PARTE QUARTA IMPRESA E MERCATO (coordinata da Giuseppe Fichera)

  • consumatore
  • marchio di qualità
  • contratto
  • denominazione di origine
  • brevetto
  • diritto d'autore
  • concorrenza

Capitolo XIII

I DIRITTI DI PRIVATIVA E LA CONCORRENZA

(di Vincenzo Galati )

Sommario

1 Confondibilità di marchi e brevetti. - 2 Decadenza e nullità del marchio. - 2.1 Preuso del marchio e denominazioni I.G.P. e D.O.P. - 3 Il diritto d’autore. - 4 Le condotte anticoncorrenziali di cui alla legge 10 ottobre 1990 n. 287. - 5 Divieto di concorrenza e concorrenza sleale. - 6 L’azione di classe. - 7 Clausole vessatorie nel contratto tra consumatore e professionista. - 8 Profili processuali.

1. Confondibilità di marchi e brevetti.

Sul tema, Sez. 1, n. 10205/2019, Caiazzo, Rv. 653877-02, ha sostenuto che la confondibilità, che la legge richiede ai fini della tutela del marchio, si manifesta anche come potenzialità illecita, deducibile dalla naturale espansività dell’impresa titolare del segno; l’apprezzamento circa la ricorrenza della possibilità di confusione, pertanto, non può aver luogo con giudizio ex post, dovendosi piuttosto verificare, con riguardo al momento in cui è stata introdotta la domanda giudiziale, se l’attività dell’attore, anche per la sua possibile espansione - intesa quale normale potenzialità - possa risultare pregiudicata dalla somiglianza o identità dei segni, che sia tale da determinare, nell’evoluzione naturale della sua posizione nel mercato, un pericolo di confusione.

La Corte ha specificato, in una vicenda che riguardava l’azione promossa per far valere la contraffazione del marchio “Enel Green Power” rispetto a quello “Green Power” e, dunque, la possibile confusione, che, al fine di pervenire al giudizio di confondibilità, non è sufficiente la semplice circostanza dell’identità delle parole che lo compongono con quelle presenti in altri segni, occorrendo, che l’intero segno, sinteticamente, nel suo complesso grafico e semantico, venga percepito come confondibile con altro.

Sulla necessità di una valutazione comparativa tra i marchi, da operare attraverso un apprezzamento globale, la Corte ha reso l’indicata pronuncia in continuità con quanto sostenuto sia da Sez.1, n. 15840/2015, Nappi, Rv. 636048-01 che da Sez. 1, n. 08577/2018, Fraulini, Rv. 647769-01.

Secondo la Corte, poi, la confondibilità va intesa come manifestazione della potenzialità illecita deducibile anche attraverso la naturale espansività dell’impresa titolare del segno.

Il relativo apprezzamento va compiuto con le modalità indicate nella massima in rassegna che si colloca nel solco di Sez. 1, n. 03548/2006, Berruti, Rv. 586981-01 rispetto alla quale è conforme.

Nella sentenza, sempre in tema di confondibilità dei marchi, è stato sottolineato come il rischio di confusione sia tanto più elevato, quanto più rilevante sia il tratto distintivo del marchio anteriore a motivo della sua notorietà sul mercato.

Nel caso specifico, la Corte è pervenuta alla conclusione che assume spiccato rilievo la circostanza che i prodotti commercializzati dai due diversi marchi fossero destinati a tipologie di consumatori diversi (nell’un caso – “Green Power” – imprese specializzate e soggetti istituzionali, nell’altro – “Enel Green Power” – persone fisiche consumatrici finali).

Inoltre, la differenziazione dei marchi è stata ritenuta adeguata per la presenza della parola “Enel” e dell’albero stilizzato (assente nel marchio “Green Power”).

La questione ripropone il tema della distinzione tra marchi deboli e marchi c.d. forti.

Per i secondi, la recente giurisprudenza di legittimità aveva affermato che la confondibilità si determina anche in presenza di consistenti varianti del marchio successivamente registrato, ove vi sia appropriazione del nucleo centrale dell’ideativo messaggio individualizzante del marchio anteriore, con riproduzione od imitazione di esso nella parte atta ad orientare le scelte dei potenziali acquirenti.

In tal senso Sez. 1, n. 09769/2018, Iofrida, Rv. 648121-01.

Il principio affermato dalla sentenza della quale si sta trattando, è stato, dunque, nel senso che in tema di tutela del marchio debole registrato sono sufficienti a scongiurare la confusione tra i segni distintivi anche lievi modificazioni o aggiunte.

Da ciò consegue che deve escludersi la confondibilità dei segni distintivi quando il marchio simile risulti specificamente caratterizzato, ed inoltre l’attività dell’impresa titolare del marchio sia rivolta esclusivamente ad operatori del settore, ad altre imprese altamente specializzate ed a soggetti istituzionali (Sez. 1, n. 10205/2019, Caiazzo, Rv. 653877 – 03).

Sez. 1, n. 10205/2019, Caiazzo, Rv. 653877 – 01 ha altresì richiamato il risalente orientamento secondo il quale l’inclusione in un marchio complesso dell’unico elemento, nominativo o emblematico, che caratterizza un marchio semplice precedentemente registrato, si traduce in una contraffazione, anche se il nuovo marchio sia costituito da altri elementi che lo differenziano da quello precedente, ritenendo, sempre nel caso “Green Power” sin qui citato, la non rilevanza del principio nel caso in cui quella inclusione comporti un’alterazione sostanziale del significato di quell’elemento.

Sez. 1, n. 2473/2019, Falabella, Rv. 652421 – 01 ha affermato che l’attività illecita, consistente nell’appropriazione o nella contraffazione di un marchio, mediante l’uso di segni distintivi identici o simili a quelli legittimamente usati dall’imprenditore concorrente, può essere da quest’ultimo dedotta a fondamento non soltanto di un’azione reale, a tutela dei propri diritti di esclusiva sul marchio, ma anche, e congiuntamente, di un’azione personale per concorrenza sleale, ove quel comportamento abbia creato confondibilità fra i rispettivi prodotti.

Ciò ha sostenuto ponendosi in dichiarata conformità con Sez. 1, n. 26647/2008, Tavassi, Rv. 604041 – 01.

Sez. 1 - , n. 33232/2019,Valitutti, Rv. 656132 – 01 (in conformità a quanto già statuito da Sez. 1, n. 3932/1984, Contu, Rv. 435894 – 01) ha affermato che l’accertamento della validità o meno di un’invenzione o di un modello di utilità, dei requisiti costitutivi della loro novità intrinseca ed estrinseca, dei caratteri peculiari utilizzabili ai fini della loro differenziazione, è rimesso all’apprezzamento del giudice del merito e si sottrae al sindacato di legittimità se congruamente e logicamente motivato.

Il principio è stato ribadito nell’ambito di una controversia in tema di contraffazione del brevetto per equivalenza nella quale, al fine di valutare se la realizzazione contestata possa considerarsi equivalente a quella brevettata, sì da costituirne una contraffazione, occorre accertare se, nel permettere il raggiungimento del medesimo risultato finale, essa presenti carattere di originalità, offrendo una risposta non banale, né ripetitiva della precedente.

Peraltro, anche una riproduzione solo parziale del dispositivo brevettato non è idonea ad escludere, di per sé, la contraffazione laddove la parzialità non impedisca - secondo un accertamento che costituisce una questione di fatto, affidata all’apprezzamento del giudice di merito, insindacabile in cassazione, se non nei limiti di cui al novellato art. 360, primo comma, n. 5 cod. proc. civ. - di ritenere l’utilizzazione del brevetto, nella sua struttura generale, temporalmente anteriore.

È stata così assicurata espressamente continuità a quanto deciso da Sez. 1, n. 22351/2015, Nappi, Rv. 637807 - 01.

2. Decadenza e nullità del marchio.

La Corte è tornata sul tema del preuso del marchio quale diritto autonomo all’utilizzazione del segno idoneo a far venir meno il requisito della novità del marchio successivamente registrato.

In particolare, Sez. 1, n. 14925/2019, Valitutti, Rv. 654269 – 02 ha affermato che, in tema di proprietà industriale, il preuso di un marchio di fatto comporta tanto il diritto all’uso esclusivo del segno da parte del preutente, quanto l’invalidità del marchio successivamente registrato da terzi, venendo a mancare, in tal caso, il requisito della novità.

Da tale principio la Corte ha tratto la conseguenza che il preutente può avvalersi del menzionato diritto di esclusiva, che è distinto da ogni successiva registrazione corrispondente alla denominazione da lui usata, ottenendo la dichiarazione di nullità della registrazione altrui, anche per decettività, in rapporto ai segni confliggenti.

La decisione è coerente con quanto deciso da Sez. 1, n. 02499/2018, Genovese, Rv. 647143-01 con la quale l’esclusività del diritto all’uso esclusivo del segno da parte del preutente era già stata configurata quale causa d’invalidità della successiva registrazione ad opera di terzi.

Peraltro, la registrazione del marchio precedentemente oggetto di un diritto di preuso da parte di altro soggetto giuridico successivamente fallito che, però, ne aveva ceduto i relativi diritti, è stata individuata come condotta posta in essere in mala fede ed, in quanto tale, inidonea a far sorgere il diritto alla relativa registrazione ai sensi dell’art. 19 del d.lgs. n. 30 del 2005.

Nella medesima decisione è stato affermato il principio di diritto secondo cui nei casi previsti dall’art. 122, comma 2, del d.lgs. n. 30 del 2005, la legittimazione ad esperire l’azione di nullità del marchio spetta soltanto al titolare dei diritti anteriori e al suo avente causa o avente diritto, tuttavia, nel settore delle acque minerali - tenuto conto che ogni atto di trasferimento effettuato dal concessionario per il loro sfruttamento deve essere preceduto da un’autorizzazione regionale, che ne costituisce un prerequisito essenziale e ne condiziona l’efficacia - nella nozione di avente causa non rientra solo colui che è divenuto tale in forza di un negozio dispositivo inter vivos o mortis causa, ma anche colui che ha ottenuto il trasferimento della concessione mineraria con provvedimento amministrativo (Sez. 1, n. 14925/2019, Valitutti, Rv. 654269 – 01).

Il principio è stato, inoltre, richiamato in altra decisione (Sez. 1, n. 34531/2019, Valitutti, Rv. 656567 - 01) relativa al preuso di un marchio di fatto con notorietà nazionale.

La questione verte sull’interpretazione dell’art. 12, comma 1, lett. a) del d.lgs. n. 30 del 2005 secondo cui “non possono costituire oggetto di registrazione come marchio d’impresa i segni che alla data del deposito della domanda: a) siano identici o simili ad un segno già noto come marchio o segno distintivo di prodotti o servizi fabbricati, messi in commercio o prestati da altri per prodotti o servizi identici o affini, se a causa dell’identità o somiglianza tra i segni e dell’identità o affinità fra i prodotti o i servizi possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico, che può consistere anche in un rischio di associazione fra i due segni. (…) L’uso precedente del segno, quando non importi notorietà di esso, o importi notorietà puramente locale, non toglie la novità ma il terzo preutente ha diritto di continuare nell’uso del marchio, anche ai fini della pubblicità, nei limiti della diffusione locale, nonostante la registrazione del marchio stesso. L’uso precedente del segno da parte del richiedente o del suo dante causa non è di ostacolo alla registrazione”.

È stato ribadito anche in questa sede (conformemente alla decisione citata in precedenza) che “dal tenore letterale della norma si evince che il preuso di un marchio di fatto con notorietà nazionale comporta tanto il diritto all’uso esclusivo del segno distintivo da parte del preutente, quanto l’invalidità del marchio successivamente registrato ad opera di terzi, venendo in tal caso a mancare (fatte salve specifiche, e limitate ipotesi, previste dalla legge) il carattere della novità, che costituisce condizione per ottenerne validamente la registrazione”, con l’ulteriore precisazione che “il preuso che non importi notorietà di esso, o che importi una notorietà puramente locale, non esclude, ai sensi della disposizione succitata, la novità del marchio successivo e, quindi, la possibilità che il medesimo costituisca oggetto di registrazione. E tuttavia, quando si verifichi la seconda delle evenienze menzionate dalla norma dell’art. 12 del d.lgs. n. 30 del 2005, il preuso locale di un marchio non registrato conferisce al titolare del segno il diritto di continuare ad utilizzarlo, per lo stesso genere di prodotto, nell’ambito dell’uso fattone, senza tuttavia che il preutente abbia anche il diritto di vietare a colui che successivamente registri il marchio di farne anch’egli uso nella zona di diffusione locale. In siffatta ipotesi, invero, viene a configurarsi una sorta di regime di «duopolio», atto a consentire, nell’ambito locale, la coesistenza del marchio preusato e di quello successivamente registrato (principio conforme, fra l’altro, a Sez. 1, n. 4405/2006, Salvato, Rv. 589974 – 01).

In punto di nullità del marchio e, con particolare riguardo alla specifica ipotesi di procedimento di decadenza dal brevetto per mancato pagamento della tassa annuale, Sez. 1, n. 12849/2019, Iofrida, Rv. 654249 – 01 ha deciso che il pagamento tardivo del “diritto annuale di mantenimento in vita” del brevetto ne comporta la decadenza ex lege, in applicazione dell’art. 227 del d.lgs. n. 30 del 2005, e il relativo accertamento officioso è effettuato dall’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi (UIBM), ai sensi dell’art. 75 del d.lgs. cit., previa comunicazione del rilievo all’interessato ed annotazione nel registro dei brevetti, al fine di consentire la prova della tempestività dei versamenti eseguiti, senza che l’accettazione da parte dell’UIBM dei pagamenti relativi alle successive annualità possa valere quale riconoscimento del diritto al mantenimento della privativa, vertendosi su diritti ed obblighi indisponibili, e senza che operi alcun termine per l’avvio della procedura in difetto di previsione espressa in tal senso, non potendo, in particolare, applicarsi il termine di diciotto mesi per l’annullamento degli atti amministrativi illegittimi di cui all’art. 21 nonies della l. n. 241 del 1990, non essendovi alcun esercizio di autotutela da parte dell’UIBM.

La Corte ha deciso in continuità con quanto precedentemente affermato, sia con riguardo alla perentorietà del termine per il pagamento della tassa annuale di brevetto (ora “diritto annuale di mantenimento in vita”) ed alla impossibilità che il suo pagamento tardivo possa farne rivivere il diritto di esclusiva che deve ritenersi già estinto (Sez. 1, n. 00117/1962, D’Armiento, Rv. 250188-01), sia sulla impossibilità di ritenere che l’accettazione del pagamento delle annualità successive e prima del rilievo della decadenza, possa costituire un riconoscimento del diritto al mantenimento del titolare della privativa (Sez. 1, n. 02851/2012, S. Olivieri, Rv. 621845-01).

In punto di inapplicabilità del procedimento di cui all’art. 21 nonies della l. n. 241 del 1990, la Corte ha giustificato la tesi negativa (che costituisce una novità nel panorama della giurisprudenza di legittimità, che non risulta essersi mai soffermata sul punto) evidenziando che, nel caso in esame, non vi era stato l’esercizio di alcun potere di autotutela.

In definitiva, il ritardo nel pagamento del “diritto” può essere sanato esclusivamente attraverso la prova dell’avvenuto pagamento non ancora annotato nei registri dell’Ufficio Brevetti.

Sez. 1, n. 31932, Marulli, Rv. 655956 – 01 in materia di azione di nullità del brevetto, ha stabilito che l’art. 122, comma 4, del d.lgs. n. 30 del 2005, come modificato dall’art. 54 del d.lgs. n. 131 del 2010, va interpretato nel senso che l’azione di decadenza o di nullità di un titolo di proprietà industriale ivi prevista deve essere esercitata nel contraddittorio di tutti coloro che risultano annotati nel registro quali “aventi diritto”, senza che l’aggiunta “in quanto titolari di esso”, introdotta dal citato d.lgs. n. 131 del 2010, comporti l’esclusione di coloro che abbiano ceduto i diritti sul titolo, trattandosi pur sempre di soggetti iscritti nel registro “in quanto titolari”, con conseguente insussistenza di ogni irragionevole disparità di trattamento tra titolari attuali ed originari del brevetto, portatori anch’essi di interessi patrimoniali qualificati e dipendenti dalla validità di quest’ultimo, i quali, diversamente, resterebbero, vulnerati da una declaratoria di nullità o di decadenza resa a conclusione di un giudizio di cui non abbiano avuto conoscenza pur essendo annotati nel registro.

La decisione assicura continuità a quanto precedentemente deciso dalla Corte con Sez. 1, n. 13915/2014, Lamorgese, Rv. 631350 - 01.

Interessante quanto deciso da Sez.1, 34537/2019, Falabella, Rv. 656615 – 01, in punto di divulgazione dell’invenzione industriale che fa perdere al brevetto il requisito della novità, con conseguente nullità della relativa registrazione.

La premessa dalla quale è partita la Corte è quella secondo cui non si ha divulgazione quando i terzi posti a conoscenza dell’invenzione siano obbligati a mantenere il segreto.

In particolare la Corte ha condiviso l’affermazione dei giudici di merito secondo cui non può sostenersi la segretezza dei documenti acquisiti nel corso di una procedura di appalto pubblico se il relativo vincolo non sia stato “richiesto o palesato” dall’interessato.

La decisione ha avuto ad oggetto l’interpretazione dell’art. 8, comma 5, lett. d), d.P.R. n. 352 del 1992, secondo la formulazione applicabile ratione temporis.

In particolare, è stato evidenziato come la norma preveda che i documenti amministrativi possono essere sottratti all’accesso quando riguardino la vita privata o la riservatezza di persone fisiche, di persone giuridiche, gruppi, imprese e associazioni, con particolare riferimento a interessi anche di natura industriale e commerciale di cui siano in concreto titolari, ancorchè i relativi dati siano forniti all’amministrazione dagli stessi soggetti cui si riferiscono, purchè gli aventi diritto abbiano manifestato la volontà di secretazione.

Pertanto, “il diritto alla segretezza delle informazioni aziendali non è assoluto: il divieto a terzi di acquisire, utilizzare o propalare tali dati soggiace, tra l’altro, alla condizione che la persona che ne abbia il controllo le sottoponga a misure adeguate a mantenerle segrete (così prevedeva l’art. 6 bis r.d. n. 1127/1939, vigente ratione temporis, e così dispone, oggi, l’art. 98 c.p.i.); ciò implica, anzitutto, che i soggetti che abbiano accesso alle informazioni che si assumono riservate vadano resi edotti della volontà del titolare di mantenere il segreto”.

D’altronde, anche con riferimento alle invenzioni industriali, l’inventore potrebbe non avere interesse a mantenere la segretezza manifestando la volontà di divulgazione.

Operando una interpretazione letterale dell’art. 8 cit., in materia di documenti afferenti a procedure pubbliche quali gli appalti di pubbliche amministrazioni, la Corte ha puntualizzato che “nei casi in cui l’autore non esprima la propria volontà di secretare le informazioni utili alla brevettazione del prodotto o del procedimento di cui è in possesso, così palesando il proprio disinteresse a mantenere la riservatezza sul punto, non vi è dunque ragione di ritenere che i documenti pubblici che le contengano siano inaccessibili a norma del cit. art. 8. In tale prospettiva è da riguardare la locuzione che compare nel quinto comma del detto articolo («i documenti amministrativi possono essere sottratti all’accesso»), da raccordarsi a specifici «interessi» (che quindi devono essere concretamente presenti, oltre che manifestati, avendo specifico riguardo alle informazioni industriali, secondo quanto si è detto): espressione che é ben diversa da quella presente nell’art. 24, comma 1, L. n. 241/1990 («[i]l diritto di accesso è escluso»), ove è quindi parola di un obbligo assoluto di secretazione”.

2.1. Preuso del marchio e denominazioni I.G.P. e D.O.P.

Un’importante decisione assunta nel 2019 si è soffermata sul tema, per quanto risulta, inedito, dei rapporti tra marchi registrati e D.O.P., con particolare riguardo alle denominazioni evocative della provenienza geografica di prodotti agroalimentari.

Il tema centrale affrontato da Sez. 1 - , Sentenza n. 27194/2019, Valitutti, Rv. 655770 – 01 riguarda il rapporto tra il preuso legittimo di un marchio evocativo della provenienza geografica di un prodotto ed il successivo riconoscimento dell’indicazione geografica o della denominazione di origine protetta.

Su tale aspetto (fattispecie relativa al marchio “Altopiano di Asiago”, contenente una denominazione geografica idonea a caratterizzare il prodotto e veritiera, registrato prima del D.O.P. “Asiago”) la sentenza ha deciso che, in tema di marchi relativi a prodotti agricoli e alimentari, la differenza di funzioni sussistente tra marchi e indicazioni geografiche (I.G.P.) o denominazioni di origine protetta (D.O.P.) non esclude, alla stregua della normativa e della giurisprudenza europea, l’interesse comune, rappresentato dall’uso del nome geografico nell’ambito delle produzioni agricole e alimentari, quale vantaggio competitivo che l’indicazione dell’origine è in grado di garantire al prodotto, sicché il titolare di un marchio registrato in buona fede prima del riconoscimento della denominazione di origine protetta ben può proseguire, nonostante la successiva registrazione di detta denominazione protetta, l’uso del marchio, ai sensi dell’art. 14, comma 2, del Regolamento n. 2006/510/CE, laddove non ricorrano ragioni di nullità o decadenza del marchio stesso.

Ha altresì specificato che, in tema di prodotti agricoli e alimentari, l’art. 14, comma 2, del Regolamento (CE) n. 510/2006, consente al titolare di continuare ad utilizzare il marchio registrato prima del riconoscimento della denominazione di origine protetta, anche quando in esso è evocato l’unico elemento che compone quest’ultima, e cioè la provenienza geografica del prodotto, purché si accerti che la registrazione sia stata effettuata in buona fede. A tal fine, il giudice di merito valuta la natura del marchio, il riferimento esclusivo alla reale provenienza geografica del bene e la mancanza di imitazioni (anche mediante contraffazione o camuffamento) di termini adoperati nella denominazione di origine protetta, tenendo anche conto del fatto che l’indicazione della zona di produzione dell’alimento è comunque consentita e in alcuni casi imposta al produttore titolare del marchio, ai sensi degli artt. 2, comma 1, lett. a) e 3, comma 1, n. 8 della Direttiva 2000/13/CE.

Con la sentenza in esame, la Corte ha colto l’occasione per fornire un’ampia e dettagliata disamina della normativa sovranazionale in materia di regolamentazione e tutela delle indicazioni geografiche protette (I.G.P.) e delle denominazioni di origini protette (D.O.P.) per come delineata, in primo luogo, dall’art. 13, comma 1, lett. b) del Regolamento CE n. 5610 del 2006.

La protezione riguarda “qualsiasi usurpazione, imitazione o evocazione, anche se l’origine vera del prodotto è indicata o se la denominazione protetta è una traduzione”.

La norma è stata estesa dall’art. 16, lett. b) Regolamento CE n. 110/2008 alle bevande spiritose.

La Corte ha fornito una sintesi della giurisprudenza comunitaria in materia menzionando le decisioni della Corte di Giustizia 4.3.1999 - relativa alla dicitura “Combozola” evocazione della D.O.P. “Gorgonzola”, 26.2.2008 – relativa alla denominazione “Parmesan” evocazione della D.O.P. “Parmigiano Reggiano”, 21.1.2006, Viiniverla, 7.6.2018, Scotch Whisky Association, 20.12.2017 - relativa alla dicitura “Champagne Sorbet”, in rapporto alla D.O.P. “Champagne”.

Ha riassunto le emergenze di tutte le decisioni menzionate affermando che l’uso della dicitura «Altopiano di Asiago» evoca la D.O.P. «Asiago», in violazione del disposto di cui all’art. 2, comma 2, del d.lgs. n. 297 del 2004 e dell’art. 13, comma i, lett. b) del Regolamento CE n. 510 del 2006 in quanto “siffatta locuzione presenta tutte le caratteristiche evidenziate dalla giurisprudenza europea idonee ad integrare la nozione di «evocazione», sussistendo: a) la «parziale incorporazione» della denominazione protetta «Asiago» nella contestata espressione «Altopiano di Asiago»; b) la «similarità fonetica e/o visiva», vertendosi nel caso concreto - ben al contrario di quanto assumono i ricorrenti - in una fattispecie in cui non si è in presenza neppure di un nome imitato, contraffatto o storpiato, come «parmesan» o «cambozola», con riferimento ai quali pure la Corte di Lussemburgo ha ritenuto sussistere l’«evocazione», ma di una pedissequa riproduzione del termine «Asiago», con la sola aggiunta del sostantivo «Altopiano», certamente idoneo ad evocare nella mente del consumatore medio, in special modo in una zona dove tale produzione è molto diffusa, il noto formaggio Asiago; c) la «somiglianza concettuale», trattandosi del medesimo prodotto lattiero caseario, proveniente dalla medesima zona di produzione”.

Passando, tuttavia, ad esaminare la questione del rapporto tra la registrazione del marchio e la D.O.P. in relazione al preuso del primo, la Corte ha affrontato la questione del limite costituito dall’art. 14 del Regolamento CE n. 510 del 2006 ove è stabilito che “Nel rispetto del diritto comunitario, l’uso di un marchio corrispondente ad una delle situazioni di cui all’articolo 13, depositato, registrato o, nei casi in cui ciò sia previsto dalla normativa pertinente, acquisito con l’uso in buona fede sul territorio comunitario, anteriormente alla data di protezione della denominazione d’origine o dell’indicazione geografica nel paese d’origine [...] può proseguire, nonostante la registrazione di una denominazione d’origine o di un’indicazione geografica, qualora il marchio non incorra nella nullità o decadenza per i motivi previsti dalla prima direttiva 89/104/CEE del Consiglio, del 21 dicembre1988, sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi d’impresa o dal regolamento (CE) n. 40/94 del Consiglio, del 20 dicembre 1993, sul marchio comunitario»”.

Inoltre, l’art. 2, comma 1, lett. a), della Direttiva 2000/13/CE stabilisce che “L’etichettatura e le relative modalità di realizzazione non devono: a) essere tali da indurre in errore l’acquirente, specialmente: i) per quanto riguarda le caratteristiche del prodotto alimentare e in particolare (...) l’origine e la provenienza”, mentre il successivo art. 3, comma 1, n. 8, prevede che tra le informazioni obbligatorie da apporre sulle etichette, è ricompreso anche “il luogo di origine o di provenienza, qualora l’omissione di tale indicazione possa indurre in errore il consumatore circa l’origine o la provenienza effettiva del prodotto alimentare”.

L’argomentzione centrale posta a fondamento della tutela del marchio registrato nei confronti delle I.G.P. e delle D.O.P. (rispetto alle quali assolve a funzioni diverse) risiede nella individuazione di un comune interesse “rappresentato dall’uso del nome geografico nell’ambito delle produzioni agricole e alimentari, quale vantaggio competitivo che l’indicazione dell’origine è in grado di garantire al prodotto. E ciò attraverso l’evocazione di fattori ambientali, storici e culturali che traggono dal territorio la loro forza distintiva e che valgono a caratterizzare ciò che ivi si produce come del tutto peculiare nel suo genere. In tale prospettiva anche il marchio preesistente alla D.O.P. o alla I.G.P. - laddove non incorra nella nullità o decadenza suindicate, ipotesi neppure adombrata nel caso di specie - assume, dunque, uno specifico rilievo, talchè si giustifica anche l’importanza che l’indicazione dell’origine e della provenienza del prodotto, nell’etichettatura e nell’imballaggio dello stesso, assume in ambito comunitario”.

3. Il diritto d’autore.

In tema di diritto morale d’autore, Sez. 1, n. 18220/2019, Nazzicone, Rv. 654656 – 01 ha enunciato il principio secondo cui l’art. 20 l. n. 634 del 1941, che riconosce il diritto morale d’ autore come indipendente dai diritti esclusivi di utilizzazione economica dell’opera, va interpretato nel senso che “il diritto di rivendicare la paternità dell’opera” consiste non soltanto in quello di impedire l’altrui abusiva auto o eteroattribuzione di paternità, ma anche nel diritto di essere riconosciuto come l’ autore dell’opera, indipendentemente dalla parallela, ma pur solo eventuale, attribuzione ad altri, e la violazione del diritto importa l’obbligo del responsabile di risarcire il danno non patrimoniale arrecato.

La vicenda contenziosa ha riguardato la domanda di riconoscimento della violazione del diritto morale d’ autore, e il conseguente ristoro del pregiudizio sofferto, nel caso di tavole disegnate su tutti i diversi volumi di un’opera da un autore il cui nome era stato annotato solo nell’ultimo volume, peraltro venduto separatamente.

La sentenza è particolarmente articolata e propone una ricostruzione dettagliata del diritto morale d’autore nelle sue diverse declinazioni: diritto a rivendicare la paternità dell’opera e ad opporsi ad ogni deformazione, mutilazione o modificazione, diritto di rivelarsi l’autore di un’opera anonima, diritto di inedito, diritto di ritirare l’opera, diritto all’indicazione del nome da parte dell’editore (rispettivamente artt. 20, 21, 24, 142 e 126 l. n. 633 del 1941).

In particolare, la Corte ha indicato il primo e l’ultimo dei diritti ora descritti come funzionali a “soddisfare l’essenziale tutela della identità personale autoriale e artistica, avendo l’editore l’obbligo di indicare il nome dell’autore dell’opera proprio in quanto, in tal modo, ne viene rispettata l’attribuzione di paternità: l’essere riconosciuto come autore dell’opera concorre alla specifica identità personale, quale componente dei più ampi ed inviolabili diritti, di rilievo costituzionale, all’identità, all’onore, alla reputazione personale ed al prestigio sociale”.

Non solo, ma il dirtto alla paternità dell’opera, nella sentenza, è stato ritenuto assolvere anche ad una finalità di natura pubblicistica attinente alla “lealtà e correttezza” del mercato delle opere dell’ingegno (con richiami anche ad un precedente della Corte di cassazione penale).

Alla luce di tali considerazioni, la Corte è pervenuta alla conclusione che la lesione del diritto morale d’autore prescinde dall’attribuzione dell’opera ad altri, potendo concretizzarsi anche nel caso di “forzato anonimato”.

Sull’argomento si era registrato un arresto della Corte anche nell’anno 2018 quando Sez. 6-1, n. 03445/2018, Di Marzio, Rv. 647050-01 aveva affermato che lo sfruttamento non autorizzato dell’opera non configura, automaticamente, anche la violazione del diritto morale d’autore alla paternità della stessa per cui, la mancata menzione dell’autore dell’opera, non determina una presunzione di indebita attribuzione della stessa al suo utilizzatore non trovando, tale presunzione, alcun riscontro normativo.

Si tratta di precedente richiamato dalla sentenza qui in rassegna che ne ha comunque sottolineato la diversa impostazione essendo stata, in quel caso, superata ogni questione relativa alla configurabilità della lesione del diritto morale d’autore dal fatto che chi aveva sfruttato l’opera aveva, ad un certo punto, ovviato all’omissione segnalando il relativo nominativo.

Sulla tematica relativa all’apposizione del contrassegno SIAE Sez. 1, n. 12847/2019, Iofrida, Rv. 654248 – 01 ha affermato che l’obbligo di apporre il contrassegno SIAE sui supporti multimediali riproducenti opere dell’ingegno destinate alla commercializzazione costituisce una “regola tecnica” che, non essendo stata notificata alla Commissione europea - fino alla revisione della materia attuata con il d.p.c.m. n. 31 del 2009, con cui si è provveduto alla detta notificazione - ai sensi delle direttive nn. 83/189/CEE e 98/34/CEE, contrasta, come ritenuto da Corte di Giustizia U.E. 8.11.2007, C-20/2005, con il diritto comunitario e, pertanto, non può essere fatto valere nei confronti dei privati, senza che possa distinguersi, al fine di compensare gli oneri sostenuti dalla SIAE, tra una “regola tecnica” riguardante l’obbligo di marcatura ed etichettatura e l’imposizione del pagamento di un tributo per ogni supporto commercializzato.

Si tratta di principio pressochè inedito non essendo riscontrabili precedenti massimati specificamente sul punto.

In particolare, sono stati ritenuti indebiti i versamenti in favore della SIAE per ciascun supporto multimediale contenente software gratuiti e dimostrativi allegato quale inserto a una rivista cartacea.

La Corte, anche in questo caso, ha operato un complessivo riassunto delle principali questioni poste in tema di contrassegno SIAE dalla decisione della Corte di Giustizia dell’8.11.2007 e sulla portata di tale decisione con la quale è stata affermata l’inopponibilità delle regole tecniche di cui al d.p.c.m. 338/2001 nei confronti dei privati.

Tale inopponibilità non è limitata a settori particolari dell’ordinamento essendo, invece, riferibile, ad esempio, anche a quello tributario.

Altra importante decisione, anch’essa inedita, in tema di diritto di autore è quella di Sez. 1, n. 7708/2019, Nazzicone, Rv. 653569 - 02 con la quale è stato affermato che nell’ambito dei servizi della società dell’informazione, la responsabilità dell’ “hosting provider”, prevista dall’art. 16 del d.lgs. n. 70 del 2003, sussiste in capo al prestatore dei servizi che non abbia provveduto alla immediata rimozione dei contenuti illeciti, oppure abbia continuato a pubblicarli, quando ricorrano congiuntamente le seguenti condizioni: a) sia a conoscenza legale dell’illecito perpetrato dal destinatario del servizio, per averne avuto notizia dal titolare del diritto leso oppure aliunde; b) sia ragionevolmente constatabile l’illiceità dell’altrui condotta, onde l’”hosting provider” sia in colpa grave per non averla positivamente riscontrata, alla stregua del grado di diligenza che è ragionevole attendersi da un operatore professionale della rete in un determinato momento storico; c) abbia la possibilità di attivarsi utilmente, in quanto reso edotto in modo sufficientemente specifico dei contenuti illecitamente immessi da rimuovere.

Resta affidato al giudice del merito l’accertamento in fatto se, in riferimento al profilo tecnico-informatico, l’identificazione di video, diffusi in violazione dell’altrui diritto, sia possibile mediante l’indicazione del solo nome o titolo della trasmissione da cui sono tratti, oppure sia indispensabile, a tal fine, la comunicazione dell’indirizzo “url”, alla stregua delle condizioni esistenti all’epoca dei fatti.

Circa la nozione di “hosting provider” è stato affermato, nella stessa sentenza, che l’”hosting provider” attivo è il prestatore dei servizi della società dell’informazione il quale svolge un’attività che esula da un servizio di ordine meramente tecnico, automatico e passivo, e pone in essere una condotta attiva, concorrendo con altri nella commissione dell’illecito, onde resta sottratto al regime generale di esenzione di cui all’art. 16 del d.lgs. n. 70 del 2003, dovendo la sua responsabilità civile atteggiarsi secondo le regole comuni (Sez. 1 , n. 7708/2019, Nazzicone, Rv. 653569 – 01).

La sentenza va segnalata, oltre che per l’importanza dei principi affermati per la soluzione del caso concreto, anche per l’ampia ed approfondita ricostruzione della normativa e della giurisprudenza di origine sovranazionale, in primo luogo relativamente alla nozione di “hosting provider” attivo (figura addirittura negata nel caso concreto dai giudici di merito) e passivo quale possibile (solo il primo, invero) soggetto autore di violazioni del diritto di autore.

La vicenda contenziosa ha riguardato la violazione del diritto d’autore di R.T.I. s.p.a. da parte di Yahoo Italia s.p.a., attuata mediante la diffusione sul proprio “portale video” di filmati tratti da vari programmi televisivi dei quali era titolare l’attrice, quale produttore di opere audiovisive e di sequenze di immagini in movimento, su cui vantava diritti esclusivi, nonché esercente l’attività di emissione radiofonica o televisiva.

Estremamente dettagliata la platea di condotte teoricamente suscettibili di qualificare come “attiva” la figura della piattaforma ospitante e, quindi, di rendere la stessa, astrattamente, autrice dell’illecita utilizzazione di opere appartenenti a terzi.

La sentenza ha invece ricostruito un ruolo “attivo” dell’hosting relativamente all’ipotesi in cui il prestatore del servizio, una volta a conoscenza dei contenuti illeciti veicolati da terzi attraverso il servizio stesso, in particolare a seguito della diffida a lui inoltrata dal titolare del diritto leso, violi l’obbligo di rimuoverli e di impedire ulteriori violazioni, senza che sia necessaria la specifica indicazione dei cd. “url” di ciascun video affinchè sorga il dovere di attivarsi in tal senso.

Si evoca la configurabilità di una vera e propria “posizione di garanzia” dell’hosting anche rispetto a possibili violazioni del diritto d’autore.

Né la responsabilità, per come ricostruita dalla sentenza, può ritenersi venire meno per effetto dell’art. 17 d.lgs. n. 70 del 2003 che esclude un obbligo di sorveglianza generale e costante, onde il prestatore non è responsabile per avere omesso di vigilare in modo preventivo e continuativo sui contenuti immessi dagli utenti del servizio.

Infatti, l’“hosting” risponde dei danni cagionati, allorché, reso edotto di quei contenuti - vuoi dal titolare del diritto, vuoi aliunde - non si sia attivato per l’immediata rimozione dei medesimi.

Tenuto conto dell’importanza dei temi affrontati si reputa opportuno riportare il seguente passaggio della motivazione: “il (menzionato) bilanciamento, da parte del legislatore, degli interessi coinvolti nel fenomeno Internet è stato così realizzato sancendo un regime di irresponsabilità del prestatore sino al limite del suo diretto coinvolgimento oppure della sua conoscenza dell’illecito: in tal modo perciò circoscrivendo, ma non annullando del tutto, il controllo circa i contenuti immessi che possano integrare illeciti telematici” (pag. 27).

Altro profilo rilevante è quello relativo alle modalità con le quali possa dirsi acquisita o acquisibile la conoscenza dell’illecito e se, nel caso di asserita violazione del diritto d’autore, il soggetto leso che effettui la comunicazione al “provider” debba indicare in maniera precisa l’allocazione dell’opera oggetto di violazione (indicazione comprensiva cioè dell’indirizzo url) ovvero possa limitarsi ad indicare il nome dell’opera (es. della trasmissione) oggetto di violazione.

Comunicazione che non deve necessariamente provenire dalla pubblica autorità e che fa sorgere l’obbligo di evitare la continuazione di violazioni dello stesso tipo.

4. Le condotte anticoncorrenziali di cui alla legge 10 ottobre 1990 n. 287.

La maggior parte delle sentenze emesse dalla Corte nell’anno 2019 in tema di norme per la tutela della concorrenza e del mercato attiene ai provvedimenti assunti dall’Autorità Garante o da altri Organi (Banca d’Italia per il periodo precedente all’entrata in vigore della l. n. 262 del 2005) e riguarda i limiti del sindacato giurisdizionale.

In particolare, Sez. U., n. 11929/2019, Conti, Rv. 653793 – 01 ha precisato che il sindacato di legittimità del giudice amministrativo sui provvedimenti dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, pur non estendendosi al merito, con conseguente sostituzione di un proprio provvedimento con quello impugnato, comporta la verifica diretta dei fatti posti a fondamento dell’atto e si estende anche ai profili tecnici, il cui esame sia necessario per giudicarne della legittimità, salvo non includano valutazioni ed apprezzamenti che presentino un oggettivo margine di opinabilità, nel qual caso il sindacato è limitato alla verifica della non esorbitanza dai suddetti margini di opinabilità, non potendo il giudice sostituire il proprio apprezzamento a quello dell’ Autorità Garante.

Le Sezioni Unite hanno così rigettato le censure di sconfinamento del controllo giurisdizionale del Consiglio di Stato che ha reputato illegittimo il provvedimento sanzionatorio adottato dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, sulla base della qualificazione in termini di liceità del messaggio pubblicitario.

Nell’affrontare il tema dei limiti del sindacato del Consiglio di Stato rispetto ai provvedimenti dell’AGCM, la Corte ha precisato che la normativa rilevante, nel caso affrontato, era quella risultante dalla l. n. 287 del 1990 e dal d. lgs. n.206/2005, nella versione anteriore alle modifiche apportate agli articoli dal 18 al 27 dal d. lgs. n. 146/2007 e dal d. lgs. n. 145/2007.

Le Sezioni Unite hanno affrontato il delicato tema dei limiti del sindacato giurisdizionale rispetto ai provvedimenti delle Autorità Indipendenti dotate di particolare discrezionalità amministrativa nell’adozione di provvedimenti quali quelli posti a garanzia della libertà di concorrenza.

In particolare, hanno dapprima premesso considerazioni in ordine alla natura di tali provvedimenti sanzionatori per i quali assumono rilievo le valutazioni, per di più di natura tecnico discrezionale, espresse dall’Autorità in sede di accertamento ed irrogazione delle sanzioni.

Ciò vale, a maggior ragione, per le sanzioni applicate dall’AGCM, alla quale spetta anche il compito di accertare e sanzionare le ipotesi di alterazione del libero confronto competitivo tra le imprese che si manifestano sotto forma di intese anticoncorrenziali (art. 2) e di abusi di posizione dominante (art. 3).

La sentenza, nell’enunciare il principio di diritto sopra trascritto, si è allineata a S.U., n. 1013/2014, Rordorf, Rv. 629196-01 che ha affermato che se al giudice amministrativo non è consentito sostituirsi all’Autorità nelle attività di accertamento ed applicazione della legge con un proprio provvedimento, nondimeno il sindacato giurisdizionale non può dirsi limitato ai profili giuridico-formali dell’atto amministrativo ricordando che “è, infatti, la necessità di una tutela giurisdizionale piena a richiedere che anche le eventuali contestazioni in punto di fatto debbano essere risolte dal giudice, quando da tali contestazioni dipenda la legittimità del provvedimento amministrativo che ha inciso sulla posizione giuridica del soggetto”.

Inoltre, S.U., n. 30974/2017 (non massimata) ha ribadito che la non estensione al merito del sindacato giurisdizionale sugli atti dell’Autorità Garante implica che il giudice non possa sostituire con un proprio provvedimento quello adottato da detta Autorità, ma non che il sindacato sia limitato ai profili giuridico-formali dell’atto amministrativo, restandone esclusa ogni eventuale verifica dei presupposti di fatto, “ (...) in quanto la pienezza della tutela giurisdizionale necessariamente comporta che anche le eventuali contestazioni in punto di fatto debbano essere risolte dal giudice, quando da tali contestazioni dipenda la legittimità del provvedimento amministrativo che ha inciso su posizioni di diritto soggettivo”.

Sez. 1, n. 13846/2019, Falabella, Rv. 654261 - 01 si è pronunciata sulla natura del controllo che può operare il giudice di merito sul provvedimento della Banca d’Italia in materia di intese vietate dall’art. 2 l. n. 287 del 1990 affermando che, in tema di accertamento dell’esistenza di intese restrittive della concorrenza vietate dalla predetta norma, e con particolare riguardo alle clausole relative a contratti di fideiussione da parte delle banche, il provvedimento della Banca d’Italia di accertamento dell’infrazione, adottato prima delle modifiche apportate dall’art. 19, comma 11, della l. n. 262 del 2005, possiede, al pari di quelli emessi dall’Autorità Garante della concorrenza e del mercato, un’elevata attitudine a provare la condotta anticoncorrenziale, indipendentemente dalle misure sanzionatorie che siano in esso pronunciate, e il giudice del merito è tenuto, per un verso, ad apprezzarne il contenuto complessivo, senza poter limitare il suo esame a parti isolate di esso, e, per altro verso, a valutare se le disposizioni convenute contrattualmente coincidano con le condizioni oggetto dell’intesa restrittiva, non potendo attribuire rilievo decisivo all’attuazione o meno della prescrizione contenuta nel menzionato provvedimento con cui è stato imposto all’ABI di estromettere le clausole vietate dallo schema contrattuale diffuso presso il sistema bancario.

Nell’affermare il predetto principio di diritto la Corte ha dichiaratamente fatto applicazione di precedenti arresti con i quali aveva sostenuto che nel giudizio instaurato, ai sensi dell’art. 33, comma 2, della l. n. 287 del 1990, per il risarcimento dei danni derivanti da intese restrittive della libertà di concorrenza, pratiche concordate o abuso di posizione dominante, le conclusioni assunte dall’Autorità Garante per la Concorrenza ed il Mercato, nonché le decisioni del giudice amministrativo che eventualmente abbiano confermato o riformato quelle decisioni, costituiscono una prova privilegiata, in relazione alla sussistenza del comportamento accertato o della posizione rivestita sul mercato e del suo eventuale abuso, anche se ciò non esclude la possibilità che le parti offrano prove a sostegno di tale accertamento o ad esso contrarie (Sez. 1, n. 3640/2009, M.A. Tavassi, Rv. 606761-01) ed inoltre che, con riferimento al giudizio promosso dall’assicurato per il risarcimento del danno patito per l’elevato premio corrisposto in conseguenza di un’illecita intesa restrittiva della concorrenza, tra compagnie assicuratrici, il provvedimento sanzionatorio adottato dall’Autorità Garante per la Concorrenza ha un’elevata attitudine a provare tanto la condotta anticoncorrenziale, quanto l’astratta idoneità della stessa a procurare un danno ai consumatori e consente di presumere, senza violazione del principio praesumptum de praesumpto non admittitur, che dalla condotta anticoncorrenziale sia scaturito un danno per la generalità degli assicurati, nel quale è ricompreso, come essenziale componente, il pregiudizio subito dal singolo assicurato (Sez. 1, n. 11904/2014, Di Amato, Rv. 631486-01 ed altre).

In continuità con quanto deciso con la sentenza ora menzionata Sez. 1, n. 18176/2019, Scotti, Rv. 654545 – 02, ha ulteriormente statuito che nel giudizio instaurato ai sensi dell’art. 33, comma 2, della l. n. 287 del 1990 per il risarcimento dei danni derivanti da illeciti anticoncorrenziali, i provvedimenti assunti dall’Autorità Garante per la Concorrenza e il Mercato (AGCM) e le decisioni del giudice amministrativo, che eventualmente abbiano confermato o riformato quei provvedimenti, costituiscono prova privilegiata in relazione alla sussistenza del comportamento accertato o della posizione rivestita sul mercato e del suo eventuale abuso.

In punto di decorrenza del termine di prescrizione per l’azione di risarcimento del danno, la medesima sentenza (Sez. 1, n. 18176/2019, Scotti, Rv. 654545 – 01) ha stabilito che in tema di risarcimento del danno da illecito anticoncorrenziale, riconducibile alla categoria del danno lungolatente, il termine di prescrizione della relativa azione comincia a decorrere, non dal momento in cui il fatto si verifica nella sua materialità e realtà fenomenica, ma da quando esso si manifesta all’esterno con tutti i connotati che ne determinano l’illiceità.

La Corte ha così confermato la decisione di merito che aveva dato rilievo, ai fini della decorrenza della prescrizione, al momento in cui la condotta, qualificata come abuso di posizione dominante, aveva assunto rilevanza pubblica.

L’orientamento si allinea a Sez. 3, n. 02303/2007, Spirito, Rv. 595530-01 con la quale è stato deciso che in tema di prescrizione del diritto al risarcimento del danno lungolatente, l’azione risarcitoria da intesa anticoncorrenziale, proposta ai sensi del secondo comma dell’art. 33 della legge 10 ottobre 1990 n. 287, si prescrive, in base al combinato disposto degli art. 2935 e 2947 cod. civ., in cinque anni dal giorno in cui chi assume di aver subito il danno abbia avuto, usando l’ordinaria diligenza, ragionevole ed adeguata conoscenza del danno e della sua ingiustizia, mentre resta a carico di chi eccepisce la prescrizione l’onere di provarne la decorrenza, e il relativo accertamento compete al giudice del merito ed è incensurabile in cassazione, se sufficientemente e coerentemente motivato.

In tema di abuso della posizione dominante e della relativa azione di concorrenza sleale, Sez. 1, n. 29237/2019, Tricomi Laura, Rv. 656040 - 02, ha ribadito quanto già deciso da Sez. 1, n. 11564/2015, Lamorgese, Rv. 635649 – 01, nel senso che in tema di risarcimento del danno derivante da paventate violazioni agli artt. 2 e seguenti della legge 10 ottobre 1990, n. 287, il giudice non può decidere la causa applicando meccanicamente il principio dell’onere della prova, ma è chiamato a rendere effettiva la tutela dei privati che agiscono in giudizio, tenuto conto dell’asimmetria informativa esistente tra le parti nell’accesso alla prova, sicché, fermo restando l’onere dell’attore di indicare in modo sufficientemente plausibile seri indizi dimostrativi della fattispecie denunciata come idonea ad alterare la libertà di concorrenza e a ledere il suo diritto di godere del beneficio della competizione commerciale, il giudice è tenuto a valorizzare in modo opportuno gli strumenti di indagine e conoscenza che le norme processuali già prevedono, interpretando estensivamente le condizioni stabilite dal codice di procedura civile in tema di esibizione di documenti, richiesta di informazioni e consulenza tecnica d’ufficio, al fine di esercitare, anche officiosamente, quei poteri d’indagine, acquisizione e valutazione di dati e informazioni utili per ricostruire la fattispecie anticoncorrenziale denunciata.

5. Divieto di concorrenza e concorrenza sleale.

Relativamente alla competenza Sez. 6 - 3, n. 14171/2019, Cirillo, Rv. 653940 – 01 ha ribadito il principio secondo cui i procedimenti in materia di concorrenza sleale cd. pura (nei quali, cioè, l’accertamento della lesione del diritto alla lealtà concorrenziale non implica una valutazione incidentale della violazione del diritto di privativa, quale elemento costitutivo dell’illecito) appartengono alla competenza della sezione specializzata in materia d’impresa solo quando presentino elementi di connessione con le azioni in materia di proprietà industriale e sono, in tal caso, attratti alla speciale competenza per territorio stabilita dall’art. 120 del d.lgs. n. 30 del 2005.

Si è dato così continuità a quanto già deciso in Sez. 6 - 1, n. 21776/2016, Mercolino, Rv. 642666 – 01.

In punto di individuazione del soggetto attivo della condotta suscettibile di integrare un atto di concorrenza sleale Sez. 1, n. 18772/2019, Scotti, Rv. 654770 - 01 ha affermato che gli atti di concorrenza sleale di cui all’art. 2598 c.c. presuppongono un rapporto di concorrenza tra imprenditori, sicché la legittimazione attiva e passiva all’azione richiede il possesso della qualità di imprenditore; ciò, tuttavia, non esclude la possibilità del compimento di un atto di concorrenza sleale da parte di chi si trovi in una relazione particolare con l’imprenditore, soggetto avvantaggiato, tale da far ritenere che l’attività posta in essere sia stata oggettivamente svolta nell’interesse di quest’ultimo, non essendo indispensabile la prova che tra i due sia intercorso un “pactum sceleris”, ed essendo invece sufficiente il dato oggettivo consistente nell’esistenza di una relazione di interessi tra l’autore dell’atto e l’imprenditore avvantaggiato, in carenza del quale l’attività del primo può eventualmente integrare un illecito ex art. 2043, c.c., ma non un atto di concorrenza sleale.

La vicenda ha avuto riguardo ad una forma di abuso di informazioni commerciali riservate comunicate da una dipendente alla società per la quale lavorava con conseguente danno al suo ex datore di lavoro.

L’affermazione si pone in relazione di conformità, fra le altre, con Sez.2, n. 9117/2012, Falaschi, Rv. 622656 – 01, con Sez. 3, n. 17459/2007, Trifone, Rv. 598882 - 01 e Sez. 1, n. 13071/2003, Di Amato, Rv. 566623 – 01 con le quali era stato affermato il medesimo principio.

La Corte, a tale proposito, ha evocato la figura penalistica del concorso dell’extraneus nel reato proprio (in questo caso dell’imprenditore) per il quale, pur non essendo necessario l’accordo in danno del soggetto danneggiato, è pur sempre richiesta una “relazione di interessi tra tali soggetti tale da far ritenere che il terzo, con la propria attività, abbia inteso realizzare proprio quegli interessi al cui soddisfacimento i rapporti erano funzionali, non essendo sufficiente la mera corrispondenza del fatto illecito di quest’ultimo all’interesse dell’imprenditore” (rif. Sez. 1, n. 18691/2015, Mercolino, Rv. 636767 – 01).

In altro passaggio la sentenza (Sez. 1 , n. 18772/2019, Scotti, Rv. 654770 – 03), ha affrontato la questione della configurabilità della concorrenza sleale attraverso la trasmissione di informazioni escludendo che la semplice comunicazione di notizie in possesso di un ex dipendente al nuovo datore di lavoro integri una forma di concorso nella concorrenza sleale.

Il principio affermato è che può configurarsi un atto di concorrenza sleale in presenza del trasferimento di un complesso di informazioni aziendali da parte di un ex dipendente di imprenditore concorrente, pur non costituenti oggetto di un vero e proprio diritto di proprietà industriale quali informazioni riservate o segreti commerciali, ma è necessario che ci si trovi in presenza di un complesso organizzato e strutturato di dati cognitivi, seppur non segretati e protetti, che superino la capacità mnemonica e l’esperienza del singolo normale individuo e configurino così una banca dati che, arricchendo la conoscenza del concorrente, sia capace di fornirgli un vantaggio competitivo che trascenda la capacità e le esperienze del lavoratore acquisito.

In particolare, è stato sostenuto che l’apporto di conoscenze, c.d. “know how” aziendale, assicurato al nuovo datore di lavoro da un dipendente precedentemente occupato presso impresa concorrente, non può comportare l’integrazione di atti di concorrenza sleale a danno di quest’ultima, a meno che non risultino trasferiti dati protetti oppure una intera banca dati che trascenda le competenze ed i ricordi del lavoratore acquisito.

Secondo quanto sostenuto dalla Corte, l’opzione interpretativa che prospetta una nozione più ampia di “informazione commerciale” la cui divulgazione comporta il concretarsi di un atto di concorrenza sleale, finirebbe con “l’attribuire un monopolio all’ex datore di lavoro sulle conoscenze e sull’esperienza dell’ex dipendente, in assenza di diritti di proprietà industriale su informazioni segrete e soprattutto mortificando i diritti costituzionalmente tutelati del lavoratore ex artt.4, 35 e 36 Cost. a reperire sul mercato la miglior valorizzazione e remunerazione delle sue capacità professionali, senza che, nei limiti consentiti dalla legge per il contemperamento delle contrapposte esigenze, l’ex datore di lavoro si sia tutelato con la stipulazione di un patto di non concorrenza ex artt.2125 e 2596 cod.civ. per la «fidelizzazione ultrattiva» del dipendente, assumendosi i costi necessari”.

Sempre in relazione alla nozione di informazioni segrete industriali la Corte (Sez. 1, n. 31936/2019, Scotti, non massimata) ha evidenziato come le informazioni segrete di cui all’art. 98 d.lgs. n. 30 del 2005 “non esauriscono l’ambito di tutela delle informazioni riservate in ambito industriale, pur sempre esperibile anche attraverso la disciplina della concorrenza sleale contro gli atti contrari alla correttezza professionale ex art. 2958 n. 3, c.c. nei confronti della scorretta acquisizione di informazioni riservate, ancorchè non caratterizzate dai requisiti di segretezza e segretazione dell’art. 98 cit.” ed ha ribadito testualmente quanto riportato nella decisione precedentemente citata circa la configurabilità della concorrenza sleale nel caso di trasmissione di trasmissione di un know how aziendale in senso lato.

Sez. 1, n. 18772/2019, Scotti, Rv. 654770 – 02 ha deciso che in materia di concorrenza sleale, qualora risulti prospettata la ricorrenza di un illecito concorrenziale tra imprenditori posto in essere valendosi delle informazioni fornite da un lavoratore, prima dipendente dell’uno e poi dell’altro, è ammissibile la prosecuzione del giudizio nei confronti del lavoratore dipendente, uno dei corresponsabili solidali originariamente individuati, sebbene la controversia tra gli imprenditori sia cessata, avendo essi raggiunto un accordo transattivo.

Si tratta di un principio inedito che attiene sempre alla vicenda contenziosa della quale si è sin qui trattato.

Al par. 1. si è già detto di Sez. 1, n. 2473/2019, Falabella, Rv. 652421 – 01 con la quale è stato affermato che l’attività illecita consistente nell’appropriazione o contraffazione del marchio può essere posta a fondamento sia di un’azione reale a tutela dell’esclusiva sul marchio, sia di un’azione volta ad ottenere il risarcimento del danno da concorrenza sleale.

In merito all’azione di concorrenza sleale, assume rilevanza particolare la decisione di Sez. 1, n. 29252/2019, Valitutti, Rv. 656123 - 01, che, in conformità a quanto deciso da Sez. 1, n. 5529/2006, Gilardi, Rv. 587276 – 01, ha specificato come in tema di brevetto per invenzioni industriali, la scadenza del brevetto comporta l’obbligo per il giudice di merito, non di dichiarare improponibile la domanda di inibitoria dell’attività costituente concorrenza sleale per contraffazione della privativa, bensì di rigettare l’azione proposta allorchè, al momento della decisione, il suo titolare ne sia decaduto per intervenuta scadenza, versandosi in ipotesi di carenza, non di presupposti, ma di condizioni dell’azione, e difettando, in tale ipotesi, la condizione dell’azione costituita dall’interesse ad agire ex art. 100 c.p.p. con la precisazione che, comunque, l’intervenuta scadenza del brevetto, al momento della decisione, non preclude, tuttavia, al titolare di ottenere l’accertamento della contraffazione del brevetto, anche ai fini risarcitori, per il periodo precedente la sua scadenza, dal momento che quest’ultima fa venire meno la privativa esclusivamente per il tempo ad essa successivo.

La stessa decisione si è ulteriormente soffermata sul tema della contraffazione indiretta (o “contributory infringement”) positivizzato dalla l. n. 214 del 2016 che ha introdotto l’art. 66 del d.lgs. n. 30 del 2005 con vigenza dal 25.11.2016 individuando una condotta di contraffazione del brevetto anche nella fornitura a terzi di mezzi relativi ad un elemento indispensabile dell’invenzione, purchè il terzo sia consapevole dell’idoneità e della destinazione di tali mezzi all’attuazione dell’invenzione.

Sul punto la Corte ha deciso che l’illecito in parola consta di due elementi, che devono essere accertati in concreto dal giudice di merito: a) l’elemento oggettivo consistente nella fornitura, o offerta di fornitura, a soggetti diversi dagli aventi diritto all’utilizzazione dell’invenzione brevettata, dei mezzi relativi a un elemento indispensabile di tale invenzione e necessari per la sua attuazione e la successiva contraffazione diretta da parte di terzi; b) l’elemento soggettivo, consistente nella consapevolezza, non solo dell’idoneità ma anche della destinazione concreta di detti mezzi ad attuare l’invenzione, ovvero la possibilità di acquisirla con l’ordinaria diligenza, consapevolezza che deve essere accertata in concreto dal giudice di merito, sulla base di dati fattuali suscettibili di evidenziare la conoscenza, da parte del fornitore, circa l’impiego di quanto fornito nell’ambito di un procedimento brevettato, o comunque dell’obiettiva ed univoca destinazione dei mezzi forniti all’attuazione del brevetto.

6. L’azione di classe.

In tema di distribuzione dell’onere della prova circa l’azione di risarcimento dei danni non patrimoniali da inadempimento contrattuale nell’ambito di un’azione di classe ex art. 140 bis della l. n. 209 del 2005, Sez. 3, n. 14886/2019, Dell’Utri, Rv. 654207 – 01, ha deciso che l’accertamento del danno non patrimoniale rivendicato nel quadro di un’ azione di classe, promossa ai sensi dell’art. 140 bis del d.lgs. n.206 del 2005, richiede allegazione e prova non solo dei requisiti della rilevanza costituzionale degli interessi lesi, della gravità della relativa lesione e della non futilità dei danni ma anche dei profili concreti dei pregiudizi lamentati, capaci di valorizzarne i tratti condivisi da tutti i membri della classe, non personalizzabili in relazione a singoli danneggiati bensì accomunati da caratteristiche tali da giustificarne tanto l’apprezzamento seriale quanto la gestione processuale congiuntamente rivendicata.

Si tratta di una decisione sostanzialmente innovativa sul punto e della quale, quindi, merita di essere evidenziato il passaggio motivazionale ove si è sostenuto che, nell’azione di classe ex art. 140 bis cod. cons. è compito del giudice di merito coordinare l’indagine condotta sulla serietà e la gravità dell’offesa inferta all’interesse costituzionalmente protetto, con le esigenze proprie di quell’azione “disegnata dal legislatore italiano, con particolare riguardo alla necessità che le situazioni soggettive lese e i diritti concretamente pregiudicati (di necessaria rilevanza costituzionale) siano caratterizzati (non solo dalla gravità e serietà della relativa lesione, bensì anche) dall’essenziale requisito della relativa omogeneità (ex art. 140 bis cit.), inteso, quest’ultimo, come il tratto proprio di pretese individuali che, vantate da un insieme di consumatori o di utenti, siano accomunate da caratteristiche tali da giustificarne un apprezzamento ‘serialÈ e una gestione processuale congiunta, dovendo escludersi, sul piano logico, prima ancora che su quello giuridico, la compatibilità dello strumento processuale così delineato dal legislatore con l’esecuzione di accertamenti calibrati su specifiche situazioni personali o con valutazioni che si soffermino sulla consistenza specifica della sfera emotiva o dell’esperienza dinamico-relazionale di singoli danneggiati”.

Si rende quindi impraticabile l’azione in esame nel caso in cui la pretesa del danneggiato sia quella di valorizzare profili che non siano suscettibili di essere “standardizzati”.

Con riguardo alle modalità di adesione all’azione di classe, Sez. 1, n. 12997/2019, Fidanza, Rv. 654253 – 02 ha stabilito che nelle azioni di classe, introdotte a norma dell’art. 140 bis del d.lgs. n. 206 del 2005 (codice del consumo), i consumatori e gli utenti possono aderire all’ azione comune anche tramite fax e posta elettronica, senza l’osservanza di particolari formalità, con la conseguenza che la sottoscrizione degli aderenti non deve essere autenticata con le modalità, e a cura dei soggetti, di cui al d.P.R. n. 445 del 2000.

7. Clausole vessatorie nel contratto tra consumatore e professionista.

In punto di distinzione tra le figure del “consumatore” e del “professionista”, ai fini dell’applicazione della disciplina di cui all’art. 33 l. n. 206 del 2005, Sez. 6 - 2, n. 8419/2019, Guido, Rv. 653386 – 01 ha statuito che, in tema di contratti del consumatore, ai fini della identificazione del soggetto legittimato ad avvalersi della tutela di cui al vecchio testo dell’art. 1469 bis c.c. (ora art. 33 del Codice del consumo, approvato con d.lgs. n. 206 del 2005), la qualifica di consumatore spetta solo alle persone fisiche e la stessa persona fisica che svolga attività imprenditoriale o professionale potrà essere considerata alla stregua del semplice consumatore soltanto allorché concluda un contratto per la soddisfazione di esigenze della vita quotidiana estranee all’esercizio di dette attività; correlativamente devono essere considerate professionisti tanto la persona fisica quanto quella giuridica, sia pubblica sia privata, che utilizzino il contratto non necessariamente nell’esercizio dell’attività propria dell’impresa o della professione, ma per uno scopo connesso all’attività imprenditoriale o professionale.

Con tale decisione la Corte ha escluso la qualità di consumatore in capo ad una persona fisica che aveva commissionato ad una società, di cui egli era socio al 99%, lo studio di fattibilità di un “trust”, ritenendo determinante la stretta correlazione tra il patrimonio della società commissionaria ed i beni che sarebbero dovuti confluire nel “trust” medesimo.

Si tratta di principio conforme a Sez. 6 - 1, n. 21763/2013, Cristiano, Rv. 627977 – 01 che lo aveva affermato nel caso di persona fisica che, pur avendo concluso un contratto di apertura di credito con una banca in nome proprio, aveva però ottenuto il finanziamento, non per sé ma in favore della società di cui era amministratore e principale azionista.

In tema di foro del consumatore, è stato deciso che ove una domanda sia proposta invocando la sussistenza, dinanzi al giudice adito, del foro del consumatore, l’eccezione sulla competenza territoriale sollevata dal convenuto tesa a negare la qualificabilità e assoggettabilità della controversia - poiché non “di consumo” - a quel foro, implica, ove fondata, l’applicazione delle regole di competenza territoriale derogabile, con la conseguenza che la parte è tenuta a contestare la sussistenza, in capo al giudice adito, di tutti i possibili fori concorrenti per ragione di territorio derogabile, e ad indicare il diverso giudice competente secondo ognuno di essi, dovendo altrimenti ritenersi l’eccezione di incompetenza tamquam non esset, perché incompleta, e ciò anche quando il giudice adito ritenga che effettivamente la controversia non sia soggetta al foro del consumatore (Sez. 6 - 3, n. 32731/2019, Dell’Utri, Rv. Rv. 656182 - 01).

Si tratta di orientamento conforme a Sez. 6 - 3, n. 3539/2014, Frasca, Rv. 630354 – 01.

Ancora, è stato affermato il principio per cui in materia di opposizione ad ingiunzione fiscale, la competenza territoriale del giudice del luogo in cui ha sede l’ufficio che ha emesso il provvedimento opposto, pure avendo carattere inderogabile, è destinata a cedere di fronte all’esclusività del foro del consumatore, in quanto una diversa interpretazione si porrebbe in contrasto sia con l’art. 4 della direttiva del Consiglio 1993/13/CEE, come modificata dalla direttiva 2011/83 UE, sia con l’art. 54, comma 4, lett. d), della legge n. 69 del 2009 che, nel conferire al governo la delega legislativa per la semplificazione di alcuni riti, tra cui quello dell’opposizione ad ingiunzione fiscale, ha voluto che fossero tenute ferme le disposizioni processuali contenute nel codice del consumo (Sez. 6 - 3, n. 14475/2019, Iannello, Rv. 654223 - 01).

Infine, sempre in tema di foro del consumatore, Sez. 6 - 2, n. 13472/2019, Fortunato, Rv. 654051 - 01 ha affermato che in caso di mutamento del rito ex art. 4 del d.lgs. n. 150 del 2011, restano ferme le preclusioni già verificatesi secondo le norme del rito prescelto e, pertanto, l’incompetenza per materia, per valore o per territorio inderogabile non può essere rilevata d’ufficio nella prima udienza successiva a detto mutamento, posto che tale meccanismo non comporta una regressione del processo ad una fase anteriore a quella già svoltasi, ma serve esclusivamente a consentire alle parti di adeguare le difese alle regole del rito da seguire.

Nella fattispecie, la Corte, ha escluso che, a fronte del mutamento di rito ex art. 4 cit., disposto in ordine ad un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo in materia di onorari di avvocato introdotto con citazione, sia possibile sollevare d’ufficio, nella prima udienza successiva a detto mutamento, la questione dell’incompetenza territoriale inderogabile - nella specie, in relazione al foro del consumatore - dovendosi ritenere la “prima udienza”, rilevante ai fini dell’art. 38, comma 3, c.p.c., esaurita con il provvedimento di mutamento del rito.

8. Profili processuali.

Un importante arresto della Corte di cassazione (Sez. 1, n. 31937/2019, Scotti, Rv. 656126 – 01 e Rv. 656126 – 02) si registra in tema di controversie in materia di proprietà industriale.

Il giudizio era stato promosso da un dipendente Telecom il quale aveva sostenuto di avere creato un modello industriale volto a potenziare la rete GSM ottenendo, nel 2010, alcuni brevetti.

Alla domanda di riconoscimento dei diritti conseguenti all’utilizzazione dei predetti modelli ed a quella subordinata di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale di Telecom in vista dell’equo premio ex art. 64 d.lgs. n. 30 del 2005, l’azienda aveva resistito proponendo, a sua volta, domanda riconvenzionale di riconoscimento della titolarità dei diritti oggetto di causa o di declaratoria di nullità dei brevetti in quanto privi dei requisiti di novità ed altezza inventiva.

I giudici di merito avevano respinto tutte le domande ad eccezione di quelle di Telecom volte alla declaratoria di nullità dei brevetti.

La decisione merita di essere segnalata su due profili di natura processuale.

In primo luogo assume rilievo l’interpretazione dell’art. 122, comma 6 d.lgs. n. 30 del 2005, modificato dall’art. 19, comma 3, lett. b), della l. n. 99 del 2009 il quale prescrive che una copia dell’atto introduttivo di ogni giudizio civile in materia di titoli di proprietà industriale debba essere comunicata all’Ufficio italiano brevettti e marchi, a cura di chi promuove il giudizio.

La disposizione è stata interpretata nel senso che essa attiene a qualsiasi procedimento in materia di titoli di proprietà industriale e non solo agli atti introduttivi dei giudizi che possano condurre alla declaratoria di nullità del marchio o del brevetto.

Essa si applica anche nel caso di proposizione di domanda riconvenzionale e non impone che debba essere provata la ricezione della comunicazione da parte dell’Ufficio italiano brevetti e marchi, la cui necessità può essere comunque desunta in via interpretativa dalla natura recettizia dell’atto.

La Corte ha prescisato che, per l’adempimento in esame e la relativa prova, “non operano le ordinarie preclusioni istruttorie come dimostra in modo lampante il comma 7 dello stesso articolo, che prevede che ove alla comunicazione anzidetta non si sia provveduto, l’autorità giudiziaria, in qualunque grado del giudizio, prima di decidere nel merito, deve disporre che tale comunicazione venga effettuata”.

Ha quindi precisato che la prova del ricevimento della comunicazione può essere data con la memoria conclusionale di primo grado ed anche nel giudizio di appello e che, laddove manchi, possa essere prescritto il relativo adempimento in ogni stato e grado del processo.

In altro passaggio della motivazione la Corte ha ritenuto ammissibile la contestazione da parte del datore di lavoro mediante domanda riconvenzionale della validità del brevetto ottenuto dal lavoratore non violando tale ammissibilità la disposizione di cui all’art. 78, ultimo comma, r.d. n 1127 del 1939 e l’art. 122, comma 1, d.lgs. n. 30 del 2005, che stabiliscono che l’azione di nullità del brevetto sia esercitata in contraddittorio di tutti coloro che risultano annotati nel registro dei brevetti quali aventi diritto sul brevetto.

I titolari del brevetto, quindi, sono contraddittori, e non vi sono ostacoli alla proposizione di una domanda riconvenzionale da parte del datore di lavoro volta alla declaratoria di nullità del brevetto registrato dal lavoratore.

La Corte ha operato una sorta di puntualizzazione e concreta applicazione di quanto già deciso da Sez. 1, n. 27500/2017, De Chiara, Rv. 646336 – 01, ove si era affermato che in caso di invenzione di azienda ex art. 23, comma 2, del r.d. n. 1127 del 1939, il diritto del lavoratore all’equo premio ed il connesso obbligo datoriale di corrisponderlo sorgono solo con il conseguimento del brevetto, giacché è in virtù della brevettazione che, ai sensi dell’art. 4 del richiamato r.d., i diritti derivanti dall’invenzione sono conferiti al datore di lavoro; a quest’ultimo rimane, peraltro, preclusa la legittimazione a contestare, tanto in via d’eccezione, quanto in via d’azione, la nullità del brevetto, posto che, nel relativo giudizio, l’art. 78, ult. comma, del r.d. in parola (come pure l’art. 122, comma 1, del d.lgs. n. 30 del 2005, cd. Codice della proprietà industriale, che lo ha sostituito), facendo applicazione del generale divieto di “venire contra factum proprium”, contempla quali meri contraddittori, non già quali attori, coloro che, fattane richiesta e ottenutone il rilascio, siano divenuti titolari del brevetto.

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  • società di persone
  • diritto delle società
  • clausola compromissoria
  • simulazione

CAPITOLO XIV

IL DIRITTO DELLE SOCIETÀ

(di Eleonora Reggiani )

Sommario

1 Le società in generale. - 1.1 Società ed esercizio dell’azienda ereditaria. - 1.2 Affectio societatis e affectio familiaris. - 1.3 Intestazione fiduciaria e donazione indiretta delle partecipazioni sociali. - 1.4 La simulazione del contratto di società. - 1.5 Il gruppo societario. - 1.6 La clausola compromissoria statutaria. - 1.7 Le vicende modificative ed estintive delle società. - 2 Le società di persone. - 2.1 L’esercizio dei poteri di rappresentanza. - 2.2 Il titolo giudiziale ottenuto nei confronti della società. - 3 Le società di capitali. - 3.1 L’acquisto e il trasferimento delle partecipazioni societarie. - 3.2 Il recesso e la perdita della qualità di socio. - 3.3 Il pegno delle quote di s.r.l. - 3.4 Finanziamenti e conferimenti a vario titolo dei soci. - 3.5 Diritti e poteri connessi alla qualità di socio. - 3.6 Le deliberazioni dell’assemblea. - 3.7 Gli amministratori. - 3.8 Il revisore contabile. - 3.9 Il liquidatore. - 3.10 Le azioni di responsabilità. - 4 Particolari società di capitali. - 4.1 Le società cooperative.

1. Le società in generale.

Nel corso del 2019 la S.C. ha adottato alcune pronunce che hanno interessato in generale la materia, segnatamente esaminando le differenze della società rispetto alla comunione d’azienda, la validità e gli effetti di alcuni patti, il fenomeno del gruppo di imprese e le vicende modificative ed estintive delle società.

Vengono di seguito riportate le decisioni appena menzionate, unitamente a quelle adottate sulle medesime questioni, o su questioni connesse, ma riferite alle particolari tipologie di società, in modo tale da esaltare, insieme agli aspetti comuni, anche quelli propri di ciascuna categoria, ove esistenti.

1.1. Società ed esercizio dell’azienda ereditaria.

Si deve in proposito menzionare Sez. 2, n. 10188/2019, Felice Manna, Rv. 653493-01, ove la S.C. ha evidenziato che l’azienda ereditaria deve ritenersi oggetto di comunione se tra gli eredi vi è la finalità del solo godimento comune, secondo la sua consistenza al momento dell’apertura della successione. Se invece tale azienda viene esercitata per finalità speculative, con nuovi conferimenti e in vista di ulteriori utili, la Corte ha rilevato che vi è esercizio d’impresa, la quale può avvenire da parte di tutti i coeredi oppure di uno (o alcuni) di essi. Nel primo caso, l’originaria comunione incidentale si trasforma in una società (sia pure irregolare o di fatto), mentre nel secondo caso la comunione incidentale è limitata all’azienda, così come relitta dal de cuius, con gli elementi esistenti all’apertura della successione, e l’impresa esercitata dal singolo (o da alcuni dei coeredi) è riferibile soltanto ad esso (o ad essi), con gli utili e le perdite ad essa relativi (la fattispecie ha riguardato un’azienda farmaceutica, entrata in comunione ereditaria, ma esercitata da uno solo dei coeredi, che l’aveva ottenuta in virtù di atto dichiarato nullo, con la conseguenza che, a fini divisionali, si è dovuto tenere conto della sua consistenza al tempo dell’apertura della successione, non essendo comuni le spese, gli incrementi e i decrementi, riconducibili al solo imprenditore che aveva esercitato l’azienda).

Nei medesimi termini si è peraltro già pronunciata Sez. 2, n. 01366/1975, Bologna, Rv. 374900-01.

Particolare rilievo assume, poi, Sez. 2, n. 03028/2009, Mazzacane, Rv. 606476-01, ove la S.C. ha precisato che, nel caso in cui oggetto della comunione sia un’azienda, ove il godimento di questa si realizzi mediante il diretto sfruttamento della medesima da parte dei partecipanti alla comunione, non è configurabile una comunione di godimento, ma l’esercizio di un’impresa collettiva (nella forma della società regolare oppure della società irregolare o di fatto), non ostandovi il disposto dell’art. 2248 c.c., che assoggetta alle norme degli artt. 1100 e ss. c.c. la comunione costituita o mantenuta al solo scopo di godimento, posto che l’elemento discriminante tra comunione a scopo di godimento e società è costituito dal fine lucrativo perseguito tramite un’attività imprenditoriale, che si sostituisce al mero godimento, in funzione della quale vengono utilizzati beni comuni (nello stesso senso, Sez. L, n. 13291/1999, Evangelista, Rv. 531591-01).

1.2. Affectio societatis e affectio familiaris.

La S.C. si è interessata dell’argomento ai fini dell’estensione del fallimento ai familiari dell’imprenditore insolvente.

In particolare, Sez. 1, n. 27541/2019, Genovese, Rv. 655773-01, ha rilevato che l’esistenza del contratto sociale può essere desunta, oltre che da prove dirette specificamente riguardanti i suoi requisiti (affectio societatis, costituzione di un fondo comune, partecipazione agli utili ed alle perdite), anche da manifestazioni esteriori che, pur giustificabili alla luce del rapporto di coniugio o di parentela, siano rivelatrici, per il loro carattere di sistematicità e concludenza, delle componenti del rapporto societario, tra le quali particolare rilievo assumono i rapporti di finanziamento e di garanzia, qualora siano riconducibili ad una costante opera di sostegno dell’attività dell’impresa per il raggiungimento degli scopi sociali (nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata che, sulla base delle sole prove testimoniali raccolte tra i dipendenti, aveva negato l’esistenza di una società di fatto, sebbene il coniuge e il figlio dell’imprenditore avessero sostenuto in modo continuativo l’attività di impresa, mediante il rilascio sistematico di fideiussioni, garanzie ipotecarie e finanziamenti, incassando anche assegni e utilizzando altre forme di liquidità dell’impresa).

Analogamente Sez. 1, n. 33230/2019, Falabella, Rv. 656578 - 01, ha rilevato che la mancanza della prova scritta del contratto di società (che non è richiesta ai fini della validità dell’accordo) non impedisce al giudice del merito di accertare, anche mediante presunzioni semplici, l’esistenza di una struttura societaria, all’esito di una rigorosa valutazione (quanto ai rapporti tra soci) del complesso delle circostanze idonee a rivelare l’esercizio in comune di un’attività imprenditoriale, aggiungendo tuttavia che, quando si tratta di società di fatto tra consanguinei, la prova della esteriorizzazione del vincolo societario deve comunque essere rigorosa, occorrendo che essa si basi su elementi e circostanze concludenti, tali da escludere che l’intervento del familiare possa essere motivato dalla affectio familiaris e deporre, invece, nel senso di una sua compartecipazione all’attività commerciale.

1.3. Intestazione fiduciaria e donazione indiretta delle partecipazioni sociali.

Si deve in proposito richiamare Sez. 6-1, n. 22903/2019, Mercolino, Rv. 655416-01, ove la S.C. ha ribadito che l’intestazione fiduciaria di partecipazioni sociali, pur prevedendo l’obbligo del fiduciario di trasferirle successivamente al fiduciante, non riguarda il rapporto sociale, originando un’ipotesi di interposizione reale di persona, in virtù della quale l’interposto acquista la titolarità delle azioni o delle quote e, sebbene sia tenuto ad osservare un determinato comportamento convenuto in precedenza con il fiduciante nei rapporti interni con lui, tale obbligo, pur potendo incidere sulle concrete modalità di esercizio dei diritti sociali e di adempimento dei correlati doveri, non comporta alcun effetto nei rapporti con la società o gli altri soci, nei confronti dei quali viene in considerazione esclusivamente la titolarità formale della partecipazione (nella specie, la Corte ha escluso l’applicabilità della clausola compromissoria, prevista per il caso di insorgenza di controversie tra la società ed i soci o tra questi ultimi, per essere la lite attinente al rapporto interno tra il fiduciario, intestatario delle partecipazioni, ed il fiduciante).

Si deve tuttavia tenere presente che Sez. 2, n. 32108/2019, Carbone, Rv. 656210 - 01, ha affermato che il pactum fiduciae esige la forma scritta ad substantiam tutte le volte in cui comporti il trasferimento, sia pure indiretto, di un bene immobile, richiedendo perciò la forma scritta anche al patto fiduciario comportante il trasferimento indiretto di un immobile attraverso l’intestazione della quota di partecipazione alla società proprietaria del bene.

Sempre in tema di negozi indiretti riguardanti le partecipazioni sociali, Sez. 1, n. 20888/2019, Nazzicone, Rv. 655290-02, in un caso di dazione di denaro per l’acquisto della partecipazione sociale in sede di costituzione della società, ha evidenziato che non ricorre la simulazione relativa dell’atto di acquisto, dissimulante una donazione nulla in mancanza della forma pubblica, potendo piuttosto ricorrere un’ipotesi di donazione indiretta della partecipazione, che, come tale, non esige requisiti formali, tenuto conto che, nella donazione indiretta, la liberalità si opera, anziché attraverso il negozio tipico di donazione, mediante il compimento di un atto che, pur conservando la forma e la causa ad esso propria, realizza in via mediata l’effetto dell’arricchimento del destinatario, sicché l’intenzione di donare non emerge in via diretta dall’atto utilizzato bensì, in via indiretta, dall’esame delle circostanze del caso concreto.

1.4. La simulazione del contratto di società.

Con riferimento alla simulazione oggettiva, Sez. 1, n. 20888/2019, Nazzicone, Rv. 655290-01, ha evidenziato che non è configurabile la simulazione assoluta dell’atto costitutivo di una società di capitali, iscritta nel registro delle imprese, in ragione della natura stessa del contratto sociale, che non è solo regolatore degli interessi dei soci, ma si atteggia, al contempo, come norma programmatica dell’agire sociale, destinata ad interferire con gli interessi dei terzi, donde l’irrilevanza, dopo l’iscrizione della società nel registro delle imprese e la nascita del nuovo soggetto giuridico, della reale volontà dei contraenti manifestata nella fase negoziale. Tale fondamento, espressione del valore organizzativo dell’ente, è, per la Corte, sotteso all’art. 2332 c.c., e impone una lettura restrittiva dei casi di nullità della società da essi previsti, in nessuno dei quali è riconducibile la simulazione.

Negli stessi termini, Sez. 6-5, n. 29700/2019, Dell’Orfano, Rv. 656118-01, ha ribadito che, in tema di società di capitali, non è configurabile la simulazione del contratto sociale, sia in ragione delle inderogabili formalità che assistono la creazione (e l’organizzazione) dell’ente, sia in relazione alla tassatività delle cause di nullità previste dall’art. 2332 c.c. (nel testo modificato in attuazione della direttiva n. 68/151/CE), la cui clausola di chiusura esclude, al di fuori dei casi previsti, l’assoggettamento della società a cause di nullità assoluta o relativa, d’inesistenza o d’annullabilità. Secondo la S.C., la reale volontà dei contraenti, dopo la nascita dell’ente, non può influire su atti ed iniziative tipiche di tale nuovo autonomo soggetto giuridico che, una volta iscritto nel registro delle imprese, agisce coinvolgendo terzi e vive di vita propria, ponendo in essere la propria attività per realizzare lo scopo sociale, a prescindere dall’intento preordinato dei suoi fondatori. Di conseguenza, l’atto di costituzione dell’ente non può essere interpretato secondo la comune intenzione dei contraenti, restando consacrato secondo la volontà che risulta iscritta e, in tal modo, portata a conoscenza dei terzi.

Tali principi si pongono in continuità con quanto già affermato dal giudice di legittimità, sempre in relazione alle società di capitali (v., in tal senso, Sez. 1, n. 22560/2015, Cristiano, Rv. 637675-01 e Sez. 1, n. 30020/2011, Cultrera, Rv. 620961-01).

1.5. Il gruppo societario.

Anche nell’anno in rassegna, la S.C. si è interessata del gruppo societario, prestando attenzione, non solo alla responsabilità disciplinata dall’art. 2497 c.c., ma anche alla posizione e all’operato degli amministratori delle società partecipi del gruppo.

In particolare, ai fini della configurabilità della responsabilità da attività di direzione e coordinamento, Sez. 1, n. 24943/2019, Terrusi, Rv. 655621-01, ha evidenziato che per ritenere esistente un gruppo societario è certamente necessaria la presenza di più società, ma le formalità attinenti alla loro costituzione, come pure l’iscrizione presso l’apposita sezione del Registro delle imprese e le altre forme di pubblicità previste dall’art. 2497 bis c.c., non hanno efficacia costitutiva, non essendo neppure necessario che le società unitariamente controllate operino simultaneamente. Ciò che prevale è, invece, il principio di effettività, in virtù del quale assume rilievo la situazione di fatto esistente al momento dell’inizio, dello svolgimento e della cessazione dell’attività del gruppo (nella specie, la S.C. ha ritenuto irrilevante la circostanza che una delle società controllate, quella asseritamente danneggiata dall’attività di direzione e coordinamento, fosse fallita pochi mesi prima della costituzione di un’altra società controllata, avvantaggiata dalla prospettata scorretta gestione, posta in essere dalla holding familiare di fatto, composta dai soci delle società controllate).

Con riferimento alla revoca degli amministratori delle società controllate, in una interessante pronuncia, la Corte (Sez. 1, n. 18182/2019, Nazzicone, Rv. 654547-02) ha rilevato che, in questi casi, la giusta causa di revoca non può ritenersi integrata dalla mera ricorrenza di esigenze di auto-organizzazione della struttura societaria, quale è la decisione della capogruppo di trasferire le azioni della controllata ad altra società del gruppo, non motivata da circostanze o fatti idonei ad influire negativamente sulla prosecuzione del rapporto e ad elidere l’affidamento inizialmente riposto sulle attitudini e capacità dell’amministratore (cfr. in tal senso già Sez. 1, n. 21342/2013, Di Amato, Rv. 627848-01).

Nella stessa decisione (Sez. 1, n. 18182/2019, Nazzicone, Rv. 654547-01), la Corte ha anche affermato che, ai sensi dell’art. 2697 c.c., spetta alla società dimostrare il venir meno del diritto al risarcimento del danno, richiesto dall’amministratore anticipatamente revocato, anche nell’ipotesi in cui il patto di pagamento di una “indennità” sia stato convenzionalmente assunto dalla capogruppo, che alleghi l’insussistenza del suo obbligo in ragione della cessione della società controllata ad altra, costituente un diverso aggregato di interessi economici (negli stessi termini, con riferimento al riparto dell’onere della prova, cfr. da ultimo Sez. 1, n. 02037/2018, Nazzicone, Rv. 647624-01).

In tema di contratti stipulati tra società dello stesso gruppo, Sez. 1, n. 10103/2019, Fidanzia, Rv. 656476 - 01, ha ritenuto che, in caso di fideiussione prestata da una società in favore di un’altra, entrambe rappresentate dalla stessa persona in qualità di amministratore, l’esistenza del conflitto di interessi non può essere esclusa in base ad una mera petizione di principio, in ragione dell’appartenenza delle due società ad un unico gruppo, spettando al creditore che voglia giovarsi della garanzia dimostrare che quest’ultima è strumentale alla conservazione del valore della partecipazione della garante nel capitale della garantita, soprattutto quando vi siano fondati elementi per ritenere che la fideiussione non esprima l’interesse strategico del gruppo, ma la finalità di privilegiare, in via esclusiva, gli interessi della garantita, riducendo la garante ad un ruolo meramente servente.

In motivazione, la pronuncia da ultimo menzionata ha richiamato l’orientamento della Corte, secondo il quale il conflitto di interessi non può essere ritenuto esistente per il solo fatto che sia prestata fideiussione da una società in favore di un’altra, amministrata dalla stessa persona fisica, dovendo effettuarsi un accertamento in concreto, all’esito del quale il conflitto va escluso nei casi di società appartenenti allo stesso gruppo, ove la prestazione della garanzia corrisponda anche a un interesse della società garante (cfr. Sez. 1, n. 29475/2017, Ceniccola, Rv. 646314-01 e Sez. 1, n. 24547/2016, Cristiano, Rv. 642662-01). Ha tuttavia posto l’accento sul fatto che l’appartenenza al medesimo gruppo non è di per sé sufficiente ad escludere il conflitto, dovendo emergere lo specifico interesse della garante a prestare la fideiussione, nella specie ritenuto non provato, emergendo, anzi, elementi che deponevano in senso contrario, quali la manifesta sproporzione tra l’ammontare della fideiussione e il capitale sociale della garante ed anche il diverso settore operativo di quest’ultima rispetto a quello del gruppo.

1.6. La clausola compromissoria statutaria.

In argomento, Sez. 6-1, n. 15697/2019, Nazzicone, Rv. 654630-01, ha affermato che la clausola compromissoria, contenuta nello statuto di una società, la quale preveda la devoluzione ad arbitri delle controversie connesse al contratto sociale, deve ritenersi estesa alla controversia riguardante il recesso del socio dalla società, alla domanda di accertamento dell’inadempimento dell’amministratore agli obblighi di comunicazione ai soci accomandanti del bilancio e del conto dei profitti e perdite, ai sensi dell’art. 2320, comma 3, c.c., e alla connessa domanda di condanna dell’amministratore al risarcimento del danno ex art. 2395 c.c., rientrando i correlativi diritti nella disponibilità del socio che se ne vanti titolare. Sez. 1, n. 14665/2019, Lamorgese, Rv. 653914-01, ha invece ritenuto non compromettibile in arbitri la controversia avente ad oggetto l’impugnazione della deliberazione di riduzione del capitale sociale al di sotto del limite legale di cui all’art. 2447 c.c., per violazione delle norme sulla redazione della situazione patrimoniale ex art. 2446 c.c., vertendo tale controversia, al pari dell’impugnativa della delibera di approvazione del bilancio per difetto dei requisiti di verità, chiarezza e precisione, su diritti indisponibili, tenuto conto che le regole dettate dagli artt. 2446 e 2447 c.c. sono strumentali alla tutela non solo degli interessi dei soci ma anche di quelli dei terzi (nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza con la quale la Corte di appello aveva ritenuto che la finalità perseguita dall’art. 2446 c.c. fosse differente rispetto a quella sottesa alle norme sulla redazione del bilancio, mirando unicamente a consentire ai soci di conoscere la situazione finanziaria della società, al fine di deliberare consapevolmente).

Con riferimento, infine, all’impugnazione della decisione arbitrale, Sez. 1, n. 13842/2019, Terrusi, Rv. 654259-01, ha chiarito che, in caso di clausola compromissoria inserita nello statuto prima della novella di cui al d.lgs. n. 40 del 2006, è ammessa l’impugnazione del lodo per errores in iudicando anche ove, per decidere, gli arbitri abbiano conosciuto di questioni compromettibili in un giudizio non concernente l’invalidità di delibere assembleari, poiché il riferimento contenuto nell’art. 36 del d.lgs. n. 5 del 2003 all’art. 829 c.p.c., va sì correlato al nuovo comma 3 di quest’ultima disposizione (così come modificato dal menzionato d.lgs. n. 40 del 2006), ma pur sempre implica che, per stabilire se l’impugnazione sia ammessa dalla legge, si abbia riguardo alla legge vigente al momento della stipulazione della convenzione di arbitrato.

1.7. Le vicende modificative ed estintive delle società.

Numerose sono state le pronunce della Corte di cassazione in tema di fusione e scissione di società nel corso dell’ano 2019.

Si deve prima di tutto richiamare Sez. 1, n. 31654/2019, Scotti, Rv. 656478 - 02, ove la Corte ha evidenziato che la previsione dell’art. 2504 quater c.c. – secondo la quale una volta eseguite le iscrizioni di cui all’art. 2504, comma 2, c.c., in assenza delle opposizioni dei creditori, non può più essere pronunciata l’invalidità della fusione o della scissione (in virtù del rinvio operato dall’art. 2506 ter c.c.) – non comporta l’impossibilità di esperire l’azione revocatoria ex art. 2901 c.c., perché quest’ultima non è volta a far valere alcuna invalidità, ma solo l’inefficacia relativa dell’atto revocato, rendendolo inopponibile al creditore pregiudicato. In questo modo, la Corte ha escluso che l’opposizione ex art. 2503 c.c. debba essere considerata un rimedio sostitutivo e necessario, ritenendola piuttosto uno strumento aggiuntivo, che non esclude la possibilità di esperire l’azione revocatoria, in presenza dei presupposti di legge.

Con specifico riferimento alla fusione per incorporazione Sez. 3, n. 32142/2019, Gorgoni, Rv. 656569 - 03, ha ribadito quanto più volte affermato dalla S.C., evidenziando che, per effetto del novellato art. 2504 bis c.c. (nel testo modificato dal d.lgs. n. 6 del 2003), non si determina l’estinzione della società incorporata e la creazione di un nuovo soggetto giuridico, ma si attua l’unificazione, mediante l’integrazione reciproca, delle società partecipanti alla fusione.

Proprio perché l’art. 2501 c.c. nulla prevede in termini di estinzione della società incorporata, la Corte di cassazione ha ritenuto che la società incorporante, in quanto centro unitario di imputazione dei rapporti preesistenti, cioè di tutte le posizioni attive e passive già facenti capo all’incorporata, abbia anche la legittimazione attiva e passiva della prima come soggetto che prosegue l’attività della seconda. Più in particolare, la medesima Corte ha escluso una alterità soggettiva tra la società incorporata e quella risultante dalla fusione, risolvendosi quest’ultima in una vicenda meramente evolutiva-modificativa dello stesso soggetto, che conserva la propria identità, pur in un nuovo assetto organizzativo, potendo la relazione tra le stesse essere ricostruita in termini di integrazione reciproca, tenuto conto che i singoli rapporti si integrano nel patrimonio unificato e conservano il loro nesso di derivazione dalla fonte originaria, verificandosi una variazione soggettiva meramente formale, che non estingue un soggetto e correlativamente non ne crea uno nuovo.

La stessa Corte ha così precisato che non costituisce alcun ostacolo a tale ricostruzione la cancellazione dal registro delle imprese della società incorporata, perché tale cancellazione è diversa da quella risultante dalla cessazione o dal completamento delle attività di liquidazione, in base alla considerazione che nell’incorporazione per fusione, la società incorporante, già prima della novella del 2003, partecipando essa stessa alla fusione, non è mai totalmente distinta dalla parte già costituita, onde quel tipo di operazione dipende interamente dalla volontà degli stessi organi delle due società che ne sono protagoniste, ivi compresa l’incorporante, che è destinata a subentrare nella posizione processuale dell’incorporata.

In tale ottica, Sez. 5, n. 04042/2019, Catallozzi, Rv. 652527-01, nel confermare che l’art. 2504 bis c.c. (nel testo modificato dal d.lgs. n. 6 del 2003) risolve la fusione in una vicenda non estintiva, ma evolutivo-modificativa, che comporta un mutamento formale di un’organizzazione societaria già esistente, e non la creazione di un nuovo ente distinto dal vecchio, ha ritenuto ammissibile l’appello proposto nei confronti della società incorporata, affermando che, nonostante la cancellazione dal registro delle imprese, quest’ultima sopravvive in tutti i suoi rapporti, anche processuali, alla vicenda modificativa nella società incorporante.

Non si è mostrata concorde su quest’ultimo aspetto Sez. 5, n. 32208/2019, D’Orazio, Rv. 656108-01, ove la Corte, nell’affermare che l’art. 2504 bis c.c. (come modificato dall’art. 6 del d.lgs. n. 6 del 2003) plasma una vicenda meramente modificativa-evolutiva della medesima compagine societaria, la quale, nei rapporti processuali, conferisce la legittimazione attiva e passiva alla società incorporante lasciando immutata analoga legittimazione attiva e passiva alla società incorporata, ha aggiunto che, quando la società incorporata viene cancellata dal registro delle imprese, interviene l’estinzione di quest’ultima e pertanto viene meno anche la sua legittimazione processuale.

Si discosta da entrambe le pronunce appena riportate Sez. 5, n. 14177/2019, Nonno, Rv. 654121-01. La Corte ha, in questa pronuncia, ritenuto che, in ipotesi di fusione per incorporazione ex art. 2504 bis c.c. (sempre nel testo risultante dalle modifiche apportate dal d.lgs. n. 6 del 2003) intervenuta in corso di causa, la legittimazione attiva e passiva all’impugnazione spetta alla sola società incorporante cui sono stati trasferiti i diritti e gli obblighi della società incorporata e che prosegue in tutti i rapporti anteriori alla fusione, anche quelli processuali, salva la possibilità della controparte di notificare l’atto di impugnazione nei confronti di quest’ultima, nel caso in cui, nonostante l’iscrizione nel registro delle imprese, non fosse a conoscenza della intervenuta fusione.

Non è in contrasto con le pronunce appena richiamate Sez. 1, n. 29256/2019, Vella, Rv. 656041-01, che, esaminando una fattispecie disciplinata dalle norme previgenti al d.lgs. n. 6 del 2003 (si è trattato infatti di fusione effettuata prima dell’entrata in vigore del d.lgs. cit.), ha affermato, conformemente all’orientamento che si era consolidato nell’interpretazione delle disposizioni dell’epoca, che la fusione di società realizza una successione universale corrispondente a quella mortis causa e produce gli effetti, tra loro interdipendenti, dell’estinzione della società incorporata e della contestuale sostituzione nella titolarità dei rapporti giuridici attivi e passivi facenti capo a questa dell’incorporante, la quale rappresenta il nuovo centro di imputazione dei rapporti giuridici già riguardanti i soggetti fusi o incorporati, ritenendo pertanto che, nel caso di revocatoria fallimentare, al di là del letterale riferimento dell’art. 2504 bis c.c. (anche nel testo previgente) ai diritti ed agli obblighi, la sostituzione riguarda anche le situazioni di scienza giuridicamente rilevanti, ivi compresa l’eventuale conoscenza dello stato di insolvenza del soggetto incorporato che ha effettuato un pagamento nel periodo sospetto.

Anche per quanto riguarda la scissione societaria, la giurisprudenza di questa Corte (Sez. U, n. 23225/2016, Chiarini, Rv. 641764-01) ha da tempo chiarito che tale operazione, disciplinata dagli artt. 2506 e ss. c.c., come modificati dal d.lgs n. 6 del 2003, consiste nel trasferimento del patrimonio ad una o più società, preesistenti o di nuova costituzione, contro l’assegnazione di azioni o di quote delle stesse ai soci della società scissa, e produce effetti traslativi, che, sul piano processuale, non determinano l’estinzione di quest’ultima ed il subingresso di quella o di quelle risultanti dalla scissione nella totalità dei rapporti giuridici della prima ma una successione a titolo particolare nel diritto controverso, la quale, se interviene nel corso del giudizio, comporta l’applicazione della disciplina di cui all’art. 111 c.p.c., con conseguente facoltà per il successore di resistere con controricorso all’impugnazione ex adverso proposta davanti al giudice di legittimità nei confronti del suo dante causa, pur quando non abbia partecipato al processo nei gradi precedenti.

In conformità a tale ricostruzione giuridica, Sez. 6-2, n. 13192/2019, Oricchio, Rv. 653851-01, ha affermato che la società nata dalla scissione subentra nel preesistente rapporto contrattuale facente capo a quella scissa, in virtù di una successione a titolo particolare nel diritto controverso, con la conseguenza che la clausola compromissoria per arbitrato rituale in origine pattuita rimane efficace.

Guardando agli effetti della scissione, Sez. 5, n. 16710/2019, Stalla, Rv. 654508-01, ha rilevato che la società beneficiaria è solidalmente responsabile per i debiti erariali della società scissa relativi a periodi d’imposta anteriori alla data dalla quale l’operazione produce effetti, e può essere richiesta del pagamento di tali debiti senza oneri di avvisi o altri adempimenti da parte dell’Amministrazione finanziaria, non pregiudicando tale disciplina il diritto di difesa della società beneficiaria, la quale è a conoscenza della situazione debitoria della società scissa, ivi comprese le pendenze tributarie, e può dedurre, in sede di opposizione alla cartella, ogni argomentazione per contestare la pretesa impositiva.

In tema di cancellazione della società, la Corte nell’anno in rassegna ha confermato alcuni orientamenti già espressi in precedenza.

Si ritiene che, a parte le ipotesi eccezionali sopra evidenziate, in applicazione dell’art. 2495 c.c., alla cancellazione dal registro delle imprese segue l’estinzione delle società, siano esse di persone o di capitali.

Qualora, tuttavia, all’estinzione non corrisponda il venir meno di ogni rapporto giuridico facente capo alla società estinta, Sez. 5, n. 13386/2019, Rv. 653738-01, ha ribadito che si determina un fenomeno di tipo successorio, in virtù del quale l’obbligazione della società non si estingue, ma si trasferisce ai soci, i quali ne rispondono, nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione o illimitatamente, a seconda del regime giuridico dei debiti sociali, cui sono soggetti pendente societate (nella specie, la S.C. ha escluso che l’estinzione della società comportasse la nullità degli avvisi di accertamento sia nei confronti della società che dei soci).

Tale principio è stato confermato da Sez. 1, n. 31933/2019, Marulli, non massimata, che, con riferimento alle società di capitali, ha pure precisato, e questo è l’aspetto importante, che comunque è necessaria l’acquisizione di beni o di denaro in sede di liquidazione della società da parte del socio, la quale deve essere dimostrata da colui che fa valere in giudizio il proprio diritto nei confronti di quest’ultimo, nel senso che grava sul creditore insoddisfatto l’onere di provare la distribuzione dell’attivo e la riscossione di una quota di esso da parte del socio, evidenziando inoltre che tali circostanze attengono, non alla verifica della legittimazione passiva dell’ex socio ma, semmai, dell’interesse ad agire del creditore.

In tale quadro, Sez. 5, n. 17986/2019, D’Orazio, Rv. 654749-02, ha ritenuto che, nel processo tributario, la prosecuzione del giudizio da parte degli eredi dell’unico socio deceduto, dopo la cancellazione della società del registro delle imprese con conseguente estinzione della stessa, poiché comporta l’implicita rinuncia del diritto a ricevere un autonomo avviso di accertamento ex art. 36, comma 5, d.P.R. n. 602 del 1973, fa presumere l’avvenuta distribuzione in loro favore di parte dell’attivo ricavato dalla liquidazione volontaria dei beni.

Nel medesimo senso, Sez. 3, n. 13593/2019, Di Florio, Rv. 654200-02, ha affermato che, in caso di esperimento di azione revocatoria, il creditore che agisca in giudizio evocando, come litisconsorti necessari, la società debitrice alienante e quella acquirente, ha diritto ad integrare il contraddittorio nei confronti dei soci di quest’ultima, al fine di conseguire un titolo esecutivo per un credito insorto pendente societate, anche dopo l’estinzione di quest’ultima, ove il contraddittorio sia stato instaurato correttamente nei confronti di entrambe le società ma quella alienante si sia estinta con cancellazione dal registro delle imprese anche in data antecedente alla notifica dell’atto di citazione. I soci, difatti, succedono alla società estinta e assumono la veste di legittimati passivi, a seconda del regime giuridico dei debiti sociali cui erano soggetti nel corso dell’attività e nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione od illimitatamente, sicché il giudice, ove verifichi l’estinzione di una delle società litisconsorti, è tenuto, in ogni stato e grado del giudizio, a fissare un termine per la corretta instaurazione del contraddittorio nei confronti dei soci.

Allo stesso modo, con riferimento ai crediti della società, Sez. 1, n. 13921/2019, Iofrida, Rv. 654262-01, ha affermato che l’estinzione della società per effetto dell’obbligatoria cancellazione dal registro delle imprese, ai sensi dell’art. 118, comma 1, n. 4, l.fall., a seguito di chiusura del fallimento per insufficienza dell’attivo, determina il trasferimento degli eventuali crediti residui, che non siano stati realizzati dal curatore fallimentare, ai soci in regime di contitolarità o comunione indivisa, salvo che il mancato espletamento dell’attività di recupero consenta di ritenere che la società vi abbia già rinunciato prima dell’apertura della procedura concorsuale (nell’affermare il principio, la S.C. ha confermato la sentenza di merito, che aveva dichiarato il difetto di legittimazione attiva dei soci della società estinta, poiché l’esistenza del credito litigioso non era stata portata a conoscenza della curatela e pertanto doveva ritenersi che esso fosse stato già tacitamente rinunciato dalla creditrice).

In generale, con riferimento ai giudizi pendenti al momento dell’estinzione della società, Sez. 5, n. 15637/2019, Fuochi Tinarelli, Rv. 654156-01, in linea con alcuni precedenti (Sez. 1, n. 17492/2018, Fraulini, Rv. 649892-01) ha affermato che gli ex soci di società di capitali estinta sono legittimati a partecipare al giudizio, relativo ai rapporti facenti capo alla società di capitali estinta ed ancora pendenti, precisando che, qualora si tratti di un debito, la successione interessa tutti i soci esistenti al momento della cancellazione, sussistendo un litisconsorzio di natura processuale degli stessi, ciascuno in qualità di successore della società nei limiti della quota di partecipazione, mentre, qualora si tratti di un credito, pur rimanendo immutato il meccanismo successorio, la mancata liquidazione comporta soltanto l’instaurazione di un regime di contitolarità o di comunione indivisa, che esclude il litisconsorzio (nella specie, la S.C. ha accolto, nel merito, l’originario ricorso del contribuente che, quale ex socio, aveva agito per il rimborso del credito IVA, non iscritto nel bilancio finale di liquidazione).

2. Le società di persone.

Vengono di seguito riportate le poche decisioni adottate dalla Corte di cassazione, nel corso 2019, in tema di società di persone, che riguardano, in particolare, l’esercizio dei poteri di rappresentanza della società e gli effetti nei confronti dei soci del titolo giudiziale formatosi contro la società.

2.1. L’esercizio dei poteri di rappresentanza.

In ordine a tale questione, Sez. 6-2, n. 29689/2019, Oliva, Rv. 656246-01, ha chiaramente affermato che, qualora il contratto richieda la forma scritta ad probationem, la contemplatio domini, pur non richiedendo l’uso formale di formule sacramentali, deve risultare dallo stesso documento negoziale, restando irrilevante la conoscenza o l’affidamento creato nel terzo contraente circa l’esistenza del rapporto sociale interno e dei poteri di rappresentanza reciproca che essa comporta (nello stesso senso, Sez. 6-2, n. 25104/2013, Proto, Rv. 628762-01).

2.2. Il titolo giudiziale ottenuto nei confronti della società.

Com’è noto, i soci delle società di persone sono tutti solidalmente e illimitatamente responsabili dei debiti sociali (artt. 2267, 2291 e 2313, comma 1, prima parte, c.c.), ad eccezione dei soci accomandanti delle società in accomandita semplice, che rispondono nei limiti della quota conferita (2313, comma 1, seconda parte, c.c.).

Sul punto, una recente giurisprudenza di legittimità ha più volte affermato che i debiti assunti dalle società di persone non possono essere considerati debiti personali dei loro soci illimitatamente responsabili, perché si tratta di debiti propri della società, nei confronti dei quali i soci illimitatamente responsabili assumono piuttosto la posizione, e il trattamento, di garanti ex lege (cfr. in argomento da ultimo Sez. 1, n. 06650/2018, Dolmetta, Rv. 647761-01). L’orientamento non è però consolidato. Si consideri che altra giurisprudenza ha invece affermato che la responsabilità illimitata del socio di una società di persone per le obbligazioni sociali trae origine dalla sua qualità di socio e si configura come personale e diretta, anche se con carattere di sussidiarietà in relazione al preventivo obbligo di escussione del patrimonio sociale, con la conseguenza che l’atto con cui il socio illimitatamente responsabile di una società in nome collettivo rilasci garanzia ipotecaria per un debito della società non può considerarsi costitutivo di garanzia per un’obbligazione altrui ma per un’obbligazione propria (così Sez. U, n. 03022/2015, Ragonesi, Rv. 634104-01; nella stessa linea si pone da ultimo Sez. 1, n. 00279/2017, Falabella, Rv. 643246-02).

Si deve tenere presente che la responsabilità dei soci per le obbligazioni della società di persone non opera nello stesso modo per tutte le società.

In particolare, a differenza di quanto previsto per la società semplice, nelle società in nome collettivo e nelle società in accomandita semplice la previa escussione del patrimonio sociale da parte del creditore procedente non forma una eccezione del socio, che può invocare il beneficio indicando i beni sui quali il creditore può agevolmente soddisfarsi, ma rappresenta una vera condizione dell’azione promossa dal creditore, che non può pretendere il pagamento dal socio se non dopo l’escussione del patrimonio sociale (così Sez. L, n. 11921/1990, Paolucci, Rv. 470157- 01).

In proposito, Sez. 3, n. 21768/2019, Rossetti, Rv. 655030-02, ha precisato che il creditore che sia munito di un titolo esecutivo nei confronti di una società di persone può avere interesse a dotarsi di un secondo titolo esecutivo nei confronti dei soci illimitatamente responsabili, al fine di poter iscrivere ipoteca giudiziale sui beni immobili personali di questi ultimi, non potendo a tal fine avvalersi del titolo ottenuto nei confronti della società.

D’altronde, di recente Sez. 3, n. 25378/2018, Ambrosi, Rv. 651164-01, aveva già confermato un orientamento oramai consolidato, secondo il quale il beneficio d’escussione previsto dall’art. 2304 c.c. ha efficacia limitata alla fase esecutiva, nel senso che il creditore sociale non può procedere coattivamente a carico del socio se non dopo avere agito infruttuosamente sui beni della società, e pertanto non impedisce allo stesso creditore di agire in sede di cognizione, per munirsi di uno specifico titolo esecutivo nei confronti del socio, sia per poter iscrivere ipoteca giudiziale sugli immobili di quest’ultimo, sia per poter agire in via esecutiva contro il medesimo, senza ulteriori indugi, una volta che il patrimonio sociale risulti incapiente o insufficiente al soddisfacimento del suo credito (v. anche Sez. 1, n. 01040/2009, Rordorf, Rv. 606371-01 e Sez. 2, n. 28146/2013, Matera, Rv. 629195-01).

In tale ottica, Sez. 3, n. 15877/2019, Rossetti, Rv. 654296-01, ha ritenuto che il decreto ingiuntivo pronunciato a carico di una società di persone, e a favore di un creditore sociale, estende i suoi effetti anche nei confronti dei soci illimitatamente responsabili, ricorrendo una situazione non diversa da quella che, ai sensi dell’art. 477 c.p.c., consente di porre in esecuzione il titolo nei confronti di soggetti diversi dal soggetto contro cui è stato formato e risolvendosi, altresì, l’imperfetta personalità giuridica della società di persone in quella dei soci, i cui patrimoni sono protetti dalle iniziative dei terzi solo dalla sussidiarietà. Ciascun socio, pertanto, ha l’onere di proporre opposizione contro il suddetto titolo, con la conseguenza che l’intervenuta definitività del provvedimento monitorio anche nei suoi confronti gli preclude di far valere in sede di opposizione all’esecuzione le eccezioni di merito che avrebbe dovuto proporre in sede di opposizione (conf. Sez. 3, n. 06734/2011, De Stefano, Rv. 617488-01; v. anche Sez. 3, n. 15376/2016, Barreca, Rv. 641158-01, ove la S.C. ha affermato che il decreto ingiuntivo, richiesto ed ottenuto sia nei confronti della società di persone che dei singoli soci illimitatamente responsabili, acquista autorità di giudicato sostanziale nei confronti del socio che non proponga tempestiva opposizione e la relativa efficacia resta insensibile all’eventuale accoglimento dell’opposizione avanzata dalla società o da altro socio).

3. Le società di capitali.

Le pronunce di seguito riportate sono state adottate nel corso dell’anno 2019 con specifico riferimento alle società di capitali. Trattano in particolare l’acquisto e il trasferimento delle partecipazioni societarie, il recesso e la perdita della qualità di socio, i finanziamenti e i conferimenti a vario titolo di quest’ultimo, l’assemblea e le delibere assembleari, l’amministrazione e le azioni di responsabilità. In alcuni casi, la Corte di cassazione ha affrontato le singole questioni, riferendosi in generale alle società di capitali, mentre, in altri casi, come di volta in volta precisato, ha esaminato in particolare la disciplina propria della società per azioni o delle società a responsabilità limitata.

3.1. L’acquisto e il trasferimento delle partecipazioni societarie.

Le pronunce adottate nel periodo in rassegna riproducono, in questo argomento, questioni già affrontate dalla Corte di cassazione, peraltro con orientamenti che ancora non sembrano comporsi.

Si deve, in proposito, subito richiamare Sez. 6-2, n. 22790/2019, Abete, Rv. 655280-01, ove la S.C. ha chiaramente affermato che le azioni (e le quote) delle società di capitali costituiscono beni di “secondo grado”, in quanto non sono del tutto distinte e separate dai beni compresi nel patrimonio sociale, e sono rappresentative delle posizioni giuridiche spettanti ai soci in ordine alla gestione ed alla utilizzazione di detti beni, funzionalmente destinati all’esercizio dell’attività sociale. Pertanto, i beni compresi nel patrimonio della società non possono essere considerati del tutto estranei all’oggetto del contratto di cessione del trasferimento delle azioni o delle quote di una società di capitali, sia se le parti abbiano fatto espresso riferimento agli stessi, mediante la previsione di specifiche garanzie contrattuali, sia se l’affidamento del cessionario debba ritenersi giustificato alla stregua del principio di buona fede. Ne consegue che la differenza tra l’effettiva consistenza quantitativa del patrimonio sociale rispetto a quella indicata nel contratto, incidendo sulla solidità economica e sulla produttività della società, quindi sul valore delle azioni o delle quote, può integrare la mancanza delle qualità essenziali della cosa, che rende ammissibile la risoluzione del contratto ex art. 1497 c.c., ovvero, qualora i beni siano assolutamente privi della capacità funzionale a soddisfare i bisogni dell’acquirente, quindi “radicalmente diversi” da quelli pattuiti, l’esperimento di un’ordinaria azione di risoluzione ex art. 1453 c.c., svincolata dai termini di decadenza e prescrizione previsti dall’art. 1495 c.c.

Tale pronuncia trova un precedente conforme in Sez. 1, n. 18181/2004, Marziale, Rv. 580229-01, ma non esprime una soluzione interpretativa del tutto condivisa.

In altre statuizioni, la Corte di cassazione (Sez. 3, n. 16031/2007, Vivaldi, Rv. 598888-01) ha affermato che, in caso di compravendita di azioni di una società, stipulata ad un prezzo non corrispondente all’effettivo valore di queste ultime, senza che il venditore abbia prestato alcuna garanzia in ordine alla situazione patrimoniale della società stessa, il valore economico delle azioni non rientra tra le qualità di cui all’art. 1429, n. 2, c.c., che consentono l’annullamento del contratto per errore essenziale. La medesima Corte (Sez. 3, n. 16031/2007, Vivaldi, Rv. 598889-01) ha inoltre affermato che, in tali casi, il negozio ha quale oggetto immediato la partecipazione sociale e quale oggetto mediato la quota parte del patrimonio sociale che tale partecipazione rappresenta, con la conseguenza che le carenze o i vizi relativi alle caratteristiche e al valore dei beni ricompresi nel patrimonio sociale – e, di riverbero, alla consistenza economica della partecipazione – possono giustificare l’annullamento del contratto per errore o la risoluzione per difetto di qualità della cosa venduta (necessariamente attinente ai diritti e obblighi che, in concreto, la partecipazione sociale sia idonea ad attribuire, e non al suo valore economico) solo se il cedente abbia fornito, a tale riguardo, specifiche garanzie contrattuali, ovvero nel caso di dolo, quando il mendacio o le omissioni sulla situazione patrimoniale della società siano accompagnate da malizie ed astuzie, volte a realizzare l’inganno ed idonee, in concreto, a sorprendere una persona di normale diligenza.

Con riferimento poi alla clausola con la quale, nella vendita di partecipazioni sociali, il venditore si sia impegnato a tenere indenne il compratore dalle sopravvenienze passive nel patrimonio della società, Sez. 2, n. 16963/2014, Migliucci, Rv. 631856-01 ha ritenuto che tale clausola ha ad oggetto una prestazione accessoria, che non rientra, quindi, nella garanzia di cui all’art. 1497 c.c., che attiene, invece, alle qualità intrinseche della cosa, esistenti al momento della conclusione del contratto (in conseguenza di tale premessa, la Corte ha poi ritenuto che il diritto del compratore all’indennizzo, fondato su detta clausola, non è soggetto alla prescrizione annuale ex artt. 1495 e 1497 c.c., bensì alla prescrizione ordinaria decennale).

In questa ottica si inserisce Sez. 1, n. 07183/2019, Laura Tricomi, Rv. 653631-01, ove la Corte di cassazione ha ritenuto che, qualora alla cessione delle partecipazioni sociali siano collegati dei patti autonomi di garanzia, aventi ad oggetto le passività del patrimonio sociale (c.d. business warranties), questi patti non attengono all’oggetto immediato del negozio, consistente nell’acquisizione della partecipazione sociale, ma al suo oggetto mediato, riconducibile alla quota parte del patrimonio sociale che essa rappresenta, e costituiscono un’autonoma regolamentazione della garanzia, sicché, in caso di inadempimento, deve riconoscersi all’acquirente il diritto a conseguire un indennizzo, e non la possibilità di ottenere la risoluzione del contratto di acquisto delle azioni a causa del difetto di qualità della cosa venduta, secondo la disciplina di cui agli artt. 1495 e 1497 c.c.

In relazione a fattispecie del tutto diverse, ma sempre riferite a fattispecie che comportano l’acquisto della qualità di socio, Sez. 6-1, n. 07298/2019, Dolmetta, Rv. 653639-01, ha affermato che, in caso di pubblica sottoscrizione per la costituzione di s.p.a., la verifica della sussistenza delle sottoscrizioni e dei versamenti prescritti non incombe in via esclusiva sui promotori, ma coinvolge anche la posizione dei sottoscrittori, in quanto i riscontri e le valutazioni compiuti dai promotori sono affidati, ai sensi degli artt. 2335, comma 1, n. 1, e 2329, comma 1, n. 1, c.c., all’assemblea dei sottoscrittori, sicché, ove non si perfezioni l’iter costitutivo della società, l’obbligo di restituzione delle somme versate, a titolo di ripetizione d’indebito, grava sui promotori solo in relazione alle somme effettivamente acquisite secondo le modalità di versamento dei conferimenti in denaro indicate dalle disposizioni di legge e contrattuali, potendosi tuttavia configurare una responsabilità risarcitoria di questi ultimi, in virtù del peculiare affidamento che può essere stato creato, nel contesto dei sottoscrittori, sulla reale sussistenza delle sottoscrizioni e dei versamenti previsti dalla legge.

Con riferimento infine al diritto di opzione del socio di s.p.a. in sede di aumento del capitale sociale, Sez. 1, n. 03779/2019, Valitutti, Rv. 653089-01, ha ritenuto che il sacrificio di tale diritto – deliberato dall’assemblea ai sensi del previgente art. 2441 c.c. – è consentito non solo nei casi in cui si tratti dell’unico e inderogabile mezzo per realizzare l’interesse della società, essendo sufficiente che, in presenza di un interesse sociale di particolare natura ed intensità, riguardante le modalità con cui viene realizzato l’aumento di capitale, la predetta soluzione appaia preferibile e ragionevolmente più conveniente, in base ad un accertamento rimesso al giudice di merito e incensurabile in sede di legittimità, se non nei limiti del novellato art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. (nella specie, l’interesse della società ad una abbreviazione del termine legale per l’esercizio del diritto di opzione è stato ravvisato nell’urgenza di provvedere all’azzeramento, alla ricostituzione e all’aumento del capitale sociale, in modo tale da consentire alla società di provvedere al pagamento del prezzo dovuto per l’acquisto all’asta di un complesso aziendale, la cui perdita avrebbe comportato un grave pregiudizio).

3.2. Il recesso e la perdita della qualità di socio.

Con specifico riferimento alle s.r.l., com’è noto, il novellato art. 2473 c.c. prevede la possibilità di individuare nell’atto costitutivo i casi di recesso del socio e le modalità di esercizio dello stesso, contemplando, al verificarsi di determinate circostanze, anche ipotesi legali di scioglimento del rapporto tra società e socio, tra cui quella disciplinata dall’art. 2473, comma 2, c.c., che consente il recesso dalla società contratta a tempo indeterminato, da esercitarsi con un preavviso di almeno centottanta giorni, ovvero di durata maggiore, stabilita dall’atto costitutivo, senza però superare il limite di un anno.

Proprio in relazione a quest’ultima ipotesi, Sez. 1, n. 23095/2019, Laura Tricomi, Rv. 655334-01, ha precisato che, al fine di verificare la sussistenza dei presupposti per l’esercizio del diritto di recesso ex art. 2473, comma 2 c.c., nel caso in cui vi sia una scissione societaria, non è possibile cumulare i termini di durata previsti per ciascuna società, in considerazione della totale autonomia esistente tra la società scissa e quella beneficiaria.

In argomento, Sez. 1, n. 08962/2019, Iofrida, Rv. 653568-01, ha inoltre evidenziato che non è consentito il recesso ad nutum da una società a responsabilità limitata contratta a tempo determinato, in considerazione sia della previsione letterale di cui all’art. 2473 c.c., che limita il recesso al solo caso di società contratta a tempo indeterminato, sia della valutazione sistematica, dipendente dalla diversa disposizione dettata per le società di persone, sia dell’esigenza di tutelare i creditori che, facendo affidamento sul patrimonio sociale, hanno interesse al mantenimento della sua integrità (nella specie, la durata della società era stata prevista fino al 2050 e il socio pretendeva di esercitare il recesso ad nutum, perché tale durata eccedeva la propria aspettativa di vita).

Si consideri comunque che Sez. 1, n. 09662/2013, Bisogni, Rv. 626392-01, ha ritenuto che la previsione statutaria di un termine di durata particolarmente lungo, e tale da superare qualsiasi orizzonte previsionale anche per un soggetto collettivo, determina l’assimilazione della s.r.l. a tempo determinato ad una s.r.l. a tempo indeterminato, consentendo al socio di esercitare il diritto di recesso in qualsiasi momento (perché deve essere assicurata la tutela del suo affidamento circa la possibilità di disinvestire la quota), sicché, la modifica dello statuto, che riduca notevolmente tale termine di durata, in origine estremamente lungo, comporta anche l’eliminazione della menzionata causa di recesso (il principio è stato enunciato proprio con riferimento a una modifica della durata della società, prevista in origine fino al 2100 e poi fino al 2050).

Con riferimento invece alle ipotesi legali di recesso dalla s.p.a., previste in favore dei soci che non abbiano votato a favore delle deliberazioni indicate nell’art. 2437 c.c., Sez. 1, n. 13845/2019, Terrusi, Rv. 654260-01, ha ritenuto che tra le deliberazioni concernenti i “diritti di partecipazione” dei soci, previste dall’art. 2437, comma 1, lett. g), c.c. – pur nell’ambito di una interpretazione restrittiva della norma, tesa a non incrementare a dismisura le cause che legittimano l’uscita dalla società – devono essere comprese quelle che interessano i diritti patrimoniali derivanti dalla partecipazione e, tra questi, il diritto afferente la percentuale dell’utile da distribuire in base allo statuto, aggiungendo che pertanto giustifica il recesso del socio di minoranza la modifica statutaria direttamente attinente alla distribuzione dell’utile di esercizio, che influenza in negativo i diritti patrimoniali del socio, prevedendo l’abbattimento della percentuale ammissibile di distribuzione, in considerazione dell’aumento della percentuale da destinare a riserva.

3.3. Il pegno delle quote di s.r.l.

In materia, assume fondamentale rilievo Sez. 1, n. 31051/2019, Dolmetta, Rv. 656275-01, ove la S.C. ha affermato che le quote di s.r.l., che non possono essere formate da titoli azionari e perciò non possono essere considerate beni mobili, ma rappresentano la partecipazione dei soci al contratto sociale e allo svolgimento dell’impresa, che da questo promana, esulando dall’ambito dei semplici diritti di credito, con la conseguenza che la costituzione in pegno di dette quote è soggetta alla regola residuale, contenuta nell’art. 2806 c.c., riguardante i diritti diversi dai crediti, e il diritto di pegno è costituito con l’iscrizione del relativo atto nel registro delle imprese.

3.4. Finanziamenti e conferimenti a vario titolo dei soci.

Nell’anno in rassegna, la S.C. ha più volte esaminato fattispecie riconducibili all’ambito operativo dell’art. 2467 c.c., così delineando in modo sempre più chiaro la portata di tale disposizione.

Fondamentale rilievo assume una pronuncia (Sez. 1, n. 12994/2019, Nazzicone, Rv. 654252-01), in cui la Corte di cassazione ha precisato che, in tema di finanziamento dei soci in favore della società, la postergazione disposta dall’art. 2467 c.c. opera già durante la vita della società, e non solo nel momento in cui si apra un concorso formale con gli altri creditori sociali, integrando una condizione di inesigibilità legale e temporanea del diritto del socio alla restituzione del finanziamento, sino a quando non sia superata la situazione di difficoltà economico-finanziaria prevista dalla norma.

Secondo la Corte, deve pertanto essere rifiutato il rimborso al socio finanziatore, ove la società versi nella indicata situazione di crisi nel momento della concessione del finanziamento ed anche in quello di richiesta del rimborso, da rilevarsi a cura dell’organo gestorio, mediante l’adozione di un adeguato assetto organizzativo, amministrativo e contabile.

Nella stessa pronuncia (Sez. 1, n. 12994/2019, Nazzicone, Rv. 654252-02), la medesima Corte ha anche rilevato che, ove il socio formuli la richiesta di rimborso in giudizio, spetta al giudice di merito verificare se la situazione di crisi, prevista dall’art. 2467, comma 2, c.c. sussiste, oltre che al momento della concessione del finanziamento, anche a quello della decisione, trattandosi di fatto impeditivo del diritto alla restituzione del finanziamento, rilevabile anche d’ufficio, in quanto oggetto di un’eccezione in senso lato, sempre che la situazione di crisi risulti ex actis in base a quanto dedotto e prodotto in giudizio.

La nozione di “finanziamento dei soci a favore della società” di cui all’art. 2467 c.c. è stata poi delineata da Sez. 1, n. 03017/2019, Dolmetta, Rv. 652548-01, ove la S.C. ha evidenziato che la disposizione richiamata non comprende i soli contratti di credito, perché il secondo comma di tale norma prevede che rientrino in quella categoria i finanziamenti “in qualsiasi forma” effettuati e quindi ogni atto che comporti un’attribuzione patrimoniale accompagnata dall’obbligo della sua futura restituzione, senza che rilevino, al fine di escludere l’applicazione della menzionata norma, la modestia della partecipazione sociale o l’esperimento di azioni giudiziarie volte a recuperare il credito.

Con riferimento poi ai risvolti applicativi della disposizione in esame nell’ambito delle procedure concorsuali, si deve menzionare Sez. 1, n. 20649/2019, Fidanzia, Rv. 654671-01, ove la Corte ha chiarito che, in tema di insinuazione allo stato passivo, il credito derivante dal finanziamento alla società fallita in qualunque forma effettuato dal socio, in una situazione finanziaria in cui sarebbe stato ragionevole un conferimento ai sensi dell’art. 2467 c.c., deve essere ammesso al concorso con il rango postergato non essendo equiparabile ad un credito chirografario.

3.5. Diritti e poteri connessi alla qualità di socio.

Alcune pronunce hanno affrontato nel corso del 2019 questioni varie, legate alla figura del socio di società di capitali, sia nei rapporti con la società che nei rapporti con i terzi.

Si tratta di statuizioni che toccano materie diverse, alcune legate a fattispecie davvero peculiari, accomunate comunque dal fatto che riguardano la posizione del socio in quanto tale.

Ad esempio, in una fattispecie del tutto particolare, Sez. 1, n. 09106/2019, Scalia, Rv. 653873-01, ha ritenuto che, ove la s.p.a. sia concessionaria di porti o approdi turistici, la partecipazione societaria può comprendere anche l’ormeggio nel posto barca, quale diritto del socio di utilizzare i beni appartenenti al patrimonio sociale dietro versamento di somme in aggiunta a quelle oggetto di conferimento, aggiungendo che, in questo caso, il contratto di ormeggio non ha autonoma consistenza rispetto al contratto di società, ma ne segue le sorti, per essere l’utilizzo del posto barca correlato alla partecipazione azionaria (in applicazione del principio, la S.C. ha confermato la condanna del privato alla restituzione ed al risarcimento dell’occupazione senza titolo del posto barca, gestito dalla società assuntrice del concordato fallimentare dell’originaria società concessionaria, poi fallita, che aveva ceduto un pacchetto azionario ed il diritto di godimento del posto barca al privato, il quale, sull’infondato presupposto dell’autonomia tra la cessione azionaria ed il contratto di ormeggio, ne assumeva l’opponibilità all’assuntrice nonostante l’intervenuto fallimento della concessionaria).

Con riferimento ai rapporti con soggetti esterni alla società, Sez. 6-2, n. 20157/2019, Oliva, Rv. 654989-01, nell’esaminare il caso di una spontanea assunzione, in proprio, da parte del socio di una società di capitali, di determinate obbligazioni pecuniarie in favore di un soggetto, che già prestava la sua opera in favore della sua società, al dichiarato fine di ottenere una più completa ed efficace esplicazione di tale attività a vantaggio della società, ha ritenuto sussistere un interesse economico del socio medesimo all’assunzione di tali obbligazioni, idoneo a configurare un valido e lecito contratto a titolo oneroso a favore di terzo, la sua società, avente la stessa causa del contratto preesistente tra il prestatore d’opera e la società (sul presupposto dell’esistenza di un’obbligazione solidale, la S.C. ha conseguentemente ritenuto sussistere la legittimazione processuale passiva del socio, che si era personalmente obbligato a remunerare un professionista, per la sua attività di rappresentanza in favore e nell’interesse della società).

In tema di danni cagionati da terzi ad una società di capitali, Sez. 3, n. 16581/2019, Scarano, Rv. 654559-01, ha infine affermato che il socio è legittimato a chiedere il ristoro del pregiudizio (non riflesso, ma) proprio, che ne derivi, riguardante la sua sfera personale (diritto all’onore od alla reputazione) o la perdita di opportunità personali, economiche e lavorative, ovvero la riduzione del cd. merito creditizio (nella specie, l’attore aveva dedotto che il fallimento di due società, delle quali egli era socio accomandatario e garante, era da imputare all’avvenuta escussione di una fideiussione, dovuta all’illegittima revoca di un finanziamento pubblico e all’inadempimento di alcune obbligazioni contrattuali gravanti su di un Ministero).

3.6. Le deliberazioni dell’assemblea.

In argomento, si deve in primo luogo richiamare una pronuncia adottata dalla S.C., relativa al valore probatorio del verbale di assemblea dei soci, redatto in assenza del notaio.

Nella menzionata statuizione (Sez. 1, n. 33233/2019, Fidanzia, Rv. 656579 - 01), la Corte ha rilevato che tale verbale ha senz’altro efficacia probatoria, avendo come finalità quella di documentare quanto avvenuto nel corso dell’assemblea (data assemblea, identità dei partecipanti, capitale rappresentato da ciascuno, modalità e risultato delle votazioni, eventuali dichiarazioni dei soci) in vista del controllo delle relative attività anche da parte dei soci assenti e dissenzienti, ma ha anche precisato che, non essendo il verbale dotato di fede privilegiata, i soci possono far valere eventuali sue difformità rispetto alla realtà effettuale con qualsiasi mezzo di prova, fermo restando che, in caso di mancato assolvimento di tale onere, ciò che è documentato dal verbale non può essere messo in discussione (nella specie, la materia del contendere ha riguardato l’impugnazione di deliberazioni assunte in un’assemblea di s.r.l. che, dal relativo verbale, risultava totalitaria e che invece il socio impugnante aveva dedotto che non era tale, allegando di non avervi partecipato per vizio di convocazione, senza tuttavia offrire la prova di quanto dedotto e, perciò, soccombendo).

In tema di impugnazione delle deliberazioni assembleari, Sez. 1, n. 17117/2019, Nazzicone, Rv. 654282-01, ha, in via generale, affermato che il sopravvenuto fallimento della società comporta il venir meno dell’interesse ad agire per ottenere una pronuncia di annullamento delle deliberazioni assembleari assunte quando quest’ultima era in bonis (nella specie riguardanti l’approvazione del bilancio, la ricostituzione del capitale ex art. 2447 c.c. e il successivo aumento), se non viene dedotto ed argomentato il perdurante interesse al ricorso, con riferimento alle utilità attese in esito alla chiusura del fallimento dell’ente.

Particolare rilievo assume anche Sez. 1, n. 26773/2019, Rv. 655561-01, ove la S.C. ha precisato che la perdita della qualità di socio, in capo a chi non ha sottoscritto la propria quota in sede di ricostituzione del capitale sociale, non incide sulla legittimazione ad esperire le azioni di annullamento e di nullità della deliberazione assembleare adottata ex art. 2447 o 2482 c.c., che rimane inalterata, tenuto conto che sarebbe logicamente incongruo, oltre che in contrasto con il principio sancito dall’art. 24, comma 1, Cost., ritenere causa del difetto di legittimazione proprio quel fatto che l’istante assume essere contra legem e di cui vorrebbe vedere eliminati gli effetti (nello stesso senso, Sez. 1, n. 21889/2013, Scaldaferri, Rv. 627732-01).

Con specifico riferimento alle deliberazioni dell’assemblea dei soci di s.r.l., Sez. 1, n. 22987/2019, Laura Tricomi, Rv. 655304-01, ha affermato che le deliberazioni assunte senza la convocazione di uno dei soci sono da ritenersi nulle, poiché il disposto dell’art. 2479 ter, comma 3, c.c., nella parte in cui considera le decisioni prese “in assenza assoluta di informazioni”, non si riferisce soltanto alla mancanza di informazioni sugli argomenti da trattare, ma anche alla mancanza di informazioni sull’avvio del procedimento deliberativo.

3.7. Gli amministratori.

Nel periodo in rassegna, sono state adottate significative pronunce che hanno riguardato il rapporto intercorrente tra amministratore e società, i poteri di quest’ultimo, i casi di revoca del medesimo e i suoi diritti patrimoniali.

Con riferimento ai poteri di rappresentanza degli amministratori di società di capitali, Sez. 1, n. 18536/2019, Scotti, Rv. 654659-01, ha evidenziato che le limitazioni di tali poteri, risultanti dall’atto costitutivo o dallo statuto, ai sensi dell’art. 2384, comma 2, c.c., non sono opponibili ai terzi di buona fede, non solo quando si tratti di limitazioni alla rappresentanza processuale, ma anche in caso di limitazioni alla rappresentanza sostanziale, poiché la norma, che si riferisce ai poteri degli amministratori in via generale, prende in esame gli effetti della buona fede della controparte, adattandosi in modo più appropriato proprio all’ambito della rappresentanza negoziale (nello stesso senso, v. già Sez. U, n. 10318/1990, Iannotta, Rv. 469519-01).

Proprio con riferimento alla rappresentanza processuale, Sez. 5, n. 08120/2019, Fichera, Rv. 653519-01, ha evidenziato che, nel caso in cui un soggetto agisca in giudizio, in qualità di legale rappresentante di una società di capitali non in virtù di una formale nomina di fonte statutaria o assembleare ma quale amministratore di fatto, che esercita poteri gestori analoghi all’amministratore di diritto, grava su quest’ultimo l’onere di dimostrare l’effettivo esercizio di tali poteri, ai fini dell’accertamento della legittimazione ad agire in nome e per conto della società, tenuto conto che non può farsi ricorso alle norme statutarie o alle risultanze del registro delle imprese (nella specie, la S.C. ha annullato la decisione impugnata, che aveva ritenuto provata la qualità di amministratore di fatto in capo a colui che aveva agito in tale veste, in base ad una sentenza di tribunale che, proprio per l’attività svolta, lo aveva condannato al risarcimento dei danni cagionati alla società, che poi era stata totalmente riformata in appello).

Particolare rilievo assumono le statuizioni adottate in tema di revoca degli amministratori.

Si consideri che ai sensi dell’art. 2383, comma 3, c.c., gli amministratori di s.p.a. possono essere revocati dall’assemblea in qualunque tempo, anche se sono stati nominati nell’atto costitutivo, salvo il loro diritto al risarcimento del danno, quando la revoca è senza giusta causa.

Per quanto riguarda la nozione di giusta causa di revoca, con specifico riferimento agli amministratori di società appartenenti a un gruppo societario, si deve rinviare a quanto sopra illustrato con riferimento a Sez. 1, n. 18182/2019, Nazzicone, Rv. 654547-02 e Rv. 654547-01.

Merita un attento esame Sez. 1, n. 31660/2019, Nazzicone, Rv. 656496 - 01, ove è stata affrontata la questione relativa alla disciplina applicabile alla revoca dell’incarico di vice-presidente del consiglio di amministrazione di società, ove tale revoca integri una condotta discriminatoria.

La Corte ha prima di tutto evidenziato che la tutela prevista dall’art. 28 d.lgs. n. 150 del 2011 spetta anche a coloro che hanno subìto il comportamento pregiudizievole, quale reazione ad una qualsiasi attività diretta ad ottenere la parità di trattamento, anche se tale attività deve rispettare le regole comuni della buona fede e della correttezza o comunque non deve essere per altro verso illecita.

La stessa Corte ha poi affermato che il disposto dell’art. 2383, comma 3, c.c. è, di regola, applicabile analogicamente anche ai casi in cui siano revocate le deleghe interne al consiglio di amministrazione, essendo dunque, in via generale, revocabile l’incarico di presidente o di vicepresidente in ogni momento, anche in mancanza di giusta causa, salvo, in quest’ultimo caso, il risarcimento del danno.

Tuttavia, la medesima Corte ha ritenuto che, ove la revoca integri anche una condotta discriminatoria, intervengono elementi di specialità, perché l’art. 28 d.lgs. n. 150 del 2011 impone l’annullamento della deliberazione di revoca e la conseguente reviviscenza della carica.

In tal caso, afferma il giudice di legittimità, le esigenze proprie della disciplina societaria, di cui all’art. 2383 c.c., che opera il bilanciamento degli interessi esclusivamente sul piano patrimoniale, sono recessive rispetto alla tutela contro gli atti discriminatori, per la quale il legislatore ha operato, in via generale, un diverso bilanciamento di valori, predisponendo nei confronti di tali atti la tutela reale.

La Corte ha, in conclusione, ritenuto che l’amministratore di società, al quale sia demandato un particolare incarico ed, in particolare, il vicepresidente dell’organo, può esserne esonerato, in presenza di giusta causa, la quale tuttavia non sussiste, allorché la revoca costituisca la risposta ad un’attività di difesa del principio di parità di trattamento, posta in essere con buona fede e correttezza dal soggetto revocato, con il conseguente diritto alla reintegra nella carica, oltre al risarcimento del danno, ove provato.

In materia di diritti patrimoniali degli amministratori infine, Sez. 1, n. 00285/2019, Nazzicone, Rv. 652071-01, ha rilevato che il rapporto intercorrente tra la società di capitali ed il suo amministratore è di immedesimazione organica e ad esso non si applicano né l’art. 36 Cost. né l’art. 409, comma 1, n. 3) c.p.c., con la conseguenza che deve ritenersi legittima la previsione statutaria di gratuità delle relative funzioni.

Tale pronuncia perviene alle stesse conclusioni di numerosi precedenti, tra i quali si può menzionare, tra le ultime, Sez. L, n. 15382/2017, Negri della Torre, Rv. 644785-01, ove la S.C. ha affermato che l’amministratore di una società, con l’accettazione della carica, acquisisce il diritto ad essere compensato per l’attività svolta in esecuzione dell’incarico affidatogli, ma tale diritto è disponibile e può anche essere derogato da una clausola dello statuto della società, che condizioni lo stesso al conseguimento di utili, ovvero sancisca la gratuità dell’incarico (v. anche Sez. 6-1, n. 24139/2018, Dolmetta, Rv. 650610-01, sulla possibilità di una rinuncia tacita al menzionato compenso).

3.8. Il revisore contabile.

Com’è noto, l’art. 2409 bis c.c. prevede che la revisione legale dei conti sulla società viene eseguita da un revisore o da una società di revisione, stabilendo che comunque, per le società che non sono tenute alla redazione del bilancio consolidato, la revisione legale dei conti può essere anche esercitata dal collegio sindacale. Il d.lgs. n. 39 del 2010, in attuazione della direttiva 2006/43/CE, ha poi disciplinato ex novo le menzionate figure del revisore e delle società di revisione.

In argomento, Sez. 1, n. 14919/2019, Fidanzia, Rv. 656121-01, ha rilevato che i requisiti di obiettività e indipendenza del revisore contabile, di cui all’art. 10 del d.lgs. n. 39 del 2010, escludono che costui possa intrattenere con i membri del collegio sindacale rapporti finanziari, di lavoro o d’altro genere, diretti o indiretti, aventi ad oggetto servizi anche diversi dalla revisione, aggiungendo che alla violazione della norma richiamata consegue la nullità dell’atto di nomina del revisore, che perde anche il diritto al compenso.

Con riferimento all’attività svolta, Sez. 2, n. 16780/2019, Oliva, Rv. 654551-01, ha affermato che, in tutte le ipotesi in cui il revisore contabile o la società di revisione contabile, con riferimento alle società quotate in borsa, debba valutare i risultati di specifiche operazioni di verifica e controllo affidate ad organi di controllo endosocietari o a terzi incaricati dalla società oggetto di revisione, la verifica deve estendersi al controllo delle modalità con cui le predette operazioni sono state condotte e deve esplicitare il metodo valutativo utilizzato dal revisore, le operazioni in concreto compiute e le motivazioni del giudizio finale di adeguatezza o non adeguatezza. Ciò in quanto l’esercizio di tale controllo è finalizzato ad assicurare la verifica della corretta appostazione dei dati contabili nel bilancio della società e, di conseguenza, della corretta gestione contabile della società stessa, al fine di assicurare la conoscibilità, in capo ai terzi, delle effettive modalità di gestione contabile, nonché a tutelare l’ordinato svolgimento della concorrenza e del mercato.

3.9. Il liquidatore.

Passando ad esaminare le pronunce che hanno interessato tale figura, deve subito menzionarsi Sez. 6-1, n. 31350/2019, Campese, Rv. 656152-01, che, conformandosi a precedenti statuizioni (Sez. 1, n. 12677/2009, Adamo, Rv. 608515-01), ha ritenuto non suscettibile di ricorso straordinario per cassazione il decreto di nomina del liquidatore di una società di capitali, emesso ai sensi dell’art. 2487 c.c., trattandosi di provvedimento non definitivo, come pure si evince dal fatto che, in applicazione del quarto comma dell’articolo citato, il liquidatore può essere revocato dall’assemblea o, in presenza di una giusta causa, dal tribunale.

Particolare rilievo assume poi Sez. 1, n. 10523/2019, Falabella, Rv. 653470-01, nella parte in cui precisa che, in caso di società di capitali posta in liquidazione, la legittimazione a proporre istanza di fallimento in proprio ai sensi dell’art. 6 l.fall. spetta direttamente al liquidatore, il quale è investito, ai sensi dell’art. 2489, comma 1, c.c., del potere di compiere ogni atto utile per la liquidazione della società, aggiungendo che detta legittimazione non può essere avocata dall’assemblea o dai singoli soci.

La Corte ha ritenuto che il liquidatore può infatti assumere in autonomia una siffatta determinazione, senza soggiacere al deliberato della maggioranza dei soci, come già affermato, con riferimento agli amministratori, in una precedente pronuncia, pure richiamata nella decisione in esame (il riferimento è a Sez. 1, n. 19983/2009, Bernabai, Rv. 610562-01, ove è stato evidenziato che il ricorso per la dichiarazione di fallimento del debitore, nel caso in cui si tratti di una società, deve essere presentato dall’amministratore, dotato del potere di rappresentanza legale, senza necessità della preventiva autorizzazione dell’assemblea o dei soci, non trattandosi di un atto negoziale né di un atto di straordinaria amministrazione, ma di una dichiarazione di scienza, peraltro doverosa, in quanto l’omissione risulta penalmente sanzionata).

3.10. Le azioni di responsabilità.

Le pronunce adottate in argomento nell’anno in rassegna hanno sostanzialmente confermato l’orientamento espresso negli anni precedenti, con riferimento alle diverse azioni di responsabilità, prestando particolare attenzione a quella del curatore e a quella promossa nei confronti dei sindaci.

In tema di responsabilità degli amministratori ex art. 2393 c.c., in una fattispecie regolata dalla disciplina previgente al d.lgs. n. 6 del 2003, Sez. 2, n. 10751/2019, Criscuolo, Rv. 653564-01, ha ribadito che l’art. 2392 c.c., nel testo precedente al d.lgs. cit., poneva a carico di tutti gli amministratori di società per azioni un dovere di vigilanza sul generale andamento della gestione, che non veniva meno nell’ipotesi di attribuzioni proprie di uno o più amministratori, restando anche in tal caso a carico degli altri l’onere di provare di essersi diligentemente attivati per porre rimedio alle illegittimità rilevate (o che avrebbero dovuto rilevare), sempre che non fossero rimasti in carica per un periodo di tempo troppo breve, da non consentire loro di rendersi conto della situazione e di intervenire con utili strumenti correttivi (v., negli stessi termini, da ultimo Sez. 6-1, n. 06998/2018, Scaldaferri, Rv. 647899-01).

Come più volte precisato dalla stessa Corte di cassazione, tale impostazione non è più valida a seguito della riforma, posto che, in virtù del novellato art. 2392 c.c., gli amministratori delle società per azioni privi di deleghe (cd. non operativi) non sono più sottoposti ad un generale obbligo di vigilanza, tale da trasmodare di fatto in una responsabilità oggettiva, per le condotte dannose degli altri amministratori, ma rispondono solo se non hanno impedito fatti pregiudizievoli di quest’ultimi in virtù della conoscenza – o della possibilità di conoscenza, per il loro dovere di agire informati ex art. 2381 c.c. – di elementi tali da sollecitare il loro intervento alla stregua della diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze (Sez. 1, n. 17441/2016, Di Marzio M., Rv. 641165-01).

In tema di azione di responsabilità ex art. 2394 c.c. nei confronti degli amministratori e dei sindaci di una cooperativa edilizia, Sez. 3, n. 28613/2019 Fiecconi, Rv. 655962-01, ha rilevato che tale azione prescinde dal mancato pagamento di un determinato credito e dall’escussione infruttuosa del patrimonio sociale, presupponendo invece la dimostrazione che – in conseguenza dell’inadempimento degli obblighi di corretta gestione e di conservazione del patrimonio sociale (incombenti anche sugli organi gestori di una società cooperativa ex art. 2519 c.c.) – si sia perduta la garanzia patrimoniale generica e, cioè, che, per l’eccedenza delle passività sulle attività, il patrimonio sociale sia divenuto insufficiente a soddisfare le ragioni del ceto creditorio, situazione non necessariamente coincidente con lo stato di insolvenza o con la perdita integrale del capitale sociale.

Comunque, per il caso in cui l’azione di responsabilità sia esperita del curatore fallimentare ex art. 146 l.fall., in una interessante pronuncia, la Corte (Sez. 1, n. 23452/2019, Guido, Rv. 655305-02), ha precisato che tale azione cumula in sé quelle previste dagli artt. 2393 e 2394 c.c. a favore, rispettivamente, della società e dei creditori sociali, in relazione alle quali assume contenuto inscindibile e connotazione autonoma – quale strumento di reintegrazione del patrimonio sociale unitariamente considerato a garanzia sia degli stessi soci che dei creditori sociali – implicando una modifica della legittimazione attiva, ma non della natura giuridica e dei presupposti delle due azioni, che rimangono diversi ed indipendenti.

In forza di tali considerazioni – e questo è l’aspetto di rilievo della statuizione – la Corte di cassazione ha quindi ritenuto che la mancata specificazione del titolo della domanda giudiziale formulata dal curatore, lungi dal determinare la sua nullità per indeterminatezza, fa presumere, in assenza di un contenuto anche implicitamente diretto a far valere una sola delle azioni, che il curatore abbia inteso esercitare congiuntamente entrambe le azioni.

Nella stessa pronuncia, la medesima Corte (Sez. 1, n. 23452/2019, Guido, Rv. 655305-01) ha peraltro ribadito che, qualora si tratti di azione di responsabilità esperita nei confronti degli amministratori di s.r.l., anche dopo la riforma di cui al d.lgs. n. 6 del 2003, il curatore, ai sensi dell’art. 146 l.fall., è legittimato ad esperire l’azione dei creditori sociali, pure in mancanza di un espresso richiamo all’art. 2394 c.c., previsto per la s.p.a. ma applicabile in via analogica alla s.r.l., considerato che, accedendo ad una diversa interpretazione, si creerebbe una disparità di trattamento ingiustificata tra i creditori della società azionaria e quelli della s.r.l. e tenuto conto che, dopo la novella dell’art. 2476 c.c., introdotta dall’art. 378 del d.lgs. n. 14 del 2019, anche nella società a responsabilità limitata è ora espressamente ammessa l’azione dei creditori sociali (nello stesso senso, v. già Sez. 1, n. 17121/2010, Nappi, Rv. 614348-01).

Con particolare riferimento all’azione di responsabilità nei confronti dei sindaci, Sez. 1, n. 32397/2019, Fidanzia, Rv. 656128-01, e Sez. 1, n. 20651/2019, Guido, Rv. 654672 -02 hanno poi ritenuto che l’inosservanza del dovere di vigilanza imposto dall’art. 2407, comma 2, c.c., non richiede l’individuazione di specifici comportamenti che si pongano espressamente in contrasto con tale dovere, ma è sufficiente che essi non abbiano rilevato una macroscopica violazione o comunque non abbiano in alcun modo reagito di fronte ad atti di dubbia legittimità e regolarità, così da non assolvere l’incarico con diligenza, correttezza e buona fede, eventualmente anche segnalando all’assemblea le irregolarità di gestione riscontrate o denunciando i fatti al Pubblico Ministero, per consentirgli di provvedere ai sensi dell’art. 2409 c.c., nella formulazione applicabile ratione temporis anteriormente al d.lgs. n. 6 del 2003 (nello stesso senso, v. Sez. 1, n. 16314/2017, Fichera, Rv. 644767-01).

La S.C. ha esaminato anche in un’altra pronuncia tale argomento (Sez. 1, n. 18770/2019, Nazzicone, Rv. 654662-03), evidenziando che la presentazione delle dimissioni non esonera il sindaco da responsabilità, non esprimendo un’adeguata vigilanza sull’operato altrui e sullo svolgimento dell’attività sociale, per la pregnanza degli obblighi assunti proprio nell’ambito della vigilanza sull’operato altrui e perché la diligenza richiesta al sindaco impone, piuttosto, un comportamento alternativo, diventando anzi le dimissioni esemplari della condotta colposa tenuta dal sindaco, rimasto indifferente ed inerte nel rilevare una situazione di reiterata illegalità.

Nella stessa decisione (Sez. 1, n. 18770/2019, Nazzicone, Rv. 654662-02), la Corte ha precisato che non è sufficiente ad esonerare i sindaci dalla responsabilità, in presenza di una illecita condotta gestoria degli amministratori, la dedotta circostanza di esserne stati tenuti all’oscuro o di avere assunto la carica dopo l’effettiva realizzazione di alcuni dei fatti dannosi, qualora i sindaci abbiano mantenuto un comportamento inerte, non vigilando adeguatamente sulla condotta degli amministratori, sebbene fosse da essi esigibile lo sforzo diligente di verificare la situazione, ponendovi rimedio, di modo che l’attivazione dei poteri sindacali, conformemente ai doveri della carica, avrebbe potuto permettere di scoprire le condotte illecite, e reagire ad esse, prevenendo danni ulteriori.

Infine, la medesima Corte ha affermato il nesso causale tra la condotta inerte antidoverosa dei sindaci di società e l’illecito perpetrato dagli amministratori, ai fini della responsabilità dei primi – secondo la probabilità e non necessariamente la certezza causale – se, con ragionamento controfattuale ipotetico, l’attivazione dei poteri sindacali avrebbe ragionevolmente evitato l’illecito, tenuto conto di tutte le possibili iniziative che il sindaco può assumere, esercitando i poteri-doveri propri della carica, quali: la richiesta di informazioni o di ispezione ex art. 2403 bis c.c., la segnalazione all’assemblea delle irregolarità riscontrate, i solleciti alla revoca della deliberazione illegittima, l’impugnazione della deliberazione viziata ex artt. 2377 ss. c.c., la convocazione dell’assemblea ai sensi dell’art. 2406 c.c., il ricorso al tribunale per la riduzione del capitale per perdite ex artt. 2446-2447 c.c., il ricorso al tribunale per la nomina dei liquidatori ai sensi dell’art. 2487 c.c., la denunzia al tribunale ex art. 2409 c.c., ed ogni altra attività possibile ed utile (Sez. 1, n. 18770/2019, Nazzicone, Rv. 654662-01).

Con riferimento l’azione di responsabilità per danni cagionati a terzi, si deve menzionare Sez. 6-1, n. 15822/2019, Nazzicone, Rv. 654602-02, ove la S.C. ha ribadito che l’inadempimento contrattuale di una società di capitali non implica automaticamente la responsabilità risarcitoria degli amministratori nei confronti dell’altro contraente ai sensi dell’art. 2395 c.c., atteso che tale responsabilità, di natura extracontrattuale, richiede la prova di una condotta dolosa o colposa degli amministratori medesimi, del danno e del nesso causale tra questa e il danno patito dal terzo contraente, come si evince, fra l’altro, dall’utilizzazione, nel testo della norma, dell’avverbio “direttamente”, il quale esclude che l’inadempimento e la pessima amministrazione del patrimonio sociale siano sufficienti a dare ingresso all’azione di responsabilità.

Sempre in tema di azione di responsabilità ex art. 2395 c.c., ma con riferimento a quella promossa dal socio, e non dal terzo, assume infine rilievo Sez. 1, n. 03779/2019, Valitutti, Rv. 653089-02, ove la Corte ha precisato che la responsabilità degli organi sociali derivante dall’azione proposta dal socio ai sensi dell’articolo sopra menzionato ha natura extracontrattuale, postulando la sussistenza di fatti illeciti direttamente imputabili ad un comportamento colposo o doloso degli amministratori. Ne discende che, qualora l’evento dannoso si ricolleghi a più azioni od omissioni, il problema della concorrenza di una pluralità delle cause trova la sua soluzione nella disciplina di cui all’art. 41, c.p., in virtù del quale il concorso di cause preesistenti, simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall’omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra dette cause e l’evento, essendo quest’ultimo riconducibile a ciascuna di esse, a meno che non sia raggiunta la prova dell’esclusiva efficienza causale di una sola, pur se imputabile alla stessa vittima dell’illecito, da ritenersi idonea ad impedire l’evento od a ridurne le conseguenze (nella specie la S.C. ha ritenuto idonea a causare il danno lamentato dal socio la condotta omissiva del medesimo, consistente nel non aver acquisito le quote offerte da un altro socio di maggioranza così da mantenere inalterata la propria partecipazione sociale e da non perdere il diritto di opzione, ancorché gli amministratori avessero dato esecuzione ad una delibera invalida e i sindaci non ne avessero ostacolato l’esecuzione).

Per completezza, con riferimento ai profili di responsabilità degli organi di gestione e di controllo di società, esaminati dalla S.C. ai fini dell’applicazione di sanzioni amministrative, si rinvia al capitolo dedicato a tale argomento (v. infra).

4. Particolari società di capitali.

Vengono di seguito riportate le pronunce adottate nel 2019, che hanno affrontato questioni del tutto peculiari, relative alla particolare disciplina riservata ad alcune società.

Si tratta, in particolare, di statuizioni riguardanti le società cooperative. A tali figure vanno aggiunte le società a partecipazione pubblica, comprese le società in house, cui, proprio per l’accentuata specificità, è stata dedicato un intero capitolo nella parte riservata ai rapporti con i pubblici poteri, cui si rinvia (v. infra).

4.1. Le società cooperative.

Con riferimento al rapporto tra delibera di esclusione e licenziamento del socio, Sez. L, n. 08224/2019, Cinque, Rv. 653412-01, ha ancora una volta ribadito il principio enunciato da Sez. U, n. 27436/2017, Perrino, Rv. 646129-01, affermando che, ove per le medesime ragioni afferenti al rapporto lavorativo siano stati contestualmente emanati la delibera di esclusione ed il licenziamento, l’omessa impugnativa della delibera esclude la tutela restitutoria della qualità di lavoratore, ma non preclude quella risarcitoria, che deve essere modulata secondo i criteri di cui all’art. 8 della l. n. 604 del 1966.

Negli stessi termini, si è poi pronunciata Sez. L, n. 08386/2019, Blasutto, Rv. 653209-01, evidenziando, che l’omessa impugnativa della delibera di esclusione non fa venire meno l’interesse del lavoratore ad impugnare il licenziamento, atteso che l’effetto estintivo del rapporto di lavoro, derivante dall’esclusione dalla cooperativa, e preclusivo della tutela restitutoria, non elide di per sé l’illegittimità del licenziamento, cui si può porre rimedio con la tutela risarcitoria.

Con particolare riferimento alla cooperativa edilizia, Sez. 2, n. 10355/2019, Giuseppe Grasso, Rv. 653497-01, ha evidenziato che, in virtù della finalità mutualistica perseguita dagli interventi pubblici, volti all’individuazione delle aree da destinarsi all’edificazione residenziale di tipo economico e popolare, nel cui contesto essa si inserisce, la cooperativa è tenuta ad assegnare ai singoli soci non soltanto, in proprietà esclusiva, alloggi, garage e cantine, ma anche, pro quota indivisa, ogni altra parte dell’edificio di uso comune ai sensi dell’art. 205 del r.d. n. 1165 del 1938 e dell’art. 1117 c.c., essendo incompatibile col predetto vincolo di scopo la riserva di una parte del fabbricato a scopo di lucro (nella specie, la cooperativa edilizia aveva trasformato in locali commerciali alcune aree comuni, trasferendole a terzi, anziché assegnarle ai soci).

Ai fini della verifica dell’assoggettabilità a fallimento della società cooperativa, Sez. 1, n. 25478/2019, Amatore, Rv. 655625-01, ha ritenuto che lo scopo di lucro (c.d. lucro soggettivo) non è elemento essenziale per il riconoscimento della qualità di imprenditore commerciale, essendo individuabile l’attività di impresa tutte le volte in cui sussista una obiettiva economicità dell’attività esercitata, intesa quale proporzionalità tra costi e ricavi (cd. lucro oggettivo), requisito quest’ultimo che, non essendo inconciliabile con il fine mutualistico, ben può essere presente in una società cooperativa, la quale pertanto, ove svolga attività commerciale, in caso di insolvenza, può essere assoggettata a fallimento, in applicazione dell’art. 2545 terdecies c.c. (nella specie, la S.C. ha confermato la dichiarazione di fallimento di una società cooperativa che gestiva impianti sportivi e centri di fisioterapia, svolgendo anche attività remunerate in favore di terzi).

La Corte si era già più volte espressa negli stessi identici termini (v., da ultimo, Sez. 6-1, n. 14250/2016, Genovese, Rv. 640519-01 e Sez. 1, n. 06835/2014, Nazzicone, Rv. 630547- 01).

In un’altra pronuncia (Sez. 6-1, n. 03202/2019, Dolmetta, Rv. 653128-01), la medesima Corte ha tuttavia precisato che, sempre ai fini della verifica dell’assoggettabilità a fallimento, l’indagine circa la natura imprenditoriale dell’attività della cooperativa può essere concentrata in via esclusiva sui dati di bilancio, qualora dagli stessi emerga una sproporzione tra ricavi e costi di dimensioni tali da essere oggettivamente incompatibile con la prevalenza di uno scopo mutualistico.

Con riferimento all’azione di responsabilità ex art. 2394 c.c. nei confronti degli amministratori della società cooperativa, deve essere menzionata Sez. 3, n. 28613/2019 Fiecconi, Rv. 655962-01, supra già illustrata.

  • investimento
  • titolo di credito
  • diritto bancario
  • assegno
  • servizi finanziari

CAPITOLO XV

CONTRATTI BANCARI, TITOLI DI CREDITO E INTERMEDIAZIONE FINANZIARIA

(di Eleonora Reggiani )

Sommario

1 I contratti bancari. - 1.1 L’attività negoziale della banca in generale. - 1.2 La pattuizione degli interessi. - 1.3 I contratti e le operazioni in conto corrente. - 1.4 Altri contratti bancari. - 2 Gli assegni. - 3 Gli altri titoli di credito. - 4 L’intermediazione finanziaria in generale. - 5 I servizi di investimento. - 5.1 Le nullità contrattuali e le statuizioni conseguenti. - 5.2 L’inadempimento dell’intermediario e i relativi rimedi. - 5.3 Fattispecie particolari. - 6 L’offerta al pubblico di prodotti finanziari. - 7 I fondi comuni d’investimento.

1. I contratti bancari.

Come ogni anno, le pronunce in argomento sono numerose e riguardano soprattutto la validità delle clausole relative agli interessi, il contratto di conto corrente e le relative operazioni.

Prima ancora di esaminare le pronunce che hanno interessato i singoli contratti e le specifiche operazioni bancarie, vengono di seguito riportate le decisioni riguardati l’attività negoziale della banca in generale.

1.1. L’attività negoziale della banca in generale.

Con riferimento a tutti i contratti stipulati dalle banche, si deve subito menzionare Sez. 1, n. 26778/2019, Fidanzia, Rv. 655763-01, ove è stata affermata la nullità, per violazione di norme imperative, della clausola contrattuale con cui la banca subordina l’esecuzione delle proprie prestazioni al previo rilascio da parte del cliente del consenso al trattamento dei dati personali sensibili, in quanto tale previsione contrasta con i principi informatori della legge sulla privacy ed in particolare con il principio di minimizzazione nell’uso dei dati, ex art. 3 del d.lgs. n. 196 del 2003 che contiene precetti non derogabili dall’autonomia privata, essendo posti a tutela di interessi generali e di valori morali e sociali riconosciuti dall’ordinamento (nella specie, la banca aveva bloccato l’operatività del conto e del deposito titoli del cliente che non aveva autorizzato il trattamento dei dati, peraltro non necessari per le operazioni, richiesti dalla banca adducendo genericamente la policy aziendale e ragioni di cautela).

Sempre in via generale, Sez. 1, n. 22385/2019, Dolmetta, Rv. 655289-01, ha affermato che la previsione di cui all’art. 117, commi 1 e 3, TUB, secondo cui il contratto bancario è nullo, se non redatto per iscritto, configura una nullità di protezione in favore del cliente, che può essere rilevata d’ufficio dal giudice, stante l’inequivoco disposto del successivo art. 127, comma 2, TUB.

Nella stessa statuizione appena richiamata, la Corte (Sez. 1, n. 22385/2019, Dolmetta, Rv. 655289-03), ha anche ribadito che, in materia di contratti bancari – alla stregua di quanto affermato per i contratti relativi ai servizi d’investimento (cfr. Sez. U, n. 00898/2018, Di Virgilio, Rv. 646965-01) – l’omessa sottoscrizione del documento da parte dell’istituto di credito non determina la nullità del contratto per difetto della forma scritta, prevista dall’art. 117, comma 3, TUB. Il requisito formale, infatti, non deve essere inteso in senso strutturale, bensì funzionale, in quanto posto a garanzia della più ampia conoscenza, da parte del cliente, del contratto predisposto dalla banca, la cui mancata sottoscrizione è dunque priva di rilievo, in presenza di comportamenti concludenti dell’istituto di credito, idonei a dimostrare la sua volontà di avvalersi di quel contratto (nello stesso senso, v. da ultimo Sez. 1, n. 16070/2018, Iofrida, Rv. 649476-01).

In ordine alle operazioni effettuate mediante strumenti elettronici, Sez. 3, n. 18045/2019, Guizzi, Rv. 654563-01, ha precisato che la responsabilità della banca per tali operazioni, con particolare riguardo alla verifica della loro riconducibilità alla volontà del cliente mediante il controllo dell’utilizzazione illecita dei relativi codici da parte di terzi, ha natura contrattuale e, quindi, va esclusa se ricorre una situazione di colpa grave dell’utente, configurabile nel caso di protratta mancata attivazione di una qualsiasi forma di controllo degli estratti conto (nella specie, la S.C. ha ritenuto sussistente la colpa grave del cliente, per aver atteso due anni prima di comunicare l’uso non autorizzato dello strumento di pagamento, in quanto la sollecita consultazione degli estratti gli avrebbe consentito di conoscere quell’uso più tempestivamente).

In tale quadro, assume rilievo anche Sez. 6-1, n. 28803/2019, Dolmetta, Rv. 656091-01, ove si specifica che è nulla, per indeterminatezza dell’oggetto, la procura con la quale una banca conferisce ad una società il potere di gestione anche stragiudiziale dei propri crediti, definiti semplicemente come “crediti anomali”, poiché tale espressione non consente di individuare i rapporti oggetto dell’impegno negoziale, senza che possa utilmente richiamarsi la definizione di “crediti anomali” formulata dalla Banca d’Italia nelle proprie circolari, atteso che si tratta di disposizioni rivolte unicamente agli istituti di credito, quale espressione del suo potere di vigilanza, senza alcun riflesso sul piano negoziale.

1.2. La pattuizione degli interessi.

Nell’anno in rassegna, la giurisprudenza di legittimità si è interessata delle clausole negoziali relative agli interessi, apposte nei contratti di banca, sotto un duplice punto di vista.

Da una parte, la Corte di cassazione ha esaminato la questione relativa alla validità delle clausole contrattuali di determinazione del tasso di interesse mediante rinvio agli usi o mediante rinvio ad altro documento, distinguendo tra disciplina antecedente e disciplina successiva alla l. n. 154 del 1992.

Da un’altra parte, la medesima Corte ha affrontato il tema dell’applicabilità della disciplina antiusura agli interessi moratori convenzionali, rimettendo da ultimo la decisione alle Sezioni Unite.

Con riferimento al primo problema menzionato, Sez. 1, n. 24048/2019, Marulli, Rv. 655344-01, ha evidenziato che, nel regime anteriore all’entrata in vigore della disciplina dettata dall’art. 4 l. n. 154 del 1992 sulla trasparenza bancaria, poi trasfusa nell’art. 117 TUB, la clausola che, per la pattuizione di interessi dovuti dalla clientela in misura superiore a quella legale, si limiti a fare riferimento alle condizioni praticate usualmente dalle aziende di credito sulla piazza, è comunque da ritenersi priva del carattere della sufficiente univocità, per difetto di inequivoca determinabilità dell’ammontare del tasso sulla base del documento contrattuale, e non può quindi giustificare la pretesa della banca al pagamento di interessi in misura superiore a quella legale quando faccia riferimento a parametri locali, mutevoli e non riscontrabili con criteri di certezza.

Successivamente, Sez. 1, n. 34740/2019, Meloni, Rv. 656441 - 01, ha precisato che la disposizione introdotte con il menzionato art. 4 della legge 17 febbraio 1992, n. 154, poi trasfuso nell’art. 117 TUB, non sono retroattive, alla pari della disciplina in materia di usura, aggiungendo che l’irretroattività opera anche per la previsione della sostituzione della clausola nulla con la diversa disciplina legale all’uopo dettata dal legislatore (con la conseguenza che è corretta l’applicazione degli interessi nella misura corrispondente a quella legale). Nello stesso senso, v. già Sez. 1, n. 28302/2005, Panzani, Rv. 585489-01.

Sempre in tema di determinazione del tasso d’interesse, Sez. 1, n. 17110/2019, Falabella, Rv. 654281-01, ha rilevato che, nella vigenza dell’art. 117, comma 4, TUB, tale tasso può essere determinato per relationem, con esclusione del rinvio agli usi, ma in tal caso il contratto deve richiamare criteri prestabiliti ed elementi estrinseci che, oltre ad essere oggettivamente individuabili e funzionali alla concreta determinazione del tasso, non devono essere determinati unilateralmente dalla banca (nella specie, la S.C. ha ritenuto nulla la pattuizione del tasso di interesse, all’interno di un contratto di conto corrente bancario, operata attraverso il riferimento ad un generico top rate, concretamente specificato solo in un avviso sintetico redatto dalla banca ed esposto al pubblico).

Per quanto riguarda invece la questione relativa all’ambito operativo della disciplina antiusura, si deve prima di tutto richiamare Sez. 1, n. 01464/2019, Falabella, Rv. 652649-01, che ha chiarito i criteri di calcolo per determinare il “tasso soglia”.

In tale pronuncia, la S.C. ha spiegato che, in materia di contratto di conto corrente bancario, ed in riferimento ai rapporti svoltisi, in tutto o in parte, nel periodo anteriore al primo gennaio 2010 – data di entrata in vigore delle disposizioni di cui all’art. 2 bis d.l. n. 185 del 2008, inserito dalla legge di conversione n. 2 del 2009 – al fine di verificare se sia intervenuto il superamento del tasso soglia dell’usura presunta, come determinato in base alle disposizioni della l. n. 108 del 1996, occorre effettuare la separata comparazione del tasso effettivo globale (TEG) dell’interesse praticato in concreto con il “tasso soglia”, nonché della commissione di massimo scoperto (CMS) applicata, con la “CMS soglia”, calcolata aumentando della metà la percentuale della CMS media indicata nei decreti ministeriali, emanati ai sensi dell’art. 2, comma 1, della l. n. 108 del 2008, compensandosi, quindi, il valore della eventuale eccedenza della CMS praticata in concreto, rispetto a quello della CMS rientrante nella soglia, con il “margine” eventualmente residuo degli interessi, pari alla differenza tra l’importo degli stessi rientrante nella soglia di legge e quello degli interessi in concreto praticati. Tale operazione deve essere effettuata con riferimento ad ogni trimestre, dovendosi verificare il superamento della soglia usuraria con riferimento ai diversi valori medi che sono oggetto della rilevazione eseguita con tale periodicità, giusta il disposto di cui all’art. 2, comma 1, della legge n. 108 del 1996 (nello stesso senso, Sez. U, n. 16303/2018, De Chiara, Rv. 649294-01).

Un’importate decisione, pubblicata nell’anno in rassegna, ha poi affrontato il problema dell’applicabilità della disciplina antiusura anche alla pattuizione degli interessi moratori.

In tale pronuncia, la Corte (Sez. 3, n. 26286/2019, D’Arrigo, Rv. 655639-01) ha prima di tutto precisato che, nei rapporti bancari, gli interessi corrispettivi e quelli moratori, che siano contrattualmente previsti, si fondano presupposti diversi ed antitetici, giacché i primi costituiscono la controprestazione del mutuante e i secondi hanno natura di clausola penale, quale determinazione convenzionale preventiva del danno da inadempimento. Essi, pertanto, non si possono tra di loro cumulare. Tuttavia, qualora il contratto preveda che il tasso degli interessi moratori sia determinato sommando al saggio degli interessi corrispettivi previsti dal rapporto, un certo numero di punti percentuale, è al valore complessivo risultante da tale somma, non solo ai punti percentuali aggiuntivi, che occorre avere riguardo al fine di individuare il tasso degli interessi moratori effettivamente applicati.

La medesima Corte (Sez. 3, n. 26286/2019, D’Arrigo, Rv. 655639-02) ha poi ritenuto che, sempre nei rapporti bancari, gli intereressi convenzionali di mora, al pari di quelli corrispettivi, sono soggetti all’applicazione della disciplina antiusura, con la conseguenza che, laddove la loro misura oltrepassi il “tasso soglia” previsto dall’art. 2 l. n. 108 del 1996, si configura la cosiddetta usura oggettiva, che determina la nullità della clausola ai sensi dell’art. 1815, comma 2 c.c.

Il giudice di legittimità non ha ritenuto di ostacolo a tale soluzione interpretativa, la circostanza che le istruzioni della Banca d’Italia non prevedano l’inclusione degli interessi di mora nella rilevazione del T.E.G.M. (tasso effettivo globale medio), che costituisce la base sulla quale determinare il “tasso soglia”, perché la Banca d’Italia provvede comunque alla rilevazione della media dei tassi convenzionali di mora (solitamente costituiti da alcuni punti percentuali da aggiungere al tasso corrispettivo), ed è dunque possibile individuare il “tasso soglia di mora” del semestre di riferimento, applicando a tale valore la maggiorazione prevista dall’ art. 2, comma 4, l. n. 108 del 1996.

Ovviamente, nella ricostruzione così operata, resta fermo che, dovendosi procedere ad una valutazione unitaria del saggio d’interessi concretamente applicato – senza potere più distinguere, una volta che il cliente è costituito in mora, la parte corrispettiva da quella moratoria – al fine di stabilire la misura oltre la quale si configura l’usura oggettiva, il “tasso soglia di mora” deve essere sommato al “tasso soglia” ordinario (analogamente a quanto previsto da Sez. U, n. 16303/2018, De Chiara, Rv. 649294-01).

È per questo che la Corte (Sez. 3, n. 26286/2019, D’Arrigo, Rv. 655639-03) ha evidenziato che, con riguardo agli interessi convenzionali di mora, aventi natura di clausola penale, in quanto consistono nella liquidazione preventiva e forfettaria del danno da ritardato pagamento, trovano contemporanea applicazione l’art. 1815, comma 2, c.c. (che prevede la nullità della pattuizione che oltrepassi il “tasso soglia”, che determina la presunzione assoluta di usurarietà, ai sensi dell’art. 2 della l. n. 108 del 1996) e l’art. 1384 c.c. (secondo cui il giudice può ridurre ad equità la penale il cui ammontare sia manifestamente eccessivo), essendo infatti diversi i presupposti e gli effetti, giacché nel secondo caso la valutazione di usurarietà è rimessa all’apprezzamento del giudice (che solo in via indiretta ed eventuale può prendere a parametro di riferimento il T.E.G.M.) e, comunque, l’obbligazione di corrispondere gli interessi permane, sia pur nella minor misura ritenuta equa.

Sulla scorta di quanto appena riportato, la Corte di cassazione, nella pronuncia in esame (Sez. 3, n. 26286/2019, D’Arrigo, Rv. 655639-04), ha poi rilevato che, in materia di rapporti bancari, l’inserimento di una clausola di salvaguardia, in forza della quale l’eventuale fluttuazione del saggio di interessi convenzionale dovrà essere comunque mantenuta entro i limiti del “tasso soglia” antiusura previsto dall’art. 2, comma 4, l. n. 108 del 1996, trasforma il divieto legale di pattuire interessi usurari nell’oggetto di una specifica obbligazione contrattuale a carico della banca, consistente nell’impegno di non applicare mai, per tutta la durata del rapporto, interessi in misura superiore a quella massima consentita dalla legge. Conseguentemente, in caso di contestazione, graverà sulla banca, secondo le regole della responsabilità ex contractu, l’onere della prova di aver regolarmente adempiuto all’impegno assunto.

La statuizione appena riportata si inserisce nel solco di un movimentato percorso interpretativo della giurisprudenza di legittimità, alimentato da contrastanti posizioni della dottrina, che ha valutato, fin’ora con esito negativo, la possibilità di riesaminare l’orientamento allo stato maturato (cfr. Sez. 3, n. 27442/2018, Rossetti, Rv. 651333-02 e Sez. 3, n. 22890/2019, Vincenti, Rv. 654942-01).

Si deve comunque tenere presente che subito dopo la decisione appena illustrata, la Prima Sezione Civile, con ordinanza interlocutoria n. 26946/2019 (Sez. 1, n. 26946/2019, Mercolino), ha trasmesso gli atti di causa al Presidente della Corte per la rimessione alle Sezioni Unite, sollecitando un approfondimento della questione riguardante la riferibilità della disciplina antiusura anche agli interessi moratori, richiedendo in particolare di valutare (alla stregua del tenore letterale dell’art. 644 c.p. e dell’art. 2 l. n. 108 del 1996, delle indicazioni emergenti dai lavori preparatori di quest’ultima legge ed anche delle critiche mosse alla soluzione affermativa, fin’ora sostenuta dalla giurisprudenza di legittimità) se il principio di simmetria, cui è improntato il sistema della l. n. 108 del 1996, consenta o meno di escludere l’assoggettamento degli interessi di mora alla predetta disciplina, in quanto non costituenti oggetto di rilevazione ai fini della determinazione del tasso effettivo globale medio, aggiungendo poi, che, qualora si opti per la soluzione contraria, occorre comunque stabilire se, ai fini della verifica in ordine al carattere usurario degli interessi, sia sufficiente la comparazione con il tasso soglia, determinato in base alla rilevazione del tasso effettivo globale medio di cui al comma primo dell’art. 2 cit., o se, viceversa, la mera rilevazione del relativo tasso medio, sia pure a fini dichiaratamente conoscitivi, imponga di verificarne l’avvenuto superamento nel caso concreto, e con quali modalità debba aver luogo tale riscontro.

1.3. I contratti e le operazioni in conto corrente.

Vengono di seguito riportate le decisioni adottate in argomento.

Occorre in primo luogo tenere presente che non necessariamente vi è coincidenza tra titolarità del conto e titolarità del credito in esso portato, considerato che, come evidenziato da Sez. 3, n. 21963/2019, Gianniti, Rv. 655168-01, la cointestazione di un conto corrente bancario, salva la prova di una diversa volontà delle parti, è un atto unilaterale idoneo a trasferire la sola legittimazione ad operare sul conto, ma non anche la titolarità del credito, in quanto il trasferimento della proprietà del contenuto di tale conto (ovvero dell’intestazione del deposito titoli che la banca detiene per conto del cliente) è una forma di cessione del credito (che il correntista ha verso la banca) e, quindi, presuppone un contratto tra cedente e cessionario (nello stesso senso, v. già Sez. 2, n. 13614/2013, Proto, Rv. 626283- 01).

Guardando poi al momento dell’apertura del conto, assume rilievo Sez. 6-3, n. 11607/2019, Rossetti, Rv. 653801-01, ove la S.C. ha affermato che la banca è responsabile, a norma dell’art. 1176, comma 2, c.c., nel caso in cui al momento dell’apertura del conto non si sia avveduta, in presenza di un falso grossolano agevolmente riconoscibile, della falsità del documento di riconoscimento esibito da un ignoto truffatore per assumere le generalità altrui (nella specie, la S.C. ha ritenuto esente da critiche la sentenza che aveva escluso la responsabilità della banca in re ipsa in forza della mera falsità del documento).

Sempre con riferimento al momento della stipula del contratto, Sez. 1, n. 12997/2019, Fidanzia, Rv. 654253-01, ha precisato che l’art. 2 bis, comma 1, secondo periodo, d.l. n. 185 del 2008, conv. con modif. in l. n. 2 del 2009, disciplina le condizioni di validità della pattuizione della commissione di massimo scoperto in relazione ai soli contratti di conto corrente bancario affidati, tanto se si configuri come semplice remunerazione legata al solo affidamento, quanto se sia commisurata anche all’effettiva utilizzazione dei fondi, avendo invece il legislatore, con riferimento ai conti correnti non affidati, inteso sanzionare con la nullità tutte le clausole contrattuali che prevedano commissioni per scoperto di conto – indipendentemente dal fatto che siano commisurate alla punta del massimo dello scoperto nel trimestre o alla durata del medesimo scoperto – trattandosi di commissioni non legate a servizi effettivamente resi dalla banca.

Con riguardo invece alle operazioni effettuate in conto corrente, Sez. 6-1, n. 11395/2019, Falabella, Rv. 653916- 01, ha rilevato che a tali operazioni si applica il principio di cui all’art. 1829 c.c., richiamato dall’art. 1857 c.c., secondo cui l’accreditamento sul conto del cliente dell’importo di un assegno, trasferito alla banca per l’incasso, deve ritenersi sempre effettuato “salvo incasso” (o “salvo buon fine”, o “con riserva di verifica”), con la conseguenza che, se il credito portato dall’assegno non viene soddisfatto dal terzo obbligato, la banca può eliminare la partita dal conto del cliente attraverso uno storno, reintegrando il correntista nelle sue ragioni con la mera restituzione del titolo, non potendo il cliente, ove abbia disposto dell’importo dell’assegno, dolersi che l’istituto di credito abbia dato seguito al suo ordine di pagamento, dovendo il correntista essere consapevole che l’anticipazione operata dalla banca dovrà essere restituita se il titolo, alla scadenza, risulti privo di provvista.

Inoltre, in relazione alla previsione contenuta nell’art. 1853 c.c., che, salvo patto contrario, prevede la compensazione ex lege dei saldi attivi e passivi, quando esistono più rapporti o più conti, Sez. 3, n. 17914/2019, Sestini, Rv. 654439-01, ha chiarito che l’articolo menzionato prevede un’ipotesi di compensazione tecnica e legale, che non può essere rilevata d’ufficio, essendo il relativo effetto estintivo soggetto ad un onere di dichiarazione, peraltro non necessitante di formule sacramentali, della parte che decida di avvalersene.

Il diritto del correntista ad avere contezza delle operazioni compiute e del loro esito, anche in pendenza di una controversia con la banca, è poi evidenziato in Sez. 6-1, n. 03875/2019, Dolmetta, Rv. 653135-01, ove la S.C. ha precisato che il titolare di un rapporto di conto corrente ha sempre diritto ad ottenere dalla banca il rendiconto ai sensi dell’art. 119 TUB, anche in sede giudiziaria, fornendo la sola prova dell’esistenza del rapporto contrattuale, non potendo ritenersi corretta una diversa soluzione, fondata sul disposto di cui all’art. 210 c.p.c. (che porterebbe a rigettare la richiesta di esibizione, in ragione del fatto che il cliente, prima del processo, avrebbe potuto avvalersi del disposto dell’art. 119 TUB), perché un istituto di protezione del cliente non può convertirsi in uno strumento di penalizzazione del medesimo, trasformando la sua richiesta di documentazione da libera facoltà ad onere vincolante.

Sempre con riferimento alla pendenza del rapporto di conto corrente, Sez. 1, n. 31921/2019, Scotti, Rv. 655954-01, ha affermato che il prolungato inadempimento del correntista all’obbligo di rientrare dall’esposizione debitoria, legittima la banca alla segnalazione alla Centrale Rischi del suo credito come “in sofferenza”, atteso che, ai fini di tale segnalazione, la nozione di insolvenza non si identifica con quella propria fallimentare, ma si concretizza in una valutazione negativa della situazione patrimoniale, apprezzabile come “deficitaria” ovvero come di “grave difficoltà economica”, senza alcun riferimento al concetto di incapienza o irrecuperabilità (nello stesso senso, v. già Sez. 3, n. 26361/2014, Ambrosio, Rv. 633869-01).

In tema di azioni esperibili da terzi in pendenza del rapporto di conto corrente, si deve invece menzionare Sez. 3, n. 23330/2019 Fiecconi, Rv. 655095-01, che – in una particolare fattispecie, in cui era stata proposta azione contro la banca e il cliente di quest’ultima, titolare di un deposito in conto corrente, al fine di ottenere in restituzione somme di danaro confluite nel menzionato conto a seguito di una truffa informatica – ha ritenuto trattarsi di azione di rivendicazione ex art. 948 c.c., avente ad oggetto le somme confluite nel deposito bancario, individuate nel loro preciso ammontare, essendo volta ad ottenere il possesso della res depositata e l’esercizio dei relativi diritti, compreso quello di riscuotere il tantundem dell’importo depositato, comprensivo dei frutti nel frattempo maturati.

La Corte ha anche precisato che il corrispondente obbligo di restituzione riguarda l’intero ammontare esistente in conto al momento della domanda giudiziale e non quello residuo al momento della decisione (in applicazione di tale principio, è stata cassata la decisione di merito, nella parte in cui aveva ritenuto che l’azione fosse riferibile solo alla somma residua giacente sul conto, riconoscendo al rivendicante il diritto di ricevere dalla banca soltanto l’importo pari al saldo al tempo della richiesta di restituzione).

Alcune pronunce hanno affrontato il tema della rideterminazione del saldo del conto, conseguente all’accertamento dell’invalidità di alcune clausole contrattuali, che hanno influenza sui reciproci rapporti di debito e credito tra banca e cliente.

Tale questione non deve essere confusa con quella che attiene alla prova del titolo su cu si fonda la richiesta di ripetizione del cliente, tenuto conto che, come pure precisato da Sez. 6-1, n. 33009/2019, Falabella, Rv. 656511 - 01, in questo caso, l’attore in ripetizione, che alleghi l’invalida pattuizione di tali clausole, è onerato della prova dell’assenza della causa debendi, attraverso la produzione in giudizio del documento contrattuale, senza poter invocare il principio della vicinanza della prova, tenuto conto che anche al cliente viene consegnato il documento contrattuale, al momento della stipula, e che comunque, in caso di mancata conservazione dello scritto, può fare ricorso all’art. 2724, n. 3, c.c., che ammette la prova testimoniale, ove la parte abbia senza colpa perduto il documento che gli forniva la prova.

Con riferimento al tema della rideterminazione del saldo, invece, Sez. 1, n. 09526/2019, Iofrida, Rv. 653244-01, ha affermato che, nei rapporti bancari in conto corrente, una volta esclusa la validità di talune pattuizioni relative agli interessi a carico del correntista, la rideterminazione del saldo del conto deve avvenire attraverso la produzione in giudizio dei relativi estratti a partire dalla data della sua apertura. Tuttavia, non trattandosi di prova legale esclusiva, all’individuazione del saldo finale possono concorrere anche altre prove documentali e gli argomenti di prova, desunti dalla condotta processuale tenuta del medesimo correntista (nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza della corte d’appello, che aveva respinto integralmente la domanda della banca di condanna del correntista al pagamento del saldo passivo, in mancanza di un solo estratto conto relativo ad un periodo in cui il correntista aveva ammesso l’assenza di movimentazioni nel rapporto).

Nell’esaminare la stessa questione, Sez. 1, n. 11543/2019, Falabella, Rv. 653906-01, ha evidenziato che, in tali evenienze, occorre distinguere il caso in cui il correntista sia convenuto da quello in cui sia attore in giudizio.

Secondo la S.C., ove sia la banca ad agire in giudizio, e il primo degli estratti conto prodotti rechi un saldo iniziale a debito del cliente, è infatti consentito valorizzare tutte le prove atte a fornire indicazioni certe e complete che diano giustificazione del saldo maturato al principio del periodo per cui risultano prodotti gli estratti conto. È possibile poi prendere in considerazione quegli ulteriori elementi che, pur non fornendo indicazioni atte a ricostruire l’evoluzione del rapporto, consentono quantomeno di escludere che il correntista, nel periodo per cui gli estratti sono mancanti, abbia maturato un indeterminato credito, piuttosto che un debito, nei confronti della banca. In quest’ultima ipotesi è possibile assumere, come dato di partenza per la rielaborazione delle successive operazioni documentate, il saldo zero. In mancanza di elementi nei due sensi indicati la domanda della banca andrà respinta per il mancato assolvimento dell’onere della prova incombente su di lei, che ha intrapreso il giudizio. Ove invece sia il correntista ad agire per la ripetizione, e il primo degli estratti conto prodotti rechi un saldo iniziale a suo debito, è del pari legittimo ricostruire il rapporto con le prove che offrano indicazioni certe e complete e che diano giustificazione del saldo riferito a quel momento. È inoltre possibile prendere in considerazione quegli ulteriori elementi che consentano di affermare che il debito nel periodo non documentato sia inesistente o inferiore al saldo iniziale del primo degli estratti conto prodotti, o che addirittura in quell’arco di tempo sia maturato un credito per il cliente stesso. In mancanza di elementi nei due sensi indicati dovrà assumersi, come dato di partenza per la rielaborazione delle successive operazioni documentate, il detto saldo. Il totale rigetto della domanda, nella prima ipotesi, e non nella seconda, si spiega facilmente, afferma la Corte, perché, ove la banca sia attrice, quest’ultima deve fornire una base certa per la rielaborazione del conto e tale base non è offerta se la medesima non riesca ad eliminare l’incertezza quanto al fatto che al momento iniziale del periodo rendicontato il correntista potesse essere creditore di un importo di indeterminato ammontare. Ove invece la banca assuma la veste di convenuta, è il correntista a dover dissolvere l’incertezza relativa al pregresso andamento del rapporto, sicché, in assenza di contrari riscontri, la base di calcolo potrà attestarsi sul saldo iniziale del primo degli estratti conto acquisiti al giudizio, che, nel quadro delle risultanze di causa, è il dato più sfavorevole allo stesso attore.

Diversa è naturalmente l’ipotesi in cui tanto la banca che il correntista si facciano attori, in modo che nella medesima causa si fronteggino due diverse domande, l’una spiegata in via principale e l’altra in via riconvenzionale, essendo anche in questa ipotesi necessario valorizzare tutti i dati che rendano possibile individuare un saldo iniziale.

Connessa alla problematica appena illustrata è quella riguardante l’onere di allegazione (e di prova) riferito all’eccezione di prescrizione, che formuli la banca, per paralizzare la richiesta di restituzione del cliente, che, in caso di accoglimento, incide sulla concreta determinazione del saldo a debito o a credito del cliente.

In via generale, come pure ribadito da Sez. 1, n. 24051/2019, Laura Tricomi, Rv. 655345- 01, si deve tenere presente che l’azione di ripetizione di indebito, proposta dal cliente di una banca, il quale lamenti la nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi anatocistici, maturati con riguardo ad un contratto di apertura di credito bancario regolato in conto corrente, è soggetta all’ordinaria prescrizione decennale, decorrente, nell’ipotesi in cui i versamenti abbiano avuto solo funzione ripristinatoria della provvista, non dalla data di annotazione in conto di ogni singola posta di interessi illegittimamente addebitati, ma dalla data di estinzione del saldo di chiusura del conto, in cui gli interessi non dovuti sono stati registrati. In tale ipotesi infatti ciascun versamento non configura un pagamento dal quale far decorrere, ove ritenuto indebito, il termine prescrizionale del diritto alla ripetizione, giacché il pagamento che può dar vita ad una pretesa restitutoria è esclusivamente quello che si sia tradotto nell’esecuzione di una prestazione da parte del solvens con conseguente spostamento patrimoniale in favore dell’accipiens.

È sufficiente, in questa sede, ricordare che tale ricostruzione è espressione di un orientamento oramai monolitico, formatosi a seguito di un’importante pronuncia a Sezioni Unite (Sez. U, n. 24418, Rordorf, Rv. 615489-01).

In ordine al modo in cui deve essere formulata l’eccezione di prescrizione sopra menzionata, ai fini dell’ammissibilità della stessa, assume fondamentale importanza Sez. U, n. 15895/2019, Sambito, Rv. 654580-01, ove, a risoluzione del contrasto interpretativo insorto, si è precisato che, in tema di prescrizione estintiva, l’onere di allegazione, gravante sull’istituto di credito che, convenuto in giudizio, voglia opporre l’eccezione di prescrizione al correntista che abbia agito in ripetizione delle somme indebitamente pagate nel corso del rapporto di conto corrente assistito da apertura di credito, è soddisfatto con l’affermazione dell’inerzia del titolare del diritto, unita alla dichiarazione di volerne profittare, senza che sia necessaria l’indicazione delle specifiche rimesse solutorie ritenute prescritte.

Le Sezioni Unite hanno evidenziato – in linea con i principi rinvenibili in tema di onere di allegazione in generale e anche in particolare (riferito cioè alla specifica eccezione di prescrizione), sinteticamente illustrati – che non deve ritenersi necessaria l’indicazione del dies a quo del decorso della prescrizione, perché l’elemento qualificante dell’eccezione di prescrizione è la sola allegazione dell’inerzia del titolare del diritto, che costituisce, appunto, il fatto principale, al quale la legge riconnette l’invocato effetto estintivo. Richiedere al convenuto, ai fini della valutazione di ammissibilità dell’eccezione, che tale inerzia sia “particolarmente connotata” in riferimento al termine iniziale della stessa – e dunque individuando, e specificando, le diverse rimesse ritenute solutorie – comporta l’introduzione, sia pur indiretta, di una nuova tipizzazione delle diverse forme di prescrizione, che le stesse Sezioni Unite hanno da tempo, e in modo condiviso, voluto espressamente evitare (Sez. U, n. 10955/2002, Evangelista, Rv. 556223-01).

Come precisato in sentenza, il problema della specifica indicazione delle rimesse solutorie non è eliminato, ma viene condotto nel piano suo proprio, che non è quello delle allegazioni, ma quello della prova, sicché il giudice, una volta ritenuta l’ammissibilità dell’eccezione, è poi chiamato a valutare la fondatezza delle contrapposte tesi al lume del riparto dell’onere probatorio, se del caso avvalendosi di una consulenza tecnica a carattere percipiente.

In tale senso, si era già orientata Sez. 1, n. 02660/2019, Nazzicone, Rv. 652622- 01, affermando che, in materia di contratto di conto corrente bancario, poiché la decorrenza della prescrizione è condizionata al carattere solutorio, e non meramente ripristinatorio, dei versamenti effettuati dal cliente, essa matura sempre dalla data del pagamento, qualora il conto risulti in passivo e non sia stata concessa al cliente un’apertura di credito, oppure i versamenti siano destinati a coprire un passivo eccedente i limiti dell’accreditamento. Ne discende che, eccepita dalla banca la prescrizione del diritto alla ripetizione dell’indebito per decorso del termine decennale dal pagamento, è onere del cliente provare l’esistenza di un contratto di apertura di credito, che qualifichi quel versamento come mero ripristino della disponibilità accordata.

E nella stessa linea si è posta Sez. 1, n. 31927/2019, Falabella, Rv. 656479 - 01, ove la S.C. ha affermato che a seguito della formulazione dell’eccezione di prescrizione, sollevata con riferimento alla domanda di ripetizione di indebito del correntista, è quest’ultimo ad essere onerato della prova dell’esistenza del contratto di apertura di credito, incidente sulla natura delle rimesse poste·in essere oltre il decennio, fermo restando che il giudice del merito è tenuto a valorizzare la prova ritualmente acquisita al riguardo, indipendentemente da una specifica allegazione del correntista circa la stipula del contratto in questione.

1.4. Altri contratti bancari.

Vengono di seguito raggruppate le pronunce della S.C., adottate nel corso nel 2019, con le quali sono stati esaminati altri contratti bancari tipici e anche contratti comuni, che tuttavia si connotano particolarmente in ragione dell’inerenza a rapporti o ad operazioni bancarie.

In tema di mutuo fondiario, Sez. 3, n. 17439/2019, De Stefano, Rv. 654435-01, ha rilevato che il limite di finanziabilità previsto dall’art. 38, comma 2, TUB non esaurisce i suoi effetti sul piano della condotta dell’istituto di credito mutuante, ma è elemento essenziale per la valida qualificazione del contratto di mutuo come fondiario e quindi, per l’applicabilità della relativa disciplina di privilegio, sostanziale e processuale, in favore del creditore. Pertanto, il superamento di tale limite comporta, tanto ove sia necessario inferirne la nullità dell’intero contratto, salva la conversione ex art. 1424 c.c., quanto ove sia sufficiente la riqualificazione di quello come mutuo ordinario con disapplicazione della disciplina di privilegio, la sicura non operatività della norma che esenta il creditore fondiario dall’obbligo di previa notifica del titolo esecutivo ai sensi dell’art. 41, comma 1, TUB.

Con riferimento al contratto di sconto, Sez. 6-1, n. 09896/2019, Scaldaferri, Rv. 653702-01, ha precisato che, per tale contratto, l’onere della forma scritta non era previsto, né ad probationem né ad substantiam, prima dell’entrata in vigore della l. n. 154 del 1992 sulla trasparenza bancaria, che conteneva, in materia di forma dei contratti, una disposizione analoga a quella poi prevista dall’art. 117 TUB.

Nell’esaminare alcune operazioni ordinariamente compiute dalla banca in favore dei propri clienti, Sez. 1, n. 20640/2019, Scotti, Rv. 654950-01, ha ritenuto che la banca, nell’accettare l’ordine di pagamento del cliente in favore del terzo, assume gli obblighi del mandatario, che ricomprendono non solo il diligente compimento degli atti per i quali il mandato stesso è stato conferito, ma anche degli atti preparatori e strumentali, nonché di quelli ulteriori che, dei primi, costituiscano il necessario complemento, e comporta altresì il dovere di informare tempestivamente il mandante della eventuale mancanza o inidoneità dei documenti occorrenti all’esatto espletamento dell’incarico (nella specie, la S.C. ha ritenuto configurabile la responsabilità della banca, che aveva accettato di provvedere al pagamento mediante modulo F24 richiesto dal proprio cliente in favore del terzo, ma, non essendo andato a buon fine il versamento a causa dell’errata compilazione del modulo da parte del cliente, non aveva poi provveduto a darne tempestivamente comunicazione al mandante, che lamentava di avere in conseguenza subito un danno patrimoniale).

L’utilizzo di somme da parte di un istituto di credito per ripianare la pregressa esposizione debitoria del correntista, con contestuale costituzione in favore della banca di una garanzia reale, è stata poi ritenuta (Sez. 1, n. 20896/2019, Dolmetta, Rv. 655022-01) un’operazione meramente contabile nei rapporti di dare e avere sul conto corrente, non inquadrabile nel mutuo ipotecario, il quale presuppone sempre l’avvenuta consegna del denaro dal mutuante al mutuatario, precisando inoltre che tale operazione determina, di regola, gli effetti del pactum de non petendo ad tempus, restando modificato soltanto il termine per l’adempimento, senza alcuna novazione dell’originaria obbligazione del correntista.

Il giudice di legittimità (Sez. 2, n. 02688/2019, Oricchio, Rv. 652429-01) si è anche pronunciato sulla cosiddetta assicurazione fideiussoria, rilevando che essa è strutturalmente costruita secondo lo schema del contratto a favore di terzo. Ha quindi evidenziato che la medesima costituisce una figura contrattuale intermedia tra il versamento cauzionale e la fideiussione, contraddistinta dall’assunzione dell’impegno da parte di una banca o di una compagnia di assicurazione di pagare un determinato importo al beneficiario, onde garantirlo, nel caso di inadempimento della prestazione a lui dovuta dal contraente.

Infine, con riferimento alla prelazione pignoratizia per i crediti bancari, Sez. 1, n. 15421/2019, Dolmetta, Rv. 654651-01, ha evidenziato che il comma 4 dell’art. 2787 c.c. stabilisce un regime agevolato circa la prova del tempo della costituzione della garanzia (senza incidere sulla disciplina delle altre condizioni richieste dai commi 2 e 3 per l’operare della prelazione), che esenta le banche regolarmente autorizzate all’esercizio dell’attività bancaria ex art. 14 TUB dall’onere di provare la data certa, non per tutte le operazioni bancarie garantite (anche o solo) da pegno, ma per le sole operazioni di “credito su pegno” previste dall’art. 48 TUB e disciplinate dalla l. n. 745 del 1939, oltre che dal r.d. n. 1279 del 1939, aggiungendo anche che il comma 4 cit. non esclude che, per poter fruire della prelazione, le banche debbano fornire sufficiente indicazione scritta della cosa ricevuta in garanzia mediante la “polizza” o “altra scrittura” di enti debitamente autorizzati al compimento di dette operazioni, documentazione non sovrapponibile alle scritture private con data certa di cui al comma 3 (nella specie, la S.C. ha escluso l’operatività della prelazione con riferimento al credito della banca nei confronti del cliente fallito documentato da missive recanti un generico riferimento all’esistenza di titoli dati in garanzia).

2. Gli assegni.

Numerose sono le pronunce della Corte di cassazione che hanno esaminato la disciplina degli assegni, soprattutto bancari, sotto molteplici punti di vista.

In termini generali, Sez. 2, n. 33428/2019, Oliva, Rv. 656319-01, ha affermato che, in base alla regola di correttezza posta dall’art. 1175 c.c., l’obbligazione del debitore si estingue a seguito della mancata tempestiva presentazione all’incasso dell’assegno bancario da parte del creditore, che in tal modo viene meno al suo dovere di cooperare in modo leale e fattivo all’adempimento del debitore. Se, quindi, il creditore omette, violando la predetta regola di correttezza, di compiere gli adempimenti necessari affinché il titolo sia pagato, nei termini di legge, dalla banca trattaria (o da altro istituto bancario), tale comportamento omissivo deve essere equiparato a tutti gli effetti di legge all’avvenuta esecuzione della diversa prestazione, con conseguente estinzione dell’obbligazione, ex art. 1197 c.c.

Confrontando poi le caratteristiche dell’assegno circolare e quelle dell’assegno bancario, Sez. 6-3, n. 11387/2019, Pellecchia, Rv. 653798-01, ha evidenziato le differenze esistenti, escludendo pertanto l’applicazione analogica all’assegno circolare delle disposizioni dettate per l’assegno bancario dagli artt. 32 e 35 r.d. n. 1736 del 1933, sicché, ove l’assegno circolare venga presentato all’incasso oltre il termine previsto dal suddetto art. 32, la banca emittente non può legittimamente rifiutare il pagamento, in attesa dell’autorizzazione del richiedente l’emissione del titolo (nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza che aveva rigettato la domanda di risarcimento del danno proposta dal beneficiario di alcuni assegni circolari nei confronti della banca emittente, la quale ne aveva rifiutato la liquidazione, in attesa dell’autorizzazione del richiedente, in ragione del fatto che erano stati presentati all’incasso a quasi un anno di distanza dalla loro emissione).

Con riferimento al pagamento degli assegni bancari, Sez. 1, n. 17592/2019, Guido, Rv. 654426-01, ha comunque rilevato che l’istituto di credito è tenuto ad assicurare il necessario coordinamento organizzativo tra le filiali – le quali non posseggono una soggettività giuridica distinta da quella della banca, di cui sono mere articolazioni – in modo da garantire un assetto coerente ed unitario nei rapporti esterni, assicurando la massima celerità delle comunicazioni, così contenendo il rischio che, nel lasso di tempo intercorrente tra la presentazione del titolo ad una filiale e la sua trasmissione a quella trattaria, il correntista faccia venire meno la provvista necessaria per il pagamento dell’assegno. Il grave ritardo nell’esecuzione di quest’ultima operazione integra, dunque, per la Corte, un comportamento colposo della banca, che può determinare un’indebita alterazione dell’ordine cronologico dei pagamenti ed ingenerare la responsabilità dell’istituto di credito per i danni arrecati.

Sempre in ordine al pagamento degli assegni bancari, si deve menzionare Sez. 1, n. 12048/2019, Scalia, Rv. 653770-01, ove la S.C. ha precisato che, qualora un assegno bancario venga versato dal prenditore presso la propria banca, e questa, accreditato l’importo al versante, non sia poi in grado di ripeterlo dalla banca trattaria per smarrimento del titolo, l’emittente dell’assegno medesimo, che veda estinguere il suo debito verso il prenditore non per fatti inerenti al relativo rapporto sottostante, e senza subire alcuna decurtazione del proprio conto corrente, ma esclusivamente per effetto del soddisfacimento del prenditore stesso a seguito dell’accredito operato in suo favore, ottiene un’indebita locupletazione e resta conseguentemente assoggettato all’azione di arricchimento della banca del prenditore, ai sensi e nei limiti di cui all’art. 2041 c.c.

Si deve comunque tenere presente, come pure affermato da Sez. 1, n. 09523/2019, Valitutti, Rv. 653686-01, che la banca girataria per l’incasso, oltre ad essere mandataria del prenditore girante, è altresì sostituta della banca trattaria nel pagamento cui quest’ultima è obbligata nei confronti del cliente, e questo comporta che su di essa incombe l’onere di verificare quelle condizioni di legittimità dell’operazione che, al momento della presentazione del titolo, sono effettivamente controllabili, quale l’identità del presentatore, ma non importa che ogni verifica necessaria per il pagamento dell’assegno sia a suo carico, come il controllo della regolarità delle girate, non potendosi ritenere che la banca trattaria resti, per parte sua, esonerata dal compito di controllare la materiale genuinità dell’assegno che le è richiesto di pagare e che, proprio per questo motivo, deve essere trasmesso dalla banca girataria a quella trattaria prima che questa provveda al pagamento (nello stesso senso, v. già Sez. 1, n. 18642/2005, Rordorf, Rv. 583493-01).

Ancora in tema di pagamento degli assegni bancari, Sez. 3, n. 31879/2019, Cigna, Rv. 656503 - 01, ha ribadito che non è legittimato a pretendere il pagamento il mero possessore di un assegno bancario, che non risulti né prenditore né giratario dello stesso, se non dimostrando l’esistenza del rapporto giuridico da cui deriva tale credito, poiché il semplice possesso del titolo non ha un significato univoco ai fini della legittimazione, non potendo escludersi che l’assegno sia a lui pervenuto abusivamente (nello stesso senso, Sez. 1, n. 15688/2013, Lamorgese, Rv. 627233-01).

La Corte ha anche precisato che, in questi casi, l’assegno non può valere neppure come promessa di pagamento, in applicazione dell’art. 1988 c.c., atteso che l’inversione dell’onere della prova, prevista da tale disposizione, opera solo nei confronti del soggetto cui la promessa sia stata effettivamente fatta, sicché il mero possessore di un titolo all’ordine privo di valore cartolare, che non risulti tale dal documento, deve fornire la prova della promessa a suo favore.

Passando ad esaminare le decisioni che si sono occupate del mancato pagamento dell’assegno, si deve subito richiamare Sez. 6-3, n. 11607/2019, Rossetti, Rv. 653801-02, che, con riferimento all’assegno bancario privo di provvista, ha precisato che il protesto deve essere levato al nome delle persone cui è “esteriormente riferibile” la titolarità del conto ma, nel caso di manifesta difformità tra la firma di traenza apposta sull’assegno e lo “specimen” in possesso della banca, quest’ultima ha l’obbligo di evitare che il protesto dell’assegno sia levato al nome del correntista ed è gravata, di conseguenza, dell’onere di dichiarare che è titolare di quel conto di traenza un soggetto diverso da quello il cui nome figura nella sottoscrizione dell’assegno, specificando che al nome di quest’ultimo nessun conto di traenza esiste presso di essa (in applicazione del principio, la S.C. ha confermato la decisione di merito che, esclusa la responsabilità della banca al momento dell’apertura del conto, effettuata da un ignoto truffatore sulla base di documenti falsi, non aveva ritenuto responsabile l’istituto di credito neppure per avere successivamente dichiarato, in mancanza di provvedimenti dell’autorità giudiziaria che attestassero la perpetrata truffa, l’assenza di provvista al momento della presentazione del titolo all’incasso).

In argomento si è pronunciata anche Sez. 1, n. 23719/2019, Meloni, Rv. 655341-01, la quale ha analogamente ritenuto che, solo nel caso di sottoscrizione dell’assegno con un nome chiaramente e totalmente diverso da quello del titolare del conto, il protesto va levato a nome di detto traente inesistente, essendo ciò sufficiente nei rapporti fra giratari per la tutela dei rispettivi diritti, mentre nell’ipotesi di semplice contraffazione della firma del titolare del conto il protesto va levato con riferimento a quest’ultimo (nell’enunciare il principio, la Corte ha confermato il rigetto della domanda di risarcimento del danno reputazionale del correntista, conseguito al protesto levato a suo nome, ritenendo non decisiva la circostanza che il furto del carnet di assegni era stato denunciato dal correntista e da questo portato tempestivamente a conoscenza della banca).

Numerose sono poi le pronunce che hanno affrontato la questione legata al pagamento di assegni a soggetti che poi sono risultati non essere i veri beneficiari del titolo.

In via generale, Sez. 6-1, n. 17737/2019, Laura Tricomi, Rv. 654718-01, ha affermato che, in questi casi, la banca negoziatrice, chiamata a rispondere del danno derivato, è ammessa a provare che l’inadempimento non è a lei imputabile, ma, trattandosi di operatore professionale qualificato, contrattualmente responsabile anche per colpa lieve in virtù del combinato disposto degli artt. 1176, comma 2, c.c. e 43, comma 2, r.d. n. 1736 del 1933, è tenuta ad offrire una prova liberatoria in grado di escludere anche tale colpa (fattispecie relativa al pagamento di un assegno di traenza, inviato al beneficiario a mezzo posta ordinaria e pagato ad un soggetto che poi si è rivelato estraneo al rapporto cartolare).

La decisione si pone in linea con Sez. U, n. 12477/2018, Cristiano, n. 648275-01, secondo la quale, ai sensi dell’art. 43, comma 2, del r.d. n. 1736 del 1933, la banca negoziatrice, chiamata a rispondere del danno derivato dal pagamento dell’assegno bancario, di traenza o circolare, munito di clausola non trasferibilità a persona diversa dall’effettivo beneficiario, è ammessa a provare che l’inadempimento non le è imputabile, per aver essa assolto alla propria obbligazione con la diligenza richiesta dall’art. 1176, comma 2, c.c. (conf. Sez. 6-1, n. 25581/2018, Nazzicone, Rv. 651353 - 01).

Proprio nel valutare lo standard di diligenza esigibile, Sez. 1, n. 34107/2019, Amatore, Rv. 656755-01, ha escluso la possibilità di fondare il giudizio di responsabilità (contrattuale) della banca sulla base delle indicazioni contenute in una raccomandazione ABI – ove era segnalata l’opportunità di richiedere al potatore del titolo, non uno, ma due documenti identificativi, dotati di fotografia – perché, nel caso di specie, tale raccomandazione non poteva ritenersi dotata di cogenza negoziale, considerato che semplicemente segnalava una prassi operativa, che peraltro non era riconducibile a standard valutativi di matrice sociale o ordinamentale e non avrebbe escluso la possibilità della contraffazione anche del secondo documento identificativo.

Una volta ritenuta sussistente la responsabilità della banca negoziatrice, la S.C. ha poi esaminato la questione della determinazione del danno.

Così Sez. 3, n. 01049/2019, Fiecconi, Rv. 652685-01, ha rilevato che, in questi casi, ove il pagamento a soggetto non legittimato sia attribuibile a negligenza della banca negoziatrice, ai fini della valutazione comparativa dell’incidenza o meno della colpa del creditore-emittente nella determinazione del danno, da accertare in concreto e alla luce del principio di causalità adeguata, non rilevano né il rischio generico assunto dall’emittente nell’affidarsi al servizio postale ordinario, né le modalità con le quali è stato spedito il plico postale.

Negli stessi identici termini si è espressa Sez. 3, n. 31300/2019, Scrima, Rv. 656180-01.

Anche Sez. 1, n. 12984/2019, Valitutti, Rv. 654250-01, ha affermato che la spedizione di un assegno non trasferibile di rilevante importo, effettuata dal traente al beneficiario a mezzo raccomandata con ricevuta di ritorno, o mediante posta ordinaria, non assume alcun rilievo causale in riferimento all’evento produttivo del danno, lamentato dallo stesso traente, determinatosi in ragione del successivo pagamento dell’assegno ad un soggetto estraneo al rapporto cartolare.

L’evento dannoso è dalla S.C. ascritto unicamente alle condotte colpose realizzate dalla banca che ha posto il titolo all’incasso e da quella che lo ha presentato in stanza di compensazione, nonostante l’evidente falsificazione del nome del beneficiario, escludendo la possibilità di invocare, al fine di radicare una concorrente responsabilità del traente, la disciplina degli artt. 83 e 84 d.P.R. n. 156 del 1973, sul divieto di includere nella corrispondenza ordinaria denaro, oggetti preziosi e carte di valore, giacché attinente ai soli rapporti tra l’ente postale e i suoi utenti.

La questione è comunque destinata ad essere compiutamente valutata dalle Sezioni Unite della Corte, quale questione di massima di particolare importanza, tenuto conto che con tre distinte ordinanze interlocutorie (Sez. 1, n. 20900/2019, Solaini; Sez. 1, n. 22015/2019, Nazzicone; Sez. 1, n. 22016/2019, Nazzicone), la Prima Sezione Civile ha trasmesso gli atti al Presidente della Corte, ai sensi dell’art. 374, comma 2, c.p.c., perché valutino “se possa ravvisarsi un concorso del fatto colposo del danneggiato, ai sensi dell’art. 1227, comma 1 c.c., nella spedizione di un assegno a mezzo posta – sia essa ordinaria, raccomandata o assicurata – con riguardo al pregiudizio patito dal debitore che non sia liberato dal pagamento, in quanto il titolo venga trafugato e pagato a soggetto non legittimato in base alla legge cartolare di circolazione”.

Nelle ordinanze interlocutorie appena menzionate viene evidenziata la necessità di esaminare in modo nuovo la menzionata questione, considerando in particolare se, in base all’art. 1227, comma 1, c.c. e tenuto conto del regolamento postale e degli altri atti generali dell’ente poste, la scelta di spedire un assegno a mezzo posta, in particolare utilizzando un’opzione che non permetta di seguire il plico e la sua consegna, sia davvero causalmente neutra, al fine di affermare la responsabilità esclusiva del banchiere che abbia pagato quell’assegno, trafugato e poi messo all’incasso dal non legittimato.

3. Gli altri titoli di credito.

Nell’anno in rassegna la Corte di cassazione ha esaminato, quali titoli di credito diversi dall’assegno, la cambiale, i buoni postali fruttiferi e, pur nei limiti di seguito illustrati, i certificati di partecipazione ai fondi comuni d’investimento di cui all’art. 36 TUF.

In tema di cambiale, e con specifico riferimento al rinnovo del titolo, Sez. 3, n. 21769/2019, Rossetti, Rv. 654928-01, ha precisato che l’avallante di una cambiale può opporre al portatore l’avvenuto rinnovo del titolo solo nel caso in cui tale rinnovo configuri, per espressa volontà delle parti, novazione dell’obbligazione cambiaria, e, cioè, estinzione di quella portata dal titolo rinnovato, non anche nell’ipotesi in cui, difettando l’animus novandi, il rinnovo stesso vada considerato quale mera proroga della scadenza del titolo (in senso totalmente conforme, v. già Sez. 3, n. 04532/1976, Bologna, Rv. 383250-01).

Per quanto riguarda i buoni postali fruttiferi, si deve invece richiamare Sez. U, n. 03963/2019, Rv. 652851-01, ove le Sezioni Unite hanno affermato che la disciplina contenuta nell’abrogato art. 173 d.P.R. n. 156 del 1973, come novellato dall’art. 1 del d.l. n. 460 del 1974, conv. in l. n. 588 del 1974 – che consentiva variazioni, anche in pejus, del tasso di interesse sulla base di decreti ministeriali – continua a trovare applicazione ai rapporti in essere alla data di entrata in vigore del d.m. del Tesoro 19 dicembre 2000, emanato in attuazione della norma abrogatrice di cui all’art. 7, comma 3, d.lgs. n. 284 del 1999, atteso che quest’ultima, da un lato, aveva previsto la perdurante applicabilità delle norme anteriori ai rapporti in corso alla data di entrata in vigore dei decreti destinati a stabilire le nuove caratteristiche dei buoni fruttiferi postali, e, dall’altro lato, nello stabilire che detti decreti avrebbero potuto regolare l’applicabilità delle nuove norme ai rapporti già in essere con una disciplina più favorevole ai risparmiatori, aveva posto una previsione di contenuto adattativo e non vincolante per il decreto ministeriale, sicché l’art. 9 del citato d.m. 19 dicembre 2000, nel ribadire che i buoni fruttiferi postali delle serie già emesse al momento della sua entrata in vigore restano soggetti alla previgente disciplina, non si è posto in conflitto con una norma di rango superiore.

Nella stessa linea si era peraltro già pronunciata Sez. 1, n. 19002/2017, Acierno, Rv. 645079-02, rilevando, sempre con riferimento alla disciplina dei buoni postali fruttiferi dettata dal testo unico approvato con il d.P.R. n. 156 del 1973, che il vincolo contrattuale tra emittente e sottoscrittore dei titoli si forma sulla base dei dati risultanti dal testo dei buoni di volta in volta sottoscritti, con la conseguenza che il contrasto tra le condizioni, in riferimento al saggio degli interessi, apposte sul titolo e quelle stabilite dal d.m. che ne disponeva l’emissione deve essere risolto dando la prevalenza alle prime, essendo contrario alla funzione stessa dei buoni postali – destinati ad essere emessi in serie, per rispondere a richieste di un numero indeterminato di sottoscrittori – che le condizioni alle quali l’amministrazione postale si obbliga possano essere, sin da principio, diverse da quelle espressamente rese note al risparmiatore all’atto della sottoscrizione del buono.

In materia di fondi comuni di investimento, assume fondamentale rilievo Sez. 1, n. 14325/2019, Amatore, Rv. 653889-01, ove la S.C. ha affermato che i certificati nominativi di partecipazione ai fondi comuni di investimento, previsti dall’art. 36, comma 5, TUF posseggono la natura giuridica di titoli di credito, giacché incorporano il diritto alla prestazione e possono circolare limitatamente ad uno dei soggetti partecipanti al fondo, come è confermato dalla norma citata che ne prevede espressamente il carattere nominativo o al portatore, secondo caratteristiche tipiche anche dei titoli di credito, proprio in relazione alla loro funzione di libera circolabilità.

In precedenza, la medesima Corte aveva escluso la riconducibilità delle partecipazioni al fondo alla disciplina dei titoli di credito, proprio in considerazione della mancanza nelle singole fattispecie del menzionato certificato.

In particolare, Sez. 1, n. 28900/2011, Di Virgilio, Rv. 620999-01 e Sez. 3, n. 10990/2003, Calabrese, Rv. 565017-01, hanno affermato che la mera partecipazione ad un fondo comune di investimento, in assenza di un certificato individuale, autonomo e separato, costituisce non un titolo di credito nei confronti del fondo, ma solo un credito, rappresentato dall’obbligo della società di investimento di gestire il fondo e di restituirgli il valore delle quote di partecipazione, così consentendo la costituzione del pegno sulla quota di partecipazione al menzionato fondo, solo nel rispetto della disciplina prevista dall’art. 2800 c.c. per il pegno di crediti (e cioè la notifica della costituzione del pegno al debitore ovvero la sua accettazione con atto di data certa).

Per quanto riguarda, in generale, la natura dei fondi comuni d’investimento, si rinvia a quanto infra illustrato.

4. L’intermediazione finanziaria in generale.

Vengono di seguito esaminate le pronunce adottate dalla S.C., nell’anno in rassegna, relative all’attività di intermediazione finanziaria, svolta dalle banche e dagli altri soggetti abilitati.

Le statuizioni adottate riguardano principalmente la prestazione dei servizi d’investimento, ma la Corte si è interessata anche dell’offerta al pubblico di strumenti finanziari e dei fondi comuni d’investimento.

Per quanto riguarda le pronunce che hanno esaminato le condotte rilevanti ai fini dell’applicazione di sanzioni amministrative, si rinvia alla parte di questa rassegna dedicata a questo argomento.

In generale, si deve comunque tenere presente che, in tale materia, le figure negoziali sono in continua evoluzione e acquistano caratteri di tipicità sociale con estrema velocità, sicché il ruolo del giudice è sempre più quello di ricondurre a sistema la singola figura, al fine di individuare la specifica disciplina, anche di settore, applicabile.

In tale ottica, assume rilievo Sez. 3, n. 06319/2019, Di Florio, Rv. 653250-01, che, con riferimento ad un contratto di assicurazione sulla vita, stipulato prima dell’entrata in vigore della l. n. 262 del 2005 e del d.lgs. n. 303 del 2006 - guardando al caso in cui sia stabilito che le somme corrisposte dall’assicurato a titolo di premio vengano versate in fondi di investimento interni o esterni all’assicuratore e che, alla scadenza del contratto o al verificarsi dell’evento in esso dedotto, l’assicuratore sarà tenuto a corrispondere all’assicurato una somma pari al valore delle quote del fondo mobiliare in quel momento (polizze denominate unit linked) - ha affermato che il giudice di merito, al fine di stabilire se l’impresa emittente, l’intermediario e il promotore abbiano violato le regole di leale comportamento previste dalla specifica normativa e dall’art. 1337 c.c., deve interpretare il contratto, e tale interpretazione non è censurabile in sede di legittimità se congruamente e logicamente motivata, in modo tale da accertare se esso, al di là del nomen iuris attribuitogli, sia da identificare come polizza assicurativa sulla vita (in cui il rischio avente ad oggetto un evento dell’esistenza dell’assicurato è assunto dall’assicuratore) oppure si concreti nell’investimento in uno strumento finanziario (in cui il rischio di performance sia per intero addossato all’assicurato).

5. I servizi di investimento.

Vengono illustrate dapprima le decisioni che si sono pronunciate sul tema della nullità dei contratti-quadro e poi quelle che hanno verificato la sussistenza o meno dell’inadempimento dell’intermediario, per lasciare infine spazio a una fattispecie meritevole di attenzione per la sua peculiarietà.

5.1. Le nullità contrattuali e le statuizioni conseguenti.

In argomento si deve subito menzionare Sez. 1, n. 16106/2019, Falabella, Rv. 654626-01, ove la S.C. ha precisato che, in tema di contratti di investimento, la pattuizione relativa alle modalità con cui devono essere impartiti i singoli ordini costituisce elemento essenziale del contratto-quadro e soggiace all’obbligo della forma scritta, a norma degli artt. 23, comma 1, TUF e 30, comma 2, lett. c), reg. Consob n. 11522 del 1998, potendo dunque essere revocata, o modificata, solo attraverso un nuovo accordo da adottarsi nella medesima forma.

Per quanto riguarda la clausola di determinazione del corrispettivo spettante all’intermediario, assume invece rilievo Sez. 1, n. 01452/2019, Iofrida, Rv. 652804-02, ove la Corte ha rilevato che la nullità di tale clausola non determina la nullità dell’intero contratto, dovendosi applicare, in presenza dei presupposti stabiliti dall’art. 1419, comma 2, c.c., il disposto del menzionato art. 23 TUF, il quale costituisce una norma di carattere speciale che, proprio a tutela dell’investitore, stabilisce espressamente, per un caso di nullità di tale clausola, che nulla è dovuto all’intermediario.

Si deve tenere presente che la pronuncia è stata adottata, non con riferimento ad una ipotesi di rinvio agli usi per la determinazione del menzionato corrispettivo, espressamente regolata dall’art. 23 TUF, ma in relazione ad una fattispecie in cui, nel contratto-quadro, era stata determinata la controprestazione dovuta dal cliente all’intermediario in base ad una clausola sottoscritta dall’investitore, che rimandava ad un “prospetto allegato riportante l’ammontare delle commissioni”, mai prodotto in giudizio, la cui esistenza era però incontestata tra le parti. La Corte non ha ritenuto sufficiente quest’ultima circostanza, e ha confermato la pronuncia di nullità per indeterminatezza dell’oggetto, affermando che, per i contratti per i quali è prevista la forma scritta ad substantiam, la prova della loro esistenza e dei diritti che ne formano l’oggetto richiede necessariamente la produzione in giudizio della relativa scrittura, che non può essere sostituita da altri mezzi probatori e neanche dal comportamento processuale delle parti che abbiano concordemente ammesso l’esistenza del diritto costituito con l’atto non esibito (Sez. 1, n. 01452/2019, Iofrida, Rv. 652804-01).

Fondamentale rilievo assume infine Sez. U, n. 28314/2019, Acierno, Rv. 655800-01, ove le Sezioni Unite hanno affermato che la nullità del contratto- quadro per difetto di forma scritta, contenuta nell’art. 23, comma 3, TUF può essere fatta valere esclusivamente dall’investitore, con la conseguenza che gli effetti processuali e sostanziali dell’accertamento operano soltanto a suo vantaggio, precisando tuttavia che l’intermediario, ove la domanda sia diretta a colpire soltanto alcuni ordini di acquisto, può opporre l’eccezione di buona fede, se la selezione della nullità determini un ingiustificato sacrificio economico a suo danno, alla luce della complessiva esecuzione degli ordini conseguiti alla conclusione del contratto- quadro.

In tale sentenza, le Sezioni Unite ribadiscono che, una volta dichiarata l’invalidità del contratto quadro, di questa può avvalersi soltanto l’investitore, precisando inoltre che ciò avviene, non solo sul piano sostanziale della legittimazione esclusiva, ma anche su quello sostanziale dell’operatività ad esclusivo suo vantaggio.

L’uso selettivo del rilievo della nullità del contratto-quadro non è ritenuto in contrasto, in via generale, con lo statuto normativo delle nullità di protezione, ma – e questo è il punto centrale – le Sezioni Unite hanno ritenuto che la sua operatività deve essere modulata e conformata dal principio di buona fede, secondo un parametro da assumersi in modo univoco e coerente.

In particolare, secondo le Sezioni Unite, al fine di modulare correttamente il meccanismo di riequilibrio effettivo delle parti contrattuali di fronte all’uso selettivo delle nullità di protezione, non può mancare un esame degli investimenti complessivamente eseguiti, ponendo in comparazione quelli oggetto dell’azione di nullità, derivata dal vizio di forma del contratto quadro, con quelli che ne sono esclusi, al fine di verificare se permanga un pregiudizio per l’investitore corrispondente al petitum azionato, dovendo ritenersi, in questa ultima ipotesi, che l’investitore abbia agito coerentemente con la funzione tipica delle nullità protettive, ovvero quella di operare a vantaggio di chi le fa valere.

Pertanto, per accertare se l’uso selettivo della nullità di protezione sia stato oggettivamente finalizzato ad arrecare un pregiudizio all’intermediario, si deve verificare l’esito degli ordini non colpiti dall’azione di nullità e, ove sia stato vantaggioso per l’investitore, porlo in correlazione con il petitum azionato in conseguenza della proposta azione di nullità. Può accertarsi che gli ordini non colpiti dall’azione di nullità abbiano prodotto un rendimento economico superiore al pregiudizio confluito nel petitum. In tale ipotesi, può essere opposta, ed al solo effetto di paralizzare gli effetti della dichiarazione di nullità degli ordini selezionati, l’eccezione di buona fede, al fine di non determinare un ingiustificato sacrificio economico in capo all’intermediario stesso. Può, tuttavia, accertarsi che un danno per l’investitore, anche al netto dei rendimenti degli investimenti relativi agli ordini non colpiti dall’azione di nullità, si sia comunque determinato. Entro il limite del pregiudizio per l’investitore accertato in giudizio, l’azione di nullità non contrasta con il principio di buona fede. Oltre tale limite, opera, ove sia oggetto di allegazione, l’effetto paralizzante dell’eccezione di buona fede.

In conclusione, secondo tale ricostruzione, se i rendimenti degli investimenti non colpiti dall’azione di nullità superino il petitum, l’effetto impeditivo è integrale; ove, invece, si determini un danno per l’investitore, anche all’esito della comparazione con gli altri investimenti non colpiti dalla nullità selettiva, l’effetto paralizzante dell’eccezione opererà nei limiti del vantaggio ingiustificato conseguito.

In questa sede è sufficiente evidenziare che la pronuncia in esame si pone in continuità con Sez. U, n. 00898/2018, Di Virgilio, Rv. 646965-01, ma ne costituisce anche il completamento, perché guarda agli effetti di tale particolare pronuncia di nullità sulle statuizioni ad essa conseguenti, rinviandosi, per il resto, al separato approfondimento.

5.2. L’inadempimento dell’intermediario e i relativi rimedi.

In argomento, è opportuno richiamare in primo luogo le decisioni che hanno affrontato la questione in termini generali, per poi passare a quelle che si sono pronunciate sulla sussistenza o meno della violazione di alcuni specifici obblighi comportamentali e sui rimedi conseguentemente apprestati dall’ordinamento.

Con riferimento al riparto dell’onere della prova, assume pertanto rilievo Sez. 1, n. 14335/2019, Amatore, Rv. 653890-01, ove la S.C. ha ribadito che, nelle azioni di responsabilità per danni subiti dall’investitore, nelle quali occorre accertare se l’intermediario abbia diligentemente adempiuto alle obbligazioni scaturenti dal contratto di negoziazione, il riparto dell’onere della prova si atteggia nel senso che l’investitore ha l’onere di allegare l’inadempimento delle citate obbligazioni da parte dell’intermediario, nonché di fornire la prova del danno e del nesso di causalità fra questo e l’inadempimento anche sulla base di presunzioni, mentre l’intermediario ha l’onere di provare l’avvenuto adempimento delle specifiche obbligazioni poste a suo carico, allegate come inadempiute dalla controparte e, sotto il profilo soggettivo, di aver agito con la specifica diligenza richiesta.

La statuizione si pone in linea con un orientamento oramai consolidato (v. da ultimo Sez. 1, n. 00810/2016, Nazzicone, Rv. 638346-01), che peraltro riproduce i criteri uniformemente adottati, in generale, in materia di responsabilità contrattuale (cfr. Sez. 3, n. 00826/2015, Stalla, Rv. 634361-01.

In tema di obblighi informativi dell’intermediario, Sez. 1, n. 28175/2019, Guido, Rv. 655775-01, ha ritenuto che non assolve a tali obblighi la banca che stipula con il cliente un contratto di negoziazione diretta di titoli senza aver prima acquisito l’offering circular, che riporta le caratteristiche essenziali dell’emissione, quando i titoli risultino privi di prospetto informativo e di rating, perché la disciplina dettata dall’art. 21, comma 1, lett. a) e b), TUF e dagli artt. 26 e 28 reg. Consob n. 11522 del 1998 impone all’intermediario di attivarsi per ottenere una conoscenza preventiva adeguata del prodotto finanziario, alla luce di tutti i dati disponibili che ne possano influenzare la valutazione effettiva della rischiosità, e quindi assicurare un’informazione adeguata all’investitore sulle caratteristiche del prodotto.

La Corte ha pure precisato che la responsabilità dell’intermediario non è esclusa dalla sottoscrizione, da parte del cliente, della dichiarazione di aver ricevuto informazioni necessarie e sufficienti ai fini della completa valutazione del rischio, che non può essere qualificata come confessione stragiudiziale e non costituisce neppure un’autorizzazione scritta all’investimento, quando sia apposta su un modulo standard senza alcun riferimento individualizzante, da cui desumere l’effettiva presa d’atto dei rischi e delle particolari caratteristiche della specifica operazione (la fattispecie ha riguardato la negoziazione diretta di bond Cirio, effettuata prima del recepimento della direttiva MIFID, in assenza di prospetto informativo).

Facendo chiarezza sulla distinzione, sempre in tema di obblighi informativi, tra offerta al pubblico e negoziazione di strumenti finanziari, Sez. 1, n. 07575/2019, Nazzicone, Rv. 653228-01 ha ribadito quanto già affermato da Sez. 1, n. 08733/2016, Nazzicone, Rv. 639507-01, evidenziando che la pubblicazione del prospetto informativo è prevista nelle sole ipotesi di sollecitazione all’investimento, ai sensi dell’art. 94, commi 1 e 2, TUF (nel testo ratione temporis vigente), caratterizzate per essere l’offerta comunque rivolta, secondo lo schema dell’art. 1336 c.c., ad un numero indeterminato ed indistinto di investitori in modo uniforme e standardizzato, cioè a condizioni di tempo e prezzo predeterminati. Quando, invece, la diffusione di strumenti finanziari presso il pubblico avvenga mediante la prestazione di servizi di investimento (art. 1, comma 5, TUF) – e cioè attività di negoziazione, ricezione e trasmissione di ordini – la tutela del cliente è affidata all’adempimento, da parte dell’intermediario, di obblighi informativi specifici e personalizzati, ai sensi degli artt. 21 TUF e 26 ss. reg. Consob n. 11522 del 1998, anche nel caso in cui la negoziazione individuale avvenga nel periodo del cd. grey market (prima che i titoli siano ufficialmente emessi).

Con riferimento invece all’obbligo di segnalare il conflitto di interessi, Sez. 1, n. 02472/2019, Iofrida, Rv. 652682-01, ha affermato che, secondo quanto prescritto dall’art. 27 reg. Consob n. 11522 del 1998, il conflitto di interessi nel quale versi la banca mandataria deve essere graficamente evidenziato sui documenti predisposti dall’intermediario attraverso una differenziazione nello stile o nel carattere, idonea a renderla evidente rispetto al resto del contratto, non essendo pertanto sufficiente, per far ritenere assolto l’obbligo informativo incombente sull’intermediario, la dichiarazione contrattuale resa dal cliente, su modulo predisposto dalla banca e da lui sottoscritto, circa le informazioni ricevute sull’esistenza di un conflitto di interessi (fattispecie relativa alla sottoscrizione, nel 2001, di un contratto “4 You”).

In tema di risoluzione del contratto di investimento per inadempimento dell’intermediario, Sez. 1, n. 02661/2019, Nazzicone, Rv. 652415-01, ha ritenuto che, quando viene dichiarata la risoluzione del contratto d’investimento in valori mobiliari, si ingenerano tra le parti reciproci obblighi restitutori, dovendo l’intermediario restituire l’intero capitale investito, mentre l’investitore è obbligato alla restituzione del valore delle cedole corrisposte e dei titoli acquistati, secondo la disciplina di cui all’art. 2038 c.c., fermo restando che i reciproci crediti vantati dalle parti, ove ne ricorrano i presupposti, possono compensarsi legalmente, ai sensi dell’art. 1243 c.c. (in applicazione del principio enunciato, la Corte, cassando la pronuncia impugnata, ha prescritto alla Corte d’appello in sede di rinvio: di valutare le domande restitutorie con riguardo, rispettivamente, alla somma originariamente investita ed alle cedole ed ai titoli oggetto dell’investimento; di verificare se i titoli fossero ancora nella disponibilità degli investitori; di verificare la sussistenza dei presupposti della compensazione nei limiti della coesistenza dei crediti; di statuire sulla domanda risarcitoria con riguardo al danno eventualmente residuato agli investitori dopo aver proceduto alle restituzioni dovute.)

5.3. Fattispecie particolari.

Merita di essere illustrata, per la peculiarietà della vicenda esaminata ed anche della soluzione offerta, Sez. 1, n. 25843/2019, Guido, Rv. 655626-01, relativa a contratti di borsa effettuati tramite il servizio di trading on line prestato da un istituto di credito.

Secondo la Corte, la banca che, nel gestire la piattaforma, proceda alla vendita coattiva delle azioni acquistate dal cliente in una operazione long overnight (cd. acquisto allo scoperto), senza il raggiungimento del prezzo fissato ai fini dello stop loss, è tenuta a risarcire il danno cagionato al cliente, costituito dalla differenza tra il prezzo di acquisto e il minor prezzo di rivendita dei titoli, da liquidarsi equitativamente, tenendo presente, al massimo, il prezzo più alto ottenuto dalle azioni nel periodo compreso tra il momento della vendita coattiva e quello di stop loss, poi verificatosi, senza che assuma rilievo, ai fini dell’esclusione del danno, il fatto che il cliente, prima della vendita coattiva, non avesse rivenduto i titoli, nonostante il raggiungimento di un valore anche maggiore del prezzo di acquisto, perché tale condotta non costituisce un elemento dotato di gravità ed univocità ex art. 2729 c.c., dovendo la valutazione presuntiva del comportamento dell’investitore tenere conto del complessivo andamento dei titoli (la S.C. ha enunciato il principio in un caso in cui la vendita coattiva era stata eseguita dopo che, nel mercato di riferimento, si era verificato uno scambio ad un prezzo inferiore al prezzo soglia, che poi era stato annullato, ma la banca non aveva provveduto ad annullare la vendita effettuata di conseguenza né a riacquistare i titoli venduti).

6. L’offerta al pubblico di prodotti finanziari.

Com’e noto, tale attività si sostanzia in un appello al pubblico risparmio per sollecitare la sottoscrizione di prodotti finanziari di nuova emissione (offerta pubblica di sottoscrizione) o l’acquisto di prodotti finanziari già emessi (offerta pubblica di vendita). Salvo i casi di inapplicabilità e di esenzione, previsti dalla vigente normativa, l’offerta al pubblico non può essere eseguita se non previa pubblicazione di un prospetto informativo da sottoporsi preventivamente all’approvazione dell’autorità competente (in Italia, la Consob).

Ai sensi dell’art. 34 decies , comma 1, lett. a), reg. Consob n. 11971 del 1999 (cd. Regolamento emittenti della Consob), prima della pubblicazione del prospetto l’offerente, l’emittente e il responsabile del collocamento possono tuttavia procedere, direttamente o indirettamente, alla diffusione di notizie, allo svolgimento di indagini di mercato e alla raccolta di intenzioni di acquisto attinenti all’offerta al pubblico purché «le informazioni diffuse siano coerenti con quelle contenute nel prospetto».

La Corte di cassazione, nell’anno in rassegna, si è pronunciata proprio con riferimento a tale disposizione.

In primo luogo (Sez. 2, n. 08047/2019, Cosentino, Rv. 653484-03), ha affermato che l’art. 34 decies del Regolamento emittenti della Consob rappresenta l’esatta trasposizione, nell’ordinamento nazionale, della norma dettata dall’art. 15, comma 4, della Direttiva 2003/71/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 4 novembre 2003 (cd. Direttiva “Prospetto”) e, pertanto, non si pone in contrasto con il diritto dell’Unione europea.

In secondo luogo (Sez. 2, n. 08047/2019, Cosentino, Rv. 653484-03), ha precisato che, in materia di offerta al pubblico di strumenti finanziari, la nozione di “coerenza” tra le informazioni diffuse e quelle riportate nel prospetto informativo successivamente pubblicato, di cui all’art. 34 decies, lett. a), del menzionato Regolamento, ha natura elastica (essendo ascrivibile alla tipologia delle clausole generali) e, nell’esprimere il relativo giudizio di valore necessario ad integrare il parametro generale contenuto nella norma, il giudice deve provvedere all’interpretazione della stessa mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza comune, sia di principi che la disposizione implicitamente richiama, dando concretezza a quella parte mobile della medesima che il legislatore ha voluto tale per adeguarla ad un dato contesto storico-sociale, ovvero a determinate situazioni non esattamente ed efficacemente specificabili a priori. Da ciò consegue che il suddetto giudizio è censurabile in sede di legittimità, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., quando esso si ponga in contrasto con i principi dell’ordinamento e con quegli standard valutativi esistenti nella realtà sociale che concorrono, con i menzionati principi, a comporre il diritto vivente (nella specie, la S.C. ha statuito che doveva ritenersi non coerente l’indicazione all’investitore, contenuta nelle notizie diffuse al pubblico, del 30 giugno 2030 quale data di scadenza attesa dell’investimento, mentre nel prospetto informativo erano stati poi indicati il 31 dicembre 2030 quale scadenza attesa ed il 30 giugno 2040 quale scadenza finale).

7. I fondi comuni d’investimento.

Nel corso del 2019, la Corte di cassazione si è anche pronunciata sulla natura giuridica di tali prodotti finanziari, conformandosi a quanto in precedenza più volte affermato.

In particolare, Sez. 1, n. 12062/2019, Terrusi, Rv. 653911-01, in una fattispecie relativa a un fondo immobiliare chiuso, ha ribadito che i fondi comuni d’investimento, disciplinati dal TUF, sono privi di un’autonoma soggettività giuridica e costituiscono patrimoni separati della società di gestione del risparmio, aggiungendo che, pertanto, in caso di acquisto nell’interesse del fondo, l’immobile che ne è oggetto deve essere intestato alla società promotrice o di gestione la quale ne ha la titolarità formale ed è legittimata ad agire in giudizio per far accertare i diritti di pertinenza del patrimonio separato in cui il fondo si sostanzia (conf. da ultimo, Sez. 1, n. 16605/2010, Rordorf, Rv. 614460-01).

È inoltre sufficiente richiamare Sez. 1, n. 14325/2019, Amatore, Rv. 653889-01, ove la S.C. ha affermato che i certificati nominativi di partecipazione ai fondi comuni di investimento posseggono la natura giuridica di titoli di credito, rinviando per il resto a quanto supra illustrato.

  • liquidazione di società
  • liquidazione dei beni
  • diritto di prelazione
  • fallimento

CAPITOLO XVI

IL DIRITTO DELLE PROCEDURE CONCORSUALI.

(di Salvatore Leuzzi, Angelo Napolitano )

Sommario

1 I presupposti del fallimento. - 1.1 Il procedimento prefallimentare. - 1.2 La sentenza di fallimento ed il suo reclamo. - 2 Gli organi della procedura. - 2.1 I reclami endofallimentari. - 3 Le revocatorie in generale. - 3.1 Revocatoria ordinaria e fallimentare. La revocatoria dei pagamenti. - 4 I rapporti pendenti. - 5 La formazione dello stato passivo. - 5.1 Prove documentali e data certa. - 5.2 Prelazione e fallimento. - 5.3 Prededuzione e fallimento. - 6 Le opposizioni allo stato passivo. - 7 La liquidazione dell’attivo e il riparto. - 8 La chiusura del fallimento e l’esdebitazione. - 9 Il concordato fallimentare. - 10 Il concordato preventivo e l’accordo di ristrutturazione. - 11 La liquidazione coatta amministrativa e l’amministrazione straordinaria. - 12 Il sovraindebitamento.

1. I presupposti del fallimento.

Al fine di applicare le discipline delle crisi d’impresa, l’ordinamento giuridico rende necessaria l’individuazione di un soggetto passivo della procedura.

Si tratta di una necessità che deriva dal fatto che l’intero sistema delle procedure concorsuali è volto ad attuare la garanzia patrimoniale del debitore nelle ipotesi di crisi dell’impresa. Si rende, pertanto, necessario, da un lato, individuare un patrimonio destinato alla risoluzione della crisi, dall’altro collegare tale patrimonio al soggetto che ne è titolare (persona fisica, una società o un altro ente di diversa natura), le cui caratteristiche e qualificazioni giuridiche contribuiscono in particolar modo a definire e delimitare l’ambito di applicazione delle procedure concorsuali.

Il fenomeno regolato, dunque, è quello della crisi d’impresa, ma la tecnica legislativa passa attraverso l’individuazione dell’imprenditore in crisi, quale soggetto cui vengono applicate le discipline delle procedure concorsuali.

L’art. 1 della legge fallimentare assoggetta alle disposizioni sul fallimento gli imprenditori che esercitano un’attività commerciale, con esclusione degli enti pubblici.

Il primo presupposto soggettivo, dunque, per l’applicazione delle norme sul fallimento è quello dato dalla qualità di imprenditore commerciale.

Sez. 1, n. 01466/2019, Falabella, Rv. 652407-02 ha ritenuto irrilevante, ai fini dell’individuazione di un’organizzazione d’impresa, ai fini della dichiarazione di fallimento, la quantità di mezzi predisposti, decidendo, con riferimento ad un mediatore professionale, che gli elementi identificativi dell’impresa commerciale di cui all’art. 2082 c.c. sono costituiti dalla professionalità e dall’organizzazione, intesa come svolgimento abituale e continuo dell’attività nonché sistematica aggregazione di mezzi materiali ed immateriali, al di là della scarsità dei mezzi predisposti, soprattutto quando l’attività non necessiti di mezzi materiali e personali rilevanti.

Se la qualità di imprenditore commerciale è il requisito soggettivo imprescindibile per poter assoggettare il patrimonio di cui egli sia titolare al fallimento, lo stato di insolvenza nel quale egli versa costituisce, d’altro canto, la condizione oggettiva affinché il fallimento possa essere dichiarato.

Secondo Sez. 1, n. 06978/2019, Pazzi, Rv. 653107-01, ai fini della dichiarazione di fallimento, costituiscono indizi esteriori dell’insolvenza gli elementi sintomatici che esprimono lo stato di impotenza funzionale e non transitoria dell’impresa a soddisfare le proprie obbligazioni, secondo una tipicità – desumibile dai dati dell’esperienza economica – rivelatrice dell’incapacità di produrre beni o servizi con margine di redditività da destinare alla copertura delle esigenze dell’impresa medesima (prima fra tutte l’estinzione dei debiti), nonché dell’impossibilità di essa di ricorrere al credito a condizioni normali, senza rovinose compromissioni del patrimonio.

Inoltre, per Sez. 1, n. 09297/2019, Falabella, Rv. 653699-01, lo stato di insolvenza prescinde dal numero dei creditori, essendo ben possibile che anche un solo inadempimento assurga ad indice di tale situazione oggettiva; ciò che rileva nell’ambito della disciplina concorsuale è, dunque, l’incapacità di adempiere dell’imprenditore intesa come condizione oggettiva e strutturale della sua organizzazione.

Nell’ipotesi in cui ad essere insolvente sia un imprenditore individuale, che non è titolare di un patrimonio destinato all’esercizio dell’impresa, tale condizione oggettiva strutturale della sua organizzazione si riflette anche sui suoi debiti privati, che non hanno la loro radice nell’esercizio dell’impresa; al riguardo Sez. 1, n. 01466/2019, Falabella, Rv. 652407-01, chiarisce che l’ordinamento non distingue tra i debiti di un imprenditore individuale, in ragione della natura civile o commerciale di essi, sicché anche i debiti personali possono determinarne il presupposto per la dichiarazione di fallimento.

L’art. 1 della legge fallimentare e l’art. 2221 c.c. delimitano l’ambito di applicazione del fallimento senza menzionare esplicitamente l’impresa agricola, ma affermando in positivo l’assoggettamento a fallimento delle imprese commerciali. Ne consegue che l’impresa agricola, per lo più contrapposta all’impresa commerciale sul piano della tipologia di attività svolta, viene esclusa solo implicitamente dal fallimento.

Pertanto, secondo l’interpretazione comune, tutte le ipotesi rientranti nella nozione di impresa agricola, come definita ai sensi dell’art. 2135 c.c., risultano estranee all’ambito di applicazione delle procedure concorsuali, mentre ne sono incluse tutte le altre imprese, come tali definite commerciali, anche al di là della diretta riconducibilità alle tipologie di attività elencate nell’art. 2195 c.c.

Tuttavia, per verificare la natura di un’impresa, e dunque l’assoggettabilità a fallimento del soggetto che la esercita, occorre avere riguardo non alla forma in cui è costituito l’imprenditore, ma all’effettivo oggetto dell’attività imprenditoriale esercitata.

Ne consegue che è soggetta a fallimento l’impresa agricola costituita in forma societaria, quando risulti accertato in sede di merito l’esercizio in concreto di attività commerciale, in misura prevalente sull’attività agricola contemplata in via esclusiva dall’oggetto sociale, nonostante la sopravvenuta cessazione dell’attività commerciale al momento del deposito della domanda di fallimento nei suoi confronti (Sez. 1, n. 05342/2019, Vella, Rv. 653094-01; già in precedenza, Sez. 1, n. 05235/2019, Caiazzo, Rv. 653093-01).

Ancor più precisamente, Sez. 1, n. 28984/2019, Ferro, R. Rv. 655952 - 01, ribadisce che l’esenzione dell’imprenditore agricolo dal fallimento viene meno ove non sussista, di fatto, il collegamento funzionale della sua attività con la terra, intesa come fattore produttivo, o quando le attività connesse di cui all’art. 2135, comma 3, c.c. assumano rilievo decisamente prevalente, sproporzionato rispetto a quelle di coltivazione, allevamento e silvicoltura, gravando su chi invoca l’esenzione, sotto il profilo della connessione tra la svolta attività di trasformazione e commercializzazione dei prodotti ortofrutticoli e quella tipica di coltivazione ex art. 2135, comma 1, c.c., il corrispondente onere probatorio.

Analogamente, Sez. 1, n. 03202/2019, Dolmetta, Rv. 653128-01, ricorda che ai fini dell’assoggettabilità al fallimento di una società cooperativa, l’indagine circa la natura imprenditoriale della sua attività può essere concentrata in via esclusiva sui dati di bilancio, qualora dagli stessi emerga una sproporzione tra ricavi e costi di dimensioni tali da essere oggettivamente incompatibile con la prevalenza di uno scopo mutualistico.

Proprio con riferimento allo scopo mutualistico, Sez. 1, n. 25478/2019, Amatore, Rv. 655625-01, precisa che lo scopo di lucro (c.d. lucro soggettivo) non è elemento essenziale per il riconoscimento della qualità di imprenditore commerciale, essendo individuabile l’attività di impresa tutte le volte in cui sussista una obiettiva economicità dell’attività esercitata, intesa quale proporzionalità tra costi e ricavi (cd. lucro oggettivo), requisito quest’ultimo che, non essendo inconciliabile con il fine mutualistico, ben può essere presente in una società cooperativa, la quale pertanto, ove svolga attività commerciale, in caso di insolvenza, può essere assoggettata a fallimento, in applicazione dell’art. 2545 terdecies c.c.

L’art. 1, comma 1, della legge fallimentare, invece, menziona espressamente gli enti pubblici, per escluderli espressamente dall’assoggettabilità a fallimento.

Per “enti pubblici” devono intendersi non solo gli enti pubblici economici, soggetti all’obbligo di iscrizione nel registro delle imprese, ai sensi dell’art. 2201 c.c., ma anche, a maggior ragione, tutti quegli enti pubblici che svolgono, sebbene in via non prevalente, un’attività economica, commerciale o non commerciale.

Rientrano nell’esclusione dal fallimento anche le cosiddette “imprese-organo”, cioè quelle imprese esercitate dallo Stato o dagli enti pubblici territoriali mediante complessi aziendali la cui titolarità è posta direttamente in capo allo Stato o all’ente pubblico territoriale, senza che ci sia un soggetto giuridico intermedio al quale imputare l’attività economica.

Il fenomeno delle imprese-organo era rilevante fino alla stagione delle privatizzazioni degli anni ’90: nel relativo genus, infatti, rientravano le aziende municipalizzate degli enti locali e le aziende autonome statali.

Di converso, le società di diritto privato derivanti dalla “trasformazione” di imprese-organo o di enti pubblici economici, in cui l’ente pubblico ha conservato proprie partecipazioni, sono comunque assoggettate a fallimento, a prescindere dalla misura della partecipazione.

Sez. 1, n. 05346/2019, Terrusi, Rv. 653095-01, ha chiarito che la sussistenza di una partecipazione pubblica, a partire, dalla sua dimensione, in società di capitali, non esclude che esse siano, comunque, soggetti di diritto privato, agli effetti dell’art. 1 della legge fallimentare. La posizione dell’ente pubblico all’interno della compagine sociale, infatti, è esclusivamente quella di un socio in base al capitale conferito, senza che gli sia consentito di influire sul funzionamento della società avvalendosi di poteri pubblicistici. D’altra parte, la mera partecipazione pubblica ad una società di capitali non implica di per sé che l’ente pubblico partecipante eserciti un controllo analogo su di essa, che comunque resta un soggetto con una sua soggettività giuridico-formale distinta rispetto a quella della P.A.

In linea di principio, non sussiste alcun ostacolo all’apertura delle procedure concorsuali, fino a che permane la responsabilità patrimoniale per le obbligazioni contratte nell’esercizio dell’impresa.

Per quanto riguarda le società, la cessazione dell’attività d’impresa non determina immediatamente il venir meno dell’esposizione alle procedure concorsuali.

È fissato un limite temporale decorrente dalla cancellazione della società dal registro delle imprese, in armonia con i dati normativi introdotti con la riforma delle società di capitali (art. 2495, comma secondo, c.c.) e con l’orientamento giurisprudenziale, secondo cui la cancellazione determina immediatamente l’estinzione della società, salvi i casi in cui questa sia richiesta ed effettuata al di fuori delle ipotesi previste dalla legge, in frode ai creditori, e, pertanto, fatta oggetto, a sua volta, di cancellazione, ai sensi dell’art. 2191 c.c.

Le società, pertanto, possono essere dichiarate fallite entro un anno dalla loro cancellazione dal registro delle imprese, se l’insolvenza si è manifestata anteriormente alla cancellazione o entro l’anno successivo (art. 10, comma primo, l. fall.).

Tale norma ha portata generale. Sez. 1, n. 16511/2019, Amatore, Rv. 654278-01, ricorda allora che la trasformazione eterogenea di una società di capitali in comunione di azienda, ai sensi dell’art. 2500 septies c.c., non preclude la dichiarazione di fallimento della medesima società entro un anno dalla sua cancellazione dal registro delle imprese, trattandosi pur sempre di un fenomeno successorio tra soggetti distinti.

Fisiologicamente, la cancellazione dal registro delle imprese è effettuata in seguito alla conclusione del procedimento di liquidazione.

Tuttavia, se, entro il termine di cui all’art. 10, comma secondo, l.fall., si manifesta un nuovo debito, secondo Sez. 1, n. 01465/2019, Falabella, Rv. 652406-01, il fallimento può essere dichiarato solo quando al detto debito non si contrapponga l’emersione di una situazione creditoria idonea ad assicurarne il soddisfacimento, con la precisazione che tale situazione creditoria non può essere individuata con il diritto di manleva che il debitore vanti nei confronti di un terzo, in quanto esso sorge solo in seguito all’adempimento dell’obbligazione posta a base della richiesta di fallimento.

Anche l’estensione delle procedure agli ex soci illimitatamente responsabili è soggetta a limiti di tempo.

Siffatti limiti, previsti dall’art. 147, comma secondo, l.fall., che regola il fallimento dell’ex socio illimitatamente responsabile (socio receduto, escluso, defunto, socio che ha ceduto la partecipazione sociale, socio illimitatamente responsabile di società di persone che si è trasformata in società di capitali o è stata incorporata da società di capitali etc.), vanno considerati espressione di un principio generale volto a limitare l’ambito temporale di estensione delle procedure concorsuali all’ex socio illimitatamente responsabile.

Tali limiti temporali non valgono né in caso di società irregolari, visto che la cancellazione, dalla quale decorre il termine per l’assoggettamento a fallimento, presuppone che la società sia stata iscritta nel registro delle imprese; né in caso di società di fatto, che è una fattispecie che si verifica quando non vi sia alcuna formalizzazione del rapporto sociale, e che, dunque, non può che dar vita ad una società irregolare.

Ne consegue che il termine annuale entro il quale la società può essere assoggettata a fallimento non può che decorrere dalla data di cessazione effettiva dell’attività.

In tema di estensione, infine, Sez. 1, n. 27541/2019, Genovese, Rv. 655773 – 01, ha stabilito che il fallimento del titolare dell’impresa familiare può essere esteso agli altri componenti della stessa qualora l’esistenza del contratto sociale sia desunta, oltre che da prove dirette, anche da manifestazioni esteriori che, pur giustificabili alla luce del rapporto di coniugio o di parentela, per il loro carattere di sistematicità e concludenza sono rivelatrici delle componenti del rapporto societario, tra le quali particolare significatività può essere attribuita ai rapporti di finanziamento e di garanzia intercorrenti tra i componenti del sodalizio.

1.1. Il procedimento prefallimentare.

La procedura di fallimento si apre a seguito della sentenza pronunciata dal tribunale del luogo in cui è situata la sede principale dell’impresa, ove cioè è concretamente svolta l’amministrazione e la gestione della relativa attività: il che, se da un lato si spiega alla luce della circostanza che il tribunale non si limita a dichiarare il fallimento, ma risulta “investito dell’intera procedura fallimentare” e assume il ruolo di “organo” di una procedura che, seppure al fine di soddisfare i creditori, implica comunque una “gestione” dell’impresa; dall’altro a sua volta giustifica il carattere “funzionale”, e per ciò inderogabile, della relativa competenza.

Sez. 1, n. 16116/2019, Di Marzio, Rv. 654533-01 ha ribadito il costante orientamento della S.C., a tenore del quale per individuare il tribunale competente a dichiarare il fallimento, ai sensi dell’art. 9, comma primo, l.fall., la presunzione iuris tantum di coincidenza della sede effettiva con la sede legale è superabile attraverso prove univoche che dimostrino che il centro direzionale dell’attività dell’impresa è altrove e che la sede legale ha solo carattere formale o fittizio, rilevando a tal fine, in particolare, la mancanza di una concreta struttura operativa presso la sede legale, sicché debba riconoscersi che detta sede sia solo un mero recapito.

Su un piano schiettamente processuale, Sez. 1, n. 20666/2019, Amatore, Rv. 654883-01, ha altresì chiarito che il provvedimento che declina la competenza del tribunale sull’istanza di fallimento ex art. 9 bis l.fall. deve essere comunicato alle parti costituite, secondo i principi generali in tema di provvedimenti del giudice.

Inoltre, mutando un precedente orientamento della prima sezione civile (Sez. 6-1, n. 30748/2017, Nazzicone, Rv. 647331-01), la medesima pronuncia (Rv. 654883-02), afferma ora che è ammissibile il regolamento necessario di competenza avverso l’ordinanza che decide sulla competenza, ai sensi dell’art. 9 bis l.fall., con la possibilità, durante la sospensione del processo ex art. 48 c.p.c., che il creditore istante ovvero il Pubblico Ministero invochino l’adozione di misure cautelari sul patrimonio del fallendo, ai sensi dell’art. 15 l.fall.

Ne consegue che le parti del giudizio prefallimentare possono subire un pregiudizio nel caso in cui sia stata omessa la comunicazione dell’ordinanza che declina la competenza, trovandosi nella condizione di non poter promuovere il regolamento nel termine fissato dall’art. 47 c.p.c.: spetta al giudice del merito apprezzare nel caso concreto l’esistenza di siffatto pregiudizio, anche tenendo conto dell’interesse delle parti alla proposizione del regolamento, che chiaramente difetta nel soggetto che abbia ottenuto dal primo giudice adito esattamente l’accoglimento dell’eccezione di incompetenza proposta (Rv. 654883-03).

La competenza per territorio del tribunale, in materia di dichiarazione di fallimento, è territoriale ed inderogabile, e la sua mancanza non può essere dedotta per la prima volta in sede di reclamo.

Infatti, malgrado il reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento sia caratterizzato da un effetto devolutivo pieno, tale effetto devolutivo non può estendersi fino al punto da rimettere in discussione per la prima volta la competenza ritenuta sussistente nel procedimento prefallimentare di primo grado, perché una tale conclusione sarebbe confliggente con il principio della ragionevole durata dei giudizi. Inoltre, la barriera temporale introdotta dall’art. 38 c.p.c., nel testo successivo all’entrata in vigore della legge n. 69 del 2009, è applicabile non soltanto ai processi di cognizione ordinaria, ma anche ai processi di tipo camerale, qualora questi siano utilizzati dal legislatore per la tutela giurisdizionale dei diritti (Sez. 1, n. 20661/2019, Campese, Rv. 656122-01; vedi anche Sez., 6-1, n. 28711/2019, Di Virgilio, Rv. 656290 – 01).

Il tribunale, almeno in via di principio, può dichiarare il fallimento solo su istanza di parte, e segnatamente a seguito del ricorso del debitore o di uno o più creditori, ovvero su richiesta del pubblico ministero e non anche d’ufficio.

Con riferimento, in particolare, alla legittimazione del Pubblico Ministero, Sez. 1, n. 00646/2019, Campese, Rv. 652400-01, ha stabilito che la parte pubblica è legittimata a richiedere il fallimento, ai sensi dell’art. 7, n. 1, l. fall., non solo qualora apprenda la notitia decoctionis da un procedimento penale pendente, ma anche ogniqualvolta la decozione emerga dalle condotte specificamente indicate nella norma indicata, le quali non sono necessariamente esemplificative di fatti costituenti reato e non presuppongono come indefettibile la pendenza di un procedimento penale.

Il Pubblico Ministero, inoltre, secondo Sez. 1, n. 27200/2019, Pazzi, Rv. 655352-01, è legittimato, in seguito alla comunicazione della domanda di concordato preventivo con riserva, a lui fatta ai sensi dell’art. 161, comma quinto, l. fall., ad avanzare una richiesta di fallimento del debitore, in ragione della ritenuta sua insolvenza, anche qualora vi sia rinuncia alla domanda di concordato da parte dell’imprenditore, prima che il tribunale dichiari l’inammissibilità di tale domanda.

Inoltre, con riferimento alla domanda avanzata dal medesimo debitore, ex art. 6 l.fall., Sez. 1, n. 10523/2019, Falabella, Rv. 653470-01, ricorda che nel caso di società di capitali posta in liquidazione, la legittimazione spetta direttamente al suo liquidatore, il quale è investito, ai sensi dell’art. 2489, comma 1, c.c., del potere di compiere ogni atto utile per la liquidazione della società, senza che detta legittimazione possa essere avocata dall’assemblea o dai singoli soci.

L’ipotesi di gran lunga prevalente, oltre che sistematicamente centrale, è rappresentata dal ricorso dei creditori per ottenere la dichiarazione di fallimento dell’imprenditore loro debitore.

Sez. 1, n. 13850/2019, Vella, Rv. 65404401, si è occupata della legittimazione all’istanza di fallimento del creditore estraneo all’accordo di ristrutturazione dei debiti, statuendo che, quand’anche l’accordo sia stato omologato, il terzo può fare istanza di fallimento, ai sensi dell’art. 6 l. fall., a prescindere dall’intervenuta risoluzione dell’accordo omologato, in quanto si tratta di soggetto non vincolato dagli effetti del provvedimento di omologazione.

Alla presentazione del ricorso di fallimento segue una fase istruttoria effettuata dal tribunale e diretta a verificare, oltre alla sussistenza della giurisdizione italiana, come pure, se del caso, la legittimazione del creditore istante, essenzialmente: i) la propria competenza; ii) i presupposti sostanziali per la dichiarazione di fallimento, quali: la natura di imprenditore commerciale in capo al debitore; la sussistenza dello stato di insolvenza in capo al debitore; la sussistenza di almeno uno dei requisiti dimensionali di cui all’art. 1, comma secondo, l.fall.; iii) il mancato decorso dell’anno dalla cancellazione dal registro delle imprese se l’insolvenza si è manifestata prima della cancellazione o entro l’anno successivo; iv) la ricorrenza di un’ulteriore condizione costituita dall’esistenza di debiti scaduti e non pagati per un importo complessivo pari ad almeno trentamila euro.

Così, Sez. 1, n. 16117/2019, Di Marzio, Rv. 654534-01, afferma che anche l’imprenditore il quale presenti istanza di autofallimento, oltre a provare lo stato di insolvenza, ha l’onere, ai sensi dell’art. 14 l. fall., di dimostrare la sussistenza di almeno uno dei requisiti dimensionali normativamente previsti, ai fini della fallibilità, dall’art. 1 l.fall., con riferimento all’arco temporale degli ultimi tre esercizi antecedenti la data di deposito dell’istanza.

Con riferimento all’istruttoria prefallimentare, Sez. 1, n. 06991/2019, Dolmetta, Rv. 65310901, ha ribadito che i poteri di indagine officiosa previsti dall’art. 15 l.fall. sono finalizzati a colmare mere lacune probatorie dell’interessato e sono limitati ai fatti oggetto di specifiche allegazioni difensive delle parti.

E ancora, per Sez. 1, n. 05234/2019, Caiazzo, Rv. 652807-01, se dall’istruttoria fallimentare emerga l’esistenza di soci non risultanti dall’atto costitutivo, o da altro scritto comprovante l’acquisto della partecipazione, è comunque possibile estendere nei loro confronti la dichiarazione di fallimento, senza necessità che venga presentata l’apposita istanza di estensione di cui all’art. 147, comma quarto, l. fall.

L’onere della prova della insussistenza dei requisiti dimensionali necessari ai fini della dichiarazione di fallimento spetta al debitore: quest’ultimo è tenuto a depositare i bilanci degli ultimi tre esercizi, ai sensi dell’art. 15, comma 4, l. fall., ed essi costituiscono mezzo di prova privilegiato, in quanto idonei a chiarire la situazione patrimoniale e finanziaria dell’impresa, senza assurgere tuttavia a prova legale, sicché in mancanza dei detti bilanci il debitore può dimostrare la sua non fallibilità con strumenti probatori alternativi (Sez. 1, n. 24138/2019, Pazzi, Rv. 655457-01); d’altra parte, Sez. 1, n. 30516/2018, Pazzi, Rv. 65158501, aveva già affermato che il giudice deve valutare i dati contenuti nei detti bilanci secondo il suo prudente apprezzamento, ex art. 116 c.p.c., sicché, se reputati motivatamente inattendibili, l’imprenditore rimane onerato della prova della sussistenza dei requisiti della non fallibilità.

Nel caso in cui si succedano, con riferimento allo stesso imprenditore, più procedimenti prefallimentari, e si giunga ad una dichiarazione di fallimento dopo che una precedente sentenza dichiarativa di fallimento sia stata revocata, l’accertamento dello stato di insolvenza va compiuto con riferimento alla situazione esistente alla data della nuova decisione e non già a quella di presentazione dell’originaria istanza da parte dei creditori o del Pubblico Ministero (Sez. 1, n. 27200/2019, Pazzi, Rv. 65535202).

La sentenza dichiarativa di fallimento produce rilevanti effetti processuali sui giudizi in corso in cui è parte il debitore dichiarato fallito.

In particolare, la legge dispone, in via generale, che l’apertura del fallimento determina l’interruzione del processo, il quale potrà essere riassunto su iniziativa del curatore o della controparte: l’interruzione avviene automaticamente senza che l’evento interruttivo debba essere dichiarato in udienza dal difensore del fallito (art. 300 c.p.c.); non possono inoltre essere iniziate o proseguite le azioni esecutive o cautelari sui beni compresi nel fallimento, ancorché per crediti maturati nel corso dello stesso (art. 51 l.fall.), fatte salve le ipotesi espressamente stabilite dalla legge (art. 41, comma 2, T.U.B.).

Il termine per la riassunzione di cui all’art. 305 c.p.c., come ricorda Sez. 1, n. 02658/2019, Di Marzio, Rv. 652546-01, decorre dalla dichiarazione o notificazione dell’evento interruttivo secondo la previsione dell’art. 300 c.p.c., ovvero, se anteriore, dalla conoscenza legale di detto evento procurata dal curatore del fallimento alle parti interessate.

Ne consegue che il termine per la riassunzione del giudizio a carico della parte non colpita dall’evento interruttivo, la quale abbia preso parte al procedimento fallimentare presentando domanda di ammissione al passivo, decorre dal momento in cui essa abbia avuto conoscenza effettiva del procedimento concorsuale, identificabile a sua volta con il momento in cui sia stata depositata o inviata la domanda di ammissione allo stato passivo (Sez. 5, n. 15996/2019, D’Aquino, Rv. 654159-01).

Se sono pendenti procedure esecutive individuali, il curatore può subentrare al creditore che le ha promosse nel rispetto delle regole dettate dal codice di procedura civile.

Tuttavia, gli effetti del subentro devono ricollegarsi al pignoramento.

Ne consegue, come insegna Sez. 1, n. 12061/2019, Terrusi, Rv. 653882-01, che se un creditore concorsuale abbia eseguito un sequestro conservativo su un immobile del debitore, successivamente ceduto ad un terzo con un acquisto trascritto prima della conversione del sequestro in pignoramento, l’acquisto del terzo è opponibile al successivo fallimento del debitore dante causa, in quanto il curatore può giovarsi degli effetti sostanziali e processuali del solo pignoramento, ex art. 2913 c.c., ma non sostituirsi nelle posizioni giuridiche processuali strettamente personali del creditore istante, cui solo giova il sequestro da lui eseguito.

Sempre con riferimento ai rapporti tra procedimenti esecutivi e fallimento, Sez. 2, n. 22800/2019, Gorjan, Rv. 65522501, ha chiarito che in tema di espropriazione mobiliare, qualora la vendita delegata all’Istituto Vendite Giudiziarie non sia stata eseguita, per la declaratoria di improcedibilità della procedura esecutiva conseguente all’intervenuto fallimento del debitore, ex art. 51 l. fall. (e, quindi, per cause non dipendenti dall’istituto delegato), il giudice dell’esecuzione, nell’individuare il soggetto da onerare della liquidazione del compenso dovuto all’ausiliario, ex art. 33 del d.m. n. 109 del 1997, non può derogare ai principi generali posti dall’art. 8 del d.P.R. n. 115 del 2002 e dall’art. 95 c.p.c. Ne consegue che le competenze dell’ausiliario vanno poste a carico del creditore procedente e, cioè, del soggetto tenuto ad anticipare le spese per gli atti del procedimento da lui avviato, in quanto il vincolo del pignoramento permane sino a che i beni non siano stati venduti nell’ambito della procedura fallimentare o questa non sia altrimenti chiusa, con la conseguenza che la procedura esecutiva, esistendo ancora i beni, può nuovamente liberamente svolgersi.

La natura della procedura fallimentare come procedimento espropriativo concorsuale fa sì che la sospensione dei procedimenti esecutivi, prevista dall’art. 20, comma 4, della legge n. 44 del 1999, in favore delle vittime di richieste estorsive e dell’usura, non si applica al procedimento cd. “prefallimentare”, che non ha natura esecutiva, ma di cognizione. Tale sospensione, per converso, può operare nella fase a vocazione liquidatoria inaugurata dalla sentenza dichiarativa di fallimento (Sez. 6-1, n. 22787/2019, Pazzi, Rv. 655415-01).

Le interferenze tra fallimento e processo esecutivo possono ripercuotersi anche sui giudizi di opposizione all’esecuzione.

Infatti, Sez. 3, n. 22166/2019, Rossetti, Rv. 654938-01, afferma che nel caso di opposizione di terzo ex art. 619 c.p.c., qualora, nel corso del giudizio, il debitore esecutato sia dichiarato fallito, il processo deve essere interrotto, ai sensi dell’art. 43, comma terzo, l. fall., e la pretesa dell’opponente deve essere accertata in sede fallimentare. L’eventuale riassunzione del processo nei confronti della curatela potrà condurre alla pronuncia di una sentenza meramente dichiarativa e non di condanna, inopponibile al fallimento ed idonea esclusivamente a costituire un titolo da fare valere verso il fallito ove dovesse tornare “in bonis” o se il bene oggetto del contendere dovesse restare invenduto alla chiusura della procedura concorsuale.

Se, dunque, in base al citato art. 43 l.fall., la regola è quella dell’interruzione del processo nel caso in cui una parte sia dichiarata fallita, è altrettanto vero che vi sono casi in cui l’intervenuto fallimento può provocare il venir meno dell’interesse ad agire in capo all’attore in bonis.

Così, in materia di impugnazione di delibere assembleari della società, Sez. 1, n. 17117/2019, Nazzicone, Rv. 654282-01, afferma che il sopravvenuto fallimento di quest’ultima comporta il venir meno dell’interesse ad agire per ottenere una pronuncia di annullamento dell’atto impugnato, quando l’istante non deduca ed argomenti il suo perdurante interesse, avuto riguardo alle utilità attese dopo la chiusura della procedura fallimentare.

L’interesse ad agire, tuttavia, per Sez. 3, n. 14768/2019, Cricenti, Rv. 65409602, è senz’altro ravvisabile in capo alla parte appellante, condannata in primo grado in solido con altro soggetto al pagamento di una somma a titolo di risarcimento del danno: anche nel caso di fallimento, in corso di giudizio, del condebitore in solido, la parte in bonis, infatti, ha interesse alla prosecuzione del giudizio, chiaramente previa estensione del contraddittorio al curatore del fallito, fino alla sentenza definitiva di merito, allo scopo di ottenere l’accertamento della esclusiva responsabilità del condebitore fallito, ovvero di una diversa ripartizione della responsabilità in vista dell’azione di regresso.

La medesima decisione (Rv. 654096-01) afferma che nel caso in cui un soggetto, rimasto soccombente all’esito di un giudizio di condanna, sia dichiarato fallito nel corso del giudizio di impugnazione, l’azione proposta non è improcedibile, in quanto, a norma dell’art. 96 l.fall., il creditore, sulla base della sentenza impugnata, può insinuarsi al passivo con riserva, mentre il curatore, dal suo canto, può proseguire il giudizio di impugnazione.

Anche nell’ambito dell’opposizione all’esecuzione proposta dal terzo proprietario assoggettato all’espropriazione per debito altrui, secondo gli artt. 602 ss. c.p.c., essendovi un litisconsorzio necessario tra il terzo opponente e il debitore, si pone il problema dell’estensione del contraddittorio al debitore che sia dichiarato fallito nel corso del giudizio di opposizione promosso dal terzo.

Sez. 6-3, n. 04763/2019, Scrima, Rv. 653012-01, in proposito ha affermato che anche nel caso di fallimento del debitore, l’opposizione ex art. 615 c.p.c. promossa dal terzo assoggettato all’espropriazione deve essere notificata al debitore in proprio, per l’eventualità in cui egli ritorni, o sia ritornato, in bonis; tuttavia, deve ammettersi la legittimazione a stare in giudizio, in luogo del debitore fallito, del curatore, atteso l’interesse del terzo opponente a rendere opponibile il giudizio al fallimento allo scopo di poter esercitare, nelle forme dell’insinuazione al passivo, l’azione di regresso.

1.2. La sentenza di fallimento ed il suo reclamo.

Ove, all’esito dell’istruttoria prefallimentare, risulti accertata la sussistenza dei presupposti, soggettivi ed oggettivi, del fallimento, nonché il requisito di cui all’art. 15, comma nono, l.fall., relativo all’emersione di debiti scaduti e non pagati di ammontare non inferiore a trentamila euro, il tribunale, in camera di consiglio, dichiara con sentenza il fallimento del debitore.

Contro la sentenza dichiarativa di fallimento può essere proposto reclamo da parte di chi intenda contestare la sussistenza, al momento in cui è stato dichiarato il fallimento, dei presupposti, soggettivi o oggettivi, richiesti dalla legge.

Il principio è pacifico nella giurisprudenza della Suprema Corte: Sez. 1, n. 24424/2019, Dolmetta, Rv. 655431-01, afferma che in sede di impugnazione della sentenza dichiarativa di fallimento, l’accertamento dello stato di insolvenza va compiuto con riferimento alla data della dichiarazione di fallimento, ma può fondarsi anche su fatti diversi da quelli in base ai quali il fallimento è stato dichiarato, purché si tratti di fatti anteriori alla pronuncia, anche se conosciuti successivamente in sede di gravame.

Sez. 6-1, n. 04893/2019, Nazzicone, Rv. 653133-01, ricorda che, limitatamente ai procedimenti in cui trova applicazione la riforma di cui al d.lgs. n. 169 del 2007, che ha modificato l’art. 18 l. fall., ridenominando tale mezzo come “reclamo” in luogo del precedente “appello”, non operano i limiti previsti, in tema di appello, dagli artt. 342 e 345 c.p.c. Ne consegue che il debitore, benché non costituito innanzi al tribunale, può indicare in sede di reclamo i mezzi di prova di cui intende avvalersi, anche per la prima volta, al fine di dimostrare la sussistenza dei limiti dimensionali di cui all’art. 1, comma secondo, l.fall.

Ai sensi dell’art. 18 l. fall., la legittimazione alla proposizione del reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento spetta, oltre che al debitore, a “qualunque interessato”.

Anche l’amministratore di società di capitali, secondo Sez. 1, n. 7190/2019, Vella, Rv. 653110-01, è legittimato quale “interessato” iure proprio a proporre reclamo avverso la dichiarazione di fallimento della società, considerata l’ampia formula dell’art. 18 l.fall., essendo tale mezzo di impugnazione destinato a rimuovere gli effetti riflessi, individuabili nelle responsabilità civile e penale, che possono derivare a suo danno dal fallimento.

Con riferimento alle modalità e alle condizioni dell’intervento in sede di reclamo, Sez. 1, n. 13272/2019, Terrusi, Rv. 65377401, ha affermato che, ai sensi dell’art. 18, comma 9, l. fall., qualunque interessato può intervenire, entro il termine stabilito per la costituzione della parte resistente, anche soltanto “ad adiuvandum” nei confronti di quest’ultima, essendo sufficiente l’allegazione di un interesse concreto ed attuale in capo al terzo che interviene.

Il giudice del reclamo proposto avverso la sentenza dichiarativa di fallimento, secondo Sez. 1, n. 3861/2019, Pazzi, Rv. 652556-01, ove ravvisi l’inesistenza della notificazione del ricorso introduttivo depositato regolarmente in cancelleria, deve revocare il provvedimento impugnato e, in applicazione analogica dell’art. 354 c.p.c., rimettere la causa al primo giudice.

Sempre nell’ambito del procedimento di reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento, Sez. 1, n. 16122/2019, Pazzi, Rv. 654629-01, precisa che qualora l’unico creditore istante desista dalla domanda, occorre distinguere la desistenza dovuta al pagamento del credito da quella non accompagnata dall’estinzione dell’obbligazione: in questo secondo caso la desistenza, quale atto di natura meramente processuale rivolto, al pari della domanda iniziale, al giudice, che ne deve tenere conto ai fini della decisione, è inidonea a determinare la revoca della sentenza di fallimento, ove prodotta soltanto in sede di reclamo; al contrario, la desistenza conseguente all’estinzione dell’obbligazione fa venir meno la legittimazione del creditore istante al momento della dichiarazione di fallimento se il pagamento risulti avvenuto in epoca antecedente a questa, con atto di data certa ai sensi dell’art. 2704 c.c.

Inoltre, con riferimento al termine per proporre ricorso per cassazione contro la sentenza di rigetto del reclamo avverso la pronuncia dichiarativa di fallimento, Sez. 6-1, n. 23443/2019, Pazzi, Rv. 655506-01, ha chiarito che la notifica del testo integrale del provvedimento, effettuata, ai sensi dell’art. 18, comma tredicesimo, l.fall., dal cancelliere mediante posta elettronica certificata, ai sensi dell’art. 16, comma 4, del d.l. n. 179 del 2012, convertito con modificazioni dalla legge n. 221 del 2012, è idonea a far decorrere il termine breve per l’impugnazione in cassazione, ai sensi dell’art. 18, comma 14, l. fall., non ostandovi il nuovo testo dell’art. 133, comma secondo, c.p.c., come novellato dal d.l. n. 90 del 2014, convertito con modificazioni dalla l. n. 114 del 2014, secondo il quale la comunicazione del testo integrale della sentenza da parte del cancelliere non è idonea a far decorrere i termini brevi per le impugnazioni di cui all’art. 325 c.p.c., perché la norma del codice di rito trova applicazione solo nel caso di atto di impulso di controparte, ma non incide sulle norme derogatorie e speciali che ancorano la decorrenza del termine breve di impugnazione alla mera comunicazione di un provvedimento da parte della cancelleria.

Per converso, con riferimento al decreto con cui la corte di appello, ai sensi dell’art. 22, comma quarto, l. fall., dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 5 del 2006, accoglie il reclamo avverso il decreto di rigetto dell’istanza di fallimento, disponendo la trasmissione degli atti al tribunale per la dichiarazione di fallimento, secondo Sez. 1, n. 30202/2019, Pazzi, Rv. 656270 – 01, esso non è impugnabile con ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 111, comma settimo, Cost., difettando i requisiti della definitività e della decisorietà, in quanto l’incidenza sui diritti soggettivi delle parti coinvolte deriva dalla successiva dichiarazione di fallimento, di cui il provvedimento della corte di appello costituisce un momento del relativo complesso procedimento.

Quanto, infine, ai rapporti tra la domanda di concordato preventivo e l’istanza di fallimento, Sez. 1, n. 15094/2019, Pazzi, Rv. 654270-01 ha affermato che la contemporanea pendenza dei relativi procedimenti dà luogo ad un fenomeno di continenza, che impone la riunione dei relativi procedimenti ai sensi dell’art. 273 c.p.c.; tuttavia, l’omessa riunione non determina alcuna nullità, né impedisce la dichiarazione di fallimento, quando il tribunale abbia già disposto la revoca dell’ammissione alla procedura concordataria, purché il debitore abbia avuto formale conoscenza dell’iniziativa per la sua dichiarazione di fallimento.

2. Gli organi della procedura.

Alcune significative pronunce hanno riguardato, sotto varie sfaccettature, ruolo, prerogative, posizione degli organi concorsuali.

Sez. 1, n. 30446/2019, Genovese, Rv. 656271 - 01 ha osservato che il curatore del fallimento che proponga domanda giudiziale di adempimento di un’obbligazione contratta dal terzo nei confronti dell’imprenditore in epoca antecedente al fallimento esercita un’azione rinvenuta nel patrimonio del fallito stesso, ponendosi, conseguentemente, nella sua stessa posizione sostanziale e processuale, nella posizione, cioè, che avrebbe avuto il fallito agendo in proprio al fine di acquisire al suo patrimonio poste attive di sua spettanza già prima della dichiarazione di fallimento, ed indipendentemente dal dissesto successivamente verificatosi. Ne consegue che, evocato in giudizio dal curatore, il terzo convenuto può a questi legittimamente opporre tutte le eccezioni che avrebbe potuto opporre all’imprenditore fallito, comprese le prove documentali da questo provenienti, senza i limiti di cui all’art. 2704 c.c., potendo altresì trovare applicazione l’art. 2709 c.c., secondo cui i libri e le scritture contabili delle imprese soggette a registrazione fanno prova contro l’imprenditore, essendo egli subentrato nella medesima posizione processuale e sostanziale di quest’ultimo.

Sul piano dei compiti e delle opportunità operative del curatore, Sez. 1, n. 23452/2019, Guido, Rv. 655305-02, si è incaricata di chiarire i margini dell’azione di responsabilità sociale e dei creditori sociali, in particolare precisando che l’azione esercitata dal curatore ex art. 146 l.fall. cumula in sé le diverse azioni previste dagli artt. 2393 e 2394 c.c. a favore, rispettivamente, della società e dei creditori sociali, in relazione alle quali assume contenuto inscindibile e connotazione autonoma - quale strumento di reintegrazione del patrimonio sociale unitariamente considerato a garanzia sia degli stessi soci che dei creditori sociali –, implicando una modifica della legittimazione attiva, ma non della natura giuridica e dei presupposti delle due azioni, che rimangono diversi ed indipendenti. Ne discende che la mancata specificazione del titolo nella domanda giudiziale, lungi dal determinare la sua nullità per indeterminatezza, fa presumere, in assenza di un contenuto anche implicitamente diretto a far valere una sola delle azioni, che il curatore abbia inteso esercitare congiuntamente entrambe le azioni.

La medesima pronuncia chiarisce (Rv. 655305-01) che anche dopo la riforma societaria di cui al d.lgs. n. 6 del 2003, il curatore ai sensi dell’art. 146 l.fall. è legittimato ad esperire l’azione dei creditori sociali, pure in mancanza di un espresso richiamo all’art. 2394 c.c. previsto per le sole società per azioni ma applicabile in via analogica, in quanto, accedendo ad una diversa interpretazione, si creerebbe una disparità di trattamento ingiustificata tra i creditori della società azionaria e quelli della s.r.l., e tenuto conto che dopo la novella dell’art. 2476 c.c., introdotta dall’art. 378 del d.lgs. n. 14 del 2019, anche nella società a responsabilità limitata è ora espressamente ammessa l’azione dei creditori sociali. In tal guisa, la decisione in parola reitera un orientamento già sedimentato.

Sempre in ambito di azioni di responsabilità, propizia è giunta la puntualizzazione resa da Sez. U, n. 10019/2019, Vincenti, Rv. 653596-02, secondo cui l’azione di responsabilità esercitata, ex art. 146, comma secondo, l. fall., dal curatore del fallimento di una società cd. in house nei confronti degli amministratori, dei componenti degli organi di controllo e del direttore generale della stessa, è devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario, in conseguenza della scelta del paradigma privatistico, che comporta, in mancanza di specifiche disposizioni in contrario o di ragioni ostative di sistema, l’applicazione del regime giuridico proprio dello strumento societario adoperato, salva la giurisdizione contabile sulle controversie in materia di danno erariale eventualmente ascrivibile alla condotta degli anzidetti soggetti, sicché, ove sia prospettato anche un danno erariale, deve ritenersi ammissibile la proposizione, per gli stessi fatti, di un giudizio civile e di un giudizio contabile risarcitorio.

Ancora sullo scenario processuale si muove Sez. 1, n. 22385/2019, Dolmetta, Rv. 655289-02, la quale evidenzia che il curatore fallimentare è legittimato a far valere la nullità del contratto bancario non redatto per iscritto, in violazione dell’art. 117, commi 1 e 3, del d.lgs. n. 385 del 1993, perché il curatore ha la gestione del patrimonio fallimentare e la sua posizione di terzietà rispetto al fallito è prevista per assicurare una maggiore protezione della massa dei creditori, come confermato dall’art. 119, comma 4, del d.lgs. citato, che riconosce al curatore, in quanto soggetto che subentra nell’amministrazione dei beni del fallito, il diritto ad ottenere la documentazione inerente i rapporti bancari intrattenuti dal fallito con l’istituto di credito.

Sez. 2 , n. 20193/2019, Scarpa, Rv. 654980-01, attiene alla figura del coadiutore del curatore, la cui nomina, ai sensi dell’art. 32, comma secondo, l.fall., resta assoggettata alle norme pubblicistiche che regolano l’affidamento di incarichi nella procedura fallimentare. Ne deriva che l’attività d’ausilio non è riconducibile all’esecuzione di un contratto d’opera professionale, atteso che la curatela si avvale di esso per ricevere un contributo tecnico al perseguimento delle finalità istituzionali. Pertanto, al rapporto che si instaura tra le parti è inapplicabile la disciplina risultante dagli artt. 1418 e 2231 c.c., in forza della quale l’esecuzione di una prestazione d’opera professionale di natura intellettuale, effettuata da chi non sia iscritto nell’apposito albo previsto dalla legge, dà luogo a nullità assoluta del contratto tra professionista e cliente, privando il professionista non iscritto del diritto al pagamento del compenso.

Un corollario importante della fisionomia del ruolo del curatore è colto da Sez. 3, n. 04321/2019, Cigna, Rv. 652688-01: la premessa è che allorquando agisca in giudizio per ottenere l’adempimento di un contratto stipulato dall’imprenditore prima del fallimento, il curatore non rappresenta la massa dei creditori, la quale pure si giova del risultato utile in tal modo perseguito, ma il fallito, spossessato, nella cui posizione giuridica egli subentra, e dei cui diritti si avvale; la conseguenza tratta sta in ciò, che il curatore non è terzo e non può invocare l’inopponibilità ad esso delle pattuizioni del contratto dissimulato intervenuto tra le parti sol perché il documento, recante la prova della simulazione relativa, è privo di data certa ex art. 2704 c.c. anteriore al fallimento. Nella specie, in applicazione del principio, la Corte ha ritenuto opponibile alla curatela la controscrittura, costituente la prova della simulazione relativa del contratto di appalto stipulato dall’imprenditore in bonis, di cui era stato chiesto l’adempimento, dissimulante in realtà una permuta, sul rilievo che, stante la posizione di non terzietà del curatore rispetto ai rapporti tra le parti contrattuali originarie, a nulla rilevasse la mancanza di data certa della detta controscrittura.

Sez. 6 - 1, n. 22272/2019, Pazzi, Rv. 655322-01, interviene sulla tematica del compenso della curatela, ribadendo il principio secondo cui, in ipotesi di successione di curatori, la liquidazione delle relative spettanze necessita di specifica ed analitica motivazione, sorretta dalla valutazione personalizzata, non cumulativa, dell’opera prestata da ciascuno di essi, dei risultati ottenuti e della sollecitudine con cui sono state condotte le operazioni; in particolare, ai fini dell’applicazione del criterio di proporzionalità ex art. 39, comma terzo, l.fall., deve essere precisato l’ammontare dell’attivo realizzato da ciascun curatore, determinando, all’interno dei valori così identificati, il compenso da attribuire ad ognuno temperando il criterio di cassa della realizzazione dell’attivo con quello di competenza, nei casi in cui il momento solutorio, conseguente alla fase liquidatoria dei beni, ricada temporalmente nella gestione del curatore subentrato, pur essendo causalmente riferibile ad operazioni condotte da quello revocato.

2.1. I reclami endofallimentari.

Sez. 3, n. 25025/2019, Rubino, Rv. 655638-01, si è occupata del regime d’impugnazione dell’ordine di rilascio immediato dell’immobile trasferito in sede endoconcorsuale, adottato dal giudice delegato. Il relativo decreto è assoggettato a procedura concorsuale sicchè va impugnato in sede fallimentare mediante il reclamo previsto dall’art. 26 l. fall. Pertanto, il giudice di legittimità, investito del ricorso per cassazione avverso la sentenza di rigetto dell’impugnazione con cui sia stata confermata la reiezione dell’opposizione all’esecuzione pronunciata dal tribunale avverso il decreto di rilascio emesso dal giudice delegato, è tenuto pregiudizialmente a rilevarne d’ufficio l’inammissibilità, cassando senza rinvio, poiché la domanda può essere proposta solo mediante il reclamo ex art. 26 cit.

Un’essenziale precisazione in punto di legittimazione a reclamare è stata svolta da Sez. U, n. 24068/2019, Genovese, Rv. 655120-02, ad avviso della quale, in tema di riparto fallimentare, ai sensi dell’art. 110 l. fall. (nel testo applicabile ratione temporis come modificato dal d.lgs. n. 169 del 2007), sia il mezzo di cui all’art. 36 l.fall., adoperabile avverso il progetto – predisposto dal curatore – di riparto, anche parziale, delle somme disponibili, sia lo strumento di cui all’art. 26 l.fall., utilizzabile contro il decreto del giudice delegato che abbia deciso il primo reclamo, possono essere proposti da qualunque controinteressato, inteso quale creditore che, in qualche modo, sarebbe potenzialmente pregiudicato dalla diversa ripartizione auspicata dal reclamante, ed in entrambe le impugnazioni il ricorso va notificato a tutti i restanti creditori ammessi alla ripartizione.

Di sicuro rilievo è l’esclusione – operata da Sez. 1, n. 17835/2019, Terrusi, Rv. 654541-01 – dell’impugnabilità per cassazione, con ricorso straordinario, ai sensi dell’art. 111, comma settimo, Cost., del decreto con il quale il tribunale si pronuncia sul reclamo ex art. 26 l. fall. contro il provvedimento, emesso dal giudice delegato in sostituzione del comitato dei creditori, di autorizzazione del curatore alla rinuncia alla liquidazione di uno o più beni dell’attivo fallimentare, ai sensi dell’art. 104 ter, comma ottavo, l. fall.. Al provvedimento autorizzativo della cd. derelictio di beni viene riconosciuta, infatti, natura ordinatoria e non decisoria, in quanto volto a regolare l’esercizio di poteri gestori del curatore senza incidere su diritti soggettivi del fallito, ed essendo privo del requisito della definitività, in quanto la scelta gestoria compiuta è sempre suscettibile di modificazione, salva l’eventuale maturazione medio tempore di incompatibili diritti di terzi.

Su una cornice argomentativa sostanzialmente affine si regge Sez. 1, n. 00212/2019, Campese, Rv. 652069-01, la quale, nell’escludere l’ammissibilità del ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 111, comma settimo, Cost., nei confronti del decreto del tribunale che accoglie il reclamo ex art. 26 l. fall. avverso il provvedimento del giudice delegato di diniego all’accesso, ex art. 90, comma terzo, l.fall., al fascicolo del fallimento, mette in luce la natura non decisoria di detto provvedimento, invero non incidente su un diritto soggettivo dell’istante e non suscettibile di divenire definitivo, contrariamente alla statuizione sulle spese giudiziali che ha ad oggetto posizioni giuridiche soggettive di debito e credito derivanti da un rapporto obbligatorio autonomo ed avverso la quale non è previsto alcun mezzo di impugnazione.

3. Le revocatorie in generale.

L’attivo oggetto della liquidazione concorsuale non è rappresentato solo da quanto si trovi nel patrimonio dell’imprenditore insolvente al momento della dichiarazione di fallimento, potendo ricomprendere anche valori che non vi fanno più parte, perché di essi l’imprenditore ha già validamente disposto. Al fine, dunque, di assicurare una migliore soddisfazione dell’interesse dei creditori è dettata una serie di regole volte a ricostruire l’attivo fallimentare ed a reintegrare la garanzia patrimoniale, recuperando beni fuoriusciti dal patrimonio del debitore attraverso atti posti in essere prima della dichiarazione di fallimento: in particolare, il legislatore, oltre a riconoscere al curatore la possibilità di esperire l’azione revocatoria ordinaria “secondo le norme del codice civile” (art. 66 l. fall.), prevede un complesso sistema di norme (artt. 64, 65 e 67 ss. l. fall.) che operano soltanto all’interno della procedura, e che dunque risultano applicabili solo a seguito della sua apertura.

Il sistema si presenta molto articolato, potendosi distinguere i casi in cui l’inefficacia opera automaticamente, a seguito della sentenza di fallimento (cd. inefficacia ex lege), da quelli in cui essa presuppone, invece, una pronuncia giudiziale conseguente all’esperimento da parte del curatore dell’azione revocatoria.

In tema di pagamenti spettanti al fallito, come pure di atti di disposizione, , se effettuati dopo la dichiarazione di fallimento ed a soggetti diversi dalla curatela, Sez. 1, n. 24602/2019, Guido, Rv. 655762 - 01, afferma che l’inefficacia degli stessi è conseguenza automatica dell’indisponibilità del patrimonio del fallito, valevole erga omnes e senza che rilevi lo stato soggettivo del solvens, a prescindere dunque dalla trascrizione della sentenza di fallimento.

Le norme in tema di inefficacia di pagamenti, contenute nella legge fallimentare, sono applicabili anche ai conti correnti postali, in virtù della espressa previsione di cui all’art. 24 del d.p.r. n. 156 del 1973, non derogata dal successivo art. 82, con la conseguenza che devono ritenersi inefficaci, ex art. 44 l. fall., gli addebiti effettuati su detto conto dopo la pubblicazione della sentenza dichiarativa di fallimento, senza che sia necessaria la sua notificazione a Poste Italiane s.p.a., posto che la disciplina prevista dall’art. 17 l. fall. fonda la sussistenza di una presunzione generale di conoscenza della pronuncia che dichiara aperta la procedura concorsuale (Sez. 1, n. 06375/2019, Vella, Rv. 652817-01).

L’esigenza di tutela della par condicio creditorum, che costituisce la ratio delle norme che prevedono l’inefficacia di atti e pagamenti in ambito fallimentare, riguarda anche la procedura di concordato preventivo: così Sez. 1, n. 06381/2019, Di Virgilio, Rv. 652734-01, afferma che l’art. 168, comma terzo, l. fall. (come novellato dal d.l. n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 134 del 2012), secondo cui l’inefficacia delle ipoteche giudiziali iscritte nei novanta giorni precedenti la pubblicazione della domanda di concordato preventivo, in applicazione del principio della cd. “consecuzione delle procedure”, trova applicazione anche nel caso in cui all’apertura della procedura di concordato preventivo faccia seguito la dichiarazione di fallimento.

Con riferimento ai titoli di credito, nel caso di girata prefallimentare di una cambiale emessa dal terzo a favore del creditore poi fallito quando questi era in bonis, Sez. 1, n. 08972/2019, Nazzicone, Rv. 653237-01, ribadisce che è inefficace, ai sensi dell’art. 44 l. fall., il pagamento al giratario avvenuto dopo la dichiarazione di fallimento, atteso che il momento rilevante è quello del pagamento e non della girata in quanto questa non implica l’estinzione dell’obbligazione causale, che si verifica solo quando la cambiale sia scaduta ed effettivamente onorata.

L’inefficacia del pagamento si verifica solo quando esso provenga dal patrimonio del fallito, a prescindere dalle modalità con cui la provvista sia stata messa a disposizione del creditore.

Se, invece, il soggetto che estingue il debito è un terzo con il proprio patrimonio, il pagamento effettuato non sarà inefficace.

A tal proposito, Sez. 6-1, n. 13458/2019, Pazzi, Rv. 653899-01, afferma che il principio di autonomia contrattuale consente al fideiussore di uno scoperto di conto corrente bancario di poter estinguere il proprio debito fideiussorio, oltre che in modo diretto (ossia mediante versamento alla banca personalmente), altresì in modo indiretto (cioè mediante accreditamento della somma sul conto del garantito, perché la banca se ne giovi), di modo che, quando un terzo versi sul conto corrente del debitore, e dopo il fallimento di costui, una somma a riduzione dello scoperto del conto stesso per il quale egli aveva prestato fideiussione, e non risulti la sussistenza di debiti verso il fallito da parte del terzo, deve ritenersi che questi abbia adempiuto il proprio debito fideiussorio, restando peraltro il relativo accreditamento sottratto alla dichiarazione di inefficacia di cui all’art. 44 l. fall. ovvero all’azione revocatoria di cui all’art. 67 l. fall..

Diversamente, per Sez. 6-1, n. 26856/2019, Falabella, Rv. 655817-01, quando viene dichiarato il fallimento del terzo che adempie un debito altrui, mancando nello schema causale tipico la controprestazione in favore del disponente, si presume che l’atto sia stato compiuto gratuitamente, pagando il terzo, per definizione, un debito non proprio e non prevedendo la struttura del negozio nessuna controprestazione in suo favore; pertanto, nel giudizio avente ad oggetto la dichiarazione di inefficacia di tale atto, ai sensi dell’art. 64 l. fall., incombe al creditore beneficiario l’onere di provare, con ogni mezzo previsto dall’ordinamento, che il disponente abbia ricevuto un vantaggio in seguito all’atto che ha posto in essere, in quanto questo perseguiva un suo interesse economicamente apprezzabile.

Ai sensi del primo comma dell’art. 95 l. fall., nel testo introdotto dal d.lgs. n. 5 del 2006, nella verifica dello stato passivo, il curatore può eccepire i fatti estintivi, modificativi o impeditivi del diritto fatto valere, nonché l’inefficacia del titolo su cui sono fondati il credito o la prelazione, anche se è prescritta la relativa azione.

Di conseguenza, ricorda Sez. 1, n. 03778/2019, Vella, Rv. 652550-01, che il curatore, per escludere il credito o la garanzia, non è tenuto a proporre l’azione revocatoria fallimentare, né ad agire in via riconvenzionale nel giudizio di opposizione allo stato passivo promosso dal creditore ai sensi dell’art. 98 l.fall. Qualora, tuttavia, non sia stata proposta azione revocatoria in senso formale, ma sia stata solo sollevata eccezione finalizzata a paralizzare la pretesa creditoria, il giudice delegato non dichiara l’inefficacia del titolo del credito o della garanzia, né dispone la restituzione, ma si limita ad escludere il credito o la prelazione, a ragione della revocabilità del relativo titolo, con effetti limitati all’ambito della verifica dello stato passivo al quale la richiesta del curatore è strettamente funzionale.

3.1. Revocatoria ordinaria e fallimentare. La revocatoria dei pagamenti.

L’azione revocatoria ordinaria si inserisce nel novero degli strumenti attribuiti al curatore al fine della ricostituzione del patrimonio del debitore fallito e allo scopo di rendere inefficaci nei confronti della massa diritti di prelazione costituiti sui beni dell’attivo prima della dichiarazione di fallimento.

Le restrizioni presenti nella disciplina della revocatoria fallimentare rendono comunque frequente e rilevante il ricorso alla revocatoria ordinaria da parte del curatore.

La legittimazione ad agire spetta in ogni caso al curatore e non ai singoli curatori, come avverrebbe se l’azione fosse proposta prima della dichiarazione di fallimento. Se essa era stata proposta prima della dichiarazione di fallimento il processo si interrompe ed è ormai prevalente l’orientamento secondo cui potrà proseguirlo il curatore, a meno che egli non preferisca iniziare un nuovo giudizio.

L’azione si propone, ai sensi dell’art. 66, comma secondo, l. fall., dinanzi al tribunale fallimentare, che al riguardo ha una competenza esclusiva e inderogabile.

L’esperimento vittorioso dell’azione revocatoria dà luogo, anche in sede fallimentare, all’inefficacia degli atti di disposizione compiuti dal debitore e della costituzione di garanzie reali sui suoi beni, nel qual caso il terzo non potrà avvalersene nell’insinuazione al passivo.

Dell’inefficacia si avvantaggia l’intera massa, a differenza di quando l’azione viene esperita fuori dal fallimento, nel qual caso se ne avvantaggia unicamente il creditore che ha agito.

Quando, poi, oggetto di revocatoria sia un atto di disposizione, al vittorioso esperimento dell’azione segue l’apprensione alla massa dei beni da parte della procedura, mentre, nel caso in cui l’azione sia esperita dal creditore individuale, quest’ultimo, ove risulti vittorioso, potrà procedere all’espropriazione individuale.

Con riferimento al rapporto tra il divieto di azioni esecutive individuali e l’azione revocatoria ordinaria, Sez. 3, n. 14892/2019, Cirillo, Rv. 654208-01, ha chiarito che il creditore dell’alienante che abbia esercitato l’azione revocatoria ordinaria nei confronti dell’acquirente con domanda trascritta prima del fallimento di quest’ultimo, nel caso in cui risulti vincitore, non lo abilita a promuovere l’esecuzione sul bene oggetto dell’atto dispositivo, ma lo colloca in posizione analoga a quella del titolare del diritto di prelazione e gli consente di conseguire, in sede di ricavato della vendita del bene da parte degli organi fallimentari dell’acquirente, la separazione della somma corrispondente al suo credito verso l’alienante in bonis, per esserne soddisfatto in via prioritaria.

Se la restituzione del bene in natura da parte del terzo non è possibile, questi sarà tenuto alla corresponsione del valore del bene.

La posizione del terzo che ha subìto la revocatoria da parte del curatore è disciplinata dall’art. 70, comma secondo, l. fall., e non dall’art. 2902 c.c.

Ne consegue che colui che, a seguito dell’azione revocatoria ordinaria esperita dal curatore (o da lui proseguita), ha restituito quanto aveva ricevuto, ha diritto ad insinuarsi al passivo per il suo eventuale credito.

Il tema dell’insinuazione al passivo del terzo all’esito del vittorioso esperimento, da parte del curatore, dell’azione revocatoria, sia ordinaria che fallimentare, si interseca con quello della partecipazione al riparto dell’attivo fallimentare dei creditori tardivi.

A tal proposito, Sez. 1, n. 08977/2019, Campese, Rv. 653240-01 ha chiarito che l’art. 71 l. fall. (nel testo vigente anteriormente alla sua abrogazione ex d.lgs. n. 5 del 2006), che prevedeva l’ammissione al passivo di chi, per effetto del positivo esperimento dell’azione revocatoria da parte del curatore, avesse restituito quanto ricevuto dal fallito, non configura un’ipotesi di accertamento ex lege della non imputabilità al creditore del ritardo nella insinuazione al passivo, atteso che ciò, risolvendosi nell’assunto della specialità dei crediti concorsuali nascenti dall’esito positivo della revocatoria e, quindi, della retroattività assoluta della loro insinuazione, con effetto dirompente sull’attività di accertamento del passivo e di riparto dell’attivo, è privo di riscontro nel sistema, il quale, se non considera illecita la prestazione del fallito soggetta a revocatoria, non apprezza però, nella posizione del convenuto soccombente in revocatoria, ragioni meritevoli di particolare tutela.

In tema di azione revocatoria ordinaria di un atto di disposizione patrimoniale compiuto da società di capitali successivamente dichiarata fallita, il curatore, al fine di dimostrare la sussistenza dell’eventus damni, ha l’onere di provare la sussistenza dei crediti vantati dai creditori ammessi al passivo fallimentare; la sussistenza, al tempo del compimento del negozio, di una situazione patrimoniale della società che mettesse a rischio la realizzazione dei crediti sociali; il mutamento qualitativo o quantitativo della garanzia patrimoniale generica, rappresentata dal patrimonio sociale, determinato dall’atto dispositivo (Sez. 3, n. 19515/2019, Fiecconi, Rv. 654441-01).

Alla revocatoria fallimentare, invece, sono soggetti gli atti del debitore compiuti in un determinato periodo (che può essere, a seconda dei casi, di un anno o di sei mesi) precedente la dichiarazione di fallimento, ricorrendo determinati presupposti previsti dalla legge.

Le fattispecie considerate dal legislatore al fine dell’assoggettamento a revocatoria fallimentare possono essere schematicamente riassunte, come suggerisce la stessa rubrica dell’art. 67 l. fall., in tre categorie: atti a titolo oneroso, pagamenti e garanzie.

Ai fini della revocatoria fallimentare, è rilevante la conoscenza dello stato d’insolvenza del debitore.

Tale conoscenza, in capo al terzo contraente, deve essere effettiva, ma può essere provata anche con indizi e fondata su elementi di fatto, purché idonei a fornire la prova per presunzioni di tale effettività. Per Sez. 1, n. 3854/2019, Dolmetta, Rv. 652555-01, nel solco di un orientamento granitico, la scelta degli elementi che costituiscono la base della presunzione ed il giudizio logico con cui dagli stessi si deduce l’esistenza del fatto ignoto costituiscono un apprezzamento di fatto che, se adeguatamente motivato, sfugge al controllo di legittimità.

Sez. 1, n. 29257/2019, Vella, Rv. 655636-01, ricorda poi che il giudice prima è tenuto a selezionare analiticamente gli elementi presuntivi provvisti di potenziale efficacia probatoria, successivamente a sottoporre quelli prescelti ad una valutazione complessiva, tesa ad accertarne la concordanza, quindi ad appurare se la loro combinazione sia idonea a rappresentare una valida prova presuntiva.

Nel caso di fusione tra società, secondo Sez. 1, n. 29256/2019, Vella, Rv. 656041 - 01, in caso di insolvenza dell’incorporante può essere esperita la revocatoria fallimentare di un atto dispositivo di un immobile anche se esso sia stato posto in essere dalla società incorporata prima della fusione ed anche se l’insolvenza sia stata dichiarata nei confronti della incorporante, in quanto la fusione realizza una successione universale corrispondente a quella mortis causa, tale che la incorporante subentra in tutti i rapporti e le situazioni giuridiche della incorporata, diventando il nuovo centro di imputazione di quei rapporti e di quelle situazioni.

Quanto agli atti revocabili, in presenza della prova della scientia decoctionis Sez. 1, n. 18181/2019, Amatore, Rv. 654655-01, ricorda che può essere revocato, ai sensi dell’art. 67, comma secondo, l. fall., il contratto preliminare di compravendita immobiliare stipulato con atto pubblico nei sei mesi anteriori alla dichiarazione di fallimento del promittente venditore, prima già redatto con scrittura privata, in quanto volto a costituire in favore del promissario acquirente un diritto di prelazione, sfruttando gli effetti dell’art. 2775 bis c.c., che non nasce da una fattispecie legale, in sé non suscettibile di revoca, ma consegue alla formazione di un atto negoziale, volto esclusivamente alla rinnovazione del primo contratto con le forme idonee alla trascrizione, senza che abbia rilievo la circostanza che tale atto non riguardi crediti contestualmente creati, posto che la valutazione negativa dell’ordinamento nei confronti della violazione delle regole della “par condicio creditorum”, resa manifesta nel disposto dell’art. 67, comma 1, l. fall., con riguardo alla costituzione negoziale di garanzie per crediti preesistenti anche non scaduti, vale “a fortiori” anche per gli atti costitutivi di diritti di prelazione che riguardino crediti già sorti.

Sempre in tema di revocatoria fallimentare, l’espressione, adoperata dall’art. 67, comma secondo, l. fall., secondo cui sono revocabili, fra l’altro, gli atti “costitutivi di un diritto di prelazione per debiti contestualmente creati”, si riferisce al caso in cui il diritto di prelazione sorga come effetto giuridico di un atto negoziale diretto a crearlo e, quindi, esclusivamente come effetto di una dichiarazione di volontà delle parti e non per diretta volontà della legge (Sez. 1, n. 17808/2019, Amatore, Rv. 654538-01).

Tra gli atti che, ai sensi dell’art. 67, comma primo, l.fall., sono soggetti a revocatoria fallimentare vi sono gli atti estintivi di debiti pecuniari scaduti ed esigibili non effettuati con danaro o con altri mezzi normali di pagamento, se compiuti nell’anno anteriore alla dichiarazione di fallimento, e sempre che l’altra parte non riesca a provare che non conosceva lo stato di insolvenza del debitore.

Tra i mezzi anormali di pagamento vi è la cessione di polizze di pegno in funzione solutoria di un debito pecuniario scaduto ed esigibile. Orbene, in caso di vittorioso esperimento dell’azione revocatoria fallimentare, qualora le polizze anzidette non vengano restituite, secondo Sez. 1, n. 01399/2019, Falabella, Rv. 652405-01, si farà luogo all’attribuzione dell’equivalente, consistente non già nell’originario valore di stima del bene pignoratizio, bensì nella differenza tra il valore stimato di quest’ultimo e l’importo dovuto, ai fini dell’estinzione del debito, all’istituto presso il quale il bene in parola risulta essere stato costituito in pegno.

Sez. 1, n. 07508/2019, Solaini, Rv. 653225-01, afferma che la qualificazione dell’atto, del negozio o dei negozi collegati come mezzo anormale di pagamento, e la valutazione degli stessi come indici presuntivi di scientia decoctionis, si pongono su piani diversi e rispondono a finalità altrettanto diverse: tuttavia, non contrasta con alcuna regola di diritto la possibilità che proprio la singolarità dell’atto, del negozio o dei negozi collegati, le modalità specifiche della loro stipulazione e la sostanziale configurazione degli stessi come mezzo anormale di pagamento siano assunti quali indici della conoscenza dello stato di insolvenza.

Ai fini del computo a ritroso del cd. periodo sospetto, Sez. 1, n. 10104/2019, Solaini, Rv. 654170-01, segnala come il dies a quo decorra sempre dalla pubblicazione della sentenza dichiarativa di fallimento e non già dalla sua iscrizione nel registro delle imprese, ai sensi dell’art. 17, comma secondo, l. fall., non essendovi in questo caso da tutelare un eventuale stato soggettivo di ignoranza dell’intervenuto fallimento da parte del creditore, ma rilevando soltanto la sua conoscenza dello stato d’insolvenza del debitore.

A differenza della revocatoria ordinaria, nell’ambito dell’azione revocatoria fallimentare la nozione di danno non è assunta in tutta la sua estensione perché il pregiudizio alla massa, che può consistere anche nella mera lesione della par condicio creditorum o, più esattamente, nella violazione delle regole di collocazione dei crediti, è presunto in ragione del solo fatto dell’insolvenza. Sez. 1, n. 13002/2019, Nazzicone, Rv. 654255-01, ricorda peraltro che si tratta di presunzione iuris tantum, che può essere vinta dal convenuto, sul quale grava l’onere di provare che in concreto il pregiudizio non sussiste.

Con riferimento agli atti a titolo gratuito, ed all’inefficacia di cui all’art. 64 l. fall., Sez. 1, n. 08978/2019, Amatore, Rv. 653241-01, ribadisce come incomba sul curatore la prova della gratuità dell’atto e del suo compimento nel periodo sospetto, mentre grava sulla controparte l’onere di dimostrare i presupposti per l’applicazione dell’esimente della proporzionalità degli atti rispetto al patrimonio che ha natura di eccezione in senso stretto da proporre, a pena di decadenza, nei termini preclusivi previsti dal codice di rito.

Sul tema, in passato particolarmente trattato in sede di legittimità, della revocatoria di rimesse bancarie vanno segnalate:

Sez. 1, n. 25852/2019, Guido, Rv. 655351-01, la quale afferma che se il curatore esercita l’azione revocatoria fallimentare di rimesse bancarie, egli propone tante domande quante sono le rimesse ritenute revocabili, essendo ciascuna di esse fondate su fatti costitutivi diversi, sicché, ove nell’atto di citazione sia stata richiesta la revoca di un loro determinato numero, individuato attraverso il rinvio ad una consulenza di parte, costituisce inammissibile domanda nuova la pretesa di ottenere l’inefficacia di altre rimesse in sede di precisazione delle conclusioni, ancorché nei limiti della somma complessiva oggetto della richiesta di condanna con l’atto introduttivo della lite.

Sez. 1, n. 277 del 2019, Falabella, Rv. 652395-01, a tenore della quale l’art. 67, comma secondo, lett. b), l. fall. (nel testo modificato dal d.l. n. 35 del 2005, convertito, con modificazioni, nella legge n. 80 del 2005) prescinde dalla natura solutoria o ripristinatoria della rimessa e quindi dal fatto che la stessa afferisca a un conto scoperto o solo passivo, ma impone al giudice del merito di verificare la revocabilità del pagamento avendo riguardo alla sua consistenza e alla sua durevolezza. Pertanto, l’accertamento non può consistere nella sola quantificazione della differenza tra l’ammontare massimo raggiunto dalle pretese della banca nel periodo per il quale è provata la conoscenza dello stato di insolvenza e l’importo delle stesse alla data di apertura del concorso, come previsto dal successivo art. 70, comma 3 (nel testo novellato dal citato d.l. n. 35 del 2005 e modificato, da ultimo, dalla legge n. 169 del 2008), giacché quest’ultima disposizione indica solo il limite massimo dell’importo che il convenuto in revocatoria può essere tenuto a restituire.

Sez. 1, n. 01871/2019, Falabella, Rv. 652409-01, per cui la consegna del debitore al proprio creditore di un assegno bancario o circolare all’ordine di un altro soggetto, e da questi girato in bianco, si presume, salvo prova contraria, che integri pagamento da parte del debitore stesso che abbia operato la consegna ed è come tale revocabile nel concorso dei presupposti di cui all’art. 67 l. fall.

Sez. 1, n. 08970/2019, Nazzicone, Rv. 653236-01, a parere della quale quando ad una procedura di concordato preventivo sia seguita la dichiarazione di fallimento, nel regime vigente prima dell’introduzione dell’art. 69 bis, comma secondo, l. fall., il periodo sospetto, ai fini della proposizione dell’azione revocatoria fallimentare, deve essere computato, a ritroso, a partire dalla data del decreto di ammissione alla procedura di concordato e non da quella del deposito della relativa domanda, attesa l’omogeneità tra sentenza di fallimento e decreto di ammissione al concordato.

L’azione revocatoria è esperibile anche nell’ambito dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, come regolata dalla l. n. 95 del 1979, di conversione, con modificazioni, del d.l. n. 26 del 1979.

Essa, infatti, non è un istituto derogatorio rispetto alla disciplina generale del fallimento, in quanto non ha alcun carattere “selettivo” tale da farle assumere le caratteristiche di un aiuto di Stato ai sensi dell’art. 87 (già art. 92) del Trattato CE (nell’interpretazione datane dalla Corte di giustizia europea).

Sez. 1, n. 03871/2019, Pazzi, Rv. 652557-01, afferma che non può distinguersi tra esercizio dell’azione nella cd. fase di risanamento e nella cd. fase di liquidazione della procedura di amministrazione straordinaria, sì da limitarne la compatibilità con l’ordinamento comunitario al solo esercizio nella seconda fase, e dunque non prima del momento in cui inizia la liquidazione dei beni, atteso che ciò che rileva, ai fini della individuazione dell’aiuto di Stato, non è che l’azione sia esercitata prima o durante la liquidazione dei beni, quanto che essa sia direttamente ed esclusivamente destinata alla conservazione dell’impresa nel mercato, piuttosto che all’estinzione delle sue passività.

D’altra parte, Sez. 1, n. 08974/2019, Campese, Rv. 653239-01, ribadisce che anche quando l’azione revocatoria è esercitata durante la fase conservativa, essa è diretta a produrre risorse da destinare all’espropriazione forzata a fini satisfattori, di tutela degli interessi di tutti i creditori. Né rileva che il bene recuperato con l’azione revocatoria non sia destinato immediatamente alla liquidazione e al riparto tra i creditori, poiché è sufficiente che esso concorra con gli altri beni a determinare il patrimonio ripartibile al termine del tentativo di risanamento.

In tema di factoring, Sez. 1, n. 11589/2019, Terrusi, Rv. 653769-01, afferma che i pagamenti eseguiti in favore dell’imprenditore cedente non sono revocabili, ai sensi dell’art. 6 della l. n. 52 del 1991, a condizione che il cessionario sia una banca o un intermediario finanziario di cui al d.lgs. n. 385 del 1993, ovvero una società che svolga l’attività di acquisto di crediti da soggetti appartenenti al proprio gruppo che non siano intermediari finanziari, e che i crediti ceduti sorgano da contratti stipulati nell’esercizio dell’impresa, restando irrilevante che la cessione sia avvenuta mediante l’erogazione di una anticipazione sul valore dei crediti ceduti.

L’art. 67, comma terzo, l. fall. esclude una serie di atti dalla revocatoria fallimentare, tra i quali i pagamenti di beni e servizi effettuati nell’esercizio dell’attività d’impresa nei termini d’uso.

Sez. 1, n. 07580/2019, Guido, Rv. 653230-01, afferma che il rinvio dell’art. 67, comma terzo, lett. a), l. fall. ai “termini d’uso”, ai fini dell’esenzione dalla revocatoria fallimentare per i pagamenti di beni e servizi effettuati nell’esercizio dell’attività d’impresa, attiene alle modalità di pagamento concretamente invalse tra le parti, dovendo il giudice di merito verificare anche l’eventuale sistematica tolleranza del creditore di ritardi nei pagamenti rispetto alle scadenze pattiziamente convenute.

Sez. 1, n. 03778/2019, Vella, Rv. 652550-02, chiarisce che l’art. 67, comma terzo, lett. e), l.fall., nel prevedere l’esclusione dall’assoggettamento all’azione revocatoria degli atti, dei pagamenti e delle garanzie posti in essere in esecuzione dell’accordo omologato ai sensi dell’art. 182 bis l. fall. ha riguardo alla sola azione revocatoria fallimentare e non anche a quella ordinaria che, in base a quanto stabilito dall’art. 66 della stessa legge, è disciplinata integralmente secondo le norme del codice civile.

Sez. 1, n. 08973/2019, Nazzicone, Rv. 653238-01, ricorda invece che l’azione revocatoria dell’atto dispositivo della casa d’abitazione del fallito non è oggetto di alcuna deroga rispetto alle norme ordinarie; infatti, l’art. 47, comma secondo, l. fall., nel vietare che la casa di proprietà del fallito, nei limiti in cui è necessaria per l’abitazione di lui e della sua famiglia, possa essere distratta dal suo uso prima della liquidazione delle altre attività, si pone su un piano diverso dalla domanda diretta a far valere l’inefficacia dell’atto con cui il medesimo fallito abbia disposto del suo diritto all’abitazione, ex art. 1022 c.c., sicché l’esperibilità dell’azione revocatoria fallimentare è sempre ammessa.

4. I rapporti pendenti.

La dichiarazione di fallimento comporta il sub ingresso del curatore nella gestione della totalità dei rapporti giuridici relativi al patrimonio sottoposto al concorso: la procedura dovrebbe quindi sostituirsi al fallito in tutti i contratti, purché ad essa opponibili, ancora ineseguiti o solo parzialmente eseguiti da entrambe le parti, dai quali scaturiscono posizioni sia attive che passive.

In coerenza con i princìpi generali, anche la disciplina dei contratti pendenti mira alla regolazione concorsuale dei soli diritti di credito e delle altre situazioni giuridiche relative: essa, quindi, non si estende ai contratti ad efficacia reale i cui effetti costitutivi o traslativi del diritto si sono realizzati prima della dichiarazione di fallimento e conseguentemente hanno già modificato la composizione del patrimonio del debitore. La regola appena descritta, tuttavia, tollera un’estensione e soffre un’eccezione.

Il primo caso è regolato dall’art. 73, comma secondo, l. fall., che opera una sostanziale assimilazione alla fattispecie traslativa del diritto della vendita a rate con riserva della proprietà, dove è avvenuta solo la consegna della cosa.

La spiegazione della scelta di prevedere che il fallimento del venditore non sia causa di scioglimento del contratto è da rinvenire nella circostanza che il riservato dominio assolve a una mera funzione di garanzia del venditore il cui interesse è ricevere alle scadenze pattuite il prezzo e non di conservare la proprietà sul bene, e che tale interesse non contrasta con quello della procedura, chiamata a liquidare i beni del fallito e ripartire il ricavato tra i creditori concorrenti.

Invece, l’eccezione è rappresentata dalla vendita di cose mobili da piazza a piazza, destinate cioè ad essere trasportate da un luogo a un altro.

Infatti, ai sensi dell’art. 1510, comma secondo, c.c., l’obbligo di consegna del venditore è considerato adempiuto con la spedizione della merce, sicché, se quest’ultima è stata effettuata prima della dichiarazione di fallimento del compratore, il contratto non può essere qualificato come pendente, in quanto una delle parti ha già eseguito la prestazione dovuta, e di conseguenza andrebbe esclusa dall’ambito di applicazione della relativa disciplina (art. 75 l. fall.).

Fatte salve le ipotesi in cui è espressamente disposto lo scioglimento di diritto o la prosecuzione automatica del contratto, è in questa prospettiva che si coglie la ragione di una disciplina quanto mai flessibile, che esprime come regola generale (art. 72, comma primo, l. fall.) la sospensione dell’esecuzione del contratto pendente fino al momento in cui sarà esercitato il diritto potestativo di proseguire o sciogliere il rapporto, rinunciando alle prestazioni ancora dovute dal contraente in bonis.

Uno dei rapporti pendenti che più frequentemente incrociano la dichiarazione di fallimento, è quello derivante dal contratto preliminare avente ad oggetto la compravendita di un immobile.

Sez. 6-1, n. 20215/2019, Falabella, Rv. 654965-01, afferma che in ipotesi di fallimento del promittente venditore, l’esercizio da parte del curatore della facoltà di scelta tra lo scioglimento o il subingresso nel contratto, ai sensi dell’art. 72 l. fall. (nel testo previgente alle modifiche introdotte dal d.lgs. n. 5 del 2006), può anche essere tacito, ovvero espresso per fatti concludenti, non essendo necessario un negozio formale, né un atto di straordinaria amministrazione soggetto ad autorizzazione del giudice delegato, in quanto tale scelta costituisce espressione di una prerogativa discrezionale del curatore stesso.

Sez. 6-1, n. 03200/2019, Dolmetta, Rv. 653127-01, con riferimento agli effetti del fallimento su di un preesistente rapporto di leasing, in caso di scioglimento del contratto ad opera del curatore, afferma che il concedente, per i canoni scaduti alla data della sentenza dichiarativa, può insinuarsi al passivo, essendo il credito sorto anteriormente al concorso. Per il capitale corrispondente ai crediti non ancora scaduti a tale data, invece, il concedente ha diritto alla restituzione del bene, oltre al diritto eventuale di insinuarsi al passivo in via tardiva per la differenza fra il credito vantato alla data del fallimento e quanto ricavato dalla vendita, dovendosi ritenere che l’espressione credito residuo in linea capitale, utilizzata dall’art. 72 quater l. fall., non possa che riferirsi ai crediti ancora a scadere.

In tema di locazione finanziaria, Sez. 3, n. 03965/2019, Scarano, Rv. 652739-01, ribadisce il tradizionale orientamento a tenore del quale la risoluzione del leasing traslativo per inadempimento dell’utilizzatore è disciplinata dall’art. 1526 c.c., non incidendo sull’applicazione di tale ultima disposizione l’art. 72 quater l. fall., introdotto dall’art. 59 del d.lgs. n. 5 del 2006, atteso che siffatta norma non disciplina la risoluzione del contratto di leasing, bensì il suo scioglimento quale conseguenza del fallimento dell’utilizzatore.

L’opinione, nel seno della Suprema Corte, tuttavia non è più pacifica.

Sez. 1, n. 08980/2019, Guido, Rv. 653463-01, infatti, ha affermato che gli effetti della risoluzione del contratto di leasing finanziario per inadempimento dell’utilizzatore, verificatasi in data anteriore all’entrata in vigore della legge n. 124 del 2017 (art. 1, commi 136-140), sono regolati dalla disciplina dell’art. 72 quater l. fall., applicabile anche al caso di risoluzione del contratto avvenuta prima della dichiarazione di fallimento dell’utilizzatore. Ne consegue che, in caso di fallimento dell’utilizzatore, il concedente avrà diritto alla restituzione del bene e dovrà insinuarsi al passivo fallimentare per poter vendere o allocare il bene e trattenere, in tutto o in parte, l’importo incassato. La vendita avverrà a cura dello stesso concedente, previa stima del valore di mercato del bene disposta dal giudice delegato in sede di accertamento del passivo. Sulla base di tale valutazione sarà determinato l’eventuale credito della curatela nei confronti del concedente o quello, in moneta fallimentare, del concedente stesso, da quantificarsi in misura corrispondente alla differenza tra il valore del bene e il suo credito residuo, derivante dai canoni scaduti e non pagati ante fallimento e dei canoni a scadere, in linea capitale, oltre al prezzo pattuito per l’esercizio dell’opzione. Eventuali rettifiche, sulla base di quanto effettivamente realizzato dalla vendita del bene, potranno farsi valere in sede di riparto.

Con riferimento alla collocazione dei crediti nascenti dallo scioglimento del rapporto contrattuale in seguito alla dichiarazione di fallimento, Sez. 1, n. 25470/2019, Campese, Rv. 655348-01, ha deciso che quando il curatore del fallimento dell’affittante l’azienda abbia esercitato il suo diritto di recesso ex art. 79 l. fall., il credito restitutorio vantato dall’affittuario per i canoni pagati anticipatamente, prima dell’apertura del concorso, non è prededucibile, in quanto comunque gli acconti, divenuti indebiti in seguito al fallimento dell’affittante e al recesso del curatore, sono stati corrisposti in epoca anteriore alla dichiarazione di fallimento.

Con riferimento alla locazione, in caso di fallimento del conduttore di immobile, quando il curatore esercita la facoltà di recedere anticipatamente dal contratto di locazione, ai sensi dell’art. 80, comma terzo, l.fall., Sez. 1, n. 28961/2019, Dolmetta, Rv. 655825-01, afferma che al locatore spetta un equo indennizzo, il cui importo non è disponibile da parte dell’autonomia dei privati, dovendo essere sempre determinato discrezionalmente dal giudice del merito con valutazione che, se adeguatamente motivata, non è sindacabile dal giudice di legittimità.

In caso di fallimento del datore di lavoro, salvo che sia stato autorizzato l’esercizio provvisorio, il rapporto di lavoro entra in una fase di sospensione fino a quando il curatore non abbia effettuato la dichiarazione ai sensi dell’art. 72, comma 2, l. fall., di volersi sciogliere dal contratto, per effetto della quale il lavoratore ha diritto di insinuarsi al passivo anche per l’indennità sostitutiva del preavviso ex art. 2118 c.c., non configurandosi il recesso del curatore per giusta causa ed attesa la natura indennitaria e non risarcitoria di tale importo (Sez. 1, n. 20647/2019, Fidanzia, Rv. 654771-01).

5. La formazione dello stato passivo.

L’attività di accertamento del passivo è necessaria per identificare quali tra i creditori, e ciascuno di essi in quale misura, hanno diritto di partecipare al riparto, sicché il soggetto chiamato ad assolvere a tale funzione si trova sempre a dover dirimere un conflitto che insorge tra i diversi creditori del fallito, oltre che tra ciascuno di essi e il debitore “rappresentato” dalla curatela.

Mentre il conflitto tra ciascun creditore e il debitore è facilmente intuibile, in quanto esso è il riflesso della contrapposizione ontologica, diremmo naturale, tra credito e debito, il conflitto tra i creditori del fallito sta nel fatto che la possibilità della soddisfazione di ciascun creditore attraverso la partecipazione al riparto è inversamente proporzionale al valore nominale complessivo dei crediti ammessi, essendo appunto tanto maggiore quanto minore risulterà il valore della massa passiva.

L’oggetto dell’accertamento del giudice delegato, dunque, è il diritto di partecipare al riparto, e le regole e le forme di tale accertamento hanno natura giurisdizionale.

Il processo delineato per l’accertamento del passivo è un modello di cognizione sommaria camerale, creato ad hoc: un modello di cognizione arricchito rispetto a quello del rito camerale tratteggiato nel codice di rito.

E allora, secondo Sez. 1, n. 00278/2019, Falabella, Rv. 652070-01, nel giudizio di insinuazione al passivo, l’omessa o assolutamente incerta esposizione dei fatti costituenti le ragioni della domanda, rende il ricorso inammissibile ai sensi dell’art. 93, comma quarto, l.fall., fermo restando che quando sia possibile individuare una o più domande sufficientemente identificate nei loro elementi essenziali, l’eventuale carenza della causa petendi delle altre comporta l’inammissibilità solo di queste ultime e non dell’intero ricorso.

Sez. 6-1, n. 33008/2019, Falabella, Rv. Rv. 656154 - 01, ricorda a sua volta che l’indicazione del titolo della prelazione e della descrizione del bene sul quale essa si esercita, se questa ha carattere speciale, sancita dall’art. 93, comma terzo, n. 4, l. fall. (nel testo novellato a seguito del d.lgs. n. 5 del 2006, e del correttivo d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169), quale requisito eventuale dell’istanza di ammissione in privilegio, deve essere verificata dal giudice, tenuto conto del principio generale secondo cui l’oggetto della domanda si identifica sulla base delle complessive indicazioni contenute in quest’ultima e dei documenti alla stessa allegati.

Sez. 1, n. 22080/2019, Dolmetta, Rv. 655167-01, afferma poi che l’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto che costituiscono la ragione della domanda può essere sintetica purché ne sia assicurata chiarezza ed intelligibilità, assumendo rilevanza anche le complessive indicazioni contenute nell’atto processuale e nei documenti ad esso allegati.

Sez. 1, n. 29258/2019, Vella, Rv. 656266 – 01, precisa infine che nelle procedure fallimentari nelle quali, alla data del 19 dicembre 2012 (data di entrata in vigore della l. 17 dicembre 2012, n. 221, di conversione del d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, poi modificata dalla l. 24 dicembre 2012, n. 228, in vigore dal 1 gennaio 2013) non sia stato ancora effettuato l’avviso ex art. 92 l. fall., il creditore è tenuto, ai sensi dell’art. 93, comma secondo, l. fall., a trasmettere il ricorso contenente la domanda tempestiva di ammissione al passivo, con la documentazione ad esso allegata, all’indirizzo di posta elettronica certificata del curatore indicato nel predetto avviso, ai sensi dell’art. 92, comma primo, n. 4), l. fall.

Il mancato rispetto della forma telematica di trasmissione del ricorso determina la improcedibilità del ricorso, fatti salvi gli effetti della sanatoria dell’atto per raggiungimento dello scopo, ai sensi dell’art. 156, comma terzo, c.p.c., qualora la domanda sia comunque pervenuta al curatore, sia stata da questo inserita nel progetto di stato passivo, completa della documentazione allegata, e sia stata esaminata, nel contraddittorio di rito con tutti i creditori e terzi interessati, all’udienza di discussione dello stato passivo.

L’insinuazione al passivo presuppone che il debitore fallito sia personalmente obbligato nei confronti del creditore.

Ne consegue per Sez. 1, n. 18790/2019, Campese, Rv. 654664-01, che i creditori titolari di un diritto di ipoteca o di pegno sui beni compresi nel fallimento costituiti in garanzia per crediti vantati verso debitori diversi dal fallito non possono, anche dopo la novella introdotta dal d.lgs. n. 5 del 2006, avvalersi del procedimento di verificazione dello stato passivo di cui al capo V della legge fallimentare, in quanto non sono creditori del fallito e non possono proporre domanda di separazione ex art. 103 l. fall., non risultando neanche tra i destinatari dell’avviso del curatore ex artt. 92 e 107, comma terzo, l. fall.

Ancora, Sez. 1, n. 31053/2019, Falabella, Rv. 656124 – 01, con riferimento alle cause legittime di prelazione, ha ritenuto che l’intervenuta ammissione al passivo del fallimento di una società di persone, in via chirografaria, di un credito, rende inammissibile la successiva domanda di insinuazione dello stesso credito, in via ipotecaria, al passivo del fallimento del socio illimitatamente responsabile, atteso che il credito insinuato in chirografo al passivo sociale ha già prodotto i suoi effetti, ex art. 148, comma terzo, l. fall., anche in relazione alla massa imputabile al singolo socio.

Le modalità di insinuazione al passivo dei crediti tributari non si discostano da quelle di insinuazione dei crediti “ordinari”: basta che, con l’istanza di ammissione, il creditore si affermi titolare di un diritto di credito, descrivendone la causa petendi e spiegando le sue conclusioni. La previa notifica al debitore in bonis della cartella di pagamento può avere solo l’effetto di consolidare la pretesa erariale prima della dichiarazione di fallimento.

Di conseguenza, Sez. 1, n. 16112/2019, Fidanzia, Rv. 654628-01, ribadisce che il concessionario del servizio di riscossione dei tributi può domandare l’ammissione al passivo dei crediti tributari maturati nei confronti del fallito sulla base del ruolo, senza che occorra anche la previa notificazione della cartella esattoriale, ed anzi sulla base del solo estratto, in ragione del processo di informatizzazione dell’amministrazione finanziaria che, comportando la smaterializzazione del ruolo, rende indisponibile un documento cartaceo, imponendone la sostituzione con una stampa dei dati riguardanti la partita da riscuotere; pertanto, stante il disposto dell’art. 23 del d.lgs. n. 82 del 2005 (modificato dall’art. 16, comma 1, del d.lgs. n. 235 del 2010), gli estratti del ruolo, consistenti in copie operate su supporto analogico di un documento informatico, formate nell’osservanza delle regole tecniche che presiedono alla trasmissione dei dati dall’ente creditore al concessionario, hanno piena efficacia probatoria ove il curatore non contesti la loro conformità all’originale.

A sua volta, Sez. 6-1, n. 02732/2019, Bisogni, Rv. 652676-01, afferma che l’ammissione allo stato passivo di crediti sia previdenziali che tributari può essere richiesta dalle società concessionarie per la riscossione, sulla base del semplice estratto di ruolo, senza che occorra, in difetto di espressa norma di legge, la previa notifica della cartella esattoriale, salva la necessità, per i crediti tributari, di provvedere, in caso di contestazioni del curatore, all’ammissione con riserva, e, per i crediti previdenziali, in quanto assoggettati alla giurisdizione del giudice ordinario, di integrare la prova, da parte del concessionario, con altri documenti giustificativi in possesso dell’ente previdenziale.

Il creditore che non abbia provveduto nei trenta giorni antecedenti all’udienza di verifica all’invio della domanda di ammissione al passivo può egualmente avanzare l’istanza di ammissione tardiva (art. 101 l. fall.), ma in nessun caso oltre l’anno successivo al deposito del decreto di esecutività dello stato passivo (termine prorogabile fino a diciotto mesi dal tribunale nella sentenza dichiarativa di fallimento, nei casi in cui la procedura presenti particolare complessità) ovvero, se il creditore dimostri che il ritardo è dipeso da causa a lui non imputabile, persino oltre tale termine, ma tuttavia solo fino a quando non siano esaurite le attività di riparto.

Orbene, nel corso del 2019 in seno alla Prima Sezione Civile della S.C., si sono manifestati almeno tre diversi orientamenti sul tema della sorte dei crediti sorti nel corso della procedura.

Secondo Sez. 1, n. 01391/2019, Di Marzio, Rv. 652403-01, l’insinuazione al passivo dei crediti sorti nel corso della procedura (in quel caso di amministrazione straordinaria), non è soggetta al termine di decadenza previsto dall’art. 101, commi primo e secondo, l. fall..

Invece, Sez. 1, n. 17594/2019, Vella, Rv. 654427-01, afferma che i crediti prededucibili, sorti prima o dopo la dichiarazione di fallimento, devono essere accertati nelle forme della verifica dello stato passivo e sono soggetti ai termini di decadenza previsti per le domande tardive dall’art. 101, commi primo e quarto, l. fall., ben potendo l’epoca di maturazione del credito assumere rilievo ai fini della non imputabilità del ritardo. Fanno eccezione i crediti che non risultino contestati per collocazione ed ammontare ovvero siano sorti a seguito di provvedimenti di liquidazione dei compensi di cui all’art. 25 l.fall., che, per essere soddisfatti, non hanno bisogno di una formale domanda di ammissione al passivo.

Infine, secondo Sez. 1, n. 18544/2019, Dolmetta, Rv. 656037-01, e Sez. 6-1, n. 28799/2019, Dolmetta, Rv 656090-01, ferma l’inapplicabilità dell’art. 101 l. fall., le domande di ammissione al passivo dei crediti sopravvenuti alla dichiarazione di fallimento, devono essere presentate nel termine di un anno a decorrere dal momento in cui si verificano le condizioni per partecipare al concorso fallimentare, non potendo riconoscersi al creditore sopravvenuto un termine più breve di quello a disposizione dei creditori preesistenti, alla luce del principio di eguaglianza e del diritto di agire in giudizio, di cui agli artt. 3 e 24 Cost.

Infine, merita di essere senz’altro segnalata Sez. 1, n. 10540/2019, Sambito, Rv. 653472-03, a tenore della quale il procedimento di accertamento dello stato passivo non costituisce l’unica modalità consentita per accertare eventuali ragioni di credito ammesse ad una procedura concorsuale. Ne consegue che non è contraria all’ordine pubblico la sentenza straniera che accerti tale credito al di fuori della cognizione del giudice fallimentare, e ciò sia avuto riguardo alla disciplina nazionale, che conosce più di un caso in cui la decisione sull’esistenza e l’entità del credito sia devoluta alla giurisdizione di altri giudici (ad esempio il giudice tributario, quello amministrativo e la Corte dei Conti), sia in relazione alla disciplina europea di cui al Regolamento UE n. 848/2015 che, non contenendo alcuna disposizione vincolante per gli Stati membri in tema di verifica dei crediti, e rinviando alla disciplina dello Stato di provenienza, non esprime princìpi irrinunciabili che impongano a tutela della “par condicio creditorum” necessariamente l’accertamento dei crediti in sede concorsuale.

5.1. Prove documentali e data certa.

La partecipazione al concorso è riservata ai soggetti il cui credito abbia genesi in fatti antecedenti rispetto alla dichiarazione di fallimento del debitore.

La necessaria anteriorità del credito rispetto alla dichiarazione di fallimento fa sì che i documenti prodotti a sostegno di domande di insinuazione, contenenti clausole relative alla regolazione di un rapporto giuridico che il creditore faccia valere a fondamento della sua istanza di ammissione, debbano essere munite della data certa ex art. 2704 c.c., a pena di inopponibilità alla massa.

Ne consegue che se il documento è necessario per la prova del credito fatto valere dal soggetto che chiede l’ammissione, la data certa anteriore al fallimento è imprescindibile affinché il creditore sia ammesso al passivo; se, invece, l’esistenza del rapporto anteriore al fallimento sia stata provata, ma le condizioni di quel rapporto siano formalizzate in un documento non avente data certa anteriore alla dichiarazione di fallimento, il credito può essere ammesso, ma non nella misura fondata su quelle condizioni contrattuali, attesa la loro inopponibilità.

Sulla base dei ricordati princìpi, Sez. 2, n. 21253/2019, Dongiacomo, Rv. 655205-01, ha affermato che la simulazione di un contratto di compravendita è opponibile al fallimento della parte acquirente, ma l’accordo simulatorio deve essere provato per mezzo di scrittura recante la controdichiarazione dotata di data certa, ex art. 2704 c.c., che ne dimostri tanto la formazione in data antecedente al fallimento, quanto il perfezionamento in epoca anteriore o coeva alla stipulazione dell’atto simulato, essendo irrilevante che il prezzo dichiarato nel contratto sia stato, o meno, in tutto o in parte pagato.

Inoltre, Sez. 1, n. 27203/2019, Pazzi, Rv. 655771-01, ha ribadito che, in sede di accertamento dello stato passivo del fallimento, la mancanza di data certa del contratto prodotto quale prova del credito comporta l’inopponibilità al fallimento delle clausole riportate sulla relativa documentazione, ma ciò non esclude che possa risultare provata la corresponsione di una o più somme da parte del creditore e, quindi, sia la sussistenza di un suo corrispondente credito di restituzione in linea capitale, sia la stessa natura contrattuale del credito. Ne discende che detta inopponibilità esclude soltanto che le clausole riportate nella documentazione priva di data certa possano essere considerate ai fini della effettiva regolamentazione del rapporto, mentre l’esistenza del contratto potrà essere oggetto di prova, prescindendo dal documento, con tutti gli altri mezzi consentiti dall’ordinamento.

Sez. 1, n. 01389/2019, Di Marzio, Rv. 652402-01, ricorda che l’art. 2704 c.c. fa discendere la certezza della data della scrittura privata non autenticata rispetto ai terzi, oltre che dalla registrazione ovvero dagli eventi specificamente considerati dalla norma, anche dal verificarsi di un altro fatto che stabilisca in modo egualmente certo l’anteriorità della formazione del documento. Ne consegue che la certezza della data di una fattura, nei riguardi del curatore fallimentare, non può essere desunta dai documenti di trasporto ad essa relativi, ove, a propria volta, non abbiano data certa e non siano quindi opponibili al fallimento.

Sez. 1, n. 04251/2019, Campese, Rv. 652652-01, assume che la cd. “marcatura temporale” è il processo con cui un certificatore accreditato crea ed appone su un documento informatico, digitale o elettronico, una “firma digitale del documento” alla quale sono associate le informazioni relative alla data e all’ora di creazione che, ove siano state seguite le regole tecniche sulla validazione temporale di cui al d.p.c.m. del 22 febbraio 2013, sono opponibili ai terzi.

5.2. Prelazione e fallimento.

Le pretese alla soddisfazione sul ricavato della liquidazione del patrimonio fallimentare si presentano come gerarchicamente ordinate, secondo un’articolazione che riflette quell’ordinamento gerarchico che qualifica la pretesa vantata sul piano sostanziale dal creditore nei confronti del debitore fallito.

La prima norma che viene in rilievo è quella di cui all’art. 54 l. fall., secondo la quale il credito prelatizio concorre con prelazione per l’intero suo valore nominale, oltre che per gli interessi maturati e per le spese, con i limiti di cui all’art. 54, ultimo comma, l. fall. per quanto riguarda la collocazione prelatizia degli interessi.

La prelazione opera sia con riferimento ai crediti concorsuali (art. 54 l. fall.) che con riferimento ai crediti prededucibili (art. 111 bis, comma 2, l. fall.).

Sez. 1, n. 22725/2019, Caiazzo, Rv. 655331-02, ricorda che le spese sostenute dal creditore istante nel giudizio di opposizione alla sentenza di fallimento, in quanto sorte successivamente all’apertura del concorso dei creditori e, pertanto, inidonee ad integrare un credito concorsuale, non possono godere del privilegio di cui agli artt. 2755 e 2770 c.c., perché tali cause di prelazione concernono le spese relative all’apertura dell’esecuzione singolare o collettiva.

Secondo Sez. 1, n. 28962/2019, Dolmetta, Rv. 655826-02, il creditore ha diritto di insinuarsi anche per le spese vive sostenute per la presentazione della relativa domanda che risultino in concreto indispensabili, restando invece escluse quelle relative ai compensi spettanti al difensore, giacché l’insinuazione può sempre essere richiesta dalla parte personalmente.

Sez. 1, n. 24587/2019, Mercolino, Rv. 655619 – 01, afferma che il privilegio generale sui mobili per i crediti erariali deve essere riconosciuto anche per il periodo antecedente alla novella dell’art. 2752, comma 1, c.c., introdotta dall’art. 23, comma 37, del d.l. n. 98 del 2011, convertito, con modificazioni, nella legge n. 111 del 2011, purché sia ancora in corso il procedimento di accertamento del passivo e il creditore istante abbia formulato tempestivamente, dopo l’entrata in vigore della novella (6 luglio 2011), la relativa domanda di riconoscimento del rango privilegiato.

Sez. 6-1, n. 24836/2019, Terrusi, Rv. 655816 - 01, ribadisce che deve riconoscersi alla regione il privilegio generale mobiliare in relazione al credito tributario vantato per la tassa automobilistica, perché detto privilegio per i crediti tributari degli enti locali è volto ad assicurare agli enti medesimi la provvista dei mezzi economici necessari per l’adempimento dei loro compiti istituzionali, previsti dalla Costituzione, sicché l’espressione “legge per la finanza locale”, contenuta nell’art. 2752, comma 4, c.c., non deve essere riferita ad una legge specifica istitutiva della singola imposta, bensì a tutte le disposizioni che disciplinano i tributi degli enti locali, e tale interpretazione estensiva, da applicarsi anche ai tributi regionali, è stata confermata dall’art. 13, comma 13, del d.l. n. 201 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 214 del 2011, che ha fornito una interpretazione autentica del menzionato comma in riferimento ai tributi comunali e provinciali.

È da segnalare Sez. 1, n. 15724/2019, Pazzi, Rv. 654456-01, a tenore della quale nelle procedure concorsuali, compresa quella di concordato, la prededuzione attribuisce non una causa di prelazione ma una precedenza processuale, in ragione della strumentalità dell’attività, da cui il credito consegue, agli scopi della procedura, onde renderla più efficiente, atteso che, mentre il privilegio, quale eccezione alla “par condicio creditorum”, riconosce una preferenza ad alcuni creditori e su certi beni, nasce fuori e prima del processo esecutivo, ha natura sostanziale e si trova in rapporto di accessorietà con il credito garantito poiché ne suppone l’esistenza e lo segue, la prededuzione (che, per la differenza del piano su cui opera rispetto al privilegio, può aggiungersi alle cause legittime di prelazione nei rapporti interni alla categoria dei debiti di massa, quando vi sia insufficienza di attivo e sia necessario procedere ad una gradazione pure nella soddisfazione dei creditori prededucibili) attribuisce una precedenza rispetto a tutti i creditori sull’intero patrimonio del debitore e ha natura procedurale, perché nasce e si realizza in tale ambito e assiste il credito di massa finché esiste la procedura concorsuale in cui lo stesso ha avuto origine, venendo meno con la sua cessazione.

Secondo Sez. 1, n. 5341/2019, Dolmetta, Rv. 652812-01, l’ammissione al passivo fallimentare di un credito assistito da ipoteca è possibile anche se il bene su cui grava la garanzia non faccia parte dell’attivo, purché, ai sensi dell’art. 93 l. fall. (nel testo introdotto dall’art. 78 del d.lgs. n. 5 del 2006), la domanda di insinuazione descriva il bene su cui si intende far valere la prelazione e precisi le oggettive ragioni della potenziale acquisibilità, fermo restando che l’effettivo dispiegarsi della prelazione in sede di riparto rimane subordinato al recupero del bene al compendio fallimentare.

5.3. Prededuzione e fallimento.

L’attivo fallimentare è destinato a soddisfare le pretese di tutti i creditori del fallito.

Tuttavia, i valori che il curatore realizza tramite la liquidazione del patrimonio fallimentare non sono in realtà riservati in via esclusiva alla soddisfazione di tali crediti, su di essi potendo trovare soddisfacimento anche altre pretese, nascenti da rapporti obbligatori che non fanno capo al fallito.

Si tratta, innanzitutto, dei crediti originati da atti compiuti dal curatore successivamente alla dichiarazione di fallimento, nell’ambito della gestione del patrimonio fallimentare e strumentali a realizzare la finalità della procedura: si pensi ai crediti per compensi ed onorari maturati dagli avvocati incaricati dal curatore di tutelare i diritti del fallito ovvero per far valere pretese che questi vantava nei confronti di terzi; ai crediti derivanti da contratti pendenti dei quali la legge disponga la continuazione automatica o nei quali il curatore abbia deciso di subentrare; ai crediti nascenti da atti compiuti dal curatore, là dove, per non disperdere i valori di avviamento del complesso aziendale, questi opti per l’esercizio provvisorio dell’impresa.

La circostanza che anche tali crediti (cd. “di massa”) possano soddisfarsi sui valori ricavati dalla liquidazione del patrimonio fallimentare è inevitabile, in quanto il fallimento non dispone di un suo patrimonio per le spese di amministrazione e di conservazione, fatte anche nell’interesse dei creditori concorsuali.

Orbene, per Sez. 1, n. 22725/2019, Caiazzo, Rv. 655331-01, non possono essere ammesse in prededuzione le spese sostenute dal creditore istante nel giudizio di opposizione alla dichiarazione di fallimento, ancorché egli sia litisconsorte necessario, non potendosi desumere da tale qualità la inerenza delle spese sostenute all’amministrazione del fallimento o alla sua conservazione.

Invece, secondo Sez. 1, n. 14713/2019, Terrusi, Rv. 654268-01, i crediti di terzi, scaturenti da atti legalmente compiuti dall’imprenditore dopo la presentazione di una domanda di concordato con riserva, sono in astratto prededucibili nel successivo fallimento, per espressa disposizione di legge, anche quando vi sia stata rinuncia al concordato, poiché il requisito della consecuzione tra le procedure dipende soltanto dalla mancanza di discontinuità dell’insolvenza.

Peraltro, Sez. 1, n. 15724/2019, Pazzi, Rv. 654456-02, sottolinea come la consecuzione tra procedure concorsuali è un fenomeno generalissimo, consistente nel collegamento tra procedure di qualsiasi tipo, volte a regolare una coincidente situazione di dissesto dell’impresa, che trova nell’art. 69 bis l. fall. una sua particolare disciplina nel caso in cui esso si atteggi a consecuzione fra una o più procedure minori e un fallimento finale; tale fenomeno funge da elemento di congiunzione fra procedure distinte e consente di traslare dall’una all’altra procedura la precedenza procedimentale in cui consiste la prededuzione, facendo sì che essa valga non solo nell’ambito procedurale in cui è maturata, ma anche nell’altro che al primo sia conseguito.

Sulla stessa scia, Sez. 1, n. 25471/2019, Campese, Rv. 655349-01, ha ritenuto il carattere prededucibile del credito maturato dal professionista che, pendente il termine assegnato dal tribunale ex art. 161, comma 6, l. fall. in ipotesi di domanda di concordato “in bianco” o “con riserva”, sia stato incaricato di redigere l’attestazione, qualora, una volta dichiarata inammissibile la domanda concordataria, sia stato pronunciato il fallimento del debitore.

Inoltre, Sez. 6-1, n. 32417/2019, Mercolino, Rv. 656153 - 01, ha ribadito che il credito fatto valere da un professionista a titolo di compenso per l’assistenza prestata in favore del debitore ai fini della redazione e della presentazione di una domanda di concordato preventivo rientra de plano tra quelli sorti “in funzione” della procedura, e nel successivo fallimento deve essere pertanto soddisfatto in prededuzione, ai sensi dell’art. 111, comma 2, l. fall., senza che ai fini di tale collocazione debba accertarsi, con valutazione ex post, se la prestazione resa sia risultata concretamente utile per la massa in ragione dei risultati raggiunti.

Anche il credito del professionista che abbia assistito il debitore nella preparazione della documentazione per la proposizione dell’istanza di fallimento in proprio è prededucibile, in quanto, sebbene sia derivante da un’attività che può essere svolta personalmente dal debitore ma che lo stesso ha scelto, per ragioni di opportunità o di convenienza, di affidare ad un esperto di settore, sorge in funzione della procedura fallimentare, ai sensi dell’art. 111, comma 2, l. fall. Tale disposizione, infatti, reca una norma generale, applicabile a tutte le procedure concorsuali, come ormai definitivamente chiarito anche dall’abrogazione dell’art. 182 quater, comma 4, l. fall., ad opera del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 134 (Sez. 1, n. 17596/2019, Vella, Rv. 654461-01).

Uno dei casi più frequenti, nei quali sorgono crediti in prededuzione, si verifica nel caso in cui le prestazioni lavorative, all’interno dell’azienda facente capo all’imprenditore, proseguano anche dopo la dichiarazione di fallimento di quest’ultimo.

In proposito Sez. 1, n. 18779/2019, Nazzicone, Rv. 654663-01, ricorda che la dichiarazione di fallimento dell’imprenditore non costituisce giusta causa di risoluzione del contratto di lavoro, in quanto l’azienda, nella sua universalità, sopravvive e l’impresa non cessa, passando soltanto da una gestione per fini di produzione, suscettibile peraltro di essere continuata o ripresa, ad una gestione per fini di liquidazione, sicché, nel caso in cui la prestazione lavorativa sia proseguita dopo la dichiarazione di fallimento e, di fatto, anche oltre il periodo di esercizio provvisorio dell’impresa autorizzato dal tribunale, i crediti maturati dal lavoratore devono essere ammessi al passivo in prededuzione.

6. Le opposizioni allo stato passivo.

Sez. 1, n. 27203/2019, Genovese, Rv. 655771-01, ha ripreso il tema della data certa in funzione probatoria del credito, puntualizzando che la mancanza di certezza cronologica del contratto prodotto ne implica l’inopponibilità al fallimento con riferimento alle clausole riportate sulla relativa documentazione. Ciò non esclude che possa risultare provata la corresponsione di una o più somme da parte del creditore e, quindi, sia la sussistenza di un suo corrispondente credito di restituzione in linea capitale, sia la stessa natura contrattuale del credito. Pertanto, detta inopponibilità esclude soltanto che le clausole riportate nella documentazione priva di data certa possano essere considerate ai fini della effettiva regolamentazione del rapporto, mentre l’esistenza del contratto potrà essere oggetto di prova, prescindendo dal documento, con tutti gli altri mezzi consentiti dall’ordinamento.

Sempre in tema di prova del credito, Sez. 6-1, n. 01529/2019, Di Marzio, Rv. 654303-01 segnala la sussistenza, in capo alla banca che intenda insinuarsi al passivo di un fallimento prospettando una ragione di credito derivante da un rapporto obbligatorio regolato in conto corrente, dell’onere, nel giudizio di opposizione allo stato passivo, di dare piena dimostrazione del proprio credito, secondo il disposto della norma generale dell’art. 2697 c.c., depositando la documentazione relativa allo svolgimento del conto, senza poter pretendere di opporre al curatore, stante la sua posizione di terzo, gli effetti che, ex art. 1832 c.c., derivano, tra le parti del contratto, dall’approvazione anche tacita del conto da parte del correntista, poi fallito, e dalla di lui decadenza dalle impugnazioni. Dunque, è ancora il profilo della terzietà del curatore rispetto ai rapporti negoziali intrapresi dal soggetto fallito e semplicemente presi in carico dall’organo concorsuale ad emergere in misura pregnante.

Sez. L, n. 09020/2019, Pagetta, Rv. 653450-01, sul versante probatorio mette in luce l’estensione specifica dei poteri istruttori d’ufficio del giudice dell’opposizione allo stato passivo: l’emanazione dell’ordine di esibizione (nella specie, di documenti) ha caratura discrezionale e la valutazione di indispensabilità non esige motivazione; ne consegue che il provvedimento di rigetto dell’istanza ad exibendum è insindacabile in sede di legittimità, anche sotto il profilo del difetto di motivazione, trattandosi di uno strumento istruttorio residuale, utilizzabile soltanto quando la prova dei fatti non possa in alcun modo essere acquisita con altri mezzi e l’iniziativa della parte instante non abbia finalità esplorativa.

Ancora in un quadro lato sensu probatorio delle ragioni di credito si iscrive Sez. 1, n. 05657/2019, Vella, Rv. 652819-01, secondo cui nell’opposizione allo stato passivo, il decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo ex art. 642 c.p.c. che sia stato opposto con giudizio cancellato dal ruolo per inattività delle parti e non riassunto, non è opponibile alla massa fallimentare, laddove il giudizio di opposizione sia iniziato prima dell’entrata in vigore, il 25 giugno 2008, ex art. 50 del d.l. n. 118 del 2008, convertito dalla l. n. 133 del 2008, del nuovo testo dell’art. 181, primo comma, c.p.c. alla luce del quale l’estinzione del giudizio in caso di inattività delle parti può essere pronunciata d’ufficio. Ne consegue che, in difetto di una esplicita pronuncia di estinzione divenuta inoppugnabile, richiesta secondo la formulazione della norma applicabile ratione temporis, il decreto ingiuntivo non munito, prima della dichiarazione di fallimento, del decreto di esecutorietà ex art. 647 c.p.c. non può considerarsi passato in cosa giudicata formale e sostanziale e pertanto non è opponibile al fallimento.

Ed è nel medesimo ambito che si innesta Sez. 1, n. 16109/2019, Guido, Rv. 654627-01, che ascrive anche al portatore di un titolo di credito che eserciti l’azione causale l’onere di produrre il titolo in originale ai sensi dell’art. 66 del r.d. n. 1669 del 1933 e dell’art. 58 del r.d. n. 1736 del 1933, e, in mancanza, il credito verso il traente fallito deve essere ammesso con riserva, essendo la produzione del titolo intesa ad evitare la possibilità di insinuazione da parte di altri creditori in via cambiaria, ovvero ad assicurare al debitore l’esercizio di eventuali azioni cambiarie di regresso.

Si è poi affermato che la ricognizione di debito avente data certa anteriore alla dichiarazione di fallimento del suo autore non determina la presunzione dell’esistenza del rapporto fondamentale, trattandosi di documento liberamente apprezzabile dal giudice al pari di quanto avviene per la confessione stragiudiziale resa ad un terzo, qual è il curatore fallimentare (Sez. 1, n. 10215/2019, Dolmetta, Rv. 653694-01).

Ancora, le buste paga rilasciate al lavoratore dal datore di lavoro ove munite, alternativamente, della firma, della sigla o del timbro di quest’ultimo, possono essere utilizzate come prova del credito oggetto di insinuazione, considerato che ai sensi dell’art. 3 della legge n. 4 del 1953 la loro consegna al lavoratore è obbligatoria, ferma restando la facoltà del curatore di contestarne le risultanze con altri mezzi di prova, ovvero con specifiche deduzioni e argomentazioni volte a dimostrarne l’inesattezza, la cui valutazione è rimessa al prudente apprezzamento del giudice (Sez. 1, n. 18169/2019, Fidanzia, Rv. 654544-01).

Peraltro, in caso di insolvenza del datore di lavoro, ai fini della nascita dell’obbligazione del Fondo di Garanzia gestito dall’INPS, di cui all’art. 2 del d.lgs. n. 80 del 1992, non è sufficiente che il credito relativo alle ultime tre mensilità sia stato ammesso al passivo della procedura concorsuale, ma occorre accertare autonomamente la ricorrenza dei presupposti oggettivi e soggettivi dai quali discende l’obbligo di tutela assicurativa, né, a seguito di tale ammissione, dalla natura autonoma e dal carattere previdenziale della prestazione deriva l’impossibilità per l’INPS di contestare la ricorrenza degli elementi interni alla fattispecie previdenziale (Sez. 6-L, n. 31128/2019, Spena, Rv. 655902 – 01)

Dell’articolazione e del dosaggio del contraddittorio nei giudizi di opposizione allo stato passivo si sono occupate Sez. 1, n. 22386/2019, Dolmetta, Rv. 655291-01 e Sez. 1, n. 29254/2019, Vella, Rv. 655635 - 01, rilevando che nei medesimi il curatore può introdurre eccezioni nuove non formulate già in sede di verifica. In tal caso peraltro, e solo in relazione ai contenuti e termini dell’eccezione nuova, il rispetto del principio del contraddittorio esige che sia concesso termine all’opponente per dispiegare le proprie difese e produrre la documentazione probatoria idonea a supportarle. In applicazione di tale principio la S.C. ha confermato il decreto del tribunale di inammissibilità della produzione documentale sull’esistenza, entità e rango del credito insinuato, richiesta dall’opponente, in quanto estranea al tema dei controcrediti introdotto con l’eccezione del curatore.

Sempre in materia di eccezioni proponibili, Sez. 1, n. 10528/2019, Amatore, Rv. 653471-01, sottolinea che il tribunale fallimentare è investito della competenza a decidere su tutti i fatti modificativi od estintivi dei crediti azionati dai creditori concorsuali, sicché il curatore può proporre in detta sede una eccezione riconvenzionale di compensazione al solo fine di ottenere il rigetto della domanda di partecipazione al concorso.

Una opportuna precisazione di forte impatto pratico è stata veicolata da Sez. 1, n. 19151/2019, Lamorgese, Rv. 654666-02, secondo cui il ricorso in opposizione allo stato passivo, ai sensi dell’art. 16-bis, comma 3, del d.l. n. 179 del 2012, convertito con modificazioni dalla l. n. 221 del 2012, può essere depositato in forma cartacea, essendo le modalità telematiche previste in via esclusiva soltanto per gli atti del curatore, del commissario giudiziale, del liquidatore, del commissario liquidatore e del commissario straordinario, fermo restando che l’eventuale vizio dell’atto introduttivo del giudizio è sanabile per raggiungimento dello scopo della costituzione del rapporto processuale, eventualmente mediante concessione di un termine all’altra parte per svolgere le proprie difese.

La medesima pronuncia spiega pure (Rv. 654666-01) che il decreto del giudice delegato che, senza fissare l’udienza di verifica, dichiari senz’altro inammissibile la domanda di insinuazione tardiva di un credito, perché formulata oltre il termine di cui all’art. 101 l. fall., è impugnabile con l’opposizione di cui all’art. 99 l. fall. e non con il reclamo ex art. 26 l. fall., trattandosi di provvedimento che concorre alla formazione definitiva dello stato passivo ed incide sul diritto alla partecipazione al concorso del creditore.

Su altro piano Sez. 1, n. 14321/2019, Dolmetta, Rv. 654265-01, ha significativamente escluso la legittimazione a proporre in proprio l’opposizione allo stato passivo contro l’esclusione di un credito di cui è titolare l’associazione professionale, la quale costituisce centro di imputazione di situazioni giuridiche autonomo e distinto da quello del singolo associato.

Delle conseguenze impugnatorie del rigetto implicito della domanda d’ammissione al passivo si è occupata Sez. 1, n. 07500/2019, Pazzi, Rv. 653111-01, avendo chiarito che il silenzio serbato dal giudice delegato sulla istanza di insinuazione del credito, assume valore implicitamente reiettivo, di talchè il creditore, per evitare il formarsi di una preclusione, deve proporre opposizione allo stato passivo ai sensi dell’art. 98 l. fall., restando conseguentemente inammissibile la successiva domanda di insinuazione tardiva fondata sul medesimo credito.

Infine, Sez. L, n. 30999/2019, Cavallaro, Rv. 655888 - 01, ricorda che nel giudizio di opposizione allo stato passivo promosso dal concessionario per crediti contributivi iscritti a ruolo, è ammissibile l’intervento dell’INPS, essendo irrilevante la pendenza di una eventuale autonoma opposizione da quest’ultimo proposta.

7. La liquidazione dell’attivo e il riparto.

Sez. 1, n. 30200/2019, Ferro, Rv. 655776-01, ha rilevato che nella fase di liquidazione dell’attivo fallimentare, al curatore è riconosciuta la possibilità di incamerare la cauzione prestata da colui che, scelto all’esito di una procedura competitiva finalizzata alla cessione dell’azienda, non addivenga, poi, alla stipula del relativo contratto, così venendo meno al rispetto dell’originaria proposta, a condizione che non venga fornita la prova della non imputabilità dell’inadempimento a fatto e colpa dell’aggiudicatario.

L’interferenza fra l’attività abusivamente posta in essere dal fallito e l’esclusività delle prerogative liquidatorie del curatore è “regolata” da Sez. 1, n. 24602/2019, Guido, Rv. 655762-01, che rileva l’inefficacia ai sensi dell’art. 44 l. fall. della compravendita stipulata dal fallito dopo la dichiarazione di fallimento, qualificandola alla stregua di conseguenza automatica dell’indisponibilità del patrimonio del medesimo, con effetti erga omnes, non essendo impedita l’opponibilità dell’atto ai terzi di buona fede, dalla mancata o ritardata trascrizione della sentenza di fallimento.

L’autonomia del plesso di regole sulla liquidazione endofallimentare rispetto alle norme codicistiche sulle esecuzioni forzate è tenuto in conto da Sez. 1, n. 22383/2019, Guido, Rv. 655028-02, ad avviso della quale l’art. 107 l.fall., nel testo applicabile ratione temporis, prima dell’efficacia delle modifiche introdotte dall’art. 11 del d.l. n. 83 del 2015, convertito con modificazioni dalla l. n. 132 del 2015, attribuisce al curatore ampia discrezionalità circa le modalità di liquidazione dei beni fallimentari tramite procedure competitive, sicchè non è necessario il rispetto del termine di quarantacinque giorni previsto dall’art. 490, comma 2, c.p.c., purchè la vendita avvenga con pubblicità idonea ad assicurare la massima informazione e partecipazione degli interessati.

Ancora sull’impianto dei rapporti fra procedure fallimentari e procedure esecutive individuali interviene Sez. 1, n. 12061/2019, Terrusi, Rv. 653882-01, secondo la quale nell’ipotesi in cui, prima della dichiarazione di fallimento, sia stato trascritto da un creditore il sequestro conservativo su un bene immobile, successivamente ceduto dal debitore ad un terzo, con acquisto trascritto anteriormente alla conversione della misura cautelare in pignoramento, a seguito dell’inizio dell’espropriazione forzata sul predetto bene ed a norma dell’art. 107 della l. fall., il curatore si sostituisce al creditore istante, che perde ogni potere di impulso ai sensi dell’art. 51 della legge fall., e tale sostituzione opera di diritto, senza che sia necessario un intervento del curatore o un provvedimento di sostituzione del giudice dell’esecuzione; se il curatore interviene nell’esecuzione, si realizza un fenomeno di subentro nel processo, come manifestazione del più generale potere di disposizione dei beni del fallito ex art. 31 della legge fall., ma non una vera e propria sostituzione processuale ex art. 81 cod. proc. civ., potendo perciò il curatore giovarsi degli effetti sostanziali e processuali del solo pignoramento, ex art. 2913 cod. civ., ma non sostituirsi nelle posizioni giuridiche processuali strettamente personali del creditore istante, dalle quali non deriva i propri poteri, che, invece, hanno fonte nella legge fallimentare. Ne consegue che mentre al curatore, come partecipante alla medesima esecuzione che con lui prosegue, sono inopponibili gli atti pregiudizievoli trascritti successivamente al pignoramento, egli non può giovarsi della inopponibilità degli atti che hanno per oggetto la cosa sequestrata in quanto tale, trattandosi di effetti di cui si avvantaggia, ex art. 2906 cod. civ., solo il creditore sequestrante. Proprio in applicazione di tale principio, la Corte ha confermato la sentenza impugnata che aveva ritenuto opponibile al curatore fallimentare, intervenuto nell’esecuzione in precedenza promossa, il trasferimento immobiliare trascritto dal terzo dopo il sequestro ma prima della sua conversione in pignoramento.

Il medesimo campo di incroci e sovrapposizioni tra fallimenti ed esecuzioni forzate è solcato da Sez. 1, n. 05655/2019, Pazzi, Rv. 652814-01, secondo cui qualora, prima della dichiarazione di fallimento, sia stata iniziata da un creditore l’espropriazione di un immobile del fallito, ai sensi dell’art. 107 l. fall., nel testo vigente prima della novella introdotta dal d.lgs. n. 5 del 2006, il curatore fallimentare subentra ex lege nella procedura esecutiva individuale, che si trasforma così in esecuzione collettiva i cui effetti sostanziali e processuali decorrono dal pignoramento, sicché rimane ferma l’inopponibilità degli atti traslativi trascritti posteriormente al pignoramento ma prima della sentenza di fallimento, anche se la medesima procedura sia stata successivamente dichiarata estinta dal giudice, ex art. 567, comma terzo, c.p.c., per inerzia del curatore.

Sul diverso ambito del rendiconto del curatore si situa Sez. 1, n. 06377/2019, Vella, Rv. 652733-01, che chiarisce l’oggetto del relativo giudizio, comprensivo, oltre che della verifica contabile, anche dell’effettivo controllo di gestione, potendo estendersi all’accertamento della personale responsabilità dell’organo concorsuale nel compimento di atti pregiudizievoli per la massa o per i singoli creditori; in quest’ultimo caso le contestazioni rivolte al conto debbono essere dotate di concretezza e specificità, non potendo consistere in un’enunciazione astratta delle attività cui il curatore si sarebbe dovuto attenere, ma piuttosto indicare puntualmente gli atti di “mala gestio” posti in essere, nonchè le conseguenze, anche solo potenzialmente dannose, che ne siano derivate, così da consentire la corretta individuazione della materia del contendere e l’efficace esplicazione del suo diritto di difesa.

Ancora in materia di rendiconto Sez. 1, 01394/2019, Pazzi, Rv. 652404-01, ha posto in luce che il decreto con il quale il tribunale liquida, dopo l’approvazione del rendiconto, il compenso finale al curatore, ha natura decisoria e carattere definitivo; esso non è soggetto a reclamo ai sensi dell’art. 39 l.fall., è impugnabile per cassazione ex art. 111 Cost. ma non è suscettibile di essere revocato o modificato dall’autorità giudiziaria che lo ha emesso, consumando questa, con la sua adozione, il proprio potere decisionale.

In tema di ripartizione dell’attivo tra i creditori Sez. 1, 00541/2019, Mercolino, Rv. 652729-03, ha precisato che la disciplina di cui all’art. 117, comma terzo, l. fall., antecedente alle modifiche di cui all’art. 107 del d.lgs. n. 5 del 2006 (che ha introdotto i commi 4 e 5 della predetta norma), nel prevedere l’efficacia liberatoria del deposito presso l’istituto di credito, escludendo la possibilità di un riparto supplementare delle somme spettanti ai creditori che non si siano presentati a riscuoterle o che siano rimasti irreperibili, non contrasta con l’art. 1 Primo Protocollo aggiuntivo alla CEDU in quanto relativa a somme definitivamente fuoriuscite dalla disponibilità del fallimento e rispetto alle quali i creditori rimasti insoddisfatti non sono titolari di alcun diritto e non possono lamentare alcuna privazione della proprietà.

8. La chiusura del fallimento e l’esdebitazione.

Un corollario della chiusura del fallimento è tratto da Sez. 2, n. 17149/2019, Falaschi, Rv. 654555-01, la quale pone in luce che l’atto di riassunzione dinanzi al giudice del rinvio deve essere notificato personalmente al fallito tornato in bonis, poiché la chiusura del fallimento, determinando la cessazione degli organi fallimentari e il rientro del fallito nella disponibilità del suo patrimonio, fa venir meno la legittimazione processuale del curatore. Tuttavia, la notifica eventualmente eseguita al curatore deve ritenersi nulla e non già inesistente, attesa la possibilità di ricollegare il predetto soggetto con le precedenti designazioni della parte, con la conseguenza che, in tale ipotesi, il giudice del rinvio non può dichiarare l’estinzione del giudizio ma, giusta la previsione di cui all’art. 291 c.p.c., deve ordinare la rinnovazione della notificazione, salvo che la parte intimata si sia costituita in giudizio sanando la nullità.

Sez. 1, n. 04514/2019, Mercolino, Rv. 652729-02, pone in evidenza che nel caso di dichiarazione di fallimento anteriore all’entrata in vigore della introduzione dell’art. 117, comma quinto, l. fall. ad opera dell’art. 107 d.lgs. n. 5 del 2006, non trova applicazione la disciplina così come innovata dovendo, invece, ritenersi applicabile quella previgente sulle forme dei depositi giudiziari ai sensi dell’art. 2 del r.d. n. 149 del 1910 presso l’ufficio postale incaricato del relativo servizio e dell’art. 2 del d.l. n. 143 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 181 del 2008, sulla devoluzione al Fondo unico giustizia delle somme non reclamate entro cinque anni.

Una conseguenza della chiusura del fallimento sul fronte dei rapporti obbligatori residui è ricavata da Sez. 1, n. 13921/2019, Iofrida, Rv. 654262-01, secondo la quale l’estinzione della società per effetto dell’obbligatoria cancellazione dal registro delle imprese, ai sensi dell’art. 118, comma primo, n. 4, l.fall., a seguito di chiusura del fallimento per insufficienza dell’attivo, determina il trasferimento degli eventuali crediti residui, che non siano stati realizzati dal curatore fallimentare, ai soci in regime di contitolarità o comunione indivisa, salvo che il mancato espletamento dell’attività di recupero consenta di ritenere che la società vi abbia già rinunciato prima dell’apertura della procedura concorsuale. Nella specie, la Corte ha confermato la sentenza di merito che aveva dichiarato il difetto di legittimazione attiva dei soci della società estinta, poiché l’esistenza del credito litigioso non era stata portata a conoscenza della curatela, dovendo ritenersi che esso fosse stato già tacitamente rinunciato dalla creditrice.

Infine, Sez. 6-2, n. 08088/2019, Criscuolo, Rv. 653385-01, ha osservato che in tema di domanda di indennizzo ex l. n. 89 del 2001 per irragionevole durata della procedura fallimentare cui non siano applicabili le modifiche introdotte con d.lgs. n. 5 del 2006 e dal d.lgs. n. 169 del 2007, il termine semestrale di decadenza decorre dalla data di definitività del decreto di chiusura del fallimento da individuarsi, qualora il provvedimento non sia stato comunicato, in quello di un anno dalla sua pubblicazione ai sensi dell’art. 327 c.p.c.

Sez. 1, n. 13270/2019, Terrusi, Rv. 653773-01, ha ritenuto che a seguito della riforma della legge fallimentare di cui al d.lgs. n. 5 del 2006 ed al d.lgs. n. 169 del 2007, l’art. 118, comma primo, n. 1), l. fall. vada interpretato nel senso che il fallimento non possa essere chiuso quando siano state comunque presentate domande tempestive di insinuazione al passivo, ancorchè successivamente rinunciate, potendo l’eventuale rinuncia alle domande, siano esse tempestive o tardive, rilevare soltanto ai fini della chiusura della procedura ai sensi dell’art. 118, comma primo, n. 2), l. fall. La pronuncia pare intraprendere un percorso ermeneutico differente rispetto a Sez. 1, n. 04021/2017, Bernabai, Rv. 644308-01, ove si era opinato che, a seguito della riforma della legge fallimentare di cui al d.lgs. n. 5 del 2006 ed al d.lgs. n. 169 del 2007, l’art. 118, comma 1, n. 1, l.fall. andasse interpretato nel senso che il fallimento non potesse essere chiuso in presenza di domande, tempestive o tardive, che, una volta presentate, fossero state destinate ad un’utile collocazione.

Sez. 1, n. 04514/2019, Mercolino, Rv. 652729, ha argomentato che, in tema di giudizio di cassazione, sussiste la legittimazione processuale del curatore fallimentare se, al momento della notifica del ricorso, il decreto di chiusura del fallimento non sia ancora definitivo; così come nell’ipotesi in cui la legittimazione del curatore venga meno nella pendenza del giudizio, in quanto in esso non trovano applicazione gli artt. 299 e 300 c.p.c., nè trova applicazione il principio generale secondo cui la chiusura del fallimento fa cessare la legittimazione processuale del curatore, con il conseguente sub ingresso del fallito, tornato in bonis, nei procedimenti pendenti al momento della chiusura.

In tema di esdebitazione, Sez. 6-1, n. 10080/2019, Terrusi, Rv. 653704-01, ha ritenuto che il disposto dell’art. 142, comma primo, n. 6, l. fall., nella parte in cui prevede, quale condizione di esclusione per il fallito dal beneficio anzidetto, la condanna per delitti compiuti in “connessione con l’esercizio dell’attività di impresa”, vada interpretato nel senso che il delitto deve essere stato commesso non in semplice rapporto di occasionalità, ma in stretto collegamento finalistico o funzionale con l’attività di impresa, ovvero in legame di presupposizione tra il reato e l’attività suddetta. In applicazione del predetto principio, la Corte ha escluso la rilevanza del reato di diffamazione commesso dal fallito ai danni di una banca creditrice, consistito nell’invio di mail con le quali il c.d.a. dell’istituto di credito veniva accusato di ricattarlo in relazione all’assegnazione di alcuni lavori ed alla mancata concessione di credito.

9. Il concordato fallimentare.

Di rilievo il chiarimento reso da Sez. 5, n. 18125/2019, Succio, Rv. 654511-01, secondo cui nel procedimento civile, per effetto della cessazione della materia del contendere a seguito di omologa del concordato fallimentare, deve disporsi la cassazione senza rinvio della sentenza in quanto in tal caso la composizione della controversia consegue, non al venir meno delle ragioni di contrasto, ma alla verifica giudiziale delle condizioni di legge per l’omologazione ed in quanto l’assuntore, quale esecutore del concordato fallimentare, rimane terzo rispetto all’accordo e alla lite pendente, ovvero, anche ove succeda a titolo particolare nei diritti controversi, non può intervenire nel giudizio di legittimità, con la conseguenza che la sentenza emessa è inidonea a regolare i rapporti tra le parti.

10. Il concordato preventivo e l’accordo di ristrutturazione.

In tema di concordato preventivo in bianco, Sez. 1, n. 30456/2019, Pazzi, Rv. 656273 – 01, evidenzia che l’inclusione nelle operazioni di suffragio disposta dal giudice delegato ai sensi dell’art. 176 l.fall. non segna il termine ultimo per ogni statuizione in merito all’ammissione del credito al voto, perché l’assetto normativo dell’istituto caratterizza espressamente tale disposizione come provvisoria e chiama il tribunale – al pari del giudice dell’impugnazione sulla decisione di quest’ultimo – a rinnovare la verifica ai fini del controllo del regolare sviluppo dell’iter procedurale.

Il delicato tema dell’autonomia e della terzietà dell’attestatore è affrontato da Sez. 1, 00922/2019, Vella, Rv. 653106-01, secondo cui, ai fini dell’ammissibilità della proposta di concordato preventivo, ai sensi dell’art. 161, comma 3, l. fall., in presenza di rapporti personali o professionali dell’attestatore con l’impresa proponente o con coloro che hanno interesse all’operazione di risanamento, il giudice deve sempre verificare che tali rapporti siano tali da compromettere in concreto l’indipendenza del suo giudizio. Nella specie la Corte ha cassato con rinvio la sentenza della Corte d’appello, che aveva respinto la domanda di omologa del concordato preventivo per mancanza di indipendenza dell’attestatore, solo perché legato da rapporto di parentela con una dipendente della società proponente.

Il sindacato del tribunale in fase di ammissione è l’aspetto più rilevante rinvenibile in Sez. 1, n. 05653/2019, Mercolino, Rv. 652813-01, secondo la quale, nel valutare l’ammissibilità della domanda il tribunale non può controllare direttamente la regolarità ed attendibilità delle scritture contabili del proponente, ma soltanto svolgere un sindacato sulla corretta predisposizione dell’attestazione del professionista designato ai sensi dell’art. 161, comma 2, l. fall., in termini di completezza dei dati aziendali e di comprensibilità dei criteri di giudizio adottati, rientrando tale attività nella verifica della regolarità della procedura indispensabile per garantire la corretta formazione del consenso dei creditori.

La larghezza e l’oggetto del sindacato giudiziale è il nucleo centrale di Sez. 1, n. 03863/2019, Pazzi, Rv. 653088-01, che esclude dall’ambito della verifica della fattibilità, riservata al giudice, la considerazione dell’aspetto pratico-economico della proposta di concordato preventivo e la convenienza della stessa, quand’anche in ordine al profilo della misura minimale del soddisfacimento dei crediti rappresentati, ritenendo che ciò affasci valutazioni riservate ai creditori. In tal senso, non è possibile individuare una percentuale fissa minima al di sotto della quale la proposta concordataria debba ritenersi inadatta a perseguire la causa concreta cui la procedura è volta, consistente nel consentire il superamento della condizione di crisi dell’imprenditore e nel riconoscere agli aventi diritto la realizzazione del credito vantato in tempi ragionevolmente contenuti, sia pure per una minima consistenza.

La tematica del voto concordatario si registra anche in Sez. 1, n. 03860/2019, Pazzi, Rv. 652650-01, ad avviso della quale quello espresso ancorché con dichiarazione trasmessa al commissario giudiziale a mezzo p.e.c., prima del deposito della relazione di cui all’art. 172 l. fall. e dell’adunanza dei creditori, è valido, purché trovi esatta corrispondenza con la proposta definitiva presentata dal debitore, e, se negativo, deve essere tenuto in considerazione al fine di individuare nel creditore che lo ha manifestato un soggetto dissenziente cui estendere necessariamente il contraddittorio in sede di giudizio di omologazione, ex art. 180, comma primo, l.fall., sicché la pretermissione della notifica del decreto che fissa l’udienza camerale relativa al giudizio di omologazione al creditore dissenziente comporta una violazione del contraddittorio e, di conseguenza, la nullità del giudizio così instauratosi e del decreto di omologa emesso al suo esito.

Sempre in tema di voto Sez. 1, n. 22382/2019, Guido, Rv. 655027-01, ha ritenuto che il fideiussore del proponente il concordato non sia titolare di diritto di voto, atteso che l’art. 174, comma quarto, l. fall. consente soltanto il suo intervento nell’adunanza e che prima del pagamento egli non ha un credito di regresso nei confronti del debitore, potendo esercitare verso di lui solo l’azione di rilievo, ex art. 1950 c.c., che mira ad ottenere un facere e non un dare.

Ad avviso di Sez. 1, n. 30454/2019, Pazzi, Rv. 656272 - 02, il creditore ipotecario è legittimato a proporre reclamo avverso il decreto del giudice delegato che abbia disposto la cancellazione di un’ipoteca iscritta su un immobile a proprio favore, ex art. 108, comma secondo, l. fall. ancorché non si sia opposto all’approvazione della proposta concordataria, poiché egli ha interesse a che la cancellazione dell’ipoteca iscritta a suo favore sia disposta ai sensi dell’art. 182, commi quarto e quinto, l. fall. nel testo applicabile ratione temporis, in maniera legittima, in particolare, avuto riguardo all’avvenuta dismissione del bene nell’ambito della procedura concorsuale, della correlata legittimazione del liquidatore giudiziale ad operare in tal senso e dell’avvenuta riscossione del prezzo.

Sez. 1, n. 27200/2019, Pazzi, Rv. 655352-01, ha argomentato che la rinuncia alla domanda di concordato preventivo con riserva, formulata dal debitore nel corso della fase di ammissione al procedimento, non impedisce al pubblico ministero, prima che il tribunale dichiari l’inammissibilità della detta domanda, di avanzare una richiesta di fallimento dell’imprenditore, in ragione della ritenuta sua insolvenza di cui sia venuto a conoscenza a seguito della comunicazione ex art. 161, comma cinque, l.fall.

Sez. 1, n. 25458/2019, Dolmetta, Rv. 655347-01, ha accluso nel novero gli atti di frode rilevanti ai fini della revoca dell’ammissione alla procedura ai sensi dell’art. 173 l.fall., i fatti taciuti nella loro materialità ovvero esposti in maniera non adeguata e compiuta, aventi valenza anche solo potenzialmente decettiva nei confronti dei creditori, a prescindere dal concreto pregiudizio loro arrecato. Nella specie, la Corte ha affermato che l’omessa indicazione nella proposta concordataria del contenzioso pendente nei confronti della società proponente, per un valore economico significativo, può costituire atto di frode.

Il tema dell’ordinarietà o straordinarietà dell’amministrazione è affrontato anche da Sez. 1, n. 13261/2019, Vella, Rv. 653772-01, a parere della quale la locazione infranovennale di un immobile senza l’autorizzazione del tribunale, nel corso della procedura di concordato preventivo, non costituisce di per sé atto di straordinaria amministrazione, tale da giustificare senz’altro la revoca dell’ammissione alla procedura ai sensi dell’art. 173 l. fall., in quanto nell’attività di impresa, che presuppone necessariamente il compimento di atti dispositivi e non meramente conservativi, la distinzione tra ordinaria e straordinaria amministrazione non si fonda sulla natura conservativa o meno dell’atto, ma sulla sua relazione con la gestione normale del tipo di impresa e con le relative dimensioni.

Il discrimen tra ordinaria e straordinaria amministrazione è tracciato da Sez. 1, n. 14713/2019, Terrusi, Rv. 654268-03, in modo netto, in relazione ai casi dubbi: per valutare la natura di ordinaria o straordinaria amministrazione degli atti compiuti dall’imprenditore dopo la presentazione di una domanda di concordato preventivo con riserva, ai sensi dell’art. 161, comma settimo, l. fall., è necessario che siano state fornite informazioni sul tipo di proposta o sul contenuto del piano che il debitore intende presentare, sicché, in difetto di tali elementi, l’atto che si riveli idoneo a incidere negativamente sul patrimonio dell’impresa deve essere considerato come di straordinaria amministrazione.

Sempre ad avviso della detta pronuncia (Rv. 654268-02), dopo la presentazione di una domanda di concordato con riserva, ai sensi dell’art. 161, comma 7, l. fall., l’imprenditore può compiere senza necessità di autorizzazione del tribunale gli atti di gestione dell’impresa finalizzati alla conservazione dell’integrità e del valore del patrimonio, secondo il medesimo criterio previsto dall’art. 167 l. fall.; sicché la distinzione tra atto di ordinaria o di straordinaria amministrazione resta incentrata sulla sua idoneità a pregiudicare i valori dell’attivo compromettendone la capacità di soddisfare le ragioni dei creditori, tenuto conto esclusivamente dell’interesse di questi ultimi e non dell’imprenditore insolvente, essendo quindi possibile che atti astrattamente qualificabili dì ordinaria amministrazione se compiuti nel normale esercizio dell’impresa possano, invece, assumere un diverso connotato nell’ambito di una procedura concorsuale.

Sez. 1, n. 13391/2019, Vella, Rv. 654042-01, ha avuto occasione di precisare che i beni personali dei soci illimitatamente responsabili (nella specie, di una s.a.s.) non entrano automaticamente nell’attivo concordatario; tuttavia, qualora i detti soci apportino i loro beni personali, questi non possono più essere considerati in modo neutrale rispetto all’attivo patrimoniale, specie ove provengano dalla liquidazione di beni sui quali grava un vincolo in favore di taluni creditori sociali, sicché il ricavato della loro liquidazione deve essere destinato al soddisfacimento dei creditori prelatizi, secondo il giudizio comparativo richiesto dall’art. 160, comma secondo, l. fall..

Secondo Sez. 1, n. 07577/2019, Pazzi, Rv. 653229-01, il debitore che dopo la domanda di ammissione al concordato con riserva abbia presentato la relativa proposta senza la documentazione prescritta dall’art. 161 l. fall., può ancora avvalersi del termine di sessanta giorni accordato dal tribunale, ex art. 161, comma 6, l. fall., allo scopo di integrare la detta documentazione. Nella specie la Corte ha confermato la sentenza della corte d’appello che aveva revocato il fallimento dichiarato dal tribunale dopo aver dichiarato inammissibile la proposta del debitore, depositata solo sette giorni dopo la domanda di concordato con riserva, in quanto priva della necessaria attestazione del professionista ex art. 161, comma terzo, l. fall..

Sez. 1, n. 10091/2019, Vella, Rv. 653691-01, ha ritenuto l’opponibilità, in ambito concordatario, del patto di compensazione stipulato contestualmente al deposito dei titoli acquistati presso la banca ed a garanzia del credito derivante dal finanziamento da questa concesso al debitore ammesso alla procedura se l’accordo concluso contestualmente al finanziamento attribuiva alla banca il diritto di incamerare le somme riscosse, indipendentemente dal fatto che il debito dell’istituto di credito sia divenuto liquido ed esigibile dopo la domanda di concordato.

Sez. 1, n. 10106/2019, Solaini, Rv. 654171-01, puntualizza che la domanda di concordato preventivo ai sensi dell’art. 161, comma primo, l. fall. è ammissibile anche dopo che sia stato omologato l’accordo di ristrutturazione dei debiti sottoscritto dal medesimo imprenditore, in quanto il principio di alternatività delle procedure concorsuali, di cui all’art. 161, comma 6, l. fall., non trova applicazione nel caso di consecuzione delle stesse, restando preclusa al debitore – quando non abbia ottenuto l’ammissione al concordato ovvero l’omologa di un accordo – soltanto la possibilità di ripresentare nel biennio successivo una nuova domanda di concordato cd. con riserva.

In tema di revoca del concordato preventivo, Sez. 1, n. 00211/2019, Rv. 652068-01, ha ritenuto che il decreto con il quale la corte d’appello dichiara inammissibile il reclamo avverso il provvedimento di revoca adottato ai sensi dell’art. 173 l. fall., senza emettere consequenziale sentenza dichiarativa del fallimento del debitore, non è ricorribile per cassazione ex art. 111 Cost.; detto decreto è, infatti, sprovvisto di carattere decisorio, in quanto, non decidendo nel contraddittorio delle parti su diritti soggettivi, non è idoneo al giudicato.

Secondo Sez. 1, n. 16808/2019, Amatore, Rv. 654280-01, il pagamento non autorizzato dal giudice di un debito scaduto eseguito in data successiva al deposito della domanda di concordato preventivo, determina, ai sensi dell’art. 173, comma terzo, l. fall., la revoca dell’ammissione alla procedura, salvo che l’imprenditore dimostri nel relativo procedimento di revoca che tale pagamento non sia stato pregiudizievole per l’interesse dei creditori, essendo ispirato al criterio della loro migliore soddisfazione, né sia stato diretto a frodarne le ragioni, così pregiudicando le possibilità di adempimento della proposta formulata con la domanda di concordato.

Sez. 1, n. 24797/2019, Falabella, Rv. 655767-01, ha evidenziato che nel procedimento di reclamo avverso il decreto del Tribunale di omologazione del concordato preventivo, di cui all’art. 183 l. fall., qualora il ricorrente non depositi le notificazioni del ricorso e del decreto di fissazione ai reclamati, da effettuarsi nel termine di trenta giorni ex art. 18 l. fall. – applicabile in assenza di contrarie disposizioni –, la corte d’appello, rilevata la mancata comparizione delle parti in udienza e impossibilitata a controllare l’avvenuta corretta instaurazione del contraddittorio, deve definire in rito il procedimento, che ha natura camerale, non potendo accordarsi un nuovo termine per la notificazione, da momento che non è consentito rinnovare un atto mai compiuto o giuridicamente inesistente. Nel caso di specie, la corte d’appello aveva erroneamente disposto rinvio ex art. 348, comma secondo, c.p.c. affermando che, in difetto di espressa previsione di improcedibilità, occorreva fare riferimento alle norme generali sull’appello.

Sez. 1, n. 20892/2019, Pazzi, Rv. 655023-01, ha ribadito il principio per cui il reclamo alla corte d’appello avverso il decreto con il quale il tribunale abbia provveduto sull’omologazione (accordandola o negandola) del concordato preventivo, ai sensi dell’art. 183 l. fall., va proposto entro il termine di trenta giorni dalla comunicazione del provvedimento impugnato, in quanto l’impugnabilità con il reclamo medesimo anche della sentenza dichiarativa di fallimento postula l’applicazione del termine previsto dall’art. 18 l. fall.

La medesima pronuncia ha poi ritenuto (Rv. 655023-02) che nel regime vigente a seguito della modifica della novella apportata con d.l. n. 83 del 2015, conv. con l. n. 132 del 2015, in vigore dal 21 agosto 2015, la revoca del voto espresso dal creditore soggiaccia agli stringenti limiti di cui all’art. 178, comma quarto, l. fall., che permette al solo creditore che non abbia espresso il proprio assenso o diniego in adunanza, di far pervenire un suffragio postumo nei venti giorni dalla chiusura del verbale di quest’ultima, così implicitamente escludendo la possibilità di modificare il voto già espresso in detta sede, e all’art. 179, comma 2, l. fall., che tale possibilità di modifica circoscrive al caso di mutamento delle condizioni di fattibilità del piano.

Sez. 1, n. 30201/2019, Pazzi, Rv. 656269 – 01, andando di contrario avviso rispetto ai precedenti della Sezione (Sez. 1, n. 12819/2016, Ferro, Rv. 640102-01), ha ritenuto che, al provvedimento emesso dalla Corte d’appello ai sensi dell’art. 183, comma primo, l. fall., decidendo sul reclamo avverso il decreto di omologazione, si applica la disciplina prevista dall’art. 18, comma quattordicesimo, l. fall., ed è ricorribile per cassazione entro il termine di trenta giorni decorrenti dalla notificazione a cura della cancelleria; anche rispetto all’impugnazione per cassazione, infatti, permangono le ragioni giustificative della necessità di individuare una coincidente disciplina regolante il reclamo avverso il decreto con il quale il tribunale abbia provveduto sull’omologazione, accordandola o negandola, e la contestuale sentenza dichiarativa di fallimento, ne consegue che il rinvio al procedimento di reclamo di cui all’art. 183, comma secondo, l. fall., deve intendersi riferito all’intero svolgersi delle fasi di impugnazione previsto dall’art. 18 l. fall. e non solo alla porzione del reclamo.

Di sicuro rilievo è Sez. 1 , n. 00208/2019, Pazzi, Rv. 652543-01, secondo cui è inammissibile, per difetto di interesse ad impugnare, il ricorso per cassazione avverso il decreto di omologa del concordato preventivo con il quale il creditore contesti l’entità o il rango (privilegiato o chirografario) di un suo credito, come determinato ai fini del calcolo delle maggioranze richieste per l’approvazione della proposta, dovendosi accertare sempre nelle forme della cognizione ordinaria le ragioni creditorie vantate nei confronti del debitore in concordato.

Sez. 1, n. 24441/2019, Terrusi, Rv. 655308-01, ha chiarito che in tema di risoluzione e annullamento del concordato preventivo, l’attuale testo dell’art. 137 l. fall. (conseguente alle modifiche apportate dall’art. 9, comma 10, d.lgs. n. 169 del 2007), cui rinvia l’art. 186 stessa legge, postulando che al procedimento sia chiamato a partecipare anche l’eventuale garante, include quest’ultimo accanto al debitore tra i soggetti del processo, così da concretizzare una fattispecie di litisconsorzio necessario processuale.

Sempre in tema di risoluzione, Sez. 1, n. 20652/2019, Pazzi, Rv. 654772-01, evidenzia che il concordato preventivo con cessione dei beni deve essere risolto, a norma dell’art. 186 l. fall., qualora emerga che esso sia venuto meno alla sua funzione di soddisfare in una qualche misura i creditori chirografari e integralmente quelli privilegiati non falcidiati, salvo che l’inadempimento abbia scarsa importanza, tenuto conto della percentuale di soddisfacimento indicata nella proposta dal debitore, anche se quest’ultimo non si sia espressamente obbligato a garantirla.

Ancora in materia di risoluzione, nell’ottica di Sez. 6-1, n. 14601/2019, Rv. 654302-01, pur dovendosi riconoscere, in capo ai creditori concordatari, il diritto di agire per la risoluzione nel caso in cui sia emersa l’impossibilità di soddisfarli nella misura proposta ed omologata, a prescindere dalla scadenza dei termini di adempimento delle obbligazioni concordatarie, non è consentito individuare un dies a quo del termine di decadenza della suddetta azione anticipato rispetto a quello previsto dall’art. 186, comma terzo, l. fall.

Sez. L, n. 23520/2019, Blasutto, Rv. 655060-01, ha considerato che in tema di concordato preventivo con cessione dei beni ai creditori, il commissario liquidatore non ha la legittimazione ad agire o resistere, in relazione ai giudizi di accertamento delle ragioni di credito e pagamento dei relativi debiti, ancorchè influenti sul riparto che segue le operazioni di liquidazione, potendo, al più, spiegare intervento, in quanto la legittimazione processuale spetta all’imprenditore sottoposto al concordato preventivo, che, invero, prosegue l’esercizio dell’impresa durante lo svolgimento della procedura ed è, quindi, soggetto passivo anche in relazione agli obblighi maturati dopo l’ammissione alla procedura concordataria e dopo l’omologazione della relativa proposta.

Nella prospettiva di Sez. 1, n. 00641/2019, Pazzi, Rv. 652399-01, il decreto emesso dal tribunale in sede di reclamo, avverso il provvedimento del giudice delegato di approvazione del piano, predisposto dal liquidatore e avente ad oggetto le modalità di distribuzione delle somme disponibili in esito alla liquidazione dell’attivo, non è ricorribile per cassazione, avendo esso carattere ordinatorio ed efficacia endoconcorsuale ed essendo sprovvisto del requisito della decisorietà.

Un importante profilo operativo del concordato con cessione dei beni ai creditori è colto da Sez. 1, n. 05663/2019, Pazzi, Rv. 652820-01, secondo cui la tipologia in parola comporta il trasferimento agli organi della procedura non della proprietà dei beni, ma dei soli poteri di gestione finalizzati alla liquidazione. Ne consegue che l’art. 2941, n. 6, c.c., non è applicabile estensivamente ai rapporti tra debitore e creditori del concordato preventivo in questione, poichè la titolarità dell’amministrazione dei beni ceduti spetta esclusivamente al liquidatore, il quale la esercita non in nome o per conto dei creditori concordatari, ma nel rispetto delle direttive impartite dal tribunale, secondo l’art. 182 l. fall., nel testo vigente ratione temporis (anteriore alle modifiche di cui al d.lgs. n. 169 del 2007).

Anche la materia degli accordi di ristrutturazione è stata interessata da pronunce di rilievo.

Ad avviso di Sez. 1, n. 13850/2019, Vella, Rv. 654044-01, nell’ipotesi di impresa che abbia ottenuto l’omologazione di un accordo di ristrutturazione dei debiti, il terzo estraneo all’accordo rimasto insoddisfatto può avanzare istanza di fallimento, ai sensi dell’art. 6 l. fall., a prescindere dall’intervenuta risoluzione dell’accordo omologato, in quanto si tratta di soggetto non vincolato dagli effetti del provvedimento di omologazione.

L’ampiezza del vaglio del giudice adito è profilo investito da Sez. 1, n. 12064/2019, Terrusi, Rv. 653696-01, ad avviso della quale, in sede di omologa dell’accordo di ristrutturazione dei debiti, il sindacato del tribunale non è limitato ad un controllo formale della documentazione richiesta, ma comporta anche una verifica di legalità sostanziale compresa quella circa l’effettiva esistenza, in termini di plausibilità e ragionevolezza, della garanzia del pagamento integrale dei creditori estranei all’accordo nei tempi previsti per legge.

11. La liquidazione coatta amministrativa e l’amministrazione straordinaria.

Nel campo delle liquidazioni coatte amministrative Sez. 1, n. 29052/2019, Pazzi, Rv. 655633-01, ha ritenuto che in tema di accertamento del passivo nella liquidazione coatta amministrativa di società di intermediazione mobiliare, nel regime anteriore all’entrata in vigore del d.lgs. n. 181 del 2015, si applichi ratione temporis la norma speciale di cui all’art. 88, comma 1, del d.lgs. n. 385 del 1993, la quale postula l’appellabilità – non la diretta ricorribilità per cassazione ex art. 99 l. fall. – della sentenza del tribunale di decisione delle cause di opposizione al passivo.

Sez. 1, n. 14329/2019, Scalia, Rv. 654266-01, ha reputato che l’istanza di insinuazione tardiva di un credito nel passivo di una liquidazione coatta amministrativa già pendente alla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 5 del 2006 soggiaccia al rito ordinario di cognizione, sicché il procedimento deve concludersi non con decreto impugnabile con i mezzi e le forme di cui agli artt. 98 e 99 l. fall., ma, secondo la previgente disciplina, con sentenza appellabile e quindi ricorribile per cassazione nel termine di sessanta giorni, sancendo l’art. 150 del d.lgs. n. 5 del 2006 l’applicabilità del rito novellato esclusivamente alle procedure concorsuali apertesi successivamente a quella data.

I rapporti di lavoro nell’ambito delle liquidazioni coatte amministrative costituiscono il fulcro decisorio di Sez. L, n. 07307/2019, Patti, Rv. 653086-01, a cui parere, nell’ipotesi di trasferimento coattivo di personale, già dipendente di un’impresa di assicurazione della responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli a motore e dei natanti che sia soggetta a liquidazione coatta amministrativa, ad una fra le imprese autorizzate tra le quali sia stato ripartito il portafoglio dell’impresa dal Comitato del fondo di garanzia per le vittime della strada, i lavoratori sono riassunti dal commissario liquidatore, ai sensi dell’art. 10 del d.l. n. 857 del 1976 (convertito, con modificazioni, dalla l. n. 39 del 1977) e, quindi, in continuità del medesimo rapporto istituito ex novo, dall’impresa coattivamente cessionaria, a norma dell’art. 11, commi 3 e 4, del predetto d.l., posto che i rapporti con l’impresa già datrice si sono risolti di diritto per effetto della sua soggezione a liquidazione coatta amministrativa.

Ad avviso di Sez. 1, n. 22558/2019, Solaini, Rv. 655329-01, alle opposizioni allo stato passivo delle liquidazioni coatte amministrative pendenti al 16 gennaio 2006, data di entrata in vigore della novella dell’art. 99 l. fall., (ex d.lgs. n. 5 del 2006), si applica la disciplina previgente, che non prevedeva il ricorso diretto per cassazione, bensì l’appello avverso la decisione di primo grado assunta con sentenza.

Nel settore delle amministrazioni straordinarie, di non poco momento si mostra Sez. 1, n. 28962/2019, Dolmetta, Rv. 655826-01, secondo cui, qualora il commissario dell’impresa conduttrice abbia esercitato il diritto di recedere dal contratto di locazione di un aeromobile, non spetta al locatore del veicolo l’equo indennizzo di cui all’art. 80 l.fall., perché detta norma riguarda solo il recesso del conduttore dalla locazione di beni immobili, mentre l’aeromobile è un bene mobile registrato, assoggettato al relativo regime secondo la previsione di cui all’art. 815 c.c..

Di spicco anche Sez. 1, n. 05249/2019, Campese, Rv. 652811-01, che ha ritenuto manifestamente infondata l’eccezione di incostituzionalità dell’art. 1 bis del d.l. n. 134 del 2008, come convertito dalla l. n. 166 del 2008, che ha fornito l’interpretazione autentica del disposto di cui all’art. 50, comma 2, del d.lgs. n. 270 del 1999, nella parte in cui prevede che, nell’ambito dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, la stabilizzazione dei rapporti contrattuali in corso consegue solo alla positiva manifestazione di volontà del commissario straordinario di subentrare in tali rapporti, perché la norma ha positivizzato un principio già implicitamente contenuto nella norma interpretata, trattandosi di una delle possibili letture del testo originario, idonea ad assicurare tutela alla certezza del diritto ed all’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, principi di preminente interesse costituzionale.

Nel contesto delle amministrazioni controllate, Sez. 2, n. 22992/2019, Besso Marcheis, Rv. 655240-01, ha evidenziato che il compenso professionale relativo all’attività svolta prima dell’ammissione a detta procedura ha carattere concordatario, opponibile ai creditori partecipanti al concordato e privilegiato ex art. 2751 bis c.c., da liquidare sul parametro degli onorari previsti per la tariffa professionale in materia stragiudiziale per l’assistenza in procedure concorsuali; viceversa, l’attività successiva è di straordinaria amministrazione e dunque soggetta alla preventiva autorizzazione scritta del giudice delegato, ove non sia dimostrata la concreta finalizzazione della medesima al risanamento dell’impresa, mediante il miglioramento della sua capacità produttiva e reddituale, elementi che una volta provati consentono di ritenere di ordinaria amministrazione l’atto finalizzato al recupero dell’impresa.

12. Il sovraindebitamento.

In tema viene in rilievo Sez. 1, n. 27544/2019, Campese, Rv. 655779-01, per ciò, che ha ritenuto l’omologabilità, in assenza di specifica disposizione di legge sul termine massimo per il compimento dei pagamenti, della proposta di piano del consumatore per la soluzione della crisi da sovraindebitamento che preveda una dilazione dei pagamenti di significativa durata, anche superiore ai cinque o sette anni, non potendosi escludere che gli interessi dei creditori risultino meglio tutelati da un piano siffatto in quanto la valutazione di convenienza è pur sempre riservata ai creditori, cui deve essere assicurata la possibilità di esprimersi sulla proposta, anche alla luce del principio di origine comunitaria della cd. second chance in favore degli imprenditori, ispiratore della procedura. Nella specie, il Tribunale, essendo stato proposto dal debitore un piano con dilazione dei pagamenti fino a quasi dodici anni, aveva ritenuto lo stesso non omologabile solo perché di eccessiva durata.

Sez. 1, n. 17834/2019, Terrusi, Rv. 654540-01, afferma che negli accordi di ristrutturazione dei debiti e nei piani del consumatore è possibile prevedere la dilazione del pagamento dei crediti prelatizi anche oltre il termine di un anno dall’omologazione previsto dall’art. 8, comma 4, della legge n. 3 del 2012, ed al di là delle fattispecie di continuità aziendale, purché si attribuisca ai titolari di tali crediti il diritto di voto a fronte della perdita economica conseguente al ritardo con cui vengono corrisposte le somme ad essi spettanti o, con riferimento ai piani del consumatore, purché sia data ad essi la possibilità di esprimersi in merito alla proposta del debitore.

Sez. 1, n. 17836/2019, Terrusi, Rv. 654542-01, ha ritenuto che il decreto con cui il tribunale respinge il reclamo proposto contro la decisione di rigetto della domanda di apertura della liquidazione del patrimonio del sovraindebitato, disciplinata dagli artt. 14 ter e ss. della l. n. 3 del 2012, come successivamente modificata dal d.l. n. 179 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 221 del 2012, ha la stessa natura del decreto che respinge il reclamo avverso il rigetto dell’istanza di fallimento, sicché esso non è impugnabile con ricorso straordinario per cassazione, difettando dei requisiti della definitività (in quanto la domanda di apertura della procedura è riproponibile) e della decisorietà (in quanto non incide su un diritto del debitore).

Infine, Sez. 1, n. 10095/2019, Dolmetta, Rv. 653692-01, ha sancito l’ammissibilità del ricorso per cassazione avverso il decreto di accoglimento del reclamo proposto nei confronti del provvedimento di omologazione del piano proposto dal consumatore ai sensi dell’art. 12-bis della l.n. 3 del 2012, come integrata dalla l. n. 221 del 2012, tenuto conto del carattere contenzioso del procedimento e dell’idoneità del provvedimento che lo definisce ad incidere su diritti soggettivi.

PARTE QUINTA IL DIRITTO DEL LAVORO E DELLA PREVIDENZA --- SEZIONE PRIMA --- IL RAPPORTO DI LAVORO PRIVATO (coordinata da Ileana Fedele e Milena D'Oriano)

  • sciopero
  • orario di lavoro
  • licenziamento
  • cooperativa
  • retribuzione del lavoro
  • diritti sindacali
  • giornale
  • ferie
  • danno
  • diritto al lavoro
  • diritto di recesso
  • agevolazioni per handicappati
  • prova
  • congedo straordinario
  • datore di lavoro
  • fallimento

CAPITOLO XVII

OBBLIGHI, RESPONSABILITA’ E DIRITTI DEL DATORE E DEL PRESTATORE DI LAVORO

(di Antonella Filomena Sarracino )

Sommario

1 Premessa. - 2 Gli obblighi di protezione del datore di lavoro e la tutela delle condizioni di lavoro. - 2.1 Il limite del rischio cd. elettivo. - 2.1.1 L’esclusione della configurabilità del consenso del dipendente quale concorso colposo. - 2.1.2 Il concorso colposo del lavoratore. - 2.1.3 Il danno cd. differenziale da infortunio sul lavoro e l’indennizzo ex art. 13 del d.lgs. n. 38 del 2000. Modalità di computo del risarcimento del danno e compensatio lucri cum damno. - 2.2 Il riparto degli oneri della prova. - 2.2.1 La responsabilità del committente, ai sensi dell’art. 2087 c.c. - 2.2.2 Obblighi e responsabilità datoriali in caso di maternità della lavoratrice. - 2.3 La tutela dei lavoratori e degli eredi. La decorrenza del termine di prescrizione. - 2.4 La clausola della buona fede anche a latere praestatoris. - 3 Il mobbing e lo straining. - 4 Ius variandi e demansionamento. - 4.1 I limiti all’esercizio dello ius variandi. - 4.2.1 L’adibizione a mansioni inferiori in caso di riconversione o ristrutturazione aziendale. - 4.2.2 Demansionamento e repechage (rinvio). - 4.2.3 Demansionamento: la responsabilità del cessionario. - 4.3 Criteri per il risarcimento del danno da demansionamento. - 5 L’assegnazione del dipendente a mansioni superiori: le modalità di verifica. - 5.1 Gli obblighi datoriali, in caso di assegnazioni a mansioni superiori, nell’impiego privato. Questioni di inquadramento. - 6 Il tratto distintivo fra redattore e collaboratore fisso nell’impresa giornalistica e le conseguenze della mancata iscrizione all’albo dei giornalisti. - 6.1 Sulla nozione di ufficio di corrispondenza estera. - 7 Il trasferimento. - 7.1 La libertà datoriale di operare lo spostamento dei lavoratori nell’ambito della unità produttiva. - 7.1.1 Mutamento di unità produttiva del lavoratore che assiste familiare con handicap. - 7.1.2 Scelta della sede di lavoro da parte del prestatore che assiste familiari con handicap grave e fruizione dei permessi. - 7.2 La posizione del lavoratore raggiunto da un trasferimento illegittimo. - 7.3 Gli emolumenti retributivi in caso di trasferimento ed il tfr. - 8 La distinzione tra lavoro autonomo e subordinato per le professioni intellettuali o professionali. - 8.1 Il rapporto gerarchico dirigenziale multilevel. - 9 La retribuzione ed il tfr. - 9.1 Oneri di allegazione e prova nell’azione promossa ai sensi dell’art. 2126 c.c. (rinvio). - 9.1.1 Il decorso della prescrizione dei crediti derivanti da lavoro carcerario. - 9.2 Il trattamento economico del socio lavoratore di società cooperative. - 9.2.1 Il computo dei soci lavoratori ai fini del requisito dimensionale. - 9.3 I trattamenti economici per servizio estero (rinvio). - 9.4 I trattamenti economici per il caso di trasferimento (rinvio al 7.3). - 9.5 La natura retributiva del credito del lavoratore per le ritenute fiscali indebitamente operate dal datore. - 9.6 Il problema della cumulabilità di reddito e pensione per gli iscritti all’istituto di previdenza dei giornalisti. - 9.7 Ferie, festività, riposi e orario di lavoro. - 9.7.1 Il congedo straordinario ex art. 42 del d.lgs. n. 151 del 2001. - 9.8 Tredicesima e quattordicesima: modalità di calcolo nella contrattazione collettiva. - 9.9 Il trattamento di fine rapporto. - 10 Responsabilità solidale del committente con l’appaltatore per il pagamento dei crediti retributivi. Individuazione della disciplina applicabile ratione temporis. - 10.1 La responsabilità solidale del committente con il subfornitore. - 10.2 Responsabilità del committente in caso di sopravvenuto fallimento dell’appaltatore. - 10.3 La nozione di “trattamenti retributivi” al fine della delimitazione della responsabilità solidale del committente. - 10.4 Ambito di applicazione del regime decadenziale. - 11 Prerogative sindacali: trattative per la stipula dei c.c.n.l. e partecipazione delle oo.ss. - 11.1 Permessi sindacali. - 11.2 Repressione della condotta antisindacale. - 11.3 Limiti alla configurabilità del demansionamento in caso di sciopero (rinvio al 4.1). - 11.4 La rilevanza della condotta datoriale di trattenimento dei contributi sindacali. - 12 Le dimissioni del lavoratore: la rilevanza della incapacità naturale ed il risarcimento del danno. - 12.1 Dimissioni e licenziamento. - 12.2 La forma del recesso del lavoratore. - 13 Il recesso datoriale per sopraggiunti limiti di età del prestatore. La forma. - 14 Lo sciopero nei servizi di sicurezza aeroportuale. - 15 Gli effetti del contratto collettivo senza durata predeterminata. - 16 La questione di costituzionalità della retrocessione per gli agenti autoferrotranviari.

1. Premessa.

L’anno appena trascorso ha visto porsi sul terreno della prassi molteplici questioni problematiche che hanno imposto alla dottrina e alla giurisprudenza di ripensare, anche alla luce dei nova normativi, i tratti distintivi sia tra lavoro subordinato e collaborazioni continuative e coordinate, sia tra lavoro autonomo e subordinato in caso di prestazioni di natura intellettuale o professionale.

Si tratta, quindi, per un verso, di affrontare una nuova e variegata realtà sociale nella quale emergono e si affermano nuovi lavori e professioni, basti pensare, per citare gli esempi di maggiore attualità, ai motofattorini e ciclofattorini (cd. riders), ma anche ai platform workers, per altro verso, di ritornare a riflettere sui tratti distintivi del lavoro subordinato, rispetto a quello autonomo, e dunque al significato di eterodirezione, con riferimento alle professioni intellettuali.

Le questioni ermeneutiche, su cui già si è interrogata la giurisprudenza di merito e sulle quali si è in attesa di una prima risposta della giurisprudenza di legittimità, quanto al primo dei due nuclei evidenziati (riders, patform workers, etc.), involgono l’interpretazione dell’art. 2 del d.lgs. 15 giugno del 2015, n. 81, anche alla luce delle recentissime modifiche apportate dal d.l. 3 settembre 2019, n. 101, convertito, con modifiche, in l. 2 novembre 2019, n. 128.

Si tratta prioritariamente di verificare le tutele applicabili a queste nuove forme di lavoro che coinvolgono un numero sempre crescente di soggetti, di valutare, quindi, se ad essi si applichi la disciplina e la tutela del lavoro parasubordinato, del lavoro subordinato o, infine, se dovrà farsi luogo ad una applicazione delle discipline e delle tutele del lavoro subordinato, ma in modo selettivo, naturalmente facendo i conti con le novità apportare dal citato d.l. n. 101 del 2019.

In attesa che la giurisprudenza di legittimità dia il suo primo importantissimo segnale sulle problematiche richiamate, nel ripercorrere la giurisprudenza della Suprema Corte dell’anno 2019 in tema di lavoro privato, sembra utile ricorrere ai consueti paradigmi della dottrina e della giurisprudenza classiche, sicché in questa sezione della rassegna si darà conto di tutte le pronunzie che involgono obblighi, responsabilità e diritti del datore di lavoro e del prestatore, ovvero l’essenza del rapporto di lavoro subordinato, caratterizzato e presidiato dalla presenza di peculiari e stringenti garanzie a favore del prestatore, da un lato, ma nello stesso tempo e per converso, connotato dalla subordinazione e dalla eterodirezione, valorizzando anche quanto ritenuto dal giudice di legittimità in ordine ai tratti distintivi tra lavoro autonomo e subordinato in relazione alle prestazioni intellettuali.

Questo, dunque, il filo conduttore di questo breve excursus, in cui si cercherà di esaminare in un quadro di riferimento organico, attraverso il prisma degli arresti della S.C., partendo dagli obblighi di protezione datoriale, i temi innanzi indicati.

Ebbene, come si è già accennato, ad onta delle recenti novelle legislative, non va sottaciuto che l’imprinting del contratto di lavoro subordinato, quanto alla posizione del datore, è ancora la sussistenza dell’obbligo di protezione del lavoratore, oltre, e prima ancora, del pagamento della retribuzione.

In tutti i contratti, è vero, vi è l’obbligo di rispetto della controparte che trova fonte nell’art. 1375 c.c.; trattasi, però, di un obbligo cd. secondario, distinto, seppur connesso agli obblighi primari di prestazione; non così nel contratto di lavoro, in cui il legislatore ha ritenuto indispensabile, attesa la peculiarità del rapporto, imporre all’imprenditore non solo l’obbligo di prevenzione generale, allo scopo di elidere i rischi derivanti dallo svolgimento delle mansioni, ma anche quello più pregnante di valorizzazione della personalità morale e dunque anche della professionalità del prestatore, solo in parte affievolito (cfr. infra) dalla novella dell’art. 2103 c.c.

Ai sensi dell’art. 2087 c.c., infatti, il datore ha l’obbligo di protezione della persona fisica e della personalità morale del lavoratore, attraverso l’adozione di tutte le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie ai fini sopraindicati e, prima ancora e a monte, di predisporre il documento di valutazione dei rischi, aggiornandolo costantemente.

Insomma, sul datore incombe, per un verso, l’attivazione di tutte le garanzie atte ad impedire qualsivoglia rischio nell’ambiente di lavoro, per altro verso la tutela e la promozione della professionalità dei dipendenti. Detti obblighi diventano poi particolarmente stringenti avuto riguardo ad alcune categorie professionali, come per esempio gli apprendisti o le lavoratrici in gravidanza.

Nel corso del 2019 la giurisprudenza di legittimità su questi temi ha avuto ancora modo di ribadire, come vedremo in continuità con le posizioni già assunte negli anni precedenti, che gli obblighi di protezione datoriale cedono il passo solo di fronte alla sussistenza di ipotesi cd. di rischio elettivo, nonché di occuparsi della delimitazione del riparto degli oneri della prova tra datore e prestatore di lavoro, riaffermando l’insussistenza di un’ipotesi di responsabilità oggettiva datoriale, ed infine di indagare le forme di tutela apprestate ai lavoratori e agli eredi, nonché la responsabilità del committente ai sensi dell’art. 2087 c.c., oltre che la rilevanza del consenso del prestatore ai fini della configurazione del concorso colposo.

Le brevissime notazioni compiute con riguardo alla norma innanzi citata fanno emergere con evidenza la illiceità del mobbing ovvero di quelle condotte datoriali, protratte nel tempo, aventi un intento persecutorio del lavoratore; si pensi ad un progressivo e del tutto ingiustificato svuotamento delle mansioni, in un clima di estrema tensione in azienda.

Il fondamento normativo della illegittimità delle condotte di mobbing, quindi, è anch’esso da ravvisare nell’obbligo datoriale di adottare, ai sensi dell’art. 2087 c.c., tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità psicofisica e la personalità morale del prestatore.

Se del mobbing la S.C. nell’anno 2018 si è interessata ribadendo i tratti delimitanti la figura, anche avuto riguardo a quella adiacente dello straining, nell’anno appena trascorso se ne è invece occupata con riguardo alla valutazione del tema del notorio in relazione alle condotte persecutorie datoriali. Sul tema, in particolare, il giudice di legittimità ha escluso che possano essere ricondotti alla nozione di fatto notorio quei fatti che per essere valutati necessitino di un accertamento e di competenze tecniche o scientifiche.

In consonanza con la previsione dell’art. 2087 c.c., e dunque con il doveroso rispetto della personalità morale e della stessa professionalità del lavoratore, l’art. 2103 c.c. disciplina l’esercizio del cd. ius variandi, ossia i limiti del potere datoriale di adibizione a mansioni differenti ed inferiori rispetto a quelle per le quali era stato assunto, limiti peraltro non più così stringenti in quanto dilatati a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 3 del d.lgs. n. 81 del 2015 che ha novellato l’art. 2103 c.c.

La dequalificazione professionale va peraltro distinta dal mobbing perché nella prima, pur avendo il datore adibito il prestatore a mansioni inferiori, difetta la sussistenza di un intento persecutorio.

Ebbene, seppure con riguardo al testo anteriore al d.lgs. 81 del 2015, la S.C. ha avuto modo di soffermarsi sul demansionamento, indagando i limiti all’esercizio dello ius variandi, delimitandone i confini avuto riguardo alle ipotesi di sciopero, di riconversione o ristrutturazione aziendale, nonché di pattuizione convenzionale. Ha poi indagato plurime questioni attinenti al danno risarcibile ed ai criteri per la sua liquidazione, in particolare quanto all’utilizzo delle presunzioni ed alla possibilità di liquidazione equitativa.

Sul fronte opposto dello svolgimento di mansioni superiori, com’è noto, nell’impiego privato, il datore di lavoro ha l’obbligo (ed il prestatore il diritto), al ricorrere delle condizioni previste dall’art. 2103 c.c., di inquadrare il lavoratore nella qualifica corrispondente allo svolgimento di mansioni effettivamente espletate, dopo che sia trascorso il periodo di tempo determinato dalla contrattazione collettiva o dalla legge; in maniera asimmetrica, invece, nel pubblico impiego contrattualizzato, in cui, se spetta la maggior retribuzione, in armonia con i vincoli costituzionali, il legislatore ha però negato il diritto alla superiore qualifica. Tale ultimo principio è stato ribadito anche nel 2019 dalla S.C., che, poi, ha appuntato le proprie riflessioni sulla maturazione del diritto alla maggior retribuzione che compete anche se lo svolgimento di fatto di mansioni superiori è contrario al c.c.n.l., soffermandosi, poi sul concetto di “prevalenza”, utile a ritenere la maturazione del diritto alla maggior retribuzione ed infine sulla inapplicabilità dell’art. 2103 c.c. ai dirigenti del pubblico impiego.

Per l’evidente contiguità si sono poi di seguito esaminate le massime che si sono occupate di questioni di inquadramento o di riconoscimento di indennità connesse all’esercizio di una determinata funzione/mansione (es. indennità di cassa), oltre che del tratto distintivo tra la figura del redattore e quella del collaboratore fisso nell’impresa giornalistica ed infine sulla nozione di ufficio di corrispondenza estera.

Quanto al contemperamento delle esigenze personali del lavoratore e di quelle aziendali, infine, va rilevato che il datore, a norma dell’art. 2103 c.c., che non è stato inciso dalla novella sotto questo profilo, può provvedere al trasferimento del prestatore, ma solo in presenza di comprovate ragioni tecniche, produttive ed organizzative.

Il trend di maggiore interesse in questo ambito è, ad ogni modo, quello segnato dalle pronunzie di legittimità che si occupano di verificare gli effetti del rifiuto del lavoratore di ottemperare al trasferimento, sulla scorta di un approfondimento già iniziato lo scorso anno.

Le riflessioni del giudice di legittimità sul tema si sono inoltre incentrate sulla libertà datoriale di operare lo spostamento dei lavoratori, purché nell’ambito della stessa unità produttiva, di cui, quindi, si è delineata la nozione, anche con riferimento alla attività del piazzista.

Il tema del trasferimento è stato poi valutato avuto riguardo alla posizione del lavoratore che assiste un familiare con handicap, sicché – per l’evidente affinità con la questione esaminata – si è anche dato atto dell’orientamento della S.C. sul tema più generale della scelta della sede di lavoro da parte del prestatore che assiste un familiare con grave disabilità.

Si sono quindi richiamate le pronunzie in materia di emolumenti retributivi in caso di trasferimento, nonché le modalità di calcolo del trattamento di fine rapporto (tfr) in relazione al personale direttivo delle aziende di credito.

Prima di dar conto di tutte le pronunzie della S.C. in tema di questioni retributive e tfr, si è posto l’accento sull’actio finium regundorum intrapresa ai fini di distinguere il lavoro autonomo da quello subordinato, in relazione alle professioni intellettuali e professionali, nelle quali l’assoggettamento alle altrui direttive non può evidentemente segnare il discrimine, dovendosi piuttosto aver riguardo a criteri complementari e sussidiari, come la continuità delle prestazioni, l’osservanza di un orario, la retribuzioni a cadenze fisse, etc.

Alla prestazione lavorativa da eseguirsi nel cd. “tempo lavoro” ovvero nell’arco temporale in cui si estrinseca l’eterodirezione datoriale, sul piano sinallagmatico si contrappone, come in parte si è già anticipato, quella corrispettiva del datore: di erogazione della retribuzione, ivi compreso il tfr che matura in corso di rapporto, ma deve essere erogato solo alla cessazione (per qualsivoglia motivo) dello stesso. Ebbene, in relazione alle questioni retributive emergerà una sostanziale omogeneità nella linea tendenziale con riferimento alle pronunzie degli anni precedenti, sia con riguardo alla presunzione di onerosità della prestazione, che con riferimento alla delimitazione del riparto degli oneri della prova. Quanto a tale ultimo aspetto, si porrà in evidenza l’attenzione posta dal giudice di legittimità agli oneri di allegazione e prova nell’azione promossa ai sensi dell’art. 2126 c.c.

Ulteriore momento di riflessione per il giudice di legittimità sono state le questioni inerenti ai trattamenti economici per servizio estero, del socio lavoratore nelle cooperative e – per contiguità dei temi trattati – quella del computo dei soci lavoratori ai fini del requisito dimensionale.

Si sono poi passate in rassegna le pronunzie in tema di ferie, festività e riposi, nonché quelle inerenti il calcolo di tredicesima e quattordicesima nella contrattazione collettiva e, infine, quelle inerenti il tfr, incentrate sul momento di insorgenza del diritto, sulla individuazione del momento da cui far decorrere la prescrizione, oltre che sulle modalità di calcolo anche alla luce delle diverse previsioni della contrattazione collettiva.

L’anno appena trascorso ha visto l’attenzione dei giudici di legittimità appuntarsi inoltre sulla enucleazione delle ipotesi di responsabilità solidale del committente con l’appaltatore, nonché con il subfornitore, anche con riguardo alle ipotesi di fallimento dell’appaltatore, previa delimitazione della nozione di “trattamenti retributivi”.

Nella dialettica del rapporto datore-lavoratore vanno poi ricordate una serie di pronunzie che riguardano i diritti sindacali, sia con riferimento al godimento degli stessi che viene collegato, nel lavoro privato, ma anche in quello pubblico, alla partecipazione delle organizzazioni sindacali alla stipula dei contratti, sia avuto riguardo alle modalità ed ai limiti di fruizione dei permessi, senza tacere l’orientamento espresso in tema di elisione della condotta antisindacale in caso di esaurimento della singola azione lesiva, che non preclude affatto l’ordine del giudice di cessazione del comportamento ove questo, alla stregua di una valutazione globale non limitata ai singoli episodi, risulti idoneo a protrarre i suoi effetti nel tempo.

Tra le condotte antisindacali, peraltro, viene espressamente annoverata quella datoriale di trattenimento dei contributi sindacali.

Verranno quindi esaminate le pronunzie della S.C. che hanno determinato un approfondimento delle questioni che attengono al recesso del lavoratore, dalle quali – ancora una volta – emerge, in un’ottica costituzionalmente orientata, l’attenzione della giurisprudenza alla parte debole del rapporto.

Nel dettaglio, la S.C. ha delimitato la nozione di incapacità naturale da valorizzare ai fini di ritenere l’annullabilità del negozio di dimissioni, nonché gli effetti ai fini retributivi/risarcitori per il caso di annullamento del recesso del lavoratore, questione rispetto alla quale, avuto riguardo alla individuazione del momento dal quale matura il diritto al risarcimento/retribuzione, permangono profili di contrasto nelle pronunzie del giudice di legittimità.

Infine, le pronunzie in tema di forma del recesso del lavoratore, ma anche del datore, in quest’ultimo caso con riferimento all’ipotesi in cui vi sia il raggiungimento del limite di età del prestatore.

2. Gli obblighi di protezione del datore di lavoro e la tutela delle condizioni di lavoro.

Grava sempre sull’imprenditore l’onere di valutare i rischi aziendali ed in conformità provvedere alla predisposizione di un ambiente di lavoro sicuro. Sez. L, n. 16835/2019, Curcio, Rv. 654360-01, ha riaffermato il principio anche avuto riguardo alle ipotesi di lavoro a tempo determinato, precisando che è sul datore che incombe aggiornare, oltre che predisporre il documento di valutazione dei rischi, in funzione dei mutamenti della organizzazione aziendale, dandone prova nel processo. Se detta prova è fornita, per converso spetterà al lavoratore allegare gli elementi dai quali desumere l’erronea valutazione del datore (sul rilievo del documento di valutazione dei rischi ai fini della legittima apposizione del termine al contratto di lavoro, v. capitolo sul lavoro flessibile, par. 3.7.).

2.1. Il limite del rischio cd. elettivo.

Allo scopo di delimitare l’ambito applicativo degli obblighi di protezione del datore nei confronti del lavoratore, Sez. L, n. 07649/2019, Ghinoy, Rv. 653410-02, ha ribadito che il rischio elettivo delimita l’ambito della tutela assicurativa ed è riferito al comportamento del lavoratore che si connota per il simultaneo concorso dei seguenti elementi: a) presenza di un atto volontario ed arbitrario, ossia illogico ed estraneo alle finalità produttive; b) direzione di tale atto alla soddisfazione di impulsi meramente personali; c) mancanza di nesso di derivazione con lo svolgimento dell’attività lavorativa. In applicazione di tali principi, la S.C. ha dunque ritenuto indennizzabile l’infortunio occorso ad un lavoratore che, anziché seguire il percorso usuale per ispezionare le valvole di alcune vasche, si era introdotto all’interno di un cantiere non appartenente alla società datrice, dal quale le valvole potevano comunque essere verificate, non essendo stato frapposto dal datore alcun impedimento e, mentre le stava esaminando, era caduto in una cisterna.

La delimitazione dell’area del rischio elettivo così operata si pone in perfetta consonanza con gli orientamenti espressi sul tema dalla giurisprudenza di legittimità, basti ricordare che Sez. L, n. 16026/2018, Bellè, Rv. 649356-02, e ancor prima Sez. L, n. 00798/2017, Manna A., Rv. 642508-02, avevano già affermato che il datore di lavoro è tenuto a prevenire anche le condizioni di rischio insite nella possibile negligenza, imprudenza o imperizia del lavoratore, mettendo in atto a tal fine ogni mezzo preventivo idoneo, con l’unico limite del cd. rischio elettivo, da intendere come condotta personalissima, abnorme del dipendente, intrapresa volontariamente e per motivazioni personali, al di fuori delle attività lavorative ed in modo da interrompere il nesso eziologico tra la prestazione e attività assicurata.

In perfetta armonia con i principi innanzi tracciati, con riferimento alla responsabilità del datore, ai sensi dell’art. 2087 c.c., in caso di utilizzo autorizzato del mezzo proprio da parte del dipendente, Sez. L, n. 25689/2019, Pagetta, Rv. 655483-01, ha ritenuto che, se il dipendente incorre in un infortunio lavorativo connesso alla conduzione del mezzo, il datore non è esonerato dalla responsabilità ex art. 2087 c.c., ove tale infortunio possa essere messo in relazione causale con lo specifico rischio creato, in relazione alla conduzione del mezzo, da disposizioni datoriali relative alle modalità di esecuzione della prestazione.

2.1.1. L’esclusione della configurabilità del consenso del dipendente quale concorso colposo.

Ai fini della delimitazione della responsabilità datoriale, recte ai fini della affermazione dell’ampiezza della stessa, val la pena ricordare anche quanto la Cassazione nell’anno in corso ha avuto modo di puntualizzare con riferimento alla rilevanza del consenso del prestatore.

Sul punto, con riferimento al tema dell’orario di lavoro, Sez. L, n. 12538/2019, Cinque, Rv. 653761-01, ha statuito che la prestazione lavorativa “eccedente”, che supera di gran lunga i limiti previsti dalla legge e dalla contrattazione collettiva e si protrae per diversi anni, cagiona al lavoratore un danno da usura psico-fisica, dovendo escludersi che la mera disponibilità alla prestazione lavorativa straordinaria possa integrare un “concorso colposo”, poiché, a fronte di un obbligo ex art. 2087 c.c. per il datore di lavoro di tutelare l’integrità psico-fisica e la personalità morale del lavoratore, la volontarietà di quest’ultimo, ravvisabile nella predetta disponibilità, non può connettersi causalmente all’evento, rappresentando una esposizione a rischio non idonea a determinare un concorso giuridicamente rilevante.

2.1.2. Il concorso colposo del lavoratore.

In materia di infortuni sul lavoro, al di fuori dei casi di rischio elettivo, la responsabilità datoriale non è esclusa qualora ricorrano comportamenti colposi del lavoratore, trovando applicazione l’art. 1227, comma 1, del c.c.

Tuttavia, Sez. L, n. 30679/2019, Bellé, Rv. 655882-01 ha precisato che la condotta incauta del lavoratore non comporta un concorso idoneo a ridurre la misura del risarcimento ogni volta che l’infortunio si sia realizzato per l’osservanza di specifiche disposizioni datoriali che impongano colpevolmente al prestatore di affrontare il rischio o quando l’imprenditore abbia impostato tutta la lavorazione sulla base di disposizioni illegali o gravemente contrarie ad ogni regola di prudenza o, infine, quando l’imprudenza del lavoratore era ex ante prevedibile ed evitabile dal datore attraverso l’adozione di cautele tipiche o atipiche.

Se l’infortunio è scaturito dall’inosservanza di doveri formativi ed informativi del datore, il cui assolvimento avrebbe reso altamente improbabile l’adozione da parte del lavoratore del comportamento che ha provocato il sinistro, l’ignoranza di dette circostanze formative ed informative non può essere addossata al lavoratore e non può fondare colpa idonea a concorrere con l’inadempimento datoriale in modo da ridurre la misura del risarcimento del danno, segnala altresì il giudice di legittimità nella medesima pronunzia.

2.1.3. Il danno cd. differenziale da infortunio sul lavoro e l’indennizzo ex art. 13 del d.lgs. n. 38 del 2000. Modalità di computo del risarcimento del danno e compensatio lucri cum damno.

In tema di danno cd. differenziale, la diversità strutturale e funzionale tra l’erogazione Inail ex art. 13 del d.lgs. n. 38 del 2000 ed il risarcimento del danno secondo i criteri civilistici non consente di ritenere che le somme versate dall’istituto assicuratore possano considerarsi integralmente satisfattive del pregiudizio subito dal soggetto infortunato o ammalato, con la conseguenza che il giudice di merito, dopo aver liquidato il danno civilistico, deve procedere alla comparazione di tale danno con l’indennizzo erogato dall’Inail secondo il criterio delle poste omogenee, tenendo presente che detto indennizzo ristora unicamente il danno biologico permanente e non gli altri pregiudizi che compongono la nozione pur unitaria di danno non patrimoniale.

Conseguentemente, ai fini della comparazione, occorre dapprima distinguere il danno non patrimoniale dal danno patrimoniale, comparando quest’ultimo alla quota Inail rapportata alla retribuzione e alla capacità lavorativa specifica dell’assicurato, successivamente, con riferimento al danno non patrimoniale, dall’importo liquidato a titolo di danno civilistico vanno espunte le voci escluse dalla copertura assicurativa (danno morale e danno biologico temporaneo) per poi detrarre dall’importo così ricavato il valore capitale della sola quota della rendita Inail destinata a ristorare il danno biologico permanente.

In applicazione dei principi sopramenzionati, espressi in Sez. L, n. 09112/2019, Boghetich, Rv. 653452-01, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza di merito che, pur accogliendo il criterio della comparazione tra poste omogenee, non aveva liquidato il danno per invalidità temporanea ed aveva calcolato il danno differenziale detraendo il valore della rendita dall’importo-base spettante a titolo di danno biologico, senza riconoscere la maggiorazione dovuta alla personalizzazione del danno stesso.

Più in generale, quanto alle modalità di commisurazione del risarcimento del danno da infortuni sul lavoro, ponendosi in scia con Sez. U, n. 12565/2018, Giusti, Rv. 648648-01, Sez. L, n. 06269/2019, Patti, Rv. 653182-01, ha ritenuto che il danno da fatto illecito deve essere liquidato sottraendo dall’ammontare del danno risarcibile l’importo dell’indennità che il danneggiato-assicurato abbia riscosso in conseguenza di quel fatto (nella specie rendita Inail, pensione privilegiata ed incentivo all’esodo agevolato), in quanto tale indennità è erogata in funzione di risarcimento del pregiudizio subito dall’assicurato in conseguenza del verificarsi dell’evento dannoso ed essa soddisfa, neutralizzandola in tutto o in parte, la medesima perdita al cui integrale ristoro mira la disciplina della responsabilità del terzo autore del fatto illecito.

2.2. Il riparto degli oneri della prova.

La S.C. nel corso dell’anno 2019 ha inoltre nuovamente affrontato il tema del riparto degli oneri della prova in tema di responsabilità datoriale ex art. 2087 c.c., negando che essa costituisca una ipotesi di responsabilità oggettiva, ponendosi in linea di continuità con il proprio consolidato orientamento.

Sez. L, n. 14066/2019, Patti, Rv. 653969-01, ha infatti ricordato che la responsabilità dell’imprenditore, ai sensi dell’art. 2087 c.c., non è oggettiva, ma si fonda sulla violazione di obblighi di comportamento, a protezione della salute del lavoratore, imposti da fonti legali o suggeriti dalla tecnica, purché concretamente individuati. Alla luce di tale premessa, il giudice di legittimità ha quindi escluso la possibilità di ricavare dalla norma citata l’obbligo del datore di adottare ogni cautela possibile ed innominata, non potendosi esigere la predisposizione di misure idonee a prevenire ogni evento lesivo. Nella specie, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza di merito che, senza individuare la concreta e specifica regola prudenziale violata, aveva ritenuto la responsabilità del datore per le lesioni occorse alla dipendente scivolata e caduta sul pavimento in corso di pulizia, nonostante la predisposizione di apposite segnalazioni da parte dell’impresa appaltatrice.

Del resto, qualche mese prima, anche Sez. L, n. 08911/2019, Marotta, Rv. 653217-01, aveva, in assoluta consonanza, ritenuto che la responsabilità dell’imprenditore per inadempimento dell’obbligo di prevenzione di cui all’art. 2087 c.c. non è una responsabilità oggettiva, ma colposa, dovendosi valutare il difetto di diligenza nella predisposizione delle misure idonee a prevenire i danni per i lavoratori in relazione alle attività lavorative svolte, non potendosi erigere la predisposizione di misure idonee a fronteggiare ogni infortunio, anche quelle imprevedibili. In applicazione di tale principio, la S.C. ha cassato la sentenza della corte territoriale che aveva ritenuto la responsabilità datoriale, ai sensi dell’art. 2087 c.c., per la predisposizione di equipaggi cd. misti sui treni e, di conseguenza, aveva ritenuto legittimo il rifiuto del macchinista di condurre il treno senza la presenza in cabina di un secondo agente abilitato alla condotta.

Il principio innanzi enunziato, come si è già accennato, si pone sulla corposa e solida traccia di numerosi precedenti giurisprudenziali, tra i più recenti dei quali possiamo ricordare Sez. L, n. 02038/2013, Arienzo, Rv. 624863-01; Sez L, n. 18626/2013, Napoletano, Rv. 628377-01; Sez. L, n. 02209/2016, Esposito, Rv. 638608-01; Sez. L, n. 24742/2018, De Gregorio, Rv. 650725-01.

Insomma, sulla scorta delle pronunzie richiamate, il pensiero della Cassazione può così essere sintetizzato: l’art. 2087 c.c. non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, perché la responsabilità del datore è di natura contrattuale e va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento.

È evidente, quindi, sulla scorta di quanto si è innanzi detto, che in tema di obbligo di sicurezza sui luoghi di lavoro, il rispetto delle norme antinfortunistiche di cui agli artt. 47 e 48 del d.P.R. n. 626 del 1994, e dell’allegato VI a tale decreto, non esonera affatto il datore di lavoro dall’onere di provare di aver adottato, specie nell’organizzazione del lavoro, tutte le altre cautele necessarie ad impedire il verificarsi dell’evento, dettate dalla specificità del caso concreto.

In particolare, ricorda Sez. L, n. 24629/2019, Berrino, Rv. 655134-01, con riferimento alla figura dell’apprendista, come il datore debba adoperarsi per fornirgli tutte le informazioni, le istruzioni e la formazione necessarie sui rischi nelle lavorazioni. Detto dovere, peraltro, precisa la S.C. si atteggia, nel caso di specie, in maniera particolarmente intensa, in considerazione della giovane età dei lavoratori, professionalmente inesperti, verso i quali la legge pone precisi obblighi di formazione e addestramento, tra i quali primeggia l’educazione alla sicurezza del lavoro a norma dell’art. 11 della l. n. 11 del 1955.

Se è vero che la responsabilità del datore non è oggettiva, ma connessa alla violazione degli obblighi di prevenzione, è pure vero e va sottolineato che incombe sul lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare, oltre all’esistenza di tale danno, la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’uno e l’altra. Solo se il lavoratore avrà fornito tale prova, il datore dovrà a sua volta dimostrare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e/o che quella che la malattia del dipendente non è ricollegabile alla inosservanza degli obblighi di protezione.

Sul punto, nell’anno in corso, il principio è stato nuovamente affermato da Sez. L, n. 28516/2019, Blasutto, Rv. 655608-01, secondo la quale la prova della responsabilità datoriale, ai sensi dell’art. 2087 c.c., richiede l’allegazione da parte del lavoratore sia dei concreti fattori di rischio, cd. indici di nocività dell’ambiente, cui è esposto, sia del nesso eziologico tra la violazione degli obblighi di prevenzione ed i danni. La carenza di tali allegazioni da parte del prestatore ha determinato la S.C. a confermare la sentenza di merito di rigetto della domanda risarcitoria del dipendente ferroviario che aveva dedotto di essere stato colto da un infarto in conseguenza di un’aggressione da parte di terzi subita sul treno su cui prestava servizio, senza tuttavia allegare i fattori concreti di rischio cui il datore lo aveva lasciato esposto.

La pronuncia appena ricordata si pone anch’essa in consonanza con l’orientamento del giudice di legittimità che appare consolidato sul punto, basti ricordare Sez. L, n. 26495/2018, Marchese, Rv. 651196-01, che pure sottolinea come l’art. 2087 c.c. non configuri un’ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro – di natura contrattuale – va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento, sicché è sul lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, che grava l’onere di provare, oltre all’esistenza di tale danno, la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’una e l’altra, e solo se il lavoratore abbia fornito tale prova sussiste per il datore di lavoro l’onere di dimostrare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non è ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi.

Deve peraltro segnalarsi e sottolinearsi come sul tema in esame vi sia una sinergia delle sezioni della Corte che si muovono all’unisono verso la medesima direzione.

Nello stesso senso, infatti, si è pronunziata Sez. 3, n. 208889/2018, Travaglino, Rv. 650436-01, affermando, con riferimento a una controversia relativa ai danni patiti da un lavoratore in conseguenza di un’infezione contratta per causa di servizio, che, ove sia stata accertata in sede di equo indennizzo la derivazione causale della patologia dall’ambiente di lavoro, e tale accertamento venga ritenuto utilizzabile dal giudice di merito, opera a favore del lavoratore l’inversione dell’onere della prova prevista dall’art. 2087 c.c., di modo che grava sul datore di lavoro la dimostrazione di aver adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi dell’evento dannoso. In sintonia con i principi richiamati, si era peraltro già espressa, sempre con riguardo ad una infezione contratta da un medico per causa di servizio e specificamente a cagione dell’ambiente di lavoro, Sez. L, n. 17017/2007, D’Agostino, Rv. 59964-01.

In tema di deduzione di fatti compatibili con la fattispecie di cui all’art. 2087 c.c. va altresì rammentata, Sez. L, n. 21333/2019, Cinque, Rv. 655001-01, sebbene essa riguardi maggiormente le questioni processuali ed in particolare i poteri del giudice di riqualificazione officiosa della domanda. Nella pronunzia si afferma infatti che le condotte poste a sostegno dell’azione risarcitoria, astrattamente compatibili con la fattispecie di cui all’art. 2087 c.c., possono essere ricondotte – anche in sede di appello – entro il paradigma dell’art. 2043 c.c., purché tale diverso inquadramento abbia ad oggetto i fatti prospettati dalle parti, non potendo l’esercizio di qualificazione giuridica comportare la modifica officiosa della domanda, soprattutto nel caso di diritti eterodeterminati (quali appunto i diritti di credito per risarcimento del danno), per la cui individuazione è indispensabile il riferimento ai fatti costitutivi allegati, che specificano la causa petendi.

Nella delimitazione degli obblighi di sicurezza datoriali, poi, Sez. L, n. 16749/2019, Ponterio, Rv. 654359-01, con riferimento alla tutela delle condizioni di igiene e sicurezza dei luoghi di lavoro, con specifico riguardo ad una fattispecie relativa gli addetti alla raccolta ed allo smaltimento dei rifiuti solidi urbani, ha puntualizzato che la nozione legale di dispositivi di protezione individuale (D.P.I.) non deve essere intesa come limitata alle attrezzature appositamente create e commercializzate per la protezione di specifici rischi alla salute in base a caratteristiche tecniche certificate, ma va riferita a qualsiasi attrezzatura, complemento o accessorio che possa in concreto costituire una barriera protettiva rispetto a qualsiasi rischio per la salute e la sicurezza del lavoratore, in conformità con l’art. 2087 c.c. In armonia con la premessa, ha quindi ritenuto la configurabilità a carico del datore di lavoro di un obbligo di continua fornitura e di mantenimento in stato di efficienza degli indumenti di lavoro utilizzati dagli addetti alla raccolta e allo smaltimento dei rifiuti solidi urbani ed inquadrabili in detta categoria.

2.2.1. La responsabilità del committente, ai sensi dell’art. 2087 c.c.

La giurisprudenza di legittimità ha altresì evidenziato come l’avvalersi di appaltatori non può essere l’espediente per esonerarsi da responsabilità.

Sez. L, n. 05419/2019, Boghetich, Rv. 652918-01, rileva che, ai sensi dell’art. 2087 c.c. e dell’art. 7 del d.lgs. n. 626 del 1994, vigente ratione temporis, il committente, nella cui disponibilità permanga l’ambiente di lavoro, è obbligato ad adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità e la salute dei lavoratori, ancorché dipendenti dell’impresa appaltatrice, e che consistono nel fornire adeguata informazione ai singoli lavoratori, circa le situazioni di rischio, nel predisporre quanto necessario a garantire la sicurezza degli impianti e nel cooperare con l’appaltatore nell’attuazione degli strumenti di protezione e prevenzione dei rischi connessi sia al luogo di lavoro, sia all’attività appaltata. Nella specie, il giudice di legittimità ha confermato la decisione di merito che, in presenza di un infortunio occorso ad una operaia addetta alle pulizie a causa dello sganciamento di un braccio metallico in movimento, ha ritenuto la società committente responsabile per l’omesso blocco dei nastri trasportatori prima dell’inizio del servizio di pulizia.

Sul tema, peraltro, la S.C. aveva avuto già modo di pronunziarsi (si veda Sez. L, n. 00798/2017, Manna A., Rv. 642508-01), ritenendo analogamente, che il committente, nella cui disponibilità permanga l’ambiente di lavoro, è obbligato ad adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità e la salute dei lavoratori, ancorché dipendenti dell’impresa appaltatrice, e che consistono nel fornire adeguata informazione ai singoli lavoratori circa le situazioni di rischio, nel predisporre quanto necessario a garantire la sicurezza degli impianti e nel cooperare con l’appaltatrice nell’attuazione degli strumenti di protezione e prevenzione dei rischi connessi sia al luogo di lavoro sia all’attività appaltata.

Sull’impossibilità di delegare ad altri le funzioni di prevenzione e protezione in ambito lavorativo, si veda anche Sez. 6 - 3, n. 12753/2019, Cirillo F., Rv. 653901-01, che, in tema di obbligo di sicurezza sui luoghi di lavoro, dopo aver nuovamente ribadito che il rispetto delle norme antinfortunistiche di cui agli artt. 47 e 48 del d.lgs. n. 626 del 1994 e dell’allegato VI a tale decreto non è sufficiente ad escludere la responsabilità del datore di lavoro, poiché su questi grava l’onere di provare di aver adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi dell’evento avuto riguardo all’assetto organizzativo del lavoro, puntualizza e precisa che la responsabilità del datore nemmeno viene meno per il fatto che le funzioni di prevenzione e protezione siano state delegate ad un soggetto diverso. In applicazione del principio, la S.C. ha dunque cassato la sentenza che aveva respinto la domanda risarcitoria del lavoratore infortunato sulla base del fatto che era stata dimostrata la consegna dei dispostivi di protezione ai dipendenti e che nessuna omissione di controllo potesse essere imputata al datore di lavoro, per avere quest’ultimo delegato tale attività ad un preposto.

2.2.2. Obblighi e responsabilità datoriali in caso di maternità della lavoratrice.

La particolare delicatezza della posizione della lavoratrice in maternità implementa la posizione di garanzia del datore di ulteriori obblighi di protezione, rivolti oltre che a tutela dell’integrità psicofisica della prestatrice, anche di quella del nascituro.

Sez. L, n. 18810/2019, Bellè, Rv. 654489-01, ha affrontato il delicato tema della astensione anticipata per maternità, affermando che la necessità della lavoratrice di astenersi dal lavoro per la pericolosità dello stesso dipende da fattori oggettivi, che impongono di provvedere in tal senso, anche d’ufficio, nel corso dell’attività di vigilanza, senza che sia necessaria una iniziativa della lavoratrice. Del resto, prosegue la S.C., il lavoro, in assenza di tali e più gravi presupposti e nei limiti della cd. astensione obbligatoria, può legittimamente essere proseguito, senza che ciò esima però il datore dal consentire di svolgere la prestazione secondo modalità coerenti con la condizione della donna e ciò per evidenti ragioni di tutela della dignità della lavoratrice in gravidanza, avuto riguardo alle previsioni di cui agli artt. 2, 31, comma 2, e 35 della Carta costituzionale.

2.3. La tutela dei lavoratori e degli eredi. La decorrenza del termine di prescrizione.

In relazione al danno non patrimoniale risarcibile, ai criteri di prova ed al quantum dello stesso, si è affermato che, in caso di decesso di un lavoratore a seguito di infortunio sul lavoro, il danno subito dalla vittima, nell’ipotesi in cui la morte sopravvenga dopo apprezzabile lasso di tempo dall’evento lesivo, è configurabile e trasmissibile agli eredi nella duplice componente di danno biologico “terminale”, cioè di danno biologico da invalidità temporanea assoluta, e di danno morale consistente nella sofferenza patita dal danneggiato che lucidamente e coscientemente assiste allo spegnersi della propria vita; la liquidazione equitativa del danno in questione va effettuata commisurando la componente del danno biologico all’indennizzo da invalidità temporanea assoluta e valutando la componente morale del danno non patrimoniale mediante una personalizzazione che tenga conto dell’entità e dell’intensità delle conseguenze derivanti dalla lesione della salute in vista del prevedibile exitus. Nella specie, Sez. L, n. 17577/2019, Patti, Rv. 654381-01, ha confermato la decisione dei giudici di merito che – accertata la responsabilità del datore per la malattia professionale sofferta dal prestatore in seguito ad esposizione all’amianto – avevano utilizzato un criterio equitativo basato sul valore tabellare giornaliero della totale inabilità temporanea, incrementato per la personalizzazione dovuta alle circostanze del caso concreto, avuto riguardo alla evoluzione della patologia e al grado di sofferenza patita dalla vittima.

Sul concetto di “apprezzabile lasso di tempo”, utile a ritenere consolidato il danno cd. terminale, deve rammentarsi Sez. 3, n. 18056/2019, Rossetti, Rv. 654378-01, che lo fissa nel termine di ventiquattro ore. Dunque, ritiene la S.C., il danno biologico terminale è configurabile, e trasmissibile iure successionis, ove la persona ferita non muoia immediatamente, sopravvivendo per almeno ventiquattro ore, tale essendo la durata minima, per convenzione legale, ai fini dell’apprezzabilità dell’invalidità temporanea, irrilevante, invece, che la vittima sia rimasta cosciente.

Connesso al tema che qui si sta esaminando è anche l’operata affermazione da parte del giudice di legittimità (cfr. Sez. L, n. 18884/2019, Ponterio, Rv. 654492-01) che la mancata fruizione del riposo giornaliero e settimanale, in assenza di previsioni legittimanti la scelta datoriale, è fonte di danno non patrimoniale che deve essere presunto, perché l’interesse del prestatore leso dall’inadempimento e dalla violazione dell’art. 2087 c.c. da parte del datore ha una diretta copertura costituzionale nell’art. 36 Cost., sicché la lesione del predetto interesse espone direttamente il datore alle pretese risarcitorie (cfr. anche infra par. 9.7.).

Quanto alla individuazione del termine da cui decorre la prescrizione del diritto al risarcimento del danno da fatto illecito, sia che si tratti di una ipotesi di violazione degli obblighi di protezione o della diversa ipotesi di demansionamento, l’ultima pronunzia sul tema risulta Sez. L, n. 09318/2018, Pagetta, Rv. 648725-01, che ha distinto l’illecito istantaneo, caratterizzato da un’azione che si esaurisce in un lasso di tempo definito, lasciando permanere i suoi effetti, ipotesi in cui la prescrizione incomincia a decorrere con la prima manifestazione del danno, dall’illecito permanente in cui, protraendosi la verificazione dell’evento in ogni momento della durata del danno e della condotta che lo produce, la prescrizione ricomincia a decorrere ogni giorno successivo a quello in cui il danno si è manifestato per la prima volta, fino alla cessazione della predetta condotta dannosa.

Nel corso del 2019 del tema della prescrizione relativamente al diritto al risarcimento del danno conseguente a una malattia causata al dipendente, nell’espletamento dell’attività professionale, dal comportamento colposo del datore di lavoro, si è occupata Sez. 1, 24586/2019, Mercolino, Rv. 655337-01, affermando che essa decorre non dal momento in cui l’origine professionale della malattia è conosciuta, ma da quello in cui l’origine professionale della malattia può ritenersi conoscibile dal danneggiato, indipendentemente dalle valutazioni soggettive dello stesso.

2.4. La clausola della buona fede anche a latere praestatoris.

La buona fede, si è visto, è clausola che presidia ogni rapporto contrattuale e dunque anche lo svolgimento della prestazione da parte del lavoratore.

Al riguardo, in relazione al caso in cui il lavoratore svolga altra attività lavorativa durante lo stato di malattia, si è affermato che detta ipotesi configura la violazione degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, nonché dei doveri generali di correttezza e buona fede, non solo quando tale attività esterna sia, di per sé, sufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia, ma anche nel caso in cui la medesima attività, valutata con giudizio ex ante in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione o il rientro in servizio.

In applicazione di tale principio, la S.C. ha quindi confermato la decisione di merito, che aveva ritenuto legittimo il licenziamento di un lavoratore – addetto al lavaggio di automezzi – perché, nel periodo di malattia conseguente a “dolenzia alla spalla destra determinata da un lipoma”, aveva svolto presso un cantiere attività di sbancamento di terreno con mezzi meccanici e manuali (si veda in tal senso Sez. L, n. 26496/2018, Marchese, Rv. 65090001, conforme a Sez. L, n. 10416/2017, Leo, Rv. 64403701).

Non si pone in contrasto con questo orientamento, ma lo conferma a contrario, Sez. L, n. 03655/2019, Balestrieri, Rv. 652870-01, puntualizzando che in tema di licenziamento individuale per giusta causa, l’insussistenza del fatto contestato, che rende applicabile la tutela reintegratoria ai sensi dell’art. 18, comma 4, st. lav., come modificato dall’art. 1, comma 42, lett. b), della l. n. 92 del 2012, comprende anche l’ipotesi del fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità, come nell’ipotesi del dipendente che, durante il periodo di assenza per malattia, svolga un’altra attività lavorativa, ma senza che ciò determini, per le sue concrete modalità di svolgimento, alcun rischio di aggravamento della patologia né alcun ritardo nella ripresa del lavoro, e dunque senza violazione degli obblighi di buona fede e correttezza nell’esecuzione del rapporto (v. comunque sul punto il capitolo sul licenziamento, par. 2.16).

3. Il mobbing e lo straining.

Come si è anticipato in premessa, l’obbligo di protezione di cui all’art. 2087 c.c. fonda anche il divieto di comportamenti lesivi della personalità morale (oltre che della integrità fisica) dei lavoratori e dunque anche dei comportamenti mobbizzanti, ovvero quei comportamenti datoriali protratti nel tempo, con intento persecutorio del lavoratore.

Quanto alla definizione della figura, restano fermi i tratti distintivi delineati da Sez. L, n. 12437/2018, Patti, Rv. 648956-01, e da Sez. L, n. 26684/2017, Di Paolantonio, Rv. 646150-01.

Dalle sopraindicate pronunzie emerge che è configurabile il mobbing lavorativo ove ricorra l’elemento obiettivo, integrato da una pluralità di comportamenti del datore di lavoro, e quello soggettivo dell’intendimento persecutorio del datore medesimo, confermando, dunque, la decisione di merito che aveva ravvisato entrambi gli elementi, individuabili, il primo, nello svuotamento progressivo delle mansioni della lavoratrice e, il secondo, nell’atteggiamento afflittivo del datore di lavoro, all’interno di un procurato clima di estrema tensione in azienda. La seconda delle due decisioni innanzi indicate valorizza poi proprio la presenza dell’intento persecutorio, quale elemento qualificante del fenomeno ed unificatore delle condotte datoriali.

Ebbene, così definito il mobbing, il giudice di legittimità ha poi tratteggiato l’actio finium regundorum, tra la figura in esame e lo straining.

In tema, Sez. L, n. 18164/2018, Marotta, Rv. 64981701 – in linea di continuità con l’attività di delimitazione delle due figure inaugurata con Sez. L, n. 03291/2016, Tria, Rv. 639004-01 – ha evidenziato che lo straining è una forma attenuata di mobbing, cui difetta la continuità delle azioni vessatorie, sicché la prospettazione solo in appello di tale fenomeno, se nel ricorso di primo grado gli stessi fatti erano stati allegati e qualificati mobbing, non integra la violazione dell’art. 112 c.p.c., costituendo entrambi comportamenti datoriali ostili, atti ad incidere sul diritto alla salute.

Dunque, secondo quanto affermato dal giudice di legittimità nella sopraindicata pronunzia, il mobbing e lo straining condividono la stessa natura, pur essendo il primo caratterizzato da una continuità nelle azioni vessatorie che manca nel secondo.

Tanto premesso, nel corso del 2019, del mobbing la S.C. si è interessata avuto riguardo ad una ipotesi in cui il giudice di merito aveva respinto la domanda di risarcimento, sul presupposto che sia notorio che il soggetto affetto da malattia psichica non possa percepire la realtà dei rapporti interpersonali con conseguente impossibilità, per il datore di lavoro, di evitare la causazione del danno. Il giudice di legittimità non ha condiviso le valutazioni effettuate dal giudice di merito con particolare riferimento alla nozione di notorio e dunque ne ha cassato con rinvio la decisione, affermando che nelle nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza di cui all’art. 115, comma 2, c.p.c. sono escluse quelle valutazioni che, per essere formulate, necessitino di un apprezzamento tecnico, da eseguirsi a mezzo c.t.u. o attraverso mezzi cognitivi peritali analoghi per le quali, quindi, non può parlarsi di fatti o regole di esperienza pacificamente acquisite al patrimonio conoscitivo dell’uomo medio o della collettività con un grado di certezza da apparire indubitabile e incontestabile (si veda Sez. L, n. 15159/2019, Bellè, Rv. 654102-01).

4. Ius variandi e demansionamento.

L’art. 2103 c.c. novellato ha ampliato i poteri datoriali in ordine allo ius variandi, prevedendo, fermo restando il trattamento retributivo e l’inquadramento, la possibilità di destinare il prestatore a mansioni inferiori: 1) in caso di modifica degli assetti aziendali che incidano sulla posizione del lavoratore; 2) di espressa previsione nella contrattazione collettiva.

È poi prevista la possibilità di stipula di un patto cd. di demansionamento (accordo individuale di modifica di categoria legale, inquadramento e retribuzione) se funzionalizzato alla conservazione del posto di lavoro, alla acquisizione di diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita del lavoratore.

Infine, va ricordato che in virtù delle modifiche apportate dal d.lgs. n. 81 del 2015 è attribuita all’imprenditore la facoltà di modificare unilateralmente le mansioni, purché le nuove siano riconducibili allo stesso livello e categoria legale.

Permane, a pena di nullità dell’assegnazione alle nuove mansioni, l’obbligo formativo del lavoratore, ancor più pregnante con riguardo alla figura degli apprendisti.

Nonostante le corpose novità in tema di demansionamento, la Cassazione, nel corso di quest’anno non ha ancora avuto modo di pronunziarsi su di esse.

4.1. I limiti all’esercizio dello ius variandi.

Il giudice di legittimità, come si è anticipato, ha ulteriormente delimitato e profilato i limiti dello ius variandi, ma sempre con riferimento a fattispecie disciplinate dall’art. 2103 c.c. nella versione anteriore alle novelle apportate dall’art. 3 del d.lgs. n. 81 del 2015.

In Sez. L, n. 08910/2019, Curcio, Rv. 653216-01, a tal riguardo, si è statuito che, ai fini della verifica del legittimo esercizio dello ius variandi datoriale, l’attività prevalente ed assorbente svolta dal lavoratore deve rientrare tra quelle previste dalla categoria di appartenenza, ma il lavoratore, per motivate e contingenti esigenze aziendali, può essere anche adibito occasionalmente a compiti inferiori, purché marginali, rispetto a quelli propri del suo livello. In applicazione di detto principio, ha dunque confermato la decisione del giudice di merito che aveva ritenuto illegittima la pretesa datoriale di far svolgere alle dipendenti inquadrate nel quinto livello del c.c.n.l. commercio, in qualità di addette alla vendita, mansioni inferiori di pulizia, perché effettuate non in via occasionale, ma in maniera programmata, secondo un turno aziendale, denotante, quindi, una carenza strutturale dell’organico.

Con riferimento, poi, al caso in cui l’assegnazione a mansioni inferiori avvenga durante lo sciopero proclamato dalle organizzazioni sindacali di categoria, Sez. L, n. 08670/2019, Blasutto, Rv. 653214-01, in simmetria con la decisione innanzi ricordata, ha ritenuto che deve escludersi il carattere antisindacale della condotta del datore di lavoro che assegni il personale rimasto in servizio a mansioni inferiori, ma solo se queste sono marginali, accessorie e complementari rispetto a quelle normalmente svolte. In caso contrario, se dunque sono da svolgersi in via principale, la condotta datoriale, oltre ad essere lesiva dei diritti del prestatore, lo è altresì rispetto all’interesse collettivo del sindacato per aver fatto ricadere sui lavoratori non scioperanti le conseguenze negative dell’astensione con il compimento di atti illegittimi perché in violazione dell’art. 2103 c.c. La fattispecie analizzata dalla S.C. concerneva una ipotesi di sciopero del personale di esazione dipendente della società Autostrade per l’Italia s.p.a. e – nella specie – il giudice di legittimità ha escluso l’antisindacalità della condotta datoriale consistita nell’adibire il responsabile dell’esazione alla funzione di apertura/chiusura delle porte manuali e nel demandare ai gestori di tratta l’intervento sulle piste in caso di malfunzionamento dei sistemi di pagamento elettronici, trattandosi di interventi sporadici ed occasionali.

Quanto al patto di demansionamento del pari va segnalato, come già anticipato, che l’unica decisione che si occupa di detto istituto è anch’essa relativa ad una fattispecie disciplinata dall’art. 2103 c.c. nella formulazione previgente.

Nella pronunzia si afferma che il patto di demansionamento è legittimo, pur anteriormente alla riformulazione dell’art. 2103 c.c., in presenza, però, di condizioni tali da legittimare il licenziamento del lavoratore in mancanza di accordo, purché il consenso sia stato espresso liberamente, sebbene in forma tacita ma attraverso fatti univocamente attestanti la volontà del lavoratore di aderire alla modifica in peius delle mansioni. Nello specifico, in applicazione di detto principio Sez. L, n. 05621/2019, Marotta, Rv. 652922-01, ha ritenuto incensurabile la valutazione effettuata dal giudice di merito che, nel percorso motivazionale, al fine di ritenere la validità del patto, aveva valorizzato la circostanza che il prestatore aveva assunto le nuove mansioni senza contestazioni.

4.2.1. L’adibizione a mansioni inferiori in caso di riconversione o ristrutturazione aziendale.

L’art. 2103 c.c. sulla disciplina delle mansioni e sul divieto di declassamento va interpretato, ricorda il giudice di legittimità in Sez. L, n. 29626/2019, Raimondi, Rv. 655715-01, alla stregua del bilanciamento del diritto del datore di lavoro a perseguire un’organizzazione aziendale produttiva ed efficiente con quello del lavoratore al mantenimento del posto, con la conseguenza che, nei casi di sopravvenute e legittime scelte imprenditoriali, comportanti, tra l’altro, interventi di ristrutturazione aziendale, l’adibizione del lavoratore a mansioni diverse, anche inferiori, a quelle precedentemente svolte senza modifica del livello retributivo, non si pone in contrasto con il dettato del codice civile. In tal senso, peraltro, si era già espressa Sez. L, n. 11395/2014, De Renzis, Rv. 630913-01, già in conformità all’orientamento espresso in Sez. L, n. 08956/2007, Vidiri, Rv. 596139-01.

4.2.2. Demansionamento e repechage (rinvio).

Sul tema si ricorda Sez. L, n. 29099/2019, Patti, Rv. 655704-01, per la cui trattazione si rinvia al capitolo dedicato al licenziamento, par. 2.7.

4.2.3. Demansionamento: la responsabilità del cessionario.

Si occupa della responsabilità per il caso di demansionamento nei rapporti tra cedente e cessionario, Sez. L, n. 21161/2019, Amendola F., Rv. 654808-01, con riguardo all’ipotesi in cui sia stata accertata giudizialmente l’invalidità del trasferimento. In questo caso, scrive il giudice di legittimità, il rapporto di lavoro permane con il cedente, ma se ne instaura anche, in via di fatto, uno nuovo e diverso con il soggetto “cessionario”, alle cui dipendenze il lavoratore materialmente continua a lavorare. Dalla instaurazione di fatto di tale rapporto lavorativo generano naturalmente effetti giuridici e, in particolare, per quello che qui interessa, la nascita degli obblighi gravanti su qualsiasi datore di lavoro che utilizzi la prestazione lavorativa nell’ambito della propria organizzazione imprenditoriale. Se, dunque, il “cessionario” pone in essere nell’ambito di detto nuovo rapporto un demansionamento, dello stesso, in conseguenza delle operate premesse, risponderà per violazione dell’art. 2103 c.c. (sulla cessione di azienda, v. più diffusamente i parr. 11. e ss. del capitolo sul lavoro flessibile).

4.3. Criteri per il risarcimento del danno da demansionamento.

Quanto agli oneri della prova incombenti sul lavoratore ed alla ammissibilità delle presunzioni in materia di risarcimento del danno da assegnazioni a mansioni inferiori va menzionata Sez. L, n. 00021/2019, Cinque, Rv. 65244501. Nella pronunzia, poc’anzi ricordata, si afferma che il danno derivante da demansionamento e dequalificazione professionale non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale, ma deve essere provato dal lavoratore, eventualmente anche ai sensi dell’art. 2729 c.c., attraverso l’allegazione di elementi presuntivi gravi, precisi e concordanti, tra i quali possono essere valutati la qualità e quantità dell’attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento, la diversa e nuova collocazione lavorativa assunta dopo la prospettata dequalificazione. Nella specie, la Cassazione ha considerato provato, sulla scorta di presunzioni, il danno lamentato dalla vice direttrice di un ufficio postale che, dopo essere stata assegnata a mansioni di minore ampiezza, era stata vittima di condotte obiettivamente mortificanti, tra le quali: l’estromissione dalla commissione esaminatrice per un concorso interno; la sostituzione da parte di un dipendente dell’area operativa; il parallelo avanzamento in carriera di dipendenti di qualifica inferiore; il silenzio datoriale in risposta alle sue richieste di adeguamento delle mansioni.

Del pari in tema di dequalificazione professionale e risarcimento del danno, va ricordata Sez. L, n. 19923/2019, Pagetta, Rv. 65478702, con riferimento alla possibilità di liquidazione equitativa dei danni patrimoniali. In tal caso, il giudice di legittimità – partendo dall’esame di una ipotesi in cui la sentenza di merito aveva riconosciuto al lavoratore il danno patrimoniale da demansionamento in misura corrispondente all’importo da questo versato all’INPS per il riscatto degli anni universitari, onde accedere prima al pensionamento anticipato di anzianità e porre fine alla situazione di degrado ed emarginazione professionale – ha statuito che in tema di dequalificazione professionale, il giudice del merito, con apprezzamento di fatto incensurabile in cassazione, se adeguatamente motivato, può desumere l’esistenza del relativo danno – avente natura patrimoniale e il cui onere di allegazione incombe sul lavoratore – e determinarne l’entità, anche in via equitativa. Potrà giungere quindi al risarcimento anche attraverso un processo logico-giuridico attinente alla formazione della prova, pure in via presuntiva, in base agli elementi di fatto relativi alla qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionamento, all’esito finale della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto.

Appare utile, da ultimo, sempre in tema di liquidazione equitativa del danno, far menzione di quanto affermato da Sez. L, n. 16595/2019, Lorito, Rv. 654240-01. I principi ivi enunziati, infatti, contengono un monito al giudice di merito, quanto ai contenuti minimi che la motivazione deve recare per non incappare nella scure del giudice di legittimità e, benché dettati con riguardo ad una ipotesi di liquidazione equitativa del danno da demansionamento, paiono porsi come parametri motivazionali da adottare in tutte le ipotesi di liquidazione equitativa del danno. Nel dettaglio, il giudice di legittimità scrive che è sindacabile in sede di legittimità, come violazione dell’art. 1226 c.c. e, nel contempo, come ipotesi di assenza di motivazione, di “motivazione apparente”, di “manifesta ed irriducibile contraddittorietà” e di “motivazione perplessa od incomprensibile”, la valutazione del giudice di merito che non abbia indicato, nemmeno sommariamente, i criteri seguiti per determinare l’entità del danno e gli elementi su cui ha basato la sua decisione in ordine al quantum. In applicazione del principio innanzi enunziato, la S.C. ha quindi cassato la decisione della corte territoriale che aveva ridotto in modo non trascurabile l’ammontare del danno professionale liquidato in primo grado semplicemente richiamando la prassi invalsa presso il distretto territoriale, senza procedere ad una enunciazione più specifica dei criteri applicati né all’adeguamento della liquidazione alle particolarità del caso concreto.

Del pari, contenendo affermazioni di principio applicabili a tutte le ipotesi di danno morale, val la pena ricordare, Sez. L, n. 29206/2019, Esposito, Rv. 655757-01, in continuità ex plurimis, con Sez. 3, n. 20684/2009, Segreto, Rv. 609435-01. Il danno non patrimoniale derivante dalla lesione dei diritti inviolabili della persona, scrive la S.C., è risarcibile a condizione che l’interesse leso abbia rilevanza costituzionale, che la lesione dell’interesse sia grave, nel senso che l’offesa superi la soglia minima di tollerabilità imposta dai doveri di solidarietà sociale, che il danno non sia futile, ovvero non consista in meri disagi o fastidi e che, infine, vi sia specifica allegazione del pregiudizio, non potendo assumersi la sussistenza del danno in re ipsa.

5. L’assegnazione del dipendente a mansioni superiori: le modalità di verifica.

Nel procedimento logico-giuridico diretto alla determinazione dell’inquadramento di un lavoratore subordinato non può prescindersi, ritiene la S.C., dalla motivata valutazione di tre fasi tra di loro ordinate in successione, consistenti: a) nell’accertamento di fatto dell’attività lavorativa in concreto svolta; b) nell’individuazione delle qualifiche o gradi previsti dalla normativa applicabile nel singolo caso (contratto collettivo ovvero regolamento del personale ad esso equiparabile); c) nel raffronto dei risultati di tali due indagini. Pertanto, se risulta omessa da parte del giudice del merito la motivata indicazione e valutazione della seconda di dette fasi, ne deriva l’errata applicazione dell’art. 2103 cod. civ., restando l’individuazione dei criteri generali ed astratti caratteristici delle singole categorie alla stregua della disciplina collettiva del rapporto censurabile in sede di legittimità, oltre che per vizi di motivazione (come le altre fasi del predetto iter logico-giuridico dell’inquadramento), anche per violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale nell’interpretazione della disciplina collettiva applicabile (cfr. Sez. L, n. 11037/2006, Balletti, Rv. 589058-01).

Al riguardo, il giudice di legittimità, Sez. L, n. 30580/2019, Torrice, Rv. 655877-01 ha puntualizzato che nel giudizio relativo all’attribuzione di una qualifica superiore, l’osservanza del cd. criterio “trifasico”, da cui non si può prescindere nel procedimento logico-giuridico diretto alla determinazione dell’inquadramento del lavoratore, non richiede che il giudice si attenga pedissequamente alla ripetizione di una rigida e formalizzata sequenza delle azioni fissate dallo schema procedimentale, sempre che risulti che ciascuno dei momenti di accertamento, di ricognizione e di valutazione abbia trovato concreto ingresso nel ragionamento decisorio, concorrendo a stabilirne le conclusioni. Tale affermazione, peraltro, è in linea con quanto già ritenuto in Sez. L, n. 18943/2016, Negri della Torre, Rv. 641208-01.

5.1. Gli obblighi datoriali, in caso di assegnazioni a mansioni superiori, nell’impiego privato. Questioni di inquadramento.

Lo svolgimento di fatto di mansioni superiori nel lavoro cd. privato, attualmente, comporta – salvo che sia funzionale alla sostituzione di altro lavoratore in servizio o che vi sia espressione di volontà del lavoratore in senso contrario – il diritto del prestatore alla qualifica ed alla retribuzione sempre che detta assegnazione sia durata il tempo fissato dai contratti collettivi o in mancanza sei mesi (nel testo del previgente art. 2103 c.c. erano tre).

Ebbene, in tema, Sez. L, n. 25673/2019, Negri della Torre, Rv. 655388-01, si è soffermata sul concetto di svolgimento di mansioni superiori utili al riconoscimento della superiore qualifica.

A tal riguardo, la Cassazione ha ritenuto che l’assegnazione a mansioni diverse da quelle di assunzione determina il diritto del lavoratore all’inquadramento superiore di cui all’art. 2103 c.c. anche quando le prime siano solo prevalenti rispetto agli altri compiti affidatigli, non richiedendo la predetta norma lo svolgimento di tutte le mansioni proprie della qualifica superiore, ma solo che i compiti affidati al lavoratore siano superiori a quelli della categoria in cui è inquadrato.

La Suprema Corte si è poi pronunziata anche con riferimento alla interpretazione di specifiche norme della contrattazione collettiva, al fine di verificare quale sia l’essenza dell’inquadramento codificato dalle parti sociali e dunque se sia maturato o meno il diritto al superiore inquadramento.

Infatti, avuto riguardo al c.c.n.l. del 16 aprile del 2003 del comparto ferroviario, va rammentata, sempre con riguardo alle questioni relative all’inquadramento, Sez. L, n. 07172/2019, Blasutto, Rv. 653175-01. Scrive la S.C., in tema di inquadramento del personale ferroviario: il responsabile del servizio di prevenzione e protezione (RSPP), cui è affidato il compito di valutare i rischi connessi all’attività lavorativa e di indicare eventuali soluzioni tecniche per garantire la sicurezza dei lavoratori, rientra nel livello B-Quadri di cui all’art. 21 del c.c.n.l. 16 aprile 2003 delle attività ferroviarie, in quanto, come richiesto dalla relativa declaratoria, concorre al perseguimento degli “obiettivi aziendali”, non potendo tale ultima nozione essere intesa in senso esclusivamente economico-produttivo, atteso che la sicurezza sui luoghi di lavoro costituisce uno degli obblighi primari dell’imprenditore alla luce dell’art. 41 Cost.

Sempre in tema di inquadramento, va pure ricordata Sez. L, n. 25810/2019, Arienzo, Rv. 655319-01, secondo il cui insegnamento, la declaratoria della quarta categoria del c.c.n.l. industria metalmeccanica del 7 maggio 2003 si interpreta nel senso che nella previsione di cui al secondo alinea – alternativa a quelle declinate nel primo e nel terzo paragrafo – il riferimento al requisito della guida e controllo di un gruppo di lavoratori non è connotato in termini di autonomia decisionale, come si desume dalla precisazione che non è richiesta alcuna iniziativa per la condotta ed il risultato delle lavorazioni. (Nella specie, la S.C. ha cassato la decisione di merito che, in relazione alle mansioni di team leader, implicanti il coordinamento di un gruppo di oltre dieci lavoratori, aveva rigettato la domanda di inquadramento nella quarta categoria per assenza di autonomia decisionale).

In limine, benché non involga questioni che concernono il riconoscimento di mansioni superiori, ma piuttosto la maturazione del diritto alla indennità di maneggio di denaro, Sez. L, n. 22294/2019, Arienzo, Rv. 654824-01.

In essa la S.C. ha affermato che l’indennità spetta in presenza dei requisiti previsti dal contratto collettivo che disciplina il rapporto di lavoro, essendo comunque necessario che le mansioni del lavoratore implichino un contatto con il denaro continuativo ed occasionale, con esposizione ad una possibile responsabilità, anche di carattere finanziario; tali profili devono ritenersi immanenti nella mansioni di cassiere per il quale la responsabilità connessa al maneggio di denaro discende, ai sensi dell’art. 2104 c.c., direttamente dalla natura della prestazione dovuta.

6. Il tratto distintivo fra redattore e collaboratore fisso nell’impresa giornalistica e le conseguenze della mancata iscrizione all’albo dei giornalisti.

In tema di lavoro giornalistico, se nello scorso anno la S.C. si era in particolar modo soffermata sui tratti distintivi tra redattore e collaboratore fisso, affermando che ai fini della integrazione della qualifica di redattore e della sua distinzione dalla figura del collaboratore, rileva, per un verso, il requisito della quotidianità della prestazione, in contrapposizione alla continuità, caratterizzante, invece, la figura del collaboratore fisso, oltre che l’elevato livello di integrazione nell’impresa, che si esprime nella compartecipazione alla programmazione dell’attività informativa per linee generali ed alla formazione del prodotto finale, a fronte del mero vincolo di dipendenza che connota l’attività del collaboratore fisso, il quale si limita ad offrire servizi inerenti, di regola, ad un settore informativo specifico di competenza (cfr. Sez. L, n. 29182/2018, Ponterio, Rv. 651745-01), nel corso del 2019, Sez. L, n. 03177/2019, Marotta, Rv. 652910-01, ha invece approfondito la diversa questione delle conseguenze della mancata iscrizione all’albo dei giornalisti.

L’attività svolta dal collaboratore fisso, contraddistinta da continuità, vincolo di dipendenza ed esclusività, responsabilità di un servizio, scrive il giudice di legittimità, rientra nel concetto di “professione giornalistica” e richiede la previa iscrizione nell’elenco dei giornalisti, con conseguente nullità del contratto in caso di iscrizione al solo elenco dei pubblicisti. Qualora ricorra detta ipotesi, chiarisce però la S.C., poiché la nullità non deriva da illiceità dell’oggetto o della causa, ma da violazione di legge, l’attività svolta conserva giuridica rilevanza ed efficacia ai sensi dell’art. 2126 c.c.

Sulla questione, ad ogni modo, l’ultima parola non è ancora stata scritta.

Infatti, va segnalato che Sez. L, n. 14262/2019, Ponterio, ha rimesso alle S.U. proprio il dibattuto tema: se, ai fini della costituzione di un valido rapporto di lavoro subordinato giornalistico in capo al collaboratore fisso che eserciti la sua attività con “esclusività professionale”, sia necessaria l’iscrizione all’albo dei giornalisti o basti, per converso, quella all’albo dei pubblicisti.

6.1. Sulla nozione di ufficio di corrispondenza estera.

L’elaborazione della giurisprudenza di legittimità, avuto riguardo alla figura del redattore, come ricordata nel paragrafo che precede, costituisce, poi, il substrato sul quale è stata tracciata la nozione di corrispondenza estera da Sez. L, n. 02930/2019, Bellè, Rv. 65260503, in conformità con quanto già ritenuto da Sez. L, n. 19199/2013, Arienzo, Rv. 628388-01.

In tema di lavoro giornalistico, afferma la S.C., ai sensi dell’art. 5 del c.c.n.l. 10 gennaio 1959, reso efficace erga omnes con d.P.R. n. 153 del 1961, affinché l’attività di un giornalista corrispondente dall’estero integri lo svolgimento delle mansioni proprie di un “ufficio di corrispondenza”, occorre che ricorrano, in analogia con l’attività di redattore, oltre all’elaborazione di notizie, anche la continuità della loro trasmissione, nonché il carattere elaborato e generale delle notizie stesse, provenienti da qualsiasi settore dell’informazione del Paese di corrispondenza, restando irrilevante che vi sia o meno una struttura multipersonale e munita di specifici mezzi datoriali. È facendo applicazione di questi principi, che la Cassazione ha annullato la sentenza che aveva negato la qualifica di corrispondente dall’estero in favore di una giornalista che lavorava da sola e priva di una struttura formale di riferimento, ma curava quotidianamente da Madrid l’elaborazione di informazioni di ogni genere, provenienti da tutta la Spagna, dando copertura a qualsiasi esigenza di partecipazione ad eventi, congressi e conferenze stampa.

7. Il trasferimento.

Il datore di lavoro può disporre il trasferimento del lavoratore; l’esercizio di detta facoltà datoriale impinge, tuttavia, nella vita del lavoratore e nelle sue scelte personali e familiari ed è perciò vincolata alla sussistenza di comprovate ragioni tecniche e produttive.

7.1. La libertà datoriale di operare lo spostamento dei lavoratori nell’ambito della unità produttiva.

Il contemperamento degli interessi del datore e del lavoratore operato attraverso la verifica della sussistenza delle ragioni tecniche ed organizzative, ai fini della legittimità del trasferimento, trova ulteriore bilanciamento nella nozione di unità produttiva, all’interno della quale il datore di lavoro può liberamente spostare i dipendenti, salvo che l’unità non comprenda uffici notevolmente distanti sul territorio.

Detto principio è stato affermato da Sez. L, n. 17246/2018, Negri della Torre, Rv. 649604-01, conforme alla precedente Sez. L, n. 12097/2010, Di Nubila, Rv. 613528-01, che ha ritenuto che la nozione di trasferimento del lavoratore, che comporta il mutamento definitivo del luogo geografico di esecuzione della prestazione, ai sensi dell’art. 2103, comma 1 (ultima parte), c.c., e alla stregua delle disposizioni collettive applicabili nella specie (artt. 37 e 74 del c.c.n.l. per i dipendenti postali), non è configurabile quando lo spostamento venga attuato nell’ambito della medesima unità produttiva, salvo i casi in cui l’unità produttiva comprenda uffici notevolmente distanti tra loro.

Ebbene, della nozione di unità produttiva, con specifico riferimento alla attività di piazzista, si è interessata Sez. L, n. 29520/2019, Garri, Rv. 654745-01, ritenendo che l’unità produttiva dalla quale il prestatore non può essere trasferito, se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive, è quella che costituisce articolazione autonoma dell’impresa, con idoneità a produrre beni e servizi dell’azienda, sicché, quanto ai piazzisti, essa va individuata in relazione all’itinerario da compiere, alla zona da visitare o all’ambito territoriale assegnato. In applicazione del principio innanzi esposto, la S.C. ha cassato la decisione di merito che aveva qualificato come trasferimento il mero mutamento di clientela, all’interno della medesima area geografica di assegnazione, senza verificare la sussistenza di sostanziali mutamenti della prestazione.

7.1.1. Mutamento di unità produttiva del lavoratore che assiste familiare con handicap.

Del divieto di trasferimento del lavoratore che assiste con continuità un familiare disabile convivente, ai sensi dell’art. 33, comma 5, della l. n. 104 del 1992, nel testo modificato dall’art. 24, comma 1, lett. b) della l. n. 183 del 2010, si è occupata Sez. L, n. 21670/2019, Negri della Torre, Rv. 654822-01.

Nella pronunzia innanzi citata si afferma, conformemente a quanto già ritenuto da Sez. L, n. 24015/2017, Torrice, Rv. 646099-02, che il divieto di trasferimento del lavoratore opera ogni volta che muti definitivamente il luogo geografico di esecuzione della prestazione, anche nell’ambito della medesima unità produttiva che comprenda uffici dislocati in luoghi diversi, in quanto il dato testuale contenuto nella norma, che fa riferimento alla sede di lavoro, non consente di ritenere tale nozione corrispondente all’unità produttiva di cui all’art. 2103 c.c.

Insomma, nel caso specifico dell’assistenza ai familiari conviventi disabili, il giudice di legittimità utilizza una nozione attenta alla tutela dei diritti del prestatore e dei suoi familiari in condizione di handicap.

7.1.2. Scelta della sede di lavoro da parte del prestatore che assiste familiari con handicap grave e fruizione dei permessi.

Per l’evidente connessione con il tema poc’anzi trattato della delimitazione del raggio entro il quale il datore può operare il trasferimento del lavoratore che assiste familiari in condizioni di disabilità, va verificata anche la posizione assunta dal giudice di legittimità con riferimento al diritto alla scelta della sede di lavoro.

Ebbene, la Cassazione ha precisato che detto diritto alla scelta della sede può essere esercitato, ricorrendone i presupposti, sia al momento dell’assunzione che successivamente, nel corso del rapporto di lavoro.

Nel dettaglio, Sez. L, n. 06150/2019, Ponterio, Rv. 653082-01, afferma che in materia di assistenza ai portatori di handicap, l’art. 33, comma 5, della l. n. 104 del 1992, nel testo modificato dalla l. n. 53 del 2000 e dalla l. n. 183 del 2010, circa il diritto del lavoratore che assiste un disabile in situazione di gravità di scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al proprio domicilio, va interpretato nel senso che tale diritto può essere esercitato, al ricorrere delle condizioni di legge, oltre che al momento dell’assunzione, anche nel corso del rapporto di lavoro, deponendo in tal senso il tenore letterale della norma, in coerenza con la funzione solidaristica della disciplina e con le esigenze di tutela e garanzia dei diritti del soggetto portatore di handicap previsti dalla Costituzione e dalla Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, ratificata e resa esecutiva con l. n. 18 del 2009.

Va qui ricordata anche Sez. L, n. 21416/2019, Marotta, Rv. 654680-01, in relazione alla diversa questione dei permessi retribuiti ex art. 33, comma 3, della l. n. 104 del 1992.

La condizione – cui è assoggettato il relativo diritto – che la persona da assistere, affetta da handicap grave, non sia ricoverata a tempo pieno, scrive il giudice di legittimità, non può che intendersi riferita al ricovero presso strutture ospedaliere o simili (pubbliche o private) che assicurino assistenza sanitaria continuativa, in coerenza con la ratio dell’istituto, che è quella di garantire al portatore di handicap grave tutte le prestazioni sanitarie necessarie e richieste dal suo status, così da rendere superfluo, o comunque non indispensabile, l’intervento del familiare. Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata – che aveva ritenuto legittimo il licenziamento intimato per falsa dichiarazione del lavoratore in ordine al requisito del mancato ricovero della madre, alloggiata in una casa di riposo – perché la valutazione del giudice di merito sulla veridicità della dichiarazione si era arrestata ad una nozione atecnica di ricovero, senza considerare il livello di assistenza prestato dalla struttura.

7.2. La posizione del lavoratore raggiunto da un trasferimento illegittimo.

Quanto alla posizione del lavoratore che venga raggiunto da un trasferimento illegittimo, va rilevato che, in piena sintonia con Sez. L, n. 11408/2018, Pagetta, Rv. 648189-01, Sez. L, n. 00434/2019, Patti, Rv. 652225-01, ha affermato che l’inadempimento datoriale non legittima in via automatica il rifiuto del lavoratore ad eseguire la prestazione lavorativa in quanto, vertendosi in ipotesi di contratto a prestazioni corrispettive, trova applicazione il disposto dell’art. 1460, comma 2, c.c., alla stregua del quale la parte adempiente può rifiutarsi di eseguire la prestazione a proprio carico solo ove tale rifiuto, avuto riguardo alle circostanze concrete, non risulti contrario alla buona fede e sia accompagnato da una seria ed effettiva disponibilità a prestare servizio presso la sede originaria, con valutazione rimessa al giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità se espressa con motivazione adeguata ed immune da vizi logico-giuridici. Nella specie, la S.C. ha quindi cassato la decisione impugnata per avere ritenuto giustificato il rifiuto del lavoratore in virtù di un generico riferimento alla gravità dell’inadempimento datoriale.

Sez. L, n. 21391/2019, Blasutto, Rv. 655003-01, si colloca nel medesimo alveo; anche in essa infatti si nega che in caso di trasferimento adottato in violazione dell’art. 2103 c.c., l’inadempimento datoriale legittimi in via automatica il rifiuto del lavoratore di eseguire la prestazione lavorativa, in quanto, vertendosi in ipotesi di contratto a prestazioni corrispettive, trova applicazione il disposto dell’art. 1460, comma 2, c.c. alla stregua del quale la parte adempiente può rifiutarsi di eseguire la prestazione a proprio carico solo ove tale rifiuto, avuto riguardo alle circostanze concrete, non risulti contrario alla buona fede.

Questa ricostruzione della posizione del lavoratore colpito da trasferimento illegittimo e della impossibilità di rifiutare la prestazione lavorativa, segna una nuova linea di tendenza nell’orientamento della Cassazione, atteso che nella sentenza Sez. L, n. 18178/2017, Negri della Torre, Rv. 645003-01 (peraltro conforme alla precedente Sez. L, n. 26920/2008, Stile, Rv. 605455-01) si giungeva invece ad una soluzione di segno opposto, affermandosi che il provvedimento del datore di lavoro avente ad oggetto il trasferimento di sede di un lavoratore, non adeguatamente giustificato ex art. 2103 c.c., è nullo ed integra un inadempimento parziale del contratto di lavoro, con la conseguenza che la mancata ottemperanza allo stesso provvedimento da parte del lavoratore trova giustificazione sia quale attuazione di un’eccezione di inadempimento (art. 1460 c.c.), sia sulla base del rilievo che gli atti nulli non producono effetti, non potendosi ritenere che sussista una presunzione di legittimità dei provvedimenti aziendali che imponga l’ottemperanza agli stessi fino ad un contrario accertamento in giudizio.

In limine, va rammentata Sez. L, n. 11180/2019, Curcio, Rv. 653624-01, che, sebbene avuto riguardo ad una ipotesi in cui veniva in rilievo l’accertamento della nullità del termine apposto al contratto di lavoro ed il conseguente obbligo datoriale di riammissione in servizio del lavoratore, si occupa della medesima questione: gli effetti del rifiuto del lavoratore di accettare il trasferimento. In detto arresto, infatti, la S.C. afferma che nell’ipotesi di accertamento della nullità del termine apposto al contratto di lavoro, il datore è tenuto a riammettere in servizio il lavoratore nelle precedenti condizioni di luogo e di mansioni, salvo adottare un provvedimento di trasferimento nel rispetto di quanto previsto dall’art. 2013 c.c; il rifiuto del lavoratore di accettare il trasferimento in una sede diversa da quella originaria in assenza di ragioni obiettive che sorreggano detto provvedimento costituisce condotta inquadrabile in quella disciplinata dell’art.1460 c.c.

7.3. Gli emolumenti retributivi in caso di trasferimento ed il tfr.

Per una questione di organicità appare opportuno richiamare in questa sede, piuttosto che nel paragrafo destinato alle questioni retributive in generale, le pronunzie del giudice di legittimità in materia di emolumenti retributivi in caso di trasferimento, nonché in relazione al calcolo del tfr.

In tema va ribadito che per la Cassazione hanno natura retributiva i trattamenti economici che compensano il lavoro (e la sua eventuale maggiore gravosità), mentre hanno natura riparatoria quelli volti al ristoro di spese.

Sez. L, n. 22197/2018, Marotta, Rv. 650499-01, in tema di emolumenti percepiti in caso di trasferimento ad altra sede, ha infatti affermato che alle somme erogate a tale titolo deve riconoscersi natura retributiva qualora si tratti di importi compensativi della maggiore gravosità e del disagio morale ed ambientale dell’attività lavorativa prestata presso la nuova sede per adempiere, sia pure indirettamente, gli obblighi della prestazione lavorativa; il collegamento sinallagmatico con detta prestazione rende, infatti, tali importi un adeguamento della retribuzione ai maggiori esborsi sopportati in considerazione delle mutate condizioni ambientali in cui il lavoratore svolge la propria attività.

Nel corso dell’anno 2019, il giudice di legittimità è tornato sul tema con Sez. L, n. 13516/2019, Pagetta, Rv. 653958-01 e Rv. 653958-02, in cui si è indagata la natura ed i presupposti applicativi dell’una tantum di cui all’art. 73, comma 1, lett. c) del c.c.n.l. attività ferroviarie del 16 aprile 2003 e del compenso di cui alla lett. b) della medesima norma.

Ebbene, sul punto la Cassazione ha ritenuto che:

1) l’art. 73, comma 1, lett. c), del c.c.n.l. Attività ferroviarie va interpretato nel senso che l’indennità una tantum ivi prevista spetta in caso di trasferimento del lavoratore presso una nuova sede lavorativa, indipendentemente dalla circostanza che egli trasferisca anche la propria dimora;

2) l’art. 73, comma 1, lett. b), del c.c.n.l. Attività ferroviarie va interpretato, invece, nel senso che il compenso ivi previsto spetta solo in caso di effettivo trasferimento del lavoratore e non in caso di semplice mutamento della sede lavorativa, trovando la propria giustificazione nell’esigenza di compensare l’obiettivo maggior disagio connesso al trasferimento della dimora del lavoratore e della sua famiglia.

Infine, per l’evidente connessione con il tema in esame va pure rammentata Sez. L, n. 03178/2019, Negri della Torre, Rv. 652911-01, che, con riguardo al tfr del personale direttivo delle aziende di credito, afferma che l’art. 94 del c.c.n.l. del 22 giugno 1995 si interpreta nel senso di escludere dalla “retribuzione annua di riferimento” per il calcolo del tfr le voci indicate nell’art. 57 del medesimo contratto, fra cui quella relativa al contributo per l’alloggio nella sede di destinazione del dipendente trasferito (cfr. anche infra par. 9.9).

8. La distinzione tra lavoro autonomo e subordinato per le professioni intellettuali o professionali.

Ai fini della distinzione tra lavoro autonomo e subordinato in caso di prestazioni di natura intellettuale o professionale, l’elemento dell’assoggettamento del lavoratore alle direttive altrui si presenta in forma attenuata in quanto non agevolmente apprezzabile a causa dell’atteggiarsi del rapporto, sicché occorre fare riferimento a criteri complementari e sussidiari, come quelli della collaborazione, della continuità delle prestazioni, dell’osservanza di un orario determinato, del versamento a cadenze fisse di una retribuzione prestabilita, del coordinamento dell’attività lavorativa con l’assetto organizzativo dato dal datore di lavoro, dell’assenza in capo al lavoratore di una sia pur minima struttura imprenditoriale, elementi tutti la cui valutazione di fatto, rimessa al giudice del merito, se immune da vizi giuridici ed adeguatamente motivata, è insindacabile in sede di legittimità, ove è censurabile soltanto la determinazione dei criteri generali ed astratti da applicare al caso concreto.

In tal modo, Sez. L, n. 05436/2019, Arienzo, Rv. 652921-01, ha delineato le caratteristiche dell’eterodirezione, connotante la subordinazione, al fine di distinguere le prestazioni di natura intellettuale autonome, da quelle subordinate. Nella specie, in applicazione dei sopraindicati tratti distintivi, la S.C. ha confermato la decisione di merito che, in relazione ad un rapporto di lavoro tra una biologa ed un laboratorio di analisi di una casa di cura, aveva escluso la subordinazione valorizzando la possibilità di scelta del turno da effettuare, la libertà di esercitare altrove l’attività professionale, nonché l’erogazione di compensi variabili rapportati al numero di presenze e di reperibilità.

8.1. Il rapporto gerarchico dirigenziale multilevel.

Nell’ambito della medesima azienda è configurabile un rapporto gerarchico tra più dirigenti di diverso livello, a condizione che esso sia particolarmente attenuato, traducendosi in un’attività di controllo o di coordinamento di direttive relative ad una sfera generalmente più limitata, esercitata dal dirigente sovraordinato, quale diretto tramite della volontà dell’imprenditore, in modo che sia conservata al dirigente subordinato ampia autonomia nelle scelte decisionali funzionali alla realizzazione degli obiettivi dell’impresa. In tal modo si è espresso il giudice di legittimità in Sez. L, n. 31279/2019, Raimondi, Rv. 655988-01, in conformità con quanto già ritenuto da Sez. L, n. 08842/1987, Campanile, Rv. 456201-01.

9. La retribuzione ed il tfr.

L’obbligo tipico incombente sul datore di lavoro, a fronte della esecuzione della prestazione da parte del lavoratore, è il pagamento della retribuzione, ivi compreso il tfr, al pari avente natura retributiva, corrispettivo, quest’ultimo, che matura in corso del rapporto, ma è dovuto alla cessazione dello stesso.

Ebbene, se nel corso del 2018 la Suprema Corte ha avuto modo di interessarsi ai profili retributivi del rapporto di lavoro, in particolare con riferimento alla presunzione di onerosità della prestazione nonché con riguardo alle questioni in materia di riparto dell’onere della prova (basti ricordare: quanto alla prima delle questioni, Sez. L, n. 22387/2018, Bellè, Rv. 650537-01, ma anche Sez. L, n. 07703/2018, Marotta, Rv. 648261-01; quanto alla seconda, Sez. L, n. 01644/2018, Patti, Rv. 647486-01, e Sez. L, n. 04076/2018, Negri della Torre, Rv. 647446-01), nel corso dell’anno 2019, l’angolo prospettico è virato verso le questioni attinenti agli oneri di allegazione e prova in relazione ai rapporti di lavoro di fatto, nonché quelle inerenti alla qualificazione della domanda di condanna al pagamento delle retribuzioni ex art. 2126 c.c. come domanda nuova, in caso di rigetto della domanda di riconoscimento della sussistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminatato (cfr. infra).

Di particolare interesse sono una serie di pronunzie che si sono occupate del trattamento retributivo del socio lavoratore, oltre che dei trattamenti economici per servizio estero.

Non sono mancate, poi, una serie di pronunzie che riguardano l’applicazione di norme della contrattazione collettiva e – dunque – specifici settori, oltre che, infine, quelle in materia di tfr, con particolare riferimento, sia al momento di maturazione del diritto e dunque della individuazione del termine iniziale di prescrizione, sia alla individuazione della base di calcolo per il trattamento.

Infine, le pronunzie in materia di ferie, festività e permessi, oltre che quelle che concernono la responsabilità solidale del committente per il pagamento dei debiti del datore, previa individuazione della nozione di emolumenti retributivi cui applicare il principio di solidarietà.

Vale la pena, quindi, ripercorrere le linee di tendenza della Cassazione, in relazione a tutti detti aspetti.

9.1. Oneri di allegazione e prova nell’azione promossa ai sensi dell’art. 2126 c.c. (rinvio).

Ebbene, sul tema si ricorda, Sez. L, n. 25169/2019, Bellè, Rv. 655318-02, esaminata nell’ambito del capitolo dedicato al lavoro pubblico contrattualizzato, par. 3, cui quindi si fa rinvio.

9.1.1. Il decorso della prescrizione dei crediti derivanti da lavoro carcerario.

Della individuazione del momento dal quale far decorrere la prescrizione in tema di crediti derivanti da lavoro carcerario va rammentata Sez. L, n. 27340/2019, Marotta, Rv. 655518-01.

In tema di lavoro carcerario, afferma la S.C., il termine di prescrizione dei diritti del lavoratore non decorre durante lo svolgimento del rapporto di lavoro, in sé privo di stabilità, poiché, nei confronti del prestatore, è configurabile una situazione di metus, che, pur non identificandosi necessariamente in un timore di rappresaglie da parte del datore di lavoro, è riconducibile alla circostanza che la configurazione sostanziale e la tutela giurisdizionale dei diritti nascenti dall’attività lavorativa del detenuto possono non coincidere con quelli che contrassegnano il lavoro libero, attesa la necessità di preservare le modalità essenziali di esecuzione della pena e le corrispondenti esigenze organizzative dell’amministrazione penitenziaria. Ne consegue, peraltro, che la sospensione della prescrizione permane solo fino alla cessazione del rapporto di lavoro in quanto, in assenza di specifiche disposizioni, non può estendersi all’intero periodo di detenzione.

L’orientamento espresso è conforme all’insegnamento del giudice di legittimità già espresso in Sez. L, n. 02696/2015, D’Antonio, Rv, 634525-01.

9.2. Il trattamento economico del socio lavoratore di società cooperative.

Del trattamento economico del socio lavoratore di società cooperative, si è occupata Sez. L, n. 05189/2019, Ponterio, Rv. 653023-01.

Il principio affermato dalla S.C. può essere così sintetizzato: in tema di società cooperative, nel regime dettato dalla l. 3 aprile 2001, n. 142, al socio lavoratore subordinato spetta la corresponsione di un trattamento economico complessivo (ossia concernente la retribuzione base e le altre voci retributive) non inferiore ai minimi previsti, per prestazioni analoghe, dalla contrattazione collettiva nazionale del settore o della categoria affine. L’applicazione di dette norme, quanto ai minimi contrattuali, non è peraltro influenzata, scrive il giudice di legittimità, dall’entrata in vigore del regolamento previsto dall’art. 6 della l. n. 142 del 2001, che è destinato a disciplinare, essenzialmente, le modalità di svolgimento delle prestazioni lavorative da parte dei soci e ad indicare le norme, anche collettive, applicabili, sicché non può contenere disposizioni derogatorie di minor favore rispetto alle previsioni collettive di categoria. Trattasi di pronunzia, peraltro, che si pone in segno di continuità con Sez. L, n. 19832/2013, Arienzo, Rv. 628843-01.

Sez. L, n. 04951/2019, Ponterio, Rv. 653019-01, prende invece in esame la diversa ipotesi in cui venga in rilievo un concorso di contratti collettivi, tutti applicabili nel medesimo ambito. In tal caso, scrive il giudice di legittimità, ai sensi dell’art. 7, comma 4, del d.l. 31 dicembre 2007, n. 248, conv. con modif. in l. 28 febbraio 2008, n. 31, al socio lavoratore subordinato di società cooperativa spetta un trattamento economico complessivo non inferiore a quello previsto dai contratti collettivi nazionali sottoscritti dalle associazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative nella categoria, quale parametro esterno e indiretto di commisurazione ai criteri di proporzionalità e sufficienza della retribuzione, previsti dall’art. 36 Cost. Nella specie, applicando il principio innanzi richiamato, la S.C. ha confermato la decisione di merito che, in riferimento a prestazioni rese nell’ambito di un appalto per il servizio di vigilanza e guardianato, ha ritenuto applicabile il c.c.n.l. Multiservizi, in luogo del c.c.n.l. Portieri e Custodi stipulato, per parte datoriale, da un’unica organizzazione sindacale.

9.2.1. Il computo dei soci lavoratori ai fini del requisito dimensionale.

La S.C., con Sez. L, n. 06947/2019, Patti, Rv. 653083-01, ha poi affrontato la questione, che qui viene richiamata per la connessione con quella in esame, del computo dei soci lavoratori ai fini del requisito dimensionale.

Ebbene, la Cassazione ha sul punto ritenuto che a seguito della disciplina introdotta dalla l. n. 142 del 2001, in una società cooperativa anche i soci lavoratori con rapporto di lavoro subordinato devono essere computati ai fini del requisito dimensionale per l’applicazione del regime di stabilità del rapporto di lavoro, con la conseguenza della fruibilità anche dai lavoratori dipendenti non soci della tutela prevista dall’art. 18 l. 20 maggio 1970, n. 300, nel testo novellato dall’art. 1, comma 42, della l. n. 92 del 2012.

9.3. I trattamenti economici per servizio estero (rinvio).

Della posizione economica del personale assunto a contratto dalle rappresentanze diplomatiche si occupa Sez. L, n. 16755/2019, Di Paolantonio, Rv. 654243-01, esaminata nella parte della rassegna dedicata al lavoro pubblico contrattualizzato, par. 3., cui si fa rinvio.

9.4. I trattamenti economici per il caso di trasferimento (rinvio al 7.3).

9.5. La natura retributiva del credito del lavoratore per le ritenute fiscali indebitamente operate dal datore.

Sulla natura retributiva dei crediti dei lavoratori per le trattenute fiscali indebitamente effettuate va ricordata Sez. L, n. 14502/2019, Marchese, Rv. 654059-01.

In detto arresto viene espressamente ritenuta la natura retributiva dei summenzionati crediti, asserendo che il credito vantato dal prestatore nei confronti del datore di lavoro per le somme indebitamente trattenute sullo stipendio a titolo di ritenute fiscali ha natura retributiva e, conseguentemente, ad esso si applica l’intera disciplina afferente al rapporto di lavoro, comprese le disposizioni di cui all’art. 429 c.p.c. in tema di interessi e rivalutazione. In applicazione di detto principio, la S.C. ha quindi confermato la sentenza di merito con la quale era stato affermato il diritto del prestatore alla ripetizione delle somme, maggiorate di interessi e rivalutazione.

9.6. Il problema della cumulabilità di reddito e pensione per gli iscritti all’istituto di previdenza dei giornalisti.

In tema di cumulo tra pensione e redditi da lavoro per i giornalisti, va ricordata Sez. L, n. 19573/2019, De Marinis, Rv. 654499-01, che si pone in continuità con Sez. L, n. 01098/2012, La Terza, Rv. 621105-01.

Ebbene, secondo il giudice di legittimità, agli iscritti all’Istituto Nazionale di Previdenza dei Giornalisti Italiani (INPGI) si applica la stessa disciplina prevista per gli iscritti all’Assicurazione Generale Obbligatoria facente capo all’INPS, in quanto l’INPGI gestisce, per espresso disposto dell’art. 76 della l. n. 388 del 2000, una forma di assicurazione sostitutiva di quella garantita dall’INPS, mentre gli artt. 72, comma 1, della legge appena citata, e 44, comma 1, della l. n. 289 del 2002, poi seguiti dall’art. 19 del d.l. n. 112 del 2008, conv. con modif. in l. n. 133 del 2008, parificano il trattamento pensionistico a carico dell’AGO e quelli a carico delle forme sostitutive, esclusive ed esonerative della medesima. Ne consegue che deve essere disapplicato l’art. 15 del Regolamento dell’INPGI, che disciplina la materia del cumulo tra reddito da lavoro e trattamento pensionistico in maniera diversa da quanto previsto nel regime relativo all’AGO.

9.7. Ferie, festività, riposi e orario di lavoro.

Nel corso del 2018 Sez. L, n. 02496/2018, Tricomi I., Rv. 64730101 – in assoluta continuità con quanto dalla Corte già ritenuto in Sez. L, n. 13860/2000, Cuoco, Rv. 54106501, e prima ancora da Sez. L, n. 04339/1998, Mileo, Rv. 51540801 – si è occupata delle conseguenze derivanti dal mancato godimento delle ferie. Una volta divenuto impossibile per l’imprenditore, anche senza sua colpa, adempiere l’obbligazione di consentirne la fruizione, compete al lavoratore il diritto al pagamento dell’indennità sostitutiva, che ha natura retributiva, in quanto rappresenta la corresponsione a norma degli artt. 1463 e 2037 c.c., del valore di prestazioni non dovute e non restituibili in forma specifica. A tal riguardo, la Cassazione precisa altresì che l’assenza di un’espressa previsione contrattuale non esclude l’esistenza del diritto alla erogazione di detta indennità sostitutiva, che peraltro non sussiste se il datore di lavoro dimostra di avere offerto un adeguato tempo per il godimento delle ferie, di cui il lavoratore non abbia usufruito, venendo ad incorrere, così, nella “mora del creditore”.

Quest’anno, la S.C., in Sez. L, n. 13425/2019, Marchese, Rv. 653840-01, si è poi soffermata sulla nozione europea di retribuzione dovuta nel periodo di godimento delle ferie annuali. Nello specifico, ha affermato che in tema di retribuzione dovuta nel periodo di godimento delle ferie annuali, ai sensi dell’art. 7 della Direttiva 2003/88/CE, per come interpretata dalla Corte di Giustizia, sussiste una nozione europea di “retribuzione” che comprende qualsiasi importo pecuniario che si pone in rapporto di collegamento con l’esecuzione delle mansioni e che sia correlato allo status personale e professionale del lavoratore.

In materia di ferie va pure ricordata l’ordinanza interlocutoria Sez. L, n. 00451/2019, Cinque, con la quale è stato disposto il rinvio pregiudiziale alla C.G.U.E. sulla questione relativa al diritto al pagamento della indennità sostitutiva delle ferie e dei permessi per festività soppresse maturate e non godute per fatto imputabile al datore di lavoro con riguardo al periodo intercorrente tra il licenziamento dichiarato illegittimo e la successiva reintegra. Il rinvio è finalizzato a valutare se, in presenza di una giurisprudenza eurounitaria che ha riconosciuto il diritto al pagamento della indennità sostitutiva anche in caso di malattia o maternità (mentre lo ha escluso per il congedo parentale, per fatto volontario del lavoratore), l’art. 7 par. 2 direttiva CEE 2003/88 e l’art. 31 punto 2 della Carta di Nizza ostino a disposizioni o prassi nazionali in base alle quali il riconoscimento delle indennità non spetti per una interruzione del rapporto di lavoro illegittimo e che non dipenda dal lavoratore, atteso che il dubbio interpretativo non è risolubile attraverso il ricorso all’istituto dell’acte claire perché la giurisprudenza della Corte di Giustizia sul punto non è “evidente”.

La fruizione delle festività infrasettimanali, come quella delle ferie, costituisce un diritto soggettivo del lavoratore.

Sul punto, Sez. L, n. 18887/2019, Cinque, Rv. 654493-01, ha affermato che la normativa in tema di festività infrasettimanali (l. 27 maggio 1949, n. 260, come modificata dalla l. 31 marzo 1954, n. 90) è completa ed autosufficiente nel riconoscere al lavoratore il diritto soggettivo di astenersi dal prestare la propria attività lavorativa in occasione di determinate festività celebrative di ricorrenze civili e religiose, con la conseguenza che il predetto diritto non può essere posto nel nulla dal datore di lavoro, potendosi rinunciare al riposo nelle festività infrasettimanali solo in forza di un accordo tra il datore di lavoro e lavoratore o di accordi sindacali stipulati da oo.ss. cui il lavoratore abbia conferito esplicito mandato. In applicazione del sopraindicato principio, la S.C. ha dunque cassato la sentenza del giudice di merito che – reputato legittimo il licenziamento intimato ad un dipendente per essersi quest’ultimo rifiutato di espletare attività lavorativa nella giornata del 1° maggio – non aveva previamente verificato se la normativa di legge fosse stata derogata da un accordo individuale col datore o da accordi sindacali stipulati dalle oo.ss. con esplicito mandato da parte del lavoratore.

In linea con quanto si è sin qui ricordato è anche Sez. L, n. 18884/2019, Ponterio, Rv. 654492-01, in tema di mancata fruizione del riposo giornaliero o settimanale da parte dei lavoratori. Ebbene, il giudice di legittimità ha ritenuto che, in assenza di previsioni legittimanti, la scelta datoriale di negare la fruizione del riposo giornaliero e settimanale viola il diritto del prestatore al riposo ed è dunque fonte di danno patrimoniale che deve essere presunto, perché l’interesse del lavoratore leso dall’inadempimento del datore ha una diretta copertura costituzionale nell’art. 36 della Costituzione. Ne consegue che la lesione del predetto interesse espone direttamente il datore al risarcimento del danno.

In tema di orario di lavoro, per la categoria dei lavoratori mobili addetti a prestazioni discontinue, poi, l’art. 4, lett. a), della direttiva 2002/15/CE – secondo quanto ritenuto da Sez. L, n. 26963/2019, Arienzo, Rv. 655516-01 – sancisce l’impossibilità di prevedere una durata media della settimana lavorativa superiore alle quarantotto ore, come limite massimo, a garanzia del diritto del lavoratore, ma non preclude al legislatore nazionale la fissazione di una durata inferiore dell’orario lavorativo ordinario, con conseguenti riflessi sul computo del lavoro straordinario, per il quale occorre tenere conto del limite orario fissato dalla normativa più favorevole per il lavoratore.

Sempre in tema di orario di lavoro, infine, Sez. L, n. 31957/2019, Blasutto, Rv. 656005-01, ha affermato che la disciplina prevista per l’articolazione dell’orario per il lavoro part-time dall’art. 6, commi 4 e 5, del d.lgs. n. 81 del 2015 non può trovare applicazione nei rapporti di lavoro a tempo pieno, né può essere utilizzata come parametro della programmazione della prestazione lavorativa a garanzia del diritto del lavoratore di conoscere in via anticipata, in un tempo ragionevole, i propri turni di servizio.

In applicazione del principio, la S.C. ha quindi cassato la sentenza che aveva riconosciuto ad alcuni lavoratori a tempo pieno il risarcimento del danno non patrimoniale determinato dalla comunicazione, da parte della datrice di lavoro, dei turni di servizio con un preavviso inferiore alle 48 ore.

Per il rapporto di lavoro part-time si rinvia al capitolo sul lavoro flessibile, par. 8.

9.7.1. Il congedo straordinario ex art. 42 del d.lgs. n. 151 del 2001.

Il lavoratore che intende fruire del congedo straordinario, ai sensi dell’art. 42 del d.lgs. n. 151 del 2001, ha l’obbligo di presentare istanza al datore di lavoro per consentirgli di predisporre idonee misure organizzative e commisurare l’indennità di cui al comma 5-ter della stessa norma; la necessità di detta istanza è confermata dal disposto normativo dell’art. 4 della l. n. 53 del 2000 ed dal d.m. 21 luglio 2000, n. 278 – applicabili, benché anteriori all’art. 42 citato, perché disciplinano tutta la materia dei congedi per cause particolari – dai quali emerge la necessità che il datore motivi l’eventuale diniego ed instauri il contraddittorio con il lavoratore in caso di reiterazione della domanda.

In tal modo si è espresso il giudice di legittimità in Sez. L, n. 22928/2019, Negri della Torre, Rv. 655015-01.

Nella specie, la S.C. ha confermato la legittimità del licenziamento per superamento del periodo di comporto, escludendo lo scomputo di un periodo di congedo straordinario, autorizzato dall’Inps, ma senza che alcuna istanza fosse stata formulata al datore di lavoro.

9.8. Tredicesima e quattordicesima: modalità di calcolo nella contrattazione collettiva.

Ai fini della determinazione della base di calcolo per la tredicesima e la quattordicesima mensilità, l’art. 12 del c.c.n.l. Federambiente del 31 ottobre 1995, nel far riferimento alla retribuzione globale, ha incluso nel concetto di globalità tutte le indennità a carattere fisso e continuativo, cui sono riconducibili anche le indennità di “maggiore produttività” e di “manutenzione vestiario”, senza prevedere alcuna esclusione diretta o indiretta (così Sez. L, n. 21035/2019, Leo, Rv. 654804-01).

9.9. Il trattamento di fine rapporto.

Quanto alla erogazione del tfr, in primo luogo va segnalato che, in piena conformità con l’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità (cfr. sul punto, Sez. L, n. 02728/2018, Blasutto, Rv. 64740002, Sez. L, n. 09695/2009, Bandini, Rv. 60798101, nonché Sez. L, n. 11995/2009, De Renzis, Rv. 57395901 e, prima ancora, Sez. L, n. 08820/2018, Vaccaro, Rv. 48351501), Sez. L, n. 14510/2019, Amendola F., Rv. 653981-01, ha riconfermato che il diritto al tfr sorge con la cessazione del rapporto di lavoro. Scrive la Cassazione, a tal riguardo: il diritto alla liquidazione del tfr, nonostante l’avvenuto accantonamento delle somme, non può ritenersi entrato nel patrimonio del lavoratore prima della cessazione del rapporto, sicché per il dipendente ancora in servizio costituisce un diritto futuro, la cui rinuncia è radicalmente nulla, per mancanza dell’oggetto, ai sensi dell’art. 1418, comma 2, e dell’art. 1325 c.c. In applicazione di detto principio, la S.C. ha quindi cassato la sentenza di merito che, con riguardo a un rapporto di lavoro cessato il 31 gennaio 2008, aveva ritenuto valida la rinuncia all’integrazione del tfr effettuata il 10 gennaio 2008 sul rilievo che vi fosse una “sostanziale contestualità” tra i due momenti.

Ne consegue che il termine iniziale di decorso della prescrizione del diritto al tfr va individuato nel momento in cui il rapporto di lavoro subordinato è cessato e non già in quello in cui sia stato accertato giudizialmente l’effettivo ammontare delle retribuzioni spettanti.

Vanno poi rammentate una pluralità di pronunzie che, avuto riguardo anche alla contrattazione collettiva di riferimento, si occupano di individuare la base per il calcolo del tfr.

In materia di tfr, l’art. 46 del c.c.n.l. Federambiente del 1995, si legge in Sez. L, n. 26609/2019, Piccone, Rv. 655511-01, prevede un’elencazione specifica – da ritenersi tassativa – delle voci retributive da computare nel tfr in deroga al principio di onnicomprensività ex art. 2120 c.c. (nel testo novellato dalla l. 29 maggio 1982, n. 297); pertanto, secondo il giudice di legittimità, in detta ipotesi va escluso il lavoro straordinario, non ricompreso fra le eccezioni nominativamente individuate in sede di contrattazione collettiva in modo chiaro ed univoco.

Quanto al tfr del personale direttivo delle aziende di credito, secondo Sez. L, n. 03178/2019, Negri della Torre, Rv. 652911-01, l’art. 94 del c.c.n.l. del 22 giugno 1995 si interpreta nel senso di escludere dalla “retribuzione annua di riferimento”, per il calcolo del tfr, le voci indicate nell’art. 57 del medesimo contratto, fra cui quella relativa al contributo per l’alloggio nella sede di destinazione del dipendente trasferito.

Sempre della base di calcolo, nello specifico, del tfr e della pensione aziendale, si occupa Sez. L, n. 12653/2019, Ghinoy, Rv. 653832-01. Ai fini della determinazione del tfr e della pensione aziendale – che il datore di lavoro ha equiparato al trattamento pensionistico dei dipendenti degli enti locali – vanno inclusi nella base di calcolo, scrive il giudice di legittimità, anche gli emolumenti istituiti dalla contrattazione aziendale (dovendosi ritenere che i contratti aziendali possano rientrare tra i contratti collettivi di lavoro cui fa riferimento l’art. 15 della l. 5 dicembre 1959, n. 1077), in quanto corrisposti in modo fisso e continuativo in relazione alla natura del compenso, benché essi non siano previsti dalla contrattazione nazionale. Nella specie, applicando il sopracitato principio, la S.C. ha confermato la sentenza che aveva ammesso la computabilità, nella base di calcolo della pensione aziendale prevista dal contratto aziendale per i dipendenti dell’ex AMAN, della retribuzione in natura corrisposta al lavoratore ragguagliata al valore locativo dei beni immobili concessigli in godimento.

10. Responsabilità solidale del committente con l’appaltatore per il pagamento dei crediti retributivi. Individuazione della disciplina applicabile ratione temporis.

Sull’ambito di applicazione del regime di solidarietà, Sez. L, n. 24375/2019, Tria, Rv. 655131-01, ha chiarito che anche i contratti d’appalto stipulati dalle Aziende per l’edilizia residenziale pubblica – ancorché annoverabili tra gli “organismi di diritto pubblico”, ex art. 3 del d.lgs. n. 50 del 2016 (Codice degli appalti pubblici) perché svolgono un servizio pubblico di interesse generale – rientrano nella disciplina ex art. 29, comma 2, del d.lgs. n. 276 del 2003, in quanto in base all’art. 9, comma 1, del d.l. n. 76 del 2013, conv. con modif. dalla l. n. 99 del 2013, le disposizioni di cui al citato art. 29, comma 2, non trovano applicazione esclusivamente in relazione ai contratti di appalto stipulati dalle P.A. di cui all’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001.

Chiarisce la legge applicabile ratione temporis, Sez. L, n. 04237/2019, Patti, Rv. 652890-01, affermando che in tema di appalto di opere o di servizi, nella successione delle disposizioni diversamente regolanti, alla stregua di solidarietà in senso stretto ovvero sussidiaria (per la previsione di un beneficio di escussione), la responsabilità del committente imprenditore o datore di lavoro con l’appaltatore, ai sensi dell’art. 29, comma 2, del d.lgs. n. 276 del 2003, si applica, per la sua natura sostanziale, il regime di solidarietà vigente al momento di assunzione dell’obbligazione, e, quindi, di insorgenza del credito del lavoratore.

In senso conforme il giudice di legittimità si è pronunziato anche con la successiva Sez. L, n. 29629/2019, Patti, Rv. 655716-01.

10.1. La responsabilità solidale del committente con il subfornitore.

Il committente è solidalmente responsabile per i crediti di lavoro dei dipendenti del subfornitore, alla luce di una interpretazione estensiva e costituzionalmente orientata dell’art. 29 del d.lgs. n. 276 del 2003 che, lungi dall’essere norma eccezionale, mira a disciplinare la responsabilità in tutte le ipotesi di dissociazione fra la titolarità del contratto di lavoro e l’utilizzazione della prestazione, assicurando in tal modo tutela omogenea a tutti quelli che svolgono attività lavorativa indiretta, qualunque sia il livello di decentramento (si veda in tal senso, Sez. L, n. 25172/2019, Mancino, Rv. 655386-01).

Del resto, nel medesimo senso si era già espressa in precedenza Sez. L, n. 16259/2018, Boghetich, Rv. 649350-01, riprendendo quanto già ritenuto da Sez. L, n. 24368/2017, Riverso, Rv. 646345-01, affermando che la tutela speciale prevista dall’art. 29 del d.lgs. n. 276 del 2003, così come modificato dall’art. 6, commi 1 e 2, del d.lgs. 6 ottobre 2004, n. 251, e dall’art. 1, comma 911, della l. 27 dicembre 2006, n. 296, si applica anche ai dipendenti del subappaltatore nei confronti del subcommittente o subappaltante, sia in base al criterio di interpretazione letterale, dacché il subappalto è un contratto meramente derivato dall’appalto, sia in considerazione della ratio della norma, intesa a garantire i lavoratori dal rischio di inadempimento dell’appaltatore, esigenza che ricorre identica nell’appalto e nel subappalto. Nella medesima ottica, Sez. L, n. 27382/2019, D’Antonio, Rv. 655519-01, ha ritenuto che sussiste la responsabilità solidale del committente per le omissioni contributive del subappaltatore anche ove sia stato convenuto il divieto di subappalto, considerato che l’obbligazione contributiva – derivante dalla legge e facente capo all’INPS – va tenuta distinta rispetto a quella retributiva in ragione della sua natura indisponibile e della sua commisurazione in base al cd. minimale contributivo, così da potersi affermare che la finalità di finanziamento della gestione assicurativa previdenziale pone una relazione immanente e necessaria tra la retribuzione dovuta secondo i parametri della legge previdenziale e la pretesa impositiva dell’ente preposto alla realizzazione della tutela previdenziale.

10.2. Responsabilità del committente in caso di sopravvenuto fallimento dell’appaltatore.

In materia di appalto, l’apertura del procedimento fallimentare nei confronti dell’appaltatore non comporta l’improcedibilità dell’azione precedentemente esperita dai dipendenti nei confronti del committente, ai sensi dell’art. 29 del d.lgs. n. 276 del 2003, per il recupero dei loro crediti verso l’appaltatore-datore di lavoro, atteso che la previsione normativa di una tale azione risponde all’esigenza di sottrarre il soddisfacimento dei crediti retributivi al rischio dell’insolvenza del debitore e, d’altra parte, si tratta di un’azione “diretta”, incidente direttamente sul patrimonio di un terzo (il committente) e solo indirettamente su un credito del debitore fallito, sì da doversi escludere che il conseguimento di una somma, che non fa parte del patrimonio del fallito, possa comportare un nocumento delle ragioni degli altri dipendenti dell’appaltatore, che fanno affidamento sulle somme dovute (ma non ancora corrisposte) dal committente per l’esecuzione dell’opera appaltata; né tale situazione suscita sospetti di incostituzionalità, con riferimento all’art. 3 Cost. (letto in corrispondenza del principio della par condicio creditorum), non essendo irrazionale una norma che accordi uno specifico beneficio a determinati lavoratori, anche rispetto ad altri, per l’attività lavorativa dai medesimi espletata e dalla quale un altro soggetto (il committente) abbia ricavato un particolare vantaggio.

In tal senso si è espressa Sez. L, n. 06333/2019, Garri, Rv. 653177-01, riprendendo quanto già sostenuto da Sez. 1, n. 00515/2016, Di Virgilio, Rv. 638262-01.

10.3. La nozione di “trattamenti retributivi” al fine della delimitazione della responsabilità solidale del committente.

Del significato da attribuire alla locuzione “trattamenti retributivi”, si è interessata nell’anno in corso la Cassazione, al fine di delimitare l’area della responsabilità solidale del committente.

Ebbene, a tal fine, Sez. L, n. 23303/2019, Garri, Rv. 655019-01, muovendosi nel segno della continuità con la precedente Sez. L, n. 10354/2016, Patti, Rv. 639646-01, ha ritenuto che la locuzione “trattamenti retributivi” di cui all’art. 29, comma 2, del d.lgs. n. 276 del 2003, dev’essere interpretata in maniera rigorosa, nel senso della natura strettamente retributiva degli emolumenti che il datore di lavoro risulti tenuto a corrispondere ai propri dipendenti, con conseguente esclusione del valore dei pasti allorché il servizio mensa rappresenti un’agevolazione di carattere assistenziale, anziché un corrispettivo obbligatorio della prestazione lavorativa, per la mancanza di collegamento causale tra l’utilizzazione della mensa ed il lavoro svolto, sostituendosi ad esso un nesso meramente occasionale con il rapporto. Nella specie, la S.C., con riferimento agli artt. da 63 a 78 del c.c.n.l. attività ferroviarie del 16 aprile 2003, ha cassato, sul punto, la sentenza di appello, escludendo che rientrassero nella retribuzione le somme per buoni pasto. Nella conforme sentenza del 2016, innanzi citata, ha affermato il medesimo principio, con maggiore ampiezza in relazione alla concreta fattispecie che veniva in rilievo, escludendo che rientrassero nella retribuzione le somme per buoni pasto ed indennità sostitutiva delle ferie, ritenendo, viceversa, rientrarvi gli importi ROL per riduzione dell’orario di lavoro.

Va rammentata anche Sez. L, n. 28517/2019, Patti, Rv. 655609-01, che, in tema di responsabilità solidale del committente con l’appaltatore di servizi, simmetricamente afferma che la locuzione “trattamenti retributivi”, contenuta nell’art. 29, comma 2, del d.lgs. n. 276 del 2003, deve essere interpretata in maniera restrittiva, nel senso della natura strettamente retributiva degli emolumenti che il datore di lavoro è tenuto a corrispondere ai propri dipendenti, con conseguente esclusione delle somme liquidate a titolo di risarcimento del danno per illegittima riduzione dell’orario lavorativo da parte dell’imprenditore.

In armonia con questo orientamento, da ultimo, Sez. L, n. 33407/2019, Tricomi I., Rv. 656308-01 ritiene l’azione dei dipendenti dell’appaltatore nei confronti del committente di cui all’art. 1676 c.c. non può avere ad oggetto le somme liquidate a titolo di risarcimento del danno da licenziamento illegittimo, in quanto essa riguarda solo il credito maturato dal lavoratore in forza dell’attività svolta per l’esecuzione dell’opera o la prestazione del servizio oggetto dell’appalto, in coerenza con la ratio della norma di determinare l’indisponibilità del credito dell’appaltatore-datore di lavoro nei confronti del committente, al fine di garantire i lavoratori che hanno prestato la loro opera per l’esecuzione dell’appalto, sicché quando essi si rivolgono al committente questi diviene loro diretto debitore, in solido con l’appaltatore, fino alla concorrenza del debito per il corrispettivo dell’appalto.

Sez. L, n. 25679/2019, Ghinoy, Rv. 655389-01, poi, si occupa dei premi INAIL, in relazione ai quali, la S.C. ha affermato che la responsabilità solidale del committente, prevista dall’art. 29, comma 2, del d.lgs. n. 276 del 2003, copre anche detti premi, dovuti in relazione al periodo di esecuzione del contratto di appalto, anche per il periodo anteriore all’entrata in vigore del d.l. n. 5 del 2012, conv. con modif. dalla l. n. 35 del 2012.

In limine, va rammentata anche Sez. L, n. 06333/2019, Garri, Rv. 653177-03, sempre in tema di appalto, che afferma che le quote di trattamento di fine rapporto relative ai periodi di esecuzione dell’appalto devono essere incluse nei trattamenti retributivi del cui pagamento il committente è solidalmente responsabile ai sensi dell’art. 29 del d.lgs. 276 del 2003, attesa la natura di retribuzione differita.

10.4. Ambito di applicazione del regime decadenziale.

In ordine all’ambito di applicazione del regime di decadenza biennale previsto dall’art. 29, comma 2, del d.lgs. n. 276 del 2003, nella versione anteriore alle modifiche apportate dal d.l. n. 5 del 2012, conv. con modif. dalla l. n. 35 del 2012, Sez. L, n. 18004/2019, Calafiore, Rv. 654482-01, ha affermato che l’azione promossa dagli enti previdenziali nei confronti del committente è soggetta al solo termine di prescrizione, sicché nei loro confronti non è applicabile il termine decadenziale.

11. Prerogative sindacali: trattative per la stipula dei c.c.n.l. e partecipazione delle oo.ss.

La S.C. in Sez. L, n. 20036/2019, Bellè, Rv. 654742-01, afferma che il godimento delle prerogative sindacali sui luoghi di lavoro è conseguenza, secondo un principio comune all’ordinamento privatistico (art. 19 della l. n. 300 del 1970, quale integrato da Corte cost. 23 luglio 2013, n. 231) ed a quello pubblicistico (art. 42 del d.lgs. n. 165 del 2001), della partecipazione delle organizzazioni sindacali alle trattative per la stipula dei contratti collettivi da applicare presso le unità produttive o le strutture interessate. In applicazione, del sovraesposto principio, ritiene, quindi, che la legislazione regionale sarda vada interpretata nel senso, che hanno diritto a partecipare alle trattative per la stipula dei contratti regionali integrativi per l’Ente Foreste, di cui all’art. 9 della l.r. Sardegna n. 24 del 1999, come modificato dall’art. 6 della l.r. Sardegna n. 12 del 2002, e quindi a godere delle conseguenti prerogative sindacali, le organizzazioni che risultino munite della rappresentatività, nel comparto destinato da tale legislazione al predetto Ente, nella misura minima del 5% stabilita dall’art. 60 della l.r. Sardegna n. 31 del 1998, in armonia anche con l’effettività del pluralismo sindacale (art. 39 Cost.), oltre che in conformità alle esigenze di coerenza tra ordinamento nazionale ed ordinamenti regionali a statuto speciale (art. 116 Cost. e art. 3 dello Statuto Speciale per la Sardegna).

11.1. Permessi sindacali.

Si occupa dei permessi sindacali, con particolare riferimento al tema di utilizzazione degli stessi e dei suoi limiti, Sez. L, n. 04943/2019, Balestrieri, Rv. 652916-01, secondo il cui insegnamento, i permessi sindacali retribuiti previsti dall’art. 30 st.lav. per i dirigenti provinciali e nazionali delle organizzazioni sindacali possono essere utilizzati soltanto per la partecipazione a riunioni degli organi direttivi, come risulta dal raffronto con la disciplina dei permessi per i dirigenti interni, collegati genericamente all’esigenza di espletamento del loro mandato, e come è confermato, dalla possibilità per i dirigenti esterni di fruire dell’aspettativa sindacale; ne consegue che l’utilizzo per finalità diverse dei permessi, comportando una assenza del dipendente da cui deriva una mancanza della prestazione per causa a lui imputabile, può giustificare la risoluzione del rapporto.

11.2. Repressione della condotta antisindacale.

Sez. L, n. 13860/2019, Ponterio, Rv. 653843-01, affronta i profili relativi alla effettività della elisione della condotta antisindacale nel caso di esaurimento della singola azione lesiva del datore.

A tal proposito, afferma che in tema di repressione della condotta antisindacale, ai sensi dell’art. 28 st.lav., il solo esaurirsi della singola azione lesiva non può precludere l’ordine del giudice di cessazione del comportamento illegittimo ove questo, alla stregua di una valutazione globale non limitata ai singoli episodi, risulti tuttora persistente e idoneo a produrre effetti durevoli nel tempo, sia per la sua portata intimidatoria, sia per la situazione di incertezza che ne consegue, suscettibile di determinare in qualche misura una restrizione o un ostacolo al libero esercizio dell’attività sindacale. In applicazione del principio innanzi enunziato, la S.C. ha quindi ritenuto che la lesione dell’immagine del sindacato – prodotta dal mancato avvio della procedura preventiva di consultazione prevista, in relazione al problema delle eccedenze di personale, da una disposizione collettiva – non fosse destinata ad esaurirsi in modo istantaneo o in correlazione con i licenziamenti, avendo idoneità a produrre effetti duraturi e a rendere quindi attuale la condotta antisindacale.

11.3. Limiti alla configurabilità del demansionamento in caso di sciopero (rinvio al 4.1).

In Sez. L, n. 08670/2019, Blasutto, Rv. 653214-01, come si è già visto, si esclude la possibilità di configurare il demansionamento, in caso di sciopero, se le inferiori mansioni assegnate sono solo marginali, accessorie e complementari e, quindi, anche l’antisindacalità della condotta datoriale che non risulta lesiva dell’interesse collettivo del sindacato.

11.4. La rilevanza della condotta datoriale di trattenimento dei contributi sindacali.

Sez. L, n. 24612/2019, Negri della Torre, Rv. 655309-01, valuta la rilevanza della condotta di trattenimento dei contributi sindacali operata dal datore, sottolineandone, oltre che la rilevanza sul piano civilistico, trattandosi di inadempimento, anche l’antisindacalità.

I lavoratori, nell’esercizio della autonomia privata e mediante la cessione del credito in favore del sindacato, possono chiedere al datore di lavoro di trattenere sulla retribuzione i contributi sindacali da accreditare; il rifiuto ingiustificato del datore di lavoro di effettuare tali versamenti integra inadempimento rilevante sotto il profilo civilistico e costituisce condotta antisindacale, poiché limita il diritto dei lavoratori di scegliere lo strumento più utile per partecipare all’attività dei sindacati e priva gli stessi della possibilità di percepire, con regolarità, la fonte primaria di sostentamento per la loro attività, ponendoli in una situazione di debolezza verso il datore di lavoro e le altre organizzazioni sindacali

Il pensiero della S.C. è in consonanza con quanto già ritenuto in Sez. L, n. 21368/2008, Picone, Rv. 604711-01.

12. Le dimissioni del lavoratore: la rilevanza della incapacità naturale ed il risarcimento del danno.

Ebbene, la particolare tutela del lavoratore, parte debole del rapporto, ha stimolato un approfondimento del giudice di legittimità, anche con riguardo alle ipotesi in cui occorra verificare se il recesso dal rapporto di lavoro ad opera del prestatore sia stato reso in stato di incapacità naturale ed alle conseguenze di detto accertamento.

In caso di annullamento delle dimissioni rassegnate dal lavoratore subordinato, nella specie perché in stato di incapacità naturale, Sez. L, n. 21701/2018, De Felice, Rv. 65025701, ha affermato che le retribuzioni spettano dalla data della sentenza che dichiara l’illegittimità delle stesse, in quanto il principio secondo cui l’annullamento di un negozio giuridico ha efficacia retroattiva non comporta anche il diritto del lavoratore alle retribuzioni maturate dalla data delle dimissioni a quella della riammissione al lavoro, stante la natura sinallagmatica del rapporto, sicché, salvo espressa diversa previsione di legge, la retribuzione non è dovuta in mancanza della prestazione.

Tale pronunzia si pone in continuità con quanto già ritenuto da Sez. L, n. 22063/2014, Berrino, Rv. 632901-01, ma in contrasto con Sez. L, n. 08886/2010, Curzio, Rv. 612956-01.

Nella decisione del 2010, poco innanzi citata, la S.C. ha infatti ritenuto che in caso di dimissioni presentate dal lavoratore in stato di incapacità naturale, il diritto a riprendere il lavoro sorge proprio con la sentenza di annullamento ai sensi dell’art. 428 c.c., i cui effetti retroagiscono al momento della domanda giudiziaria in applicazione del principio generale secondo cui la durata del processo non deve andare a detrimento della parte vincitrice. Ne consegue che anche il diritto alle retribuzioni maturate sorge solo dalla data della domanda giudiziale, dovendosi escludere che l’efficacia totalmente ripristinatoria dell’annullamento del negozio unilaterale risolutivo del rapporto di lavoro si estenda al diritto alla retribuzione che, salvo diversa espressa eccezione di legge, non è dovuta in mancanza dell’attività lavorativa.

Ebbene, nell’anno 2019 la S.C. sembra aver nuovamente preso a seguire l’orientamento inaugurato da Sez. L, n. 08886/2010, Curzio, Rv. 612956-01.

Nel valutare le conseguenze dell’annullamento delle dimissioni del lavoratore perché rassegnate in stato di incapacità naturale, il giudice di legittimità ha infatti ritenuto che la condanna della società datrice al pagamento a titolo risarcitorio delle retribuzioni vada effettuata con riferimento al periodo intercorrente dalla proposizione della domanda di annullamento fino a quello di effettiva riammissione. In tal senso si è pronunziata Sez. L, n. 04232/2019, Patti, Rv. 652889-01, affermando che in caso di annullamento, ex art. 428 c.c., delle dimissioni presentate dal lavoratore in stato di incapacità naturale, le conseguenze risarcitorie decorrono dalla data della domanda giudiziaria, secondo il principio generale per cui la durata del processo non deve andare a detrimento della parte vincitrice.

Tale arresto è seguito, sempre nel 2019, dalla successiva conforme Sez. L, n. 16998/2019, Marotta, Rv. 654362-01.

12.1. Dimissioni e licenziamento.

Rinviando, poi, per le questioni che attengono alla verifica della sussistenza di ipotesi di licenziamento allo specifico capitolo della rassegna sul tema (par. 2.5.), vanno comunque ricordate anche in questa sede Sez. L, n. 03822/2019, Amendola F., Rv. 652914-01, nonché, per altro profilo, Sez. L, n. 16176/2019, Bellè, Rv. 654149-01.

Nella prima pronunzia si sottolinea come, incomba sul lavoratore che impugni il licenziamento, allegandone l’intimazione senza l’osservanza della forma scritta, l’onere di provare, quale fatto costitutivo della domanda, che la risoluzione del rapporto è ascrivibile alla volontà datoriale, seppur manifestata con comportamenti concludenti, non essendo sufficiente la prova della mera cessazione dell’esecuzione della prestazione lavorativa.

Nella seconda si evidenzia, invece, che in caso di dimissioni volontarie rese dalla lavoratrice nel periodo in cui opera il divieto di licenziamento, ella ha comunque diritto, a norma dell’art. 55 del d.lgs. 26 marzo 2001, n. 151, alle indennità previste dalla legge o dal contratto per il caso di licenziamento, ivi compresa l’indennità sostitutiva del preavviso, indipendentemente dal motivo delle dimissioni e, quindi, anche nell’ipotesi in cui esse risultino preordinate all’assunzione della lavoratrice alle dipendenze di altro datore di lavoro.

12.2. La forma del recesso del lavoratore.

Quanto alla forma delle dimissioni, Sez. L, n. 25583/2019, Blasutto, Rv. 655387-01, in continuità con quanto già ritenuto da Sez. L, n. 05454/2011, Rv. 616276-01, afferma la libertà delle forme. Nello specifico, ritiene che le dimissioni del lavoratore, se non è prevista alcuna forma convenzionale, possono essere desunte da dichiarazioni o comportamenti, anche omissivi, che, interpretati alla luce dei principi dell’affidamento, inequivocabilmente manifestino l’intento di recedere dal rapporto, come nel caso in cui il prestatore si sia allontanato dal posto di lavoro e non si sia più presentato per diversi giorni o si sia reso inadempiente alle obbligazioni del rapporto lavorativo.

Per affinità con le questioni trattate va infine ricordata Sez. L, n. 21297/2019, Tricomi I., Rv. 654999-01, in tema di recesso volontario del lavoratore e procedura di convalida di cui all’art. 4, commi da 16 a 22, della l. n. 92 del 2012 per il cui esame si fa rinvio alla parte della rassegna dedicata al lavoro pubblico (v. par. 9).

13. Il recesso datoriale per sopraggiunti limiti di età del prestatore. La forma.

Nell’ambito del lavoro privato, altra possibile causa di risoluzione del rapporto è il raggiungimento dei limiti di età.

In tale ipotesi, qualora il datore di lavoro voglia recedere dal rapporto è tenuto a comunicarlo per iscritto al prestatore, con l’osservanza dei termini di preavviso, atteso che il compimento dell’età pensionabile o il raggiungimento dei requisiti per l’attribuzione del diritto al trattamento pensionistico di vecchiaia da parte del lavoratore, determinano soltanto il venir meno del regime di stabilità del rapporto, con conseguente recedibilità ad nutum dallo stesso, ma non anche l’automatica estinzione dello stesso che, in assenza di un valido atto risolutivo del datore di lavoro, è destinato a proseguire, con diritto del lavoratore alla retribuzione, anche successivamente al compimento del sessantacinquesimo anno di età (si veda al riguardo, Sez. L, n. 00521/2019, Ponterio, Rv. 652227-01; sul tema v. anche il capitolo sul licenziamento, par. 2.13).

14. Lo sciopero nei servizi di sicurezza aeroportuale.

Nella dinamica del rapporto di lavoro, com’è noto, i lavoratori per far valere i propri interessi/diritti possono avvalersi dello strumento dello sciopero, il cui esercizio va tuttavia contemperato con beni interessi di maggiore rilevanza costituzionale, quali la vita e la sicurezza delle persone.

A tal riguardo pare importante ricordare la disciplina legislativa del diritto di sciopero contenuta nella l. 15 giugno del 1990, n. 146, che regolamenta, appunto, il diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali, salvaguardando i diritti della persona costituzionalmente tutelati.

Sez. L, n. 24633/2019, Blasutto, Rv. 655179-01, si occupa, appunto, di delimitare la nozione di servizi pubblici essenziali.

I servizi di sicurezza aeroportuale, sebbene non espressamente citati nell’elenco non tassativo contenuto nell’art. 1, comma 2, della l. n. 146 del 1990, in quanto funzionali alla tutela di beni di ancor maggior rilievo costituzionale quali la vita e la sicurezza delle persone, rientrano nell’ambito dei servizi pubblici essenziali e il diritto di sciopero che interessa tali servizi è esercitato nel rispetto di misure dirette a consentire l’erogazione delle prestazioni indispensabili per garantire le finalità di cui al suindicato comma 2, con esclusione delle procedure di raffreddamento e conciliazione, nei termini previsti dalla regolamentazione provvisoria del trasporto aereo.

15. Gli effetti del contratto collettivo senza durata predeterminata.

La contrattazione collettiva costituisce lo strumento principe, entro i confini lasciati dal legislatore, per disciplinare i rapporti di lavoro.

Nel corso dell’anno appena trascorso la S.C. se ne è occupata allo scopo di verificare gli effetti del contratto collettivo privo di termini di durata.

A tal proposito, Sez. L, n. 23105/2019, Curcio, Rv. 655017-01, in continuità con quanto già affermato da Sez. L, n. 18545/2009, Di Cerbo, Rv. 609880-01, ha ritenuto che, qualora il contratto collettivo non abbia un predeterminato termine di efficacia, non può vincolare per sempre tutte le parti contraenti.

Ad opinare diversamente, aggiunge il giudice di legittimità, si finirebbe per vanificarsi la causa e la funzione sociale della contrattazione collettiva, la cui disciplina, da sempre modellata su termini temporali non eccessivamente dilatati, deve parametrarsi su una realtà socio-economica in continua evoluzione, sicché a tale contrattazione va estesa la regola, di generale applicazione nei negozi privati, secondo cui il recesso unilaterale rappresenta una causa estintiva ordinaria di qualsiasi rapporto di durata a tempo indeterminato, che risponde all’esigenza di evitare – nel rispetto dei criteri di buona fede e correttezza nell’esecuzione del contratto – la perpetuità del vincolo obbligatorio.

Ne consegue che, in caso di disdetta del contratto, i diritti dei lavoratori, derivanti dalla pregressa disciplina più favorevole, sono intangibili solo in quanto siano già entrati nel patrimonio del lavoratore quale corrispettivo di una prestazione già resa o di una fase del rapporto già esaurita, e non anche quando vengano in rilievo delle mere aspettative sorte alla stregua della precedente più favorevole regolamentazione.

16. La questione di costituzionalità della retrocessione per gli agenti autoferrotranviari.

Da ultimo va ricordato che Sez. L, con ordinanza interlocutoria n. 13525/2019, De Gregorio, ha sollevato questione di legittimità costituzionale della sanzione della retrocessione, prevista dagli artt. 37, 44, 55, all. A, del r.d. n. 148 del 1931 per gli agenti autoferrotranviari, con riferimento ai parametri di cui agli artt. 1, 2, 3, 4, 35 e 36 Cost.

  • contratto di lavoro
  • sicurezza del lavoro
  • lavoratore con disabilità
  • diritto del lavoro
  • codice della navigazione
  • diritto alla salute

CAPITOLO XVIII

IL LAVORO FLESSIBILE

(di Ileana Fedele )

Sommario

1 Premessa. - 2 Lavoro flessibile e precario. - 3 Il contratto di lavoro a tempo determinato. - 3.1 Le causali giustificative dell’apposizione del termine e l’onere di sufficiente specificazione delle stesse. - 3.2 L’assunzione a termine nel settore postale ed aereo. - 3.3 L’assunzione a termine secondo il codice della navigazione. - 3.4 L’assunzione a termine dei lavoratori disabili. - 3.5 L’assunzione a termine delle fondazioni lirico-sinfoniche. - 3.6 Limiti di applicabilità della disciplina straniera meno favorevole. - 3.7 Divieti alla stipula del contratto a tempo determinato: il documento di valutazione dei rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori. - 3.8 Rilevabilità d’ufficio delle cause di nullità del termine. - 3.9 Impugnazione giudiziale ed efficacia ex tunc della sentenza dichiarativa della nullità dell’apposizione del termine. - 3.10 Vicende successive all’accertamento giudiziale dell’illegittima apposizione del termine: ripristino del rapporto e trasferimento di sede. - 3.11 Regime prescrizionale dei crediti. - 3.12 Il lavoro a tempo determinato nel rapporto di lavoro pubblico privatizzato. - 4 La somministrazione di lavoro. - 4.1 La somministrazione a tempo indeterminato. - 4.2 L’indicazione della causale posta a giustificazione della somministrazione a tempo determinato. - 4.3 Condizioni per la prorogabilità del termine. - 4.4 Costituzione giudiziale del rapporto con l’utilizzatore e novazione. - 4.5 Legittimazione degli enti previdenziali. - 4.6 Decadenza dall’impugnazione. - 5 Il contratto di lavoro a progetto. - 6 I rapporti di collaborazione coordinata e continuativa. - 7 L’indennità ex art. 32 della l. n. 183 del 2010. - 8 Contratto di lavoro a tempo parziale. - 9 Altre forme contrattuali flessibili: il lavoro intermittente. - 10 Appalto genuino e fenomeni interpositori. - 10.1 La responsabilità del committente ex artt. 2087 c.c. e 29 del d.lgs. n. 276 del 2003: rinvio. - 11 Cessione di azienda. - 11.1 Ambito di applicazione ed effetti della disciplina ex art. 2112 c.c. - 11.2 Conseguenze della declaratoria di nullità della cessione. La questione della detraibilità dell’aliunde perceptum.

1. Premessa.

La disciplina del lavoro flessibile - considerato nell’ottica del d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81, come uno strumento atto a favorire le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione - è stata di recente nuovamente oggetto dell’attenzione del legislatore (con il d.l. 12 luglio 2018, n. 87, conv. con modif. in l. 9 agosto 2018, n. 96, cd. “decreto dignità”) per rivisitare, in senso più vincolistico, le principali forme contrattuali, vale a dire il contratto a tempo determinato e la somministrazione di lavoro.

Nel rinviare alla rassegna dello scorso anno per la sintetica esposizione delle principali novità conseguenti al cd. decreto dignità, si procederà di seguito alla disamina delle pronunce emesse nell’anno 2019 sul lavoro a termine - per contiguità verranno qui trattate anche quelle riferite al rapporto di lavoro pubblico privatizzato - ed interinale. Si darà pure conto delle decisioni intervenute sulle ulteriori forme contrattuali flessibili, fra queste includendo anche quelle in tema di lavoro a tempo parziale, nel quale la flessibilità concerne l’orario di lavoro. Nell’ambito del presente capitolo verranno altresì trattate le pronunce relative all’appalto di manodopera - come flessibilità che attiene all’organizzazione imprenditoriale - ed alla individuazione della linea di discrimine rispetto ai fenomeni (vietati) di interposizione. Infine, si procederà alla disamina delle decisioni in tema di trasferimento di azienda, intese alla verifica delle vicende circolatorie del rapporto ed alla corretta individuazione del datore di lavoro.

2. Lavoro flessibile e precario.

Il tema del lavoro flessibile, inteso in senso ampio, continua ad essere di primario interesse nell’ambito del contenzioso giuslavoristico, registrandosi, ad ogni buon conto, una sensibile diminuzione delle pronunce relative al contratto a tempo determinato ed un correlato incremento di quelle sulla somministrazione, anche a tempo indeterminato.

Rimane centrale, poi, la questione dell’ambito di applicazione dell’indennità già prevista dall’art. 32 della l. 4 novembre 2010, n. 183, tanto da meritare ormai una trattazione autonoma, trattandosi di istituto progressivamente esteso a tutti i casi di conversione in rapporto a tempo indeterminato e, dunque, non più ristretto alla sola figura del contratto a termine.

Infine, una crescente attenzione è da riservare alle decisioni sulla legittimità delle scelte organizzative datoriali di esternalizzazione dei processi produttivi, attraverso la stipula di contratti di appalto di servizi ovvero cessioni di rami aziendali.

3. Il contratto di lavoro a tempo determinato.

Nel corso del 2019, accanto alla ormai inveterata questione relativa all’apprezzamento delle ragioni giustificative del termine – questione invero destinata ad assumere nuovo peso in esito alle modifiche restrittive apportate sul punto dal cd. decreto dignità – la Corte è tornata ad occuparsi della specifica disciplina sulle fondazioni liriche sinfoniche, oltre che delle caratteristiche dell’azione di nullità del termine e dei conseguenti riflessi sul ripristino del rapporto di lavoro in esito alla declaratoria di illegittima apposizione del termine.

3.1. Le causali giustificative dell’apposizione del termine e l’onere di sufficiente specificazione delle stesse.

In continuità con il consolidato indirizzo sul punto (v., di recente Sez. L, n. 00208/2015, Balestrieri, Rv. 634001-01), Sez. L, n. 00840/2019, Boghetich, Rv. 652564-01, ha ribadito che il datore di lavoro ha l’onere di indicare in modo circostanziato e puntuale, al fine di assicurare la trasparenza e la veridicità delle ragioni appositive del termine nonché l’immodificabilità delle stesse nel corso del rapporto, le circostanze che contraddistinguono una particolare attività e che rendono conforme alle esigenze del datore di lavoro, nell’ambito di un determinato contesto aziendale, la prestazione a tempo determinato, in modo da palesare la specifica connessione tra la durata solo temporanea della prestazione e le esigenze produttive ed organizzative che la stessa sia chiamata a realizzare, nonché l’utilizzazione del lavoratore assunto esclusivamente nell’ambito della specifica ragione indicata ed in stretto collegamento con la stessa. Nel caso esaminato dalla Corte, è stato ritenuto positivamente assolto tale onere rispetto ad un dipendente RAI, nel cui contratto a termine era contenuta un’indicazione puntuale della particolare attività richiesta al lavoratore nell’ambito del determinato contesto aziendale rappresentato dalla produzione televisiva.

È stata altresì ritenuta sufficientemente specifica la causale giustificativa che faccia riferimento a “picchi produttivi” ove accompagnata da altri dati di conoscenza che consentano l’individuazione della ragione organizzativa ed il controllo della sua effettività, nonché il nesso con la specifica assunzione a termine (Sez. L, n. 00077/2019, Amendola F., Rv. 652447-01); da rilevare che la fattispecie positivamente scrutinata dalla Corte concerneva un’ipotesi in cui l’intensificazione dell’attività dipendeva da commesse relative al porto di Gioia Tauro e l’apposizione del termine – richiamata la previsione dell’art. 61 del c.c.n.l. per i lavoratori dei porti – era stata suffragata dalla natura delle mansioni affidate e dal luogo di esecuzione della prestazione lavorativa, nonché dalla durata di essa.

Quanto, poi, alla causale sostitutiva, è stata reputata sufficiente l’indicazione nominativa del lavoratore da sostituire, mentre non rileva la variazione dei motivi connessi all’assenza del prestatore, come nel caso di sostituzione dapprima cagionata dalla maternità e di poi proseguita per la fruizione di ferie (Sez. L, n. 24765/2019, De Gregorio, Rv. 655312-01).

3.2. L’assunzione a termine nel settore postale ed aereo.

La S.C. ha continuato ad occuparsi della speciale fattispecie di cui all’art. 2, comma 1-bis, del d.lgs. n. 368 del 2001, ribadendone la piena legittimità, anche sul piano della conformità all’ordinamento europeo, con particolare riferimento alla clausola di non regresso di cui all’art. 8 della direttiva 1999/70/CE, sul rilievo – mutuato dalla Corte di giustizia UE (C-20/10, Vino) – che la normativa in questione persegue uno scopo distinto da quello dell’attuazione, nell’ordinamento nazionale, dell’accordo quadro di cui alla predetta direttiva, essendo finalizzata, piuttosto, a consentire alle imprese operanti nel settore postale un certo grado di flessibilità (Sez. L, n. 16835/2019, Curcio, Rv. 654360-02).

Per il settore aereo, in coerenza con la “acausalità” del termine prevista dalla specifica disciplina di cui all’art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 368 del 2001, è stato escluso che la proroga del contratto richieda l’indicazione di una ragione giustificativa (Sez. L, n. 07604/2019, Cinque, Rv. 653176-01).

3.3. L’assunzione a termine secondo il codice della navigazione.

Nel periodo anteriore all’entrata in vigore della l. n. 84 del 1986, in tema di assunzione di personale a termine nelle aziende di trasporto aereo ed esercenti servizi aeroportuali, la disciplina dettata dall’art. 902 cod. nav. per il personale di volo prevede la specialità delle esigenze come unica condizione di legittimità per l’apposizione del termine, specialità che è stata ravvisata dalla Corte nel caso del rapporto dirigenziale, caratterizzato da un profilo fiduciario, che giustifica una regolazione differenziata rispetto all’ordinario rapporto di lavoro, in particolare con riferimento alla recedibilità ad nutum (Sez. L, n. 21318/2019, Pagetta, Rv. 655000-01).

3.4. L’assunzione a termine dei lavoratori disabili.

Sulle condizioni per l’assunzione a tempo determinato dei lavoratori disabili, Sez. L, n. 18192/2019, Ciriello, Rv. 654483-01, nel ribadire l’indirizzo assunto da Sez. L, n. 17867/2016, Bronzini, Rv. 641140-01, in ordine alla necessità di indicare nel contratto di lavoro le ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo che giustificano l’apposizione del termine, ha affermato la legittimità dei contratti rientranti nelle previsioni di cui alle convenzioni disciplinate dall’art. 11 della l. n. 68 del 1999, volte a favorire l’inserimento lavorativo dei disabili ed a disciplinare le modalità di assunzione che il datore di lavoro si impegna ad effettuare.

3.5. L’assunzione a termine delle fondazioni lirico-sinfoniche.

Con riferimento alle assunzioni a termine del personale artistico e tecnico delle fondazioni lirico-sinfoniche, Sez. L, n. 06679/2019, Piccone, Rv. 653197-01, ha chiarito che le particolari esigenze connesse alla rappresentazione di uno spettacolo, se pure giustificano il divieto di conversione previsto dall’art. 11, comma 4, del d.lgs. n. 368 del 2001 nell’ipotesi di proroga o successione di contratti a tempo determinato, non escludono la necessità, predicata pure dalla Corte di giustizia UE (25 ottobre 2018, causa C-331/2017, Sciotto), di valutare in modo rigoroso le ragioni obiettive poste a fondamento del primo contratto ex art. 1 del citato decreto, la cui mancanza determina l’illegittimità della clausola di apposizione del termine e la conversione in un rapporto a tempo indeterminato. In particolare, la Corte ha censurato il giudice di merito per non avere adeguatamente motivato in ordine alla verifica delle suddette ragioni obiettive nell’ipotesi di una violinista assunta a termine in relazione a una serie limitata di spettacoli, nominativamente individuati nell’ambito della programmazione stagionale, pur in presenza di un’occasione permanente di lavoro e di un’orchestra costituita da numerosi violinisti stabilmente assunti.

D’altro canto, Sez. L, n. 06680/2019, Piccone, Rv. 653448-01 (in senso conforme Sez. 6 - L, n. 32009/2019, Doronzo, Rv. 656114-01), ha pure affermato che il divieto di procedere ad assunzioni a tempo indeterminato, ex art. 1, comma 595, della l. n. 266 del 2005, confermato dall’art. 2, comma 392, della l. n. 244 del 2007, nonché il disposto di cui all’art. 11, comma 19, del d.l. n. 91 del 2013, conv. con modif. in l. n. 112 del 2013, secondo cui il rapporto a tempo indeterminato presso le suddette fondazioni è instaurato esclusivamente a mezzo di apposite procedure selettive pubbliche, non si applicano, in mancanza di una esplicita previsione di retroattività, alle conversioni giudiziali di contratti a tempo determinato conclusi in epoca anteriore alla data di entrata in vigore delle rispettive normative.

Sulla stessa linea, Sez. 6 - L, n. 32150/2019, Doronzo, Rv. 656115-01, ha escluso l’applicazione retroattiva della disciplina contenuta nel d.l. n. 59 del 2019, conv. con modif. in l. n. 81 del 2019, recante misure urgenti in materia di personale delle fondazioni lirico-sinfoniche, in ragione del principio generale di irretroattività della legge, che non viene derogato da alcuna disposizione della predetta normativa.

3.6. Limiti di applicabilità della disciplina straniera meno favorevole.

Sul piano dell’individuazione della disciplina applicabile, Sez. L, n. 22932/2019, Cinque, Rv. 655016-01, ha affermato che la disciplina straniera, sebbene richiamata dalle parti quale lex contractus, non può trovare applicazione se meno favorevole per il lavoratore rispetto alla legge italiana applicabile quale lex fori, determinandosi, in caso contrario, la violazione del limite dell’ordine pubblico internazionale nella cui nozione, anche in considerazione della normativa dell’Unione Europea, rientrano la centralità dell’impiego stabile e la limitazione all’utilizzo del lavoro precario. Va evidenziato che il caso esaminato dalla Corte era assoggettato ratione temporis alla disciplina prevista dalla l. n. 230 del 1962 che, com’è noto, non consentiva, contrariamente alla legge inglese richiamata dalle parti, la acausalità e la reiterazione di contratti a termine.

3.7. Divieti alla stipula del contratto a tempo determinato: il documento di valutazione dei rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori.

Quanto alle conseguenze derivanti dalla violazione degli specifici divieti posti dalla disciplina generale in ordine alla stipula dei contratti a termine, Sez. L, n. 21683/2019, Patti, Rv. 654823-01, ha sottolineato il carattere imperativo dell’art. 3 del d.lgs. n. 368 del 2001, che sancisce il divieto di stipulare contratti di lavoro subordinato a termine per le imprese che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, con la conseguenza che, ove il datore di lavoro non provi di aver provveduto alla valutazione dei rischi prima della stipulazione, la clausola di apposizione del termine è nulla e il contratto di lavoro si considera a tempo indeterminato ai sensi degli artt. 1339 e 1419, comma 2, c.c. Nondimeno, una volta avvenuta la produzione del documento in questione da parte del datore di lavoro, è onere del lavoratore allegare, in primo grado anche in replica alla produzione avversaria, gli elementi da cui desumere l’inadeguatezza di tale documento, costituente fatto costitutivo della domanda (Sez. L, n. 16835/2019, Curcio, Rv. 654360-01).

3.8. Rilevabilità d’ufficio delle cause di nullità del termine.

In piena continuità con Sez. L, n. 20388/2018, Negri della Torre, Rv. 650120-01, Sez. L, n. 08914/2019, Arienzo, Rv. 653218-01, ha ribadito che il giudice cui sia proposta domanda di accertamento della nullità del termine ha, previa instaurazione del contraddittorio sul punto, il potere-dovere di dichiarare detta nullità anche per motivi diversi da quelli allegati dalla parte, rilevandoli d’ufficio (nella specie, per mancanza del documento di valutazione dei rischi rispetto alle censure di violazione della clausola di contingentamento e contrarietà all’ordinamento europeo poste dal lavoratore a fondamento del ricorso), salvo che si tratti di nullità a regime speciale.

3.9. Impugnazione giudiziale ed efficacia ex tunc della sentenza dichiarativa della nullità dell’apposizione del termine.

Sez. L, n. 08385/2019, Blasutto, Rv. 653208-01, ha precisato che la sentenza che accerta la nullità della clausola appositiva del termine e ordina la ricostituzione del rapporto illegittimamente interrotto – cui è connesso l’obbligo del datore di riammettere in servizio il lavoratore – ha natura dichiarativa e non costitutiva, con conseguente effetto ex tunc della conversione in rapporto di lavoro a tempo indeterminato dalla illegittima stipulazione del contratto a termine; non può, dunque, configurarsi un recesso datoriale ante tempus in costanza di un rapporto di lavoro a tempo determinato, mentre l’indennità ex art. 32, comma 5, della l. n. 183 del 2010, ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore (comprese le conseguenze retributive e contributive) per il periodo fra la scadenza del termine e la pronuncia giudiziale di ricostituzione del rapporto di lavoro.

3.10. Vicende successive all’accertamento giudiziale dell’illegittima apposizione del termine: ripristino del rapporto e trasferimento di sede.

In continuità con Sez. L, n. 20745/2018, Marotta, Rv. 650125-01, Sez. L, n. 11180/2019, Curcio, Rv. 653624-01, ha affermato che nell’ipotesi di accertamento della nullità del termine apposto al contratto di lavoro, il datore di lavoro è tenuto a riammettere in servizio il lavoratore nelle precedenti condizioni di luogo e di mansioni, salvo adottare un provvedimento di trasferimento nel rispetto di quanto previsto dall’art. 2013 c.c; di conseguenza, il rifiuto del lavoratore di accettare il trasferimento in una sede diversa da quella originaria in assenza di ragioni obiettive che sorreggano detto provvedimento costituisce condotta inquadrabile in quella disciplinata dall’art. 1460 c.c. (sul tema più generale, relativo alla posizione del lavoratore raggiunto da un trasferimento o da un distacco illegittimi, si rinvia al capitolo sugli obblighi, responsabilità e diritti del datore e del prestatore di lavoro, par. 7.2.).

3.11. Regime prescrizionale dei crediti.

In conformità a Sez. L, n. 22146/2014, Venuti, Rv. 633168-01, è stato ribadito che in caso di successione di due o più contratti di lavoro a termine legittimi, il termine di prescrizione dei crediti retributivi di cui agli artt. 2948, n. 4, 2955, n. 2, e 2956, n. 1, c.c., inizia a decorrere, per i crediti che sorgono nel corso del rapporto lavorativo, dal giorno della loro insorgenza e, per quelli che maturano alla cessazione del rapporto, a partire da tale momento, dovendo considerarsi autonomamente e distintamente i crediti scaturenti da ciascun contratto da quelli derivanti dagli altri, senza che possano produrre alcuna efficacia sospensiva della prescrizione gli intervalli di tempo tra i rapporti lavorativi, stante la tassatività delle cause sospensive previste dagli artt. 2941 e 2942 c.c., o possa ravvisarsi, in tali casi, il metus del lavoratore verso il datore che presuppone un rapporto a tempo indeterminato non assistito da alcuna garanzia di continuità (Sez. L, n. 20918/2019, Di Paolantonio, Rv. 654798-02). Va invece evidenziato che, nel caso di una serie di contratti di lavoro a tempo determinato, poi convertiti in un unico contratto a tempo indeterminato in conseguenza della ritenuta nullità dell’apposizione del termine, secondo Sez. L, n. 14827/2018, Di Paolantonio, Rv. 648911-01, la prescrizione dei crediti derivanti dal rapporto non decorre dalla scadenza dei singoli contratti a termine e resta sospesa sino alla cessazione del rapporto lavorativo, non rilevando che a seguito della conversione il rapporto medesimo risulti assistito dalla garanzia della stabilità reale.

3.12. Il lavoro a tempo determinato nel rapporto di lavoro pubblico privatizzato.

Con riferimento alle ipotesi derogatorie della disciplina generale, in ordine alla necessità di indicare nel contratto le ragioni giustificative dell’apposizione del termine, Sez. L, n. 24490/2019, Bellé, Rv. 655133-01, ha affermato che le cd. ‘ordinanze libere’ di cui all’art. 5 della l. n. 225 del 1992, qualora intendano derogare alle leggi vigenti, ai sensi del comma 5 del medesimo articolo, devono essere motivate e contenere l’indicazione esplicita delle norme derogate; pertanto, qualora riguardino l’assunzione di personale a tempo determinato, devono contenere l’espressa previsione di deroga alle norme che, di tempo in tempo, disciplinano le modalità di stipula dei relativi contratti di somministrazione o di lavoro sotto il profilo dell’indicazione delle causali giustificative, del regime delle proroghe, della durata massima e di ogni altro requisito richiesto a pena di nullità del contratto di somministrazione o del termine apposto al contratto di lavoro. Nel caso di specie, la Corte ha confermato la illegittimità dei contratti stipulati dal Ministero dell’interno in base alle ordinanze del Presidente del Consiglio dei Ministri emesse ai sensi dell’art. 5, comma 2, della l. n. 225 del 1992, in relazione a ragioni di urgenza riconnesse alla gestione delle pratiche di immigrazione, proprio perché prive di specifica indicazione delle disposizioni che si assumevano derogate.

È stato, inoltre, affermato il divieto di conversione del rapporto per i consorzi di bonifica della Regione Sicilia, osservandosi che la l.r. Sicilia n. 76 del 1995 non deroga al divieto di assunzione a tempo indeterminato dettato dall’art. 32 della l.r. n. 45 del 1995 ma si pone in linea di continuità sistematica con quest’ultima. In virtù di tale assunto, la Corte ha ritenuto che, in caso di violazione dei limiti posti dagli artt. 3 e 4 della l.r. n. 76 del 1995 per il ricorso al contratto a tempo determinato da parte dei consorzi di bonifica della Regione Sicilia, non è consentita la trasformazione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato, trovando invece applicazione l’art. 2126 c.c. per le prestazioni di fatto, nonché, in caso di abusivo ricorso all’apposizione del termine, la regola generale della responsabilità contrattuale posta dagli artt. 1218 e ss c.c. ed i principi affermati sul riconoscimento del cd. danno comunitario (Sez. L, n. 00274/2019, Torrice, Rv. 652560-01).

Quanto al contenzioso del settore scolastico, nel rinviare alla specifica trattazione contenuta nel capitolo dedicato al rapporto di lavoro pubblico contrattualizzato, par. 11, ci si limita in questa sede a segnalare il principio espresso da Sez. L, n. 15381/2019, Di Paolantonio, Rv. 654107-01, sul tema della supplenza temporanea conferita dal dirigente scolastico per la sostituzione di personale ATA assente dal servizio e con espressa indicazione del termine finale: essa non può, ai sensi degli artt. 4 della l. n. 124 del 1999, 6 del d.m. n. 430 del 2000 e 44 del c.c.n.l. 29 novembre 2007 per il comparto della scuola, essere risolta anticipatamente a causa del decesso del dipendente sostituito verificatosi dopo il 31 dicembre dell’anno scolastico di riferimento, perché, da un lato, opera il principio generale secondo cui nel rapporto a termine, salva l’ipotesi di giusta causa, solo l’impossibilità sopravvenuta di ricevere la prestazione legittima lo scioglimento anticipato dal vincolo contrattuale, e perché, dall’altro lato, la vacanza verificatasi dopo la data sopra indicata non induce conseguenze quanto alle modalità di conferimento dell’incarico e di individuazione del contraente, restando l’incarico riconducibile alla species della supplenza temporanea.

4. La somministrazione di lavoro.

Nel 2019 sono intervenute diverse interessanti pronunce che hanno consentito di delineare meglio la figura della somministrazione di lavoro, anche a tempo indeterminato.

4.1. La somministrazione a tempo indeterminato.

Di particolare rilievo Sez. L, n. 06870/2019, Riverso, Rv. 653203-01, perché ha affrontato la figura della somministrazione a tempo indeterminato – rispetto alla quale non constano precedenti di legittimità – per affermare chiaramente che il rapporto di lavoro dipendente intercorre tra il lavoratore somministrato e l’agenzia che lo assume e retribuisce, per cui, sebbene la prestazione venga resa in concreto a beneficio dell’utilizzatore, il legame funzionale tra somministratore e lavoratore permane anche nei periodi tra una missione ed un’altra, ed il lavoratore ha diritto di percepire un compenso, cd. indennità di disponibilità, prevista dall’art. 22, comma 3, dello stesso decreto, che ha natura retributiva e trova la sua giustificazione causale nella messa a disposizione delle attitudini lavorative del somministrato in attesa di future utilizzazioni.

Sulla base di tali premesse, la Corte ha affermato il principio per cui al lavoratore somministrato a tempo indeterminato spetta l’assegno per il nucleo familiare (disciplinato dall’art. 2 del d.l. n. 69 del 1988, conv. con modif. dalla l. n. 153 del 1988) anche durante gli intervalli in cui, pur non prestando attività lavorativa per l’utilizzatore, percepisce dal somministratore l’indennità di disponibilità, proprio sul rilievo che, durante tali periodi non lavorati, il sinallagma funzionale del contratto di lavoro è attivo e permane l’obbligo, a carico del somministratore, di versamento dei contributi assicurativi sull’erogata indennità (Sez. L, n. 06870/2019, Riverso, Rv. 653203-02).

Sulla questione del licenziamento del lavoratore somministrato a tempo indeterminato – su cui pure sono intervenute importanti decisioni – si rinvia per omogeneità di trattazione allo specifico capitolo dedicato al licenziamento (in particolare: parr. 2.7., 2.14., 2.18).

4.2. L’indicazione della causale posta a giustificazione della somministrazione a tempo determinato.

In via generale, Sez. L, n. 00197/2019, Ponterio, Rv. 652452-01, ha ribadito – in continuità con Sez. L, n. 17540/2014, A. Manna, Rv. 632006-01 – che la sanzione di nullità del contratto, prevista espressamente dall’art. 21, ultimo comma, del d.lgs. n. 276 del 2003 per il caso di difetto di forma scritta, si estende anche all’indicazione omessa o generica della causale della somministrazione, con conseguente trasformazione del rapporto da contratto a tempo determinato alle dipendenze del somministratore a contratto di lavoro a tempo indeterminato alle dipendenze dell’utilizzatore. Nel caso di specie, è stata ritenuta generica la seguente causale “gestione delle attività di call center in relazione alle esigenze di carattere organizzativo connesse al riassetto societario”, in quanto non esplicativa delle ragioni di ricorso al lavoro somministrato né del contenuto del riassetto societario ovvero del periodo temporale di riferimento.

Quanto alla causale sostitutiva, in un caso in cui era stato richiamato l’art. 4, comma 1, lett. c) del c.c.n.l. Autostrade e Trafori del 15 luglio del 2005 – nella parte in cui rinvia alle medesime causali per le quali è prevista l’assunzione a termine – è stata ritenuta consentita la sostituzione dei lavoratori assenti per ferie, aggiungendosi che, in tale evenienza, l’onere della prova incombente sulla parte datoriale potrà essere assolto con la dimostrazione della coincidenza della assunzione in somministrazione con i periodi indicati nell’art. 2, lett. b), del medesimo c.c.n.l., senza necessità di provare l’effettiva sostituzione di uno specifico lavoratore in relazione a tutto il periodo (Sez. L, n. 00187/2019, Pagetta, Rv. 652451-01).

4.3. Condizioni per la prorogabilità del termine.

Sez. L, n. 21390/2019, Lorito, Rv. 655002-01, per la prorogabilità del termine inizialmente posto al contratto di lavoro ha ritenuto sufficiente il consenso del lavoratore, che deve risultare da atto scritto, nelle ipotesi e per la durata prevista dalla contrattazione collettiva applicata dal somministratore, ai sensi dell’art. 22, comma 2, del d.lgs. n. 276 del 2003, mentre ha escluso la necessità di indicare causali oggettive ed il riferimento alla stessa attività lavorativa per la quale è stato stipulato il contratto a tempo determinato, come previsto dall’art. 4 del d.lgs. n. 368 del 2001, disposizione ritenuta inapplicabile avuto riguardo alla differente disciplina prevista dalla direttiva n. 2008/104/CE per il lavoro tramite agenzia interinale rispetto a quella stabilita dalla direttiva n. 1999/70 CE sul lavoro a termine, espressione di una discontinuità nel percorso di progressiva equiparazione funzionale dei due istituti.

4.4. Costituzione giudiziale del rapporto con l’utilizzatore e novazione.

A differenza di quanto affermato con riferimento ai contratti a tempo determinato da Sez. L, n. 05714/2018, F. Amendola, Rv. 647524-01, nel caso di accertamento dell’illegittimità di un contratto di somministrazione di lavoro a termine e la costituzione di un rapporto a tempo indeterminato con l’utilizzatore non si determina di per sé l’illegittimità del successivo contratto di lavoro a tempo determinato tra le stesse parti e non si travolge il giudicato che si sia eventualmente formato sulla legittimità di esso, dovendosi ritenere, alla luce della diversità delle due tipologie contrattuali, che il contratto a termine abbia efficacia novativa del precedente rapporto (Sez. L, n. 13515/2019, Patti, Rv. 653957-01).

4.5. Legittimazione degli enti previdenziali.

Sulla questione dei soggetti legittimati all’accertamento dell’irregolarità della somministrazione, Sez. L, n. 17705/2019, Curcio, Rv. 654478-01, ha affermato che la previsione di cui all’art. 27 del d.lgs. n. 276 del 2003 – secondo cui legittimato a far valere l’illegittimità della somministrazione è il solo lavoratore somministrato – non preclude agli enti previdenziali o assicurativi di agire nei confronti dell’effettivo utilizzatore della manodopera, per l’accertamento della sussistenza dei presupposti delle obbligazioni contributive gravanti in capo a quest’ultimo.

4.6. Decadenza dall’impugnazione.

Sul tema, l’indirizzo rigoroso espresso da Sez. L, n. 30134/2018, Leone, Rv. 651695-01, secondo cui l’impugnazione stragiudiziale dell’ultimo contratto della serie non si estende ai contratti precedenti, neppure ove tra un contratto e l’altro sia decorso un termine inferiore a quello di sessanta giorni utile per l’impugnativa, è stato confermato da Sez. L, n. 24356/2019, Blasutto, Rv. 655068-01, che ha espressamente ribadito l’onere di impugnazione di ciascun contratto della serie, escludendo che tale principio si ponga in contrasto con il diritto dell’Unione, quale fattore – ai sensi dell’art. 6, comma 2, della direttiva 2008/104/CE – di ostacolo o impedimento alla “stipulazione di un contratto di lavoro o l’avvio di un rapporto di lavoro tra l’impresa utilizzatrice e il lavoratore tramite agenzia interinale al termine della sua missione”, poiché la direttiva in questione, si rivolge unicamente agli Stati membri, senza imporre alle autorità giudiziarie nazionali un obbligo di disapplicazione di qualsiasi disposizione di diritto nazionale che preveda, al riguardo, divieti o restrizioni che non siano giustificati da ragioni di interesse generale.

Sez. L, n. 29753/2019, Blasutto, Rv. 655983-01, ha sottolineato la differenza con il regime del contratto a tempo determinato per affermare che il termine di decadenza per proporre l’impugnazione stragiudiziale rimane quello di sessanta giorni previsto dall’art. 32, comma 1, della l. n. 183 del 2010, come chiarito dal comma 4, lett. d), della stessa norma, mentre le modifiche introdotte dalla l. n. 92 del 2012, che ha esteso il termine per l’impugnativa stragiudiziale a centoventi giorni, non si applicano al caso della somministrazione di manodopera, considerato che il rapporto di lavoro a tempo determinato è istaurato dal lavoratore direttamente con chi fruisce della prestazione, mentre nella somministrazione di lavoro si istaura un rapporto trilaterale, in cui il lavoratore non istituisce un vincolo direttamente con chi utilizza la sua attività.

5. Il contratto di lavoro a progetto.

Diverse pronunce continuano ad occuparsi del tema del contratto a progetto, sia quanto ai presupposti di legittimità che quanto alle conseguenze derivanti dalla violazione delle prescritte indicazioni normative.

In particolare, Sez. L, n. 05418/2019, Marotta, Rv. 652917-01, ha ulteriormente precisato il concetto di ‘progetto’ rilevante ai sensi dell’art. 61 del d.lgs. n. 276 del 2003, rispetto all’interpretazione già resa da Sez. L, n. 24379/2017, Riverso, Rv. 645615-01, nel senso che esso, sebbene non inerente ad una attività eccezionale, originale o del tutto diversa rispetto alla ordinaria attività di impresa, richiede comunque un contenuto suscettibile di una valutazione distinta da una routine ripetuta e prevedibile, dettagliatamente articolato ed illustrato con la preventiva individuazione di azioni, tempi, risorse, ruoli e aspettative di risultato, e dunque caratterizzato da una determinata finalizzazione, anche in termini di quantità e tempi di lavoro. Nel caso di specie, non è stato ritenuto sufficiente ad integrare il requisito distintivo del progetto la riferibilità dell’attività di arredatore svolta dal ricorrente ad una specifica produzione televisiva.

Quanto alle conseguenze derivanti dall’assenza di uno specifico progetto, programma di lavoro o fase di esso, Sez. L, n. 09471/2019, Ghinoy, Rv. 653455-01, in continuità con Sez. L, n. 12820/2016, D’Antonio, Rv. 640230-01, e Sez. L, n. 17127/2016, Lorito, Rv. 640919-01, ha ribadito che il regime sanzionatorio previsto dall’art. 69, comma 1, del d.lgs n. 276 del 2016 (nel testo ratione temporis applicabile, anteriore alle modifiche apportate dalla l. n. 92 del 2012) determina l’automatica conversione del rapporto a tempo indeterminato, con applicazione delle garanzie del lavoro dipendente e senza necessità di accertamenti giudiziali sulla natura del rapporto, interpretazione ritenuta non in contrasto con il principio di “indisponibilità del tipo”, posto a tutela del lavoro subordinato e non invocabile nel caso inverso, né con l’art. 41, comma 1, Cost., in quanto trae origine da una condotta datoriale violativa di prescrizioni di legge ed è coerente con la finalità antielusiva perseguita dal legislatore. D’altro canto, sul piano processuale, è stato escluso che il lavoratore, che con il ricorso introduttivo deduca la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato e la simulazione di un contratto a progetto, possa far valere la nullità per mancanza del progetto nel corso del giudizio di appello, in quanto tale ulteriore prospettazione costituisce domanda nuova, con una diversa causa petendi, per l’inserimento di un fatto nuovo a fondamento della pretesa e di un diverso tema di indagine e di decisione (Sez. L, n. 24480/2019, Boghetich, Rv. 655132-01).

Inoltre, è stato precisato l’ambito di applicazione della deroga prevista dall’art. 61, comma 3, del d.lgs. n. 276 del 2003, in favore di coloro che svolgono una professione intellettuale, nel senso che essa è configurabile non già in ragione del titolo o di un presunto status di professionista bensì in riferimento alle attività di lavoro autonomo che oggettivamente possono essere svolte esclusivamente da un professionista (Sez. L, n. 27388/2019, Balestrieri, Rv. 655521-02), aggiungendosi, quanto alle ricadute processuali, che la predetta deroga introduce nel processo un nuovo tema di indagine riconducibile ad un’eccezione in senso stretto, come tale non rilevabile d’ufficio, né proponibile per la prima volta nel corso del giudizio o in appello (Sez. L, n. 27388/2019, Balestrieri, Rv. 655521-01).

Infine, mentre si rinvia infra, al par. 7, per l’applicabilità dell’indennità ex art. 32 della l. n. 183 del 2010 anche al contratto a progetto illegittimo, va qui evidenziato che Sez. L, n. 30668/2019, Cinque, Rv. 655879-01, ha affrontato il delicato aspetto della decadenza dall’impugnazione nell’ipotesi di pluralità di contratti a progetto affermando il principio per cui l’impugnativa volta a far valere l’illegittimità degli stessi, da cui consegue il riconoscimento di un unico rapporto di lavoro di natura subordinata a tempo indeterminato, a decorrere dalla data di costituzione del primo, è assoggettata ad un unico termine di decadenza che, ex art. 32 della l. n. 183 del 2010, decorre dal recesso, qualificato come licenziamento, del datore di lavoro dal rapporto in essere, in relazione all’ultimo contratto.

6. I rapporti di collaborazione coordinata e continuativa.

Con riferimento ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, Sez. L, n. 24778/2019, Marchese, Rv. 655314-01, è intervenuta a dirimere una dibattuta questione interpretativa sulla portata dell’art. 50 della l. n. 183 del 2010, dubitandosi se tale norma stabilisca “unicamente” la sanzione indennitaria a fronte del rifiuto, da parte del lavoratore, di due offerte di stabilizzazione del rapporto di lavoro ovvero faccia comunque salva la conversione o ricostituzione del rapporto. Ebbene, la Corte ha chiarito che l’indennità prevista dal citato art. 50 per il caso di accertamento giudiziale della natura subordinata di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, regolando la misura del risarcimento in relazione al periodo intercorrente tra la cessazione della collaborazione e la sentenza che ne accerta la natura subordinata, non rappresenta l’unica misura sanzionatoria, sostitutiva di tutte le conseguenze normalmente ricollegabili ad un tale accertamento, bensì un indennizzo che tiene luogo del solo risarcimento dei danni derivanti dalla ingiustificata estromissione, fermo restando il diritto del lavoratore al ripristino ovvero alla “conversione” del rapporto di lavoro, in esecuzione della sentenza. L’assunto è motivato con il richiamo ai lavorati preparatori, oltre che ad un’interpretazione che valga a salvare la disposizione citata da dubbi di legittimità costituzionale e di violazione del diritto sovranazionale, essendo in tal modo in linea con il principio di effettività ed adeguatezza delle sanzioni, con quello di parità di trattamento e con la clausola di non regresso delle tutele, in quanto volta ad introdurre un criterio di liquidazione del danno di più agevole, certa ed omogenea applicazione, con salvezza del nucleo centrale della tutela sostanziale costituito dall’instaurazione di un rapporto a tempo indeterminato.

Sulla nuova disciplina, con particolare riferimento all’art. 69-bis, comma 1, del d.lgs. n. 276 del 2003, introdotto dall’art. 1, comma 26, della l. n. 92 del 2012, Sez. L, n. 12173/2019, Garri, Rv. 653755-01, ha delineato il regime temporale di applicazione della presunzione ivi contenuta – per la quale le prestazioni lavorative rese da persona titolare di posizione fiscale ai fini dell’imposta sul valore aggiunto sono considerate rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, nel ricorso delle condizioni indicate dalla stessa disposizione e salvo che sia fornita prova contraria da parte del committente – affermando che essa si applica ai rapporti in corso alla data di entrata in vigore della l. n. 92 del 2012, decorsi dodici mesi dalla medesima data, secondo quanto previsto dal comma 4 dello stesso art. 69-bis, con la rilevante conseguenza che detta presunzione non opera con riferimento ai rapporti di collaborazione cessati prima dell’anno da tale data.

Infine, quanto al regime di decadenza dall’impugnazione, Sez. L, n. 32254/2019, Patti, Rv. 656007-01, ha chiarito che qualora il rapporto di collaborazione autonoma si risolva per effetto della manifestazione di volontà del collaboratore di voler recedere dal rapporto, ovvero cessi per la sua naturale scadenza, l’azione per l’accertamento della subordinazione e la riammissione in servizio è esercitabile nei termini di prescrizione, senza essere assoggettata al regime decadenziale di cui all’art. 32, comma 3, lett. b), della l. n. 183 del 2010, poiché il regime in questione si applica al solo caso di “recesso del committente” e non è estensibile alle ipotesi in cui manchi del tutto un atto che il lavoratore abbia interesse a contestare o confutare.

7. L’indennità ex art. 32 della l. n. 183 del 2010.

Come chiarito in premessa, si è ormai attribuita valenza autonoma all’indennità in questione perché, nell’evoluzione giurisprudenziale consolidatasi anche nel corso del 2019, la stessa costituisce ormai il parametro generalizzato di riferimento per la liquidazione del danno in tutte le vicende in cui si venga a sancire la conversione del rapporto a tempo indeterminato, senza essere più riconducibile esclusivamente al contratto a tempo determinato.

Infatti, nel solco tracciato nel 2018 da Sez. L, n. 16435/2018, Negri della Torre, Rv. 649394-01, e Sez. L, n. 20500/2018, Leone, Rv. 650093-01, Sez. L, n. 24100/2019, Patti, Rv. 655066-01, ha ritenuto applicabile il regime indennitario ex art. 32, comma 5, della l. n. 183 del 2010, anche al contratto di collaborazione a progetto illegittimo, quale fattispecie in cui ricorrono le condizioni della natura a tempo determinato del contratto di lavoro e della presenza di un fenomeno di conversione.

Il diritto all’indennità è stato invece escluso da Sez. L, n. 16052/2019, Blasutto, Rv. 654147-01, nell’ipotesi di rapporto di lavoro a tempo determinato cessato prima della scadenza del termine nullo poiché la predetta indennità spetta solo per il periodo cosiddetto “intermedio”, ossia quello compreso fra la scadenza del termine e la pronuncia del provvedimento con il quale il giudice abbia ordinato la ricostituzione del rapporto di lavoro, e dunque non compete nel caso in cui, accertata l’illegittimità del termine, non ne consegua la riammissione in servizio del lavoratore (nella specie per dimissioni rassegnate in data antecedente alla data di scadenza del termine apposto al contratto).

Infine, sul piano della misura dell’indennità, è stato ribadito (Sez. 6 - L, n. 25484/2019, Leone, Rv. 655427-01) quanto già affermato da Sez. L, n. 01320/2014, Nobile, Rv. 629923-01, in ordine ai limiti del sindacato della Corte di cassazione, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., ristretto – quanto alla determinazione, operata dal giudice di merito, tra il minimo ed il massimo, al pari dell’analoga valutazione per la determinazione dell’indennità di cui all’art. 8 della l. n. 604 del 1966 – solo al caso di motivazione assente, illogica o contraddittoria. Sulla stessa linea, è stato osservato che il fatto storico decisivo, censurabile ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., non può identificarsi con il difettoso esame dei parametri della liquidazione dell’indennità, sui quali il giudice di merito conduce la valutazione ai fini della concreta determinazione della stessa (Sez. 6 - L, n. 28887/2019, Leone, Rv. 655596-01).

8. Contratto di lavoro a tempo parziale.

Sul requisito della forma scritta prevista ad substantiam dall’art. 5 del d.l. n. 726 del 1984, Sez. L, n. 14797/2019, Ponterio, Rv. 653984-01, ha confermato l’interpretazione già resa da Sez. L, n. 05330/2006, De Renzis, Rv. 587741-01, ribadendo che il difetto della forma scritta non determina la nullità dell’intero contratto, quanto, invece, la sua conversione in un ordinario rapporto full time, con conseguente diritto del lavoratore al risarcimento del danno, commisurato alle differenze retributive tra quanto percepito e quanto dovuto in base a un orario a tempo pieno, previa costituzione in mora del datore di lavoro ex art. 1217 c.c., mediante la messa a disposizione delle energie lavorative. Peraltro, come pure già affermato da Sez. L, n. 15774/2011, Filabozzi, Rv. 618723-01, l’osservanza di un orario lavorativo pari a quello previsto per il tempo pieno è idonea a comportare, nonostante la difforme iniziale volontà delle parti, l’automatica trasformazione del rapporto part-time in altro a tempo pieno, non occorrendo, a tal fine, l’osservanza di alcun requisito formale (Sez. L, n. 20209/2019, Curcio, Rv. 654789-01).

Va, infine, evidenziato che la disciplina prevista per il lavoro part-time dall’art. 6, commi 4 e 5, del d.lgs. n. 81 del 2015, non può trovare applicazione nei rapporti di lavoro a tempo pieno, né può essere utilizzata come parametro della programmazione della prestazione lavorativa a garanzia del diritto del lavoratore di conoscere in via anticipata, in un tempo ragionevole, i propri turni di servizio (Sez. L, n. 31957/2019, Blasutto, Rv. 656005-01, con cui è stata cassata la sentenza che aveva riconosciuto ad alcuni lavoratori a tempo pieno il risarcimento del danno conseguente alla comunicazione datoriale dei turni di servizio con un preavviso inferiore alle 48 ore).

9. Altre forme contrattuali flessibili: il lavoro intermittente.

Sull’ambito di applicazione del lavoro intermittente, Sez. L, n. 29423/2019, Pagetta, Rv. 655710-01, ha chiarito che l’art. 34, comma 1, del d.lgs. 276 del 2003 rimette alla contrattazione collettiva l’individuazione delle esigenze in presenza delle quali è consentita la stipula di un contratto a prestazioni discontinue ma non il potere di veto in ordine alla utilizzabilità di tale tipologia, come si desume anche dal disposto dell’art. 40 del citato decreto, che, in caso di inerzia delle parti collettive, prevede l’intervento sostitutivo del Ministero del lavoro, misura che denota la volontà del legislatore di garantire l’operatività dell’istituto.

10. Appalto genuino e fenomeni interpositori.

Sugli indicatori suscettibili di essere valutati ai fini della genuinità dell’appalto, Sez. L, n. 15557/2019, Blasutto, Rv. 654146-01, ha precisato che l’appalto di opere o servizi espletato con mere prestazioni di manodopera è lecito purché il requisito della “organizzazione dei mezzi necessari da parte dell’appaltatore”, previsto dall’art. 29 del d.lgs. n. 276 del 2003, costituisca un servizio in sé, svolto con organizzazione e gestione autonoma dell’appaltatore, senza che l’appaltante, al di là del mero coordinamento necessario per la confezione del prodotto, eserciti diretti interventi dispositivi e di controllo sui dipendenti dell’appaltatore. Nel caso esaminato dalla Corte, favorevole alla legittimità dell’appalto, la predeterminazione delle modalità esecutive, descritte nel capitolato, rispondeva all’esigenza di adeguare la prestazione alle caratteristiche tecniche del servizio, senza incidere sull’autonomia dell’appaltatore nella gestione del rapporto di lavoro e nell’esercizio del potere disciplinare.

Peraltro, sempre sul tema dell’individuazione della linea di discrimine tra appalto lecito e somministrazione irregolare di lavoro, è stato affermato (Sez. L, n. 18815/2019, Ponterio, Rv. 654491-01) che il d.lgs. n. 163 del 2006 (cd. codice dei contratti pubblici), pur dettando una disciplina derogatoria rispetto a quella degli appalti privati, recepisce la nozione giuridica di appalto definita dall’art. 1655 c.c., con un espresso rinvio alle disposizioni del codice civile a fini integrativi, sicché anche per gli appalti pubblici di servizi trova applicazione l’elaborazione giurisprudenziale che, in materia di dissociazione fra titolare e utilizzatore del rapporto lavorativo, consente di configurare una illegittima interposizione di manodopera.

In ogni caso, anche nell’ipotesi di appalto illecito, i pagamenti a titolo contributivo effettuati dall’appaltatore valgono a liberare il committente fino a concorrenza delle somme versate, così come dispone il comma 3 bis dell’art. 29, comma 1, del d.lgs. n. 276 del 2003, che rinvia al precedente art. 27, comma 2, dando applicazione alla regola generale di cui all’art. 1180 c.c., che impone la verifica in concreto dell’avvenuta o meno integrale soddisfazione delle pretese contributive formulate dagli enti previdenziali (Sez. L, n. 18278/2019, D’Antonio, Rv. 654485-01).

Gli enti previdenziali sono comunque legittimati ad agire per far valere la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra committente e lavoratore, stante l’indisponibilità del regime previdenziale, che non può essere condizionato all’iniziativa del lavoratore che denunci l’irregolarità, avuto riguardo all’autonomia del rapporto di lavoro e di quello previdenziale, che, per quanto tra loro connessi, rimangono del tutto diversi, e tenuto altresì conto dell’interpretazione letterale dell’art. 29, comma 3 bis, del d.lgs. n. 276 del 2003, che non preclude di far valere la nullità degli atti di interposizione da parte di chiunque vi abbia interesse (Sez. L, n. 31144/2019, Amendola F., Rv. 655905-01).

10.1. La responsabilità del committente ex artt. 2087 c.c. e 29 del d.lgs. n. 276 del 2003: rinvio.

Per la rassegna delle decisioni sulla responsabilità del committente, ai sensi dell’art. 29 del d.lgs. n. 276 del 2003, si rinvia alla specifica trattazione contenuta nel capitolo sugli obblighi, responsabilità e diritti del datore e del prestatore di lavoro, in particolare parr. 2.2.1., 10., 10.1., 10.2., 10.3. e 10.4.

11. Cessione di azienda.

Sono intervenute diverse decisioni utili a delimitare il campo di applicazione dell’art. 2112 c.c. e le conseguenze normativamente riconducibili all’operatività della cessione, anche per escludere il regime decadenziale di impugnazione per il lavoratore che voglia far accertare la sussistenza del rapporto con il cessionario. Sul piano degli effetti derivanti dalla declaratoria di nullità della cessione, invece, è stata riesaminata la questione della detraibilità dell’aliunde perceptum in caso di mancato ripristino del rapporto da parte del cedente.

11.1. Ambito di applicazione ed effetti della disciplina ex art. 2112 c.c.

Sul piano della delimitazione del campo di applicazione della disciplina ex art. 2112 c.c., Sez. L, n. 04425/2019, De Gregorio, Rv. 652909-01, in continuità con Sez. L, n. 06131/2013, Fernandes, Rv. 625470-01, ha escluso che il trasferimento del pacchetto azionario di maggioranza di una società di capitali possa integrare gli estremi del trasferimento di azienda, in quanto non determina la sostituzione di un soggetto giuridico ad un altro nella titolarità dei rapporti pregressi, ma solo modifica gli assetti azionari interni sotto il profilo della loro titolarità, ferma restando la soggettività giuridica di ogni società anche se totalmente eterodiretta.

Nell’ipotesi di successione di un imprenditore ad un altro in un appalto di servizi, perché possa invocarsi il trasferimento all’impresa subentrante, occorre dimostrare in concreto che vi sia stato un trasferimento di azienda, mediante il passaggio di beni di non trascurabile entità, nella loro funzione unitaria e strumentale all’attività di impresa, o almeno del know how o di altri caratteri idonei a conferire autonomia operativa ad un gruppo di dipendenti, altrimenti ostandovi il disposto dell’art. 29, comma 3, del d.lgs. n. 276 del 2003, non in contrasto, sul punto, con la giurisprudenza euro-unitaria che consente, ma non impone, di estendere l’ambito di protezione dei lavoratori di cui alla direttiva n. 2001/23/CE ad ipotesi ulteriori rispetto a quella del trasferimento di azienda (Sez. L, n. 08922/2019, Patti, Rv. 653220-01, conforme sul punto a Sez. L, n. 24972/2016, A. Manna, Rv. 641983-01).

Nel caso in cui il trasferimento dell’azienda non derivi da un contratto tra cedente e cessionario ma sia riconducibile ad un atto autoritativo della P.A. (ipotesi su cui si era espressa in precedenza Sez. L, n. 21278/2010, Toffoli, Rv. 615174-01), quale l’assegnazione di un appalto pubblico di servizi, comportante un periodo di sospensione tra l’attività del primo e del successivo imprenditore, va applicata la disciplina ex art. 2112 c.c. – in conformità alla direttiva comunitaria 77/187/CE e all’interpretazione datane dalla Corte di Giustizia UE con le sentenze 20 novembre 2003, C-340/01, 25 gennaio 2001, C-172/99, 26 settembre 2000, C-175/99 e 14 settembre 2000, C-343/98 – purché l’entità economica, indipendentemente dal mutamento del titolare, conservi la propria identità e si accerti l’esistenza di una cessione di elementi materiali significativi tra le due imprese (Sez. L, n. 30663/2019, Garri, Rv. 655878-01).

Sul piano degli effetti della cessione, la ritenuta nullità dell’apposizione del termine ad una pluralità di contratti determina la conversione in un unico contratto a tempo indeterminato, con effetto retroattivo al momento della stipula del primo contratto a termine dichiarato illegittimo, sicché, anche ai fini dell’operatività del meccanismo di cui all’art. 2112 c.c., il rapporto rimane unico, senza soluzione di continuità, con conseguente legittimazione passiva del cessionario rispetto ai crediti retributivi derivanti dal riconoscimento della pregressa anzianità (Sez. L, n. 06867/2019, De Gregorio, Rv. 653201-01).

Sez. L, n. 29291/2019, Cinque, Rv. 655855-01, ha chiarito che la ratio di tutela dei lavoratori ceduti consiste nel garantire la conservazione di tutti i diritti derivanti dal rapporto lavorativo con l’impresa cedente, mirando alla tutela dei crediti già maturati dal lavoratore ed al rispetto dei trattamenti in vigore, ma non ad assicurare l’omogeneità dei trattamenti retributivi e normativi all’interno del complesso aziendale risultante dal trasferimento, cosicché i dipendenti dell’azienda ceduta non hanno titolo per pretendere l’estensione in loro favore delle disposizioni contrattuali più favorevoli applicabili ai lavoratori dell’impresa cessionaria. Nel caso esaminato dalla Corte, è stato ritenuto legittimo un accordo sindacale aziendale che differenziava il trattamento spettante ai dipendenti in relazione alla presenza in servizio presso la società cessionaria ad una certa data, anteriore rispetto al periodo in cui si era verificato il passaggio del personale dalla cedente.

Con riferimento all’ambito di applicazione del regime decadenziale di impugnazione, Sez. L, n. 09469/2019, Balestrieri, Rv. 653615-01 (in senso conforme, Sez. L, n. 28750/2019, Cinque, Rv. 655699-01), ha chiarito che è solo il lavoratore che intenda contestare la cessione a dover far valere detta impugnazione nel termine di cui all’art. 32, comma 4, lett. c), della l. n. 183 del 2010, mentre non vi è alcun onere di far accertare formalmente, nei confronti del cessionario, l’avvenuta prosecuzione del rapporto di lavoro, quale effetto automatico previsto dalla disciplina ex art. 2112 c.c. Il medesimo principio è stato applicato da Sez. L, n. 13648/2019, Ponterio, Rv. 653965-01, anche all’ipotesi di cessione avvenuta di fatto, come nel caso esaminato dalla Corte, in cui la lavoratrice aveva dedotto che, per effetto del distacco presso un altro datore di lavoro, seguito dalla risoluzione consensuale del rapporto di lavoro con il distaccante e dalla successiva assunzione a tempo determinato da parte del datore ‘cessionario’, si era determinata la continuazione del rapporto di lavoro ai sensi dell’art. 2112 c.c.

11.2. Conseguenze della declaratoria di nullità della cessione. La questione della detraibilità dell’aliunde perceptum.

Quanto, invece, alle conseguenze della accertata nullità della cessione del ramo di azienda, Sez. L, n. 05998/2019, Boghetich, Rv. 652899-01, ha affermato l’insensibilità del rapporto con il cedente – ancora in essere, sebbene quiescente fino alla declaratoria di nullità della cessione – rispetto alle vicende risolutive del rapporto di lavoro con il cessionario (nella specie, licenziamento dichiarato illegittimo ed esercizio del diritto di opzione per l’indennità sostitutiva della reintegra ex art. 18 della l. n. 300 del 1970), in quanto instaurato in via di mero fatto.

Inoltre, la Corte è tornata ad esaminare la questione della detraibilità di quanto percepito dal lavoratore nel periodo successivo al mancato ripristino del rapporto da parte del cedente, una volta accertata giudizialmente la nullità della cessione. Infatti, l’interpretazione resa da Sez. L, n. 16694/2018, Leone, Rv. 649247-01, in ordine alla detraibilità della retribuzione corrisposta dal cessionario al lavoratore dall’ammontare del risarcimento dovuto dal cedente, è stata rimeditata soprattutto in esito alla sentenza 28 febbraio 2019, n. 29, della Corte costituzionale, per approdare ad una soluzione maggiormente improntata al principio di effettività del dictum giurisdizionale, «che non ammette svuotamenti di tutela per la mancanza di ogni deterrente idoneo ad indurre il datore di lavoro a riprendere il prestatore a lavorare ovvero affievolimenti della forza cogente della pronuncia giudiziale che risulterebbe in concreto priva di efficacia per il protrarsi dell’inosservanza senza reali conseguenze» (così Sez. L, n. 17784/2019, Patti, Rv. 654479-01), così giungendo ad affermare il principio per cui in caso di cessione di ramo d’azienda, ove su domanda del lavoratore ceduto venga giudizialmente accertato che non ricorrono i presupposti di cui all’art. 2112 c. c., le retribuzioni in seguito corrisposte dal destinatario della cessione, che abbia utilizzato la prestazione del lavoratore successivamente alla messa a disposizione di questi delle energie lavorative in favore dell’alienante, non producono un effetto estintivo, in tutto o in parte, dell’obbligazione retributiva gravante sul cedente che rifiuti, senza giustificazione, la controprestazione lavorativa. In effetti, sancita la natura retributiva e non risarcitoria delle somme da erogarsi ai lavoratori da parte del cedente inadempiente, il ragionamento si fonda essenzialmente sulla duplicità di rapporti che viene a determinarsi per effetto della dichiarazione di nullità della cessione: il primo, giuridicamente esistente proprio in virtù della pronuncia giudiziale, fra il lavoratore ed il cedente, tenuto a corrispondere la retribuzione a seguito di formale messa in mora ed offerta delle energie lavorative da parte del lavoratore; il secondo, esistente di fatto, in virtù del materiale svolgimento della prestazione, fra il lavoratore ed il cessionario, tenuto a corrispondere la retribuzione in quanto beneficiario dell’attività lavorativa, e dunque obbligato in proprio e non quale terzo (con conseguente inapplicabilità della disciplina ex art. 1180 c.c.) né quale soggetto interposto (con conseguente inapplicabilità del regime previsto dall’art. 27 del d.lgs. n. 276 del 2003 in tema di somministrazione). Tale approdo è stato confermato da successive pronunce e può ritenersi che esprima l’attuale orientamento della Sezione (v. in particolare Sez. L, n. 21158/2019, Amendola F., Rv. 654807-01, e Sez. L, n. 21160/2019, Amendola F., Rv. 654995-01, benché quest’ultima concerna la questione – parzialmente differente – della detraibilità dell’indennità di mobilità, su cui v. anche Sez. L, n. 23306/2019, Patti, Rv. 655059-01).

Gli effetti dell’accertata nullità della cessione sono stati considerati anche dal punto di vista del nuovo e diverso rapporto che, di fatto, viene ad instaurarsi fra il lavoratore ed il soggetto già, e non più, cessionario, alle cui dipendenze il lavoratore abbia materialmente continuato a lavorare, rapporto dal quale derivano la nascita degli obblighi gravanti su qualsiasi datore di lavoro che utilizzi la prestazione lavorativa nell’ambito della propria organizzazione imprenditoriale, con conseguente imputabilità al soggetto ex cessionario, e non anche al cedente, della responsabilità per violazione dell’art. 2103 c.c. (Sez. L, n. 21161/2019, Amendola F., Rv. 654808-01).

  • licenziamento
  • diritto del lavoro

CAPITOLO XIX

IL LICENZIAMENTO INDIVIDUALE E COLLETTIVO

(di Luigi Di Paola )

Sommario

1 Potere disciplinare. - 2 Licenziamento individuale. - 2.1 La motivazione del licenziamento. - 2.2 La ratifica del licenziamento. - 2.3 La rinnovazione del licenziamento. - 2.4 La revoca del licenziamento. - 2.5 Il licenziamento orale. - 2.6 Giusta causa e giustificato motivo soggettivo di licenziamento. - 2.7 Giustificato motivo oggettivo di licenziamento. - 2.8 Licenziamento discriminatorio e ritorsivo. - 2.9 Periodo di comporto e licenziamento. - 2.10 Divieti di licenziamento. - 2.11 Licenziamento del socio di società cooperativa di produzione e lavoro. - 2.12 Il licenziamento del dirigente. - 2.13 Il licenziamento del lavoratore in età pensionabile. - 2.14 Somministrazione di lavoro e licenziamento. - 2.15 L’impugnazione del licenziamento e le decadenze. - 2.16 Applicazioni della legge “Fornero”. - 2.17 Applicazioni del d.lgs. n. 23 del 2015. - 2.18 Le conseguenze del licenziamento illegittimo. - 2.19 Il preavviso. - 3 Licenziamenti collettivi.

1. Potere disciplinare.

Le pronunce di rilievo emesse nel corso del corrente anno attengono per lo più ad aspetti di portata generale, imperniati, da un lato, sul principio di intangibilità dell’esercizio del diritto di difesa dell’incolpato nell’ambito del procedimento disciplinare, e, dall’altro, su quello del necessario contenimento, entro limiti ben precisi, del potere di intervento del giudice sulla sanzione, quale naturale prerogativa del datore.

Così, quanto al principio di necessaria corrispondenza tra addebito contestato e addebito posto a fondamento della sanzione disciplinare, Sez. L, n. 08293/2019, Amendola F., Rv. 653206-01, ha affermato che il principio in questione, che vieta di infliggere un licenziamento sulla base di fatti diversi da quelli contestati, può ritenersi violato qualora il datore di lavoro alleghi, nel corso del giudizio, circostanze nuove che, in violazione del diritto di difesa, implicano una diversa valutazione dei fatti addebitati, salvo si tratti di circostanze confermative, in relazione alle quali il lavoratore possa agevolmente controdedurre, ovvero che non modifichino il quadro generale della contestazione.

In applicazione del predetto principio è stata confermata la sentenza di merito che, rispetto ad una contestazione relativa ad irregolarità nella negoziazione di titoli di credito, commesse da un dipendente di un istituto credito, non aveva valutato, ai fini della sussistenza della giusta causa, il diverso addebito, specificato solo nel corso del giudizio, della richiesta di prestiti ad un cliente per far fronte ad una forte esposizione debitoria.

In analoga prospettiva, Sez. L, n. 10853/2019, Arienzo, Rv. 653623-01, ha puntualizzato che la necessaria correlazione dell’addebito con la sanzione deve essere garantita e presidiata, in chiave di tutela dell’esigenza difensiva del lavoratore, anche in sede giudiziale, nella quale le condotte del lavoratore medesimo sulle quali è incentrato l’esame del giudice di merito non devono nella sostanza fattuale differire da quelle poste a fondamento della sanzione espulsiva, pena lo sconfinamento dei poteri del giudice in ambito riservato alla scelta del datore di lavoro. (Nella specie, la S.C. - in relazione ad un licenziamento intimato al lavoratore per avere la commissione giudicatrice di gare di appalto, di cui egli era componente, delegato e demandato a terzi l’attività valutativa, invece del tutto omessa, a valle di un accordo illecito, senza alcuna partecipazione alle sedute - ha cassato la sentenza che aveva ritenuto legittimo il licenziamento fondato sulla diversa condotta, non contestata dal datore, consistita nell’essersi i membri della predetta commissione avvalsi dell’intervento di consulenti esterni, senza attestarne l’attività nei verbali di gara).

Sul delicato tema del procedimento di sussunzione della fattispecie concreta in quella astratta, tipizzata dalle parti collettive, Sez. L, n. 08582/2019, Marchese, Rv. 653212-01, ha evidenziato che il predetto procedimento postula l’integrale coincidenza tra le due, con conseguente impossibilità di procedere a una tale operazione logica, quando la condotta del lavoratore sia caratterizzata da elementi aggiuntivi, estranei e aggravanti, rispetto alla previsione contrattuale.

Nella specie, relativa a un caso di guida in stato di ebbrezza costituente reato, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che, sul semplice presupposto che il c.c.n.l. di settore punisse con la sanzione conservativa l’essere sotto l’effetto di sostanze alcoliche durante il servizio, aveva ritenuto illegittimo il licenziamento, senza considerare la maggiore gravità del fatto in concreto contestato.

In ordine ai limiti della rimodulazione in sede giudiziale della sanzione irrogata dal datore, Sez. L, n. 03896/2019, Garri, Rv. 652886-01, ha ribadito, in conformità ad un consolidato indirizzo, che il potere di infliggere sanzioni disciplinari e di proporzionare la gravità dell’illecito accertato rientra nel potere di organizzazione dell’impresa quale esercizio della libertà di iniziativa economica di cui all’art. 41 Cost., onde è riservato esclusivamente al titolare di esso; ne consegue che è precluso al giudice, chiamato a decidere circa la legittimità di una sanzione irrogata, esercitarlo anche solo procedendo ad una rideterminazione della sanzione stessa riducendone la misura. Solo nel caso in cui l’imprenditore abbia superato il massimo edittale e la riduzione consista, perciò, soltanto in una riconduzione a tale limite, ovvero nel caso in cui sia lo stesso datore di lavoro, costituendosi nel giudizio di annullamento della sanzione, a chiederne la riduzione, è consentito al giudice, in accoglimento della domanda del lavoratore, applicare una sanzione minore, poiché in tal modo non è sottratta autonomia all’imprenditore e si realizza l’economia di un nuovo ed eventuale giudizio valutativo, avente ad oggetto la sanzione medesima. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto che la società datrice, mediante la generica richiesta di una “valutazione anche diversa della congruità della sanzione rispetto al fatto” - priva di indicazione circa la diversa misura disciplinare irrogabile in via alternativa -, avesse demandato al giudice una valutazione discrezionale di proporzionalità tra condotta e sanzione da irrogare, e, quindi, in concreto, la scelta della misura disciplinare da adottare, così in sostanza sollecitando l’esercizio di quel potere disciplinare che è invece precluso al giudice).

Quanto alle clausole della contrattazione collettiva che scandiscono i tempi del procedimento disciplinare, Sez. L, n. 24157/2019, Marchese, Rv. 655067-01, ha precisato che l’art. 8, comma 4, del c.c.n.l. industria metalmeccanica privata del 20 gennaio 2008 si interpreta nel senso che il termine finale di sei giorni entro il quale il datore deve irrogare la sanzione trova applicazione solo in caso di presentazione delle giustificazioni, considerato che sia il predetto termine finale che la fictio dell’intervenuta accettazione delle giustificazioni sono evidentemente collegate all’esercizio, da parte del lavoratore, della specifica facoltà che l’ordinamento appresta.

In relazione alle previsioni negoziali concernenti l’incidenza della recidiva sulla sanzione applicabile, Sez. L, n. 00138/2019, Cinque, Rv. 652219-01, ha stabilito che, in tema di licenziamento disciplinare, l’art. 72 del c.c.n.l. Vetro distingue la recidiva specifica per la medesima mancanza, che consente l’immediato licenziamento senza preavviso, dalla recidiva plurima o impropria che, ai fini della legittimità del recesso, richiede, nei dodici mesi precedenti, tre pregresse sospensioni per particolari e tipici illeciti disciplinari.

Infine, con una rilevante sentenza in tema di presupposti per l’operatività dell’effetto scriminante derivante dall’esercizio del diritto di critica, Sez. L, n. 01379/2019, Amendola F., Rv. 652601-01, ha chiarito che l’apprezzamento in ordine al superamento dei limiti di continenza e pertinenza stabiliti per un esercizio lecito della critica rivolta dal lavoratore nei confronti del datore costituisce valutazione rimessa al giudice di merito, il quale, nella ricostruzione della vicenda storica, deve enucleare i fatti rilevanti nell’integrazione della fattispecie legale e motivare, rispetto a ciascuno di essi, circa il convincimento che tutti i predetti limiti siano stati rispettati, senza trascurare gli elementi che potrebbero avere influenza decisiva - il cui omesso esame può determinare una lacuna tale da non consentire l’esatta riconduzione del caso concreto alla fattispecie astratta, cagionando un errore di sussunzione rilevante ai sensi del n. 3 dell’art. 360 c.p.c. -, nonché delineando l’“iter” logico che lo ha indotto a maturare detto convincimento. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che, senza procedere alla verifica del rispetto dei limiti di continenza e pertinenza, aveva ritenuto scriminata dal diritto di critica l’affermazione, contenuta in una lettera indirizzata dal lavoratore ai vertici aziendali e agli organi di stampa, che un costoso veicolo della società non veniva utilizzato dai vertici medesimi “al solo fine di far ricorso a ditte esterne”).

2. Licenziamento individuale.

Nel corrente anno è proseguito il processo di consolidamento di orientamenti in precedenza non sufficientemente delineati, le cui più significative linee di fondo continuano a cogliersi in riferimento alle complesse questioni poste dalla disciplina introdotta dalla cd. “legge Fornero”.

Si pensi, ad esempio, allo spinoso tema della motivazione del licenziamento e delle conseguenze della sua assenza o della sua modificazione successiva all’intimazione del licenziamento stesso; o, ancora, alla problematica della necessità della tipizzazione collettiva – e se sì in che misura – delle infrazioni e correlate sanzioni conservative, affinché possa procedersi al riconoscimento della tutela reintegratoria attenuata ove la condotta punita in concreto con il licenziamento coincida invece con una di tali infrazioni.

Non sono peraltro mancati interventi volti a rivisitare insegnamenti da tempo cristallizzati ma ritenuti non in perfetta sintonia con il sistema, anche sul versante processuale (e, sul punto, è emblematica la questione della ripartizione dell’onere della prova in materia di licenziamento orale).

Si registra, peraltro, una inedita e rilevante presa di posizione su un aspetto centrale della disciplina posta dal d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, recante “Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183”, quale quello della corretta lettura della locuzione “insussistenza del fatto materiale contestato”, mantenuta, come si vedrà, in linea con i noti approdi giurisprudenziali riferiti alla disciplina posta dalla legge “Fornero”.

2.1. La motivazione del licenziamento.

Con due importanti pronunzie è stato, da un lato, ribadito, anche nello scenario delineato dalla legge “Fornero”, il divieto, per il datore, di modificare la motivazione contenuta nel recesso; dall’altro, è stata fornita la precisazione del nucleo dei fatti da esternare nella motivazione.

Quanto al primo aspetto, Sez. L, n. 07851/2019, Boghetich, Rv. 653411-01, ha affermato che il datore di lavoro non può addurre in giudizio, a giustificazione del licenziamento, fatti diversi da quelli già indicati nella motivazione enunciata al momento dell’intimazione del recesso, ma soltanto dedurre mere circostanze confermative o integrative che non mutino la oggettiva consistenza storica dei fatti anzidetti; il principio di contestualità ed immodificabilità della motivazione ha natura imperativa e la sua violazione è sanzionata con l’inefficacia del licenziamento.

Quanto al secondo, Sez. L, n. 06678/2019, Boghetich, Rv. 653196-01, ha precisato che la novellazione dell’art. 2, comma 2, della l. n. 604 del 1966 per opera dell’art. 1, comma 37, della l. n. 92 del 2012, si è limitata a rimuovere l’anomalia della possibilità di intimare un licenziamento scritto immotivato, introducendo la contestualità dei motivi, ma non ha mutato la funzione della motivazione, che resta quella di consentire al lavoratore di comprendere, nei termini essenziali, le ragioni del recesso; ne consegue che nella comunicazione del licenziamento il datore di lavoro ha l’onere di specificarne i motivi, ma non è tenuto, neppure dopo la suddetta modifica legislativa, a esporre in modo analitico tutti gli elementi di fatto e di diritto alla base del provvedimento.

Nella specie, relativa a un licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato nel 2013, la S.C. ha escluso la necessità che il datore di lavoro, avendo chiaramente indicato come motivo di recesso la sopravvenuta parziale inidoneità fisica del lavoratore, fosse anche tenuto a esporre le ragioni che rendevano impossibile rinvenire in azienda posti disponibili, compatibili con l’idoneità fisica residua.

2.2. La ratifica del licenziamento.

Sul tema della configurabilità della ratifica, Sez. L, n. 17999/2019, Blasutto, Rv. 654481-01, ha chiarito che in caso di licenziamento intimato da un organo appartenente alla struttura organizzativa del datore di lavoro (nella specie, un’organizzazione di tendenza), ma privo del potere di rappresentanza, l’atto di costituzione in giudizio, con il quale il datore resiste all’impugnativa del recesso, integra una manifestazione della volontà di far proprio quell’atto, di cui costituisce ratifica implicita, avente forma scritta.

2.3. La rinnovazione del licenziamento.

Sez. L, n. 20519/2019, Garri, Rv. 654792-01, ha ribadito, sulla scia di uno stabile indirizzo, che il licenziamento disciplinare nullo per vizi formali può essere rinnovato, in base agli stessi motivi addotti a giustificazione del precedente recesso e con l’adozione delle modalità prescritte ed omesse; ha peraltro aggiunto che non è necessaria la revoca del primo atto di risoluzione del rapporto, poiché tale rinnovazione si risolve nel compimento di un negozio diverso ed esula dallo schema dell’art. 1423 c.c., norma diretta ad impedire la sanatoria di un negozio nullo con effetti ex tunc e non a comprimere la libertà delle parti di reiterare la manifestazione della propria autonomia negoziale.

2.4. La revoca del licenziamento.

Sul delicato tema delle modalità di esternazione della revoca del licenziamento e della relativa accettazione, Sez. L, n. 03647/2019, Marchese, Rv. 652882-01, ha evidenziato che la revoca in questione non richiede la forma scritta, atteso il principio per cui i negozi risolutori degli effetti di atti che richiedono – come il licenziamento – la forma scritta non sono assoggettati ad identici requisiti formali in ragione dell’autonomia negoziale, di cui la libertà di forma costituisce, in mancanza di diversa prescrizione legale, significativa espressione; e parimenti libera, per le medesime ragioni, è la forma dell’accettazione, da parte del lavoratore, della revoca del licenziamento, che può avvenire anche in forma tacita o presunta, ma il relativo accertamento presuppone una ricostruzione della volontà abdicativa, anche attraverso elementi indiziari ex art. 2729 c.c., in termini certi e idonei a consentire di attestare, in modo univoco, la volontà del lavoratore a rinunziare ad un diritto già entrato nel suo patrimonio.

2.5. Il licenziamento orale.

Con una innovativa sentenza, Sez. L, n. 03822/2019, Amendola F., Rv. 652914-01, ha stabilito che il lavoratore che impugni il licenziamento allegandone l’intimazione senza l’osservanza della forma scritta ha l’onere di provare, quale fatto costitutivo della domanda, che la risoluzione del rapporto è ascrivibile alla volontà datoriale, seppure manifestata con comportamenti concludenti, non essendo sufficiente la prova della mera cessazione dell’esecuzione della prestazione lavorativa; nell’ipotesi in cui il datore eccepisca che il rapporto si è risolto per le dimissioni del lavoratore e all’esito dell’istruttoria - da condurre anche tramite i poteri officiosi ex art. 421 c.p.c. - perduri l’incertezza probatoria, la domanda del lavoratore andrà respinta in applicazione della regola residuale desumibile dall’art. 2697 c.c.

2.6. Giusta causa e giustificato motivo soggettivo di licenziamento.

Una particolare attenzione va riservata, anche quest’anno, alla casistica sottoposta al vaglio della Corte come ipotesi di giusta causa e giustificato motivo soggettivo di licenziamento, in ragione del cospicuo numero di pronunce intervenute in materia.

Sul profilo dell’idoneità della condotta del lavoratore a ledere l’elemento fiduciario, Sez. L, n. 12777/2019, Marchese, Rv. 653834-01, ha affermato che il rifiuto del lavoratore di adempiere la prestazione secondo le modalità indicate dal datore di lavoro è idoneo, ove non improntato a buona fede, a far venir meno la fiducia nel futuro adempimento e a giustificare pertanto il recesso, in quanto l’inottemperanza ai provvedimenti datoriali, pur illegittimi, deve essere valutata, sotto il profilo sanzionatorio, alla luce del disposto dell’art. 1460, comma 2, c.c., secondo il quale la parte adempiente può rifiutarsi di eseguire la prestazione a proprio carico solo ove tale rifiuto non risulti contrario alla buona fede, avuto riguardo alle circostanze concrete. (Nella specie, relativa a un contratto di lavoro part-time in cui la prestazione, pur fissata nella durata settimanale, non era collocata temporalmente, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto legittimo il licenziamento del lavoratore che, senza attivare la procedura ex art. 8, comma 2, del d.lgs. n. 61 del 2000, si era rifiutato reiteratamente di adempiere alla prestazione nei giorni e secondo l’orario richiesto, pur osservato pacificamente per sette mesi).

Sulla delicata tematica del rilievo da attribuirsi alle condotte poste in essere in ambito extra-lavorativo, è stato ritenuto – da Sez. L, n. 00428/2019, Di Paolantonio, Rv. 652222-01 – che il vincolo fiduciario può essere leso anche da una condotta estranea al rapporto lavorativo in atto, attinente non alla sola vita privata in senso stretto bensì a tutti gli ambiti nei quali si esplica la personalità del lavoratore e non necessariamente successiva all’instaurazione del rapporto, a condizione che, in tale secondo caso, si tratti di comportamenti appresi dal datore di lavoro dopo la conclusione del contratto e non compatibili con il grado di affidamento richiesto dalle mansioni assegnate e dal ruolo rivestito dal dipendente nell’organizzazione aziendale.

In applicazione del predetto principio, è stato giudicato legittimo il licenziamento intimato al lavoratore per fatti commessi durante un precedente rapporto lavorativo con la stessa società di riscossione dei tributi, consistenti nell’abusivo accesso al sistema informatico e in varie infedeltà patrimoniali – parzialmente posti alla base di un primo recesso oggetto di transazione novativa – ma della cui complessiva portata il datore di lavoro era venuto a conoscenza solo dopo la seconda assunzione.

Ancora, Sez. L, n. 08390/2019, Cinque, Rv. 653210-01, ha puntualizzato che la condotta extralavorativa consistente nell’aver rivolto una minaccia grave a soggetti estranei al rapporto di lavoro rende legittima la misura espulsiva solo quando si rifletta sulla funzionalità del rapporto stesso e abbia compromesso le aspettative sul futuro puntuale adempimento della prestazione, dovendosi ritenere che una simile minaccia, a differenza di quella proferita nei confronti del datore di lavoro o in ambito lavorativo, non incida intrinsecamente sugli obblighi di collaborazione, fedeltà e subordinazione cui è tenuto il dipendente.

Sul rilevante aspetto della valutazione della proporzionalità della sanzione rispetto all’infrazione contestata, Sez. L, n. 24619/2019, Negri della Torre, Rv. 655310-01, ha precisato, in una fattispecie di licenziamento disciplinare, che il giudice di merito deve esaminare la condotta del lavoratore, in riferimento agli obblighi di diligenza e fedeltà, anche alla luce del “disvalore ambientale” che la stessa assume quando, in virtù della posizione professionale rivestita, può assurgere, per gli altri dipendenti dell’impresa, a modello diseducativo e disincentivante dal rispetto di detti obblighi. (Nella specie, la S.C. ha cassato con rinvio la decisione di merito che aveva esaminato le contestazioni disciplinari elevate ad una lavoratrice senza tenere conto della particolare responsabilità e del più intenso obbligo di diligenza derivanti dalle mansioni di gerente di un punto vendita).

Sempre in tema, Sez. L, n. 18195/2019, Blasutto, Rv. 654484-01, ha evidenziato che, ai fini della valutazione di proporzionalità, è insufficiente un’indagine che si limiti a verificare se il fatto addebitato è riconducibile alle disposizioni della contrattazione collettiva che consentono l’irrogazione del licenziamento, essendo sempre necessario valutare in concreto se il comportamento tenuto, per la sua gravità, sia suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere che la prosecuzione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali, con particolare attenzione alla condotta del lavoratore che denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti e a conformarsi ai canoni di buona fede e correttezza.

Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che aveva escluso la proporzionalità della misura espulsiva, in quanto la condotta di un portalettere che aveva distrutto la corrispondenza non era riportabile ad alcuna delle fattispecie di cui all’art. 54, comma VI, del c.c.n.l. Poste Italiane del 14 aprile 2011, trascurando il pregiudizio comunque arrecato all’azienda nella sua qualità di concessionario del servizio postale universale.

Sulla connessa problematica del valore parametrico delle previsioni collettive ai fini del giudizio di gravità e proporzionalità della condotta, Sez. L, n. 13865/2019, Pagetta, Rv. 653844-01, ha stabilito che, in materia disciplinare, non è vincolante la tipizzazione contenuta nella contrattazione collettiva ai fini dell’apprezzamento della giusta causa di recesso, essendo richiesto, comunque, l’accertamento in concreto della proporzionalità tra sanzione ed infrazione, anche sotto il profilo soggettivo della colpa o del dolo, fermo restando, tuttavia, che, anche nel caso in cui proceda a valutazione autonoma della fattispecie contemplata dalla norma collettiva, il giudice del merito non può prescindere dalla considerazione del contratto collettivo e dalla scala valoriale ivi espressa nella individuazione delle ipotesi di rilievo disciplinare e nella relativa graduazione delle sanzioni. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto che l’invio sporadico, da parte del dipendente, di alcune e-mail relative ad attività lavorativa svolta per conto proprio, mediante l’utilizzo della mail di proprietà aziendale durante l’orario di lavoro, costituisse condotta punibile con sanzione conservativa, in quanto non equiparabile a quelle, esplicitamente contemplate dal contratto collettivo quali fattispecie sanzionabili con il licenziamento, connotate, sotto il profilo oggettivo, dalla concreta idoneità delle stesse ad influire in vario modo sulla funzionalità dell’organizzazione dell’impresa o sulla serenità dell’ambiente di lavoro).

Sulla stessa linea, Sez. L, n. 14063/2019, Boghetich, Rv. 653968-01, ha riaffermato che, in tema di licenziamento per giusta causa, non è vincolante la tipizzazione contenuta nella contrattazione collettiva, rientrando il giudizio di gravità e proporzionalità della condotta nell’attività sussuntiva e valutativa del giudice, avuto riguardo agli elementi concreti, di natura oggettiva e soggettiva, della fattispecie, ma la scala valoriale formulata dalle parti sociali deve costituire uno dei parametri cui occorre fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale dell’art. 2119 c.c. (Nella specie, la S.C. ha cassato la decisione del giudice di merito che aveva rigettato l’impugnativa del licenziamento irrogato per l’indebito utilizzo per acquisti della carta dipendenti, senza operare alcuna parametrazione con le previsioni di giusta causa codificate dalle parti sociali).

Resta fermo che non può essere irrogato un licenziamento per giusta causa quando questo costituisca una sanzione più grave di quella prevista dal contratto collettivo in relazione ad una determinata infrazione (così Sez. L, n. 19023/2019, Marchese, Rv. 654495-01, che ha cassato la sentenza di merito che, a fronte del contratto collettivo che prevedeva il licenziamento solo per condotte dolose, si era limitata ad accertare la natura colposa della violazione senza, peraltro, verificare se la stessa fosse punita con sanzione conservativa).

Ai fini della legittimità del licenziamento disciplinare irrogato per un fatto astrattamente costituente reato, non rileva la valutazione penalistica del fatto né la sua punibilità in sede penale, né la mancata attivazione del processo penale per il medesimo fatto addebitato, occorrendo effettuare – secondo Sez. L, n. 21549/2019, Curcio, Rv. 654647-01 – una valutazione autonoma in ordine alla idoneità del fatto a integrare gli estremi della giusta causa o giustificato motivo del recesso.

Sul tema, di carattere generale, dei limiti del sindacato di legittimità sui profili attinenti al licenziamento disciplinare, si registrano, anche quest’anno, molteplici, significative pronunzie.

Sez. L, n. 14505/2019, Ponterio, Rv. 654062-01, ha precisato che il risultato della valutazione cui è pervenuto il giudice di merito in ordine alla riconducibilità, in concreto, della condotta contestata nel paradigma del giustificato motivo di recesso (ovvero della giusta causa), è sindacabile in sede di legittimità sotto il profilo della corretta interpretazione delle previsioni contrattuali e del giudizio di sussunzione nelle stesse della condotta addebitata. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva ascritto alle condotte punibili con la sanzione del licenziamento, ai sensi dell’art. 54, comma 5, lett. c, del c.c.n.l. Poste del 14 aprile 2011, il comportamento del direttore di un ufficio postale il quale, in violazione della normativa antiriciclaggio, aveva deliberatamente omesso di segnalare innumerevoli operazioni di prelievo in contanti poste in essere da alcuni clienti).

Con specifico riguardo alla portata del giudizio di sussunzione, Sez. L, n. 13534/2019, Amendola F., Rv. 653963-01, ha evidenziato che l’attività di integrazione del precetto normativo di cui all’art. 2119 c.c. (norma cd. elastica), compiuta dal giudice di merito – ai fini della individuazione della giusta causa di licenziamento – non può essere censurata in sede di legittimità se non nei limiti di una valutazione di ragionevolezza del giudizio di sussunzione del fatto concreto, siccome accertato, nella norma generale, ed in virtù di una specifica denuncia di non coerenza del predetto giudizio rispetto agli standard, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale.

Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa di una lavoratrice che aveva aggredito fisicamente una collega sul luogo di lavoro, in quanto la ricorrente non aveva indicato i parametri integrativi del precetto normativo elastico che sarebbero stati violati dai giudici di merito, limitandosi a contrapporre una ricostruzione e valutazione dei fatti diversa rispetto a quella posta a base della decisione impugnata.

Analogamente, Sez. L, n. 14504/2019, Ponterio, Rv. 654061-01, ha affermato che l’operazione valutativa compiuta dal giudice di merito nell’applicare clausole generali come quelle della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo non sfugge ad una verifica in sede di giudizio di legittimità, sotto il profilo della correttezza del metodo seguito e del rispetto dei criteri e principi desumibili dall’ordinamento generale, a cominciare dai principi costituzionali, e dalla disciplina particolare, anche collettiva, in cui la concreta fattispecie si colloca, mentre l’applicazione in concreto del più specifico canone integrativo, così ricostruito, rientra nella valutazione di fatto devoluta al giudice di merito e non è censurabile in sede di legittimità se non per vizio di motivazione. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di merito, che aveva escluso la riconducibilità della condotta accertata all’ipotesi di cui all’art. 54, comma 5, lett. c), del c.c.n.l. Poste del 14 aprile 2001, punita col licenziamento con preavviso, in assenza del requisito richiesto del “pregiudizio alla sicurezza ed alla regolarità del servizio con gravi danni alla Società o a terzi”, ed aveva ritenuto integrata la diversa fattispecie di cui all’art. 54, comma 4, lett. j), del c.c.n.l., che commina la sanzione conservativa a fronte di “abituale negligenza oppure per abituale inosservanza di leggi o regolamenti o degli obblighi di servizio nell’adempimento della prestazione di lavoro”, applicando la tutela reintegratoria di cui all’art. 18 st.lav. novellato).

2.7. Giustificato motivo oggettivo di licenziamento.

Nel corrente anno sono state affrontate significative questioni, per lo più inerenti ai requisiti integranti la fattispecie di licenziamento per giustificato motivo oggettivo ed all’onere della prova del repechage.

Quanto al profilo concernente l’accertamento della riorganizzazione e del nesso causale, Sez. L, n. 08661/2019, Marotta, Rv. 653449-01, ha affermato che affinché possa configurarsi la legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, non è sufficiente accertare la sussistenza delle ragioni addotte dal datore di lavoro a sostegno della modifica organizzativa da lui attuata, essendo sempre necessario che dette ragioni incidano, in termini di causa efficiente, sulla posizione lavorativa ricoperta dal lavoratore licenziato, solo così potendosi verificare la non pretestuosità del recesso. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva dichiarato illegittimo il licenziamento intimato perché, pur avendo accertato la riduzione del fatturato e l’eliminazione di una specifica attività aziendale, aveva rilevato che il lavoratore licenziato, formalmente inserito nell’organigramma quale addetto a tale attività, non vi era mai stato adibito in concreto).

Si ha difetto di nesso causale, ed è quindi illegittimo il licenziamento, ove intimato per risoluzione del contratto di appalto cui il lavoratore è stato adibito con assegnazione di mansioni non coerenti con l’inquadramento spettante (così Sez. L, n. 03129/2019, Lorito, Rv. 652875-01).

Quanto all’onere probatorio in tema di repechage, Sez. L, n. 23789/2019, Blasutto, Rv. 655064-01, ha evidenziato che la dimostrazione del fatto negativo costituito dall’impossibile ricollocamento del lavoratore può essere data dal datore di lavoro con la prova di uno specifico fatto positivo contrario o mediante presunzioni dalle quali possa desumersi quel fatto negativo. (Nella specie la S.C. ha confermato la decisione di merito che aveva ritenuto illegittimo il licenziamento per la mancata prova dell’inesistenza di posizioni nelle quali poter ricollocare il lavoratore per ognuno degli appalti gestiti dal datore e per l’omessa indicazione della qualifica di inquadramento dei nuovi assunti, necessaria per valutare la fungibilità delle relative mansioni con quelle svolte dal lavoratore licenziato).

Sempre in tema, Sez. L, n. 29099/2019, Patti, Rv. 655704-01, ha precisato che, in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo a causa della soppressione del posto cui era addetto il lavoratore, il datore ha l’onere di provare non solo che al momento del licenziamento non sussistesse alcuna posizione di lavoro analoga a quella soppressa per l’espletamento di mansioni equivalenti, ma anche, in attuazione del principio di correttezza e buona fede, di aver prospettato al dipendente, senza ottenerne il consenso, la possibilità di un reimpiego in mansioni inferiori rientranti nel suo bagaglio professionale.

Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di merito che aveva ritenuto legittimo il licenziamento intimato al lavoratore in seguito all’esternalizzazione dell’attività svolta da quest’ultimo, al quale era stata previamente offerta una posizione di mansione inferiore – non esistendo posti disponibili del suo livello di inquadramento – dal medesimo rifiutata.

Sez. L, n. 31520/2019, Cinque, Rv. 655997-01, ha chiarito che in tema di licenziamento per soppressione del posto di lavoro, ai fini dell’obbligo del repechage, non vengono in rilievo tutte le mansioni inferiori dell’organigramma aziendale, ma solo quelle che siano compatibili con le competenze professionali del lavoratore, ovvero quelle che siano state effettivamente già svolte, contestualmente o in precedenza, senza che sia previsto un obbligo del datore di lavoro di fornire un’ulteriore o diversa formazione del prestatore per la salvaguardia del posto di lavoro.

Con riguardo alla peculiare fattispecie della somministrazione di lavoro a tempo indeterminato, Sez. L, n. 26607/2019, Ponterio, Rv. 655398-02, ha chiarito che il licenziamento per giustificato motivo oggettivo da parte del somministratore nei confronti del dipendente è subordinato alla prova dell’impossibilità di reperire, per un congruo periodo di tempo, occasioni di lavoro compatibili con la professionalità originaria o acquisita del lavoratore, nonché dell’impossibilità di mantenerlo in condizione di ulteriore disponibilità. (Fattispecie in cui è stata ritenuta non dimostrata l’impossibilità della ricollocazione essendo stata accertata l’esistenza, presso l’utilizzatrice, all’epoca di cessazione della missione, di numerose attività, aperte e vacanti, cui il lavoratore poteva essere assegnato).

Con la stessa pronunzia – Sez. L, n. 26607/2019, Ponterio, Rv. 655398-03 – è stato puntualizzato che lo svolgimento della procedura di riqualificazione professionale ex art. 25 del c.c.n.l. del 7 aprile 2014 non esonera il datore di lavoro, nell’ambito di un contratto di somministrazione di lavoro a tempo indeterminato, dall’onere della prova dell’impossibilità di reimpiego del dipendente, in applicazione della disciplina legale in materia, non derogata, sul punto, dalla contrattazione collettiva, potendo l’esito della procedura suddetta costituire elemento indiziario valutabile dal giudice unitamente al restante materiale probatorio.

Sulla questione del licenziamento intimato per impossibilità di svolgimento della prestazione, Sez. L, n. 29104/2019, Boghetich, 655851-01, ha ritenuto che nel rapporto di lavoro fra un istituto di vigilanza e la guardia giurata dipendente, il venir meno dei titoli abilitativi alle specifiche mansioni (decreto di nomina e/o licenza di porto d’armi) configura, ai sensi dell’art. 120 del c.c.n.l. dipendenti di istituti e imprese di vigilanza 2013-2015, un’ipotesi di impossibilità relativa della prestazione, che può comportare il recesso del datore ex art. 1464 c.c. per mancato interesse alla prosecuzione, da configurarsi quale licenziamento per giustificato motivo oggettivo, richiedente il preventivo esperimento del procedimento di conciliazione di cui all’art. 7 della l. n. 604 del 1966, come novellato dall’art. 1, comma 40, della l. n. 92 del 2012.

Sul tema del licenziamento intimato per inidoneità fisica sopravvenuta del lavoratore, derivante da una condizione di handicap, Sez. L, n. 13649/2019, Ponterio, Rv. 653966-02, ha affermato che sussiste l’obbligo della previa verifica, a carico del datore di lavoro, della possibilità di adattamenti organizzativi ragionevoli nei luoghi di lavoro ai fini della legittimità del recesso, che discende, pur con riferimento a fattispecie sottratte ratione temporis all’applicazione dell’art. 3, comma 3 bis, del d.lgs. n. 216 del 2003, di recepimento dell’art. 5 della Dir. 2000/78/CE, dall’interpretazione del diritto nazionale in modo conforme agli obiettivi posti dal predetto art. 5, considerato l’obbligo del giudice nazionale di offrire una interpretazione del diritto interno conforme agli obiettivi di una direttiva anche prima del suo concreto recepimento e della sua attuazione.

Sulla base di tale principio, la S.C. ha ritenuto illegittimo il licenziamento intimato ad un dipendente – dichiarato inidoneo alle mansioni di autista ed adibito, inizialmente, a compiti di aiuto meccanico e, successivamente, a mansioni di addetto alle pulizie, per essersi il medesimo rifiutato di svolgere tali ultime mansioni – sul rilevo che la stessa società datrice aveva dimostrato di poter adibire il lavoratore ai predetti compiti, compatibili con le menomazioni fisiche ed in adempimento dell’obbligo di adozione di accorgimenti ragionevoli esigibili.

Sulla individuazione della nozione di disabilità, ai fini della tutela in materia di licenziamento, Sez. L, n. 13649/2019, Ponterio, Rv. 653966-01, ha precisato che la nozione in questione deve essere costruita in conformità al contenuto della Direttiva n. 78/2000/CE del 27 novembre 2000, sulla parità di trattamento in materia di occupazione, come interpretata dalla CGUE, quindi quale limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature che, in interazione con barriere di diversa natura, possono ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori.

Nello stesso senso è Sez. L, n. 29289/2019, Blasutto, Rv. 655853-01, la quale ha confermato la decisione del giudice di merito, che, nell’ambito di una procedura ex l. n. 223 del 1991, aveva dichiarato illegittimo perché discriminatorio il licenziamento del lavoratore cui, per sopravvenuta inidoneità fisica alle mansioni svolte, non era stato attribuito alcun punteggio aggiuntivo rispetto agli altri dipendenti non affetti da disabilità.

È stato inoltre precisato – da Sez. L, n. 27502/2019, Pagetta, Rv. 655524-01 – che ai fini dell’accertamento dell’obbligo, posto a carico del datore di lavoro dall’art. 3, comma 3-bis, del d.lgs. n. 216 del 2003, della verifica della possibilità di adottare adattamenti organizzativi nei luoghi di lavoro, il lavoratore deve allegare e provare la limitazione risultante dalle proprie menomazioni fisiche, mentali e psichiche durature e il fatto che tale limitazione, in interazione con barriere di diversa natura, si traduca in un ostacolo alla propria partecipazione, piena ed effettiva, alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori, posto che non ogni situazione di infermità fisica che renda il lavoratore inidoneo alle mansioni di assegnazione risulta ex se riconducibile alla nozione di disabilità di cui alla disposizione suddetta.

2.8. Licenziamento discriminatorio e ritorsivo.

Con una rilevante pronuncia Sez. L, n. 14254/2019, Lorito, Rv. 653974-01, ha affermato che é discriminatorio e produce gli effetti reintegratori e risarcitori di cui all’art. 18, comma 1, della l. n. 300 del 1970, come modificato dalla l. n. 92 del 2012, il licenziamento collettivo di lavoratrici intimato in violazione dell’art. 5, comma 2, della l. n. 223 del 1991 (come modificato dall’art. 6, comma 5-bis, del d.l. n. 148 del 1993, inserito in sede di conversione con l. n. 236 del 1993), quando la percentuale femminile di manodopera licenziata è superiore a quella delle addette alle medesime mansioni proprie dell’ambito aziendale interessato dalla procedura.

In tema di comportamenti datoriali discriminatori, nel caso di discriminazione diretta la disparità di trattamento è determinata dalla condotta, nel caso di discriminazione indiretta la disparità vietata è l’effetto di un atto, di un patto, di una disposizione, di una prassi in sé legittima; ne consegue che, essendo diversi i presupposti di fatto e, conseguentemente, le allegazioni che devono sorreggere le rispettive azioni, viola il principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato il giudice che senza una specifica richiesta, ed in mancanza di specifiche allegazioni, pur nell’identità del petitum, muti la causa petendi e qualifichi come diretta la discriminazione indiretta prospettata dalla parte. (In applicazione di tale principio, Sez. L, n. 20204/2019, Garri, Rv. 654788-01, ha cassato la sentenza di merito che aveva qualificato come richiesta di accertamento di discriminazione diretta la domanda di un lavoratore, che chiedeva venisse dichiarato nullo il licenziamento intimatogli per essere indirettamente discriminatoria la disciplina collettiva sul comporto quando applicata ai lavoratori disabili, sostituendo la causa petendi dedotta con altra fondata su un fatto diverso da quello allegato).

Quanto al licenziamento ritorsivo, Sez. L, n. 09468/2019, Blasutto, Rv. 653614-01, ha rilevato che il motivo illecito addotto ex art. 1345 c.c. deve essere determinante, cioè costituire l’unica effettiva ragione di recesso, ed esclusivo, nel senso che il motivo lecito formalmente addotto risulti insussistente nel riscontro giudiziale; ne consegue che la verifica dei fatti allegati dal lavoratore, ai fini dell’applicazione della tutela prevista dall’art. 18, comma 1, st.lav. novellato, richiede il previo accertamento della insussistenza della causale posta a fondamento del licenziamento. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che, invece di vagliare in via preliminare il giustificato motivo oggettivo addotto, aveva operato un indebito giudizio di comparazione tra i motivi ritorsivi indicati dal lavoratore e le ragioni datoriali).

Sul ricorrente tema dell’onere della prova, Sez. L, n. 23583/2019, Blasutto, Rv. 655062-01, ha ribadito che l’onere in questione grava sul lavoratore, ben potendo, tuttavia, il giudice di merito valorizzare a tal fine tutto il complesso degli elementi acquisiti al giudizio, compresi quelli già considerati per escludere il giustificato motivo oggettivo, nel caso in cui questi elementi, da soli o nel concorso con altri, nella loro valutazione unitaria e globale consentano di ritenere raggiunta, anche in via presuntiva, la prova del carattere ritorsivo del recesso.

Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che, dopo avere escluso la sussistenza in concreto del giustificato motivo, aveva posto in relazione tra loro gli elementi indiziari acquisiti al giudizio, unitamente alla circostanza della contiguità temporale tra il rientro dalla malattia del lavoratore e l’intimazione del recesso, così ritenendo – secondo una valutazione dell’id quod plerumque accidit – che l’iniziativa datoriale non trovasse altra plausibile spiegazione se non nella rappresaglia per la lunga malattia.

2.9. Periodo di comporto e licenziamento.

Sez. L, n. 5752/2019, Balestrieri, Rv. 652923-01, ha stabilito che, in tema di licenziamento per superamento del comporto, il datore di lavoro non deve specificare i singoli giorni di assenza, potendosi ritenere sufficienti indicazioni più complessive, anche sulla base del novellato art. 2 della l. n. 604 del 1966, che impone la comunicazione contestuale dei motivi, fermo restando l’onere di allegare e provare compiutamente in giudizio i fatti costitutivi del potere esercitato; tale principio, tuttavia, trova applicazione nel comporto cd. “secco” (unico ininterrotto periodo di malattia), ove i giorni di assenza sono facilmente calcolabili anche dal lavoratore, mentre, nel comporto cd. per sommatoria (plurime e frammentate assenze) occorrerà una indicazione specifica delle assenze computate, in modo da consentire la difesa al lavoratore. (Nella specie, la S.C. ha cassato la decisione del giudice di merito che, in una ipotesi di comporto per sommatoria, aveva ritenuto irrilevante la mancata risposta del datore alla richiesta del lavoratore di specificazione del numero di assenze).

Con una significativa pronuncia, Sez. L, n. 19661/2019, Marchese, Rv. 654740-01, ha evidenziato che nei rapporti di lavoro ai quali non si applica l’art. 18 della l. n. 300 del 1970, secondo la normativa ratione temporis vigente, gli effetti del licenziamento dichiarato nullo, ai sensi dell’art. 2110, comma 2, c.c., perché intimato in mancanza del superamento del periodo cd. di comporto, non sono regolati, in via di estensione analogica, dalla disciplina dettata dall’art. 8 della l. n. 604 del 1966, bensì, in assenza di una espressa regolamentazione, da quella generale del codice civile.

2.10. Divieti di licenziamento.

Il diritto alla conservazione del posto di lavoro del dipendente collocato in congedo straordinario ex art. 42, comma 5, del d.lgs. n. 151 del 2001, per la necessità di prestare assistenza ad un congiunto in situazione di disabilità grave, pone un divieto al licenziamento fondato sulla fruizione del congedo medesimo ed è finalizzato a garantire al lavoratore la certezza di un trattamento economico e di sostegno per il periodo di assistenza, analogamente a quanto avviene per la malattia. Ne consegue – secondo Sez. L, n. 05425/2019, Marchese, Rv. 652919-01 – che il recesso datoriale intimato al lavoratore per ogni altra causa, diversa e legittima, durante la fruizione del congedo, non è nullo, bensì, al più, inefficace fino al termine dello stesso.

2.11. Licenziamento del socio di società cooperativa di produzione e lavoro.

In conformità alla ricostruzione operata da Sez. U, n. 27436/2017, Perrino, Rv. 646129-01, Sez. L, n. 08386/2019, Blasutto, Rv. 653209-01, ha ribadito che in tema di estinzione del rapporto del socio lavoratore di cooperativa, ove per le medesime ragioni afferenti al rapporto lavorativo siano stati contestualmente emanati la delibera di esclusione ed il licenziamento, l’omessa impugnativa della delibera di esclusione non fa venire meno l’interesse del lavoratore ad impugnare il licenziamento, atteso che l’effetto estintivo del rapporto di lavoro derivante dall’esclusione dalla cooperativa, preclusivo della tutela restitutoria, non elide, di per sé, l’illegittimità del licenziamento, cui si può porre rimedio con la tutela risarcitoria.

Stesso principio è stato affermato da Sez. L, n. 08224/2019, Cinque, Rv. 653412-01, la quale ha precisato che la tutela risarcitoria deve essere modulata secondo i criteri di cui all’art. 8 della l. n. 604 del 1966 (ed ha quindi cassato la decisione di merito che aveva riconosciuto ai soci lavoratori – in conformità alle domande avanzate in giudizio – la tutela risarcitoria ex artt. 7 e 18, comma 6, st.lav. novellato).

2.12. Il licenziamento del dirigente.

Sez. L, n. 09665/2019, Pagetta, Rv. 653618-01, ha riaffermato che nell’ipotesi di licenziamento individuale del dirigente d’azienda, cui, ai sensi dell’art. 10 della l. n. 604 del 1966, non trova applicazione la disciplina limitativa dei licenziamenti, la nozione di giustificatezza del recesso si discosta da quella di giustificato motivo ed è ravvisabile ove sussista l’esigenza, economicamente apprezzabile in termini di risparmio, della soppressione della figura dirigenziale in attuazione di un riassetto societario e non emerga, in base ad elementi oggettivi, la natura discriminatoria o contraria a buona fede della riorganizzazione; il giudice deve limitarsi al controllo sull’effettività delle scelte imprenditoriali poste a base del licenziamento, non potendo sindacare il merito di tali scelte, garantite dal precetto di cui all’art. 41 Cost.

Sulla base di tale principio, la S.C. ha confermato la decisione del giudice di appello che, senza entrare nel merito delle scelte datoriali, aveva ritenuto insussistente il nesso di causalità tra la situazione rappresentata nella lettera di licenziamento e la soppressione del posto di responsabile marketing.

Con una rilevante sentenza, Sez. L, n. 05372/2019, Arienzo, Rv. 652776-01, ha evidenziato che quando l’erogazione delle indennità collegate alla cessazione del rapporto di lavoro presupponga, in base al c.c.n.l. di settore, che il licenziamento non sia giustificato, l’ingiustificatezza può formare oggetto di un accertamento incidentale nel giudizio sulle spettanze economiche, senza necessità di un’autonoma impugnazione del licenziamento; ne consegue che la mancata presentazione o l’intervenuta prescrizione della domanda di annullamento del recesso datoriale non precludono l’esame della domanda relativa alle indennità.

Con riguardo ad una questione particolare concernente i presupposti per il riconoscimento dell’indennità supplementare al trattamento di fine rapporto prevista per i dirigenti di azienda dall’accordo interconfederale del 27 aprile 1995, Sez. L, n. 24355/2019, Negri della Torre, Rv. 655129-01, ha precisato che la predetta indennità deve essere riconosciuta al dipendente nel caso in cui il licenziamento sia obiettivamente causato da ristrutturazione, riorganizzazione, riconversione o crisi aziendale, non essendo necessario che ad esso consegua una effettiva cesura del rapporto di lavoro e che il dipendente versi, pertanto, in stato di disoccupazione. (In applicazione del suddetto principio, la S.C. ha cassato la pronuncia di merito che aveva negato l’emolumento in presenza di un licenziamento intimato da una società posta in amministrazione straordinaria, seguito da riassunzione ad opera del cessionario, quale speciale modalità di trasferimento del lavoratore ex art. 5, comma 2 ter, del d.l. n. 347 del 2003, conv. dalla l. n. 39 del 2004).

2.13. Il licenziamento del lavoratore in età pensionabile.

Le sentenze meritevoli di segnalazione riguardano, anche quest’anno, la nota questione relativa alle modalità di risoluzione del rapporto.

Sez. L, n. 00521/2019, Ponterio, Rv. 652227-01, ha rimarcato, nel solco di un indirizzo che può dirsi consolidato, che nel lavoro privato, ai fini della risoluzione del rapporto per limiti di età anagrafica del lavoratore, il datore di lavoro è tenuto a comunicare per iscritto il proprio recesso, con osservanza dei termini di preavviso, atteso che il compimento dell’età pensionabile o il raggiungimento dei requisiti per l’attribuzione del diritto al trattamento pensionistico di vecchiaia da parte del lavoratore, determinano soltanto il venir meno del regime di stabilità del rapporto (con conseguente recedibilità ad nutum) ma non anche l’automatica estinzione dello stesso, che, in assenza di un valido atto risolutivo del datore di lavoro, è destinato a proseguire, con diritto del lavoratore alla retribuzione, anche successivamente al compimento del sessantacinquesimo anno di età.

Il recesso ad nutum non è però consentito – per Sez. L, n. 00435/2019, Amendola F., Rv. 652226-01 - nei confronti della lavoratrice in età pensionabile ed in possesso dei requisiti per la pensione di anzianità, posto che solamente la maturazione del diritto al pensionamento di vecchiaia incide sul regime del rapporto di lavoro, come desumibile dall’art. 4, comma 2, della l. n. 109 del 1990, norma insuscettibile di applicazione analogica, che, nell’escludere la tutela reale per i licenziamenti illegittimi nei confronti dei prestatori di lavoro ultrasessantenni aventi i requisiti pensionistici, fa riferimento ai presupposti per l’accesso alla pensione di vecchiaia (e non di anzianità), solo al verificarsi dei quali il lavoratore ha l’onere di impedire la cessazione del regime di stabilità, entro un certo termine decadenziale, esercitando l’opzione per la prosecuzione del rapporto di lavoro.

2.14. Somministrazione di lavoro e licenziamento.

Con una sentenza (già in precedenza menzionata al § 2.7) che non fa registrare precedenti in termini, Sez. L, n. 26607/2019, Ponterio, Rv. 655398-01, ha affermato che in tema di somministrazione di lavoro a tempo indeterminato, al rapporto tra agenzia e dipendente si applica la disciplina dei licenziamenti individuali, restando indifferenti, rispetto alle tutele inderogabili del lavoro subordinato, le vicende del contratto commerciale; ne consegue che la grave mancanza del lavoratore, anche ove idonea a determinare la cessazione della missione, può integrare giusta causa o giustificato motivo soggettivo di licenziamento solo se ricorrano i presupposti previsti dall’art. 2119 c.c. o dall’art. 3 della l. n. 604 del 1966, così come non costituiscono di per sé giustificato motivo oggettivo la cessazione della missione presso l’utilizzatore e l’estinzione del contratto tra quest’ultimo e l’agenzia.

2.15. L’impugnazione del licenziamento e le decadenze.

Sez. L, n. 00523/2019, Ponterio, Rv. 652563-01, nel ribadire che l’azione per far valere l’inefficacia del licenziamento verbale non è subordinata all’impugnazione stragiudiziale, anche a seguito delle modifiche apportate dall’art. 32 della l. n. 183 del 2010 all’art. 6 della l. n. 604 del 1966, mancando l’atto scritto da cui la norma fa decorrere il termine di decadenza, ha cassato la decisione di merito che, a fronte della domanda di costituzione del rapporto di lavoro proposta ai sensi dell’art. 29, comma 3-bis, del d.lgs. n. 276 del 2003, ha accolto l’eccezione di decadenza ritenendo presuntivamente provato il licenziamento intimato dall’appaltatore per effetto del subentro di altra impresa, in mancanza di un atto scritto di recesso.

Ponendo fine a passate incertezze applicative, Sez. L, n. 16416/2019, Di Paolantonio, Rv. 654358-01, ha precisato che la procura alle liti, conferita dal lavoratore al difensore in vista dell’impugnazione del licenziamento, attribuisce al procuratore il potere di compiere tutte le attività, anche stragiudiziali, alle quali è condizionato il valido esercizio dell’azione, sicché ove la procura stessa venga rilasciata in data antecedente all’atto di impugnazione ex art. 6 della l. n. 604 del 1966, quest’ultimo, se sottoscritto dal solo difensore, spiega effetti nella sfera giuridica del rappresentato anche nell’ipotesi in cui al datore di lavoro non sia stato contestualmente comunicato in copia l’atto attributivo del potere di rappresentanza, dovendosi ritenere che l’anteriorità della procura rispetto all’atto di impugnazione escluda che si sia in presenza di attività compiuta da falsus procurator e renda dunque inapplicabile la disciplina della ratifica ex art. 1399 c.c. Ai fini della dimostrazione della anteriorità del rilascio rispetto al deposito del ricorso, la procura ex art. 83 c.p.c. è assistita da efficacia privilegiata anche in relazione alla data di compimento dell’atto, attestata dal difensore nell’esercizio di una funzione pubblicistica.

In senso analogo, in precedenza, Sez. 6-L, 00018/01/2019, n. 1444, Cavallaro, Rv. 652612-01, ha affermato che l’impugnativa stragiudiziale ex art. 6 della l. n. 604 del 1966 può efficacemente essere eseguita in nome e per conto del lavoratore licenziato dal suo difensore previamente munito di apposita procura, senza che il suddetto rappresentante abbia l’onere di comunicarla o documentarla, nel termine di cui al citato articolo, al datore di lavoro, salvo che questi non gliene faccia richiesta prima della scadenza del termine di sessanta giorni (e comunque prima che il lavoratore agisca in giudizio) ai sensi dell’art. 1393 c.c., applicabile ex art. 1324 c.c. anche agli atti unilaterali.

In conformità ad un precedente dello scorso anno (Sez. L, n. 27948/2018, Amendola F., Rv. 651389-01), Sez. L, n. 14057/2019, Marchese, Rv. 653967-01, ha ribadito che, ai sensi del riformulato art. 6 della l. n. 604 del 1966, se alla richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato effettuata dal lavoratore consegue il rifiuto datoriale, che si perfeziona, senza che occorra alcuna comunicazione alla DTL o al prestatore, con il mancato deposito presso la commissione della memoria difensiva nei venti giorni successivi al ricevimento della richiesta, il lavoratore è tenuto a depositare, in virtù della previsione del comma 2 del citato art. 6, il ricorso al giudice nel termine di decadenza di sessanta giorni, decorrente dal perfezionamento del rifiuto, senza che trovi applicazione – in ragione della natura speciale della disciplina – la regola generale della sospensione dei termini di decadenza di cui all’art. 410, comma 2, c.p.c.

Quanto all’azione giudiziale con la quale si contesti la legittimità del licenziamento, Sez. L, n. 09675/2019, Torrice, Rv. 653619-01, ha puntualizzato, in sintonia con un indirizzo che va progressivamente affermandosi, che la predetta azione resta circoscritta all’atto e non è idonea a estendere l’oggetto del processo al rapporto, non essendo equiparabile a quella con la quale si fanno valere diritti autodeterminati; ciò in quanto la disciplina della invalidità del licenziamento è caratterizzata da specialità, rispetto a quella generale della invalidità negoziale, desumibile dalla previsione di un termine di decadenza per impugnarlo e di termini perentori per il promovimento della successiva azione di impugnativa; ne consegue che il giudice non può rilevare di ufficio una ragione di nullità del licenziamento diversa da quella eccepita dalla parte. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione che non aveva rilevato d’ufficio la violazione, dedotta tardivamente dal lavoratore, dell’art. 55 bis del d.lgs. n. 165 del 2001, nella parte in cui dispone che il procedimento disciplinare deve essere concluso entro il termine di 120 giorni dalla sua apertura).

2.16. Applicazioni della legge “Fornero”.

Le questioni innescate dalla riforma del 2012 hanno nel corrente anno trovato pressoché definitiva soluzione.

Per comodità di trattazione verranno dapprima esaminate quelle concernenti il licenziamento disciplinare – ove, tra l’altro, è affrontata la problematica della valenza delle previsioni della contrattazione collettiva ai fini della tutela applicabile – e, successivamente, quelle relative al recesso per giustificato motivo oggettivo, ove abbonda la casistica in tema di “manifesta insussistenza del fatto”.

È stata riconfermata – da Sez. L, n. 03655/2019, Balestrieri, Rv. 652870-01 – la tesi secondo cui l’insussistenza del fatto contestato, che rende applicabile la tutela reintegratoria ai sensi dell’art. 18, comma 4, st. lav., come modificato dall’art. 1, comma 42, lett. b), della l. n. 92 del 2012, comprende anche l’ipotesi del fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità, come nel caso del dipendente che, durante il periodo di assenza per malattia, svolga un’altra attività lavorativa, senza che ciò determini, per le sue concrete modalità di svolgimento, alcun rischio di aggravamento della patologia né alcun ritardo nella ripresa del lavoro, e dunque senza violazione degli obblighi di buona fede e correttezza nell’esecuzione del rapporto.

Secondo Sez. L, n. 19579/2019, Patti, Rv. 654501-01, qualora il comportamento addebitato al lavoratore, consistente nel rifiuto di rendere la prestazione secondo determinate modalità, sia giustificato dall’accertata illegittimità dell’ordine datoriale e dia luogo pertanto a una legittima eccezione d’inadempimento, il fatto contestato deve ritenersi insussistente perché privo del carattere dell’illiceità, con conseguente applicazione della tutela reintegratoria attenuata. (Nella specie, a fronte della variazione dell’orario di lavoro decisa dal datore in forza di una clausola di flessibilità prevista dal c.c.n.l., il rifiuto della lavoratrice, lungi dall’essere frutto di una scelta unilaterale ed arbitraria, è stato ritenuto legittimato da una specifica statuizione giudiziale, in ragione di certificate esigenze di tutela della salute).

Il fatto contestato va ritenuto insussistente nell’ipotesi di querela presentata dal lavoratore nei confronti dei superiori gerarchici, costituendo la medesima esercizio di un diritto ove non risulti provata la finalità calunniosa (così Sez. L, n. 25799/2019, Garri, Rv. 655390-02, in fattispecie in cui il lavoratore aveva denunziato per falsa testimonianza alcuni colleghi e superiori chiamati in qualità di testi su circostanze articolate dal datore di lavoro nell’ambito di un giudizio civile intentato contro quest’ultimo per il riconoscimento di mansioni superiori, senza che fosse stata accertata la consapevolezza del lavoratore medesimo circa la falsità dei fatti denunziati in sede penale).

Nel caso di pluralità di addebiti, l’insussistenza del fatto contestato è configurabile solo qualora nessuno degli addebiti – ciascuno autonomamente considerato da presumere base idonea per giustificare la sanzione – sia sussistente o se, comunque, possa dirsi che anche i fatti accertati come verificatisi siano disciplinarmente del tutto irrilevanti (così Sez. L, n. 26764/2019, Bellé, Rv. 655514-02).

Sempre in tema, Sez. L, n. 31529/2019, Boghetich, 655998-01, ha precisato che nel caso di licenziamento disciplinare intimato per una pluralità di distinti ed autonomi comportamenti, solo alcuni dei quali risultino dimostrati, la “insussistenza del fatto” si configura qualora possa escludersi la realizzazione di un nucleo minimo di condotte che siano astrattamente idonee a giustificare la sanzione espulsiva, o se si realizzi l’ipotesi dei fatti sussistenti ma privi del carattere di illiceità, ferma restando la necessità di operare, in ogni caso, una valutazione di proporzionalità tra la sanzione ed i comportamenti dimostrati; ne consegue che, nell’ipotesi di sproporzione tra sanzione e infrazione, va riconosciuta la tutela risarcitoria se la condotta dimostrata non coincida con alcuna delle fattispecie per le quali i contratti collettivi o i codici disciplinari applicabili prevedono una sanzione conservativa, ricadendo la proporzionalità tra le “altre ipotesi” di cui all’art. 18, comma 5, della l. n. 300 del 1970, come modificato dall’art. 1, comma 42, della l. n. 92 del 2012, per le quali è prevista la tutela indennitaria cd. forte.

Nell’affermare che, ove risulti accertata una condotta inquadrata nell’ambito di quelle punite dal contratto collettivo solo con sanzione conservativa, va riconosciuta, a fronte dell’intimato licenziamento disciplinare, la tutela reintegratoria di cui all’art. 18, comma 4, st. lav., come modificato dall’art. 1, comma 42, della l. n. 92 del 2012, Sez. L, n. 02288/2019, Pagetta, Rv. 652566-01, ha cassato la sentenza di merito che aveva invece accordato la tutela indennitaria cd. forte in una ipotesi in cui non era stato investito di censura il presupposto, affermato nella stessa sentenza, della riconducibilità delle condotte contestate nelle previsioni collettive non tipizzate – relative alla trascuratezza nell’adempimento degli obblighi contrattuali, ovvero alla trasgressione dei regolamenti interni – per le quali il contratto collettivo prevedeva la sanzione conservativa.

Con una significativa pronunzia, Sez. L, n. 12365/2019, Boghetich, Rv. 653758-01, ha chiarito che ove la condotta addebitata al lavoratore abbia un pari disvalore disciplinare rispetto a quelle punite dal c.c.n.l. con sanzione conservativa, il giudice, sebbene gli sia precluso applicare la tutela reintegratoria alle ipotesi non tipizzate dalla contrattazione collettiva – giacché, nel regime introdotto dalla l. n. 92 del 2012, tale tutela costituisce l’eccezione alla regola rappresentata dalla tutela indennitaria, presupponendo l’art. 18, comma 4, della l. n. 300 del 1970, l’abuso consapevole del potere disciplinare, che implica una conoscenza preventiva, da parte del datore di lavoro, della illegittimità del provvedimento espulsivo, derivante o dalla insussistenza del fatto contestato o dalla chiara riconducibilità della condotta tra le fattispecie ritenute dalle parti sociali inidonee a giustificare l’espulsione del lavoratore –, se ritiene che tale condotta non costituisca comunque giusta causa o giustificato motivo soggettivo di licenziamento, utilizzando la graduazione delle infrazioni disciplinari articolate dalle parti collettive come parametro integrativo delle clausole generali di fonte legale, ai sensi dell’art. 30, comma 3, del d.lgs. n. 183 del 2010, potrà dichiarare illegittimo il recesso e, risolto il rapporto di lavoro, applicare la tutela indennitaria prevista dall’art. 18, comma 5, della l. n. 300 del 1970. (Nella fattispecie, relativa a un lavoratore sorpreso dal proprio superiore gerarchico, durante il turno di lavoro notturno, addormentato presso una diversa zona dello stabilimento, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che, ritenuta tale condotta assimilabile al cd. abbandono del posto di lavoro, infrazione punita dal c.c.n.l. addetti Industria Metalmeccanica con sanzione conservativa, aveva applicato la tutela reintegratoria).

Su analoga problematica, Sez. L, n. 19578/2019, Patti, Rv. 654500-01, ha precisato che l’accesso alla tutela reale di cui all’art. 18, comma 4, st. lav., divenuta eccezionale a seguito della modifica introdotta dalla l. n. 92 del 2012, presuppone una valutazione di proporzionalità della sanzione conservativa al fatto in addebito tipizzata dalla contrattazione collettiva, potendosi procedere ad un’interpretazione estensiva delle clausole contrattuali soltanto ove esse appaiano inadeguate per difetto dell’espressione letterale rispetto alla volontà delle parti, tradottasi in un contenuto carente rispetto all’intenzione.

Sulla base di tale principio, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che, in un caso di inosservanza delle fasce di reperibilità, aveva riconosciuto la tutela reintegratoria attenuata in assenza di apposita previsione sulla base di una valutazione comparativa di minore gravità rispetto alle ipotesi punite con sanzione conservativa, quali la simulazione di malattia ovvero le assenze arbitrarie di durata non superiore a cinque giorni.

Stesso principio è stato ribadito da Sez. L, n. 31839/2019, Amendola F., 656001-01, con la precisazione che non è possibile procedere ad un’interpretazione estensiva delle clausole contrattuali nel caso in cui il risultato sia quello di ridurre la portata della norma costituente la regola con l’introduzione di nuove eccezioni (conseguendone che solo ove il fatto contestato e accertato sia espressamente contemplato da una previsione di fonte negoziale vincolante per il datore di lavoro, che tipizzi la condotta del lavoratore come punibile con sanzione conservativa, il licenziamento illegittimo sarà anche meritevole della tutela reintegratoria).

In senso analogo, Sez. L, n. 13533/2019, Pagetta, Rv. 653962-01, ha puntualizzato che l’accesso alla tutela reale di cui all’art. 18, comma 4, st. lav., come modificato dalla l. n. 92 del 2012, presuppone una valutazione di proporzionalità fra sanzione conservativa e fatto in addebito tipizzata dalla contrattazione collettiva, mentre, laddove il c.c.n.l. rimetta al giudice la valutazione dell’esistenza di un simile rapporto di proporzione in relazione al contesto, al lavoratore spetta la tutela indennitaria di cui all’art. 18, comma 5, st. lav., non ravvisandosi in tale disciplina una disparità di trattamento – connessa alla tipizzazione o meno operata dalle parti collettive delle condotte di rilievo disciplinare – bensì l’espressione di una libera scelta del legislatore, fondata sulla valorizzazione dell’autonomia collettiva in materia.

Sez. L, n. 29102/2019, Amendola F., Rv. 655706-01, ha riconfermato, sulla scia di Sez. L, n. 10435/2018, Boghetich, Rv. 648343-01, il principio per cui la verifica del requisito della “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento” concerne entrambi i presupposti di legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo e, quindi, sia le ragioni inerenti all’attività produttiva, l’organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento di essa sia l’impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore.

In applicazione del suddetto principio, la S.C. ha confermato la sentenza di merito nella quale era stata ravvisata l’illegittimità del licenziamento, con conseguente applicazione dell’art. 18, comma 4, st. lav. novellato, per non esser stata, tra l’altro, in alcun modo provata dal datore la impossibilità di ricollocare il lavoratore in altra postazione lavorativa, risultando così integrata la evidente e facilmente verificabile assenza di uno dei presupposti giustificativi del licenziamento cui è riferibile il suddetto requisito.

Ricorre l’ipotesi della “manifesta insussistenza del fatto”, di cui al comma 7 dell’art. 18, st. lav., come novellato dalla l. n. 92 del 2012, allorché il nesso causale tra il riassetto organizzativo e la soppressione del posto di lavoro occupato dal lavoratore licenziato sia eliso da una condotta datoriale obiettivamente e palesemente artificiosa, in quanto diretta all’esercizio di un potere di selezione arbitraria del personale da licenziare, come tale integrante il presupposto per l’applicazione della tutela di cui al comma 4 del predetto art. 18 (così Sez. L, n. 07167/2019, Negri della Torre, Rv. 653429-01, che ha confermato la sentenza di merito che aveva disposto la reintegrazione di una lavoratrice, licenziata a seguito della soppressione del reparto cui era addetta, sul rilievo che la collocazione della stessa presso tale reparto, destinato ad essere soppresso in breve tempo, era avvenuta in evidente esubero).

Sempre in argomento, Sez. L, n. 29101/2019, Amendola F., Rv. 655705-01, ha evidenziato che la ritenuta mancanza di un nesso causale tra recesso datoriale e motivo addotto a suo fondamento è sussumibile nell’alveo di quella particolare evidenza richiesta per integrare la manifesta insussistenza del fatto che giustifica, ai sensi dell’art. 18, comma 7, l. n. 300 del 1970, come modificato dalla l. n. 92 del 2012, la tutela reintegratoria attenuata. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito nella quale era stato ritenuto che la giustificazione addotta a supporto del licenziamento, incentrata sul venir meno dell’attività dal lavoratore dedicata al telegiornale ed alle trasmissioni di un canale televisivo ceduto dalla società datoriale ad altra emittente televisiva, fosse stata smentita dall’istruttoria, essendo emerso che il predetto lavoratore, al momento del recesso, era adibito in via prevalente ad altre mansioni, rimanendo così escluso il necessario nesso causale tra la cessione del canale televisivo ed il licenziamento).

Non è sussumibile – per Sez. L, n. 00181/2019, Marchese, Rv. 652220-01 – nell’alveo della manifesta insussistenza del fatto, che va riferita solo ad una evidente, e facilmente verificabile sul piano probatorio, assenza dei presupposti di legittimità del recesso, l’insufficienza probatoria in ordine all’adempimento dell’obbligo di repêchage.

Sez. L, n. 29893/2019, Patti, Rv. 655719-02, ha stabilito che in caso di licenziamento per sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore, il tema della ricollocazione del prestatore in ambito aziendale rientra nel cd. obbligo di repêchage, la cui verifica incide sul requisito della “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento”, previsto dall’art. 18, comma 7, st.lav. novellato, da intendere come una evidente e facilmente verificabile assenza dei presupposti legittimanti il recesso, che ne consenta di apprezzare la chiara pretestuosità, con accertamento di merito incensurabile, in quanto tale, in sede di legittimità. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto immune da censure la decisione della Corte territoriale di riconoscere la tutela reintegratoria attenuata in un caso in cui il lavoratore, divenuto fisicamente inidoneo, aveva accettato di svolgere le mansioni inferiori assegnategli, sia pure contestando l’inquadramento applicato).

Il licenziamento causato dal trasferimento d’azienda non è nullo ma annullabile per difetto di giustificato motivo oggettivo, in quanto l’art. 2112 c.c. non pone un generale divieto di recesso datoriale ma si limita ad escludere che la vicenda traslativa possa di per sé giustificarlo; ne consegue che il licenziamento intimato in vista di una futura fusione societaria – non ancora attuale al momento del recesso – concretizza l’ipotesi della manifesta insussistenza del fatto (così Sez. L, n. 03186/2019, Balestrieri, Rv. 652879-01).

Sulla scorta di un precedente (Sez. L, n. 10435/2018, Boghetich, Rv. 648343-02) dell’anno scorso, Sez. L, n. 02930/2019, Bellé, Rv. 652605-02, ha ribadito che ai fini dell’applicazione della tutela reintegratoria prevista dall’art. 18, comma 4, st. lav., come novellato dalla l. n. 92 del 2012, il giudice è tenuto ad accertare che vi sia una evidente e facilmente verificabile assenza dei presupposti giustificativi del licenziamento e, in caso di esito positivo di tale verifica, a procedere all’ulteriore valutazione discrezionale sulla non eccessiva onerosità del rimedio, essendo altrimenti applicabile la sola tutela risarcitoria di cui all’art. 18, comma 5. (Nella specie, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza di merito che, omettendo completamente le suddette verifiche, aveva riconosciuto la tutela reale in favore di una giornalista adibita a un ufficio di corrispondenza all’estero come collaboratrice fissa, sulla base della semplice constatazione che il datore di lavoro non aveva provato il venir meno dell’esigenza di tale figura professionale).

Sez. L, n. 08660/2019, Marotta, Rv. 653213-01, ha evidenziato che la procedura di conciliazione prevista dall’art. 7 della l. n. 604 del 1966, come novellato dall’art. 1, comma 40, della l. n. 92 del 2012, deve essere attivata prima dell’intimazione del licenziamento; qualora invece l’attivazione sia successiva alla formale comunicazione del recesso, il datore di lavoro incorre in una violazione procedurale rilevante ai fini dell’applicazione della tutela prevista dall’art. 18, comma 6, della l. n. 300 del 1970, senza che ciò tuttavia determini una sospensione del termine per impugnare il licenziamento stabilito dall’art. 6 della stessa l. n. 604 del 1966.

2.17. Applicazioni del d.lgs. n. 23 del 2015.

Con la prima pronuncia intervenuta in relazione alla disciplina dettata dal d.lgs. n. 23 del 2015, avente ad oggetto un tema tra i più spinosi, anche con implicazioni sull’interpretazione di analoga previsione introdotta dalla legge “Fornero”, Sez. L, n. 12174/2019, Marchese, Rv. 653756-01, ha precisato che “l’insussistenza del fatto materiale” contestato al lavoratore, ai fini della pronuncia reintegratoria di cui all’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 23 del 2015, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, comprende non soltanto i casi in cui il fatto non si sia verificato nella sua materialità, ma anche tutte le ipotesi in cui il fatto, materialmente accaduto, non abbia rilievo disciplinare.

2.18. Le conseguenze del licenziamento illegittimo.

Con una rilevante pronunzia, Sez. L, n. 29105/2019, Boghetich, Rv. 655852-01, ha affermato che in tema di somministrazione di lavoro a tempo indeterminato, l’ultima retribuzione globale di fatto, cui dev’essere commisurata l’indennità risarcitoria in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo dichiarato illegittimo, deve essere parametrata al tipo di danno subito dal lavoratore, id est la prosecuzione della missione presso l’utilizzatore, nel caso di indebita interruzione della stessa, ovvero la prosecuzione della disponibilità del lavoratore, nel caso in cui la cessazione del rapporto con l’utilizzatore non sia imputabile all’agenzia; ne consegue che il risarcimento corrisponderà, nel primo caso, alla retribuzione percepita presso l’utilizzatore, e, nel secondo caso, all’indennità di disponibilità percepita dal lavoratore al momento del licenziamento.

In applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la decisione di merito che aveva commisurato l’indennità risarcitoria alla retribuzione da ultimo percepita presso l’utilizzatore, sul rilievo che il licenziamento era stato dichiarato illegittimo perché il lavoratore aveva concluso la missione nonostante non fosse risultata provata la contemporanea interruzione del contratto commerciale tra datore di lavoro-utilizzatore e agenzia.

Con riferimento ad una questione specifica, Sez. L, n. 00086/2019, Ponterio, Rv. 652536-01, ha puntualizzato che l’indennità supplementare al trattamento di fine rapporto prevista per i dirigenti di azienda dall’accordo interconfederale del 27 aprile 1995 deve essere riconosciuta al dipendente nel caso in cui il licenziamento sia obiettivamente causato da ristrutturazione, riorganizzazione, riconversione o crisi aziendale, al di là della motivazione formalmente adottata dal datore di lavoro.

In materia di computo dei prestatori di lavoro ai fini dell’applicabilità dell’art. 18 st.lav., Sez. L, n. 06947/2019, Patti, Rv. 653083-01, ha precisato che a seguito della disciplina introdotta dalla legge 3 aprile 2001, n. 142, in una società cooperativa anche i soci lavoratori con rapporto di lavoro subordinato devono essere computati ai fini del requisito dimensionale per l’applicazione del regime di stabilità del rapporto di lavoro, con la conseguenza della fruibilità anche dai lavoratori dipendenti non soci della tutela prevista dall’art. 18 l. n. 300 del 1970, nel testo novellato dall’art. 1, comma 42, l. n. 92 del 2012.

Quanto al vecchio testo dell’art. 18 st. lav., Sez. L, n. 15379/2019, Patti, Rv. 654106-01, ha evidenziato che nell’ipotesi di ordine di reintegrazione del lavoratore ai sensi dell’art. 18, comma 4, della l. n. 300 del 1970, nel testo applicabile anteriormente alle modifiche apportate dalla l. n. 92 del 2012, il diritto al ripristino del rapporto e al risarcimento del danno non è subordinato, diversamente da quanto accade nel caso di conversione a tempo indeterminato di un contratto a tempo determinato per nullità del termine, alla messa in mora del datore di lavoro mediante l’offerta della prestazione lavorativa da parte del lavoratore, atteso che quest’ultimo mette a disposizione le proprie energie lavorative già con l’impugnativa in via stragiudiziale del recesso illegittimo, a fronte del rifiuto datoriale di riceverne la prestazione, manifestato con l’intimazione del licenziamento. (Nella specie, la S.C. ha censurato la decisione di merito che, dopo la sentenza di accertamento dell’illegittimità di un licenziamento intimato da una società poi fallita, con relative condanne reintegratoria e risarcitoria, aveva escluso dallo stato passivo il credito del lavoratore, avente per oggetto le retribuzioni maturate nel periodo successivo alla sentenza, sul presupposto dell’assenza di prova dell’offerta della prestazione alla società datrice per esserne riassunto).

Con riguardo agli effetti della riforma della pronuncia di primo grado sulle poste economiche derivanti dalla declaratoria di illegittimità dell’atto espulsivo, Sez. L, n. 21617/2019, Negri della Torre, Rv. 655010-01, ha affermato che l’indennità spettante al lavoratore illegittimamente licenziato ha natura esclusivamente risarcitoria del danno subito per l’illegittimo licenziamento, così che, in caso di riforma della sentenza che aveva dichiarato l’illegittimità del recesso, le somme percepite dal lavoratore perdono il loro titolo legittimante – in quanto viene meno l’illecito civile ascritto al datore di lavoro – e debbono essere conseguentemente restituite fin dal momento della riforma.

Sempre in tema, Sez. L, n. 05759/2019, Boghetich, Rv. 652924-01, ha evidenziato che in caso di illegittimità del licenziamento, il diritto riconosciuto al lavoratore dall’art. 18, comma 3, della l. n. 300 del 1970, come modificato dalla l. n. 92 del 2012, di optare fra la reintegrazione nel posto di lavoro e l’indennità sostitutiva, in quanto atto negoziale autonomo nell’esercizio di un diritto potestativo derivante dalla declaratoria di illegittimità del licenziamento, non soggiace agli effetti espansivi della sentenza di riforma previsti dall’art. 336, comma 2, c.p.c.

Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza della corte di appello che, in sede di revocazione, aveva ritenuto estinto il rapporto di lavoro di un dirigente che aveva esercitato l’opzione all’esito della fase sommaria del cd. rito Fornero, benché la pronuncia di nullità del licenziamento fosse stata riformata nel giudizio di opposizione prima di essere nuovamente dichiarata in sede di reclamo.

2.19. Il preavviso.

Con una significativa sentenza intervenuta in materia di “contratti di prossimità”, Sez. L, n. 19660/2019, Garri, Rv. 654739-01, ha affermato che in tema di contrattazione aziendale, le specifiche intese ex art. 8 del d.l. n. 138 del 2011, conv. con modif. in l. n. 148 del 2011, in quanto normativamente preordinate, tra l’altro, a finalità di gestione di crisi aziendali ed occupazionali, possono operare anche in deroga alle disposizioni di legge in tema di conseguenze del recesso dal rapporto di lavoro, prevedendo l’esclusione del trattamento sostitutivo a titolo di mancata effettuazione del preavviso, che, nell’ambito di un’operazione di licenziamento collettivo, mira ad assicurare un minor costo sociale dell’operazione in questione e a salvaguardare la prosecuzione dell’attività d’impresa.

Sez. L, n. 09268/2019, Ponterio, Rv. 653613-01, ha precisato che, in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, lo stato di gravidanza sopravvenuto durante il periodo di preavviso se non è causa di nullità del recesso - per la quale rileva, ai sensi dell’art. 54, comma 5, del d.lgs. n. 151 del 2001, il momento in cui il licenziamento è intimato e non quando diviene efficace – costituisce evento idoneo a determinare la sospensione del periodo di preavviso ex art. 2110 c.c., con conseguente applicabilità della relativa disciplina.

3. Licenziamenti collettivi.

I temi di maggior rilievo affrontati nell’anno vertono sulle questioni: a) dei limiti del sindacato giudiziale sull’iniziativa datoriale; b) del rispetto delle procedure, soprattutto sul versante degli obblighi di comunicazione; c) della determinazione della platea dei lavoratori da licenziare e della delimitazione dei criteri di scelta.

Quanto alla prima questione, Sez. L, n. 01515/2019, Lorito, Rv. 652602-01, ha chiarito che la cadenzata procedimentalizzazione del provvedimento datoriale di messa in mobilità, qualificata dalla devoluzione alle parti sociali di un controllo preventivo sulla ricorrenza delle ragioni sottese alla procedura di riduzione del personale, non esclude che il giudice possa verificare l’intento elusivo del datore di lavoro nel far ricorso alla procedura in questione, mediante un accertamento di fatto dell’intera vicenda che ha portato al licenziamento. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza del giudice di merito, il quale aveva accertato che la totale cessazione dell’attività produttiva – addotta dalla società a giustificazione della mancata adozione di alcun criterio di scelta del personale in eccedenza – non si era in realtà verificata, in quanto la predetta società aveva acquisito ulteriori commesse durante la procedura di mobilità, e, subito dopo la chiusura di quest’ultima, aveva appaltato parte dei lavori a ditte esterne nonché proceduto alla riassunzione di alcuni dipendenti).

Quanto alla seconda, Sez. L, n. 25807/2019, Amendola F., Rv. 655393-01, ha rimarcato che il termine di sette giorni previsto dall’art. 4, comma 9, della l. n. 223 del 1991, come modificato dalla l. n. 92 del 2012, per l’invio delle comunicazioni ai competenti uffici del lavoro ed alle organizzazioni sindacali, ha carattere cogente e perentorio e la sua violazione determina l’invalidità del licenziamento, a prescindere dalla circostanza che i lavoratori abbiano successivamente avuto conoscenza di tutti gli elementi che la comunicazione deve comunque avere ovvero che non sia stato dimostrato il danno derivante dalla mancata comunicazione, atteso che detta comunicazione è finalizzata a consentire alle OO.SS. (e, tramite queste, anche ai singoli lavoratori) il controllo tempestivo sulla correttezza procedimentale dell’operazione posta in essere dal datore di lavoro, anche al fine di acquisire ogni elemento di conoscenza e non comprimere lo spatium deliberandi riservato al lavoratore per l’impugnazione del recesso nel termine di decadenza di cui all’art. 6 della l. n. 604 del 1966.

Sulla terza, Sez. L, n. 05373/2019, Patti, Rv. 652777-01, ha puntualizzato che in tema di licenziamento collettivo per riduzione di personale nell’ambito delle imprese cui si applica il c.c.n.l. del 31 maggio 2011 relativo ai servizi di pulizia e servizi integrati/multi servizi, qualora il progetto di ristrutturazione non si riferisca in modo esclusivo ad una specifica unità produttiva, nella determinazione della platea dei lavoratori da licenziare occorre fare riferimento all’intero complesso aziendale, ai sensi dell’art. 5 della l. n. 223 del 1991, restando irrilevante che i lavoratori adibiti a un determinato appalto siano stati assunti in azienda in adempimento dell’obbligo di assunzione che grava sull’impresa subentrante in tale appalto, in forza dell’art. 4 del citato c.c.n.l.

L’annullamento del licenziamento collettivo per violazione dei criteri di scelta ai sensi dell’art. 5 della l. n. 223 del 1991 non può essere domandato indistintamente da ciascuno dei lavoratori licenziati ma soltanto da coloro che, tra essi, abbiano in concreto subito un pregiudizio per effetto della violazione, perché avente rilievo determinante rispetto alla collocazione in mobilità dei lavoratori stessi (così Sez. L, n. 13871/2019, Piccone, Rv. 653845-01).

Sez. L, n. 32387/2019, Cinque, Rv. 656052-01, ha affermato che non assume rilievo, ai fini dell’esclusione della comparazione con i lavoratori di equivalente professionalità addetti alle unità produttive non soppresse e dislocate sul territorio nazionale, la circostanza che il mantenimento in servizio di un lavoratore appartenente alla sede soppressa esigerebbe il suo trasferimento in altra sede, con aggravio di costi per l’azienda e interferenza sull’assetto organizzativo, atteso che, ove manchi o sia viziato l’accordo sui criteri di scelta con le organizzazioni sindacali, operano i criteri legali sussidiari previsti dall’art. 5, comma 1, della l. n. 223 del 1991, che non contempla tra i suoi parametri la sopravvenienza di costi aggiuntivi connessi al trasferimento di personale o la dislocazione territoriale delle sedi, rispondendo la regola legale all’esigenza di assicurare che i procedimenti di ristrutturazione delle imprese abbiano il minor impatto sociale possibile e non potendosi aprioristicamente escludere che il lavoratore, destinatario del provvedimento di trasferimento a seguito del riassetto delle posizioni lavorative in esito alla valutazione comparativa, preferisca una diversa dislocazione alla perdita del posto di lavoro.

È stato precisato – da Sez. L, n. 26029/2019, Amendola F., Rv. 655395-01 – che, nel caso di licenziamento collettivo, la violazione della quota di riserva prescritta dall’art. 3 della l. n. 68 del 1999 rientra nell’ipotesi di “violazione dei criteri di scelta” in quanto assunti in contrasto con espressa previsione legale, ai sensi dell’art. 5, comma 3, della l. n. 223 del 1991, con conseguente applicazione della tutela reintegratoria ex art. 18, comma 4, st.lav. novellato, quale opzione interpretativa rispettosa del dettato normativo e conforme alla finalità della disciplina – anche sovranazionale – in materia, posta a speciale protezione del disabile.

Con riferimento a fattispecie peculiare, Sez. L, n. 14800/2019, Blasutto, Rv. 653985-01, ha affermato che l’ambito della verifica da effettuare per disporre il collocamento in mobilità ex art. 4 della l. n. 223 del 1991 abbraccia l’impresa nel suo complesso e può estendersi anche a posizioni lavorative non comprese nel trattamento di integrazione salariale. Ne consegue che il provvedimento con il quale il lavoratore è stato collocato in CIGS non assume alcun rilievo in sede di impugnativa del licenziamento conseguente al collocamento in mobilità, la cui legittimità deve essere valutata con esclusivo riferimento agli accordi sindacali che ne costituiscono il fondamento specifico.

Sull’ampia premessa che il collegamento economico-funzionale tra imprese di un medesimo gruppo non comporta il venir meno dell’autonomia delle singole società dotate di personalità giuridica distinta e non determina ex se l’estensione degli obblighi inerenti al rapporto di lavoro con una di esse alle altre dello stesso gruppo, mentre la codatorialità nell’impresa di gruppo presuppone l’inserimento del lavoratore nell’organizzazione economica complessiva cui appartiene il datore di lavoro formale nonché la condivisione della prestazione del medesimo, al fine di soddisfare l’interesse di gruppo, da parte delle diverse società, che esercitano i tipici poteri datoriali e diventano datori sostanziali, anche ai fini dell’applicazione delle disposizioni in tema di licenziamento collettivo, Sez. L, n. 00267/2019, Ponterio, Rv. 652540-01, ha confermato la decisione di merito che, ravvisata una situazione di codatorialità per avere il lavoratore prestato la propria attività indistintamente per più imprese del gruppo, essendo sottoposto ai poteri direttivi della capofila, aveva dichiarato illegittimo il recesso disposto nell’ambito di una procedura di licenziamento collettivo riferita alla singola realtà aziendale invece che all’impresa di gruppo.

SEZIONE SECONDA IL RAPPORTO DI LAVORO PUBBLICO CONTRATTUALIZZATO

  • personale di guida
  • professione sanitaria
  • assunzione
  • retribuzione del lavoro
  • mobilità professionale
  • diritti sindacali
  • pubblica amministrazione

CAPITOLO XX

IL RAPPORTO DI LAVORO PUBBLICO CONTRATTUALIZZATO

(di Giuseppe Nicastro, Giovanni Armone )

Sommario

1 Il rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni: introduzione. Giurisdizione, lavoro flessibile e lavoro a tempo determinato: rinvio. - 2 La costituzione del rapporto di lavoro: assunzioni, reclutamenti, stabilizzazioni. - 3 Retribuzione e altri trattamenti economici. - 4 Classificazione del personale: categorie, qualifiche e mansioni. - 5 Vicende del rapporto. - 6 Mobilità. - 7 Diritti sindacali. - 8 Illeciti disciplinari: questioni procedimentali e sostanziali. - 9 La cessazione del rapporto di lavoro. - 10 La dirigenza. - 10.1 La dirigenza del comparto sanitario. - 11 La scuola: docenti e personale ATA. - 12 I rapporti di lavoro nelle società cd. in house.

1. Il rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni: introduzione. Giurisdizione, lavoro flessibile e lavoro a tempo determinato: rinvio.

La materia del pubblico impiego privatizzato ha formato oggetto anche nel 2019 di numerosi interventi della giurisprudenza di legittimità, che saranno di seguito passati in rassegna secondo un criterio che guarda anzitutto allo sviluppo cronologico del rapporto lavorativo, vale a dire dal momento costitutivo alla sua cessazione, passando per le sue diverse vicende modificative e per la materia disciplinare.

Due paragrafi specifici saranno poi dedicati alla dirigenza, con particolare attenzione a quella sanitaria.

Nella parte finale saranno poi analizzate le pronunce sul personale scolastico e quelle che riguardano i rapporti alle dipendenze delle società partecipate dallo Stato o da altri enti pubblici.

Per le decisioni in tema di giurisdizione nel pubblico impiego, nonché per quelle sul lavoro flessibile e a termine, a parte quelle concernenti le supplenze nella scuola, si fa rinvio invece al capitolo sul lavoro flessibile, par. 3.12.

2. La costituzione del rapporto di lavoro: assunzioni, reclutamenti, stabilizzazioni.

L’accesso al lavoro nelle pubbliche amministrazioni continua a essere regolato, anche dopo la privatizzazione, da regole stringenti, in ossequio ai princìpi sanciti nell’art. 97 Cost. (legalità, imparzialità, buon andamento, accesso mediante concorso).

Nell’ambito della legislazione ordinaria, la norma-chiave è costituita dall’art. 35 del d.lgs. n. 165 del 2001, in cui è stata codificata la nota scissione tra la fase di reclutamento e quella di assunzione a tempo indeterminato, mediante contratto individuale di lavoro.*

I vizi della procedura di reclutamento possono essere vagliati dal giudice amministrativo o dal giudice ordinario, a seconda che la procedura sia concorsuale o meno.

Qualora la controversia rientri nella cognizione del g.o., Sez. L, n. 00268/2019, Tricomi I., Rv. 652541-01, ha ricordato come l’art. 63, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001 attribuisca al giudice ampi poteri di accertamento, costitutivi e di condanna: pertanto, in caso di omessa valutazione di tutti gli aspiranti, in violazione della lex specialis stabilita dal bando e dei principi di correttezza, buona fede e buon andamento dell’amministrazione, ben può il giudice non solo dichiarare l’illegittimità della procedura selettiva svolta e della scelta così effettuata, ma anche ordinarne la rinnovazione.

Sul versante delle conseguenze che i vizi del reclutamento possono produrre sul singolo rapporto di lavoro, va anzitutto menzionata Sez. L, n. 03644/2019, Di Paolantonio, Rv. 652874-01.

Nel caso sottoposto all’attenzione del giudice di legittimità, davvero complesso e peculiare, l’assunzione viziata, il provvedimento di suo annullamento da parte dell’organo amministrativo di controllo e la sentenza del T.A.R., passata in giudicato, demolitoria dell’atto di annullamento per incompetenza risalivano a un’epoca anteriore alla privatizzazione. Successivamente, in epoca post privatizzazione (e dunque sotto la giurisdizione del g.o.), l’Amministrazione aveva nuovamente annullato l’atto di nomina. La Corte ha precisato che il giudicato amministrativo, eccepito dal lavoratore la cui nomina era stata annullata per la seconda volta, si forma solo in relazione ai vizi dell’atto di cui sia stata accertata la sussistenza o l’insussistenza; ne consegue che la pronuncia con cui il g.a. determini la caducazione per incompetenza di tale deliberazione non preclude all’Amministrazione, in sede di autotutela e al fine di evitare l’illegittimo esborso di risorse pubbliche, la possibilità di assumere le medesime determinazioni assunte con l’atto annullato dal giudice, con il solo limite di non incorrere nel vizio già accertato in sede giudiziale.

Nel regime privatizzato, la sottoscrizione del contratto individuale può avvenire solo a seguito del corretto espletamento delle procedure concorsuali previste dall’art. 35, comma 1, lett. a, del d.lgs. n. 165 del 2001, o per le qualifiche meno elevate nel rispetto delle modalità di avviamento di cui al combinato disposto di cui al richiamato art. 35, comma 1, lett. b, e dell’art. 23 del d.P.R. n. 487 del 1994.

La mancanza o la illegittimità di tali procedure si traduce in un vizio genetico del contratto, affetto pertanto da nullità, che l’amministrazione, in quanto tenuta a conformare il proprio operato alle norme inderogabili di legge, può unilateralmente far valere perché anche nei rapporti di diritto privato il contraente può rifiutare l’esecuzione del contratto nel caso in cui il vizio renda il negozio assolutamente improduttivo di effetti giuridici.

Sez. L, n. 11951/2019, Di Paolantonio, Rv. 653751-01, e Sez. L, n. 17002/2019, Di Paolantonio, Rv. 654364-01, hanno fatto applicazione delle due regole appena sintetizzate in un caso di mancato rispetto delle quote di riserva, imposte per legge, stabilendo che la violazione rende invalida la graduatoria dei vincitori e determina la nullità del contratto di lavoro stipulato con un aspirante all’assunzione non ricompreso nella categoria protetta nei casi in cui il posto di lavoro doveva essere assegnato ad un riservatario. L’art. 63, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001, nel prevedere un’automatica incidenza sul rapporto della pronuncia che accerta la violazione delle norme inerenti all’assunzione, configura infatti non già il vizio dell’annullabilità, ma quello, rilevabile d’ufficio, della nullità.

Sez. L, n. 30992/2019, Marotta, Rv. 655886-01, se n’è occupata, giungendo alle stesse conclusioni, in un caso di violazione delle norme concorsuali sull’attribuzione dei punteggi.

Il rispetto delle procedure di reclutamento non è d’altronde sufficiente a superare altri limiti posti dal d.lgs. n. 165 del 2001, come evidenziato da Sez. L, n. 08671/2019, Bellè, Rv. 653215-01, in un caso in cui la P.A. aveva attinto alle graduatorie formate all’esito di procedure concorsuali regolari per l’individuazione del lavoratore assunto a termine, o con altre forme di lavoro flessibile, il quale pretendeva poi la conversione e l’assunzione in quanto il contratto a termine era stato illegittimamente prorogato: la S.C. ha con nettezza ribadito che il divieto di conversione del rapporto a tempo indeterminato, di cui all’art. 36, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001, non ammette eccezioni e si applica anche nei casi in cui l’individuazione del lavoratore assunto a termine, o con altre forme di lavoro flessibile, è avvenuta utilizzando le graduatorie di procedure concorsuali ovvero all’esito delle procedure di reclutamento ex art. 35.

Con riferimento all’altra modalità di accesso all’impiego pubblico, quella delineata dall’art. 35, comma 1, lett. b) e consistente nell’avviamento degli iscritti nelle liste di collocamento per le qualifiche e profili per i quali è richiesto il solo requisito della scuola dell’obbligo, Sez. L, n. 25169/2019, Bellè, Rv. 655318-01, ha ribadito che essa rappresenta solo una semplificazione dello strumento tecnico (il pubblico concorso), ma non il superamento delle esigenze di trasparenza ed imparzialità insite nel concetto di concorsualità e imposte dall’art. 97 Cost.; a tanto consegue che anche tali assunzioni vanno effettuate nel rispetto della graduatoria risultante dalle liste delle circoscrizioni territorialmente competenti, avuto riguardo agli iscritti alla prima classe delle liste medesime, secondo quanto precisato dalla l. n. 56 del 1987, art. 10, comma 1, lett. a) e cioè lavoratori disoccupati o in cerca di prima occupazione, ovvero lavoratori con occupazione temporanea subordinati o autonomi.

La nullità del contratto individuale di lavoro può poi derivare anche da altri vizi, come la produzione di falsi documentali o di dichiarazioni non veritiere da parte del lavoratore assunto.

Sez. L, n. 18699/2019, Bellè, Rv. 654488-01, ha però tracciato un’importante distinzione, precisando che tali infedeltà sono causa di decadenza, allorquando comportino la carenza di un requisito che avrebbe in ogni caso impedito l’instaurazione del rapporto di lavoro con la P.A; nelle altre ipotesi, le produzioni o dichiarazioni false effettuate in occasione o ai fini dell’assunzione possono comportare, una volta instaurato il rapporto, il licenziamento, ai sensi dell’art. 55-quater, lett d), del d.lgs. n. 165 del 2001, in esito al relativo procedimento disciplinare ed a condizione che, valutate tutte le circostanze del caso concreto, la misura risulti proporzionata rispetto alla gravità dei comportamenti tenuti.

Un ostacolo generale all’accesso all’impiego nella P.A. è poi dato da provvedimenti legislativi di blocco delle assunzioni per ragioni di contenimento della spesa pubblica.

In una vicenda concernente il mancato espletamento, da parte di una Regione, delle procedure per le progressioni verticali di carriera previste dalla contrattazione collettiva, Sez. L, n. 11779/2019, Tria, Rv. 653746-01, ha ritenuto corretta l’inerzia dell’ente regionale, sul presupposto che il blocco delle assunzioni e delle progressioni verticali, previsto dall’art. 1, comma 95, della l. n. 311 del 2004, si estenda agli enti locali, dovendo essere letto in combinato disposto con il comma 98 dello stesso articolo, che ha fissato precisi limiti alla spesa pubblica degli enti locali, in particolare di quella concernente il personale; né detta norma viola l’art. 117 Cost. perché, quale espressione del potere statale di coordinamento della finanza pubblica, incide solo indirettamente sulla organizzazione amministrativa dell’Ente.

Una precisazione in tema di concorsi pubblici per il personale del Servizio Sanitario Nazionale è stata fornita da Sez. L, n. 28437/2019, Bellè, Rv. 655606-01: l’art. 39, comma 12, della l. n. 449 del 1997, nel prevedere l’utilizzabilità entro il 31 dicembre 1998 delle graduatorie approvate successivamente al 31 dicembre 1993, attribuisce rilevanza alla data di “approvazione”, rimandando al fatto storico dell’adozione di tale atto, e non al momento in cui lo stesso è stato pubblicato o è divenuto efficace.

3. Retribuzione e altri trattamenti economici.

Come è noto, anche per i dipendenti delle amministrazioni pubbliche il trattamento economico è regolato contrattualmente (art. 2, comma 3, del d.lgs. n. 165 del 2001).

In proposito, va anzitutto segnalata Sez. L, n. 31387/2019, Di Paolantonio, Rv. 655995-01, che ha statuito che, nel pubblico impiego privatizzato – dove il rapporto di lavoro è disciplinato esclusivamente dalla legge e dalla contrattazione collettiva – non possono essere attribuiti trattamenti economici non previsti da tali fonti, nemmeno se di miglior favore. Da ciò la conseguenza che il trattamento economico previsto dai c.c.n.l. per i dirigenti medici di struttura complessa non può essere rivendicato da chi, al di fuori delle procedure concorsuali e selettive disciplinate dagli stessi contratti, sia stato preposto a una struttura che, seppure definita complessa dall’atto aziendale, non risponde ai requisiti richiesti dalle disposizioni regolamentari e collettive.

Sez. L, n. 06553/2019, Torrice, Rv. 653190-01, in continuità con Sez. L, n. 19043/2017, Boghetich, Rv. 645265-01, ha precisato la portata del principio di parità di trattamento sancito dall’art. 45 del d.lgs. n. 165 del 2001, chiarendo che esso vieta trattamenti individuali migliorativi o peggiorativi rispetto a quelli previsti dalla contrattazione collettiva ma non costituisce parametro per giudicare le differenziazioni operate in questa sede, in quanto il legislatore ha lasciato piena autonomia alle parti sociali di prevedere trattamenti differenziati in funzione dei diversi percorsi formativi, delle specifiche esperienze maturate e delle diverse carriere professionali. La Corte ha in particolare escluso che integrasse una violazione del principio di parità di trattamento la previsione dell’art. 64 del c.c.n.l. area dirigenza sanitaria del 1996, là dove, nel riconoscere ai dirigenti avvocati e procuratori appartenenti al ruolo professionale, quale incentivo, lo specifico compenso di cui al r.d. n. 1578 del 1933, li esclude dall’indennità premio per la prestazione individuale, attribuita dall’art. 61 del medesimo contratto collettivo agli altri dirigenti.

Sempre riguardo alla portata del principio di parità di trattamento, con specifico riferimento al personale assunto a contratto dalle rappresentanze diplomatiche, dagli uffici consolari e dagli istituti di cultura (art. 45, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001), Sez. L, n. 16755/2019, Di Paolantonio, Rv. 654243-01, ha statuito che esso non può rivendicare una retribuzione diversa e superiore rispetto a quella pattuita nel contratto individuale se non per difformità dai parametri indicati dall’art. 157 del d.P.R. n. 18 del 1967, attuativi del precetto di cui all’art. 36 Cost., ovvero, per i rapporti assoggettati alla legge italiana, dalla contrattazione collettiva. Lo stesso personale non può invece invocare, come parametro per quantificare la “giusta” retribuzione, un trattamento di miglior favore riconosciuto a un altro dipendente assegnato alla stessa sede con le medesime mansioni.

Al rapporto di lavoro pubblico contrattualizzato si applica, altresì, il principio generale di irriducibilità della retribuzione, il quale vieta ogni peggioramento ingiustificato del trattamento economico antecedentemente maturato. È conseguenza di tale principio la statuizione di Sez. L, n. 21475/2019, Torrice, Rv. 654852-01, secondo cui l’indennità di cui agli artt. 12, comma 4, della l. n. 146 del 1980 e 11, comma 2, della l. n. 358 del 1991, spettante al personale già in servizio al SECIT e avente natura retributiva stabile e continuativa, non è venuta meno e non ha mutato i suoi caratteri né a seguito della privatizzazione del rapporto di impiego pubblico e dell’intervento della contrattazione collettiva, né per effetto della soppressione del SECIT, ai sensi dell’art. 45 del d.l. n. 112 del 2008, conv. con modif. dalla l. n. 133 del 2008, con la conseguente conservazione dell’emolumento già percepito.

Sempre sul piano dei principi, fa applicazione di quello di corrispettività, di cui all’art. 2126 c.c., Sez. L, n. 03314/2019, Torrice, Rv. 652868-01, la quale ha chiarito che, qualora sia accertato che la prestazione lavorativa, resa in forza di un contratto formalmente qualificato di collaborazione autonoma ex art. 7, comma 6, del d.lgs. n. 165 del 2001, ha di fatto assunto i caratteri della subordinazione – sulla base di indici sintomatici quali la continuità della prestazione lavorativa, l’inserimento del lavoratore nell’organizzazione datoriale e l’assenza dei presupposti di legittimità richiesti dallo stesso art. 7 – da tale rapporto di lavoro consegue, ai sensi, appunto, dell’art. 2126 c.c., sia il diritto alla retribuzione sia l’obbligo dell’amministrazione pubblica datore di lavoro di versare la contribuzione previdenziale e assistenziale. Quest’ultimo obbligo sussiste senz’altro quanto meno in relazione ai compensi effettivamente percepiti dal lavoratore e, quindi, anche nel caso in cui la sua pretesa alle differenze retributive sia giudicata infondata per carenza di allegazioni idonee.

A proposito dell’azione proposta ai sensi dell’art. 2126 c.c., Sez. L, n. 25169/2019, Bellè, Rv. 655318-02, ha affermato che essa, avendo fonte in una specifica previsione di legge, è di natura contrattuale, sicché è onere del lavoratore allegare e dimostrare l’esistenza dei fatti generatori, consistenti nell’attuazione della prestazione di lavoro e nella conseguente quantificazione delle retribuzioni secondo la contrattazione collettiva applicabile, mentre grava su chi riceva tali prestazioni di lavoro la prova di quanto, in ragione della medesima vicenda sostanziale, il lavoratore ha comunque percepito e va quindi detratto dal dovuto. Secondo la stessa Sez. L, n. 25169/2019, Bellè, Rv. 655318-01, la domanda di condanna del datore di lavoro, sempre ai sensi dell’art. 2126 c.c., al pagamento delle retribuzioni dovute per lo svolgimento di fatto di prestazioni di lavoro subordinato, anche con l’amministrazione pubblica, allorquando la pretesa originariamente esercitata di riconoscimento di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato con tale datore di lavoro sia esclusa per ragioni di nullità o per divieti imposti da norme imperative, non costituisce domanda nuova e può quindi essere prospettata per la prima volta in grado di appello o anche posta d’ufficio a fondamento della decisione.

Circa l’assegno personale pensionabile riconosciuto, a norma degli artt. 3, comma 57, della l. n. 537 del 1993 e 202 del d.P.R. n. 3 del 1957, nei casi di passaggio di carriera, al personale con uno stipendio o una retribuzione superiori a quelli della nuova posizione – emolumento che è “pari alla differenza fra lo stipendio o retribuzione pensionabile in godimento all’atto del passaggio e quello spettante nella nuova posizione” – Sez. L, n. 30071/2019, Torrice, Rv. 655864-01, ne ha affermato la spettanza anche nel caso in cui il passaggio di carriera avvenga all’esito della favorevole partecipazione a una procedura concorsuale, alla luce sia dell’inequivoco tenore letterale delle anzidette disposizioni, sia della ratio delle stesse, le quali, vietando di attribuire un trattamento economico regressivo, mirano a favorire la mobilità volontaria nel pubblico impiego e a consentire alle diverse amministrazioni dello Stato di utilizzare le migliori competenze maturate, anche in altri settori dell’amministrazione, dai suoi dipendenti, in coerenza con il principio costituzionale di buon andamento dell’amministrazione.

Con riguardo al personale cui si applicano le disposizioni in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità contenute nel d.lgs. n. 151 del 2001, Sez. L, n. 31137/2019, Tria, Rv. 655904-01, ha statuito che le misure di tutela e sostegno della maternità e della paternità, di cui al d.lgs. n. 151 del 2001, hanno la funzione non solo di proteggere la salute della donna ma di soddisfare le esigenze puramente fisiologiche del minore, nonché di appagare i bisogni affettivi e relazionali del bambino per realizzare il pieno sviluppo della sua personalità, sicché devono essere riconosciute anche ai genitori adottanti, adottivi e agli affidatari, con modalità adeguate alla peculiarità della loro rispettiva situazione, e, in linea generale, non possono avere incidenza negativa sul trattamento retributivo complessivo degli interessati, con esclusione di particolari e specifici compensi quali, ad esempio, i compensi per lavoro straordinario e le indennità per prestazioni disagiate, pericolose o dannose per la salute, ove non ne ricorrano i presupposti.

Sempre a proposito del suddetto personale, la stessa Sez. L, n. 31137/2019, Tria, Rv. 655904-02, premesso che l’attribuzione del buono pasto è condizionata all’effettuazione della pausa pranzo che, a sua volta, presuppone, come regola generale, che il lavoratore osservi un orario di lavoro giornaliero di almeno sei ore (oppure altro orario superiore minimo indicato dalla contrattazione collettiva), ne ha tratto la conseguenza che i buoni pasto non possono essere attribuiti ai lavoratori che, beneficiando delle disposizioni in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità di cui al d.lgs. n. 151 del 2001, osservino, in concreto, un orario giornaliero effettivo inferiore alle suddette sei ore; né può valere l’equiparazione dei periodi di riposo alle ore lavorative di cui al comma 1 dell’art. 39 dello stesso decreto, che vale “agli effetti della durata e della retribuzione del lavoro”, in quanto l’attribuzione dei buoni pasto non riguarda né la durata né la retribuzione del lavoro ma è finalizzata a compensare l’estensione dell’orario lavorativo disposta dalla pubblica amministrazione, con un’agevolazione di carattere assistenziale diretta a consentire il recupero delle energie psico-fisiche degli interessati.

Relativamente al trattamento economico del personale del comparto sanità, Sez. L, n. 14508/2019, Marotta, Rv. 654064-01, ha chiarito che, ai sensi dell’art. 19, lett. b), del c.c.n.l. di detto comparto del 19 aprile 2004, i requisiti per il passaggio al livello economico Ds, con decorrenza dal 1° settembre 2003, sono dati dal riconoscimento, alla data del 31 agosto 2001, dello svolgimento di “reali funzioni di coordinamento”, ai sensi dell’art. 10 del c.c.n.l. del 20 settembre 2001, e dall’effettivo svolgimento delle stesse funzioni.

A proposito del trattamento economico del personale del comparto università, vanno menzionate due pronunce.

Sez. L, n. 26615/2019, Di Paolantonio, Rv. 655513-01, ha chiarito che la graduazione della retribuzione di posizione in rapporto a ciascuna tipologia di incarico prevista dall’art. 62 del c.c.n.l. del 9 agosto 2000 per il suddetto personale ha natura discrezionale, sicché il giudice può sindacare l’operato dell’amministrazione unicamente sotto il profilo del rispetto delle regole procedimentali cui è subordinato l’esercizio del potere nonché degli obblighi di correttezza e buona fede, i quali implicano il divieto di perseguire intenti discriminatori o ritorsivi e di determinarsi sulla base di motivazioni non ragionevoli. In tali casi, il dipendente può esercitare l’azione di esatto adempimento, al fine di ottenere la ripetizione della procedura valutativa, ovvero domandare il risarcimento del danno, non potendo il giudice sostituirsi al datore di lavoro nella formulazione del giudizio, mediante l’attribuzione del punteggio negato al lavoratore, salva l’ipotesi in cui lo stesso datore abbia limitato la propria discrezionalità prevedendo punteggi fissi da attribuire in relazione a titoli oggettivamente predeterminati.

Sez. L, n. 00426/2019, Torrice, Rv. 652542-01, ha invece statuito che, per il personale inquadrato nella categoria “elevate professionalità”, l’attribuzione degli incarichi comportanti particolari responsabilità gestionali di posizioni organizzative complesse e il correlato diritto a percepire l’indennità di posizione nei termini previsti, rispettivamente, dall’art. 75 e dall’art. 76 del c.c.n.l. comparto università del 16 ottobre 2009, presuppongono che l’amministrazione abbia previamente individuato gli incarichi che, per le particolari responsabilità che li connotano, richiedono l’”elevata professionalità” dei dipendenti chiamati a disimpegnarli.

Sulla remunerazione dei lettori di lingua straniera – la quale, come è noto, ha dato origine in passato a numerosi interventi legislativi e pronunce giurisprudenziali – Sez. L, n. 18897/2019, Di Paolantonio, Rv. 654506-01, ha fissato queste coordinate. I lettori di lingua straniera, divenuti collaboratori ed esperti linguistici, in applicazione dell’art. 1 del d.l. n. 2 del 2004, conv. con modif. dalla l. n. 63 del 2004, adottato per conformare l’ordinamento interno a quello dell’Unione europea, hanno diritto, proporzionalmente all’impegno orario assolto, a un trattamento economico corrispondente a quello del ricercatore confermato a tempo definito e pertanto anche al riconoscimento degli adeguamenti triennali della retribuzione con decorrenza dal primo contratto stipulato con l’università e sino alla data di instaurazione del nuovo rapporto, oltre che alla conservazione dell’eventuale condizione economica di maggior favore con percezione di un assegno ad personam. Resta, però, escluso che la loro retribuzione possa rimanere agganciata, anche per il periodo successivo alla stipula del contratto di collaborazione, alle dinamiche contrattuali previste per i ricercatori confermati a tempo definito, attesa la specificità propria del ruolo dei collaboratori linguistici, rispetto a quello dei docenti.

Sempre a proposito dei lettori di lingua straniera, Sez. L, n. 28498/2019, Bellè, Rv. 655849-01, ha affermato che l’accertamento, con sentenza passata in giudicato, dell’esistenza di un rapporto di lettorato per il quale fosse dovuta la retribuzione parametrata a quella del ricercatore a tempo definito non è impeditivo né della stipula di validi ed efficaci contratti di collaboratore esperto linguistico (C.E.L.), ai sensi del d.l. n. 120 del 1995, conv. con modif. dalla l. n. 236 del 1995, e delle norme a esso correlate, né dell’applicazione della disciplina di cui all’art. 1 del d.l. n. 2 del 2004, conv. con modif. dalla l. n. 63 del 2004, anche come poi autenticamente interpretata dall’art. 26, comma 3, della l. n. 240 del 2010. Peraltro, restando i profili retributivi regolati dall’art. 1 del d.l. n. 2 del 2004, il maggior trattamento economico assicurato precedentemente alla stipula del contratto di C.E.L. va mantenuto, come eventuale emolumento di miglior favore, pur con l’applicazione della regola di riassorbimento di cui al menzionato art. 26, comma, della l. n. 240 del 2010. Va invece escluso il diritto al mantenimento, dopo la stipula del contratto di C.E.L., di diverse qualifiche formali (lettore, docente, etc.) che caratterizzassero il rapporto nella precedente fase di cd. lettorato, il che comporta il disconoscimento di ogni ipotetico diritto risarcitorio per il relativo mutamento.

Una forma particolare di remunerazione di alcuni dipendenti pubblici è quella prevista dall’art. 92, comma 6, del Codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 163 del 2006), secondo cui il trenta per cento della tariffa professionale relativa alla redazione di un atto di pianificazione comunque denominato è ripartito tra i dipendenti dell’amministrazione aggiudicatrice che lo hanno redatto. Sez. L, n. 21424/2019, Di Paolantonio, Rv. 655005-01, ha precisato che tale previsione va letta alla luce di quanto previsto dai commi da 1 a 5 dello stesso art. 92 nonché dall’art. 90 del d.lgs. n. 163 del 2006 ed è applicabile nei soli casi in cui l’atto di pianificazione sia prodromico e strettamente correlato alla realizzazione di un’opera pubblica.

A proposito dell’incentivo di cui all’art. 8 della l. n. 109 del 1994 (ora art. 92, comma 5, del d.lgs. n. 163 del 2006), previsto per i dipendenti che hanno partecipato alle opere di progettazione, direzione o collaudo di opere pubbliche, Sez. L, n. 21398/2019, Di Paolantonio, Rv. 655004-01, ha precisato che esso va calcolato al netto dell’IRAP, quale onere posto a esclusivo carico dell’amministrazione, tenuta al versamento del tributo. Tuttavia, per il principio della necessaria copertura della spesa pubblica, le amministrazioni devono quantificare le somme che gravano sull’ente a titolo di IRAP, rendendole indisponibili, e successivamente procedere alla ripartizione dell’incentivo, corrispondendolo ai dipendenti interessati al netto degli oneri assicurativi e previdenziali.

Con riguardo ai dipendenti pubblici in aspettativa perché ammessi a corsi di dottorato di ricerca, Sez. L, n. 15173/2019, Di Paolantonio, Rv. 654105-01, ha chiarito che, nel caso di dottorato senza borsa o di rinuncia alla stessa, la conservazione del diritto a percepire il trattamento economico in godimento presso l’amministrazione di appartenenza, ai sensi dell’art. 2 della l. n. 476 del 1984, come modificato dall’art. 52, comma 57, della l. n. 448 del 2001, deve intendersi come comprensivo di tutte le voci retributive spettanti in ragione della qualifica rivestita, con esclusione dei soli compensi caratterizzati da aleatorietà, perché subordinati alla ricorrenza di ulteriori condizioni, da verificare in relazione alle effettive modalità di svolgimento della prestazione.

In materia di trattamento economico dei dipendenti degli enti locali, Sez. L, n. 30993/2019, De Marinis, Rv. 655887-01, ha precisato che, ai fini della determinazione dell’indennità premio di fine servizio, non si deve tenere conto della retribuzione di posizione, neppure qualora tale emolumento integri parte fissa del globale trattamento retributivo del lavoratore, atteso che l’indennità per le funzioni dirigenziali non rientra fra gli emolumenti specificamente indicati dall’art. 11, comma 5, della l. n. 152 del 1968, né può considerarsi come componente dello stipendio nel senso adoperato da tale norma.

Conformemente a quanto già asserito in relazione al tentativo di conciliazione previsto dall’art. 410 c.p.c. (Sez L, n. 19604/2014, Maisano, Rv. 632590-01), Sez. L, n. 28743/2019, Marotta, Rv. 655611-01, ha affermato che la comunicazione della richiesta di conciliazione secondo la procedura di cui agli artt. 65 e 66 del d.lgs. n. 165 del 2001 (applicabili ratione temporis) costituisce valido atto interruttivo della prescrizione dei crediti derivanti dal rapporto di lavoro.

4. Classificazione del personale: categorie, qualifiche e mansioni.

Con riguardo alla classificazione dei dipendenti pubblici, al fine di stabilire le mansioni, oltre a quelle di assunzione, cui essi, secondo l’art. 52, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001, possono essere adibiti, così come la definizione di quanto, ai sensi e per gli effetti dei successivi commi 4 e 5 dello stesso articolo, costituisce esercizio di mansioni superiori, Sez. L, n. 29624/2019, Bellè, Rv. 655713-01, ha statuito che essa è rimessa alla contrattazione collettiva e ciò sia nel regime previgente che in quello successivo alle modifiche apportate al suddetto comma 1 dall’art. 62, comma 1, del d.lgs. n. 150 del 2009.

La stessa Sez. L, n. 29624/2019, Bellè, Rv. 655713-02, ha altresì chiarito che l’equivalenza formale delle mansioni può essere definita dai contratti collettivi anche attraverso la previsione di aree omogenee nelle quali rientrino attività tutte parimenti esigibili e ciò ancorché, secondo una precedente classificazione, tali diverse attività – poi ricomprese nelle medesime aree – fossero da considerare come mansioni di diverso rilievo professionale e retributivo; pertanto, al dipendente che abbia svolto, nel previgente regime, mansioni considerate superiori a quelle di inquadramento, ricevendo il corrispondente maggior trattamento retributivo, e prosegua nello svolgimento delle medesime nella vigenza della nuova contrattazione – in cui sia le mansioni di cui al precedente inquadramento, sia quelle richieste, rientrino nell’ambito della stessa area – compete il solo trattamento proprio di quell’area e della posizione meramente economica di inquadramento secondo la nuova contrattazione, senza che, in mancanza di espresse previsioni contrarie di diritto transitorio della contrattazione collettiva sopravvenuta, l’assetto complessivo dei rapporti di lavoro quale definito da quest’ultima possa essere sindacato o manipolato, in vista della salvaguardia di pretese individuali fondate sulla previgente disciplina.

Quanto al procedimento logico giuridico per la determinazione dell’inquadramento di un lavoratore subordinato, Sez. L, n. 30580/2019, Torrice, Rv. 655877-01, premesso che esso si sviluppa in tre fasi successive – consistenti nell’accertamento in fatto delle attività lavorative in concreto svolte, nell’individuazione delle qualifiche e gradi previsti dal contratto collettivo di categoria e nel raffronto tra il risultato della prima indagine e i testi della normativa contrattuale individuati nella seconda – ha ribadito che l’osservanza di tale criterio “trifasico” non richiede che il giudice si attenga pedissequamente alla rigida e formalizzata sequenza delle azioni fissate dallo schema procedimentale, essendo sufficiente che ciascuno dei momenti di accertamento, di ricognizione e di valutazione trovi ingresso nel ragionamento decisorio (nello stesso senso, Sez. L, n. 18943/2016, Negri della Torre, Rv. 641208-01); ove, però, una delle suddette fasi venga omessa, o comunque della stessa non si dia conto nella sentenza impugnata, è configurabile il vizio di cui all’art. 360, primo comma, n. 3), c.p.c., perché l’omissione si risolve nell’errata applicazione dell’art. 2103 c.c. o, per l’impiego pubblico contrattualizzato, dell’art. 52 del d.lgs. n. 165 del 2001. La Corte ha quindi cassato la sentenza di merito perché, in violazione dei principi indicati, non aveva: esaminato le declaratorie contrattuali relative al livello e al profilo professionale di inquadramento della lavoratrice al fine di individuarne gli elementi caratterizzanti; individuato il tratto che connotava la professionalità del livello di inquadramento posseduto e lo differenziava rispetto a quello rivendicato; preso in esame le mansioni della qualifica di appartenenza della lavoratrice, rapportandovi l’attività svolta, al fine di verificare la pertinenza o no dell’attività svolta ai compiti della posizione superiore di cui era stata chiesta l’attribuzione; dato conto delle caratteristiche professionali del profilo di “segretaria di azienda” come risultanti dalla contrattazione collettiva per riferirvi le mansioni svolte dalla lavoratrice; indagato sulla prevalenza, dal punto di vista quantitativo, dei compiti assunti come svolti rispetto a quelli riferibili al livello e alla qualifica superiori.

Come è noto, diversamente che nel settore privato, nel pubblico impiego contrattualizzato l’esercizio di fatto di mansioni superiori, non corrispondenti alla qualifica di appartenenza, non ha effetto ai fini dell’inquadramento del lavoratore o dell’assegnazione di incarichi di direzione (art. 52, comma 1, secondo periodo, del d.lgs. n. 165 del 2001) ed egli ha diritto alle sole differenze retributive (art. 52, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001).

Ne è una conseguenza quanto affermato da Sez. L, n. 18901/2019, Bellè, Rv. 654494-01, circa gli effetti, nel pubblico impiego contrattualizzato, del giudicato di accertamento dello svolgimento di mansioni superiori. La Corte ha precisato, in particolare, che tale giudicato, non comportando l’acquisizione della miglior qualifica ma solo la condanna al pagamento delle differenze retributive, ha efficacia vincolante anche per i periodi successivi solo se il lavoratore, immutata la disciplina collettiva, alleghi e provi il reiterarsi delle mansioni superiori anche in tale arco temporale.

Circa il compenso spettante al dipendente pubblico per lo svolgimento di fatto di mansioni superiori, Sez. 6-L, n. 02102/2019, Doronzo, Rv. 652614-01, ha ribadito – in continuità con Sez. L, n. 18808/2013, Garri, Rv. 628344-01 – che esso, da riconoscere nella misura indicata nel menzionato art. 52, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001, non è condizionato alla sussistenza dei presupposti di legittimità di assegnazione delle mansioni o alle previsioni dei contratti collettivi, né all’operatività del nuovo sistema di classificazione del personale introdotto dalla contrattazione collettiva, atteso che una diversa interpretazione sarebbe contraria all’intento del legislatore di assicurare comunque al lavoratore una retribuzione proporzionata alla qualità del lavoro prestato, in ossequio al principio di cui all’art. 36 della Costituzione.

Come statuito da Sez. L, n. 13536/2019, Fernandes, Rv. 653841-01, le maggiori competenze spettanti in seguito allo svolgimento di fatto di mansioni superiori, peraltro, in quanto emolumenti non fissi né continuativi, non possono considerarsi utili ai fini della riliquidazione – prevista dal regolamento per il trattamento di previdenza e di quiescenza del personale impiegatizio dell’INPS – del trattamento pensionistico integrativo in corso di godimento a carico del Fondo di previdenza di tale personale e, di conseguenza, non devono essere assoggettate a contribuzione.

Sez. L, n. 27395/2019, Tricomi I., Rv. 655523-01, ha statuito che i lavoratori appartenenti all’area C del c.c.n.l. enti pubblici non economici del 1999 hanno competenza a svolgere tutte le fasi del processo, con conseguente assunzione di responsabilità, pur con ampiezza diversa in funzione del diverso livello di sviluppo ricoperto all’interno dell’area; il personale dell’area B, invece, esegue fasi di attività nell’ambito di direttive di massima e di procedure predeterminate, rispondendo solo dei risultati relativi alla singola fase. Pertanto, per il riconoscimento delle mansioni superiori riconducibili all’area C occorre verificare la competenza in capo al lavoratore a svolgere tutte le fasi del processo, senza che sia necessario anche l’effettivo svolgimento di tutte le fasi. Facendo applicazione di tali principi, la Corte ha confermato la sentenza di merito che aveva riconosciuto l’inquadramento nell’area C in capo a un dipendente dell’INPS perché competente a seguire tutto il procedimento di iscrizione/inquadramento delle aziende, benché egli non apponesse la sottoscrizione in calce al provvedimento finale.

Nell’ambito della suddetta area C del c.c.n.l. enti pubblici non economici del 1999, Sez. L, n. 29093/2019, Tricomi I., Rv. 655850-01, ha precisato che i tratti differenziali fra il personale delle due posizioni C3 e C4 vanno individuati nell’attribuzione al solo personale C4 della responsabilità formale di conduzione di un ufficio (struttura organizzativa) e del lavoro affidato ai collaboratori, coordinando le attività, organizzando le risorse assegnate, e con responsabilità del raggiungimento dei relativi risultati di produzione.

Con riguardo al personale appartenente all’area C del c.c.n.l. comparto ministeri 1998-2001, Sez. L, n. 32707/2019, Di Paolantonio, Rv. 656053-01, ha precisato che la posizione C2 si caratterizza, sia in relazione alla direzione di unità operative che con riferimento alle attività ispettive, per la maggiore complessità della prestazione richiesta. In particolare: quanto alla direzione, il lavoratore C1 è preposto a unità operative di rilevanza esterna e opera nell’ambito di normative generali laddove quello C2 dirige unità operative a rilevanza esterna delle quali è tenuto a garantire l’attività assumendosene la responsabilità; quanto all’attività ispettiva, i compiti del lavoratore della posizione superiore non si esauriscono nelle verifiche e nei controlli di competenza del lavoratore C1.

Secondo Sez. L, n. 31378/2019, Di Paolantonio, Rv. 655995-01, non esiste un diritto soggettivo dei funzionari professionisti, tecnico scientifici e di ricerca, dipendenti del Ministero per i beni e le attività culturali, all’istituzione di una “disciplina separata” a opera della contrattazione collettiva di riferimento, atteso che l’autonomia di questa nell’individuazione della disciplina in questione, avuto riguardo al quadro normativo di fonte legale, presuppone necessariamente, a monte, la possibilità che le parti della negoziazione non raggiungano, al riguardo, alcun accordo.

Sez. L, n. 20915/2019, Marotta, Rv. 654797-01, ha escluso che sia viziato da nullità, per violazione dell’art. 40 del d.lgs. n. 265 del 2011 (applicabile ratione temporis), l’art. 12 del c.c.n.i. della Croce Rossa Italiana del 20 febbraio 2009, nella parte in cui descrive i profili professionali socio-sanitari, in quanto, senza che possa ravvisarsi alcun contrasto con i limiti posti dall’art. 22, comma 1, lett. a) del contratto nazionale degli enti pubblici non economici 1998–2001, detta previsione non configura una ricollocazione del personale nell’ambito delle diverse aree, bensì una diversa e più chiara definizione dei profili professionali. In applicazione di tale principio, la Corte ha affermato che il menzionato contratto integrativo aveva legittimamente previsto un nuovo sistema di inquadramento degli autisti soccorritori, senza operare alcuna trasposizione di figure professionali da un’area all’altra.

Da segnalare, infine, tre pronunce che, originate tutte dalla fattispecie dei contratti di portierato con gli enti previdenziali – aventi, originariamente, natura privatistica – si sono espresse sulle conseguenze dell’assegnazione dei lavoratori a mansioni inerenti l’attività amministrativa dell’ente previdenziale.

Con la prima di tali pronunce, Sez. L, n. 29897/2019, Bellè, Rv. 655859-01, è stato affermato che, pur dopo la privatizzazione del pubblico impiego, non è impedita la stipula di contratti di lavoro con la pubblica amministrazione regolati dalla disciplina privatistica, quando vi sia una norma speciale che lo preveda o per rapporti di lavoro cd. anomali per l’assolvimento di compiti non riconducibili alle finalità istituzionali. In dette ipotesi, la successiva assegnazione a mansioni inerenti all’attività amministrativa propria dell’ente non comporta automaticamente la trasformazione del rapporto privatistico in un rapporto pubblico contrattualizzato, a meno che detta trasformazione non sia prevista dal legislatore, in armonia con il dettato dell’art. 97 Cost. Nella fattispecie – concernente, appunto, i portieri degli enti previdenziali che, dopo la dismissione degli immobili, siano stati addetti a mansioni inerenti all’attività amministrativa dell’ente – la Corte ha ritenuto la trasformazione del rapporto in lavoro pubblico contrattualizzato, in virtù della previsione dell’art. 43, comma 19, della l. n. 388 del 2000.

Negli stessi termini, Sez. L, n. 30073/2019, Bellé, Rv. 655984-01, ha asserito che lo svolgimento di mansioni diverse da quelle di portierato e da ricondurre ad attività proprie della funzione amministrativa dell’ente di appartenenza non comporta la trasformazione del vincolo in un rapporto di impiego pubblico privatizzato, che si verifica solo quale effetto ex lege al sopravvenire dell’art. 43, comma 19, della l. n. 388 del 2000. La Corte ha altresì affermato che lo svolgimento delle suddette diverse mansioni fa sorgere, ai sensi dell’art. 2126 c.c., il diritto del lavoratore a percepire, per il periodo di concreto ed effettivo svolgimento delle stesse, il trattamento retributivo proprio del c.c.n.l. inerente agli enti pubblici non economici.

Queste conclusioni sono state ribadite da Sez. L, n. 31012/2019, Bellè, Rv. 655889-01, secondo cui i contratti di portierato con gli enti previdenziali, aventi originaria natura privatistica, sono stati trasformati in rapporti di pubblico impiego privatizzato dall’art. 43, comma 19, della l. n. 388 del 2000, con conseguente assegnazione degli addetti, ex lege, alle mansioni proprie dell’attività istituzionale degli enti di riferimento. La Corte ha inoltre ribadito che, nel caso di svolgimento di tali mansioni anche prima della trasformazione, spetta ai lavoratori, ex art. 2126 c.c., il riconoscimento del trattamento retributivo corrispondente alle mansioni concretamente svolte, secondo la disciplina di cui al d.P.R. n. 285 del 1988, gradualmente transitata nella successiva contrattazione collettiva del pubblico impiego privatizzato.

5. Vicende del rapporto.

L’art. 16 della l. n. 183 del 2010 ha consentito alle amministrazioni pubbliche, entro centottanta giorni dalla sua entrata in vigore, di sottoporre a nuova valutazione i provvedimenti di concessione della trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale già adottati prima dell’entrata in vigore del d.l. n. 112 del 2008. Sez. L, n. 03804/2019, Blasutto, Rv. 652908-01, ha escluso che tale previsione si ponga in contrasto con i principi costituzionali o con la direttiva 97/81/CE, in quanto, come ritenuto dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 224 del 2013, l’iniziativa del datore di lavoro pubblico deve essere sorretta da serie ragioni organizzative e gestionali e attuata nel rispetto dei principi di correttezza e buona fede. Alla previsione dell’art. 16 della l. n. 183 del 2010 non osta neppure la clausola 5, punto 2, dell’accordo quadro sul tempo parziale allegato alla citata direttiva (secondo l’interpretazione che ne ha dato la Corte di giustizia con la sentenza del 15 ottobre 2014, in causa C-221/2013), atteso che tale disposizione è volta unicamente a escludere che l’opposizione di un lavoratore a una simile trasformazione del proprio contratto di lavoro possa costituire l’unico motivo del suo licenziamento.

Con riguardo alle conseguenze, sul piano dei rapporti di lavoro dei dipendenti degli enti locali, dell’istituzione, ai sensi dell’art. 7 della l. n. 65 del 1986, del Corpo di polizia municipale, Sez. L, n. 16312/2019, Di Paolantonio, Rv. 654238-01, in continuità con Sez. L, n. 16580/2010, Di Cerbo, Rv. 614980-01, ha ribadito che detta disposizione si applica esclusivamente alle realtà territoriali più estese, dovendosi escludere che essa – ancorata al tassativo presupposto che il servizio sia svolto da almeno sette addetti – sia applicabile in via analogica ai comuni di piccole dimensioni. Per tali comuni, trova invece applicazione il d.lgs. n. 267 del 2000 che, nell’abrogare la l. n. 142 del 1990, ha attribuito alla potestà regolamentare degli enti territoriali l’ordinamento degli uffici e del personale, precisando, peraltro, all’art. 89, comma 2, che tale potestà deve essere esercitata tenendo conto di quanto demandato alla contrattazione collettiva nazionale, senza, dunque, la possibilità, per il datore di lavoro pubblico, di modificare unilateralmente la posizione giuridica ed economica stabilita dalle norme pattizie. Nella circostanza, la Corte ha respinto il ricorso del dipendente di un comune con due soli addetti alla polizia municipale il quale lamentava di essere stato privato del ruolo di coordinatore dei vigili urbani in precedenza ricoperto.

Con riferimento alle procedure selettive – nella specie, il conferimento di una posizione organizzativa – Sez. L, n. 26966/2019, Di Paolantonio, Rv. 655517-01, ha chiarito che l’interesse ad agire, ai sensi dell’art. 100 c.p.c., è ravvisabile, rispetto all’azione di esatto adempimento, ogniqualvolta si assuma che il datore di lavoro pubblico abbia omesso il rispetto delle regole procedimentali o si sia discostato dai criteri valutativi e richiede esclusivamente l’allegazione, da parte del lavoratore, di avere partecipato alla selezione o di essere stato ingiustamente escluso dalla stessa.

6. Mobilità.

Diverse pronunce hanno riguardato, anzitutto, la mobilità volontaria, mediante il passaggio di personale tra amministrazioni diverse.

Due di esse concernono la questione dell’inquadramento del personale nell’amministrazione di destinazione.

In proposito, Sez. L, n. 09663/2019, De Felice, Rv. 653617-01, ha affermato che, nei casi di mobilità volontaria, ai sensi dell’art. 30 del d.lgs. n. 165 del 2001, la verifica di equivalenza fra l’inquadramento goduto dal lavoratore nell’ente di provenienza e quello a lui spettante presso l’amministrazione di destinazione va operata in concreto, in base alle discipline collettive dei due enti interessati, individuando la qualifica “maggiormente corrispondente”, nell’ambito della disciplina legale e contrattuale applicabile nell’ente di destinazione, a quella posseduta dal lavoratore prima del trasferimento, mentre non assumono alcuna efficacia vincolante le tabelle di equiparazione contenute nel d.p.c.m. 14 dicembre 2000, la cui unica finalità è quella di rendere possibile la mobilità volontaria cd. intercompartimentale. Facendo applicazione di questo principio, la Corte ha cassato con rinvio la sentenza di merito che aveva riconosciuto una corrispondenza “automatica” tra il profilo C4 posseduto dal lavoratore presso l’ente locale di provenienza e il profilo B3 super del Ministero di destinazione, la cui attribuzione, in base alla contrattazione collettiva, era riservata a una valutazione discrezionale del Ministero fondata su criteri meritocratici.

Con specifico riguardo al trasferimento su domanda del dipendente di Poste Italiane ad altra amministrazione presso la quale già prestava servizio in posizione di comando o di fuori ruolo, ai sensi della l. n. 449 del 1997, Sez. L, n. 06272/2019, Di Paolantonio, Rv. 653183-01, in continuità con Sez. L, n. 18416/2014, Manna A., Rv. 631918-01, sulla premessa che tale trasferimento è assimilabile alla cessione del contratto, ha affermato che, di conseguenza, l’ente di destinazione deve procedere all’inquadramento del lavoratore sulla base della posizione da lui posseduta nell’ambito della precedente fase del rapporto, individuando la posizione a essa maggiormente corrispondente nel quadro della disciplina legale e contrattuale applicabile nell’amministrazione di destinazione.

Un’altra pronuncia ha riguardato la questione della titolarità del potere disciplinare relativamente ai fatti verificatisi prima del trasferimento del lavoratore.

Sulla premessa, anche in questo caso, che l’art. 30 del d.lgs. n. 165 del 2001, nel testo risultante dalle modifiche introdotte dall’art. 16, comma 1, della l. n. 246 del 2005, riconduce espressamente il passaggio diretto di personale tra amministrazioni diverse alla fattispecie della cessione del contratto, di cui all’art. 1406 c.c., nella quale è inquadrabile anche il passaggio a seguito di procedura di mobilità volontaria, Sez. L, n. 00431/2019, Tricomi I., Rv. 652561-01, ha affermato che da ciò consegue che la nuova amministrazione datrice di lavoro subentra in tutte le posizioni attive e passive facenti capo all’amministrazione cedente, compreso, perciò, il potere disciplinare relativo a fatti verificatisi in epoca precedente il trasferimento del lavoratore.

Due pronunce hanno riguardato due particolari casi di passaggio di dipendenti per effetto del trasferimento di attività (istituto regolato, in via generale, dall’art. 31 del d.lgs. n. 165 del 2001).

La prima di esse concerne il trasferimento di personale dall’ANAS alle Province. Sez. L, n. 03176/2019, De Felice, Rv. 652865-01, ha statuito che tale trasferimento, pur se disciplinato, ratione temporis, dall’art. 31 del d.lgs. n. 165 del 2001, non è soggetto al principio di continuità del rapporto di impiego dei dipendenti trasferiti di cui all’art. 2112 c.c. (richiamato dal medesimo art. 31), dovendo trovare applicazione la disciplina speciale, di natura derogatoria, stabilita dall’art. 7 del d.lgs. n. 112 del 1998, il quale prevede l’inquadramento del lavoratore secondo le tabelle di trasposizione con il solo diritto al mantenimento del trattamento economico già maturato. Ne deriva l’irrilevanza dell’inquadramento superiore riconosciuto giudizialmente per effetto dello svolgimento di mansioni di fatto presso l’ente di provenienza.

La seconda pronuncia concerne il personale dell’Agenzia del demanio al quale, a seguito dell’istituzione delle Agenzie fiscali a opera del d.lgs. n. 300 del 1999, l’art. 3, comma 5, del d.lgs. n. 173 del 2003, come interpretato autenticamente dall’art. 5, comma 1-novies, del d.l. n. 7 del 2005, conv. con modif. dalla l. n. 43 del 2005, aveva riconosciuto l’opzione per la permanenza nel comparto delle agenzie fiscali ovvero per il transito ad altra pubblica amministrazione. Sez. L, n. 14429/2019, Di Paolantonio, Rv. 654057-01, ha precisato che tale disposizione non ha comportato l’insorgere di un diritto di scelta del dipendente all’individuazione dell’amministrazione statuale in cui transitare, ma solo quello di potere rimanere nell’ambito dei lavoratori dipendenti delle amministrazioni statali, spettando alla contrattazione collettiva ovvero agli accordi tra le amministrazioni l’individuazione della soluzione più adatta per il ricollocamento del personale.

Tre pronunce hanno infine riguardato le eccedenze di personale e la mobilità collettiva ai sensi dell’art. 33 del d.lgs. n. 165 del 2001.

Due di esse concernono, in particolare, la partecipazione delle organizzazioni sindacali alla procedura prevista da tale articolo, con riguardo alla disciplina sia anteriore sia successiva alla sua sostituzione a opera dell’art. 16, comma 1, della l. n. 183 del 2011.

In relazione al testo anteriore a tale sostituzione, Sez. L, n. 16997/2019, Di Paolantonio, Rv. 654361-01, ha chiarito che, in virtù del rinvio alla procedura prevista dalla legge n. 223 del 1991, trovavano applicazione gli stessi principi affermati in relazione alle procedure di mobilità e ai licenziamenti collettivi interessanti il personale delle imprese private, con la conseguenza che, ai fini della completezza della comunicazione preventiva di cui all’art. 4, comma 3, della stessa l. n. 223 del 1991, il sindacato giudiziale andava esercitato in una prospettiva “sostanzialistica”, tenendo conto dei motivi della riduzione del personale, attribuendo rilievo solo a “maliziose elusioni” volte a fuorviare o a ledere l’esercizio dei poteri di controllo preventivo attribuito ai soggetti collettivi. Facendo applicazione di tale principio, la Corte ha ritenuto irrilevante la mancata formale indicazione dei motivi tecnici e organizzativi per i quali non potevano essere riassorbiti gli esuberi, trattandosi di un’informazione già compresa nelle ragioni che avevano imposto il ridimensionamento della pianta organica.

In relazione all’art. 33 del d.lgs. n. 165 del 2001 nel testo successivo alla sostituzione operata dall’art. 16, comma 1, della l. n. 183 del 2011, Sez. L, n. 15008/2019, Di Paolantonio, Rv. 653986-01, ha precisato che detto articolo va coordinato con l’art. 6 dello stesso d.lgs. n. 165 del 2001, il quale, nel testo vigente dopo la modifica operata dal d.l. n. 95 del 2012, conv. con modif. dalla l. n. 135 del 2012, prescrive che i processi di riorganizzazione degli uffici che comportino individuazione di esuberi devono essere preceduti dall’informazione alle organizzazioni sindacali e dall’esame congiunto con le stesse sui criteri per l’individuazione degli esuberi; esame imposto dall’art. 2 del d.l. n. 95 del 2012 anche per le procedure da avviare per ridurre le dotazioni organiche nei termini indicati dal comma 1 dello stesso articolo. Il difetto dell’esame congiunto, che deve precedere l’adozione dell’atto organizzativo di ridefinizione della dotazione organica, si risolve in un vizio di tale atto, che, anche quando è espressione di un potere unilaterale di diritto pubblico, può essere disapplicato dal giudice ordinario, quale atto presupposto, con la conseguente illegittimità del recesso intimato all’esito della procedura ex art. 72 del d.l. n. 112 del 2008 o del collocamento in disponibilità. Nelle unità sanitarie locali, dove gli atti organizzativi hanno natura di atti di diritto privato, la cognizione del giudice ordinario nelle procedure di eccedenza di personale si estende all’atto presupposto e l’illegittimità di quest’ultimo, se adottato in violazione delle disposizioni di legge che disciplinano la variazione delle dotazioni organiche, si riflette sugli atti successivi della procedura.

La terza pronuncia concerne i limiti del sindacato giurisdizionale sul provvedimento amministrativo di definizione della dotazione organica. Sempre in relazione alla disciplina successiva alla sostituzione dell’art. 33 del d.lgs. n. 165 del 2001 operata dell’art. 16, comma 1, della l. n. 183 del 2011, Sez. L, n. 18813/2019, Bellè, Rv. 654490-01, ha sancito che detto provvedimento, presupposto necessario della misura di collocamento in disponibilità, è sindacabile da parte del giudice ordinario, e può essere disapplicato, nei casi in cui ne emerga l’illegittimità per violazione di legge o per eccesso di potere, al fine di valutarne l’idoneità a incidere validamente sulle situazioni di diritto soggettivo che allo stesso risultano riconnesse. Restano, però, insindacabili le scelte discrezionali relative alle esigenze di personale e alle corrispondenti qualifiche necessarie a soddisfarle. In applicazione di questo principio, la Corte ha confermato la decisione di merito che, in relazione a un dirigente comunale dichiarato eccedentario a seguito della riduzione della dotazione organica per realizzare un risparmio di spesa, verificata la sussistenza della motivazione dell’atto riorganizzativo e l’assenza di elementi sintomatici dell’eccesso di potere, ha giudicato irrilevante che il comune avesse sopperito al collocamento in disponibilità del dirigente attribuendo le mansioni superiori a un addetto di livello inferiore, con assunzione diretta del sindaco della responsabilità dell’area di competenza.

7. Diritti sindacali.

Una prima pronuncia, nel decidere un ricorso concernente una fattispecie in tema di contratti integrativi per l’Ente Foreste della Sardegna, ha interessato, più generalmente, il diritto delle organizzazioni sindacali a partecipare alle trattative per la stipula dei contratti collettivi e le prerogative delle stesse organizzazioni nei luoghi di lavoro. Secondo Sez. L, n. 20036/2019, Bellè, Rv. 654742-01, il godimento di tali prerogative è conseguenza, sulla base di un principio comune all’ordinamento privatistico (art. 19 della l. n. 300 del 1970, come integrato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 231 del 2013) e a quello pubblicistico (art. 42 del d.lgs. n. 65 del 2001), della partecipazione delle organizzazioni sindacali alle trattative per la stipula dei contratti collettivi da applicare presso le unità produttive o le strutture interessate. Ne deriva, con riferimento alla fattispecie sopra indicata, che la legislazione regionale sarda deve essere interpretata nel senso – armonico rispetto al principio già menzionato e a quelli di effettività del pluralismo sindacale (art. 39 Cost.), oltre che conforme alle esigenze di coerenza tra ordinamento nazionale e ordinamenti regionali a statuto speciale (art. 116 Cost. e art. 3 dello Statuto speciale per la Sardegna) – che hanno diritto a partecipare alle trattative per la stipula dei contratti regionali integrativi per l’Ente Foreste della Sardegna e, quindi, a godere delle conseguenti prerogative sindacali, le organizzazioni che risultino munite della rappresentatività, nel comparto destinato da detta legislazione a questo Ente, nella misura minima del 5 per cento stabilita dall’art. 60 della l.r. Sardegna n. 31 del 1998.

Una seconda pronuncia ha riguardato la partecipazione sindacale all’adozione degli atti di microrganizzazione dell’amministrazione pubblica, in particolare, l’applicabilità ratione temporis della regola, sancita dall’art. 5, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001, come sostituito dall’art. 34, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 150 del 2009, secondo cui l’unica forma di partecipazione sindacale alle decisioni in materia è costituita dall’informazione ai sindacati ove prevista dalla contrattazione collettiva nazionale. Sez. L, n. 16837/2019, Bellè, Rv. 654245-01, ha affermato che tale regola trova applicazione fin dalla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 150 del 2009, precisando che l’art. 65, comma 5, di tale decreto, che sancisce l’applicabilità delle disposizioni relative alla contrattazione collettiva nazionale “dalla tornata successiva a quella in corso”, va interpretato, ai sensi dell’art. 5, comma 2, del d.lgs. n. 144 del 2011, nel senso che le disposizioni in questione sono esclusivamente quelle relative al procedimento negoziale di approvazione dei contratti collettivi nazionali.

8. Illeciti disciplinari: questioni procedimentali e sostanziali.

Ricco e articolato è stato, nell’anno in rassegna, il contenzioso in materia di sanzioni disciplinari del pubblico dipendente, con particolare riguardo al profilo procedimentale, rispetto al quale le riforme legislative realizzate negli ultimi anni (d.lgs. n. 150 del 2009, d.lgs. n. 116 del 2016, d.lgs. n. 75 del 2017) solo ora cominciano a essere sottoposte al vaglio della corte di legittimità.

Prendendo le mosse dalle pronunce di portata più generale, vanno anzitutto menzionati due provvedimenti che ruotano intorno alla condotta delineata dall’art. 53, comma 9, del d.lgs. n. 165 del 2001, consistente nello svolgimento di incarichi retribuiti senza la previa autorizzazione dell’amministrazione di appartenenza.

Tale condotta, oltre a integrare un illecito disciplinare, costituisce altresì un illecito amministrativo, punito con una sanzione pecuniaria pari al doppio degli emolumenti corrisposti sotto qualsiasi forma, ai sensi dell’art. 6, comma 1, del d.l. n. 79 del 1997, conv., con modif., dalla l. n. 140 del 1997.

Sez. U, n. 28210/2019, D’Antonio, Rv. 655504-01, ha precisato trattarsi bensì di un illecito amministrativo, ma riconducibile alla disciplina del pubblico impiego contrattualizzato; ne consegue che il secondo periodo del predetto comma – ove è previsto che “all’accertamento delle violazioni e all’irrogazione delle sanzioni provvede il Ministero delle finanze, avvalendosi della Guardia di Finanza, secondo le disposizioni della legge 24 novembre 1981, n. 689” – deve essere interpretato nel senso che il legislatore non ha previsto alcuna esclusiva attribuzione di competenza, ma ha soltanto stabilito che, quando gli accertamenti degli illeciti ivi sanzionati sono disposti su impulso del Ministero delle Finanze, vi debba provvedere, per evidenti ragioni di celerità, la Guardia di Finanza, ovvero il corpo dipendente direttamente da detto Ministero, senza tuttavia escludere che possano comunque provvedervi gli altri soggetti appartenenti alla Polizia giudiziaria.

L’ordinanza interlocutoria Sez. 2, n. 24083/2019, Falaschi, ha investito la stessa disposizione normativa, ma con riferimento ai direttori generali delle ASL, chiedendosi se tale figura professionale sia assoggettabile alla disciplina prevista per i dipendenti pubblici, con particolare riferimento ai limiti di applicabilità della normativa sulle incompatibilità di cui all’art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001. Ne è scaturita un’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite su questione di massima di particolare importanza, con cui ci si è chiesti se la violazione del carattere di esclusività del rapporto previsto dall’art. 3 bis, comma 8, del d.lgs. n. 502 del 1992 per i direttori generali delle ASL, possa costituire, non solo, motivo di risoluzione del contratto con la Regione, ma determinare anche l’irrogazione di una sanzione pecuniaria non prevista dall’ordinamento.

Sez. L, n. 14245/2019, Bellè, Rv. 653971-01, ha poi ribadito che nell’impiego pubblico contrattualizzato, anche nella disciplina previgente a quella ex art. 55-sexies del d.lgs. n. 165 del 2001, l’obbligatorietà dell’azione disciplinare discende dai principi costituzionali di cui all’art. 97 ed esclude che l’inerzia del datore di lavoro possa far sorgere un legittimo affidamento nella liceità della condotta, ove la stessa contrasti con precetti imposti dalla legge, dal codice di comportamento o dalla contrattazione collettiva.

Di portata generale è anche Sez. L, n. 28741/2019, Bellè, Rv. 655610-01, con cui è stato consolidato il principio per cui, in tutti i casi nei quali il comportamento sanzionatorio sia immediatamente percepibile dal lavoratore come illecito, perché contrario al cd. minimo etico o a norme di rilevanza penale, non è necessario provvedere alla affissione del codice disciplinare pur prevista dall’art. 55 del d.lgs. n. 165 del 2001 (come sostituito dal d. lgs. n. 150 del 2009): il dipendente pubblico, come quello del settore privato, ben può rendersi conto della illiceità della propria condotta, anche al di là di una analitica predeterminazione dei comportamenti vietati e delle relative sanzioni da parte del codice disciplinare (fattispecie in materia di imputazione in sede penale del reato di concorso esterno in associazione mafiosa a carico del dipendente).

Vi è poi l’affermazione di Sez. L, n. 28928/2019, Bellè, Rv. 655701-01: in tema di sanzioni disciplinari nel pubblico impiego privatizzato, i termini per lo svolgimento del procedimento, così come la distribuzione della competenza tra il responsabile della struttura e l’Ufficio per i procedimenti disciplinari, si definiscono, ai sensi dell’art. 55-bis del d.lgs. n. 165 del 2001, sulla base dei fatti indicati nell’atto di contestazione e delle sanzioni per essi astrattamente stabilite dalla contrattazione collettiva, che si individuano, qualora l’ipotesi rientri tra quelle espressamente enunciate dal c.c.n.l., nella misura massima edittale, ovvero, qualora si tratti di fatti di rilievo disciplinare non rientranti in tali specifiche ipotesi, sulla base della sanzione massima irrogabile.

Passando poi all’esame di questioni più specifiche e muovendo dai rapporti tra procedimento disciplinare e procedimento penale, meritano menzione le seguenti pronunce.

L’istituto della sospensione disciplinare di cui all’art. 55-ter, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001 è tra i più controversi.

Sez. L, n. 11949/2019, Bellè, Rv. 653750-01, ha precisato che, in pendenza del procedimento penale, la sospensione costituisce facoltà discrezionale attribuita alla P.A., la quale, fermo il principio della tendenziale autonomia del procedimento disciplinare rispetto a quello penale, può esercitarla qualora, per la complessità degli accertamenti o per altre cause, non disponga di elementi necessari per la definizione del procedimento, essendo legittimata, peraltro, a riprendere il procedimento disciplinare, senza attendere che quello penale venga definito con sentenza irrevocabile, allorquando ritenga che gli elementi successivamente acquisiti consentano la decisione. A ciò consegue che il termine di decadenza per la ripresa del procedimento, di cui all’art. 55 ter, comma 4, del d.lgs. n. 165 del 2001, va riferito solo al caso in cui la riattivazione sia successiva all’irrevocabilità della sentenza penale, mentre restano irrilevanti i termini entro cui il procedimento disciplinare sia ripreso (salva la conclusione entro il successivo termine di 180 giorni, o di 120 giorni, per i procedimenti cui si applichino le modifiche alla norma apportate dall’art. 14, comma 1, del d.lgs. n. 75 del 2017), qualora ciò avvenga anteriormente al sopravvenire di tale pronuncia definitiva.

In quanto misura cautelare e interinale, la sospensione diviene tuttavia priva di titolo qualora all’esito del procedimento penale quello disciplinare non venga attivato.

Secondo la ricostruzione di Sez. L, n. 07657/2019, Di Paolantonio, Rv. 653205-01, il diritto del dipendente alla restitutio in integrum, che ha natura retributiva e non risarcitoria, sorge ogni qualvolta la sanzione non venga inflitta o ne sia irrogata una di natura ed entità tali da non giustificare la sospensione sofferta. L’onere di attivarsi per consentire la tempestiva ripresa del procedimento disciplinare, una volta definito quello penale, grava sull’amministrazione e non sul dipendente pubblico, sicché non rileva, né può far escludere il diritto al pagamento delle retribuzioni non corrisposte durante il periodo di sospensione facoltativa, la circostanza che l’incolpato non abbia tempestivamente comunicato al datore di lavoro la sentenza passata in giudicato di definizione del processo penale pregiudicante.

Sempre molto discussi sono gli effetti della sentenza penale di cd. patteggiamento sul procedimento disciplinare nel settore pubblico.

Di qui l’utilità dei chiarimenti forniti da Sez. L, n. 20721/2019, Bellè, Rv. 654793-02: nei giudizi disciplinari che si svolgono davanti alle autorità pubbliche, e quindi anche in quelli contro i dipendenti della P.A., a norma degli artt. 445 e 653 c.p.p., come modificati dalla l. n. 97 del 2001, la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti ha efficacia di giudicato quanto all’accertamento del fatto, alla sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso; ne consegue che quando la contrattazione collettiva fa riferimento, per la graduazione delle sanzioni disciplinari a carico del pubblico dipendente, alla sussistenza, per i medesimi fatti, di sentenza di condanna penale, quest’ultima, in ragione del disposto del citato art. 653, deve presumersi riguardare anche il caso di sentenza di patteggiamento.

Sez. L, n. 32259/2019, Marotta, Rv. 656047-01, è invece intervenuta in un caso peculiare, in cui il pubblico dipendente, condannato a una pena detentiva e interdetto in via temporanea dai pubblici uffici, si era visto applicare immediatamente la pena accessoria dal proprio dirigente, nonostante che, rispetto alla pena principale, egli avesse beneficiato della misura alternativa alla detenzione dell’affidamento in prova ai servizi sociali. La S.C. ha rigettato il ricorso del dipendente sul presupposto che la pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici non si estingue a seguito dell’esito positivo dell’affidamento in prova al servizio sociale e non è dunque condizionata dall’esito dell’esecuzione della pena principale.

Anche la questione della competenza all’adozione dei provvedimenti disciplinari e della individuazione dell’Ufficio dei procedimenti disciplinari (U.P.D.) dà luogo a molti interrogativi.

A parte le pronunce sulla competenza disciplinare in ambito scolastico (su cui v. infra par. 11.), va menzionata anzitutto Sez. L, n. 20721/2019, Bellè, Rv. 654793-01, con cui la S.C. ha fissato alcuni punti fondamentali: il carattere imperativo delle regole dettate dalla legge sulla competenza per i procedimenti disciplinari, stabilito dagli artt. 55, comma 1, e 55-bis, comma 4, (ora comma 2), del d.lgs. n. 165 del 2001, va riferito al principio di terzietà ivi espresso e postula solo la distinzione, sul piano organizzativo, fra detto ufficio e la struttura nella quale opera il dipendente, senza attribuire natura imperativa riflessa al complesso delle regole procedimentali interne che regolano la costituzione e il funzionamento dell’U.P.D; ne consegue che, qualora non sia dimostrata la violazione del predetto principio di terzietà o del diritto di difesa, non costituiscono ragione di nullità della sanzione le modalità attraverso cui, nel corso del procedimento disciplinare, si sia proceduto alla sostituzione di taluno dei componenti dell’ufficio stesso.

A proposito di terzietà, l’esigenza è quella di evitare che la cognizione disciplinare avvenga nell’ambito dell’ufficio di appartenenza del lavoratore. Pertanto, essa deve dirsi rispettata, secondo Sez. L, n. 20417/2019, Torrice, Rv. 654791-01, in caso di identificazione dell’U.P.D. con il Direttore regionale, in armonia con la vigente disciplina regolamentare dell’ente, nella specie Agenzie delle Entrate. Tale organo garantisce infatti, attesa la sua posizione di vertice, il sufficiente distacco dalla struttura lavorativa alla quale è addetto il dipendente autore dell’infrazione.

L’U.P.D. costituisce un collegio perfetto, che deve operare con il plenum dei suoi componenti nelle fasi in cui l’organo è chiamato a compiere valutazioni tecnico-discrezionali o ad esercitare prerogative decisorie, rispetto alle quali si configura l’esigenza che tutti i suoi componenti offrano il loro contributo ai fini di una corretta formazione della volontà collegiale. Tale esigenza non ricorre invece (Sez. L, n. 17357/2019, Marotta, Rv. 654367-01) rispetto agli atti preparatori, istruttori o strumentali, verificabili a posteriori dall’intero consesso, restando irrilevante, ai fini della validità della sanzione irrogata, l’eventuale previsione regolamentare che impone la collegialità per tutte le fasi del procedimento disciplinare.

Sez. L, n. 20845/2019, Bellè, Rv. 654851-01, ha fissato alcuni princìpi basilari in materia di sanzioni irrogabili: a) la contestazione dell’infrazione, per essere valida, deve contenere l’indicazione dei fatti addebitati, mentre non è necessaria quella della sanzione per essi prevista; b) l’attribuzione della competenza al Dirigente della struttura cui appartiene il dipendente o all’U.P.D., ai sensi dell’art. 55-bis del d.lgs. n. 165 del 2001, si definisce esclusivamente sulla base delle sanzioni edittali massime stabilite per i fatti contestati, e non sulla base della misura che la P.A. possa prevedere di irrogare; c) la circostanza che l’U.P.D, presso cui si è radicato il procedimento nei termini di cui sopra, fruendo dell’intero margine edittale, applichi una sanzione inferiore a quella che ha costituito il discrimine di tale competenza, non è ragione d’invalidità qualora ciò sia conseguenza della necessaria proporzionalità rispetto ai fatti addebitati.

Più di dettaglio altre pronunce.

Sez. L, n. 06555/2019, Torrice, Rv. 653191-01, ha puntualizzato che la convocazione a difesa del lavoratore, ai sensi dell’art. 55 bis del d.lgs. n. 165 del 2001, è atto recettizio e richiede, pertanto, di essere portata a conoscenza del destinatario per produrre effetti; tuttavia, la mancata comunicazione del differimento dell’audizione può dare luogo a nullità del procedimento, e della conseguente sanzione, solo ove l’interessato provi di aver subito un concreto pregiudizio all’esercizio della difesa.

Sez. L, n. 11949/2019, Torrice, Rv. 653750-01, si è soffermata sul richiamo, contenuto nell’art. 53, comma 7, del d.lgs. n. 165 del 2001, al potere di diffida di cui all’art. 63 del d.P.R. n. 3 del 1957, chiarendo che il suo mancato esercizio non preclude l’esercizio dell’azione disciplinare nel caso in cui quest’ultima sia correlata all’espletamento di incarichi retribuiti non autorizzati (di cui al comma 7 dello stesso articolo).

Sez. L, n. 17638/2019, Di Paolantonio, Rv. 654477-01, si è occupata dei procedimenti disciplinari, avviati e sospesi in data antecedente all’entrata in vigore del d.lgs. n. 150 del 2009 e riattivati in epoca successiva alla modifica dell’art. 5 della l. n. 97 del 2001; ad essi si applica il termine perentorio stabilito per la conclusione del procedimento dalla contrattazione collettiva di comparto.

Un’interessante decisione, che attiene però ai profili sostanziali dell’illecito disciplinare, è Sez. L, n. 28757/2019, Marotta, Rv. 655613-01, con cui la Corte ha affermato che i dipendenti con rapporto di lavoro a tempo parziale superiore al 50 per cento non possono considerarsi implicitamente autorizzati allo svolgimento di attività extra lavorativa retribuita, in quanto la normativa consente una deroga al principio di incompatibilità in caso di svolgimento di lavoro part-time solo quando il lavoratore svolga una prestazione ad orario ridotto non superiore al 50 per cento.

Sull’estensione dei doveri degli agenti di polizia municipale, con le conseguenti ricadute disciplinari in caso di loro violazione, vi è poi Sez. L, n. 31388/2019, Marotta, Rv. 655996-01, con cui è stata confermata la legittimità di una sanzione disciplinare conservativa, applicata ad un commissario aggiunto di polizia municipale, che non era intervenuto a salvaguardia dell’incolumità del Sindaco aggredito in sua presenza nella casa comunale, sul presupposto che gli agenti di polizia municipale sono gravati da un generale dovere di vigilanza, nel mantenimento dell’ordine pubblico e nella tutela delle persone e dei beni, non connesso ad alcuna specifica operazione di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza, sicché incombe sugli stessi l’obbligo di intervenire quando sussistano situazioni dagli inequivoci ed oggettivi connotati di gravità ed urgenza.

A margine delle vicende disciplinari, ma pur sempre ricollegata a comportamenti scorretti del dipendente pubblico, è la questione affrontata Sez. L, n. 28436/2019, Bellè, Rv. 655605-02. Si trattava di stabilire se la definizione agevolata del giudizio di responsabilità per danno erariale fosse ragione di consolidamento dei benefici illegittimamente acquisiti dal funzionario. La sentenza lo ha negato, osservando come l’azione di ripetizione in questo caso si fondi sul comportamento colposo del dipendente, quindi del tutto autonoma rispetto all’azione di ripetizione dispiegata dall’amministrazione pubblica verso il lavoratore per le somme da questi indebitamente percepite, con la precisazione però che quanto ricevuto in sede amministrativa dalla P.A. a ristoro del danno deve essere detratto dalla pretesa azionata nel giudizio di indebito.

9. La cessazione del rapporto di lavoro.

Con riguardo alla facoltà, attribuita alle pubbliche amministrazioni dall’art. 72, comma 11, del d.l. n. 112 del 2008, di risolvere il rapporto di lavoro a decorrere dalla maturazione del requisito di anzianità contributiva per l’accesso al pensionamento, Sez. L, n. 06556/2019, De Felice, Rv. 653192-01, ha asserito che, anteriormente all’entrata in vigore dell’art. 16, comma 11, del d.l. n. 98 del 2011, conv. con modif. dalla l. n. 111 del 2011, tale risoluzione doveva essere motivata, giacché è solo attraverso la motivazione che l’amministrazione esplicita le ragioni organizzative sottese all’adozione dell’atto di risoluzione e lo rende rispondente ai principi di correttezza e buona fede nonché al pubblico interesse che deve costantemente orientare l’azione amministrativa. La Corte si era già espressa in tale senso con Sez. L, n. 24583/2017, Di Paolantonio, Rv. 646347-01.

In tema di dimissioni del lavoratore, Sez. L, n. 21297/2019, Tricomi I., Rv. 654999-01, ha statuito che la procedura di convalida di cui all’art. 4, commi da 16 a 22, della l. n. 92 del 2012, in assenza dei provvedimenti attuativi per l’armonizzazione del lavoro privato a quello nelle pubbliche amministrazioni previsti dall’art. 1, comma 8, della stessa legge, non si applica al pubblico impiego contrattualizzato, in quanto costituisce una disciplina modulata sulle dinamiche del lavoro privato, fermo restando l’obbligo per il datore lavoro pubblico di conformarsi ai principi costituzionali di legalità e di imparzialità.

Relativamente alla specifica disciplina degli esperti esterni del SECIT, sulla premessa che essa non esclude la configurabilità di un rapporto di pubblico impiego a termine, siccome risultante dall’accertamento dell’effettivo inserimento nell’organizzazione pubblicistica e dell’adibizione a un servizio rientrante nei fini istituzionali dell’ente pubblico (non assumendo rilievo, di contro, l’assenza di un atto formale di nomina né la violazione delle norme imperative in tema di assunzione alle dipendenze della pubblica amministrazione), Sez. L, n. 16753/2019, Torrice, Rv. 654242-01, ha affermato che, di conseguenza, la soppressione del SECIT per factum principis non comporta di per sé la risoluzione del rapporto in difetto di prova, da parte del datore di lavoro pubblico, dell’impossibilità di continuare a ricevere la prestazione.

Nell’ambito del lavoro alle dipendenze degli enti locali, relativamente alla facoltà, prevista dall’art. 90 del Testo unico sull’ordinamento degli enti locali (d.lgs. n. 267 del 2000), di instaurare rapporti di lavoro subordinato a tempo determinato per gli uffici cd. “di staff”, Sez. L, n. 03468/2019, Tricomi I., Rv. 659212-01, ha affermato che, poiché detto articolo fa riferimento sia alla deliberazione dell’ente (segnatamente, al regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi), sia al contratto di lavoro individuale, oltre a richiamare il contratto collettivo nazionale del personale degli enti locali, rimettendo a tale pluralità di fonti la disciplina del rapporto, ne deriva l’ammissibilità del recesso datoriale ad nutum per il venir meno del rapporto fiduciario qualora il contratto individuale dia rilievo all’intuitus personae non solo nella fase genetica, ma anche in quella di risoluzione del rapporto di lavoro, quale previsione contrattuale coerente con la specialità dell’istituto che non trova esaustiva disciplina nel c.c.n.l.

10. La dirigenza.

Anche nel corso dell’anno in rassegna, la materia della dirigenza pubblica è stata all’origine di un ampio contenzioso.

Uno dei nodi più critici è da sempre quello delle modalità di conferimento degli incarichi dirigenziali, che ha richiesto ripetuti interventi legislativi sull’art. 19 del d.lgs. n. 165 del 2001.

Prima della riforma operata dal d. lgs. n. 150 del 2009, l’art. 19 prevedeva che le Amministrazioni predeterminassero le procedure definite dalla contrattazione collettiva, nonché i criteri generali per l’affidamento e la revoca degli incarichi dirigenziali, tenendo conto, in relazione

alla natura e alle caratteristiche degli obiettivi prefissati, delle attitudini e delle capacità professionali del singolo dirigente.

Sez. L, n. 10567/2019, Blasutto, Rv. 653622-01, ha precisato che tale disciplina, applicabile anche alle Amministrazioni locali, radica il potere-dovere del giudice di verificare se l’operato dell’amministrazione, concernente il conferimento degli incarichi in questione, trovi o meno fondamento nei predetti criteri generali; nella specie, la S.C. ha pertanto cassato la sentenza di merito che non aveva dato adeguatamente conto delle ragioni dell’esclusione di un dirigente da una procedura selettiva per il conferimento dell’incarico di direttore di una direzione regionale, avendo omesso di vagliare se la situazione in cui versava il predetto dirigente corrispondesse ad una delle cause di esclusione previamente determinate dalla P.A.

Sul rapporto tra atti organizzativi di carattere generale e singolo incarico dirigenziale, merita per prima attenzione la complessa ricostruzione operata da Sez. L, n. 16999/2019, Marotta, Rv. 654363-01, in un caso di accorpamento, disposto con d.P.C.M., di un dipartimento della Presidenza del Consiglio dei Ministri (nella specie, il Dipartimento per lo sviluppo e la competitività del turismo) con altra struttura della Presidenza stessa, accorpamento cui era conseguita la revoca di un incarico dirigenziale generale già assegnato nell’ambito di tale dipartimento.

La Corte ha dichiarato legittima la revoca, alla luce del fatto che l’art. 21 della l. n. 400 del 1988 e l’art. 7 del d.lgs. n. 303 del 1999 hanno attribuito alla Presidenza del Consiglio dei Ministri un’ampia autonomia organizzativa e regolamentare, rimessa a decreti del Presidente del Consiglio largamente discrezionali e rimodulabili nel tempo, restando irrilevante che l’articolazione modificata o soppressa con il d.P.C.M. sia stata istituita con un atto avente forza di legge. A fronte di una norma generale che attribuisce il potere organizzativo da esercitare per decreti, è da escludersi una riserva di legge idonea a consumare detto potere.

Se però la riduzione e la rimodulazione delle strutture organizzative di un ente pubblico sono operate attraverso lo strumento legislativo (nella specie, regionale), fino all’adozione del regolamento organizzativo non si ha nessuna incidenza sulle posizioni dirigenziali. Lo ha precisato Sez. L, n. 18895/2019, Cinque, Rv. 654505-01, a proposito di un’azienda di trasporto pubblico locale della Regione Abruzzo.

Vi sono poi le numerose questioni in materia di retribuzione dei dirigenti.

Anzitutto, va ricordato che, in base al principio di onnicomprensività previsto dall’art. 24 del d.lgs. n. 165 del 2001 (e in precedenza dall’art. 24 del d.lgs. n. 29 del 1993), il trattamento economico dirigenziale remunera tutte le funzioni e i compiti attribuiti in ragione dell’ufficio ricoperto dall’Amministrazione presso la quale il dirigente presta servizio o su designazione della stessa.

Sez. L, n. 27385/2019, Marotta, Rv. 655520-01, ha così statuito, in una fattispecie relativa all’attività di presidente di nucleo di valutazione assegnata ad un dirigente dell’Ufficio scolastico provinciale, che esso non è derogato dall’art. 16 della l. n. 448 del 2001, che riguarda i compensi provenienti da terzi corrisposti direttamente in favore dell’Amministrazione.

Sez. L, n. 32264/2019, Bellè, Rv. 656049-01, ha tratto dal principio di onnicomprensività la conseguenza della non spettanza di un compenso ulteriore per il lavoro straordinario, inteso quale prestazione eccedente gli orari stabiliti dalla contrattazione collettiva; un simile compenso è dovuto solo per particolari prestazioni aggiuntive specificamente previste dalla legge o dalla contrattazione collettiva e come tali remunerate sulla base di appositi presupposti.

Un importante principio è anche quello enunciato da Sez. L, n. 21166/2019, Tria, Rv. 654997-01: ai fini della determinazione della retribuzione accessoria, l’attribuzione di un determinato trattamento economico mediante l’adozione, ad opera della P.A., di un atto negoziale di diritto privato di gestione del rapporto, non è sufficiente, di per sé, a costituire una posizione giuridica soggettiva in capo al lavoratore, giacché la misura economica deve trovare necessario fondamento nella contrattazione collettiva, né può ritenersi configurabile una responsabilità per inadempimento dell’Amministrazione nei confronti del dipendente per non essere pervenuta alla conclusione del contratto collettivo. In applicazione del principio, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza di merito che aveva riconosciuto la retribuzione di risultato a un vicesegretario comunale per l’attività di rogito, svolta in sostituzione del segretario comunale, ancorché non ricorressero i presupposti previsti dal c.c.n.l. di settore.

Quando l’Amministrazione receda anticipatamente dal contratto a termine dirigenziale e tale recesso sia dichiarato illegittimo, le conseguenze risarcitorie vanno commisurate non al solo trattamento economico fondamentale, ma anche alla retribuzione di posizione prevista per l’incarico ricoperto al momento dell’illegittimo recesso dal rapporto e che sarebbe stata percepita sino alla scadenza (Sez. L, n. 17355/2019, Marotta, Rv. 654366-01).

Sempre in tema di remunerazione dei dirigenti, si segnala poi Sez. L, n. 22014/2019, De Marinis, Rv. 655012-01, relativa al caso di un pubblico dipendente che non aveva conseguito la qualifica di dirigente e che era cessato dal servizio nell’esercizio di mansioni superiori in ragione dell’affidamento di un incarico dirigenziale temporaneo di reggenza ai sensi dell’art. 52 del d.lgs. n. 165 del 2001: nella base di calcolo dell’indennità di buonuscita spettante ai sensi degli artt. 3 e 38 del d.P.R. n. 1032 del 1973, va considerato – ha osservato la S.C. – lo stipendio relativo alla qualifica di appartenenza e non quello corrisposto per il temporaneo esercizio delle superiori mansioni di dirigente.

Infine, merita di essere segnalata Sez. L, n. 32258/2019, Di Paolantonio, Rv. 656101-02, chiamata a decidere di un recesso dell’Amministrazione dal rapporto dirigenziale per ragioni disciplinari.

La sentenza ha cassato la decisione di merito che aveva giudicato illegittimo il recesso per non aver l’Amministrazione atteso il parere del Comitato dei garanti previsto dalla contrattazione collettiva, osservando come tale parere sia previsto dall’art. 22 del d.lgs. n. 165 del 2001 solo per le ipotesi di recesso collegato alla responsabilità dirigenziale per mancato raggiungimento degli obiettivi o inosservanza delle direttive, non quando il recesso sia conseguenza di una responsabilità disciplinare.

Né la contrattazione collettiva può allargare le ipotesi in cui il parere è richiesto, trattandosi di materia inderogabile.

10.1. La dirigenza del comparto sanitario.

A proposito dei dirigenti medici, vanno anzitutto segnalate alcune importanti pronunce in materia di incompatibilità, con cui la S.C. ha definito i confini del relativo regime, dettato dall’art. 53, commi 6 e 7, del d.lgs. n. 165 del 2001.

Un quadro generale è stato tracciato da Sez. L, n. 31277/2019, Marotta, Rv. 655987-01, con cui la Corte ha operato una ricostruzione dell’istituto delle incompatibilità e si è poi soffermata sulle regole speciali concernenti la dirigenza medica.

La pronuncia ha chiarito che la normativa sul pubblico impiego (art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001) prevede, in attuazione dell’art. 98 Cost., il dovere di esclusività del dipendente pubblico, il quale è obbligato a riservare all’ufficio di appartenenza tutte le sue energie lavorative, con espresso divieto, salve limitate tassative eccezioni, di svolgere attività imprenditoriale, professionale o di lavoro autonomo, nonché di instaurare rapporti di lavoro alle dipendenze di terzi o accettare cariche o incarichi in società o enti che abbiano fini di lucro.

Tale normativa, inderogabile da parte della contrattazione collettiva, pone sbarramenti assoluti, mirando a prevenire, già sul piano della potenzialità, il dispendio di energie del lavoratore pubblico in altre attività; trattasi di valutazione astratta con giudizio prognostico ex ante, indipendentemente dall’esistenza di riflessi negativi sul rendimento e sull’osservanza dei doveri d’ufficio.

In questo quadro si inserisce la normativa speciale relativa ai dirigenti medici, che la Corte ha applicato rispetto a un dirigente titolare di quote in una società privata, il cui oggetto sociale consisteva nella organizzazione e nella prestazione di servizi accessori all’attività medica.

L’art. 4, comma 7, della l. n. 412 del 1991 ha introdotto il principio del rapporto unico di lavoro con il servizio sanitario nazionale, vietando in particolare “la titolarità o la compartecipazione delle quote di imprese che possono configurare conflitto di interessi con il servizio sanitario nazionale”.

La pronuncia ha chiarito che anche in questo caso l’incompatibilità deve essere valutata sulla base di un giudizio prognostico ex ante, da svolgersi anche e principalmente con riferimento all’oggetto sociale. Ne consegue che, nel giudizio disciplinare diretto ad accertare la responsabilità del medico, l’Azienda sanitaria può limitarsi a dimostrare la partecipazione in una società avente tali caratteristiche, spettando al medico dimostrare che a quel dato formale non corrispondesse alcuna realtà fattuale.

Sempre in tema di incompatibilità, Sez. L, n. 00427/2019, Di Paolantonio, Rv. 652221-01, ha stabilito che tale disciplina si estende anche ai dirigenti medici degli enti previdenziali, per i quali la successione delle fonti, normative e pattizie, è particolarmente complessa. Inizialmente, trovava applicazione l’art. 4, comma 7, della l. n. 412 del 1991, dettato per la dirigenza medica del S.S.N., ma esteso al personale medico degli enti previdenziali, unitamente a tutti gli altri istituti normativi, dall’art. 13 della l. n. 222 del 1984. Tale ultima disposizione è tuttavia divenuta inapplicabile a seguito della sottoscrizione dei contratti collettivi di settore, successivi alla privatizzazione del pubblico impiego (secondo quanto previsto dall’art. 72 del d.lgs. n. 29 del 1993, poi trasfuso nell’art. 69, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001).

La successiva Sez. L, n. 03467/2019, Di Paolantonio, Rv. 652907-01, si è occupata delle incompatibilità per coloro che ricoprono ruoli di governo di aziende pubbliche di servizi alla persona (ex IPAB). Si dubitava dell’applicabilità delle regole dettate dall’art. 53 citato, attesa l’equiparazione posta da alcune disposizioni tra tali dirigenti e gli amministratori degli enti territoriali. In realtà, proprio la circostanza che l’art. 7, comma 4, del d.lgs. n. 207 del 2001, operi, per gli organi delle aziende di servizi alla persona, un rinvio limitato a taluni specifici istituti di garanzia previsti per i rappresentati degli enti locali, ha indotto la S.C. a escludere che il legislatore abbia considerato integrale tale equiparazione. Per le incompatibilità, non subisce pertanto deroghe il regime generale, che trova fondamento nell’obbligo di esclusività sancito dall’art. 98 Cost. per i dipendenti pubblici.

Sez. L, n. 00091/2019, Tricomi I., Rv. 652045-02, ha poi rammentato che nell’ambito della dirigenza sanitaria non trova applicazione l’art. 2103 c.c. con riferimento al mancato riconoscimento delle mansioni superiori, atteso che l’inapplicabilità di tale disposizione ai dirigenti del pubblico impiego privatizzato, sancita in via generale dall’art. 19 del d.lgs. n. 165 del 2001, è ribadita per la dirigenza sanitaria, inserita in un unico ruolo distinto per profili professionali e in un unico livello, dall’art. 15-ter del d.lgs. n. 502 del 1992 e dall’art. 28, comma 6, del c.c.n.l. 8 giugno 2000.

In tema di retribuzione dei dirigenti medici, assumono rilievo le seguenti decisioni.

Sez. L, n. 04953/2019, Di Paolantonio, Rv. 653020-01, ha chiarito che l’art. 39, comma 9, del c.c.n.l. 8 giugno 2000 per la Dirigenza medica del servizio sanitario nazionale, che prevede la maggiorazione della retribuzione di posizione in favore dei dirigenti preposti a più strutture complesse, si interpreta nel senso che la maggiorazione in questione può essere riconosciuta solo qualora i poteri attribuiti al dirigente, preposto ad una struttura composta al suo interno da più articolazioni, non annullino, sotto il profilo gestionale, l’autonomia delle articolazioni stesse.

Sez. L, n. 28938/2019, Tria, Rv. 655702-01, si è invece soffermata sulla remunerazione per l’attività svolta durante i turni di reperibilità, giungendo alla conclusione che il carattere derogabile del limite a tali turni, fissato in numero di dieci dall’art. 17 del c.c.n.l. 2002-2005, esclude che per quelli prestati in eccedenza debba essere corrisposta una retribuzione aggiuntiva, ma non anche che lo svolgimento del turno, che limita, pur senza escluderlo, il godimento del riposo, venga compensato; la mancata remunerazione lederebbe, infatti, i diritti fondamentali del lavoratore, oltre che l’imparzialità della P.A., la correttezza e la buona fede, senza che rilevino i limiti di spesa, in quanto la distribuzione delle risorse disponibili non può essere effettuata in modo tale da violare i diritti fondamentali degli operatori del settore.

Vi è poi Sez. L, n. 31387/2019, Di Paolantonio, Rv. 655995-01, già citata nel par. 3., con cui la S.C. ha ribadito che, nel pubblico impiego privatizzato – dove il rapporto di lavoro è disciplinato esclusivamente dalla legge e dalla contrattazione collettiva – non possono essere attribuiti trattamenti economici non previsti da tali fonti, nemmeno se di miglior favore. Da ciò la conseguenza che il trattamento economico previsto dai c.c.n.l. per i dirigenti medici di struttura complessa non può essere rivendicato da chi, al di fuori delle procedure concorsuali e selettive disciplinate dagli stessi contratti, sia stato preposto a una struttura che, seppure definita complessa dall’atto aziendale, non risponde ai requisiti richiesti dalle disposizioni regolamentari e collettive.

Quanto all’attività libero professionale svolta dal medico dipendente dell’ASL, nel 2019 la S.C. ha fissato alcuni punti fermi.

Quanto all’attività intramoenia, si è precisato che essa rientra nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato, risultando tale regime connotato da un complesso di obbligazioni che scaturiscono dal sottostante rapporto che lega il sanitario all’ente da cui dipende; ne consegue – in tal senso Sez. L, n. 04948/2019, Blasutto, Rv. 653018-01 – che i crediti per le prestazioni intramurarie sono soggetti alla prescrizione quinquennale.

La citata Sez. L, n. 32264/2019, Bellè, Rv. 656049-01, nel riaffermare il principio di onnicomprensività della retribuzione dirigenziale, ha sostenuto che è dovuto un compenso ulteriore solo per particolari prestazioni aggiuntive specificamente previste dalla legge o dalla contrattazione collettiva e come tali remunerate sulla base di appositi presupposti, tra cui rientrano, proprio per la dirigenza sanitaria, gli incarichi libero-professionali intramoenia ex art. 15-quinquies, comma 2, del d.lgs. n. 502 del 1992.

In ordine alla cessazione dell’incarico dirigenziale dei medici, di rilievo sono le precisazioni fornite da Sez. L, n. 30228/2019, Di Paolantonio, Rv. 655867-01: nel caso di termine apposto all’incarico conferito al dirigente medico legato all’azienda sanitaria da contratto a tempo indeterminato, lo spirare del termine comporta la cessazione dell’incarico ma non del rapporto; nel caso di termine finale del contratto del dirigente assunto a tempo determinato, invece, è lo stesso rapporto che si risolve automaticamente alla scadenza ed il dirigente non vanta alcun diritto soggettivo alla rinnovazione, che, seppure consentita nei limiti previsti dalla legge e dal c.c.n.l., rientra comunque nella facoltà dell’amministrazione, tenuta a valutare la persistenza delle condizioni che legittimano il ricorso alla tipologia contrattuale.

Infine, meritano di essere segnalate due pronunce concernenti categorie di medici non rientranti originariamente nella dirigenza sanitaria ex d.lgs. n. 502 del 1992.

Per quanto concerne gli ex medici condotti con rapporto non esclusivo con le ASL, Sez. L, n. 29625/2019, Bellè, Rv. 655714-01, ha ribadito che essi, in ragione della loro libera scelta di non esercitare la relativa opzione, permangono in una posizione giuridica differenziata rispetto al restante personale medico del servizio sanitario nazionale, mantenendo, in particolare, il trattamento retributivo omnicomprensivo originariamente previsto dall’art. 110 del d.P.R. n. 270 del 1987, con esclusione degli ulteriori emolumenti previsti dalla contrattazione collettiva per i dirigenti medici del servizio sanitario nazionale con rapporto esclusivo di dipendenza con la ASL, tra cui l’indennità di specificità medica. Al riguardo, non assume rilievo lo stanziamento di somme previsto dall’art. 1, comma 456, della l. n. 205 del 2007, limitato alla previsione di un impegno di spesa da ripartire secondo criteri da definire a cura del Ministero della salute.

Vi è poi la vicenda dei dirigenti sanitari, già dipendenti della Associazione ROMAIL e assunti dall’Azienda Policlinico Umberto I ai sensi della l.r. Lazio n. 20 del 2014: Sez. L, n. 03476/2019, Torrice, Rv. 652869-01, chiamata a stabilire se avessero diritto all’anzianità di servizio maturata prima dell’immissione in ruolo, lo ha negato, sul presupposto che la stessa legge regionale, facendo riferimento alle posizioni iniziali dell’area della dirigenza, intendesse attribuire in modo inequivoco a detto personale la posizione ordinamentale del dirigente sanitario all’atto della prima assunzione, da individuarsi nel momento in cui è stato costituito per la prima volta il rapporto di impiego pubblico privatizzato con l’azienda sanitaria.

Per quanto concerne la dirigenza non medica del comparto sanitario, Sez. L, n. 03134/2019, Tria, Rv. 652876-01, ha dettato i criteri per la determinazione del fondo della retribuzione di risultato per il periodo successivo al 30 giugno 1997 e ha stabilito che trova applicazione, anche per i dirigenti ancora governati dal vecchio regime dell’incentivazione al cd. plus orario, la normativa statale sulla retribuzione di risultato, nell’interpretazione dell’art. 61, comma 2, del c.c.n.l. del 5 dicembre 1996 resa dalle Sezioni Unite della S.C., con la sentenza n. 30222 del 2017, in ordine alla determinazione della “quota massima spendibile”. I criteri previsti dagli accordi regionali, ancorché rispettosi dei massimali indicati dalla normativa statale, non sono utilizzabili, atteso che il trattamento economico di tutti i dipendenti pubblici contrattualizzati va ricondotto alla materia di competenza legislativa esclusiva statale dell’ordinamento civile, di cui all’art. 117, comma 2, lett. l) Cost.

11. La scuola: docenti e personale ATA.

Le controversie relative ai rapporti di lavoro nella scuola danno sempre origine a questioni complesse e problematiche, in ragione del numero assai elevato del personale coinvolto e della caoticità degli interventi legislativi che si sono susseguiti negli anni.

Anzitutto, vi è la materia delle supplenze scolastiche di docenti e personale ATA, che continua a richiedere alla Corte di cassazione puntualizzazioni e rifiniture, nonostante l’ampia opera ricostruttiva compiuta dalla giurisprudenza di legittimità negli ultimi anni, soprattutto a partire da Sez. L, n. 22552/2016, Torrice, Rv. 641607-01, 641608-01, 641609-01 e Sez. L, n. 22558/2016, Di Paolantonio, Rv. 641598-01.

In termini generali, Sez. L, n. 20918/2019, Di Paolantonio, Rv. 654798-01, ha ribadito che la clausola 4 dell’Accordo quadro sul rapporto a tempo determinato, recepito dalla direttiva n. 1999/70/CE, di diretta applicazione, impone di riconoscere l’anzianità di servizio maturata al personale del comparto scuola assunto con contratti a termine, ai fini dell’attribuzione della medesima progressione stipendiale prevista per i dipendenti a tempo indeterminato dai c.c.n.l. succedutisi nel tempo, con conseguente disapplicazione delle disposizioni di tali c.c.n.l. che, prescindendo dalla anzianità maturata, commisurano in ogni caso la retribuzione degli assunti a tempo determinato al trattamento economico iniziale previsto per i dipendenti a tempo indeterminato.

A sua volta, Sez. L, n. 30573/2019, Tria, Rv. 655876-01, ha confermato, in linea con i precedenti anche della giurisprudenza costituzionale, che la parificazione retributiva tra supplenti e docenti non può far leva sugli scatti biennali previsti dall’art. 53 della l. n. 312 del 1980, dato che al momento della contrattualizzazione del rapporto di impiego del personale della scuola, la disposizione da ultimo citata poteva dirsi vigente ed efficace solo relativamente ai docenti di religione (il cui status mantiene indubbie peculiarità anche dopo la legge n. 186 del 2003 istitutiva di un ruolo dei docenti di religione cattolica) e ad alcune particolari categorie di insegnanti che, sebbene non immessi nei ruoli, prestavano attività sulla base, non di supplenze temporanee o annuali, bensì in forza di contratti a tempo indeterminato previsti in via eccezionale.

L’importanza della decisione appena citata, soprattutto per la concreta gestione del contenzioso di merito, risiede soprattutto nel fatto che essa ha avuto cura di precisare che la decisione sulla domanda dei lavoratori a tempo determinato, volta a ottenere la parificazione retributiva rispetto ai docenti di ruolo, non può prescindere da un attento esame, da parte del giudice, del petitum sostanziale: con la conseguenza che, anche quando la domanda menzioni gli scatti biennali di anzianità e sia apparentemente diretta a ottenere tale voce retributiva, non può escludersi, al di là delle espressioni letterali e del richiamo all’art. 53, che essa in realtà celi la diversa e autonoma domanda di riconoscimento della progressione stipendiale per effetto del riconoscimento dell’anzianità di servizio.

Nello scorcio finale del 2019, poi, la S.C. è stata chiamata a importanti precisazioni sulle conseguenze della sentenza della Corte di giustizia UE 20 settembre 2018, causa C-466/17, Motter, originata da una controversia italiana, che aveva evocato la possibilità che la disparità di trattamento retributivo tra docenti di ruolo e precari potesse trovare una qualche giustificazione oggettiva.

A fare chiarezza sono giunte, all’esito di un complesso iter motivazionale, Sez. L, n. 31149/2019, Di Paolantonio, Rv. 655985-01, relativa al personale docente, e Sez. L, n. 31150/2019, Di Paolantonio, Rv. 655986-01, riferibile al personale ATA.

Le motivazioni delle due pronunce hanno un nucleo comune, ossia il ridimensionamento della portata della citata sentenza Motter.

Ad avviso della S.C., tale pronuncia della Corte di Lussemburgo, pur non escludendo in astratto la sussistenza di ragioni oggettive che possano giustificare un diverso e più favorevole trattamento economico del personale scolastico di ruolo rispetto a quello che abbia lavorato sulla base di supplenze temporanee, non ha smentito la propria precedente giurisprudenza sull’argomento e ha rimesso al giudice nazionale il compito di valutare la sussistenza e la consistenza delle predette ragioni.

La Cassazione ha dunque ribadito che la disparità non può essere giustificata dalla natura non di ruolo del rapporto di impiego, dalla novità di ogni singolo contratto rispetto al precedente, dalle modalità di reclutamento del personale nel settore scolastico e dalle esigenze che il sistema mira ad assicurare.

Svolta questa premessa, le due sentenze si sono poi però confrontate con i passaggi più delicati e potenzialmente dirompenti della sentenza Motter, quelli in cui la Corte di giustizia ha adombrato la possibilità che una completa parificazione del servizio pre-ruolo possa tradursi in una sorta di discriminazione alla rovescia, in danno dei docenti assunti con concorso generale.

Il rischio è reale, ha osservato la Cassazione, e trova origine nel fatto che l’art. 489 del d.lgs. n. 297 del 1994, come integrato dalla l. n. 124 del 1999, preveda che “il servizio di insegnamento è da considerarsi come anno scolastico intero se ha avuto la durata prevista agli effetti della validità dell’anno dall’ordinamento scolastico vigente al momento della prestazione”. Poiché i supplenti della scuola non necessariamente lavorano per l’intero anno solare, giovandosi di tale criterio potrebbero ottenere un’anzianità pari a quella dell’assunto a tempo indeterminato, pur avendo reso rispetto a quest’ultimo una prestazione di durata temporalmente inferiore.

La Corte di legittimità si è fatta carico dei dubbi del giudice sovranazionale e ha così precisato.

Anzitutto, Sez. L, n. 31150/2019, Di Paolantonio, Rv. 655986-01, ha osservato come la fictio iuris fissata dall’art. 489 valga solo per i docenti e non per il personale ATA. Per i non docenti un rischio di discriminazione alla rovescia, dunque, deve essere escluso in radice.

Quanto ai docenti, secondo Sez. L, n. 31149/2019, Di Paolantonio, Rv. 655985-01, un problema di trattamento discriminatorio può fondatamente porsi nelle sole ipotesi in cui l’anzianità effettiva di servizio, non quella virtuale ex art. 489 d.lgs. n. 297 del 1994, prestata con rapporti a tempo determinato, risulti superiore a quella riconoscibile ex art. 485 d.lgs. n. 297 del 1994, perché solo in tal caso l’attività svolta sulla base del rapporto a termine viene ad essere apprezzata in misura inferiore rispetto alla valutazione riservata all’assunto a tempo indeterminato.

L’invito rivolto ai giudici di merito è quello di compiere dunque una comparazione in concreto, secondo le seguenti scansioni.

Nel calcolo dell’anzianità occorre tener conto del solo servizio effettivo prestato, maggiorato, eventualmente, degli ulteriori periodi nei quali l’assenza è giustificata da una ragione che non comporta decurtazione di anzianità anche per l’assunto a tempo indeterminato (congedo ed aspettativa retribuiti, maternità e istituti assimilati), con la conseguenza che non possono essere considerati né gli intervalli fra la cessazione di un incarico di supplenza ed il conferimento di quello successivo, né, per le supplenze diverse da quelle annuali, i mesi estivi, in relazione ai quali questa Corte da tempo ha escluso la spettanza del diritto alla retribuzione, sul presupposto che il rapporto cessa al momento del completamento delle attività di scrutinio.

Si dovrà, invece, tener conto del servizio prestato in un ruolo diverso da quello rispetto al quale si domanda la ricostruzione della carriera, in presenza delle condizioni richieste dall’art. 485, perché il medesimo beneficio è riconosciuto anche al docente a tempo indeterminato che transiti dall’uno all’altro ruolo, con la conseguenza che il meccanismo non determina alcuna discriminazione alla rovescia.

Qualora, all’esito del calcolo effettuato nei termini sopra indicati, il risultato complessivo dovesse risultare superiore a quello ottenuto con l’applicazione dei criteri di cui all’art. 485 del d.lgs. n. 297 del 1994, la norma di diritto interno deve essere disapplicata ed al docente va riconosciuto il medesimo trattamento che, nelle stesse condizioni qualitative e quantitative, sarebbe stato attribuito all’insegnante assunto a tempo indeterminato, perché l’abbattimento, in quanto non giustificato da ragione oggettiva, non appare conforme al diritto dell’Unione (in tema v. anche Sez. L, n. 03473/2019, Di Paolantonio, Rv. 652913-01).

Non è consentito, invece, al docente assunto a tempo determinato, successivamente immesso nei ruoli, pretendere, sulla base della clausola 4 dell’Accordo quadro citato, una commistione di regimi, ossia, da un lato, l’applicazione del criterio più favorevole dettato dal T.U. e, dall’altro, l’eliminazione del solo abbattimento, perché la disapplicazione non può essere parziale, né può comportare l’applicazione di una disciplina diversa da quella della quale può giovarsi l’assunto a tempo indeterminato comparabile.

Ancora in tema di computabilità a fini retributivi e di anzianità del servizio pre-ruolo, di rilievo sono due ulteriori pronunce.

La prima è Sez. L, n. 32386/2019, Tricomi I., Rv. 656051-01, chiamata a risolvere la delicata questione dei docenti che abbiano prestato servizio precario presso le scuole parificate.

La pronuncia ha ripercorso l’evoluzione legislativa in materia di parificazione tra scuola pubblica e scuola privata, inquadrandola nella cornice costituzionale degli art. 33 e 97 Cost. e giungendo alla conclusione che il legislatore abbia senza dubbio inteso riconoscere all’insegnamento svolto nelle scuole paritarie private lo stesso valore di quello che viene impartito nelle scuole pubbliche, garantendo un trattamento scolastico equipollente agli alunni delle une e delle altre. Tale equipollenza é da intendere non solo con riguardo al riconoscimento del titolo di studio, ma anche con riguardo alla qualità del servizio di istruzione erogato dall’istituzione scolastica paritaria.

Tuttavia, ciò non dà luogo all’equiparazione del rapporto di lavoro che intercorre con la scuola paritaria con quello instaurato in regime di pubblico impiego privatizzato, attesa la persistente non omogeneità dello status giuridico del personale docente, come si evince già dalla modalità di assunzione, che nel primo caso può avvenire al di fuori dei principi concorsuali di cui all’art. 97 Cost.

La computabilità del servizio pre-ruolo nelle scuole parificate è stato dunque esclusa, in assenza di una norma specifica come quella dell’art. 485 del d.lgs. n. 297 del 1994, che riguarda unicamente le scuole statali e quelle cd. pareggiate (da non confondere con le parificate private).

La seconda è Sez. L, n. 16174/2019, Torrice, Rv. 654148-01, con cui è stata sancita l’applicabilità dell’art. 485, comma 6, all’insegnamento su posto di sostegno anche se svolto in assenza del titolo di specializzazione, in ragione del fatto che l’art. 7, comma 2, della legge n. 124 del 1999, che in tal senso si esprime, non ha carattere innovativo ed ha solo reso esplicito un precetto già desumibile dalla disciplina dettata dal Testo Unico.

Sempre in tema di retribuzione degli insegnanti, ma con riferimento al personale scolastico in servizio all’estero, merita poi di essere menzionata Sez. L, n. 26617/2019, Marotta, Rv. 655399-01: la sentenza ha chiarito che la clausola di cui alla nota a verbale dell’art. 76 del c.c.n.l. del comparto scuola del 24 luglio 2003 va interpretata nel senso che la ritenuta relativa all’indennità integrativa speciale sullo stipendio, ivi stabilita per il personale in servizio all’estero, non è applicabile a decorrere dal successivo c.c.n.l. comparto scuola del 29 novembre 2007, ove non è stata reiterata la relativa previsione, avendo detta indennità perso la sua iniziale funzione di adeguamento al costo della vita e concorrendo, ormai, a formare lo stipendio tabellare. L’importanza della pronuncia appena menzionata è data dal fatto che essa è stata adottata ex art. 64, comma 3, del d.lgs. n. 165 del 2001, nell’ambito della cd. nomofilachia accelerata sui contratti collettivi nazionali.

Nell’ambito del contenzioso riguardante il personale insegnante all’estero, Sez. L, n. 00449/2019, Tria, Rv. 652562-01, ha poi avuto cura di precisare che in assenza di una specifica previsione di legge o di contratto, la restituzione ai ruoli metropolitani per incompatibilità ovvero per ragioni di servizio di tale personale non comporta l’esclusione sine die da ogni ulteriore destinazione all’estero del dipendente che, in epoca successiva alla suddetta restituzione, sia stato utilmente inserito nelle graduatorie permanenti per classi di concorso che si riferiscono ad attività, competenze linguistiche e contesti geografici diversi. La S.C. ha pertanto ritenuto illegittimo il depennamento di una docente dalle graduatorie per l’attività di insegnante di lingua francese, disposto in ragione di un precedente provvedimento di restituzione ai ruoli, per revoca del gradimento da parte dell’autorità estera, riguardante la diversa attività di lettrice di lingua tedesca.

In tema di procedimento disciplinare del personale docente della scuola, Sez. L, n. 28111/2019, Tricomi I., Rv. 655602-01, e Sez. L, n. 30226/2019, Bellè, Rv. 655866-01, hanno dato continuità all’orientamento secondo il quale, relativamente ai fatti per i quali la notizia dell’infrazione risulti acquisita dagli organi dell’azione disciplinare dopo il 16 novembre 2009, si applicano le regole procedimentali di cui all’art. 55-bis del d.lgs. n. 165 del 2001 introdotto dal d.lgs. n. 150 del 2009.

Dunque, poiché per le infrazioni di cui all’art. 494, comma 1, lettere a), b) e c), del d.lgs. n. 297 del 1994, la fattispecie legale di cui al medesimo art. 494, comma 1, e all’art. 492, comma 2, lettera b), prevede “la sospensione dall’insegnamento o dall’ufficio fino a un mese”, ai sensi dell’art. 55-bis, comma 1, primo e secondo periodo, applicabile ratione temporis nel testo anteriore alle modifiche introdotte dal d.lgs. n. 75 del 2017, per il procedimento disciplinare sussiste la competenza dell’Ufficio per i procedimenti disciplinari (U.P.D.) e non del dirigente scolastico, trattandosi di infrazioni punibili con sanzione più grave rispetto a quella inferiore alla sospensione dal servizio con privazione della retribuzione per più di dieci giorni, dovendosi fare riferimento alla fattispecie disciplinare legale e non a valutazioni ex ante della sanzione irrogabile in concreto, meramente ipotetiche e discrezionali.

Tra gli obblighi del personale docente vi è poi anche quello di svolgere le attività funzionali all’insegnamento di carattere collegiale.

Sez. L, n. 07320/2019, Di Paolantonio, Rv. 653087-01, ha chiarito che tale obbligo grava sul personale docente del comparto della scuola assunto con contratto a tempo parziale, secondo le stesse modalità previste per i docenti a tempo pieno, e che, in caso di part time verticale o misto, deve essere assolto anche se la convocazione é disposta in giorni della settimana non coincidenti con quelli stabiliti per l’insegnamento.

Un chiarimento in tema di obblighi del personale e conseguenze disciplinari delle loro violazioni, è anche quello fornito da Sez. L, n. 20844/2019, Tricomi I., Rv. 654994-01, ancorché con riferimento al personale ATA: ai sensi dell’art. 50 del c.c.n.l. comparto scuola del 29 novembre 2007 e della allegata tabella A, tra le mansioni di cui al profilo professionale dell’Area A rientrano le attività di accoglienza e sorveglianza degli alunni di scuola primaria nei periodi immediatamente antecedenti e successivi alle attività scolastiche, attività in cui si inserisce anche l’accompagnamento al punto di raccolta dello scuolabus; la S.C. ha così confermato l’adeguatezza della sanzione disciplinare dell’ammonimento irrogata ad un dipendente ATA che aveva omesso di accompagnare allo scuolabus due alunne rimaste isolate e distaccate dal gruppo.

Un settore particolare è poi quello del personale degli Istituti di alta formazione (AFAM), che dà origine a un numero limitato di controversie, tutte connotate però da forte problematicità.

Anzitutto, tali controversie appartengono alla giurisdizione del giudice ordinario (Sez. L, n. 17140/2019, Torrice, Rv. 654365-02).

In materia di incarichi a tempo determinato, Sez. L, n. 30061/2019, Bellè, Rv. 655860-01, ha poi inteso chiarire la portata dell’art. 2, comma 6, della legge di riforma dell’alta formazione e specializzazione artistica e musicale, la l. n. 508 del 1999. Tale disposizione ha avuto il solo scopo di conservare nel medesimo stato giuridico, in un apposito ruolo ad esaurimento, il personale, docente e non docente, in servizio a tempo indeterminato nelle istituzioni artistiche, senza apportare modifiche in senso migliorativo al regime di tali dipendenti, né stabilizzazioni di incarichi temporanei. La sentenza ha pertanto escluso che essa attribuisca ai docenti a tempo indeterminato, nominati direttori dei conservatori a tempo determinato, il diritto alla stabilizzazione nell’incarico di direttore.

12. I rapporti di lavoro nelle società cd. in house.

La natura ibrida delle società cd. in house solleva numerose questioni interpretative in tema di reclutamento del personale e gestione dei rapporti di lavoro.

Sotto il primo aspetto, l’art. 18 del d.l. n. 112 del 2008 – oggetto di continue modifiche negli anni successivi alla sua entrata in vigore – ha esteso alle società partecipate, ai fini del reclutamento in questione, la disciplina delle procedure concorsuali e selettive delle amministrazioni pubbliche.

Secondo l’insegnamento di Sez. L, n. 03621/2018, Di Paolantonio, Rv. 647442-01, tale previsione ha carattere imperativo e la sua violazione impedisce la conversione in rapporto a tempo indeterminato del contratto a termine affetto da nullità, anche prima della espressa previsione di tale sanzione contenuta nell’art. 19, comma 4, del d.lgs. n. 175 del 2016.

Nell’anno in esame, tale indirizzo è stato ribadito da Sez. L, 03662/2019, Torrice, Rv. 652897-01 (rispetto a un’azienda di trasporto pubblico locale) e da Sez. L, n. 19925/2019, Tricomi I., Rv. 654741-01 (in una fattispecie riguardante l’ANAS).

Per i contratti conclusi prima della novella del 2008, invece, il quadro sembrava delineato in modo chiaro giusta l’affermazione secondo cui il regime giuridico dei sistemi di assunzione doveva considerarsi quello proprio dello strumento privatistico adoperato: ne derivava l’attribuzione al giudice ordinario della giurisdizione sulle controversie di lavoro (Sez. U, n. 07759/2017, Bronzini, Rv. 643551-01 e Sez. L, n. 07222/2018, Cinque, Rv. 647609-01) e la possibilità di convertire eventuali contratti a tempo determinato nulli (Sez. L, n. 13480/2018, De Felice, Rv. 648740-01, e Sez. L, n. 21378/2018, Torrice, Rv. 650213-01).

Nel corso del 2019, tuttavia, la nitidezza del quadro è stata offuscata con riferimento alle ipotesi in cui, già prima del d.l. n. 112 del 2008, la materia formava oggetto di discipline regionali restrittive, in un certo senso anticipatrici della normativa statale.

Il problema si era già posto nel 2018 a Sez. L, n. 05063/2018, Spena, Rv. 647375-01, che aveva potuto però evitare di prendere posizione, in ragione del fatto che il contratto a termine con l’azienda di trasporto pubblico locale era stato nella specie concluso quando la norma regionale restrittiva, in quel caso della Regione Sardegna, era stata già abrogata da una legge successiva, proprio in occasione della privatizzazione dell’azienda.

La questione è così riemersa nell’anno in rassegna.

Dapprima, Sez. L, n. 07050/2019, Balestrieri, Rv. 653085-01, ha affermato che la convertibilità è esclusa quando singole norme regionali impongano l’esperimento di procedure concorsuali o selettive per l’assunzione di personale dipendente delle società di gestione di servizi pubblici locali, dovendosi ritenere che la materia non sia di competenza esclusiva statale, né concorrente ex art. 117 Cost. (nella specie, si trattava dell’art. 7, comma 4, lett. f), della l.r. Abruzzo n. 23 del 2004, disposizione che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 29 del 2006, aveva già giudicato non invasiva della competenza esclusiva statale nella materia “ordinamento civile”, in quanto volta non già “a porre limitazioni alla capacità di agire delle persone giuridiche private, bensì a dare applicazione al principio di cui all’art. 97 della Costituzione rispetto ad una società che, per essere a capitale interamente pubblico, ancorché formalmente privata, può essere assimilata, in relazione al regime giuridico, ad enti pubblici”).

Successivamente, però, Sez. L, n. 20782/2019, Negri della Torre, Rv. 654795-01, ha ritenuto ammissibile la conversione in un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato di un contratto a termine illegittimo, stipulato prima della novella legislativa da una società a partecipazione pubblica siciliana, nonostante l’art. 45 della l.r. Sicilia n. 2 del 2007, già imponesse l’assunzione di nuovo personale solo con procedure di evidenza pubblica. La sentenza ha fatto leva sulla circostanza che l’art. 17 dello Statuto regionale siciliano autorizza l’emanazione di leggi in materia di rapporti di lavoro “entro i limiti dei principi ed interessi generali cui si informa la legislazione dello Stato” e, anche richiamando il precedente di Sez. L, n. 04895/2012, Nobile, Rv. 622414-01, ha così chiosato: “diversamente dovendo concludersi che la violazione delle norme dettate dal legislatore nazionale in materia di contratti a tempo determinato avrebbe conseguenze diverse a seconda della regione in cui ha sede il soggetto che se ne sia reso responsabile”.

Passando all’esame di pronunce dedicate alla gestione del rapporto di lavoro dei dipendenti delle società partecipate, di rilevante impatto è il principio enunciato da Sez. L, n. 06264/2019, Blasutto, Rv. 653180-01, secondo cui il congelamento triennale degli aumenti retributivi, delle progressioni di carriera e degli scatti di anzianità, introdotto, per il triennio 2011-2013, dall’art. 9, comma 21, del d.l. n. 78 del 2010, conv. dalla l. n. 122 del 2010, in quanto misura volta al contenimento e alla razionalizzazione della spesa pubblica è applicabile anche ai dipendenti appartenenti alle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall’Istituto nazionale di statistica (ISTAT), ai sensi dell’art. 1, comma 3, della l. n. 196 del 2009: tra queste trovano posto anche le società partecipate al 100% dallo Stato (fattispecie relativa a dirigenti dell’ANAS).

Con riferimento infine al rapporto tra le società partecipate e i loro amministratori, si fa rinvio al capitolo di questa Rassegna specificamente dedicato alle società in house.

SEZIONE TERZA IL DIRITTO DELLA PREVIDENZA SOCIALE

  • retribuzione del lavoro
  • regime pensionistico
  • responsabilità contrattuale

CAPITOLO XXI

LA PREVIDENZA SOCIALE

(di Annachiara Massafra )

Sommario

1 Premessa - 2 L’obbligazione contributiva. - 2.1 Classificazione e qualificazione dei soggetti obbligati. - 2.2 I coadiutori familiari. - 2.3 La retribuzione imponibile ed il minimale contributivo. - 2.4 La responsabilità contrattuale della P.A. - 3 I benefici previdenziali. - 4 Esenzioni ed agevolazioni contributive. - 5 L’incremento occupazionale e gli incentivi all’assunzione. - 6 Gli sgravi contributivi. - 7 Accertamento e riscossione. - 8 Le sanzioni civili e la rendita vitalizia. - 9 La prescrizione dei crediti contributivi.

1. Premessa

Numerose, come ogni anno, le sentenze che in tema di previdenza sociale hanno affrontato i diversi aspetti della materia.

2. L’obbligazione contributiva.

Con specifico riferimento al settore delle società cooperative, Sez. L, n. 12166/2019, Calafiore, Rv. 653754-01, conformemente a quanto statuito da Sez. L, n. 06966/2010, Nobile, Rv. 612086-01, ha affermato che, ai fini dell’individuazione dell’importo della retribuzione da assumere come base di calcolo dei contributi previdenziali, non trova applicazione l’art. 7, comma 4, del d.l. 31 dicembre 2007 n. 248, il quale concerne il profilo retributivo del rapporto di lavoro tra società e socio lavoratore, bensì l’art. 1 del d.l. 9 ottobre 1989 n. 338, conv. dalla l. 7 dicembre n. 389, secondo cui detto importo è quello desumibile dai diversi accordi sindacali o dal contratto individuale di lavoro, quando questi ultimi prevedano una retribuzione superiore alla misura minima stabilita dal contratto collettivo nazionale, mentre solo in caso contrario la contribuzione deve essere parametrata a quella stabilita dalla contrattazione nazionale di settore. Al medesimo fine, il criterio della maggiore rappresentatività delle organizzazioni sindacali, previsto dall’art. 2, comma 25, della l. 28 dicembre 1995 n. 549, opera esclusivamente nelle ipotesi in cui, stabilita l’applicabilità del contratto nazionale in luogo di quelli locali o individuali, vi sia una pluralità di contratti collettivi nazionali intervenuti per la medesima categoria. In applicazione del principio, la S.C. ha quindi confermato la decisione di merito che, in presenza di un accertamento sui lavoratori di una cooperativa, il cui regolamento prevedeva l’alternativa applicabilità del c.c.p.l. Confezionatori della Provincia di Cuneo o del c.c.n.l. Trasporto Cisal, aveva ritenuto corretto il calcolo dei contributi effettuato sulla base della retribuzione prevista dal contratto collettivo provinciale, per la maggiore entità del trattamento retributivo e per la sua omogeneità rispetto all’attività svolta dai lavoratori.

Sez. L, n. 18568/2019, Calafiore, Rv. 654487-01, in tema di contribuzione per malattia, ribadendo quanto statuito da Sez. L., n. 24997/2013, Napoletano, Rv. 628508-01, ha affermato che per effetto dell’entrata in vigore dell’art. 20, comma 1, del d.l. n. 112 del 2008, conv. dalla l. n. 133 del 2008, di interpretazione autentica dell’art. 6, comma 2, della l. n. 138 del 1943, non è più dovuto dai datori di lavoro il versamento della contribuzione INPS per il trattamento economico di malattia, senza che - a seguito della sentenza della Corte cost. n. 82 del 2013, che ha dichiarato l’illegittimità della norma per violazione del principio di uguaglianza, nonché, in via conseguenziale ed ai sensi dell’art. 27 della l. n. 87 del 1953, dell’art. 16, lett. b), del d.l. n. 98 del 2011, conv. dalla l. n. 111 del 2011, che ha differito al 30 aprile 2011 il termine finale del periodo di tempo al quale si riferivano i contributi i cui versamenti erano comunque acquisiti all’INPS - operi la regola dell’irripetibilità delle contribuzioni anteriormente versate che non restano, pertanto, acquisite alla gestione previdenziale.

Rileva in questa sede anche Sez. L, n. 21540/2019, Calafiore, Rv. 655009-01, la quale ha affermato che il lavoratore autonomo, iscritto alla gestione previdenziale in quanto svolgente un’attività lavorativa per la quale vi siano i requisiti per il sorgere della tutela previdenziale obbligatoria, deve includere nella base imponibile sulla quale calcolare i contributi la totalità dei redditi d’impresa così come definita dalla disciplina fiscale, vale a dire quelli che derivano dall’esercizio di attività imprenditoriale (art. 55 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917), restando esclusi i redditi di capitale, quali quelli derivanti dalla mera partecipazione a società di capitali, senza prestazione di attività lavorativa (art. 44, lett. e), del d.P.R. n. 917 del 1986).

2.1. Classificazione e qualificazione dei soggetti obbligati.

Assume importanza stabilire se l’affidamento della gestione dell’edilizia residenziale pubblica a società partecipate, anche totalmente, dagli enti pubblici locali muti la loro natura giuridica in ordine agli obblighi previdenziali. Alla domanda ha dato risposta negativa Sez. L, n. 05429/2019, Bellè, Rv. 652920-01, chiarendo che l’assenza di mutamento della natura giuridica non esonera dette società partecipate, conseguentemente, dal versamento della contribuzione cd. minore (per malattia, maternità, fondo di garanzia per insolvenza datore di lavoro e t.f.r. etc.), perché la finalità perseguita dal legislatore attraverso la promozione di strumenti non autoritativi per la gestione di taluni servizi di interesse pubblico è quella di tutelare le dinamiche del mercato e della concorrenza, mentre assume prevalente rilievo, in ordine agli obblighi contributivi, il passaggio del personale addetto dal regime pubblicistico a quello privatistico.

Con riferimento alla classificazione dei datori di lavoro ai fini previdenziali, Sez. L, n. 14257/2019, Ghinoy, Rv. 653975-01, ha inoltre ribadito che i provvedimenti di variazione adottati dall’Inps, d’ufficio o su richiesta dell’azienda, non hanno efficacia retroattiva e producono i loro effetti dal periodo di paga in corso alla data di notifica del provvedimento di variazione. La S.C. ha peraltro escluso che i provvedimenti di variazione adottati dall’Inps abbiano effetto retroattivo con riguardo ai casi in cui l’inquadramento iniziale sia stato determinato da inesatte dichiarazioni del datore di lavoro, nei quali non è tuttavia compresa l’ipotesi di omessa comunicazione dei mutamenti intervenuti nell’attività.

La decisione si allinea a quanto già statuito da Sez. L, n. 03460/2018, Calafiore, Rv. 647411-01, mentre si discosta da Sez. L, n. 08558/2014, Tria, Rv. 630248-01, così massimata dall’Ufficio: “In materia di classificazione dei datori di lavoro, la previsione di cui all’art. 3, comma 8, della legge 8 agosto 1995, n. 335, in base alla quale le variazioni hanno effetto dal “periodo di paga in corso alla data di notifica del provvedimento di variazione, con esclusione dei casi in cui l’inquadramento iniziale sia stato determinato da inesatte dichiarazioni del datore di lavoro”, deve essere estesa, stante l’evidente identità di ratio, alle ipotesi in cui il datore di lavoro abbia omesso di comunicare, all’ente previdenziale, la variazione della propria attività in violazione di obbligo imposto sotto comminatoria di sanzione amministrativa, di cui all’art. 2 del d.l. 6 luglio 1978, n. 362, convertito nella legge 4 agosto 1978, n. 467, in quanto, pur se in un momento successivo, si realizza una discrasia tra l’effettività della situazione e le dichiarazioni sulle quali la classificazione iniziale era fondata”.

Sez. L, n. 02933/2019, Riverso, Rv. 652606-01, sempre in tema di inquadramento delle aziende a fini previdenziali, ha affermato che le cooperative svolgenti attività di trasformazione e commercializzazione di prodotti agricoli acquisiti da terzi possono essere qualificate agricole, ai sensi dell’art. 2135 c.c., a condizione che esercitino la loro attività prevalentemente nei confronti dei soci o con prodotti derivanti dai fondi da questi ultimi coltivati.

2.2. I coadiutori familiari.

In tema di contributi previdenziali per il familiare coadiutore dell’imprenditore commerciale, Sez. L, n. 23791/2019, Ghinoy, Rv. 655065-01, ha chiarito che sussiste l’obbligo di iscrizione alla gestione commercianti ex art. 2 della l. 22 luglio 1966, n. 613 anche nel caso in cui il lavoro sia stato formalizzato come rapporto di associazione in partecipazione, non rientrando tale tipologia contrattuale tra le eccezioni normativamente previste che riguardano esclusivamente il coadiutore soggetto all’assicurazione generale obbligatoria quale lavoratore dipendente o apprendista.

Mentre con riferimento ai coadiutori familiari non farmacisti del titolare di una farmacia, Sez. L, n. 23584/2019, Ghinoy, Rv. 655063-01, ha affermato che l’obbligo di iscrizione nella gestione commercianti sorge, ai sensi della l. n. 613 del 1966, ove i predetti familiari, in relazione alle attività di vario tipo demandabili a non farmacisti, prestino la propria opera con carattere di abitualità, ovvero con continuità e stabilmente e non in via straordinaria o occasionale (ancorché non sia necessaria la presenza quotidiana ed ininterrotta sul luogo di lavoro), e prevalenza, ovvero con preponderanza sotto il profilo temporale rispetto ad altre occupazioni. In applicazione del principio è stata quindi ravvisata la sussistenza di tali requisiti nella partecipazione al lavoro aziendale da parte della madre di un farmacista. In particolare è stata valorizzata la circostanza che la medesima, malgrado l’età - id est: circa ottant’anni - aveva fornito un concreto apporto alla conduzione della farmacia nella sistemazione dei medicinali nel magazzino, lavorando per varie ore quasi tutti i giorni almeno sino ad un determinato periodo, non risultando, peraltro, che fosse impegnata in altre occupazioni.

In continuità con l’orientamento espresso da Sez. L, n. 30554/2018, Mancino, Rv. 651713-01, dopo le “perplessità” sollevate dall’ordinanza interlocutoria pronunciata da Sez. 6-L n. 13049/2018, Ghinoy, Sez. L, n. 14074/2019, Cavallaro, Rv. 654015-01, ha affermato che ai fini dell’inquadramento previdenziale dei produttori assicurativi diretti - i quali svolgono la loro attività per conto delle imprese assicurative senza essere collegati ad agenti o subagenti - rilevano le modalità di esercizio dell’attività di ricerca del cliente assicurativo, evincendosi dal sistema complessivamente disegnato dal legislatore che hanno obbligo di iscrizione nella Gestione commercianti ordinaria quei soggetti che svolgano tale attività in forma di impresa, mentre sono tenuti ad iscriversi nella Gestione separata ex art. 2, comma 26, della l. n. 335 del 1995, coloro che collaborino nella ricerca della clientela mediante apporto personale, coordinato e continuativo, ma privo di carattere imprenditoriale, ovvero mediante attività autonoma occasionale (anch’essa non esercitata in forma di impresa, per carenza del requisito di professionalità ex art. 2082 c.c.), ma a condizione, in tale ultima ipotesi, che il reddito percepito superi la soglia di € 5000,00.

2.3. La retribuzione imponibile ed il minimale contributivo.

Sez. L, n. 08662/2019, Pagetta, Rv. 653430-01, in tema di obblighi previdenziali, ha avuto il pregio di chiarire che la transazione con cui il lavoratore ed il datore di lavoro abbiano definito la controversia in ordine alla obbligazione retributiva non spiega efficacia sulla distinta ed autonoma obbligazione contributiva, derivante dalla legge, che fa capo all’INPS; pertanto, l’accertamento giudiziale superato dalla conciliazione inter partes non può più costituire il presupposto della condanna in favore dell’istituto previdenziale, ma il credito contributivo può essere azionato sulla base di un diverso titolo. Nella specie, la S.C. ha dichiarato il sopravvenuto difetto di interesse del datore di lavoro ad impugnare, nei confronti dell’INPS, la statuizione travolta dalla transazione intervenuta con il lavoratore.

In materia di trattamento contributivo dell’indennità di trasferta, Sez. 5, n. 02424/2019, Crucitti, Rv. 652515-01, allineandosi a S.U. n. 27093/2017, Tria, Rv. 646405-01, ha ribadito che alla stregua dei criteri di interpretazione letterale, storica, logico-sistematica e teleologica, l’espressione, anche se corrisposta con carattere di continuità, presente sia nell’art. 11 della l. n. 467 del 1984, sia nel vigente art. 51, comma 6, del d.P.R. n. 917 del 1986 (così come nel successivo art. 48, comma 6, nel testo risultante dalle modifiche introdotte dal d.lgs. n. 314 del 1997), deve essere intesa nel senso che l’eventuale continuatività della corresponsione del compenso per la trasferta non ne modifica l’assoggettabilità al regime contributivo (e fiscale) meno gravoso (di quello stabilito in via generale per la retribuzione imponibile) rispettivamente previsto dalle citate disposizioni.

Sempre in tema, Sez. L, n. 12648/2019, Fernandes, Rv. 653763-01, ha affermato che l’art. 51, comma 6, del d.P.R. n. 917 del 1986, secondo l’interpretazione autentica di cui all’art. 7 quinquies del d.l. n. 193 del 2016, conv., con modif., dalla l. n. 225 del 2016, si applica ai lavoratori per i quali sussistono contestualmente le seguenti condizioni: a) la mancata indicazione, nel contratto o nella lettera di assunzione, della sede di lavoro; b) lo svolgimento di un’attività lavorativa che richiede la continua mobilità; c) la corresponsione al dipendente, in relazione allo svolgimento dell’attività lavorativa in luoghi sempre variabili e diversi, di un’indennità o maggiorazione di retribuzione “in misura fissa”, attribuite senza distinguere se il dipendente si sia effettivamente recato in trasferta e dove la stessa si è svolta. Pertanto, ai fini dell’applicabilità dell’articolo in questione, non rilevano le modalità di erogazione della predetta indennità.

Sez. L, n. 21410/2019, Bellè, Rv. 654809-02, ha poi ulteriormente precisato, in merito all’art. 51, comma 6, del d.P.R. n. 917 del 1986 ed ai requisiti necessari per il suo riconoscimento, che la corresponsione al dipendente, in relazione allo svolgimento dell’attività lavorativa in luoghi sempre variabili e diversi, di un’indennità o maggiorazione di retribuzione “in misura fissa”, necessita dell’accertamento di detto ultimo requisito non solo in base al concreto andamento dei pagamenti attuati o pattuiti dalle parti, ma anche in forza dei relativi obblighi imposti dalla disciplina della contrattazione collettiva.

In merito al cd. minimale contributivo, Sez. L, n. 15120/2019, Ghinoy, Rv. 654101-01, ha specificato che esso opera anche con riferimento all’orario di lavoro, che va parametrato a quello previsto dalla contrattazione collettiva, o dal contratto individuale, e superiore; sicché la contribuzione è dovuta anche in caso di assenze o di sospensione concordata della prestazione che non trovino giustificazione nella legge o nel contratto collettivo, bensì in un accordo tra le parti che derivi da una libera scelta del datore di lavoro. Sempre in merito Sez. L, n. 13650/2019, Mancino, 653842-01, ha quindi evidenziato che l’obbligazione contributiva, commisurata alla retribuzione che al lavoratore spetterebbe sulla base della contrattazione collettiva vigente, è dovuta anche nei casi di mancata esecuzione della prestazione lavorativa e corresponsione della relativa retribuzione, dipendente da cause diverse da quelle previste dalla legge o dal contratto collettivo, attesa la natura indisponibile dell’obbligazione contributiva stessa.

Sez. L, n. 15172/2019, Ghinoy, Rv. 654104-01, ha affermato che la regola del cd. minimale contributivo, di cui all’art. 1 del d.l. n. 338 del 1989, conv. dalla l. n. 389 del 1989, si applica anche nel caso in cui una cooperativa, ai sensi dell’art. 6 della l. 3 aprile 2001, n. 142, deliberi uno stato di crisi che comporti la riduzione della retribuzione dei soci al di sotto dei minimi contrattuali fissati dal c.c.n.l. di categoria, non rientrando tale delibera tra le fonti che, a mente dell’art. 1 citato, individuano la retribuzione minima da assumere come parametro per il calcolo dei contributi di previdenza e assistenza sociale, né facendo l’art. 6 alcun riferimento agli obblighi contributivi.

Nel dettaglio la pronuncia ha evidenziato, richiamando diversi precedenti di legittimità, che l’applicazione della normativa di cui innanzi, legittima l’incidenza in peius sul trattamento economico minimo di cui all’art. 3, comma 1, ove la deliberazione contenga elementi adeguati e sufficienti “tali da esplicitare l’effettività dello stato di crisi aziendale che richiede interventi straordinari consentiti dalla legge, la temporaneità dello stato di crisi aziendale e l’applicabilità ai soci lavoratori degli interventi in esame”. Sicché, occorre individuare le ricadute sul piano previdenziale della riduzione della retribuzione prevista dal piano di crisi aziendale della cooperativa, valutando pertanto se la società sia tenuta ad adempiere agli obblighi contributivi mediante il computo sulla base dell’importo versato o sia tenuta comunque a rispettare il minimale contributivo.

2.4. La responsabilità contrattuale della P.A.

In tema di responsabilità della P.A. Sez. L, n. 23114/2019, Ghinoy, Rv. 655057-01, ha chiarito che l’INPS risponde delle erronee comunicazioni della posizione contributiva rese all’assicurato, a seguito di specifica domanda di quest’ultimo, a titolo di responsabilità contrattuale ex art. 1218 c.c., potendo tuttavia il giudice limitare il risarcimento dovuto nell’ipotesi in cui l’assicurato medesimo - non essendosi attivato per interrompere il processo produttivo dell’evento dannoso, così rassegnando le proprie dimissioni malgrado l’evidente erroneità, riscontrabile sulla base dell’ordinaria diligenza, dei dati contributivi a lui comunicati - abbia concorso al verificarsi del predetto evento, ai sensi dell’art. 1227, comma 1, c.c. Nella specie, la S.C. ha ritenuto che l’omesso controllo, ad opera dell’interessato, dei dati forniti dall’INPS non potesse ritenersi di per sé solo causa del danno, ai sensi dell’art. 1227, comma 2, c.c., ed escludere la responsabilità dell’Istituto, in quanto la sussistenza di un obbligo di informazione dell’ente pubblico ed il legittimo affidamento dell’assicurato in ordine all’esattezza dei dati comunicatigli dalla pubblica amministrazione determinano l’applicazione del principio dell’equivalenza delle condizioni ex art. 41, comma 1, c.p.

Invero la Corte nella decisione di cui innanzi, richiamando diversi precedenti di legittimità, muove dall’assunto secondo cui la responsabilità della P.A., in caso di erronee comunicazioni circa la posizione contributiva rese su domanda dell’interessato, ha natura contrattuale in “quanto ha origine legale ed attiene al rapporto intercorrente tra le parti, con conseguente applicabilità dell’art. 1218 c.c., il quale pone espressamente a carico del debitore la prova liberatoria che l’inadempimento è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile.”

Da tale premessa ricostruisce gli obblighi gravanti in siffatta evenienza sull’assicurato ed individua la portata della responsabilità della P.A. evidenziando che anche a fronte di un mancato intervento del soggetto assicurato, grava sull’ente un obbligo di informazione dal quale discende il legittimo affidamento in merito all’esattezza dei dati fornitigli.

3. I benefici previdenziali.

Sez. L, n. 11708/2019, Ghinoy, Rv. 653831-01, ha avuto il pregio di chiarire che in tema di benefici previdenziali a favore dei perseguitati per motivi razziali, il riferimento alla “retribuzione attuale della categoria e qualifica professionale posseduta dagli interessati nei periodi di persecuzione”, contenuto nell’art. 1 della l. n. 1424 del 1965, di interpretazione autentica dell’art. 5 della l. n. 96 del 1955 (come modificato dall’art. 3 della l. n. 284 del 1961) ha la finalità di imporre all’ente previdenziale un comportamento analogo a quello che avrebbe dovuto osservare qualora, nel periodo di persecuzione, i contributi fossero stati effettivamente versati e costituisce dunque la base di computo della contribuzione relativa al periodo di copertura figurativa, ma non anche il parametro di calcolo dell’importo del trattamento pensionistico, che deve essere sempre effettuato in applicazione delle regole di volta in volta dettate per la sua determinazione al momento del collocamento in quiescenza. Nella fattispecie al vaglio della S.C., per determinare l’importo della pensione di vecchiaia spettante a un perseguitato con decorrenza dal 1° luglio 1978, era stato utilizzato il parametro retributivo previsto per il calcolo della contribuzione figurativa in luogo del criterio, fissato dall’art. 14 della l. n. 153 del 1969 e in vigore all’atto del pensionamento, delle migliori tre retribuzioni annuali percepite nel decennio anteriore alla decorrenza della pensione.

In tema di benefici previdenziali in favore dei lavoratori esposti all’amianto, Sez. 6-L, n. 27872/2019, Riverso, Rv. 655552-01, ha specificato che la salvaguardia del regime più favorevole di cui all’art. 13 della l. n. 257 del 1992, previsto dall’art. 3, comma 132, della l. n. 350 del 2003 per i lavoratori che alla data del 2 ottobre 2003 avevano avanzato domanda di riconoscimento all’INAIL, deve ritenersi applicabile anche nel caso in cui, su domanda antecedente la data suindicata, vi sia stato un primo parziale riconoscimento dell’esposizione da parte dell’INAIL ed il lavoratore presenti successiva domanda di riesame o agisca in giudizio per ottenere un ampliamento del periodo di esposizione riconosciuto in sede amministrativa.

4. Esenzioni ed agevolazioni contributive.

Sez. 6-L, n. 08495/2019, Cavallaro, Rv. 653390-01, ha affermato il principio, successivamente ribadito da Sez. L, n. 21531/2019, Ghinoy, Rv. 655008-01, in forza del quale la domanda di restituzione dei contributi versati sulle retribuzioni corrisposte agli operai agricoli occupati alle dipendenze delle imprese e dei datori di lavoro aventi sede ed operanti nei comuni montani, in virtù dell’esenzione contributiva ex art. 8 della l. n. 991 del 1952, deve ritenersi sprovvista di base normativa per effetto della sentenza della Corte cost. n. 182 del 2018, che ha affermato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 del d.lgs. n. 179 del 2009 nella parte in cui aveva dichiarato la permanenza in vigore della predetta disposizione.

Sez. 5, n. 01127/2019, Castorina, Rv. 652513-01, in tema di agevolazioni contributive di cui all’art. 4 della l. n. 350 del 2003, ha inoltre chiarito che il contribuente che abbia ottemperato integralmente al pagamento dell’obbligazione tributaria ha diritto ad ottenere la restituzione di quanto versato in eccesso sia perché, sotto il profilo testuale, la locuzione “regolarizzare la propria posizione”, contenuta nella disposizione di cui innanzi, è riferibile anche all’ipotesi in cui il contribuente abbia provveduto al versamento, sia perché, sotto il profilo logico-sistematico, l’unitarietà dell’agevolazione rende irragionevole ex art. 3 Cost. ritenere esclusi quanti abbiano già pagato.

Sez. L, n. 11492/2019, Fernandes, Rv. 653745-01, in tema di esenzione contributiva prevista in favore delle associazioni sportive dilettantistiche, ha affermato che essa dipende non solo dall’elemento formale della veste giuridica assunta, ma anche dall’effettivo svolgimento di attività senza fine di lucro, il cui onere probatorio incombe sull’interessato e non può ritenersi soddisfatto dal dato, del tutto estrinseco e neutrale, del riconoscimento da parte del CONI.

5. L’incremento occupazionale e gli incentivi all’assunzione.

In tema di diritti alle agevolazioni contributive di cui all’art. 8, comma 4, della l. n. 223 del 1991 Sez. L, n. 11935/2019, Berrino, Rv. 653748-01, nel ribadire che essi spettano ai datori di lavoro che assumono, senza esservi obbligati, lavoratori iscritti nelle liste di mobilità, ha escluso che spettino a quelli tenuti per legge all’assunzione, come nell’ipotesi di cui all’art. 2112 c.c.; sicché tali benefici non sono dovuti in caso di società, appartenenti al medesimo gruppo familiare e con un’unica direzione, che pongono in essere frequenti scambi di personale in correlazione con cessioni di azienda o di rami della stessa, o in dipendenza di ipotesi di subappalto, essendo unico il centro di imputazione dei rapporti ed organizzazione, salvo che la società richiedente dimostri gli elementi di novità della nuova struttura rispetto alla pregressa e l’autonomia della funzione produttiva.

Sez. L, Ghinoy, n. 27503/2019, Rv. 655585-01, ha chiarito che il riconoscimento dei benefici contributivi di cui all’art. 5 della l. n. 608 del 1996 presuppone l’applicazione da parte dell’impresa, ai propri dipendenti, dei contratti collettivi nazionali vigenti per il settore di appartenenza e corrispondente all’attività concretamente svolta dall’azienda, ovvero del contratto collettivo previsto per un diverso settore in concreto applicato, se più vantaggioso per i lavoratori rispetto a quello che sarebbe applicabile in base all’inquadramento dell’azienda. (Nella specie, la S.C. ha cassato con rinvio la pronuncia di merito che, nel rigettare l’opposizione proposta da un’azienda tessile avverso la cartella esattoriale emessa a seguito del disconoscimento delle condizioni per il riallineamento contributivo di cui all’art. 5 della l. n. 608 del 1996, aveva omesso di accertare quale, tra i diversi contratti collettivi afferenti al settore, fosse applicabile al caso di specie, limitandosi ad un generico riferimento al contratto collettivo “per l’attività tessile”).

Sez. L, n. 21469/2019, Mancino, Rv. 654813-01, ha ribadito che l’impresa cessionaria dei beni aziendali della cedente che ha proceduto ai licenziamenti può essere ammessa a fruire dei benefici contributivi previsti dall’art. 8, comma 4, della l. n. 223 del 1991, perché - non essendo la “medesima azienda” che ha operato la riduzione di personale - non rientra fra le imprese tenute a riassumere ai sensi dell’art. 15 della l. n. 264 del 1949, a meno che, anche in base ad elementi indiziari, debba escludersi che la cessionaria configuri una realtà produttiva nuova ed autentica, emergendo piuttosto il carattere fittizio dell’operazione, preordinata esclusivamente a fruire indebitamente delle agevolazioni. Nella fattispecie al vaglio della S.C. la “novità” del contesto aziendale è stata correttamente desunta dalla diversità della produzione e della clientela, dalla cessione solo parziale dei macchinari, dalla diversa configurazione del luogo di lavoro, che, per quanto immutato, era diventato solo un sito produttivo, non essendo il capannone di proprietà della cedente.

Sez. L, n. 26027/2019, Berrino, Rv. 655394-01, relativamente ai contratti di riallineamento retributivo ha chiarito che il riconoscimento dei benefici derivanti dall’applicazione della normativa che li riguarda, di cui all’art. 5 del d.l. n. 510 del 1996, conv., con modif., dalla l. n. 608 del 1996, è subordinato al rispetto del termine di un anno dalla decisione assunta dalla Commissione delle Comunità europee sul regime degli aiuti di Stato n. 236/A/2000 del 17 ottobre 2000, ai sensi dell’art. 116, comma 1, della l. n. 388 del 2000, con conseguente indebita fruizione degli sgravi in base a rimodulazioni di programmi di riallineamento intervenute in epoca successiva al 17 ottobre 2001.

La decisione di cui innanzi ha, quindi, evidenziato che con l’introduzione dell’art. 116, comma 1, della l. n. 388 del 2000 si è trattato di stabilire una disciplina di favore per consentire l’emersione del lavoro irregolare rivolta ai datori di lavoro che abbiano aderito ad un accordo di riallineamento nel termine di un anno dalla decisione della Commissione delle Comunità Europee per la durata del programma di riallineamento e, comunque, per non più di cinque anni, con condizioni, anche temporali, e requisiti per fruire dello sgravio contributivo.

Peraltro Sez. L, n. 30868/2019, Mancino, Rv. 655885-01, ha precisato, in merito al potere di variazione degli accordi di riallineamento retributivo, che esso, ai sensi dell’art. 5, comma 5, del d.l. n. 510 del 1996, conv. dalla l. n. 608 del 1996, può essere esercitato una sola volta, nel rispetto dei limiti temporali, oggettivi e soggettivi previsti dalle norme di riferimento.

6. Gli sgravi contributivi.

Sez. L, n. 03182/2019, Bellè, Rv. 652878-01, allineandosi a Sez. L, n. 10638/2017, Calafiore, Rv. 644221-01, in materia di sgravi contributivi, ha ribadito che l’art. 3, comma 6, della l. n. 448 del 1998, nel prevedere le condizioni di applicabilità delle agevolazioni di cui al comma 5 e nel precisarne l’ambito applicativo, richiede espressamente, alla lett. h), che siano rispettate le prescrizioni sulla salute e sulla sicurezza dei lavoratori di cui al d.lgs. n. 626 del 1994 e successive modificazioni ed integrazioni. Ne consegue che l’ambito normativo coperto dal citato d.lgs. coincide con tutte le misure preventive che garantiscono la sicurezza e la salute del lavoratore, ivi comprese quelle previste dagli specifici regolamenti di settore, mentre non è necessario alcun giudizio di sufficiente gravità della violazione delle richiamate disposizioni. Nella specie, la S.C. ha cassato la decisione di merito che aveva accolto l’opposizione a cartella di pagamento emessa a seguito della decadenza dagli sgravi contributivi disposta dall’INPS per l’omessa comunicazione all’Ispettorato del lavoro del nominativo del responsabile del servizio di prevenzione e protezione, trattandosi di incombente diretto a rendere effettiva la tutela della incolumità della salute sui posti di lavoro.

Con specifico riferimento alle imprese che espletano attività di fornitura di lavoro temporaneo per l’esecuzione delle operazioni e dei servizi portuali, di cui all’art. 17, comma 2, della l. n. 84 del 1994, Sez. L, n. 04432/2019, Calafiore, Rv. 652915-01, ha statuito che esse non sono sottratte al regime della concorrenza di mercato agli effetti del recupero degli sgravi contributivi concessi su contratti di formazione e lavoro, integranti aiuti di Stato incompatibili col mercato comune.

7. Accertamento e riscossione.

Sez. L, n. 11934/2019, Berrino, Rv. 653747-01, ha chiarito che i funzionari ispettivi dell’Inps, a norma dell’art. 3, comma 1, del d.l. n. 463 del 1983, conv. dalla l. n. 638 del 1983, hanno pieni poteri di verifica sui rapporti di lavoro, al fine di acquisire notizie attinenti alla loro sussistenza, alle retribuzioni, agli adempimenti contributivi e assicurativi e alla erogazione delle prestazioni a carico dell’istituto di previdenza, eccezion fatta per la contestazione delle contravvenzioni, dovendosi escludere una competenza esclusiva degli ispettori del lavoro.

Sez. L, n. 24774/2019, Marchese, Rv. 655313-01, ha invece individuato quale sia il valore probatorio da attribuire alla definizione concordata della lite fiscale, prevista dall’art. 39, comma 12, del d.l. n. 98 del 2011 e dall’art. 16 della l. n. 289 del 2002. È stato quindi affermato che essa ha natura deflattiva delle liti e non incide in alcun modo sul contenuto e la portata presuntiva dell’atto di accertamento dell’Agenzia delle entrate che conserva intatta la sua efficacia ai fini extrafiscali del calcolo dei contributi Inps a percentuale sul maggior reddito. Sicché il consolidamento e la definitività dell’accertamento ai fini contributivi possono essere impediti solo dalla resistenza dell’obbligato, e dunque dall’offerta di prove di segno contrario, e che in assenza di contestazione i fatti, oggetto dell’accertamento, devono ritenersi definitivi, con ogni consequenziale riflesso sull’obbligazione contributiva.

Sez. L, 28742/2019, Berrino, Rv. 655698-01 ha precisato che, in presenza di debiti per omissioni contributive afferenti a diverse annualità, trova applicazione, con riguardo ai pagamenti successivi, il principio generale posto dall’art. 1193, comma 2, c.c., secondo cui - in caso di più debiti scaduti che siano ugualmente garantiti per il creditore e parimenti onerosi per il debitore - il pagamento va imputato al debito più antico.

Sez. L, n. 18278/2019, D’Antonio, Rv. 654485-01, sempre in materia ma con specifico riferimento all’ipotesi di appalto posto in essere in violazione delle disposizioni di cui all’art. 29, comma 1, del d.lgs. n. 276 del 2003, ha affermato che i pagamenti a titolo contributivo effettuati dall’appaltatore valgono a liberare il committente fino a concorrenza delle somme versate, così come dispone il comma 3 bis del predetto articolo, che rinvia al precedente art. 27, comma 2, dando applicazione alla regola generale di cui all’art. 1180 c.c., che impone la verifica in concreto dell’avvenuta o meno integrale soddisfazione delle pretese contributive formulate dagli enti previdenziali.

In materia di riscossione dei crediti previdenziali, Sez. 6-L, n. 06723/2019, Ghinoy, Rv. 653174-01, allineandosi a quanto in precedenza statuito da Sez. 3, n. 22946/2016, Rubino, Rv. 642975-01, ha ribadito che qualora la cartella di pagamento sia stata regolarmente notificata, è inammissibile per carenza d’interesse ad agire l’opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c., proposta avverso l’estratto di ruolo contributivo e diretta a far valere fatti estintivi sopravvenuti (nella specie, la prescrizione del credito), difettando una minaccia attuale di atti esecutivi ed essendo ben possibile che intervenga l’eliminazione del credito in via di autotutela mediante sgravio della pretesa contributiva.

Sez. 6-L, n. 05443/2019, Doronzo, Rv. 652925-01, sempre in materia, ha affermato che l’estratto di ruolo non è autonomamente impugnabile, in quanto atto interno all’amministrazione ed improduttivo di effetti nella sfera del destinatario, il quale ha l’onere di impugnare la cartella cui esso di riferisce, con le forme e nei termini di legge. Tale principio peraltro, è stato chiarito sempre dalla decisione di cui innanzi, non si pone in contrasto con quello secondo cui il contribuente può far valere immediatamente le sue ragioni avverso la cartella esattoriale non notificata o invalidamente notificata, della cui esistenza sia venuto a conoscenza solo attraverso un estratto di ruolo rilasciato su sua richiesta, trattandosi - in quest’ultimo caso - di tutela anticipatoria giustificata dall’esigenza di recuperare gli strumenti di impugnazione avverso la cartella esattoriale non utilmente attivabili in precedenza a causa della assenza o invalidità della notifica.

Sez. L, n. 29294/2019, Calafiore, Rv. 655707-01, ha avuto il pregio di chiarire che l’impugnazione dell’estratto del ruolo è ammissibile ove il contribuente deduca la mancata o invalida notifica della cartella, in funzione recuperatoria della tutela prevista dall’art. 24 del d.lgs. n. 46 del 1999, ovvero intenda far valere eventi estintivi del credito maturati successivamente alla notifica della cartella, in tal caso prospettando - sul piano dell’interesse ad agire - uno stato oggettivo di incertezza sull’esistenza del diritto (anche non preesistente al processo), non superabile se non con l’intervento del giudice. Nella fattispecie al vaglio della S.C. l’interesse ad agire è stato quindi ravvisato nella contestazione da parte dell’ente previdenziale dell’avvenuta prescrizione del credito in epoca successiva alla notifica della cartella.

Sez. 6-L, n. 08423/2019, Esposito, Rv. 653388-01, ha affermato, poi, che il preavviso di iscrizione ipotecaria emesso sulla base di cartelle di pagamento relative a crediti per contributi previdenziali è correttamente motivato mediante il richiamo agli atti presupposti, che, in quanto già destinati alla stessa parte, sono da questa conosciuti o conoscibili e non necessitano perciò di allegazione all’atto impugnato.

Sez. 6-L, n. 12025/2019, Riverso, Rv. 653765-01, sempre in tema di riscossione di contributi e premi assicurativi, ha invece specificato che il giudice dell’opposizione alla cartella esattoriale che ritenga illegittima l’iscrizione a ruolo non può limitarsi a dichiarare tale illegittimità, ma deve esaminare nel merito la fondatezza della domanda di pagamento dell’istituto previdenziale, valendo gli stessi princìpi che governano l’opposizione a decreto ingiuntivo; ne consegue che, ove la cartella consegua ad un accertamento già impugnato davanti all’autorità giudiziaria, non sussiste un interesse concreto e attuale della parte a far valere l’illegittimità dell’iscrizione per difetto di un provvedimento giudiziale esecutivo sull’impugnazione dell’accertamento, ex art. 24, comma 3, del d.lgs. n. 46 del 1999, senza neppure dedurre che la cartella emessa è stata azionata in via esecutiva, giacché un’eventuale pronuncia sul punto non comporterebbe per la parte alcun risultato giuridicamente apprezzabile.

Sotto il diverso profilo della decadenza dal potere di iscrizione a ruolo dei crediti contributivi, Sez. L, n. 27726/2019, Mancino, Rv. 655601-01, ha specificato che ai sensi dell’art. 25 del d.lgs. n. 46 del 1999, la previsione di cui all’art. 38, comma 12, del d.l. n. 78 del 2010, conv. dalla l. n. 122 del 2010 - stabilendo che le disposizioni contenute nel citato art. 25 non si applicano, limitatamente al periodo compreso tra l’1 gennaio 2010 e il 31 dicembre 2012, ai contributi non versati e agli accertamenti notificati successivamente alla data del 1° gennaio 2004 dall’ente creditore - incide anche sulle decadenze già verificatesi nell’arco temporale compreso tra il primo gennaio 2004 ed il primo gennaio 2010, avuto riguardo alla natura meramente processuale del potere di iscrizione a ruolo ed all’inesistenza di effetti estintivi dell’obbligo contributivo determinati dal verificarsi della decadenza in questione. (Nella specie, la S.C. ha riformato la decisione di merito che aveva ritenuto la decadenza dell’INPS in ordine alla contribuzione accertata in sede ispettiva nell’anno 2007 ed iscritta a ruolo nell’anno 2008).

Sez. 6-L, n. 04806/2019, Calafiore, Rv. 652891-01, ha inoltre ribadito che in tema di omissioni contributive, l’ente previdenziale (nella specie l’INAIL) ancorché abbia già ottenuto un titolo esecutivo giudiziale, può esperire la procedura di riscossione mediante iscrizione a ruolo ed emanazione della relativa cartella esattoriale ex d.lgs. n. 46 del 1999, in quanto nessuna norma impedisce tale scelta, né contempla sanzioni sul piano della validità della cartella esattoriale, senza che assuma rilievo il principio del ne bis in idem, non implicando il ricorso alla procedura citata la richiesta di un nuovo accertamento della pretesa creditoria.

Sez. L, n. 16307/2019, Ghinoy, Rv. 654237-01, con specifico riferimento alla decadenza dal potere di iscrizione a ruolo dei crediti contributivi ai sensi dell’art. 25 del d.lgs. n. 46 del 1999, ha ribadito che la previsione di cui all’art. 38, comma 12, del d.l. n. 78 del 2010, conv. in l. n. 122 del 2010 - stabilendo che le disposizioni contenute nel citato art. 25 non si applicano, limitatamente al periodo compreso tra l’1 gennaio 2010 e il 31 dicembre 2012, ai contributi non versati e agli accertamenti notificati successivamente alla data del 1° gennaio 2004 dall’ente creditore - si pone in chiave di raccordo temporale con le precedenti proroghe cosicché, utilizzando il meccanismo della sospensione di efficacia per un triennio dell’applicazione della regola della decadenza, consente il recupero coattivo di crediti non compresi nelle proroghe operative sino alla data suddetta.

Interessanti pronunce hanno poi riguardato profili squisitamente processuali.

Sez. L, n. 11335/2019, Esposito, Rv. 653462-01, ha ribadito che la scadenza del termine perentorio per proporre opposizione a cartella di pagamento di cui all’art. 24, comma 5, del d.lgs. n. 46 del 1999, pur determinando la decadenza dalla possibilità di proporre impugnazione, produce soltanto l’effetto sostanziale della irretrattabilità del credito contributivo senza determinare anche la cd. “conversione” del termine di prescrizione breve (nella specie, quinquennale, secondo l’art. 3, commi 9 e 10, della l. n. 335 del 1995) in quello ordinario (decennale), ai sensi dell’art. 2953 c.c., restando irrilevante sia il subentro dell’Agenzia delle entrate quale nuovo concessionario, sia il fatto che l’art. 20, comma 6, del d.lgs. n. 112 del 1999 preveda un termine di prescrizione decennale per la riscossione, atteso che detto termine concerne il procedimento amministrativo per il rimborso delle quote inesigibili e non interferisce con lo specifico termine previsto per azionare il credito.

Con particolare riferimento alla iscrizione a ruolo dei crediti degli enti previdenziali per omesso versamento di contributi a percentuale, Sez. L, n. 21541/2019, Calafiore, Rv. 654816-01, ha precisato che il maggior reddito accertato dall’Agenzia delle Entrate in sede di verifica assume valore presuntivo suscettibile di divenire definitivo in mancanza di contestazione da parte dell’interessato, a nulla rilevando l’accettazione del condono tributario ex art. 39, comma 12, del d.l. n. 98 del 2011, conv. con modif. dalla l. n. 111 del 2011, avente natura deflattiva esclusivamente del contenzioso fiscale.

Sez. L, n. 16425/2019, Mancino, Rv. 654476-01, ha infine affermato sempre in tema di riscossione dei contributi previdenziali mediante iscrizione a ruolo, che nel giudizio proposto dal debitore con le forme dell’opposizione all’esecuzione per l’accertamento negativo del credito risultante dall’estratto di ruolo, lamentando la mancata notifica della cartella esattoriale o dell’avviso di addebito senza tuttavia far valere vizi dell’azione esecutiva, non è configurabile un’ipotesi di litisconsorzio necessario tra l’ente creditore e il concessionario del servizio di riscossione, dovendosi attribuire alla chiamata in causa del concessionario prevista dall’art. 24, comma 5, del d.lgs. n. 46 del 1999, il valore di una mera litis denuntiatio, intesa a rendere nota la pendenza della controversia ed estendere gli effetti del futuro giudicato; né trova applicazione l’art. 39 del d.lgs. n. 112 del 1999, trattandosi di norma eccezionale che prevede a carico del concessionario l’onere di chiamare in causa l’ente creditore solo quando si discuta di vizi formali degli atti esecutivi e, al contempo, del merito della pretesa creditoria. (Nella specie, relativa ad una ipotesi in cui il debitore, ottenuto il rilascio dell’estratto di ruolo dall’agente della riscossione, aveva evocato in giudizio solo quest’ultimo e aveva chiesto dichiararsi l’avvenuta prescrizione della pretesa contributiva dell’ente previdenziale, senza lamentare l’invalidità di alcun atto esecutivo, la S.C. ha confermato la decisione di merito che aveva rigettato la domanda per difetto di legittimazione passiva, senza ravvisare la necessità di integrare il contraddittorio nei confronti dell’ente)

In materia si segnala altresì Sez. L. n. 31704/2019, Cavallaro, Rv. 656000-01, in tema di riparto dell’onere della prova nel giudizio di opposizione a cartella esattoriale avente ad oggetto crediti contributivi, secondo cui il principio per cui la mancata contestazione del fatto costitutivo del diritto ne rende inutile la prova siccome non più controverso, trova applicazione solo quando la parte opponente, attrice in senso formale ma convenuta in senso sostanziale, non prenda posizione in maniera precisa, rispetto ai fatti allegati nella memoria di costituzione dell’ente previdenziale, nella prima difesa utile, e cioè nell’udienza di cui all’art. 420 c.p.c., in quanto, attribuendo analoga efficacia di allegazione ai fatti contenuti in atti extraprocessuali (quale la cartella esattoriale), verrebbe interrotta la circolarità, necessariamente endoprocessuale, tra oneri di allegazione, di contestazione e di prova di cui al combinato disposto degli artt. 414, n.n. 4 e 5, e 416 c.p.c..

Sez. L, n. 09269/2019, Fernandes, Rv. 653453-01, ha inoltre affermato che la sospensione della prescrizione prevista dall’art. 38, comma 7, della l. n. 289 del 2002 non può essere estesa ai casi di omissione contributiva accertata a seguito di accertamento ispettivo, ma opera limitatamente ai contributi dovuti per l’anno 1998, quali risultanti dall’estratto contributivo inviato a ogni assicurato ai sensi dell’art. 1, comma 6, della l. n. 335 del 1995; detta sospensione concerne infatti il termine connesso alla denuncia che il lavoratore destinatario dell’estratto può presentare allo scopo di raddoppiare i termini prescrizionali di cui all’art. 3, comma 9, della l. n. 335 del 1995 ed è stata introdotta per ovviare agli inconvenienti derivanti dai ritardi nell’accredito della contribuzione per l’anno 1998, a seguito dell’istituzione dell’obbligo di presentazione, per opera dell’art. 4 del d.lgs. n. 241 del 1997, della dichiarazione unica modello 770 anche ai fini dei contributi dovuti all’Inps e dei premi dovuti all’ INAIL.

Sempre sotto un profilo processuale è stato chiarito da Sez. 6-L, n. 14135/2019, Esposito, Rv. 654016-01, che l’eccezione di prescrizione deve sempre fondarsi su fatti allegati dalla parte e che il debitore che la solleva ha l’onere di allegare e provare il fatto che, permettendo l’esercizio del diritto, determina l’inizio della decorrenza del termine, ai sensi dell’art. 2935 c.c., restando escluso che il giudice possa accogliere l’eccezione sulla base di un fatto diverso. In applicazione del principio, la S.C. ha quindi confermato la decisione della corte territoriale che, pronunciandosi su opposizione avverso ruolo esattoriale per crediti previdenziali fondata sulla prescrizione maturata prima della notifica delle cartelle, non aveva valutato l’eventuale prescrizione maturata in epoca successiva alla notifica delle cartelle medesime.

Infine, secondo Sez. L, n. 17705/2019, Curcio, Rv. 654478-01, in caso di somministrazione irregolare, la previsione di cui all’art. 27 del d.lgs. n. 276 del 2003 (ratione temporis applicabile), secondo cui legittimato a far valere l’illegittimità della somministrazione è il solo lavoratore somministrato, non preclude agli enti previdenziali o assicurativi di agire nei confronti dell’effettivo utilizzatore della manodopera, per l’accertamento della sussistenza dei presupposti delle obbligazioni contributive gravanti in capo a quest’ultimo.

8. Le sanzioni civili e la rendita vitalizia.

Alcune decisioni hanno riguardato la disciplina delle sanzioni civili, tra queste Sez. L, n. 12533/2019, Mancino, Rv. 653759-01, ha affermato che tra omissione contributiva e somme aggiuntive - che hanno natura di sanzioni civili - vi è un vincolo di dipendenza funzionale, contrassegnato dall’automatismo della sanzione rispetto all’omissione, sì che le somme aggiuntive in questione rimangono continuativamente collegate in via giuridica al debito contributivo; ne consegue che l’automaticità funzionale, legalmente predeterminata, della sanzione civile rispetto all’obbligazione contributiva, esclude non solo la rilevanza dell’elemento soggettivo, ma anche l’idoneità del provvedimento giudiziale sospensivo della cartella ad impedire il maturare delle predette somme aggiuntive.

In questo senso si pone altresì Sez. L, n. 31945/2019, De Marinis, Rv. 656004-01, la quale si allinea al consolidato orientamento di cui a Sez. L, 02620/2012, La Terza, Rv. 621124-01, secondo cui il credito per sanzioni civili, che trae origine da una obbligazione accessoria ex lege, ha pur nella sua accessorietà, la stessa natura giuridica della obbligazione principale e deve essere assoggettato al medesimo regime prescrizionale; in particolare, con riferimento alle omissioni ed evasioni contributive, la prescrizione del credito per sanzioni civili è la medesima dei contributi cui esse ineriscono.

Sez. L, n. 13013/2019, Berrino, Rv. 653956-01, ha inoltre specificato che l’accertamento della natura fittizia del rapporto con il datore di lavoro interposto, da cui discende il potere dell’ente previdenziale di applicare le relative sanzioni, costituisce oggetto di questione pregiudiziale, di cui il giudice può conoscere in via incidentale, senza che sia necessaria la previa azione del prestatore di lavoro, volta all’accertamento dell’interposizione fittizia e alla costituzione del rapporto di lavoro alle dipendenze dell’utilizzatore.

In tema di rendita vitalizia, Sez. L, 14416/2019, Fernandes, Rv. 653978-01, ha affermato che il principio secondo cui la sua costituzione ai sensi dell’art. 13 della l. 12 agosto 1962 n. 1338 in caso di omesso versamento dei contributi assicurativi presuppone in ogni caso che sia provata con documenti di data certa almeno l’esistenza del rapporto di lavoro, essendo possibile provare con mezzi diversi soltanto la durata del rapporto medesimo e l’ammontare della retribuzione, non trova deroga nel caso in cui l’esistenza del rapporto di lavoro abbia costituito oggetto di un precedente giudizio e risulti accertata mediante prove testimoniali, ancorché su ciò si sia formato il giudicato, restando quest’ultimo positivamente incidente solo nell’ipotesi in cui abbia ad oggetto proprio la natura di documentazione di data certa di una determinata prova.

Peraltro sempre in materia, Sez. L, n. 13202/2019, Calafiore, Rv. 653836-01, ha affermato che in caso di omesso versamento dei contributi assicurativi da parte del datore di lavoro e di avvenuta prescrizione dei medesimi, la necessità della prova scritta ai fini della costituzione della rendita vitalizia, prevista dall’art. 13, commi 4 e 5, della l. n. 1338 del 1962, riguarda non solo l’esistenza del rapporto di lavoro, ma anche la sua qualificazione in termini di subordinazione, senza che sia sufficiente allo scopo la prova per presunzioni. Sicché in applicazione del principio di cui innanzi, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che, ai fini dell’attribuzione della rendita vitalizia, aveva ritenuto inidonea a provare la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, la produzione delle scritture contabili della società datrice di lavoro, redatte dalla stessa lavoratrice, e una dichiarazione postuma dell’amministratrice della società.

9. La prescrizione dei crediti contributivi.

Sez. L, n. 02432/2019, Riverso, Rv. 652568-01, ha affermato che in tema di contributi agricoli il termine di prescrizione non decorre dalla data di presentazione delle denunzie periodiche della manodopera da parte del datore, ma dalla scadenza del termine fissato per legge per il pagamento degli stessi, dal momento che, per il favor debitoris costituente la ratio di tali previsioni, l’INPS non può esigere il pagamento prima della scadenza e, di conseguenza, non può decorrere la prescrizione, secondo il criterio generale di cui all’art. 2935 c.c.

Sez. L, n. 03661/2019, Calafiore, Rv. 652896-01, in relazione al disposto di cui all’art. 55 del r.d.l. n. 1827 del 1935, ha ribadito, in continuità con quanto statuito da Sez. L. n. 07104/1992, Senese, Rv. 477637-01, che la interruzione della prescrizione dei contributi di assicurazione obbligatoria (il cui decorso preclude la possibilità di effettuare versamenti a regolarizzazione dei contributi arretrati) si verifica solo per effetto degli atti, indicati dall’art. 2943 c.c., posti in essere dall’INPS (titolare del relativo diritto di credito) e non quando anche uno di tali atti sia posto in essere dal lavoratore, come nell’ipotesi di azione giudiziaria da questi proposta nei confronti del datore di lavoro.

Sez. L, n. 19403/2019, Spena, Rv. 654526-01, ha inoltre ribadito, in continuità con Sez. L, Bellè, n. 27950/2018, 651360-01, che la prescrizione dei contributi dovuti alla gestione separata decorre dal momento in cui scadono i termini per il pagamento dei predetti contributi e non dalla data di presentazione della dichiarazione dei redditi ad opera del titolare della posizione assicurativa, in quanto la dichiarazione in questione, quale esternazione di scienza, non costituisce presupposto del credito contributivo.

Infine, in materia di indennità di mobilità Sez. L, n. 25592/2019, Mancino, Rv. 655135-01, ha evidenziato che gli oneri previsti dall’art. 5, comma 4, della l. n. 223 del 1991, qualificati “contributi” dall’art. 3, comma 3, della stessa legge e dovuti, in base al principio di automaticità delle prestazioni, anche nel caso in cui il datore di lavoro non corrisponda le somme a suo carico, hanno natura contributiva, con conseguente applicazione del termine quinquennale di prescrizione di cui all’art. 3 della l. n. 335 del 1995.

  • congedo per maternità
  • regime pensionistico
  • cittadino straniero
  • lavoratore con disabilità
  • vaccinazione
  • anzianità
  • disoccupazione
  • cassa integrazione

CAPITOLO XXII

LE PRESTAZIONI PREVIDENZIALI E ASSISTENZIALI

(di Vincenzo Galati )

Sommario

1 Le prestazioni previdenziali a carico dell’INPS. - 1.1 La decadenza dall’azione giudiziaria. - 1.2 L’anzianità contributiva e la contribuzione figurativa. - 1.3 Le prestazioni pensionistiche. - 1.4 La CIG e l’indennità di mobilità. - 1.5 L’indennità di disoccupazione. - 1.6 L’indennità di maternità e l’assegno per il nucleo familiare. - 2 Le prestazioni assistenziali: Danni da trattamenti sanitari. - 2.1 Danni post-trasfusionali. - 2.2 Danni irreversibili da vaccinazioni. - 2.3 Le prestazioni di invalidità civile. - 2.4 L’indennità di accompagnamento. - 2.5 Profili processuali. - 2.6 Le prestazioni in favore delle vittime della criminalità organizzata e degli ex combattenti. - 2.7 Le misure in favore dei soggetti portatori di disabilità. - 2.8 Le prestazioni in materia di igiene e sanità pubblica. - 3 Le prestazioni in favore dei cittadini stranieri. - 4 L’indebito previdenziale. - 5 L’indebito assistenziale.

1. Le prestazioni previdenziali a carico dell’INPS.

Sull’argomento, come di consueto, si sono registrate numerose decisioni oggetto di massimazione che confermano la centralità della materia e la permanenza di questioni per le quali è necessario l’intervento nomofilattico della Suprema Corte, indispensabile anche per il susseguirsi della normativa, cui conseguono rilevanti problematiche di diritto intertemporale e l’esigenza di specificare la disciplina applicabile nelle controversie esaminate.

1.1. La decadenza dall’azione giudiziaria.

In ordine al regime intertemporale della disciplina della decadenza si deve ricordare Sez. L, n. 31398/2019, Calafiore, Rv. 655892-01 con la quale è stato ribadito quanto già deciso in passato da Sez. 6-L, n. 01071/2015, Marotta, Rv. 634079-01 e da Sez. L, n. 06959/2012, Ianniello, Rv. 622511-01; secondo tali pronunce in tema di decadenza delle azioni giudiziarie volte ad ottenere la riliquidazione di una prestazione pensionistica parzialmente riconosciuta, la novella dell’art. 38, comma 1, lett. d), del d.l. 6 luglio 2011, n. 98, conv. dalla legge 15 luglio 2011, n. 111 - che prevede l’applicazione del termine decadenziale di cui all’art. 47 del d.P.R. 30 aprile 1970, n. 639 anche alle azioni aventi ad oggetto l’adempimento di prestazioni riconosciute solo in parte o il pagamento di accessori del credito - detta una disciplina innovativa che, anche a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 69 del 2014, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 38, comma 4, del predetto d.l. n. 98 del 2011, non trova applicazione ai giudizi pendenti alla data di entrata in vigore delle nuove disposizioni, per i quali vale il generale principio dell’inapplicabilità del termine decadenziale.

Va inoltre segnalato un interessante arresto in tema di indennità di mobilità ex art. 7 della l. n. 223 del 1991 (norma oggi abrogata per effetto della l. n. 92 del 2012).

Sez. L, n. 11704/2019, Fernandes, Rv. 653830-01 ha deciso, in punto di decadenza e di individuazione del relativo termine di decorrenza, nel senso che l’indennità di mobilità di cui all’art. 7, comma 12, della l. n. 223 del 1991, costituisce un trattamento di disoccupazione, cui è applicabile il termine di decadenza previsto dall’art. 129, comma 5, del r.d.l. n. 1827 del 1935, di sessanta giorni dall’inizio della disoccupazione indennizzabile, e cioè dall’ottavo giorno successivo a quello della cessazione del rapporto di lavoro; ai fini della individuazione del “dies a quo” cui ancorare la decorrenza del termine decadenziale, grava sull’ente previdenziale interessato a far valere la decadenza, l’onere di dimostrare una diversa e anteriore data di conoscenza del licenziamento rispetto a quella ricavabile dalla domanda amministrativa.

La fattispecie ha riguardato il caso di un lavoratore già collocato in cassa integrazione a zero ore, per il quale era stata ritenuta tempestiva la domanda di indennità di mobilità da questi presentata lo stesso giorno della comunicazione, da parte del centro per l’impiego, del suo inserimento nelle liste di mobilità, senza che l’Inps avesse fornito la prova di una precedente conoscenza della cessazione del rapporto.

Si tratta di principio che, nella parte in cui stabilisce la necessità della domanda amministrativa, si consolida ulteriormente essendo stato più volte affermato dalla giurisprudenza di legittimità anche a S.U. (Sez. U, n. 17389/2002, Ravagnani, Rv. 559048-01; Sez. L, n. 07521/2017, Riverso, Rv. 643572-01).

1.2. L’anzianità contributiva e la contribuzione figurativa.

Sez. L, n. 23293/2019, Fernandes, Rv. 655058-01 ha affermato il principio per cui in tema di pensione di anzianità per gli iscritti all’assicurazione generale obbligatoria, i contributi figurativi accreditati per il periodo in cui è stata corrisposta l’indennità di disoccupazione non si computano ai fini del perfezionamento del requisito dell’anzianità contributiva non inferiore a quaranta anni richiesto per l’accesso al trattamento in regime di totalizzazione, ai sensi dell’art. 4, comma 1, del d.lgs. n. 42 del 2006, in linea con il principio generale secondo cui i contributi validi ai fini del conseguimento della pensione sono solo quelli relativi all’effettivo rapporto di lavoro e non quelli figurativi, salvo espresse e specifiche eccezioni, fra le quali non rientra l’indennità di disoccupazione.

Si tratta di affermazione sostanzialmente inedita per quanto riguarda l’aspetto specifico della impossibilità del computo dei periodi per i quali è stata corrisposta l’indennità di disoccupazione avendo, in precedenza, la Corte affermato il contrario principio con riguardo ai periodi di svolgimento di lavoro autonomo e, quindi, di versamento contributivo alle relative gestioni speciali (Sez. L, n. 22585/2008, La Terza, Rv. 604968-01), mentre era stata esclusa la possibilità del versamento di contributi volontari per coprire i periodi di contribuzione figurativa durante la fruizione dell’indennità di disoccupazione stante il divieto di cui all’art. 7 d.P.R. del 1971 n. 1432 (Sez. L, n. 21824/2004, Maiorano, Rv. 578064-01).

Con riferimento ai lavoratori socialmente utili, rileva quanto deciso da Sez. L, n. 05744/2019, D’Antonio, Rv. 652894-01, ovvero che la contribuzione figurativa a carico dell’INPS sussiste indipendentemente dalla iscrizione nelle liste di mobilità, come discende dall’interpretazione letterale del combinato disposto degli artt. 10, comma 3, del d.lgs. n. 81 del 2000, e 8, comma 19, del d.lgs. n. 468 del 1997, da cui deriva il riconoscimento della contribuzione figurativa per tutti i periodi d’impegno nelle attività socialmente utili, senza alcun limite temporale.

Si tratta di orientamento che si pone in termini di coerenza con quanto statuito nell’anno precedente in punto di rilevanza della contribuzione figurativa solo ai fini dell’accesso al trattamento pensionistico e non anche ai fini della misura dello stesso (Sez. L, n. 29942/2018, D’Antonio, Rv. 651674-01).

In tema di riscatto degli anni di laurea la Corte ha posto una significativa limitazione escludendo l’applicabilità dell’art. 51, comma 2, della l. n. 488 del 1999, ritenuta norma di carattere eccezionale, laddove si rivendichi il diritto di effettuare il versamento volontario relativamente a periodi per i quali il richiedente non avrebbe avuto comunque una tutela previdenziale.

Sez. L, n. 16828/2019, Berrino, Rv. 654244-01 ha dunque deciso che l’istituto del riscatto del corso legale di laurea ha lo scopo di consentire la copertura assicurativa di un periodo in cui l’interessato, essendosi dedicato allo studio, non ha potuto ottenere il versamento dei contributi assicurativi che avrebbe invece conseguito se avesse lavorato, con pregiudizio dell’anzianità assicurativa e contributiva; ne consegue che il riscatto non è consentito nei casi in cui, ove anche l’interessato avesse svolto attività lavorativa, non avrebbe comunque potuto provvedere al versamento dei contributi e avvalersi così del relativo periodo ai fini del futuro trattamento pensionistico, per inesistenza della tutela previdenziale. Né può, al riguardo, farsi luogo all’applicazione analogica dell’art. 51, comma 2, della l. n. 488 del 1999 - ai sensi del quale per i lavoratori iscritti alla gestione di cui all’art. 2, comma 26, della l. n. 335 del 95 è prevista la facoltà di riscattare annualità di lavoro prestato attraverso rapporti di collaborazione coordinata e continuativa in periodi precedenti alla data di entrata in vigore dell’assoggettamento all’obbligo contributivo di cui a quest’ultima legge -, trattandosi di norma avente carattere eccezionale.

Nel caso di specie, sulla base del rilievo che la gestione obbligatoria - nella specie, quella “separata” - presso la quale si chiedeva di accreditare la contribuzione frutto del riscatto era stata istituita con legge del mese di agosto del 1995, la Corte ha cassato la sentenza impugnata con la quale era stata accolta la domanda di riscatto degli anni del corso di laurea compresi tra il 1988 e il 1992, e, decidendo nel merito, ha rigettato la domanda.

Il principio di diritto affermato nella prima parte della massima è conforme a Sez. L, n. 18238/2002, La Terza, Rv. 559381-01.

Sez. L, n. 11708/2019, Ghinoy, Rv. 653831-01, in punto di rapporto tra accredito del contributo figurativo per i perseguitati per motivi razziali ed individuazione della base di calcolo del trattamento pensionistico, ha affermato che, il riferimento alla “retribuzione attuale della categoria e qualifica professionale posseduta dagli interessati nei periodi di persecuzione”, contenuto nell’art. 1 della l. n. 1424 del 1965, di interpretazione autentica dell’art. 5 della l. n. 96 del 1955, come modificato dall’art. 3 della l. n. 284 del 1961, ha la finalità di imporre all’ente previdenziale un comportamento analogo a quello che avrebbe dovuto osservare qualora, nel periodo di persecuzione, i contributi fossero stati effettivamente versati e costituisce dunque la base di computo della contribuzione relativa al periodo di copertura figurativa, ma non anche il parametro di calcolo dell’importo del trattamento pensionistico, che deve essere sempre effettuato in applicazione delle regole di volta in volta dettate per la sua determinazione al momento del collocamento in quiescenza.

In particolare, la Corte ha cassato con rinvio la sentenza impugnata che, per determinare l’importo della pensione di vecchiaia spettante a un perseguitato con decorrenza dal 1° luglio 1978, aveva utilizzato il parametro retributivo previsto per il calcolo della contribuzione figurativa in luogo del criterio, fissato dall’art. 14 della l. n. 153 del 1969 e in vigore all’atto del pensionamento, delle migliori tre retribuzioni annuali percepite nel decennio anteriore alla decorrenza della pensione.

In tema di rapporti tra assicurato ed INPS in merito alla posizione contributiva e di comunicazioni relative a tale condizione, assume rilievo quanto deciso da Sez. L, n. 23114/2019, Ghinoy, Rv. 655057-01 con la quale è stato deciso che l’INPS risponde delle erronee comunicazioni della posizione contributiva rese all’assicurato, a seguito di specifica domanda di quest’ultimo, a titolo di responsabilità contrattuale ex art. 1218 c.c., potendo tuttavia il giudice limitare il risarcimento dovuto nell’ipotesi in cui l’assicurato medesimo - non essendosi attivato per interrompere il processo produttivo dell’evento dannoso, così rassegnando le proprie dimissioni malgrado l’evidente erroneità, riscontrabile sulla base dell’ordinaria diligenza, dei dati contributivi a lui comunicati - abbia concorso al verificarsi del predetto evento, ai sensi dell’art. 1227, comma 1, c.c..

In particolare, la Corte ha ritenuto che l’omesso controllo, ad opera dell’interessato, dei dati forniti dall’INPS non potesse ritenersi di per sé solo causa del danno, ai sensi dell’art. 1227, comma 2, c.c., ed escludere la responsabilità dell’Istituto, in quanto la sussistenza di un obbligo di informazione dell’ente pubblico ed il legittimo affidamento dell’assicurato in ordine all’esattezza dei dati comunicatigli dalla pubblica amministrazione determinano l’applicazione del principio dell’equivalenza delle condizioni ex art. 41, comma 1, c.p..

1.3. Le prestazioni pensionistiche.

In materia di assegno di inabilità di cui all’art. 1 della l. n. 222 del 1984, Sez. L, n. 11185/2019, Ghinoy, Rv. 653742-01, con riferimento al requisito sanitario, ha affermato che la l. n. 222 del 1984 ha adottato, come criterio di riferimento ai fini del conseguimento del diritto all’assegno ordinario di invalidità, non la riduzione della generica capacità lavorativa, secondo quanto previsto dalla l. n. 118 del 1971, per i mutilati ed invalidi civili, bensì la riduzione della capacità lavorativa in occupazioni confacenti alle attitudini dell’assicurato; ne consegue l’inidoneità del parametro relativo all’invalidità civile, costituito da un sistema di tabelle che individuano indici medi riferiti ad un’attività lavorativa generica, che possono essere presi in considerazione soltanto come semplice punto di partenza per un’indagine diretta ad accertare l’effettiva riduzione della capacità subita dall’assicurato in relazione all’attività svolta.

È stata data così continuità al consolidato orientamento della Corte che ha più volte rimarcato come la l. n. 222 del 1984 abbia non solo il presupposto del rapporto assicurativo, assente nella disciplina dell’invalidità civile, ma anche un diverso presupposto, essendo fondata sulla riduzione della capacità di lavoro in occupazioni confacenti alle attitudini dell’assicurato in luogo della generica capacità lavorativa del soggetto (fra le molte Sez. L, n. 22737/2013, D’Antonio, Rv. 628008-01).

Nella stessa sentenza (Sez. L, n. 11185/2019, Ghinoy, Rv. 653742-02) si è altresì precisato che ai fini del diritto alle provvidenze previdenziali, la natura permanente della riduzione della capacità di lavoro non si identifica con la definitività e immutabilità dello stato invalidante, ma richiede che esso sia connaturato alla malattia in atto, o alle terapie che si rendono necessarie in ragione della stessa, per una proiezione di durata incerta e indeterminata, non prevedibile ex ante, o che comunque sia connotato da una certa perduranza significativa nel tempo, sì da determinare una reale situazione di bisogno.

In applicazione di tale principio, è stato escluso il diritto all’assegno di invalidità perché la patologia da cui era affetto il ricorrente - leucemia mieloide - e gli effetti collaterali della terapia somministrata erano in fase di remissione, tanto da determinare un’invalidità solo temporanea.

Con riferimento al requisito contributivo per il caso di ripristino dell’assegno ordinario di invalidità, Sez. 6-L, n. 05477/2019, Doronzo, Rv. 652926-01 ha affermato che nella decisione di ripristino dell’assegno ordinario di invalidità, revocato per mancata permanenza delle condizioni sanitarie di cui all’art. 1 della l. n. 222 del 1984, il giudice, qualora accolga solo parzialmente la domanda, con riconoscimento del diritto ad un nuovo assegno di invalidità, per essere sopraggiunto un nuovo stato invalidante nel corso del procedimento giudiziario, deve valutare l’esistenza del requisito contributivo cd. relativo, con riferimento al tempo della proposizione della domanda amministrativa di ripristino della prestazione e non in relazione al tempo della presentazione della originaria domanda.

Con ciò si è assicurata continuità al consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità: Sez. 6-L, n. 11748/2015, Marotta, Rv. 635839-01 e Sez. L, n. 09388/2006, Nobile, Rv. 589848-01.

In merito all’assimilabilità, quanto agli effetti, dell’assegno di inabilità alla pensione Sez. L, n. 23289/2019, Fernandes, Rv. 655018-01 ha affermato che, in tema di cumulo dei periodi assicurativi, ai fini della determinazione dell’importo dei trattamenti pensionistici, l’art. 16 della l. n. 233 del 1990, riferendosi testualmente ed esclusivamente alla “pensione”, non è applicabile all’assegno d’invalidità di cui all’art. 1 della l. n. 222 del 1984, non essendo detta prestazione, per le sue intrinseche caratteristiche - temporaneità della corresponsione, che diviene definitiva solo dopo tre riconoscimenti consecutivi ed irreversibile se non trasformata in pensione di vecchiaia al raggiungimento dell’età e in presenza dei relativi requisiti di assicurazione e contribuzione -, assimilabile ad un trattamento pensionistico.

Si tratta, anche in questo caso di una decisione conforme ad altra precedente Sez. L, n. 09582/2014, Napoletano, Rv. 630715-01.

Sez. 6-L, n. 20829/2019, Doronzo, Rv. 654831-01 si è soffermata sui requisiti costitutivi della pensione di inabilità, con particolare riferimento a quelli di cui ai commi 2 e 5 della disposizione, decidendo che in materia di pensione di inabilità di cui all’art 2 della l. n. 222 del 1984, il requisito sanitario e quello contributivo integrano gli unici elementi costitutivi del diritto, mentre i fatti cui si riferiscono i commi 2 e 5 della medesima disposizione ne rappresentano semplici “conditiones iuris”, incidenti sul contenuto e, quindi, sulla decorrenza della prestazione, sicché, verificata la sussistenza dei requisiti per l’insorgenza del diritto, ove l’INPS contesti l’esistenza dei suddetti fatti, il giudice che non giunga al relativo accertamento non può respingere la domanda di erogazione del trattamento, ma deve emettere sentenza di accoglimento, subordinando la decorrenza del beneficio al verificarsi dei fatti in condizione.

Si tratta di principio che non contraddice quanto deciso in Sez. 6-L, n. 22406/2015, Pagetta, Rv. 637791-01 e Sez. L, n. 00602/2002, Cuoco, Rv. 551687-01 che, sul punto, hanno affermato i medesimi principi individuando nel requisito sanitario ed in quello contributivo i soli elementi costitutivi del diritto alla pensione di inabilità.

Circa le condizioni alle quali opera la conversione della pensione di inabilità in quella di vecchiaia, Sez. L, n. 12163/2019, Calafiore, Rv. 653752-01 ha affermato che la conversione della pensione di invalidità in pensione di vecchiaia non opera automaticamente al compimento dei requisiti anagrafici e contributivi previsti per quest’ultima prestazione, essendo necessario che l’interessato presenti domanda di trasformazione.

Ne consegue che la decorrenza della pensione di vecchiaia, una volta proposta istanza per la conversione del trattamento previdenziale, deve individuarsi nel primo giorno del mese successivo a quello di presentazione dell’istanza medesima.

Anche in questo caso va segnalata la conformità a precedenti Sez. L, n. 03539/2015, Manna, Rv. 634593-01 e Sez. L, n. 24772/2009, Coletti De Cesare, Rv. 611022-01.

In tema di pensione di anzianità e di cumulabilità con i redditi da lavoro dipendente, Sez. L, n. 14417/2019, Calafiore, Rv. 653979-01 ha deciso che la cumulabilità non esclude che la pensione di anzianità possa essere erogata solo se al momento della presentazione della relativa domanda il rapporto di lavoro dipendente sia effettivamente cessato, dovendosi ravvisare una presunzione semplice del carattere simulato della cessazione di tale rapporto ove essa sia seguita da immediata riassunzione del lavoratore, alle medesime condizioni, presso lo stesso datore di lavoro.

Innovativo il principio fissato da Sez. L, n. 12362/2019, Fernandes, Rv. 653757-01, sempre in tema di pensione di anzianità e di innalzamento dell’età pensionabile ex art. 1, comma 8, della l. n. 243 del 2004, essendo stato deciso che, in tema di pensione di anzianità, la deroga all’innalzamento dell’età pensionabile prevista dall’art. 1, comma 8, della l. n. 243 del 2004, come modificato dalla l. n. 247 del 2007, si applica anche in caso di integrazione volontaria della contribuzione in costanza di rapporto di lavoro, di cui all’art. 5 del d.lgs. n. 564 del 1996, in considerazione della assenza di diversità ontologica tra tale ipotesi e quella della prosecuzione volontaria della contribuzione, disciplinata dall’art. 1 della l. n. 47 del 1983.

Sulla questione processuale della natura della sentenza di condanna al pagamento della pensione di anzianità e sulla possibilità di ritenerla titolo esecutivo, Sez. 6-L, n. 14154/2019, Leone, Rv. 654019-02 ha assicurato continuità all’orientamento risalente che esclude siffatta configurabilità.

È stato ribadito che la sentenza con la quale il giudice abbia dichiarato il diritto del ricorrente ad ottenere la pensione di anzianità e condannato l’ente previdenziale al pagamento dei relativi ratei e delle differenze dovute, senza precisare in termini monetari l’ammontare di tali differenze, deve essere definita generica e non costituisce valido titolo esecutivo, in quanto la misura della prestazione spettante all’interessato non è suscettibile di quantificazione mediante semplici operazioni aritmetiche eseguibili sulla base di elementi di fatto, contenuti nella medesima sentenza o mediante il mero richiamo ai criteri di legge, ma necessita dell’ulteriore intervento di un giudice diverso, salva la possibilità di procedere a un’interpretazione extratestuale del titolo esecutivo giudiziale sulla base degli elementi ritualmente acquisiti nel processo in cui si è formato, purché le relative questioni siano state trattate nel corso dello stesso e possano intendersi come ivi univocamente definite, essendo mancata, piuttosto, la concreta estrinsecazione della soluzione come operata nel dispositivo o perfino nel tenore stesso del titolo.

Già in passato la Corte aveva affermato il medesimo principio (si vedano Sez. L, n. 14374/2016, Berrino, Rv. 640565-01 e Sez. L, n. 16259/2003, Prestipino, Rv. 567795-01) che oggi trova ulteriore conferma.

Tali precedenti, tuttavia, non contenevano il riferimento alla possibilità di integrare l’interpretazione del titolo giudiziale mediante elementi extratestuali; precisazione, invece, presente in Sez. 6-3, n. 14356/2018, Cirillo, Rv. 649427-01.

Sez. L, n. 06257/2019, Berrino, Rv. 653179-01, in conformità a Sez. L, n. 23841/2015, Balestrieri, Rv. 637920-01, ha affermato che la pensione di reversibilità in regime internazionale, benché acquisita dal superstite “iure proprio”, spetta sulla base delle condizioni di assicurazione e contribuzione proprie del dante causa al momento del suo collocamento a riposo o, se non ancora titolare di pensione, a quello del decesso.

In particolare la vicenda ha riguardato un soggetto di nazionalità croata deceduto nel 2009, che godeva della pensione diretta dal 1984, sicché alla pensione di reversibilità si applicava la convenzione tra l’Italia e la Jugoslavia del 14 novembre 1957, per la quale, ai fini della totalizzazione dei contributi versati, è stato ritenuto sufficiente l’avvenuto versamento anche di un solo contributo settimanale.

Sempre in tema di pensione di reversibilità, Sez. L, n. 06872/2019, Mancino, Rv. 653204-01, si è soffermata sulla questione della perequazione automatica affermando che, in tema di blocco della perequazione automatica delle pensioni ex art. 1, comma 19, della l. n. 247 del 2007, per le pensioni di reversibilità l’importo-base sul quale calcolare l’eventuale superamento della soglia oltre la quale il blocco è destinato a operare (otto volte il trattamento minimo Inps) è costituito dal trattamento pensionistico al netto, e non al lordo, delle riduzioni derivanti dall’applicazione dei divieti di cumulo con gli altri redditi percepiti dal superstite, ai sensi dell’art. 1, comma 41, della l. n. 335 del 1995, in applicazione dei principi costituzionali di adeguatezza e proporzionalità dei trattamenti pensionistici che giustificano il sacrificio solo parziale e temporaneo dell’interesse dei pensionati, titolari di una o più pensioni, a tutelare il potere di acquisto.

In tema di individuazione della retribuzione utile a fini pensionistici di dirigente di imprese industriali, già iscritto presso l’INPDAI, Sez. L, n. 23573/2019, D’Antonio, Rv. 655061-01 ha deciso che, ai fini della liquidazione della pensione spettante ad un dirigente di imprese industriali, già iscritto presso l’INPDAI, confluito nell’INPS in forza della l. n. 289 del 2002, la retribuzione pensionabile deve essere individuata in relazione alle retribuzioni che sarebbero state utili nel caso di un’ipotetica liquidazione del trattamento pensionistico da parte dell’INPDAI, non anche con riguardo alle retribuzioni percepite negli ultimi cinque e dieci anni calcolati a ritroso dalla data del pensionamento, in quanto il rinvio dell’art. 42 della l. n. 289 del 2002 all’art. 3, comma 7, del d.lgs. n 181 del 1997, nonché lo stesso meccanismo del pro-rata adottato nell’art. 42 cit., costituiscono manifestazione della volontà del legislatore di tenere distinti i due periodi assicurativi, in considerazione della diversità dei sistemi di calcolo adottati per ciascuno di essi, dando luogo a due distinte quote di pensione da determinare secondo autonomi criteri.

Si va così consolidando l’orientamento conforme già espresso da Sez. L, n. 04897/2017, Doronzo, Rv. 643421-02.

Con riferimento alla pensione di vecchiaia sulla base del lavoro svolto in Svizzera ed alle relative modalità di calcolo Sez. 6-L, n. 14153/2019, Leone, Rv. 654018-01 ha dato continuità a Sez. L, n. 30876/2017, Calafiore, Rv. 646568-01 stabilendo che in tema di pensione di vecchiaia spettante sulla base del lavoro svolto in Svizzera, l’art. 1, comma 777, della l. n. 296 del 2006, disponendo, con norma di interpretazione autentica, che la retribuzione percepita all’estero, da porre a base del calcolo della pensione, sia riproporzionata al fine di stabilire lo stesso rapporto percentuale previsto per i contributi versati in Italia nel medesimo periodo, non è irragionevole e non determina alcuna lesione dell’affidamento del cittadino nella certezza dell’ordinamento giuridico, in quanto ispirato ai principi di uguaglianza e di proporzionalità, né contrasta con l’art. 117, comma 1, Cost. in relazione all’art. 6, par. 1, e all’art. 1, Prot. n. 1 all. CEDU, per come interpretato dalla Corte EDU (sentenza 15 maggio 2014), poiché quest’ultima non ha evidenziato un profilo di incompatibilità della disposizione nazionale in esame con il predetto art. 1 del Prot., sicché l’indicazione di una soglia (fissa o proporzionale) e di un limite di riducibilità delle “pensioni svizzere”, presuppongono la scelta tra una pluralità di soluzioni, rimessa, come tale, alla discrezionalità del legislatore (Corte cost. 12 luglio 2017 n. 166).

In punto di perequazione automatica delle pensioni ai sensi dell’art. 10 della l. n. 160 del 1975, Sez. L, n. 06335/2019, D’Antonio, Rv. 653184-01 si è pronunciata sul tema del termine di prescrizione, che ha indicato in quello decennale: il diritto al conseguimento delle maggiorazioni legate alla perequazione automatica delle pensioni, di cui all’art. 10 della l. n. 160 del 1975, soggiace alla prescrizione ordinaria decennale e, attesa l’avvenuta abrogazione della norma, ai sensi dell’art. 21 della l. n. 730 del 1983, sussiste fino al 30 aprile 1984, sicché non può essere riconosciuto ove la domanda amministrativa sia proposta decorsi dieci anni da tale data.

Si tratta di decisione conforme alla precedente Sez. L, n. 20507/2015, Berrino, Rv. 637403-01.

Infine, in termini generali, ossia con riferimento ad ogni prestazione di natura previdenziale erogata dagli istituti ad essa preposti Sez. 6-L, n. 02361/2019, Fernandes, Rv. 652617-01 ha affermato che in materia di controversie previdenziali, grava sull’interessato ad ottenere il riconoscimento del diritto alla prestazione uno specifico onere di collaborazione, rientrante nell’ambito del generale onere di provare la fondatezza del diritto controverso, consistente nella sottoposizione alla visita medica disposta in sede di consulenza tecnica di ufficio; ne consegue che la mancata presentazione dell’interessato alla visita peritale disposta in fase di appello - anche se instaurato dall’istituto previdenziale a seguito di una sentenza di primo grado fondata su una consulenza svolta in primo grado e favorevole al ricorrente- comporta il rigetto della domanda per difetto di prova.

Né l’assenza del periziando alla visita peritale può ritenersi giustificata dalla mancata presenza del suo difensore all’udienza dinanzi alla corte di appello in cui viene disposta la nuova consulenza tecnica di ufficio, poiché le ordinanze pronunciate dal giudice in udienza ed inserite nel processo verbale si reputano conosciute sia dalle parti presenti che da quelle che avrebbero dovuto esserlo.

Si tratta di principio reso in controversia relativa a rendita da infortunio sul lavoro ma identica affermazione si rinviene in Sez. L, n. 19577/2013, Blasutto, Rv. 628267-01 pronunciata in giudizio relativo all’assegno ordinario di invalidità ex art. 1 della l. n. 222 del 1984.

In tema di diritto all’integrazione al minimo sul trattamento pensionistico, Sez. L, n. 03144/2019, Mancino, Rv. 652864-01, ha avuto il pregio di chiarire che gli interessi legali sul credito previdenziale decorrono dal momento in cui è giuridicamente configurabile un ritardo dell’ente previdenziale nell’adempimento, momento che è di regola coincidente con la scadenza del termine di centoventi giorni dalla data di presentazione della domanda amministrativa; ne consegue che, nel caso di richiesta giudiziale non preceduta dalla previa domanda amministrativa e dal deposito della prescritta documentazione reddituale, gli interessi decorrono dalla data di notifica all’ente del ricorso introduttivo della prima e unica domanda per il riconoscimento della prestazione previdenziale, non essendo ravvisabile per l’ente alcun precedente spatium deliberandi, decorso il quale possa ritenersi esistente un ritardo nel pagamento.

Sez. L, n. 20496/2019, Mancino, Rv. 653744-01, in tema di pensionamento anticipato dei lavoratori addetti ai pubblici servizi di trasporto (autoferrotranvieri), disciplinato dall’art. 4 del d.l. n. 501 del 1995, conv. con modif. dalla l. n. 11 del 1996, ha infine ribadito l’orientamento secondo cui la maggiorazione contributiva va imputata alla quota di pensione maturata successivamente al 31 dicembre 1994, sicché ad essa deve essere applicata l’aliquota annua di rendimento del 2 per cento, prevista dalla normativa in vigore a tale momento.

Sez. 6-L, n. 30470/2019, Riverso, Rv. 656312 – 01, ha affrontato il tema dell’interesse ad agire ai fini del riconoscimento della maggiorazione contributiva di cui all’art. 13, comma 8 della l. n. 257 del 1992, come modificato dal d.l. n. 369 del 2003, conv. dalla l. n. 326 del 2003.

La Corte ha cassato con rinvio la decisione di merito che aveva ritenuto la carenza di interesse in relazione alla domanda di rivalutazione dei periodi assicurativi a seguito dell’esposizione all’amianto in quanto il soggetto non era ancora in pensione, operando il beneficio solo per la misura della prestazione e non anche per il suo conseguimento.

È stato precisato che l’interesse ad agire sussiste non solo per i contributi di cui alla l. n. 257 del 1992, utilizzabili a fini dell’accesso ed ai fini dell’incremento della pensione, ma anche per quelli previsti dal d.l. n. 269 del 2003, conv. dalla l. n. 326 del 2003, che sono validi soltanto per la misura della pensione in quanto “nell’uno come nell’altro caso non si tratta di un accertamento di un mero fatto, posto che i lavoratori destinatari chiedono in giudizio l’accertamento di una situazione giuridica soggettiva protetta dalla legge, ossia del diritto soggettivo a beneficiare immediatamente della rivalutazione contributiva stabilita dalla norma e di avere l’accredito attuale dei relativi contributi, sia pure ai soli fini dell’incremento del trattamento pensionistico futuro”.

Nella decisione si è ricordato come esista nell’ordinamento il diritto soggettivo del lavoratore alla correttezza della propria posizione contributiva, quale bene giuridico suscettibile di autonomo accertamento e tutela, che prescinde dal collocamento in pensione dello stesso.

In sostanza, il beneficio rispetto alla posizione assicurativa e/o contributiva è stato ritenuto presupposto per l’autonoma azionabilità del diritto alla rivalutazione in parola, a prescindere dall’immediata incidenza sulla misura della pensione.

Per la peculiare ipotesi del “congruo e dignitoso sostentamento” dei sacerdoti al servizio della Diocesi e del computo della pensione ai fini della sua determinazione, Sez. L, n. 31840/2019, Cavallaro, Rv. 656002-01 ha deciso che tra i proventi percepiti dai sacerdoti che svolgono servizio in favore della diocesi, computabili in relazione alla garanzia di un “congruo e dignitoso sostentamento”, nella misura stabilita periodicamente dalla Conferenza episcopale italiana, e dunque ai fini della determinazione dell’eventuale integrazione a carico dell’Istituto diocesano per il sostentamento del clero, ai sensi dell’art. 34 della l. n. 222 del 1985, devono essere ricomprese le pensioni, secondo quanto previsto dalle delibere n. 44 del 1986 e 58 del 1991 della Conferenza episcopale italiana, non essendo inibito alle deliberazioni integrative di cui all’art. 75 della legge citata di attribuire rilevanza, ai fini suddetti, a cespiti reddituali diversi dagli stipendi, nella misura in cui ciò non precluda in radice il conseguimento della “ratio” assistenziale propria della disposizione normativa.

Con riferimento alla base di calcolo del trattamento pensionistico, Sez. L, n. 34193/2019, Calafiore, Rv. 656456 - 01, ha ribadito quanto già deciso da Sez. L, n.. 21668/2017, Riverso, Rv. 645872-01 e cioè che nella base di calcolo del trattamento pensionistico vanno inclusi i ratei di tredicesima mensilità già maturati all’atto di esercizio dell’opzione prevista dall’art. 1, comma 12, della l. n. 243 del 2004 - che consente ai soggetti in possesso dei requisiti per l’accesso al pensionamento di anzianità di proseguire il rapporto con esonero dalla ulteriore contribuzione ed attribuzione delle somme corrispondenti a titolo di incentivo - in forza del criterio di parità e secondo la fictio iuris stabilita dal successivo comma 13 dello stesso art. 1, senza considerare il criterio di cassa per il pagamento dei contributi ex art. 6, comma 9, del d.lgs. n. 314 del 1997, applicabile solo ai rapporti normalmente in corso.

1.4. La CIG e l’indennità di mobilità.

Sez. L, n. 08919/2019, Fernandes, Rv. 653219-01, ha fissato un importante principio quanto al momento in cui assume rilievo il possesso del requisito anagrafico ai fini dell’elevazione del periodo di godimento del beneficio di cui all’art. 7, comma 1, della l. n. 223 del 1991 il quale dispone che “i lavoratori collocati in mobilità ai sensi dell’art. 4 della stessa legge, che siano in possesso dei requisiti di cui all’art. 16, primo comma hanno diritto ad un’indennità per un periodo massimo di dodici mesi, elevato a ventiquattro per i lavoratori che hanno compiuto i cinquant’anni”.

La decisione ha stabilito che in tema di indennità di mobilità, quel requisito deve essere posseduto alla data in cui si perfeziona il diritto al conseguimento dell’indennità, vale a dire al momento del licenziamento, che costituisce il presupposto dell’inserimento del lavoratore nella lista di mobilità, mentre è irrilevante la sua maturazione in costanza di prestazione.

In materia di estensione dell’indennità di mobilità a favore di lavoratori di imprese commerciali con numero di dipendenti tra 50 e 200, Sez. L, n. 09023/2019, Fernandes, Rv. 653451-01 ha deciso che l’estensione prevista dall’art. 7, comma 7, del d.l. n. 148 del 1993, conv. con modif. dalla l. n. 236 del 1993, e successive proroghe, opera anche per la corresponsione anticipata di cui all’art. 7, comma 5, della l. n. 223 del 1991, in riferimento all’integrale importo spettante e non limitatamente all’anno in cui è stata concessa, senza che rilevi la cancellazione dalle liste di mobilità per effetto dell’esercizio dell’opzione, atteso che il diritto al trattamento matura prima della cancellazione, anche in caso di pagamento dell’indennità in un’unica soluzione ed in via anticipata.

In ordine alla questione relativa al termine di decadenza applicabile all’indennità di mobilità ed alla sua equiparazione al trattamento di disoccupazione si veda al par. 1.1. la già citata Sez. L, n. 11704/2019, Fernandes, Rv. 653830-01.

Un significativo arresto si è avuto in tema di effetti dell’illegittimità della cessione del ramo di azienda e di detraibilità delle somme eventualmente percepite dal lavoratore a titolo di indennità di mobilità da quanto ricevuto per il mancato ripristino del rapporto ad opera del cedente.

Ed infatti Sez. L, n. 23306/2019, Patti, Rv. 655059-01 ha affermato che nell’ipotesi di nullità della cessione di azienda o di ramo di essa, le somme percepite dal lavoratore a titolo d’indennità di mobilità non possono essere detratte da quanto egli abbia ricevuto per il mancato ripristino del rapporto ad opera del cedente, indipendentemente dalla qualificazione - risarcitoria o retributiva - del trattamento economico dovuto al lavoratore illegittimamente trasferito, poiché l’indennità opera su un piano diverso rispetto agli incrementi patrimoniali derivanti al lavoratore dall’essere stato liberato, anche se illegittimamente, dall’obbligo di prestare la sua attività, dando luogo la sua eventuale non spettanza ad un indebito previdenziale, ripetibile nei limiti di legge.

L’affermazione è, sostanzialmente, conforme a quanto deciso da Sez. L, n. 07794/2017, Balestrieri, Rv. 643579-01, e si inserisce nel filone interpretativo che sembra prevalere, ad oggi, nella giurisprudenza di legittimità che vede affermata l’autonomia del rapporto tra cedente e lavoratore rispetto agli altri rapporti eventualmente instaurati prima della declaratoria di invalidità della cessione.

Si ricorda a tale proposito che anche Sez. L, n. 21158/2019, Amendola, Rv. 654807-01, sebbene su un piano diverso, ha ribadito l’autonomia delle vicende relative all’obbligazione retributiva gravante sul cedente che rifiuti la prestazione lavorativa rispetto alle retribuzioni corrisposte dal destinatario della cessione, e nello stesso senso Sez. L, n. 17784/2019, Patti, Rv. 654479-01.

Sembra così, allo stato, minoritario, il diverso principio affermato da Sez. L, n. 16694/2018, Leone, Rv. 649247-01 secondo cui, invece, in caso di dichiarazione di nullità della cessione di ramo di azienda, il cedente, che non provveda al ripristino del rapporto di lavoro, è tenuto a risarcire il danno secondo le ordinarie regole civilistiche, sicché la retribuzione, corrisposta dal cessionario al lavoratore, deve essere detratta dall’ammontare del risarcimento.

Analogamente Sez. L, n. 21160/2019, Amendola, Rv. 654995-01, ha deciso che in tema di cessione di ramo di azienda, ove ne venga accertata l’illegittimità, permane in capo al datore cedente, che, nonostante l’offerta della prestazione, non abbia ottemperato al comando giudiziale di ripristino del rapporto lavorativo, giuridicamente rimasto in vita, l’obbligo di pagamento delle retribuzioni; sancita la natura retributiva e non risarcitoria delle somme da erogarsi ai lavoratori da parte del cedente inadempiente, non trova applicazione il principio della “compensatio lucri cum damno” su cui si fonda la detraibilità di quanto altrimenti percepito.

Si è trattato di fattispecie proprio in tema di detraibilità (esclusa) dalle poste retributive dell’indennità di mobilità.

Rileva, seppure indirettamente, in materia di cassa integrazione guadagni una decisione assunta dalla Corte in tema di licenziamento collettivo.

In conformità con quanto deciso già da Sez. L, n. 11455/2004, Picone, Rv. 573746-01, Sez. L, n. 14800/2019, Blasutto, Rv. 653985-01, ha affermato che l’ambito della verifica da effettuare per disporre il collocamento in mobilità ex art. 4 della l. n. 223 del 1991 abbraccia l’impresa nel suo complesso e può estendersi anche a posizioni lavorative non comprese nel trattamento di integrazione salariale. Ne consegue che il provvedimento con il quale il lavoratore è stato collocato in CIGS non assume alcun rilievo in sede di impugnativa del licenziamento conseguente al collocamento in mobilità, la cui legittimità deve essere valutata con esclusivo riferimento agli accordi sindacali che ne costituiscono il fondamento specifico.

Sez. 6-L, n. 27872/2019, Riverso, Rv. 655552-01 ha deciso che in tema di benefici previdenziali in favore dei lavoratori esposti all’amianto, la salvaguardia del regime più favorevole di cui all’art. 13 della l. n. 257 del 1992 (trattamento straordinario di integrazione salariale e pensionamento anticipato, n.d.e.), previsto dall’art. 3, comma 132, della l. n. 350 del 2003 per i lavoratori che alla data del 2 ottobre 2003 avevano avanzato domanda di riconoscimento all’INAIL, deve ritenersi applicabile anche nel caso in cui, su domanda antecedente la data suindicata, vi sia stato un primo parziale riconoscimento dell’esposizione da parte dell’INAIL ed il lavoratore presenti successiva domanda di riesame o agisca in giudizio per ottenere un ampliamento del periodo di esposizione riconosciuto in sede amministrativa.

1.5. L’indennità di disoccupazione.

Sez. L, n. 21539/2019, Calafiore, Rv. 654815-01, sull’indennità di disoccupazione agricola per i lavoratori a tempo indeterminato, ha affermato il principio di diritto che in tema di prestazioni previdenziali a tutela del lavoro nell’agricoltura, l’indennità di disoccupazione agricola prevista dall’art. 32, comma 1, lett. a), della l. n. 264 del 1949 - nella disciplina anteriore all’art. 2, comma 3, della l. n. 92 del 2012 ed all’art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 22 del 2015 - compete, per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 30 del 2019, ai lavoratori a tempo indeterminato licenziati alla fine dell’anno - o comunque dopo aver raggiunto o superato le 270 giornate lavorate - che siano rimasti involontariamente privi di occupazione nell’anno successivo alla cessazione del rapporto di lavoro, dovendo in tal caso la misura dell’ indennità essere individuata sulla base della differenza tra il numero fisso di 270 e il totale delle giornate di effettiva occupazione prestata nell’anno, sino al limite massimo di 180 giornate annue.

Si tratta di un principio inedito che è stato affermato in una decisione che ha ricostruito puntualmente il quadro normativo applicabile ratione temporis alla vicenda contenziosa prendendo atto della sentenza della Corte costituzionale n. 30 del 2019 che ha rigettato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 32, comma 1 lett. a) della l. n. 264 del 1949 e dell’art. 1, comma 55, della l. n. 247 del 2007, in relazione agli artt. 3 e 38 della Costituzione nella parte in cui escludono la protezione contro lo stato di disoccupazione dei lavoratori agricoli a tempo indeterminato.

Sez. 6-L, n. 06229/2019, Spena, Rv. 653142-01 ha avuto l’occasione di ribadire che in tema di indennità di disoccupazione agricola, l’iscrizione negli elenchi anagrafici dei lavoratori agricoli costituisce presupposto per l’attribuzione della prestazione previdenziale, che, pertanto, non può essere riconosciuta in difetto di impugnazione del provvedimento amministrativo di esclusione da tali elenchi nel termine decadenziale di cui all’art. 22 del d.l. n. 7 del 1970, conv. con modif. dalla l. n. 83 del 1970.

Si tratta di principio che può farsi risalire alla nota Sez. U, n. 01133/2000, Prestipino, Rv. 541215-01.

Sez. L, n. 28295/2019, Ghinoy, Rv. 655604-01 ha affermato il principio innovativo e sostanzialmente inedito secondo cui l’indennità di disoccupazione, sostegno al reddito per il caso di involontaria mancanza di lavoro, è dovuta anche alla scadenza del contratto a termine che sia stato convertito giudizialmente in rapporto di lavoro a tempo indeterminato, quando alla pronunzia non segua poi l’effettiva reintegra, e senza che rilevi la successiva risoluzione consensuale del rapporto di lavoro a seguito di transazione posteriore alla sentenza favorevole, che il lavoratore non è obbligato ad eseguire, in quanto lo stato di disoccupazione, provocato dall’atto datoriale di risoluzione, e non dalla mancata esecuzione del provvedimento giudiziale, deve ritenersi comunque involontario.

1.6. L’indennità di maternità e l’assegno per il nucleo familiare.

Sez. L, n. 05367/2019, D’Antonio, Rv. 653021-01, ha avuto modo di pronunciarsi in punto di prolungamento del diritto all’indennità di maternità dopo la risoluzione del rapporto di lavoro, fissando le relative condizioni.

Ha dunque deciso che in tema di tutela delle lavoratrici madri, il diritto all’indennità giornaliera di maternità spetta anche quando il periodo di congedo abbia avuto inizio dopo la risoluzione del rapporto, a condizione che tra la cessazione del rapporto stesso e l’inizio del congedo non siano decorsi più di sessanta giorni, da calcolarsi con riferimento alla data presunta del parto e non a quella effettiva, oppure che, trascorso detto termine, la lavoratrice sia disoccupata e in godimento dell’ indennità di disoccupazione.

Nella fattispecie, il periodo di congedo, calcolato secondo il criterio indicato, era iniziato oltre sessanta giorni dopo la risoluzione del rapporto e la lavoratrice non poteva godere dell’indennità di disoccupazione avendone già usufruito per la durata massima.

In merito all’assegno per il nucleo familiare, disciplinato dall’art. 2 del d.l. n. 69 del 1988, conv. con modif. dalla l. n. 153 del 1988, Sez. L, n. 06870/2019, Riverso, Rv. 653203-02, con principio innovativo ha affermato che tale provvidenza spetta al lavoratore somministrato a tempo indeterminato anche durante gli intervalli in cui, pur non prestando attività lavorativa per l’utilizzatore, percepisce dal somministratore l’indennità di disponibilità ex art. 22, comma 3, del d.lgs. n. 276 del 2003, atteso che, durante tali periodi non lavorati, il sinallagma funzionale del contratto di lavoro è attivo e permane l’obbligo, a carico del somministratore, di versamento dei contributi assicurativi sull’erogata indennità.

In tale pronuncia si evidenzia che il diritto all’assegno per il nucleo familiare per il lavoratore che percepisce l’indennità di disponibilità deriva dalle regole generali richiamate dalla stessa disciplina normativa del lavoro somministrato, sulla base di una interpretazione sistematica, che tenga conto della evoluzione della disciplina del lavoro subordinato, atteso che al momento della introduzione della provvidenza in discorso (d.l. n. 69 del 1988 e d.P.R. n. 797 del 1955,), non esisteva la fattispecie del lavoro somministrato e le norme sugli assegni familiari erano modellate in relazione al modello tradizionale del lavoro dipendente.

Conclude la S.C. che anche per la indennità di disponibilità sussiste la ratio protettiva previdenziale che è all’origine della prestazione volta a tutelare il nucleo familiare, e quindi riconosciuta al lavoratore in ragione dei suoi carichi di famiglia mediante una tutela specifica per il nucleo familiare, diretta, in attuazione dell’art. 31 e 36 Costituzione, a garantire un sufficiente reddito alle famiglie che ne siano complessivamente sprovviste.

2. Le prestazioni assistenziali: Danni da trattamenti sanitari.

Come per gli anni passati si registrano diverse decisioni in materia di prestazioni riconosciute per danni irreversibili subiti a seguito di vaccinazioni, trasfusioni ed emoderivati.

Particolare riguardo ha avuto la giurisprudenza dell’anno al tema della esatta individuazione della decorrenza dei termini decadenziali.

2.1. Danni post-trasfusionali.

Decisamente significativo quanto affermato da Sez. 6-L, n. 27565/2019, Riverso, Rv. 655551-01 in punto di decadenza della domanda di indennizzo del danno da emotrasfusioni e di presupposti per la sua decorrenza.

La Corte ha descritto gli elementi la cui coesistenza determina la decorrenza del termine con una pronuncia che costituisce una sorta di sintesi degli orientamenti fino ad allora espressi.

Ha, quindi, deciso che in tema di indennizzo del danno da emotrasfusioni, ai fini della decorrenza del termine decadenziale di cui all’art. 3, comma 1, della l. n. 210 del 1992, non è sufficiente la conoscenza o la ragionevole conoscibilità della malattia in sé o della sua cronicizzazione, ma occorre quella dell’evento indennizzato completo del nesso causale e quindi della correlazione tra la patologia e l’intervento terapeutico praticato, della natura irreversibile del danno nonché della sua ascrivibilità, per equivalente e non in via strettamente tabellare, ad una delle infermità classificate nelle categorie previste dalla tabella B, annessa al T.U. approvato con d.P.R. n. 915 del 1978, come sostituita dalla tabella A allegata al d.P.R. n. 834 del 1981.

I diversi requisiti necessari per la decorrenza del termine decadenziale erano stati separatamente indicati in plurime occasioni dalla Corte e la recente sentenza ha avuto l’occasione ed il pregio di descriverli tutti in maniera dettagliata ed unitaria.

Il richiamo è ai precedenti costituiti da Sez. 6-L, n. 17800/2016, Garri, Rv. 640814-01, Sez. L, n. 00837/2006, Cellerino, Rv. 586648-01, Sez. 6-L, n. 22706/2010, Lamorgese, Rv. 614965-01, Sez. U, n. 08064/2010, Amoroso, Rv. 612172-01.

In continuità e sui medesimi aspetti, si è soffermata anche Sez. 6-L, n. 27874/2019, Riverso, Rv. 655617-01 che ha specificato, ulteriormente, che in tema di indennizzo in favore di soggetti danneggiati da epatite post-trasfusionale, ai fini del decorso del termine di decadenza di cui all’art. 3 della l. n. 210 del 1992, è necessario che la conoscenza della sussistenza di un danno irreversibile, inquadrabile per equivalente e non in via strettamente tabellare, ad una delle infermità classificate nelle categorie previste dalla tabella B, annessa al T.U. approvato con d.P.R. n. 915 del 1978, come sostituita dalla tabella A allegata al d.P.R. n. 834 del 1981, tragga la propria fonte da una documentazione clinica comprovante la data della trasfusione, le manifestazioni cliniche e l’entità delle lesioni o dell’infermità da cui è derivata la menomazione permanente del soggetto.

2.2. Danni irreversibili da vaccinazioni.

Nella materia si registrano alcuni interventi della Corte in piena continuità con precedenti decisioni.

In particolare (conformemente a Sez. L, n. 11339/2018, Mancino, Rv. 648188-01) è stato ribadito che ai soggetti danneggiati da vaccinazione antipoliomielite somministrata in epoca antecedente all’entrata in vigore della l. n. 695 del 1959, va riconosciuto il diritto all’indennizzo alla stregua della lettura costituzionalmente orientata dell’art. 1, comma 1, della l. n. 210 del 1992, tenuto conto dell’art. 5 quater del d.l. n. 73 del 2017, conv. con modif., dalla l. n. 119 del 2017, con applicazione del termine triennale, per la proposizione della domanda, previsto dall’art. 3, comma 1, della l. n. 210 del 1992 (Sez. L, n. 13208/2019, Mancino, Rv. 653838-01).

Inoltre Sez. L, n. 13206/2019, Mancino, Rv. 653837-01 ha precisato che in materia di danni da vaccinazioni obbligatorie, l’art. 3 della l. n. 229 del 2005, nel prevedere un ulteriore indennizzo in favore dei soggetti che già usufruiscono dei benefici di cui alla l. n. 210 del 1992, ne subordina la corresponsione alla rinuncia, con atto formale, alla prosecuzione di ogni contenzioso giudiziale proposto ai sensi della medesima legge, ivi inclusi i giudizi concernenti il riconoscimento del diritto alla rivalutazione dell’indennità integrativa speciale, in qualsiasi stato e grado del procedimento si trovino, ivi compresa la fase esecutiva, con esclusione dei soli giudizi che concernono le ulteriori pretese risarcitorie avanzate dagli interessati per atto illecito, di cui all’ultimo periodo del primo comma dell’art. 1 della l. n. 229 del 2005.

Si tratta di principio conforme a quanto già deciso da Sez. L, n. 08059/2014, Fernandes, Rv. 630073-01.

2.3. Le prestazioni di invalidità civile.

La Corte ha dato continuità a quanto deciso da Sez. 6-L, n. 06590/2014, Blasutto, Rv. 629902-01 ed ha ribadito il principio secondo cui, in materia di invalidità civile, la revoca della prestazione assistenziale, seppure intervenuta a seguito di una verifica amministrativa disposta dalla legge al fine di accertare la permanenza dei relativi requisiti, determina l’estinzione del diritto, con la conseguenza che l’interessato, per ottenere il ripristino della prestazione, è tenuto a proporre nuovamente l’istanza amministrativa di concessione (Sez. L, n. 28445/2019, Calafiore, Rv. 655848-01).

La sentenza ha sottolineato come la condizione di revoca della prestazione assistenziale determina una sorta di cesura con la situazione che aveva determinato il riconoscimento della stessa ed il venire meno del rapporto giuridico tra l’assistito e l’Amministrazione con la conseguenza che, per ripristinare tale rapporto, occorre preventivamente ri-attivare il procedimento amministrativo mediante una nuova ed autonoma domanda.

Anche ricorrendo tale ipotesi, quindi, secondo la motivazione della Corte, sussistono le condizioni che determinano non già la semplice improcedibilità della domanda giudiziale ma la radicale improponibilità a causa di una “temporanea carenza di giurisdizione”, sussistendo, anche in tale ipotesi, “la ratio sottesa alle prestazioni assistenziali che, alla stregua dell’art. 38 Cost., induce a preferire soluzioni volte a riconoscere le prestazioni assistenziali solo in presenza di effettivi bisogni e a rifuggire da soluzioni suscettibili di creare ingiustificate disparità di trattamento nell’area di quanti dette prestazioni rivendicano, disparità che finirebbe per crearsi, con riferimento ai requisiti per usufruire delle stesse, tra coloro che chiedono per la prima volta dette prestazioni e quanti, invece, avendo di queste già goduto, ne pretendono un perdurante godimento pur in presenza di mutate, e più favorevoli, condizioni reddituali”.

Con l’importante Sez. L, n. 14415/2019, Fernandes, Rv. 653977-01, la Corte è intervenuta sul tema del requisito reddituale richiesto per la prestazione assistenziale dell’assegno di invalidità civile di cui all’art. 13 della l. n. 118 del 1971.

È stato affermato che in tema di assegno di invalidità civile, ai fini della verifica della sussistenza del requisito reddituale previsto per il riconoscimento del beneficio, anche nel periodo successivo alla entrata in vigore della l. n. 247 del 2007 occorre fare riferimento al reddito personale dell’assistito, con esclusione di quello percepito dagli altri componenti del nucleo familiare.

Dopo avere operato una ricostruzione analitica delle norme succedutesi in materia di requisiti socio economici richiesti per le prestazioni a favore degli invalidi civili, ha preso in considerazione le innovazioni introdotte con l’art. 1, comma 35, della l. n. 247 del 2007 evidenziando, in particolare, che tale disposizione non ha comportato la distinzione delle condizioni previste per le due prestazioni assistenziali non avendo abrogato la disposizione speciale dettata per l’assegno di invalidità, con riferimento al limite reddituale per accedere alla prestazione, introdotta dall’art. l’art. 14 septies, comma 5, del d.l. n. 663 del 1979, conv. dalla l. n. 33 del 1980.

Tanto, nella lettura della Corte, è ulteriormente confermato dalla lettera del successivo intervento di cui al d.l. n. 76 del 2013, conv. dalla l. n. 99 del 2013, che all’art. 10 comma 5, ha inserito dopo il comma 6 dell’art. 14-septies cit., una ulteriore disposizione con la quale si specifica che “il limite di reddito per il diritto alla pensione di inabilità in favore dei mutilati e degli invalidi civili, di cui all’articolo 12 della legge 30 marzo 1971, n. 118, è calcolato con riferimento al reddito agli effetti dell’IRPEF con esclusione del reddito percepito da altri componenti del nucleo familiare di cui il soggetto interessato fa parte”.

La disposizione si completa con il successivo comma 6 il quale stabilisce che “la disposizione del settimo comma dell’articolo 14-septies del decreto legge 30 dicembre 1979, n. 663, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 febbraio 1980, n. 33, introdotta dal comma 5, si applica anche alle domande di pensione di inabilità in relazione alle quali non sia intervenuto provvedimento definitivo e ai procedimenti giurisdizionali non conclusi con sentenza definitiva alla data di entrata in vigore della presente disposizione, limitatamente al riconoscimento del diritto a pensione a decorrere dalla medesima data, senza il pagamento di importi arretrati. Non si fa comunque luogo al recupero degli importi erogati prima della data di entrata in vigore della presente disposizione, laddove conformi con i criteri di cui al comma 5.”.

Dall’insieme di tali disposizioni, la Corte ha ritenuto che il quadro normativo relativo al requisito reddituale per l’assegno di invalidità non abbia subito sostanziali mutamenti e sia tuttora valido il riferimento al solo reddito del richiedente la prestazione (Sez. L, n. 13363/2003, Capitanio, Rv. 566772-01, Sez. L, n. 16363/2002, Morcavallo, Rv. 558617-01).

2.4. L’indennità di accompagnamento.

In ordine alle modalità con le quali effettuare l’accertamento del diritto al ripristino dell’indennità di accompagnamento nel caso di patologie irreversibili, si segnala Sez. L, n. 30856/2019, Mancino, Rv. 655883-01 con la quale è stato affermato che l’accertamento giudiziale del diritto al ripristino dell’indennità di accompagnamento revocata, pur in presenza di patologie irreversibili, impone la verifica del perpetuarsi delle condizioni di minorazione, da compiersi nel processo attraverso l’acquisizione di prove o il ricorso, secondo le circostanze, a presunzioni di fatto dalle quali desumere la permanenza nel tempo di condizioni sanitarie o psicofisiche tali da compromettere la salute e la dignità dell’assistibile.

Inoltre Sez. L, n. 30568/2019, Mancino, Rv. 655874-01 si è soffermata sul rapporto tra la prestazione e quelle relative alla cecità parziale, affermando che le prestazioni assistenziali relative alla cecità parziale ed all’indennità di accompagnamento sono cumulabili - ove ricorrano i rispettivi presupposti - in ragione della diversa funzione di tali provvidenze, che tendono, nell’uno caso, a sopperire alla condizione di bisogno di chi a causa dell’invalidità non é in grado di procacciarsi i necessari mezzi di sostentamento, nell’altro, a consentire ai soggetti non autosufficienti condizioni esistenziali compatibili con la dignità della persona umana, dovendosi considerare, nella valutazione complessiva dello stato di inabilità totale, l’eventuale concorso della cecità parziale con le altre minorazioni nel determinare la perdita di autonomia e autosufficienza che dà diritto all’indennità di accompagnamento per effetto della sentenza della Corte cost. n. 346 del 1989.

In ordine al rapporto tra le somme erogate a titolo di assegno sociale in relazione alla corresponsione dell’indennità di accompagnamento, con particolare riguardo alla possibile compensazione impropria tra le due poste, rileva quanto deciso da Sez. L, n. 30220/2019, D’Antonio, Rv. 655865-01 nel senso che la compensazione impropria - che si verifica quando i contrapposti crediti e debiti delle parti hanno origine da un unico rapporto - non è applicabile sul trattamento di invalidità civile (nella specie, indennità di accompagnamento) per il recupero di somme indebitamente versate a titolo di assegno sociale ex art. 3, comma 6, della l. n. 335 del 1995 - quale provvidenza avulsa dallo stato di invalidità che non investe la tutela di condizioni minime di salute o gravi situazioni di urgenza - in difetto del requisito di identità del titolo per l’assoluta diversità dei presupposti che giustificano l’erogazione delle due prestazioni; ne consegue la piena applicazione della disciplina della compensazione e dei limiti all’operatività della stessa, con particolare riguardo al divieto di cui all’art. 1246, n. 3, c.c..

2.5. Profili processuali.

Sez. L, n. 29754/2019, D’Antonio, Rv. 655717-01 ha affermato che in tema di azione giudiziale per le prestazioni d’invalidità civile, il termine di decadenza introdotto dall’art. 42, comma 3, del d.l. n. 269 del 2003 (conv. con modif. dalla l. n. 326 del 2003), la cui efficacia è stata differita al 31 dicembre 2004 dall’art. 23, comma 2, del d.l. n. 355 del 2003 (conv. con modif. dalla l. n. 47 del 2004), si applica a decorrere dal 1° gennaio 2005 anche nel caso in cui il provvedimento amministrativo sia stato comunicato all’interessato anteriormente alla predetta data, dovendosi ritenere, conformemente ai principi generali dell’ordinamento in materia di termini, che, ove una modifica normativa introduca un termine di decadenza prima non previsto, la nuova disciplina operi anche per le situazioni soggettive già in essere, ma la decorrenza del termine resta fissata con riferimento all’entrata in vigore della modifica legislativa.

Si tratta di una decisione in evidente contrasto con quanto precedentemente deciso da Sez. L, n. 11484/2015, Balestrieri, Rv. 635667-01 che aveva sostenuto il contrario principio dell’applicabilità della decadenza in questione solo ai provvedimenti amministrativi comunicati a decorrere dal 1° gennaio 2005 e non nell’ipotesi in cui il ricorso amministrativo (avverso un provvedimento amministrativo di rigetto) sia stato proposto prima del 31 dicembre 2004, dovendosi in tal caso applicare la previgente disciplina di cui al d.P.R. 24 settembre 1994, n. 698.

Più sentenze si sono soffermate su profili attinenti la domanda amministrativa di concessione dell’indennità di accompagnamento.

Ben tre le decisioni massimate con le quali è stato deciso che in tema di prestazioni previdenziali ed assistenziali, al fine di integrare il requisito della previa presentazione della domanda non è necessaria la formalistica compilazione dei moduli predisposti dall’INPS o l’uso di formule sacramentali, essendo sufficiente che la domanda consenta di individuare la prestazione richiesta affinché la procedura anche amministrativa si svolga regolarmente.

Ne consegue che non costituisce requisito imprescindibile della domanda amministrativa barrare la casella che, nel modulo, individua le condizioni sanitarie la cui sussistenza è necessaria per il riconoscimento del diritto all’ indennità di accompagnamento (la cd. spunta), non potendo l’istituto previdenziale introdurre nuove cause di improcedibilità ovvero di improponibilità in materia che deve ritenersi coperta da riserva di legge assoluta ex art. 111 Cost..

In tal senso Sez. L, n. 14412/2019, D’Antonio, Rv. 653976-01 e la conforme Sez. L, n. 25804/2019, Mancino, Rv. 655392-01.

Il caso concreto riguardava la mancata completa compilazione della domanda amministrativa con particolare riferimento al certificato medico, rilasciato su modulo predisposto dall’INPS nel quale pur essendo segnalato che il certificato era rilasciato ai fini dell’invalidità, non era stata barrata la casella che individua le condizioni sanitarie la cui sussistenza è necessaria per il riconoscimento del diritto all’indennità di accompagnamento.

La Corte si è soffermata sull’interpretazione dell’art. 20, comma 3, del d.l. n. 78 del 2009, come modificato dalla l. n. 102 del 2009 secondo cui “a decorrere dal 1° gennaio 2010 le domande volte ad ottenere i benefici in materia di invalidità civile, cecità civile, sordità civile, handicap e disabilità, complete della certificazione medica attestante la natura delle infermità invalidanti, sono presentate all’INPS, secondo modalità stabilite dall’ente medesimo. L’Istituto trasmette, in tempo reale e in via telematica, le domande alle Aziende Sanitarie Locali”.

Secondo l’interpretazione fatta propria dalla Corte, “la norma, nel richiedere che sia allegata la certificazione medica con indicazioni delle infermità , nulla aggiunge con riferimento all’indennità di accompagnamento, ma il modello predisposto dall’Inps reca la dicitura “persona impossibilitata a deambulare senza l’aiuto permanente di un accompagnatore” , oppure “ persona che necessita di assistenza continua non essendo in grado di compiere gli atti quotidiani della vita”, prevedendo che sia barrata l’ipotesi ritenuta sussistente ma, la spuntatura di una di dette ipotesi, non sembra affatto costituire requisito imprescindibile della domanda amministrativa in base alla norma suddetta”.

Si è dunque concluso nel senso di cui alla massima sopra riportata.

Ha seguito la medesima linea interpretativa Sez. L, n. 24896/2019, Mancino, Rv. 655317-01, che ha sostenuto, in tema di prestazioni previdenziali ed assistenziali, che, al fine di integrare il requisito della previa presentazione della domanda amministrativa di cui all’art. 443 c.p.c., non è necessaria la formalistica compilazione dei moduli predisposti dall’INPS o l’uso di formule sacramentali, essendo sufficiente che la domanda consenta di individuare la prestazione richiesta affinché la procedura, anche amministrativa, si svolga regolarmente; ne consegue che non costituisce requisito ostativo all’esercizio dell’azione per il riconoscimento del beneficio dell’indennità di accompagnamento la circostanza che la domanda amministrativa sia corredata da un certificato medico negativo rilasciato all’assistito dal medico curante, non potendo l’istituto previdenziale introdurre nuove cause di improcedibilità ovvero di improponibilità in materia che deve ritenersi coperta da riserva di legge assoluta ex art. 111 Cost.

Infine, nello stesso solco si inserisce Sez. L, n. 30419/2019, D’Antonio, Rv. 655870-01, con la quale è stato sostenuto che in tema di invalidità civile, ai fini della procedibilità del ricorso giudiziale, è sufficiente che la domanda amministrativa consenta di individuare la specifica prestazione richiesta, senza che l’eventuale assenza del certificato medico possa incidere sul riconoscimento del diritto al beneficio con decorrenza dalla presentazione della medesima domanda, ove sussistano gli altri presupposti previsti dalla legge.

Sez. 6-L, n. 26090/2019, Cavallaro, Rv. 655616-01, si è soffermata su un profilo comune alle controversie in materia di revoca o soppressione di un trattamento assistenziale ed ha enunciato il principio secondo cui nelle controversie in materia di soppressione, per asserito miglioramento, di pensione di invalidità civile, assegno di invalidità civile o indennità di accompagnamento, che siano stati conseguiti in forza di sentenza passata in giudicato, è necessario condurre una comparazione tra le condizioni di salute esistenti all’epoca della sentenza e quelle riscontrate in occasione del giudizio di revisione, atteso che in tali casi il giudicato si estende anche alla valutazione del carattere invalidante delle malattie che, se invariate, non possono essere diversamente valutate.

La Corte si è allineata a quanto precedentemente deciso in senso conforme da Sez. L, n. 12674/2003, Celentano, Rv. 566387-01.

Per l’ipotesi del decreto di omologa emesso in pendenza del giudizio ordinario, è stato affermato che in tema di accertamento tecnico preventivo ex art. 445 bis c.p.c., la pendenza del ricorso ordinario tra le parti impedisce di ritenere definitiva la statuizione contenuta nell’eventuale decreto di omologa che sia stato nel frattempo emesso in quanto è destinata ad essere travolta dalla decisione che sarà assunta in sede di giudizio ordinario; ne consegue che avverso quel decreto non è proponibile ricorso per cassazione e che l’erronea omologazione potrà essere rilevata nel giudizio di merito. (Sez. 6-L, n. 25399/2019, Leone, Rv. 655425-01).

Sull’accertamento tecnico preventivo di cui all’art. 445 bis c.p.c. e, segnatamente, sulla possibilità di tenere conto anche delle infermità sopravvenute nel corso del giudizio, ai sensi dell’art. 149 disp. att. c.p.c., rileva quanto deciso da Sez. L, n. 30860/2019, Mancino, Rv. 655884-01 che ha dato risposta affermativa al quesito stabilendo che la previsione di cui all’art. 149 disp. att. c.p.c., dettata in materia di invalidità pensionabile, che impone la valutazione in sede giudiziaria di tutte le infermità, pur sopravvenute nel corso del giudizio, si applica anche ai giudizi introdotti ai sensi dell’art. 445 bis c.p.c., la cui “ratio” di deflazione del contenzioso e di velocizzazione del processo, nei termini di ragionevolezza di cui alla Convenzione EDU, ben si armonizza con la funzione dell’art. 149 citato, sicché la sua mancata applicazione vanificherebbe la finalità della novella, creando disarmonie nella protezione dei diritti condizionate dai percorsi processuali prescelti.

In particolare, nel caso esaminato, la Corte ha cassato la sentenza che aveva ritenuto inammissibile la formulazione del dissenso, ed escluso la sussistenza del requisito sanitario, perché l’aggravamento era intervenuto successivamente al deposito della consulenza tecnica in sede di ATP.

2.6. Le prestazioni in favore delle vittime della criminalità organizzata e degli ex combattenti.

In merito si segnala Sez. L, n. 30068/2019, Bellè, Rv. 655863-01 che ha affermato, in conformità a quanto già deciso da Sez. L, n. 26348/2016, Blasutto, Rv. 642249-01, che i benefici combattentistici di cui alla l. n. 336 del 1970, che, ai sensi del suo art. 1, spettano soltanto ai profughi coinvolti in maniera immediata e diretta negli effetti del trattato di pace ed a coloro che a questi profughi sono parificati da apposite leggi, non possono essere riconosciuti ad un pubblico dipendente orfano di un caduto per causa di servizio, né la l. n. 474 del 1958, che, all’art. 5, ha disposto misure perequative in favore dei mutilati ed invalidi per causa di servizio titolari di trattamenti pensionistici e dei loro congiunti, ha introdotto una parificazione permanente ed automatica tra questa categoria e quella dei mutilati ed invalidi di guerra.

La motivazione adottata dalla Corte, attraverso la tecnica del richiamo al precedente conforme ex art. 118 disp. att. c.p.c., risiede nella considerazione che l’art. 1 della l. n. 336 cit. vede come destinatari dei benefici ivi previsti i dipendenti pubblici che siano “ex combattenti, partigiani, mutilati ed invalidi di guerra, vittime civili di guerra, orfani, vedove di guerra o per causa di guerra, profughi per l’applicazione del trattato di pace e categorie equiparate”.

Secondo la Corte l’espressione “categorie equiparate” di cui al predetto art. 1, va intesa come riferita solo alle categorie equiparate per legge a quella dei “profughi per l’applicazione del trattato di pace”, ossia l’ultima categoria dell’elenco.

“In effetti, la congiunzione coordinativa “e”, pur potendo unire proposizioni sintatticamente equivalenti, nella costruzione del dettato legislativo appare riferibile esclusivamente all’ultima categoria della serie, nel senso che i benefici previsti dal legislatore per gli ex combattenti sono estesi alle altre categorie che la stessa legge ha inteso assimilare ai primi e, con specifico rifrimento alla categoria dei “profughi per l’applicazione del trattato di pace”, alle categorie a questa equiparate per effetto di altre disposizioni legislative.

La costruzione del periodo, in cui la riferita locuzione è conchiusa tra due virgole e prima del verbo (“....per causa di guerra, profughi per l’applicazione del trattato di pace e categorie equiparate, possono chiedere....”), avvalora tale conclusione, portando ad escludere che il riferimento alle “categorie equiparate” valga ad estendersi oltre l’ambito così definito”.

Una lettura sistematica e costituzionalmente orientata ha, invece, ispirato l’affermazione che in tema di benefici a favore delle vittime della criminalità organizzata e dei loro familiari, il requisito dell’estraneità all’ambiente mafioso è necessario per “tutti i soggetti destinatari”, dovendosi comprendere nell’espressione anche i familiari delle vittime e i loro superstiti, per effetto del richiamo congiunto compiuto dagli artt. 9 bis e 4 della l. n. 302 del 1990 all’art. 1, commi 1 e 2, della medesima legge, al fine di impedire l’attribuzione di strumenti di solidarietà previsti per le vittime di atti criminosi in favore dei loro autori o di persone ad essi contigue, e risultando in contrasto con l’art. 3 Cost. una richiesta del requisito per le vittime e non anche per i loro familiari o aventi causa (Sez. L, n. 31136/2019, Tria, Rv. 655903-01).

2.7. Le misure in favore dei soggetti portatori di disabilità.

Rileva sull’argomento Sez. L, n. 19580/2019, F. Amendola, Rv. 654502-01 che ha affermato il principio di diritto secondo cui in tema di congedo straordinario ex art. 42, comma 5, del d.lgs. n. 151 del 2001, l’assistenza che legittima il beneficio in favore del lavoratore, pur non potendo intendersi esclusiva al punto da impedire a chi la offre di dedicare spazi temporali adeguati alle personali esigenze di vita, deve comunque garantire al familiare disabile in situazione di gravità di cui all’art. 3, comma 3, della l. n. 104 del 1992 un intervento assistenziale di carattere permanente, continuativo e globale nella sfera individuale e di relazione; pertanto, ove venga a mancare del tutto il nesso causale tra assenza dal lavoro ed assistenza al disabile, si è in presenza di un uso improprio o di un abuso del diritto ovvero di una grave violazione dei doveri di correttezza e buona fede sia nei confronti del datore di lavoro che dell’ente assicurativo.

La fattispecie era relativa a lavoratore licenziato perché, in costanza di congedo, volontariamente richiesto per due anni consecutivi, senza frazionamenti pure possibili, si era allontanato dal disabile per un lasso di tempo significativo, soggiornando a molti chilometri di distanza; la S.C. ha cassato la sentenza di merito che aveva dichiarato il recesso privo di giusta causa, senza verificare se tale condotta avesse preservato le finalità primarie dell’intervento assistenziale.

Sez. L, n. 21416/2019, Marotta, Rv. 654680-01 ha deciso che in tema di permessi retribuiti ex art. 33, comma 3, della l. n. 104 del 1992, la condizione - cui è assoggettato il relativo diritto - che la persona da assistere, affetta da handicap grave, non sia ricoverata a tempo pieno, non può che intendersi riferita al ricovero presso strutture ospedaliere o simili (pubbliche o private) che assicurino assistenza sanitaria continuativa, in coerenza con la “ratio” dell’istituto, che è quella di garantire al portatore di handicap grave tutte le prestazioni sanitarie necessarie e richieste dal suo “status”, così da rendere superfluo, o comunque non indispensabile, l’intervento del familiare.

Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata che aveva ritenuto legittimo il licenziamento intimato per falsa dichiarazione del lavoratore in ordine al requisito del mancato ricovero della madre, alloggiata in una casa di riposo perché la valutazione del giudice di merito sulla veridicità della dichiarazione si era arrestata ad una nozione atecnica di ricovero, senza considerare il livello di assistenza prestato dalla struttura.

2.8. Le prestazioni in materia di igiene e sanità pubblica.

In coerenza con quanto deciso in passato (segnatamente si veda Sez. L., n. 06775/2018, Mancino, Rv. 647648-01) in materia di prestazioni non erogabili dal servizio pubblico ma suscettibili di essere poste a carico del Servizio Sanitario Nazionale, è stata pronunciata un’ordinanza particolamente articolata e minuziosa nella definizione dei requisiti che devono sussistere affinchè di quelle prestazioni si faccia carico il SSN.

Si tratta di Sez. L, n. 09272/2019, Ghinoy, Rv. 653454-01, con la quale è stato affermato che, in materia di cure tempestive non erogabili dal servizio pubblico, il diritto alla fruizione di prestazioni sanitarie a carico del Servizio Sanitario Nazionale deve essere riconosciuto contemperando l’elevato livello di protezione della salute umana, garantito dalla Costituzione e dall’art. 35 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, con i condizionamenti derivanti dalle risorse finanziarie di cui lo Stato dispone per organizzare il Servizio sanitario in favore di un numero quanto più ampio possibile di fruitori, dovendo dunque essere accertato sulla base dei seguenti criteri: a) le prestazioni richieste devono presentare, per specifiche condizioni cliniche o di rischio, evidenze scientifiche di un significativo beneficio in termini di salute, a livello individuale o collettivo, validate da parte della comunità scientifica; b) l’appropriatezza, che impone che vi sia corrispondenza tra la patologia e il trattamento secondo un criterio di stretta necessità, tale da conseguire il migliore risultato terapeutico con la minore incidenza sulla qualità della vita del paziente; c) l’economicità nell’impiego delle risorse, che richiede di valutare la presenza di altre forme di assistenza, meno costose ma di efficacia comparabile, volte a soddisfare le medesime esigenze ed erogabili dalle strutture pubbliche o convenzionate.

In particolare, è stata confermata l’esclusione del diritto all’erogazione gratuita della terapia Dikul, o R.I.C., sulla scorta di risultanze peritali, le quali avevano escluso sia la presenza di evidenze scientifiche atte a comprovare una maggiore efficacia oggettiva di tale metodo riabilitativo rispetto ai trattamenti ASL, sia che tale metodo avesse in concreto apportato al ricorrente benefici apprezzabilmente migliori rispetto a quelli ottenibili dal S.S.N..

Pressochè in modo analogo il principio era stato affermato anche da Sez. L, n. 07279/2015, Balestrieri, Rv. 635166-01 che, tuttavia, proprio in identica fattispecie (terapia Dikul, o R.I.C.) era pervenuta a conclusioni opposte confermando la decisione di merito che aveva riconosciuto il diritto all’erogazione di tale terapia, essendo stati riscontrati netti miglioramenti nel paziente.

In senso negativo, sempre sulla medesima terapia, si veda Sez. L, n. 18676/2014, A. Manna, Rv. 632878-01.

Con riferimento a cure praticate all’estero presso centri di alta specializzazione e non erogabili dal Servizio Sanitario Nazionale, Sez. L, n. 19024/2019, Mancino, Rv. 654496-01, ha ritenuto che, in tema di assistenza sanitaria indiretta, in forza del combinato disposto degli artt. 3, comma 5, della l. n. 595 del 1985, 2 e 5 del d.m. 3 novembre 1989, qualora la prestazione non sia affatto ottenibile in Italia, è consentito il rimborso per spese sanitarie sostenute dal cittadino italiano all’estero presso centri di alta specializzazione qualora, tenuto conto della particolarità del caso clinico, ricorra il presupposto della non differibilità del trattamento sanitario, essendo la “ratio” della normativa funzionale a sopperire alle disfunzioni strutturali del SSN.

La fattispecie ha riguardato un paziente con irreversibile patologia neurologica sottoposto a trattamento riabilitativo praticato solo in un centro di cura austriaco ed in nessun centro italiano.

Sulla questione si era espressa in termini coerenti Sez. L, n. 01391/2018, Boghetich, Rv. 646889-01 ove si è posta l’attenzione, altresì, sulla “comprovata ed eccezionale gravità e urgenza” oltre che sull’impossibilità di ottenerle presso centri italiani, “essendo necessaria l’iscrizione in lista di attesa presso almeno due strutture pubbliche, o convenzionate con il SSN, da un periodo di tempo superiore a quello massimo previsto dal d.m. 24 gennaio 1990 e successive modificazioni”.

In termini, sui requisiti dell’altissima specializzazione della struttura e della non ottenibilità, in astratto, in Italia, delle cure anche Sez. L, n. 06461/2009, Di Nubila, Rv. 607765-01.

L’esigenza di bilanciamento di contrapposti interessi è stata affermata anche in materia di presupposti per il diritto al contributo regionale per il ricovero in residenza sanitaria assistita.

È stato sostenuto, infatti, che il diritto a percepire il contributo regionale a sostegno del ricovero in residenza sanitaria assistita è condizionato ad un’utile collocazione in graduatoria, il cui scopo non è quello di consentire l’accesso alla residenza, ma piuttosto di graduare i bisogni delle persone non autosufficienti e le loro possibilità economiche ai fini del rimborso, così rispondendo a criteri di appropriatezza ed efficienza dell’azione amministrativa e di solidarietà tra i cittadini, oltre che di rispetto dei vincoli di bilancio, senza che ciò comporti una lesione del diritto alla salute, in quanto il diritto alle prestazioni sanitarie gratuite risulta condizionato dalla limitatezza delle disponibilità finanziarie.

Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di merito che aveva negato ad un’assistita il diritto al rimborso delle spese sostenute nel periodo in cui, pur accertata la condizione di non autosufficienza ed essendo stata ammessa al ricovero, era stata collocata in lista di attesa ai fini dell’erogazione del contributo (Sez. L, n. 17997/2019, Mancino, Rv. 654480-01).

Sulla legittimità del sistema della graduatoria anche Sez. L, n. 14642/2010, Curzio, Rv. 613565-01.

3. Le prestazioni in favore dei cittadini stranieri.

Rimandando all’approfondimento tematico sull’intervenuta rimessione alla Corte di Giustizia UE di alcune questioni relative al riconoscimento dell’assegno per il nucleo familiare in presenza di specifiche situazioni, quali il temporaneo soggiorno all’estero dei familiari, si segnalano le seguenti decisioni con le quali la Corte si è pronunciata delineando i presupposti per il riconoscimento dell’assegno sociale e dell’indennità di maternità.

In particolare, è stato deciso che lo straniero extracomunitario ha diritto al riconoscimento dell’assegno sociale di cui all’art. 3, comma 6, della l. n. 335 del 1995, alla sola condizione del possesso della carta di soggiorno a tempo indeterminato, ora permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo, senza che sia necessaria anche la residenza anagrafica in Italia (Sez. L, n. 15170/2019, Mancino, Rv. 654103-01).

In altra decisione è stato affermato che lo straniero extracomunitario ha diritto al riconoscimento dell’assegno sociale di cui all’art. 3, comma 6, della l. n. 335 del 1995, alla condizione del possesso della carta di soggiorno a tempo indeterminato - ora permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo - nonché, a decorrere dal 1° gennaio 2009, per effetto dell’art. 20, comma 10, del d.l. n. 112 del 2008, conv. con modif. dalla l. n. 133 del 2008, del soggiorno legale, in via continuativa, per almeno dieci anni, nel territorio nazionale, senza che tale requisito possa essere considerato quale limite alla libertà di circolazione di cui agli artt. 16, comma 2, Cost., 21 e 45 del T.F.U.E., perché non implica alcun divieto violativo della libera scelta del singolo e si sostanzia in un radicamento territoriale che non si identifica con la assoluta, costante ed ininterrotta permanenza sul territorio nazionale (Sez. L, n. 16989/2019, Fernandes, Rv. 654380-01).

La seconda decisione si segnala per avere evidenziato le condizioni necessarie per l’ottenimento della prestazione e della conformità ai parametri costituzionali ed europei del requisito della continuità della permanenza sul territorio nazionale.

Si tratta di requisito introdotto con il d.l. n. 112 del 2008, conv. dalla l. n. 133 del 2008 (cfr. par. 11 e 12 della sentenza), non esaminato dalla prima sentenza n. 15170/2019, depositata il 4 giugno 2019, che riguarda il periodo precedente al 1 gennaio 2009, per come emerge dalla motivazione, con particolare riguardo ai parr. 16 e 17, e si è soffermata, più precisamente, sulla non necessità del requisito della residenza anagrafica in Italia (aspetto sul quale la seconda decisione non è stata chiamata ad intervenire).

In tema di indennità di maternità ex art. 75 del d.lgs. n. 151 del 2001 è stato deciso che costituisce atto di discriminazione in ragione della nazionalità il diniego della prestazione previdenziale ai cittadini di Paesi terzi per mancato possesso della carta di soggiorno, come emerge dalla lettura congiunta degli artt. 43 e 44 del d.lgs. n. 286 del 1998 e delle fonti sovranazionali in materia (Sez. L, n. 14073/2019, Calafiore, Rv. 653970-01).

Sul congedo parentale da parte del padre adottivo del minore straniero, Sez. L, n. 14678/2019, Calafiore, Rv. 653983-01, ha chiarito che ai sensi dell’art. 36 del d.lgs. n. 151 del 2001, non può essere fruito prima dell’ingresso del minore nel territorio nazionale dello Stato italiano, poiché solo dopo tale evento avviene il definitivo ingresso del minore in famiglia, cui lo stesso art. 36 ricollega la decorrenza del periodo temporale per la fruizione del congedo.

Il principio secondo cui la mancata concessione, ai cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo in Italia, dell’assegno per il nucleo familiare, previsto dall’art. 65 della l. n. 448 del 1998, per il periodo precedente all’1 luglio 2013, costituisce discriminazione collettiva per ragioni di nazionalità, per violazione del principio di parità in materia di assistenza sociale e protezione sociale, in relazione alle prestazioni essenziali, previsto dalla direttiva 2003/109/CE ed attuato dall’art. 13, comma 1, della l. n. 97 del 2013, risalente a Sez. L-, n. 11165/2017, Riverso, Rv. 644231-02 è stato ribadito da Sez. L, n. 28745/2019, Calafiore, Rv. 655612-02.

Inoltre va ricordato che Sez. L, n. 28745/2019, Calafiore, Rv. 655612-01 ha dato continuità all’orientamento secondo cui nelle discriminazioni collettive in ragione del fattore della nazionalità, ex artt. 2 e 4 del d.lgs. n. 215 del 2003 ed art. 43 del d.lgs. n. 286 del 1998, sussiste la legittimazione ad agire in capo alle associazioni ed agli enti previsti dall’art. 5 del d.lgs. n. 215 del 2003 (Sez. L, n. 11165/2017, Riverso, Rv. 644231-01),

4. L’indebito previdenziale.

Sez. 6-L, n. 08731/2019, Cavallaro, Rv. 653391-01, ha delineato il concetto di “dolo dell’assicurato” che esclude la limitazione della disciplina dell’indebito previdenziale evidenziando i casi in cui è rilevante anche il semplice silenzio.

In particolare, ha deciso che il dolo dell’assicurato, idoneo ad escludere l’applicazione delle norme che limitano la ripetibilità delle somme non dovute, in deroga alla regola generale di cui all’art. 2033 c.c., pur non potendo presumersi sulla base del semplice silenzio, che di per sé stesso, non ha valore di causa determinante in tutti i casi in cui l’erogazione indebita non sia imputabile al percipiente, è configurabile nelle ipotesi di omessa o incompleta segnalazione di circostanze incidenti sul diritto o sulla misura della pensione, che non siano già conosciute o conoscibili dall’ente competente.

Nella specie, il pensionato aveva omesso di segnalare l’evidente discrasia tra lo stipendio percepito in costanza di lavoro e la pensione, provvisoriamente liquidata in misura quasi pari al doppio del primo.

La Corte (richiamando proprie precedenti decisioni anche del 2018 - Sez. L, n. 27096/2018, Bellè, Rv. 651253-01 e Sez. L, n. 01919/2018, Cavallaro, Rv. 647242-01) è partita dalla premessa che nell’indebito previdenziale, il dolo non opera nel momento di formazione della volontà negoziale, bensì nella fase esecutiva, riguardando un fatto causativo della cessazione dell’obbligazione di durata che non è noto all’ente debitore, dal quale ultimo, in ragione del numero rilevantissimo di rapporti di cui è titolare passivo, non si può ragionevolmente pretendere che si attivi per prendere conoscenza della situazione personale e patrimoniale dei creditori senza la collaborazione attiva di ciascuno di essi e che il dolo del pensionato, pur non potendo aprioristicamente considerarsi presunto sulla base del semplice silenzio, deve tuttavia ritenersi sussistente allorché questi abbia disatteso l’obbligo legale di comunicare all’INPS determinate circostanze rilevanti ai fini della sussistenza e della misura del diritto a pensione; obbligo legale che trova la sua consacrazione nell’art. 13, comma 1, della l. n. 412 del 1991.

Ai fini della ripetizione dell’indebito previdenziale per sopravvenuta mancanza del requisito reddituale, ai sensi dell’art. 13, comma 2, della l. 30 dicembre n. 412, Sez. 6-L, n. 15039/2019, Cavallaro, Rv. 654138-01, ha ribadito, richiamando espressamente Sez. L, n. 03215/2018, D’Antonio, non massimata, e Sez. L, n. 00953/2012, La Terza, Rv. 620200-01, che non è previsto l’accertamento del dolo dell’assicurato o l’esistenza di un provvedimento dell’INPS di attribuzione del bene della vita oggetto di recupero, ma rileva soltanto la tempestività della richiesta di ripetizione dell’Istituto rispetto alla comunicazione, da parte del pensionato, dei dati rilevanti ai fini della verifica annuale della persistenza delle condizioni legittimanti l’erogazione del trattamento pensionistico.

Sez. L, n. 03802/2019, Bellè, Rv. 652884-01 ha precisato che in tema di indebito previdenziale, l’art. 13, comma 2, della l. n. 412 del 1991, si interpreta nel senso che l’INPS deve procedere alla verifica nell’anno civile in cui ha avuto conoscibilità dei redditi maturati dal percettore di una data prestazione e che, entro l’anno civile successivo a quello destinato alla verifica, deve procedere, a pena di decadenza, al recupero dell’eventuale indebito.

Una interessante precisazione è stata compiuta da Sez. L, n. 31373/2019, Mancino, Rv. 655992-01 ove si è chiarito che in caso di indebita percezione dell’indennità di mobilità, non può trovare applicazione la disposizione di cui all’art. 52 della l. n. 88 del 1989 - secondo cui, in caso di errore di qualsiasi natura in sede di attribuzione, erogazione o riliquidazione della prestazione, non si fa luogo al recupero delle somme corrisposte, salvo che l’indebita percezione sia dovuta a dolo dell’interessato -, poiché la predetta disposizione, che ha natura di norma eccezionale ed è perciò insuscettibile di interpretazione analogica, riguarda esclusivamente le prestazioni pensionistiche e non quelle previdenziali, cui è riconducibile la predetta indennità.

Va segnalato l’interessante pronunciamento in punto di applicabilità delle regole procedimentali di cui alla l. n. 241 del 1990 ai provvedimenti assunti dall’INPS ai fini del disconoscimento delle prestazioni previdenziali o dei requisiti per l’assicurazione per determinati eventi (nel caso di specie disoccupazione agricola) ovvero per la costituzione del rapporto previdenziale.

Sez. L, n. 31954/2019, Cavallaro, Rv. 656530 – 01, ha diffusamente argomentato la soluzione negativa evidenziando “la natura meramente ricognitiva del procedimento amministrativo preordinato all’accertamento, alla liquidazione e all’adempimento delle prestazioni previdenziali in favore dell’assicurato” dalla quale discende che la mancata osservanza delle regole del procedimento ex l. n. 241 del 1990, così come dei precetti di buona fede e correttezza, non influisce sul rapporto obbligatorio avente ad oggetto la prestazione, in quanto “il rapporto giuridico previdenziale, nascendo ex lege al verificarsi dei requisiti previsti, è interamente devoluto alla cognizione del giudice ordinario, non operando in proposito i divieti riconducibili alla previsione dell’art. 4, I. n. 2248/1865, all. E” con la conseguenza che “stante l’indifferenza del procedimento amministrativo rispetto alla consistenza della sua situazione soggettiva, l’assicurato non può, in difetto dei fatti costitutivi della relativa obbligazione, fondare la pretesa giudiziale di pagamento della prestazione previdenziale su eventuali disfunzioni procedimentali addebitabili all’istituto o su una carente o insufficiente motivazione del provvedimento di diniego della prestazione, potendo semmai in tali casi, ricorrendone in concreto i presupposti, far valere il proprio diritto al risarcimento dei danni eventualmente cagionatigli dal comportamento dell’istituto medesimo”.

La Corte si è così dichiaratamente posta in continuità con quanto già deciso da Sez. L, n. 20604/2014, Balestrieri, Rv. 632624-01 e, ancora prima, da Sez. L, n. 02804/2003, Picone, Rv. 560694-01.

5. L’indebito assistenziale.

Sul punto Sez. L, n. 26036/2019, Ghinoy, Rv. 655396-01, ha deciso che l’indebito assistenziale determinato dalla sopravvenuta carenza del requisito reddituale, in assenza di norme specifiche che dispongano diversamente, è ripetibile solo a partire dal momento in cui intervenga il provvedimento che accerta il venir meno delle condizioni di legge, e ciò a meno che non ricorrano ipotesi che escludano qualsivoglia affidamento dell’”accipiens”, come nel caso di erogazione di prestazioni a chi non abbia avanzato domanda o non sia parte di un rapporto assistenziale o di radicale incompatibilità tra beneficio ed esigenze assistenziali o, infine, di dolo comprovato.

Nel motivare la decisione la Corte ha operato un richiamo al precedente costituito da Sez. L, n. 28771/2018, Bellè, Rv. 651691-01 che ha affermato il principio secondo il quale l’indebito assistenziale determinato dal venir meno, in capo all’avente diritto, dei requisiti reddituali previsti dalla legge abilita l’ente erogatore alla ripetizione delle somme versate solo a partire dal momento in cui è stato accertato il superamento dei predetti requisiti, a meno che non si provi che l’”accipiens” versasse in dolo rispetto a tale condizione (come ad esempio allorquando l’incremento reddituale fosse talmente significativo da rendere inequivocabile il venire meno dei presupposti del beneficio), trattandosi di coefficiente soggettivo idoneo a far venir meno l’affidamento alla cui tutela sono preposte le norme limitative della ripetibilità dell’indebito.

Ha altresì messo in evidenza la specificità della disciplina segnalando come “il regime dell’indebito previdenziale ed assistenziale presenta tratti eccentrici rispetto alla regola della ripetibilità propria del sistema civilistico e dell’art. 2033 c.c., in ragione dell’ «affidamento dei pensionati nell’irripetibilità di trattamenti pensionistici indebitamente percepiti in buona fede» in cui le prestazioni pensionistiche, pur indebite, sono normalmente destinate «al soddisfacimento di bisogni alimentari propri e della famiglia» (Corte Costituzionale 13 gennaio 2006, n. 1), con disciplina derogatoria che individua «alla luce dell’art. 38 Cost. – un principio di settore, che esclude la ripetizione se l’erogazione (...) non sia (...) addebitabile» al percettore (Corte Costituzionale 14 dicembre 1993, n. 431)”.

Sez. 6-L, n. 10642/2019, Cavallaro, Rv. 653627-01, ha invece ritenuto che in tema di indebito assistenziale, la violazione, ad opera del titolare della prestazione, dell’obbligo di comunicazione all’INPS della situazione reddituale rilevante ai fini del diritto alla percezione della predetta prestazione, esclude la sussistenza di un affidamento idoneo a giustificare l’irripetibilità dell’indebito.

Per l’ipotesi della mancanza del requisito della incollocazione al lavoro e di assenza di un provvedimento amministrativo di revoca Sez. L, n. 31372/2019, Mancino, Rv. 655991-01, ha deciso che trovano applicazione le norme sull’indebito assistenziale, speciali rispetto alla disposizione di cui all’art. 2033 c.c., le quali fanno riferimento alla mancanza dei requisiti di legge in via generale - limitando la restituzione ai soli ratei indebitamente erogati a decorrere dalla data del provvedimento che accerta che il beneficio assistenziale non era dovuto e che va esclusa, in difetto di un provvedimento amministrativo di revoca, la ripetibilità di dette prestazioni, essendo irrilevante l’assenza di buona fede dell’”accipiens”.

Infine, Sez. 6-L, n. 34013/2019, Ponterio, Rv. 656314 - 01, quanto alla decorrenza della ripetizione dei ratei di prestazioni assistenziali indebitamente erogate, ha dato continuità ad un consolidato orientamento della Corte di cassazione secondo cui, con riferimento alla revoca delle prestazioni assistenziali in favore degli invalidi civili, alla stregua della disciplina via via succedutasi nel tempo a partire dall’art. 11, comma 4, della l. n. 537 del 1993 ( art. 4, comma 3 ter, del d.l. n. 323 del 1996, conv. dalla l. n. 425 del 1996, art. 37, comma 8, della l. n. 448 del 1998 ) - disciplina alla quale rimane estranea la disposizione meramente “regolamentare” dettata dall’art. 5, comma 5, del d.P.R. n. 698 del 1994 avente ad oggetto l’articolazione del relativo procedimento - deve ritenersi che la ripetizione delle prestazioni previdenziali indebitamente erogate operi dalla data di accertamento amministrativo dell’inesistenza dei requisiti sanitari, senza che possa rilevare - in mancanza di una norma che disponga in tal senso - il mancato rispetto, da parte dell’amministrazione, dell’obbligo di sospendere i pagamenti e di emanare il formale provvedimento di revoca entro termini prefissati; nè il sistema normativo così interpretato può essere ritenuto non rispettoso dell’art. 38 Cost., essendo ragionevole che la data dell’accertamento amministrativo, ancorché precedente il formale atto di revoca, determini la fine dell’affidamento dell’assistito nella definitività dell’attribuzione patrimoniale ricevuta (conformi Sez. L, n. 16260/2003, Figurelli, Rv. 567796-01 e Sez. L, n. 12139/2005, D’Agostino, Rv. 581759 - 01).

  • malattia
  • malattia professionale
  • diritto del lavoro
  • infortunio sul lavoro

CAPITOLO XXIII

LA TUTELA INAIL

(di Vincenzo Galati )

Sommario

1 Le malattie professionali. - 2 Gli infortuni sul lavoro. - 3 La revisione della rendita. - 4 I contributi assicurativi INAIL. - 5 L’azione di regresso.

1. Le malattie professionali.

Circa il valore probatorio da assegnare all’elenco delle malattie di cui all’art. 139 del d.P.R. n. 1124 del 1965 in punto di accertamento concreto dell’eziologia professionale della malattia, è stato affermato che l’elenco delle malattie oggetto di denuncia obbligatoria previsto dall’art. 139 del d.P.R. n. 1124 del 1965, come integrato dall’art. 10 del d.lgs. n. 38 del 2000, non amplia il catalogo delle patologie tabellate, con la conseguenza che gli elenchi succedutisi nel tempo in relazione alla citata disposizione assumono valore probatorio vario, in relazione all’intensità probabilistica del nesso eziologico accertato dalla commissione scientifica, ma sempre nel quadro di una concreta verifica probatoria il cui onere incombe sull’assicurato (Sez. 6-L, n. 22837/2019, Spena, Rv. 654881-01).

Si tratta di un orientamento che conferma quanto già sostenuto da Sez. L, n. 13868/2012, De Marzo, Rv. 623366-01 e che rafforza la tesi della giurisprudenza che assegna alle sole malattie tabellate l’eziologia professionale presunta.

Sez. U, n. 11928/2019, Garri, Rv. 653792-01, ha risolto il contrasto insorto nella giurisprudenza delle sezioni semplici (Sez. L, n. 15733/2013, Berrino, Rv. 626941-01 e Sez. L, n. 00211/2015, F. Amendola, Rv. 634045-01) sulla durata della sospensione di cui all’art. 111 del d.P.R. n. 1124 del 1965 con particolare riguardo al quesito: “se…accanto all’effetto sospensivo per 150 giorni complessivi (come affermato dal più recente orientamento di legittimità), la domanda di prestazione all’INAIL acquisti anche un effetto conservativo che perdura fino all’esito del procedimento amministrativo (riconosciuto dalla sentenza delle Sez. u. n. 783/1999)”.

Le Sezioni Unite hanno affermato che il termine di prescrizione triennale dell’azione per il riconoscimento delle prestazioni da infortunio sul lavoro e malattie professionali, di cui all’articolo 112 del d.P.R. n. 1124 del 1965, resta sospeso, ex art. 111, comma 2, dello stesso d.P.R., per tutta la durata del procedimento amministrativo di liquidazione delle indennità e fino all’adozione di un provvedimento di accoglimento o di diniego da parte dell’istituto assicuratore; ne consegue che il decorso dei termini per la liquidazione previsti dall’art. 111, comma 3, del d.P.R. n. 1124 del 1965, non determina la cessazione della sospensione della prescrizione, ma rimuove la condizione di procedibilità dell’azione giudiziaria, dando facoltà all’assicurato di agire in giudizio a tutela della posizione giuridica soggettiva rivendicata.

Sez. L, n. 24880/2019, Marchese, Rv. 655315-01 ha fissato il principio di diritto secondo cui la liquidazione del danno biologico, ai fini della tutela dell’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, pur in presenza della stessa menomazione dell’integrità psico-fisica, non può essere effettuata con i medesimi criteri valevoli in sede civilistica, in quanto in ambito previdenziale vanno obbligatoriamente osservate le tabelle di cui al d.m. del 12 luglio 2000, secondo quanto disposto dall’art. 13 del d.lgs. n. 38 del 2000, perseguendo le due liquidazioni fini propri e diversi.

Nel caso specifico, la Corte ha confermato la sentenza di merito che, applicando i criteri di cui al d.m. 12 luglio 2000, aveva ridotto la percentuale di invalidità permanente, quantificata dal C.T.U. al 10%, a misura inferiore al 6%, così escludendo l’operatività della tutela di cui al d.P.R. n. 1124 del 1965.

Sulla necessità di valutare le menomazioni rilevanti ai fini del riconoscimento della rendita per malattia professionale esclusivamente alla luce delle tabelle citate, si erano espresse anche Sez. L, n. 11940/2008, Amoroso, Rv. 603263-01 e Sez. 6-L, n. 13574/2014, Pagetta, Rv. 631464-01.

2. Gli infortuni sul lavoro.

Sez. L, n. 07649/2019, Ghinoy, Rv. 653410-01, si è soffermata sulla questione della nozione di rischio elettivo affermando che, in materia di assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro, il rischio elettivo, che delimita l’ambito della tutela assicurativa, è riferito al comportamento del lavoratore e si connota per il simultaneo concorso dei seguenti elementi: a) presenza di un atto volontario ed arbitrario, ossia illogico ed estraneo alle finalità produttive; b) direzione di tale atto alla soddisfazione di impulsi meramente personali; c) mancanza di nesso di derivazione con lo svolgimento dell’attività lavorativa.

La fattispecie esaminata ha avuto riguardo al caso di infortunio occorso ad un lavoratore che, anziché seguire il percorso usuale per ispezionare le valvole di alcune vasche, si era introdotto all’interno di un cantiere non appartenente alla società datrice, dal quale le valvole potevano comunque essere viste e, mentre le stava esaminando, era caduto in una cisterna; infortunio ritenuto indennizzabile.

Le diverse definizioni, di volta in volta, date dalla giurisprudenza di legittimità in merito al rischio elettivo hanno evidenziato l’arbitrarietà e l’abnormità delle scelte del lavoratore quale requisito per la configurazione della fattispecie.

Così, si è fatto riferimento a “condotta personalissima del dipendente, intrapresa volontariamente e per motivazioni personali, al di fuori delle attività lavorative ed in modo da interrompere il nesso eziologico tra prestazione e attività assicurata” (Sez. L, n. 16026/2018, Bellè, Rv. 649356-02), al “contegno abnorme, inopinabile ed esorbitante rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, cosi da porsi come causa esclusiva dell’evento e creare condizioni di rischio estranee alle normali modalità del lavoro da svolgere” (Sez. L, Sentenza n. 00798/2017, f. Manna, Rv. 642508-02) ed, infine, a “tutto ciò che sia estraneo e non riguardante l’attività lavorativa e dovuto ad una scelta arbitraria del lavoratore” (Sez. L, n. 17917/2017, Riverso, Rv. 645001-01).

Si sono registrate, inoltre, alcune interessanti decisioni in tema di danno differenziale.

Sez. L, n. 09112/2019, Boghetich, Rv. 653452-01, ha deciso che in tema di danno cd. differenziale, la diversità strutturale e funzionale tra l’erogazione INAIL ex art. 13 del d.lgs. n. 38 del 2000 ed il risarcimento del danno secondo i criteri civilistici non consente di ritenere che le somme versate dall’istituto assicuratore possano considerarsi integralmente satisfattive del pregiudizio subito dal soggetto infortunato o ammalato, con la conseguenza che il giudice di merito, dopo aver liquidato il danno civilistico, deve procedere alla comparazione di tale danno con l’indennizzo erogato dall’INAIL secondo il criterio delle poste omogenee, tenendo presente che detto indennizzo ristora unicamente il danno biologico permanente e non gli altri pregiudizi che compongono la nozione pur unitaria di danno non patrimoniale; pertanto, occorre dapprima distinguere il danno non patrimoniale dal danno patrimoniale, comparando quest’ultimo alla quota INAIL rapportata alla retribuzione e alla capacità lavorativa specifica dell’assicurato; successivamente, con riferimento al danno non patrimoniale, dall’importo liquidato a titolo di danno civilistico vanno espunte le voci escluse dalla copertura assicurativa (danno morale e danno biologico temporaneo) per poi detrarre dall’importo così ricavato il valore capitale della sola quota della rendita INAIL destinata a ristorare il danno biologico permanente.

Nella fattispecie la Corte ha cassato con rinvio la sentenza di merito che, pur accogliendo il criterio della comparazione tra poste omogenee, non aveva liquidato il danno per invalidità temporanea ed aveva calcolato il danno differenziale detraendo il valore della rendita dall’importo-base spettante a titolo di danno biologico, senza riconoscere la maggiorazione dovuta alla personalizzazione del danno stesso.

Sez. L, n. 08580/2019, Ponterio, Rv. 653211-01, ha preso in considerazione il profilo relativo alle modifiche del sistema di calcolo del danno introdotte con la l. n. 145 del 2018 affermando che le modifiche dell’art. 10 del d. P.R. n. 1124 del 1965, introdotte dalla l. n. 145 del 2018, di natura innovativa e non meramente interpretativa, non si applicano agli infortuni sul lavoro verificatisi ed alle malattie professionali denunciate prima del primo gennaio 2019.

In materia di rapporto tra la responsabilità del datore di lavoro per violazione degli obblighi informativi e concorso di colpa del lavoratore, è significativo quanto deciso da Sez. L, n. 30679/2019, Bellè, Rv. 655882-02, nel senso che in tema di infortuni sul lavoro, qualora il comportamento del lavoratore che ha determinato l’evento dannoso sia scaturito dall’inosservanza, da parte del datore di lavoro, di specifici doveri informativi o formativi rispetto all’attività da svolgere, tali da rendere altamente presumibile che, ove quegli obblighi fossero stati assolti, l’infortunio non vi sarebbe stato, non è possibile addossare al lavoratore l’ignoranza delle circostanze che dovevano essere oggetto di informativa o di formazione, al fine di fondare una colpa idonea a concorrere con l’inadempimento datoriale e tale da ridurre, ai sensi dell’art. 1227 c.c., la misura del risarcimento dovuto.

Significativa l’ulteriore massima ricavata dalla stessa sentenza, Rv. 655882-01, laddove è stato specificato che in materia di infortuni sul lavoro, al di fuori dei casi di rischio elettivo, nei quali la responsabilità datoriale è esclusa, qualora ricorrano comportamenti colposi del lavoratore, trova applicazione l’art. 1227, comma 1, c.c., tuttavia, la condotta incauta del lavoratore non comporta un concorso idoneo a ridurre la misura del risarcimento ogni qual volta la violazione di un obbligo di prevenzione da parte del datore di lavoro sia munita di incidenza esclusiva rispetto alla determinazione dell’evento dannoso; in particolare, tanto avviene quando l’infortunio si sia realizzato per l’osservanza di specifici ordini o disposizioni datoriali che impongano colpevolmente al lavoratore di affrontare il rischio, quando l’infortunio scaturisca dall’integrale impostazione della lavorazione su disposizioni illegali e gravemente contrarie ad ogni regola di prudenza o, infine, quando vi sia inadempimento datoriale rispetto all’adozione di cautele, tipiche o atipiche, concretamente individuabili, nonché esigibili ex ante ed idonee ad impedire, nonostante l’imprudenza del lavoratore, il verificarsi dell’evento dannoso.

3. La revisione della rendita.

Merita di essere segnalata Sez. 6-L, n. 30879/2019, Riverso, Rv. 655901-01 ove è stato sostenuto il principio che il diritto alla rendita erogata dall’INAIL in favore dei superstiti, ai sensi dell’art. 85 del d.P.R. n. 1124 del 1965, non è condizionato dal fatto che l’aggravamento della malattia che ha cagionato la morte del lavoratore sia avvenuto entro i termini fissati dall’art. 137 del cit. d.P.R. per la revisione della rendita erogata al “de cuius”, atteso che tale istituto è diretto all’adeguamento della rendita goduta in vita dal lavoratore, da non confondersi con la rendita ai superstiti, che, quale prestazione autonoma spettante iure proprio agli eredi, prescinde sia dalla circostanza che per quello stesso evento fosse già stata costituita la rendita in favore del lavoratore deceduto, sia dal fatto che tale rendita fosse stata adeguata in relazione all’aggravamento che ha cagionato la morte.

4. I contributi assicurativi INAIL.

In tema di denuncia ai sensi dell’art. 12 d.P.R. n. 1124 del 1965 ai fini della riduzione del premio per c.d. continuità aziendale, Sez. L, n. 21562/2019, Ghinoy, Rv. 654819-01, ha affermato che, in tema di assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, anche relativamente ai presupposti per la riduzione del premio per cd. continuità aziendale, la denuncia dei lavori, alla quale il datore di lavoro è tenuto ai sensi dell’art. 12, comma 1, del d.P.R. n. 1124 del 1965, e quella di modificazione del rischio, prevista dal successivo comma 3, non costituiscono una manifestazione negoziale di volontà ma una dichiarazione di scienza che implica l’assunzione, da parte del dichiarante, di un impegno circa la veridicità di quanto affermato e, salvo il potere di controllo dell’istituto assicuratore, rende legittima l’imposizione contributiva ad essa corrispondente; siffatta dichiarazione, ove sia il risultato di un errore, può essere rettificata dallo stesso datore di lavoro, ma la rettifica deve avvenire mediante la presentazione di altra denuncia nelle forme di cui al citato art. 12, recante la prova dell’asserita discordanza e senza la possibilità di ripetere le somme corrisposte in eccesso rispetto a quelle dovute, neanche sulla base dell’azione generale di arricchimento ex art. 2041 c.c..

Circa la ripartizione dell’onere della prova dell’azione di ripetizione di un eventuale indebito versamento di premi all’INAIL, Sez. L, n. 21563/2019, Ghinoy, Rv. 654820-01, ha ribadito che in tema di criteri per la determinazione del premio per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, il datore di lavoro che, pur in presenza di oneri effettivamente sostenuti dall’I.N.A.I.L. per l’erogazione di prestazioni assicurative ai lavoratori dell’azienda, per un ammontare tale da implicare oscillazione in aumento del tasso specifico aziendale, assuma di essere tenuto al versamento di un premio di importo inferiore a quello preteso dall’Istituto stesso, postula necessariamente la giuridica inefficacia, nei propri confronti, del fatto costitutivo di siffatta pretesa, solo in tal guisa potendo sottrarsi alle obbligazioni nascenti dal rapporto di assicurazione e dalla specifica disciplina della determinazione dei premi.

Ne consegue, in applicazione dei criteri di distribuzione dell’onere della prova dettati dall’art. 2697 c.c., che incombe al datore di lavoro l’onere di fornire al giudice la dimostrazione dei fatti sui quali fonda la propria eccezione o la propria domanda.

Si tratta del progressivo consolidarsi dell’orientamento già affermato da Sez. L, n. 17781/2004, Celentano, Rv. 576668-01 e, ancora prima, da Sez. L, n. 00778/1995, Evangelista, Rv. 489879-01.

Alcune decisioni si sono occupate dei criteri di determinazione dei premi nel caso di datori di lavoro impegnati in lavorazioni complesse ovvero anche in operazioni complementari e sussidiarie.

Per la prima ipotesi, Sez. L, n. 21426/2019, Berrino, Rv. 655006-01, ha dato continuità al precedente di Sez. L, n. 01277/2000, Servello, Rv. 533502-01, enunciando il principio per cui, con riguardo alla determinazione del premio dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro secondo il sistema delle tariffe contributive approvate con decreto ministeriale, caratterizzato dalla classificazione tecnica di lavorazioni suddivise in gruppi, il rischio di infortuni (al quale è riferito il tasso di contribuzione) proprio di una produzione complessa, comprendente più lavorazioni, non può coincidere con quello proprio di ciascuna di esse. Ne consegue che per l’individuazione della voce di tariffa applicabile ci si deve riferire alla lavorazione principale, considerando che nel concetto di “lavorazione” vanno comprese le operazioni complementari e sussidiarie svolte dal datore di lavoro in connessione operativa con l’attività principale, anche se effettuate in luoghi diversi.

Si tratta di fattispecie in cui la Corte ha confermato sul punto la sentenza impugnata che aveva rilevato come, alla luce del d.m. 12 dicembre 2000, fosse da escludere il carattere autonomo dell’attività di conta del denaro rispetto a quelle principali di vigilanza, custodia e trasporto dei valori, senza che potesse assumere rilievo la circostanza che tale specifica attività, proprio perché complementare, non fosse contemplata tra le voci elencate in tariffa.

Per la seconda, rileva quanto deciso da Sez. L, n. 03311/2019, D’Antonio, Rv. 652867-01, secondo cui ai fini della classificazione delle lavorazioni per la determinazione dei premi dovuti dalle imprese all’INAIL per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, qualora un datore di lavoro eserciti più lavorazioni tra loro autonome, ciò non è di per sé sufficiente a rendere applicabile per ciascuna di esse la corrispondente voce di tariffa e il relativo tasso medio, ai sensi dell’art. 6 del d.m. 12 dicembre 2000, essendo sempre necessario verificare, anche se tra le due linee di lavorazione svolte dal medesimo datore di lavoro vi sia un nesso funzionale, che renda l’una complementare e sussidiaria rispetto all’altra, con conseguente applicazione a entrambe della voce di tariffa prevista per l’attività principale, come stabilito dall’art. 4 del d.m. citato.

La fattispecie era relativa ad un’impresa dotata di due linee produttive autonome: l’una relativa alla ghisa e all’acciaio, l’altra al carbone coke.

La Corte ha cassato la sentenza d’appello, che si era limitata a constatare la previsione nella tariffa della produzione di carbone coke come lavorazione autonoma, senza tuttavia valutare se la stessa fosse connessa funzionalmente al ciclo di operazioni necessario per la lavorazione principale di produzione di ghisa e acciaio.

Sez. L, n. 09269/2019, Fernandes, Rv. 653453-01, ha confermato che in tema di accertamento e riscossione dei contributi previdenziali, la sospensione della prescrizione prevista dall’art. 38, comma 7, della l. n. 289 del 2002 non può essere estesa ai casi di omissione contributiva accertata a seguito di accertamento ispettivo, ma opera limitatamente ai contributi dovuti per l’anno 1998, quali risultanti dall’estratto contributivo inviato a ogni assicurato ai sensi dell’art. 1, comma 6, della l. n. 335 del 1995; detta sospensione concerne infatti il termine connesso alla denuncia che il lavoratore destinatario dell’estratto può presentare allo scopo di raddoppiare i termini prescrizionali di cui all’art. 3, comma 9, della l. n. 335 del 1995 ed è stata introdotta per ovviare agli inconvenienti derivanti dai ritardi nell’accredito della contribuzione per l’anno 1998, a seguito dell’istituzione dell’obbligo di presentazione, per opera dell’art. 4 del d.lgs. n. 241 del 1997, della dichiarazione unica modello 770 anche ai fini dei contributi dovuti all’Inps e dei premi dovuti all’INAIL; la continuità, in questo caso, riguarda Sez. L, n. 21058/2017, Cavallaro, Rv. 645610-01.

Sez. L, n. 25679/2019, Ghinoy, Rv. 655389-01, ha deciso la questione relativa alla responsabilità solidale del committente ex art. 29, comma 2, del d.lgs. n. 276 del 2003, nella versione anteriore alle novelle del 2012 ed ha affermato che essa ha ad oggetto i premi INAIL, dovuti in relazione al periodo di esecuzione del contratto di appalto, anche per il periodo anteriore all’entrata in vigore del d.l. n. 5 del 2012, conv. con modif. dalla l. n. 35 del 2012.

Sez. L, n. 04806/2019, Calafiore, Rv. 652891-01, ha consolidato quanto già affermato in Sez. L, n. 25024/2011, Tricomi, Rv. 619826-01 ribadendo il principio secondo cui in tema di omissioni contributive, l’ente previdenziale, nella specie l’INAIL, ancorché abbia già ottenuto un titolo esecutivo giudiziale, può esperire la procedura di riscossione mediante iscrizione a ruolo ed emanazione della relativa cartella esattoriale ex d.lgs. n. 46 del 1999, in quanto nessuna norma impedisce tale scelta, né contempla sanzioni sul piano della validità della cartella esattoriale, senza che assuma rilievo il principio del “ne bis in idem”, non implicando il ricorso alla procedura citata la richiesta di un nuovo accertamento della pretesa creditoria.

5. L’azione di regresso.

Sez. 3, n. 13587/2019, Fiecconi, Rv. 654195-01, in punto di prova del credito dell’INAIL, ha deciso che nel giudizio di regresso intentato nei confronti del datore di lavoro, sebbene l’attestazione del direttore della sede erogatrice costituisca prova privilegiata dell’indennità corrisposta dall’INAIL al lavoratore, quale atto amministrativo assistito dalla relativa presunzione di legittimità, non può escludersi che le parti possano offrire prove a sostegno di tale accertamento o ad esso contrarie sino a che non sia chiusa la fase del contraddittorio; allo stesso modo, la natura di prova privilegiata vale fino alla chiusura della fase del contraddittorio, quindi fino all’udienza di precisazione delle conclusioni, e ciò anche nel giudizio di impugnazione, con la conseguente inammissibilità, per tardività, della produzione della relativa documentazione soltanto a corredo della comparsa conclusionale, a garanzia del diritto di difesa ex art. 24 Cost. e di quello di ragionevole durata del processo ex art. 111 Cost.

Sez. 6-1, n. 11324/2019, Campese, Rv. 653706-01, ha delineato le differenze tra l’azione di surrogazione dell’INAIL ex art. 1916 c.c. e quella di regresso ex artt. 10 e 11 del d.P.R. n. 1124 del 1965 precisando, sul punto, che con la prima l’INAIL agisce contro i terzi responsabili, estranei al rapporto assicurativo, per il rimborso delle indennità corrisposte all’infortunato o ai suoi superstiti azionando il diritto al risarcimento del danno spettante all’assicurato, mentre con la seconda, agendo contro il datore di lavoro che debba rispondere penalmente delle lesioni o che sia civilmente responsabile dell’operato di un soggetto del quale sia accertata con sentenza la responsabilità, fa valere in giudizio un proprio diritto che origina dal rapporto assicurativo.

La Corte ha così qualificato come azione in surrogazione quella proposta dall’INAIL contro il datore di lavoro il cui dipendente aveva provocato un infortunio ad un lavoratore di altra società.

In continuità con quanto ora riportato, Sez. 6-L, n. 29219/2019, Esposito, Rv. 655759-01 ha deciso che con la surrogazione ex art. 1916 c.c. l’INAIL agisce contro i terzi responsabili, estranei al rapporto assicurativo, per il rimborso delle indennità corrisposte all’infortunato o ai suoi superstiti azionando il diritto al risarcimento del danno spettante all’assicurato, mentre con l’azione di regresso ex artt. 10 e 11 del T.U. n. 1124 del 1965, agendo contro il datore di lavoro che debba rispondere penalmente delle lesioni o che sia civilmente responsabile dell’operato di un soggetto del quale sia accertata con sentenza la responsabilità, fa valere in giudizio un proprio diritto che origina dal rapporto assicurativo, così che la qualificazione della domanda come azione di surroga determina la competenza del giudice civile, mentre l’inquadramento della stessa entro l’azione di regresso radica la competenza del giudice del lavoro.

In applicazione di tale principio, la Corte ha dichiarato la competenza del giudice di pace sull’azione promossa dall’INAIL nei confronti di un imprenditore, ritenuto responsabile del sinistro stradale in cui un proprio dipendente aveva riportato danni alla persona, al fine di ottenere il rimborso dell’indennità corrisposta al lavoratore infortunato, senza, tuttavia, qualificare la domanda in termini di regresso - ed anzi precisando in prima udienza di essersi surrogato nei diritti del danneggiato - e facendo valere la violazione, da parte del danneggiante, di regole di comune prudenza, e non anche di norme antinfortunistiche.

In tema di competenza per territorio nell’azione di regresso è intervenuta Sez. 6-L, n. 30472/2019, Riverso, Rv. 656313 – 01, che ha ritenuto l’applicabilità, ai fini della determinazione del giudice competente, dell’art. 444, comma 3, c.p.c. in quanto si verte in materia di azione proposta nei confronti del datore di lavoro e riguarda gli obblighi che egli ha nei confronti dell’ente previdenziale.

In particolare, la Corte ha argomentato tale conclusione evidenziando che “la competenza per gli obblighi dei datori nei confronti degli enti previdenziali ( e per le sanzioni civili) non può (…) individuarsi sulla base della regola generale del primo comma dell’art. 444 c.p.c. sia perché la regola ha riguardo al luogo dove ha residenza l’attore privato, e quindi ad un criterio che non si addice ad un ente pubblico che non può avere una residenza; sia perché l’applicazione del criterio di cui al primo comma finirebbe per sovrapporsi ed esautorare l’ambito di operatività del criterio speciale previsto dal terzo comma in base al quale la materia degli obblighi dei datori di lavoro (e non dei lavoratori autonomi) è regolata appunto dalla stessa norma ed è devoluta al giudice individuato in base alla sede dell’ufficio dell’ente”.

È stato così superato il risalente (e contrapposto) orientamento della giurisprudenza di legittimità degli anni ’80 e dato seguito ai più recenti approdi della Corte (per tutte si veda Sez. 6-L, n. 17387/2016, Mancino, Rv. 640879-01).

Quando si è trattato di individuare, nel caso specifico dell’azione di regresso, quale sia l’ufficio dell’ente competente, è stato spiegato che quando viene in gioco l’obbligo datoriale di restituire l’equivalente delle prestazioni erogate dall’INAIL, per un infortunio sul lavoro o una malattia professionale come nell’azione di regresso, “la competenza va legata ai sensi dello stesso art. 444, 3 comma, eminentemente alla sede dell’ufficio dell’ente competente ad istruire la pratica, a pagare le prestazioni e pertanto a riceverne la restituzione; sede che può eventualmente non coincidere con quella del luogo dove è aperta la posizione contributiva o si pagano i premi o i contributi; ed ancor meno coincidere con la sede legale dell’Istituto o con la sede dell’impresa”.

  • ingegnere
  • cumulo delle pensioni
  • diritto del lavoro
  • fondo pensionistico

CAPITOLO XXIV

LA PREVIDENZA DI CATEGORIA

(di Vincenzo Galati )

Sommario

1 Cassa Nazionale Forense. - 2 INPGI. - 3 Cassa Ingegneri e Architetti. - 4 Cassa di previdenza Geometri liberi professionisti. - 5 La previdenza integrativa.

1. Cassa Nazionale Forense.

In tema di previdenza dei liberi professionisti Sez. L, n. 14676/2019, Calafiore, Rv. 653982-01, ha deciso che l’indennità di maternità prevista dall’art. 70 del d.lgs. n. 151 del 2001, che, in forza della sentenza auto-applicativa n. 385 del 2005 della Corte costituzionale, va estesa anche al lavoratore padre, non è suscettibile di moltiplicazione nell’ipotesi di parto o adozione plurimi, atteso che dal complessivo sistema delle tutele parentali si desume che il legislatore ha inteso garantire il sostegno alle famiglie con più figli nati dall’unico parto o adottati nello stesso momento attraverso il prolungamento dei periodi di riposo o congedo, avuto altresì riguardo alla natura dell’ indennità, compensativa di eventuali flessioni del reddito professionale derivanti dalla nascita o adozione, restando irrilevante il numero dei figli.

Quanto alle modalità della riscossione dei crediti iscritti a ruolo, Sez. 3, n. 12229/2019, Cigna, Rv. 653891-01, ha affermato che alla Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza Forense, ente privatizzato ex art. 1 del d.lgs. n. 509 del 1994, ma deputato allo svolgimento di una funzione pubblica quale quella previdenziale, è concesso ex lege di provvedere alla riscossione mediante ruolo e pertanto, si applica ad essa la procedura, prevista dall’art. 1, commi 527-529, della l. n. 228 del 2012, di annullamento del ruolo per i crediti più risalenti (antecedenti al 1999) introdotta ai fini della razionalizzazione dei bilanci degli enti creditori pubblici o privati che provvedono alla riscossione mediante ruolo. La richiamata disciplina presenta un duplice profilo di ragionevolezza, tenuto conto che, per i crediti inferiori ad euro 2000,00, scongiura la antieconomicità della riscossione in ragione del presumibile rapporto negativo tra costi dell’esazione e benefici dell’eventuale riscossione e che, per quelli superiori ad euro 2000,00, non incide sui diritti di credito degli enti ma solo sulla procedura di riscossione, atteso che l’annullamento del ruolo non coincide con l’annullamento del credito sottostante, che ben potrà essere successivamente azionato dall’ente secondo l’ordinaria procedura.

Sez. L, n. 13517/2019, Berrino, Rv. 653959-01, ha enunciato il seguente principio di diritto in tema di verifica dell’incompatibilità con l’esercizio della professione: in materia di previdenza forense, il potere attribuito alla Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense, ex art. 2 della l. n. 319 del 1975, di verificare la sussistenza di cause di incompatibilità con l’esercizio della professione non può essere esercitato oltre il quinquennio antecedente all’accertamento, dal momento che l’esistenza di protratti periodi di verificata incompatibilità non può non incidere sulla continuità dello svolgimento della professione, continuità che rappresenta un elemento indefettibile ai fini della revisione periodica degli iscritti all’albo e che soggiace al predetto limite temporale.

Sez. L, n. 27392/2019, Mancino, Rv. 655437-01 ha deciso che in materia di previdenza forense, ai fini dell’insorgenza del diritto alla pensione indiretta dei superstiti del professionista deceduto in costanza di attività, sono sufficienti i requisiti dell’assolvimento, da parte dell’iscritto, dell’obbligo contributivo per almeno dieci anni e dell’iscrizione alla Cassa da data anteriore al quarantesimo anno previsti dall’art. 7, commi 3 e 4, della l. n. 576 del 1980, non essendo, invece, necessario che la contribuzione nel periodo decennale sia stata ininterrotta, giacché la continuità dell’iscrizione, richiesta dal quarto comma della disposizione citata, deve essere riferita esclusivamente al requisito anagrafico ivi previsto, non potendo essere estesa al requisito contributivo di cui al terzo comma, in difetto di elementi di raccordo che consentano una lettura combinata delle due norme.

In tema di anzianità contributiva, Sez. L, n. 30421/2019, Ghinoy, Rv. 655871-01 ha ribadito che nel sistema previdenziale forense, anche gli anni non coperti da integrale contribuzione concorrono a formare l’anzianità contributiva e vanno inseriti nel calcolo della pensione di vecchiaia, in quanto nessuna norma prevede che venga “annullata” l’annualità in cui il versamento sia stato inferiore al dovuto. Ne consegue che l’art. 1 della l. n. 141 del 1992, secondo il quale la pensione di vecchiaia è pari, per ogni anno di “effettiva” iscrizione e contribuzione, all’1,75 per cento della media dei più elevati dieci redditi professionali dichiarati dall’iscritto ai fini IRPEF nel quindicennio anteriore alla maturazione del diritto a pensione, va interpretato nel senso che la pensione si commisura alla contribuzione “effettiva”, non rilevando cioè il principio di automatismo delle prestazioni valido nel lavoro dipendente, mentre il termine “effettivo”, estraneo al concetto di “misura”, non può intendersi come sinonimo di “integrale”.

Il principio era stato già affermato da Sez. L, n. 05672/2012, La Terza, Rv. 622140-01.

2. INPGI.

Sez. L, n. 19573/2019, De Marinis, Rv. 654499-01 ha avuto modo di soffermarsi su alcune questioni in punto di cumulo tra pensione e redditi da lavoro ed ha deciso che in tema di cumulo tra pensione e redditi da lavoro, agli iscritti all’Istituto Nazionale di Previdenza dei Giornalisti Italiani (INPGI) si applica la stessa disciplina prevista per gli iscritti all’Assicurazione Generale Obbligatoria facente capo all’INPS, in quanto l’INPGI gestisce, per espresso disposto dell’art. 76 della l. n. 388 del 2000, una forma di assicurazione sostitutiva di quella garantita dall’INPS, mentre gli artt. 72, comma 1, della legge appena citata, e 44, comma 1, della l. n. 289 del 2002, poi seguiti dall’art. 19 del d.l. n. 112 del 2008, conv. con modif. dalla l. n. 133 del 2008, parificano il trattamento pensionistico a carico dell’AGO e quelli a carico delle forme sostitutive, esclusive ed esonerative della medesima.

Ne consegue che deve essere disapplicato l’art. 15 del Regolamento dell’INPGI, che disciplina la materia del cumulo tra reddito da lavoro e trattamento pensionistico in maniera diversa da quanto previsto nel regime relativo all’AGO.

Ha avuto conferma, così, il precedente di Sez. L, n. 01098/2012, La Terza, Rv. 621105-01, mentre deve registrarsi l’esistenza di un orientamento difforme espresso da Sez. L, n. 08067/2016, Negri Della Torre, Rv. 639572-01 che ha affermato l’opposto principio secondo cui in tema di cumulo tra pensione e redditi da lavoro, gli iscritti all’Istituto Nazionale di Previdenza dei Giornalisti Italiani non sono assoggettati alla stessa disciplina prevista per gli iscritti all’AGO, dovendosi, viceversa, applicare ad essi l’art. 15 del regolamento dell’INPGI, approvato con d.m. del 24 luglio 1995, in quanto, a seguito della privatizzazione degli enti previdenziali ed in forza dell’art. 76, comma 4, della l. n. 388 del 2000, l’INPGI è tenuto a coordinare, assicurando l’equilibrio di bilancio, le forme previdenziali da esso gestite con quelle del sistema di previdenza obbligatoria, con la conseguenza che la non comparabilità dei due regimi rende manifestamente infondata la relativa questione di legittimità costituzionale.

3. Cassa Ingegneri e Architetti.

Sez. L, n. 03915/2019, Mancino, Rv. 652887-01, ha pronunciato un importante principio in tema di necessità della domanda amministrativa che costituisce requisito indispensabile per ogni prestazione previdenziale: in tema di previdenza per ingegneri e architetti, ai sensi dell’art. 1 della l. n. 6 del 1981, la presentazione di una apposita domanda costituisce un requisito necessario non solo per l’erogazione del trattamento pensionistico ma anche per il riconoscimento del supplemento di pensione per l’attività professionale svolta dopo il pensionamento di vecchiaia, in quanto prestazione diversa dal trattamento base di cui occorre verificare gli autonomi requisiti costitutivi.

Inoltre Sez. L, n. 03916/2019, Mancino, Rv. 652888-01, ha deciso che in tema di previdenza per ingegneri e architetti, ai fini della determinazione della base reddituale per il computo del contributo soggettivo non è utilizzabile il reddito determinato in sede di concordato preventivo biennale di cui all’art. 33 del d.l. n. 269 del 2003, conv. con modif. dalla l. n. 326 del 2003, che concerne l’obbligazione tributaria ma non anche il rapporto obbligatorio contributivo tra il professionista e la Cassa di previdenza, in assenza di una previsione normativa che deroghi al criterio del reddito effettivo imponibile.

4. Cassa di previdenza Geometri liberi professionisti.

Sez. L, n. 05375/2019, Fernandes, Rv. 652778-01, ha affrontato il tema della potestà regolamentare e della relativa autonomia delle Casse previdenziali private, che riguarda anche regolamenti di altre Casse (es. ragionieri e periti commerciali o commercialisti) per le quali pure si pone il problema di delimitare l’ambito dell’autonomia.

È stato così deciso che in tema di casse previdenziali privatizzate, l’autonomia regolamentare loro riconosciuta dall’art. 2 del d.lgs. n. 509 del 1994, è limitata, dall’art. 3, comma 12, della l. n. 335 del 1995, nel testo “ratione temporis” vigente, agli interventi di variazione delle aliquote contributive, di riparametrazione dei coefficienti di rendimento o di ogni altro criterio di determinazione del trattamento pensionistico; ne consegue l’illegittimità dell’art. 3, comma 1, del regolamento della Cassa dei geometri liberi professionisti, in vigore dal 1° gennaio 2003, nella parte in cui, derogando all’art. 22, comma 2, della l. n. 773 del 1982, prevede l’obbligatorietà dell’iscrizione dei geometri iscritti all’albo professionale che esercitano la libera professione.

La decisione si pone in termini di coerenza con quanto deciso da Sez. L, n. 03461/2018, Calafiore, Rv. 647412-01 in punto di Cassa nazionale forense per la quale è stato deciso che è legittimo l’art. 49 del regolamento generale della Cassa nazionale forense del 28 settembre 1995 (nel testo modificato con delibera n. 133 del 2003), nella parte in cui prevede, in deroga all’art. 16 della l. n. 576 del 1980, la rivalutazione della pensione di vecchiaia solo a decorrere dal secondo anno dal pensionamento, poiché tale previsione rientra nel concetto di “determinazione del trattamento pensionistico” di cui all’art. 3, comma 12, della l. n. 335 del 1995 e quindi nei limiti della delegificazione operata da tale ultima disposizione in favore dell’autonomia regolamentare degli enti previdenziali privatizzati.

5. La previdenza integrativa.

Sul punto Sez. L, n. 12653/2019, Ghinoy, Rv. 653832-01, ha statuito che, ai fini della determinazione del trattamento di fine rapporto e della pensione aziendale - che il datore di lavoro ha equiparato al trattamento pensionistico dei dipendenti degli enti locali - vanno inclusi nella base di calcolo anche gli emolumenti istituiti dalla contrattazione aziendale (dovendosi ritenere che i contratti aziendali possano rientrare tra i contratti collettivi di lavoro cui fa riferimento l’art. 15 della l. n. 1077 del 1959), in quanto corrisposti in modo fisso e continuativo in relazione alla natura del compenso, benché essi non siano previsti dalla contrattazione nazionale.

In particolare, la Corte ha confermato la sentenza che aveva ammesso la computabilità, nella base di calcolo della pensione aziendale prevista dal contratto aziendale per i dipendenti dell’ex AMAN, della retribuzione in natura corrisposta al lavoratore ragguagliata al valore locativo dei beni immobili concessigli in godimento, confermando un orientamento risalente a Sez. L, n. 06743/2008, Lamorgese, Rv. 602245-01.

Sez. L, n. 13536/2019, Fernandes, Rv. 653841-01, ha ribadito (in conformità a Sez. L, n. 19296/2008, Celentano, Rv. 604580-01) che in tema di previdenza integrativa aziendale, benché il regolamento per il trattamento di previdenza e quiescenza del personale impiegatizio dell’INPS - che costituisce atto di normazione secondaria ed è pertanto interpretabile direttamente dalla Cassazione - preveda che le pensioni a carico del Fondo in corso di godimento siano riliquidate, assumendo come base la nuova retribuzione prevista per la qualifica e la posizione in cui l’impiegato si trovava all’atto della cessazione dal servizio, le maggiori competenze spettanti in seguito allo svolgimento di fatto di mansioni superiori (in quanto emolumenti non fissi né continuativi) non possono essere considerate utili e, di conseguenza, non vanno assoggettate a contribuzione.

Con riferimento ad una specifica controversia di ex dipendenti del Banco di Napoli Sez. L, n. 14423/2019, Fernandes, Rv. 653980-01, ha stabilito che in tema di regime perequativo dei trattamenti pensionistici dei dipendenti del Banco di Napoli in pensione alla data del 31 dicembre 1990, la norma di interpretazione autentica introdotta con l’art. 1, comma 55, della l. n. 243 del 2004, che ha superato il vaglio di legittimità costituzionale (Corte cost. n. 362 del 2008) ed escluso la limitata e predeterminata sopravvivenza (fino al 26 luglio 1996) della perequazione automatica, secondo regole peculiari, per tali dipendenti, non è idonea a rimuovere gli effetti del giudicato formatosi in epoca antecedente alla sua introduzione, in ossequio ai principi di certezza del diritto e di separazione dei poteri, sicché il maturato pensionistico, cristallizzato per effetto del giudicato, deve essere riconosciuto nella sua entità, con le sue eventuali variazioni legate alla dinamica perequativa legale, anche per i ratei successivi.

Ribadito, anche in questo caso, quanto precedentemente deciso da Sez. 6-L, n. 19515/2015, Pagetta, Rv. 637299-01.

Sez. L, n. 19571/2019, Fernandes, Rv. 654498-01, ha affermato il principio secondo il quale in tema di previdenza complementare, nel caso di decesso dell’aderente in epoca antecedente alla maturazione del diritto alla prestazione, il diritto di riscatto riconosciuto dall’art. 14, comma 3, del d.lgs. n. 289 del 2005, nella formulazione ratione temporis applicabile, anteriore alla modifica apportata dal d.lgs. n. 147 del 2018, sorge direttamente in capo agli eredi in virtù della previsione di legge; ne consegue che, in caso di più chiamati, tale diritto si ripartisce in parti uguali - non essendo applicabili le norme relative alla successione ereditaria - soltanto tra coloro che, con l’accettazione dell’eredità, siano diventati eredi.

Conformemente a quanto deciso da Sez. L, n. 10556/2013, Marotta, Rv. 625974-01, Sez. L, n. 25685/2019, Ghinoy, Rv. 655482-01 ha statuito che la norma dell’art. 59, comma 13, della l. n. 449 del 1997, che prevede la sospensione della perequazione automatica al costo della vita, concerne solo i trattamenti previdenziali obbligatori e quelli specificamente contemplati da tale disposizione, e non si applica alla pensione integrativa a carico del fondo aziendale, che ha natura retributiva (e non previdenziale); ne consegue, con riferimento ai titolari di pensione costituita dal trattamento previdenziale obbligatorio e da pensione integrativa a carico di apposito Fondo aziendale, che l’adeguamento della pensione spettante non si applica sull’intero importo ma solo sulla quota parte relativa al trattamento integrativo, restando escluso invece l’adeguamento della quota di pensione relativa al trattamento obbligatorio.

PARTE SESTA I RAPPORTI CON I PUBBLICI POTERI (coordinata da Roberto Mucci)

  • indennizzo
  • proprietà fondiaria
  • terreno agricolo
  • espropriazione

CAPITOLO XXV

ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITÀ

(di Roberto Mucci )

Sommario

1 Premessa. - 2 La giurisdizione. - 3 La determinazione dell’indennità di espropriazione. - 3.1 (segue) A) La qualificazione delle aree. - 3.2 (segue) B) L’indennità di occupazione. - 3.3 (segue) C) La stima. - 3.4 (segue) D) Le aree agricole. - 3.5 (segue) E) L’indennità di asservimento. - 4 L’opposizione alla stima. - 5 L’espropriazione parziale. - 6 La determinazione consensuale dell’indennità. - 7 Le espropriazioni illegittime. - 7.1 (segue) L’acquisizione “sanante”.

1. Premessa.

Anche nel 2019 è proseguita l’opera di consolidamento e sistemazione dei principi in materia di espropriazione per pubblica utilità curata dalla Prima Sezione civile, secondo una linea di continuità nomofilattica naturalmente coerente con il quadro delle compatibilità costituzionali e convenzionali. Proprio in tale contesto è dato riscontrare una specifica attenzione all’effettività del ristoro del diritto dominicale inciso dalla vicenda espropriativa che si accompagna a più di una sottolineatura – segnatamente nei casi di espropriazione illegittima – del rilievo della tutela reipersecutoria, secondo un indirizzo che sembra teso a sollecitare l’uso responsabile della potestà pubblica in un’ottica di stretta legittimità dell’azione amministrativa e di corretto bilanciamento degli interessi.

Come per la precedente Rassegna del 2018, si procederà dunque alla segnalazione delle pronunce massimate secondo l’intavolazione della materia posta dal d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 (T.U. espropriazioni).

2. La giurisdizione.

Sul tema del riparto di giurisdizione nella materia dell’espropriazione per pubblica utilità non si registrano, nel corso del 2019, rilevanti novità.

Sez. U, n. 18272/2019, Genovese, Rv. 654586-01, ribadisce l’insegnamento di Sez. U, n. 25044/2016, Manna F., Rv. 641778-01, affermando che in ipotesi di sconfinamento (ossia quando la realizzazione dell’opera pubblica abbia interessato un terreno diverso o più esteso rispetto a quello considerato dai provvedimenti di occupazione e di espropriazione, oltre che dalla dichiarazione di pubblica utilità) l’occupazione e la trasformazione del bene da parte della P.A. costituisce un comportamento di mero fatto, perpetrato in carenza assoluta di potere, che integra un illecito a carattere permanente, lesivo del diritto soggettivo (cd. occupazione usurpativa), donde la giurisdizione del giudice ordinario sull’azione di risarcimento del danno conseguito all’illegittima manipolazione del bene.

Ancora muovendo dal criterio fondato sulla contrapposizione carenza di potere/illegittimo esercizio del potere, Sez. U, n. 08415/2019, Greco, Rv. 653434-01, afferma, sviluppando le premesse poste da Sez. U, n. 13659/2006, Picone, Rv. 589535-01, che il termine decennale di efficacia del piano per gli insediamenti produttivi (P.I.P.) – la cui approvazione equivale a dichiarazione di pubblica utilità delle opere in esso previste e abilita la P.A. a disporre l’occupazione d’urgenza e l’espropriazione dei fondi occorrenti – non può essere prorogato alla scadenza, in quanto posto a presidio del diritto di proprietà che non tollera vincoli espropriativi a tempo indeterminato, potendo la P.A. soltanto predisporre un nuovo strumento con conseguente rinnovazione della scelta pianificatoria rimasta inattuata; nella fattispecie scrutinata dalle Sezioni Unite è stata pertanto qualificata come usurpativa l’occupazione intervenuta mercé la mera proroga del vincolo attraverso l’approvazione di una variante al P.I.P. e successivo decreto di esproprio adottato dopo il decorso del termine decennale.

Sugli accordi tra proprietari e P.A. espropriante, Sez. U, n. 19369/2019, Sambito, Rv. 654834-01, resa in controversia riguardante il pagamento del corrispettivo dovuto dalla P.A. per l’espletamento di una consulenza finalizzata all’organizzazione di attività espropriative necessarie alla realizzazione di opere infrastrutturali, valorizza ai fini del riparto di giurisdizione il nesso tra potere amministrativo in concreto esistente e successivo comportamento della P.A. (secondo un orientamento fermo: cfr., tra le altre, Sez. U, n. 09334/2018, Bisogni, Rv. 648266-01 e Sez. U, n. 02145/2018, Giusti, Rv. 647038-01, nonché Sez. U, n. 08349/2013, Salvago, Rv. 625846-01). È stata pertanto affermata la giurisdizione del giudice ordinario in quanto l’attribuzione, ex art. 113, comma 1, lett. g), c.p.a. (d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104, all. 1), della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in relazione agli accordi riconducibili, anche mediatamente, all’esercizio di pubblici poteri in materia di espropriazione, riguarda, appunto, solo i detti accordi tra privati espropriati e P.A. procedente poiché l’elemento fondante della giurisdizione amministrativa è in ogni caso costituito dall’azione dell’amministrazione attraverso l’esercizio, anche indiretto, di pubblici poteri. Ancora, per Sez. U, n. 34267/2019, Scaldaferri, Rv. 656484-01, conformemente a Sez. U, n. 24885/2008, Fioretti, Rv. 604921-01, ove si sia verificata l’occupazione appropriativa nell’ambito di un’espropriazione finalizzata alla realizzazione di alloggi popolari, rientra nella giurisdizione ordinaria la controversia relativa all’azione di regresso esercitata da un Comune, dopo la definizione transattiva con i proprietari interessati, nei confronti dell’I.A.C.P. delegato solo alla realizzazione dell’opera, non venendo direttamente in considerazione il rapporto tra P.A. danneggiante e proprietario del fondo e, quindi, l’esercizio di un pubblico potere, bensì il diverso rapporto interno tra l’ente e l’istituto, nei cui confronti il primo accampa un preteso diritto di credito adducendo non l’esistenza di un atto illecito, ma l’avvenuto pagamento integrale di un debito altrui, o di un debito riconducibile ad un’ipotesi di responsabilità solidale.

In analogo ordine di considerazioni Sez. U, n. 23102/2019, Mercolino, Rv. 655117-01, afferma che le controversie risarcitorie promosse successivamente al 10 agosto 2000, ossia all’entrata in vigore della l. 21 luglio 2000, n. 205 (recante «Disposizioni in materia di giustizia amministrativa»), relative alle occupazioni illegittime preordinate all’espropriazione e realizzate in presenza di un concreto esercizio del potere – riconoscibile come tale in base al procedimento svolto ed alle forme adottate, anche se l’ingerenza nella proprietà privata sia poi avvenuta senza alcun titolo o nonostante il venir meno di detto titolo – sono attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in materia urbanistico-edilizia ex art. 7 della l. n. 205 cit., giacché l’apprensione, l’utilizzazione e l’irreversibile trasformazione del bene in proprietà privata da parte della P.A. sono riconducibili ad un concreto esercizio del potere autoritativo che si manifesta con l’adozione della dichiarazione di pubblica utilità, senza che assuma rilevanza il fatto che quest’ultima perda successivamente efficacia o venga annullata. Coerentemente, la successiva Sez. U, n. 31028/2019, Lamorgese, Rv. 656075-01, ribadisce che «L’esistenza di una dichiarazione di pubblica utilità è condizione imprescindibile per ritenere che l’apprensione, l’utilizzazione e l’irreversibile trasformazione del bene in proprietà privata da parte della pubblica amministrazione siano riconducibili a un concreto esercizio del potere autoritativo, quale condizione necessaria per affermare la sussistenza della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, a norma dell’art. 133, comma 1, lett. g), c.p.a. e tale dichiarazione deve esistere al momento dell’apprensione dei beni privati».

3. La determinazione dell’indennità di espropriazione.

In generale, sul tema della garanzia del «serio ristoro» all’espropriato per l’incisione del diritto dominicale merita una particolare segnalazione Sez. 1, n. 30442/2019, De Marzo, Rv. 655953-01. La sentenza, ponendosi senz’altro in un’ottica costituzionalmente e convenzionalmente orientata e sviluppando le premesse poste, tra le altre, da Sez. U, n. 17190/2018, Bruschetta, Rv. 649496-01 e Sez. U, n. 06769/2009, Salvago, Rv. 607788-01 (entrambe in fattispecie riguardanti il programma straordinario di urbanizzazione nell’area metropolitana del Comune di Napoli ai sensi della l. 14 maggio 1981, n. 219), afferma il seguente principio: «Nei procedimenti espropriativi per l’esecuzione di opere pubbliche demandate all’ente concessionario, l’esigenza, costituzionalmente imposta, di assicurare il serio ristoro delle situazioni soggettive e l’effettività dei rimedi giurisdizionali comporta, ove il concessionario sia insolvente rispetto al proprio obbligo indennitario, il sorgere di un autonomo obbligo di garanzia della P.A. concedente, beneficiaria dell’espropriazione, per il pagamento del ristoro dovuto dal concessionario, onde assicurare, ex art. 42, comma 3, Cost., l’effettivo bilanciamento di interessi tra il titolare del bene ablato e la P.A. che persegue, attraverso l’espropriazione, finalità di interesse generale».

Del resto, un’eco di tale linea giurisprudenziale può cogliersi nell’anno in rassegna già in Sez. 1, n. 19470/2019, Lamorgese, Rv. 654668-01, che, sia pure nel diverso ambito della responsabilità da illecita attività della P.A. e valorizzando la remota Sez. 3, n. 01646/1968, La Farina, Rv. 333437-01, in tema di responsabilità solidale ex art. 2055 c.c. (per un precedente si v. anche Sez. 1, n. 04817/2009, Ceccherini, Rv. 606787-01), afferma: «la transazione conclusa tra il Comune e il privato illegittimamente espropriato, in relazione ai danni cagionati dall’illegittima attività dell’impresa concessionaria del Comune, non elide la responsabilità solidale di quest’ultima verso il privato danneggiato, né implica un’assunzione di responsabilità esclusiva da parte del Comune, con la conseguenza che, in base alla clausola di manleva integrale contenuta nella convenzione tra il Comune e l’impresa concessionaria, essa è obbligata a tenere indenne l’ente locale da quanto dovuto al privato in relazione alla transazione». Peraltro, sul tema della delega delle procedure espropriative, e ancora con riferimento al giudizio di responsabilità da occupazione cd. usurpativa, si v. anche Sez. 2, n. 00815/2019, Lombardo, Rv. 652300-01, che afferma la legittimazione passiva dell’ente espropriante delegante, non essendo la delega sufficiente a configurare l’istituto della concessione traslativa dell’esercizio delle funzioni pubbliche proprie del concedente e dunque tale da escludere la legittimazione passiva di quest’ultimo.

3.1. (segue) A) La qualificazione delle aree.

In generale, sul tema centrale dell’incidenza dei vincoli urbanistici, le pronunce intervenute nel corso del 2019 ribadiscono e consolidano ricevuti principi. Costante, in particolare, il richiamo alle caratteristiche fattuali e giuridiche del bene alla data del decreto di esproprio, nonché all’esatta considerazione della natura del vincolo – conformativo ovvero espropriativo – ai fini della corretta determinazione dell’indennizzo che deve essere comunque fondata su dati concreti.

Così, Sez. 6-1, n. 03168/2019, Sambito, Rv. 652677-01, nel confermare la sentenza di merito che, pur qualificando erroneamente come edificabile il fondo ablato per la realizzazione di un campo di calcetto, ne aveva correttamente apprezzato il valore secondo la potenziale natura edificatoria della zona, ha ribadito che l’indennità di espropriazione va determinata in relazione al valore venale distinguendo tra suoli edificabili e non edificabili in ragione del criterio dell’edificabilità legale, escluse le possibilità legali di edificazione qualora lo strumento urbanistico dell’epoca in cui deve compiersi la ricognizione legale abbia concretamente vincolato la zona ad un utilizzo meramente pubblicistico (verde pubblico, attrezzature pubbliche, viabilità, ecc.), sicché, rientrando nella nozione tecnica di edificazione l’edilizia privata esprimibile dal proprietario dell’area secondo il regime autorizzatorio previsto dalla vigente legislazione, ai fini indennitari deve tenersi conto delle possibilità di utilizzazione intermedia tra l’agricola e l’edificatoria (parcheggi, depositi, attività sportive e ricreative, chioschi per la vendita di prodotti, ecc.), sempre che siano assentite dalla normativa vigente, sia pure con il conseguimento delle debite autorizzazioni amministrative. Del pari, Sez. 1, n. 06527/2019, Scotti, Rv. 653115-01, conformemente a Sez. 1, n. 19295/2018, Mercolino, Rv. 649681-01, afferma una volta di più – in fattispecie relativa alla costruzione di un palazzetto dello sport in un terreno le cui particelle ricadevano tutte in “zona F-uso pubblico” – che, in caso di contestazione da parte dell’espropriato, la stima deve essere effettuata applicando il criterio generale del valore venale pieno, ma l’interessato può dimostrare che il fondo è suscettibile di uno sfruttamento ulteriore e diverso rispetto a quello agricolo, pur senza raggiungere il livello dell’edificatorietà, e che, quindi, possiede una valutazione di mercato che rispecchia possibilità di utilizzazione intermedie tra quella agricola e quella edificatoria (come, p.es., parcheggi, depositi, attività sportive e ricreative, chioschi per la vendita di prodotti), ancora una volta purché tali possibilità siano assentite dalla normativa vigente, sia pure con il conseguimento delle autorizzazioni amministrative. Ancora, Sez. 1, n. 10502/2019, Lamorgese, Rv. 653879-01, nel solco della fondamentale Sez. U, n. 00172/2001, Morelli, Rv. 546234-01, e delle più recenti Sez. 1, n. 21914/2018, Mercolino, Rv. 650581-01, e Sez. 1, n. 26644/2018, Caiazzo, Rv. 651444-01, ha cassato la sentenza di merito che aveva ritenuto assolutamente inedificabili e agricole le aree espropriate in quanto esterne al perimetro del territorio urbanizzato affermando che, ai fini della determinazione dell’indennità di espropriazione delle aree prive di pianificazione urbanistica, la stima non può risolversi in un mero esercizio qualificatorio dell’astratta natura dell’area, ma deve corrispondere all’effettivo valore di mercato di questa secondo le sue caratteristiche concrete espresse in termini monetari, desunte da taluni fatti-indice obiettivi quali, tra gli altri, la vicinanza al centro abitato, lo sviluppo edilizio raggiunto dalle zone adiacenti, l’esistenza di servizi pubblici essenziali, la presenza di opere di urbanizzazione primaria, il collegamento con i centri urbani già organizzati; in detta situazione trova pertanto applicazione il criterio – suppletivo, in carenza di strumenti urbanistici, e complementare, agli effetti della determinazione del concreto valore dell’area – dell’edificabilità di fatto, dovendo darsi rilievo all’attività edilizia legittimamente realizzabile in assenza di pianificazione urbanistica, a quella libera e a quella consentita previo rilascio del permesso di costruire. Sempre in analogo ordine di considerazioni Sez. 1, n. 17115/2019, Marulli, Rv. 654420-01, afferma che, nonostante la primazia del criterio dell’edificabilità legale imponga di considerare l’attitudine allo sfruttamento edilizio alla stregua della disciplina urbanistica vigente, l’edificabilità di fatto può costituire criterio integrativo necessario alla verifica della concreta realizzazione di costruzioni e alla quantificazione delle potenzialità di utilizzo del suolo al momento in cui si compie la vicenda ablativa, cosicché va esclusa l’edificabilità di un suolo quando le dimensioni dell’area sono insufficienti per edificare, per l’esaurimento degli indici di fabbricabilità della zona, per la distanza dalle opere pubbliche o per i vincoli legislativi urbanistici; da ciò consegue la necessità di tenere conto anche di tale specifico indice regolatore, quale criterio cui rapportare l’indennità dovuta all’effettivo pregiudizio patito, in funzione del principio del giusto ristoro, ma anche dell’esigenza di non favorire un’indebita locupletazione, tenuto conto che la potenzialità edificatoria va da un minimo (tendente a zero) ad un massimo, con una gamma di situazioni intermedie su cui incide in misura determinante l’edificabilità effettiva, quale attitudine del suolo ad essere sfruttato e concretamente destinato a fini edificatori in base a vari fattori quali, tra gli altri, la centralità, l’ubicazione, la consistenza, la vicinanza a strutture pubbliche e la volumetria.

Quanto all’incidenza degli strumenti programmatori, Sez. 1, n. 15413/2019, Lamorgese, Rv. 654274-01, riprendendo l’insegnamento di Sez. 1, n. 25318/2017, Campanile, Rv. 646001-01, ribadisce che l’inserimento di un’area nel programma costruttivo ex art. 51 della l. 22 ottobre 1971, n. 865 («Programmi e coordinamento dell’edilizia residenziale pubblica; norme sulla espropriazione per pubblica utilità; modifiche ed integrazioni alle leggi 17 agosto 1942, n. 1150; 18 aprile 1962, n. 167; 29 settembre 1964, n. 847; ed autorizzazione di spesa per interventi straordinari nel settore dell’edilizia residenziale, agevolata e convenzionata») non consente di ritenere la connotazione edificatoria delle relative porzioni ove destinate ad opere infrastrutturali, non essendo il programma anzidetto equiparabile al piano per l’edilizia economica e popolare (P.E.E.P.), rispetto al quale è alternativo ed autonomo, in quanto privo di carattere programmatorio e conformativo, nonché soggetto ad un procedimento semplificato e accelerato d’individuazione ed acquisizione delle aree destinate a iniziative di edilizia residenziale pubblica cui far ricorso proprio qualora non possano adottarsi tempestivamente le complesse procedure previste per l’approvazione del P.E.E.P.

Ancora in tema di programmazione del territorio, Sez. U, n. 31028/2019, Lamorgese, Rv. 656075-02, cit., afferma, anche sulla scorta di Sez. 1, n. 08435/2012, Salvago, Rv. 622541-01, che le disposizioni del programma di fabbricazione, di regola, si limitano genericamente ad individuare e reperire le aree per i servizi occorrenti in relazione alla capacità insediativa comunale, senza ulteriori specificazioni, ma non introducono vincoli preordinati all’espropriazione, sicché per poter legittimamente incidere sulla proprietà privata devono tradursi nella dichiarazione di pubblica utilità o in provvedimenti ad essa equipollenti, ai fini della realizzazione dell’opera sull’area stessa, come nel caso in cui l’inclusione di un fondo nel programma di fabbricazione sia funzionale all’esecuzione di opere di edilizia economica e popolare.

3.2. (segue) B) L’indennità di occupazione.

Al riguardo, deve in primo luogo farsi menzione dell’innovativa Sez. 1, n. 32415/2019, Lamorgese, Rv. 656130-01, la quale afferma che l’indennità di occupazione d’urgenza, essendo volta a compensare il proprietario per la mancata disponibilità del bene in relazione a quanto avrebbe percepito periodicamente da esso, va calcolata sino alla data dell’effettivo deposito dell’indennità di espropriazione, momento che conclude la fattispecie complessa da cui deriva l’effetto dell’acquisizione della proprietà del bene da parte della P.A. o dei soggetti a questa equiparati.

Nella prospettiva della corrispondenza della determinazione del ristoro alla qualificazione giuridica delle aree ablate, Sez. 1, n. 17115/2019, Marulli, Rv. 654420-02, conformemente a Sez. 1, n. 10133/2006, Salvago, Rv. 589268-01, puntualizza che le possibilità edificatorie da considerare ai fini della determinazione dell’indennità di occupazione vanno valutate al momento dell’adozione del relativo decreto; tuttavia, poiché il diritto all’indennità matura al compimento di ogni singola annualità, è con riferimento a ciascuna scadenza periodica che deve essere calcolato il parametro di riferimento, con la conseguenza che un eventuale mutamento della destinazione urbanistica a seguito dell’approvazione del P.R.G. assume rilevanza nel calcolo dell’indennità in relazione alle annualità successive.

Coerentemente, in tema di interessi da ritardata corresponsione dell’indennità, Sez. 1, n. 17797/2019, Scalia, Rv. 654537-01, ribadisce, in conformità a Sez. 1, n. 05520/2006, Plenteda, Rv. 587439-01, che gli interessi legali dovuti al proprietario per la ritardata corresponsione delle somme spettanti a titolo di indennità di espropriazione e di occupazione, per la loro natura e funzione compensativa, decorrono dal momento di maturazione dei corrispondenti diritti, ovvero, più specificamente, dalla data del decreto di esproprio e dalla scadenza di ciascuna annualità di occupazione, atteso che l’indennità di occupazione rappresenta il corrispettivo del mancato godimento del bene occupato fino all’espropriazione, in relazione all’anticipata privazione del proprietario del suo diritto reale, ed è ragguagliata al tasso legale degli interessi sull’indennità di espropriazione.

Infine, sul valore probatorio del verbale di immissione in possesso, secondo Sez. 1, n. 34098/2019, Scalia, Rv. 656613-01 (sulla scorta di Sez. U, n. 18077/2009, Morcavallo, Rv. 609261-01, e conformemente a Sez. 1, n. 23505/2010, Salvago, Rv. 614773-01), la redazione di detto verbale fa scattare la presunzione che la P.A. si sia effettivamente impossessata dell’immobile e il proprietario abbia perduto le facoltà di godimento e di disposizione del bene; trattasi però di presunzione relativa che fa salva la prova contraria, da parte della P.A., della mancata effettiva presa di possesso dell’immobile, e la prova, da parte del proprietario, di aver subito nel periodo precedente l’immissione in possesso, per effetto della sola adozione del decreto di occupazione d’urgenza, un pregiudizio risarcibile, se effettivo.

3.3. (segue) C) La stima.

Sulle operazioni estimative, Sez. 1, n. 13269/2019, Scalia, Rv. 654041-01, ribadisce l’insegnamento – fissato definitivamente da Sez. 1, n. 02193/2016, Sambito, Rv. 638350-01 – secondo cui il deposito della relazione di stima nella segreteria del Comune e la sua successiva comunicazione al pubblico mediante affissione all’albo pretorio, ai sensi dell’art. 15, comma 2, della l. n. 865 del 1971, non soddisfa l’onere della notificazione dell’indennità di esproprio all’interessato nelle forme degli atti processuali civili, quale adempimento finalizzato a dare certezza della conoscenza dell’atto da parte del destinatario ed a consentire, in caso di sua consapevole inerzia, il maturarsi della decadenza dall’impugnazione, non potendosi equiparare la detta affissione alla notificazione dell’indennità definitiva ex art. 143 c.p.c.

3.4. (segue) D) Le aree agricole.

Sulla cd. indennità aggiuntiva, Sez. 1, n. 20658/2019, Scotti, Rv. 654882-01, ribadisce, nel solco di Sez. 1, n. 03706/2015, Mercolino, Rv. 634472-01, e della successiva Sez. 1, n. 28788/2018, Bisogni, Rv. 651508-01, che l’art. 37, comma 9, del d.P.R. n. 327 del 2001 ne condiziona la concreta erogazione, oltre che alla titolarità di uno dei rapporti agrari tipici, all’utilizzazione agraria del terreno, ravvisabile in tutte quelle ipotesi in cui la coltivazione del fondo avvenga con prevalenza del lavoro proprio e di persone della famiglia del richiedente, sicché è escluso dal novero dei soggetti aventi diritto al beneficio il terzo conduttore imprenditore agricolo (il quale esercita la coltivazione e produzione agricola con prevalenza del fattore capitale sul lavoro e con impegno prevalente di manodopera subordinata), senza che tale esclusione possa ritenersi in contrasto con il principio di uguaglianza, avuto riguardo alla differenza esistente tra il predetto e i soggetti individuati dall’art. 17 della l. n. 865 del 1971.

3.5. (segue) E) L’indennità di asservimento.

Sul tema va innanzi tutto citata l’innovativa Sez. 1, n. 26437/2019, Lamorgese, Rv. 655627-01, che raccorda la disciplina dell’indennità di asservimento a quella generale dell’indennità di espropriazione laddove afferma che l’ammontare dell’indennità dovuta in conseguenza della imposizione di una servitù (nella specie, imposta per la realizzazione di linee ferroviarie) deve essere determinato con riferimento alla data del decreto di asservimento e non a quella di imposizione del vincolo preordinato all’esecuzione dell’opera.

Per il resto, Sez. 1, n. 16495/2019, Mercolino, Rv. 654275-01, nell’ottica della concreta compressione del diritto dominicale in conseguenza dell’imposizione del peso sul fondo (su cui già Sez. 1, n. 23865/2015, Sambito, Rv. 637885- 01), puntualizza che l’indennità di asservimento ex art. 44 del d.P.R. n. 327 del 2001 deve essere determinata riducendo proporzionalmente l’indennità corrispondente al valore venale del bene, in ragione della minore compressione del diritto reale determinata dall’asservimento rispetto all’espropriazione, con la conseguenza dell’inapplicabilità dell’art. 1038, comma 1, c.c. che, in riferimento alla diversa fattispecie delle servitù di acquedotto e scarico coattivo, commisura l’indennità dovuta al proprietario del fondo servente all’intero valore venale del terreno occupato, in quanto, da un lato, la sua applicabilità in materia di opere pubbliche è preclusa dall’operatività della disciplina speciale dettata in materia di espropriazione e, dall’altro, essa presuppone che il proprietario del fondo servente perda la disponibilità della parte di terreno da occupare per la costruzione dell’acquedotto.

4. L’opposizione alla stima.

Numerose, come di consueto, le pronunce che trattano i temi più squisitamente processuali.

Sulla competenza del giudice, Sez. 6-1, n. 05220/2019, Mercolino, Rv. 652678-01, riprende l’insegnamento della risalente Sez. 1, n. 06960/1997, Vitrone, Rv. 506254-01: l’individuazione del giudice competente sull’opposizione alla stima dell’indennità di espropriazione va effettuata con riferimento alla normativa in base alla quale la P.A. ha disposto l’espropriazione e determinato la relativa indennità, sicché, qualora questa sia stata fissata in base ai criteri di cui agli artt. 16 e 17 della l. n. 865 del 1971, con riguardo ad espropriazione disposta in forza del d.P.R. 6 marzo 1978, n. 218 («Testo unico delle leggi sugli interventi nel Mezzogiorno»), ed in forza del rinvio alle predette norme contenuto nell’art. 53 di tale decreto, l’opposizione spetta alla Corte d’appello, ai sensi dell’art. 19 della legge predetta, che trova applicazione indipendentemente dalla mancanza di un richiamo esplicito.

Sull’oggetto del giudizio, Sez. 1, n. 15414/2019, Lamorgese, Rv. 654650-01, ribadisce – in conformità a Sez. 1, n. 08442/2012, Di Virgilio, Rv. 623305-01 e a Sez. 1, n. 04388/2006, San Giorgio, Rv. 586914-01, nonché a Sez. 1, n. 05106/2004, Benini, Rv. 571055-01 – che esso attiene alla congruità e conformità dell’indennità (di espropriazione o di occupazione temporanea) ai criteri di legge, principi che devono essere coordinati con quello della domanda, con la conseguenza che l’opposizione dell’espropriato potrà condurre solo alla determinazione di un’indennità maggiore, e non inferiore, rispetto a quella calcolata in sede amministrativa, in difetto di una domanda formulata dall’espropriante; pertanto, nel caso in cui l’accertamento giudiziario conduca ad un risultato sfavorevole per l’espropriato opponente, il giudice dovrà limitarsi a respingere la domanda, altrimenti incorrendo nel vizio di ultrapetizione, salvo che il promotore dell’espropriazione, convenuto in opposizione, abbia agito in riconvenzionale per la riduzione dell’ammontare.

Sulla legittimazione, Sez. 1, n. 15780/2019, De Marzo, Rv. 654532-01, riprendendo l’insegnamento di Sez. 6-1, n. 06873/2011, Ceccherini, Rv. 617228-01, e di Sez. U, n. 10165/2003, Vitrone, Rv. 564598-01, afferma che il giudizio di determinazione dell’indennità di espropriazione ha carattere unitario e investe il diritto nella sua interezza, anche qualora il bene oggetto del procedimento ablatorio sia in comproprietà indivisa: dunque, mentre la determinazione giudiziale dell’indennità giova ai comproprietari che non abbiano proposto opposizione, non ricorrendo un’ipotesi di litisconsorzio necessario, senza che ad essi possa opporsi alcuna decadenza, nel caso in cui solo alcuni degli opponenti comproprietari abbiano coltivato il giudizio nei gradi di impugnazione, non può configurarsi la formazione frazionata del giudicato in capo ai diversi opponenti, i quali tutti devono considerarsi parti processualmente necessarie nei successivi gradi, anche se non abbiano proposto impugnazione. Dal canto suo, Sez. 1, n. 05967/2019, Caiazzo, Rv. 653097-01, sviluppando il principio generale di cui alla remota Sez. L, n. 05793/1987, Giustiniani, Rv. 454186-01, puntualizza che l’esigibilità dell’indennità di espropriazione di un immobile di proprietà del de cuius, svincolata a suo favore, non è subordinata alla dimostrazione da parte dell’erede dell’avvenuta presentazione della denuncia di successione, che è atto prettamente fiscale, in quanto, in un’ottica costituzionalmente orientata, il ristoro della perdita del diritto di proprietà, cui il pagamento dell’indennità è diretto, non tollera di sottostare ad adempimenti di natura fiscale, quantunque connessi alla successione ereditaria, la cui eventuale violazione comporta sanzioni inerenti alla sola questione fiscale. Infine, Sez. 1, n. 25376/2019, Parise, Rv. 655622-01, afferma, conformemente a Sez. 1, n. 01991/2000, Papa, Rv. 534234-01, che il prefetto, competente a emettere il decreto di esproprio e quello di occupazione temporanea, non è parte necessaria del processo non essendo identificabile con l’espropriante e non essendo la sua attività riferibile, in base ad un rapporto d’immedesimazione organica, all’amministrazione d’appartenenza poiché, superata la fase autoritativa dell’emissione del decreto, la controversia attiene all’adeguatezza dell’indennità di espropriazione, concernendo unicamente il rapporto sostanziale patrimoniale tra espropriato e beneficiario del provvedimento ablativo.

Varie le pronunce sul termine di decadenza per l’opposizione. Sez. 1, n. 22373/2019, Meloni, Rv. 655026-01, chiarisce nuovamente – in conformità a Sez. 1, n. 03749/2012, Ceccherini, Rv. 621949-01 – che nei giudizi relativi ai procedimenti in cui la dichiarazione di pubblica utilità sia stata emessa prima dell’entrata in vigore del d.P.R. n. 327 del 2001 (30 giugno 2003) opera la disciplina transitoria prevista dall’art. 57 dello stesso d.P.R., secondo cui le disposizioni del T.U. non si applicano ai progetti edilizi per i quali, alla data di entrata in vigore del T.U. medesimo, sia intervenuta la dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza, cui continuano invece ad applicarsi tutte le normative vigenti a quella data. Per le fattispecie ricadenti nel vigore della nuova disciplina, Sez. 1, n. 21225/2019, Parise, Rv. 655326-01, sulla scorta di Sez. 1, n. 28791/2018, Bisogni, Rv. 651452-01, e Sez. 6-1, n. 04880/2011, Forte, Rv. 617034-01, afferma che il termine di trenta giorni dalla comunicazione dell’avviso di deposito della relazione di stima è finalizzato a consentire agli interessati di prendere visione del documento e decidere se accettarla oppure opporvisi, ed ha perciò natura dilatoria, con la conseguenza che non può ritenersi improponibile l’opposizione alla stima introdotta prima della scadenza di tale termine, dovendosi riconoscere all’espropriato la facoltà di adire il giudice anche prima della stima definitiva e comunque prima che inizi a decorrere il distinto termine perentorio di opposizione ex art. 29, comma 3, del d.lgs. 1 settembre 2011, n. 150 («Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell’articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69»), atteso che, in una prospettiva costituzionalmente orientata, la pronuncia di improponibilità dell’azione è suscettibile di determinare effetti non solo processuali, ma anche sostanziali, preclusivi della reiterabilità della domanda di merito, qualora in concomitanza decorra e scada il detto termine perentorio. In analoga prospettiva sistematica, Sez. 1, n. 28520/2019, Scalia, Rv. 656165-01 – conforme alla già citata Sez. 1, n. 02193/2016, Sambito, Rv. 638351-01 – ribadisce che l’espropriato deve proporre opposizione alla stima nel termine breve di decadenza previsto dall’art. 19 della l. n. 865 del 1971 quando l’indennità definitiva sia stata già calcolata da parte della commissione provinciale, mentre, qualora abbia ricevuto solo l’offerta di un’indennità provvisoria, può agire in giudizio nell’ordinario termine di prescrizione.

Infine, sull’istruttoria, Sez. 1, n. 19468/2019, Lamorgese, Rv. 654430-01, chiarisce, in applicazione di un consolidato principio, che la Corte d’appello non può disattendere in modo apodittico le conclusioni espresse dal c.t.u. circa il valore del bene, poiché ritenute eccessive, ma deve motivare in modo critico sulle risultanze processuali, indicando, in particolare, gli argomenti su cui fonda il proprio dissenso, nonché gli elementi ed i criteri cui ha fatto ricorso per pervenire ad una valutazione contrastante al fine di non vulnerare il principio del contraddittorio. Per quanto invece riguarda la corretta formulazione della stima, per Sez. 1, n. 34743/2019, Parise, Rv. 656568-01 (conforme, tra le altre, a Sez. 1, n. 01904/2014, Benini, Rv. 629864-01), essa deve avvenire secondo criteri di omogeneità: in particolare, il metodo cd. sintetico-comparativo deve attribuire al bene da stimare il prezzo di mercato di immobili “omogenei”, con riferimento non solo agli elementi materiali (quali la natura, la posizione o la consistenza morfologica), ma anche alla loro condizione giuridica urbanistica all’epoca del decreto ablativo; corollario di tale principio è che incombe sul giudice uno stringente onere motivazionale, nel senso che deve appunto indicare gli elementi di comparazione utilizzati e documentarne la rappresentatività in riferimento a immobili con caratteristiche analoghe a quello espropriato.

5. L’espropriazione parziale.

Si segnala Sez. 1, n. 34745/2019, Iofrida, Rv. 656442-01, secondo cui l’art. 40 della l. 25 giugno 1865, n. 2359 («Sulle espropriazioni per causa di utilità pubblica»), recepito dal d.P.R. n. 327 del 2001, e quindi il criterio di stima differenziale ivi previsto (che sottrae all’iniziale valore dell’intero immobile quello della parte rimasta in capo al privato) non è vincolante, potendo essere sostituito dal criterio che procede al calcolo del deprezzamento della sola parte residua, per poi aggiungerlo alla somma liquidata per la parte espropriata, purché si raggiunga il risultato di compensare l’intero pregiudizio arrecato dall’ablazione alla proprietà residua: la pronuncia ha infatti cassato quella di merito che aveva quantificato l’indennità dovuta attraverso la mera sommatoria del valore dell’indennità di esproprio e quello dell’area relitta determinato dal c.t.u., così attribuendo ai proprietari l’intero valore dell’area espropriata e di quella residua benché essi conservassero la titolarità del relitto.

6. La determinazione consensuale dell’indennità.

Sul tema Sez. 1, n. 25386/2019, Parise, Rv. 655624-01, ribadendo il principio espresso da Sez. 1, n. 22626/2006, Salvago, Rv. 592245-01, afferma che se le parti hanno definito contrattualmente l’intera vicenda espropriativa e ogni suo aspetto patrimoniale, non vi è più spazio per invocare l’indennità di occupazione degli immobili, che postula un ristoro separato e aggiuntivo non assorbibile nell’indennità di espropriazione, ove la perdita della proprietà sia stata preceduta dalla perdita temporanea della mera disponibilità del bene, e non configurabile quando sia accertata la contestualità dell’acquisizione del possesso con il passaggio di proprietà.

7. Le espropriazioni illegittime.

Come notato in premessa, l’elaborazione giurisprudenziale della Prima Sezione civile si connota per l’insistita garanzia della posizione del privato illecitamente privato del bene, destinatario di una tutela in primo luogo reipersecutoria. Così, in termini generali, Sez. U, n. 12589/2019, Acierno, Rv. 653934-01, afferma che «l’emanazione di un decreto di asservimento di un’area in proprietà privata, sulla quale sia in corso un’occupazione illegittima da parte della P.A., determina l’improcedibilità della domanda di risarcimento in forma specifica proposta dal privato al fine di ottenere la rimozione delle opere eseguite, salva l’avvenuta formazione del giudicato sul diritto alla restituzione del bene, ma non anche della domanda risarcitoria dal medesimo avanzata in relazione all’occupazione del fondo dall’origine sino all’emanazione del detto decreto, atteso l’effetto conformativo prodotto ex nunc sulla situazione giuridica soggettiva incisa da tale provvedimento ablatorio». A sua volta, Sez. 1, n. 03793/2019, Lamorgese, Rv. 652552-02, ribadisce il principio espresso da Sez. 1, n. 07514/2011, Di Palma, Rv. 617168-01, nel senso che l’illegittima occupazione di un fondo privato in seguito all’annullamento, da parte del giudice amministrativo, del decreto di espropriazione (nella specie pronunciato ex art. 49 del d.P.R. n. 218 del 1978, cit.), comporta l’obbligo dell’espropriante alla restituzione dell’immobile al proprietario, non essendo configurabile una vicenda di occupazione cd. espropriativa, il cui fondamento è nella conservazione alla mano pubblica di un’opera intrinsecamente pubblica.

Per altro verso, Sez. 1, n. 15412/2019, Lamorgese, Rv. 654273-01 e Rv. 654273-02, si incarica di inquadrare in termini quanto più possibile obiettivi la quantificazione del credito risarcitorio da occupazione cd. acquisitiva: da un lato, la mancata redazione del verbale di immissione in possesso da parte dell’occupante non fa venire meno il detto credito per la perdita di godimento del fondo, fermo restando naturalmente l’onere del proprietario danneggiato di dimostrare l’esatta estensione del bene occupato con gli ordinari mezzi di prova; dall’altro, per la determinazione del risarcimento occorre fare riferimento esclusivamente al valore di mercato del bene alla data dell’occupazione illegittima: non possono infatti trovare ingresso criteri alternativi fondati sulla comparazione con il prezzo di immobili omogenei, oppure calcolando i relativi costi di costruzione, in un momento diverso dalla data dell’occupazione, devalutando poi il quantum liquidato mediante l’uso degli indici ISTAT, poiché il mercato immobiliare risente di variabili macroeconomiche diverse dalla fluttuazione della moneta nel tempo, anche se a questa parzialmente legate, nonché di condizioni microeconomiche dettate dallo sviluppo edilizio di una determinata zona, che sono completamente avulse dal valore della moneta, secondo un indirizzo già fissato, peraltro in tema di indennità di espropriazione, da Sez. 1, n. 18556/2015, Campanile, Rv. 636756-01.

Resta comunque fermo che – come affermato da Sez. 1, n. 19469/2019, Lamorgese, Rv. 654645-01 – qualora il termine di efficacia della dichiarazione di pubblica utilità di un’opera sia stato prorogato tempestivamente dall’autorità espropriante prima della scadenza, anche ripetutamente, la dichiarazione resta efficace e il decreto di esproprio è quindi valido, se emesso prima dell’ultima scadenza, sicché, non essendo configurabile alcuna carenza del potere amministrativo, né in astratto, né in concreto, è legittima l’attività manipolativa del bene del privato compiuta nel complessivo periodo di efficacia della dichiarazione. Coerentemente, Sez. 1, n. 16509/2019, Lamorgese, Rv. 654653-01, afferma che nel caso di occupazione acquisitiva derivante dalla trasformazione irreversibile del terreno ablato nell’ambito di un procedimento inizialmente assistito da dichiarazione di pubblica utilità, e successivamente divenuto illegittimo per la mancata emanazione del decreto di esproprio nel termine di legge, l’inefficacia di detta dichiarazione opera ex nunc, non verificandosi alcun travolgimento ex post delle attività legittimamente compiute dalla P.A. sulla base del decreto di occupazione e in pendenza del termine di efficacia della dichiarazione di pubblica utilità: è pertanto dovuta al privato l’indennità di occupazione legittima a far data dall’immissione in possesso nel bene fino alla perdita di efficacia della dichiarazione di pubblica utilità, che determina in ogni caso la sopravvenuta carenza di potere ablatorio (v. già, in argomento, Sez. 1, n. 24101/2018, Lamorgese, Rv. 650763-01, e la fondamentale Sez. U, n. 00735/2015, Di Amato, Rv. 634018-01). Analogamente, in tema di rapporti tra occupazione d’urgenza e manipolazione del bene, per Sez. 1, n. 33227/2019, Sambito, Rv. 656563-01 – che ribadisce l’insegnamento di Sez. 1, n. 19601/2016, Lamorgese, Rv. 641329-01 – la proroga legale del termine dell’occupazione d’urgenza opera nonostante si sia già verificata l’irreversibile trasformazione dell’area occupata, sicché, fino a quando tale termine originario o prorogato non sia spirato, il proprietario null’altro può pretendere se non la corresponsione della relativa indennità ed è sempre possibile l’emanazione del decreto di espropriazione di un’area che continua ad appartenere all’originario proprietario.

Su un piano squisitamente processuale, e quanto alla legittimazione, Sez. U, n. 07927/2019, Rubino, Rv. 653278-01, afferma che la domanda di restituzione dell’intero bene proposta pro indiviso congiuntamente da tutti i comproprietari del fondo del quale si assume l’occupazione usurpativa determina un litisconsorzio necessario processuale che realizza una ipotesi di inscindibilità della causa ovvero la necessità che il giudizio prosegua, anche nelle fasi di impugnazione, nei confronti di tutti i partecipanti al giudizio di primo grado; pertanto, l’omessa impugnazione della sentenza nei confronti di tutte le parti non determina l’inammissibilità del gravame, bensì la necessità di disporre l’integrazione del contraddittorio ex art. 331 c.p.c. nei confronti della parte pretermessa, pena la nullità del procedimento di secondo grado e della sentenza che l’ha concluso, rilevabile d’ufficio anche in sede di legittimità.

7.1. (segue) L’acquisizione “sanante”.

In argomento mette conto menzionare Sez. U, n. 03517/2019, Conti, Rv. 652752-01, che, in linea di continuità con gli approdi di Sez. 1, n. 11258/2016, Lamorgese, Rv. 639787-01, offre una nozione generale dell’istituto, nel senso che l’acquisizione sanante di cui all’art. 42-bis del d.P.R. n. 327 del 2001 ha natura di procedimento espropriativo semplificato di carattere eccezionale, volto a ripristinare la legalità amministrativa con effetto non retroattivo, il cui scopo non è quello di sanatoria di un precedente illecito perpetrato dalla amministrazione, bensì quello, autonomo, di soddisfare attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico, redimibili esclusivamente attraverso il mantenimento e la gestione delle opere già realizzate sine titulo, con la conseguenza che l’adozione di tale provvedimento presuppone una valutazione discrezionale degli interessi in conflitto qualitativamente diversa da quella tipicamente effettuata nel normale procedimento espropriativo, non limitata genericamente alla eccessiva difficoltà od onerosità delle possibili soluzioni ma volta ad accertare l’assenza di ragionevoli alternative all’acquisizione – prima fra tutte la restituzione del bene – in relazione alle quali il proprietario deve essere posto in grado di svolgere il proprio ruolo partecipativo secondo le regole generali sulla partecipazione del privato al procedimento amministrativo.

Deve poi segnalarsi l’innovativa Sez. 1, n. 12049/2019, Scalia, Rv. 653881-01, secondo cui se il privato beneficiario di somme depositate presso la Cassa depositi e prestiti dall’espropriante all’esito di procedura di acquisizione sanante richieda lo svincolo degli importi versati per pregiudizio patrimoniale, non patrimoniale e risarcimento del danno per il periodo di occupazione senza titolo, il giudice del merito investito della relativa domanda deve disporre in conformità, essendo irrilevante la pendenza di giudizi promossi dall’espropriato ed aventi ad oggetto l’ammontare delle relative somme in quanto, in assenza di riconvenzionali dell’espropriante, non potrebbe avvenire una rideterminazione in peius delle voci indicate.

  • appalto pubblico
  • codice amministrativo

CAPITOLO XXVI

APPALTI PUBBLICI

(di Stefano Pepe )

Sommario

1 Appalto pubblico, premessa. - 1.1 Il quadro normativo. - 1.2 La giurisdizione: cenni. - 2 Esecuzione del contratto. Le patologie del rapporto contrattuale. Riserve, sospensioni, risoluzione e recesso. - 3 Appalto di opere pubbliche, azione di garanzia per vizi e difetti, decadenza prescrizione, collaudo, rilevanza. - 4 Appalto e arbitrato. - 5 La responsabilità dell’amministrazione committente per danni da inadempimento in tema di appalto per la ricostruzione di immobili a seguito di evento sismico.

1. Appalto pubblico, premessa.

Prima di passare all’esame dei principi affermati dalla Corte di cassazione nel corso dell’anno 2019 in materia di appalti pubblici, in ragione della particolarità e complessità della materia non può non tenersi conto, da un lato, che il quadro normativo di riferimento è stato nel tempo oggetto di successive e articolate modificazioni e, dall’altro, dei limiti entro i quali opera la giurisdizione del giudice ordinario rispetto a quella del giudice amministrativo.

1.1. Il quadro normativo.

Quanto al primo aspetto va osservato che alla prima legge sulle opere pubbliche, l. n. 2248 del 1865, all. F, ha fatto seguito la legge quadro sui lavori pubblici, l. n. 109 del 1994, che aveva lo scopo di creare una disciplina omogenea in materia di lavori pubblici. A seguito di tale legge, il d.m. n. 145 del 2000 ha introdotto il nuovo capitolato generale d’appalto e il d.P.R. n. 34 del 2000 ha definito il sistema di qualificazione delle imprese e altre normative di carattere tecnico.

Nel 2004 l’Unione Europea ha, poi, adottato la direttiva 2004/18/CE (abrogata dalla nuova direttiva 2014/24/UE) che riunisce le procedure per l’aggiudicazione degli appalti nei tre settori dei lavori, dei servizi e delle forniture quale obiettivo di semplificazione e snellimento delle procedure; direttive che il d.lgs. 163 del 2006 (codice dei contratti pubblici di lavori, servizi, forniture) ha recepito nel nostro ordinamento. Con l’entrata in vigore del d.P.R. n. 207 del 2010, di esecuzione e attuazione del d.lgs. n. 163 del 2006, si è abrogato il d.P.R. n. 554 del 1999 e il d.P.R. 34 del 2000 di attuazione della l. n. 109 del 1994, e gran parte del d.m. 145 del 2000. In ultimo, il legislatore ha adottato il d.lgs. n. 50 del 2016 che costituisce la fonte normativa di riferimento per quanto riguarda la disciplina di qualsiasi tipo di contratto pubblico di lavori, servizi e forniture.

Discende come logica conseguenza da quanto sopra che le sentenze di seguito riportate, seppur riferite a fattispecie in cui risultano applicabili norme formalmente non più attuali, in quanto abrogate da ultimo dal d.lgs. n. 50 del 2016, assumono, comunque, valore di piena attualità, nei casi in cui il loro contenuto è stato sostanzialmente riprodotto in tale ultimo testo normativo.

1.2. La giurisdizione: cenni.

Quanto al secondo aspetto, relativo al riparto di giurisdizione, esso assume rilievo ai fini di comprendere entro quale ambito è riconosciuto al giudice ordinario il potere di decidere le controversie in materia di appalti pubblici.

Sul punto, si riportano in estrema sintesi, in quanto riportate nella specifica parte di questa rassegna dedicata al riparto di giurisdizione, alcune sentenze con le quali le Sezioni Unite hanno indicato i limiti entro i quali il giudice ordinario è competente a decidere le controversie in materia di appalti pubblici.

La Corte (Sez. U, n. 13660/2019, Acierno, Rv. 654028-01) si è occupata del regolamento preventivo di giurisdizione proposto da una società affidataria del servizio di raccolta e trasporto rifiuti urbani e relativo ad una controversia incardinata davanti al giudice amministrativo avente ad oggetto la domanda di annullamento di 149 note di contestazione e delle relative determinazioni dirigenziali del Comune riguardanti l’applicazione di penali, previste nel capitolato speciale, imputate all’irregolare esecuzione del servizio. In particolare, ai fini del decidere, assumeva rilievo la circostanza che il servizio in questione fosse stato attribuito in virtù di un provvedimento di affidamento provvisorio con proroghe mediante ordinanze contingibili ed urgenti succedutesi fino alla conclusione di una procedura di gara che aveva visto vittoriosa una società diversa dalla ricorrente. Il ricorso per regolamento preventivo era conseguente alla pronuncia, in sede cautelare, del TAR che aveva riconosciuto la sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo, mentre il Consiglio di Giustizia della Regione Siciliana aveva affermato la giurisdizione del giudice ordinario. Nell’affermare la giurisdizione del giudice ordinario, le Sezioni Unite hanno attribuito rilievo alla circostanza che le penali in questione trovavano la loro fonte nel capitolato speciale in cui erano indicati i corrispettivi inadempimenti imputati alla società. Essendo la fonte dei rapporti controversi il suddetto capitolato, «la mancanza di una procedura di gara, nella specie, non modifica la natura giuridica paritetica del rapporto nella fase esecutiva dell’espletamento del servizio. Pur se il momento genetico è stato determinato dalla delibera della giunta municipale di affidamento provvisorio del servizio, prorogato con ordinanze contingibili ed urgenti», qualificandosi la fattispecie in termini di appalto di pubblico servizio, anche se il momento genetico del rapporto è determinato, non dalla stipula di un contratto, ma dalla delibera della giunta municipale di affidamento del servizio. In sostanza, quello che rileva ai fini della qualifica del rapporto e, conseguentemente della attribuzione della giurisdizione al giudice ordinario è che, successivamente all’affidamento, la natura del rapporto si dovesse considerare paritetica essendo l’esecuzione del menzionato servizio disciplinata dalle regole contrattuali contenute nel capitolato speciale di appalto, accettate dall’impresa anche senza la formale conclusione del contratto, dovendosi escludere la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, stabilita prima dall’art. 33, comma 2, lett. e), del d.lgs. n. 80 del 1998 (come modificato dall’art. 7 della l. n. 205 del 2000) e poi dall’art. 133, comma 1, lett. p), dell’all. 1 al d.lgs. n. 104 del 2010, la quale attiene soltanto alla precedente fase di scelta del contraente.

Con altra sentenza (Sez. U, n. 28211/2019, Di Virgilio, Rv. 655591-01) la Corte è stata investita del regolamento preventivo di giurisdizione proposto da una società che, dopo essersi aggiudicata una gara pubblica, si era vista impugnare da altra impresa dinnanzi al TAR alcune delibere con le quali la stazione appaltante, in corso di esecuzione dell’appalto, ne aveva allargato l’ambito. In particolare, la ricorrente sosteneva che l’atto aggiuntivo sospeso dal TAR attenesse alla fase esecutiva del contratto stesso con conseguente devoluzione della controversia al giudice ordinario. La Corte, nel respingere il ricorso, ha rilevato che in materia di appalti di lavori e servizi pubblici, la domanda con cui il terzo titolare di posizione differenziata (già partecipante alla gara e non aggiudicatario), contestando la sussistenza dei presupposti per la modifica o variazione del contratto durante il periodo di efficacia, previsti dall’art. 106, comma 1, lett. b), del d.lgs. n. 50 del 2016, invochi l’annullamento o la declaratoria di inefficacia degli atti amministrativi con cui la P.A. committente abbia ampliato l’oggetto dello stesso in favore dell’aggiudicatario, rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo, venendo in rilievo non già una questione relativa all’esecuzione del contratto (in ordine alla quale la P.A. si porrebbe in posizione paritetica e l’altro contraente vanterebbe una posizione di diritto soggettivo), né una questione di invalidità del contratto per vizi del procedimento di evidenza pubblica, bensì l’illegittima decisione dell’ente committente di procedere all’affidamento diretto dei lavori o servizi aggiuntivi in favore dell’aggiudicatario, senza indire un’ulteriore gara d’appalto, così ledendo l’interesse legittimo del terzo a partecipare a tale gara.

2. Esecuzione del contratto. Le patologie del rapporto contrattuale. Riserve, sospensioni, risoluzione e recesso.

La Sez. 1, n. 09518/2019, Caiazzo, Rv. 653875-02, nell’ambito di una controversia afferente un contratto di concessione di sola costruzione, dopo aver affermato che tale tipologia di contratto, ora non più considerata nelle leggi nn. 584 del 1977 e 406 del 1991, è assoggettabile allo stesso regime degli appalti di opera pubblica, ha affermato che, per effetto di ciò, le pretese del concessionario ad ulteriori compensi per i maggiori costi sostenuti, nella specie per oneri aggiuntivi connessi allo svolgimento delle procedure di esproprio, sono sottoposte all’onere di preventiva riserva, con le modalità previste dagli artt. 53 e ss. del r.d. n. 350 del 1895 applicabili ratione temporis e, a seguito della sua abrogazione, dagli artt. 1, comma 1, e 113 del d.P.R. n. 554 del 1999 (Sez. 1, n. 18070/2004, Salvago, Rv. 576866-01). Alla luce di tale principio la Corte ha cassato la sentenza di merito con la quale si erano distinte le maggiori pretese avanzate a titolo di maggiori spese relative alla contabilizzazione dei lavori e quelle estranee all’esecuzione dei lavori ai fini della disciplina ad esse applicabile. Osserva, infatti, la Corte che l’attuazione dell’opera pubblica, dalla gara di appalto, alla consegna dei lavori, alla loro esecuzione ed al collaudo, si compie in fasi successive attraverso un procedimento formale e vincolato, che si articola in una serie di registrazioni e certificazioni, alla cui formazione l’appaltatore è chiamato di volta in volta a partecipare. Allo stesso è imposto l’onere, reso evidente dal riferimento operato dall’art. 53 del r.d. n. 350 del 1895 alla necessità che l’appaltatore indichi tutte le domande che crede di fare, di contestare immediatamente ogni circostanza che riguardi le prestazioni (eseguite o non), la quale sia suscettibile di comportare un incremento delle spese previste, mediante un atto, pur esso a forma vincolata quanto a tempo e modalità di formulazione, cui deve provvedere tempestivamente, a pena di decadenza, non soltanto per un dovere di lealtà contrattuale e per l’esigenza di tempestivi controlli, ma soprattutto nell’interesse pubblico di consentire all’amministrazione appaltante la tempestiva verifica delle contestazioni, attesa la necessità della continua evidenza della spesa dell’opera in funzione della corretta utilizzazione e della eventuale integrazione dei mezzi finanziari predisposti per la sua realizzazione.

3. Appalto di opere pubbliche, azione di garanzia per vizi e difetti, decadenza prescrizione, collaudo, rilevanza.

La Sez. 1, n. 10501/2019, Lamorgese, Rv. 653469-01, ha dichiarato non fondata la censura proposta dall’ANAS per violazione e falsa applicazione del principio, desumibile dagli artt. 1665, 1667, 2943, 2946 c.c. e 5 della legge n. 741 del 1981, secondo cui negli appalti di opere pubbliche solo il collaudo equivale ad accettazione dell’opera e segna il dies a quo di decorrenza della decadenza e della prescrizione per far valere i vizi e le difformità dell’opera, sicché, laddove il collaudo non viene eseguito, manca una formale accettazione dell’opera e, di conseguenza, la possibilità di far decorrere il termine di decadenza e prescrizione, non assumendo rilievo elementi fattuali come la presa in consegna dell’opera o l’apertura della strada al pubblico.

La Corte nel rigettare il ricorso ha ripercorso l’orientamento della giurisprudenza di legittimità rilevando che in origine questo, pur riconoscendo che alla consegna dell’opera prima del collaudo non è applicabile la presunzione di accettazione di cui all’art. 1665, comma 4, c.c. – giacché, alla stregua della disciplina delle opere pubbliche, la consegna di un’opera siffatta non può che intendersi effettuata con riserva di verifica, costituendo il collaudo atto formale indispensabile ai fini dell’accettazione dell’opera stessa da parte della pubblica amministrazione – riteneva che la decorrenza del termine biennale di prescrizione dell’azione di garanzia per vizi contro l’appaltatore era collegata unicamente alla consegna dell’opera, a nulla rilevando che la ricezione della consegna sia avvenuta da parte del committente con riserva di verifica o senza riserve, sicché quest’ultimo, nonostante ogni riserva di verifica, ove non abbia denunciato entro i due anni dalla consegna le difformità ed i vizi, non poteva più far valere la garanzia in questione né in via di azione, né in via di eccezione, trovando applicazione l’art. 1667, comma 3, anche nell’appalto di opere pubbliche (Sez. 2, n. 01146/1982, Giardina, Rv. 419028-01). La successiva giurisprudenza aveva, diversamente, sostenuto la tesi secondo cui «solo a partire dall’esito del [collaudo] prendono corpo e significato sia la tematica dell’accettazione dell’opera, sia quella di un’eventuale decadenza del committente dalla possibilità di far valere difformità e vizi, sia infine quella della prescrizione dell’azione volta a far valere la garanzia per tali vizi» (Sez. 1, n. 10992/2004, Fittipaldi, Rv. 573509-01). La sentenza del 2019 rileva che la premessa concettuale su cui si basa questo secondo indirizzo è che alla consegna dell›opera pubblica prima del collaudo non è applicabile la presunzione di accettazione dell›opera di cui all›art. 1665, comma 4, c.c., giacché la consegna di un›opera siffatta non può che intendersi attuata con riserva di verifica, essendo il solo collaudo l’atto formale indispensabile ai fini dell›accettazione dell›opera da parte della pubblica amministrazione. La Corte osserva che seppure la suddetta premessa è condivisibile, non è sufficiente a giustificare, in mancanza di una specifica norma di legge che lo consenta, una deroga così sensibile al regime di un termine, qual è quello stabilito dall›art. 1667, comma 3, c.c. che, come riconosciuto anche dall’indirizzo maggioritario, «non [è] derogato da alcuna norma della disciplina sugli appalti di opere pubbliche» (Sez. 1, n. 00271/2004, Morelli, Rv. 569401-01). Seguendo il suddetto indirizzo si dovrebbe ritenere che il termine di prescrizione non decorra per l›amministrazione committente nemmeno quando siano scaduti (e da molti anni) i termini – di cui all›art. 5, commi 1 e 4, della legge n. 741 del 1981, applicabili e successivamente previsti dal codice dei contratti pubblici (cfr. artt. 141, commi 1 e 3, del d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163, e 102, comma 3, del d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50) – entro i quali essa è tenuta per legge, dopo l›ultimazione dei lavori, ad eseguire e approvare il collaudo, mentre l›appaltatore sarebbe esposto sine die a subire l’azione di garanzia negli anni successivi.

Viene rilevato che tale soluzione si pone in contrasto con l’orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo il quale l’amministrazione appaltante non può ritardare sine die le proprie determinazioni relative alle operazioni di collaudo, paralizzando per un tempo indefinito i diritti della controparte, essendo tenuta ad eseguire il contratto nel rispetto degli artt. 1374 e 1375 c.c.; pertanto, se sia fissato espressamente nell’atto – o nella legge – un termine per il compimento delle indicate operazioni e lo stesso trascorra senza che sia adottato alcun provvedimento, tale situazione assume il significato di rifiuto del collaudo e di inadempimento da parte del committente, «tanto più che, nell’appalto di opera pubblica, il soggetto committente ha non solo il diritto ma anche il dovere ineludibile di verificare l’opera prima della consegna attraverso il collaudo» (Sez. 1, n. 00271/2004 cit.). In tale momento si realizzano le condizioni perché, a norma dell›art. 2935 c.c., incominci a decorrere il termine di prescrizione sia per l›appaltatore che intenda far valere i suoi diritti, senza necessità di costituire in mora la debitrice o di assegnarle un termine, sia per l›amministrazione che intenda far valere la garanzia per i vizi e le difformità dell›opera a norma dell›art. 1667, comma 3, c.c. Il mancato compimento delle operazioni di collaudo nel termine di legge o di contratto per causa imputabile all›amministrazione committente non può risolversi a favore della medesima, al fine di procrastinare sine die il decorso del termine per proporre l’azione di garanzia nei confronti dell’appaltatore per i vizi e le difformità dell’opera. Spunti nel senso del collegamento anche temporale tra le operazioni di collaudo e l’esperimento dei mezzi di tutela del committente vengono dalla legislazione recente: «l’esecutore è tenuto alla garanzia per le difformità e i vizi dell’opera» (art. 229, comma 3, del d.P.R. n. 207 del 2010) nel biennio fissato dall›art. 141, comma 3, del d.lgs. n. 163 del 2006 (abrogato dal d.lgs. n. 50 del 2016) perché il certificato di collaudo assuma carattere definitivo; «l’appaltatore risponde per le difformità e i vizi dell’opera, ancorché riconoscibili, purché denunciati dalla stazione appaltante prima che il certificato di collaudo assuma carattere definitivo» (art. 101, comma 5, del d.lgs. n. 50 del 2016).

In conclusione, la sentenza in esame conclude affermando che i termini di decadenza e prescrizione per l’esperimento dell’azione di garanzia per i vizi e difetti dell’opera, di cui all’art. 1667 c.c., nei confronti dell’appaltatore di opera pubblica, iniziano a decorrere dall’approvazione del collaudo riguardo ai vizi e difetti rivelatisi precedentemente o contemporaneamente al suo esperimento, poiché è solo con il collaudo che l’opera può dirsi formalmente accettata dalla P.A. Tale principio è, tuttavia, applicabile sempre che il collaudo sia avvenuto nel rispetto dei termini previsti dalla legge poiché, in mancanza, i suddetti termini di decadenza e prescrizione decorrono dalla scadenza del termine previsto per il collaudo, tranne che il committente dimostri che questo non sia avvenuto per fatto imputabile all’impresa.

Con specifico riferimento al collaudo e alle sue conseguenze la Corte si è occupata di definire se e a quali condizioni da quest’ultimo possono derivare gli effetti previsti dall’art. 5, comma 4, legge n. 741 del 1981, relativo allo svincolo delle ritenute in garanzia. In particolare, la Sez. 1, n. 02477/2019, Caiazzo, Rv. 652544-01, nell’affermare che la suindicata disposizione ha carattere generale applicabile a tutte le procedure di esecuzione di opere pubbliche, ha precisato che essa, nel prevedere i termini entro i quali deve essere compiuto il collaudo, delinea con certezza il periodo superato il quale, perdurando l’inerzia dell’ente committente, quest’ultimo deve ritenersi inadempiente, con la duplice conseguenza che l’appaltatore può agire per il pagamento senza necessità di mettere in mora l’amministrazione e che, dalla scadenza del predetto termine, inizia a decorrere la prescrizione del credito. A fronte di tale principio di ordine generale la Corte ha, poi, precisato che «in tema di appalto di opere pubbliche, il superamento del termine di sei mesi dalla data di ultimazione dei lavori, per la conclusione del collaudo fissato nell’art. 5 della legge 10 dicembre 1981, n. 741 fa sorgere il diritto dell’impresa alla restituzione della cauzione prestata, al pagamento immediato delle ritenute operate a garanzia ed alla estinzione di eventuali fideiussioni. Tuttavia, la presunzione iuris tantum di responsabilità della committenza nel ritardo nell’espletamento del collaudo, dettata dal favor per le ragioni dell’impresa, se incide, alleggerendolo, sul relativo onere della prova, non per questo impedisce alla committenza di provare il contrario. Infatti, una cosa è la fattispecie del ritardo nel collaudo e dei suoi presuntivi, ma vincibili, effetti, altra è la diversa ipotesi della responsabilità dell’impresa per i vizi dei lavori commessi, che non è destinata ad operare, escludendolo, sul diritto alla restituzione delle ritenute in garanzia, ex art. 5, comma 4, legge n. 741 del 1981» (Sez. 1, n. 07194/2019, Scalia, Rv. 653632 - 01). In particolare, nell’applicare tale principio, la Corte ha accolto il motivo di ricorso con il quale veniva denunciata la sentenza della Corte d’appello nella parte in cui aveva ritenuto lo svincolo delle ritenute in garanzia previsto dall’art. 5, comma 4, della legge n. 741 del 1981 destinato a non operare ove insorga tra le parti contestazione nel corso delle operazioni di collaudo sulla corretta esecuzione delle opere. La S.C. ha, infatti, rilevato che i giudici di merito, consentendo agli accertamenti instauratisi tra le parti sulla corretta esecuzione delle opere in fase di collaudo di frapporsi alla immediata restituzione delle ritenute in garanzia operate dalla committenza, senza verificare se il ritardo nelle operazioni di collaudo fosse o meno ascrivibile all’impresa per condotte finalizzate ad impedire il collaudo stesso o alla committenza, ha mancato di fare applicazione degli indicati principi ed ha errato nell’interpretazione della legge, impropriamente intersecando i distinti piani del diritto dell’appaltatrice allo svincolo delle ritenute in garanzia e quello del risarcimento del danno risentito dalla committenza, per la non corretta esecuzione delle opere accertata in sede di collaudo.

4. Appalto e arbitrato.

L’arbitrato in materia di contratti pubblici di lavori è stato oggetto di continui interventi da parte del legislatore che, con gli artt. 241, 242, 243 del d.lgs n. 163 del 2006, ha provveduto a unificarne la disciplina prima di allora contenuta in diverse disposizioni (art. 32, l. n. 109 del 1994, e successive modificazioni; artt. 149, 150 e 151 del regolamento generale di attuazione della suddetta legge, approvato con d.P.R. 21 dicembre 1999, n. 554; artt. 1-12, d.m. 2 dicembre 2000, n. 398; artt. 32, 33, 34, d.m. 19 aprile 2000, n. 145).

Per effetto dell’art. 217, comma 1, lett. e), d.lgs. n. 50 del 2016, a decorrere dal 19 aprile 2016, il d.lgs. n. 163 è stato abrogato, ai sensi di quanto disposto dall’art. 220, risultando, ora, l’arbitrato disciplinato dall’art. 209 del cit. d.lgs.

Per quanto rileva in tale sede, l’originario art. 241 cit., stabiliva «Le controversie su diritti soggettivi, derivanti dall’esecuzione dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi, forniture, concorsi di progettazione e di idee, comprese quelle conseguenti al mancato raggiungimento dell’accordo bonario previsto dall’articolo 240, possono essere deferite ad arbitri».

A fronte di questa iniziale previsione che consentiva il ricorso all’arbitrato, l’art 3, comma 19, della l. n. 244 del 2007 ha introdotto il divieto per le pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001, di inserire clausole compromissorie «in tutti i loro contratti aventi ad oggetto lavori, forniture e servizi ovvero, relativamente ai medesimi contratti, di sottoscrivere compromessi. Le clausole compromissorie ovvero i compromessi comunque sottoscritti sono nulli e la loro sottoscrizione costituisce illecito disciplinare e determina responsabilità erariale per i responsabili dei relativi procedimenti».

Successivamente, il d.lgs. n. 53 del 2010, nel dare attuazione alla direttiva 2007/66/CE che modifica le direttive 89/665/CEE e 92/13/CEE per quanto riguarda il miglioramento dell’efficacia delle procedure di ricorso in materia d’aggiudicazione degli appalti pubblici, ha con l’art. 15 abrogato il cennato art 3 della l. n. 244 del 2007 e, all’art. 5, comma 1, lett. b), inserito il comma 1-bis all’art. 241 cit. Con tale ultima disposizione il legislatore prevedeva che «La stazione appaltante indica nel bando o nell’avviso con cui indice la gara ovvero, per le procedure senza bando, nell’invito, se il contratto conterrà, o meno, la clausola compromissoria. L’aggiudicatario può ricusare la clausola compromissoria, che in tale caso non è inserita nel contratto, comunicandolo alla stazione appaltante entro venti giorni dalla conoscenza dell’aggiudicazione. È vietato in ogni caso il compromesso».

Per effetto delle modifiche introdotte dall’art. 1, commi 19-24, legge n. 190 del 2012 (Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione), l’art 241, nel testo in vigore dal 28 novembre 2012 al 18 aprile 2016, sanciva che «Le controversie su diritti soggettivi, derivanti dall’esecuzione dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi, forniture, concorsi di progettazione e di idee, comprese quelle conseguenti al mancato raggiungimento dell’accordo bonario previsto dall’articolo 240, possono essere deferite ad arbitri, previa autorizzazione motivata da parte dell’organo di governo dell’amministrazione. L’inclusione della clausola compromissoria, senza preventiva autorizzazione, nel bando o nell’avviso con cui è indetta la gara ovvero, per le procedure senza bando, nell’invito, o il ricorso all’arbitrato, senza preventiva autorizzazione, sono nulli».

Il medesimo art. 1 cit. al comma 25 prevedeva che «le disposizioni di cui ai commi da 19 a 24 non si applicano agli arbitrati conferiti o autorizzati prima della data di entrata in vigore della presente legge».

Infine, oggi, per effetto dell’art. 209 del d.lgs. n. 50 del 2016, è previsto che «Le controversie su diritti soggettivi, derivanti dall’esecuzione dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi, forniture, concorsi di progettazione e di idee, comprese quelle conseguenti al mancato raggiungimento dell’accordo bonario di cui agli articoli 205 e 206 possono essere deferite ad arbitri. L’arbitrato, ai sensi dell’articolo 1, comma 20, della legge 6 novembre 2012, n. 190, si applica anche alle controversie relative a concessioni e appalti pubblici di opere, servizi e forniture in cui sia parte una società a partecipazione pubblica ovvero una società controllata o collegata a una società a partecipazione pubblica, ai sensi dell’articolo 2359 del codice civile, o che comunque abbiano ad oggetto opere o forniture finanziate con risorse a carico dei bilanci pubblici. 2. La stazione appaltante indica nel bando o nell’avviso con cui indice la gara ovvero, per le procedure senza bando, nell’invito, se il contratto conterrà o meno la clausola compromissoria. L’aggiudicatario può ricusare la clausola compromissoria, che in tale caso non è inserita nel contratto, comunicandolo alla stazione appaltante entro venti giorni dalla conoscenza dell’aggiudicazione. È vietato in ogni caso il compromesso. 3. È nulla la clausola compromissoria inserita senza autorizzazione nel bando o nell’avviso con cui è indetta la gara ovvero, per le procedure senza bando, nell’invito. La clausola è inserita previa autorizzazione motivata dell’organo di governo della amministrazione aggiudicatrice (…)».

Il quadro normativo sopra riportato pone in luce il difficile bilanciamento perseguito dal legislatore tra le diverse esigenze che pone il ricorso all’arbitrato nei contratti della pubblica amministrazione. Da un lato, infatti, l’istituto in esame risponde all’esigenza, avvertita non solo in ambito nazionale, ma più in generale in quello europeo, di rendere più efficaci le procedure di risoluzione delle controversie relative agli appalti pubblici, con conseguente contenimento anche dei relativi costi rispetto ai contenziosi ordinari. Dall’altro lato, il legislatore, proprio in ragione della portata dell’arbitrato quale strumento di risoluzione delle controversie diverso da quello rimesso alla giurisdizione ordinaria, ne ha previsto l’operatività previo rispetto di specifici presupposti tra i quali l’autorizzazione da parte dell’organo di governo della singola pubblica amministrazione.

È con riferimento alla portata applicativa delle disposizioni che hanno introdotto, quale requisito di validità della clausola compromissoria, la preventiva autorizzazione che la giurisprudenza di legittimità si è pronunciata nel corso del 2019. In particolare, la questione è quella di individuare la disciplina cui devono essere sottoposti quei contratti di appalto stipulati in epoca antecedente alla previsione della necessaria autorizzazione sopra indicata.

La Corte (Sez. 1, n. 13410/2019, Falabella, Rv. 654256-01) ha esaminato la controversia che traeva origine da un contratto di appalto stipulato il 23 dicembre 2008 dall’Università della Calabria avente ad oggetto la realizzazione dei lavori di costruzione di un complesso residenziale per studenti. In tale contratto era contenuta una clausola che devolveva le controversie tra le parti alla competenza di un collegio arbitrale.

Nel corso del rapporto, la società appaltante notificava alla committente «atto introduttivo di arbitrato e nomina di arbitro», instando per la costituzione del collegio arbitrale previsto dalla clausola compromissoria. L’Università, dopo aver provveduto, a sua volta, a nominare il proprio arbitro e a svolgere le proprie deduzioni difensive, successivamente eccepiva che la clausola compromissoria contenuta nel contratto di appalto dovesse ritenersi inefficace in forza di quanto disposto dall’art. 1, comma 19, della legge n. 190 del 2012, con cui era stato modificato l’art. 241 d.lgs. n. 163 del 2006.

Il collegio arbitrale dichiarava la propria competenza, disattendendo, quindi, l’eccezione pregiudiziale dell’Università, e accoglieva parzialmente le domande dell’appaltatrice.

La Corte d’appello rigettava il gravame proposto dall’Università.

Avverso tale decisione l’Università proponeva ricorso per cassazione denunciando, tra l’altro, la violazione e falsa applicazione dell’art. 241 del d.lgs. n. 163 del 2006, come modificato dall’art. 1, commi 19 ss., della legge n. 190 del 2012. In particolare, la ricorrente si doleva del fatto che il lodo era stato pronunciato da collegio arbitrale incompetente, in quanto la clausola compromissoria contenuta nel contratto di appalto era nulla o comunque inefficace, alla luce della disciplina transitoria del regime introdotto dal cit. art. 1 della l. n. 190 del 2012 (contenuta nel comma 25 dell’articolo). In ragione di tale disciplina, la ricorrente contestava che l’arbitrato potesse dirsi «autorizzato» dall’organo di governo dell’Università.

La Corte ha affermato la fondatezza della censura sul presupposto della natura non arbitrabile della controversia. In proposito la Corte ha affermato che per effetto dell’art. 1, comma 25, cit., il novellato art. 241 del d.lgs. n. 163 del 2006 non si applica agli arbitrati conferiti o autorizzati prima della data di entrata in vigore della legge n. 190 del 2012; autorizzazione che non può essere individuata, come avvenuto nel caso di specie, nella preventiva approvazione, da parte dell’organo competente, dello schema di contratto contenente la clausola compromissoria. La delibera avente ad oggetto la suddetta approvazione costituisce, infatti, l’atto attraverso cui ha sbocco il procedimento di formazione della volontà della pubblica amministrazione e con cui questa dispone in ordine alla stipulazione del negozio, conferendo all’organo qualificato alla rappresentanza dell’ente il potere di porlo in essere. Tale delibera appartiene alla fisiologia dell’evidenza pubblica e, come tale, costituisce un tratto comune dei contratti della P.A. non potendo, quindi, integrare l’autorizzazione prevista dalla l. n. 190 del 2012.

Rileva la Corte che se il legislatore avesse inteso identificare tale atto nell’autorizzazione di cui al cit. comma 25, avrebbe semplicemente escluso che le disposizioni introdotte con la l. n. 190 del 2012 si estendessero ai contratti conclusi prima dell’entrata in vigore di essa o, meglio, avrebbe anche potuto evitare di introdurre la disciplina transitoria prevista dalla disposizione in esame.

A sostegno di tale interpretazione si pone, poi, il tenore letterale della norma che fa menzione di «arbitrati conferiti o autorizzati»; espressione che non è riferibile alla clausola compromissoria inserita nel contratto, la quale è deputata a stabilire, in via preventiva e in termini necessariamente generali, che le controversie nascenti dal contratto saranno decise da arbitri. Diversamente l’espressione utilizzata dal legislatore deve intendersi riferita a liti specificamente individuate, già introdotte con la nomina degli arbitri (arbitrati «conferiti») o per le quali, pur non essendo intervenuta tale nomina, l’ente abbia espresso la propria volontà di avvalersi della clausola arbitrale (arbitrati «autorizzati»).

Rileva, poi, la Corte che sarebbe incongruo ritenere che le stringenti esigenze di contenimento dei costi collegati alle controversie che vedono la partecipazione degli enti pubblici, di tutela degli interessi di cui questi sono portatori e di contrasto all’illegalità all’interno della P.A. — interessi che il legislatore ha inteso salvaguardare subordinando il deferimento delle controversie ad arbitri a una preventiva autorizzazione amministrativa che assicurasse la ponderata valutazione degli interessi coinvolti e delle circostanze del caso concreto (cfr. Corte cost. 9 giugno 2015, n. 108) — siano affidate a un intervento legislativo che, non applicandosi, di fatto, a tutti i contratti (contenenti clausole compromissorie) perfezionati prima dell’entrata in vigore della legge, si rivelerebbe in gran parte inoperante.

Diversamente, il comma 25 dell’art. 1 cit., ha sottratto alla necessità di un’autorizzazione motivata (e quindi espressa) dell’organo competente quelle sole procedure arbitrali per cui, alla data dell’entrata in vigore della legge, si fosse già fatto luogo alla nomina degli arbitri, o che risultassero comunque prossime ad essere introdotte, avendo la pubblica amministrazione già manifestato, nei fatti, la propria volontà di attivare il giudizio arbitrale. In queste due ipotesi l’esclusione dell’applicazione della disciplina trova fondamento in ragioni di economia processuale, giacché evita che il procedimento iniziato prima dell’entrata in vigore della legge, o che la P.A. abbia prima di allora specificamente autorizzato (e introdotto dopo), sia vanificato dalla mancanza dell’autorizzazione prevista dal comma 19.

In sostanza, per effetto dei passaggi argomentativi sopra riportati, per gli appalti stipulati in epoca antecedente alla novella della l. n. 190 del 2012, il termine “autorizzati” da essa prevista, richiede che l’amministrazione abbia emesso apposito e specifico atto relativo all’arbitrato, diversamente essi sono soggetti alla disciplina introdotta con la legge del 2012.

La Corte, infatti, precisa che nei casi in cui la clausola compromissoria non abbia trovato applicazione, né la pubblica amministrazione abbia espresso la volontà di valersene, non vi é invece ragione di escludere la necessità di una nuova pattuizione (di devoluzione della controversia agli arbitri), da adottarsi sulla base di un’apposita autorizzazione motivata, in base al comma 19: anche se resta salva la possibilità, da parte dell’organo di governo della P.A., di scongiurare ex post, attraverso il rilascio di un’autorizzazione pure motivata, che la clausola già in essere sia colpita da inefficacia sopravvenuta, assumendo sul punto rilievo il precedente della Sez. 6-1, n. 29255/2017, Mercolino Rv. 647024-01.

Gli arresti giurisprudenziali indicati risultano oggetto di sostanziale conforme interpretazione da parte dell’ANAC, nella determinazione n. 6, del 18 dicembre 2013 (pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 18 del 23 gennaio 2014), con la quale la stessa ha affrontato, tra l’altro, i profili di diritto intertemporale relativi all’applicazione del comma 19.

In tale documento viene rilevato che per effetto del comma 25 cit. deve essere esclusa l’applicazione del comma 19 agli arbitrati conferiti o autorizzati prima della data di entrata in vigore della legge; pertanto, l’illustrato comma 19 si applica agli altri casi, con la rilevante conseguenza che dovranno «ritenersi inefficaci quelle clausole compromissorie, ancorché contrattualmente assunte dalle parti, non previamente autorizzate dall’organo di governo». In sostanza, nel documento in esame si conclude che il comma 19 «deve essere interpretato come diretto a porre, rispetto all’originario contenuto del regolamento contrattuale, una nuova norma imperativa condizionante l’autonomia contrattuale delle parti, essendo assente una norma transitoria che preveda l’ultrattività della previgente disciplina normativa, sicché la clausola compromissoria contrattualmente prevista risulta sostanzialmente privata della relativa operatività».

Per effetto di tale interpretazione, può concludersi che in assenza di previa autorizzazione dell’organo di governo (non prevista dalla normativa previgente), le clausole compromissorie contenute nei bandi di gara antecedenti all’entrata in vigore della norma sono affette da nullità sopravvenuta con salvezza dei soli arbitrati già conferiti o autorizzati prima di detta data (art. 1, comma 25).

In proposito l’ANAC nel documento sopra cennato precisa che «per arbitrato conferito deve intendersi quello in cui l’ente abbia operato la designazione (con conseguente accettazione) dell’arbitro; per arbitrato autorizzato deve, invece, intendersi l’arbitrato per il quale, prima dell’entrata in vigore della legge n. 190 del 2012, sia intervenuto il consenso dell’ente di appartenenza dell’arbitro, se del caso da parte dell’organo di autogoverno».

L’ANAC, infine, ha osservato che le disposizioni in esame lasciavano irrisolta la questione relativa all’inclusione nel potere di previa autorizzazione, riconosciuto all’organo di governo, anche del potere di convalidare, motivando espressamente, le clausole arbitrali già inserite nei bandi per gli arbitrati non ricadenti nell’ipotesi di cui all’art. 1, comma 25. In particolare, l’ANAC rileva che, se da un lato, l’impossibilità di convalidare le pregresse clausole compromissorie può ritenersi conforme alla ratio della novella, intesa a limitare il ricorso all’arbitrato, dall’altro, tale impossibilità si porrebbe in contrasto con il potere espressamente riconosciuto all’organo di governo dell’amministrazione di contemplarle pro futuro. A fronte di ciò, la determinazione in esame individua quale soluzione migliore quella che, al fine di evitare un’irragionevole disparità di trattamento tra i contratti futuri, per i quali è sempre possibile rendere l’autorizzazione, in conformità al comma 19 dell’art.1 della l. n. 190 del 2012, ed i contratti in corso, in ordine ai quali i relativi bandi di gara rechino clausole arbitrali (pur in assenza dell’autorizzazione alla data di entrata in vigore della legge sopra richiamata), è ammissibile, anche per quest’ultimi il rilascio di un’autorizzazione a posteriori.

Tornando al caso sottoposto all’attenzione con la sentenza n 13410 del 2019, la Corte conclude affermando che per i contratti di appalto conclusi prima dell’entrata in vigore della l. n. 190 del 2012, nel caso in cui l’arbitrato non fosse stato conferito o autorizzato, per effetto del comma 25 dell’art. 1 di detta legge, era necessaria la presenza di apposita autorizzazione che non poteva identificarsi con la delibera con cui veniva approvato il contratto, poi concluso, dovendosi piuttosto aver riguardo agli atti con cui la pubblica amministrazione avesse manifestato, con riferimento a una controversia specificamente individuata, la volontà di avvalersi della clausola arbitrale.

5. La responsabilità dell’amministrazione committente per danni da inadempimento in tema di appalto per la ricostruzione di immobili a seguito di evento sismico.

La Sez. 2 n. 32991/2019, Carrato, Rv. 656218-01, ha affermato il principio che in tema di appalto per interventi di ricostruzione e di immobili a seguito di eventi sismici, per i danni derivanti da omessa, parziale o carente riattazione, è configurabile la responsabilità, non solo dell’appaltatore, ma anche dell’amministrazione committente, alla luce degli obblighi sulla medesima incombenti con riferimento alla fase iniziale di progettazione dei lavori, a quelle successive dell’esecuzione e dell’ultimazione delle opere appaltate e a quella finale dell’accertamento della conformità delle opere stesse a quelle progettate con conseguente loro collaudo.

A tale conclusione la Corte è giunta dopo aver osservato che, vertendosi in tema di esecuzione di opere di riattazione di immobili danneggiati dagli eventi sismici (nella specie verificatisi in Abruzzo nel 1984), il quadro di riferimento normativo è riconducibile, soprattutto, alla fonte normativa generale e principale di cui alla legge 14 maggio 1981, n. 219, oltre che alle correlate normative, circolari e regolamentazioni secondarie che hanno contribuito all’attuazione in concreto degli interventi in favore delle popolazioni colpite dai suddetti eventi calamitosi. In virtù di ciò è pacifico, nel caso di specie, che i ricorrenti - cui fu riconosciuto il diritto a ricevere le necessarie provvidenze economiche sotto forma di contributi pubblici per la riattazione del loro immobile - si erano avvalsi della facoltà (desumibile, essenzialmente, dal combinato disposto degli artt. 8, lett. d), e 10, ultimo comma, della citata legge n. 219/1981) di delegare al competente Comune la progettazione, l’esecuzione e la gestione dei lavori che avrebbero, perciò, essere dallo stesso appaltati per la loro realizzazione. Prosegue la Corte che sulla scorta di questa scelta il Comune avrebbe, quindi, dovuto provvedere alla conclusione del relativo contratto affidando le opere ad un’apposita ditta per la loro attuazione e provvedendo, nel contesto di tale rapporto contrattuale, anche alla designazione del progettista, del direttore dei lavori e ad adottare le conseguenti determinazioni per il collaudo finale prima della riconsegna dell’unità immobiliare ai proprietari aventi diritto al suo riottenimento in seguito all’intervento di riattazione (coperto da contribuzione pubblica), tale da consentire la piena riagibilità e riabitabilità per effetto dell’esecuzione delle opere in conformità alle regole prescritte dalla normativa di riferimento, anche sul piano edilizio.

La sentenza in esame cassa quella emessa dalla Corte d’appello che ha imputato esclusivamente alle ditte appaltatrici l’inadempimento nell’esecuzione delle opere così disattendo la rilevanza degli specifichi obblighi incombenti sul Comune committente in virtù dell’applicazione della dettagliata e rigorosa normativa di riferimento di cui sopra, il cui inesatto rispetto avrebbe dovuto condurre, prosegue la Corte, all’affermazione di una responsabilità - quantomeno in via concorsuale - del medesimo ente appaltante. Quest’ultimo era, invero, tenuto ad esercitare precisi poteri (assolvendo, contestualmente, a specifici obblighi legali) che avrebbero dovuto imporgli di mettere in atto le necessarie attività di ingerenza, di propulsione e di adeguata (oltre che continua) sorveglianza nella realizzazione dell’intervento di riattazione in questione, finalizzate a garantire il corretto svolgimento dei lavori, l’esatta esecuzione delle opere progettate (da professionista dallo stesso ente nominato) e, quindi, implicanti l’indispensabile controllo, preliminare e successivo (anche mediante l’espletamento del collaudo finale e il rilascio della correlata certificazione), della conformità a legge e alle prescritte regole tecniche delle opere stesse onde garantire il soddisfacimento effettivo del pubblico interesse sotteso al compimento del procedimento di ricostruzione immobiliare resosi necessario per eventi sismici e supportato dall’erogazione di fondi pubblici. Viene posto in luce come la normativa riportata impone al Comune committente di curare – rispettando la necessaria diligenza per questo tipo di intervento con l’esercizio di un continuo controllo con riferimento alla parte propedeutica, di esatta realizzazione e di collaudo finale – la progettazione, l’esecuzione e la gestione degli lavori, non potendosi, quindi, accollare la responsabilità esclusiva dell’esito finale ed incompiuto dell’intervento di riattazione alla sola ditta appaltatrice (la verifica della cui idoneità a realizzare tale tipo di lavori spetta allo stesso ente appaltante).

  • società
  • fallimento

CAPITOLO XXVII

LE SOCIETÀ IN HOUSE PROVIDING

(di Eleonora Reggiani )

Sommario

1 Il quadro normativo. - 2 Una visione d’insieme. - 3 I tratti distintivi delle società in house providing. - 4 Il fallimento. - 5 L’azione di responsabilità sociale contro i componenti degli organi sociali e i dipendenti. - 6 L’azione di responsabilità ex art. 146 l.fall. - 7 La revoca degli amministratori nominati ai sensi dell’art. 2449 c.c. - 8 Altre questioni.

1. Il quadro normativo.

La figura della società in house è nata nel diritto europeo, per descrivere le ipotesi in cui si può eccezionalmente derogare alle regole della concorrenza per il mercato, mediante il ricorso a forme di affidamento diretto di compiti relativi alla realizzazione di opere pubbliche o alla gestione di servizi pubblici, senza che siano avviate le procedure di evidenza pubblica di scelta del contraente.

Com’è noto, la direttiva 2006/123/CE, relativa ai servizi nel mercato interno, lascia liberi gli Stati membri di decidere le modalità organizzative della prestazione dei servizi d’interesse economico generale (art. 1, par. 6). È perciò certamente consentito che, in conformità ai principi generali del diritto comunitario, gli enti pubblici scelgano se espletare tali servizi direttamente o tramite terzi e che, in quest’ultimo caso, individuino diverse forme di esternalizzazione, ivi compreso l’affidamento a società partecipate dall’ente pubblico medesimo.

In tale ambito, si possono dare ipotesi ben distinte: l’affidamento a società totalmente estranee alla P.A., l’affidamento a società con azionariato misto (in parte pubblico ed in parte privato) e l’affidamento a società in house.

Solo in quest’ultimo caso la Corte di giustizia UE ha escluso la necessità del preventivo ricorso a procedure di evidenza pubblica, muovendo dal presupposto che non sussistono esigenze di tutela della concorrenza, delineando tuttavia con estremo rigore i requisiti che consentono di individuare una società in house.

Pur trattandosi, fino a un certo periodo, di una figura di origine eminentemente giurisprudenziale, la società in house non ha tardato ad acquisire cittadinanza anche nella legislazione nazionale. Se ne trova menzione in molteplici sparse disposizioni normative, talvolta con mero richiamo alle caratteristiche richieste dalla citata giurisprudenza europea, altre volte con più specifica indicazione dei requisiti occorrenti perché sia integrata tale figura.

Particolare risalto ha assunto, in questo contesto, il disposto dell’art. 113, comma 4, del d.lgs. n. 267 del 2000 (T.U. delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), come riformulato dall’art. 14 del d.l. n. 269 del 2003, n. 269 (conv., con modif., in l. n. 326 del 2003), che, in presenza di determinate condizioni, ha consentito espressamente l’affidamento di servizi pubblici (anziché ad imprese terze, da individuare mediante procedure di evidenza pubblica) a società di capitali, costituite per quello scopo e partecipate totalitariamente da soci pubblici, purché realizzino la parte più importante della loro attività con gli enti che le controllano e purché questi ultimi esercitino sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui loro servizi.

Tali norme non sono state adeguatamente coordinate tra loro e non hanno fornito una disciplina unitaria e organica della materia. Si è trattato piuttosto di interventi frammentari, adottati in contesti storici diversi, al fine di perseguire finalità di volta in volta imposte da esigenze contingenti senza un disegno coerente di lungo periodo.

Con il d.lgs. n. 175 del 2016, modificato dal d.lgs. n. 100 del 2017, è stato finalmente adottato il T.U. in materia di società a partecipazione pubblica (di seguito anche T.U.S.P.) in attuazione della delega conferita al governo dagli artt. 16 e 18 della l. n. 124 del 2015.

In particolare, l’art. 16 della l. n. 124 del 2015 ha delegato il governo ad emanare «il decreto legislativo per il riordino della disciplina in materia di partecipazioni societarie delle amministrazioni pubbliche» con l’obiettivo prioritario «di assicurare la chiarezza della disciplina» e «la semplificazione normativa».

Lo scopo dell’intervento è stato quello di semplificare e razionalizzare le regole vigenti in materia, attraverso il riordino delle disposizioni nazionali e di creare una disciplina generale organica, senza mutare totalmente il quadro di riferimento, ma favorendo fenomeni già in atto che, in certi casi, avevano trovato ostacoli proprio nella mancanza di norme adeguate o non adeguatamente coordinate.

Le disposizioni del T.U. hanno così assunto per oggetto «la costituzione di società da parte di amministrazioni pubbliche, nonché l’acquisto, il mantenimento e la gestione di partecipazioni, da parte di tali amministrazioni, in società a totale o parziale partecipazione pubblica, diretta o indiretta» (art. 1, comma 1, T.U.S.P.).

Specifico rilievo è stato dato ai profili del “mantenimento” e della “gestione” delle partecipazioni, perché la stretta rispondenza all’interesse pubblico deve permanere per tutta la durata della partecipazione alla società.

E in effetti, il testo normativo disciplina le misure di razionalizzazione della partecipazione, che non si esprimono soltanto con la riduzione del numero delle società partecipate, ma intervengono anche sui sistemi di governance e sui modelli organizzativi.

La regolamentazione è stata impostata prevedendo come genus quello delle società a partecipazione pubblica, che contiene al suo interno, come species, sia le società controllate sia le società in house.

Vi è infatti una disciplina comune, che si applica a tutte le società a partecipazione pubblica (ad esempio l’art. 12 T.U.S.P.). Vi sono poi norme che riguardano solo le società a controllo pubblico (in particolare gli artt. 6, 11 e 13 T.U.S.P.) e altre che regolano solo le società in house (l’art. 16 del medesimo T.U.S.P.). Le società quotate a partecipazione pubblica hanno poi una disciplina tutta particolare (artt. 3 e 18 dello stesso T.U.S.P.).

In tale quadro, assume rilievo fondamentale il disposto dell’art. 1, comma 3, T.U.S.P., “norma di chiusura” del T.U., perché evidenzia l’impostazione che ha scelto il legislatore delegato nell’attuare la delega.

In tale disposizione, e salve le deroghe poi indicate, si legge infatti che «Per tutto quanto non derogato dalle disposizioni del presente decreto, si applicano alle società a partecipazione pubblica le norme sulle società contenute nel codice civile e le norme generali di diritto privato».

La norma sostituisce il disposto dell’art. 4, comma 13, del d.l. n. 95 del 2012, conv., con modif., in l. n. 135 del 2012 (abrogato dall’art. 28 T.U.S.P.), ove era previsto che per quanto non diversamente stabilito, e salvo deroghe espresse, si applica comunque (alle società a partecipazione pubblica) la disciplina del codice civile in materia di società di capitali.

Ad entrambe le disposizioni normative appena richiamate la giurisprudenza ha attribuito una grande importanza, perché le ha considerate “clausole ermeneutiche generali” di chiusura (v. già Sez. U, n. 01237/2015, Spirito, Rv. 673757-01 e da ultimo, in motivazione, Sez. U, n. 29078/2019, Scaldaferri, Rv. 656056-01), che, in assenza di diverse previsioni normative, legittimano una lettura in chiave privatistica degli istituti, anche per il tempo che precede la loro entrata in vigore.

E in effetti, nell’intento del legislatore delegato, la riconduzione a sistema, che costituisce primario interesse della delega, passa, in assenza di disposizioni contrarie, attraverso il rinvio alla disciplina privatistica. In altre parole, salve espresse deroghe previste dalla legge, il T.U.S.P. rappresenta la disciplina generale di tutte le società a partecipazione pubblica e, ove sia carente, è integrato dalla disciplina privatistica comune.

Di recente, anche il codice della crisi di impresa (d.lgs. n. 14 del 2019, non ancora in vigore) ha prestato attenzione alle particolari figure di società in esame, facendo espressamente salve le disposizioni delle leggi speciali in materia di crisi d’impresa delle società pubbliche (art. 1, comma 3), ritenendo tali le società a controllo pubblico, le società a partecipazione pubblica e le società in house di cui all’art. 2, lett. m), n), o), del menzionato d.lgs. n. 175 del 2016 (art. 2, comma 1, lett. f).

2. Una visione d’insieme.

Nell’anno in rassegna, la Corte di cassazione ha adottato alcune statuizioni che hanno riguardato le società in house, senza apportare significativi mutamenti giurisprudenziali, ma rafforzando i percorsi interpretativi già intrapresi.

Le decisioni hanno riguardato in particolare la dichiarazione di fallimento, l’azione di responsabilità sociale (anche ex art. 146 l.fall.) e i casi di revoca degli organi di gestione e controllo ex art. 2449 c.c., evidenziando volta per volta, ove necessario, gli elementi di continuità e gli spunti evolutivi rinvenibili.

3. I tratti distintivi delle società in house providing.

Com’è noto, la Corte di giustizia UE ha inizialmente escluso la necessità del preventivo ricorso a procedure di evidenza pubblica, muovendo dal presupposto che non sussistono esigenze di tutela della concorrenza, quando la società affidataria sia interamente partecipata dall’ente pubblico, eserciti in favore del medesimo la parte più importante della propria attività e sia soggetta al suo controllo, in termini analoghi a quelli in cui si esplica il controllo gerarchico dell’ente sui propri stessi uffici (Corte di giustizia, 18 novembre 1999, causa C-107/98, Teckal).

Le caratteristiche della società in house, come delineate dalla sopra menzionata giurisprudenza della Corte di giustizia, sono dunque: i) la natura esclusivamente pubblica dei soci; ii) l’esercizio dell’attività in prevalenza a favore dei soci stessi; iii) la sottoposizione ad un controllo corrispondente a quello esercitato dagli enti pubblici sui propri uffici.

In ordine alla prima di esse, giova ricordare come la giurisprudenza europea abbia ammesso la possibilità che il capitale sociale faccia capo ad una pluralità di soci, purché si tratti sempre di enti pubblici (Corte di giustizia, 10 settembre 2009, causa C-573/07, Sea, e Corte di giustizia, 13 novembre 2008, causa C-324/07, Coditel Brabant), richiedendo pur sempre che lo statuto inibisca in modo assoluto la possibilità di cessione a privati delle partecipazioni societarie di cui gli enti pubblici siano titolari.

La prevalente destinazione dell’attività in favore dell’ente o degli enti partecipanti alla società, pur presentando innegabilmente un qualche margine di elasticità, postula in ogni caso che l’attività accessoria non sia tale da implicare una significativa presenza della società, quale concorrente con altre imprese sul mercato di beni o servizi. Come puntualizzato da Corte cost. 23 dicembre 2008, n. 439, anche sulla scorta della giurisprudenza comunitaria (Corte di giustizia, 11 maggio 2006, causa C-340/04, Carbotermo), non si tratta di una valutazione solamente di tipo quantitativo, da operare con riguardo esclusivo al fatturato ed alle risorse economiche impiegate, dovendosi invece tenere conto anche dei profili qualitativi e della prospettiva di sviluppo in cui l’attività accessoria eventualmente si pone. In definitiva, quel che soprattutto importa è che l’eventuale attività accessoria, oltre ad essere marginale, rivesta una valenza meramente strumentale rispetto alla prestazione del servizio d’interesse economico generale, svolto dalla società in via principale.

Per quanto riguarda il controllo analogo, quel che rileva è che l’ente pubblico partecipante abbia statutariamente il potere di dettare le linee strategiche e le scelte operative della società in house, i cui organi amministrativi vengono a trovarsi in posizione di vera e propria subordinazione gerarchica. L’espressione “controllo” non allude infatti all’influenza dominante che il titolare della partecipazione maggioritaria (o totalitaria) è di regola in grado di esercitare sull’assemblea della società e, di riflesso, sulla scelta degli organi sociali, come avviene ordinariamente in base al diritto comune, ma si tratta di un potere di comando direttamente esercitato sulla gestione dell’ente con modalità e con un’intensità non riconducibili ai diritti ed alle facoltà che normalmente spettano al socio (fosse pure un socio unico) in base alle regole dettate dal codice civile, che si spinge sino al punto che agli organi della società non resta affidata nessuna rilevante autonomia gestionale.

Siffatte indicazioni sono state pienamente recepite, in ambito nazionale, dalla giurisprudenza amministrativa, contabile ed anche dalla giurisprudenza della Corte di cassazione (v. tra le tante, Sez. U, n. 22409/2018, Virgilio, Rv. 650605-01).

Con l’entrata in vigore delle direttive 2014/23/UE (sull’aggiudicazione dei contratti di concessione), 2014/24/UE (sugli appalti pubblici) e 2014/25/UE (sulle procedure d’appalto degli enti erogatori nei settori dell’acqua, dell’energia, dei trasporti e dei servizi postali), la materia ha trovato una espressa disciplina normativa a livello europeo, ma i requisiti normativi qualificanti la società in house non sono propriamente identici a quelli finora considerati.

In particolare, l’art. 12 della direttiva 2014/24/UE (ma analoghe disposizioni si trovano nell’art. 17 della direttiva 2014/23/UE e nell’art. 28 della direttiva 2014/25/UE) ha modificato tali requisiti, perché, ferma la necessità del controllo analogo: 1) ha ammesso eccezionalmente forme di partecipazione di capitali privati, che non comportano controllo o potere di veto, che siano prescritte dalle disposizioni legislative nazionali in conformità dei trattati, e che non esercitino un’influenza determinante sulla persona giuridica controllata; 2) ha indicato in modo puntuale, nel limite superiore all’80 per cento, l’entità dell’attività che deve essere svolta a favore dell’amministrazione pubblica.

Il mutamento delle condizioni per la qualificazione di una società come società in house risulta in modo chiaro nel sistema di diritto interno da quanto, sul punto, è previsto nel sopra richiamato d.lgs. n. 175 del 2016, che sostanzialmente riproduce quanto stabilito nel d.lgs. n. 50 del 2016 (codice dei contratti pubblici), con il quale è stata data attuazione alle sopra menzionate direttive.

La definizione di società in house è contenuta all’art. 2, comma 1, lett. o) TU.S.P., laddove si legge «Ai fini del presente decreto si intendono: … o) “società in house”: le società sulle quali un’amministrazione esercita il controllo analogo o più amministrazioni esercitano il controllo analogo congiunto, nelle quali la partecipazione di capitali privati avviene nelle forme di cui all’articolo 16, comma 1, e che soddisfano il requisito dell’attività prevalente di cui all’articolo 16, comma 3.»

Il richiamato art. 16 T.U.S.P. al comma 1 stabilisce che la società non deve prevedere la partecipazione di capitali privati, ad eccezione di quella prescritta da norme di legge, che avvenga in forme che non comportino controllo o potere di veto, né l’esercizio di un’influenza determinante sulla società controllata, e al comma 3 precisa che gli statuti delle società devono prevedere che oltre l’80 per cento del loro fatturato sia effettuato nello svolgimento dei compiti a esse affidati dall’ente pubblico o dagli enti pubblici soci.

Si deve tenere presente che al successivo comma 3 bis del medesimo articolo è stabilito che «La produzione ulteriore rispetto al limite di fatturato di cui al comma 3, che può essere rivolta anche a finalità diverse, è consentita solo a condizione che la stessa permetta di conseguire economie di scala o altri recuperi di efficienza sul complesso dell’attività principale della società.»

È evidente che, in questo modo, il legislatore delegato ha consapevolmente previsto una disciplina più rigorosa rispetto al diritto europeo (che non impone alcune condizioni allo svolgimento delle attività ulteriori, ma neppure impedisce che tali condizioni vengano poste dal singolo Stato membro), riducendo l’ambito operativo delle società in house e, per l’effetto, espandendo le regole della concorrenza per il mercato.

Ovviamente il requisito dell’attività prevalente deve permanere durante lo svolgimento dell’attività sociale, tant’è che ai successivi commi 4, 5, e 6 dello stesso articolo è prevista una disciplina dettagliata, per i casi in cui tale requisito non venga mantenuto.

Proprio sul tema delle nuove caratteristiche della società in house, assume grande rilievo una pronuncia delle Sezioni Unite (Sez. U, n. 17188/2018, Cirillo, Rv. 651804-01), ove si è precisato che la direttiva 2014/24/UE, che, come appena evidenziato, ha sensibilmente modificato i requisiti propri della società in house, non si applica alle fattispecie precedenti alla sua pubblicazione sulla G.U. dell’UE (e cioè non è retroattiva) e non è neppure immediatamente esecutiva, perché contiene la previsione di un termine per il suo recepimento, che lo Stato italiano ha pienamente rispettato mediante l’adozione del d.lgs. n. 50 del 2016 (codice dei contratti pubblici).

Nell’anno in rassegna la Corte di cassazione ha ribadito la necessaria esistenza dei requisiti sopra illustrati per poter ritenere esistente una società in house.

In particolare, Sez. U, Sentenza n. 30006/2019, De Stefano, Rv. 656066-01, in una fattispecie in cui una azienda speciale comunale si è trasformata in società per azioni, ha dato fondamentale rilievo alla necessità, per poter ritenere esistente una società in house, che vi fosse il divieto o comunque l’impossibilità di estendere la compagine sociale a soggetti privati.

Inoltre, Sez. U, n. 32608/2019, Giusti, Rv. 656173-01, dopo avere ampiamente illustrato i requisiti necessari per qualificare una società in house, ha affermato che la relativa nozione, come codificata nel d.lgs. n. 175 del 2016, non può spingersi fino a ricomprendere le società partecipate, non da una pubblica amministrazione, secondo la definizione desumibile dall’art. 2, comma 1, lett. a) del d.lgs. n. 175 del 2016, ma da un soggetto – nella specie la Fondazione ENPAM – che, pur svolgendo attività pubblicistica ed essendo conseguenzialmente sottoposto alla vigilanza ministeriale e al controllo della Corte dei conti, assuma tuttavia la qualificazione di ente privato e in tale veste operi all’esterno.

Di fondamentale rilievo è poi Sez. U, n. 16741/2019, Bisogni, Rv. 65654581-01, ove si ribadisce che la cognizione in ordine all’azione di responsabilità, promossa nei confronti degli organi di gestione e di controllo di società di capitali partecipate da enti pubblici, spetta alla Corte dei conti solo nel caso in cui tali società abbiano, al momento delle condotte ritenute illecite, tutti i requisiti per essere definite in house providing, con la precisazione che tali requisiti devono risultare da precise disposizioni statutarie in vigore all’epoca dei fatti (conf., da ultimo, Sez. U, n. 22409/2018, Virgilio, Rv. 650605-01), senza che abbia alcun rilievo la loro ricorrenza in fatto.

Tale precisazione assume fondamentale importanza, perché, con essa, le Sezioni Unite hanno preso espressa posizione su un orientamento che si è andato consolidando nella giurisprudenza contabile, volto a dare rilievo, a prescindere dalle previsioni statutarie, alla situazione esistente di fatto al momento della condotta, e cioè alla detenzione da parte del socio pubblico di tutto il capitale sociale della società partecipata, orientamento che invece non ha avuto l’avallo del giudice di legittimità.

4. Il fallimento.

La giurisprudenza di legittimità già prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 175 del 2016 aveva affermato la soggezione a fallimento delle società a partecipazione pubblica (Sez. 1, n. 21991/2012, Didone, Rv. 624544-013 e Sez. 1, n. 22209/2013, Cristiano, Rv. 628660-01), ribadendo tale principio anche con riferimento alle società in house e con riguardo a fattispecie non disciplinate ratione temporis dal menzionato d.lgs. (Sez. 1, n. 03196/2017, Ferro, Rv. 643865-01 e Sez. 1, n. 17279/2018, Fichera, Rv. 649517-01).

Detto orientamento è stato confermato da Sez. 1, n. 05346/2019, Terrusi, Rv. 653095-01, ove la Corte ha ribadito che le società di capitali con partecipazione in tutto o in parte pubblica sono assoggettate a fallimento, in quanto soggetti di diritto privato, ai sensi dell’art. 1 l.fall., tenuto conto che la posizione dell’ente pubblico all’interno di tali società è unicamente quella di socio in base al capitale conferito.

La Corte ha precisato che tale principio vale anche per le società in house, perché l’eventualità del cd. controllo analogo, mediante il quale l’azionista pubblico svolge un’influenza dominante sull’ente, rendendo il legame partecipativo assimilabile ad una relazione interorganica, non incide sulla distinzione, sul piano giuridico-formale, tra P.A. ed ente privato societario, che è pur sempre centro di imputazione di rapporti e posizioni giuridiche soggettive diverso dall’ente partecipante.

Anche quest’ultima pronuncia ha interessato fattispecie previgenti al d.lgs. n. 175 del 2016, il quale, all’art. 14, ha espressamente assoggettato tutte le società a partecipazione pubblica alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo e, in presenza dei presupposti, a quelle in materia di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza.

Tale disposizione normativa dirime ogni dubbio interpretativo, essendo chiaramente applicabile a tutte le società a partecipazione pubblica, comprese le società soggette a controllo pubblico e quelle in house.

D’altronde, nella relazione illustrativa al d.lgs. cit. si legge che il legislatore delegato non ha ritenuto di accogliere le osservazioni del Consiglio di Stato e della Commissione V Bilancio della Camera, i quali miravano a differenziare la disciplina delle crisi aziendali rispetto a diverse tipologie di società (in house o strumentali), ritenendo tale soluzione contraria all’impostazione privatistica della disciplina delle crisi, attribuita al testo normativo.

Come già evidenziato, tale assetto resterà immutato anche a seguito dell’entrata in vigore del codice della crisi d’impresa (d.lgs. n. 14 del 2019), che ha fatto espressamente salve le disposizioni delle leggi speciali in materia di crisi d’impresa delle società pubbliche (art. 1, comma 3).

5. L’azione di responsabilità sociale contro i componenti degli organi sociali e i dipendenti.

Quest’argomento è stato tra i più controversi soprattutto in dottrina, sebbene la giurisprudenza di legittimità (non sempre in accordo con quella contabile) abbia adottato soluzioni interpretative che nel tempo si sono consolidate.

La questione è quella della sussistenza o meno della giurisdizione della Corte dei conti, ove venga prospettata la responsabilità dei componenti degli organi di amministrazione e di controllo o anche dei dipendenti, per danni cagionati a società a partecipazione pubblica o a società in house. Si tratta, in altre parole, di accertare se in queste ipotesi è configurabile un danno erariale oppure no.

In materia è, com’è noto, intervenuto, l’art. 12 del d.lgs. n. 175 del 2016, il quale al comma 1, prima parte, ha stabilito che «I componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società partecipate sono soggetti alle azioni civili di responsabilità previste dalla disciplina ordinaria delle società di capitali, salva la giurisdizione della Corte dei conti per il danno erariale causato dagli amministratori e dai dipendenti delle società in house».

Nella seconda parte del comma 1 dello stesso articolo, è inoltre previsto che «È devoluta alla Corte dei conti, nei limiti della quota di partecipazione pubblica, la giurisdizione sulle controversie in materia di danno erariale di cui al comma 2 » e al successivo comma 2 è chiarito che «Costituisce danno erariale il danno, patrimoniale o non patrimoniale, subito dagli enti partecipanti, ivi compreso il danno conseguente alla condotta dei rappresentanti degli enti pubblici partecipanti o comunque dei titolari del potere di decidere per essi, che, nell’esercizio dei propri diritti di socio, abbiano con dolo o colpa grave pregiudicato il valore della partecipazione».

Le questioni interpretative preesistenti si sono riversate sulla portata di tali disposizioni, le quali non hanno risolto i contrasti esistenti, ma hanno semplicemente spostato l’oggetto della discussione.

Prima dell’adozione di tali norme, le soluzioni offerte dalla giurisprudenza di legittimità hanno tutte ruotato attorno a due pronunce fondamentali.

In primo luogo si deve richiamare Sez. U, n. 26806/2009, Rordorf, Rv. 610656-01, ove si è affermato che spetta al giudice ordinario la giurisdizione in ordine all’azione di risarcimento dei danni subiti da una società a partecipazione pubblica per effetto di condotte illecite degli amministratori o dei dipendenti (nella specie, consistenti nell’avere accettato indebite dazioni di denaro, al fine di favorire determinate imprese nell’aggiudicazione e nella successiva gestione di appalti), perché non è in tal caso configurabile, avuto riguardo all’autonoma personalità giuridica della società, né un rapporto di servizio tra l’agente e l’ente pubblico titolare della partecipazione, né un danno direttamente arrecato allo Stato o ad altro ente pubblico, idonei a radicare la giurisdizione della Corte dei conti.

In tale decisione, le Sezioni Unite hanno anche precisato che sussiste la giurisdizione contabile, quando l’azione di responsabilità trovi fondamento nel comportamento di chi, quale rappresentante dell’ente partecipante o comunque titolare del potere di decidere per esso, abbia colpevolmente trascurato di esercitare i propri diritti di socio, in tal modo pregiudicando il valore della partecipazione, ovvero nel caso in cui i comportamenti degli amministratori o dei sindaci siano tali da compromettere la ragione stessa della partecipazione sociale dell’ente pubblico o tali da arrecare direttamente pregiudizio al patrimonio del medesimo ente, con la precisazione che in quest’ipotesi l’azione erariale concorre con l’azione civile prevista dagli artt. 2395 e 2476 c.c.

Tranne pronunce isolate, la successiva giurisprudenza di legittimità si è conformata a tale opzione interpretativa, ravvisando però ipotesi che costituiscono eccezioni alla regola e perciò consentono la (concorrente) giurisdizione erariale.

Si tratta, in particolare, delle decisioni che hanno riguardato il danno cagionato a società-enti pubblici (in proposito, v. Sez. U, n. 27092/2009, Bucciante, Rv. 610699-01 e Sez. U, n. 15594/2014, Rordorf, Rv. 631592-01, nonché Sez. U, n. 24737/2016, Frasca, Rv. 641770-01 con riferimento alle società assimilabili agli enti pubblici) e quelle relative al pregiudizio subito dalle società in house.

Proprio con riferimento a questa ultima tipologia di società, occorre richiamare la seconda delle pronunce fondamentali sopra menzionate (Sez. U, n. 26283/2013, Rordorf, Rv. 628437-01), che, appunto, ha per la prima volta esaminato il problema della verifica della giurisdizione contabile nel caso dell’esperimento dell’azione di responsabilità contro amministratori e sindaci di società in house.

In tale sentenza, si è prima di tutto precisato che l’orientamento avviato da Sez. U, n. 26806/2009 deve essere, in via generale, tenuto fermo, anche alla luce della normativa sopravvenuta, che è stata richiamata ed esaminata.

È stata poi analizzata la figura della società in house nel contesto normativo e interpretativo in cui è sorta e, esaminati i requisiti qualificanti già illustrati (all’epoca, la natura esclusivamente pubblica dei soci, l’esercizio dell’attività in prevalenza a favore dei soci stessi e la sottoposizione ad un controllo corrispondente a quello esercitato dagli enti pubblici sui loro uffici), si è rilevato che ciò che davvero è difficile conciliare con la figura della società di capitali, intesa quale persona giuridica autonoma e distinta dai soggetti che in essa agiscono, è la totale assenza, in tale tipologia di società, di un potere decisionale suo proprio, in conseguenza del totale assoggettamento dei suoi organi al potere gerarchico dell’ente pubblico titolare della partecipazione sociale (del tutto distinta dal potere di direzione e di coordinamento di cui all’art. 2497 ss. c.c. e dai particolari diritti riguardanti l’amministrazione, che possono essere conferiti al socio di s.r.l. ai sensi dell’art. 2468, comma 3, c.c.).

Le Sezioni Unite hanno così affermato che la società in house non sembra in grado di collocarsi come un’entità posta al di fuori dell’ente pubblico, che infatti ne dispone come di una propria articolazione interna, aggiungendo che il velo che normalmente nasconde il socio dietro la società è in questi casi squarciato. Non si realizza dunque la distinzione tra socio (pubblico) e società (in house) in termini di alterità soggettiva. L’uso del vocabolo società serve solo a significare che, ove manchino più specifiche disposizioni di segno contrario, il paradigma organizzativo va desunto dal modello societario, ma non può parlarsi di una società di capitali, intesa come persona giuridica autonoma, cui corrisponda un autonomo centro decisionale e di cui sia possibile individuare un interesse suo proprio.

In conseguenza di ciò, le medesime Sezioni Unite hanno ritenuto che le conclusioni cui è in precedenza pervenuta, nell’individuare i limiti della giurisdizione del giudice contabile, nelle cause riguardanti la responsabilità degli organi di società a partecipazione pubblica, non possono valere per le società in house, perché - quanto meno ai limitati fini del riparto di giurisdizione - queste ultime hanno della società solo la forma esteriore, ma costituiscono in realtà delle articolazioni della P.A., da cui promanano, e non dei soggetti giuridici ad essa esterni e autonomi. Ne consegue che gli organi di tali società, assoggettati come sono a vincoli gerarchici facenti capo alla pubblica amministrazione, neppure possono essere considerati, a differenza di quanto accade per gli amministratori delle altre società a partecipazione pubblica, come investiti di un mero munus privato, inerente ad un rapporto di natura negoziale instaurato con la medesima società. Essendo preposti ad una struttura corrispondente ad un’articolazione interna alla stessa P.A., è da ritenersi che essi siano personalmente a questa legati da un vero e proprio rapporto di servizio, non altrimenti di quel che accade per i dirigenti preposti ai servizi erogati direttamente dall’ente pubblico. L’impossibilità di configurare un rapporto di alterità tra l’ente pubblico e la società in house si riflette anche sulla qualificazione del patrimonio, da intendersi in termini di mera separazione e non di distinta titolarità, con conseguente affermazione della natura erariale del danno cagionato dagli atti illegittimi dei suoi amministratori.

Tale soluzione è stata seguita dalla giurisprudenza successiva (Sez. U, n. 05491/2014, Nobile, Rv. 629863-01 e Sez. U, n. 26643/2016, D’Ascola, Rv. 641801-01; Sez. U, n. 22409/2018, Virgilio, Rv. 650605-01; Sez. U, n. 17188/2018, Cirillo, Rv. 651804-01).

In continuità con il descritto orientamento, Sez. U, n. 16741/2019, Bisogni, Rv. 654581-01 ha ribadito che la cognizione in ordine all’azione di responsabilità promossa nei confronti degli organi di gestione e di controllo di società di capitali partecipate da enti pubblici spetta alla Corte dei conti solo nel caso in cui tali società abbiano, al momento delle condotte illecite, tutti i requisiti per essere definite in house providing, i quali devono risultare da precise disposizioni statutarie in vigore all’epoca, perché non ha rilievo la loro mera ricorrenza in fatto.

Nella stessa ottica, Sez. U, n. 30006/2019, De Stefano, Rv. 656066-01, ha escluso la giurisdizione contabile, nel caso in cui, esperita l’azione di responsabilità per i danni arrecati ad una società per azioni, in cui si è trasformata una preesistente azienda speciale comunale, sia dedotto un pregiudizio al patrimonio della società in sé e per sé considerato (e non al patrimonio dell’ente pubblico che pure possa, o debba, risponderne), a maggior ragione quando manchino tutti i presupposti per configurare una società in house (e, in particolare, il divieto o l’impossibilità di estendere la compagine sociale a soggetti privati), oppure quando siano dedotti fatti anche anteriori alla trasformazione, ma quali presupposti o antefatti di condotte successive, poste a fondamento della domanda.

Sempre in conformità all’orientamento sopra illustrato, Sez. U, n. 31755/2019, Conti, Rv. 656080-01, ha ritenuto sussistente la giurisdizione contabile in una fattispecie in cui era stato prospettato un danno subito dall’ente pubblico, socio maggioritario di una società a partecipazione pubblica, concessionaria del servizio di riscossione tributi, conseguente alla condotta, oltre che della società, anche dell’amministratore di quest’ultima, proprio perché si è trattato della rappresentazione di un danno cagionato direttamente al patrimonio del socio pubblico (il Comune) e non a quello della società.

In tale quadro, particolare rilievo assume Sez. U, n. 22712/2019, Scarano, Rv. 655114-01, perché vengono affermati i medesimi principi appena illustrati, ma un giudizio instaurato successivamente all’entrata in vigore del d.lgs. n. 175 del 2016.

In particolare in tale pronuncia viene affermato che il danno al patrimonio di una società a partecipazione pubblica, conseguente a mala gestio da parte degli amministratori (o componenti dell’organo di controllo) e dei dipendenti, non è qualificabile in termini di danno erariale, inteso come pregiudizio direttamente arrecato al patrimonio dello Stato o di altro ente pubblico, che della detta società sia socio, perché la distinzione tra la società di capitali e i singoli soci e la piena autonomia patrimoniale della prima rispetto ai secondi non consentono di riferire al patrimonio del socio pubblico il danno che l’illecito comportamento degli organi sociali abbia eventualmente arrecato al patrimonio dell’ente, né di configurare un rapporto di servizio tra l’ente medesimo e l’agente.

Secondo il giudice di legittimità, la domanda con la quale si fa valere la responsabilità degli organi sociali resta di regola devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario, mentre quella della Corte dei conti è ravvisabile eccezionalmente nelle due specifiche fattispecie delle società in house e delle “società legali”, caratterizzate, rispettivamente, da una struttura corrispondente ad un’articolazione interna alla stessa P.A. (cui è immanente il rapporto di servizio tra quest’ultima e gli amministratori e dipendenti della società) e da uno statuto speciale che consente di qualificarle come sostanziali enti pubblici.

In motivazione, nel fare riferimento alle particolari ipotesi di responsabilità erariale in caso di società in house, le Sezioni Unite hanno richiamato, a sostegno della ricostruzione operata, accanto alla propria giurisprudenza, sopra riportata, anche il disposto dell’art. 12 del d.lgs. n. 175 del 2016, letto in perfetta continuità con l’orientamento interpretativo in precedenza maturato.

La S.C. aveva peraltro già mostrato (sia pure in un obiter dictum) di aderire alla tesi che legge il disposto dell’art. 12 del d.lgs. n. 175 del 2016 in continuità con l’orientamento interpretativo fino ad allora essa stessa espresso.

Il riferimento è a Sez. 1, n. 03196/2017, Ferro, Rv. 643865-01, ove, nel ritenere la fallibilità delle società in house in una fattispecie non disciplinata ratione temporis dal d.lgs. n. 175 del 2016, la Corte ha ribadito che a tali figure societarie è stata attribuita la natura di articolazioni interne dell’ente partecipante, ai soli fini della verifica della sussistenza della giurisdizione della Corte dei conti, precisando che in questo modo si è venuta a determinare una responsabilità aggiuntiva (contabile) rispetto a quella comune – secondo i dettami della richiamata sentenza a Sezioni Unite n. 26283/2013, che, si afferma, sono stati ripresi dall’art. 12 del d.lgs. n. 175 del 2016 – ma senza l’effetto di far perdere l’applicazione dello statuto dell’imprenditore.

Due sono le affermazioni importanti. Da un lato, si ritiene che l’art. 12 del d.lgs. n. 175 del 2016 ha ripreso i dettami della sentenza a Sezioni Unite n. 26283/2013. Da un altro lato, si precisa che la responsabilità contabile è aggiuntiva a quella ordinaria.

6. L’azione di responsabilità ex art. 146 l.fall.

Come sopra evidenziato, la giurisprudenza di legittimità, prima ancora della formulazione dell’art. 12 del d.lgs. n. 175 del 2016, aveva già riservato uno spazio alla giurisdizione contabile in caso di azione sociale di responsabilità nei confronti di componenti degli organi di gestione e di controllo (o anche dei dipendenti) delle società in house, sia pure precisando che, in questi casi, la giurisdizione contabile non è esclusiva, ma concorre con quella ordinaria.

La stessa giurisprudenza ha di recente affrontato la questione della possibilità di pervenire o meno alle medesime conclusioni, nel caso in cui, fallita la società in house, l’azione di responsabilità sia esperita dal curatore ex art. 146 l.fall., in una fattispecie cui, ratione temporis, non era applicabile il d.lgs. n. 175 del 2016.

A tal proposito si deve senza dubbio richiamare Sez. U, n. 22406/2018, Campanile, Rv. 650453-01), ove le Sezioni Unite hanno ritenuto sussistente la giurisdizione del giudice ordinario originariamente adito.

Senza porsi in contrasto con le precedenti pronunce n. 26806 del 2009 e n. 26283 del 2013, sopra illustrate, le Sezioni Unite hanno richiamato le precisazioni successivamente operate dalla stessa giurisprudenza di legittimità, attribuendo rilievo fondamentale alla clausola ermeneutica generale, in senso privatistico, prevista dall’art. 4, comma 13, del d.l. n. 95 del 2012, conv., con modif., in l. n. 135 del 2012, e al principio successivamente stabilito dall’art. 1, comma 3, del d.lgs. n. 175 del 2016, a tenore del quale, per tutto quanto non derogato dalle relative disposizioni, tutte le società a partecipazione pubblica (e perciò anche le società in house) sono disciplinate dalle norme sulle società contenute nel codice civile.

Secondo le Sezioni Unite, una volta scelto il paradigma privatistico societario, deve ritenersi naturale che quella scelta, ove non vi siano specifiche disposizioni in contrario o ragioni ostative di sistema, comporti l’applicazione del regime giuridico proprio dello strumento adottato.

Ribadita quindi la possibilità, in via generale, del concorso fra la giurisdizione ordinaria e quella contabile, stante la tendenziale diversità di oggetto e di funzione fra le diverse azioni (anche richiamando, come già evidenziato, a fini ermeneutici il disposto dell’art. 12 del d.lgs. n. 175 del 2016), le stesse Sezioni Unite hanno esaltato la necessità di ricondurre l’azione esercitata dalla curatela fallimentare alla giurisdizione del giudice ordinario, considerata la natura prettamente civilistica delle norme azionate, alle quali la società, per le ragioni sopra indicate, non può sottrarsi. Inoltre, sotto un altro profilo, hanno dato rilievo all’esigenza di tutela degli interessi dei creditori concorsuali, che altrimenti verrebbero frustrati.

Con riguardo a quest’ultimo aspetto, le Sezioni Unite hanno, in particolare, considerato che l’azione di responsabilità esercitata dal curatore ai sensi dell’art. 146, comma 2, l. fall., che cumula le diverse azioni previste dagli artt. 2393 e 2394 c.c., assumendo un contenuto inscindibile e una connotazione autonoma, costituisce uno strumento di reintegrazione del patrimonio sociale unitariamente considerato, a garanzia sia dei soci che dei creditori sociali, ed è la necessaria conseguenza dell’ammissione della società in house al fallimento.

Pienamente conforme alla pronuncia appena illustrata è Sez. U, n. 10019/2019, Vincenti, Rv. 653596-02, relativa ad un’azione di responsabilità sociale promossa dal curatore fallimentare dopo l’entrata in vigore dell’art. 12 del d.lgs. n. 175 del 2016.

In quest’ultima statuizione, le Sezioni Unite hanno riportato in motivazione tutti i passaggi argomentativi di Sez. U, n. 22406/2018, Campanile, Rv. 650453-01, facendoli propri, ed aggiungendo che non può ritenersi che la previsione della responsabilità contabile possa paralizzare l’attuazione della tutela dei creditori sociali, perché altrimenti si opterebbe per una soluzione che avrebbe conseguenze di dubbia tenuta costituzionale.

Sempre in motivazione, le stesse Sezioni Unite hanno evidenziato che, in questi casi, non è valorizzabile il principio di concentrazione delle tutele di cui all’art. 3 del d.lgs. n. 174 del 2016, poiché, a prescindere da problemi di ordine processuale, è anche da escludere la possibilità di una pronuncia di condanna da parte della Corte dei conti in favore della società in house anziché dell’ente socio, così da offrire tutela ai creditori.

Pur ravvisando l’esigenza di evitare una duplicazione dei risarcimenti, le Sezioni Unite hanno anche precisato che ciò involge questioni applicative, ma non incide sulla configurabilità o meno della giurisdizione dell’uno o dell’altro giudice.

In altre parole, secondo la pronuncia in esame, la concorrenza di differenti discipline comporta che la società a partecipazione pubblica (anche se in house) è assoggettata alle regole concernenti i soggetti pubblici là dove ciò è stabilito. Essa resta invece assoggettata, nel resto, alle normali regole privatistiche ai fini dell’organizzazione e del funzionamento. L’intento di Sez. U, n. 26283/2013, Rordorf, Rv. 628437-01, sopra riportata, è ricondotto alla finalità di preservare l’erario dalla mala gestio degli organi sociali delle società “strumento” della P.A., in un’ottica di rafforzamento della responsabilità che ne investe gli organi, come poi recepito dal d.lgs. n. 175 del 2016, e non di limitare, o addirittura negare, la tutela dei creditori sociali, entrati in relazione con la società, facendo affidamento sulla natura privata del soggetto, nella consapevolezza dell’esistenza di deroghe al regime ordinario limitatamente a quelle espressamente previste.

7. La revoca degli amministratori nominati ai sensi dell’art. 2449 c.c.

La S.C. si è più volte occupata del riparto di giurisdizione in relazione alle controversie riguardanti la nomina o la revoca ex art. 2449 c.c. di amministratori e sindaci di società a partecipazione pubblica, e dunque anche di società in house, ritenendo sussistente la giurisdizione del giudice ordinario, e non quella del giudice amministrativo.

A fondamento di tale soluzione interpretativa vi è la considerazione che si tratta di controversie che investono atti compiuti dall’ente pubblico uti socius, e non iure imperii, posti in essere “a valle” della scelta di costituire una società o di partecipare ad essa (così Sez. U, n. 01237/2015, Di Palma, Rv. 633757-01, Sez. U, n. 19676/2016, Frasca, Rv. 641090-01 e Sez. U, n. 21299/2017, Scarano, Rv. 645313-01, nonché, con riferimento specifico alle società in house, Sez. U, n. 24591/2016, Spirito, Rv. 641767-01).

Tale orientamento è confermato dalle pronunce adottate nel periodo in rassegna. In particolare, le Sezioni Unite (Sez. U, n. 16335/2019, Cristiano, Rv. 654577-01) hanno affermato che spetta al giudice ordinario la cognizione della controversia concernente la legittimità dell’atto emesso dal Sindaco, ai sensi dell’art. 50, commi 8 e 9, del d.lgs. n. 267 del 2000, con il quale ha revocato gli amministratori di una società partecipata dal Comune, trattandosi di provvedimento attinente ad una situazione giuridica successiva alla costituzione della società stessa, idoneo ad incidere internamente sulla sua struttura ed espressione di una potestà di diritto privato ascrivibile all’ente pubblico uti socius, esercitata dal Sindaco in conformità degli indirizzi stabiliti dal Consiglio comunale. Nella stessa decisione peraltro, le Sezioni Unite (Sez. U, n. 16335/2019, Cristiano, Rv. 654577-02) hanno anche precisato che la norma sopra richiamata, nell’attribuire al Sindaco il potere di revoca degli amministratori delle società partecipate dal Comune entro 45 giorni dal suo insediamento, integra di per sé una giusta causa di revoca, avendo una propria autonoma rilevanza rispetto alle altre cause di revoca statutarie e assembleari, ed è giustificata dal fatto che fra l’ente locale e i menzionati amministratori sussiste un rapporto di natura fiduciaria fondato sull’intuitus personae.

Anche in un’altra pronuncia (Sez. U, n. 29078/2019, Scaldaferri, Rv. 656066-01) le Sezioni Unite hanno ritenuto che spetta al giudice ordinario, e non al giudice amministrativo, la cognizione della controversia relativa alla revoca dell’amministratore nominato ai sensi dell’art. 2449 c.c., trattandosi di atto posto in essere dall’ente pubblico “a valle” della scelta iniziale di avvalersi dello strumento societario, compiuto avvalendosi degli strumenti che il diritto comune gli attribuisce nella sua qualità di socio e dunque interamente regolato dal diritto privato, come si evince chiaramente dal testo del richiamato art. 2449 c.c., il quale, da un lato, individua nello statuto sociale, e dunque in un atto fondamentale di natura negoziale, la fonte esclusiva dell’attribuzione al socio pubblico della facoltà di nominare un numero di amministratori proporzionale alla sua partecipazione, con la correlata facoltà di revocarli, e, dall’altro, precisa che gli amministratori così nominati hanno i medesimi diritti e i medesimi obblighi di quelli designati dall’assemblea, sicché, al pari di questi ultimi, godono dei soli diritti previsti dall’art. 2383, comma 3, c.c., tra i quali non può rientrare, senza violare il principio normativo di uguaglianza dei diritti, la pretesa alla reintegrazione a seguito del sindacato sulla legittimità del provvedimento di revoca, spettando loro solo il diritto al risarcimento dei danni, ove il giudice ritenga che la revoca non sia sorretta da giusta causa.

In tale quadro, si deve da ultimo menzionare Sez. U, n. 34473/2019, Perrino, Rv. 656574-01, ove, con riferimento ad una controversia riguardante l’impugnazione del provvedimento sindacale con il quale siano individuati i soggetti idonei ad essere nominati amministratori di una fondazione partecipata dal comune, le Sezioni Unite hanno ritenuto sussistere la giurisdizione del giudice ordinario, richiamando la giurisprudenza maturata con riferimento alle società in house ed evidenziando l’impossibilità di ricondurre la fondazione alla pur ampia nozione di pubblica amministrazione, contenuta nell’art. 7, comma 2, d.lgs. n. 104 del 2010, in mancanza della configurabilità di poteri pubblicistici in capo alla stessa.

8. Altre questioni.

La riconduzione delle società a partecipazione pubblica in generale e delle società in house in particolare alla disciplina privatistica, in assenza di diverse disposizioni normative o di ragioni ostative di sistema, influenza anche il settore dei rapporti di lavoro del personale di tali società (che pure, alla presenza di determinate condizioni, ha una particolare disciplina in tema di reclutamento) e quello riguardante gli obblighi contributivi, in relazione ai quali si rinvia ai rispettivi capitoli di questa Rassegna.

  • gestione finanziaria
  • procedura civile
  • pubblicità abusiva
  • prescrizione dell'azione
  • competenza giurisdizionale
  • banca
  • affissione
  • giurisdizione
  • codice della strada
  • concorso nel reato
  • sanzione amministrativa

CAPITOLO XXVIII

LE SANZIONI AMMINISTRATIVE

(di Dario Cavallari, Aldo Natalini, Maria Elena Mele )

Sommario

1 Principi generali, struttura impugnatoria del giudizio e regole processuali. - 2 La notifica del verbale di accertamento. - 3 Giurisdizione e principio di specialità. - 4 Competenza ed incompetenza. - 5 Altri vizi procedurali. - 6 Elemento psicologico e cause di giustificazione. - 7 Prescrizione. - 8 Cumulo di reati e concorso di persone. - 9 La determinazione della sanzione in caso di pluralità di violazioni rimessa all’attenzione della Corte di giustizia dell’Unione europea. - 10 Sanzioni in ambito bancario e finanziario: profili procedimentali. - 11 Sanzioni in ambito bancario e finanziario: soggetti responsabili e contenuto della condotta loro imposta. - 12 Sanzioni in ambito bancario e finanziario: il giudizio di opposizione. - 13 Sanzioni amministrative CONSOB e coerenza dell’informazione diffusa. - 14 Abuso di informazioni privilegiate e confisca. - 15 Le sanzioni in ambito bancario e finanziario e le questioni di legittimità costituzionale prospettate. - 16 Ulteriori pronunce riguardanti le sanzioni in ambito bancario e finanziario. - 17 Le sanzioni amministrative previste dal codice della strada. - 17.1 L’irrogazione delle sanzioni e la notificazione del verbale di accertamento. - 17.2 L’opposizione, la competenza, i suoi effetti, il termine di proposizione, i soggetti legittimati e la patente a punti. - 17.3 Le modalità di accertamento delle violazioni e i soggetti legittimati ad effettuarlo: “autovelox”, “alcooltest” e poteri della Polizia municipale. - 17.4 Il concorso di violazioni. - 17.5 “Contrassegno invalidi”, autorizzazioni all’accesso in zona a traffico limitato ed al trasporto di merci su strada, sospensione e revoca della patente, nozione di veicolo “fuori uso”. - 18 Le sanzioni diverse da quelle comminate per infrazioni al codice della strada. - 18.1 Indebita percezione di aiuti comunitari. - 18.2 Incarichi retribuiti non autorizzati a pubblici dipendenti. - 18.3 Le affissioni abusive. - 18.4 Le altre sanzioni.

1. Principi generali, struttura impugnatoria del giudizio e regole processuali.

La struttura del giudizio di opposizione a sanzioni amministrative è di tipo impugnatorio. Esso riguarda, come ricorda, da ultimo, Sez. 6-2, n. 21146/2019, Carrato, Rv. 655278-01, in continuità con l’indirizzo nomofilattico di Sez. U, n. 01786/2010, Goldoni, Rv. 611243-01, il rapporto giuridico sotteso, avente fonte legale in un’obbligazione di tipo sanzionatorio (così già Sez. 2, n. 12503/2018, Carrato, Rv. 648753-01; Sez. 2, n. 09286/2018, Criscuolo, Rv. 648150-01).

Al descritto paradigma impugnatorio è annesso un rigido sistema preclusivo (Sez. 2, n. 27909/2018, Picaroni, Rv. 651033-01), valevole per ogni soggetto coinvolto nel giudizio di opposizione, sicché tutte le ragioni poste alla base della richiesta di nullità (o di annullamento) dell’atto devono essere prospettate nel ricorso introduttivo, entro i termini di legge. Al ricorrente non è consentito di integrare in corso di causa i motivi originariamente addotti, non potendo egli ampliare il thema decidendum mediante domande nuove diverse dalla causa petendi fatta valere con l’opposizione, mentre l’Amministrazione resistente non può dedurre, a sostegno della pretesa sanzionatoria, motivi o circostanze differenti da quelle enunciate con l’ordinanza, stante il carattere vincolato del provvedimento di irrogazione della sanzione amministrativa, in conformità al principio di tassatività dettato dall’art. 1 della l. n. 689 del 1981 (ribadito da Sez. 1, n. 06965/2018, Mercolino, Rv. 648110-01), con conseguente immodificabilità del relativo contenuto (in termini anche Sez. 1, n. 13433/2016, Bernabai, Rv. 640355-01). Infine, il giudice non può rilevare d’ufficio, fuori dei limiti dell’oggetto * dello stesso giudizio così delimitato, eccezioni relative a vizi o ragioni di nullità del provvedimento opposto o del procedimento che ne ha preceduto l’emanazione distinti da quelli dedotti dal ricorrente, salvo che essi incidano sull’esistenza dell’atto impugnato.

Sulla scorta di questa impostazione, Sez. 6-2, n. 01921/2019, Carrato, Rv. 652384-01, ha precisato che l’onere della prova del completo espletamento delle attività strumentali all’accertamento grava, nel giudizio di opposizione, sulla P.A. poiché concerne il fatto costitutivo della pretesa sanzionatoria. Per l’esattezza, mentre l’onere di allegazione è a carico dell’opponente, quello probatorio soggiace alla regola ordinaria dell’art. 2697 c.c. e, quindi, è la P.A., quale attore sostanziale, che deve dare la prova dei fatti costitutivi posti a fondamento della sua pretesa, dovendo, invece, l’opponente dimostrare, qualora abbia dedotto fatti specifici incidenti o sulla regolarità formale del procedimento o sulla esclusione della sua responsabilità nella commissione dell’illecito, le sole circostanze negative contrapposte a quelle indicate dall’amministrazione.

Legittimato passivo del giudizio di opposizione ad ordinanza emanata ai sensi della l. n. 689 del 1981 è esclusivamente il destinatario dell’ingiunzione, al quale è addebitata la violazione: ciò anche in caso di eventuale responsabilità sanzionatoria con il vincolo di solidarietà (come ha precisato Sez. 2, n. 09286/2018, Criscuolo, Rv. 648150-01), sicché non è consentita la partecipazione di soggetti diversi dall’ingiunto e dall’Amministrazione ingiungente. Quanto a quest’ultima, l’art. 23 della l. n. 689 cit. identifica nell’autorità che ha emesso l’ordinanza la parte legittimata nel giudizio di opposizione: come puntualizzato da Sez. 2, n. 18198/2019, Tedesco, Rv. 654469-01, tale legittimazione rimane ferma, in difetto di una diversa previsione normativa, nel corso dell’intero giudizio e, dunque, pure se vi è impugnazione. Ne deriva che, quando oggetto dell’opposizione sia un’ordinanza prefettizia, la legittimazione processuale (attiva e passiva) spetta al prefetto il quale, benché organo periferico del Ministero dell’interno, agisce nell’ambito di una specifica autonomia funzionale, con l’ulteriore conseguenza che, in deroga alle comuni regole di rappresentanza dello Stato, soltanto lo stesso prefetto, e non il Ministro dell’interno, è legittimato a proporre ricorso per cassazione avverso la sentenza che ha deciso sull’opposizione.

Regola processuale comune ai procedimenti di opposizione, nella vigenza del d.lgs. n. 150 del 2011 (che ha previsto – come noto – misure di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione), è l’applicazione degli artt. 429, comma 1, e 437, comma 1, c.p.c., giustificata – per quanto precisato da Sez. 2, n. 00072/2018, Bellini, Rv. 646662-01 – dal rinvio generale contenuto nell’art. 2, comma 1, del menzionato d.lgs. n. 150. Ne deriva che anche in secondo grado il giudice d’appello, nel pronunciare la sentenza, deve, a pena di nullità insanabile, dare lettura del dispositivo all’esito dell’udienza di discussione (contra Sez. 2, n. 12954/2015, Picaroni, Rv. 635706-01, che, al contrario, ha escluso, in mancanza di un’espressa disciplina, l’automatica estensibilità delle regole speciali dettate per il giudizio di primo grado).

Quanto al deposito di documenti strettamente connessi all’impugnazione da parte dell’amministrazione, secondo Sez. 3, n. 15887/2019, Porreca, Rv. 654292-01, il termine di cui all’art. 7, comma 7, del d.lgs. n. 150 del 2011 non è perentorio, a differenza di quello previsto dall’art. 416 c.p.c., che si applica, invece, in virtù del richiamo operato dal comma 1 del cit. art. 7, agli altri documenti depositati dall’amministrazione.

In caso di solidarietà ai sensi dell’art. 6 della l. n. 689 del 1981, ad avviso di Sez. 2, n. 00303/2019, Tedesco, Rv. 652052-01, il limite apportato dal comma 2 dell’art. 1306 c.c. al principio enunciato nel comma 1 è applicabile pure alle obbligazioni basate su rapporti giuridici pubblicistici, con l’effetto che la sentenza pronunciata tra il creditore e uno dei debitori solidali è opponibile al creditore da parte degli altri, ove ad essi favorevole e non fondata su ragioni personali al condebitore nei confronti del quale è stata emessa, purché essi abbiano partecipato al relativo giudizio. In precedenza, se l’oggetto dell’unico provvedimento sanzionatorio era costituito da più condotte poste in essere da più soggetti, Sez. 2, n. 21347/2018, Gorjan, Rv. 650036-01, aveva escluso che il giudicato relativo all’accoglimento dell’opposizione proposta da taluni di essi potesse spiegare i suoi effetti verso dei concorrenti rimasti estranei al giudizio, stante la diversità delle parti e delle condotte addebitate.

In ordine all’attività istruttoria, Sez. 2, n. 34034/2019, Scarpa, Rv. 656329-01, ha rilevato che, nel giudizio di opposizione ad ordinanza-ingiunzione (nella specie, disciplinato ratione temporis dagli artt. 22 e ss. della l. n. 689 del 1981), il Tribunale, sulla base dei poteri concessi dall’art. 23, comma 6, l. n. 689 cit., può procedere, nell’esercizio di una facoltà rimessa al suo prudente apprezzamento e sganciata dalla decadenza in cui siano eventualmente incorse le parti nella formulazione delle richieste istruttorie, all’audizione d’ufficio degli agenti accertatori, rappresentando la verifica della fondatezza della pretesa sanzionatoria, del rapporto e degli atti relativi all’accertamento ed alla contestazione della violazione la base di partenza dell’indagine giudiziale, la quale può essere eventualmente integrata con quei chiarimenti che il giudicante, attraverso l’esame dei verbalizzanti, ritenga necessari ai fini della verifica della consistenza dell’addebito o, per converso, dei motivi di opposizione.

Infine, con una pronuncia che si è occupata dei rapporti fra diverse autorità, Sez. 2, n. 09699/2019, Falaschi, Rv. 653489-01, ha affermato che il trattamento sanzionatorio previsto dalla normativa regionale rientra tra le facoltà attribuite al legislatore locale ai sensi dell’art. 117 Cost., con il solo limite della non manifesta irragionevolezza, in quanto finalizzato a garantire l’effettività della sanzione, amministrativa o penale, mentre non risulta pertinente il richiamo al principio di progressività della contribuzione, perché riguardante unicamente le violazioni tributarie. (Nella specie, la S.C. ha rigettato la domanda del ricorrente, il quale aveva ritenuto che l’entità della sanzione comminatagli ex art. 19, comma 4, della l.r. Lombardia n. 6 del 2012, per avere violato il vincolo di inalienabilità e destinazione d’uso apposto su mezzi acquistati con finanziamento pubblico e destinati al trasporto di linea, contrastasse col principio di progressività della contribuzione in quanto di importo decisamente superiore all’ammontare del contributo pubblico erogato e allo stesso valore del mezzo).

2. La notifica del verbale di accertamento.

Come chiarito da Sez. 2, n. 27405/2019, Varrone, Rv. 655686-01, in tema di sanzioni amministrative, qualora non sia avvenuta la contestazione immediata dell’illecito, il momento dell’accertamento – in relazione al quale va collocato il dies a quo del termine previsto dall’art. 14, comma 2, della l. n. 689 del 1981 per la notifica degli estremi della violazione – non coincide con quello di acquisizione del fatto nella sua materialità da parte dell’autorità che ha ricevuto il rapporto, ma va individuato nella data in cui detta autorità ha completato l’attività intesa a verificare la sussistenza degli elementi oggettivi e soggettivi dell’infrazione; compete al giudice di merito valutare la congruità del tempo utilizzato per tale attività, in rapporto alla maggiore o minore difficoltà del caso, con apprezzamento incensurabile in sede di legittimità, se correttamente motivato.

Questo principio deve essere coordinato con l’altro, espresso da Sez. 2, n. 10841/2019, Casadonte, Rv. 653502-01, in base al quale, in tema di sanzioni amministrative, ove la notificazione del verbale di accertamento dell’infrazione sia stata effettuata a mezzo posta da un funzionario dell’amministrazione, l’omessa stesura, sull’originale e sulla copia dell’atto, della relazione di notifica, integra una mera irregolarità ed è priva di conseguenze invalidanti, specialmente quando detta notifica abbia raggiunto il suo scopo.

3. Giurisdizione e principio di specialità.

In tema di giurisdizione, Sez. U, n. 31029/2019, Lamorgese, Rv. 656076-01, ha ritenuto che la controversia avente ad oggetto la sanzione amministrativa comminata dalla ASL – nell’ambito dell’attività di vigilanza e controllo sulla congruità ed appropriatezza del servizio pubblico reso – ad una struttura privata operante in regime di accreditamento, sia devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario, in quanto concerne prestazioni effettuate in esecuzione del rapporto, a carattere paritario e contenuto meramente patrimoniale, di concessione di pubblico servizio, non venendo in rilievo l’esercizio, da parte della P.A., di poteri autoritativi e discrezionali. Questa decisione sembra porsi in contrasto con Sez. U, n. 18168/2017, Scrima, Rv. 645126-01, che aveva riconosciuto, invece, la giurisdizione amministrativa.

Inoltre, Sez. U, n. 22426/2018, Scrima, Rv. 650456-01, ha ribadito il radicamento innanzi al giudice ordinario della materia delle opposizioni ad ordinanza-ingiunzione di pagamento per violazione della normativa urbanistica ed edilizia, sulla base di un duplice rilievo argomentativo (tratto da Sez. U, n. 11388/2016, Giusti, Rv. 639955-01), che pare opportuno richiamare perché espressivo di un indirizzo consolidato.

Anzitutto, il massimo Consesso ha valorizzato l’art. 22-bis, comma 2, lett. c), della l. n. 689 del 1981 – abrogato dall’art. 34, comma 1, lett. c), del d.lgs. n. 150 del 2011 – che attribuisce al Tribunale ordinario le opposizioni alle sanzioni in materia urbanistica.

In secondo luogo, in piena aderenza all’orientamento nomofilattico in materia (fra le ultime: Sez. U, n. 08076/2015, D’Ascola, Rv. 634939-01; Sez. U, n. 01528/2014, Spirito, Rv. 628859-01), la S.C. ha sottolineato che, pur essendo la materia urbanistica compresa in quelle per cui l’art. 34 del d.lgs. n. 80 del 1998 prevede la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, l’opposizione a sanzione amministrativa non genera una controversia nascente da atti della P.A. relativi alla gestione del territorio, costituendo i provvedimenti sanzionatori la reazione a condotte del privato illegittime. Infatti, in presenza di tali provvedimenti, non sorge la necessità, alla base della previsione di giurisdizione esclusiva, di distinguere gli aspetti concernenti diritti soggettivi da quelli riguardanti interessi legittimi, poiché la situazione giuridica di chi deduce di essere stato sottoposto ingiustamente a sanzione ha consistenza di diritto soggettivo.

Analogamente Sez. U, n. 10268/2018, Giusti, Rv. 648133-01, in tema di sanzioni pecuniarie relative alla tutela ed all’uso del suolo, ha confermato la devoluzione alla giurisdizione del giudice ordinario delle cause in ordine alla procedura di riscossione coattiva del credito ai sensi del r.d. n. 639 del 1910. La motivazione ha messo in evidenza ut supra il diritto soggettivo di chi deduca di essere stato sottoposto a sanzione amministrativa, reiterando gli argomenti esposti dalla cit. Sez. U, n. 11388/2016, Giusti, Rv. 648133-01, circa l’irrilevanza del nuovo quadro normativo conseguente all’emanazione del d.lgs. n. 150 del 2011 (modificativo dell’art. 22 della l. n. 681 del 1981 ed abrogativo del successivo art. 22-bis); ha richiamato, altresì, l’art. 133, comma 1, lett. f), c.p.a., che ha mantenuto ferma la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo per le controversie in materia urbanistica ed edilizia concernenti «tutti gli aspetti del territorio».

Relativamente, infine, al principio di specialità, sancito dall’art. 9 della l. n. 689 del 1981, secondo Sez. 2, n. 10744/2019, Falaschi, Rv. 653561-01, esso in tanto opera, in quanto le norme sanzionanti un medesimo fatto si trovino fra loro in rapporto di specialità, che deve essere escluso ove sia diversa l’obiettività giuridica degli interessi rispettivamente protetti. Non sussiste, pertanto, un rapporto di specialità tra le previsioni penali a protezione del falso ideologico, di cui agli artt. 7 del d.P.R. n. 358 del 2000 e 479 c.p., e le norme a protezione delle autocertificazioni delle situazioni di fatto e di diritto rilevanti ai fini delle annotazioni al P.R.A.; infatti, la P.A. non è svincolata dal controllo sulla veridicità della stessa autocertificazione, essendo tenuta a verificare – anche di propria iniziativa ex art. 71 del d.P.R. n. 445 del 2000 – la correttezza delle dichiarazioni, pure mediante riscontro diretto dei dati, né è ravvisabile, tra le anzidette norme, una pregiudizialità tale da configurare l’accertamento dell’illecito amministrativo come antecedente logico necessario per l’esistenza del reato, così da determinare quella connessione obiettiva che, ai sensi dell’art. 24 della l. n. 689 del 1981, comporta lo spostamento delle competenze all’applicazione della sanzione dall’organo amministrativo al giudice penale.

4. Competenza ed incompetenza.

Si segnalano alcune pronunce della Corte regolatrice in tema di competenza.

Con riguardo alla competenza per territorio, Sez. 6-1, n. 00580/2019, Valitutti, Rv. 652670-01, ha ritenuto che l’illecito amministrativo già previsto dall’art. 58 del d.lgs. n. 29 del 1993 – il quale, ai commi 6 e 7, impone ai soggetti pubblici e privati che, comunque, si avvalgano di prestazioni di lavoro autonomo o subordinato rese da dipendenti pubblici di richiedere l’autorizzazione dell’ente di appartenenza e/o di comunicare ai medesimi enti i compensi erogati (ora art. 53, comma 9, del d.lgs. n. 168 del 2001) – debba ritenersi commesso nel luogo in cui il soggetto che ha conferito l’incarico ha avuto conoscenza dell’accettazione da parte del destinatario, in virtù del carattere recettizio della manifestazione della volontà di ricevere un incarico professionale. In precedenza, Sez. 6-2, n. 04840/2018, Abete, Rv. 647985-01, ai fini dell’individuazione del giudice di pace territorialmente competente a pronunciarsi sull’opposizione ad ordinanza-ingiunzione per emissione di assegno bancario (o postale) senza autorizzazione (o senza provvista) di cui agli artt. 1 e 2 della l. n. 386 del 1990, aveva identificato il «luogo in cui è stata commessa la violazione» non in quello di emissione, bensì in quello ove è pagabile l’assegno bancario o postale; ciò in continuità con un precedente di legittimità (Sez. 1, n. 16205/2006, Petitti, Rv. 592309-01) che aveva individuato nel prefetto di detto luogo (che, per l’assegno postale, coincide con la sede dell’ufficio postale di radicamento del conto corrente postale) l’autorità territorialmente competente ad emettere l’ordinanza-ingiunzione ai sensi dell’art. 4 della l. n. 386 del 1990.

In tema di competenza per materia, in fattispecie concernente sanzioni elevate per violazione degli artt. 3 e 16 del d.lgs. n. 109 del 1992 relative all’etichettatura, presentazione e pubblicità dei prodotti alimentari, Sez. 6-2, n. 05242/2018, Orilia, Rv. 648217-01, ha riconosciuto la competenza del giudice di pace, avuto riguardo alla disciplina commerciale finalizzata ad assicurare la correttezza e la completezza delle indicazioni riportate dai produttori e, con esse, a tutelare l’affidamento dei consumatori, escludendo, quindi, la riconducibilità della materia all’igiene degli alimenti e bevande, riservata ex art. 6, comma 4, del d.lgs. n. 150 del 2011 alla competenza del Tribunale.

Relativamente, poi, alla competenza per valore, un principio di portata generale resta quello espresso da Sez. 6-3, n. 20191/2018, Cirillo F.M., Rv. 650293-01, secondo cui – come già affermato in passato – ai fini dell’attribuzione al giudice di pace delle opposizioni alle sanzioni amministrative pecuniarie di valore fino ad euro 15.493,00 ai sensi dell’art. 6, comma 5, lett. a), del d.lgs. n. 150 del 2011, occorre avere riguardo al massimo edittale della sanzione prevista per ciascuna violazione, non rilevando che il provvedimento sanzionatorio abbia ad oggetto una pluralità di contestazioni e che, per effetto della sommatoria dei relativi importi, sia superato il suddetto limite di valore.

Sul fronte patologico del vizio di incompetenza, la sedimentata giurisprudenza di legittimità, da ultimo compendiata in Sez. 2, n. 28108/2018, Picaroni, Rv. 651188-01, ravvisa l’incompetenza assoluta dell’amministrazione – con conseguente inesistenza del provvedimento sanzionatorio – laddove l’atto emesso riguardi una materia del tutto estranea alla sfera degli interessi pubblici attribuiti alla cura dell’amministrazione cui l’organo emittente appartiene. Si ha, invece, incompetenza relativa – deducibile esclusivamente col ricorso introduttivo, unitamente alle ragioni poste alla base dello stesso – nel rapporto tra organi od enti nelle attribuzioni dei quali rientra, sia pure a fini ed in casi diversi, una determinata materia.

5. Altri vizi procedurali.

Secondo Sez. 2, n. 18199/2019, Tedesco, Rv. 654470-01, ove l’accertamento della violazione sia realizzato attraverso analisi di campioni, la comunicazione dell’esito di tali analisi all’interessato ex art. 15 della l. n. 689 del 1981 equivale alla contestazione immediata di cui all’art. 14, comma 1, della stessa legge e, pertanto, non è soggetta ad un termine predeterminato, ma deve essere eseguita entro un lasso di tempo compatibile con l’equiparazione all’accertamento immediato stabilita dall’art. 15, comma 5, legge cit.; ne consegue che, solo qualora tale comunicazione non sia possibile, occorre procedere alla notificazione degli estremi della violazione entro il termine, decorrente dal momento del completamento dell’analisi, stabilito dall’art. 14, comma 2, legge cit., in difetto della quale si verifica l’estinzione dell’obbligazione di pagamento della sanzione pecuniaria.

Sez. 6-2, n. 21146/2019, Carrato, Rv. 655278-01, in conformità a quanto già statuito da Sez. U, n. 01786/2010, Goldoni, Rv. 611244-01, ha escluso che la mancata audizione dell’interessato che ne abbia fatto richiesta, ai sensi dell’art. 18, comma 2, della l. n. 689 del 1981, comporti la nullità dell’ordinanza-ingiunzione, poichè, riguardando il giudizio di opposizione il rapporto e non l’atto – v. retro § 1 “gli argomenti a proprio favore che l’istante avrebbe potuto sostenere in sede di audizione dinanzi all’autorità amministrativa ben possono essere prospettati in sede giurisdizionale. Peraltro, ad avviso di Sez. 2, n. 11300/2018, Scalisi, Rv. 648098-01, il mutamento di giurisprudenza in subiecta materia” introdotto proprio da Sez. U, n. 01786/2010, Goldoni, cit., non integra un’ipotesi di cd. prospective overulling, poiché tale istituto non ha carattere processuale, inserendosi nell’ambito di un procedimento di formazione di un atto amministrativo, e, comunque, dalla sua violazione non consegue l’effetto preclusivo del diritto di azione e di difesa dell’interessato, il quale ha la possibilità di fare valere nel processo a cognizione piena le ragioni che avrebbe potuto rappresentare in fase di audizione.

Da ultimo, Sez. 6-2, n. 17088/2019, Falaschi, Rv. 654616-01, ha, infine, precisato che il procedimento preordinato all’irrogazione delle sanzioni amministrative sfugge all’ambito applicativo della l. n. 241 del 1990 perché, per la sua natura sanzionatoria, è compiutamente retto dai principi autonomamente sanciti dalla l. n. 689 del 1981 e dal d.P.R. n. 495 del 1992, che non prescrivono, quanto al contenuto del verbale di accertamento, la necessità di indicare l’autorità territorialmente competente a conoscere dell’impugnativa od il nominativo del responsabile del procedimento.

6. Elemento psicologico e cause di giustificazione.

Con riguardo all’elemento psicologico della violazione amministrativa, è necessaria ed al tempo stesso sufficiente la semplice colpa, identificata dalla giurisprudenza come mera suitas della condotta inosservante, cioè come coscienza e volontà della condotta attiva o omissiva, senza che occorra la concreta dimostrazione del dolo o della colpa. Infatti, l’art. 3 della l. n. 689 del 1981 pone una presunzione di colpa in ordine al fatto vietato a carico di colui che l’abbia commesso: pertanto – come puntualizzano Sez. 2, n. 24081/2019, Varrone, Rv. 6655391-01 e Sez. 2, n. 33441/2019, Lombardo, Rv. 656323-01 – grava sul trasgressore l’onere di provare di avere agito senza colpa, poiché il legislatore ha tipizzato le fattispecie ricollegando il giudizio di colpevolezza non a parametri psicologici, ma normativi, ovvero alla realizzazione di determinate condotte attive od omissive, in violazione di legge o di precetti di comune prudenza.

Al fine di escludere la responsabilità amministrativa dell’autore dell’infrazione, come ricorda, da ultimo, Sez. 2, n. 06018/2019, Picaroni, Rv. 652932-, non basta uno stato di ignoranza circa la sussistenza dei relativi presupposti, ma occorre che tale ignoranza sia incolpevole, cioè non superabile dall’interessato con l’uso dell’ordinaria diligenza (negli stessi termini, Sez. 2, n. 00720/2018, Bellini, Rv. 647152-01: fattispecie in cui la S.C. ha ritenuto l’assenza di buona fede in capo ad una società titolare di impianto per la radiodiffusione in relazione allo spostamento non autorizzato dell’impianto in questione ad opera di un incaricato alla manutenzione, ricorrendo una violazione colposa del dovere di vigilanza). È radicato l’indirizzo di legittimità, ripreso dalla menzionata Sez. 2, n. 33441/2019, Lombardo, Rv. 656323-01, e da Sez. 2, n. 20219/2018, Bellini, Rv. 649910-01, che dà rilievo all’esimente della buona fede come causa di esclusione della responsabilità amministrativa, al pari di quanto avviene per quella penale in materia di contravvenzioni ex art. 5 c.p., solo quando risulti “inevitabile”, occorrendo a tal fine che sussistano elementi positivi idonei, estranei all’autore dell’infrazione, che siano idonei ad ingenerare in lui il convincimento della liceità della sua condotta, purché risulti che abbia fatto tutto il possibile per conformarsi al precetto di legge, onde nessun rimprovero possa essergli mosso, neppure sotto il profilo della negligenza omissiva. L’inevitabilità dell’ignoranza del precetto violato, poi, deve essere apprezzata, dal giudice di merito, alla luce della conoscenza e dell’obbligo di conoscenza delle leggi che grava sull’agente in relazione anche alle sue qualità professionali e al suo dovere di informazione sulle norme e sulla relativa interpretazione.

L’errore scusabile determinato dall’interpretazione di norme giuridiche, secondo Sez. 2, n. 12110/2018, Cosentino, Rv. 648504-01, in tanto può assumere rilievo, in quanto non riguardi la sola interpretazione giuridica del precetto, ma verta sui presupposti della violazione e sia stato determinato da un elemento positivo, estraneo all’autore, idoneo ad ingenerare in quest’ultimo l’incolpevole opinione di liceità del proprio agire (nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che, in riferimento ad una sanzione amministrativa irrogata ai sindaci di una società per azioni per l’omessa segnalazione delle irregolarità riscontrate nell’attività di vigilanza, aveva escluso la scusabilità dell’errore addotto dai ricorrenti, in considerazione del livello di qualificazione professionale che la carica ricoperta doveva fare presumere). Significativo, al riguardo, è il principio sancito da Sez. 5, n. 03431/2019, Mondini, Rv. 652523-01, che, in tema di sanzioni amministrative per violazione di obblighi tributari, ha escluso la sussistenza di obiettive condizioni di incertezza nell’interpretazione delle norme violate qualora la giurisprudenza di legittimità, alla quale soltanto spetta di assicurare l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, ai sensi dell’art. 65 del r.d. n. 12 del 1941, sia consolidata, senza che assumano rilevanza eventuali contrasti nella giurisprudenza di merito.

Un caso di esclusione dell’elemento psicologico per difetto (anche) di colpa è rinvenibile in Sez. 2, n. 04866/2018, Carrato, Rv. 647643-01, in tema di esercizio abusivo dell’attività di autotrasporto, in fattispecie nella quale il proprietario della merce non aveva partecipato all’affidamento del trasporto al vettore abusivo e non erano emerse negligenze rispetto all’accertamento della regolarità del trasportatore, non essendo esigibile, a carico dello stesso, un obbligo di vigilanza avente ad oggetto anche la verifica del possesso, da parte dell’autotrasportatore medesimo, delle prescritte autorizzazioni.

Per ciò che concerne le cause di giustificazione – adempimento di un dovere, esercizio di una facoltà legittima, stato di necessità e legittima difesa – in mancanza di ulteriori precisazioni contenute nell’art. 4 della l. n. 689 del 1981, che si limita ad enumerarle, è regola costante nella giurisprudenza il riferimento ai corrispondenti istituti penalistici, esigendosi un rigoroso accertamento di fatto, rimesso al giudice di merito.

Coerentemente a tale impostazione, ai fini del riconoscimento dello stato di necessità, Sez. 6-2, n. 16155/2019, Carrato, Rv. 654604-01, richiede, in conformità ai requisiti strutturali degli artt. 54 e 59 c.p., la sussistenza di un’effettiva situazione di pericolo imminente di un grave danno alla persona, non altrimenti evitabile, ovvero l’erronea convinzione (che, comunque, ridonda in favore del trasgressore, purché provocata da circostanze oggettive) di trovarsi in una situazione del genere (fattispecie in cui la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva negato la sussistenza dello stato di necessità invocato sulla base del mero convincimento soggettivo, da parte del trasgressore, che la madre versasse in condizioni di pericolo: v. anche Sez. 6-2, n. 04834/2018, Manna F., Rv. 649209-01, che ha escluso l’invocabilità dell’esimente quando la situazione di pericolo riguardi un animale).

La scriminante dell’esercizio di una facoltà legittima è stata esclusa da Sez. 2, n. 03740/2018, Carrato, Rv. 647801-01, se il contravventore, pur abilitato con autorizzazione amministrativa all’esercizio di un’attività, abbia violato i limiti tabellari previsti dalla normativa primaria di riferimento.

7. Prescrizione.

La prescrizione del diritto a riscuotere le somme dovute a titolo di sanzione amministrativa decorre, in ossequio all’art. 2935 c.c., dal momento in cui il diritto può essere fatto valere.

Al riguardo, Sez. 5, n. 05577/2019, D’Orazio, Rv. 652721-02, in vicenda relativa a cartella di pagamento per sanzioni fondata su sentenza passata in giudicato, ha chiarito che il diritto alla riscossione delle sanzioni amministrative pecuniarie è assoggettato al termine di prescrizione decennale previsto dal succitato art. 2935 c.c. per l’actio iudicati solo ove si fondi su un accertamento divenuto definitivo contenuto in una sentenza coperta da giudicato. Se, invece, la definitività della sanzione non deriva da un provvedimento giurisdizionale irrevocabile, opera il termine di prescrizione quinquennale ai sensi dell’art. 20 del d.lgs. n. 727 del 1997.

Con specifico riferimento alla pena pecuniaria stabilita in caso di inottemperanza all’obbligo di comunicazione alla Cassa nazionale di previdenza ed assistenza forense dell’ammontare del reddito professionale ex art. 17, comma 4, della l. n. 576 del 1980, Sez. L, n. 17258/2018, Riverso, Rv. 649594-01, nel considerare detta sanzione tuttora amministrativa (anche all’indomani della privatizzazione della Cassa per effetto del d.lgs. n. 509 del 1994), l’ha ritenuta assoggettata a prescrizione quinquennale, con inizio dal giorno di commissione della violazione, e non a quella decennale fissata dall’art. 19, comma 1, della l. n. 576 del 1980, riferibile esclusivamente ai contributi e ai relativi accessori.

Nella particolare ipotesi di fatti già sanzionati penalmente e successivamente depenalizzati, Sez. 6-2, n. 19897/2018, Falaschi, Rv. 650067-01, ha escluso che il dies a quo rilevante a fini prescrizionali possa identificarsi nella data dell’infrazione, dovendosi avere riguardo a quando pervengono alla competente autorità amministrativa gli atti inviati dall’autorità giudiziaria, poiché esclusivamente da tale momento l’amministrazione è in grado di esercitare il diritto di riscuotere la somma stabilita dalla legge a titolo di sanzione amministrativa.

Secondo Sez. 2, n. 15025/2019, Picaroni, Rv. 654189-01, nell’eventualità di illecito omissivo (proprio) permanente – configurabile solo con riferimento a quelle condotte che l’autore avrebbe potuto porre in essere utilmente anche dopo la prima omissione – in presenza di plurime e specifiche contestazioni, in ordine alla decorrenza della prescrizione di cui all’art. 28 della l. n. 689 del 1981, occorre verificare la configurabilità della permanenza in relazione alle singole condotte.

Riguardo agli atti interruttivi della prescrizione, Sez. 3, n. 01550/2018, D’Arrigo, Rv. 647596-01, ha chiarito che l’atto notificato ad uno dei coobbligati, in caso di solidarietà tra questi ai sensi dell’art. 6 della l. n. 689 del 1981, determina effetti interruttivi verso gli altri, in base all’art. 1310 c.c., stante il richiamo generale contenuto nell’art. 29 della medesima legge alla disciplina del codice civile anche quanto all’interruzione della prescrizione. La Corte ha ritenuto irrilevante che il soggetto nei confronti del quale è stata interrotta la prescrizione sia il materiale esecutore della violazione (o colui al quale la legge estende la corresponsabilità nel pagamento della relativa sanzione), non potendosi distinguere, ai fini dell’art. 1310 c.c., fra coobbligati solidali. L’estensione degli effetti interruttivi non si verifica, invece, nella diversa ipotesi, regolata dall’art. 5 della l. n. 689 del 1981, del concorso di più persone nella commissione della violazione, difettando il vincolo della solidarietà fra i coobbligati, ciascuno dei quali è tenuto al pagamento della sanzione amministrativa per intero.

Infine, per Sez. L, n. 27509/2019, Mancino, Rv. 655600-01, il termine quinquennale di prescrizione della sanzione amministrativa pecuniaria, stabilito dall’art. 17, comma 4, primo periodo, della l. n. 576 del 1980, per l’inottemperanza all’obbligo di comunicazione alla Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense dell’ammontare del reddito professionale percepito, decorre dal giorno in cui è stata commessa la violazione, ovvero dalla scadenza del termine di trenta giorni dalla data prescritta per la presentazione della dichiarazione annuale dei redditi.

8. Cumulo di reati e concorso di persone.

In una fattispecie concernente delle sanzioni amministrative per plurime violazioni in materia di orario di lavoro, commesse con più azioni od omissioni, Sez. L, n. 12659/2019, Arienzo, Rv. 654065-01, ha espresso il principio per il quale deve ritenersi operativo, in una simile situazione, il criterio del cd. cumulo materiale, atteso che la disciplina dell’art. 8 della l. n. 689 del 1981 contempla il criterio del cd. cumulo giuridico soltanto in materia di previdenza e assistenza e che la differenza morfologica e soggettiva tra illecito penale e illecito amministrativo non consente di applicare analogicamente l’art. 81 c.p.

In tema di sanzioni amministrative, Sez. 2, n. 34031/2019, Bellini, Rv. 656220-01, ha affermato che l’art. 5 della l. n. 689 del 1981, che concerne il concorso di persone, rende applicabile la pena pecuniaria non soltanto all’autore o ai coautori dell’infrazione, ma anche a coloro che, comunque, abbiano dato un contributo causale, sicché, relativamente al trasporto di rifiuti non pericolosi, integra gli estremi della condotta tipica dell’illecito amministrativo commesso in violazione dell’art. 193 del d.lgs. n. 152 del 2006 – e sanzionato dall’art. 258 del medesimo decreto – l’omissione, da parte del produttore e del trasportatore, dell’obbligo posto a loro carico di compilare e sottoscrivere il formulario di trasporto, assumendosene onere e responsabilità diretti.

9. La determinazione della sanzione in caso di pluralità di violazioni rimessa all’attenzione della Corte di giustizia dell’Unione europea.

Delle ordinanze interlocutorie di assoluto rilievo sono Sez. 2, n. 29555/2019, Oricchio, e Sez. 2, n. 29469/2019, Oricchio, che hanno riguardato un contenzioso molto diffuso nel nostro paese.

Il provvedimento concerne la violazione e falsa applicazione dell’art. 19 della l. n. 727 del 1978 e dell’art. 14, comma 1, e 15, commi 2 e 7, Reg. CEE, n. 3281 del 1985.

Nella fattispecie era stata dedotta l’erroneità della decisione gravata, la quale – in tema di violazione della legislazione in materia di fogli di registrazione del cronotachigrafo installato su veicolo – aveva ritenuto che l’omessa esibizione di detti fogli poteva esser sanzionata solo nel limite di quanto richiesto dalla normativa (“fogli di registrazione della settimana in corso e di quelli utilizzati dal conducente stesso nei quindici giorni anteriori (ovvero) dopo il 1° gennaio 2008, della giornata in corso e dei 28 giorni precedenti”) con una sola sanzione per una unica infrazione e non anche - come avvenuto nel caso in esame - con multiple sanzioni, relative ai singoli più brevi periodi rientranti nell’intero arco temporale considerato dalla normativa stessa.

In particolare, si era evidenziato che l’art. 15, comma 7, del Reg. CEE n. 3821 del 1985, come modificato dall’art. 23 del Reg. CE n. 561 del 2006, sanciva che «Il conducente .... Deve essere in grado di presentare, su richiesta ai controlli : i) i fogli di registrazione della settimana in corso e di quelli utilizzati dal conducente stesso nei quindici giorni precedenti, ii) la carta del conducente se è titolare di siffatta carta, iii) ogni registrazione manuale e tabulato fatti nella settimana in corso e nei quindici giorni precedenti.....Tuttavia dopo il 10 gennaio 2008, i periodi di tempo di cui ai punti i) e iii) comprenderanno la giornata in corso ed i 28 giorni precedenti».

La S.C. ha osservato che, se l’art. 5 de quo fosse interpretato nel senso che al conducente è imposta un’unica condotta consistente nell’esibizione dei fogli relativi ad un certo numero di giornate di lavoro con obbligo di esibizione agli addetti ai controlli dei fogli di registrazione nella loro interezza, la violazione della norma sarebbe unica proprio perché tale sarebbe la condotta, con la conseguenza che sarebbe irrogata esclusivamente una sanzione, senza cumulo materiale ed indipendentemente dal numero dei singoli dischi che il conducente non fosse in grado di esibire. Se, viceversa, la norma fosse interpretata come riferibile ad una condotta frazionabile, allora sarebbe possibile elevare tanti verbali di contestazione per quanti sono i giorni (o, come nella concreta ipotesi in giudizio, i gruppi di giorni) in ordine ai quali non si è avuta l’ottemperanza all’onere di esibizione (si rileva che Sez. L, n. 17073/2007, De Renzis, Rv. 599628-01, pur se in ordine ad una normativa avente diversa funzione e ratio, aveva già affrontato la questione della condotta che doveva tenere l’imprenditore il quale – in base all’art. 14, comma 2, Reg. CEE n. 382 del 1985 – deve conservare per almeno un anno dalla data di utilizzazione i fogli di registrazione, affermando che, in tema di obblighi dell’impresa di trasporto su strada, la pluralità di violazioni alla normativa che impone l’obbligo di conservazione sistematica dei fogli di registrazione, vale a dire i dischi cronotachigrafi, non configurava l’ipotesi di continuazione ex art. 8 l. n. 689 del 1981, ma quella di concorso materiale, atteso che le violazioni stesse davano luogo a condotte distinte e che le registrazioni erano riferite a diversi giorni lavorativi).

La S.C., inoltre, ha posto in luce il collegamento del caso considerato con il dictum della sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea n. 210/10, sorta da controversia avente ad oggetto una domanda di pronuncia pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 TFUE proposta dall’autorità giudiziaria ungherese. Nel decidere quella controversia, relativa alla proporzionalità della sanzione proprio in materia di violazioni relative all’utilizzo del cronotachigrafo, era stato affermato ‹‹...a tal proposito, l’art. 19, paragrafo 1, di detto regolamento impone agli Stati membri di stabilire “sanzioni applicabili in caso di infrazioni che devono essere effettive, proporzionate, dissuasive e non discriminatorie”››. Ogni Stato, quindi, in base a questa logica, avrebbe dovuto imporre sanzioni adeguate, parametrate all’intero lasso di tempo (ventotto giorni) e non alla singola violazione giornaliera eventualmente cumulabile, con l’ulteriore conseguenza che l’effettività dissuasiva della sanzione non potrebbe essere di certo perseguita con la prassi di elevare un numero multiplo di sanzioni eventualmente non proporzionate, per difetto, in rapporto alla complessiva condotta omissiva. Pertanto, la S.C., stante una situazione di oggettiva incertezza interpretativa, ha formulato domanda di interpretazione pregiudiziale alla Corte di giustizia della Unione europea, in particolare in ordine al quesito: ‹‹se l’art. 15, co. 7 cit. possa essere interpretato, per la specifica ipotesi del conducente dell’automezzo, quale norma che prescriva una unica complessiva condotta con conseguente commissione di una unica infrazione ed irrogazione di una sola sanzione ovvero può dar luogo, con l’applicazione del cumulo materiale, a tante violazioni e sanzioni per quanti sono i giorni in relazione ai quali non sono stati esibiti i fogli di registrazione del cronotachigrafo nell’ambito del previsto lasso temporale (“giornata in corso ed i 28 giorni precedenti”)››.

10. Sanzioni in ambito bancario e finanziario: profili procedimentali.

Una decisione di interessante rilievo sistematico ha esaminato varie questioni attinenti alla procedura da seguire per irrogare le sanzioni in esame.

In primo luogo, Sez. 2, n. 00004/2019, Grasso Giuseppe, Rv. 652574-01, ha fornito delle importanti indicazioni quanto alla natura degli organismi coinvolti nella materia in questione, chiarendo che le autorità indipendenti, nello svolgimento delle funzioni di garanzia loro attribuite, perseguono la tutela di interessi collettivi dello Stato-comunità (quali la libertà del mercato, la tutela del risparmio, il corretto funzionamento della borsa e del sistema creditizio, ecc.) e, in taluni casi, di diritti soggettivi individuali (come la tutela della riservatezza) e, nei rispettivi ambiti, esercitano funzioni sanzionatorie, ponendosi quali organi giustiziali, non equiparabili ad organi di giustizia in senso proprio che pronunciano statuizioni giudiziali. Il procedimento sanzionatorio di cui alla l. n. 262 del 2005 non partecipa, quindi, della natura giurisdizionale del processo tipicamente inteso, che è solo quello che si svolge davanti ad un giudice, e le sanzioni applicate dalla Banca d’Italia ai sensi dell’art. 195 TUF non hanno natura penale, con la conseguenza che non è violato l’art. 6, par. 1, della CEDU, ben potendo l’incolpato esercitare tutti i suoi diritti di difesa nella successiva eventuale fase di opposizione, ove si realizza un pieno sindacato giurisdizionale, fino al vaglio di legittimità.

Con riguardo agli aspetti procedimentali, secondo Sez. 2, n. 00004/2019, Grasso Giuseppe, Rv. 652574-02, la Commissione per l’esame delle irregolarità presso la Banca d’Italia è un organo consultivo che non persegue finalità istruttorie necessarie ed è preposto – in base alle disposizioni regolamentari della stessa Banca – allo studio e all’analisi delle questioni che, per complessità, novità e ripercussioni sistemiche, suggeriscano strategie generali e de futuro. Pertanto, la mancata acquisizione del relativo parere non è sindacabile in sede giudiziaria, ove sia motivatamente esclusa la sussistenza di una situazione che imponga il coinvolgimento di tale Commissione.

Inoltre, Sez. 2, n. 00004/2019, Grasso Giuseppe, Rv. 652574-03, ha precisato che, in tema di osservanza del termine di conclusione del procedimento sanzionatorio di cui al d.lgs. n. 58 del 1998, rileva il momento dell’adozione del provvedimento sanzionatorio e non la successiva comunicazione che, seppure necessaria ad altri fini, non integra né perfeziona l’atto, già perfetto in ogni sua parte.

Sez. 2, n. 00004/2019, Grasso Giuseppe, Rv. 652574-04, ha affermato, altresì, che al procedimento per l’irrogazione di sanzioni amministrative per la violazione delle norme del testo unico in materia bancaria e creditizia è applicabile l’art. 3 della l. n. 241 del 1990, sicché il decreto del Direttorio della Banca d’Italia che commina la sanzione può essere motivato per relationem mediante il rinvio all’atto che ne contiene la proposta, purché questo sia richiamato nel provvedimento con la precisa indicazione dei suoi estremi e sia reso disponibile agli interessati, secondo le modalità che disciplinano il diritto di accesso ai documenti della pubblica amministrazione. In particolare, il suddetto Direttorio, ove condivida tale proposta, non è tenuto a ribadirne le argomentazioni.

Ad avviso di Sez. 2, n. 21171/2019, Giusti, Rv. 655194-01, in tema di sanzioni amministrative previste per la violazione delle norme che disciplinano l’attività di intermediazione finanziaria, il momento dell’accertamento, dal quale decorre il termine di decadenza per la contestazione degli illeciti da parte della CONSOB, va individuato in quello in cui la constatazione si è tradotta, o si sarebbe potuta tradurre, in accertamento, dovendosi a tal fine tenere conto, oltre che della complessità della materia, delle particolarità del caso concreto anche con riferimento al contenuto e alle date delle operazioni.

In particolare, Sez. 2, n. 27702/2019, Varrone, Rv. 655683-01, ha affermato, in una vicenda concernente transazioni finanziarie in contanti poste in essere senza il tramite di intermediari abilitati, che, in tema di sanzioni amministrative, qualora non sia avvenuta la contestazione immediata della violazione, il momento dell’accertamento – in relazione al quale collocare il dies a quo del termine previsto dall’art. 14, comma 2, l. n. 689 del 1981, per la notifica degli estremi di tale violazione – non coincide con quello in cui viene acquisito il “fatto” nella sua materialità da parte dell’autorità alla quale è stato trasmesso il rapporto, ma va individuato nel giorno nel quale detta autorità abbia acquisito e valutato tutti i dati indispensabili ai fini della verifica dell’esistenza della violazione segnalata, ovvero in quello in cui il tempo decorso non risulti ulteriormente giustificato dalla necessità di tale acquisizione e valutazione; il compito di individuare, secondo le caratteristiche e la complessità della situazione concreta, l’epoca nella quale ragionevolmente la contestazione avrebbe potuto essere tradotta in accertamento e da cui deve farsi decorrere il termine per la contestazione spetta al giudice del merito, la cui valutazione non è sindacabile nel giudizio di legittimità, se congruamente motivata.

Pertanto, per Sez. 6-2, n. 20159/2019, Oliva, Rv. 654990-01, in materia di prevenzione dell’uso del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività criminose e di finanziamento del terrorismo, in ipotesi di inosservanza degli obblighi informativi nei riguardi dell’unità di informazione finanziaria e degli ispettori del Ministero dell’economia e delle finanze, il termine biennale per la conclusione del procedimento sanzionatorio decorre dal momento in cui l’amministrazione procedente ha ricevuto la notificazione della contestazione della violazione, posto che il comma 2 dell’art. 69 del d.lgs. n. 231 del 2007, introdotto dall’art. 5, comma 2, del d.lgs. n. 90 del 2017, prevede espressamente che detta nuova disciplina si applichi “dalla data di entrata in vigore del presente articolo”, ancorché i provvedimenti sanzionatori siano stati oggetto di opposizione e il relativo giudizio non si sia ancora concluso.

Inoltre, Sez. 2, n. 21017/2019, Giusti, Rv. 655192-01, ha chiarito, sempre con riferimento al settore dell’intermediazione finanziaria, che la CONSOB, al fine dell’emanazione del provvedimento sanzionatorio, può utilizzare, ai sensi degli artt. 4, 5 e 10 del TUF, nella versione applicabile ratione temporis, gli esiti della verifica ispettiva svolta dalla Banca d’Italia che le sono stati comunicati, senza dovere necessariamente svolgere in via autonoma nuovi accertamenti, ben potendo ciascuno dei predetti soggetti vigilanti fare le veci dell’altro, stante la necessità di evitare duplicazioni nell’esercizio delle rispettive funzioni e di ridurre al minimo gli oneri su di essi gravanti, in ottemperanza al principio di buon andamento della pubblica amministrazione implicante cooperazione e scambio di informazioni rilevanti.

Sez. 2, n. 23814/2019, Gorjan, Rv. 655356-02, ha precisato che, in tema di intermediazione finanziaria, il procedimento di irrogazione di sanzioni amministrative postula solo che, prima dell’adozione della sanzione, sia effettuata la contestazione dell’addebito e siano valutate le eventuali controdeduzioni dell’interessato; non è, pertanto, violato il principio del contraddittorio nel caso di omessa trasmissione all’interessato delle conclusioni dell’Ufficio sanzioni amministrative della CONSOB o di sua mancata audizione innanzi alla Commissione, non trovando applicazione, in tale fase, i principi del diritto di difesa e del giusto processo, riferibili esclusivamente al procedimento giurisdizionale.

Infine, secondo Sez. 2, n. 08237/2019, Bellini, Rv. 653485-01, in ordine alle sanzioni irrogate dalla Banca d’Italia, deve escludersi che la mancata comunicazione all’incolpato della proposta conclusiva formulata dalla Commissione per l’esame delle irregolarità al Direttorio della medesima Banca comporti la violazione del diritto di difesa e dei principi sanciti dall’art. 6 CEDU perché il procedimento amministrativo deve ritenersi ab origine conforme alle prescrizioni di quest’ultima disposizione, essendo il provvedimento sanzionatorio impugnabile davanti ad un giudice indipendente ed imparziale, dotato di giurisdizione piena e presso il quale è garantito il pieno dispiegamento del contraddittorio tra le parti.

11. Sanzioni in ambito bancario e finanziario: soggetti responsabili e contenuto della condotta loro imposta.

Con pronunce che hanno ribadito l’orientamento tradizionale di Sez. 2, n. 02737/2013, Giusti, Rv. 625145-01, Sez. 2, n. 05606/2019, Picaroni, Rv. 652765-01, e Sez. 2, n. 24851/2019, Petitti, Rv. 655261-01, hanno confermato che, in tema di sanzioni amministrative previste dall’art. 144 del d.lgs. n. 385 del 1993, il dovere di agire informati dei consiglieri non esecutivi delle società bancarie, sancito dagli artt. 2381, commi 3 e 6, e 2392 c.c. non va rimesso, nella sua concreta operatività, alle segnalazioni provenienti dai rapporti degli amministratori delegati, giacché anche i primi devono possedere ed esprimere costante e adeguata conoscenza del business bancario e, essendo compartecipi delle decisioni di strategia gestionale assunte dall’intero consiglio, hanno l’obbligo di contribuire ad assicurare un governo efficace dei rischi di tutte le aree della banca e di attivarsi in modo da potere efficacemente esercitare una funzione di monitoraggio sulle scelte compiute dagli organi esecutivi non solo in vista della valutazione delle relazioni degli amministratori delegati, ma pure ai fini dell’esercizio dei poteri, spettanti al consiglio di amministrazione, di direttiva o avocazione concernenti operazioni rientranti nella delega. Ne consegue che il consigliere di amministrazione non esecutivo di società per azioni, in conformità al disposto dell’art. 2392, comma 2, c.c., che concorre a connotare le funzioni gestorie tanto dei consiglieri non esecutivi, quanto di quelli esecutivi, è solidalmente responsabile della violazione commessa quando non intervenga al fine di impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose.

Inoltre, Sez. 2, n. 16780/2019, Oliva, Rv. 654551-01, ha affermato che, in tutte le ipotesi in cui il revisore contabile o la società di revisione contabile, con riferimento alle società quotate in borsa, debbano valutare i risultati di specifiche operazioni di verifica e controllo affidate ad organi di controllo endosocietari o a terzi incaricati dalla società oggetto di revisione, la verifica deve estendersi al controllo delle modalità con cui le predette operazioni sono state condotte ed esplicitare il metodo valutativo utilizzato dal revisore, le operazioni in concreto compiute e le motivazioni del giudizio finale di adeguatezza o non adeguatezza. L’esercizio di tale controllo è finalizzato, infatti, ad assicurare la verifica della corretta appostazione dei dati contabili nel bilancio della società e, di conseguenza, della corretta gestione contabile della società stessa, al fine di assicurare la conoscibilità, in capo ai terzi, delle effettive modalità di gestione contabile, nonché a tutelare l’ordinato svolgimento della concorrenza e del mercato.

Nella stessa ottica, Sez. 2, n. 16323/2019, Bertuzzi, Rv. 654337-01, ha precisato che l’art. 190 TUF, nella versione applicabile ratione temporis anteriormente alla modifica introdotta dall’art. 5 d.lgs. n. 72 del 2015, nel sanzionare le violazioni poste in essere dai “soggetti che svolgono funzioni di amministrazione o di direzione e i dipendenti di società o enti abilitati”, adottando un criterio della responsabilità effettiva dei soggetti che agiscono nell’ambito dell’organizzazione dell’intermediario, cioè della funzione effettivamente svolta, è applicabile in ogni caso in cui il soggetto che la svolge sia inserito all’interno della struttura aziendale, senza che possa assumere rilievo discriminante la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato in senso tecnico. Ne consegue che può essere responsabile della violazione de qua anche il componente del comitato finanza di una banca, benché non sia un dipendente della stessa, essendo egli inserito all’interno della struttura aziendale dell’istituto di credito.

Sez. 2, n. 00005/2019, Oliva, Rv. 652050-01, ha chiarito che, in tema di sanzioni amministrative per violazione delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, il dovere di controllo dei componenti del collegio sindacale e il correlativo obbligo di segnalazione alla CONSOB hanno ad oggetto pure le violazioni, da parte della società, delle norme di condotta previste da regolamenti interni le quali, benché maggiormente stringenti rispetto a quelle di portata generale poste dalla legge, dalle fonti regolamentari o dai codici di autodisciplina, devono tuttavia ritenersi cogenti per la società medesima, essendo esse adottate all’esito di una scelta del tutto libera che costituisce una volontaria autolimitazione dell’operatore del mercato.

12. Sanzioni in ambito bancario e finanziario: il giudizio di opposizione.

Secondo Sez. 2, n. 07663/2019, Casadonte, Rv. 653290-01, in tema di sanzioni irrogate dalla Banca d’Italia, l’opposizione avverso il provvedimento che applica la sanzione resta regolata, pur dopo l’entrata in vigore della l. n. 69 del 2009 e del d.lgs. n. 150 del 2011, dall’art 195, comma 4, d.lgs. n. 58 del 1998, il quale configura un procedimento speciale sottratto all’ambito di operatività della cd. riforma sulla riduzione e semplificazione dei riti; pertanto, non trova applicazione lo schema processuale fissato nell’art. 6 del cit. d.lgs. n. 150 del 2011, rapportato al rito del lavoro e contraddistinto dal previo deposito del ricorso nei trenta giorni dalla comunicazione della sanzione e dalla successiva notificazione del medesimo ricorso e del decreto di fissazione dell’udienza, ma resta inalterata la diversa scansione procedurale che prevede, nell’ambito del ricorso alla Corte di appello, la preventiva obbligatorietà della notifica alla Banca d’Italia e solo successivamente il deposito dell’opposizione.

Ad avviso di Sez. 1, n. 02462/2019, Acierno, Rv. 652414-01, nel giudizio di opposizione alle sanzioni irrogate dalla Banca d’Italia, il vizio dipendente dalla omessa celebrazione dell’udienza pubblica, prevista dall’art. 145, comma 6, del d.lgs. n. 385 del 1993 (TUB), come modificato dall’art. 1, comma 53, del d.lgs. n. 72 del 2015, anche in relazione ai giudizi pendenti, deve essere fatto valere dalla parte interessata entro i termini di cui all’art. 157, comma 2, c.p.c.

Inoltre, Sez. U, n. 24609/2019, Scarano, Rv. 655499-01, ha affermato che le controversie relative all’applicazione delle sanzioni amministrative irrogate dalla Banca d’Italia, ai sensi dell’art. 145 del d.lgs. n. 385 del 1993, per le violazioni commesse nell’esercizio dell’attività bancaria, sono devolute alla giurisdizione del giudice ordinario, la cui cognizione si estende agli atti amministrativi e regolamentari presupposti che hanno condotto all’emissione del provvedimento finale, i quali costituiscono la concreta e diretta ragione giustificativa della potestà sanzionatoria esercitata nel caso concreto ed incidono pertanto su posizioni di diritto soggettivo del destinatario.

Infine, Sez. 2, n. 21171/2019, Giusti, Rv. 655194-02, ha precisato, in materia di sanzioni amministrative previste per la violazione delle norme che disciplinano l’attività di intermediazione finanziaria, che la ricostruzione e la valutazione delle circostanze di fatto inerenti ai tempi occorrenti per la contestazione e alla congruità del tempo utilizzato in relazione alla difficoltà del caso sono rimesse al giudice del merito, il quale deve limitarsi a rilevare se vi sia stata un’ingiustificata e protratta inerzia durante o dopo la raccolta dei dati di indagine, tenendo altresì conto della sussistenza di esigenze di economia che inducano a raccogliere ulteriori elementi a dimostrazione di altre violazioni rispetto a quelle accertate, mentre la valutazione della superfluità degli atti di indagine deve essere svolta con giudizio ex ante, restando irrilevante la loro inutilità ex post.

13. Sanzioni amministrative CONSOB e coerenza dell’informazione diffusa.

Secondo Sez. 2, n. 08047/2019, Cosentino, Rv. 653484-01, in materia di sanzioni irrogate dalla CONSOB, chiunque diffonda notizie su un prodotto finanziario offerto al pubblico prima della pubblicazione del relativo prospetto informativo, pur non essendone l’offerente, l’emittente od il responsabile del collocamento ex art. 34-decies del Regolamento emittenti della CONSOB, risponde dell’illecito amministrativo previsto dall’art. 191, comma 2, TUF, nel caso di incoerenza delle notizie da lui diffuse rispetto a quelle contenute in detto (emanando) prospetto, ancorché egli si limiti ad operare nell’ambito di un’attività di collocamento svolta alle dipendenze non di chi ne sia il responsabile, bensì di un soggetto di cui quest’ultimo si avvalga per diffondere “indirettamente” tali notizie. Nella specie, la S.C. ha ritenuto legittima la sanzione inflitta, a causa dell’incoerenza delle informazioni fornite, al dipendente di un istituto di credito che, su incarico del soggetto responsabile, si era occupato solo del collocamento di un prodotto finanziario.

Più precisamente, ad avviso di Sez. 2, n. 08047/2019, Cosentino, Rv. 653484-03, in materia di offerta al pubblico di strumenti finanziari, la nozione di “coerenza” tra le informazioni diffuse e quelle riportate nel prospetto informativo successivamente pubblicato, di cui all’art. 34-decies, lett. a), del Regolamento emittenti della CONSOB, ha natura elastica (essendo ascrivibile alla tipologia delle clausole generali) e, nell’esprimere il relativo giudizio di valore necessario ad integrare il parametro generale contenuto nella norma, il giudice deve provvedere all’interpretazione della stessa mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza comune sia di principi che la disposizione implicitamente richiama, dando concretezza a quella parte mobile della medesima che il legislatore ha voluto tale per adeguarla ad un dato contesto storico-sociale, ovvero a determinate situazioni non esattamente ed efficacemente specificabili a priori. Il suddetto giudizio è, pertanto, censurabile in sede di legittimità, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., quando esso si ponga in contrasto con i principi dell’ordinamento e con quegli standard valutativi esistenti nella realtà sociale che concorrono, con i menzionati principi, a comporre il diritto vivente. Pertanto, non si può ritenere “coerente” l’indicazione all’investitore, contenuta nelle notizie diffuse al pubblico, del 30 giugno 2030 quale data di scadenza attesa dell’investimento, mentre nel prospetto informativo erano stati riportati il 31 dicembre 2030 quale scadenza attesa ed il 30 giugno 2040 quale scadenza finale.

Sez. 2, n. 08047/2019, Cosentino, Rv. 653484-02, ha pure chiarito che l’art. 34-decies del Regolamento emittenti della CONSOB rappresenta l’esatta trasposizione, nell’ordinamento nazionale, della norma dettata dall’art. 15, comma 4, della direttiva 2003/71/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 4 novembre 2003 (cd. direttiva “Prospetto”) e, quindi, non si pone in contrasto con il diritto dell’Unione europea.

14. Abuso di informazioni privilegiate e confisca.

In materia di abuso di informazioni privilegiate, Sez. 1, n. 14664/2019, Lamorgese, Rv. 654949-01, e Sez. 2, n. 21176/2019, Varrone, Rv. 655196-02, (nonché Sez. 2, n. 21700/2019, Varrone, non massimata) hanno specificato che la misura della confisca per equivalente non può trovare indefettibile applicazione per i fatti commessi (nella specie, da insider secondario) in epoca anteriore all’entrata in vigore della l. n. 62 del 2005 (che ha depenalizzato la condotta degli insider secondari), atteso che la Corte costituzionale, con sentenza n. 223 del 2018, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 6, della stessa legge, nella parte in cui stabilisce che la confisca per equivalente prevista dall’art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998 si applica, allorché il procedimento penale non sia stato definito, anche alle violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore della l. n. 62 del 2005, quando il complessivo trattamento sanzionatorio conseguente all’intervento di depenalizzazione risulti in concreto più sfavorevole di quello applicabile in base alla disciplina previgente.

Inoltre, per Sez. 2, n. 18201/2019, Scarpa, Rv. 654971-01, in tema di abuso di informazioni privilegiate commesso da insider secondario, la confisca per equivalente, prevista dall’art. 187-bis TUF, come novellato dalla l. n. 62 del 2005, non può essere disposta in relazione a violazioni commesse anteriormente all’entrata in vigore della l. n. 62 citata, poiché la nuova normativa, pur avendo depenalizzato l’illecito in questione, ha comunque introdotto un trattamento sanzionatorio amministrativo in concreto più afflittivo rispetto a quello precedente, con la conseguenza che, per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 223 del 2018, deve essere applicata la lex mitior.

15. Le sanzioni in ambito bancario e finanziario e le questioni di legittimità costituzionale prospettate.

Secondo Sez. 2, n. 08046/2019, Cosentino, Rv. 653405-02, le garanzie del contraddittorio previste per il procedimento sanzionatorio davanti alla CONSOB prima delle modifiche introdotte dalla delibera n. 29.158 del 29 maggio 2015 della medesima CONSOB sono da ricondurre al livello proprio del contraddittorio procedimentale, di solito di tipo verticale, svolgendosi esso tra l’amministrazione e l’interessato su un piano non di eguaglianza, ma in funzione collaborativa, partecipativa e non difensiva, e non già di quello di matrice processuale, di tipo orizzontale, che riguarda due parti in posizione paritaria rispetto ad un decidente terzo e imparziale. Ne consegue che non sussiste alcun contrasto con l’art. 24 Cost. e con i principi espressi dagli artt. 195 TUF e 24 della l. n. 262 del 2005. In particolare, la S.C., dissentendo dall’interpretazione offerta dal Consiglio di Stato con la sentenza n. 1596 del 2015, ha ritenuto che le menzionate garanzie fossero soddisfatte dalla previa contestazione dell’addebito e dalla valutazione, prima dell’adozione della sanzione, delle eventuali controdeduzioni dell’interessato, non essendo necessarie né la trasmissione a quest’ultimo delle conclusioni dell’Ufficio sanzioni amministrative della CONSOB né la sua personale audizione.

Pertanto, ad avviso di Sez. 2, n. 08046/2019, Cosentino, Rv. 653405-01, in tema di sanzioni amministrative emesse dalla CONSOB, è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, in relazione agli artt. 3 e 117, comma 1, Cost., dell’art. 6, comma 8, d.lgs. n. 72 del 2015, nella parte in cui, per i giudizi ex art. 195 TUF già pendenti alla data di entrata in vigore del d.lgs. cit., dispone la pubblicità dell’udienza senza, tuttavia, estendere ad essi la disciplina procedimentale del comma 7 del medesimo art. 195, come novellato dallo stesso d.lgs. n. 72 del 2015, poiché le forme del rito camerale disciplinato dagli artt. 737 ss. c.p.c. consentono, nei procedimenti di natura contenziosa, il pieno dispiegamento del contraddittorio e dell’iniziativa istruttoria delle parti anche quando difetti la celebrazione di una udienza.

Inoltre, Sez. 2, n. 21176/2019, Varrone, Rv. 655196-01, ha affermato che è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 187-bis del d.lgs. n. 58 del 1998, per ritenuta violazione degli artt. 97 e 117 Cost., in relazione alla direttiva 2003/6/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, nella parte in cui prevede un trattamento sanzionatorio unitario per differenti condotte di abuso di informazioni privilegiate, rimettendo all’autorità amministrativa la determinazione della sanzione. Ed invero, per un verso, l’illecito di insider trading ha un suo nucleo essenziale, costituito dalla utilizzazione di una informazione privilegiata, rispetto al quale le modalità di acquisizione dell’informazione contribuiscono a delineare il fatto in termini di maggiore o minore gravità, apprezzabile in sede di valutazione della condotta illecita concretamente posta in essere, e ciò può giustificare l’adozione di una tecnica legislativa che rimette all’autorità amministrativa la scelta della sanzione pecuniaria più adeguata alle specificità del caso; per altro verso, l’ampiezza della forbice esistente tra il minimo e il massimo della sanzione pecuniaria prevista dalla norma consente all’autorità amministrativa, la cui scelta è comunque soggetta al controllo giurisdizionale in sede di giudizio di opposizione, di graduare la sanzione in relazione alla gravità dell’illecito.

Infine, per Sez. 2, n. 23814/2019, Gorjan, Rv. 655356-01, in materia di intermediazione finanziaria, è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 72 del 2015, per violazione degli artt. 3 e 117 Cost., nella parte in cui non prevede l’applicazione del principio di retroattività della legge più favorevole con riferimento alle sanzioni amministrative irrogate (nella specie, ai sensi dell’art. 190 del d.lgs. n. 58 del 1998) antecedentemente all’entrata in vigore dello stesso d.lgs. n. 72 del 2015. Alla luce della giurisprudenza della CEDU, infatti, il principio del favor rei, di matrice penalistica, non ha ad oggetto il complessivo sistema delle sanzioni amministrative, bensì singole e specifiche discipline sanzionatorie che, pur qualificandosi come amministrative ai sensi dell’ordinamento interno, siano idonee ad acquisire caratteristiche punitive alla luce dell’ordinamento convenzionale; per altro verso, non può ritenersi che una sanzione, qualificata come amministrativa dal diritto interno, abbia sempre ed a tutti gli effetti natura sostanzialmente penale.

16. Ulteriori pronunce riguardanti le sanzioni in ambito bancario e finanziario.

In primo luogo, Sez. 2, n. 00005/2019, Oliva, Rv. 652050-02, ha chiarito che le sanzioni amministrative irrogate dalla CONSOB ai sensi dell’art. 193 del d.lgs. n. 58 del 1998 (cd. TUF) non hanno natura sostanzialmente penale sicché, con riferimento alle stesse, non si pone un problema di compatibilità con le garanzie riservate ai processi penali dall’art. 6 della CEDU né di applicabilità del successivo art. 7 della medesima Convenzione.

Secondo Sez. 2, n. 21017/2019, Giusti, Rv. 655192-02, in tema di vigilanza sull’attività di intermediazione finanziaria, il principio del ne bis in idem non opera qualora vengano in rilievo più condotte illecite ricomprese in diverse norme sanzionatorie applicate dalla Banca d’Italia e dalla CONSOB secondo le rispettive competenze.

Infine, sempre in relazione al ne bis in idem, per Sez. 2, n. 33426/2019, Carrato, Rv. 656318-01, qualora un procedimento amministrativo sanzionatorio, concernente il medesimo fatto (nella specie, condotta illecita di manipolazione del mercato) oggetto di un procedimento penale definito con sentenza di condanna passata in giudicato, si sia concluso, a sua volta, con l’irrogazione di una sanzione formalmente amministrativa, il giudice deve valutare la compatibilità fra il cumulo delle due sanzioni, amministrativa e penale, ed il divieto di ne bis in idem stabilito dall’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e dall’art. 4 del Protocollo n. 7 della CEDU, tenendo conto dell’interpretazione datane dalla Corte di giustizia dell’Unione europea, che valorizza la presenza di norme di coordinamento a garanzia della proporzionalità del trattamento sanzionatorio complessivo. Ne consegue che, nell’eventualità in cui non si dovessero ritenere sussistenti le condizioni per una valutazione di adeguatezza e proporzionalità della già irrogata sanzione conseguente alla sopravvenuta condanna definitiva in sede penale, è demandato al giudice di merito riconsiderare tutti gli aspetti della complessiva vicenda per un intervento “proporzionalmente” riduttivo della misura delle sanzioni pecuniarie e personali applicate con la delibera CONSOB.

Questa pronuncia si ricollega al precedente di Sez. 2, n. 31634/2018, Carrato, Rv. 651763-01, in base al quale, in caso di contemporanea pendenza di un procedimento amministrativo per l’applicazione di una sanzione, formalmente amministrativa, ma di natura sostanzialmente penale (ovvero dell’opposizione avverso tale sanzione) e di un procedimento penale sui medesimi fatti, l’art. 187-duodecies del d.lgs. n. 58 del 1998 vieta la sospensione del primo (e dell’opposizione), ma la decisione definitiva e sfavorevole all’incolpato di uno dei procedimenti impone la rimodulazione della sanzione inflitta all’esito di quello ancora in corso se, cumulata a quella già applicata, essa ecceda i criteri di efficacia, proporzionalità e dissuasività indicati dalla Corte di giustizia dell’Unione europea come condizioni per la limitazione, da parte delle normative nazionali, del principio del ne bis in idem sancito dall’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

Entrambe queste due ultime decisioni presentano un chiaro collegamento con Sez. 2, n. 31632/2018, Cosentino, Rv. 651762-03, ad avviso della quale, qualora un procedimento amministrativo sanzionatorio, concernente i medesimi fatti oggetto di un procedimento penale definito con sentenza passata in giudicato di condanna, si sia concluso, a sua volta, con l’irrogazione di una sanzione, il giudice deve valutare la compatibilità fra il cumulo delle due sanzioni, amministrativa e penale, ed il divieto di ne bis in idem stabilito dall’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e dall’art. 4 del Protocollo n. 7 della CEDU, tenendo conto dell’interpretazione datane dalla Corte di giustizia dell’Unione europea, che valorizza principalmente la presenza di norme di coordinamento a garanzia della proporzionalità del trattamento sanzionatorio complessivo, e dalla Corte EDU, per la quale rileva, soprattutto, la vicinanza cronologica dei diversi procedimenti e la loro complementarità nel soddisfacimento di finalità sociali differenti. Ove, invece, il procedimento penale sia terminato con una pronuncia definitiva di assoluzione “perché il fatto non sussiste”, il divieto del ne bis in idem è pienamente efficace e, pertanto, l’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea non incontra alcuna limitazione ai sensi dell’art. 52 della stessa Carta. Ne derivano l’impossibilità di continuare nell’accertamento dell’illecito amministrativo e la necessità di interrompere il relativo procedimento e l’eventuale successivo giudizio di opposizione, con conseguente non applicazione della disposizione sanzionatoria di diritto interno, circostanza che esclude ogni problema di disapplicazione di disposizioni nazionali in ragione del primato del diritto dell’Unione europea e la rilevanza di questioni di legittimità costituzionale in relazione all’art. 117 Cost. (Nella specie, il ricorrente era una persona fisica che era stata assoggettata alla sanzione amministrativa stabilita dall’art. 187-bis TUF, ma era stata assolta, per gli stessi fatti, in via definitiva e con formula piena dal reato previsto dall’art. 184 TUF all’esito di un giudizio nel quale la CONSOB era parte civile).

17. Le sanzioni amministrative previste dal codice della strada.

Molteplici sono state le pronunce intervenute nel corso dell’anno aventi ad oggetto le sanzioni amministrative previste per la violazione di disposizioni del codice della strada. Fra le principali vanno annoverate quelle concernenti profili processuali e, in specie, la tematica della competenza e dell’opposizione contro le sanzioni in questione.

17.1. L’irrogazione delle sanzioni e la notificazione del verbale di accertamento.

Con riguardo al termine per l’irrogazione delle sanzioni conseguenti alle violazioni al codice della strada, occorre richiamare Sez. 2, n. 29236/2019, Scarpa, Rv. 656186-02, la quale ha affermato che detto termine, ai sensi dell’art. 204, comma 1-ter, del citato codice, si interrompe con la notifica dell’invito al ricorrente che abbia fatto richiesta di audizione e resta sospeso fino alla data fissata per l’espletamento dell’audizione stessa, a differenza di quanto avviene in tema di infrazioni valutarie, ove il termine di centottanta giorni per l’irrogazione delle sanzioni è prorogato ex lege ai sensi dell’art. 8 del d.lgs. n. 195 del 2008, in caso di richiesta dell’interessato di audizione o di valutazioni tecniche. Tale differenza di disciplina, secondo la S.C., non lede i principi costituzionali dettati in tema di diritto di difesa, in ragione della oggettiva diversità delle situazioni sostanziali collegate alle esigenze istruttorie delle due sanzioni e rientrando, comunque, nella discrezionalità del legislatore la determinazione della durata dei termini per l’istruttoria e l’irrogazione delle sanzioni amministrative. La S.C. ha, inoltre, escluso il ricorso all’analogia, essendo consentito dall’art. 12 delle preleggi solo quando manchi nell’ordinamento una specifica norma regolante la concreta fattispecie e si renda, quindi, necessario porre rimedio a un vuoto normativo altrimenti incolmabile in sede giudiziaria.

Di rilievo è, altresì, Sez. 2, n. 24382/2019, Gorjan, che, con ordinanza interlocutoria, ha trasmesso gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite della questione, oggetto di contrasto, concernente l’ammissibilità della notifica all’estero, a mezzo posta e non tramite l’autorità centrale dello Stato del destinatario, come consentito dall’art. 16 del Reg. UE n. 1393 del 2007, del verbale di accertamento di infrazione al codice della strada, quale atto organicamente inserito nella procedura per l’irrogazione di una sanzione amministrativa.

17.2. L’opposizione, la competenza, i suoi effetti, il termine di proposizione, i soggetti legittimati e la patente a punti.

In ordine all’individuazione del giudice competente in tema di sanzioni amministrative per violazioni al codice della strada, si segnala Sez. 6-3, n. 07460/2019, D’Arrigo, Rv. 653443-01, la quale, ponendosi in continuità con due pronunce delle Sezioni Unite dell’anno precedente (Sez. U, n. 010261/2018, Armano, Rv. 648267-01, e Sez. U, n. 01177/2018, Armano, non massimata), ha ribadito che la competenza del giudice di pace è per materia nelle controversie aventi ad oggetto opposizione a verbale di accertamento, ex art. 7 del d.lgs. n. 150 del 2011, nonché prioritariamente per materia, con limite di valore nelle ipotesi di cui alle lett. a) e b) dell’art. 6, comma 5, del citato decreto, per quelle aventi ad oggetto opposizione ad ordinanza-ingiunzione. Ha precisato, altresì, che gli stessi criteri di competenza vanno applicati con riferimento all’impugnativa del preavviso di iscrizione ipotecaria, in quanto azione di accertamento negativo. Pertanto, poiché la competenza del giudice di pace in tema di opposizione a preavviso di iscrizione ipotecaria ha natura di competenza per materia – non per valore – la stessa non risente dell’eventuale cumulo delle domande. Ne consegue che l’opposizione proposta, con unico atto, avverso un preavviso di iscrizione ipotecaria emesso per una pluralità di violazioni del codice della strada, non è attratta, in ragione dell’ammontare complessivo delle sanzioni, nella sfera della competenza per valore del Tribunale e che, nel caso in cui le contravvenzioni siano state rilevate in luoghi differenti, la domanda di accertamento negativo deve essere separata in altrettante cause e, la competenza a conoscere delle quali spetta agli uffici del giudice di pace del luogo di accertamento di ciascuna sanzione.

In merito all’individuazione del giudice competente per territorio in ordine dell’opposizione al verbale di contestazione di infrazione al codice della strada, Sez. 6-2, n. 20988/2019, Dongiacomo, Rv. 655277-01, ha ritenuto che, quando l’illecito sia di tipo omissivo, detta opposizione vada proposta innanzi al giudice territorialmente competente per il luogo in cui si sarebbe dovuta tenere la condotta che è stata, invece, omessa. Pertanto, al fine di concentrare in un unico giudice la competenza a conoscere di tutte le opposizioni alle sanzioni riferite al medesimo fatto, ove sia irrogata al proprietario dell’autoveicolo la sanzione amministrativa per la violazione dell’obbligo di fornire i dati del conducente all’organo che abbia accertato la violazione dei limiti di velocità, ai sensi dell’art. 126-bis, comma 2, del codice della strada, la competenza a trattare la relativa opposizione appartiene al giudice di pace del luogo della sede dell’organo accertatore al quale quei dati avrebbero dovuto essere inviati, rimanendo attribuita la titolarità del potere di accertamento agli uffici della Polizia stradale locale, anche se dal verbale di contestazione risulta che la comunicazione dei dati avrebbe dovuto essere indirizzata al Centro Nazionale Accertamento Infrazioni, che si trova in Roma.

Diverse pronunce hanno avuto ad oggetto il tema dell’opposizione alla cartella di pagamento. Riguardo al contenuto dell’opposizione, Sez. 6-2, n. 11789/2019, Carrato, Rv. 653724-01, ha affermato che il destinatario di una cartella emessa in base ad un verbale di accertamento per violazioni al codice della strada che si assume regolarmente notificato, ove presenti opposizione, invocando l’annullamento della cartella quale conseguenza dell’omissione, invalidità assoluta ovvero inesistenza della notificazione del verbale presupposto, non può che limitarsi a denunciare il vizio invalidante detta notifica, non potendo fare valere in tale sede pure vizi che attengono al merito della pretesa sanzionatoria, la cui allegazione è, al contrario, necessaria qualora sia proposta un’opposizione, riconducibile all’art. 6 del d.lgs. n. 150 del 2011, a cartella di pagamento fondata su un’ordinanza ingiunzione che si assuma illegittimamente notificata. Infatti, l’emissione di questa ordinanza implica che il verbale di accertamento presupposto sia stato legittimamente contestato o notificato al trasgressore il quale, perciò, ha avuto cognizione anche degli aspetti attinenti al merito dell’esercitata pretesa sanzionatoria.

Con la detta pronuncia, la S.C., in linea con l’orientamento già espresso da Sez. 1, n. 00059/2003, Berruti, Rv. 559456-01, ha distinto tra opposizione a cartella di pagamento fondata sul verbale di accertamento e opposizione a cartella di pagamento basata su ordinanza ingiunzione, in entrambi i casi per deduzioni afferenti al difetto di notifica. Nel primo caso, è stato ritenuto che, ove l’opposizione a cartella di pagamento ex art. 7 del d.lgs. n. 150 del 2011 (in precedenza art. 22 della l. n. 689 del 1981) sia stata proposta per fare valere il vizio dell’omissione o invalidità o inesistenza della notificazione del verbale di accertamento, non vi è spazio per difese sul merito della pretesa sanzionatoria, e che la mancata dimostrazione, da parte dell’amministrazione, della tempestiva e valida notifica dell’atto di accertamento, avendo natura di fatto costitutivo della pretesa sanzionatoria, ne comporti la definitiva estinzione. Tale conclusione vale, a maggior ragione, allorquando, come nella fattispecie esaminata dalla decisione in commento, l’invalidità del procedimento notificatorio sia stata accertata all’esito del positivo esperimento del giudizio di querela di falso, nell’ambito del quale è stata definitivamente verificata la falsità dell’attestazione, ad opera dell’agente notificatore, circa l’avvenuto compimento delle attività di cui all’art. 139 c.p.c.

Diversamente, se l’opposizione avverso cartella di pagamento è fondata su un’ordinanza ingiunzione irregolarmente notificata è necessario che, assieme all’allegato difetto della notifica del provvedimento impugnato, siano parimenti dedotti vizi relativi al merito della pretesa sanzionatoria, presupponendosi la pregressa conoscenza, da parte del trasgressore, del verbale di accertamento e delle relative questioni di merito.

La pronuncia de qua si pone in consapevole contrasto con l’indirizzo espresso da Sez. 2, n. 26843/2018, Sabato, Rv. 650849-02, secondo la quale, invece, «è inammissibile l’opposizione a cartella di pagamento, ove finalizzata a recuperare il momento di garanzia di cui l’interessato sostiene di non essersi potuto avvalere nella fase di formazione del titolo per mancata notifica dell’atto presupposto, qualora l’opponente non deduca, oltre alla mancata notifica, anche vizi propri dell›atto presupposto».

Sez. 2, n. 22094/2019, Oliva, Rv. 655216-02, ha esaminato l’ipotesi nella quale il ricorrente, con l’opposizione cd. recuperatoria al verbale di contestazione dell’infrazione al codice della strada, proponga anche censure relative alla cartella esattoriale o comunque concernenti fatti verificatisi successivamente al predetto verbale. La S.C., richiamando la precedente pronuncia Sez. U, n. 22080/2017, Barreca, Rv. 645323-01, ha affermato che tali censure, pur potendo essere in concreto formulate con un unico atto di opposizione, soggiacciono, tuttavia, ai termini previsti dagli artt. 615 e 617 c.p.c. Di conseguenza, i vizi afferenti al procedimento di notificazione della cartella di pagamento, in quanto riferiti alla sequenza procedimentale finalizzata alla esecuzione coattiva della pretesa sanzionatoria, possono essere esaminati soltanto a condizione che il ricorso sia stato proposto nel termine fissato dall’art. 617 c.p.c. di 20 giorni dalla notificazione della cartella medesima. Invece, l’eccezione di prescrizione della pretesa sanzionatoria può essere fatta valere senza termine, in quanto trattasi di censura inquadrabile nell’ambito dell’art. 615 c.p.c.

Ancora in tema di opposizione a cartella esattoriale relativa a sanzioni amministrative per violazioni al codice della strada si è pronunciata Sez. 2, n. 05403/2019, Tedesco, Rv. 652761-01, la quale ha affrontato la questione della individuazione del soggetto su cui grava l’onere di provare l’avvenuta notifica del verbale di accertamento dell’infrazione qualora il destinatario della cartella ne deduca l’omissione, accertando che detto onere incombe sull’ente dal quale dipende l’organo accertatore. Ciò in quanto l’avvenuta notificazione del verbale, unitamente alla mancata opposizione nel termine di sessanta giorni dalla stessa, costituisce requisito indefettibile perché il medesimo verbale acquisisca efficacia di titolo esecutivo, esigibile mediante cartella esattoriale (in senso conforme si era già espressa Sez. 2, n. 08267/2010, Petitti, Rv. 612310-01).

Con riferimento al termine di presentazione dell’opposizione, Sez. 2, n. 02968/2019, Bellini, Rv. 652576-01, ha chiarito che, ove si deduca l’illegittimità della cartella esattoriale per sanzione amministrativa in ragione dell’omessa notifica del verbale di contestazione della violazione al codice della strada – cd. opposizione recuperatoria, la quale, come sottolineato già da Sez. 3, n. 12412/2016, Barreca, Rv. 640411-01, ha la funzione di restituire al ricorrente la medesima posizione giuridica che avrebbe avuto se il verbale gli fosse stato notificato – detto termine deve essere individuato ratione termporis. Pertanto, se l’opposizione è proposta dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 150 del 2011, opera il termine di trenta giorni previsto dall’art. 7 del citato decreto mentre, se è anteriore, la stessa opposizione è soggetta al termine di sessanta giorni di cui all’art. 204-bis del codice della strada.

Per quanto attiene all’individuazione del soggetto legittimato ad impugnare il verbale di accertamento dell’infrazione al codice della strada, Sez. 6-2, n. 01184/2019, Scalisi, Rv. 652344-01, conformandosi alla precedente pronuncia di Sez. 6-2, n. 30299/2011, Proto, Rv. 620747-01, ha affermato che, dopo l’introduzione della cd. patente a punti, il soggetto che, con autocertificazione, abbia dichiarato all’amministrazione procedente di avere preso visione del verbale – che viene notificato al solo proprietario del veicolo in ipotesi di contestazione non immediata – e di essere l’effettivo responsabile della condotta contestata, ha interesse a impugnare il verbale stesso con riferimento alla decurtazione dei punti dalla patente, tenuto conto che tale sanzione viene applicata senza ulteriori notifiche (salva la sola comunicazione dell’avvenuta applicazione della stessa) e che, con riguardo alla anzidetta decurtazione, sussiste la responsabilità esclusiva del conducente, in quanto identificato. In applicazione di tale principio, la S.C. ha ritenuto sussistente l’interesse a contestare il verbale di infrazione (non già in capo al proprietario del veicolo, bensì) in capo al conducente che, con dichiarazione resa davanti ai Carabinieri, aveva riconosciuto di trovarsi alla guida dell’auto al momento della presunta violazione e aveva comunicato gli estremi della propria patente ai fini del provvedimento sanzionatorio della decurtazione dei punti.

Deve, altresì, essere segnalata Sez. 2, n. 13676/2019, Giannaccari, Rv. 654040-01, che si è occupata delle violazioni del codice della strada per le quali non sia possibile il pagamento in misura ridotta della sanzione pecuniaria ex art. 202 del codice della strada. In linea con l’indirizzo espresso da Sez. 6-2, n. 11288/2014, D’Ascola, Rv. 630814-01, la decisione ha confermato che la mancata impugnazione del verbale non determina la formazione del titolo esecutivo, essendo impugnabile, in questa tipologia di sanzione, esclusivamente l’ordinanza ingiunzione, secondo la disciplina generale desumibile dagli artt. 18 e 22 della l. n. 689 del 1981. Ne consegue che l’emissione dell’ordinanza ingiunzione non è assoggettata ad alcun termine di decadenza, trovando come unico limite temporale il termine di prescrizione del diritto alla riscossione della sanzione.

17.3. Le modalità di accertamento delle violazioni e i soggetti legittimati ad effettuarlo: “autovelox”, “alcooltest” e poteri della Polizia municipale.

Nel corso dell’anno diverse pronunce hanno esaminato questioni connesse alle modalità di accertamento delle violazioni mediante apparecchiature automatiche di rilevamento delle infrazioni relative al superamento dei limiti di velocità senza obbligo di fermo immediato del conducente (cd. autovelox).

Ai fini del posizionamento di tali apparecchi su strade urbane, extraurbane secondarie e su strade urbane di scorrimento, è necessario, ex art. 4 del d.l. n. 121 del 2002, conv. in l. n. 168 del 2002, un provvedimento prefettizio che individui le strade lungo le quali gli stessi possono essere installati. In proposito, Sez. 2, n. 16622/2019, Carrato, Rv. 654339-01, ha affermato che tale provvedimento può includere soltanto le strade del tipo imposto dalla legge mediante rinvio alla classificazione di cui all’art. 2, commi 2 e 3, del codice della strada e non altre. Inoltre, ha chiarito che l’esistenza delle caratteristiche minime per la configurazione di una strada urbana come “a scorrimento veloce” deve interessare tutta la strada considerata nella sua interezza e non esclusivamente il singolo tratto in prossimità del posizionamento dell’apparecchio fisso di rilevazione elettronica della velocità. La pronuncia de qua ha statuito che tra gli elementi necessari per la qualificazione di una strada urbana come “di scorrimento” rientra la banchina in senso proprio, ovvero uno spazio all’interno della sede stradale, esterno rispetto alla carreggiata, destinato al passaggio dei pedoni o alla sosta di emergenza che, oltre a dovere restare libero da ingombri, deve avere una larghezza tale da consentire l’assolvimento effettivo delle predette funzioni.

Sez. 2, n. 08934/2019, Oliva, Rv. 653306-01, ha, inoltre, precisato che la banchina è la parte della strada, per la quale non è prevista una misura minima, che si trova oltre la linea continua destra delimitante la carreggiata ed è “compresa tra il margine della carreggiata ed il più vicino dei seguenti elementi longitudinali: marciapiede, spartitraffico, arginello, ciglio interno della cunetta, ciglio superiore della scarpata nei rilevati”. Essa serve normalmente al transito dei pedoni come zona di sicurezza, con la conseguenza che il suo occasionale utilizzo per eventuali soste di emergenza dei veicoli non ne muta la destinazione, posto che ciò è consentito al solo scopo di non recare intralcio al traffico veicolare.

Al riguardo, Sez. 2, n. 08934/2019, Oliva, Rv. 653306-02, ha, altresì, chiarito che, ai fini della legittimità dell’installazione di apparati di rilevamento automatico delle infrazioni al codice della strada sulle strade urbane di scorrimento, o tratti di esse, individuati dall’apposito provvedimento prefettizio, non rilevano eventuali intersezioni non semaforizzate interessanti il solo controviale, a condizione che l’apparato automatico interessi soltanto la sede centrale del viale di scorrimento. Ha in proposito precisato che per intersezione deve intendersi qualsiasi incrocio, confluenza o attraversamento tra due o più strade contraddistinto dall’esistenza di un’area comune alle medesime, indipendentemente dalla provenienza e dalla direzione delle varie direttrici di traffico insistenti sulle predette strade.

In ordine all’obbligo di segnalazione della presenza della postazione fissa di rilevamento, Sez. 2, n. 02041/2019, Oliva, Rv. 652252-01, ha affermato che la legittimità delle sanzioni amministrative irrogate per eccesso di velocità accertato mediante “autovelox” è subordinata alla preventiva segnalazione del medesimo. Di conseguenza si è ritenuto che, nel caso in cui la postazione anzidetta si trovi su una strada alla quale si acceda da altra strada ad essa intersecantesi, la preventiva segnalazione, perché possa utilmente spiegare i suoi effetti di avvertimento, deve essere posta a congrua distanza tra tale intersezione e la successiva postazione fissa di rilevazione della velocità, gravando sull’amministrazione l’onere di provare siffatta circostanza, ove non altrimenti risultante dal verbale di accertamento dell’infrazione (in senso conforme si era precedentemente espressa Sez. 6-2, n. 00680/2011, Piccialli, Rv. 616368-01).

Tuttavia, Sez. 2, n. 01661/2019, Dongiacomo, Rv. 652248-01, ha precisato che la circostanza che nel verbale di contestazione di una violazione dei limiti di velocità, accertata con “autovelox”, non sia indicato se la presenza dell’apparecchio sia stata preventivamente segnalata mediante apposito cartello non rende nullo il verbale stesso, sempre che di detta segnaletica sia stata accertata o ammessa l’esistenza (in senso conforme, Sez. 6-2, n. 00680/2011, Piccialli, Rv. 616367-01).

Ancora in tema di accertamento delle violazioni al codice della strada, ma con riguardo al tasso alcolemico del conducente, Sez. 6-2, n. 01921/2019, Carrato, Rv. 652384-02, ha statuito che il verbale dell’accertamento effettuato mediante etilometro deve contenere, alla luce di un’interpretazione costituzionalmente orientata, l’attestazione della verifica che l’apparecchio da adoperare per l’esecuzione del cd. alcooltest è stato preventivamente sottoposto alla prescritta ed aggiornata omologazione ed alla indispensabile corretta calibratura.

Sez. 6-2, n. 02748/2019, Cosentino, Rv. 652646-01, si è occupata dei limiti al potere di accertamento delle violazioni al codice della strada spettante agli appartenenti alla polizia municipale. Poiché costoro, ai sensi degli artt. 57 c.p.p. e 5 l. n. 65 del 1986, hanno la qualifica di agenti di polizia giudiziaria soltanto nel territorio ove operano e limitatamente al tempo in cui sono in servizio, essi possono accertare ogni violazione in materia di sanzioni amministrative, e, fra queste, anche quelle relative alla circolazione stradale, purché si trovino nell’ambito dell’ente di appartenenza ed alla condizione che siano effettivamente in servizio, a differenza dei componenti di altri corpi, quali la Polizia di Stato, i Carabinieri, la Guardia di finanza, che agiscono su tutto il territorio nazionale e sono sempre in servizio (nello stesso senso si era già espressa Sez. 2, n. 05771/2008, Mazziotti di Celso, Rv. 602077-01).

Sez. 2, n. 03839/2019, Falaschi, Rv. 652363-01, ha ulteriormente precisato che, poiché la polizia municipale è abilitata ex art. 13 della l. n. 689 del 1981 a compiere sull’intero territorio comunale l’attività di accertamento istituzionale nell’ambito dell’espletamento dei servizi di polizia stradale, all’interno di detto territorio essa ha il potere di accertare anche le infrazioni commesse su strada statale al di fuori del centro abitato. Perciò, gli accertamenti di violazioni del codice della strada compiuti in tale territorio debbono ritenersi legittimi sotto il profilo della competenza dell’organo accertatore, restando l’organizzazione, la direzione e il coordinamento del servizio elementi esterni all’accertamento, ininfluenti su detta competenza (conforme Sez. 1, n. 22366/2006, Salvago, Rv. 593146-01).

17.4. Il concorso di violazioni.

Con riferimento all’ipotesi di concorso di violazioni, secondo Sez. 6-2 n. 01683/2019, Scalisi, Rv. 652348-01, l’effettuazione di una manovra di sorpasso in prossimità di una curva con l’invasione dell’opposta corsia di marcia realizza al contempo sia la fattispecie del sorpasso vietato, sia quella della circolazione contromano, non sussistendo tra le due violazioni un rapporto di specialità bensì di concorso formale, stante la diversa ratio degli artt. 143 e 148 del codice della strada.

17.5. “Contrassegno invalidi”, autorizzazioni all’accesso in zona a traffico limitato ed al trasporto di merci su strada, sospensione e revoca della patente, nozione di veicolo “fuori uso”.

Innanzitutto, Sez. 6-2, n. 12625/2019, Falaschi, Rv. 653848-01, nel conformarsi a Sez. 1, n. 08425/2004, Bonomo, Rv. 572575-01, ha ribadito che il diritto di sostare nelle aree riservate, previsto in favore dei detentori del “contrassegno invalidi”, presuppone non solo la titolarità, ma anche l’effettiva esposizione del contrassegno stesso, in mancanza della quale, non essendo possibile verificare se il veicolo sia al servizio di un portatore di disabilità, l’autorità che procede ad accertare il fatto deve contestare la violazione di cui all’art. 158 del codice della strada.

Inoltre, con riguardo alla violazione conseguente all’accesso in zona a traffico limitato senza titolo autorizzativo, per Sez. 2, n. 05338/2019, Picaroni, Rv. 652707-01, il permesso di accesso a tale zona non è collegato al veicolo, la targa del quale costituisce solo l’elemento identificativo, dal punto di vista giuridico, che consente di effettuare il controllo, con la conseguenza che la cessione della vettura non comporta anche il trasferimento automatico del detto permesso.

Sez. 6-2, n. 07704/2019, Carrato, Rv. 653171-01, ha, poi, esaminato l’illecito previsto dall’art. 218, comma 6, del codice della strada, chiarendo che le sanzioni amministrative comminate da questa disposizione si applicano non solo qualora la circolazione abusiva si realizzi dopo l’adozione formale del provvedimento del prefetto di sospensione della patente di guida, ma anche quando avvenga anteriormente al periodo di ritiro della stessa da parte degli agenti accertatori che, essendo preordinato all’irrogazione di detta sospensione, ne anticipa l’efficacia (nello stesso senso si era già espressa Sez. 6-2, n. 23457/2011, Carrato, Rv. 620162-01).

Sez. 2, n. 13508/2019, Bellini, Rv. 654046-01, ha statuito che la revoca della patente, comminata dal giudice penale ex art. 222, comma 2, d.lgs. n. 285 del 1992 costituisce una sanzione amministrativa accessoria a una sanzione penale – nella specie per guida in stato di ebbrezza – concretamente applicata, a norma dell’art. 224, comma 2, del d.lgs. n. 285 del 1992, dall’autorità amministrativa entro 15 giorni dalla comunicazione della sentenza o del decreto di condanna irrevocabili. Ne consegue che il provvedimento di “revoca” della patente non viene materialmente in esistenza prima che il giudice penale lo pronunci (altro essendo, per natura, finalità ed effetti diversi, il provvedimento prefettizio, cautelare, di “sospensione provvisoria” della patente) e che il suo procedimento di applicazione da parte della competente autorità amministrativa non può iniziare prima che la sentenza penale sia passata in giudicato.

Con riguardo al trasporto di merci su strada, Sez. 2, n. 28283/2019, Oliva, Rv. 655690-01, ha chiarito che, affinché ricorra il difetto di autorizzazione, sanzionato ai sensi dell’art. 46 della l. n. 298 del 1974, occorre che venga effettuato un trasporto di merci ad opera di chi non sia titolare della necessaria autorizzazione perché non gli è mai stata rilasciata, restando, invece, irrilevante che l’autorizzazione non sia momentaneamente in suo possesso nel momento in cui è accertata la violazione (in senso conforme si era già espressa Sez. 2, n. 12697/2007, Mensitieri, Rv. 597558-01).

Infine, Sez. 2, n. 34034/2019, Scarpa, Rv. 656329-02, ha affermato che, ai sensi dell’art. 3 del d.lgs. n. 209 del 2003, deve essere considerato “fuori uso” un veicolo del quale sia stata compiuta la materiale consegna al centro di raccolta. In particolare, la S.C. ha rilevato che la cancellazione dal P.R.A. deve avvenire a cura esclusiva del suo titolare, ovvero del concessionario o del gestore della succursale della casa costruttrice o dell’automercato, dovendo detto concessionario o gestore o titolare, entro tre giorni dalla consegna del veicolo, restituire il certificato di proprietà, la carta di circolazione e le targhe relativi allo stesso e, all’esito, procedere alla fase di “trattamento”, la quale è comprensiva delle attività di messa in sicurezza, di demolizione, di pressatura, di tranciatura, di frantumazione, di recupero o di preparazione per lo smaltimento dei rifiuti frantumati, nonché di tutte le altre operazioni eseguite ai fini del recupero o dello smaltimento del veicolo fuori uso e dei suoi componenti, dopo la consegna del mezzo presso un impianto di frantumazione.

18. Le sanzioni diverse da quelle comminate per infrazioni al codice della strada.

Nel corso dell’anno molteplici pronunce hanno precisato presupposti, struttura e ambito applicativo delle sanzioni amministrative non riconducibili ad infrazioni al codice della strada. In particolare, hanno assunto rilievo le decisioni che si sono occupate dell’indebita percezione di aiuti comunitari.

18.1. Indebita percezione di aiuti comunitari.

Conformandosi all’orientamento espresso da Sez. 2, n. 19366/2010, San Giorgio, Rv. 614858-01, Sez. 2, n. 10459/2019, Tedesco, Rv. 653406-01, ha ribadito che, ai fini della configurabilità dell’illecito previsto dall’art. 3 della l. n. 898 del 1986, il quale costituisce un illecito di danno e non di pericolo, è sufficiente che l’indebita percezione di aiuti comunitari sia conseguente all’esposizione di dati o notizie false. Pertanto, in applicazione di tale principio, la S.C. ha ritenuto irrilevante, per escludere la punibilità dell’avvenuta presentazione di documenti non veritieri, l’eventuale accertamento dell’astratta ricorrenza dei presupposti per il conseguimento del beneficio.

Inoltre, la detta sanzione, per Sez. 2, n. 10459/2019, Tedesco, Rv. 653406-02, non è equiparabile, alla luce della giurisprudenza della Corte EDU, a quella penale per qualificazione giuridica, natura e grado di severità, sicché la doppia punibilità prevista dagli artt. 2 e 3 della l. n. 898 citata non integra una violazione del principio del ne bis in idem, con conseguente irrilevanza di un’eventuale questione di costituzionalità.

Ad avviso di Sez. 2, n. 04841/2019, Dongiacomo, Rv. 652627-01, competente ad emettere l’ordinanza ingiunzione, ai sensi degli artt. 2 e 3 della l. n. 898 del 1986, per indebita percezione di premi a carico del Fondo agricolo europeo mediante esposizione di dati e notizie false, è il Ministero delle Risorse agricole (poi sostituito da quello delle Politiche agricole), trattandosi di materia attribuita allo Stato e non alle Regioni, anche qualora spettino a queste ultime l’esame e l’accertamento dell’indebito conseguito. Resta salvo il caso in cui gli illeciti contestati siano riconducibili a funzioni amministrative delegate alle stesse Regioni ex art. 4, comma 1, lett. c), della menzionata l. n. 898 del 1986. Con la pronuncia in esame, la S.C. ha, quindi, confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto la competenza della Regione Marche a comminare la sanzione in questione, avendo l’Agenzia per le erogazioni in agricoltura (AGEA), organismo pagatore dello Stato di aiuti, contributi e premi comunitari finanziati dal Fondo europeo agricolo di orientamento e garanzia, cd. FEAOG, delegato alla medesima Regione i compiti di autorizzazione del pagamento dei premi e di controllo amministrativo e materiale.

Ancora in tema di aiuti comunitari, Sez. 1, n. 24040/2019, Mercolino, Rv. 655306-03, ha ritenuto che la possibilità di applicazione di sanzioni amministrative riguardo all’illecito di indebita percezione di aiuti comunitari nel settore dell’agricoltura non esclude il recupero degli stessi attraverso la ripetizione dell’indebito regolata dall’art. 2033 c.c., la quale trova applicazione non solo qualora l’erogazione sia avvenuta in assenza dei presupposti o di un valido provvedimento giustificativo, ma anche ove il titolo per fruire del beneficio, originariamente esistente, venga meno per decadenza o revoca, senza che sia necessaria l’adozione di un atto di accertamento o liquidazione. La Corte ha precisato che l’amministrazione può, infatti, provvedere congiuntamente al recupero delle somme versate e all’irrogazione delle sanzioni, adottando il procedimento previsto dalla l. n. 689 del 1981, richiamato dalla l. n. 898 del 1986, ma può pure agire separatamente per la ripetizione di quanto pagato, utilizzando gli strumenti contemplati dal diritto comune.

Sez. 1, n. 24040/2019, Mercolino, Rv. 655306-04, ha, altresì, affermato che l’azione di ripetizione dell’indebito oggettivo si prescrive in dieci anni, ex art. 2946 c.c., mentre il termine previsto dall’art. 28, della l. n. 689 del 1981 riguarda esclusivamente la prescrizione delle sanzioni amministrative eventualmente connesse alla indebita percezione degli aiuti.

18.2. Incarichi retribuiti non autorizzati a pubblici dipendenti.

Nell’anno di riferimento si registrano delle pronunce in tema di sanzioni relative al conferimento di incarichi retribuiti a pubblici dipendenti non autorizzati dall’amministrazione di appartenenza.

Con riguardo a fattispecie concernente un’ordinanza ingiunzione emessa nei confronti del legale rappresentante di una società, che aveva conferito tali incarichi ad un dipendente pubblico senza preventiva autorizzazione dell’amministrazione di appartenenza, Sez. 6-2, n. 04701/2019, Federico, Rv. 652647-01, ha rilevato che il pregresso svolgimento, ad opera del medesimo dipendente, di incarichi similari e la comunicazione degli emolumenti percepiti negli anni pregressi al datore di lavoro non fossero idonei a fondare il ragionevole affidamento che la necessaria autorizzazione dell’amministrazione di appartenenza fosse stata concessa, sicché essa doveva, comunque, essere nuovamente richiesta.

In ordine alla sanzione prevista dall’art. 53, comma 15, del d.lgs. n. 165 del 2001 a carico degli enti che attribuiscano incarichi retribuiti a dipendenti pubblici in assenza della previa autorizzazione dell’amministrazione di appartenenza, per il caso di omessa comunicazione dei compensi corrisposti, per Sez. 2, n. 11953/2019, Falaschi, Rv. 653808-01, l’intervenuta declaratoria di illegittimità costituzionale della citata disposizione per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 98 del 2015 ne inibisce l’applicazione, posto che detta declaratoria produce effetti anche sui giudizi in corso, in ragione dell’efficacia retroattiva – salva l’avvenuta formazione del giudicato – delle pronunce di accoglimento della Corte costituzionale.

Sez. U, n. 28210/2019, D’Antonio, Rv. 655504-01, ha affrontato la questione relativa al soggetto competente all’irrogazione delle sanzioni previste per l’illecito amministrativo consistente nel conferimento di incarichi retribuiti a dipendenti pubblici, in violazione dell’art. 53, comma 9, del d.lgs. n. 165 del 2001. La S.C., come già pure Sez. L., n. 33032/2018, Tria, Rv. 652041-01, ha affermato che tale violazione non ha natura fiscale-tributaria-finanziaria, ma è riconducibile alla disciplina del pubblico impiego contrattualizzato. Da ciò consegue che il secondo periodo del predetto comma 9 – ove è previsto che “all’accertamento delle violazioni e all’irrogazione delle sanzioni provvede il Ministero delle finanze, avvalendosi della Guardia di Finanza, secondo le disposizioni della legge 24 novembre 1981, n. 689” – deve essere interpretato nel senso che il legislatore non ha previsto alcuna esclusiva attribuzione di competenza, ma ha soltanto stabilito che, quando gli accertamenti degli illeciti ivi sanzionati sono disposti su impulso del Ministero delle Finanze, vi debba provvedere, per evidenti ragioni di celerità, la Guardia di Finanza, ovvero il corpo dipendente direttamente da detto Ministero, senza escludere, tuttavia, che possano comunque intervenire gli altri soggetti appartenenti alla polizia giudiziaria.

Infine, con un’importante ordinanza interlocutoria, Sez. 2, n. 24083/2019, Falaschi, ha rimesso al Primo Presidente, per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, ai sensi dell’art. 374, comma 2, c.p.c., la questione di massima di particolare importanza relativa alla natura del rapporto di lavoro del direttore generale di una ASL ed al suo assoggettamento alla disciplina prevista per i dipendenti pubblici, con particolare riferimento ai limiti di applicabilità della normativa sulle incompatibilità di cui all’art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001, domandando se la violazione del carattere di esclusività del rapporto stabilito dall’art. 3-bis, comma 8, del d.lgs. n. 502 del 1992, possa costituire non solo motivo di risoluzione del contratto con la Regione, ma determinare anche l’irrogazione di una sanzione pecuniaria non contemplata dall’ordinamento. Per ulteriori approfondimenti su quest’ultimo provvedimento, si rinvia al capitolo sul rapporto di lavoro pubblico contrattualizzato, paragrafo 8.

18.3. Le affissioni abusive.

In tema di sanzioni amministrative emesse, ai sensi dell’art. 24 del d.lgs. n. 507 del 1993, per l’affissione di manifesti contenenti messaggi pubblicitari senza la prescritta autorizzazione, Sez. 6-2, n. 00100/2019, Scalisi, Rv. 651908-01, ha precisato che la responsabilità solidale della persona giuridica o dell’ente privo di personalità giuridica - nel caso di violazione commessa dal rappresentante o dal dipendente degli enti medesimi, nell’esercizio delle proprie funzioni o incombenze - consente di includere nell’ambito applicativo della norma non soltanto i soggetti legati alla persona giuridica o all’ente da un formale rapporto organico o di lavoro subordinato, ma anche tutte le ipotesi nelle quali i rapporti siano caratterizzati in termini di affidamento (inteso come materiale consegna all’autore della violazione del materiale pubblicitario) o di avvalimento (inteso come attività della quale il committente profitta); ciò a condizione che l’attività pubblicitaria sia riconducibile all’iniziativa del beneficiario quale committente o autore del messaggio pubblicitario o che sia documentato il rapporto tra autore della trasgressione ed ente o persona giuridica opponente. La S.C. ha rilevato che tale principio era applicabile anche ad una organizzazione sindacale e che, nella specie, sussisteva la sua responsabilità per l’affissione illecita di una locandina, nonostante la mancata individuazione delle persone fisiche che vi avevano provveduto, perché la detta locandina faceva riferimento ad uno sciopero promosso dalla medesima organizzazione, la sigla della quale era riportata assieme agli estremi della manifestazione che, nell’occasione, si sarebbe tenuta (in senso conforme, si era espressa Sez. 2, n. 13770/2009, D’Ascola, Rv. 608426-01).

Sez. 2, n. 20707/2019, Fortunato, Rv. 654983-01, ha precisato che l’affissione di manifesti politici all’infuori del periodo elettorale è regolata dal d.lgs. n. 507 del 1993, posto a protezione degli interessi finanziari del Comune e a tutela dell’ambiente e del decoro urbano del territorio amministrato, il cui art. 18 dispone che il servizio delle pubbliche affissioni è inteso a garantire la collocazione, a cura del Comune, in appositi impianti a ciò destinati, di manifesti di qualunque materiale costituiti, contenenti comunicazioni aventi finalità istituzionali, sociali o comunque prive di rilevanza economica. Diversamente, l’affissione che avvenga nel periodo elettorale è assoggettata alla disciplina della l. n. 212 del 1956, volta a tutelare la correttezza della competizione tra i candidati, la quale sanziona le condotte illecite (affissione fuori dagli spazi individuati ed assegnati dal comune o affissione senza titolo in detti spazi) che si collocano in tale periodo, presupponendo la predisposizione da parte dell’amministrazione di quanto necessario alla pubblicità elettorale da parte dei gruppi o dei candidati.

18.4. Le altre sanzioni.

Nel corso del 2019 sono intervenute due pronunce concernenti le sanzioni amministrative previste dalla l. della Regione Emilia-Romagna n. 17 del 1991 in tema di abusiva escavazione del terreno e di abusivo esercizio di attività estrattiva.

In particolare, con riguardo alla sanzione comminata dall’art. 22, comma 1, della citata legge, Sez. 2, n. 13230/2019, Giusti, Rv. 653823-01, ha affermato che essa si applica a chiunque svolga “attività estrattiva” senza avere conseguito l’autorizzazione per quella specifica attività in rapporto all’area in cui ricade. Resta, pertanto, fuori dal campo di applicazione di tale disciplina sanzionatoria l’attività di abusiva utilizzazione del materiale inerte (nella specie, materiale sabbioso già presente sul fondo dell’ingiunto al momento dell’acquisto, derivante da scavi eseguiti dal precedente proprietario) attraverso la commercializzazione o smaltimento, non integrando detta condotta esercizio di attività estrattiva o di escavazione.

Quanto all’attività di escavazione abusiva del terreno per estrazione e trasporto di materiali derivati, Sez. 6-2, n. 14592/2019, Carrato, Rv. 654232-01, ha ritenuto che tale attività costituisca illecito permanente, il cui momento consumativo è caratterizzato da una situazione giuridica già realizzata e che si protrae nel tempo fino a che perdura la condotta illecita del contravventore. Ne consegue che il termine di novanta giorni per la notifica del verbale di accertamento decorre dalla data di cessazione della permanenza ovvero, quando non vi sia la prova di tale cessazione, dall’accertamento della violazione (conforme Sez. 5, n. 03535/2012, Pivetti, Rv. 621303-01).

Nell’anno di riferimento si registra una sola decisione in tema di confezionamento e pubblicità di prodotti alimentari. Si tratta di Sez. 2, n. 25330/2019, Carrato, Rv. 655270-01, per la quale anche il rivenditore è sanzionabile ex art. 18 d.lgs. n. 109 del 1992 (nella formulazione applicabile ratione temporis) per le infrazioni di cui all’art. 2 del medesimo d.lgs., allorché non sia consentita al consumatore una immediata e certa identificazione degli elementi propriamente integranti la corretta etichettatura: ed infatti, nonostante immetta il prodotto sul mercato, nella sua qualità di mero distributore, come gli viene fornito dal produttore, egli acquista la veste di operatore commerciale appartenente alla filiera dei passaggi del prodotto preconfezionato (dal momento della produzione a quello della vendita finale), qualifica alla quale si riferisce, nello stabilire i principi ed i requisiti della legislazione alimentare, l’art. 17 del Reg. CE n. 178 del 2002, secondo il quale spetta agli operatori (e non ai soli produttori) del settore alimentare (e dei mangimi) garantire che nelle imprese da essi controllate gli alimenti (o i mangimi) soddisfino le disposizioni della legislazione alimentare inerenti alle loro attività in tutte le fasi della produzione, della trasformazione e della distribuzione, nonché verificare che tali disposizioni siano rispettate.

Ancora in tema di etichettatura, ma relativa ai prodotti dell’industria e del commercio, Sez. 6-2, n. 20982/2019, Carrato, Rv. 655276-01, ha affermato che, in base all’art. 4, comma 49, l. n. 350 del 2003, sulla tutela della corretta etichettatura, costituisce fallace indicazione di origine e provenienza l’uso di segni, figure, o quant’altro possa indurre il consumatore a ritenere che il prodotto o la merce sia di origine italiana, incluso l’uso fallace o fuorviante di marchi aziendali ai sensi della disciplina sulle pratiche commerciali ingannevoli, fatto salvo quanto previsto dal comma 49-bis, ovvero l’uso di marchi di aziende italiane su prodotti o merci non originari dell’Italia in base alla normativa europea sull’origine senza l’indicazione precisa, in caratteri evidenti, del loro paese o del loro luogo di fabbricazione o di produzione, o altra indicazione sufficiente ad evitare qualsiasi errore sulla loro effettiva origine estera. In applicazione di tale principio, la S.C. ha ritenuto integrasse fallace indicazione di origine un’etichetta raffigurante il marchio “Belair” con l’indicazione di una s.r.l. avente sede in Italia, in mancanza di ulteriore indicazione idonea ad esteriorizzare, in modo univoco, che i prodotti fossero stati importati dalla Cina.

Per quanto concerne le sanzioni che interessano il settore alimentare, secondo Sez. 2, n. 34039/2019, Scarpa, Rv. 656222-01, ai fini dell’integrazione della violazione amministrativa di cui all’art. 6, comma 3, d.lgs. n. 193 del 2007 – il quale, salvo che il fatto costituisca reato, sanziona chiunque, nei limiti di applicabilità del regolamento (CE) n. 852/2004 ed essendovi tenuto, non effettui la notifica all’autorità competente di ogni stabilimento posto sotto il suo controllo che esegua una qualsiasi delle fasi di produzione, trasformazione e distribuzione di alimenti, ovvero le compia quando la registrazione è sospesa o revocata – devono considerarsi operatori del settore alimentari non soltanto le strutture di ristorazione che si svolgono in pubblici esercizi e che sono rivolte ad un consumatore indifferenziato, ma anche quelle destinate ad un consumatore finale identificabile, quali le mense di comunità religiose, gli ospedali, le case di cura o di riposo per anziani.

In tema di danno ambientale, Sez. 2, n. 29873/2019, Picaroni, Rv. 656189-01, ha chiarito che l’illecito omissivo di cui all’art. 304, comma 2, del d.lgs. n. 152 del 2006 è integrato dalla mancata comunicazione del pericolo di danno ambientale, da parte dell’operatore interessato, anche ad uno solo dei destinatari previsti dal comma 1 del citato art. 304 nel termine di ventiquattro ore.

Nell’anno sono intervenute, altresì, due pronunce concernenti le sanzioni amministrative in tema di rifiuti.

Sez. 2, n. 34038/2019, Scarpa, Rv. 656221-01, ha rilevato, innanzitutto, che i formulari di identificazione rifiuti, contenuti nel d.m. n. 145 del 1998, prescrivono che le relative quantità debbano essere sia indicate all’inizio del trasporto sia verificate a destino, specificando, poi, se il destinatario abbia accettato il carico per intero o per una minore quantità.

Pertanto, la S.C. ha affermato che risulta, per l’effetto, incompleto il documento il quale riporti la quantità dei rifiuti, alternativamente, alla partenza o all’arrivo e che l’omessa indicazione del peso degli stessi, accertato a destino, non può intendersi supplita per relationem dall’avvenuta accettazione per intero del carico da parte del destinatario, atteso che il rigore formale della normativa ha la funzione di consentire un esatto controllo sulla natura e sulla quantità dei rifiuti trasportati, così da garantire una completa tracciabilità di tale attività.

Relativamente al trasporto di rifiuti non pericolosi, ad avviso di Sez. 2, n. 34031/2019 Bellini, Rv. 656220-01, integra la condotta tipica dell’illecito amministrativo commesso in violazione dell’art. 193 del d.lgs. n. 152 del 2006 e sanzionato dall’art. 258 del medesimo decreto l’omissione, da parte del produttore e del trasportatore, dell’obbligo di compilare e sottoscrivere il formulario di trasporto. In particolare, il fondamento della punibilità del concorso di persone in tale illecito risiede già in re ipsa nella citata disposizione quale suo elemento costitutivo (senza che operi la diversa fattispecie di cui all’art. 5 della l. n. 689 del 1981), in forza del quale i soggetti coinvolti, il produttore ed il trasportatore, sono ugualmente obbligati a compilare ed a sottoscrivere il formulario e, in caso di omissione dell’obbligo assunto, entrambi (quali trasgressori principali) soggiacciono alla sanzione disposta per violazione amministrativa accertata.

In tema di disciplina delle campagne elettorali per le elezioni regionali, Sez. 1, n. 28262/2019, Scalia, Rv. 655563-01 – confermando l’indirizzo già espresso da Sez. 2, n. 08443/2008, Piccialli, Rv. 602413-01 – ha ribadito che la diffida di cui all’art. 15, comma 8, della l. n. 515 del 1993, con la quale il collegio regionale di garanzia elettorale invita il candidato che l’abbia omessa a presentare la dichiarazione concernente le spese sostenute e le obbligazioni assunte per la propaganda elettorale, assolve alla duplice funzione di offrire al trasgressore la possibilità di sanare l’illecito e di avvertirlo della pendenza del procedimento sanzionatorio, sicché è superfluo l’invio di un’ulteriore diffida prima dell’irrogazione della sanzione amministrativa, essendo l’interessato già a conoscenza della natura dell’addebito e della pendenza della procedura.

Infine, secondo Sez. 2, n. 29236/2019, Scarpa, Rv. 656186-01, l’infrazione relativa all’importazione o esportazione di denaro o titoli al portatore per un importo superiore a quello prescritto dall’art. 3 del d.lgs. n. 195 del 2008 ha carattere oggettivo e si perfeziona con la sola omissione della dichiarazione all’ufficio doganale di confine, postulando, sotto il profilo soggettivo, soltanto un comportamento cosciente e volontario, ancorché non preordinato a fini illeciti, o non consapevole dell’illiceità del fatto. Questa conclusione è suffragata dalla circostanza che viene in rilievo, nella specie, un adempimento che impone l’obbligo di specifici avvisi senza alcun onere finanziario ed è volto alla rilevazione globale dei movimenti di capitali verso le frontiere e non ad evitare illeciti trasferimenti di somme.

  • indennizzo
  • giudizio
  • procedura civile

CAPITOLO XXIX

EQUA RIPARAZIONE PER L’IRRAGIONEVOLE DURATA DEL PROCESSO

(di Paola D’Ovidio )

Sommario

1 Termine di decadenza per la proposizione del ricorso. - 2 Condizioni di proponibilità della domanda di equa riparazione. - 3 Durata “ragionevole” del giudizio presupposto. - 4 Presunzione di insussistenza del pregiudizio da irragionevole durata del processo. - 5 Diritto all’indennizzo. - 6 Misura dell’indennizzo. - 7 Altre questioni processuali.

1. Termine di decadenza per la proposizione del ricorso.

L’art. 4 della l. n. 89 del 2001, come sostituito dall’art. 55, comma 1, lett. d), del d.l. n. 83 del 2012, conv. con modif. dalla l. n. 134 del 2012, prevedeva che la domanda di riparazione dovesse essere proposta, a pena di decadenza, entro sei mesi dal momento in cui la decisione che conclude il procedimento è divenuta definitiva.

Nel sistema anteriore alla modifica introdotta dal citato d.l. n. 83 del 2012 era contemplata espressamente la possibilità di proporre la domanda di equa riparazione anche durante la pendenza del cd. processo presupposto, una volta maturata la ragionevole durata dello stesso.

Tale sistema è stato sostanzialmente ripristinato dalla Corte costituzionale che, con una decisione di carattere additivo (Corte cost. n. 88 del 2018), ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 4 della l. n. 89 del 2001 – come sostituto dalla novella del 2012 – nella parte in cui non prevede che la domanda di equa riparazione, una volta maturato il ritardo, possa essere proposta in pendenza del processo presupposto.

Tenuto conto di tale intervento della Corte delle leggi, Sez. 2, n. 22300/2019, Giannaccari, Rv. 654921-01, ha affermato il principio – in linea di continuità con il sistema vigente prima delle modifiche introdotte con il citato d.l. n. 83 del 2012, conv. con modif. dalla l. n. 134 del 2012 – secondo il quale, in caso di proposizione della domanda di indennizzo durante la pendenza del giudizio presupposto è consentita e non costituisce mutatio libelli l’estensione della domanda al periodo di ulteriore durata del processo presupposto, venendo in rilievo una protrazione della medesima violazione, oggetto di specifica integrazione dell’originaria domanda ed insuscettibile di ledere il principio del contraddittorio. La medesima pronuncia ha altresì precisato che, ove tale estensione sia stata formulata dopo l’entrata in vigore della l. n. 134 del 2012 cit., il rito da applicare al giudizio ex lege Pinto resta quello vigente all’epoca della sua originaria introduzione, in ragione del carattere unitario del procedimento.

Nel corso dell’anno 2019 diverse pronunce hanno altresì chiarito e puntualizzato alcuni aspetti concernenti la decorrenza del termine di decadenza per la proponibilità della domanda.

Su un piano generale, Sez. 6-2, n. 16194/2019, Grasso Giuseppe, Rv. 654605-01, ha ribadito che per “definitività” della decisione concludente il procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata – la quale segna il dies a quo del termine di decadenza di sei mesi per la proponibilità della domanda – s’intende, in relazione al giudizio di cognizione, il passaggio in giudicato della sentenza che lo definisce, precisando altresì che l’avvenuta decadenza, ove risulti dagli atti, è rilevabile d’ufficio.

Sez. 6-2, n. 33207/2019, Criscuolo, Rv. 656262-01, ha inoltre precisato che l’art. 4 della l. n. 89 del 2001 configura la sola definitività della decisione come dies a quo ai fini della decorrenza del termine di decadenza, mentre il diritto dell’erede di agire in tale qualità, dopo la morte del dante causa, si prospetta come mera possibilità di esercitare quel diritto, senza, quindi, che si possa ricollegare alla morte della parte alcun effetto giuridico incidente sul termine di proponibilità della domanda.

Con particolare riguardo al caso di estinzione del giudizio presupposto per mancata tempestiva riassunzione a seguito di declaratoria di incompetenza, Sez. 2, n. 20872/2019, Casadonte, Rv. 655184-01, ha affermato che il termine di proponibilità della domanda ex art. 4 della l. n. 89 del 2001 decorre dalla scadenza del termine trimestrale per la riassunzione del giudizio dinnanzi al giudice territorialmente competente e non già dalla data dell’inoppugnabilità dell’ordinanza di estinzione emessa ex art. 308 c.p.c., giacché detta pronuncia ha natura dichiarativa, riconoscendo, quindi, un effetto che si è prodotto già alla scadenza del termine fissato per il compimento dell’atto.

Quanto all’equa riparazione da irragionevole durata di un processo civile conclusosi innanzi alla Corte di cassazione con una decisione di rigetto del ricorso o di inammissibilità o di decisione nel merito, Sez. 6-2, n. 11737/2019, Criscuolo, Rv. 653510-01, ha puntualizzato che, ai fini della decorrenza del termine decadenziale – il cui dies a quo è segnato dalla definitività del provvedimento conclusivo del procedimento nell’ambito del quale si assume verificata la violazione – occorre avere riguardo alla data di deposito della decisione della Corte, quale momento che determina il passaggio in giudicato della sentenza, a ciò non ostando la pendenza del termine per la revocazione ex art. 391-bis c.p.c.

Con specifico riferimento alla domanda di indennizzo per irragionevole durata della procedura fallimentare cui non siano applicabili le modifiche introdotte con d.lgs. n. 5 del 2006 e d.lgs. n. 169 del 2007, si è pronunciata Sez. 6-2, n. 08088/2019, Criscuolo, Rv. 653385-01, chiarendo che il termine semestrale di decadenza decorre dalla data di definitività del decreto di chiusura del fallimento, da individuarsi, qualora il provvedimento non sia stato comunicato, in quello di un anno dalla sua pubblicazione ai sensi dell’art. 327 c.p.c.

Sez. 2, n. 02273/2019, Federico, Rv. 652428-01, ha inoltre precisato che l’istanza di mediazione che preceda la domanda di equa riparazione interrompe, ai sensi dell’art. 5, comma 6, del d.lgs. n. 28 del 2010, il decorso del termine semestrale di decadenza di cui all’art. 4 della l. n. 89 del 2001 dal momento della sua comunicazione alle altre parti e non da quello del suo deposito.

In tema di irragionevole durata del processo amministrativo, Sez. 2, n. 27783/2019, Besso Marcheis, Rv. 655671-01, ha affermato che la sentenza adottata dal Consiglio di Stato diviene definitiva, agli effetti dell’art. 4 della l. n. 89 del 2001 (nel testo introdotto dal d.l. n. 83 del 2012, convertito in l. n. 134 del 2102), dal momento in cui scadono i termini per la sua impugnazione per motivi attinenti alla giurisdizione, giacché tra questi rientra anche il cd. eccesso di potere giurisdizionale, vizio che può emergere solo con la pubblicazione della decisione.

Sul tema del rapporto fra fase di cognizione e di esecuzione ai fini del riconoscimento dell’indennizzo, di particolare rilevanza è l’arresto di Sez. U, n. 19883/2019, Conti, Rv. 654838-01, con il quale è stato affermato che la fase di cognizione del processo che ha accertato il diritto all’indennizzo a carico dello Stato-debitore va considerata unitariamente rispetto alla fase esecutiva eventualmente intrapresa nei confronti dello Stato, senza la necessità che essa venga iniziata entro sei mesi dalla definitività del giudizio di cognizione, decorrendo il termine di decadenza per la proposizione del ricorso ai sensi dell’art. 4 della l. n. 89 del 2001 – nel testo modificato dall’art. 55 d.l. n. 83 del 2012, conv. nella l. n. 134 del 2012 risultante dalla sentenza della Corte costituzionale n. 88 del 2018 – dalla definitività della fase esecutiva.

Con l’ulteriore precisazione, contenuta nella medesima pronuncia, che, ai fini dell’individuazione della ragionevole durata del processo rilevante per la quantificazione dell’indennizzo previsto dall’art. 2 della l. n. 89 del 2001, la fase esecutiva eventualmente intrapresa dal creditore nei confronti dello Stato-debitore inizia con la notifica dell’atto di pignoramento e termina allorché diventa definitiva la soddisfazione del credito indennitario (Sez. U, n. 19883/2019, Conti, Rv. 654838-02), mentre il termine di centoventi giorni di cui all’art. 14 del d.l. n. 669 del 1996, conv. dalla l. n. 30 del 1997 (a mente del quale prima del decorso di tale termine, decorrente dalla notifica del titolo esecutivo, il creditore non può procedere ad esecuzione forzata né alla notifica di atto di precetto nei confronti delle P.A.), non produce alcun effetto ai fini della ragionevole durata del processo esecutivo (Sez. U, n. 19883/2019, Conti, Rv. 654838-03).

2. Condizioni di proponibilità della domanda di equa riparazione.

In relazione all’irragionevole durata dei processi amministrativi già pendenti alla data del 16 settembre 2010 e non soggetti all’art. 2, comma 1, della l. n. 89 del 2001, nella formulazione derivante dalle modifiche introdotte dalla l. n. 208 del 2015, Sez. 2, n. 21709/2019, Casadonte, Rv. 655234-01, ha chiarito che, a seguito della sentenza n. 34 del 2019 della Corte costituzionale, dichiarativa dell’illegittimità costituzionale dell’art. 54, comma 2, del d.l. n. 112 del 2008, come novellato dal d.lgs. n. 104 del 2010, la presentazione dell’istanza di prelievo nel giudizio presupposto non rappresenta più una condizione di proponibilità della domanda di equa riparazione, ma può costituire elemento indiziante di una sopravvenuta carenza o di non serietà dell’interesse della parte alla decisione del ricorso, potendo assumere rilievo ai fini della quantificazione dell’indennizzo.

3. Durata “ragionevole” del giudizio presupposto.

Sez. 2, n. 27782/2019, Besso Marcheis, Rv. 655684-01, ha opportunamente chiarito che l’art. 2, comma 2-ter, della l. n. 89 del 2001, a mente del quale il termine di ragionevole durata del processo si considera comunque rispettato se il giudizio viene definito in modo irrevocabile in un tempo non superiore a sei anni, costituisce norma di chiusura, che implica una valutazione complessiva del giudizio articolato nei tre gradi, e non opera, perciò, con riguardo ai processi che si esauriscono in unico grado,

Ciò coerentemente a quanto in precedenza affermato, più in generale, da Sez. 6-2, n. 01520/2019, Scarpa, Rv. 652277-01, che ha evidenziato come il principio della unitarietà del procedimento impone che la durata del giudizio presupposto vada riguardata nel suo complesso e non limitatamente alla singola fase processuale che si sia protratta oltre il rispettivo standard di ragionevolezza.

In ogni caso, ove la domanda di equa riparazione sia proposta durante la pendenza del processo presupposto, Sez. 6-2, n. 01521/2019, Scarpa, Rv. 652278-01, ha precisato che il giudice deve prendere in considerazione il solo periodo intercorrente tra il suo promovimento e la proposizione del ricorso per equa riparazione, e non anche l’ulteriore ritardo, futuro ed incerto, suscettibile di maturazione nel prosieguo del primo processo, che potrà essere posto a fondamento di una successiva domanda, a meno che tale ulteriore durata, già verificatasi durante il procedimento per equa riparazione, non denoti una protrazione della medesima violazione e sia stata oggetto di specifica allegazione ad integrazione della originaria domanda.

Deve in proposito tenersi conto dell’ulteriore principio, espresso da Sez. 2, n. 10582/2019, Casadonte, Rv. 653560-01, secondo cui la data di pubblicazione della sentenza di appello del giudizio presupposto, intervenuta nel corso del giudizio di equa riparazione, ove la decisione stessa sia stata oggetto di allegazione e prova nel procedimento, costituisce evento certo in base al quale potersi calcolare il ritardo processuale ulteriormente maturato dopo la proposizione dell’azione ex lege n. 89 del 2001.

Con riferimento al giudizio di rinvio – tanto di quello disposto dalla Corte di cassazione, ai sensi dell’art. 383 c.p.c., quanto di quello disposto dal giudice d’appello, ai sensi dell’art. 354, comma 1, c.p.c. – Sez. 2, n. 22299/2019, Abete, Rv. 655217-01, ha precisato che, poiché il termine di ragionevole durata del processo va determinato, di regola, in tre anni per il primo grado, due per il secondo ed uno per ciascuna fase successiva, la durata ragionevole va individuata nella misura di un anno, trattandosi di prosecuzione del processo originario.

Un’altra interessante pronuncia ha riguardato l’ipotesi in cui vi sia stata la sospensione cautelare di provvedimenti impugnati davanti al giudice amministrativo: in proposito, Sez. 6-2, n. 01527/2019, Scarpa, Rv. 652347-01, ha osservato che tale sospensione, ancorché anticipi tutti gli effetti della sentenza richiesta, è un atto precario e rivedibile, che non incide sul diritto della parte attrice di ottenere la definizione della controversia entro un termine ragionevole, né osta alla configurabilità di un pregiudizio morale, pur se di entità ridotta, dato che il provvedimento cautelare non elimina l’incertezza e la connessa sofferenza per l’attesa della definizione della lite, potendo solo diminuirne l’intensità, in relazione all’aspettativa del conformarsi dell’emananda sentenza alle determinazioni di tipo interinale già adottate dal giudice. Pertanto, conclude la pronuncia in discorso, nel caso in cui, nel corso di un procedimento innanzi al giudice amministrativo, sia stata concessa la misura cautelare della sospensione del provvedimento impugnato, è rimesso al giudice del merito di valutare eventualmente se la parte abbia un prevalente interesse a una protrazione indefinita di tale stato di sospensione rispetto a quello relativo alla ragionevole durata, non potendo tale accertamento essere sindacato in sede di legittimità sotto il profilo della violazione di norme di diritto.

Riguardo al computo della durata del processo di cognizione ed esecutivo, Sez. U, n. 19883/2019, Conti, Rv. 654838-01, ha statuito che non va considerato come “tempo del processo” quello intercorso fra la definitività della fase di cognizione e l’inizio della fase esecutiva, quest’ultimo, invece, potendo eventualmente rilevare ai fini del ritardo nell’esecuzione come autonomo pregiudizio, allo stato indennizzabile in via diretta ed esclusiva, in assenza di rimedio interno, dalla Corte EDU.

Peraltro, come precisato da Sez. 2, n. 00007/2019, Fortunato, Rv. 651985-01, nella durata complessiva delle procedure esecutive, individuali o concorsuali, devono essere inclusi anche i tempi impiegati per la definizione di vicende processuali parallele o incidentali, irrilevante essendo la natura cognitiva od esecutiva del rimedio azionato. Pertanto, in tale durata devono essere computati pure i reclami e le successive impugnazioni, poiché tutti ineriscono all’unico processo di esecuzione.

Ulteriore questione è stata affrontata da Sez. U, n. 19883/2019, Conti, Rv. 654838-04, con specifico riferimento al giudizio di ottemperanza promosso all’esito della decisione di condanna dello Stato al pagamento dell’indennizzo di cui alla l. n. 89 del 2001, il quale deve considerarsi sul piano funzionale e strutturale pienamente equiparabile al procedimento esecutivo, dovendosi considerare unitariamente rispetto al giudizio che ha riconosciuto il diritto all’indennizzo.

Infine, Sez. 2, n. 08032/2019, Criscuolo, Rv. 653157-01 ha opportunamente chiarito che il termine di quattro mesi, previsto dall’art. 3, comma 6, della l. n. 89 del 2001, nel testo ratione temporis vigente, per la conclusione del procedimento di liquidazione dell’indennizzo, ha carattere ordinatorio, essendo solo indicativo e non vincolante per il giudice, sicché la violazione dello stesso non determina automaticamente il superamento della soglia di ragionevolezza della durata del processo, ben potendo derivare dalle esigenze organizzative dell’ufficio procedente, con la conseguenza che diviene necessaria un’indagine specifica del giudice adito in ordine al limite temporale di ragionevolezza.

4. Presunzione di insussistenza del pregiudizio da irragionevole durata del processo.

La novella legislativa del 2015 (l. n. 208 del 2015) ha introdotto nell’ordito della l. n. 89 del 2001 l’art. 2, comma 2-sexies, il quale prevede alcune presunzioni juris tantum di insussistenza del pregiudizio da irragionevole durata del processo, superabili dalla prova contraria, per i casi di prescrizione del reato di cui benefici l’imputato (lett. a), di contumacia della parte (lett. b), di estinzione o perenzione del processo civile o amministrativo (lett. c e d), di proposizione di motivi aggiunti al ricorso amministrativo mediante autonomo ricorso (lett. e), nonché di mancata richiesta di riunione ex art. 70 c.p.a. dei ricorsi amministrativi connessi, proposti dalla stessa parte (lett. f); infine, la lettera g) della medesima norma esclude fino, a prova contraria, l’indennizzo in caso di “irrisorietà della pretesa o del valore della causa, valutata anche in relazione alla condizione personale della parte”, così recependo il principio fissato dall’art. 35, comma 3, lett. b), CEDU, in vigore dal 1° giugno 2010, che nega il ristoro del pregiudizio che non abbia un certo grado di serietà (cd. clausola de minimis non curat praetor).

Nel corso dell’anno in rassegna, la S.C. ha in più occasioni affrontato la questione concernente l’applicabilità retroattiva o meno di tali nuove disposizioni, statuendo che le stesse si applicano ai soli giudizi di equa riparazione introdotti dopo l’entrata in vigore della stessa l. n. 208 del 2015 (1 gennaio 2016) .

In particolare, Sez. 2, n. 25323/2019, Varrone, Rv. 655269-01, ha affemato il summenzionato principio con specifico riferimento alle presunzioni iuris tantum di insussistenza del pregiudizio previste dalla lett. d) del citato art. 2, comma 2-sexies, precisando che tale disposizione, introducendo nuovi oneri probatori, non può operare retroattivamente nell’ambito dei processi in corso, in quanto chiama l’uno o l’altro dei contendenti ad addurre prove che questi in origine non era tenuto a fornire, ponendosi altrimenti a repentaglio la garanzia costituzionale del diritto di difesa.

Tale principio è stato ribadito da Sez. 2, n. 32992/2019, Criscuolo, Rv. 656219-01, la quale ha altresì puntualizzato che nei giudizi di equa riparazione introdotti prima dell’entrata in vigore dalla l. n. 208 del 2015, anche a seguito dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 104 del 2010, la dichiarazione di perenzione del giudizio da parte del giudice amministrativo non consente di ritenere insussistente il danno per disinteresse della parte a coltivare il processo.

Analogamente, Sez. 2, n. 25542/2019, Scarpa, Rv. 655264-01, con riguardo alla lett. c) del citato art. 2, comma 2-sexies (secondo cui non sussiste il pregiudizio da irragionevole durata del processo, salvo prova contraria, nel caso di estinzione del processo per rinuncia o inattività delle parti ai sensi degli artt. 306 e 307 c.p.c.), ha affermato che tale disposizione trova applicazione nei soli giudizi introdotti dopo il 1° gennaio 2016, data di entrata in vigore della novella, in assenza di norme che dispongano diversamente e in forza dell’art. 11 disp. att. c.c., dettando la disposizione una nuova disciplina della formazione e valutazione della prova nel processo di equa riparazione e dando luogo, dunque, ad uno ius superveniens che opera sugli effetti della domanda e, al contempo, determina un mutamento dei presupposti legali cui è condizionata la disciplina di ogni singolo caso concreto.

Sotto diverso profilo, di particolare interesse Sez. 2, n. 27920/2019, Casadonte, Rv. 655685-01 che ha valutato la nozione di contumacia, rilevante ai fini dell’operatività della presunzione di insussistenza del pregiudizio da irragionevole durata del processo di cui all’art. 2, comma 2-sexies, lett. b), della l. n. 89 del 2001, coordinandola con l’art. 2, comma 2-bis, della stessa legge ed ha affermato il principio secondo il quale la contumacia cui fa riferimento l’art. 2, comma 2-sexies, lett. b), deve intendersi riferita alla sola contumacia civile, come desumibile, oltre che dalla terminologia impiegata dal legislatore (“contumacia della parte”), dalla diversità della natura e della disciplina della contumacia nel processo civile e in quello penale; conseguentemente quest’ultima disposizione non rileva ai fini del calcolo della durata del processo penale fissata dall’art. 2, comma 2-bis, della medesima legge.

5. Diritto all’indennizzo.

Tra le pronunce emesse nel corso del 2019 si segnalano due decisioni che hanno riguardato alcuni casi di non indennizzabilità del pregiudizio, altre due pronunce in tema di accertamento della sussistenza del danno non patrimoniale da irragionevole durata del processo, una decisione sul diritto all’indennizzo dei cessionari di crediti ammessi al passivo fallimentare ed un’ultima decisione sulla applicabilità ai soli giudizi iniziati dopo il 1° gennaio 2016 dell’art. 2, comma 2-quinquies, della l. n. 89 del 2001, come modificato dalla l. n. 208 del 2015.

La prima di queste è costituita da Sez. 2, n. 26497/2019, Scarpa, Rv. 655680-01, la quale, dando continuità al principio già affermato da Sez. 2, n. 633/2014, Manna F., Rv. 628986-01, ha ribadito che, in applicazione dell’art. 12 del Protocollo n. 14 alla CEDU, il pregiudizio non è indennizzabile se al di sotto della soglia minima di gravità, da apprezzarsi nel duplice profilo della violazione e delle conseguenze, sicché restano escluse dalla riparazione sia le violazioni minime del termine di durata ragionevole, di per sé non significative, sia quelle di maggiore estensione temporale, riferibili però a giudizi presupposti di carattere bagatellare, in cui esigua è la posta in gioco e trascurabili i rischi sostanziali e processuali connessi.

La seconda decisione riguarda il debitore esecutato rimasto inattivo, il quale, secondo Sez. 6-2, n. 29139/2019, Falaschi, Rv. 656240-01, non ha diritto ad alcun indennizzo per l’irragionevole durata del processo esecutivo, che è preordinato all’esclusivo interesse del creditore, sicché egli – a differenza del contumace nell’ambito di un processo dichiarativo – è soggetto al potere coattivo del creditore, recuperando solo nelle eventuali fasi d’opposizione ex artt. 615 e 617 c.p.c., la cui funzione è diretta a stabilire un separato ambito di cognizione, la pienezza della posizione di parte, con possibilità di svolgere contraddittorio e difesa tecnica.

In riferimento alla liquidazione del danno, Sez. 2, n. 09919/2019, Lombardo, Rv. 653491-01, ha precisato che la presunzione del danno non patrimoniale conseguente all’accertata violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, di cui all’art. 6 della CEDU, può essere superata qualora il giudice ravvisi nel caso concreto la ricorrenza di peculiari circostanze attinenti al giudizio presupposto, idonee a escludere la configurabilità di qualsivoglia patimento o stress ricollegabili all’irragionevole protrarsi del giudizio, trattandosi di valutazione discrezionale, sottratta al sindacato di legittimità se sorretta da adeguata motivazione. Nella fattispecie esaminata, in applicazione del predetto principio, la S.C. ha cassato la sentenza della Corte d’appello che aveva riconosciuto presuntivamente il danno non patrimoniale conseguente all’accertata irragionevole durata di un processo amministrativo, omettendo di considerare che il ricorrente, che aveva impugnato il giudizio di non ammissione all’esame di maturità, ma che era stato ammesso in via cautelare a sostenerlo, lo aveva poi superato conseguendo il relativo diploma, il che aveva determinato l’improcedibilità del ricorso per carenza di interesse.

Sulla stessa scia, Sez. 2, n. 26497/2019, Scarpa, Rv. 655680-02, ha ribadito il principio secondo cui, poiché il danno non patrimoniale è conseguenza normale, ma non automatica e necessaria, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, sancito dall’art. 6 CEDU, il giudice, una volta accertata e determinata l’entità della violazione, deve ritenere sussistente il pregiudizio, a meno che, nel caso concreto, non ricorrano circostanze particolari, che inducano ad escluderne l’esistenza.

Sez. 2, n. 08053/2019, Scalisi, Rv. 653159-01, ha affermato che i cessionari di crediti ammessi al passivo fallimentare hanno diritto al riconoscimento dell’indennizzo iure proprio dal momento in cui assumono la qualità di parte processuale, coincidente con la data della comunicazione della cessione al curatore ex art. 115, comma 2, l.fall., essendo la loro posizione del tutto assimilabile a quella dell’erede della parte costituita, deceduta prima del decorso del termine di ragionevole durata del processo presupposto, per il quale il diritto al riconoscimento del suddetto indennizzo matura soltanto a decorrere dalla relativa costituzione in giudizio.

Infine, riguardo alla retroattività o meno dell’art. 2, comma 2-quinquies, della l. n. 89 del 2001, come modificato dalla l. n. 208 del 2015 (che esclude l’indennizzo in favore della parte che ha agito o resistito in giudizio consapevole dell’infondatezza originaria o sopravvenuta delle proprie domande e difese), Sez. 2, n. 25826/2019, Cosentino, Rv. 655463-01, ha chiarito che tale disposizione trova applicazione nei soli giudizi introdotti dopo il 1° gennaio 2016, per effetto dell’art. 11 disp. att. c.c., in quanto, pur realizzando la recezione di un principio costituente “diritto vivente”, rientra tra le disposizioni che incidono sulla disciplina giuridica del fatto generatore del diritto all’equa riparazione, impedendo, in presenza della situazione ivi indicata, l’insorgenza stessa del diritto all’equa riparazione del danno da durata non ragionevole del processo.

6. Misura dell’indennizzo.

Ai fini della liquidazione dell’indennizzo, come precisato da Sez. 2, n. 14521/2019, Oliva, Rv. 654081-01, il giudice deve fare riferimento, da un lato, ai valori minimi e massimi indicati dall’art. 2-bis, comma 1, della legge n. 89 del 2001 – nel testo novellato dalla legge n. 208 del 2015, applicabile ratione temporis ai ricorsi depositati a decorrere dal 1 gennaio 2016 –, e dall’altro ai parametri elencati al comma 2 del medesimo art. 2-bis, tra i quali rientra anche l’apprezzamento dell’esito del giudizio nel cui ambito il ritardo si è maturato, avendo il giudice altresì la facoltà di applicare “nel caso di integrale rigetto delle domande della parte ricorrente” la specifica decurtazione di un terzo prevista dall’art. 2-bis, comma 1-ter, della normativa in esame. Peraltro, aggiunge la medesima decisione, è precluso alla Corte di cassazione sindacare la concreta determinazione del quantum dell’indennizzo operata dal giudice di merito, trattandosi di valutazione di fatto, ovvero l’applicazione della riduzione di cui al richiamato art. 2-bis, comma 1-ter, in quanto esplicazione di potere discrezionale il cui esercizio è rimesso al predetto giudice di merito.

Tali principi si pongono in linea di continuità con quanto già affermato da Sez. 6-2, n. 03157/2019, Criscuolo, Rv. 652280-01, secondo la quale l’art. 2-bis della l. n. 89 del 2001 (anche nella formulazione, applicabile ratione temporis, derivante dalle modifiche introdotte dalla l. n. 208 del 2015), relativo alla misura ed ai criteri di determinazione dell’indennizzo per l’irragionevole durata del processo, rimette al prudente apprezzamento del giudice di merito – sindacabile in sede di legittimità nei soli limiti ammessi dall’art. 360, n. 5, c.p.c. – la scelta del moltiplicatore annuo, compreso tra il minimo ed il massimo ivi indicati, da applicare al ritardo nella definizione del processo presupposto, orientando il quantum della liquidazione equitativa sulla base dei parametri di valutazione, tra quelli elencati nel comma 2 dell’art. 2-bis cit., che appaiano maggiormente significativi nel caso specifico.

In ogni caso, il limite quantitativo dell’indennizzo, previsto dall’art. 2-bis, comma 3, della l. n. 89 del 2001, va determinato sulla base del valore della vicenda oggetto del giudizio presupposto, includendovi gli interessi liquidati nella pronuncia con cui tale giudizio sia stato definito, ma non le spese legali in esso sostenute che, pur gravando sulla parte perché funzionali all’esercizio dell’azione, non rientrano nell’oggetto della causa (Sez. 6-2, n. 07695/2019, Cosentino, Rv. 653378-01).

Peraltro, nell’ipotesi in cui sia inapplicabile ratione temporis l’art. 2-bis introdotto nella cd. legge Pinto dall’art. 55, comma 1, lett. b), del d.l. n. 83 del 2012, convertito in legge n. 134 del 2012, Sez. 6-2, n. 07616/2019, Cosentino, Rv. 653060-01, ha ribadito il principio, già più volte affermato dalla Corte di legittimità, secondo il quale il giudice nazionale, ai fini della liquidazione del danno, deve tener conto dei criteri applicati dalla Corte EDU e può discostarsi da essi solo con adeguata motivazione, che dia conto delle peculiari circostanze concrete della singola vicenda che impongono l›adozione di criteri di commisurazione diversi da quelli indicati in sede europea.

Sotto altro profilo, sempre attinente alla liquidazione del danno, Sez. 2, n. 07570/2019, Oliva, Rv. 653151-01, ha precisato che il danno patrimoniale indennizzabile per violazione del principio della ragionevole durata del processo comprende il pregiudizio che costituisce conseguenza diretta di tale violazione e, quindi, anche quello subito per perdita di chance, purché esso non si risolva in una mera aspettativa di fatto, ma presenti i caratteri di un’entità patrimoniale a sé stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile di autonoma valutazione da parte del giudice di merito, al quale la parte istante ha l’onere di fornire la prova puntuale dell’esistenza di detta posta, pure in via presuntiva, mediante un criterio probabilistico. In applicazione di tale principio, con la pronuncia da ultimo citata la S.C. ha escluso, anche sotto il profilo della perdita di chance, che costituisse danno derivante dalla eccessiva durata del giudizio presupposto quello dovuto alla sopravvenuta ammissione al concordato preventivo del debitore, cui era conseguita, in applicazione delle regole di tale procedura, la falcidia del credito vantato dai ricorrenti.

Con specifico rifermento alla peculiare ipotesi di un giudizio presupposto derivato dalla riunione di due procedimenti originariamente separati ed aventi come parti una società in accomandita semplice e un socio in proprio, Sez. 2, n. 13238/2019, Varrone, Rv. 653824-01, ha statuito che il relativo danno va integralmente ristorato per ognuna delle parti, trattandosi di due distinte posizioni giuridiche con separate posizioni processuali e, di conseguenza, con separate aspettative di definizione del giudizio in tempi ragionevoli.

Sulle cause di lavoro e previdenziali si è pronunciata Sez. 2, n. 08235/2019, Tedesco, Rv. 653293-01, statuendo che la loro inclusione nel novero di quelle per le quali la Corte EDU ha ritenuto che la liquidazione dell’indennizzo per il danno non patrimoniale possa giungere fino a 2000 euro per anno, in ragione della particolare importanza della controversia, non significa che tali cause debbano sempre considerarsi particolarmente rilevanti, con la conseguente automatica liquidazione del predetto maggior indennizzo.

Riguardo all’applicabilità temporale dell’art. 2-bis, commi 1 e 1-ter, della l. n. 89 del 2001, introdotti dalla l. n. 208 del 2015, Sez. 2, n. 25837/2019, Scarpa, Rv. 655465-01, ha affermato che tali disposizioni, dettando una nuova disciplina che prevede l’applicabilità dell’abbassamento a 400 euro del minimo annuo, nonché la riducibilità ulteriore di un terzo in caso di rigetto della domanda nel procedimento cui l’azione per l’equa riparazione si riferisce, costituiscono uno ius superveniens che, in assenza di norme che dispongano diversamente ed in forza dell’art. 11 disp. att. c.c., trova applicazione nei soli giudizi introdotti dopo l’1 gennaio 2016,

7. Altre questioni processuali.

Ai fini dell’individuazione del giudice competente sulla domanda di equa riparazione, ex art. 3 della l. n. 89 del 2001, come modificato dall’art. 1, comma 777, della l. n. 208 del 2015, Sez. 6-2, n. 09721/2019, Carrato, Rv. 653508-01, ha chiarito che deve aversi riguardo al distretto della Corte d’appello in cui ha sede il giudice avanti al quale si è svolto il giudizio presupposto e che lo ha definito nel merito, anche, eventualmente, a seguito di riassunzione per intervenuta dichiarazione di incompetenza del giudice originariamente adito, e non, come in precedenza, il giudice dinanzi al quale il giudizio è stato introdotto.

Sez. 6-2, n. 26267/2019, Scarpa, Rv. 655749-01, ha altresì ribadito il principio, già affermato da Sez. U. n. 5700/2014, San Giorgio, Rv. 629676-01, secondo cui, in base alla disciplina prevista dalla l. n. 89 del 2001, nel testo previgente alle modifiche apportate dal d.l. n. 83 del 2012, conv. con modif. in l. n. 132 del 2012, il termine per la notifica del ricorso e del decreto di fissazione di udienza alla controparte non è perentorio, non essendo previsto espressamente dalla legge, con la conseguenza che il giudice, nell’ipotesi di omessa o inesistente notifica del ricorso e del decreto di fissazione dell’udienza – anche dopo l’adozione di un provvedimento di non luogo a provvedere per mancata comparizione delle parti, seguito da tempestiva riassunzione – deve, in difetto di spontanea costituzione del resistente, concedere al ricorrente un nuovo termine, avente carattere perentorio, entro il quale rinnovare la notifica.

Sulla portata dell’art. 3, comma 3, della l. n. 89 del 2001 si è pronunciata Sez. 2, n. 24181/2019, Cosentino, Rv. 655434-01, chiarendo che tale norma non introduce requisiti di carattere formale della domanda incidenti sulla procedibilità o ammissibilità della stessa, ma specifica il contenuto dell’onere probatorio gravante sul ricorrente nella fase monitoria del giudizio, il cui mancato adempimento non determina il rigetto della domanda, dovendo il giudice, ai sensi dell’art. 640 c.p.c. richiamato dall’art. 3 cit., invitare la parte a rimediare all’insufficienza della prova.

Peculiare è il caso esaminato da Sez. 2, n. 08054/2019, Scalisi, Rv. 653506-01, relativo ad una fattispecie in cui la Corte d’appello, in sede di opposizione contro un decreto che aveva liquidato a tre ricorrenti un indennizzo ex l. n. 89 del 2001, aveva confermato il provvedimento unicamente nei confronti della parte che ne aveva richiesto la notificazione, dichiarandolo inefficace in ordine alle somme ingiunte in favore delle altre: la S.C. ha cassato tale decisione affermando il principio secondo cui la richiesta di notificazione di un atto processuale, riguardante più soggetti, a nome di uno solo di essi deve ritenersi effettuata nell’interesse anche degli altri, poiché tale notificazione sostituisce a tutti gli effetti l’elencazione, inutilmente ripetitiva, dei nominativi dei detti soggetti, la cui presenza si ricava dall’atto notificato.

Quanto alla liquidazione delle spese processuali del giudizio per il riconoscimento dell’equo indennizzo da irragionevole durata del processo ai sensi della l. n. 89 del 2001, Sez. 2, n. 06015/2019, Giannaccari, Rv. 652772-01, ha ribadito il carattere contenzioso del procedimento, in quanto volto a risolvere una controversia su contrapposte posizioni di diritto soggettivo che si svolge in pieno contraddittorio tra le parti e si conclude con un provvedimento il quale, pur con la forma del decreto motivato, ha natura sostanziale di sentenza ed è suscettibile di acquistare autorità di giudicato. Conseguentemente la citata pronuncia ha affermato che trovano applicazione analogica le disposizioni degli artt. 91 ss. c.p.c. in tema di spese processuali e che la relativa liquidazione va effettuata non già in base alla tabella n. 7 del d.m. n. 55 del 2014 del Ministero della Giustizia, concernente i procedimenti di volontaria giurisdizione, bensì a quella n. 12 del medesimo d.m. sui giudizi ordinari innanzi alla Corte d’appello.

In senso conforme si è pronunciata anche Sez. 6-2, n. 16770/2019, Scarpa, Rv. 654610-01.

Di particolare interesse, con riferimento al caso dell’erronea citazione dell’amministrazione competente in un giudizio di equa riparazione per durata non ragionevole del procedimento, Sez. 2, n. 08049/2019, Bellini, Rv. 653292-01, ha statuito che l’art. 4 della l. n. 260 del 1958 deve ritenersi applicabile anche quando l’errore d’identificazione riguardi distinte ed autonome soggettività di diritto pubblico ammesse al patrocinio dell’Avvocatura dello Stato, ma, in forza del principio dell’effettività del contraddittorio, la sua operatività è circoscritta al profilo della rimessione in termini, con esclusione, dunque, di ogni possibilità di “stabilizzazione” nei confronti del reale destinatario, in funzione della comune difesa, degli effetti di atto giudiziario notificato ad altro soggetto e del conseguente giudizio. In applicazione di tale principio la S.C. ha conseguentemente cassato con rinvio la decisione di merito che aveva dichiarato inammissibile un ricorso notificato al Ministero dell’Economia e delle Finanze senza disporre la rinnovazione della notifica al Ministero della Giustizia, amministrazione che, invece, avrebbe dovuto essere parte del giudizio.

Da ultimo, Sez. 2, n. 02689/2019, Giuseppe Grasso, Rv. 652353-01, in riferimento al procedimento di equa riparazione per irragionevole durata di un processo amministrativo, ha precisato che la condizione di proponibilità della domanda di equa riparazione prevista dall’art. 54 del d.l. n. 112 del 2008 è soddisfatta qualora l’istanza di prelievo sia stata presentata, così segnalandosi l’urgenza del ricorso, con la conseguenza che la ritualità della richiesta di prelievo non è inficiata dalla circostanza che l’istanza sollecitatoria menzioni, anziché l’art. 71 del d.lgs. n. 104 del 2010, il non più vigente art. 51 del r.d. n. 642 del 1907, poiché occorre guardare al contenuto della richiesta senza fermarsi al dato formale dell’articolo di legge in essa menzionato, trattandosi della medesima istanza prevista da due fonti diacroniche.

  • detenuto
  • danno
  • diritti umani
  • giustizia riparatrice

CAPITOLO XXX

LA RIPARAZIONE DEL DANNO DA DETENZIONE DISUMANA E DEGRADANTE

(di Giovanni Armone )

Sommario

1 Profili generali. - 2 La competenza. - 3 La decadenza e altre questioni processuali.

1. Profili generali.

L’adeguamento dell’ordinamento italiano alla giurisprudenza della Corte EDU, in tema di rimedi individuali contro i trattamenti disumani e degradanti nei confronti di detenuti, è avvenuto progressivamente.

Dapprima, sono intervenute le misure legislative condensate nell’art. 35-ter ord. pen., introdotto dal d.l. n. 92 del 2014, che prevede sia misure di riparazione in forma specifica, consistenti in una riduzione della pena detentiva ancora da espiare, sia misure di ristoro economico, in base alle quali il detenuto ha diritto a una somma di denaro, pari a 8 euro per ogni giorno di detenzione pregiudizievole.

Nel corso del 2018, si sono poi pronunciate le Sezioni Unite civili e penali della Corte di cassazione, che hanno individuato la natura dei rimedi introdotti e alcuni fondamentali corollari (Sez. U civ., n. 11018/2018, Curzio, Rv. 648270-01; Sez. U pen. n. 3775/2017, dep. 26/1/2018, Rv. 271649, Tuttolomondo).

I rimedi garantiti dall’art. 35-ter hanno natura indennitaria, trovando origine nella violazione di obblighi gravanti ex lege sull’amministrazione penitenziaria; il diritto a farli valere si prescrive pertanto in dieci anni, come confermato da Sez. 3, n. 21789/2019, Scarano, Rv. 654783-01.

Trattandosi di un pregiudizio a carattere permanente, per il quale l’indennizzo è commisurato all’unità temporale del giorno di detenzione, il termine di prescrizione decorre de die in diem, dal compimento cioè di ciascuna giornata trascorsa in condizioni detentive non conformi all’art. 3 CEDU; la decorrenza della prescrizione è tuttavia variabile, poiché, per i pregiudizi anteriori alla novella, il termine decorre solo dal 28 giugno 2014, data di entrata in vigore della stessa, salvo l’operare del termine di decadenza previsto dalla disciplina transitoria.

Nel 2019, la giurisprudenza di legittimità si è dunque dedicata a profili applicativi di maggior dettaglio.

2. La competenza.

Quando il danneggiato versi in condizione di restrizione in carcere e questa abbia una durata tale da consentire l’eventuale decurtazione nella misura richiesta, il rimedio azionabile ha carattere specifico e la competenza appartiene al magistrato di sorveglianza; lo stato di detenzione deve essere potenzialmente produttivo delle condizioni disumane e degradanti, che giustificano l’indennizzo.

Cessata questa condizione, l’art. 35-ter prevede che il rimedio sia indennitario e la competenza spetti al giudice civile.

Ne consegue che la detenzione domiciliare radica la competenza del giudice civile (Sez. 3, n. 31552/2018, Di Florio, Rv. 65194502), mentre il soggetto sottoposto alla misura alternativa della semilibertà, in quanto ancora formalmente sottoposto a esecuzione penale, stante la sua perdurante restrizione, ancorché soltanto parziale, all’interno dell’istituto penitenziario, può accedere alla sola tutela in forma specifica (Sez. 3, 22169/2019, Porreca, Rv. 654785-01).

Sin dall’inizio problematica è apparsa la questione della domanda avanzata dal detenuto condannato all’ergastolo: questi è ristretto in carcere, ma non può vedersi ridotta la pena; d’altronde, la competenza del magistrato di sorveglianza a concedere il ristoro pecuniario sembra limitata a ipotesi diverse e tassative.

La via per uscire dalla strettoia è stata tracciata da Corte cost. n. 204 del 21 luglio 2016, che, investita della relativa questione di legittimità costituzionale, l’ha dichiarata infondata, sul presupposto che il rimedio costituito dalla riduzione della pena sia prioritario, ma non esclusivo, come dimostra il fatto che il rimedio risarcitorio sia attivabile anche quando la pena è stata interamente espiata; entrambi i rimedi fungono da strumento di riparazione alla compromissione della dignità umana indotta da un trattamento carcerario degradante, cosicché la materiale impossibilità di ridurre la pena non può essere di ostacolo al risarcimento, perché costituisce un’evenienza estranea a tale pregiudizio.

L’insegnamento della Corte costituzionale, già fatto proprio dalla giurisprudenza penale (per tutte Sez. 1, n. 32280/2018, Rv. 273851-01, Nolis), è stato recepito anche da quella civile: un’interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata dell’art. 35-ter, coincidente con gli esiti cui conduce una interpretazione logico-sistematica, porta a riconoscere la competenza del magistrato di sorveglianza ad adottare il provvedimento di ristoro economico nel caso di periodo di detenzione trascorso in condizioni disumane, anche in mancanza di qualsiasi collegamento con un’effettiva riduzione del periodo detentivo, come avviene nell’ipotesi di soggetto sottoposto a pena perpetua (Sez. 6-3, n. 20830/2019, De Stefano, Rv. 654849-02).

Una precisazione importante è stata però operata dalla giurisprudenza penale proprio nel corso del 2019.

Il fatto che il ristoro pecuniario possa essere chiesto anche dal condannato all’ergastolo e che la competenza sia del magistrato di sorveglianza non priva lo stesso soggetto dell’interesse a chiedere la riparazione in forma specifica, sempre ai sensi dell’art. 35-ter.

All’esito di un’approfondita ricostruzione della disciplina dell’ergastolo anche ostativo e della sua compatibilità con i princìpi costituzionali e sovranazionali, Sez. 1, n. 41649/2019, Rv. 276879-01, Ficara, ha chiarito che il condannato alla pena perpetua conserva l’interesse e il diritto a chiedere la riduzione dei giorni di pena in caso di detenzione disumana e degradante, riduzione che, pur non immediatamente sfruttabile, è suscettibile di incidere sulla determinazione della pena scontata in funzione dell’ammissione del detenuto, ricorrendone i presupposti, alla liberazione condizionale e alle altre misure premiali.

La citata Sez. 6-3, n. 20830/2019, De Stefano, Rv. 654849-01, ha poi avvertito che la ripartizione di competenza desumibile dall’art. 35-ter non è idonea a generare conflitti classici. È pertanto inammissibile l’istanza di regolamento di competenza avverso il provvedimento con cui il giudice civile ha ritenuto la competenza del magistrato di sorveglianza; la disposizione in esame non pone infatti una questione di competenza secondo la nozione desumibile dal codice di procedura civile, dipendendo l’alternativa tra l’uno e l’altro giudice dal riferimento della controversia ad un medesimo fatto materiale, suscettibile di valutazione sotto profili giuridici diversi.

3. La decadenza e altre questioni processuali.

Il sistema dei rimedi contro la detenzione disumana e degradante prevede due diversi termini di decadenza.

L’uno, previsto dall’art. 35-ter, comma 3, è quello per proporre l’azione davanti al giudice civile dopo la cessazione dello stato detentivo. Esso decorre – come statuito da Sez. 6-3, n. 02519/2019, Cigna, Rv. 652293-01 – dalla cessazione della custodia cautelare anche nel caso in cui, entro tale termine, il processo penale sia ancora pendente, versandosi pur sempre in un’ipotesi di non computabilità della custodia cautelare nella determinazione della pena da espiare.

L’altro termine decadenziale, contenuto nella disciplina transitoria dell’art. 2 del d.l. n. 92 del 2014, riguarda i pregiudizi patiti prima dell’entrata in vigore del d.l.: Sez. 3, n. 02549/2019, Iannello, Rv. 652484-01, ha precisato che in tal caso il termine decorre dall’entrata in vigore del decreto e che la domanda è ammissibile a una duplice condizione: che non sia ancora intervenuta una pronuncia sulla ricevibilità del ricorso da parte della Corte EDU e che il ricorrente indichi, nel ricorso interno, la data di presentazione del ricorso avanti alla stessa.

Non determina la chiusura in rito del procedimento camerale la mancata comparizione della parte ricorrente dinanzi al giudice che l’ha disposta al fine di procedere al libero interrogatorio (Sez. 3, n. 08771/2019, Fiecconi, Rv. 653417-01).

Di portata potenzialmente molto ampia è infine il principio enunciato da Sez. 3, n. 02350/2019, Di Florio, Rv. 652480-01, che, ponendosi sulla scia di Sez. 6-1, n. 10130/2018, Terrusi, non massimata, ha affermato che la natura giuridica del credito del Ministero della Giustizia per il pagamento di una pena pecuniaria non gli preclude di eccepire in compensazione il controcredito del detenuto per il risarcimento del danno da inumana o degradante detenzione, in quanto il primo rappresenta una mera entrata patrimoniale dello Stato, peraltro suscettibile di riscossione mediante ruolo a seguito dell’estensione operata dal d.lgs. n. 46 del 1999.

  • magistrato
  • notaio
  • responsabilità
  • deontologia professionale

CAPITOLO XXXI

I PROCEDIMENTI DISCIPLINARI

(di Gianluca Grasso )

Sommario

1 Premessa. - 2 La responsabilità disciplinare dei magistrati. - 2.1 Gli illeciti disciplinari. - 2.1.1 La consapevole inosservanza dell’obbligo di astensione nei casi previsti dalla legge. - 2.1.2 I comportamenti abitualmente o gravemente scorretti nell’ambito dell’ufficio giudiziario, ovvero nei confronti di altri magistrati o di collaboratori. - 2.1.3 La grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile. - 2.1.4 Il reiterato, grave e ingiustificato ritardo nel compimento degli atti relativi all’esercizio delle funzioni. - 2.1.5 Gli illeciti disciplinari conseguenti a reato. - 2.2 La condotta disciplinare irrilevante. - 2.3 La misura cautelare della sospensione cautelare facoltativa dalle funzioni e dallo stipendio. - 2.4 Il procedimento disciplinare. - 2.5 Rapporti tra procedimento disciplinare e giudizio penale. - 3 La responsabilità disciplinare degli avvocati. - 3.1 Gli illeciti disciplinari. - 3.2 Il procedimento disciplinare. - 4 La responsabilità disciplinare dei notai. - 4.1 Gli illeciti disciplinari. - 4.2 Il procedimento disciplinare.

1. Premessa.

La rassegna sulla responsabilità disciplinare racchiude le pronunce rese in tale ambito dalla S.C. nei riguardi dei magistrati, degli avvocati e dei notai.

2. La responsabilità disciplinare dei magistrati.

Sul tema della responsabilità disciplinare degli appartenenti all’ordine giudiziario si distinguono le pronunce rese sugli illeciti commessi nell’esercizio delle funzioni mentre, riguardo al procedimento, numerose decisioni hanno affrontato le peculiarità di tale rito.

2.1. Gli illeciti disciplinari.

Riguardo alle diverse fattispecie, vanno menzionate le pronunce delle Sezioni Unite in merito alle ipotesi di illecito che discendono dall’esercizio delle funzioni, con particolare riguardo all’inosservanza dell’obbligo di astensione, ai comportamenti abitualmente o gravemente scorretti nell’ambito dell’ufficio giudiziario, ovvero nei confronti di altri magistrati o di collaboratori, alla grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile, al grave e ingiustificato ritardo nel compimento degli atti relativi all’esercizio delle funzioni e agli illeciti disciplinari conseguenti al reato.

Sul piano generale, in tema di concorso apparente di norme va segnalata la pronuncia Sez. U, n. 04881/2019, Lombardo, Rv. 652854-01 sul principio di specialità ex art. 15 c.p. Secondo l’apprezzamento compiuto, tale disposizione vale anche nelle ipotesi di illecito disciplinare del magistrato, allorquando sussista un concorso apparente di norme coesistenti astrattamente applicabili al medesimo fatto disciplinarmente rilevante. Tuttavia, tale norma non può ritenersi operante se le fattispecie di illecito concorrenti, ancorché astrattamente poste in rapporto di specialità tra di loro, siano in concreto riferibili a fatti diversi.

Nella specie è stata esclusa la configurabilità di un concorso apparente di norme in una ipotesi in cui l’incolpato aveva contattato il magistrato relatore di un processo penale e, successivamente, aveva comunicato all’imputato l’esito favorevole del colloquio, attesa la radicale e ontologica diversità delle due condotte contestate, ricondotte, rispettivamente, all’art. 2, comma 1, lett. e), del d.lgs. n. 109 del 2006 – relativo all’ingiustificata interferenza nell’attività giudiziaria di altro magistrato – e alla lett. d) della medesima disposizione, che sanziona i comportamenti abitualmente o gravemente scorretti nei confronti delle parti, dei loro difensori, dei testimoni o di chiunque abbia rapporti con il magistrato nell’ambito dell’ufficio giudiziario, ovvero nei confronti di altri magistrati o di collaboratore.

2.1.1. La consapevole inosservanza dell’obbligo di astensione nei casi previsti dalla legge.

Riguardo alla consumazione dell’illecito previsto dall’art. 2, comma 1, lett. c), del d.lgs. n. 109 del 2006, con riferimento all’ipotesi delle “gravi ragioni di convenienza” prevista dall’art. 36, comma 1, lett. h), c.p.p., le Sezioni Unite (Sez. U, n. 02301/2019, Giusti, Rv. 652286-01) hanno ritenuto configurabile in tutti i casi in cui si riscontri un rapporto di frequentazione tra il giudice e il difensore della parte nel processo penale tale da rivelare uno stretto e risalente legame suscettibile di intaccare, per il modo e l’intensità che lo connota, la serenità e capacità del magistrato di essere imparziale, ovvero di ingenerare il sospetto che egli possa rendere una decisione ispirata a fini diversi da quelli istituzionali e diretta, per ragioni private e personali, a favorire o danneggiare i destinatari, mentre non rileva un rapporto di mera collaborazione episodica, in vista di una pubblicazione scientifica o di un convegno di studi, né tanto meno la condivisione, attuale o passata, con modalità contenute e in via saltuaria, di un’attività di docenza universitaria o parauniversitaria.

Nella specie, la S.C. ha ritenuto che la semplice circostanza che il magistrato avesse partecipato alla redazione di un volume, nell’ambito di un più ampio trattato del quale era stato condirettore il difensore dibattimentale dell’imputato, non era sufficiente a integrare le gravi ragioni di convenienza. Le Sezioni Unite hanno censurato la pronuncia della Sezione disciplinare nella parte in cui si era riferita, in via del tutto assertiva e generica, a un non meglio circostanziato “legame” con il difensore, senza tuttavia indicare da quali risultanze probatorie sarebbe emersa l’esistenza, tra il giudice e il professore universitario, di un rapporto di intensa e risalente amicizia o di assidua frequentazione privata e personale, periodicamente ricercata e organizzata.

Nell’ambito del rito civile, è stato evidenziato che la consapevole inosservanza dell’obbligo di astensione non è esclusa nel caso in cui sia proposta un’istanza di ricusazione che il magistrato ritenga inammissibile – nella specie, sul presupposto che l’istante non fosse legittimato ad intervenire, e quindi ad assumere la qualità di parte, nella procedura esecutiva –, quando sussista un obbligo di astensione nei casi di cui all’art. 51 c.p.c., sussistendo altresì l’illecito della grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile, a norma dell’art. 2, comma 1, lett. g), del d.lgs. n. 109 del 2006, qualora il magistrato non disponga la sospensione, ma compia atti ulteriori del procedimento (Sez. U, n. 29833/2019, Lamorgese, Rv.).

Nella fattispecie, era stato accertato che il magistrato avesse rapporti di debito e cause pendenti con la società che aveva proposto l’istanza di ricusazione (art. 51, n. 3, c.p.c.), in procedimenti esecutivi dai quali erano scaturiti procedimenti contenziosi dinanzi allo stesso Tribunale e nel procedimento penale nel quale la stessa società era costituita parte civile. L’esistenza del suddetto obbligo di astensione rendeva non inammissibile ictu oculi l’istanza di ricusazione, imponendo di conseguenza la sospensione dei procedimenti e il divieto di compiere atti processuali.

Secondo l’apprezzamento delle S.U., una volta accertata l’esistenza di un obbligo di astensione, il magistrato ricusato non ha più il potere di operare la suddetta delibazione, trovando piena attuazione l’esigenza di assicurare alle parti l’imparzialità del giudizio nella controversia, cui è connessa la sospensione del processo e il divieto di compiere atti processuali, secondo la valutazione legale di cui all’art. 52 c.p.c., comma 3, e art. 298, comma 1, c.p.c. Non attenersi a questa regola di comportamento, diversamente da quanto sostenuto dalla ricorrente, non integra una incensurabile interpretazione di norme processuali, ma è segno di ignoranza o negligenza inescusabile.

2.1.2. I comportamenti abitualmente o gravemente scorretti nell’ambito dell’ufficio giudiziario, ovvero nei confronti di altri magistrati o di collaboratori.

Riguardo all’illecito di cui all’art. 2, comma 1, lett. d), d.lgs. n. 109 del 2006 sui comportamenti abitualmente o gravemente scorretti nell’ambito dell’ufficio giudiziario, è stato ritenuto (Sez. U, n. 31058/2019, Vincenti, Rv.) che la nozione di “grave scorrettezza” cui fa riferimento la previsione normativa, nel rendere sanzionabili disciplinarmente i comportamenti del magistrato nei confronti delle parti, dei difensori, di altri magistrati e di chiunque abbia con esso rapporti nell’ambito dell’ufficio giudiziario, ha carattere “elastico”; pertanto, in funzione del giudizio di sussunzione dei fatti accertati nella norma che tipizza il predetto illecito, il giudice disciplinare deve attingere sia ai principi che la disposizione (anche implicitamente) richiama (tra cui il principio che il magistrato, nell’esercizio delle funzioni sia giudicanti che requirenti, deve improntare la propria condotta con i superiori, i colleghi e il personale dell’ufficio di appartenenza al canone di leale collaborazione) sia a fattori esterni presenti nella coscienza comune, così da fornire concretezza alla parte mobile della disposizione che, come tale, si rende suscettibile di adeguamento rispetto al contesto storico sociale in cui deve trovare operatività.

In applicazione dell’enunciato principio, la S.C. ha ritenuto che si sottraesse alle censure di errores in iudicando e di vizio di motivazione il giudizio con cui la Sezione disciplinare aveva reputato gravemente scorretto nei confronti del procuratore della Repubblica f.f., il comportamento del sostituto procuratore, il quale, dopo avere dal primo ricevuto, nel corso di una riunione con tutti i colleghi investiti della trattazione di un procedimento di grande rilevanza mediatica, anche per l’ipotizzato conflitto tra due uffici di procura, la raccomandazione di mantenere il più assoluto riserbo con gli organi di informazione, aveva invece taciuto al procuratore f.f. la circostanza di avere già avuto un colloquio con un giornalista, e lo aveva quindi invitato a rispondere ad una telefonata dello stesso giornalista, così ponendolo nella condizione di interloquire senza avere un quadro completo degli accadimenti e senza potersi determinare in modo consapevole circa le dichiarazioni da rilasciare o se, invero, non rilasciarle affatto.

Gravemente scorretto è stato parimenti ritenuto il comportamento del sostituto procuratore della Repubblica che aveva inviato una lettera di censura a un agente di polizia giudiziaria, travalicando i suoi poteri e in tal modo incorrendo nell’illecito disciplinare, dal momento che la legge (art. 17 disp. att. c.p.p.) riserva l’esercizio dell’azione disciplinare contro gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria al Procuratore generale presso la Corte di appello nel cui distretto prestano servizio e prevede la preventiva e specifica contestazione per iscritto dell’addebito, nonché la sua notifica all’incolpato, con i contestuali avvisi in ordine alla facoltà di presentare memorie, produrre documenti e richiedere l’audizione di testimoni (Sez. U, n. 19228/2019, Garri, Rv. 654682-02).

Con riferimento al contenuto dei provvedimenti giurisdizionali, Sez. U, n. 29833/2019, Lamorgese, Rv. ha riscontrato la presenza di un comportamento gravemente scorretto del magistrato nell’inserimento in provvedimenti giurisdizionali di valutazioni e giudizi personali sull’operato di altri colleghi e su vicende estranee all’oggetto dei procedimenti nei quali sono pronunciati, tanto più se oggettivamente denigratori nei loro confronti.

Sez. U, n. 11586/2019, Mercolino, Rv. 653789-02 ha invece escluso che potesse considerarsi integrato l’illecito disciplinare di cui all’art. 2, comma 1, lett. d), del d.lgs. n. 109 del 2006, con riferimento al caso in cui un P.M. e un G.I.P., rispettivamente nella richiesta e nell’ordinanza con cui venivano concesse misure cautelari a carico degli indagati, avevano trascritto alcune intercettazioni telefoniche nelle quali gli interlocutori indicavano il questore come colui che proteggeva uno degli indagati, senza però disporre la sua iscrizione nel registro delle notizie di reato. Secondo il giudizio compiuto, l’apprezzamento della idoneità della suddetta trascrizione a delineare maggiormente il quadro indiziario a carico degli indagati, risolvendosi nella formulazione di un giudizio in ordine alla valenza probatoria degli elementi complessivamente addotti a sostegno della richiesta e, poi, della concessione della misura cautelare, doveva essere rimessa alla valutazione discrezionale dei magistrati interessati, e dunque essere sottratta al sindacato del giudice disciplinare.

È stato dunque confermato il principio secondo cui la condotta del magistrato, tradottasi nell’attività interpretativa e applicativa di norme di diritto, è censurabile sotto il profilo disciplinare nel solo caso in cui il provvedimento giurisdizionale sia stato adottato sulla base di un errore macroscopico o di una negligenza grave e inescusabile, rivelatrice di scarsa ponderazione, approssimazione, frettolosità o limitata diligenza, idonee a riverberarsi negativamente sulla credibilità del magistrato o sul prestigio dell’ordine giudiziario (in precedenza, in senso conforme, Sez. U, n. 07379/2013, Amoroso, Rv. 625555-01 aveva ritenuto esclusa la censurabilità dell’attività interpretativa del magistrato allorché pervenga a soluzioni non implausibili, ancorché criticabili come non fondate. Nella specie, era stata considerata errata – ma non implausibile – l’interpretazione dell’art. 7 del d.l. 13 maggio 1991, n. 152, convertito in l. 12 luglio 1991, n. 203, in forza della quale era stata ipotizzata la simultanea ricorrenza delle circostanze aggravanti costituite dal ricorso al cosiddetto metodo mafioso e dall’agevolazione di associazione mafiosa, con conseguente applicazione di un più ampio termine di durata della misura cautelare personale della custodia in carcere).

Sez. U, n. 01416/2019, Carrato, Rv. 652232-01 ha confermato la condanna disciplinare emessa nei confronti del magistrato componente del collegio del riesame che, in qualità di giudice relatore, violando il grado minimo di diligenza, cura e precisione che si esige nell’esercizio della funzione giurisdizionale, aveva depositato un’ordinanza con la quale era stato accolto un appello del pubblico ministero, con la correlata applicazione della custodia cautelare in carcere, il giorno prima dell’udienza fissata per la discussione del gravame nei confronti dello stesso indagato, così determinando l’ingiustificata compromissione del diritto di difesa e al contraddittorio. Secondo l’apprezzamento compiuto, ai fini della valutazione delle incolpazioni incentrate sull’adozione di un provvedimento giudiziario, non rileva la correttezza in sé del provvedimento bensì la condotta del magistrato che lo ha adottato, allorché raggiunga un livello di negligenza tale da poter incidere negativamente sui valori tutelati dalla prescrizione disciplinare.

2.1.3. La grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile.

Diverse sono state le pronunce riguardanti la grave violazione di legge, sanzionabile ai sensi dell’art. 2, comma 1, lett. g), del d.lgs. n. 109 del 2006 in caso di ignoranza o negligenza inescusabile.

Al riguardo, è stato confermato che la grave violazione di legge rileva non in sé, bensì in relazione alla condotta deontologicamente deviante posta in essere nell’esercizio della funzione, e impone, pertanto, una valutazione complessiva della vicenda e dell’atteggiamento in essa tenuto dal magistrato, al fine di verificare se il comportamento sia idoneo, siccome dovuto “quantomeno” a inescusabile negligenza, a compromettere sia la considerazione di cui il singolo magistrato deve godere, sia il prestigio dell’ordine giudiziario (Sez. U, n. 20819/2019, Scaldaferri, Rv. 655034-01; in senso conforme, già in precedenza, vedi Sez. U, n. 11069/2012, Vivaldi, Rv. 623234-01).

Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, che aveva ritenuto integrato l’illecito di cui all’art. 2, lett. a) e g), del d.lgs. n.109 del 2006, valutando rilevanti e significative, nel loro complesso, le seguenti omissioni e trascuratezze poste in essere da un pubblico ministero assegnatario di un procedimento per omicidio a carico di ignoti: l’aver lasciato aperto il procedimento per circa venticinque anni senza la richiesta al giudice competente di alcuna proroga dopo la prima concessa dal G.I.P.; l’aver provveduto in modo carente alla gestione ed al controllo dei reperti acquisiti; il non aver dato riscontro per lungo tempo a reiterate istanze della Direzione centrale anticrimine della Polizia di Stato, nelle quali si manifestava la necessità di rivisitare la scena del crimine.

Riguardo ai termini di durata della custodia cautelare, con particolare riferimento alla fattispecie della ritardata scarcerazione, Sez. U, n. 20182/2019, Carrato, Rv. 654877-01 ha ritenuto integrare l’illecito disciplinare sanzionato dall’art. 1, comma 1, e dall’art. 2, comma 1, lett. g), del d.lgs. n. 109 del 2006, il comportamento del P.M. che abbia disposto la rimessione in libertà di un indagato sottoposto a misura custodiale (anche se agli arresti domiciliari) con notevole ritardo (nel caso di specie, 65 giorni) rispetto alla scadenza dei termini di custodia cautelare relativi alla fase delle indagini preliminari, senza che possa assumere rilevanza, ai fini della scusabilità della condotta, l’erronea indicazione della scadenza del termine di fase nel sistema informatico dell’ufficio G.I.P.-G.U.P. del Tribunale nella cartella condivisa “Procura-Gip”, successivamente riportata negli scadenzari informatico e cartaceo della Procura della Repubblica, posto che il P.M., titolare delle indagini, non può in alcun modo sottrarsi al dovere di controllare l’esatta scadenza del termine nonché, giornalmente, verificare la posizione dell’indagato in regime di custodia cautelare.

Grava, infatti, sul magistrato l’obbligo di vigilare con regolarità sulla persistenza delle condizioni, anche temporali, cui la legge subordina la privazione della libertà personale di chi è sottoposto ad indagini, sicché l’inosservanza dei termini di durata massima della custodia cautelare costituisce grave violazione di legge idonea a integrare gli illeciti disciplinari di cui all’art. 2, comma 1, lett. a) e g), del d.lgs. n. 109 del 2006 (Sez. U, n. 17120/2019, D’Antonio, Rv. 654414-01). Tali illeciti non sono scriminati né dalla laboriosità o capacità del magistrato incolpato, né dalle sue gravose condizioni lavorative e neppure dall’eventuale strutturale disorganizzazione dell’ufficio di appartenenza, occorrendo, al riguardo, la presenza di gravissimi impedimenti all’assolvimento del dovere di garantire il diritto costituzionale alla libertà personale del soggetto sottoposto a custodia cautelare, senza che possa assumere rilievo, infine, la circostanza che quest’ultima venga a scadere in periodo feriale, circostanza dalla quale, al contrario, derivano al magistrato oneri di controllo persino maggiori, in funzione dell’esatta osservanza dei termini di scarcerazione.

Si conferma in tal modo l’indirizzo per il quale si deve attribuire a gravissima negligenza del magistrato ogni violazione del diritto di libertà non dovuta a cause eccezionali, ovvero già determinate per legge (in precedenza, Sez. U, n. 18191/2013, Forte, Rv. 627547-01 aveva escluso che tanto le circostanze relative alla capacità e laboriosità dimostrate dai magistrati incolpati nelle loro altre attività giudiziarie, quanto il fatto obiettivo dell’omessa trascrizione, nel registro generale, dello stato di detenzione della persona indagata potessero assumere rilievo come cause eccezionali, potenzialmente apprezzabili come esimenti della responsabilità disciplinare, potendo invece solo rilevare sul piano della commisurazione del trattamento sanzionatorio. Sez. U, n. 08896/2017, Bronzini, Rv. 643776-01, ha confermato la responsabilità di un G.I.P. in relazione al protrarsi, per oltre sette mesi, di un’illegittima detenzione carceraria, essendosi escluso che la mera enumerazione del numero dei provvedimenti adottati dal magistrato e un richiamo generico alle statistiche comparative fossero idonei a provare la sussistenza di una situazione di inesigibilità della condotta contestata).

Essendo doveroso il controllo sulla scadenza del termine di durata della custodia cautelare, non rileva, pertanto, ai fini dell’applicazione dell’esimente della “scarsa rilevanza del fatto”, che l’imputato si trovasse agli arresti domiciliari, atteso che tale misura costituisce, comunque, una privazione della libertà personale equivalente alla custodia cautelare in carcere ex art. 284, comma 5, c.p.p. Parimenti, sono ritenute del tutto ininfluenti sia la mancata richiesta di una riparazione per l’ingiusta detenzione da parte dell’imputato, sia la circostanza, di mero fatto, che l’episodio non abbia avuto alcuna risonanza pubblica attraverso i mezzi di comunicazione di massa (Sez. U, n. 04887/2019, Cirillo F.M., Rv. 652858-01).

Sull’attività di indagine, Sez. U, n. 11586/2019, Mercolino, Rv. 653789-01 ha ritenuto poter integrare la fattispecie disciplinare di cui alla lett. g) dell’art. 2 d.lgs. n. 109 del 2006 l’inadempimento da parte del P.M. dell’obbligo di procedere all’iscrizione nel registro delle notizie di reato, previsto dall’art. 335 c.p.p., che, tuttavia, si configura in presenza non già di un generico e personale sospetto, bensì dell’acquisizione di una notizia idonea, sotto il profilo oggettivo, a configurare un fatto come sussumibile in una determinata fattispecie di reato.

Nella specie, relativa alla condotta di un P.M. che, nella richiesta di concessione di misura cautelare, aveva trascritto alcune intercettazioni telefoniche nelle quali gli interlocutori indicavano il questore come colui che proteggeva uno degli indagati, senza contestualmente procedere all’iscrizione del questore medesimo nel registro delle notizie di reato, la S.C. ha cassato la sentenza del CSM, che aveva ritenuto integrato l’illecito disciplinare, rilevando che non era stato indicato in motivazione alcun elemento sintomatico di un’ipotesi di reato sufficientemente circostanziata, al di là delle generiche affermazioni risultanti dalle intercettazioni (in precedenza, Sez. U, n. 22402/2018, Campanile, Rv. 650604-01 ha confermato la decisione del CSM che aveva ritenuto integrato l’illecito disciplinare commesso da sostituti procuratori i quali, a fronte della morte di una persona, sottoposta a controllo delle forze dell’ordine, avvenuta in ospedale la mattina successiva alla notte trascorsa in caserma, avevano trascurato la denuncia presentata dalla persona che vi era stata condotta insieme all’individuo poi deceduto, senza procedere ad alcuna determinazione in ordine all’esercizio dell’azione penale e persistito nell’omissione successivamente al deposito della sentenza che aveva disposto la trasmissione degli atti al P.M. per verificare quanto accaduto tra l’intervento degli agenti operanti e l’accesso all’ospedale, avendo provveduto all’adempimento solo un anno dopo la sentenza e per il solo reato di lesioni, allo scopo di consentire la citazione degli indagati alla “possibile udienza di opposizione” alla richiesta di archiviazione).

2.1.4. Il reiterato, grave e ingiustificato ritardo nel compimento degli atti relativi all’esercizio delle funzioni.

In tema di ritardo ultrannuale nel deposito di provvedimenti ex art. 2, lett. q), del d.lgs. n. 109 del 2006 e scusabilità della condotta, è stato confermato l’indirizzo in tema di inesigibilità della condotta con riferimento al notevole carico di lavoro dal quale il magistrato risulti gravato (Sez. U, n. 22572/2019, Scarano, Rv. 655038-01; in precedenza, Sez. U, n. 19449/2015, Chiarini, Rv. 638195-01).

Il carico di lavoro è quindi idoneo ad assumere rilievo quale causa di giustificazione per il ritardo ultrannuale nel deposito dei provvedimenti giurisdizionali ove – tenuto conto degli standard di operosità e laboriosità mediamente sostenuti dagli altri magistrati dell’ufficio, a parità di condizioni di lavoro – vi sia una considerevole sproporzione, a suo danno, del carico su di esso incombente, sì da rendere inesigibile, per il magistrato incolpato, l’apprestamento di una diversa organizzazione, idonea a scongiurare quei gravi ritardi, fermo restando, in ogni caso, il suo onere di segnalare al capo dell’ufficio giudiziario la prolungata situazione di disagio lavorativo in cui venga a trovarsi per consentire al primo l’adozione di idonei rimedi, non essendo consentito all’interessato di effettuare autonomamente la scelta di assumere in decisione cause in eccesso rispetto alla possibilità di redigere tempestivamente le relative motivazioni.

Riguardo alla verifica della esigibilità di una condotta più tempestiva da parte dell’incolpato, è stato altresì sottolineato che la violazione del dovere di auto-organizzazione costituisce elemento centrale di tale verifica, sicché nella motivazione della sentenza il giudice disciplinare non può limitarsi ad affermare in modo apodittico che il ritardo non è giustificabile, ma deve rendere manifeste le ragioni per le quali una diversa organizzazione del lavoro sarebbe stata non solo possibile, ma anche idonea ad eliminare o ridurre i ritardi oggetto dell’incolpazione (Sez. U, n. 25020/2019, Bisogni, Rv. 655500-01).

Sulle misure adottate per lo smaltimento dei procedimenti o processi in cui siano maturati dei ritardi nel deposito dei relativi provvedimenti, Sez. U, n. 14526/2019, Vincenti, Rv. 654034-02 è intervenuta sulla questione dell’inosservanza del cd. “piano di rientro”, predisposto dal Presidente del tribunale ai sensi del punto 60.4 della circolare del CSM sulla formazione delle tabelle di organizzazione degli uffici giudiziari. Secondo la S.C., la sostenibilità del piano di rientro, seppur concordato, è elemento indefettibile - stabilito dalla stessa fonte abilitante il potere organizzativo - del programma di riduzione dei ritardi e, quindi, misura del comportamento rilevante sul piano dell’illecito disciplinare. Pertanto, spetta alla Sezione disciplinare del CSM, in ragione della stessa configurazione della fattispecie di illecito disciplinare nella specie contestato, verificare l’esigibilità della condotta di riparazione richiesta al magistrato. Tale verifica non può essere pretermessa, né perchè il piano di rientro è frutto di accordo con il magistrato interessato, né in quanto con esso si è fatta acquiescenza, in assenza di previa impugnazione in sede amministrativa o giurisdizionale.

Sul punto, è stato confermato che la durata ultrannuale dei ritardi nel deposito dei provvedimenti giurisdizionali non comporta l’ingiustificabilità assoluta della condotta dell’incolpato ma, trattandosi di inosservanza protrattasi ulteriormente e per un tempo considerevole rispetto alla soglia di illiceità considerata dal legislatore, essa è giustificabile solo in presenza di circostanze proporzionate all’ampiezza del ritardo (Sez. U, n. 14526/2019, Vincenti, Rv. 654034-01). La valutazione, che si impone al giudice disciplinare, di proporzionalità - ragionevolezza dell’efficacia giustificante delle circostanze addotte dall’incolpato, a fronte della comprovata sussistenza della condotta materiale integrante la fattispecie dell’illecito, deve essere effettuata in concreto, ossia calata nello specifico contesto della realtà in cui le funzioni giurisdizionali vengono esercitate.

2.1.5. Gli illeciti disciplinari conseguenti a reato.

Riguardo l’illecito di cui all’art. 4, comma 1, lett. a), del d. lgs. n. 109 del 2006, concernente la condanna a una pena detentiva per delitto doloso o preterintenzionale per il quale la legge stabilisce la pena detentiva, Sez. U, n. 13986/2019, Doronzo, Rv. 654031-01 ha ribadito che la fattispecie è integrata dalla sola ricorrenza di una condanna irrevocabile o di una sentenza ex art. 444, comma 2, c.p.p. per le ipotesi richiamate, senza necessità di ulteriori valutazioni da parte del giudice disciplinare, avendo il legislatore già operato un giudizio di gravità del fatto in quanto di per sé idoneo a ledere l’immagine e il prestigio del magistrato.

Nella specie, il magistrato era stato condannato dal tribunale, con sentenza confermata dalla Corte d’appello e divenuta irrevocabile a seguito della declaratoria di inammissibilità del ricorso per cassazione, alla pena di otto mesi di reclusione, con la concessione della sospensione condizionale della pena, per il delitto di cui al d.lgs. n. 41 del 2004, art. 181, comma 1-bis, lett. b), per aver modificato, senza la prescritta autorizzazione, l’originario assetto di luoghi sottoposti a vincolo paesaggistico, mediante la realizzazione di un manufatto per civile abitazione.

La Corte ha precisato che, a differenza della ipotesi prevista nell’art. 4, lett. d) – in cui il fatto rilevante in sede disciplinare è un reato per il quale non vi è stata una sentenza di condanna, perché il procedimento penale si è estinto per prescrizione o l’azione penale non poteva essere iniziata o proseguita –, le altre tre fattispecie previste dalla norma sono accomunate dal rilievo della sentenza penale di condanna o di “patteggiamento”, in linea con gli approdi della giurisprudenza di legittimità e della prevalente dottrina che ritengono legislativamente equiparabili, in forza dell’art. 445 c.p.p., le due categorie di sentenze. La fattispecie di cui alla lett. a), tuttavia, si differenzia dalle altre due perché mentre per queste ultime il legislatore ha espressamente previsto che il giudice disciplinare verifichi, caso per caso, la particolare gravità dei fatti, valutando le modalità e le conseguenze dell’azione quando con la sentenza di condanna (o ex art. 444 c.p.p.) sia stata irrogata una pena detentiva per un delitto colposo, o le sole modalità di esecuzione quando vi sia stata condanna all’arresto per una contravvenzione, nel caso della lett. a) il legislatore non ha ribadito l’inciso “sempre che presentino (i fatti) (...) carattere di particolare gravità”, così mostrando di ritenere sufficiente a configurare l’illecito la sentenza di condanna (o ex art. 444, comma 2, c.p.p.) irrevocabile a pena detentiva per delitto doloso.

In relazione all’illecito di cui all’art. 4, lett. d), del d.lgs. n. 109 del 2006, Sez. U, n. 15897/2019, Sambito, Rv. 654324-01 ha escluso che le espressioni sconvenienti rivolte in incertam personam, rese in occasione di una trasmissione televisiva, integrino la fattispecie in oggetto, richiedendo quest’ultima che la condotta disciplinarmente rilevante costituisca reato. La S.C. ha infatti osservato che il reato di diffamazione è costituito dall’offesa alla reputazione di una persona determinata e non può essere, quindi, ravvisato nel caso in cui vengano pronunciate frasi offensive nei confronti di una o più persone appartenenti ad una categoria, anche limitata, se le persone, cui le frasi si riferiscono, non sono individuabili.

Nella specie, confermando la decisione impugnata, le Sezioni Unite hanno ritenuto che la critica espressa dal magistrato incolpato, nei confronti dei magistrati amministrativi che gestiscono corsi di preparazione al concorso in magistratura, non fosse rivolta a soggetti specificamente indicati, né facilmente individuabili in riferimento a circostanze notorie, dovendosi escludere da tale ambito le informazioni che possano essere reperite tramite i motori di ricerca Internet, che non equivalgono alla generalizzata cognizione di fatti in relazione a soggetti di media cultura in un dato tempo e luogo, quali i destinatari – pubblico di non esperti giuristi – della trasmissione televisiva nel cui contesto la frase era stata pronunciata.

2.2. La condotta disciplinare irrilevante.

Sull’esimente della scarsa rilevanza del fatto di cui all’art. 3-bis del d.lgs. n. 109 del 2006, è stato confermato che tale previsione è applicabile, sia per il tenore letterale della disposizione che per la sua collocazione sistematica, a tutte le ipotesi previste negli artt. 2 e 3 del medesimo decreto, anche quando la gravità del comportamento è elemento costitutivo del fatto tipico, e perfino quando integri la commissione di un reato (Sez. U, n. 22577/2019, Rubino, Rv. 655113-02. In senso conforme, in precedenza, Sez. U, n. 06327/2012, Virgilio, Rv. 622237-01).

Ove si richieda l’applicazione di tale esimente, il giudice deve procedere ad una valutazione d’ufficio, sulla base dei fatti acquisiti al procedimento e prendendo in considerazione le caratteristiche e le circostanze oggettive della vicenda addebitata, anche riferibili al comportamento dell’incolpato, purché strettamente attinenti allo stesso, con giudizio globale diretto a riscontrare se l’immagine del magistrato sia stata effettivamente compromessa dall’illecito (sul rilievo del giudizio globale, con esclusione della critica atomistica dei singoli elementi di giudizio in sede di impugnazione della sentenza che abbia riconosciuto tale esimente, v. Sez. U, n. 06468/2015, Bandini, Rv. 634767-01).

Sempre in relazione al contenuto e all’ambito di applicazione dell’esimente, Sez. U, n. 01416/2019, Carrato, Rv. 652232-03 ha precisato che a essa può farsi riferimento quando – una volta accertata, sul piano oggettivo e soggettivo, la specifica violazione disciplinare contestata – si ritenga che, in una valutazione complessiva della vicenda ed alla luce anche di altri profili caratterizzanti la figura e il percorso professionale del magistrato, il fatto, inteso nella sua globalità – e non, quindi, con riferimento al solo specifico addebito –, non raggiunga quel livello di censurabilità tale da legittimare l’irrogazione di una sanzione disciplinare.

La S.C., nella specie, ha confermato l’assoluzione, per scarsa rilevanza del fatto, di un presidente del collegio del riesame che aveva sottoscritto un’ordinanza depositata il giorno prima dell’udienza fissata per la discussione, sul rilievo che, nonostante la grave violazione dell’obbligo di controllo dell’atto processuale, connesso con la funzione presidenziale, tuttavia l’ordinario affidamento nella verosimile correttezza del provvedimento come redatto dal giudice estensore, unitamente al carattere episodico della condotta, legittimava, anche alla luce di un percorso professionale immune da censure, il riconoscimento dell’esimente.

Nell’ipotesi in cui l’oggetto giuridico dell’illecito tipizzato si distingua dal bene tutelato dall’ art. 3-bis, Sez. U, n. 31058/2019, Vincenti, Rv. 656167-02, ha evidenziato che l’accertamento della condotta disciplinarmente irrilevante, da identificarsi in quella che, riguardata ex post e in concreto, non comprometta l’immagine del magistrato, deve compiersi senza sovvertire il principio di tipizzazione degli illeciti disciplinari. Pertanto, come osservato dalla S.C., nell’ipotesi in cui il bene giuridico individuato specificamente dal legislatore in rapporto al singolo illecito disciplinare non coincida con quello protetto dal citato art. 3 bis, il giudizio di “scarsa rilevanza del fatto” dovrà anzitutto tenere conto della consistenza della lesione arrecata al bene giuridico “specifico” e, solo se l’offesa non sia apprezzabile in termini di gravità, occorrerà ulteriormente verificare se quello stesso fatto, che integra l’illecito tipizzato, abbia però determinato un’effettiva lesione dell’immagine pubblica del magistrato, risultando applicabile la detta esimente soltanto in caso di esito negativo di entrambe le verifiche.

Nella specie, relativa ad un giudizio disciplinare riguardante un sostituto procuratore incolpato di aver tenuto un comportamento gravemente scorretto nei confronti del procuratore della Repubblica ff., la S.C. ha cassato la sentenza della Sezione disciplinare, la quale aveva escluso l’applicabilità dell’esimente senza esprimere il necessario giudizio, da effettuarsi in concreto ed ex post, sulla “non scarsa rilevanza”, in primo luogo, della lesione del bene giuridico direttamente tutelato ex art. 2, comma 1, lett. d), del d.lgs. n. 109 del 2006, consistente nel buon andamento dell’ufficio giudiziario e della sua unitarietà funzionale, e, in secondo luogo, di quella dell’immagine del magistrato, tutelata dall’art. 3-bis dello stesso decreto, rimanendo invece su un piano di non consentita astrattezza nel postulare soltanto una potenziale lesione dell’immagine dell’ufficio giudiziario.

In merito all’impugnazione dell’assoluzione con la formula di cui all’art. 3 bis del d.lgs. n. 109 del 2006, Sez. U, n. 01416/2019, Carrato, Rv. 652232-02 ha confermato l’interesse a impugnare la sentenza davanti alle Sezioni Unite della Corte di cassazione al fine di ottenere una pronuncia, totalmente liberatoria, di esclusione dell’addebito per insussistenza del fatto o perché il fatto non è a lui attribuibile, non essendo escluso qualsiasi effetto svantaggioso per il magistrato assolto (in senso conforme, Sez. U, n. 29914/2017, Virgilio, Rv. 646130-01)

2.3. La misura cautelare della sospensione cautelare facoltativa dalle funzioni e dallo stipendio.

Sul piano delle misure cautelari è stato precisato che la sospensione cautelare facoltativa, prevista dall’art. 22 del d.lgs. n. 109 del 2006 per il caso del magistrato sottoposto a procedimento penale per delitto non colposo punibile, anche in via alternativa, con pena detentiva, impone al giudice disciplinare di valutare la gravità dei fatti ascritti in sede penale, tenendo conto del titolo dei delitti e di tutte le circostanze del caso concreto ai fini del giudizio circa l’esistenza di una lesione del prestigio e della credibilità dell’incolpato tale da non essere compatibile con l’esercizio delle funzioni, mentre nessun rilievo assume la valutazione del pericolo di reiterazione delle contestate condotte illecite (Sez. U, n. 04882/2019, Lombardo, Rv. 652855-01).

La S.C., nella specie, ha cassato la decisione del giudice disciplinare che, pur avendo riconosciuto la gravità dei fatti addebitati a un G.I.P. cui era stato contestato il reato di rivelazione di segreto d’ufficio, aveva rigettato la richiesta di sospensione cautelare facoltativa dell’incolpato in ragione della ritenuta assenza del rischio di reiterazione delle condotte contestate, per essere stato il magistrato trasferito ad altro tribunale e allontanato, quindi, dal contesto ambientale nel quale quelle condotte erano maturate.

Con riferimento al rapporto con il trasferimento d’ufficio per incompatibilità ambientale, a norma del r.d. 31 maggio 1946, n. 511, art. 2 modificato dal d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, art. 26, Sez. U, n. 29833/2019, Lamorgese, Rv. ha precisato che tale misura amministrativa non osta alla successiva applicazione della sospensione cautelare facoltativa dalle funzioni e dallo stipendio, a condizione che il giudice disciplinare dia conto della perdurante attualità delle esigenze cautelari giustificative della predetta misura o, in alternativa, della idoneità della misura cautelare minore del trasferimento d’ufficio, ai sensi del d.lgs. n. 109 del 2006, art. 13 o art. 22, comma 1, tenuto conto del comportamento tenuto dal magistrato nell’esercizio delle funzioni nella nuova sede ove è stato trasferito in via amministrativa e comunque successivamente all’adozione della misura di cui al r.d. del 1946, art. 2.

Riguardo agli effetti dell’intervenuta sospensione del magistrato dall’esercizio delle funzioni, è stato precisato che essa non determina la cessazione dell’appartenenza all’ordine giudiziario, per cui non sussiste alcun difetto di “giurisdizione” in ordine all’accertamento della responsabilità disciplinare del magistrato (Sez. U, n. 03888/2019, Scrima, Rv. 652497-01). Nella specie, l’incolpazione riguardava l’illecito di cui all’art. 1 in relazione al d.lgs. n. 109 del 2006, art. 4, lett. d) per avere gravemente mancato ai doveri di magistrato – il cui status permane anche in periodo di sospensione delle funzioni – e in particolare a quelli di correttezza, imparzialità ed equilibrio in un contesto territoriale corrispondente a quello dove aveva svolto le funzioni giurisdizionali ponendo in essere comportamenti, anche in violazione dei precetti penali, idonei a ledere la sua immagine mediante ripetuti episodi di aggressione verbale e minaccia a pubblico ufficiale in danno di agenti della Polizia di Stato e Carabinieri che, nell’esercizio delle loro funzioni, si erano recati presso la sua abitazione, ove era astretto agli arresti domiciliari.

Nella vigenza delle norme anteriori al d.lgs. n. 109 del 2006, Sez. U, n. 18264/2019, Tria, Rv. 654625-01 ha evidenziato che la cessazione dal servizio per collocamento a riposo del magistrato sottoposto a procedimento disciplinare non determina la caducazione del provvedimento cautelare di sospensione “di diritto” dalle funzioni e dallo stipendio emesso in pendenza di giudizio penale, ai sensi dell’art. 31, comma 1, r.d.lgs. n. 511 del 1946 (vigente ratione temporis), né di quello di sospensione cd. “provvisoria” emanato dopo la revoca dell’ordinanza di custodia cautelare in carcere ex art. 30 del medesimo regio decreto, qualora l’incolpato non li abbia impugnati, né determina il venir meno dell’interesse dell’amministrazione alla prosecuzione del giudizio disciplinare, atteso che gli effetti prodotti dal provvedimento di sospensione cautelare di natura provvisoria non possono “cristallizzarsi” in conseguenza della cessazione dal servizio avvenuta nel corso del procedimento penale, tenuto altresì conto del principio di buon andamento dell’amministrazione della giustizia, in virtù del quale persiste l’interesse a una pronuncia sul merito in considerazione non solo dell’elevato onere finanziario cui sarebbe esposta la stessa amministrazione in caso di una pronuncia di improcedibilità che comporterebbe la ricostruzione economica e giuridica della carriera del magistrato incolpato, ma anche dell’interesse a tutelare l’immagine ed il prestigio della magistratura.

In precedenza, Sez. U, n. 25971/2016, Petitti, Rv. 641856-02, con riferimento alle disposizioni vigenti, aveva ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 23 del d.lgs. n. 109 del 2006, ove interpretato in senso diverso da quello che il collocamento a riposo del magistrato determina, come effetto automatico, l’estinzione del procedimento disciplinare e la cessazione della misura cautelare della sospensione dallo stipendio e dalle funzioni, atteso che, pur essendo venuta meno l’appartenenza del magistrato all’ordine giudiziario, restano in discussione questioni che, ai fini della loro soluzione, postulano un definitivo accertamento della legittimità, o meno, della misura medesima. Nella specie, la Sezione disciplinare del CSM, pronunciando sulla istanza di dichiarazione di estinzione del procedimento disciplinare pendente a suo carico per effetto dell’intervenuta cessazione dell’appartenenza all’ordine giudiziario per raggiunti limiti di età, aveva disposto con ordinanza la sospensione del procedimento fino alla definizione del processo penale a suo carico per i medesimi fatti oggetto del procedimento disciplinare.

2.4. Il procedimento disciplinare.

Diverse sono le pronunce che hanno affrontato questioni di carattere processuale.

Sulla mancata previsione dell’incompatibilità dei componenti della Sezione disciplinare del CSM che abbiano deliberato sugli stessi fatti in sede amministrativa, è stato escluso qualunque profilo d’illegittimità costituzionale – ai sensi degli artt. 117 Cost. e 6 CEDU – poiché, venendo in rilievo una situazione suscettibile di essere apprezzata come causa di ricusazione, l’interessato ha il potere di ricorrere a tale strumento, compatibile con il procedimento disciplinare, come chiarito dalla giurisprudenza della stessa Sezione disciplinare del CSM (Sez. U, n. 15385/2019, Di Virgilio, Rv. 654109-01.

In precedenza, Sez. U, n. 27172/2006, Luccioli, Rv. 593738-01, aveva evidenziato che la natura giurisdizionale e non amministrativa della Sezione disciplinare del CSM e la sua composizione secondo criteri fissati direttamente dalla legge escludono la sussistenza di ragioni di incompatibilità, e quindi di astensione, nell’ipotesi in cui siano chiamati a farne parte componenti che abbiano già espresso il loro parere sui medesimi fatti oggetto dell’incolpazione nell’esercizio dell’attività amministrativa dell’organo di autogoverno.

Sempre in relazione ai profili di dedotta illegittimità del procedimento disciplinare, Sez. U, n. 16984/2019, Lombardo, Rv. 654371-03 è intervenuta in merito alla previsione normativa di un unico grado di merito. Le Sezioni Unite hanno ritenuto manifestamente infondata la questione concernente la violazione dell’art. 2 del Protocollo n. 7 allegato alla CEDU – che garantisce a ogni persona dichiarata colpevole da un tribunale il diritto a far esaminare la dichiarazione di colpevolezza da una giurisdizione superiore – sollevata in relazione alla mancata previsione di un doppio grado di giurisdizione di merito, atteso che trattasi di disposizione specificamente dettata per la “materia penale” e non estensibile alla materia disciplinare, e che la garanzia del ricorso per cassazione, assicurata dall’art. 111 Cost., soddisfa comunque la garanzia del riesame – sia pure limitatamente alle questioni di diritto – della sentenza di condanna (in precedenza, Sez. U, n. 22610/2014, Di Palma, Rv. 633019-01, in relazione all’esistenza di un unico grado di merito, aveva escluso ogni giudizio di incongruenza o aporia del sistema, evidenziando che il principio del doppio grado di giurisdizione di merito non è costituzionalmente sancito, con conseguente manifesta infondatezza della relativa eccezione di illegittimità costituzionale).

In relazione alla fase di chiusura delle indagini, Sez. U, n. 22577/2019, Rubino, Rv. 655113-01 ha confermato che il preventivo interrogatorio dell’incolpato da parte della Procura Generale non costituisce presupposto di validità della richiesta di fissazione dell’udienza di discussione orale, trattandosi di adempimento non previsto dal d.lgs. n. 109 del 2006, la cui autonoma, completa e specifica disciplina della chiusura delle indagini disciplinari preclude l’applicazione dell’art. 415-bis c.p.p. (in senso conforme, Sez. U, n. 11964/2011, Tirelli, Rv. 617636-01)

Sez. U, n. 19228/2019, Garri, Rv. 654682-01 è invece intervenuta sul termine ultimo entro il quale possono essere contestati fatti nuovi ex art. 14, comma 5, d.lgs. n. 109 del 2006. Secondo l’apprezzamento compiuto, tale termine è segnato dalla formulazione delle richieste conclusive del Procuratore Generale, che determina la chiusura delle indagini, e la mancata comunicazione all’incolpato, ai sensi dell’art. 15, comma 5, stesso decreto legislativo comporta, quale unica conseguenza, la nullità, soggetta a sanatoria, degli atti di indagine non preceduti da detta comunicazione, non già la nullità dell’intero procedimento e della sentenza. In precedenza, sulla stessa linea interpretativa, Sez. U, n. 07309/2014, Piccininni, Rv. 629859-01 aveva ritenuto che la tardiva contestazione di un addebito non comporta di per sé la nullità degli atti di indagine e la conseguente estinzione del giudizio, nel senso che l’irregolarità risulta sanata ove non eccepita nel termine di dieci giorni previsto dall’art. 15, comma 5, del d.lgs. 23 febbraio 2006 n. 109.

In tema di diritto di difesa, in ordine alla partecipazione al giudizio, Sez. U, n. 16984/2019, Lombardo, Rv. 654371-05 ha precisato che la mancata traduzione in udienza dell’imputato detenuto e regolarmente citato determina la nullità assoluta e insanabile del giudizio e della relativa sentenza solo nell’ipotesi in cui il detenuto abbia formulato espressa richiesta di comparire all’udienza. Nella specie, la censura è stata rigettata poiché il ricorrente non aveva dedotto di aver avanzato richiesta, a seguito della citazione per il giudizio disciplinare, di comparire in udienza.

La pronuncia ha inoltre ritenuto manifestamente infondata la questione di illegittimità costituzionale dell’art. 17 del d.lgs. n. 109 del 2006, in riferimento agli artt. 3, 24, 111 Cost. e 6 CEDU, sollevata in relazione alla mancanza di una esplicita previsione del diritto dell’incolpato detenuto di partecipare all’udienza disciplinare, atteso che, in virtù del rinvio alle norme del codice di procedura penale sul dibattimento, in quanto compatibili, disposto dall’art. 18 del d.lgs. n. 109 del 2006, devono ritenersi applicabili anche al procedimento disciplinare nei confronti dei magistrati le garanzie che assicurano agli imputati detenuti la possibilità di partecipare al dibattimento (Sez. U, n. 16984/2019, Lombardo, Rv. 654371-04 che ha richiamato gli art. 484, comma 2-bis, in relazione agli artt. 420-bis, 420-ter, 420-quater e 420-quinquies c.p.p., nonché art. 22 disp. att. c.p.p. Sull’estensibilità della disciplina del processo penale al procedimento disciplinare, v. Sez. U, n. 01771/2013, Segreto, Rv. 624898-01, secondo cui i richiami al codice di procedura penale contenuti negli articoli 16, comma 2, per l’attività di indagine e 18, comma 4, per la discussione dibattimentale, del d.lgs. n. 109 del 2006 vanno interpretati restrittivamente e solo in quanto compatibili, dovendo per il resto ritenersi applicabile la disciplina dettata dal codice di procedura civile, restando, così, inutilizzabili le norme del codice di procedura penale afferenti la fase anteriore all’apertura del dibattimento).

Sul termine per l’impugnazione delle sentenze della Sezione disciplinare del CSM, è stato chiarito che la comunicazione dell’avviso di deposito della sentenza, prevista dall’art. 19, comma 3, del d.lgs. n. 109 del 2006, si perfeziona nei confronti del Ministro della giustizia, ai fini del decorso del termine per proporre ricorso per cassazione, con la ricezione della comunicazione da parte del Gabinetto del Ministro. Si tratta di una conseguenza del sistema delineato dall’art. 24 del d.lgs. n. 109 del 2006, per cui nella fase introduttiva trovano applicazione le norme processuali penali mentre quelle civili si applicano per la fase del giudizio (Sez. U, n. 10935/2019, Cirillo F.M., Rv. 653601-02).

La stessa pronuncia ha precisato che nel caso in cui il termine per impugnare decorra dal giorno in cui è stata eseguita la notificazione o la comunicazione dell’avviso di deposito, se queste ultime sono avvenute in date diverse nei confronti di ciascuno degli aventi diritto all’impugnazione, non trova applicazione l’art. 585, comma 3, c.p.p, per cui il Ministro della giustizia non può giovarsi, ai fini della tempestività del ricorso, della comunicazione della sentenza al Procuratore generale della Corte di cassazione avvenuta in una data successiva a quella presso il Gabinetto del Ministro medesimo (Sez. U, n. 10935/2019, Cirillo F.M., Rv. 653601-01).

Riguardo al sindacato delle Sezioni Unite della Corte di cassazione sulle decisioni della Sezione disciplinare del CSM, è stato chiarito che esso deve limitarsi al controllo della congruità, adeguatezza e logicità della motivazione, restando preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito, perché è estraneo al sindacato di legittimità il controllo sulla correttezza della motivazione in rapporto ai dati processuali, pur dopo la modifica dell’art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p. introdotta dalla l. n. 46 del 2006 (Sez. U, n. 07691/2019, Crucitti, Rv. 653310-01 che ha confermato la sentenza disciplinare che, in sede di giudizio di rinvio, aveva respinto l’istanza di revoca o modifica della misura cautelare del trasferimento d’ufficio per assenza di elementi di novità del fatto sul quale tale richiesta si fondava, costituito da una sentenza penale di assoluzione per condotte che il giudice disciplinare aveva ritenuto, con motivazione congrua, logica e sufficiente, di portata più ristretta rispetto a quelle oggetto di incolpazione disciplinare).

Sugli effetti della cessazione del rapporto di servizio sopravvenuta nelle more del giudizio di cassazione, e quindi prima del passaggio in giudicato della sentenza disciplinare di condanna, Sez. U, n. 16980/2019, Scrima, Rv. 654369-01 ha ritenuto che tale cessazione determina la declaratoria di cessazione della materia del contendere, ma non anche la cassazione senza rinvio della sentenza ai sensi dell’art. 382, comma 3, c.p.c. in quanto tale formula si riferisce alla constatazione della impossibilità di proseguire il processo prima della pronuncia impugnata, così risolvendosi in un vizio di essa (in senso difforme, in precedenza, v. Sez. U, n. 24304/2010, D’Alonzo, Rv. 614732-01 secondo cui la cessazione dell’appartenenza del magistrato all’ordine giudiziario intervenuta nelle more della definizione del ricorso per cassazione, oltre a comportare la cessazione della materia del contendere, per il venir meno dell’interesse alla definizione del processo in capo all’incolpato, determina la caducazione della sentenza stessa che diviene giuridicamente inesistente, per la carenza di potere disciplinare in capo al CSM, con la conseguenza che detta sentenza va cassata senza rinvio, ricorrendo un’ipotesi di carenza di potere, riconducibile alla previsione dell’art. 382, comma 3, ultima parte, c.p.c.).

In tema di ricusazione, è stato precisato che l’incompatibilità che, ai sensi degli artt. 51, n. 4, e 52 c.p.c., giustifica l’accoglimento dell’istanza di ricusazione per avere il giudice conosciuto del merito della causa in un altro grado dello stesso processo, non è ravvisabile ove alcuni componenti del collegio delle Sezioni Unite, investito del ricorso contro la pronuncia del CSM di inammissibilità della domanda di revocazione dell’ordinanza di inammissibilità della richiesta di revisione di un procedimento disciplinare, abbiano già deciso in precedenza sull’impugnazione avverso quest’ultima ordinanza (Sez. U, n. 26022/2019, Tria, Rv. 655587-01). Secondo l’apprezzamento compiuto dalla S.C., si tratta di serie processuali autonome per presupposti, ambito di cognizione ed effetti impugnatori, sicché non viene in rilievo “un altro grado dello stesso processo”.

2.5. Rapporti tra procedimento disciplinare e giudizio penale.

Riguardo ai rapporti tra il giudizio disciplinare e quello penale, è stato ribadito che la pendenza di quest’ultimo, pur relativo agli stessi fatti, non determina la necessaria sospensione del procedimento disciplinare in attesa della definizione del giudizio penale, giacché, nelle due ipotesi, i criteri di accertamento della responsabilità sono diversi in ragione della diversità del bene tutelato, che è da ravvisare nelle fattispecie di reato contestate al magistrato l’interesse alla buona amministrazione e, invece, con riferimento alla procedura disciplinare la tutela del prestigio del magistrato e dell’ordine giudiziario (Sez. U, n. 06962/2019, D’Antonio, Rv. 652983-01 ha così ritenuto legittimo il rigetto, da parte del giudice disciplinare, dell’istanza di sospensione presentata da un magistrato che, per la mancata astensione in un procedimento civile che coinvolgeva un prossimo congiunto, era stato incolpato in ambito disciplinare ex art. 2, comma 1, lett. c), del d. lgs. n. 109 del 2006 e, in ambito penale, per abuso d’ufficio ex art. 323 c.p.).

In ordine alle conseguenze della condanna in sede penale, sul piano delle sanzioni, Sez. U, n. 16984/2019, Lombardo, Rv. 654371-02 ha ribadito che l’art. 12, comma 5, del d.lgs. n. 109 del 2006 prevede tre distinte ipotesi, alternative tra di loro, nelle quali la rimozione del magistrato è obbligatoria, trattandosi di ipotesi connotate da speciale gravità rispetto alla generalità degli altri illeciti disciplinari: 1) la condanna per l’illecito disciplinare di cui al d.lgs. n. 109 del 2006, art. 3, comma 1, lett. e), la cui condotta consiste nell’aver ottenuto, direttamente o indirettamente, prestiti o agevolazioni da soggetti che il magistrato sa essere parti o indagati in procedimenti penali o civili, dai difensori di costoro, da parti offese o testimoni o comunque da soggetti coinvolti in detti procedimenti; 2) la condanna penale che abbia importato la irrogazione della pena accessoria della interdizione perpetua o temporanea dai pubblici uffici, pena accessoria, la cui esecuzione risulta evidentemente incompatibile con l’esercizio delle funzioni giudiziarie per tutto il tempo in cui essa opera; 3) la condanna penale a pena detentiva per delitto non colposo non inferiore a un anno la cui esecuzione non sia stata sospesa, sin dall’inizio ovvero a seguito di revoca della sospensione già concessa. Nella specie, la S.C., nel confermare la pronuncia della Sezione disciplinare, ha ritenuto che sussistessero due delle tre ipotesi previste dall’art. 12, comma 5, del d.lgs. n. 109 del 2006, avendo il magistrato riportato condanna penale alla pena di anni otto di reclusione, nonché l’interdizione perpetua dai pubblici uffici.

In precedenza, Sez. U, n. 23677/2014, Bernabai, Rv. 632896-01 aveva precisato che la rimozione disciplinare del magistrato non è ammessa solo nei casi previsti dall’art. 12, comma 5, del d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, nei quali essa è obbligatoria, ma ogni qual volta l’illecito abbia compromesso irrimediabilmente i valori connessi alla funzione giudiziaria e al prestigio personale del magistrato, anche in relazione allo strepitus fori; l’adeguatezza della sanzione della rimozione rientra nell’apprezzamento di merito della Sezione disciplinare del CSM, insindacabile in sede di legittimità, se sorretto da motivazione congrua, immune da vizi logico-giuridici.

Riguardo alla sanzione della rimozione, con la sentenza n. 197 del 12 novembre del 2018, la Corte costituzionale aveva dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale del d.lgs. n. 109 del 2006, art. 12, comma 5, sollevata in riferimento all’art. 3 Cost. sotto il profilo del difetto di ragionevolezza, della disparità di trattamento e della proporzionalità della sanzione. In tale occasione, il giudice delle leggi ha osservato come vada ripudiata la tesi della natura cumulativa dei presupposti previsti dal d.lgs. n. 109 del 2006, art. 12, comma 5, ai fini della rimozione, perché «conduce all’illogica conseguenza che, a far scattare la sanzione della rimozione obbligatoria - prevista, nell’intero impianto del d.lgs. n. 109 del 2006, soltanto dalla disposizione qui censurata - non sarebbe sufficiente che il magistrato incorra in una condanna penale che ne comporti l’interdizione dai pubblici uffici, ovvero in una condanna a pena detentiva non condizionalmente sospesa, occorrendo altresì che i fatti per i quali il magistrato sia stato penalmente condannato integrino anche l’illecito disciplinare di cui al d.lgs. n. 109 del 2006, art. 3, comma 1, lett. e). Conseguenza, questa, anch’essa palesemente assurda, posto che impedirebbe di ravvisare un’ipotesi di rimozione obbligatoria - ad esempio - nel caso in cui il magistrato venisse condannato per reati gravissimi, come l’omicidio volontario o la violenza sessuale, le cui rispettive fattispecie astratte tuttavia nulla hanno a che fare con quella dell’illecito disciplinare di cui è discorso».

Sulla mancata previsione, nell’art. 20 d.lgs. n. 109 del 2006, della sospensione obbligatoria del giudizio disciplinare a seguito di proposizione della richiesta di revisione della condanna penale definitiva, la medesima pronuncia (Sez. U, n. 16984/2019, Lombardo, Rv. 654371-01) ha escluso che essa si ponga in contrasto con l’art. 3 Cost., sotto il profilo della disparità di trattamento rispetto alla sospensione prevista per la pendenza del processo penale, data la diversità di situazione che si determina dopo la formazione del giudicato penale, né configura una violazione dell’art. 24 Cost. sotto il profilo della violazione del diritto di difesa, il cui pieno esercizio è assicurato dalla possibilità di richiedere in ogni tempo la revisione della condanna disciplinare (art. 25 del d.lgs. n. 109 del 2006), tantomeno si profila una violazione del principio della “ragionevole durata del processo” di cui all’art. 111 Cost.

3. La responsabilità disciplinare degli avvocati.

Riguardo alla responsabilità disciplinare degli avvocati, vanno richiamate le pronunce delle Sezioni Unite su alcune fattispecie di illecito, nonché su taluni profili procedurali, con particolare riferimento alla natura dei giudizi disciplinari innanzi al Consiglio nazionale forense.

3.1. Gli illeciti disciplinari.

Sulle fattispecie di illecito, Sez. U, n. 05200/2019, Giusti, Rv. 652862-01 ha ritenuto che l’avvocato che si appropri dell’importo dell’assegno emesso a favore del proprio assistito dalla controparte soccombente in un giudizio civile, omettendo di informare il cliente dell’esito del processo che lo aveva visto vittorioso e di restituirgli le somme di sua pertinenza, pone in essere una condotta connotata dalla continuità della violazione deontologica, destinata a protrarsi fino alla messa a disposizione del cliente delle somme di sua spettanza, sicché, ove tale comportamento persista fino alla decisione del Consiglio dell’ordine, non decorre la prescrizione di cui all’art. 51 del r.d.l. n. 1578 del 1933.

In precedenza, in senso conforme alla mancata decorrenza della prescrizione, in ragione del protrarsi della condotta, si era espressa Sez. U, n. 13379/2016, Iacobellis, Rv. 640324-01 riguardo alle somme riscosse per conto del cliente, ritenendo che contravviene all’art. 44, ultimo comma, del codice deontologico forense vigente ratione temporis l’avvocato che prometta al proprio assistito la consegna delle somme riscosse per suo conto senza provvedervi immediatamente.

Sui doveri di informazione e di comunicazione dell’avvocato nei confronti della persona già assistita, è stato chiarito che tali doveri persistono sia nell’ipotesi di rinuncia sia di revoca del mandato, anche se il codice deontologico della professione forense disciplina solo la prima fattispecie, atteso che la revoca del mandato, al pari della rinuncia, costituisce una soluzione di continuità nell’assistenza tecnica e, pertanto, deve ritenersi fonte dei medesimi obblighi necessari al fine di non pregiudicare la difesa dell’assistito (Sez. U, n. 02755/2019, Oricchio, Rv. 652570-01). È stata così confermata la sanzione dell’ammonimento irrogata dal CNF a un avvocato che aveva omesso di comunicare al cliente la propria rinuncia al mandato e il rinvio di udienza, precludendogli una più opportuna difesa a mezzo di memoria istruttoria con eventuale nuovo difensore.

Sul rilievo delle previsioni del codice deontologico forense, è stato ribadito che le stesse hanno natura di fonte meramente integrativa dei precetti normativi e possono ispirarsi legittimamente a concetti diffusi e generalmente compresi dalla collettività (Sez. U, n. 08313/2019, Perrino, Rv. 653285-01). Ne consegue che, al fine di garantire l’esercizio del diritto di difesa all’interno del procedimento disciplinare che venga intrapreso a carico di un iscritto al relativo albo forense è necessario che all’incolpato venga contestato il comportamento ascritto come integrante la violazione deontologica e non già il nomen juris o la rubrica della ritenuta infrazione, essendo libero il giudice disciplinare di individuare l’esatta configurazione della violazione tanto in clausole generali, quanto in diverse norme deontologiche o anche di ravvisare un fatto disciplinarmente rilevante in condotte atipiche non previste da dette norme (in senso conforme, Sez. U, n. 15852/2009, Macioce, Rv. 608805-01)

3.2. Il procedimento disciplinare.

Riguardo alla natura dei giudizi disciplinari innanzi al Consiglio nazionale forense, avendo gli stessi natura giurisdizionale, in quanto si svolgono dinanzi ad un giudice speciale istituito dall’art. 21 del d.lgs. lt. n. 382 del 1944 (tuttora operante, giusta la previsione della VI disposizione transitoria della Costituzione), è stato specificato che la spettanza al Consiglio – in attesa della costituzione, al suo interno, di un’apposita Sezione disciplinare ex art. 61, comma 1, della l. n. 247 del 2012 – di funzioni amministrative accanto a quelle propriamente giurisdizionali, non ne menoma l’indipendenza quale organo giudicante, atteso che non è la mera coesistenza delle due funzioni a incidere sull’autonomia ed imparzialità di quest’ultimo né, tantomeno, sulla natura giurisdizionale dei suoi poteri, quanto, piuttosto, il fatto che quelle amministrative siano affidate all’organo giurisdizionale in una posizione gerarchicamente subordinata, essendo in tale ipotesi immanente il rischio che il potere dell’organo superiore indirettamente si estenda anche alle funzioni giurisdizionali (Sez. U, n. 02084/2019, Doronzo, Rv. 652246-01).

Sugli elementi da valutare per la concreta determinazione della specie ed entità della sanzione, Sez. U, n. 11933/2019, De Stefano, Rv. 653930-01 ha precisato che essi non attengono all’an o al quomodo della condotta, ma solamente alla valutazione della sua gravità e devono, in sostanza, reputarsi quali meri parametri di riferimento a questo solo scopo, in quanto tali analoghi a quelli previsti dall’art. 133 e dall’art. 133-bis c.p. Non integrando circostanze aggravanti in senso tecnico della fattispecie dell’illecito – vale a dire elementi accidentali, non indispensabili ai fini della sussistenza, della fattispecie sanzionatrice –, tali elementi sono di norma sottratti all’onere, per il titolare del potere sanzionatorio, di previa e specifica contestazione. Secondo l’apprezzamento compiuto, nel procedimento disciplinare non si ha diritto a una contestazione articolata in una minuta, completa e particolareggiata esposizione delle modalità dei fatti che integrano l’illecito, tanto che l’indagine volta ad accertare la correlazione tra addebito contestato e decisione disciplinare non va fatta alla stregua di un confronto meramente formale, ma deve dare piuttosto rilievo all’iter del procedimento ed alla possibilità per l’incolpato di conoscere l’addebito e di discolparsi.

4. La responsabilità disciplinare dei notai.

In materia di responsabilità disciplinare dei notai, si segnalano alcune pronunce rese sulle fattispecie di illecito e in tema di procedimento, con particolare riguardo alla determinazione della sanzione e alla partecipazione al giudizio del Consiglio notarile cui appartiene il notaio incolpato.

4.1. Gli illeciti disciplinari.

Sul piano sostanziale, Sez. 2, n. 07016/2019, Scalisi, Rv. 653286-01 ha ritenuto che l’utilizzo di procacciatori di clienti da parte del notaio costituisce illecito disciplinare ai sensi dell’art. 147, comma 1, lett. c), della legge notarile anche in seguito alla modifica introdotta con la l. n. 124 del 2017, che nella sua stesura definitiva e attualmente in vigore stabilisce. «(....) è punito con la censura o con la sospensione fino ad un anno o, nei casi più gravi, con la destituzione, il notaio che pone in essere una delle seguenti condotte: a) compromette, in qualunque modo, con la propria condotta, nella vita pubblica o privata, la sua dignità e reputazione o il decoro e prestigio della classe notarile; b) viola in modo non occasionale le norme deontologiche elaborate dal Consiglio nazionale del notariato; c) si serve dell’opera di procacciatori di clienti o di pubblicità non conforme ai principi stabiliti dall’art. 4 del regolamento di cui al D.P.R. 7 agosto 2012, n. 137». L’art. 147 alla lett. c), pertanto, sanziona esplicitamente la condotta del notaio consistente nell’utilizzo di procacciatori di clienti ritenendola, sostanzialmente, lesiva della dignità e della reputazione del notaio, nonché del decoro e del prestigio della classe notarile, e, comunque, contraria al dovere di imparzialità del notaio.

La S.C. ha comunque evidenziato che l’illecito disciplinare è soggetto alle norme vigenti al tempo della sua commissione, restando irrilevante la loro successiva abrogazione o modificazione in senso favorevole all’incolpato. È stata così confermata la decisione della corte d’appello che aveva sanzionato il notaio per avere appaltato a una società, nella vigenza della normativa precedente alla modifica del 2017, un servizio stabile di procacciamento di clientela inclusivo dello svolgimento di attività di studio delle questioni giuridiche connesse alla redazione degli atti pubblici da stipulare, le cui bozze venivano dalla stessa predisposte.

Sul divieto di ricevere atti espressamente proibiti dalla legge, Sez. 2, n. 21828/2019, Criscuolo, Rv. 654910-02 ha confermato che tale divieto, imposto dall’art. 28, comma 1, n. 1, della l. n. 89 del 1913 e sanzionato con la sospensione a norma dell’art. 138, comma 2, della medesima legge, è violato nel momento stesso della redazione della clausola nulla inserita in un atto rogato dal professionista, in quanto la redazione della clausola segna il momento di consumazione istantanea dell’illecito, sul quale non possono spiegare efficacia sanante o estintiva della punibilità eventuali rimedi predisposti dal legislatore (quale, nella specie, la possibile stipula di un atto di conferma) per conservare l’atto ai fini privatistici (in senso conforme, in precedenza, Sez. 3, n. 21493/2005, Segreto, Rv. 585040-01 che aveva escluso la rilevanza della sostituzione di diritto della clausola nulla con norma imperativa).

La stessa pronuncia ha ritenuto che la dichiarazione di conformità dell’immobile ai dati catastali ex art. 29, comma 1-bis, della l. n. 52 del 1985, non può essere surrogata dalla mera dichiarazione di conformità delle planimetrie, sicché il notaio che redige l’atto senza inserire la dichiarazione di conformità catastale incorre in una nullità ex art. 28 della l. notarile (Sez. 2, n. 21828/2019, Criscuolo, Rv. 654910-03).

In ordine alla legittimità di una procura generale a donare, è stato escluso che l’art. 60 della l. n. 218 del 1995, che contiene le norme di diritto internazionale privato, abbia introdotto, in via generale, la possibilità di conferire una tale procura, superando il disposto dell’art. 778 c.c., per il solo fatto che in alcuni Stati europei essa sia ritenuta pienamente valida, atteso che l’art. 60 diviene operativo esclusivamente qualora, dall’esame dell’atto, si evinca che quest’ultimo sia destinato a produrre effetti (anche) all’estero (Sez. 2, n. 06016/2019, Scalisi, Rv. 653025-01). Le norme di diritto internazionale privato di cui alla l. n. 218 del 1995, infatti, pongono i criteri per l’individuazione del diritto applicabile a fatti o a rapporti che presentino elementi di estraneità rispetto all’ordinamento italiano. Nel caso di specie, la S.C. ha confermato il rigetto dell’impugnazione proposta contro la sanzione disciplinare, per violazione dell’art. 28 della l. n. 89 del 1913, comminata a un notaio che aveva rogato una procura generale a donare, espressamente vietata dalla legge italiana, senza che dall’atto emergessero elementi di estraneità rispetto al nostro ordinamento.

4.2. Il procedimento disciplinare.

Sulla determinazione qualitativa e quantitativa della sanzione, è stato confermato che essa rientra tra i poteri discrezionali dell’organo preposto a irrogarla, nel rispetto dei limiti minimi e massimi edittali, perché non sono previsti parametri valutativi predeterminati, sicché ogni sanzione, in considerazione della natura punitiva che le è propria, deve essere commisurata alla gravità del fatto, alle circostanze dello stesso e alla personalità dell’autore, alla stregua di quanto stabilito, per gli illeciti penali, dall’art. 133 c.p. e, per quelli amministrativi, dall’art. 11 della l. n. 689 del 1981 (Sez. 2, n. 06016/2019, Scalisi, Rv. 653025-02; in senso conforme, Sez. 6-3, n. 05914/2011, Segreto, Rv. 617370-01)

Riguardo alle specificità del procedimento disciplinare, come regolato a seguito della novella del d.lgs. n. 249 del 2006, Sez. 2, n. 21828/2019, Criscuolo, Rv. 654910-01 ha precisato che il Consiglio notarile cui appartiene il notaio incolpato è parte necessaria nella fase giurisdizionale soltanto nell’ipotesi in cui il Presidente di detto Consiglio abbia promosso l’azione disciplinare oppure sia intervenuto nella fase procedimentale svolta innanzi la Commissione amministrativa regionale di disciplina.

  • contenzioso elettorale
  • diritto elettorale

CAPITOLO XXXII

ELEZIONI E GIUDIZI ELETTORALI

(di Roberto Mucci )

Sommario

1 Premessa. - 2 I diritti di elettorato. A) Elettorato passivo. - 2.1 (segue) B) Elettorato attivo. - 3 Operazioni elettorali. - 4 Il contenzioso elettorale.

1. Premessa.

Anche per il 2019 le non numerose pronunce intervenute nella materia elettorale confermano pregressi orientamenti, ancora una volta in necessaria coerenza con i principi costituzionali e sovranazionali.

2. I diritti di elettorato. A) Elettorato passivo.

In tema di incandidabilità alle elezioni degli amministratori di enti locali nelle ipotesi di infiltrazione o condizionamento mafioso, Sez. 1, n. 03024/2019, Genovese, Rv. 652423-02, afferma, in primo luogo, la natura prevalente dello scioglimento del consiglio dell’ente locale ai sensi dell’art. 143 del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 («Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali»), disposto per il verificarsi dei detti condizionamenti, rispetto allo scioglimento per sopravvenuta impossibilità di funzionamento di cui all’art. 141 dello stesso T.U.E.L.; la pronuncia ne trae che – proprio per l’assoluta rilevanza degli interessi in gioco e per il carattere urgente dei provvedimenti che conseguono solo all’accertamento della violazione colpita dall’art. 143 – che l’eventuale scioglimento disposto per sopravvenuta impossibilità di funzionamento dell’ente territoriale ex art. 141 non impedisce quello disposto per infiltrazione mafiosa ai sensi dell’altra e più grave previsione.

In generale, sulla compatibilità della misura ex art. 143, comma 11, T.U.E.L. con le prescrizioni sovranazionali di derivazione convenzionale e con il quadro costituzionale delle garanzie dei diritti di elettorato mette conto rinviare a Sez. 1, n. 15038/2018, Mercolino, Rv. 649124-01, e a Sez. U, n. 01747/2015, Giusti, Rv. 634129-01 e 634130-01 (pronunce delle quali si è dato conto nella Rassegna 2018), che puntualizzano la peculiare sistematica di tale causa di incandidabilità non quale misura sanzionatoria, secondo i principi elaborati dalla Corte EDU, bensì interdittiva di carattere preventivo, «i cui presupposti di applicazione sono ben individuati e prevedibili, disposta all’esito di un procedimento che si svolge nel pieno contraddittorio delle parti, che tutela l’interesse costituzionalmente protetto al ripristino delle condizioni di legalità ed imparzialità nell’esercizio delle funzioni pubbliche, incidendo sul diritto fondamentale all’elettorato passivo solo in modo spazialmente e temporalmente limitato, all’esclusivo fine di ristabilire il rapporto di fiducia tra i cittadini e le istituzioni, indispensabile per il corretto funzionamento dei compiti demandati all’ente».

2.1. (segue) B) Elettorato attivo.

Sulla cancellazione dalle liste elettorali conseguente a condanna penale passata in giudicato, Sez. 1, n. 02479/2019, Tricomi, Rv. 652621-01, ribadendo il dictum di Sez. 1, n. 00788/2006, Salvago, Rv. 588432-01, afferma che tale provvedimento è legato alla gravità del reato e, conformemente all’art. 3 del Protocollo addizionale n. 1 alla Convenzione EDU, come interpretato dalla fondamentale sentenza della Grande Camera, 22 maggio 2011, Scoppola c. Italia, 3, non ha carattere generale e automatico e non è applicata in modo indiscriminato. Al riguardo, non rileva la distanza temporale tra la commissione del fatto-reato e il momento dell’irrogazione della pena, poiché questa scatta, nell’interesse del condannato, al momento della sua definitività sia in relazione alle pene principali che a quelle accessorie, né la mancata considerazione della non ricorrenza della pericolosità sociale, giacché l’estinzione delle pene accessorie è conseguibile mediante la riabilitazione, concedibile in presenza dei differenti requisiti di cui all’art. 179 c.p.

Giova rammentare che la problematica in questione era stata affrontata anche da Sez. 1, n. 20952/2018, Di Marzio M., Rv. 650227-01 (pronuncia di cui si è dato conto nella precedente Rassegna 2018), la quale, decidendo una fattispecie di interdizione perpetua dai pubblici uffici conseguente a una condanna penale, con cancellazione del condannato dalle liste elettorali, e conformandosi a Sez. 1, n. 25896/2008, Salvago, Rv. 605293-01, ha affermato che detta sanzione accessoria non si estingue a seguito dell’esito positivo dell’affidamento in prova al servizio sociale, giusta il disposto dell’art. 47, comma 12, della l. 26 luglio 1975, n. 354 («Ordinamento penitenziario»), non senza rammentare, appunto, che la perdita del diritto di voto prevista dall’ordinamento italiano in caso di condanna penale è stata giudicata conforme alla CEDU dalla citata sentenza della Grande Camera.

3. Operazioni elettorali.

In tema di operazioni elettorali per le elezioni politiche generali, può segnalarsi Sez. 1, n. 28262/2019, Scalia, Rv. 655563-01, secondo cui, conformemente a Sez. 2, n. 08443/2008, Piccialli, Rv. 602413-01, la diffida ex art. 15, comma 8, della l. 10 dicembre 1993, n. 515 («Disciplina delle campagne elettorali per l’elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica»), con la quale il collegio regionale di garanzia elettorale invita il candidato che l’abbia omessa a presentare la dichiarazione concernente le spese sostenute e le obbligazioni assunte per la propaganda elettorale, assolve alla duplice funzione di offrire al trasgressore la possibilità di sanare l’illecito e di avvertirlo della pendenza del procedimento sanzionatorio, sicché è superfluo l’invio di un’ulteriore diffida prima dell’irrogazione della sanzione amministrativa, essendo l’interessato già a conoscenza della natura dell’addebito e della pendenza della procedura.

Inoltre, l’interessante Sez. 3, n. 02348/2019, Porreca, Rv. 652479-01, sviluppa l’insegnamento di Sez. U, n. 03731/2013, Rordorf, Rv. 625210-01, affermando che il definitivo accertamento, in sede di autodichia parlamentare, dell’irregolarità delle operazioni elettorali svolte dagli uffici elettorali circoscrizionali costituisce uno dei fatti costitutivi della domanda risarcitoria proposta dal candidato dinanzi al giudice civile, il quale, nell’ipotesi in cui la verifica da parte della Giunta delle elezioni si sia conclusa senza un tale accertamento, non può compierlo in via incidentale, trattandosi di prerogativa riservata dalla Costituzione in via esclusiva a ciascuna Camera.

Infine, Sez. 2, n. 20707/2019, Fortunato, Rv. 654983-01, afferma che i manifesti politici affissi all’infuori del periodo elettorale non sono assoggettati alla disciplina fissata dalla l. 4 aprile 1956, n. 212 («Norme per la disciplina della propaganda elettorale»), volta a garantire la correttezza della competizione tra i candidati, la quale sanziona le condotte illecite (affissione fuori dagli spazi individuati ed assegnati dal Comune o affissione senza titolo in detti spazi) che si collocano in tale periodo, presupponendo la predisposizione da parte dell’amministrazione di quanto necessario alla pubblicità elettorale da parte dei gruppi o dei candidati; fuori dal periodo elettorale trova, viceversa, applicazione il d.lgs. 15 novembre 1993, n. 507 («Revisione ed armonizzazione dell’imposta comunale sulla pubblicità e del diritto sulle pubbliche affissioni, della tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche dei comuni e delle province nonché della tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani a norma dell’art. 4 della legge 23 ottobre 1992, n. 421, concernente il riordino della finanza territoriale»), posto a protezione degli interessi finanziari del Comune e a tutela dell’ambiente e del decoro urbano del territorio amministrato, il cui art. 18 dispone che il servizio delle pubbliche affissioni è inteso a garantire la collocazione, a cura del Comune, in appositi impianti a ciò destinati, di manifesti di qualunque materiale costituiti, contenenti comunicazioni aventi finalità istituzionali, sociali o comunque prive di rilevanza economica (per un recente e specifico pendant giurisprudenziale nella materia propriamente tributaria, si v. Sez. 5, n. 12312/2018, Zoso, Rv. 648661-01).

4. Il contenzioso elettorale.

Sez. 1, n. 03024/2019, Genovese, Rv. 652423-01, afferma – anche sulla scorta di Sez. 1, n. 15038/2018, Mercolino, Rv. 649124-02, che ha escluso la sussistenza di una pregiudizialità in senso tecnico-giuridico tra il giudizio amministrativo di impugnazione del decreto di scioglimento del consiglio comunale o provinciale e il procedimento per la dichiarazione di incandidabilità ex art. 143, comma 11, T.U.E.L. cit. – che la verifica giudiziale in ordine all’accertamento amministrativo sull’incandidabilità degli amministratori degli enti locali attiene alle condotte che hanno dato causa allo scioglimento dell’organo consiliare, non alla valutazione di legittimità del d.P.R. di scioglimento, poiché tale valutazione esula dal thema decidendum, costituito dalla verifica della responsabilità degli amministratori dell’ente locale con riferimento alle condotte omissive o commissive che hanno dato causa o siano state concausa dello scioglimento dell’organo consiliare, rispetto al quale il d.P.R. costituisce un mero presupposto dell’indagine commessa al tribunale.

Ancora in tema di incandidabilità degli amministratori che con le loro condotte abbiano causato lo scioglimento dei consigli provinciali o comunali per infiltrazioni di stampo mafioso, Sez. 1, n. 10780/2019, Marulli, Rv. 653905-01, afferma – ricollegandosi all’insegnamento di Sez. 1, n. 00516/2017, Salvago, Rv. 643250-01 – che la speciale modalità di introduzione del giudizio prevista dall’art. 143, comma 11, T.U.E.L. mediante l’atto di trasmissione ministeriale rappresenta una deroga alle regole comuni; tale atto di impulso non è perciò tenuto a soddisfare i requisiti ordinari, in particolare le previsioni dell’art. 125 c.p.c., e non risulta nullo qualora ometta di indicare nominativamente gli amministratori coinvolti nella procedura, o comunque non provveda a menzionare esplicitamente le specifiche condotte attribuite agli amministratori rivelatrici della permeabilità dell’amministrazione locale alle influenze mafiose.