La decisione. - Indice delle sentenze citate

1. Il quesito sottoposto alle Sezioni unite.

Le Sezioni Unite della Corte di cassazione sono state chiamate a pronunciarsi sulla questione volta a stabilire “Se la falsità o incompletezza dell’autocertificazione allegata all’istanza di ammissione al patrocinio a spese dello Stato ne comporti l’inammissibilità e, dunque, la revoca, in caso di intervenuta ammissione, anche nell’ipotesi in cui i redditi effettivi non superino il limite di legge, ovvero, in tale ultima ipotesi, non incidendo la falsità sull’ammissibilità dell’istanza, la revoca possa invece essere disposta solo nei casi espressamente previsti dalla legge”.

2. L’origine della questione controversa.

La vicenda trae la sua origine dal ricorso proposto avverso il decreto con il quale il giudice per le indagini preliminari del tribunale di Castrovillari aveva revocato, a seguito di informativa della Guardia di Finanza, il decreto di ammissione al patrocinio a spese dello Stato per aver il richiedente indicato, nell’autocertificazione allegata all’istanza di ammissione al beneficio, una situazione reddituale non veritiera, sul presupposto che la falsità delle indicazioni rese, in quanto connessa all’ammissibilità della istanza di gratuito patrocinio e non al beneficio del patrocinio in sé considerato, legittima la non ammissione al beneficio, restando irrilevante il dato relativo al quantum effettivo del reddito e, dunque, se lo stesso rientri o meno nella soglia prevista dal legislatore per l’ammissione al beneficio.

La Quarta sezione, con ordinanza n.29284 del 4/06/2019, rimetteva la trattazione del ricorso al supremo consesso sul rilievo dell’esistenza di un contrasto giurisprudenziale di tipo potenziale in merito alla incidenza di falsità o incompletezze contenute nell’autocertificazione allegata all’istanza di ammissione al patrocinio a spese dello Stato in termini di inammissibilità della domanda o di revoca in caso di intervenuta ammissione anche nell’ipotesi di mancato superamento del limite reddituale previsto dalla legge per la fruizione del beneficio.

Ad avviso del collegio rimettente, il decreto con il quale il giudice per le indagini preliminari aveva revocato il provvedimento di ammissione al patrocinio a spese dello Stato sul solo rilievo che la situazione reddituale indicata dal ricorrente era risultata non veritiera, risultava coerente con il principio affermato da Sez. U, n. 6591 del 27/11/2008 ud. - dep. 16/02/2009, Rv. 242152 – 01, secondo cui “Integrano il delitto di cui all’art. 95 d.P.R. n. 115 del 2002 le false indicazioni o le omissioni anche parziali dei dati di fatto riportati nella dichiarazione sostitutiva di certificazione o in ogni altra dichiarazione prevista per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, indipendentemente dalla effettiva sussistenza delle condizioni di reddito per l’ammissione al beneficio” poiché la falsità delle indicazioni contenute nell’autocertificazione deve ritenersi connessa “all’ammissibilità dell’istanza, non a quella del beneficio”, cosicchè “solo l’istanza ammissibile genera obbligo del magistrato di decidere nel merito”, rimanendo estranee alla valutazione sia la circostanza che il quantum finale del reddito del richiedente sia inferiore al limite stabilito dalla legge per l’ammissione al beneficio, sia il fatto che il reato di cui all’art. 95 d.P.R. n. 115 del 2002 venga o meno accertato. Tanto in un’ottica di valorizzazione dell’obbligo di lealtà nei confronti delle istituzioni da parte del soggetto che aspira a fruire di un istituto strumentale alla realizzazione del diritto di difesa, garantito dall’art. 24 Cost.

Ciò premesso, il Collegio rimettente dichiarava di discostarsi da tale opzione ermeneutica aderendo al più rigoroso orientamento secondo il quale la revoca del provvedimento di ammissione al patrocinio a spese dello Stato è consentita solo nei casi tassativamente previsti e cioè ai sensi dell’art. 112 lett. d) del d.P.R. n. 115 del 2002, ove risulti provata la mancanza originaria delle condizioni di reddito, e ai sensi dell’art. 95 d.P.R. n. 115 del 2002, in caso di condanna, atteso che il dato che le falsità o le omissioni nella dichiarazione siano condizione di ammissibilità dell’istanza non si desume né dal testo dell’art. 79 del d.P.R. n. 115 del 2002, il quale prevede “la necessità di attestare le condizioni di reddito previste per l’ammissione, con specifica determinazione del reddito complessivo valutabile a tali fini e non delle specifiche tipologie di esso, e la necessità di assumere l’obbligo di comunicare, sino alla fine del processo, le variazioni dei limiti di reddito, se rilevanti”, né tantomeno da quello dell’art. 112, comma 1, lett. a), del d.P.R. n. 115 del 2002, che prevede “la revoca dell’ammissione in caso di omessa comunicazione di eventuali variazioni dei limiti di reddito e non genericamente di ogni variazione reddituale anche ininfluente, come confermato dal coordinamento con il precedente art. 79”. D’altro canto, ad avviso della sezione Quarta, riconoscere all’autocertificazione la natura di condizione di ammissibilità significherebbe limitare “l’ambito applicativo di un istituto strumentale alla realizzazione del diritto di difesa costituzionalmente garantito con un’interpretazione che forza il dato letterale della legge” consentendo la revoca in tutti i casi di falsità o incompletezza anche se non incidenti sui limiti reddituali, a prescindere dalla condanna per il reato di cui all’art. 95 d.P.R. n. 115 del 2002.

3. Natura giuridica e profili strutturali dell’istituto del patrocinio difensivo: cenni.

L’istituto della gratuità del patrocinio difensivo prestato dal professionista quale “ufficio onorifico ed obbligatorio della classe degli avvocati afferente alla difesa dei non abbienti”, regolamentato con R.D. n. 3282 del 30 dicembre 1923 quanto ai giudizi civili, commerciali o d’altra giurisdizione contenziosa, agli affari di volontaria giurisdizione e ai giudizi penali, subiva una iniziale modifica con legge 30 luglio 1990, n. 217 in risposta alla necessità di contribuire al riequilibrio della parità delle parti nel nuovo modello processuale di stampo accusatorio.

L’ambito applicativo della legge era, tuttavia, circoscritto ai giudizi penali e civili limitatamente alle ipotesi di esercizio dell’azione per il risarcimento del danno e le restituzioni derivanti da reato, laddove per gli altri procedimenti civili, per le controversie individuali di lavoro e quelle in materia di previdenza ed assistenza obbligatorie era stata già introdotta una nuova disciplina con legge 11 agosto 1973, n. 53. Per tutti i rimanenti giudizi civili ed amministrativi rimaneva in vigore la normativa di cui al R. D. n. 3282 del 1923.

La regolamentazione della materia, così parcellizzata, rimaneva inalterata finchè con l’emanazione della legge 29 marzo 2001, n. 134, il legislatore, rielaborando la legge n. 217 del 1990, procedeva a dettare una disciplina generale sul gratuito patrocinio per tutti i giudizi, penali, civili ed amministrativi.

L’iter legislativo si concludeva con il d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, rubricato “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia”, entrato in vigore il 1 luglio 2002, inteso quale strumento di coordinamento e di unificazione del dettato normativo precedente, ispirato dalla necessità di dare una sistemazione organica alle norme e di consentire ai più disagiati, di fruire, senza alcun onere economico, di una tutela processuale effettiva e concreta in un sistema processuale che, da un lato, non consente l’autodifesa tecnica e, dall’altro, prevede l’obbligo di retribuzione dell’attività prestata dal difensore anche se nominato di ufficio.

4. Il potere di controllo dell’autocertificazione da parte del giudice: la giurisrudenza sul punto.

Giova sottolineare che, in un’ottica di salvaguardia dell’interesse economico dello Stato di evitare il dispendio di risorse economiche a favore di soggetti non in possesso dei requisiti di legge, numerosi risultano i contributi giurisprudenziali in tema di risoluzione di conflitti tra il diritto del soggetto istante a ricevere l’ammissione alla difesa gratuita, riconosciuto il suo “status” di non abbiente, e quello dello Stato di verificarne i presupposti.

Nell’attuale sistema che prevede a carico del richiedente un obbligo di dichiarazione, limitandosi a stabilire soltanto che l’istante deve indicare correttamente il suo reddito complessivo senza la necessità di quel corredo di allegati documentali previsto dall’art. 5, 2° comma, l. n. 217/1990 nella versione antecedente alla modifica apportata dalla legge 29 marzo 2001, n. 134, si inquadra il potere di controllo del giudice.

L’art. 96, comma 1, d.P.R. n. 115 del 2002, stabilisce che, “verificata l’ammissibilità dell’istanza, il magistrato competente “ammette l’interessato al patrocinio a spese dello Stato se, alla stregua della dichiarazione sostitutiva prevista dall’articolo 79, comma 1, lettera c), ricorrono le condizioni di reddito cui l’ammissione al beneficio è subordinata” formulando un giudizio di fondatezza. Il comma 2, prevede che il giudice possa respingere l’istanza se ritiene che il reddito effettivo del richiedente sia superiore a quello fissato dalla legge per l’ammissibilità al beneficio “tenuto conto del tenore di vita, delle condizioni personali e familiari, e delle attività economiche eventualmente svolte”, fatta salva la facoltà di trasmettere l’istanza, unitamente alla relativa dichiarazione sostitutiva, alla Guardia di finanza per le necessarie verifiche, senza tuttavia doverne attendere, per decidere, l’esito (comma 3).

Il Testo Unico prevede, al successivo art. 98, che il giudice trasmette all’ufficio finanziario copia dell’istanza dell’interessato, delle dichiarazioni e della documentazione allegate, nonché del decreto di ammissione al patrocinio per la verifica dell’esattezza del reddito dichiarato e per il controllo di compatibilità dei dati con le risultanze dell’anagrafe tributaria. La circostanza che la norma non prevede un potere di controllo del giudice che vada al di là del mero accertamento di conformità tra i dati dichiarati dall’istante e i requisiti indicati dalla norma, ha determinato il formarsi nella giurisprudenza di legittimità di orientamenti non sempre collimanti

Alcune più recenti pronunce hanno ritenuto ammissibile un potere di vaglio del giudice in merito alla ricorrenza di elementi idonei a far ritenere non sussistente la condizione di non abbienza, laddove in alcune decisioni più risalenti tale potere del giudice è stato del tutto escluso sul rilievo che “ai fini dell’ammissibilità al gratuito patrocinio l’autocertificazione dell’istante ha valenza probatoria e il giudice non può entrare nel merito della medesima per valutarne l’attendibilità, dovendosi limitare alla verifica dei redditi esposti e concedere in base ad essi il beneficio, il quale potrà essere revocato solo a seguito dell’analisi negativa effettuata dall’intendente di finanza, cui il giudice deve trasmettere copia dell’istanza con l’autocertificazione e la documentazione allegata”, (Sez. 1, n. 29006 del 03/06/2003, Musarò, Rv. 225051; Sez. 1, n. 17227 del 27/02/2001, Iacovone, Rv. 218744; Sez. 4, n. 3167 del 14/10/1999, Cafarchio, Rv. 214882).

Nel senso di riconoscere il potere di controllo del giudice ai fini della verifica della sussistenza di specifici elementi idonei a far ritenere il superamento dei limiti di reddito previsti dalla legge si è espressa Sez, 4, n. 53356 del 27/09/2016, Tilenni, Rv. 268682, che, pur partendo dalla premessa che il dato formale riportato dal richiedente nell’autocertificazione rappresenta “un significativo dato probatorio”, è giunta alla conclusione che esso non esime il giudice dall’obbligo di esaminare, ai fini del giudizio sulla condizione di non abbienza, le prove che confermino o confutino la sostanziale e fattuale situazione reddituale idonea ad incidere sulla predetta condizione, semprechè la valutazione sia svolta “con rigore e con adeguato riferimento ai fatti noti, dai quali risalire con deduzioni logiche ai fatti ignorati, il cui significato deve essere apprezzato senza ricorrere ad affermazioni apodittiche, generiche, sommarie o cumulative”, attraverso “gli organi di indagine finanziaria” cui il giudice è tenuto a trasmettere copia dell’istanza con l’autocertificazione e la documentazione allegata.

Di recente, Sez. 4, n. 4628 del 20/09/2017 - dep. 2018-, Tortorella, Rv. 271942, affermando il principio di diritto secondo il quale “in tema di patrocinio a spese dello Stato, ai sensi dell’art. 96, comma 2, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, il giudice può vagliare l’attendibilità dell’autocertificazione dell’istante relativa alla sussistenza delle condizioni di reddito richieste dalla legge per l’ammissione al beneficio e rigettare l’istanza ove sussistano indizi gravi, precisi e concordanti circa la disponibilità di risorse economiche non compatibili con quelle dichiarate”, ha attribuito una incisività ancora maggiore al potere di controllo del giudice sul presupposto che l’art. 96, comma 2, del d.P.R. n. 115 del 2002, non può che essere inteso nel senso di consentire al “giudice di vagliare l’attendibilità dell’autocertificazione, ove si sia in presenza di indizi gravi, precisi e concordanti circa la sussistenza in capo al richiedente di risorse economiche non compatibili con il contenuto della dichiarazione di percezione di un reddito inferiore al limite per l’ammissione al beneficio” e che i fondati motivi richiesti dalla norma “altro non possono essere che la emersione, per il tramite di indizi, che siano dotati dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, di una situazione reddituale reale diversa, naturalmente in melius, rispetto a quella, per così dire, ufficialmente dichiarata”. Si è così affermato che il concreto esercizio del diritto di difesa non può risolversi in “valutazioni giudiziali superficiali ed approssimative, più intuitive che razionali e frutto di scorciatoie pseudo-decisorie, non già di opzioni di tipo razionale”, sul rilievo dell’esistenza di “un sottosistema per la valutazione nel merito dell’istanza di ammissione al patrocinio a spese dello Stato” basato su un tendenziale “favor legislativo”, sia pure non assoluto, all’ammissione del richiedente al beneficio invocato con la presentazione di un’istanza “strutturata in maniera non inammissibile, ove si auto-certifichi la sussistenza di un reddito inferiore alla misura prevista dall’art. 76 del d.P.R. n. 115 del 2002”. Ancora, si è riconosciuto al giudice il potere di “disattendere l’autocertificazione, ove, con valutazione improntata alla massima serena prudenza” si rivelino quei “fondati motivi” per ritenere non sussistenti le “condizioni di cui agli articoli 76 e 92, tenuto conto delle risultanze del casellario giudiziale, del tenore di vita, delle condizioni personali e familiari, e delle attività economiche eventualmente svolte”, fatta salva, comunque, “la possibilità, prima di provvedere, di investire lo specializzato corpo della Guardia di Finanza delle verifiche del caso” ai sensi dell’art. 96, comma 2, ultimo periodo, del d.P.R. n. 115 del 2002. Da ultimo, il potere del giudice di vagliare l’autocertificazione dell’istante nei limiti della sussistenza di indizi gravi, precisi e concordanti circa la disponibilità di risorse economiche non compatibili con quelle dichiarate è stato ribadito da Sez. 4, n. 36787 del 08/05/2018, Marotta, Rv. 273423.

5. La revoca di cui all’art. 95 d.P.R. n. 115 del 2002.

Per meglio comprendere le ragioni fondanti il contrasto sottoposto al vaglio delle Sezioni unite, va evidenziato che non vi è nel corpo del d.P.R. n. 115 del 2002 nessuna norma prevede espressamente che la non esatta o addirittura falsa dichiarazione sulle condizioni di reddito determini l’inammissibilità della domanda o la revoca del decreto di ammissione al beneficio del patrocinio e che la falsità o le omissioni sono prese in considerazione esclusivamente dall’art. 95, per il patrocinio penale e dall’art. 125, per il patrocinio civile.

Sulla falsariga di quella dottrina che aveva individuato la ratio della norma di cui all’art. 95, già prevista all’art. 5, comma 7, l. n. 217 del 1990, nella versione ritrasposta con alcune modifiche nella legge n. 134 del 2001, nella volontà del legislatore di impedire l’ammissione al c.d. gratuito patrocinio di soggetti non meritevoli per mancanza delle condizioni prescritte, la giurisprudenza aveva affermato che “non qualsiasi imperfetta dichiarazione assume rilevanza ma solo quelle mediante le quali l’interessato attesti, contrariamente al vero, di possedere un reddito inferiore a quello stabilito come limite di ammissibilità al patrocinio o quelle che nascondono mutamenti significativi nelle condizioni reddituali verificatisi nell’anno precedente” (Sez. 5, n. 21194 del 11/05/2006, Salvaggio, Rv. 234207), così discostandosi da quell’orientamento, espresso da Sez. 1, n. 14403 del 25/01/2001, Mollica, Rv. 218932, secondo il quale sussiste sempre e comunque, a carico del richiedente, il dovere di comunicare “nel termine prescritto dal comma 1 lett. c) dell’art. 5 della legge n. 217 del 1990, le eventuali variazioni dei limiti di reddito verificatesi nell’anno precedente, indipendentemente dalla circostanza che le dette variazioni reddituali superino il tetto massimo previsto dalla legge e, quindi, indipendentemente dalla entità della variazione dei limiti di reddito, in quanto la valutazione della rilevanza della variazione compete al giudice escludendosi qualsivoglia discrezionalità da parte del soggetto beneficiario”.

Nel condividere conclusioni assolutorie dei giudici di merito, la Corte, propendendo a valorizzare la estraneità al concetto di offesa tipizzato dal legislatore, sia quanto al contenuto sia quanto alla portata probatoria, delle false dichiarazioni eventualmente contenute nell’istanza di ammissione al patrocinio a spese dello Stato, qualora non ri?ettenti elementi essenziali ai ?ni di tale valutazione, aveva talora escluso che il reato di cui all’art. 95 d.P.R. n. 115 del 2002 fosse integrato da qualsivoglia infedele attestazione, ritenendo rilevanti solo quelle dichiarazioni con cui ”l’istante affermi, contrariamente al vero, di avere un reddito inferiore a quello fissato dalla legge come soglia di ammissibilità, ovvero neghi o nasconda mutamenti significativi del reddito dell’anno precedente, tali cioè da determinare il superamento di detta soglia” (Sez. 5, Sentenza n. 16338 del 13/04/2006 , Bevilacqua, Rv. 234124; Sez. 5, n. 2114 del 11/05/2006, Salvaggio, Rv. 234207 Sez. 5, n. 15139 del 22/01/2007, Martorana, Rv 236143, Sez. 4, n. 41306 del 10/10/2007, Bricchetti, Rv. 237732 Sez. 5, n. 5532 del 11/12/2007, Goman, Rv. 239099 Sez. 5, n. 4467 del 20/12/2007, Abrunzo, Rv. 238880; Sez. 5 n. 12019 del 19.08.2008, Gallo, Rv. 239126).

Con decisioni di segno contrario la Corte, già in epoca antecedente al d.P.R. n. 115 del 2002, aveva ritenuto la sussistenza di un onere di comunicazione a carico del richiedente indipendentemente dalla entità della variazione dei limiti di reddito, spettando la valutazione sulla rilevanza del dato, soltanto al giudice (Sez. 1 n. 14403 del 25.01.2001, Mollica, 218932), stimando integrato il reato di cui all’art. 5 L. n. 217 del 1990 di falsa attestazione sulla percezione di redditi “anche nel caso in cui il reddito realmente percepito avrebbe ugualmente consentito l’ammissione del soggetto beneficiario al gratuito patrocinio” (Sez. 3 n. 28340 del 20/06/2006, Contino, Rv. 236267), “dal momento che qualsiasi elemento indicativo di reddito, anche inferiore a quello significativo ai fini del superamento della soglia, va dichiarato onde consentire agli organi competenti di effettuare le valutazioni previste dagli artt. 96 e 98 del citato d.P.R. n. 115 del 2002” (Sez. 5, n. 13309 del 24/01/2008, Marino, Rv. 239387, Sez. 5, n. 13828 del 06/03/2007, Palamara, Sez. 5, n. 37603 del 13/06/2006, Lo Porto). Dunque, secondo tale orientamento giurisprudenziale ai fini della sussistenza del reato nessun rilievo assume il dato relativo al reddito realmente percepito qualora, anche in parte, celato.

Con dissonante pronuncia, in tema di individuazione del bene giuridico tutelato, Sez. 5, n. 697 del 13/04/2006, Bevilacqua, Rv. 234124, nell’affermare il principio di diritto secondo cui “il reato di cui all’art. 95 d.P.R. n. 115 del 2002, che punisce le falsità o le omissioni nelle dichiarazioni e nelle comunicazioni per l’attestazione delle condizioni di reddito in vista dall’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, è integrato non già da qualsivoglia infedele attestazione ma dalle dichiarazioni con cui l’istante affermi, contrariamente al vero, di avere un reddito inferiore a quello fissato dalla legge come soglia di ammissibilità, ovvero neghi o nasconda mutamenti significativi del reddito dell’anno precedente, tali cioè da determinare il superamento di detta soglia” aveva, in motivazione, rimarcato che la norma di cui all’art. 95 d.P.R. n. 115 del 2002 è speciale rispetto alla norma di cui all’art. 483 cod. pen., della quale non rappresenta una mera riproduzione, “avendo natura e finalità diverse e richiedenti un quid pluris sia nelle modalità della condotta che nell’atteggiamento psicologico che deve sorreggerla”.

6. La sentenza delle Sezioni Unite “Infanti” e la ricaduta sulla successiva giurisprudenza.

Nel risolvere il contrasto sviluppatosi nella giurisprudenza di legittimità in merito all’art. 95 d.P.R. n. 115 del 2002, Sez. U., n. 6591 del 27/11/2008 (dep. 2009), Infanti, Rv. 242152, affermava il seguente principio: “integrano il delitto di cui all’art. 95 d.P.R. n. 115 del 2002, le false indicazioni o le omissioni anche parziali dei dati di fatto riportati nella dichiarazione sostitutiva di certificazione o in ogni altra dichiarazione prevista per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, indipendentemente dalla effettiva sussistenza delle condizioni di reddito per l’ammissione al beneficio”, valorizzando l’importanza della dichiarazione sostitutiva di autocertificazione di cui all’art. 79, comma 1, lett. c), d.P.R. n. 115/2002, sul rilievo che la stessa “non ha per sè ad oggetto la sussistenza delle condizioni di reddito per l’ammissione al patrocinio, bensì i dati da cui l’istante la induce (determina), quale risultato suscettibile di valutazione discrezionale seppur vincolata” da parte del giudice. Da ciò conseguiva la necessità di una “compiuta ed affidabile informazione del destinatario che, a fronte della complessità del tenore dell’istanza, cui è speculare la valutazione da svolgere, ha urgenza di decidere”.

Ad avviso del Supremo collegio, sia il valore dichiarativo della istanza che la necessità che le indicazioni nella stessa contenute siano dettagliate, trovano fondamento nel contenuto prescrittivo dell’art. 96, comma 2, d.P.R. n. 115 del 2002, cosicchè, se è vero che il potere di controllo del giudice è limitato all’accertamento della conformità dei dati dichiarati ai requisiti indicati dalla norma e che, invece, sono demandate all’ufficio finanziario sia la verifica dell’esattezza del reddito attestato sia la compatibilità dei dati indicati con le risultanze dell’anagrafe tributaria, è altrettanto vero che la dichiarazione sostitutiva è connessa “all’ammissibilità dell’istanza e non a quella del beneficio, perché solo l’istanza ammissibile genera l’obbligo del magistrato di decidere nel merito, allo stato”.

Il percorso argomentativo seguito dalle Sezioni Unite è stato poi confermato da un costante indirizzo giurisprudenziale che, escluso ogni rilievo esimente all’errore ai fini della esclusione della responsabilità, ha sottolineato la necessità che il giudice non ometta di valutare la circostanza relativa alla effettiva sussistenza delle condizioni di reddito per l’ammissione al beneficio, potendo essa essere indicativa della carenza del necessario elemento soggettivo del reato e dunque sintomo di una condotta dovuta a un difetto di controllo e, quindi, colposa. Sotto tale profilo infatti si è, anche in tempi recenti, rimarcato che, qualora il reddito non risulti ostativo alla ammissione, il giudice è tenuto ad un rigoroso riscontro dell’elemento soggettivo del reato posto che, pur essendo sufficiente da parte dell’agente la mera consapevolezza e volontà della falsità senza che, di contro, assuma rilievo la finalità di conseguire un beneficio che non compete, è tuttavia necessaria una rigorosa verifica del dolo, sul presupposto che lo stesso, pur generico, non possa risolversi in qualsiasi semplice leggerezza o negligenza ma debba sostanziarsi nella “consapevolezza di agire contro il dovere giuridico di dichiarare il vero”, da cui la necessità, per la sussistenza del dolo del reato di cui all’art. 95 d.P.R. n. 115 del 2002, dell’accertamento “di una presa di posizione volontaristica” da parte dell’agente, espressione di “una qualche adesione all’evento per il caso che esso si verifichi quale conseguenza non voluta della propria condotta”(Sez. 4, n. 215775 del 24/05/2006, Bevilacqua, Rv. 267307).

A tale orientamento si è, da ultimo, allineata, seppure in termini opposti, anche Sez. 4, n. 35969 del 29/05/2019, Arlotta, Rv. 276862, che ha affermato il principio di diritto secondo cui “in tema di patrocinio a spese dello Stato, nel caso di istanza che contenga falsità od omissioni, l’effettiva insussistenza delle condizioni di reddito per l’ammissione al beneficio, seppure non è necessaria per l’integrazione dell’elemento oggettivo del delitto di cui all’art. 95, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, può, tuttavia, assumere rilievo con riguardo all’elemento soggettivo dell’illecito, quale sintomo del dolo”, potendo il dato alterato fare da discrimine tra ammissione ed esclusione del beneficio ed integrare un evidente sintomo del dolo.

Si colgono nelle pronunce dei giudici di legittimità quelle perplessità, già rimarcate dalla dottrina che la sentenza “Infanti” determinava allorchè, nel ritenere integrata la fattispecie delittuosa di cui all’art. 95 del d.P.R. n. 115 del 2002 in qualunque caso di omessa dichiarazione di titolarità di beni immobili e mobili registrati, seppur non indicativi di un elevato tenore di vita e comunque adeguati alle condizioni economiche di chi percepisce un reddito non superiore a quello richiesto per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, sembrava sottendere la reale motivazione della decisione nell’esigenza di moralizzazione dei cittadini richiedenti il beneficio, cosicchè qualsiasi omissione nella indicazione della titolarità di beni, anche se - in una prospettiva ex ante - ininfluente sulla decisione del giudice, finiva col rappresentare una violazione del “dovere di lealtà del singolo verso le istituzioni.

7. Le ipotesi di revoca di cui all’art. 112 d.P.R. n. 115 del 2002.

L’art. 112, comma 1, d.P.R. n. 115 del 2002, prevede altre ipotesi in cui il giudice, pur in assenza di una condotta illecita dell’istante, può revocare il decreto di ammissione al beneficio.

Si tratta di una categoria connessa alla mancata comunicazione di variazioni di reddito in relazioni alla quale Sez. 4, n. 43593 del 07/10/2014, De Angelis, Rv. 260308, affermato il principio di diritto secondo cui “l’omessa comunicazione, anche parziale, delle variazioni reddituali comporta la revoca dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, anche se tali variazioni siano occasionali e non comportino il venir meno delle condizioni di reddito per l’ammissione al beneficio” ha sottolineato la duplicità dei profili sottoposti al vaglio del magistrato nel procedimento di ammissione al beneficio del patrocinio a spese dello Stato: quello dell’ammissibilità o meno della domanda e della revoca del provvedimento di ammissione, eventualmente già disposta, per insussistenza dei requisiti al momento di proposizione della stessa, e quello della revoca del beneficio già concesso, prevista dall’art. 112 d. P.R. n. 115 del 2002, lett. a) per omessa comunicazione di variazioni, nei termini di cui all’art. 79, comma 1, lett. d). Il pregio della decisione si rinviene nella circostanza che, attraverso la lettura sistematica delle due norme, i giudici di legittimità hanno evitato l’impasse rappresentato dalla contraddizione di un sistema che prevede, da un lato, la revoca del beneficio per omessa comunicazione delle variazioni reddituali intervenute, seppur irrilevanti ai fini del superamento delle condizioni di ammissibilità, ma che, dall’altro, consente il mantenimento del beneficio nei confronti di quanti, sin dall’origine hanno reso dichiarazioni false o incomplete, sottolineando l’obbligo a carico del beneficiario di comunicare, sempre e comunque, ogni mutamento reddituale e, dunque, anche di quelli occasionali e che non comportino il venir meno delle condizioni di reddito per l’ammissione al beneficio, sì da rendere noti all’autorità destinataria della dichiarazione tutti i dati suscettibili di valutazione discrezionale, in “adempimento di un obbligo di lealtà del singolo verso le istituzioni” rispondente all’esigenza di “consentire agli organi competenti di effettuare le valutazioni previste dagli artt. 96 e 98 del d.P.R. n. 115 del 2002” attraverso una visuale completa della situazione reddituale con esclusione di qualsiasi autonoma valutazione e discrezionalità da parte del beneficiario quanto alla scelta sul se e sul cosa comunicare.

Una ulteriore ipotesi di revoca dell’ammissione alla quale il magistrato può procedere all’esito delle integrazioni richieste ai sensi dell’articolo 96, commi 2 e 3 del d.P.R. n. 115 del 2002, è prevista dall’art. 112, comma 2, allorchè vi siano fondati motivi per ritenere che l’interessato non versi più nelle condizioni di legge di cui agli artt. 76 e 92, valutate le risultanze del casellario giudiziale, del tenore di vita, delle condizioni personali e familiari e delle attività economiche eventualmente svolte.

In relazione alla individuazione dei presupposti per la revoca ex art. 112, comma 2, Sez. 4,n. 18945 del 27/03/2019, Naccarella, Rv. 276462, affermando il principio di diritto secondo cui “in tema di patrocinio a spese dello Stato, qualora all’esito delle informazioni richieste alla Guardia di Finanza risultino non veritiere le condizioni reddituali indicate nell’istanza, ai fini della revoca d’ufficio del decreto di ammissione al patrocinio a spese dello Stato è necessario che il giudice ritenga sussistenti elementi dai quali possa desumersi il superamento dei limiti di reddito previsti dalla legge”, ha evidenziato come il sistema, se da un lato prevede che la falsità o l’omessa indicazione anche parziale dei dati previsti nella dichiarazione sostitutiva di certificazione necessaria per l’ammissione al beneficio del patrocinio a spese dello Stato integrano il reato di cui all’art. 95 d.P.R. n. 115 del 2002 cui consegue la revoca prevista dal comma 2, dall’altro non contempla alcuna automaticità della revoca del patrocinio a spese dello Stato a fronte di una discrasia tra reddito dichiarato e reddito accertato, prevedendo che soltanto nel caso in cui, a seguito della verifica dell’esattezza dell’ammontare del reddito attestato e della compatibilità dei dati indicati con le risultanze dell’anagrafe tributaria, risulti che il beneficio è stato erroneamente concesso, l’ufficio finanziario richiederà il provvedimento di revoca.

In linea, Sez. 4, n. 17225 del 08/01/2019, Spada, Rv. 275715, ha rimarcato la diversità dei presupposti che sorreggono la revoca ex art. 112, comma 2, d.P.R. n. 115 del 2002 rispetto a quelli di cui all’art. 95 d.P.R. n. 115 del 2002, affermando il principio di diritto secondo il quale “in tema di patrocinio a spese dello Stato, ai fini del provvedimento di modifica o revoca d’ufficio del decreto di ammissione al patrocinio a spese dello Stato, all’esito delle informazioni richieste alla Guardia di Finanza, emesso ai sensi del comma 2 dell’art. 112, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 è sufficiente che risultino non veritiere le condizioni reddituali indicate nell’istanza e che sussistano presunzioni gravi, precise e concordanti che consentano di ritenere il superamento dei limiti di reddito”.

In senso opposto, seppur in epoca più risalente, Sez. 4, n. 6416 del 6/12/2011, aveva ravvisato uno stretto collegamento tra l’esercizio del potere di revoca del giudice e la verifica delle complessive condizioni reddituali dell’interessato, tale da rendere sufficiente per la revoca d’ufficio anche il solo “quadro riduttivo, distorto e fallace” dichiarato dal richiedente. In tale solco si è posta anche Sez. 4, n. 19611 del 14/03/2012, Napoli, che ha affermato la legittimità della revoca (in autotutela) del beneficio disposto dal giudice, nell’ipotesi di dichiarazione dell’interessato, circa la propria posizione reddituale, risultata mendace all’esito dei controlli anche nel caso di reddito inferiore al limite previsto per l’ammissione al beneficio, sul rilievo che la previsione della revoca a seguito di condanna, prevista all’art. 95 d.P.R. n. 115 del 2002 è da intendersi ulteriore conseguenza, in uno con il recupero a carico del responsabile delle spese corrisposte dallo Stato, della condanna. Ad avviso della Quarta sezione, dal disposto normativo non può derivare la conclusione che il giudice non sia legittimato alla revoca prima della condanna una volta preso atto del mendacio a seguito delle verifiche effettuate dall’ufficio finanziario. Si tratta, invero, di una norma di chiusura del sistema per l’ipotesi in cui sia stato concesso il beneficio in relazione ad un’istanza “ab origine” inammissibile. Secondo il giudici, laddove non si accedesse a tale soluzione si perverrebbe al paradosso per cui la revoca sarebbe consentita, ai sensi dell’art. 112, comma 1, lett. a), in presenza di una omessa comunicazione della variazione di reddito, pur ininfluente rispetto al superamento del tetto reddituale e non anche, sebbene anch’essa ininfluente, nell’ipotesi di originaria mendace dichiarazione.

Da ultimo, Sez. 4, n. 5090 del 15/01/2019, Tarasco nel ribadire il principio, ha precisato che, ove il giudice intenda revocare l’ammissione al beneficio, deve accertare, incidenter tantum, l’astratta configurabilità nella fattispecie sub iudice del reato di cui all’art. 95 d.P.R. n. 115 del 2002, nei termini indicati dalla sentenza “Infanti”.

8. La natura del provvedimento di revoca.

Giova evidenziare che una indiretta incidenza sulla risoluzione del questito sottoposto al vaglio della Corte potrebbe avere la questione relativa alla natura del provvedimento di revoca dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, laddove si ritenga che il potere decisorio del giudice presuppone una corretta e trasparente prospettazione dei dati patrimoniale da parte dell’istante. Sez. U. n. 36168 del 10/09/2004, Pangallo, Rv. 228666, nel risolvere il quesito concernente l’esistenza o meno del potere del giudice di revocare d’ufficio – in assenza della richiesta dell’Ufficio finanziario - l’ammissione al gratuito patrocinio, anche al di fuori dei casi espressamente previsti dall’art. 112 d.P.R. n. 115 del 2002, ha affermato il principio di diritto secondo cui “il provvedimento di revoca dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, previsto dall’art. 112 d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115 (testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia), è adottato di ufficio dal giudice solo nei casi di cd. “revoca formale” indicati dalle lettere a), b) e c) del comma 1, mentre nel caso di cui alla successiva lettera d), concernente la mancanza originaria o sopravvenuta delle condizioni di reddito stabilite dalla legge, non può essere disposto senza la tempestiva richiesta dell’ufficio finanziario competente, al quale soltanto è attribuito il potere-dovere di persistente verifica e controllo della sussistenza di tali condizioni, interdetto al giudice dopo l’assunzione del provvedimento di ammissione”. La sentenza “Pangallo”, sulla falsariga di quanto affermato da Sez. U. n. 19289 del 25/02/2004, Lustri, Rv. 227356, ha ribadito la natura giurisdizionale del provvedimento di ammissione del patrocinio a spese dello Stato “avente ad oggetto l’accertamento della sussistenza di un diritto, peraltro dotato di fondamento costituzionale” e, pertanto, sottoposto al “regime proprio degli atti di giurisdizione, quale regolato dalla specifica disciplina in materia”, così discostandosi da quell’orientamento giurisprudenziale che, diversamente, attribuiva al provvedimento di revoca del beneficio del patrocinio a spese dello Stato, natura amministrativa (Sez. 3, n. 2950 del 29/11/2001 (dep.2002), Di Stefano, Rv.221061; Sez. 2, n. 25671 del 13/06/2002(dep. 2003), Ghidini Rv. 226312) sul presupposto dell’esistenza di “un generale potere di revoca d’ufficio del giudice in quanto espressione della potestà di autotutela della pubblica amministrazione”, e che riteneva “irragionevole e contrario ai criteri di buona organizzazione dell’amministrazione” non consentire al medesimo organo di revocare o modificare il provvedimento emesso, imponendogli di attendere la preventiva richiesta dell’amministrazione finanziaria, dal momento che la revoca conseguiva alla mancanza del presupposto “base” per poter beneficiare del patrocinio gratuito, ossia la non abbienza e che, pertanto non determinava alcuna lesione al diritto di difesa. La sentenza “Pangallo”, dunque avallava a quel diverso orientamento giurisprudenziale secondo cui i provvedimenti che il giudice può essere chiamato ad emettere in ordine al patrocinio a spese dello Stato per i non abbienti, sono sottoposti al “regime proprio degli atti di giurisdizione” (Sez. U, n. 25 del 24/11/1999, Di Dona, Rv. 214694). Ad avviso del Supremo consesso, la stessa littera legis, in materia di gratuito patrocinio, nel conferire al giudice procedente il potere di revocare d’ufficio il beneficio già concesso solo nelle ipotesi riconducibili all’art. 112, comma 1, lett. a), b), c) ed al comma 2, e con l’esigere “invece, nelle ulteriori ipotesi, la richiesta dell’Ufficio finanziario, al quale è d’altronde affidato il compito di verificare le condizioni di reddito dell’interessato”, risponde ad una precisa scelta: da un lato, quella di attribuire al giudice il controllo “nel merito” sul complesso iter che si conclude con il provvedimento di ammissione o di rigetto, riconoscendogli il potere di revoca ex officio e, dall’altro, quella di affidare all’Ufficio finanziario l’onere di chiedere la revoca, in qualsiasi momento, qualora risulti provata la mancanza dei requisiti reddituali per godere del beneficio, unico modo, questo, per attribuire un senso logico alla previsione di cui all’art. 112, comma 2, in cui si afferma che “il magistrato può disporre la revoca dell’ammissione anche all’esito delle integrazioni richieste ai sensi dell’art. 96, commi 2 e 3”.

9. La decisione.

Con la decisione assunta all’udienza del 19 dicembre 2019, della quale oggi si attende il deposito della motivazione della sentenza per verificare le ragioni poste a fondamento della soluzione prescelta, essendo nota soltanto la soluzione adottata, le Sezioni Unite hanno dato risposta al quesito riportato in apertura affermando che “la revoca può essere disposta solo nei casi espressamente previsti dalla legge.”

Evidentemente, il Supremo consesso ha ravvisato nell’orientamento giurisprudenziale che ha focalizzato la sua attenzione sulla fattispecie di cui all’art. 95 d.P.R. 115 del 2002 e sull’inciso di Sez. Un, n. 6591 del 27/11/2008, Infanti, Rv. 242152, secondo il quale la falsità delle indicazioni contenute nell’autocertificazione deve ritenersi connessa “all’ammissibilità dell’istanza e non al beneficio” cosicchè “solo l’istanza ammissibile genera l’obbligo del magistrato di decidere nel merito”, un limite rappresentato sia dalla lettura rigorosa delle norme del d.P.R. n. 115 del 2002 che prevedono il potere di revoca del provvedimento di ammissione al patrocinio a spese dello Stato solo ai sensi dell’art. 112 lett. d), ove risulti provata la mancanza originaria delle condizioni di reddito, e ai sensi dell’art. 95, in caso di condanna, sia dalla circostanza che nessuna norma del sistema vigente contempla la revoca del patrocinio a spese dello Stato nel caso in cui il “non dichiarato” non vada ad incidere sulla soglia prevista dalla norma per l’ammissione al beneficio, salvo il potere del giudice di vagliare l’attendibilità dell’autocertificazione “ove si sia in presenza di indizi gravi, precisi e concordanti circa la sussistenza in capo al richiedente di risorse economiche non compatibili con il contenuto della dichiarazione di percezione di un reddito inferiore al limite per l’ammissione al beneficio” (Sez.4,n.4628del20/09/2017-dep.2018-, Tortorella, Rv.271942; Sez.4,n.36787del08/05/2018, Marotta, Rv.273423).

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. 4, n. 3167 del 14/10/1999, Cafarchio, Rv. 214882

Sez. U, n. 25 del 24/11/1999, Di Dona, Rv. 214694

Sez. 1, n. 14403 del 25/01/2001, Mollica, Rv. 218932

Sez. 1, n. 17227 del 27/02/2001, Iacovone, Rv. 218744

Sez. 3, n. 2950 del 29/11/2001, dep.2002, Di Stefano, Rv. 221061

Sez. 2, n. 25671 del 13/06/2002, dep. 2003, Ghidini Rv. 226312

Sez. 1, n. 29006 del 03/06/2003, Musarò, Rv. 225051

Sez. U, n. 19289 del 25/02/2004, Lustri, Rv. 227356

Sez. U, n. 36168 del 10/09/2004, Pangallo, Rv. 228666

Sez. 5, n. 16338 del 13/04/2006, Bevilacqua, Rv. 234124

Sez. 5, n. 2114 del 11/05/2006, Salvaggio, Rv. 234207

Sez. 5, n. 37603 del 13/06/2006, Lo Porto

Sez. 3, n. 28340 del 20/06/2006, Contino, Rv. 236267

Sez. 5, n. 15139 del 22/01/2007, Martorana, Rv. 236143

Sez. 5, n. 13828 del 06/03/2007, Palamara

Sez. 4, n. 41306 del 10/10/2007, Bricchetti, Rv. 237732

Sez. 5, n. 5532 del 11/12/2007, Goman, Rv. 239099

Sez. 5, n. 4467 del 20/12/2007, Abrunzo, Rv. 238880

Sez. 5, n. 13309 del 24/01/2008, Marino, Rv. 239387

Sez. 5, n. 12019 del 19/08/2008, Gallo, Rv. 239126

Sez. U, n. 6591 del 27/11/2008, dep. 2009, Infanti, Rv. 242152

Sez. 4, n. 19611 del 14/03/2012, Napoli

Sez. 4, n. 43593 del 07/10/2014, De Angelis, Rv. 260308

Sez. 4, n. 21577 del 24/05/2016, Bevilacqua, Rv. 267307

Sez, 4, n. 53356 del 27/09/2016, Tilenni, Rv. 268682

Sez. 4, n. 4628 del 20/09/2017 - dep. 2018-, Tortorella, Rv. 271942

Sez. 4, n. 36787 del 08/05/2018, Marotta, Rv. 273423

Sez. 4, n. 17225 del 08/01/2019, Spada, Rv. 275715

Sez. 4, n. 5090 del 15/01/2019, Tarasco

Sez. 4, n. 18945 del 27/03/2019, Naccarella, Rv. 276462

Sez. 4, n. 35969 del 29/05/2019, Arlotta, Rv. 276862