APPROFONDIMENTI TEMATICI --- PARTE PRIMA I DIRITTI DELLA PERSONA

  • diritti e libertà
  • persona fisica
  • delitto contro la persona
  • morte
  • diritti umani
  • eutanasia
  • Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea

I)

IL FINE VITA E LA CONVENZIONE PER LA SALVAGUARDIA DEI DIRITTI DELL’UOMO E DELLE LIBERTÀ FONDAMENTALI

(di Gianluca Grasso )

Sommario

1 Premessa. - 2 La giurisprudenza della Corte EDU sul diritto di morire ovvero sul dovere dello Stato di riconoscere all’individuo la possibilità di ottenere un aiuto a morire. - 2.1 Corte EDU, 29 aprile 2002, Pretty c. Regno unito: il diritto alla vita non può essere interpretato nel senso di conferire un diritto diametralmente opposto, ossia il diritto di morire. - 2.2 Corte EDU, 20 gennaio 2011, Haas c. Svizzera: il diritto alla vita privata non prevede che lo Stato debba garantire che un malato che desidera suicidarsi possa ottenere, in deroga alla legge, una sostanza letale senza prescrizione medica. - 2.3 Corte EDU, 19 luglio 2012, Koch c. Germania: il rifiuto di autorizzare una donna paralizzata a ottenere una dose letale di medicinali deve essere esaminato dall’Autorità giudiziaria. - 2.4 Corte EDU, GC, 5 giugno 2015, Lambert e altri c. Francia: il processo decisionale diretto a determinare l’autorizzazione alla cessazione dell’alimentazione e dell’idratazione artificiale, qualora sia condotto scrupolosamente in conformità al quadro normativo interno, risulta conforme ai requisiti dell’art. 2. - 3 L’ordinamento interno e la sentenza n. 242 del 2019 della Corte costituzionale: i riflessi della giurisprudenza della Corte EDU.

1. Premessa.

Oggetto del contributo è il tema del fine vita, così come declinato dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte EDU). Partendo dall’art. 2 CEDU, che attribuisce al diritto alla vita un ruolo primario tra i diritti fondamentali, bisogna verificare se e in che limiti dalla sua esegesi possa discendere – anche attraverso la combinazione con gli altri diritti riconosciuti dalla Convenzione – il diritto di rinunciare a vivere e, dunque, un vero e proprio diritto di morire ovvero il dovere dello Stato di riconoscere all’individuo la possibilità di ottenere un aiuto a porre fine alla propria esistenza.

2. La giurisprudenza della Corte EDU sul diritto di morire ovvero sul dovere dello Stato di riconoscere all’individuo la possibilità di ottenere un aiuto a morire.

La Corte EDU è intervenuta più volte a giudicare della compatibilità delle decisioni nazionali riguardanti la richiesta di mettere fine alla vita umana rispetto agli articoli 2 (diritto alla vita), 3 (divieto di trattamenti disumani e degradanti) e 8 (diritto al rispetto della vita privata) e 9 (libertà di coscienza) della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

Al di là delle decisioni che hanno escluso l’ammissibilità della domanda, il primo caso in cui è stata compiutamente affrontata la questione del “diritto di morire” è Pretty c. Regno unito.

2.1. Corte EDU, 29 aprile 2002, Pretty c. Regno unito: il diritto alla vita non può essere interpretato nel senso di conferire un diritto diametralmente opposto, ossia il diritto di morire.

Diane Pretty, cittadina britannica, stava per morire di sclerosi laterale amiotrofica, una malattia neurodegenerativa incurabile che causa la paralisi muscolare. Essendo la malattia giunta a uno stadio avanzato, che non aveva peraltro compromesso le sue facoltà intellettuali e decisionali, la ricorrente desiderava poter scegliere il momento e le modalità della sua morte in modo da non dover sopportare le sofferenze nella fase terminale della patologia. Pur non essendo il suicidio reato nell’ambito della legge inglese, lo stato avanzato della sua malattia le impediva di commettere questo atto senza un aiuto esterno. Tuttavia, la legge sul suicidio del 1961 incriminava l’assistenza di un’altra persona al suicidio. La signora Pretty ha chiesto allora all’Ufficio del procuratore di poter ottenere l’assistenza del marito per togliersi la vita. Il rifiuto della richiesta è stato confermato anche in sede di ricorso nel diritto interno.

Nel ricorso presentato alla Corte EDU, la ricorrente ha richiamato l’art. 2 (diritto alla vita) CEDU, sostenendo che spetta a ciascun individuo decidere se vuole vivere e che, come corollario del diritto alla vita, è garantito anche il diritto di morire. Di conseguenza, lo Stato aveva l’obbligo di modificare la legislazione interna per consentire di poter esercitare tale diritto.

Sotto altro profilo, si è sostenuto che alla luce dell’art. 3 (divieto di trattamenti disumani e degradanti), lo Stato non solo deve astenersi dall’infliggere trattamenti inumani e degradanti, ma deve anche adottare misure positive per proteggere le persone che rientrano nella sua giurisdizione da tali trattamenti. A tale proposito, l’unica misura in grado di tutelare la ricorrente sarebbe stato l’impegno dell’Ufficio del procuratore a non perseguire il sig. Pretty se avesse aiutato la moglie a suicidarsi.

La ricorrente ha inoltre sostenuto che l’art. 8 (diritto al rispetto della vita privata) riconosce il diritto all’autodeterminazione e ha considerato il rifiuto dell’Ufficio del procuratore di assumere l’impegno richiesto e l’assenza di una disposizione di legge che autorizzi il suicidio assistito come una violazione del suo diritto di esprimere le sue convinzioni, ai sensi dell’art. 9 (libertà di pensiero).

Infine, richiamando l’art. 14 (divieto di discriminazione), ha sostenuto che il divieto generale di suicidio assistito discrimina coloro che non possono suicidarsi senza assistenza, poiché le persone abili possono legalmente esercitare il diritto di morire.

Con la pronuncia del 29 aprile 2002, Pretty c. Regno unito, la Corte EDU ha escluso ogni violazione delle norme richiamate.

Riguardo all’art. 2 CEDU, la Corte evidenzia che la disposizione protegge il diritto alla vita, senza il quale il godimento di uno qualsiasi degli altri diritti e libertà garantiti dalla Convenzione sarebbe illusorio (sentenza 27 settembre 1995, McCann et altri c. Regno Unito, §§ 146-147). Pertanto, tale disposizione non riguarda solo l’omicidio intenzionale, ma anche le situazioni in cui è consentito l’“uso della forza”, poiché tale uso può portare all’uccisione involontaria di una persona. In particolare, si è osservato che la prima frase dell’art. 2, § 1 obbliga lo Stato non solo ad astenersi dall’uccisione intenzionale e illegale di persone, ma anche ad adottare le misure necessarie per proteggere la vita delle persone che rientrano nella sua giurisdizione (sentenza 9 giugno 1998, L.C.B. c. Regno Unito, § 36). Tale obbligo può anche implicare, in determinate circostanze ben definite, un obbligo positivo per le autorità di adottare misure preventive di natura pratica per proteggere la persona, la cui vita è minacciata da atti criminali altrui (sentenza 28 ottobre 1998, Osman c. Regno Unito, § 115; sentenza 28 marzo 2000, Kılıç c. Turchia, §§ 62 e 76).

Nella sua giurisprudenza in materia, la Corte ha dunque costantemente sottolineato l’obbligo dello Stato di proteggere la vita. In tali circostanze, la Corte esclude che il “diritto alla vita” garantito dall’art. 2 possa essere interpretato come un aspetto negativo. L’art. 2 non può, senza distorsioni del linguaggio, essere interpretato nel senso di conferire un diritto diametralmente opposto, cioè il diritto di morire; né può creare un diritto all’autodeterminazione in quanto darebbe ad ogni individuo il diritto di scegliere la morte piuttosto che la vita.

Di conseguenza, la Corte ritiene che non sia possibile dedurre dall’art. 2 CEDU un diritto di morire, sia per mano di un terzo sia con l’assistenza di una pubblica autorità.

La Corte esclude altresì la violazione dell’art. 3 CEDU, evidenziando che il governo convenuto non ha inflitto di per sé il minimo maltrattamento alla ricorrente. Quest’ultima -come osservato dalla Corte – non ha neppure lamentato di non aver ricevuto cure adeguate da parte delle autorità mediche statali. La doglianza si concentra invece sul rifiuto dell’Ufficio del procuratore di impegnarsi a non perseguire il marito nel momento in cui l’aiutasse a suicidarsi e che il divieto penale del suicidio assistito equivale a un trattamento disumano e degradante di cui lo Stato è responsabile.

I giudici di Strasburgo, peraltro, evidenziano come la richiesta miri in realtà a conseguire una nuova e più ampia interpretazione del concetto di trattamento disumano. Se da un lato la Corte deve adottare un approccio flessibile e dinamico nell’interpretazione della Convenzione, dall’altro deve anche garantire che qualsiasi interpretazione della stessa sia coerente con gli obiettivi fondamentali perseguiti dal trattato e preservi la coerenza che il trattato deve avere come sistema di tutela dei diritti umani. In tal senso, la Corte osserva che l’art. 3 deve essere interpretato in armonia con l’art. 2, che sancisce il divieto dell’uso della forza e di qualsiasi altro comportamento che possa causare la morte di un essere umano e non conferisce all’individuo il diritto di esigere che lo Stato permetta o faciliti la sua morte.

Ammettere un obbligo positivo in capo allo Stato equivarrebbe ad obbligare lo Stato a consentire gli atti tesi a interrompere la vita umana, obbligo che non può essere dedotto dall’art. 3 della Convenzione. La Corte conclude pertanto che tale clausola non impone allo Stato convenuto alcun obbligo positivo al riguardo.

Sull’art. 8 CEDU, si sottolinea che la nozione di “vita privata” è ampia e non suscettibile di una definizione esaustiva, riguardando sia l’integrità fisica sia quella morale dell’individuo (sentenza 26 marzo 1985, X e Y c. Paesi Bassi, § 22) e potendo comprendere aspetti dell’identità fisica e sociale di un individuo (sentenza 7 febbraio 2002, Mikulić c. Croazia, § 53).

La Corte di Strasburgo evidenzia che la ricorrente è impossibilitata per legge a esercitare la sua scelta per evitare quella che ritiene sarà una fine indegna e dolorosa della sua vita. Al riguardo, la Corte afferma di non poter escludere che ciò possa costituire una violazione del diritto della ricorrente al rispetto della sua vita privata ai sensi dell’art. 8, § 1. Per essere compatibile con il § 2 dell’art. 8, l’ingerenza nell’esercizio di un diritto da esso garantito deve essere “conforme alla legge”, ispirata da una o più finalità legittime e necessarie in una società democratica per il loro perseguimento.

Tuttavia, secondo l’apprezzamento compiuto, l’unica questione che è emersa dalle argomentazioni delle parti è stata quella della necessità dell’interferenza lamentata e il dibattito si è incentrato sulla sua proporzionalità. La ricorrente ha attaccato, in particolare, il carattere generale del divieto di suicidio assistito.

La Corte conviene con la Camera dei Lord e con il caso Rodriguez c. Procuratore generale del Canada, deciso dalla Corte suprema del Canada, sul fatto che gli Stati hanno il diritto di controllare, attraverso l’applicazione del diritto penale generale, le attività pregiudizievoli per la vita e la sicurezza altrui (sentenza 19 febbraio 1997, Laskey, Jaggard e Brown c. Regno Unito, § 43). In tale prospettiva, l’art. 2 della legge del 1961 è stato concepito per preservare la vita allo scopo di proteggere le persone deboli e vulnerabili – in particolare coloro che non sono in grado di prendere decisioni consapevoli – da atti destinati a porre fine alla vita o a contribuire a porre fine alla vita. La Corte, al riguardo, osserva che molte delle persone che hanno una malattia terminale sono vulnerabili, ed è la vulnerabilità della categoria di cui fanno parte che fornisce la ratio legis della disposizione in questione. Gli Stati hanno dunque la responsabilità primaria di valutare il rischio di abuso e le probabili conseguenze di eventuali abusi che potrebbero derivare da un allentamento del divieto generale di suicidio assistito o dalla creazione di eccezioni al principio, nonostante le argomentazioni addotte in merito alla possibilità di fornire salvaguardie e procedure di protezione.

La Corte ritiene che il carattere generale del divieto di suicidio assistito non sia sproporzionato. Richiamando le argomentazioni proposte dal Governo del Regno Unito si sottolinea che una certa flessibilità è resa possibile nei singoli casi: l’azione penale potrebbe essere avviata solo con l’accordo dell’Ufficio del procuratore e sarebbe prevista solo una pena massima, che consentirebbe al giudice di comminare pene minori, laddove lo ritenga opportuno. Alla Corte non sembra dunque arbitrario che la legge rifletta l’importanza del diritto alla vita, vietando il suicidio assistito e prevedendo al contempo un regime di applicazione e valutazione giudiziaria che consenta di tener conto, caso per caso, sia dell’interesse pubblico a perseguire penalmente i fatti costituenti reato sia le esigenze giuste e adeguate di punizione e deterrenza.

Tenuto conto delle circostanze del caso concreto, la Corte esclude che il rifiuto dell’Ufficio del procuratore di impegnarsi preventivamente a esonerare il marito della ricorrente dall’azione penale sia sproporzionato. Se specifiche argomentazioni, basate sullo stato di diritto, possono essere sollevate contro qualsiasi pretesa dell’esecutivo di esonerare individui o categorie di individui dall’applicazione della legge, la decisione presa nella fattispecie di rifiutare di assumere l’impegno richiesto non può essere considerata arbitraria o irragionevole.

Si ritiene, pertanto, alla luce di tali considerazioni, che l’ingerenza in questione può essere giustificata come “necessaria in una società democratica” per la tutela dei diritti degli altri. Di conseguenza, non vi è stata alcuna violazione dell’art. 8.

La violazione della Carta viene esclusa anche in relazione agli articoli 9 e 14.

La Corte osserva che non tutti i pareri o le opinioni rientrano nell’ambito di applicazione dell’art. 9, § 1, e che le rimostranze della ricorrente non si riferiscono ad alcuna forma di manifestazione di una religione o di un credo, insegnamento, o pratica o osservanza ai sensi del secondo periodo dell’art. 9, § 1. Il termine “pratiche” utilizzato nell’art. 9, § 1, non comprende ogni atto motivato o influenzato da una religione o da un credo. Nella misura in cui le argomentazioni della ricorrente riflettono la sua adesione al principio dell’autonomia personale, esse non sono altro che una riproposizione della denuncia ai sensi dell’art. 8. La Corte conclude pertanto che non vi è stata violazione dell’art. 9.

Sull’art. 14, infine, la Corte afferma che una differenza di trattamento tra persone che si trovano in situazioni simili o comparabili è discriminatoria se non è basata su una giustificazione obiettiva e ragionevole, ossia se non persegue uno scopo legittimo o se non esiste un ragionevole rapporto di proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito. La discriminazione può anche verificarsi quando uno Stato, senza una giustificazione obiettiva e ragionevole, non tratta in modo diverso persone in situazioni sostanzialmente diverse (sentenza 6 avril 2000, Thlimmenos c. Grèce [GC], § 44).

La Corte ritiene che vi sia una giustificazione obiettiva e ragionevole per l’assenza di una distinzione giuridica tra le persone che sono fisicamente capaci di suicidarsi senza aiuto e quelle che non lo sono. Il confine tra le due categorie è spesso molto labile, e tentare di sancire per legge un’eccezione per le persone ritenute non in grado di suicidarsi comprometterebbe seriamente la protezione della vita che la legge del 1961 intendeva sancire e aumenterebbe notevolmente il rischio di abusi. Pertanto, in questo caso non vi è stata alcuna violazione dell’art. 14.

2.2. Corte EDU, 20 gennaio 2011, Haas c. Svizzera: il diritto alla vita privata non prevede che lo Stato debba garantire che un malato che desidera suicidarsi possa ottenere, in deroga alla legge, una sostanza letale senza prescrizione medica.

Il caso portato dinanzi la Corte riguarda un cittadino svizzero, Ernst G. Haas, che soffre di un grave disturbo affettivo bipolare e ritiene che, di conseguenza, non possa più vivere in modo dignitoso. Dopo due tentativi di suicidio, ha provato a procurarsi una sostanza (pentobarbital di sodio) che, se somministrata in quantità sufficiente, gli avrebbe permesso di porre fine alla sua vita in modo sicuro e dignitoso. Poiché questa sostanza era soggetta a prescrizione medica, si rivolse a vari psichiatri per ottenerla, ma senza successo.

Le autorità federali e cantonali hanno respinto la sua richiesta di ottenere il pentobarbital di sodio in farmacia senza prescrizione medica, così come il Tribunale amministrativo di Zurigo, al quale è stato successivamente presentato un ricorso. Il signor Haas ha presentato ricorso alla Corte federale che, con sentenza del 3 novembre 2006, ha respinto le sue domande, ritenendo, tra l’altro, che il diritto di decidere della propria morte – che non ha messo in discussione – dovesse essere distinto dal diritto al suicidio assistito da parte dello Stato o di un terzo. Quest’ultimo, a suo avviso, non poteva essere dedotto dalla Convenzione, che non garantiva il diritto al suicidio assistito. Haas ha successivamente scritto a 170 psichiatri, esponendo il suo caso e chiedendo a ciascuno di loro se avrebbero accettato di effettuare una valutazione psichiatrica del suo caso, in vista dell’emissione di una prescrizione per il pentorbital sodico. Nessun medico avrebbe risposto positivamente alla richiesta.

Nel richiamare la sua giurisprudenza, la Corte EDU afferma che il concetto di “vita privata” è ampio, non suscettibile di una definizione esaustiva, e che – come ritenuto nel precedente Pretty c. Regno unito, § 67 – la scelta del ricorrente di evitare una fine della vita indegna e dolorosa ai suoi occhi rientra nell’ambito di applicazione dell’art. 8 della Convenzione, a condizione che sia in grado di formare liberamente la propria volontà al riguardo e di agire di conseguenza.

Tuttavia, la Corte osserva che la questione posta con il ricorso è diversa: se, ai sensi dell’art. 8, lo Stato abbia un “obbligo positivo” di garantire che il signor Haas possa ottenere senza prescrizione medica la sostanza che gli permetterà di morire in modo indolore e senza rischio di fallimento.

La Corte rileva che non esiste un consenso tra gli Stati membri del Consiglio d’Europa sul diritto di un individuo di scegliere quando e come vuole togliersi la vita.

In Svizzera, in particolare, secondo il codice penale, l’istigazione e l’assistenza al suicidio sono punibili solo se l’autore commette tali atti con un movente egoistico. Ma la grande maggioranza degli Stati membri sembra dare più peso alla protezione della vita dell’individuo (art. 2) che al suo diritto di porre fine alla sua vita (art. 8). La Corte conclude che gli Stati hanno un notevole margine di discrezionalità in questo settore (26 maggio 1994, Keegan c. Irlanda, § 49).

Pur ammettendo che il ricorrente possa desiderare di suicidarsi in modo sicuro, dignitoso e senza inutili sofferenze, la Corte è tuttavia del parere che l’obbligo di prescrizione medica per ottenere il pentobarbital di sodio abbia un obiettivo legittimo secondo il diritto svizzero, ovverosia di proteggere tutte le persone da decisioni affrettate e di prevenire gli abusi. Ciò è tanto più vero in un Paese come la Svizzera, che rende relativamente facile il suicidio assistito.

La Corte ritiene che non sia possibile sottovalutare i rischi di abuso inerenti a un sistema che facilita l’accesso al suicidio assistito, condividendo l’argomentazione avanzata dal Governo svizzero secondo cui la restrizione dell’accesso al pentobarbital di sodio serve alla tutela della salute, alla sicurezza pubblica e alla prevenzione dei reati. Condivide inoltre l’opinione del Tribunale federale secondo cui il diritto alla vita obbliga gli Stati a mettere in atto una procedura per garantire che la decisione di porre fine alla propria vita corrisponda alla libera volontà dell’interessato e il requisito della prescrizione medica, rilasciata sulla base di una visita psichiatrica completa, costituisce, secondo l’apprezzamento compiuto, un mezzo per soddisfare tale requisito.

La Corte, infine, non si è convinta della circostanza che il ricorrente non sia stato in grado di trovare uno specialista disposto ad assisterlo. Di conseguenza, il diritto del ricorrente di scegliere l’ora e il modo della sua morte era solo teorico e illusorio.

Alla luce di tutte queste considerazioni, e tenuto conto del margine di discrezionalità di cui godono le autorità nazionali in materia, la Corte conclude all’unanimità che non vi è stata violazione dell’art. 8.

2.3. Corte EDU, 19 luglio 2012, Koch c. Germania: il rifiuto di autorizzare una donna paralizzata a ottenere una dose letale di medicinali deve essere esaminato dall’Autorità giudiziaria.

Il caso riguarda un cittadino tedesco, Ulrich Koch, la cui moglie era rimasta quasi completamente paralizzata a seguito di una caduta sulle scale di fronte alla sua casa e aveva bisogno di un assistenza respiratoria e cure mediche costanti. Ha espresso il desiderio di mettere fine alla sua vita suicidandosi e ha pertanto chiesto all’Istituto federale dei prodotti farmaceutici e medici di ottenere una dose letale di pentobarbital di sodio che le avrebbe permesso di suicidarsi in casa sua. L’Istituto ha rifiutato di concedere questa autorizzazione, ritenendo che il desiderio dell’interessata di porre fine ai suoi giorni si opponeva allo scopo della legge sugli stupefacenti, che era quello di garantire le cure mediche della popolazione.

Il signor Koch e sua moglie hanno presentato ricorso contro questa decisione ma nel frattempo la moglie del ricorrente si è suicidata in Svizzera con l’assistenza dell’associazione Dignitas. L’Istituto federale ha confermato la sua decisione.

Il sig. Koch ha presentato un ricorso per far dichiarare l’illegittimità delle decisioni dell’Istituto Federale, sostenendo che tale organismo aveva l’obbligo di concedere l’autorizzazione richiesta da sua moglie.

Sul piano dei rimedi interni, il Tribunale amministrativo di Colonia ha dichiarato il ricorso irricevibile, affermando che l’interessato non era legittimato ad agire poiché non poteva sostenere di essere vittima di una violazione dei propri diritti, ritenendo comunque che il rifiuto dell’Istituto fosse conforme alla legge. La Corte d’appello amministrativa del Land Renania Settentrionale-Vestfalia ha rigettato la domanda di autorizzazione all’appello e la Corte costituzionale federale ha dichiarato il ricorso inammissibile, considerando che il ricorrente non poteva contare su un diritto postumo della moglie alla dignità umana e che non aveva il diritto di presentare un ricorso come successore legale della sua defunta moglie.

La Corte EDU ritiene che – nel caso di specie – vi sia stata una violazione dei diritti processuali del sig. Koch ai sensi dell’art. 8, tenuto conto, in particolare, della relazione eccezionalmente stretta tra il ricorrente e sua moglie e del suo immediato coinvolgimento nell’adempimento del desiderio del coniuge di togliersi la vita.

I giudici nazionali – nonostante un obiter dictum del Tribunale di Colonia in cui era stato espresso il parere che il rifiuto dell’Istituto federale fosse legittimo e conforme all’art. 8 della Convenzione – hanno rifiutato di esaminare la fondatezza della domanda originariamente presentata dalla moglie, in quanto il ricorrente, una volta deceduto il coniuge, non poteva far valere alcun diritto proprio ai sensi del diritto tedesco o dell’art. 8 della Convenzione e non era legittimato a subentrare nell’azione intentata dalla moglie dopo la sua morte. Si è dunque verificata, secondo l’apprezzamento della Corte, una violazione del diritto del ricorrente ai sensi dell’art. 8 di far esaminare la sua domanda nel merito dai tribunali nazionali.

Per quanto riguarda l’aspetto sostanziale della denuncia ai sensi dell’art. 8, la Corte ricorda che, conformemente all’oggetto e allo scopo alla base della Convenzione, come risulta dall’art. 1 della stessa, ogni Stato contraente deve assicurare nel proprio ordinamento giuridico interno il godimento dei diritti e delle libertà garantiti. È fondamentale per il meccanismo di protezione stabilito dalla Convenzione che i sistemi interni stessi rendano possibile il risarcimento delle violazioni commesse, con la Corte che esercita la sua vigilanza in conformità al principio di sussidiarietà (10 maggio 2001, Z e altri c. Regno Unito, § 103; 19 febbraio 2009, A e altri c. Regno Unito [GC], § 147). La Corte, inoltre, osserva che all’epoca, sulla base dei dati di diritto comparato, soltanto quattro degli Stati autorizzavano i medici a prescrivere una dose letale di farmaci per consentire al paziente di togliersi la vita. Di conseguenza, gli Stati parti della Convenzione erano ben lungi dall’aver raggiunto un consenso al riguardo, il che comportava che lo Stato convenuto avesse un notevole margine di discrezionalità in questo contesto.

Spettava, dunque, in primo luogo ai giudici nazionali esaminare la fondatezza della domanda del ricorrente, alla luce del principio di sussidiarietà. Di conseguenza, la Corte decide di limitarsi ad esaminare l’aspetto procedurale dell’art. 8 CEDU nel contesto del ricorso presentato.

Sulla diversa questione se il sig. Koch fosse legittimato a sostenere una violazione dei diritti della sua defunta moglie, la Corte fa riferimento a casi precedenti in cui ha concluso che l’art. 8 non era trasferibile e che le rivendicazioni ai sensi di tale articolo non potevano quindi essere accolte da un parente stretto o da un altro successore dell’interessato (26 ottobre 2000, Sanles Sanles c. Spagna, in cui è stata dichiarata inammissibile la richiesta della cognata di un tetraplegico deceduto che aveva presentato un’azione dinanzi ai tribunali spagnoli chiedendo che il suo medico di famiglia fosse autorizzato a prescrivergli i farmaci necessari per alleviare il dolore, l’angoscia e l’ansia causati dalla sua condizione; 28 febbraio 2006, Thévenon c. Francia, analogamente, ha ritenuto inammissibile il ricorso di un legatario del defunto che non era parente della ricorrente, considerando altresì che un legatario con titolo universale secondo il diritto francese non è un erede). La Corte non ritiene che le argomentazioni presentate siano sufficienti per discostarsi dalla sua giurisprudenza consolidata, per cui il sig. Koch non era legittimato ad invocare i diritti della moglie ai sensi dell’art. 8.

L’inammissibilità del ricorso a seguito del decesso del ricorrente è stata confermata anche dalla sentenza Corte EDU, GC, 30 settembre 2014, Gross v. Svizzera. Una donna anziana che voleva togliersi la vita e che non soffriva di alcuna patologia clinica si lamentava di non aver potuto ottenere dalle autorità svizzere l’autorizzazione a procurarsi una dose letale di farmaci per porre fine alla sua vita.

Con sentenza della seconda sezione del 14 maggio 2013, la Corte aveva constatato una violazione dell’art. 8 CEDU, sottolineando che il diritto svizzero non definiva con sufficiente chiarezza le condizioni in cui è consentito il suicidio assistito. Il caso è stato successivamente deferito alla Grande Camera su richiesta del governo svizzero.

La Grande Camera ha dichiarato inammissibile il ricorso richiamando, nella specie, l’abuso del diritto. La Corte ha infatti evidenziato di aver appreso del decesso della ricorrente soltanto a seguito delle osservazioni del governo svizzero, formulate nel 2014, e che la ricorrente aveva preso specifiche precauzioni per impedire che la notizia della morte, avvenuta nel 2011, fosse rivelata al suo avvocato e, in ultima analisi, alla Corte, al fine di evitare che quest’ultima ponesse fine al procedimento.

2.4. Corte EDU, GC, 5 giugno 2015, Lambert e altri c. Francia: il processo decisionale diretto a determinare l’autorizzazione alla cessazione dell’alimentazione e dell’idratazione artificiale, qualora sia condotto scrupolosamente in conformità al quadro normativo interno, risulta conforme ai requisiti dell’art. 2.

I ricorrenti sono i genitori, fratellastro e sorella di Vincent Lambert, che, vittima di un incidente stradale nel 2008, ha subito un trauma cranico che lo ha lasciato tetraplegico.

Il Consiglio di Stato francese, alla luce dei risultati di una visita medica effettuata da un gruppo di tre medici, ha ritenuto legittima la decisione assunta dal medico responsabile di Vincent Lambert di interrompere l’alimentazione e l’idratazione artificiale di quest’ultimo. I ricorrenti hanno sostenuto che la cessazione dell’alimentazione e dell’idratazione artificiale sarebbe stata contraria agli obblighi dello Stato ai sensi dell’art. 2 CEDU. L’art. 2, infatti, impone allo Stato non solo l’obbligo di astenersi dal causare la morte “intenzionalmente” (obblighi negativi), ma anche di adottare le misure necessarie per proteggere la vita delle persone che rientrano nella sua giurisdizione (obblighi positivi).

La Corte, con pronuncia resa a maggioranza e in presenza di opinioni dissenzienti, ha escluso l’esistenza di una violazione dell’art. 2 in caso di attuazione della decisione del Consiglio di Stato.

Sul piano della legittimazione, la Corte ha rilevato che, se la vittima diretta non è in grado di esprimersi, diversi suoi parenti stretti desiderano parlare a suo nome, pur presentando punti di vista diametralmente opposti. Spetta alla Corte stabilire se vi siano circostanze in cui una domanda possa essere presentata in nome e per conto di una persona vulnerabile.

La Corte, innanzitutto, ritiene che non sia applicabile nel caso di specie la giurisprudenza relativa alle domande presentate per conto di persone decedute, poiché Vincent Lambert all’epoca non era morto, ma si trovava in una condizione qualificata dalla perizia medica come stato vegetativo.

Si esclude, inoltre, che sussista nel caso di specie una delle cause in base alle quali la Corte ha eccezionalmente accettato che una persona possa agire per conto di un’altra. La Corte ricorda che nel caso Koch (19 luglio 2012, Koch c. Germania, § 43) il ricorrente ha sostenuto che le sofferenze della moglie e le circostanze finali della sua morte lo avevano colpito in misura tale da costituire una violazione dei suoi stessi diritti ai sensi dell’art. 8 della Convenzione. Tuttavia, i giudici di Strasburgo evidenziano che tali criteri non siano applicabili nel caso di specie, poiché Vincent Lambert non è deceduto e i ricorrenti intendono presentare un ricorso a suo nome.

Sulla possibilità che un terzo, eccezionalmente, possa agire in nome e per conto di una persona vulnerabile, la Corte richiama i due criteri principali che hanno consentito intervento in sostituzione, ovvero che vi sia il rischio che i diritti della vittima diretta siano privati di una protezione efficace e vi sia l’assenza di un conflitto di interessi tra la vittima e il richiedente.

Riguardo al primo criterio, la Corte esclude che nel caso in esame i diritti di Vincent Lambert possano essere privati di una protezione efficace, giacché, in conformità alla sua giurisprudenza consolidata, i ricorrenti, in qualità di parenti di Vincent Lambert, possono invocare dinanzi alla Corte, in nome proprio, il diritto alla vita tutelato dall’art. 2.

Sul possibile conflitto di interessi, si evidenzia che uno degli aspetti più importanti del procedimento interno è stato quello di determinare la volontà della persona vulnerabile e che sulla base di alcune testimonianze espresse i medici si sono determinati a ritenere che Vincent Lambert avrebbe espresso la volontà, prima dell’incidente, di non voler continuare a vivere nelle condizioni in cui poi si sarebbe trovato e che, pertanto, non poteva esservi una convergenza di interessi tra ciò che i ricorrenti hanno espresso e ciò che Vincent Lambert avrebbe voluto.

Alla luce della sua giurisprudenza, la Corte conclude che i ricorrenti non hanno la facoltà di proporre reclamo ai sensi degli articoli 2, 3 e 8 CEDU in nome e per conto di Vincent Lambert.

La Corte, tuttavia, ritiene che i ricorrenti, in qualità di familiari di Vincent Lambert, possano direttamente invocare l’art. 2 per proprio conto perché se, all’epoca, Vincent Lambert era vivo, altrettanto certo era che se l’alimentazione e l’idratazione artificiale fossero state interrotte, la sua morte sarebbe avvenuta in un breve lasso di tempo.

Con riferimento all’esegesi dell’art. 2, la Corte ricorda che tale norma impone allo Stato non solo l’obbligo di astenersi dal causare “intenzionalmente” la morte (obblighi negativi), ma anche di adottare le misure necessarie per proteggere la vita delle persone che rientrano nella sua giurisdizione (obblighi positivi) (9 giugno 1998, L.C.B. c. Regno Unito, § 36).

Partendo dal presupposto di una distinzione tra la morte inflitta volontariamente e l’astensione dal trattamento, la Corte evidenzia che nell’ambito della legislazione francese, che vieta l’inflizione deliberata di morte e consente solo in alcune circostanze specifiche la cessazione o il rifiuto di trattamenti a vita, ritiene che la causa non riguarda gli obblighi negativi dello Stato ai sensi dell’art. 2 ma soltanto le doglianze dei ricorrenti nel contesto degli obblighi positivi dello Stato.

La Grande Camera, richiamando la propria giurisprudenza, sottolinea di non essersi mai pronunciata sulla questione oggetto del presente ricorso, pur avendo affrontato una serie di casi che riguardano problemi correlati.

Un primo ambito riguarda il caso in cui i richiedenti o i loro parenti hanno invocato il diritto di morire sulla base di diversi articoli della Convenzione.

Nella decisione del 26 ottobre 2000, Sanles Sanles c. Spagna, la ricorrente, a nome di suo cognato, un tetraplegico che desiderava morire con l’assistenza di terzi e che è morto prima della presentazione della domanda, ha rivendicato il diritto ad una morte dignitosa, invocando gli articoli 2, 3, 5, 6, 8, 9 e 14 CEDU. La Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile sulla base della qualità del ricorrente.

Nel caso Pretty, riguardante la ricorrente che soffriva di una malattia neurodegenerativa terminale incurabile, lamentando che il marito non poteva assisterla nel suicidio senza essere perseguito dalle autorità del Regno Unito, la Corte ha escluso che vi sia stata una violazione degli artt. 2, 3, 8, 9 e 14 CEDU.

La Corte richiama altresì il caso Haas, in cui il ricorrente, che da tempo soffriva di un grave disturbo affettivo bipolare, desiderava togliersi la vita e lamentava di non poter ottenere la sostanza letale necessaria a tale scopo senza una prescrizione medica, e ove è stato escluso che vi sia stata violazione dell’art. 8.

Nel caso Koch, il riconoscimento della violazione dell’art. 8 è avvenuto limitatamente ai profili procedurali, a seguito del rifiuto dei giudici nazionali di esaminare nel merito le denunce riguardanti il rifiuto di consentire alla moglie (paralizzata e in ventilazione artificiale) di ottenere una dose letale di farmaci che le permettessero di togliersi la vita.

Altro gruppo di casi concerne la somministrazione o l’interruzione del trattamento.

Nel caso Glass c. Regno unito, i ricorrenti si sono lamentati della somministrazione, senza il loro consenso, della diamorfina al loro bambino malato da parte dei medici dell’ospedale e della menzione “non rianimare” nella cartella clinica. Nella decisione del 18 marzo 2003, la Corte ha dichiarato manifestamente infondata la loro denuncia ai sensi dell’art. 2 della Convenzione e, nella sentenza del 9 marzo 2004, ha riscontrato una violazione dell’art. 8 della Convenzione.

Nel caso di Burke contro Regno Unito del 11 luglio 2006, il ricorrente soffriva di una malattia neurodegenerativa incurabile ed era preoccupato che le linee guida applicabili nel Regno Unito potessero portare alla cessazione della sua idratazione artificiale e della sua nutrizione a tempo debito. La Corte ha dichiarato il ricorso – basato sugli articoli 2, 3 e 8 della CEDU – inammissibile per manifesta infondatezza.

Nella decisione del 16 dicembre 2008, Ada Rossi e altri contro l’Italia, la Corte ha dichiarato inammissibile, in ragione della natura della parte ricorrente, l’istanza presentata da singoli e associazioni che lamentavano gli effetti negativi, ai sensi degli articoli 2 e 3 CEDU, che avrebbe potuto avere nei loro confronti l’esecuzione di una sentenza della Corte di cassazione italiana che autorizzava la cessazione dell’idratazione e dell’alimentazione artificiale di una ragazza in stato vegetativo.

Riassumendo le risultanze che possono derivare dall’analisi della giurisprudenza richiamata, la Corte sottolinea che, ad eccezione delle violazioni dell’art. 8 delle sentenze Glass e Koch, non ha mai riscontrato una violazione della Convenzione in nessuno di questi casi.

La Corte ritiene che non vi sia consenso tra gli Stati membri del Consiglio d’Europa sull’ammissibilità dell’interruzione delle cure che sostengono artificialmente la vita, anche se la maggioranza degli Stati sembra permetterlo. Un consenso vi è tuttavia sul ruolo fondamentale della volontà del paziente nel processo decisionale. Di conseguenza, la Corte ritiene che, in questo settore, che tocca la fine della vita, gli Stati debbano disporre di un margine di discrezionalità, non solo per quanto riguarda la possibilità di consentire o meno la cessazione delle cure che prolungano la vita e le modalità della loro esecuzione, ma anche per quanto riguarda il modo in cui viene trovato un equilibrio tra la tutela del diritto alla vita del paziente e quella del diritto al rispetto della sua vita privata e della sua autonomia personale.

Tenuto conto della legislazione francese, la Corte ha ricordato che, nelle circostanze del caso, spettava in primo luogo alle autorità nazionali verificare la conformità della decisione di interrompere il trattamento con il diritto nazionale e con la CEDU, e stabilire la volontà del paziente in conformità con il diritto nazionale. Il compito della Corte è quello di esaminare il rispetto da parte dello Stato dei suoi obblighi positivi ai sensi dell’art. 2 della Convenzione. In tal senso, è stato ritenuto che il quadro legislativo previsto dal diritto interno, come interpretato dal Consiglio di Stato, e il processo decisionale condotto nel caso concreto – articolato attraverso l’acquisizione di pareri dei più alti organismi nazionali nel settore della medicina dell’etica, perizie mediche, testimonianze – fossero conformi ai requisiti dell’art. 2, anche se i ricorrenti non erano d’accordo con il suo esito, poiché né l’art. 2 né la sua giurisprudenza possono essere interpretati nel senso di imporre obblighi in merito alla procedura da seguire per raggiungere un eventuale accordo sull’interruzione del trattamento o sulla sua prosecuzione.

Per quanto riguarda i rimedi giurisdizionali a disposizione delle ricorrenti, la Corte ha concluso che la causa era stata oggetto di un esame approfondito in cui tutti i punti di vista erano stati espressi e tutti gli aspetti erano stati attentamente ponderati, sia alla luce di dettagliate perizie mediche sia di osservazioni generali delle più alte autorità mediche ed etiche. La Corte conclude che le autorità nazionali hanno rispettato i loro obblighi positivi ai sensi dell’art. 2 CEDU, tenuto conto del margine di discrezionalità di cui dispongono nel caso di specie, e che non vi sarebbe violazione dell’art. 2 se la decisione del Consiglio di Stato del 24 giugno 2014 fosse attuata.

Riguardo agli ulteriori motivi di doglianza, la Corte ritiene assorbiti i motivi di ricorso sollevati in relazione all’art. 8, mentre quelli proposti con riferimento all’art. 6, § 1, sono stati ritenuti infondati nella misura in cui sono stati già trattati sotto l’angolo dell’art. 2.

3. L’ordinamento interno e la sentenza n. 242 del 2019 della Corte costituzionale: i riflessi della giurisprudenza della Corte EDU.

Nell’ordinamento interno, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 242 del 2019 Usu cui v. anche sub § II e III), si è pronunciata sulla questione della compatibilità dell’art. 580

c.p. «nella parte in cui incrimina le condotte di aiuto al suicidio in alternativa alle condotte di istigazione e, quindi, a prescindere dal loro contributo alla determinazione o al rafforzamento del proposito di suicidio», per ritenuto contrasto con gli artt. 2, 13, comma 1, e 117 della Costituzione, in relazione agli artt. 2 e 8 CEDU.

La Corte, con una motivazione articolata, a fronte dell’inerzia del Parlamento, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p., per violazione degli artt. 2, 13 e 32, comma 2, Cost., nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) – ovvero, quanto ai fatti anteriori alla pubblicazione della citata sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, con modalità equivalenti nei sensi di cui alla motivazione –, agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente.

La Corte d’assise di Milano, con ordinanza del 14 febbraio 2018, aveva dubitato della legittimità costituzionale della norma censurata, anzitutto nella parte in cui incrimina le condotte di aiuto al suicidio anche quando esse non abbiano contribuito a determinare o a rafforzare il proposito della vittima. Per quanto qui di interesse, riguardo ai precedenti della Corte EDU, la corte milanese aveva individuato una evoluzione nella giurisprudenza di Strasburgo, il cui approdo finale sarebbe rappresentato dall’esplicito riconoscimento, sulla base degli artt. 2 e 8 CEDU, del diritto di ciascun individuo «di decidere con quali mezzi e a che punto la propria vita finirà».

Sotto questo profilo, la Corte costituzionale – pur giungendo a dichiarare assorbita l’ulteriore questione sollevata in via principale per violazione dell’art. 117, comma 1, Cost., in riferimento agli artt. 2 e 8 CEDU – esclude che l’incriminazione dell’aiuto al suicidio, ancorché non rafforzativo del proposito della vittima, possa di per sé ritenersi in contrasto con la Costituzione, alla luce del diritto alla vita, così come riconosciuto, quale presupposto per l’esercizio di tutti gli altri, dall’art. 2 Cost. (sentenza n. 35 del 1997) e dall’art. 2 CEDU.

Richiamando la sua ordinanza n. 207 del 2018, la Corte costituzionale conferma il principio, da tempo affermato dalla Corte EDU (sentenza 29 aprile 2002, Pretty c. Regno Unito), proprio in relazione alla tematica dell’aiuto al suicidio, secondo cui dal diritto alla vita, garantito dall’art. 2 CEDU, non possa derivare il diritto di rinunciare a vivere, e dunque un vero e proprio diritto di morire.

Analogamente, si esclude che da un generico diritto all’autodeterminazione individuale, riferibile anche al bene della vita, possa desumersi la generale inoffensività dell’aiuto al suicidio.

A sostegno di tale lettura, si pone, secondo la Corte costituzionale, la necessità di tutelare le persone più deboli e vulnerabili, che l’ordinamento penale intende proteggere da una scelta estrema e irreparabile, come quella del suicidio, così come la necessità di tutelare le persone che attraversano difficoltà e sofferenze, anche per scongiurare il pericolo che coloro che decidono di porre in atto il gesto estremo e irreversibile del suicidio subiscano interferenze di ogni genere. Tali considerazioni vengono fatte discendere non solo dalla lettura degli artt. 2 e 13, primo comma, Cost. ma anche dall’art. 8 CEDU, il quale sancisce il diritto di ciascun individuo al rispetto della propria vita privata, così come interpretato dalla giurisprudenza della Corte EDU.

A fronte di tale premessa generale, del tutto in linea con la giurisprudenza di Strasburgo richiamata nei paragrafi precedenti, la Corte costituzionale giunge successivamente a circoscrivere l’area di illegittimità dell’art. 580 c.p. alle situazioni in cui l’indiscriminata repressione penale dell’aiuto al suicidio, prefigurata dalla norma, entra in frizione con gli artt. 2, 13 e 32, comma 2, Cost.

Al di là di uno specifico riferimento alla giurisprudenza della Corte EDU, inserendosi con funzioni di supplenza del legislatore, nell’ambito di discrezionalità propria di ciascun ordinamento, la Corte costituzionale individua quei casi nei quali venga agevolata l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella trova intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli.

Riguardo a tali situazioni, in assenza di ogni determinazione da parte del Parlamento, la Corte costituzionale ha individuato i requisiti procedimentali (modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge n. 219 del 2017 – ovvero, quanto ai fatti anteriori alla pubblicazione della sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, modalità equivalenti), quali condizioni per la non punibilità dell’aiuto al suicidio prestato a favore di persone che versino nelle situazioni indicate.

Il successivo, auspicabile, intervento del legislatore consentirà di definire con maggiore compiutezza la disciplina della materia anche alla luce della richiamata giurisprudenza della Corte EDU che, nel rispetto della discrezionalità del legislatore, afferma che, in linea di principio, il diritto alla vita non può essere interpretato nel senso di conferire un diritto diametralmente opposto, ossia il diritto di morire.

  • professione sanitaria
  • responsabilità civile
  • diritti umani
  • trattamento sanitario

II)

DAL DIRITTO DI SCEGLIERE O RIFIUTARE UN DETERMINATO TRATTAMENTO SANITARIO SECONDO L’ART. 32, COMMA 2, COST., AL PRINCIPIO DI AUTODETERMINAZIONE IN ORDINE ALLA PROPRIA VITA E ALLA PROPRIA FINE: LA LEGGE 22 DICEMBRE 2017 N.219

(di Irene Ambrosi )

Sommario

1 Premessa. - 2 Consenso libero e informato al trattamento sanitario: evoluzione e limiti. Entrata in vigore della legge 22 dicembre 2017, n. 219. - 3 Disposizioni anticipate di trattamento (D.A.T). - 4 Pianificazione delle cure condivisa (P.C.C.). - 5 Diritto al consenso informato come ineliminabile presidio dell’autodeterminazione: la sentenza n. 242 del 2019 della Corte costituzionale. - 6 Indicazioni nomofilattiche in tema di consenso informato in ambito sanitario quale fonte della responsabilità civile.

1. Premessa.

La legge 22 dicembre 2017 n. 219 ha regolato l’istituto del consenso libero e informato in materia di trattamento terapeutico, espressamente radicandolo sui principi costituzionali e sovranazionali ed in particolare sugli artt. 2, 13 e 32 della Costituzione e sugli artt. 1, 2 e 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

Anzitutto si afferma la tutela del diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione della persona all’interno della relazione di cura e fiducia tra medico e paziente nella quale si incontrano la competenza professionale e la responsabilità dell’uno e l’autonomia decisionale dell’altro (art. 1, comma 2), solennemente ribadendo il precetto costituzionale secondo cui nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito, se privo di consenso, tranne nei casi espressamente previsti dalla legge (art. 1, comma 1).

L’iter parlamentare assai travagliato della disciplina normativa in commento, durato quasi un decennio (1), costituisce esempio emblematico delle difficoltà con le quali la società affronta le difficili questioni bioetiche e di biodiritto che agitano sia a livello giuridico sia, più in generale, a livello filosofico e sociale, l’opinione pubblica, nel difficile bilanciamento tra diritti nascenti dal progresso della scienza e quelli tradizionali posti in crisi da quest’ultima (2).

L’adozione di criteri appaganti per sciogliere le questioni che derivano dall’urgenza e dalla complessità di alcune scelte destinate a preservare l’esistenza della persona o a segnarne la fine, ha costituito e costituisce l’anelito di ogni tentativo di governo giuridico della materia ispirato ai principi di eguaglianza ed autonomia, ricompresi nel concetto della dignità umana, tanto da far ritenere che «la morte sembra racchiudere l’estremo tentativo» di attingere a quei principi come «approdo o fallimento dell’inesausta ricerca» (3).

2. Consenso libero e informato al trattamento sanitario: evoluzione e limiti. Entrata in vigore della legge 22 dicembre 2017, n. 219.

Ancora prima dell’emanazione della legge in esame, il consenso informato è stato considerato, pacificamente, presupposto di legittimità di ogni intervento sanitario sia dalla giurisprudenza costituzionale sia da quella di legittimità che di merito.

In particolare, la Corte costituzionale ha affermato che il consenso informato costituisce un vero e proprio diritto della persona assicurato dal principio costituzionale, garantito dalla riserva di legge, secondo cui “nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario, se non per disposizione di legge”(art. 32 Cost.) (4) .

Nel caso “Welby”, il Giudice per l’udienza preliminare del Tribunale di Roma ha ritenuto che «il rifiuto di una terapia (...) costituisce un diritto costituzionale garantito e già perfetto, rispetto al quale sul medico incombe, in ragione della professione esercitata e dei diritti e doveri scaturenti dal rapporto terapeutico instauratosi con il paziente, il dovere giuridico di consentirne l’esercizio, con la conseguenza che se il medico, in ottemperanza a tale dovere, contribuisse a determinare la morte del paziente per l’interruzione di una terapia salvavita, egli non risponderebbe penalmente del delitto di omicidio del consenziente, in quanto avrebbe operato alla presenza di una causa di esclusione del reato e segnatamente di quella prevista dall’art.51 c.p.» (5).

Nel caso “Englaro”, la Corte di cassazione ha ribadito che «la pratica del consenso libero e informato rappresenta una forma di rispetto della libertà dell’individuo e un mezzo per il miglioramento dei suoi migliori interessi» (6).

Nel caso “Piludu”, il Giudice tutelare del Tribunale di Cagliari (7) ha ritenuto doversi accogliere la richiesta di interruzione del trattamento medico di sostegno vitale nell’ipotesi di consapevole e libera espressione della volontà del paziente di sospendere le terapie.

D’altro canto, richiami specifici al consenso informato sono presenti nella normativa interna risalente agli anni 60’ e 70’ del 900’ (8) e contenuti anche nel codice di deontologia medica ove è previsto che il medico deve adeguare la comunicazione alle capacità di comprensione della persona assistita o del suo rappresentante legale al fine di assicurare un’informazione autentica (9).

Va pure ricordato che il rilievo del consenso informato ha trovato considerazione e riconoscimento in ambito internazionale nella Convenzione del Consiglio di Europa per la protezione dei diritti dell’uomo e della dignità dell’essere umano, sottoscritta ad Oviedo il 4 aprile 1997; difatti, nell’art. 5 è statuito che “un trattamento sanitario può essere praticato solo se la persona interessata abbia accordato il proprio consenso libero e informato”.

In ambito nazionale, particolare rilievo assume la legge 15 marzo 2010, n. 38 recante un corpus di disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore aventi come scopo, tra l’altro, anche - art. 1, comma 3, lett. a) - la tutela "della dignità e dell’autonomia del malato, senza alcuna discriminazione”.

Di recente, in proposito, la Corte di cassazione ha sottolineato come la circostanza che l’istituto del consenso informato abbia trovato espressa previsione nelle fonti eurounitarie ed internazionali (art. 3, comma 1, Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e art. 5 Convenzione di Oviedo sui diritti dell’uomo e sulla biomedicina) rispetto a trattamenti terapeutici risalenti non può essere invocata per sostenere l’inesistenza, in epoca antecedente, dello specifico obbligo del medico di informare correttamente il paziente della tipologia e modalità delle cure, dei benefici conseguibili, dei possibili effetti indesiderati e del rischio di complicanze anche peggiorative dello stato di salute (10).

Dall’esame delle fonti citate e dalle decisioni giurisprudenziali sinteticamente richiamate possono essere enucleati i limiti posti al consenso informato: anzitutto, la libera e consapevole volontà del soggetto, in secondo luogo, l’oggetto del diritto su cui la volontà può manifestarsi ed infine, la natura della condotta del medico.

Quanto al primo limite, va sottolineato che se il trattamento sanitario presuppone necessariamente il consenso informato del paziente, anche il rifiuto deve essere con certezza riconducibile alla sua consapevole volontà; in tale ambito, sia il consenso sia il dissenso al trattamento sanitario presuppongono che la consapevole e libera scelta sia riconducibile alla volontà personale del soggetto e non a quella altrui, che tale volontà sia maturata ed espressa al riparo da costrizioni e da condizionamenti e sia raggiunta la piena consapevolezza delle sue conseguenze.

Quanto al secondo, volto a circoscrivere l’oggetto del diritto di esprimere il consenso o il rifiuto, esso viene ancorato ai trattamenti sanitari e alle terapie mediche senza potersi ritenere esteso ad altre prestazioni che non rientrano in tale categoria (11).

Con riferimento all’ultimo limite, è stato evidenziato che, con particolare riguardo al rifiuto delle cure, la condotta del medico deve essere di tipo omissivo e non già di tipo commissivo, posto che altrimenti potrebbero profilarsi pratiche di eutanasia attiva, senz’altro vietata, con conseguente responsabilità del medico medesimo per omicidio del consenziente: ipotesi in cui il medico sia chiamato ad una attività positiva, consistente, ad esempio, nello spegnimento o distacco del ventilatore polmonare (12).

In questo complesso quadro di questioni e di diversità di livelli di tutele, si inserisce dunque il testo normativo in commento nel quale vengono recepite le caratteristiche principali dell’istituto del consenso informato per come già enucleate dalla dottrina e giurisprudenza maggioritarie.

Anzitutto, viene previsto che: “ogni persona ha il diritto di conoscere le proprie condizioni di salute e di essere informata in modo completo e aggiornato e a lei comprensibile della diagnosi della prognosi e dei benefici dei rischi degli accertamenti diagnostici e dei trattamenti sanitari indicati, nonché riguardo alle possibili alternative e alle conseguenze dell’eventuale rifiuto del trattamento sanitario e dell’accertamento diagnostico o della rinuncia ai medesimi”; viene altresì garantito al paziente “il diritto di rifiutare in tutto o in parte di ricevere le informazioni ovvero di indicare i familiari o una persona di sua fiducia incaricati di riceverle e di esprimere il consenso in sua vece se il paziente lo vuole” (art. 1 comma 3).

Inoltre, il consenso come il rifiuto di ricevere le informazioni è acquisito nei modi o con gli strumenti alle condizioni del paziente, va documentato in forma scritta o attraverso video registrazioni o, per la persona con disabilità, attraverso dispositivi che le consentano di comunicare ed in qualunque forma venga espresso, si dispone che venga inserito nella cartella clinica o nel fascicolo elettronico sanitario (art 1, comma 4).

Viene altresì stabilito che ogni persona capace ha sia il diritto di rifiutare, in tutto o in parte, qualsiasi accertamento diagnostico o accertamento sanitario, sia il diritto di revocare il consenso prestato, in ogni momento, anche quando la revoca comporti l’interruzione del trattamento, chiarendo altresì che nell’ambito dei trattamenti sanitari ricompresi nella disciplina vanno annoverati sia la nutrizione artificiale sia l’idratazione artificiale, in quanto somministrazione, su prescrizione medica, di nutrienti mediante dispositivi medici (art. 1, comma 5).

Di grande rilievo la previsione con cui si prescrive al medico, nei casi in cui il paziente con prognosi infausta a breve termine o di imminenza di morte, «di astenersi da ogni ostinazione irragionevole nella somministrazione delle cure e dal ricorso a trattamenti inutili o sproporzionati», versione giuridica, inedita, della nozione comunemente nota con l’espressione “accanimento terapeutico” (art. 2 comma 2). Va notato che la rubrica di quest’ultima disposizione richiama il concetto di dignità quale canone primario posto a presidio della centralità della persona, così come riconosciuto dalla Costituzione e dalle Carte dei diritti fondamentali sovranazionali e ricostruito dalla dottrina come argine al rapporto tra diritto e scienza nelle vicende dell’espressione del consenso nella fase finale della vita (13).

3. Disposizioni anticipate di trattamento (D.A.T).

La legge in commento ha introdotto l’istituto del consenso informato anche in relazione alla disciplina delle disposizioni anticipate di trattamento (cd. D.A.T.) e di quelle volte alla pianificazione anticipata e condivisa di cure (cd. P.A.C.)

Mediante le D.A.T. viene riconosciuta ad ogni persona maggiorenne e capace di intendere e volere, "in previsione di un’eventuale futura incapacità di autodeterminarsi e dopo avere acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle sue scelte", la possibilità di "esprimere le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari” ovvero il consenso o il rifiuto rispetto ad “accertamenti diagnostici o scelte terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari"(art. 4, comma 1), ivi compresi, nutrizione e idratazione artificiali (come precisato sub art. 1, comma 5), sia di nominare, al medesimo scopo, un fiduciario, stabilendo, nel contempo, che tali direttive anticipate sono "rinnovabili, modificabili e revocabili in ogni momento" (art. 4, comma 3).

A proposito del diritto di espressione ex ante e della considerazione ex post delle volontà terapeutiche del paziente, la Suprema Corte, nell’ambito della responsabilità medico-sanitaria, ha già affermato che nel caso di colpevoli ritardi nella diagnosi di patologie ad esito infausto, l’area dei danni risarcibili non si esaurisce nel pregiudizio recato alla integrità fisica del paziente (privato, in ipotesi, della possibilità di guarigione o, in alternativa, di una più prolungata - e qualitativamente migliore - esistenza fino all’esito fatale), ma include la perdita di un ventaglio di opzioni, con le quali affrontare la prospettiva della fine ormai prossima, ovvero "non solo l’eventuale scelta di procedere (in tempi più celeri possibili) all’attivazione di una strategia terapeutica, o la determinazione per la possibile ricerca di alternative d’indole meramente palliativa, ma anche la stessa decisione di vivere le ultime fasi della propria vita nella cosciente e consapevole accettazione della sofferenza e del dolore fisico (senza ricorrere all’ausilio di alcun intervento medico) in attesa della fine", giacché, tutte queste scelte "appartengono, ciascuna con il proprio valore e la propria dignità, al novero delle alternative esistenziali" (14). Ha osservato, inoltre, che l’autodeterminazione del soggetto chiamato alla "più intensa (ed emotivamente pregnante) prova della vita, qual è il confronto con la realtà della fine" non è, dunque, priva di riconoscimento e protezione sul piano normativo, e ciò qualunque siano le modalità della sua esplicazione: non solo il ricorso a trattamenti lenitivi degli effetti di patologie non più reversibili, ovvero, all’opposto, la predeterminazione di un percorso che porti a contenerne la durata, ma anche la mera accettazione della propria condizione, perché "anche la sofferenza e il dolore, là dove coscientemente e consapevolmente non curati o alleviati, acquistano un senso ben differente, sul piano della qualità della vita, se accettati come fatto determinato da una propria personale opzione di valore nella prospettiva di una fine che si annuncia (più o meno) imminente, piuttosto che vissuti, passivamente, come segni misteriosi di un’inspiegabile, insondabile e angosciante, ineluttabilità delle cose" (15).

La disciplina in esame fissa due requisiti per l’esercizio del diritto di esprimere le disposizioni anticipate di trattamento, da un lato, la futura eventuale incapacità di autodeterminarsi del soggetto e, dall’altro, l’aver acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle proprie scelte (art. 4, comma 1).

Rispetto al primo requisito, rilevantissima è la previsione secondo cui le D.A.T. sono vincolanti per il medico “il quale è tenuto al rispetto” di esse (art. 4 comma 5), ragion per cui le D.A.T. vengono considerate atti dispositivi, sempre revocabili e vincolanti, espressione della volontà del soggetto destinata a restare ferma per il tempo in cui potrebbe non essere capace di esprimerla più. Da questo carattere dispositivo della volontà del soggetto proiettata nel futuro, la dottrina ha tratto una suggestiva assonanza col regime delle disposizioni testamentarie patrimoniali con le quali il de cuius “dispone per il tempo in cui avrà cessato di vivere, di tutte le proprie sostanze o di parte di esse” (art. 587 c.c.), sottolineando però che l’assonanza “si ferma qui” (16) tenuto conto della principale differenza data dalla circostanza che le disposizioni sui trattamenti sanitari avranno efficacia durante la vita della persona, potenziandone la volontà in caso di incapacità di autodeterminarsi.

Quanto al secondo requisito, secondo cui la persona può esprimere le proprie disposizioni dopo aver acquisito adeguate informazioni mediche riguardo le conseguenze delle proprie scelte, da esso può dedursi che le D.A.T. possono essere compilate, a prescindere dall’insorgenza della malattia, e che la capacità di esprimere la scelta non è limitata al solo soggetto malato, ma consentita anche a quello che malato non è ancora; in tale ipotesi, la dottrina osserva, criticamente e non a torto, che un individuo sano potrebbe esprimere una volontà aspecifica, non attinente al suo futuro stato patologico, imprecisa, non meditata o, peggio, espressa senza adeguata ponderazione mediante la mera sottoscrizione di moduli o prestampati (17).

La stessa disciplina, per ovviare a tali evenienze, consente al medico di disattendere, in tutto o in parte, la D.A.T. allorquando sia “palesemente incongrua o non corrispondente alla condizione attuale del paziente ovvero perché sussistano terapie non prevedibili all’atto della sottoscrizione capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita” (così nell’art. 4, comma 5).

I requisiti di validità dell’esercizio del diritto presuppongono un paziente, pur fisicamente impedito, nondimeno, capace di autodeterminarsi e di comunicare la sua volontà (18).

Gli stessi requisiti pongono, viceversa, questioni delicate, nelle ipotesi in cui, il paziente si trovi in stato vegetativo permanente o comunque in stato di completa incoscienza (19) ovvero si trovi in uno stato temporaneo di incapacità dovuto alla minore età o ad altre cause.

La disciplina in commento consente al paziente di indicare nella D.A.T. un “fiduciario”, il quale ne “fa le veci” e lo “rappresenta” nelle “relazioni con il medico e con le strutture sanitarie” (art. 4 comma 1) secondo le volontà che il rappresentato ha legittimamente esplicitato nella dichiarazione anticipata.

In assenza del fiduciario, o perché le D.A.T. non contengano l’indicazione del fiduciario o perché questi abbia rinunciato o sia deceduto o sia divenuto incapace, si ribadisce che le D.A.T. mantengono efficacia in merito alle volontà del disponente.

La nomina del fiduciario ha natura di negozio di designazione, analogo a quello ex art.408 c.c., con cui si designa l’amministratore di sostegno. A differenza di quest’ultimo atto che non produce autonomamente effetti, essendo necessario il decreto di nomina da parte del giudice tutelare a norma dell’art. 404 c.c, l’atto di nomina del fiduciario, invece, produce direttamente effetti dal momento della designazione.

Il fiduciario “può rinunciare all’incarico con atto scritto comunicato al disponente” e l’incarico gli può essere revocato dal disponente “in qualsiasi momento, con le stesse modalità previste dalla nomina e senza obbligo di motivazione” (art. 4, commi 2 e 3 ).

Una prima differenza può ravvisarsi nelle modalità di attribuzione della funzione all’amministratore di sostegno rispetto al fiduciario; per il primo, è attribuita mediante un procedimento giurisdizionale, per il secondo, è invece attribuita senza procedimento.

Una seconda può rintracciarsi nella mancata previsione di cause di incompatibilità nella scelta del fiduciario.

Nei casi di conflitto tra fiduciario e medico si rinvia alla disciplina prevista per i minori e gli incapaci (difatti, l’art. 4, comma 5 prevede che “si procede ai sensi del comma 5 dell’art. 3”).

La disposizione di rinvio, dettata per le persone interdette, inabilitate o sottoposte ad amministrazione di sostegno ovvero per i minori di età, è dedicata alle ipotesi di assenza delle D.A.T. o qualora il rappresentante legale della persona minore rifiuti le cure proposte dal medico. In tali evenienze, la decisione è rimessa al giudice tutelare, su richiesta di tutti gli interessati (id est del rappresentante legale, dei soggetti di cui all’art. 406 c.c., del medico o della struttura sanitaria).

La previsione sembra prefigurare inoltre una serie di possibili sopravvenienze di difficile soluzione nelle quali, ad esempio, si tratti di ricostruire la volontà di adulti che non avevano manifestato idee o convinzioni univocamente apprezzabili e di soggetti costretti in stato vegetativo dall’età infantile (20).

Con riguardo alla causa, si esclude che con le D.A.T. possano essere richiesti trattamenti contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali e viene specificato che “a fronte di tali richieste il medico non ha obblighi professionali” (art.1, comma 6).

Quanto alla forma, la disciplina prevede che le D.A.T. “siano redatte per atto pubblico o per scrittura privata autenticata ovvero per scrittura privata consegnata personalmente dal disponente presso l’ufficio dello stato civile del comune di residenza del disponente medesimo, che provvede all’annotazione in apposito registro, ove istituito”, oppure “presso le strutture sanitarie”, qualora ricorrano i presupposti di gestione telematica. In alternativa, qualora le condizioni fisiche del paziente non consentano la redazione per iscritto, le D.A.T. possono essere espresse attraverso videoregistrazione o dispositivi che consentano alla persona con disabilità di comunicare. Con le medesime forme esse sono rinnovabili, modificabili e revocabili in ogni momento. Nei casi in cui ragioni di emergenza e urgenza impedissero di procedere alla revoca delle D.A.T. con le forme previste dai periodi precedenti, queste possono essere revocate con dichiarazione verbale raccolta o videoregistrata da un medico, con l’assistenza di due testimoni (art. 4 comma 6).

4. Pianificazione delle cure condivisa (P.C.C.).

Mediante le P.C.C. viene riconosciuta la possibilità che sia realizzata una pianificazione delle cure condivisa tra il paziente e il medico attraverso la valorizzazione della relazione tra paziente e medico (art. 1, comma 2) nella prospettiva dell’evolversi delle conseguenze di una patologia cronica e invalidante o caratterizzata da inarrestabile evoluzione con prognosi infausta, alla quale il medico e l’equipe sanitaria sono tenuti ad attenersi qualora il paziente venga a trovarsi nella condizione di non poter esprimere il proprio consenso o in una condizione di incapacità (art. 5, comma 1).

La dottrina ritiene che la pianificazione di cura anticipata e condivisa sia un’opzione alternativa rispetto alle D.A.T. come confermerebbe l’inciso di chiusura della disposizione che “per gli aspetti non espressamente disciplinati” rimanda alle disposizioni dell’articolo precedente in tema di D.A.T. (art. 5, comma 5) (21).

La P.C.C. si differenzia dalla D.A.T. sia dal punto di vista soggettivo che da quello funzionale e formale, sebbene entrambi gli istituti siano tesi alla piena attuazione del principio di autodeterminazione del paziente in materia di trattamenti terapeutici.

Sotto il profilo soggettivo, la pianificazione delle cure presuppone un paziente malato il quale ha iniziato un percorso terapeutico perché affetto “da una patologia già in atto” e che è stato “adeguatamente informato” (e con il suo consenso, i familiari o la parte dell’unione civile o il convivente ovvero una persona di sua fiducia) sulle “possibili evoluzioni della patologia e su quanto possa realisticamente attendersi in termini di qualità della vita nonché sulle possibilità cliniche di intervenire sulle cure palliative” (art. 5, comma 2).

Sotto il profilo funzionale, la pianificazione è condivisa tra medico e paziente e non un atto volitivo solitario di quest’ultimo, come può accadere nelle D.A.T. , il quale esprime il proprio consenso rispetto a quanto proposto dal medico rispetto alla patologia di cui è affetto e sui suoi “intendimenti per il futuro, compresa l’eventuale indicazione di un fiduciario” (art. 5 comma 3) e proprio perché la pianificazione delle cure è concordata tra paziente e medico, quest’ultimo non può disattenderla, ma può essere aggiornata al progressivo evolversi della malattia, su richiesta del paziente o su suggerimento del medico.

Sotto il profilo formale, a differenza che nelle D.A.T. ove la redazione è prevista con atto pubblico etc., il consenso del paziente e l’eventuale indicazione di un fiduciario sono espressi semplicemente “in forma scritta” ovvero, nel caso in cui le condizioni fisiche del paziente non lo consentano, “attraverso video-registrazione o dispositivi che consentano alla persona con disabilità di comunicare” e vengono inseriti nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico.

5. Diritto al consenso informato come ineliminabile presidio dell’autodeterminazione: la sentenza n. 242 del 2019 della Corte costituzionale.

Come già veduto (infra nel paragrafo 2), il quadro normativo nazionale e sovranazionale di riferimento già mostrava il consenso informato quale presupposto imprescindibile della “alleanza terapeutica” tra medico e paziente, in mancanza del quale l’intervento del medico non è lecito, finanche nell’ipotesi limite in cui il paziente consapevolmente e liberamente rifiuti o interrompa il trattamento medico vitale.

Ne costituiscono fondamento sia le norme della Costituzione sia quelle della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea ed in particolare, l’art. 2 Cost., che tutela e promuove i diritti fondamentali della persona umana, della sua identità e dignità; l’art. 13

Cost., che proclama l’inviolabilità della libertà personale, nella quale "è postulata la sfera di esplicazione del potere della persona di disporre del proprio corpo" (22); e l’art. 32 Cost., che tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo, oltre che come interesse della collettività, e prevede la possibilità di trattamenti sanitari obbligatori, ma li assoggetta ad una riserva di legge, qualificata dal necessario rispetto della persona umana e ulteriormente specificata con l’esigenza che si prevedano ad opera del legislatore tutte le cautele preventive possibili, atte ad evitare il rischio di complicanze; e ancora l’art. 3 Carta DFUE dal quale si evince come il consenso libero e informato del paziente all’atto medico va considerato, non soltanto sotto il profilo della liceità del trattamento, ma anche come diritto fondamentale del cittadino europeo, afferente al più generale diritto all’integrità della persona.

Come chiarito dalla giurisprudenza costituzionale, il contenuto del diritto al consenso informato non consta solo della facoltà positiva di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma anche di quella negativa ovvero di rifiutare eventualmente la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale e va escluso che il diritto alla autodeterminazione terapeutica del paziente incontri un limite, allorché da esso consegua il sacrificio del bene della vita.

La possibilità di manifestare il diritto di autodeterminarsi sia in senso positivo che negativo discende dalla stessa Costituzione per la quale i trattamenti sanitari sono obbligatori nei soli casi espressamente previsti dalla legge, sempre che il provvedimento che li impone sia volto ad impedire che la salute del singolo possa arrecare danno alla salute degli altri e che l’intervento previsto non danneggi, ma sia anzi utile alla salute di chi vi è sottoposto (23).

Alla luce delle diverse facoltà contenute nel diritto e soltanto nei limiti prescritti dal dettato costituzionale possono ammettersi «limitazioni al diritto del singolo alla salute, il quale, come tutti i diritti di libertà, implica la tutela del suo risvolto negativo: il diritto di perdere la salute, di ammalarsi, di non curarsi, di vivere le fasi finali della propria esistenza secondo canoni di dignità umana propri dell’interessato, finanche di lasciarsi morire” (24).

In tale prospettiva ermeneutica, il diritto di rifiutare o interrompere i trattamenti sanitari, anche vitali, come l’idratazione e l’alimentazione forzata, è stato ricondotto al diritto all’integrità e alla disposizione del proprio corpo riconducibile al precetto dell’art. 5 c.c. e non al diritto di morire, negato dall’ordinamento (25). Ciò ha consentito di bilanciare il valore della vita umana (26) con il principio di dignità nel caso in cui l’irrecuperabilità della coscienza della persona possa venire in conflitto con la deontologia del medico il quale non ritenga esaurito il proprio compito e superare il tradizionale principio di precauzione che, in dubio, impone di propendere per la vita (27).

Ricostruzione interpretativa ribadita con fermezza, da ultimo, dalla Corte costituzionale in occasione del giudizio di costituzionalità sull’art. 580 c.p. riguardo al notissimo caso “Cappato” (su cui v. anche, sub I e III), a proposito del quale ha riaffermato che «dall’art. 2 Cost. - non diversamente che dall’art. 2 CEDU - discende il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo: non quello - diametralmente opposto - di riconoscere all’individuo la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire. Che dal diritto alla vita, garantito dall’art. 2 CEDU, non possa derivare il diritto di rinunciare a vivere, e dunque un vero e proprio diritto a morire, è stato, del resto, da tempo affermato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, proprio in relazione alla tematica dell’aiuto al suicidio (sentenza 29 aprile 2002, Pretty contro Regno Unito)». (28)

Peraltro, nello stesso giudizio di costituzionalità, la Corte ha utilizzato un inedito strumento persuasivo nei confronti del legislatore, sospendendo per un anno il suo giudizio al fine di consentire al Parlamento di intervenire con un’appropriata disciplina tenuto conto che «l’attuale assetto normativo concernente il fine vita lascia prive di adeguata tutela determinate situazioni costituzionalmente meritevoli di protezione» (29), già quindi rilevando l’irragionevolezza della disposizione penale a fronte di esigenze di tutela che in altri casi giustificano il comportamento del medico e «non escludono l’obbligo di rispettare la decisione del malato di porre fine alla propria esistenza tramite l’interruzione dei trattamenti sanitari - anche quando ciò richieda una condotta attiva, almeno sul piano naturalistico, da parte di terzi (quale il distacco o lo spegnimento di un macchinario, accompagnato dalla somministrazione di una sedazione profonda continua e di una terapia del dolore) - non vi è ragione per la quale il medesimo valore debba tradursi in un ostacolo assoluto, penalmente presidiato, all’accoglimento della richiesta del malato di un aiuto che valga a sottrarlo al decorso più lento - apprezzato come contrario alla propria idea di morte dignitosa - conseguente all’anzidetta interruzione dei presidi di sostegno vitale» (30).

In particolare, con l’ordinanza di sospensione, la Corte ha subito indicato i punti problematici meritevoli di esame ed il vulnus costituzionale insito nella disciplina dell’art. 580 c.p.; in proposito, tra l’altro, ha escluso, che l’incriminazione dell’aiuto al suicidio, ancorché non rafforzativo del proposito della vittima fosse, di per sé, incompatibile con la Costituzione: «essa si giustifica, infatti, in un’ottica di tutela del diritto alla vita, specie delle «persone più deboli e vulnerabili»; inoltre, aveva individuato, nondimeno, una circoscritta area di non conformità costituzionale della fattispecie, corrispondente segnatamente ai casi in cui l’aspirante suicida si identifichi (come nel caso oggetto del giudizio a quo) in una persona «(a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli»: evenienza nella quale il divieto indiscriminato di aiuto al suicidio «finisce [...] per limitare la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., imponendogli in ultima analisi un’unica modalità per congedarsi dalla vita, senza che tale limitazione possa ritenersi preordinata alla tutela di altro interesse costituzionalmente apprezzabile, con conseguente lesione del principio della dignità umana, oltre che dei principi di ragionevolezza e di uguaglianza in rapporto alle diverse condizioni soggettive».

L’anno successivo, allo scadere del termine, constatata l’inerzia del legislatore in materia, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 580, c.p., «nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017, n. 219, - ovvero quanto ai fatti anteriori alla pubblicazione della presente sentenza nella Gazzetta ufficiale della Repubblica, con modalità equivalenti nei sensi di cui in motivazione-, agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente» (31).

Rinviando al paragrafo successivo per un esame più approfondito e specifico delle tematiche afferenti l’ambito penalistico, meritano di essere ricordate e sottolineate alcune rilevanti considerazioni espresse dalla Corte nelle citate pronunce con riferimento al tema del consenso informato.

Innanzitutto, richiamando quanto già affermato nella ordinanza di sospensione, la Corte ha ribadito a proposito del principio di autodeterminazione che «la sedazione profonda continua, connessa all’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale - sedazione che rientra nel genus dei trattamenti sanitari - ha come effetto l’annullamento totale e definitivo della coscienza e della volontà del soggetto sino al momento del decesso. Si comprende, pertanto, come la sedazione terminale possa essere vissuta da taluni come una soluzione non accettabile». (32)

Nella vicenda “Cappato” la Corte costituzionale ha circoscritto l’area di non conformità costituzionale della fattispecie criminosa considerata a quella in cui la persona sia affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche assolutamente intollerabili, la quale sia tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti capace di prendere decisioni libere e consapevoli.

A parere della Corte «la decisione di accogliere la morte potrebbe essere già presa dal malato, sulla base della legislazione vigente, con effetti vincolanti nei confronti dei terzi, a mezzo della richiesta di interruzione dei trattamenti di sostegno vitale in atto e di contestuale sottoposizione a sedazione profonda continua. Ciò, in forza della legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento), la cui disciplina recepisce e sviluppa, nella sostanza, le conclusioni alle quali era già pervenuta all’epoca la giurisprudenza ordinaria - in particolare a seguito delle sentenze sui casi Welby (Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Roma, sentenza 23 luglio-17 ottobre 2007, n. 2049) ed Englaro (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 16 ottobre 2007, n. 21748) -nonché le indicazioni di questa Corte riguardo al valore costituzionale del principio del consenso informato del paziente al trattamento sanitario proposto dal medico (ordinanza n. 207 del 2018): principio qualificabile come vero e proprio diritto della persona, che trova fondamento nei principi espressi negli artt. 2, 13 e 32 Cost. (sentenze n. 253 del 2009 e n. 438 del 2008)» (33).

La Corte sottolinea, inoltre, che la disciplina dettata dalla legge n. 219 del 2017, può considerarsi integrativa delle previsioni già dettate dalla legge n. 38 del 2010 in tema di cure palliative finalizzate ad alleviare le sofferenze del paziente. Osserva, in proposito che queste ultime, per un verso, permettono al medico «con il consenso del paziente, [di] ricorrere alla sedazione palliativa profonda continua in associazione con la terapia del dolore, per fronteggiare sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari. Disposizione, questa, che «non può non riferirsi anche alle sofferenze provocate al paziente dal suo legittimo rifiuto di trattamenti di sostegno vitale, quali la ventilazione, l’idratazione o l’alimentazione artificiali: scelta che innesca un processo di indebolimento delle funzioni organiche il cui esito -non necessariamente rapido - è la morte» (art. 2). Per altro verso, osserva che «la legislazione oggi in vigore non consente, invece, al medico di mettere a disposizione del paziente che versa nelle condizioni sopra descritte trattamenti diretti, non già ad eliminare le sue sofferenze, ma a determinarne la morte. Pertanto, il paziente, per congedarsi dalla vita, è costretto a subire un processo più lento e più carico di sofferenze per le persone che gli sono care»; ciò incidendo direttamente sul caso oggetto del giudizio costituzionale tenuto conto che l’interessato aveva richiesto «l’assistenza al suicidio, scartando la soluzione dell’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale con contestuale sottoposizione a sedazione profonda (soluzione che pure gli era stata prospettata), proprio perché quest’ultima non gli avrebbe assicurato una morte rapida. Non essendo egli, infatti, totalmente dipendente dal respiratore artificiale, la morte sarebbe sopravvenuta solo dopo un periodo di apprezzabile durata, quantificabile in alcuni giorni: modalità di porre fine alla propria esistenza che egli reputava non dignitosa e che i propri cari avrebbero dovuto condividere sul piano emotivo».

Quanto, poi, all’esigenza di proteggere le persone più vulnerabili, la Corte costituzionale ha sottolineato che «se è ben vero che i malati irreversibili esposti a gravi sofferenze appartengono solitamente a tale categoria di soggetti», è altrettanto «agevole osservare che, se chi è mantenuto in vita da un trattamento di sostegno artificiale è considerato dall’ordinamento in grado, a certe condizioni, di prendere la decisione di porre termine alla propria esistenza tramite l’interruzione di tale trattamento, non si vede la ragione per la quale la stessa persona, a determinate condizioni, non possa ugualmente decidere di concludere la propria esistenza con l’aiuto di altri».

La Corte costituzionale conclude dunque che «entro lo specifico ambito considerato, il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce per limitare ingiustificatamente nonché irragionevolmente la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., imponendogli in ultima analisi un’unica modalità per congedarsi dalla vita» (34).

Pertanto, riconosce il diritto ad essere posti in condizione di lasciarsi morire in un ambito molto limitato, contraddistinto dalla sussistenza di patologie irreversibili, fonte di sofferenze fisiche e psichiche non tollerabili, in presenza delle quali il mantenimento in vita sia assicurato mediante la somministrazione di trattamenti di sostegno vitale.

Richiama più volte il principio di dignità quale fondamentale canone ermeneutico per discernere e garantire l’ esigenza di informare e di fornire cure appropriate nel rispetto della volontà della persona e del diritto a non soffrire inutilmente.

Nondimeno, nella decisione della Corte costituzionale il precetto penale dell’istigazione o dell’aiuto al suicidio resta saldo a prevenire condotte che possano porre in pericolo i soggetti fragili e più vulnerabili che, sovente, sono tali perché molto malati o depressi o solo anziani, e di cui è pienamente legittima e comprensibile la scelta di protezione volta a preservarne la capacità di autodeterminazione.

6. Indicazioni nomofilattiche in tema di consenso informato in ambito sanitario quale fonte della responsabilità civile.

Soltanto due sono le decisioni della Suprema Corte che nel corso dell’ultimo anno hanno avuto ad oggetto la disciplina di cui alla legge n. 219 del 2017. La ragione della esiguità delle pronunce in materia è fisiologicamente dovuta al fatto che il giudizio di legittimità interviene a conclusione di quello di merito e che, tenuto conto della recente entrata in vigore della novella (31 gennaio 2018), il tempo del processo non è ancora maturo ai fini della prospettazione al giudice di legittimità di casi in tale ambito.

La prima pronuncia ne ha dato conto in via generale nella ricostruzione del quadro normativo di riferimento, sottolineandone il rilievo tenuto conto che la novella «all’art. 4 -riconosce ad ogni persona maggiorenne e capace di intendere e volere, "in previsione di un’eventuale futura incapacità di autodeterminarsi e dopo avere acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle sue scelte", la possibilità sia di "esprimere le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto rispetto ad accertamenti diagnostici o scelte terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari", sia di nominare, al medesimo scopo, un fiduciario, stabilendo, nel contempo, che tali direttive anticipate sono "rinnovabili, modificabili e revocabili in ogni momento». Secondo il Collegio, l’autodeterminazione del soggetto chiamato alla «più intensa (ed emotivamente pregnante) prova della vita, qual è il confronto con la realtà della fine" non è, dunque, priva di riconoscimento e protezione sul piano normativo, e ciò qualunque siano le modalità della sua esplicazione: non solo il ricorso a trattamenti lenitivi degli effetti di patologie non più reversibili, ovvero, all’opposto, la predeterminazione di un percorso che porti a contenerne la durata, ma anche la mera accettazione della propria condizione, perché "anche la sofferenza e il dolore, là dove coscientemente e consapevolmente non curati o alleviati, acquistano un senso ben differente, sul piano della qualità della vita, se accettati come fatto determinato da una propria personale opzione di valore nella prospettiva di una fine che si annuncia (più o meno) imminente, piuttosto che vissuti, passivamente, come segni misteriosi di un’inspiegabile, insondabile e angosciante, ineluttabilità delle cose» (35) .

Tanto premesso, il Collegio ha precisato che nell’ipotesi di colpevole ritardo nella diagnosi di patologie ad esito infausto, l’area dei danni risarcibili non si esaurisce nel pregiudizio recato alla integrità fisica del paziente, né nella perdita di chance di guarigione, ma include la perdita di un ventaglio di opzioni con le quali scegliere come affrontare l’ultimo tratto del proprio percorso di vita, che determina la lesione di un bene reale, certo - sul piano sostanziale - ed effettivo, apprezzabile con immediatezza, qual è il diritto di determinarsi liberamente nella scelta dei propri percorsi esistenziali; in tale prospettiva, il diritto di autodeterminarsi riceve positivo riconoscimento e protezione non solo mediante il ricorso a trattamenti lenitivi degli effetti di patologie non più reversibili, ovvero, all’opposto, mediante la predeterminazione di un percorso che porti a contenerne la durata, ma anche attraverso la mera accettazione della propria condizione (36).

La seconda decisione ha risolto una questione di diritto intertemporale avente ad oggetto un procedimento di amministrazione di sostegno ed ha espresso il seguente principio così massimato: “La l. 22 dicembre 2017, n. 219, recante norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento, è priva di efficacia retroattiva e non si applica dunque alle manifestazioni di volontà relative ai trattamenti sanitari espresse in data anteriore all’entrata in vigore della legge (31 gennaio 2018), fatta salva l’ipotesi, prevista dall’art. 6 della legge, in cui la volontà del disponente sia stata manifestata in documenti depositati presso il comune di residenza o presso un notaio prima della stessa data; ne consegue che la legge nuova è inapplicabile alle direttive anticipate di trattamento terapeutico che siano state, come nella specie, formulate in sede di designazione anticipata dell’amministratore di sostegno ai sensi dell’art. 408, comma 1, c.c. prima dell’entrata in vigore della legge e che siano contenute in una scrittura privata personalmente conservata dall’interessato”.

In particolare, la Corte, ricostruita la cornice normativa, nazionale e sovranazionale e giurisprudenziale di riferimento, ha affermato che «è evidente che si palesa erronea l’affermazione della Corte d’appello, secondo cui l’amministrazione di sostegno - in quanto finalizzata solo a consentire al beneficiario la cura dei propri interessi, alla quale è impedito a causa di una malattia o una menomazione psichica fisica - non può essere funzionale alla tutela del diritto soggettivo a rifiutare determinati trattamenti terapeutici, trattandosi di un diritto azionabile autonomamente e direttamente in giudizio, e non tutelabile, in via indiretta, mediante tale forma di protezione. Al contrario, deve ritenersi che – attraverso la scelta dell’amministratore da parte del beneficiario - sia possibile esprimere, nella richiesta di amministrazione di sostegno -ai sensi del combinato disposto degli artt. 406 e 408 cod. civ. – proprio l’esigenza che questi esprima, in caso di impossibilità dell’interessato, il rifiuto di quest’ultimo di determinate terapie; tale esigenza rappresenta la proiezione del diritto fondamentale della persona di non essere sottoposto a trattamenti terapeutici, seppure in via anticipata, in ordine ad un quadro clinico chiaramente delineato» (37).

La Suprema Corte, nell’anno appena trascorso, ha ribadito e precisato il proprio orientamento in tema di responsabilità del medico con particolare riguardo al dovere di acquisire il consenso informato del paziente nel caso di dedotta violazione del diritto all’autodeterminazione.

In via generale, è stato riaffermato, in continuità con quanto già ritenuto, che il diritto al consenso informato del paziente in quanto diritto irretrattabile della persona va comunque e sempre rispettato dal sanitario, a meno che non ricorrano casi di urgenza, rinvenuti a seguito di un intervento concordato e programmato, per il quale sia stato richiesto ed ottenuto il consenso e tali da porre in gravissimo pericolo la vita della persona, bene che riceve e si correda di una tutela primaria nella scala dei valori giuridici a fondamento dell’ordine giuridico e del vivere civile, o si tratti di trattamento sanitario obbligatorio. Tale consenso è talmente inderogabile che non assume alcuna rilevanza, al fine di escluderlo, il fatto che l’intervento absque pactis sia stato effettuato in modo tecnicamente corretto, per la semplice ragione che, a causa del totale deficit di informazione, il paziente non è stato messo in condizione di assentire al trattamento, consumandosi nei suoi confronti, comunque, una lesione di quella dignità che connota l’esistenza nei momenti cruciali della sofferenza fisica e/o psichica (38).

Nello stesso solco, per un verso, è stato ribadito che in tema di attività medico-chirurgica il consenso informato deve basarsi su informazioni dettagliate, idonee a fornire la piena conoscenza della natura, portata ed estensione dell’intervento medico-chirurgico, dei suoi rischi, dei risultati conseguibili e delle possibili conseguenze negative, non essendo all’uopo idonea la sottoscrizione, da parte del paziente, di un modulo del tutto generico, né rilevando, ai fini della completezza ed effettività del consenso, la qualità del paziente, che incide unicamente sulle modalità dell’informazione, da adattarsi al suo livello culturale mediante un linguaggio a lui comprensibile, secondo il suo stato soggettivo ed il grado delle conoscenze specifiche di cui dispone (39); per l’altro, è stato ribadito che anche nel caso in cui l’atto sia stato correttamente eseguito secundum legem artis, può essere riconosciuto il risarcimento del danno alla salute per la verificazione degli effetti dannosi, solo ove il paziente alleghi e provi, anche in via presuntiva che, se correttamente informato, avrebbe rifiutato di sottoporsi a detto intervento ovvero avrebbe vissuto il periodo successivo ad esso con migliore e più serena predisposizione ad accettarne le eventuali conseguenze e sofferenze. (40)

Infine, la Corte con una rilevante pronuncia ha affermato che, sebbene l’inadempimento dell’obbligo di acquisire il consenso informato del paziente sia autonomo rispetto a quello inerente al trattamento terapeutico (comportando la violazione dei distinti diritti alla libertà di auto-determinazione e alla salute), in ragione dell’unitarietà del rapporto giuridico tra medico e paziente - che si articola in plurime obbligazioni tra loro connesse e strumentali al perseguimento della cura o del risanamento del soggetto - non può affermarsi una assoluta autonomia dei due illeciti tale da escludere ogni interferenza tra gli stessi nella produzione del medesimo danno; è possibile, invece, che anche l’inadempimento dell’obbligazione relativa alla corretta informazione sui rischi e benefici della terapia si inserisca tra i fattori "concorrenti" della serie causale determinativa del pregiudizio alla salute, dovendo quindi riconoscersi all’omissione del medico una astratta capacità plurioffensiva, potenzialmente idonea a ledere due diversi interessi sostanziali, entrambi suscettibili di risarcimento qualora sia fornita la prova che dalla lesione di ciascuno di essi siano derivate specifiche conseguenze dannose (41).

  • morte
  • diritti umani
  • trattamento sanitario
  • eutanasia

III)

IL TEMA DEL “FINE VITA” NELLA VICENDA CAPPATO: I NUOVI CONFINI PROCEDURALI DELL’AIUTO (LECITO) AL SUICIDIO

(di Aldo Natalini )

Sommario

1 Il fine-vita al cospetto della Corte costituzionale. - 2 Sentenza autoapplicativa di tipo manipolativo - 3 La vicenda “Dj Fabo-Cappato”. - 4 Art. 580 c.p.: ratio puniendi e primi approdi decisori. - 5 La “saldatura” della sentenza n. 242 del 2019 con l’ordinanza n. 207 del 2018: le quattro condizioni legittimanti l’aiuto al suicidio. - 6 Oltre la l. n. 217 del 2017: verso un diritto-pretesa? - 7 L’inedita scriminante procedurale valevole pro futuro - 8 La scriminabilità pro praeterito caso per caso.

1. Il fine-vita al cospetto della Corte costituzionale.

Il tema del “fine-vita”, nei suoi risvolti penalistici, è tornato prepotentemente d’attualità con l’approdo del noto “caso Dj Fabo-Cappato” dinanzi alla Corte costituzionale (su cui v. anche sub § I,3 e II,5).

Con un complesso dispositivo “a doppio schema” – l’uno pro futuro, l’altro pro praeterito – la Corte costitzionale, con sentenza n. 242 del 2019 ha dichiarato l’incostituzionalità parziale dell’art. 580 c.p., per violazione degli artt. 2, 13 e 32, comma 2, Cost., «nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità procedurali legislativamente previste per l’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale - ovvero, quanto ai fatti anteriori al 27 novembre 2019 con modalità equivalenti -, agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente».

I giudici costituzionali, preso atto dell’inutile spirare del termine concesso al Parlamento circa un anno prima per legiferare in subiecta materia, hanno così posto definitivo rimedio (procedurale) all’illegittimità della norma scrutinata già accertata - ma formalmente non dichiarata - con precedente ordinanza-monito n. 207 del 2018, forgiante un’inedita tecnica decisioria (“ad incostituzionalità differita” con rinvio a data fissa) che, unicum senza precedenti, ha destato grande attenzione tra gli studiosi di giustizia costituzionale (42).

2. Sentenza autoapplicativa di tipo manipolativo

Sul modello già sperimentato su temi eticamente sensibili come l’aborto (Corte costituzionale n. 27 del 2015) e la fecondazione medicalmente assistita (Corte costituzionale n. 96 del 2015 e n. 229 del 2015, ove pure la Corte dettò incisive condizioni di liceità della diagnosi pre-impianto sottolineando, con un deciso ed elaborato monito al legislatore, l’esigenza di nuove norme volte a contenere abusi e pratiche mediche “disinvolte”), il giudice delle leggi - con sentenza autoapplicativa di tipo “manipolativo” - ha reimpiegato, in via estensiva, la disciplina della legge sulle D.A.T. relativa alla rinuncia ai trattamenti sanitari necessari alla sopravvivenza del paziente e alla garanzia dell’erogazione di un’appropriata terapia del dolore e di cure palliative (artt. 1 e 2 della l. n. 219 del 2017 (43)). Ha così dettato una disciplina cedevole - in attesa della declinazione che potrà darne il legislatore - in ordine alle condizioni procedurali che rendono lecito -d’ora in poi e per i casi pregressi - l’aiuto al suicidio, al di fuori del cono protettivo (pur ridisegnato) dell’art. 580 c.p.

Avendo la Corte costituzionale dichiarato l’incostituzionalità di una norma penale di sfavore nella parte in cui non prevede una causa di non punibilità, la sentenza n. 242 del 2019 rientra senz’altro tra le pronunce di accoglimento i cui effetti, tuttavia, non sono puramente caducatori, bensì in bonam partem declinati per via additiva. Più in particolare, la decisione - invero di complessa classificazione - sembra “ibridare” più tratti tipologici, assumendo al tempo stesso natura di:

- additiva di procedura (o di regola: tipologia decisoria molto praticata nel contenzioso Stato-Regioni, ove la Corte aggiunge contenuti normativi a disposizioni di tipo regolamentare, all’interno dell’iter approvativo), qui tradotta nell’innesto, in via pretoria, di un’inedita scriminante procedurale, valevole pro futuro;

- additiva di prestazione - anche se questo è un aspetto più dubbio - rivolta, all’interno della stessa additiva di procedura, a carico di pubblici uffici (nella specie: il Servizio sanitario nazionale e i comitati etici territorialmente competenti), cui la Corte provvisoriamente “affida” i soggetti che intendano attuare il loro proposito suicidiario «autonomamente e liberamente formatosi»;

- additiva di principio - come la precedente ordinanza-monito n. 207 del 2018 - rispetto ai fatti pregressi, laddove la Corte indica al giudice (e al medico) la verifica della sussistenza, di volta in volta, delle condizioni del richiedente nel caso concreto.

3. La vicenda “Dj Fabo-Cappato”.

La questione decisa (nell’inerzia del Parlamento) dalla Corte costituzionale (ri)agita le complesse problematiche (non solo giuridiche ma anche etico-religiose, filosofiche, morali, deontologiche) dei diritti fondamentali del malato, del “biodiritto” e della rilevanza penale delle pratiche di “fine vita”, in rapporto alle tralatizie incriminazioni, confinanti e “di confine”, di omicidio del consenziente (art. 579 c.p.) e - nella specie - di istigazione o auto al suicidio (art. 580 c.p.), la cui distinzione, peraltro, in vicende di questo tipo «viene fatta dipendere dal dato, marginale e fungibile, dell’attivazione del dispositivo “letale” da un soggetto terzo o del morituro» (44).

Il “caso Dj Fabo” che ha dato origine all’incidente di costituzionalità è destinato ad essere affiancato al “caso Welby” (45) ed al “caso Englaro” (46): tre complesse vicende etico-giudiziarie che, seppur diverse tra loro, sono paradigmatiche dei possibili connotati che può assumere il diritto di libertà personale letto attraverso il prisma del diritto alla salute, ovvero, più drasticamente, il (preteso) diritto di morire, tra paternalismo e liberalismo penale. Come è stato efficacemente sottolineato (47), questi leading cases rappresentano un crescendo: dal consenso informato della persona presente e cosciente (caso Welby), passando per il rispetto delle volontà precedentemente espresse da una persona ora incapace di autodeterminarsi (caso Englaro), per giungere al desiderio di mettere fine alla propria patologia donandosi la morte (caso Dj Fabo).

Nel corso del processo che ha visto l’esponente radicale Marco Cappato imputato - e da ultimo assolto all’esito dell’udienza del 23 dicembre 2019 -per il suicidio assistito di Fabiano Antoniani (alias Dj Fabo), la Sez. I della Corte di assise di Milano, su concorde richiesta di PM e Difesa, rimise gli atti alla Corte costituzionale affinché valutasse la compatibilità costituzionale dell’art. 580 c.p., laddove:

- incrimina le condotte di aiuto al suicidio in alternativa alle condotte di istigazione e, quindi, a prescindere dal loro contributo alla determinazione o rafforzamento del proposito di suicidio, per ritenuto contrasto con gli artt. 3, 13, comma 1, e 117 Cost., in relazione agli artt. 2 e 8 della CEDU;

- prevede che le condotte di agevolazione dell’esecuzione del suicidio, che non incidano sul processo deliberativo dell’aspirante suicida, siano sanzionabili con la pena della reclusione da 5 a 10 anni, senza distinzione rispetto alle condotte di istigazione, per ritenuto contrasto con gli artt. 3, 13, 25, comma 2, e 27, comma 3, Cost.

In sintesi, il giudice a quo chiese alla Corte delle leggi, in via principale, di rendere penalmente irrilevante l’agevolazione dell’altrui suicidio che non incide sulla decisione della vittima, a prescindere da ogni riferimento alle condizioni personali del soggetto passivo e alle ragioni del suo gesto.

4. Art. 580 c.p.: ratio puniendi e primi approdi decisori.

Per comprendere appieno i sollevati - e parzialmente accolti - profili di incostituzionalità, occorre muovere dal denunciato art. 580 c.p. che, già a partire dalla rubrica («Istigazione e aiuto al suicidio»), evidenzia un duplice contenuto punitivo a carico di chi concorra (moralmente o materialmente) nel suicidio altrui (esclusa, per mere ragioni politico-criminali, la punibilità dell’aspirante suicida, pure quando sarebbe materialmente possibile, cioè nell’ipotesi tentata).

Si tratta di un reato a fattispecie alternative che sanziona «severamente» – come rileva la stessa Corte costituzionale – con eguale pena della reclusione da cinque a dodici anni tre diverse condotte concorsuali, sempre che il suicidio avvenga o che, quantomeno, dal tentato suicidio derivi una lesione personale grave o gravissima (nel qual caso è prevista una pena minore).

Sotto l’unica nozione di istigazione al suicidio, l’art. 580 c.p. dà rilievo anzitutto a due contegni morali che, incidendo entrambi sulla sfera deliberativa dell’individuo, offrono un contributo causale alla realizzazione dell’evento suicidario: la determinazione dell’altrui proposito suicidiario (prima inesistente) ed il rafforzamento dell’altrui proposito (già presente dell’individuo); la terza condotta tipizzata è, infine, l’aiuto al suicidio, che reprime chiunque ne agevoli, «in qualsiasi modo», l’esecuzione. Ed è proprio (e solamente) quest’ultima condotta materiale che è venuta in rilievo nella vicenda Cappato: esclusa, infatti, la sussistenza della condotta di rafforzamento psichico (pure contestata (48)), i giudici meneghini ravvisarono la sola ipotesi agevolatrice, peraltro persino autodenunciata dall’imputato, il quale assecondò la volontà dell’Antoniani accompagnandolo in Svizzera in auto.

Quest’azione, prestata in favore di un soggetto autonomamente determinato al suicidio nell’esercizio della propria libertà di scegliere quando e come morire – ritenuta dal rimettente costituzionalmente tutelata (artt. 2 e 13, comma 1, e 117 Cost., in riferimento agli artt. 2 e 8 CEDU) – si tradurrebbe in una condotta inoffensiva per la Corte milanese. Epperò secondo il “diritto vivente” – che il giudice a quo identificò (erroneamente) nell’unica, risalente sentenza occupatasi del tema (49) – essa è punita in via alternativa rispetto alle altre due, per di più con la medesima pena, coprendo il cono punitivo qualunque contributo causalmente connesso all’evento suicidiario.

Va sottolineato che questa premessa ermeneutica – sposata dal giudice a quo e contrastata dall’Avvocatura dello Stato – secondo cui l’agevolazione del suicidio è repressa ex art. 580 c.p. anche se ininfluente sul percorso deliberativo del soggetto passivo, è stata avallata dalla Corte costituzionale già nell’ordinanza n. 207 del 2018, che l’ha reputata «corretta», nel rilievo che una «soluzione interpretativa di segno inverso […] si tradurrebbe in una interpretatio abrogans. Nel momento stesso in cui si ritenesse che la condotta di agevolazione sia punibile solo se generativa o rafforzativa dell’intento suicida, si priverebbe totalmente di significato la previsione – ad opera della norma censurata – dell’ipotesi dell’aiuto al suicidio, come fattispecie alternativa e autonoma (“ovvero”) rispetto a quella dell’istigazione».

Con la stessa ordinanza n. 207 del 2018, la Corte costituzionale è poi entrata nel merito delle questioni di fondo sollevate dal giudice a quo, respingendole nella loro assolutezza. Ripercorrendo le ragioni politico-criminali che portarono il codificatore del 1930 all’incriminazione in disamina, è stata esclusa la pretesa inoffensività dell’aiuto al suicidio fatta discendere dal rimettente dagli artt. 2 e 13, comma 1, Cost.: per la Corte costituzionale non può dubitarsi che l’art. 580 c.p. «anche nella parte in cui sottopone a pena la cooperazione materiale al suicidio» assolva allo scopo – ritenuto «di perdurante attualità» - di tutelare (penalmente) il diritto alla vita, nel mutato quadro costituzionale che guarda alla persona umana come a un valore in sé e non come a un semplice mezzo per il soddisfacimento di interessi collettivi».

Insomma, la fattispecie scrutinata conserva la sua «ragion d’essere» soprattutto nei confronti delle persone sofferenti ed in difficoltà, che «l’ordinamento penale intende proteggere da una scelta estrema e irreparabile» onde scongiurare il pericolo che subiscano interferenze di ogni genere allorché «decidano di porre in atto il gesto estremo e irreversibile del suicidio». Sono proprio le persone più vulnerabili, infatti, che potrebbero essere facilmente indotte a concludere prematuramente la loro vita, «qualora l’ordinamento consentisse a chiunque di cooperare anche soltanto all’esecuzione di una loro scelta suicida, magari per ragioni di personale tornaconto». Di qui la “cintura protettiva” creata attorno ai soggetti passivi, per inibire ai terzi «di cooperare in qualsiasi modo» con i loro propositi suicidiari.

Un assetto che in linea generale - secondo la Corte costituzionale - non contrasta ex se con i parametri evocati: non è pertinente il riferimento del rimettente al diritto alla vita, perché dall’art. 2 Cost., non diversamente che dall’art. 2 CEDU, discende il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo e «non quello – diametralmente opposto – di riconoscere all’individuo la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire» (50).

La prima (provvisoria) conclusione rassegnata dal giudice costituzionale è stata dunque: da un lato, giustificare l’incriminazione di istigazione ed aiuto al suicidio (di persona sana) come modalità – direbbe la dottrina penalistica – “di tutela indirettamente paternalistica della vita” (51); dall’altro, valorizzando il diritto del malato a rifiutare le cure a certe condizioni, conclamare (“solo” in motivazione e “solo” con ordinanza) l’incompatibilità costituzionale dell’assolutezza del divieto (penalmente presidiato) con quelle situazioni fortemente caratterizzate (non necessariamente terminali: l’irreversibile compromissione della salute, la gravità della sofferenza, la dipendenza della vita da un trattamento che potrebbe essere rifiutato, ecc.), tali per cui ciò che la Corte ha enucleato in termini generali potrebbe non valere più. Per il resto, la Corte, facendo leva sui poteri di gestione del processo, ha “atteso” il Parlamento, chiamandolo - con un robusto monito - alle proprie responsabilità legislative.

5. La “saldatura” della sentenza n. 242 del 2019 con l’ordinanza n. 207 del 2018: le quattro condizioni legittimanti l’aiuto al suicidio.

Spirato inutilmente il termine concesso al legislatore, la Corte costituzionale con la sentenza n. 242 del 2019 ha annullato in parte qua la norma scrutinata, con declaratoria di (definitivo) accoglimento di tipo fortemente manipolativo, modulandone gli effetti temporali con due dispositivi:

- uno valevole pro futuro, caratterizzato da un iter procedurale ad efficacia giustificante ex ante;

- l’altro valevole pro praeterito, affidato al giudice per la verifica ex post della sussistenza delle condizioni analoghe a quelle poste nella normativa “di regime”.

La Corte si è così riconosciuta il potere-dovere di colmare il vuoto legislativo che sarebbe derivato dalla dichiarazione di incostituzionalità tout court, preoccupandosi di non compromettere i diritti fondamentali dell’individuo (horror vacui); ciò in nome della prevalente esigenza di garantire la legalità costituzionale, essendo compito di essa Corte ricavare dal sistema vigente i «criteri di riempimento costituzionalmente necessari, ancorché non a contenuto costituzionalmente vincolato, fin tanto che sulla materia non intervenga il Parlamento» (52). Di qui la dettata disciplina cedevole che, frattanto, ha valore erga omnes nell’ordinamento giuridico.

La sentenza n. 242 del 2019 (53) riproduce - testualmente - interi passi dell’ordinanza n. 207 del 2018, le cui conclusioni in ordine al thema decidendum sono espressamente confermate. C’è dunque una “saldatura” perfetta tra le due pronunce, senza alcun arretramento (salvo lo sviluppo di nuove parti: come quella sui propri poteri di “riempimento” e sulla nuova procedura scriminante). Questa “saldatura” è molto importante quanto ai presupposti teorici già conclamati un anno prima dalla Consulta nel circoscrivere le condizioni di non punibilità dell’assistenza al suicidio. Occorre che la persona:

a) «sia affetta da una patologia irreversibile e

b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia

c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale ma resti

d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli».

A queste condizioni la Corte costituzionale ha infine aggiunto due inedite scansioni procedurali-prestazionali:

1) dovrà essere una struttura pubblica del Servizio sanitario nazionale a verificarne l’esistenza e a garantire le modalità di esecuzione del suicidio assistito

2) previo parere del parere del comitato etico territorialmente competente.

6. Oltre la l. n. 217 del 2017: verso un diritto-pretesa?

A ben vedere la Consulta avrebbe potuto percorrere una strada minimale: per non rimettere al giudice ex post (cioè a suicidio avvenuto) l’accertamento, di volta in volta, della causa di non punibilità - soluzione rassegnata solo pro praeterito - avrebbe potuto garantire l’accertabilità ex ante delle suddette quattro condizioni semplicemente operando un richiamo alla l. n. 219 del 2017 sulle D.A.T., che già consente, a legislazione vigente, l’accertamento della capacità di autodeterminazione del paziente ed il carattere libero ed informato della scelta espressa (54).

Invece il giudice delle leggi sembra essere andato oltre: in linea con quanto già stabilito in tema di procreazione medicalmente assistita (55), ha allargato la portata normativa della legge sulle D.A.T. prevedendo che la “procedura medicalizzata” ivi prevista d’ora in poi sia «estensibile alle situazioni che qui vengono in rilievo» (56). All’uopo ha innestato dei nova non presenti nella l. n. 219 del 2017, affidando alla struttura pubblica «la verifica delle condizioni che rendono legittimo l’aiuto al suicidio» e delle «relative modalità di esecuzione» previo parere del comitato etico territorialmente competente.

Dietro questa soluzione così strutturata, valevole “a regime”, sembrerebbe potersi riconoscere, in favore dell’aspirante suicida, una posizione giuridica soggettiva non in termini di mera libertà (di darsi alla morte di mano propria senza avere impedimenti), bensì di diritto-pretesa a ricevere una prestazione da una struttura pubblica, cioè dallo Stato (57). Tuttavia la questione è davvero complessa e meritevole di ulteriori approfondimenti, poiché la stessa Corte costituzionale sembra voler escludere che il suicidio si trasformi in un diritto a prestazione: «dall’art. 2 Cost. – non diversamente che dall’art. 2 CEDU – discende il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo: non quello – diametralmente opposto – di riconoscere all’individuo la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire» (58).

7. L’inedita scriminante procedurale valevole pro futuro

Per quanto riguarda gli aspetti squisitamente penalistici, la Consuta ha forgiato per la prima volta una scriminante procedurale immediatamente applicabile pro futuro, per i fatti successivi alla pubblicazione della sentenza nella Gazzetta ufficiale (59).

Se ne era parlato già per effetto del “diritto penale provvisorio” introdotto dall’ordinanza n. 207 del 2018 ma - con la pronuncia in disamina -può dirsi ormai “ufficializzata” l’introduzione di quella nuova idea di giustificante che, a completamento di quella tradizionale (ovvero sostanziale), viene definita dalla dottrina penalistica come scriminante procedurale (60). L’esimente - la cui struttura risulta ancora sconosciuta al nostro diritto penale della parte generale - si fonda sul rispetto di una procedura giustificante che garantisce ex ante in maniera neutra la migliore tutela possibile dell’interesse coinvolto, così diversamente atteggiandosi rispetto alle verifiche di proporzione delle scriminanti sostanziali affidate ex post all’accertamento giudiziale (61).

La Corte, dichiarando incostituzionale, in parte qua, l’art. 580 c.p. («nella parte in cui non esclude la punibilità…»), innesta per via additiva una scriminante che suppone il compimento di una sequela di condizioni e di modalità esecutive, (solo) al cui rispetto l’“aiutante” - cioè il soggetto attivo dell’ipotetico reato di aiuto al suicidio - è giustificato.

A fini esimenti, la Corte costituzionale procedimentalizza la necessità di verifica da parte di una struttura pubblica del Servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente, che (l’aspirante suicida):

1) si tratti di persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale

2) sia affetta da patologia irreversibile

3) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputi intollerabili

4) ma sia pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli.

Quindi, in via di eccezione alla regola di condotta ex art. 580 c.p., l’inedita causa di giustificazione - di creazione giurisprudenziale ma avente valore normativo erga omnes - affida la complessa risoluzione del conflitto tra inviolabilità del bene vita, salute e dignità della persona ad una procedura (non meramente dichiarativa, ma) costitutiva di uno spazio di diritto libero, in cui l’accertamento anticipato del diritto all’aiuto “nel morire” viene subordinato alle condizioni prefissate. Si tratta di condizioni che si muovono all’interno di un “processo medicalizzato” e che, ispirandosi al cd. “modello discorsivo a completamento di indicatori legali tassativamente predeterminati”, sono inequivocabilmente destinate a legittimare l’assistenza medico-sanitaria al suicidio sulla base di controlli pubblici ex ante in grado di verificare l’informata consapevolezza del competente soggetto decidente in rapporto all’esercizio, solo così vincolante, del diritto all’autodeterminazione terapeutica nelle scelte di fine-vita, quali scelte libere e “condizionatamente” lecite in quanto dettate da un’etica al riparo da danni ad altri (62).

L’espletamento di questa procedura di controllo pubblico ex ante consente alla scriminante di intervenire (non ex post, ma proprio) in costanza di realizzazione del comportamento tipico -id est: l’aiuto al suicidio nelle condizioni ut supra - privato in itinere della sua precettività penale (63).

8. La scriminabilità pro praeterito caso per caso.

Questi requisiti procedimentali, essendo stati “coniati” - in via additivo-manipolativa -dal giudice delle leggi con la sentenza n. 242 del 2019 (ed «in attesa dell’intervento del legislatore»), non possono essere richiesti, “tal quali”, in rapporto ai fatti di aiuto al suicidio anteriormente commessi: si pensi a chi, come nel caso oggetto del giudizio a quo (che, peraltro, precede la stessa entrata in vigore della l. n. 219 del 2017), fosse andato, alla vigilia dell’intervento della Corte costituzionale, a morire in Svizzera, facendosi accompagnare magari da un tassista. In quest’ipotesi le condizioni liceizzanti poste -d’ora in poi -dalla Corte non sono ovviamente più realizzabili.

Per questo la stessa Consulta si fa carico di declinare - in motivazione e nel dispositivo - una “doppia pronuncia” di incostituzionalità. In breve scansiona, sul piano temporale, due regimi normativi: uno valevole pro futuro (post 27 novembre 2019: vedi retro); l’altro - “ad esaurimento” - applicabile alle vicende ormai passate (ante 27 novembre 2019).

Riguardo ai fatti pregressi, la non punibilità dell’aiuto al suicidio «rimarrà subordinata, in specie, al fatto che l’agevolazione sia stata prestata con modalità anche diverse da quelle indicate, ma idonee comunque a offrire garanzie sostanzialmente equivalenti».

Ma la sentenza n. 242 del 2019 non si limita a questa indicazione di massima. Differentemente da altri casi ove -anche in materia penale – in genere la Corte rimette ai giudici a quibus la valutazione del modo in cui il sistema normativo reagisce alla declaratoria di incostituzionalità, qui si spinge oltre (ed anche questo è un altro profilo di assoluta novità).

La Corte costituzionale “squaderna”, a beneficio del (futuro) giudice del caso concreto, le condizioni di equipollenza che - per fatti commessi fino al 27 novembre 2019 - valgono a rendere lecita la prestazione dell’aiuto al suicidio. Occorrerà che la patologia irreversibile, la grave sofferenza fisica o psicologica, la dipendenza da trattamenti di sostegno vitale e la capacità di prendere decisioni libere e consapevoli «abbiano formato oggetto di verifica in ambito medico; che la volontà dell’interessato sia stata manifestata in modo chiaro e univoco, compatibilmente con quanto è consentito dalle sue condizioni; che il paziente sia stato adeguatamente informato sia in ordine a queste ultime, sia in ordine alle possibili soluzioni alternative, segnatamente con riguardo all’accesso alle cure palliative ed, eventualmente, alla sedazione profonda continua. Requisiti tutti la cui sussistenza dovrà essere verificata dal giudice nel caso concreto».

Senonché, la “positivizzata” sequenza procedimentale valevole solo pro futuro e la definizione di queste clausole di equipollenza valevoli solo pro praeterito portano ad una “strettoia”, invero quasi paradossale: un nuovo caso “Dj Fabo-Cappato” - cioè il caso di un paziente accompagnato dall’Italia in Svizzera per il trattamento di fine vita - identico fattualmente a quello che ha generato l’odierno accoglimento, non sarebbe coperto dalla dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 580 c.p. (64). In breve, non sarebbe più scriminabile, in quanto giammai sussumibile sotto le stringenti condizioni procedimentali “in vigore” dal 27 novembre 2019.

  • persona fisica
  • personalità
  • diritti umani
  • gestione dei diritti digitali

IV)

IDENTITA’ PERSONALE, RISERVATEZZA E DIRITTO ALL’OBLIO: I DIVERSI VOLTI DELLA TUTELA DELL’INDIVIDUO

(di Marina Cirese, Luigi La Battaglia* )

Sommario

Premessa La tutela dei diritti della persona. - 1 L’identità personale. - 2 L’identità digitale. - 3 Le declinazioni dell’identità personale. - 4 Il diritto alla riservatezza. - 5 La duplice concezione del diritto all’oblio. - 6 La nozione “tradizionale” di oblio. - 7 La pronuncia delle Sezioni unite n. 19681/2019. - 8 La nozione “tecnologico-digitale”. - 9 La configurazione normativa del diritto all’oblio nel quadro dei diritti della personalità. - 10 Conclusioni.

Premessa. La tutela dei diritti della persona.

La dignità personale costituisce il valore fondante dei diritti inviolabili dell’individuo, trovando peculiare attuazione nella dimensione relazionale e sociale dell’esistenza umana (artt. 2 e 3 Cost.).

Il diritto all’identità, anche nella declinazione di scottante attualità costituita dal diritto alla riservatezza ed all’oblio ne costituisce uno snodo ineliminabile.

1. L’identità personale.

Rimasto per lungo tempo patrimonio del linguaggio e del sapere specialistico dei filosofi e dei sociologi, il tema dell’identità personale in ambito giuridico si declina come “diritto all’identità personale” cui è riconosciuto il rango di diritto fondamentale della persona.

L’identità, in particolare, si configura come il prisma attraverso cui esaminare e ricostruire la complessità dello statuto giuridico della persona, qualificando in particolare il profilo della integrità della personalità e sostanziandosi in una sorta di documento essenziale capace di racchiudere la storia di ogni individuo.

Costruito a partire dagli anni settanta come diritto di matrice giurisprudenziale, esso assume una connotazione sempre più autonoma all’interno della cornice costituzionale disegnata dagli artt. 2 e 3 Cost., anche attraverso le norme codicistiche relative al diritto al nome ed all’insegna, creando le basi per il moderno diritto alla privacy.

Punto significativo della evoluzione del diritto all’identità personale è la definizione che ne ha fornito la S.C. a metà degli anni ‘80: “Ciascun soggetto ha interesse, ritenuto generalmente meritevole di tutela giuridica, di essere rappresentato, nella vita di relazione, con la sua vera identità, così come questa nella realtà sociale, generale e particolare, è conosciuta o poteva essere conosciuta con l’applicazione dei criteri della normale diligenza e della buona fede soggettiva; ha, cioè, interesse a non vedersi all’esterno alterato, travisato, offuscato, contestato il proprio patrimonio intellettuale, politico, sociale, religioso, ideologico, professionale ecc. quale si era estrinsecato od appariva, in base a circostanze concrete ed univoche, destinato ad estrinsecarsi nell’ambiente sociale” (vedi Sez. 1, n. 3769/1985, Tilocca, Rv. 441354 - 01).

L’identità rappresenta quindi una formula sintetica per definire le caratteristiche e le manifestazioni specifiche di un soggetto, nonchè per esprimere la effettiva e concreta personalità individuale.

All’interno dei diritti della personalità, l’identità mira a salvaguardare la dimensione relazionale dell’individuo che viene considerato non già come una monade, bensì uti socius e si connota come concetto mutevole coerentemente con l’evoluzione interiore ed esteriore della persona, con la sua formazione, con il cambiamento di opinioni, di idee, di stili di vita. Proprio al fine di cogliere i problemi che emergono dalla discrasia tra identità storicamente datata ed identità attuale sono sorte le istanze di tutela riconducibili al diritto all’oblio il cui esercizio" è collegato, in coppia dialettica (di cui infra). È questo uno dei profili di distinzione tra la ricerca della verità storica, il riserbo dell’individuo e la sua necessità di trasformarsi. (65)

La definizione dell’identità personale è stata successivamente accolta dalla Corte costituzionale (Corte Cost. sentenza n. 13 del 1994) come il «diritto ad essere sé stesso, inteso come rispetto dell’immagine di partecipe alla vita associata, con le acquisizioni di idee ed esperienze, con le convinzioni ideologiche, religiose, morali e sociali che differenziano, ed al tempo stesso qualificano, l’individuo. L’identità personale costituisce quindi un bene per sé medesima, indipendentemente dalla condizione personale e sociale, dai pregi e dai difetti del soggetto, di guisa che a ciascuno è riconosciuto il diritto a che la sua individualità sia preservata..”. Il diritto all’identità personale è venuto così differenziandosi per avere ad oggetto il “…bene - valore costituito dalla proiezione sociale della personalità dell’individuo, cui si correla un interesse del soggetto ad essere rappresentato, nella vita di relazione, con la sua vera identità, a non vedere quindi, all’esterno, modificato, offuscato o comunque alterato il proprio patrimonio intellettuale, ideologico, etico, professionale (ecc) quale già estrinsecatosi o destinato, comunque, ad estrinsecarsi, nell’ambiente sociale, secondo indici di previsione costituiti da circostanze obiettive ed univoche..”(Cass., Sez.1, n. 978/1996, Morelli M.R., Rv. 495759 – 01).

Tale diritto reca in sé un insieme di valori che appartengono al patrimonio della persona: intellettuali, politici, religiosi, ideologici, professionali che la distinguono dagli altri.

Ne deriva l’interesse a non veder travisata, offuscata o contestata la propria storia personale, il proprio patrimonio intellettuale così come lo ha espresso l’interessato, sussistendo violazione dell’identità personale anche se le azioni o convinzioni attribuite al soggetto non sono lesive dell’integrità morale dell’interessato, come invece avviene per la violazione dell’onore; pertanto si ha lesione dell’identità anche se i fatti attribuiti, pur non essendo negativi o disdicevoli, rappresentino un’alterazione della storia identitaria della persona.

I fondamenti normativi della tutela dell’identità personale sono stati individuati nelle disposizioni relative al nome (artt. 6-9 c.c.), all’immagine (art. 10 c.c.), al diritto di rettifica (art. 8, l. n. 47/1948 e art. 32 d.lgs. n. 177/2005) e, soprattutto, nell’art. 2 Cost.

Nel quadro critico del bilanciamento fra diritti di rilevanza costituzionale, il diritto all’identità personale trova un limite necessario nei diritti di cronaca, di critica, di satira, di creazione artistica, tutti riconducibili all’art. 21 Cost.

In particolare, è stata riconosciuta prevalenza al diritto di cronaca, purché accompagnato dall’utilità sociale della notizia, dalla verità dei fatti divulgati e dalla forma civile dell’esposizione e della loro valutazione, non eccedente rispetto allo scopo informativo ed improntata a serena obiettività, con esclusione di ogni intento denigratorio. Il diritto di rettifica, spesso individuato come base normativa o come espressione del diritto all’identità personale (che però non la esaurisce), occupa un posto sempre più importante nel quadro dell’unitaria protezione della personalità fondata sull’art. 2 Cost., in quanto garantisce ai singoli (ed ai gruppi) l’accesso ai mezzi di informazione in condizioni di parità, per replicare – dando una differente versione dei fatti – all’attribuzione di atti od opinioni lesivi della dignità o contrari a verità.

Tanto è vero che, anche di recente, la S.C. ha affermato che «la violazione dell’obbligo di rettifica di cui all’art. 8 della l. n. 47 del 1948 integra un illecito distinto ed autonomo rispetto alla diffamazione, trovando fondamento nella lesione del diritto all’identità personale, che può sussistere indipendentemente da quella dell’onore e della reputazione, sicché l’esercizio dei rimedi ordinari e speciali previsti dall’ordinamento contro la sua inosservanza costituisce una domanda diversa, per “petitum” e “causa petendi”, da quella afferente il risarcimento del danno e gli altri rimedi conseguenti alla diffamazione a mezzo stampa» (Sez. 3, n. 13520/2017, Spaziani, Rv. 644409 - 01).

Un punto di riferimento è l’art. 8 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea sul diritto alla protezione dei dati di carattere personale: norma condivisa dall’art. 16 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE) che conferisce al Parlamento europeo e al Consiglio il potere legislativo in materia secondo la procedura legislativa ordinaria.

L’art. 8 prevede tra l’altro il trattamento dei dati «secondo il principio di lealtà, per finalità determinate e in base al consenso della persona interessata o a un altro fondamento legittimo previsto dalla legge»; per la norma in esame il diritto alla protezione dei dati è un diritto autonomo riguardo a quanto previsto dall’art. 7 della Carta: il diritto al rispetto della vita privata e familiare, del domicilio e delle comunicazioni.

La normativa euronitaria dedica particolare attenzione al trattamento dei dati, e proprio nella legislazione sovranazionale si registra la più elevata tutela dei dati personali, in considerazione del loro alto valore morale ed economico.

Ciò si riscontra anche nel recente reg. Ue 27-4-2016, n. 679 (G.D.P.R.), relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la dir. 95/46, e nell’analoga dir. 27-4-2016 n. 680 ove si afferma, nei considerando, che la protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati di carattere personale è un diritto fondamentale.

2. L’identità digitale.

Nell’ambito della comunicazione via Internet viene in rilievo la c.d. “identità digitale,”, ovvero l’identità impiegata nelle attività informatiche ed, in particolare, nelle numerose applicazioni di Internet. L’avvento dell’era digitale ha ridefinito il concetto di spazio e tempo e, di riflesso, ha sfiorato anche l’essenza stessa dell’individuo, e cioè la sua identità. Questa, per natura complessa, lo diviene ancor di più negli ambienti digitali, determinando relazioni che non sono fondate sul rapporto "face to face".

Tale identità non deve per forza essere specchio dell’identità personale del soggetto, trasfigurazione digitale della persona, essendo sufficiente che si sviluppi attraverso un processo di costruzione continua dato da un apporto personale; l’identità digitale diventa un superamento, qualcosa di più ricco e complesso di quella personale da cui prende le mosse e se ne allontana a seconda delle esigenze dei fruitori.

Si possono individuare due tipi di persona digitale che si vengono a delineare: una progettata ed una imposta. La prima, creata dall’individuo stesso che la trasmette ad altri per via dei dati che fornisce (creando blog personali, pagine personali sui social); l’altra è data dalla proiezione sulla persona dei dati detenuti da agenzie esterne, come ad esempio società commerciali o agenzie governative (grado di solvibilità per i mutui, stato di salute a fini assicurativi o creditizi, preferenze commerciali).

Digitale si contrappone allora al meramente virtuale, che è l’irreale, e si modella sulla "vera" identità, frammentaria, mobile e aperta propria della realtà moderna.

Per altro verso, si registra l’attuale tendenza alla assunzione di “altra” identità favorita dalla telematica, e si contrappone all’ altrettanto diffuso fenomeno della sovraesposizione mediatica dell’identità.

Nella dimensione on line infatti manca il riscontro diretto con l’altro, ci si può allontanare dall’interlocutore mediante una immediata e semplice disconnessione, l’io proiettato nella rete può prospettare se stesso come vuole, ossia può creare una «maschera» a seconda dei casi molto discordante dal sé, concordante con il sé, ma rivelata solo agli appartenenti alla propria cerchia, o solo parzialmente concordante.

Ciò è molto evidente nell’ambito dei social network, dove la rappresentazione fallace di se stessi può avvenire anche inconsciamente aprendo un processo di creazione dell’identità.

In tale ambito si inquadra la “Dichiarazione dei diritti in internet”, varata in sede parlamentare e pubblicata il 28 luglio 2015. La Dichiarazione è fondata sul pieno riconoscimento di libertà, eguaglianza, dignità e diversità di ogni persona.

In particolare sul "Diritto all’identità", la Dichiarazione dispone: «Ogni persona ha diritto alla rappresentazione integrale e aggiornata delle proprie identità in Rete. La definizione dell’identità riguarda la libera costruzione della personalità e non può essere sottratta all’intervento ed alla conoscenza dell’interessato. L’uso di algoritmi e di tecniche probabilistiche deve essere portato a conoscenza delle persone interessate, che in ogni caso possono opporsi alla costruzione e alla diffusione di profili che le riguardano. Ogni persona ha diritto di fornire solo i dati strettamente necessari per l’adempimento di obblighi previsti dalla legge, per la fornitura di beni e servizi, per l’accesso alle piattaforme che operano in Internet. L’attribuzione e la gestione dell’identità digitale da parte delle Istituzioni pubbliche devono essere accompagnate da adeguate garanzie, in particolare in termini di sicurezza».

3. Le declinazioni dell’identità personale.

Il diritto all’identità personale come diritto ad essere se stessi si declina nei vari settori del diritto ove vengono in rilievo i diritti fondamentali della persona.

Così è collegato allo status familiae del figlio o del coniuge nella famiglia, società naturale che assume sempre di più la connotazione di comunità di affetti ove si delinea l’identità e si sviluppa la personalità dei singoli membri. Oggi, peraltro, tale fronte di tutela si amplia dato che i rapporti affettivi non derivano più esclusivamente dall’istituto del matrimonio ma anche da vincoli affettivi quali la convivenza e le unioni civili riconosciuti e tutelati ai sensi della legge 20 maggio 2016 n. 76 “Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze”.

Il codice civile fa inoltre riferimento al possesso di stato nella normativa sul matrimonio (art. 130 e ss.) e sulla filiazione (art. 236 e ss.).

L’identità personale di figlio, specie se minore, è legata anche alla conoscenza delle proprie origini, quindi alla verità biologica relativa alla maternità o alla paternità che va bilanciata con l’interesse superiore del minore al suo sviluppo psicologico, affettivo, educativo e sociale e ai legami all’interno della famiglia nella quale vive.

In tal senso il concetto di “identità”, in origine ancorato ad una visione tradizionale, volta a valorizzare l’identità nella sola dinamica relazionale, si indirizza verso l’essenza dell’identità individuale per giungere ad una dimensione identitaria, ugualmente importante, intima e profonda, volta ad acquisire coscienza di sé e del proprio stare in un contesto sociale, indipendentemente quindi dal dato relazionale.

Nell’ottica della tutela dell’identità del minore, secondo la S.C. sussiste il diritto del figlio, anche dopo la morte della madre, di conoscere le proprie origini biologiche per il carattere personalissimo e non trasmissibile del diritto a non essere nominata nella dichiarazione di nascita come prevede l’art. 30, comma 1, del d.p.r. 3.11.2000, n. 396.

Inoltre, come statuito da Sez. U., n. 1946/2017, Giusti, Rv. 642009 – 01, nel solco della pronuncia della Corte cost., 18 novembre 2013, n. 278, e delle pronunce della S.C. del 2016, in tema di parto anonimo, anche se il legislatore non ha ancora introdotto la disciplina procedimentale attuativa, sussiste la possibilità per il giudice, su richiesta del figlio, di interpellare la madre che abbia dichiarato alla nascita di non voler essere nominata, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione, e ciò con modalità procedimentali tratte dal quadro normativo e dal principio somministrato dalla Corte suddetta, idonee ad assicurare la massima riservatezza ed il più assoluto rispetto della dignità della donna, fermo restando che il diritto del figlio trova un limite insuperabile allorché la dichiarazione iniziale per l’anonimato non sia rimossa in seguito all’interpello e persista il diniego della madre di svelare la propria identità.

Peraltro tale diritto a conoscere le proprie origini, nell’ottica della ricomposizione della storia parentale e quindi attinente alla propria identità, viene esteso anche all’adottato nei casi di cui all’art. 28, comma 5, della l. n. 184 del 1983, consentendogli di accedere alle informazioni concernenti non solo l’identità dei propri genitori biologici, ma anche quelle delle sorelle e dei fratelli biologici adulti, previo interpello di questi ultimi mediante procedimento giurisdizionale idoneo ad assicurare la massima riservatezza ed il massimo rispetto della dignità dei soggetti da interpellare, al fine di acquisirne il consenso all’accesso alle informazioni richieste o di constatarne il diniego, da ritenersi impeditivo dell’esercizio del diritto (Sez. 1, n. 6963/2018, Acierno, Rv. 647764 – 01). Correlata all’identità personale è altresì l’attribuzione del cognome.

La tutela dell’identità personale è altresì ravvisabile in Sez. 1, n. 18161/19, Bisogni, Rv. 654543 – 01 secondo cui, in tema di attribuzione giudiziale del cognome al figlio naturale riconosciuto non contestualmente dai genitori, il giudice è investito ex art. 262, commi 2 e 3, c.c. del potere-dovere di decidere su ognuna delle possibilità previste dalla disposizione in parola avendo riguardo, quale criterio di riferimento, unicamente all’interesse del minore e con esclusione di qualsiasi automaticità, che non riguarda né la prima attribuzione (essendo inconfigurabile una regola di prevalenza del criterio del prior in tempore), né il patronimico (per il quale parimenti non sussiste alcun favor in sé).

Altro profilo rilevante è l’identità di genere.

Il genere è un aspetto complesso della personalità, ha una connotazione psicologica e socio-culturale che va oltre l’aspetto puramente biologico, e riguarda tratti comportamentali e fisici, ossia le caratteristiche di una persona. Anche l’identità di genere entra a far parte dello svolgimento e dello sviluppo della personalità individuale e sociale, e il diritto all’identità, inteso come modo di essere dell’individuo, ben si attaglia all’identità di genere e alle problematiche connesse.

Quando il soggetto presenta i caratteri genotipici e fenotipici di un determinato genere, ma sente di appartenere ad un altro, il nostro ordinamento prevede norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso contenute nella 1. 14 aprile 1982, n. 164 (e successive modifiche).

Secondo quanto previsto dall’art. 1, comma 1, «la rettificazione si fa in forza di sentenza del tribunale passata in giudicato che attribuisca ad una persona sesso diverso da quello enunciato nell’atto di nascita a seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali».

La S.C. a riguardo, (Sez. 1, n. 15138/2015, Acierno, Rv. 636001 – 01), segnando un’importante tappa evolutiva in tema di concezione dell’identità personale, ha precisato che alla stregua di un’interpretazione costituzionalmente orientata, e conforme alla giurisprudenza della CEDU, per ottenere la rettificazione del sesso nei registri dello stato civile deve ritenersi non obbligatorio l’intervento chirurgico demolitorio e/o modificativo dei caratteri sessuali anatomici primari. Sottolinea la Corte che l’acquisizione di una nuova identità di genere può essere il frutto di un processo individuale che non ne postula la necessità, purché la serietà ed univocità del percorso scelto e la compiutezza dell’approdo finale sia oggetto, ove necessario, di accertamento tecnico in sede giudiziale.

Il problema dell’identità si pone anche de iure condendo in relazione al riconoscimento di alcuni diritti, quale quello della cittadinanza, ai cittadini stranieri nati in Italia, terreno in cui si registra quel continuo processo osmotico tra mutamenti sociali e istanze di tutela.

4. Il diritto alla riservatezza.

In Italia la Costituzione non dedica alcuna norma specifica alla tutela della riservatezza ed alla protezione dei dati personali. Tuttavia il valore costituzionale di tali beni giuridici viene rinvenuto nella lettura sistematica di varie disposizioni: l’art. 2 attraverso il richiamo ai nuovi diritti inviolabili della persona, l’art. 3, che afferma la pari dignità sociale tra gli individui, altre norme della prima parte della Costituzione tra le quali l’art. 14 relativo alla protezione del domicilio, l’art. 15 sulla libertà e segretezza della corrispondenza, l’art. 13 sulla libertà personale, nonché lo stesso art. 21 che protegge la libertà di manifestazione del pensiero anche in senso negativo quale diritto del soggetto a mantenere segrete le proprie idee e convinzioni.

È stata soprattutto la giurisprudenza, che dapprima negava l’esistenza di un diritto alla riservatezza, ad individuare il fondamento giuridico della privacy quale diritto sostanzialmente tutelato ed a fungere da vero e proprio motore trainante nel suo lungo cammino di riconoscimento. Quando si fa riferimento alle origini del diritto alla riservatezza, si suole richiamare il right to privacy, menzionato in un saggio apparso nel 1890 sulla Harward Law Review con riguardo alla vicenda di un avvocato di Boston che aveva deciso di tutelare il proprio diritto ad “essere lasciato solo” (right to be let alone) affermando l’esistenza di un nuovo tort, creato per affermare la responsabilità di chi avesse violato l’intimità e la riservatezza altrui, proteggendo questi valori alla stessa stregua del diritto di proprietà.

La vita privata diventa così un “luogo ideale” da proteggere contro l’altrui invasione, un “diritto assoluto”, suscettibile di essere fatto valere erga omnes, comportando conseguentemente lo jus ad alios excludendos. L’origine del diritto alla privacy è dunque legato in origine a logiche proprietarie che hanno a lungo condizionato il corretto inquadramento della natura giuridica della riservatezza, collegandola ad una visione materialistica e patrimonialistica, del tutto diversa, anzi opposta alla ratio sottesa a tutti i “diritti della personalità” che sono, al contrario, legati esclusivamente ad istanze esistenziali ed al valore della persona, unitariamente considerata. L’evoluzione del concetto di privacy muta poi nel diritto di “autodeterminazione informativa” e di controllo sui propri dati personali.

L’esigenza di tutelare il diritto alla inviolabilità dei propri dati identificativi nasce da un complesso di motivi storici e socio - culturali: in primo luogo la progressiva ed inarrestabile espansione dei media e dei sistemi informatizzati ed elettronici in grado di “controllare” e “spiare” qualsiasi soggetto, indipendentemente dal domicilio e dalla proprietà privata, hanno reso sempre più emergenziale l’esigenza della protezione del riserbo e dell’identità dalla loro diffusione, resa sempre più rapida ed incontrollabile dal costante progresso tecnologico.

Il riconoscimento esplicito del diritto alla privacy da parte della giurisprudenza di legittimità giunge nel 1975.

La Corte, facendo riferimento al diritto soggettivo, giungeva al riconoscimento esplicito del diritto alla riservatezza, inteso come diritto che necessita di «tutela di quelle situazioni e vicende strettamente personali e familiari, le quali, anche se verificatesi fuori dal domicilio domestico, non hanno per i terzi un interesse socialmente apprezzabile contro le ingerenze che, sia pure compiute con mezzi leciti (..), non siano giustificate da interessi pubblici preminenti». Il diritto alla riservatezza, peraltro, sarebbe espressamente tutelato dalla Carta costituzionale, in numerose norme, quali gli artt. 2, 3, 13, 14, 27, 29 e 41, che imporrebbero così globalmente una protezione dell’individuo dall’invadenza nella propria intimità personale, e che al contempo imporrebbero una valutazione del corretto bilanciamento tra interessi contrapposti.

A fronte del riconoscimento pretorio, il legislatore rimane a lungo silente.

Solo con nel 1996, è stata colmata questa lacuna, con la emanazione della legge fondamentale sulla privacy, la l. n. 675 del 1996. Ad essa hanno fatto poi seguito una serie di modifiche, integrazioni ed emendamenti cosicché questo accavallarsi di norme in un arco temporale abbastanza limitato ha reso necessaria la riscrittura e raccolta in un testo organico. Si tratta di un Testo Unico sulle disposizioni in materia di protezione dei dati personali, che è stato adottato con il d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale il 29 luglio 2003. Tale decreto è stato emanato ai sensi della legge di delega 24 marzo 2001, n. 127.

La novità di tale normativa va individuata nel pieno riconoscimento legislativo del diritto alla riservatezza ed all’identità personale nel quadro dei diritti fondamentali della persona, che si è tradotto in un diritto all’autodeterminazione informativa che affida al consenso dell’interessato la legittimità del trattamento dei suoi dati personali.

Il 24 maggio 2016 è entrato in vigore il Regolamento Generale Europeo (UE 679/2016

- Pubblicato nella Gazzetta Ufficiale europea il 4 maggio 2016) sulla protezione dei dati personali delle persone fisiche denominato GDPR (General Data Protection Regulation). Il Regolamento rappresenta la normativa di riforma della legislazione europea in materia di protezione dei dati. La sua attuazione è stata prevista a distanza di due anni, quindi a partire dal 25 maggio 2018. Trattandosi di un regolamento europeo, non necessita di recepimento da parte degli Stati dell’Unione e verrà attuato da tutti allo stesso modo, realizzandosi così di fatto la definitiva armonizzazione della regolamentazione in materia di protezione dei dati personali all’interno dell’Unione europea. Il GDPR, più esplicito della direttiva 95/46/ CE, proclama la tutela del diritto alla protezione dei dati personali inteso come diritto fondamentale delle persone fisiche. L’art. 1 par. 2 recita “Il presente regolamento protegge i diritti e le libertà fondamentali delle persone fisiche, in particolare il diritto alla protezione dei dati personali”.

5. La duplice concezione del diritto all’oblio.

Il GDPR del 2016 (come si vedrà) è la prima fonte normativa a contenere esplicita menzione del “diritto all’oblio”, il quale peraltro è stato interessato, nel corso del 2019, da un’importante pronuncia delle Sezioni unite della Cassazione (Sez. U., n. 19681/2019, Cirillo, Rv. 654836-01), che ha inteso definirne i presupposti, nel rapporto con il diritto di cronaca (e, più in generale, di manifestazione del pensiero).

Volendo utilizzare la definizione fatta propria dalla prima sentenza di legittimità che ebbe ad occuparsene (Sez. 3, n. 3679/1998, Coco, Rv. 514405-01), il diritto all’oblio può intendersi come il “giusto interesse di ogni persona a non restare indeterminatamente esposta ai danni ulteriori che arreca al suo onore e alla sua reputazione la reiterata pubblicazione di una notizia in passato legittimamente divulgata”.

In questa accezione (che presuppone una doppia pubblicazione, a distanza di tempo, della stessa notizia), il diritto all’oblio rappresenta un’ulteriore frontiera di tutela dei “tradizionali” diritti della personalità (riservatezza, identità personale, onore, reputazione), attivabile quando il disvalore connesso alla divulgazione di un’informazione risieda nello iato temporale che la separa dal momento dell’originaria diffusione. Un presidio, dunque, a tutela della “identità dinamica” del soggetto, per come venutasi a conformare nel corso del tempo.

In una seconda accezione, che potrebbe definirsi “tecnologico-digitale”, il diritto all’oblio ha a che fare, invece, con l’interesse a controllare le modalità di conservazione, archiviazione, circolazione e trasferimento dei propri dati personali sul web, allo scopo di evitare che l’indiscriminata accessibilità agli stessi finisca per portare a conoscenza di un’indeterminata cerchia di destinatari (al di là di una specifica finalità divulgativa) informazioni screditanti o (anche semplicemente) sgradite per l’interessato, in quanto non più attuali. In questo caso non si ha, dunque, una cesura temporale tra due successive divulgazioni della notizia, permanendo quest’ultima continuativamente a disposizione dell’utente della rete, a prescindere da una specifica “riproposizione”.

6. La nozione “tradizionale” di oblio.

Nella sua prima dimensione, il diritto all’oblio si fonda sull’idea che, in considerazione del passare del tempo, sia venuta meno l’attualità di una notizia la quale, in origine, era stata legittimamente pubblicata, in quanto provvista (alla stregua del “decalogo” del giornalista messo a punto da Cass., n. 5259/1984, Borruso, Rv. 436989

01) dei requisiti della verità, pertinenza e continenza. Una rinnovata valutazione circa il persistente (o rinnovato) interesse pubblico alla conoscenza della notizia si impone, quindi, a tutela non tanto della riservatezza dell’individuo (essendo stati i fatti già a suo tempo divulgati), quanto piuttosto della sua reputazione e/o identità personale, come nel frattempo venutesi ad evolvere, in forme – in ipotesi – anche assai distanti dalla precedente caratterizzazione. Dirà Sez. 3, n. 28084/2018, Gianniti, non massimata, che “i requisiti della verità dei fatti narrati, della forma civile della loro esposizione e della loro valutazione, nonché la sussistenza di un pubblico interesse alla conoscenza della notizia sono requisiti che (..) assumono rilevanza (..) anche come elemento persistente nel tempo volto ad escludere l’antigiuridicità delle successive rievocazioni”. In altri termini, quando intercorra un intervallo di tempo di una certa consistenza tra la narrazione e il fatto che ne costituisce l’oggetto, la libertà di manifestazione del pensiero è controbilanciata dalla pretesa del soggetto di essere dimenticato, o meglio di non essere ricordato in relazione a quel fatto, che pure legittimamente era stato oggetto di cronaca in passato.

Nella già citata Sez. 3, n. 3679/1998, Coco, Rv. 514405-01, l’attore lamentava che un settimanale avesse riproposto, a distanza di sei anni, la notizia di una sua risalente incriminazione per gravi fatti di mafia, senza che vi fosse un rinnovato interesse pubblico alla relativa conoscenza (e senza dar conto della successiva archiviazione del procedimento). Oltre al trascorrere del tempo in sé, a venire in rilievo – secondo la Cassazione – era il sopraggiungere di eventi dai quali sarebbe stato possibile desumere la totale estraneità dell’attore alle vicende in questione; eventi dei quali, ove effettivamente avvenuti prima della seconda pubblicazione, si sarebbe dovuto tener conto ai fini di un rigoroso accertamento e della conseguente menzione nel corpo dell’articolo.

In Sez. 3, n. 16111/2013, Cirillo, Rv. 626952-01, si discuteva invece della pubblicazione, a margine della notizia del ritrovamento di un arsenale di armi appartenute alle Brigate Rosse, della notizia (corredata di fotografia) della condanna dell’attore, molti anni prima, per fatti legati alla sua appartenenza a un gruppo terroristico. Qui la Corte osservò che il notevole lasso di tempo trascorso dai fatti relativi agli “anni di piombo” non consentiva di ritenere attuale la loro divulgazione, in mancanza di un obiettivo collegamento tra la circostanza del ritrovamento delle armi e la storia personale passata di un soggetto che, nel frattempo, aveva espiato la sua pena, e nutriva quindi la legittima aspirazione a essere dimenticato. In definitiva, l’occasione fornita da una notizia di cronaca, in qualche modo evocatrice di un determinato periodo storico (quello della lotta terroristica), non rappresentava motivo sufficiente per un automatico “rinnovamento” dell’interesse pubblico intorno a vicende personali rispetto alle quali, con il passare del tempo, era andato consolidandosi il contrapposto interesse all’oblio.

Non riguarda la carta stampata, bensì una trasmissione televisiva, Sez. 1, n. 6919/2018, Valitutti, Rv. 647763-01. Si trattava della riproposizione, nell’ambito di una trasmissione incentrata sui personaggi “più antipatici” del mondo dello spettacolo, di un servizio (realizzato cinque anni prima) nel quale un noto cantautore si era rifiutato di rilasciare un’intervista a una troupe che lo aveva “intercettato” all’uscita da un ristorante. La pronuncia pone in esponente la questione se la pretesa all’oblio costituisca un diritto “assoluto” (nel senso che il semplice trascorrere del tempo pone l’interesse del titolare del dato o dell’informazione in una posizione di preminenza rispetto a quello di chi lo abbia divulgato), ovvero se contempli, tra i propri presupposti, il necessario riscontro di un (ulteriore) profilo lesivo della personalità dell’individuo (con riferimento, per esempio, al diritto alla reputazione, alla riservatezza o all’identità personale). La Cassazione sembra optare per la prima soluzione, sancendo, in linea di principio, la prevalenza del “fondamentale diritto all’oblio” (in sé e per sé considerato), suscettibile di recedere rispetto al diritto di cronaca solo in presenza di determinati requisiti, dei quali viene fornito un analitico elenco: il contributo arrecato dalla diffusione dell’immagine o della notizia ad un dibattito di interesse pubblico; l’interesse effettivo ed attuale alla diffusione dell’immagine o della notizia (che deve rispondere a scopi di giustizia, di polizia o di tutela dei diritti e delle libertà altrui, ovvero per scopi scientifici, didattici o culturali, e non già a finalità meramente divulgative o economi-co-commerciali); l’elevato grado di notorietà del soggetto rappresentato, per la peculiare posizione rivestita nella vita pubblica e, segnatamente, nella realtà economica o politica del Paese; l’impiego di modalità improntate alla verità, non eccedenti lo scopo informativo nell’interesse del pubblico, e scevre da insinuazioni o considerazioni personali, sì da evidenziare un esclusivo interesse oggettivo alla nuova diffusione; la preventiva informazione circa la pubblicazione o trasmissione della notizia o dell’immagine a distanza di tempo, in modo da consentire all’interessato il diritto di replica prima della sua divulgazione al grande pubblico. Nell’ultima parte della motivazione, la Cassazione recupera, peraltro, i più “classici” stilemi argomentativi del bilanciamento del diritto alla reputazione con quello di critica/satira, lasciando sullo sfondo il diritto all’oblio. La censura del contegno della parte convenuta si incentra, infatti, sulla “ingiustificata denigrazione dell’artista, fatto apparire come una persona costantemente scorbutica ed antipatica, e per di più, ormai da tempo, al termine della propria carriera”, con arbitraria generalizzazione non supportata da “un diligente lavoro di ricerca, effettuato sulla base di fonti «affidabili e verosimili»”.

Il “pentalogo” dei requisiti che devono assistere la pubblicazione della notizia, ai fini di una legittima compressione del diritto all’oblio, è poi richiamato da Sez. 3, n. 28084/2018, Gianniti, non massimata, che ha rimesso al Primo Presidente, per l’assegnazione alle Sezioni unite, la questione del bilanciamento del diritto all’oblio col diritto di cronaca. La vicenda giunta all’attenzione della Corte riguardava un uomo che, dopo aver espiato la pena per l’omicidio della moglie, aveva faticosamente riconquistato una dimensione di “normalità”, e che pertanto si doleva del fatto che la sua storia fosse stata riesumata nella rubrica di un giornale locale che riproponeva all’attenzione dei lettori vecchie notizie di cronaca nera che avevano segnato la comunità cittadina, con conseguenti pesanti ripercussioni sul piano psicologico e relazionale. Una fattispecie che evocava, dunque, la figura “classica” di diritto all’oblio, nella quale all’interesse a che non vengano rievocati determinati fatti del passato si contrappone il diritto di cronaca giornalistica.

7. La pronuncia delle Sezioni unite n. 19681/2019.

La decisione delle Sezioni unite s’impernia sulla distinzione concettuale tra cronaca e rievocazione storica (o storiografica) dei fatti. Allorquando venga ripubblicata, “a distanza di un lungo periodo di tempo”, una notizia per la quale non siano intervenuti elementi tali da rinnovarne l’attualità, la divulgazione non è riconducibile all’esercizio del diritto di cronaca, bensì all’attività storiografica, la quale, in linea di massima (salvo, cioè, che si tratti di personaggi pubblici o di fatti il cui svolgimento implichi necessariamente il richiamo all’identità dei protagonisti), deve mantenere l’anonimato, “perché nessuna particolare utilità può trarre chi fruisce di quell’informazione dalla circostanza che siano individuati in modo preciso coloro i quali tali atti hanno compiuto”. Salvo eccezioni, al protagonista dei fatti passati è consentito, pertanto, di “riappropriarsi della propria storia personale”, facendo calare l’oblio (se non sui fatti di per sé, quantomeno) sulla propria identità.

Orbene, se la fattispecie concreta esaminata dalla pronuncia si lasciava agevolmente inscrivere in questo paradigma (l’omicidio era avvenuto ben ventisei anni prima della pubblicazione dell’articolo, e il suo autore era privo di qualsivoglia notorietà), la regula juris dettata dalle Sezioni sembrerebbe postulare la possibilità di individuare a priori una nitida linea di confine tra cronaca e storiografia, ciò che appare, invero, assai problematico. Del resto, una “categorizzazione” precostituita non sembra consona alla stessa ratio posta dalla Corte a fondamento delle proprie considerazioni, posto che, in molti casi, la conoscenza dell’identità del protagonista è irrilevante anche per i fatti di cronaca. Non sembra, pertanto, potersi disconoscere il ruolo fondamentale spettante al giudice di merito, cui necessariamente compete la difficile opera di bilanciamento in concreto delle situazioni giuridiche che, di volta in volta, entrano in conflitto (e che potrebbe veder prevalere, per esempio, la pretesa all’anonimato anche del personaggio famoso, rispetto a circostanze che pertengono alla sua sfera intima, che nulla hanno a che fare con la sua vita sociale o l’ambito nel quale la sua notorietà si propaga).

8. La nozione “tecnologico-digitale”.

La seconda accezione del diritto all’oblio (di cui sopra s’è dato brevemente conto) rappresenta una diretta emanazione del concetto di privacy informatica, consistente nell’interesse del soggetto al controllo dell’insieme delle informazioni che definiscono la propria immagine “sociale” (la c.d. autodeterminazione informativa). Il proprium di questa concezione risiede nelle modalità con cui i dati personali vengono archiviati e diffusi, tipiche delle nuove tecnologie (segnatamente internet e le banche-dati), di modo che, più che con la riproposizione di una notizia a distanza di tempo, si ha a che fare – come detto - con la persistente accessibilità della stessa da parte di un numero potenzialmente illimitato di persone. Infatti, da un lato i meccanismi della rete consentono a chiunque di pubblicare qual-siasi informazione (riguardante se stesso o terzi); dall’altro, una volta che ciò sia avvenuto, l’originario autore della pubblicazione perde ogni possibilità di controllo sulla successiva circolazione e conservazione dell’informazione, che diviene quindi accessibile e rintracciabile da qualsiasi utente per un periodo di tempo potenzialmente illimitato. Si pensi al circuito “parallelo” di circolazione delle informazioni, originato dai motori di ricerca, i quali, interrogati dall’utente mediante l’utilizzo di parole chiave, sono in grado di recuperare le notizie, facendole “riemergere” dalla moltitudine dei siti sorgente (anche nel caso in cui, per avventura, da questi ultimi fossero state cancellate).

A fungere da contraltare nel giudizio di bilanciamento non è, pertanto (o non è soltanto, il diritto di cronaca (generalmente riconducibile all’attività giornalistica), bensì qualsiasi attività di raccolta di dati personali.

In un contesto di tal genere, quale forma di tutela più pregnante, al fine di espungere in toto dalla rete i “frammenti” della personalità dell’individuo rappresentati dalle informazioni ivi circolanti, si pone la cancellazione dei dati personali già diffusi. L’istanza di cancellazione può, peraltro, essere rivolta nei confronti di soggetti che rivestono ruoli diversi nel mare magnum del web, quali ad esempio i gestori dell’originario “sito-sorgente”, ovvero di archivi digitali o motori di ricerca, ovvero ancora di pagine di social networks contenenti links in grado di condurre a determinate notizie.

Questa dimensione del fenomeno è venuta alla ribalta con la sentenza della Corte di Giustizia UE, 13 maggio 2014, C-131/12, Google Spain e Google, che riconobbe il diritto al c.d. delisting con riferimento a un link il quale, attraverso gli archivi on line di un quotidiano, consentiva di risalire a un articolo che rievocava l’episodio di un’asta immobiliare conseguente a un pignoramento subito dal soggetto per il mancato pagamento di debiti previdenziali. In questo caso, la Corte di Giustizia, dopo aver qualificato come “trattamento di dati personali” l’attività propria dei motori di ricerca (con conseguente riconoscimento, in capo al relativo gestore, della qualità di “responsabile del trattamento”, destinatario della richiesta di “deindicizzazione” da parte dell’interessato), ha ritenuto che le prerogative personali di cui agli artt. 7 e 8 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea debbano prevalere vuoi sugli interessi economici del motore di ricerca, vuoi sull’interesse del pubblico ad avere accesso a tale specifica informazione, nell’ambito di una ricerca condotta sul nome del suo protagonista. Una conclusione, questa, che non risolve, peraltro, tutti i problemi. In primo luogo, perché sembra lasciare poco spazio alla ponderazione, caso per caso, degli interessi in conflitto: al titolare dei dati (tranne nel caso in cui si tratti di personaggio “pubblico”) viene riconosciuto un dominio lato sensu “proprietario” sui dati personali che lo riguardano, non richiedendosi l’effettiva evidenza di un pregiudizio concreto ai fini della cancellazione. In secondo luogo, perché non consente di ottenere un oblio assoluto su internet, dal momento che, anche dopo la cancellazione del link dal motore di ricerca, i dati personali potrebbero continuare ad essere conservati dall’originario titolare del trattamento (vale a dire il gestore del sito-sorgente).

Nella giurisprudenza di legittimità domestica, tre sono le pronunce che, di recente, si sono confrontate con questa nuova “dimensione” del diritto all’oblio.

Sez. 3, n. 5525/2012, Scarano, Rv. 622169-01, affrontò il caso peculiare della notizia dell’arresto dell’attore, avvenuto vent’anni prima, divenuta accessibile a seguito della digitalizzazione dell’archivio di un importante quotidiano a tiratura nazionale. La Cassazione osservò che l’accessibilità della notizia a un numero potenzialmente illimitato di persone impone all’editore di aggiornare l’informazione, nella specie dando conto della circostanza che l’interessato era poi stato assolto. Lecita doveva considerarsi, dunque, l’originaria pubblicazione della notizia, così come la sua successiva conservazione nell’archivio pubblicato on line per finalità storiche. L’effetto lesivo per i diritti della personalità dell’interessato non era legato, quindi, ad una “ripubblicazione” della notizia, ma alla semplice “fruibilità” della stessa da parte degli utenti della rete, anche a distanza di anni, attraverso la consultazione dell’archivio. L’angolo visuale da cui riguardare la fattispecie è, allora, quello del diritto all’identità personale, che postula non tanto una volontà di far dimenticare la notizia, quanto piuttosto l’esigenza di rettificarne la portata in relazione ai fatti medio tempore accaduti, in modo da restituire un’immagine del soggetto coerente con l’evolversi della sua personalità “sociale”. A venire in gioco sono, dunque, i poteri riconosciuti all’interessato per far cancellare (o rettificare) i dati personali (tuttora) reperibili in rete. La pronuncia in esame non sembra, tuttavia, rimettere l’attivazione della tutela all’iniziativa del titolare dei dati, addossando piuttosto in capo al gestore del sito l’onere di un perenne aggiornamento e “contestualizzazione” della notizia a suo tempo divulgata o memorizzata (con tutto quanto ciò comporta in termini di costi e di stessa realizzabilità tecnica da parte dei providers).

In Sez. 1, n. 13161/2016, Giancola, Rv. 640218-01, si discuteva della rimozione di alcune pagine web contenenti un articolo che dava conto di una vicenda giudiziaria penale (relativa a un fatto di tre anni prima e non ancora conclusasi) che l’attore riteneva pregiudizievole per la propria reputazione. In particolare, era risultato che digitando il nome del ristorante gestito dall’attore sul motore di ricerca Google, era possibile accedere a un link che consentiva di visualizzare l’articolo in discorso. Secondo la Corte, la “sistematicità” e la “capillarità” della diffusione sul web di dati “particolarmente sensibili” (siccome afferenti a un giudizio penale) rende – in linea di principio - recessivo, dopo un certo lasso di tempo, il diritto di cronaca giornalistica rispetto ai diritti della personalità dell’interessato (nel caso di specie, il diritto alla riservatezza), in mancanza di ulteriori elementi che rinnovino l’interesse sociale alla ricezione di tale informazione.

Sui generis la fattispecie affrontata da Sez. 1, n. 19761/2017, Nazzicone, Rv. 645195-03. Un imprenditore edile si doleva che, a seguito del trattamento, da parte di una società di informazione professionale, delle notizie che lo riguardavano, risultanti dal registro delle imprese (segnatamente, del fallimento in cui era incorso, con altra società, diversi anni addietro), non riusciva a trovare acquirenti per gli appartamenti di un complesso turistico in corso di costruzione. Domandava, pertanto (oltre al risarcimento dei danni alla propria immagine professionale), la cancellazione o la trasformazione in forma anonima dei suddetti dati, in modo che il suo nome non potesse più essere associato alla compagine societaria protagonista del risalente fallimento. A seguito di un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea ex art. 267 TFUE, la Cassazione ha escluso che l’interesse privato alla redditività dell’investimento immobiliare possa prevalere su quello pubblico alla trasparenza delle vicende societarie (preordinato, a sua volta, a garantire la sicurezza degli scambi economici), non essendovi alcuna norma che contempli la possibilità di limitare cronologicamente l’ostensione dei dati iscritti (per legge) nel registro delle imprese. Dunque, non è a priori esclusa la possibilità di una deroga alla regola generale, ma la relativa previsione è rimessa al legislatore, cui resta affidata la valutazione circa la preminenza di particolari interessi su quello generale espresso dalla disciplina dell’informazione societaria.

9. La configurazione normativa del diritto all’oblio nel quadro dei diritti della personalità.

Quale prerogativa strumentale alla (ri)affermazione del diritto alla riservatezza o all’identità personale, il diritto all’oblio può ricondursi sotto l’egida delle fonti normative poste a tutela di queste situazioni soggettive, costituite – come noto – dagli artt. 2, 3, 13, 14, 15 e 21 Cost.; 10, comma 2, della CEDU; 7 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

È noto, peraltro che, con l’affermarsi della moderna concezione di privacy (intesa come interesse al controllo sulla circolazione delle informazioni personali), accanto ai diritti della personalità “classici” ha trovato consacrazione normativa il diritto alla protezione dei dati personali, formula sintetica che riassume in sé il complesso dei poteri riconosciuti all’interessato per l’accesso e il controllo sulle informazioni che lo riguardano, in funzione della protezione di variegati interessi personalistici (primo fra tutti, l’identità personale, di cui il diritto all’oblio – come detto – rappresenta una specificazione). La posizione soggettiva in discorso ha ricevuto pieno riconoscimento, quale diritto fondamentale dell’individuo, dall’art. 16 del TFUE e dall’art. 8 della Carta dei diritti fondamentali UE, nonché, a livello interno, dall’art. 1 e 2, comma 1, del d. lgs. n. 196 del 2003 (Codice in materia di protezione dei dati personali), oggi abrogato dal regolamento UE n. 2016/679 (che a sua volta, all’art. 1, comma 2, menziona la tutela del diritto alla protezione dei dati personali come finalità precipua della disciplina comunitaria).

È stato così apprestato, a favore dell’interessato, un sistema di tutele che non si arresta alla dimensione inibitorio-risarcitoria (secondo lo schema tradizionale, tipico dei diritti della personalità), ma assume una peculiare connotazione “ripristinatoria”, attuantesi non soltanto attraverso la rimozione tout court dei dati personali dal circuito informativo, ma anche attraverso la rettifica o aggiornamento degli stessi, in funzione “conformativa” rispetto al nuovo atteggiarsi dell’identità personale dell’individuo.

È intuitiva la consonanza che questo tipo di tutela presenta con il diritto all’oblio (nella sua versione “tecnologico-digitale”), essendo la cancellazione dei dati personali indebitamente divulgati – come s’è visto - il principale strumento di protezione dell’interesse a non essere più ricordato in relazione a determinate vicende che ormai non rivestono più alcun interesse pubblico. E invero, l’unica disposizione legislativa a far esplicito riferimento al diritto all’oblio (sia pure tra parentesi, e nella sola rubrica) è l’art. 17 del regolamento UE citato, che enumera proprio i casi in cui l’interessato “ha il diritto di ottenere dal titolare del trattamento la cancellazione dei dati personali che lo riguardano”, prevedendo che, in tali ipotesi, il titolare “adotta le misure ragionevoli, anche tecniche, per informare i titolari del trattamento che stanno trattando i dati personali della richiesta dell’interessato di cancellare qualsiasi link, copia o riproduzione dei suoi dati personali”. La norma non contiene alcuna definizione del diritto all’oblio, né fissa un criterio attraverso il quale valutare la perdita di attualità della notizia, e neppure differenzia la posizione dei diversi soggetti che siano entrati nella disponibilità del dato personale (siti-sorgente, altri providers, motori di ricerca).

Invece, la considerazione di tali aspetti induce a considerare la cancellazione del dato come rimedio insufficiente (o comunque non pienamente congruente) rispetto allo scopo avuto di mira dall’interessato. La richiesta rivolta all’originario titolare del trattamento potrebbe non essere idonea, infatti, a far scomparire una determinata notizia dalla rete, nella misura in cui questa sia stata “ripresa” da altri siti, o “indicizzata” da motori di ricerca, o conservata in archivi telematici. Per questo, è stato riconosciuto dalla giurisprudenza, in capo all’interessato, il diritto alla “deindicizzazione” dai motori di ricerca, o alla “anonimizzazione” del dato, o ancora alla sua esatta contestualizzazione attraverso un aggiornamento dello stesso.

Più in generale, lo stesso interessato potrebbe ritenere più consono ai propri interessi un tipo di intervento meno radicale e più flessibile, volto cioè non già a eliminare del tutto dal web una determinata “traccia di sé”, ma a “ricollocarla” in un più completo e aggiornato contesto. Se, dunque, nello scenario tecnologico-digitale, dal diritto all’oblio in senso stretto si ascende alla prospettiva più ampia della tutela dell’identità dinamica del soggetto, ecco che il diritto alla cancellazione dei dati viene ad inscriversi in un più ampio insieme di prerogative, quali quelle messe a disposizione dell’interessato dagli articoli 16 (rettifica dei dati inesatti e integrazione di quelli incompleti), 18 (diritto alla “limitazione” del trattamento) e 21 del regolamento comunitario (diritto di opposizione alla protrazione del trattamento). Prerogative che appaiono costituire il “contraltare rimediale” dei principi generali cui dev’essere informato il trattamento dei dati personali, in particolare del principio di “minimizzazione” (per cui gli stessi devono essere “adeguati, pertinenti e limitati a quanto necessario rispetto alle finalità per le quali sono trattati”: art. 5, comma 1, lett. c), di “esattezza” (per cui devono essere “esatti e, se necessario, aggiornati”, sicché “devono essere adottate tutte le misure ragionevoli per cancellare o rettificare tempestivamente i dati inesatti rispetto alle finalità per le quali sono trattati”: art. 5, comma 1, lett. d), e di “limitazione della conservazione” (per cui devono essere “conservati in una forma che consenta l’identificazione degli interessati per un arco di tempo non superiore al conseguimento delle finalità per le quali sono trattati”: 5, comma 1, lett. e).

Per quanto più specificamente riguarda il rapporto tra diritto all’oblio e attività giornalistica, la lett. a) del par. 3 dell’articolo 17 contempla un’eccezione al diritto alla cancellazione per l’ipotesi in cui il trattamento dei dati personali sia funzionale all’esercizio del “diritto alla libertà di espressione e di informazione”. L’art. 85 del regolamento riserva alla legislazione interna degli Stati membri il compito di conciliare “la protezione dei dati personali ai sensi del presente regolamento con il diritto alla libertà d’espressione e di informazione, incluso il trattamento a scopi giornalistici o di espressione accademica, artistica o letteraria”. E l’art. 137 del d. lgs. n. 196/03 (come sostituito dal d. lgs. n. 101/18) eleva a presupposto di liceità del trattamento dei dati nel contesto dell’attività giornalistica il rispetto delle regole deontologiche predisposte ai sensi dell’art. 139, aggiungendo peraltro che “restano fermi i limiti del diritto di cronaca a tutela dei diritti di cui all’articolo 1, paragrafo 2, del Regolamento e all’articolo 1 del presente codice e, in particolare, quello dell’essenzialità dell’informazione riguardo a fatti di interesse pubblico”. L’art. 3 del “Testo unico dei doveri del giornalista” (approvato il 27 gennaio 2016), intitolato “identità personale e diritto all’oblio”, da parte sua, alla lett. a) prevede che il giornalista “rispetta il diritto all’identità personale ed evita di far riferimento a particolari relativi al passato, salvo quando essi risultino essenziali per la completezza dell’informazione”, e, alla lett. b), che, “nel diffondere a distanza di tempo dati identificativi del condannato valuta anche l’incidenza della pubblicazione sul percorso di reinserimento sociale dell’interessato e sulla famiglia (..)”. Si ritorna, dunque, per tale via, al bilanciamento in concreto secondo i noti criteri di elaborazione giurisprudenziale, arricchiti dall’ulteriore requisito della persistente attualità dell’interesse pubblico alla conoscenza di una notizia che sia stata riproposta a distanza di tempo dalla sua originaria pubblicazione. Di modo che, se tale attualità manca, non vi è esercizio legittimo del diritto all’informazione, e dunque, non opera l’eccezione di cui alla citata lett. a del par. 3 dell’art. 17, con conseguente prevalenza dell’interesse alla cancellazione manifestato dal soggetto cui i dati si riferiscono.

10. Conclusioni.

Tirando le fila del discorso, una delle principali questioni poste dall’emersione sulla scena giurisprudenziale del diritto all’oblio è se l’interesse dei consociati a che una data informazione che li riguardi, (più o meno) risalente nel tempo, venga dimenticata sia meritevole di tutela in sé e per sé, ovvero postuli la verifica della concorrente lesione di un (altro) diritto della personalità. È evidente, infatti, che l’interesse ad essere dimenticati stride con le modalità di funzionamento e con la stessa “filosofia di fondo” di internet, che vive proprio dell’immagazzinamento di informazioni, in molti casi scientemente divulgate dallo stesso interessato. Una protezione “indiscriminata” del diritto all’oblio rischierebbe, allora, di tradursi in una sorta di “eugenetica” selettiva delle informazioni presenti sulla rete, a discapito della rappresentazione (per quanto possibile) veritiera dei fatti e delle persone.

In una visione che lo raccordi, quale particolare strumento di tutela, agli altri diritti della personalità (e in particolare al diritto all’identità personale), il diritto all’oblio esibisce, invece, un utile profilo operativo, legato alla necessità della “rinnovazione” della valutazione circa la sussistenza dell’interesse pubblico, nel caso di riproposizione di notizie datate. Valutazione che, ove abbia esito negativo, conduce alla conclusione della prevalenza, nel giudizio di bilanciamento con il contrapposto interesse di colui che abbia propalato la notizie, del diritto della personalità dell’interessato, volta a volta declinato in termini di riservatezza o identità personale.

In ogni caso, il diritto all’oblio non sembra integrare un autonomo diritto della personalità, lasciandosi piuttosto configurare come sintagma descrittivo di una peculiare tecnica di tutela del diritto all’identità personale (o, se si vuole, del diritto alla protezione dei dati personali, che a sua volta esibisce una natura funzionale ad evitare un pregiudizio alle varie modalità di estrinsecazione della personalità dell’individuo).

  • persona fisica
  • diritti umani
  • stato civile

V)

ALTERAZIONE DI STATO

(di Marzia Minutillo Turtur )

Sommario

1 L’alterazione di stato, profili interpretativi a seguito delle pronunce della Corte costituzionale. - 2 Gli orientamenti della Corte di cassazione in materia di alterazione di stato, anche contestata quanto al ricorso alla c.d. “gestazione per altri”. - 3 L’ordine pubblico internazionale: evoluzione interpretativa dei giudici di merito e della Corte di cassazione civile.

1. L’alterazione di stato, profili interpretativi a seguito delle pronunce della Corte costituzionale.

Nell’affrontare le diverse tematiche che hanno toccato la previsione di cui all’art. 567 cod. pen. occorre certamente richiamare le due pronunce della Corte Costituzionale che hanno inciso in epoca recente sulle caratteristiche della disposizione in esame. In particolare la sentenza della Corte costituzionale n. 31 del 2012 ha affermato che è costituzionalmente illegittimo l’art. 569 cod. pen., nella parte in cui stabilisce, in caso di condanna pronunciata contro il genitore per il delitto di alterazione di stato, previsto dall’art. 567, secondo comma, del codice penale, consegua di diritto la perdita della potestà genitoriale, così precludendo al giudice ogni possibilità di valutazione dell’interesse del minore nel caso concreto. La decisione trae origine dall’ordinanza del Tribunale di Milano con la quale è stata sollevata la questione di legittimità costituzionale in procedimento che vedeva imputata una madre per aver alterato lo stato civile della figlia neonata nella formazione dell’atto di nascita, mediante false attestazioni consistite nel dichiararla figlia naturale, sapendola legittima in quanto concepita in costanza di matrimonio. È stata dunque rimessa alla valutazione della Corte la portata e contenuto della sanzione accessoria di cui all’art. 569 cod.pen., in considerazione della mancanza assoluta di discrezionalità e possibilità di valutazione del caso concreto da parte del giudice, nella prospettiva di attuare il prevalente interesse del minore, che appunto potrebbe anche non coincidere con l’automatismo previsto dall’art. 569 cod. pen.

Quanto alla previsione di alterazione di stato emerge, secondo l’ordinanza di rimessione, la necessità di considerare una serie di valori costituzionali ex art. 3, 27, 2, 30 e 31 Cost., che portano alla imprescindibile considerazione dell’interesse primario del minore a crescere ed essere educato all’interno della propria famiglia naturale, potendo dunque risultare irragionevole, e quindi in contrasto con l’art. 3 della Costituzione, l’applicazione automatica della pena accessoria della decadenza della potestà genitoriale a seguito di condotte che potrebbero in ipotesi anche essere dettate da una finalità di tutela e protezione del minore, quanto a comportamenti pregiudizievoli posti in essere dall’altro genitore.

La Corte costituzionale nella propria decisione ha evidenziato come il dettato della norma renda palese che la pena accessoria consegue di diritto alla condanna pronunciata contro il genitore, precludendo al giudice ogni possibilità di valutazione e bilanciamento dei diversi interessi implicati nel processo. Richiama quindi la portata di una serie di previsioni, anche internazionali (Convenzione sui diritti del fanciullo di New York, Convenzione europea sui diritti del fanciullo), quanto all’interesse del figlio minore a vivere e crescere nell’ambito della propria famiglia; interesse da ritenere del tutto preminente e possibile oggetto di incisione solo a seguito dell’acquisizione di informazioni sufficienti al fine di prendere una decisione nell’interesse superiore del minore. La Corte sottolinea la portata dell’art. 30 Cost., in correlazione con la previsione di cui all’art.147 cod. civ., quale elemento centrale nel delineare gli elementi costitutivi della potestà genitoriale. La potestà genitoriale dunque si caratterizza per l’obbligo dei genitori di assicurare ai figli un completo percorso educativo, garantendo benessere, salute, crescita, anche spirituale, del minore secondo le possibilità socio- economiche dei genitori. Rileva, dunque, la Corte nelle sue conclusioni, sempre tenuto conto dell’interesse preminente del minore, come non si possa ritenere conforme al principio di ragionevolezza, perché in violazione dell’art. 3 della Costituzione, il disposto dell’art. 569 cod. pen., che, proprio per l’ automatismo che lo connota, di fatto ignora tale preminente interesse.

Occorre invece che sia possibile una valutazione discrezionale del giudice nel considerare il bilanciamento di interessi tra la posizione del minore, e la sua finalità di tutela, e la necessità di applicare comunque la pena accessoria in ragione della natura e delle caratteristiche del fatto criminoso commesso. La violazione del principio di ragionevolezza viene quindi affermata dalla Corte anche in considerazione dei caratteri propri del delitto di cui all’art. 567 cod. pen., che di per sé non si caratterizza per una presunzione assoluta di pregiudizio morale e materiale dell’interesse del minore, sicché non può essere ritenuta in modo automatico l’inidoneità del genitore all’esercizio della potestà genitoriale.

La sentenza della Corte costituzionale n. 236 del 21/09/2016 affronta invece, quanto all’art. 567 cod. pen., una diversa questione di legittimità costituzionale, sollevata dal Tribunale di Varese, relativa al trattamento sanzionatorio, ritenuto eccessivo e sproporzionato, previsto per la condotta di cui al secondo comma della disposizione. Nell’ordinanza di rimessione viene richiamato quale parametro di riferimento l’art. 3 della Costituzione in considerazione del diverso trattamento sanzionatorio previsto per il delitto disciplinato dal primo comma della disposizione, nonchè l’art. 27 della Costituzione, poiché una previsione sanzionatoria così elevata, specialmente nel minimo edittale, non consentirebbe al giudice di irrogare sanzioni effettivamente proporzionate al disvalore della condotta, violando così il principio di personalità della responsabilità penale ed anche il principio secondo il quale la pena deve necessariamente tendere alla rieducazione del condannato.

Il giudice remittente articola una serie di considerazioni, anche con riferimento all’art. 8 della Convenzione EDU, ed afferma come una cornice edittale così severa sembrerebbe in contraddizione sia con il reale disvalore della condotta - mutato con l’evolversi delle condizioni normative, tecniche e scientifiche, che hanno evidenziato il rilievo per cui l’atto di nascita non può più essere considerato l’unico strumento per accertare il reale status filiationis - sia in considerazione delle riforme recenti del diritto di famiglia che consentirebbero la reclamabilità dello status di figlio contrario a quello attribuito dall’atto di nascita, anche nel caso in cui un neonato sia stato iscritto come figlio di ignoti, ovvero in conformità ad altra presunzione di paternità.

La Corte costituzionale ha effettivamente ritenuto la sproporzione della cornice edittale prevista dal secondo comma dell’art. 567 cod. pen. sul piano della ragionevolezza intrinseca in considerazione del reale disvalore della condotta punita. Viene riscontrata quindi una lesione del principio di proporzionalità della pena rispetto alla gravità del fatto commesso e quello della finalità rieducativa della pena (art. 3 e 27 della Costituzione). Considera la Corte l’irragionevolezza per eccesso della sanzione che il giudice dovrebbe irrogare anche in relazione al già affermato principio secondo il quale la disposizione dell’art. 567 cod. pen. in sé, a differenza di altre disposizioni criminose in danno di minori, non reca una presunzione assoluta di pregiudizio per i minori. L’irragionevolezza emerge in particolare nel caso in cui di fatto il giudice si trovi a dover necessariamente infliggere una sanzione penale irragionevolmente sproporzionata per eccesso anche ove l’agente abbia agito, seppur scorrettamente commettendo un falso, al fine di attribuire un legame familiare e parentale al minore che altrimenti ne rimarrebbe privo. La Corte ha quindi condotto il proprio argomentare in ordine alla irragionevolezza intrinseca della previsione quanto alla dosimetria della pena mediante una valutazione tra il primo e secondo comma della disposizione, rilevato come le due fattispecie non possano essere considerate del tutto disomogenee, poiché indirizzate a proteggere il medesimo bene giuridico (l’interesse del minore a vedersi riconosciuto un rapporto familiare corrispondente alla propria effettiva ascendenza). In presenza dunque della lesione di un medesimo bene, protetto dall’ordinamento secondo due diverse previsioni, la soluzione deve essere individuata nell’applicazione della medesima cornice sanzionatoria (quella del primo comma) alle diverse previsioni contenute nell’art. 567 cod. pen.

A seguito della decisione della Corte costituzionale in materia di cornice edittale dell’art. 567 cod. pen. sono intervenute due diverse decisioni della Corte di cassazione sul tema.

In particolare Sez. 6 n. 35215 del 19/04/2017, Scorsone, non massimata, ha chiarito che la richiesta di rideterminazione della pena, tenuto conto della nuova cornice edittale riferibile all’art. 567, comma secondo, cod. pen., deve essere presentata al giudice dell’esecuzione, in applicazione del consolidato principio secondo cui, quando successivamente alla pronuncia di una sentenza irrevocabile di condanna, interviene la dichiarazione d’illegittimità costituzionale della norma incriminatrice incidente sulla commisurazione del trattamento sanzionatorio, e quest’ultimo non è stato interamente eseguito, il giudice dell’esecuzione deve rideterminare la pena in favore del condannato pur se il provvedimento correttivo da adottare non è a contenuto predeterminato, potendo avvalersi di poteri penetranti in tema di accertamento e valutazione, fermi restando i limiti fissati dalla pronuncia di cognizione in applicazione di norme diverse da quelle dichiarate incostituzionali. Sez. 7 n. 41407 del 22/06/2017, Mamutaj, non massimata, ha affrontato il caso relativo all’intervenuta dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 567 cod. pen. dopo la pronunzia di sentenza di condanna in appello. Ha evidenziato come la pena nel caso concreto, commisurata nel minimo, con applicazione di due attenuanti, dovrebbe essere rivalutata nell’ambito della nuova cornice edittale, che risulta operante ai sensi dell’art. 30 della legge n. 87 del 1953, non influendo in senso contrario l’inammissibilità dei motivi di ricorso. Afferma infatti la Corte, richiamando la decisione delle Sez. U. n. 33040 del 26/02/2015, Jazouli, Rv. 264207, che nel giudizio di cassazione l’illegalità della pena conseguente a una dichiarazione di incostituzionalità di norme riguardanti il trattamento sanzionatorio è rilevabile d’ufficio anche in caso di inammissibilità del ricorso, tranne che nel caso di ricorso tardivo. In concreto tuttavia la Corte, rilevato l’intervenuto decorso del termine di prescrizione ha annullato senza rinvio la sentenza impugnata.

2. Gli orientamenti della Corte di cassazione in materia di alterazione di stato, anche contestata quanto al ricorso alla c.d. “gestazione per altri”.

I casi concreti che hanno impegnato sia i giudici di merito, che, conseguentemente, la Corte di cassazione, in tema di alterazione di stato hanno riguardato in diverse occasioni l’accesso da parte di coppie sterili alla c.d. “gestazione per altri”, normalmente realizzata anche per il tramite di fecondazione eterologa. Si tratta, in sostanza, del tentativo di queste coppie di giungere a realizzare il proprio progetto familiare tramite la collaborazione di una donna, definita come “madre portante”, disponibile a tentare di portare avanti una gravidanza realizzata mediante il collocamento in utero di un embrione normalmente composto da un ovocita oggetto di donazione da terza donna e il patrimonio genetico dell’uomo della coppia. Le problematiche conseguenti, eticamente sensibili e caratterizzanti le più approfondite elaborazioni recenti in tema di diritti della persona e biodiritto, trovano la loro ragione sia nel divieto del ricorso a tale pratica sancito dall’art. 12 della legge n. 40 del 2004 sanzionato con apposita previsione di delitto, che nelle condotte poste in essere dai coniugi successivamente alla nascita del bambino con gestazione per altri. Infatti, a seguito della nascita del bambino, i paesi nei quali la gestazione per altri è consentita e disciplinata, rilasciano un certificato di nascita nell’ambito del quale risultano genitori il padre, normalmente il soggetto della coppia legato geneticamente al minore, e la c.d. “madre sociale”. I genitori normalmente si recano quindi con questo certificato presso il consolato e ne chiedono la trascrizione. Proprio da questa richiesta di trascrizione, e dai dubbi in diverse occasioni sollevati dagli ufficiali di stato civile addetti alla trascrizione, sono derivate una serie di contestazioni a carico dei coniugi per il delitto di alterazione di stato. L’analisi delle sentenze della Corte di cassazione sul punto, sia penale che civile, evidenzia l’emergere di una serie di problematiche rilevanti e sensibili, l’interferenza con il diritto privato internazionale e con il concetto di ordine pubblico internazionale.

Quanto alle decisioni della Corte di cassazione penale occorre considerare innanzi tutto Sez. 6, n. 47136 del 17/09/2014, P., Rv. 260996, che ha affermato che ai fini dell’integrazione del delitto di cui all’art. 567, comma secondo, cod. pen., è necessaria un’attività materiale di alterazione di stato che costituisca un "quid pluris" rispetto alla mera falsa dichiarazione, e si caratterizzi per l’idoneità a creare una falsa attestazione, con attribuzione al figlio di una diversa discendenza, in conseguenza dell’indicazione di un genitore diverso da quello naturale. In particolare la Corte ha escluso che la condotta di una madre che si era limitata ad omettere l’indicazione del suo stato matrimoniale all’atto della dichiarazione della nascita del figlio potesse configurare il reato di alterazione di stato, dovendo ravvisarsi invece la fattispecie di cui all’art. 495 cod. pen., in quanto la dichiarazione, pur se non veritiera, non era idonea ad eliminare il rapporto di filiazione effettivamente sussistente tra detto minore e il marito, in forza di quanto stabilito dall’art. 232, comma secondo, cod. civ. In questo caso non ricorreva una ipotesi di gestazione per altri, ma la Corte ha evidenziato come in generale non possa bastare la presentazione di una dichiarazione non veritiera ad integrare il reato, poiché quanto alla discendenza e dunque alla paternità operano presunzioni che non possono essere intaccate da un tale limitato comportamento seppure non lecito. Ed infatti la condotta, pur ritenuta non idonea ad integrare la fattispecie di alterazione di stato, in realtà porta alla diversa ipotesi di cui all’art. 495 cod. pen., essendo stata resa una dichiarazione pacificamente non veritiera. Un ulteriore caso viene affrontato dalla Sez. 6, n. 51662 del 30/10/2014, P., Rv. 261448, che ha analizzato le caratteristiche dell’elemento soggettivo del reato affermando che il delitto di alterazione di stato previsto dall’art. 567, comma secondo, cod. pen., richiede il dolo generico che consiste nella contemporanea presenza nell’agente della consapevolezza della falsità della dichiarazione, della volontà di effettuarla e della previsione dell’evento di attribuire al neonato uno stato civile diverso da quello che gli spetterebbe secondo natura, mentre l’intenzione di favorire il neonato mediante l’attribuzione di un genitore diverso da quello naturale può essere valutata solo per l’eventuale concessione dell’attenuante di cui all’art. 62, n. 1), cod. pen. Il caso si caratterizzava per l’attribuzione da parte della madre al figlio dello stato di figlio naturale del suo attuale compagno, mentre in realtà era stato concepito con il proprio precedente compagno, con il quale si era quasi immediatamente interrotto il suo legame sentimentale. In questo caso la Corte di cassazione si è limitata a rilevare la sostanziale incongruenza della motivazione della sentenza della Corte di appello nella valutazione delle emergenze dibattimentali, in considerazione del riconosciuto atto di attribuzione di paternità naturale, intenzionale e consapevole, ad altro soggetto rispetto al padre genetico. In sostanza la Corte in questa decisione ha voluto precisare che l’eventuale movente positivo, con attribuzione al minore di un genitore sociale che aveva intenzione di occuparsi effettivamente del minore rispetto al padre naturale, non può incidere sull’effettiva integrazione del delitto, ma, tutt’al più, essere preso in considerazione al fine della concessione della circostanza attenuante di cui all’art. 62 comma 1, n.1 cod. pen.

Sez. 6, n. 8060 del 11/11/2015, L. e altro, Rv. 266167, affronta per la prima volta in modo esplicito il tema della contestazione dell’alterazione di stato in caso di “gestazione per altri” ed afferma che non integra il reato di alterazione di stato, non ravvisandosi l’induzione in errore dell’ufficiale di stato civile, la trascrizione in Italia di un falso atto di nascita formato all’estero in forza di una richiesta presentata da parte del solo padre biologico del neonato, corredata da documenti che dimostravano che la madre effettiva del neonato era diversa da quella indicata nell’atto. Dalla motivazione emerge che nel caso concreto dopo la formazione in Ucraina di un falso atto di nascita, alla prima richiesta di trascrizione presentata dagli imputati, coniugi che si dichiaravano genitori del bambino, è seguita una seconda istanza da parte solo del solo padre biologico, con la produzione di documenti che dimostravano chi fosse la madre effettiva del neonato. Tale decisione analizza il caso di una gestazione per altri eseguita in Ucraina con conseguente nascita di un bambino con legami biologici riferibili solo al padre. In primo grado il G.u.p. aveva ritenuto non integrata la condotta contestata per l’innocuità del falso, correlato comunque ad un certificato di nascita formato in coerenza con la lex loci, considerato che erano le stesse parti richiedenti la trascrizione a dimostrare, con documentazione allegata, la ricorrenza di genitorialità sociale per la madre. Il reato esaminato secondo la Corte si concreta in un falso ideologico funzionale ad una alterazione dello status di filiazione ascrivibile al neonato, alterazione che viene a realizzarsi ad esito di una registrazione anagrafica resa, grazie al falso, in termini distonici rispetto al naturale rapporto di procreazione.

Individua la decisione il bene tutelato dalla disposizione, ovvero il complesso interesse sotteso allo stato di filiazione, di natura complessa e relativo sia alla situazione di fatto derivante dalla procreazione, che alla tutela dei rapporti familiari e genitoriali. Ritiene la Corte che per giungersi effettivamente alla integrazione della condotta di alterazione di stato occorre che la condotta di falso si muova “all’interno della formazione dell’atto di nascita”, concretandosi il reato con la registrazione dell’atto stesso.

In tal senso si ritiene la registrazione anagrafica momento di fondamentale importanza per giungere ad una concreta valutazione della condotta di falso, poiché completa e definisce il quadro delle situazioni di fatto e di diritto legate alla veridicità della procreazione destinate a delineare lo status filiationis del minore. Tale considerazione deve però nel caso concreto essere valutata anche tenendo conto della disciplina relativa alla trascrizione in Italia degli atti formati all’estero ex art. 15, comma 2, del d.P.R. n. 396 del 2000. La Corte ritiene, nella propria decisione, che non rilevi al fine della consumazione del delitto di cui all’art. 567, comma secondo, cod. pen. la formazione di atto di nascita in esito a condotte viziate da falsità ideologica che non esondano i confini dello stato nel quale si sono formate, da valutare al massimo in forma tentata ove si determini una mancata trascrizione dell’atto per fattori sopravvenuti non riferibili agli imputati. Viene inoltre particolarmente sottolineato il profilo dell’ordine pubblico e trascrizione dell’atto di nascita con la valutazione sulla responsabilità penale basata sulla considerazione che, per l’ordinamento italiano, lo stato di filiazione trova il proprio presupposto nella coincidenza a monte tra discendenza naturale e emergenza documentale sottesa alla formazione dell’atto di nascita, così che si deve ritenere l’integrazione del reato se la formazione dell’atto di nascita “risulti sfalsata in fatto da effetti distonici anche legittimi in forza di quanto previsto dall’ordinamento straniero”, poiché la disposizione tutela “non solo le situazioni giuridiche consequenziali alla iscrizione anagrafica, ma anche quelle in fatto legate alla verità naturale della procreazione”.

Quanto alla soluzione del caso concreto, la Corte ha ritenuto l’eccentricità della situazione di fatto rispetto al principio affermato, poiché con la seconda richiesta di trascrizione presentata con riferimento al solo padre biologico del bambino, con documentazione allegata, non si è realizzata una effettiva ed incidente condotta di falso da parte dell’imputato, poiché l’ufficiale dello stato civile si determinava autonomamente alla trascrizione in applicazione di principi ed interpretazioni convenzionali. Non veniva dunque sostanzialmente indotto in errore dall’attestazione degli imputati. In conclusione dunque si poteva ritenere astrattamente corretta la contestazione della previsione di cui all’art. 567, comma secondo, cod. pen., ma era da ritenere assente la capacità ingannatoria a causa della concreta emersione del reale legame biologico del minore esclusivamente con il padre.

Una questione analoga risulta affrontata dalla sentenza della Sez. 5, n. 13525 del 10/03/2016, E., Rv. 266672, con una analisi e valutazione dei presupposti giuridici di tale condotta parzialmente diversa dalla precedente decisione.

La Corte in particolare ha affermato che perché possa configurarsi il delitto di cui all’art. 567, comma secondo, cod. pen. la condotta deve comportare una alterazione destinata a riflettersi sulla formazione dell’atto e, pertanto, deve escludersi l’ipotesi delittuosa nel caso di dichiarazioni di nascita effettuate ai sensi dell’art. 15 del d.P.R. n. 396 del 2000, in ordine a cittadini italiani nati all’estero e rese all’autorità consolare secondo le norme stabilite dalla legge del luogo.

In concreto la Corte ha escluso la configurabilità del reato nella condotta dei coniugi che avevano richiesto la trascrizione in Italia dell’atto di nascita del proprio minore, nato in Ucraina a seguito di “gestazione per altri”, esibendo in ambasciata il certificato redatto dalle autorità ucraine che li indicava come genitori, a seguito dell’autorizzazione della madre naturale e della "informazione di relazione genetica".

Nella motivazione viene preliminarmente affrontata la rilevante questione se, per punire secondo la legge italiana il reato commesso all’estero, occorre che si tratti di fatto previsto come reato anche nello stato in cui è stato commesso (c.d. doppia incriminabilità).

Secondo alcune decisioni, specificamente richiamate, tale principio opererebbe esclusivamente ai fini dell’estradizione, mentre in tema di reati commessi all’estero e di rinnovamento del giudizio (art. 7 e seguenti del cod. pen, art. 11 cod.pen.), la qualificazione delle fattispecie penali deve avvenire esclusivamente alla stregua della legge penale italiana, non rilevando la irrilevanza penale del fatto nello stato in cui la condotta è stata posta in essere; mentre per altre decisioni, nel caso di reati commessi all’estero, al di fuori dei casi tassativamente indicati all’art. 7, è condizione imprescindibile ed indispensabile che la condotta sia punibile oltre che dalla legge penale italiana anche dall’ordinamento estero, anche se con nomen iuris diverso.

Nella motivazione si chiarisce come la questione assuma rilevanza nella decisione del caso sottoposto alla Corte ai fini dell’effettivo riscontro della consapevolezza da parte degli imputati della penale perseguibilità della condotta relativa alla “gestazione per altri” sanzionata dalla l. n. 40 del 2004 e non ritenuta illecita dall’ordinamento ucraino, potendo in concreto ricorrere un errore proprio sulla portata applicativa del disposto dell’art. 9 cod. pen.

Richiamato quindi l’orientamento secondo il quale (Sez. 6, n. 35806 del 05/05/2008, G., Rv. 241254) la condotta prevista dall’art. 567 cod. pen. deve comportare un’alterazione destinata a riflettersi sulla formazione dell’atto di nascita, sicché il reato non è configurabile in relazione alle false dichiarazioni incidenti sullo stato civile di una persona rese quando l’atto di nascita è già formato, la Corte rileva come effettivamente non sia riscontrabile nel caso concreto alcuna alterazione di stato del minore nell’atto di nascita, che invece si caratterizza per la sua perfetta legittimità alla stregua della normativa statale di riferimento.

Ciò anche in considerazione della previsione di cui all’art. 15 del d.P.R. n. 396 del 2000, secondo la quale le dichiarazioni di nascita devono essere realizzate, per cittadini italiani nati all’estero, secondo le norme stabilite dalla legge del luogo alle autorità locali competenti, con conseguente invio dell’atto ormai formato all’autorità consolare competente per la trascrizione. Si ritiene dunque una corretta realizzazione dell’atto di nascita, formato legittimamente secondo le previsioni dello stato nel quale si è realizzata la “gestazione per altri”, con conseguente insussistenza non solo del reato di alterazione di stato, ma anche dei reati di cui all’art. 48 e 476 cod. pen., poiché l’ufficiale dello stato civile si è semplicemente limitato a trascrivere un atto regolarmente formato all’estero, relativo a cittadino italiano.

Un passaggio interpretativo ulteriore si coglie nella Sez. 6, n. 48696 del 11/10/2016, PG in proc.M., Rv. 272272, che affronta ancora una volta la condotta relativa ad una “gestazione per altri” realizzata mediante un procedimento di fecondazione assistita di tipo eterologo. Nel caso concreto i giudici della cognizione avevano assolto gli imputati dalla contestazione ex art. 567 cod. pen. perché il fatto non costituisce reato, sia tenendo conto della ammissibilità della gestazione per altri nell’ordinamento ucraino, che della piena e legittima riferibilità dello status di genitori del minore ad entrambi gli imputati secondo la legge dello stato ucraino, ed ancora della conseguente e legittima indicazione nel certificato di nascita della qualità di madre in capo alla c.d. “madre sociale”.

In sostanza è stata ritenuta la piena convinzione in capo agli imputati che le certificazioni di nascita rilasciate dalle autorità Ucraine fossero del tutto regolari, senza alcuna consapevolezza di commettere un’alterazione di stato.

La Corte ritiene fondato e condivisibile il ragionamento dei giudici di merito nel considerare la ricorrenza di un ragionevole dubbio da parte degli imputati, che avevano ritenuto di essere legittimati ad avviare le procedure di trascrizione in Italia dei certificati di nascita, rispetto ai quali risultavano entrambi quali genitori, compresa dunque anche la “madre sociale”.

La Corte ha precisato come nell’impostazione originaria del codice penale la norma era volta a tutelare il diritto del minore a vedersi riconosciuta una discendenza secondo natura, fondata dunque sul rapporto di procreazione; e pur tuttavia chiarisce come l’ambito di tutela e i presupposti per tale incriminazione siano progressivamente mutati in correlazione con l’evolversi del concetto di stato di filiazione, non più legato ad una relazione necessariamente biologica, ma pur sempre considerato quale legame giuridico (con particolare riferimento alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, ormai ammesso anche in forma eterologa a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 162 del 10/06/2014).

Si richiama in motivazione un concetto di filiazione e discendenza non più legato ad un fatto meramente genetico, ma con connotazioni giuridico – sociali, poiché oltre che al legame biologico tra genitori e figlio viene conferita “dignità anche ad un legame di genitorialità in assenza di una relazione genetica, in quanto conseguente al ricorso alle tecniche di fecondazione artificiale (omologa o eterologa)”.

La decisione della Corte si caratterizza dunque per particolare novità ed evoluzione interpretativa nel momento in cui afferma la necessità di tener conto allo stato di un concetto di genitorialità non solo biologica, ma anche “legale”, così come emersa anche dalle decisioni della Corte costituzionale in ordine alle previsioni della legge n. 40 del 2004, dove si è evidenziata una nozione di famiglia formata da figli anche indipendentemente dal dato genetico, come già dimostrato dalla disciplina in materia di adozione, sicché il dato della provenienza genetica non costituisce un imprescindibile requisito della famiglia stessa.

Ed è allora proprio partendo dalle valutazioni della Corte costituzionale e dall’evoluzione del contesto socio – culturale in tema di filiazione che si afferma in motivazione come non possa essere ritenuta la ricorrenza del reato di alterazione di stato nella richiesta di registrazione dell’atto di nascita di un figlio nato a seguito di pratiche di procreazione assistita, seppure in mancanza di un rapporto di discendenza strettamente genetico con il minore, tanto che si ritiene figlio della coppia anche il nato con donazione di gamete sia maschile che femminile, rappresentando per lo Stato italiano unica condizione legittimante per lo stato di filiazione l’intervenuto impianto dell’embrione nell’utero della donna che partorirà. Infatti secondo la disciplina italiana il ruolo di madre viene sostanzialmente riconosciuto solo a colei che effettivamente partorisca il neonato. Quanto alla “maternità surrogata” viene ricordata la previsione ostativa di cui alla legge n. 40 del 2004, ma si evidenzia anche come tale pratica sia consentita e disciplinata formalmente in molti stati europei e non.

Per la prima volta una decisione della Corte di cassazione penale esamina la portata del concetto di ordine pubblico internazionale, anche in considerazione delle diverse decisioni sia della Corte di cassazione civile, che della Corte EDU ( per le c.d. sentenze gemelle del 26 giugno 2014 Mennesson c.Francia e Labassee c. Francia) e, richiamata la disciplina relativa all’inoltro dell’atto di nascita di un minore nato all’estero ai registri dello stato civile (ex art. 15 del d.P.R. n. 396 del 2000) in relazione alla legittimità della gestazione per altri in Ucraina (purché il 50% del patrimonio genetico del minore sia da riferire ad uno dei due genitori committenti), afferma come il certificato di nascita di un bambino nato in Ucraina a seguito di gestazione per altri “deve ritenersi perfettamente legittimo secondo la lex loci”.

Ne consegue a parere della Corte che la presentazione di tale certificato di nascita per la trascrizione non rappresenti in alcun modo una falsa certificazione o attestazione, trattandosi di certificazione legittima secondo la legge del luogo in cui si è realizzata la gestazione per altri. Tali certificati dunque a parere della Corte non costituiscono il frutto di un’attività decettiva, né possono essere ritenuti ideologicamente falsi in quanto validamente formati secondo la legge locale.

Il rilascio del certificato non ha dunque richiesto alcun artificio o raggiro, considerato che secondo la legge ucraina la “madre sociale” è da ritenersi a pieno titolo madre del minore per il quale si richiede la trascrizione dell’atto di nascita.

Afferma quindi in conclusione la Corte, superando la soluzione dei giudici della cognizione, che, non ricorrendo alcuna falsità si deve ritenere non integrata la materialità del reato di alterazione di stato.

Le argomentazioni della Corte in questo caso si presentano più ampie e consapevoli dell’intenso dibattito articolatosi anche in sede civile in ordine alla valutazione della autorità amministrative circa la trascrivibilità o meno del certificato di nascita, legittimo, nel registro dello stato civile.

Sul tema della “gestazione per altri”, e della conseguente alterazione di stato quale ipotesi di delitto contestata ai genitori committenti, occorre anche ricordare infine un caso particolarmente interessante e noto, il c.d. caso Paradiso Campanelli.

Su tale caso si è pronunciata la Grand Chambre della Corte EDU in data 24/01/2017 adita dal governo italiano a seguito della decisione della Corte EDU, seconda sezione, del 27/01/2015.

In prima istanza la Corte aveva ritenuto la ricorrenza di una violazione convenzionale ex art. 8 CEDU a carico dello Stato italiano per aver allontanato il bambino dai genitori committenti e per aver così violato la vita familiare de facto ricorrente tra Paradiso e Campanelli e il minore nato in Russia a seguito di “gestazione per altri”, si noti bene, in questo caso, in assenza di qualsiasi legame genetico con i due committenti.

La Grand Chambre interviene sul ricorso del governo italiano attenendosi ad una soluzione incentrata in modo ristretto sulla soluzione del caso concreto, evitando qualsiasi affermazione di carattere generale sull’insieme di complesse questioni che si possono considerare parte della situazione esaminata.

Non viene dunque affrontata né la questione relativa alla trascrizione di certificato di nascita straniero legittimamente formatosi all’estero, né la questione del riconoscimento della filiazione di minore nato all’estero da maternità surrogata, né ancora il tema della legittimità di tale pratica.

In sostanza l’interpretazione della Grand Chambre si è incentrata sul non ritenere ricorrente l’esistenza di una vita familiare a causa del minimo periodo di convivenza che aveva caratterizzato il rapporto tra la Paradiso e il Campanelli e il minore nato da maternità surrogata, valorizzando l’assenza di qualsiasi legame genetico tra genitori e minore.

Si sottolinea inoltre nella decisione come la reazione, ritenuta tempestiva, delle autorità italiane è stata in realtà determinata proprio dalla condotta posta in essere dai ricorrenti per avere fatto ricorso ad una tecnica vietata nell’ordinamento italiano. Si è dunque affermata l’inesistenza di una vita familiare da tutelare nel caso concreto, senza tuttavia entrare nel merito circa l’eventuale illegalità del fatto che dava origine a tale convivenza.

In sostanza la Grand Chambre, analizzando la portata dell’art. 8, par.2, della CEDU, in correlazione con l’art. 5 della Convenzione di L’Aja, ha ritenuto corretta la condotta delle autorità di italiane, secondo le quali nel caso in esame doveva essere applicata la disciplina della filiazione ai sensi della legge nazionale del bambino al momento della nascita, a prescindere dalla legittimità del certificato di nascita rilasciato dalle autorità russe, così che si doveva ritenere sconosciuta la nazionalità del bambino non essendo noti i donatori del materiale genetico, con conseguente dichiarazione dello stato di abbandono del minore e collocazione dello stesso in struttura protetta.

La Grande Chambre ha ritenuto che l’intervento dello Stato italiano conseguisse ad un bisogno imperante derivante dal sostanziale stato di abbandono del minore, senza affermare alcunché in ordine al complesso contesto nel quale maturava la condotta dei ricorrenti.

L’elemento centrale della valutazione sia della Corte EDU che delle autorità italiane è rappresentato nel caso in esame dalla assenza di qualsiasi legame genetico tra i ricorrenti e il bambino, con conseguente violazione della normativa italiana in tema di adozione e procreazione medicalmente assistita.

La Grande Chambre richiama l’effettivo coinvolgimento nella decisione di questioni eticamente sensibili, rispetto alle quali gli Stati godono di margine ampio di apprezzamento e discrezionalità, ma chiarisce come questa decisione non possa essere assimilato, in presenza di consistenti differenze, ai casi esaminati dalle c.d. sentenze gemelle, dove si era ritenuta la violazione della previsione dell’art. 8 CEDU nel comportamento delle autorità francesi che avevano impedito e rifiutato la trascrizione del certificato di nascita di un minore nato da maternità surrogata, ma in presenza di un legame genetico con il padre, e dunque di una legittima forma di filiazione.

Nel caso Paradiso – Campanelli la decisione inoltre considera come elemento aggiuntivo al fine di ritenere corretto il comportamento delle autorità italiane la circostanza che entrambi i genitori committenti avessero superato il limite di età consentito ai fini dell’adozione.

In conclusione la legittimità del comportamento delle autorità viene affermata in considerazione di una articolata valutazione e bilanciamento di interessi in considerazione del primario interesse di protezione del minore.

In epoca recente Sez.6, 10/01/ 2019, n. 4854, non massimata, ha affermato che non è configurabile il reato di alterazione di stato nel caso in cui la dichiarazione circa la paternità del nato venga resa dalla madre, sottopostasi a fecondazione eterologa, senza tener conto della revoca tardiva del consenso prestato dal marito, intervenuta dopo la fecondazione dell’ovulo e, pertanto, dopo la scadenza del termine previsto dagli art. 6 e 9 della l. n. 40 del 2004. Nel caso concreto la Corte ha annullato senza rinvio perché il fatto non sussiste la condanna pronunziata dalla Corte di appello in riforma della sentenza del Tribunale.

Il profilo di particolare interesse è rappresentato dalla circostanza che nel corso del giudizio penale era intervenuto un giudicato civile che aveva rigettato la domanda di disconoscimento di paternità del coniuge rispetto all’accesso da parte della moglie a tecniche di fecondazione eterologa presso stato estero.

Nel caso concreto la Corte ha affermato la rilevanza del giudicato civile ex art. 3, comma 4, cod. proc. pen., sottolineando come il consenso non fosse stato revocato secondo le modalità e nei termini previsti dall’art. 6 della l. n . 40 del 2004, ovvero sino al momento della fecondazione dell’ovocita, disposizione certamente applicabile al caso di fecondazione eterologa a seguito della decisione della Corte costituzionale n. 162 del 2014, che aveva legittimato il ricorso a tale tecnica procreativa anche in Italia.

La decisione sottolinea inoltre la posizione di principalità dell’interesse del minore nel caso in cui lo stesso sia stato generato con tecniche di procreazione medicalmente assistita eterologa, tanto che anche durante la vigenza dell’originario divieto di applicazione di tecniche di PMA eterologa il consenso del coniuge poteva essere ricavato anche da atti concludenti, con preclusione dell’azione di riconoscimento della paternità.

Ne consegue, a parere della Corte, come la paternità dichiarata dalla madre al momento della nascita non potesse essere ritenuta una falsa dichiarazione, proprio perché, come correttamente evidenziato in primo grado, non ricorreva alcuna prova di una valida revoca del consenso.

In tal senso viene pienamente condiviso nella decisione il ragionamento del giudice di primo grado, che aveva sottolineato che, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 162 del 2014, la qualità di genitore prescinde dalla diretta discendenza e dal rapporto biologico, proprio perché il nato da tecniche di pma eterologa acquisisce, ex art. 8, lo status di figlio nato durante il matrimonio, poiché l’art. 8 della l. n. 40 del 2004 deve essere considerato quale norma extrapenale integrativa del precetto penale di cui all’art. 567 cod. pen.

Questa decisione recepisce in modo coerente all’evoluzione della giurisprudenza costituzionale e comunitaria il principio di assoluta prevalenza del diritto del minore alla propria identità personale e chiarisce che, ormai, anche in caso di procreazione medicalmente assistita eterologa, valgono i termini per la revoca del consenso previsti per la omologa, aggiungendosi tale previsione alla tutela già prevista originariamente dal legislatore per il nato da eterologa come nato da matrimonio ex art. 8.

Un concetto, quello evidenziato da questa decisione di paternità ampia, sociale e d’intenzione, che sembra di fatto scontrarsi con l’interpretazione restrittiva fornita dalla Sezioni Unite civili della Corte di cassazione che hanno ritenuto, sebbene in caso di “maternità surrogata”, il diritto del minore all’ingresso nella famiglia di intenzione recessivo rispetto a principi di ordine pubblico, ritenuti di portata superiore, sebbene contenuti in normazione ordinaria e recepiti nell’ambito dell’art. 12 della l. n. 40 del 2004.

Solo con l’adozione per casi particolari il diritto del minore a vedere riconosciuta la propria relazione con i genitori sociali e di intenzione, che sono consapevolmente e volontariamente ricorsi alla “gestazione per altri” per realizzare il proprio progetto genitoriale, potrà trovare tutela.

Tale soluzione, sebbene restrittiva rispetto a gran parte della risalente e precedente giurisprudenza di merito, trova un suo autorevole appiglio nel parere della Grande Chambre intervenuto su questo tema, che ha chiarito che il diritto alla protezione del migliore interesse del minore è senz’altro centrale in questa materia, ma ricorre comunque un apprezzabile margine di discrezionalità del legislatore nel rendere possibile la realizzazione di tale diritto, non necessariamente con un riconoscimento diretto del ruolo di genitore di intenzione, ma con l’utilizzo dello strumento della adozione in casi particolari.

3. L’ordine pubblico internazionale: evoluzione interpretativa dei giudici di merito e della Corte di cassazione civile.

La particolarità delle questioni affrontate richiede, per completezza, una considerazione comparativa delle decisioni della giurisprudenza civile, sia di merito che di legittimità, su di una serie di questioni attinenti all’ordine pubblico internazionale che certamente possono essere di supporto per completare la considerazione delle decisioni della Corte di cassazione penale in tema di alterazione di stato.

Infatti tra i delitti previsti e disciplinati dalla legge n. 40 del 2004 particolari problemi interpretativi sono riferibili alla surrogazione di maternità o alla c.d. “gestazione per altri”. Questo argomento coinvolge diverse visioni e prospettive a carattere bioetico ed, in particolare, una riflessione volta ad arginare qualsiasi forma di sfruttamento del corpo della donna. In generale si è ritenuto esteso il divieto di surrogazione di maternità a qualunque forma di fecondazione nel caso di gestazione per altri (sia in vivo che in vitro), quindi anche nel caso in cui si voglia impiantare l’embrione della coppia in utero di donna portante. Tale divieto comprende come destinatari della sanzione tutti i soggetti coinvolti, la coppia committente, la donna gestante.

In generale dunque nel disciplinare tali delitti emerge come la finalità del legislatore sia da individuare nella tutela della dignità dell’essere umano (in considerazione della c.d. irripetibilità del genoma).

Una delle prime pronunce da segnalare, in materia di surrogazione di maternità, riferibile ad epoca precedente all’entrata in vigore della legge n. 40 del 2004, è la sentenza del Trib. di Monza 27.10.1989, che ha rappresentato il primo caso giurisprudenziale di “gestazione per altri”. In particolare, a seguito della sottoscrizione di un contratto di surrogazione e della corresponsione del corrispettivo pattuito, la madre gestante rifiutava di consegnare il bambino ai committenti. In mancanza di un’esplicita disciplina, il Tribunale - in applicazione delle regole generali in materia di diritto di famiglia, secondo le quali la nascita trova il suo presupposto nell’effettiva ricorrenza di un rapporto sessuale tra un uomo e una donna e considerato il disposto di cui agli art. 2 e 30 della Cost. – ha affermato l’infungibilità dei doveri morali ed economici dei genitori di sangue, con conseguente diritto del minore di vivere appunto solo in questa famiglia, senza alcun diritto per una eventuale famiglia sostitutiva.

La sentenza afferma anche come non si possa ritenere la ricorrenza di un diritto alla procreazione come aspetto particolare del più generico diritto della persona, così come di un diritto alla genitorialità, anche perché un contratto quale quello di surrogazione di maternità dovrebbe essere considerato realizzato in evidente violazione dell’art. 5 c.c. Caratterizzata da particolare innovatività nell’approccio interpretativo è l’ordinanza del Tribunale di Roma del 17.2.2000, secondo la quale il negozio atipico di maternità surrogata a titolo gratuito - in quanto diretto a realizzare un interesse (l’aspirazione della coppia infeconda alla realizzazione come genitori) meritevole di tutela secondo l’ordinamento giuridico e non in contrasto con la disciplina relativa agli status familiari, né con il divieto di atti di disposizione del proprio corpo - è pienamente lecito.

Richiama il Tribunale l’opportunità di inserire il processo interpretativo e le forme di tutela in un’ottica che concepisce la società come organismo in continua evoluzione.

In conclusione si rileva come le funzioni tradizionalmente svolte da una sola donna possano essere svolte anche da donne diverse, la madre genetica che mette a disposizione l’ovocita e la madre gestante che accoglie l’embrione, intaccando dunque il principio della certezza della derivazione materna.

Nell’ambito di tale sequenza la riferibilità del concetto di maternità trova una sua fondamentale soluzione nel concetto di “maternità responsabile”, nell’ambito di un più ampio progetto familiare.

Sul tema della “gestazione per altri” da considerare è anche l’interpretazione della Corte di appello di Bari del 25.2.2009, che ha ammesso il riconoscimento nell’ambito del nostro ordinamento del “parental order” emesso dal giudice inglese relativamente alla richiesta inoltrata da genitori di minori nati per surrogazione di maternità.

Dalla motivazione della sentenza emerge chiaramente che, ai fini del riconoscimento nello Stato Italiano dei “parental order” resi nel Regno Unito in forza dei quali è riconosciuta ad una donna la maternità c.d. surrogata su un bambino, deve farsi riferimento alla nozione di ordine pubblico internazionale; a tal fine, il solo fatto che la legislazione italiana vieta, oggi (ma non all’epoca in cui i minori sono nati), la tecnica della maternità surrogata, ed il sol fatto che essa è ispirata al principio (tra l’altro, tendenziale, e, in taluni casi, derogabile), della prevalenza della maternità “biologica” su quella “sociale”, non sono, di per sé, indici di contrarietà all’ordine pubblico internazionale, a fronte di legislazioni (come quella inglese, e quella greca) che prevedono deroghe a tale principio.

Inoltre, ai fini del riconoscimento, o del mancato riconoscimento, dei provvedimenti giurisdizionali stranieri citati, deve aversi prioritario riguardo all’interesse superiore del minore (art. 3 della legge 27 maggio 1991, n. 176, di ratifica ed esecuzione della convenzione sui diritti del fanciullo, fatta in New York 20 novembre 1989), costituente anch’esso parametro di valutazione della contrarietà o meno all’ordine pubblico internazionale, principio ribadito in ambito comunitario, con particolare riferimento al riconoscimento delle sentenze straniere nella materia dei rapporti tra i genitori e i figli, dall’art. 23 del Reg. CE n. 2201/2003, che espressamente stabilisce che la valutazione della “non contrarietà all’ordine pubblico” debba essere effettuata “tenendo conto dell’interesse superiore del figlio”.

La Corte richiama in modo approfondito impostazioni e interpretazioni in ordine alla portata, liceità e consistenza del contratto di gestazione per altri, evidenziando una prima teoria -secondo la quale dovrebbe sempre prevalere il rapporto di parentela derivante dal parto del bambino, a prescindere da chi abbia fornito il materiale genetico, in considerazione della ritenuta maggiore intensità del rapporto che si instaura tra la madre e il nascituro durante la gestazione in applicazione del disposto di cui all’art. 269 cod.civ. – contrastata da altre e più recenti impostazioni secondo le quali l’interpretazione e valutazione deve tenere conto dell’evoluzione tecnica e scientifica che ha portato alla emersione e al riconoscimento del concetto di genitorialità sociale, con necessaria considerazione e valutazione prioritaria dell’interesse del minore. Richiama nelle proprie conclusioni la disciplina ex art. 33 della l. 31 maggio 1995 n. 218 in correlazione con il concetto di ordine pubblico internazionale, da interpretarsi in relazione al prevalente interesse del minore.

Cass. civile, Sez. 6 – 1, del 18/06/2013, n.15234, Rv. 627113, affronta il concetto di ordine pubblico, richiamando la previsione di cui all’art. 33 della l. 31 maggio 1995 n. 218, e dunque il necessario riferirsi nell’ambito di tali valutazioni ai provvedimenti accertativi ed alle statuizioni giurisdizionali dello stato estero di nascita, senza possibilità per il giudice italiano di sovrapporre a quegli accertamenti fonti di informazione estranee o nazionali. In senso del tutto opposto alle interpretazioni e considerazioni che precedono si è invece pronunziata Cass. civ., Sez.1, del 11/11/2014, n. 24001, Rv. 633634, secondo la quale l’art. 12, comma 6, della legge n. 40/2004 ha escluso la conformità all’ordine pubblico del contratto di surrogazione di maternità, in ragione della tutela costituzionalmente garantita alla dignità umana della gestante e considerato che, nell’interesse superiore del minore, l’ordinamento giuridico affida la realizzazione di un progetto di genitorialità privo di legame biologico con il nato esclusivamente all’istituto dell’adozione e non al mero accordo tra le parti. Tuttavia occorre considerare come il caso affrontato dalla Corte si presentasse alquanto particolare non ricorrendo alcun tipo di legame genetico tra il minore e i committenti ed essendo stati dichiarati i committenti più volte inidonei all’adozione. La sentenza richiama in motivazione la decisione della Corte EDU, quinta sezione, del 26.6.2014 (Mennenson c. Francia) e la motivazione gemella (Labassee c. Francia). Con queste decisioni la Corte europea ha riconosciuto la violazione dell’art. 8 della Convenzione, diritto al rispetto della vita privata e familiare, nel caso di rifiuto delle autorità nazionali di riconoscere valore legale alla relazione tra un padre e i suoi figli biologici, nati all’estero a seguito di accordo per surrogazione di maternità. Anche in questo caso le autorità francesi, nonostante la legittimità e regolarità della pratica di surrogazione negli Stati Uniti, avevano rifiutato di procedere alla trascrizione degli atti di nascita nel registro dello stato civile, rilevando una contrarietà all’ordine pubblico. La violazione dell’art. 8 è stata riferita in particolare non tanto al diritto alla vita privata dei ricorrenti, ma bensì in relazione al diritto dei minori, venendo in rilievo una serie di obblighi negativi, ricadenti in capo ai diversi stati ex art. 8 della Convenzione. I minori sostanzialmente si troverebbero in una situazione d’incertezza giuridica a causa del mancato riconoscimento del loro status di figli della coppia committente la surrogazione di maternità, mentre si deve sempre considerare che la cittadinanza è un importante elemento che definisce l’identità di ciascuna persona. Ugualmente la Corte richiama la circostanza che una tale ingerenza da parte dello Stato, consistente nel mancato riconoscimento e trascrizione dell’atto di nascita, inciderebbe irrimediabilmente su diritti successori dei minori, modificando il diritto degli stessi alla definizione della loro rispettiva identità, ivi compresi i rapporti di parentela. Questo insieme di considerazioni assume poi ancor maggiore pregnanza nel caso in cui uno dei due committenti sia anche legato biologicamente ai minori. La Corte di appello di Milano con decreto del 28.12.2016 ha ordinato la trascrizione dell’atto di nascita formato in California, relativo a due minori nati tramite gestazione per altri con parto gemellare mediante uso di donatrice per i due ovociti fecondati rispettivamente dai due diversi padri, regolarmente conviventi tra loro. Anche in questo caso la Corte di appello, richiamando principi già espressi a livello europeo, ha chiarito come l’eventuale ricorso alla maternità surrogata non può incidere su diritti fondamentali del minore all’identità personale e sociale, proteggendo così il suo superiore interesse ad un corretto collocamento nel progetto genitoriale inizialmente intrapreso dai due padri.

Proseguendo nella considerazione della giurisprudenza civile occorre richiamare anche Sez. 1, n. 19599 del 30/09/2016, Rv. 641310, che, con una motivazione ampia e diffusa, ha confermato l’ordine di trascrizione dell’atto di nascita relativo a due madri unite all’estero in matrimonio omosessuale (minore partorito da una delle due donne a seguito di ovodonazione da parte della moglie) ed ha evidenziato un concetto di ordine pubblico a carattere più ampio, ed integrato evidentemente a livello eurounitario, secondo un giudizio che non deve risolversi in una verifica mera della conformità dell’atto al diritto interno, ma bensì deve giungere ad un controllo di compatibilità con l’ordine pubblico internazionale, come complesso di principi derivanti da esigenze di tutela dei diritti fondamentali dell’uomo desumibili dalla carta costituzionale, dai trattati fondativi e dalla Carta dei diritti fondamen-tali dell’Unione europea, nonché dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Emerge dunque un nuovo e contrapposto concetto di ordine pubblico rispetto alle precedenti pronunzie della Corte, secondo un concetto qualificato da consistenti interazioni tra diversi ordinamenti giuridici e livelli di tutela. Non più ordine pubblico inteso come limite in senso prettamente difensivo, ma quale metodo di interazione tra ordinamento interno e ordinamento internazionale sulla base di principi condivisi, che non necessariamente debbono essere formalizzati in norme interne.

Il principio di diritto enunciato nella sentenza chiarisce come il giudice italiano chiamato a valutare la compatibilità predetta deve verificare non già se l’atto straniero applichi una disciplina della materia conforme o difforme rispetto a norme interne, bensì se esso contrasti o meno con le esigenze di tutela dei diritti fondamentali dell’uomo. Anche in questo caso si richiama la particolare rilevanza della protezione del superiore interesse del minore (ad essere figlio di entrambe le madri, in applicazione del principio ex art. 24 della Carta dei diritti UE che afferma la ricorrenza di un diritto a mantenere rapporti significativi con entrambi i genitori a prescindere dal loro sesso o orientamento sessuale). Si afferma l’irrilevanza del modo in cui il minore sia venuto al mondo, rispetto all’esigenza di tutelare il minore stesso quanto alla certezza dei rapporti giuridici che lo riguardano e alla piena protezione della sua identità personale e sociale. Lo status di figlio dunque permane, e così il diritto alla conservazione dello stesso inalterato, a prescindere dall’eventuale condotta illecita posta in essere da terzi, che ha determinato la nascita del minore. Emerge dunque una sostanziale irrilevanza della modalità di nascita rispetto alla possibile trascrizione dell’atto di nascita conseguente a surrogazione di maternità lecitamente praticata in altro stato.

Sul tema deve inoltre essere segnalato il parere, prima citato, reso dalla Corte EDU, grande Camera, in data 9 aprile del 2019. Il parere, sollecitato dalla magistratura francese proprio in tema di maternità surrogata e trascrizione del conseguente atto di nascita in favore della madre sociale, espone delle riflessioni assai interessanti, evidenziando il processo di continua costruzione di nuovi diritti in favore di minori nati da gestazione per altri. Nel caso concreto, quanto ad un minore nato all’estero da gestazione per altri con materiale biologico del solo padre, era stata riconosciuta dallo Stato francese la possibilità di trascrizione dell’atto di nascita in favore del padre, senza tuttavia consentire analoga tutela alla madre di intenzione. Il quesito pone quindi la questione se tale limite alla trascrizione dell’atto di nascita nei confronti della “madre sociale” determini un superamento da parte dello Stato del margine di apprezzamento a sua disposizione ex art. 8 della CEDU, e se comunque occorra sempre distinguere se il bambino sia stato procreato con i gameti della madre o meno. Nel parere la Corte ha comunque evidenziato in via prioritaria il principio della “necessaria realizzazione del migliore interesse del minore”, sottolineando tutti quelli che potrebbero essere gli effetti negativi derivanti dal mancato riconoscimento per il minore del suo rapporto con la madre di intenzione, con conseguente rilevanza anche dell’interesse del minore alla stabilità della relazione ambientale con la madre sociale. Il parere ha dunque affermato che in applicazione dell’art. 8 della CEDU si deve ritenere che lo Stato contraente sia tenuto a fornire riconoscimento alla relazione tra il minore e la madre sociale o d’intenzione, una tutela questa che deve essere riconosciuta a maggior ragione quando sia stato generato mediante gestazione per altri realizzata anche con materiale biologico della madre di intenzione. È dunque obbligo dello Stato contraente, secondo il parere richiamato, considerare la particolare posizione del minore che richiede necessariamente l’adozione di una serie di strumenti di protezione della sua condizione di vulnerabilità. In tal senso devono essere apprestati dei mezzi di tutela, che tuttavia non necessariamente coincidono con la trascrizione dell’atto di nascita in favore della madre sociale, potendo lo strumento di tutela anche essere rappresentato dal procedimento di adozione, purchè gli effetti che saranno prodotti dall’adozione possano essere effettivamente considerati analoghi o simili a quelli del riconoscimento legale nell’atto di nascita, mediante attribuzione in tempi rapidi di un effettivo status volto ad eliminare lo stato di incertezza quanto alla condizione del minore. Dunque, tenendo conto dell’ampio margine di apprezzamento attribuito sul punto ai singoli Stati quanto all’apprestare effettiva tutela alla relazione figlio e madre di intenzione, la Corte EDU ha chiarito come lo strumento della registrazione dell’atto di nascita possa non essere l’unico strumento predisposto dall’ordinamento, potendosi ad esso aggiungere la procedura di adozione, purchè la protezione apprestata sia immediata ed efficace considerato il superiore interesse del minore. Spetterà sempre al giudice nazionale verificare la portata del superiore interesse del minore in relazione al singolo caso concreto.

Sul medesimo tema della valutazione del superiore interesse del minore, e della portata del concetto di ordine pubblico in tema di “gestazione per altri”, occorre segnalare la decisione delle Sez. U. del 12/05/2019, n. 12193, Rv. 659331 – 03, Rv. 659331 - 04 secondo la quale il riconoscimento dell’efficacia del provvedimento giurisdizionale straniero con cui sia stato accertato il rapporto di filiazione tra un minore nato all’estero mediante il ricorso alla maternità surrogata ed il genitore d’intenzione munito della cittadinanza italiana trova ostacolo nel divieto della surrogazione di maternità previsto dall’art. 12, comma 6, della legge n. 40 del 2004, qualificabile come principio di ordine pubblico, in quanto posto a tutela di valori fondamentali, quali la dignità umana della gestante e l’istituto dell’adozione.

La tutela di tali valori, non irragionevolmente ritenuti prevalenti sull’interesse del minore, nell’ambito di un bilanciamento effettuato direttamente dal legislatore, al quale il giudice non può sostituire la propria valutazione, non esclude peraltro la possibilità di conferire rilievo al rapporto genitoriale, mediante il ricorso ad altri strumenti giuridici, quali l’adozione in casi particolari, prevista dall’art. 44, comma primo, lett. d), della legge n. 184 del 1983. Le Sezioni Unite civili hanno inoltre affermato che in tema di riconoscimento dell’efficacia di un provvedimento giurisdizionale straniero, la compatibilità con l’ordine pubblico, ai sensi dell’art. 64, comma 1, lett. g), della l. n. 218 del 1995, deve essere valutata non solo alla stregua dei princìpi fondamentali della Costituzione e di quelli consacrati nelle fonti internazionali e sovranazionali, ma anche del modo in cui detti princìpi si sono incarnati nella disciplina ordinaria dei singoli istituti e dell’interpretazione fornitane dalla giurisprudenza costituzionale e ordinaria, la cui opera di sintesi e ricomposizione dà forma a quel diritto vivente, dal quale non può prescindersi nella ricostruzione della nozione di ordine pubblico, quale insieme dei valori fondanti dell’ordinamento in un determinato momento storico.

Investita di questione ritenuta di massima particolare importanza, la Corte ha affrontato il caso di una coppia omossessuale che aveva fatto ricorso alla “gestazione per altri”, alla quale era seguita la nascita di due gemelli, con attribuzione della paternità anche al genitore di intenzione non legato biologicamente ai due minori, ma stabilmente legato al padre biologico. L’ufficiale dello Stato civile italiano aveva immediatamente trascritto l’atto di nascita con riferimento al genitore biologico, mentre aveva rigettato la richiesta per il padre d’intenzione ritenendolo contrario all’ordine pubblico, considerato che secondo la normativa statale interna i genitori devono essere di sesso diverso. La decisione, ha realizzato un’approfondita analisi e ricostruzione del concetto di ordine pubblico internazionale, sottolineando la necessaria distinzione di tale concetto da quello di ordine pubblico interno, considerato il coinvolgimento di valori giuridici condivisi dalla comunità internazionale per la tutela di diritti fondamentali.

Nel giungere ad una definizione di ordine pubblico internazionale, la Corte ha richiamato la decisione delle Sez. U. del 05/07/2017, n. 16601, Rv. 644914, in tema di danni punitivi, accedendo ad una lettura integrata a tal fine anche dei principi ivi enunciati, considerato che proprio il caso concreto deciso evidenziava la necessità di tenere conto, nell’individuazione dei principi di ordine pubblico, del modo in cui i predetti valori si sono concretamente incarnati nella disciplina dei singoli istituti.

È stato dunque affermato che, nella determinazione del contenuto del concetto di ordine pubblico, occorre riferirsi non solo ai principi contenuti nelle Carte, ma anche alla “disciplina ordinaria” e all’interpretazione che della stessa viene data dal diritto vivente, dalla cui valutazione non si può prescindere nell’individuazione di quell’insieme di valori fondanti dell’ordinamento in un dato momento storico.

Nell’affermare questi principi le Sezioni Unite Civili della Corte hanno richiamato il divieto, sanzionato penalmente, di cui all’art. 12, comma 6, della l. n. 40/2004.

In concreto tale divieto è stato ritenuto di stringente attualità ed espressione di valori fondanti dell’ordinamento interno, proprio a causa dell’oggettiva necessità di distinguere la maternità surrogata dalla fecondazione eterologa.

Tale divieto penale è stato dunque ritenuto espressione di un principio generale di ordine pubblico, come chiarito anche dalla decisione n. 272 del 2017 della Corte costituzionale, considerato che tale pratica offenderebbe in modo intollerabile la dignità umana e fa dunque riferimento a valori superiori e fondanti. Ne consegue l’impossibilità di trascrivere un provvedimento straniero che di fatto riconosca la pratica della maternità surrogata, attribuendo la paternità anche al genitore d’intenzione privo di legami biologici con il minore.

In tale contesto, secondo le Sezioni Unite Civili della Corte, il principio di ordine pubblico emergente dalla previsione di cui all’art. 12 non si pone in contrasto con il superiore interesse del minore, sia perché tale interesse è stato ritenuto valore non assoluto, con conseguente possibilità di affievolimento rispetto ad altri valori a carattere primario, sia perché un tale bilanciamento di interessi rientra nella piena discrezionalità del legislatore anche secondo i canoni della Corte EDU, nonché in considerazione del fatto che l’interesse del minore a restare parte del nucleo familiare in piena relazione con il genitore di intenzione, anche omosessuale, è pur sempre tutelabile attraverso l’adozione in casi particolari di cui all’art. 44, comma 1, lett. d) della l. n. 184 del 1983 (in tal senso Cass. Sez. 1, n. 12962 del 2016 sopra citata).

Le Sezioni Unite hanno dunque concluso che gli effetti del riconoscimento del provvedimento straniero, di cui è stata chiesta la trascrizione, si pongono in contrasto con l’ordine pubblico ai sensi dell’art. 64, comma 1, lett. g), della l. n. 218 del 1995.

Questa decisione si segnala dunque per una lettura diversa delle sentenze via via intervenute sul concetto di ordine pubblico internazionale, di fatto riduttiva rispetto alle precedenti interpretazioni sia di merito che di legittimità, considerando principio fondante del nostro ordinamento il divieto di maternità surrogata previsto dalla l. n. 40 del 2004 e, conseguentemente, ritenendo recessivo sul punto il diritto alla propria identità familiare del minore nato da tecniche di procreazione medicalmente assistita mediante il supporto di una “gestazione per altri” praticata all’estero.

Appare evidente come il sistema sanzionatorio della l. n. 40 del 2004 venga considerato dalla decisione in analisi quale principio fondante dell’ordine pubblico internazionale, tanto da non consentire nel caso concreto il riconoscimento dell’atto di nascita legittimamente formatosi all’estero, portando di fatto la coppia di genitori sociali obbligatoriamente verso il sistema della adozione in casi particolari, sistema assai complesso e di maggiore durata per giungere al riconoscimento dei diritti del minore nato da gestazione per altri.

La decisione sembra dunque porsi in continuità con una serie di osservazioni che tendono a ritenere punto di snodo decisivo il principio personalistico a fronte del diritto del minore ad un suo complessivo benessere, consistente nell’inserimento nella propria famiglia di intenzione. La norma di natura ordinaria, la previsione sanzionatoria in tema di “gestazione per altri”, assume dunque una portata quanto meno equivalente ai principi costituzionali volti a garantire un progetto familiare a prescindere dall’orientamento sessuale dei soggetti che hanno fatto ricorso alla gestazione per altri.

In conclusione si deve poi dar conto di due ulteriori decisioni da analizzare.

In primo luogo la chiusura definitiva del caso Mennenson, sempre in tema di divieto di maternità surrogata e interesse del minore, tenuto conto dell’arret n. 648 della Cour de cassation francese in assemblea plenaria in data 4 ottobre 2019. Il caso relativo alle due gemelle, oggi diciannovenni, nate da gestazione per altri praticata in California, è noto. La Corte di cassazione francese si è avvalsa del Protocollo addizionale n. 16 alla Convenzione, ratificato in Francia in epoca recente, ed ha sottoposto una serie di questioni alla Corte EDU, che sono poi stati affrontati con il parere appena citato.

Tenuto conto delle indicazioni contenute nel parere la Corte di cassazione ha deciso in modo tranchant la questione, pur essendo garantito sulla base del parere il diritto dello stato membro di vietare la gestazione per altri, ed ha rigettato definitivamente la richiesta originariamente proposta di annullare la trascrizione dell’atto di nascita delle due gemelle, prendendo quindi atto dell’intervenuta trascrizione. La Corte di cassazione francese ha ritenuto non adeguato applicare al caso in questione il suggerimento relativo all’avvio di una pratica di adozione, considerato che il tempo trascorso, il consolidamento dello status filiationis, riconosciuto in un certificato, sebbene non trascritto, rappresentano elementi consolidati che, ove intaccati dall’avvio di una complessa procedura di adozione, inciderebbero in modo sproporzionato il diritto alla vita privata e familiare delle persone coinvolte. Emerge dunque la ratio della decisione, incentrata sul non alterare una situazione familiare ormai consolidata, ma non così diretta tuttavia, per il portato motivazionale della pronuncia, di un caso che renda impossibile o superata la possibilità di ricorrere in altri casi simili, ma caratterizzati da diversa durata, al procedimento di adozione. Tale decisione appare certamente assai rilevante, ma lascia aperta una riflessione relativa alla rilevanza dell’elemento volontaristico nella determinazione e costituzione dello status filiationis, concetto questo preso in considerazione, solo per casi particolari, dalla disciplina della l. n. 40 del 2004 ( art. 9), mentre occorre considerare come anche nel procedimento di adozione speciale per minori l’assunzione della responsabilità genitoriale non consegue alla manifestazione di consenso dei genitori (che rendono una mera dichiarazione di disponibilità), ma da un provvedimento giurisdizionale secondo le procedure e i presupposti disciplinati dalla l. n. 184 del 1983. D’altra parte la stessa Corte costituzionale, con la decisione n. 162 del 2014, ha chiarito come, ritenendo ammissibile la procreazione medicalmente assistita a carattere eterologo, il dato della provenienza genetica non rappresenti un requisito imprescindibile quanto alla costituzione della famiglia, potendosi tale libertà esplicare nell’ambito di determinati limiti, rappresentati dalla compatibilità con l’ordine pubblico delle attività poste in essere per realizzare la propria aspirazione alla costituzione del proprio nucleo familiare come formazione sociale. Nello stesso senso si è di fatto orientata la Corte di cassazione con l’ultima decisione a Sezioni Unite sopra richiamata, che ha sottolineato come la legislazione specifica in tema di illegittimo ricorso alla pratica della maternità surrogata integri la violazione di un principio di ordine pubblico, senza che venga cancellato l’interesse del minore, ma di fatto realizzandosi in casi del genere un affievolimento dello stesso, cessando così di avere rilevanza ed efficacia il principio di autoresponsabilità fondato sul consenso, con prevalenza del favor veritatis.

In secondo luogo, occorre tener conto della decisione della Corte costituzionale n. 221 del 2019, con la quale la Corte ha escluso l’illegittimità costituzionale delle previsioni di cui all’art. 5 e 12 della l. n. 40 del 2004 ed ha escluso in modo reciso la possibilità di fruire delle tecniche di procreazione medicalmente assistita per coppie omossessuali, evidenziando la ratio della normativa in questione e ritenendo legittimo l’esercizio discrezionale del legislatore nel limitare l’accesso alla cura solo per copie eterossessuali. Prevale nella considerazione della Corte l’ispirazione di fondo della l. n. 40 del 2004, secondo la quale può essere supportato il progetto genitoriale in presenza di sterilità o infertilità non spiegate, con causa quindi patologica e non altrimenti rimovibile, conseguentemente escludendosi che tale disciplina possa rappresentare una forma di realizzazione del desiderio di genitorialità alternativa ed equivalente al concepimento naturale. Ciò anche in applicazione del disposto costituzionale che, secondo la Corte, richiama e fonda l’ordinamento familiare in relazione alla presenza di un padre e di una madre, come esplicato dall’art. 5 della l. n. 40 del 2004. Non può dunque essere rimosso, come sostanzialmente richiesto dai remittenti, il requisito di accesso soggettivo previsto dalla legislazione ordinaria in materia. In conclusione dalla decisione della Corte emerge come, ai sensi della legislazione vigente, che non può essere considerata irragionevole, l’infertilità fisiologica della coppia omossessuale non è affatto omologabile all’infertilità di tipo assoluto ed irreversibile della coppia eterossessuale evidentemente affetta da patologia. Ciò seppure venga riconosciuta la rilevanza come formazione sociale delle unioni omossessuali e dunque delle unioni civili tra persone dello stesso sesso, riconoscimento che, tuttavia, a parere della Corte, non ricomprende la possibilità di accedere anche in questo caso ad un concetto di famiglia caratterizzata dalla possibile presenza di figli. Anche considerato che la libertà di diventare genitori, secondo la Corte, non implica la possibilità che ciò avvenga senza limiti.

  • indennizzo
  • assegno di maternità
  • aiuti umanitari
  • assistenza sociale
  • diritto di famiglia

VI)

BENEFICI PREVIDENZIALI ED ASSISTENZIALI A CITTADINI STRANIERI EXTRACOMUNITARI. LE RIMESSIONI ALLA CORTE DI GIUSTIZIA, ALLA CORTE COSTITUZIONALE E LA GIURISPRUDENZA CHE SI CONSOLIDA

(di Vincenzo Galati )

Sommario

1 Premessa. - 2 La rimessione alla Corte di Giustizia in materia di assegno per il nucleo familiare. - 2.1 La giurisprudenza comunitaria. - 2.2 Le questioni rimesse. - 3 Le ordinanze di remissione alla Corte costituzionale. - 4 Gli interventi della Corte costituzionale. - 5 L’assegno sociale nelle decisioni della Corte di cassazione. - 6 Le azioni antidiscriminatorie in materia di indennità di maternità e anf.

1. Premessa.

Di particolare importanza, nel panorama della giurisprudenza della Sezione Lavoro della Corte dell’anno 2019, le decisioni assunte in materia di benefici previdenziali ed assistenziali a favore di cittadini stranieri extracomunitari.

Assumono spiccata rilevanza le ordinanze con le quali è stata disposta la rimessione alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione (oltre che dell’art. 295 c.p.c.) e sollevata questione di legittimità costituzionale su alcuni profili attinenti l’indennità di maternità e l’assegno di natalità, ma anche alcune decisioni con le quali è stata assicurata continuità a precedenti relativi alla legittimazione attiva in tema di azione antidiscriminatoria collettiva per nazionalità ex artt. 2 e 4, d.lgs. n. 215 del 2003 e 43, d.lgs. n. 286 del 1998, affermate l’estensione del diritto all’assegno sociale, la violazione del divieto di discriminazione di cui agli artt. 43 e 44 del d.lgs. n. 286/1998 cit. del diniego dell’assegno di maternità ai cittadini di Paesi terzi per mancato possesso della carta di soggiorno.

La giurisprudenza della Corte si è mossa anche tenendo conto degli importanti arresti della Corte costituzionale che hanno offerto un contributo senz’altro rilevante ai fini della interpretazione della normativa vigente in tema di riconoscimento delle prestazioni previdenziali ed assistenziali agli stranieri regolarmente soggiornanti (sentenza n. 50 del 2019 e ordinanza n. 52 del 2019).

Il tentativo che si opererà in questa sede è quello di offrire una lettura unitaria dei citati interventi, nella non semplice opera di riconduzione ad unità del sistema delle tutele riconosciute dall’ordinamento ai soggetti indicati, non senza segnalare che, allo stato, ci si deve necessariamente collocare in una prospettiva parziale, dovendosi ancora attendere le ulteriori determinazioni sia della Corte di Giustizia che della Corte costituzionale.

Il quadro che emerge, dunque, in prima approssimazione, appare una sorta di laboratorio nel quale le linee di intervento della Corte e, quindi, dei giudici di merito debbono ancora essere tracciate in termini sufficientemente precisi e nel quale le questioni dibattute sono ancora numerose sia a causa delle normative applicabili ratione temporis, sia per la difficoltà di inquadrare le diverse prestazioni previdenziali e assistenziali nell’ambito di quelle di sicurezza sociale proprie della normativa sovranazionale o, ancora, di quelle afferenti a diritti inviolabili della persona di cui all’art. 2 Cost.

Si vedrà come i presidi offerti dai principi di non discriminazione e di uguaglianza si atteggiano diversamente a seconda della natura assegnata alla prestazione di volta in volta oggetto di esame.

Allo stato, pertanto, più che operare una classificazione definitiva degli orientamenti ed osservare la condizione del dialogo tra le Corti, è possibile segnalare, per alcune questioni, l’esistenza di arresti piuttosto consolidati e, per altri, una giurisprudenza i cui sviluppi non sono sufficientemente prevedibili e la cui successiva evoluzione sarà oggetto di ulteriori studi.

2. La rimessione alla Corte di Giustizia in materia di assegno per il nucleo familiare.

Con le ordinanze nn. 9021 e 9022 del 01.04.2019, entrambe redatte dal Cons. Cala-fiore, la Corte ha affrontato la questione relativa alla configurabilità del comportamento discriminatorio dell’INPS nel caso in cui venga negato l’assegno per il nucleo familiare per periodi nei quali i familiari del richiedente (titolare di permesso di soggiorno per lavoro subordinato o di permesso unico di lavoro) abbiano lasciato l’Italia per rientrare nel Paese di origine nel quale hanno fissato la residenza.

Si tratta di una tematica assolutamente peculiare che non involge, quindi, il riconoscimento della prestazione agli stranieri, ma il particolare profilo della sua concedibilità nella specifica ipotesi dell’assenza dal territorio nazionale dei familiari del richiedente.

Le questioni affrontate nelle due ordinanze sono sostanzialmente sovrapponibili, anche se le specificità dei casi meritano la segnalazione delle particolarità delle situazioni affrontate in ragione della parziale diversità delle normative nazionali e sovranazionali di riferimento e delle ragioni esposte nei provvedimenti di merito oggetto di ricorso per cassazione.

La problematica sorge per effetto del disposto contenuto nell’art. 2, comma 6 bis, del d.l. n. 69 del 1988, conv., con modif., in l. n. 153 del 1988 che esclude, per i cittadini stranieri, dal computo relativo al calcolo dell’assegno per il nucleo familiare il coniuge ed i figli che non abbiano la residenza in Italia.

La disposizione differisce da quella contenuta nell’art. 2, comma 2, l. n. 153 del 1988, applicabile ai cittadini italiani per i quali l’assegno spetta a prescindere dalla residenza dei membri del nucleo familiare.

I percorsi che hanno portato i due diversi giudici di merito (Corte di Appello di Torino e di Brescia) a riconoscere il diritto all’assegno per il nucleo familiare agli stranieri versanti nella condizione sopra indicata, come detto, differiscono parzialmente.

In particolare, la Corte bresciana (la cui decisione è stata scrutinata con l’ordinanza n. 9021) ha evidenziato come l’ art. 11 della direttiva 2003/109/CE, primo paragrafo lett. d), individui, per il soggiornante di lungo periodo, i medesimi trattamenti previsti per i cittadini quanto alle prestazioni sociali, all’assistenza sociale ed alla protezione sociale ai sensi della legislazione nazionale ed, al secondo paragrafo, che lo Stato membro possa limitare la parità di trattamento ai casi in cui il soggiornante di lungo periodo o il familiare per cui questo chiede la prestazione abbia eletto dimora o risieda abitualmente nel suo territorio, nonché, al paragrafo quarto, che gli Stati membri possono limitare la parità di trattamento in materia di assistenza sociale e protezione sociale alle prestazioni essenziali.

La direttiva è stata recepita in Italia dal d.lgs. 8 gennaio 2007 n. 3 che, modificando l’art. 9 del d.lgs. 26 aprile 1988 n. 286, ha, tra l’altro, previsto che il titolare del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo possa usufruire delle prestazioni di assistenza sociale, di previdenza sociale, di quelle relative ad erogazioni in materia sanitaria, scolastica e sociale, di quelle relative all’accesso a beni e servizi a disposizione del pubblico (…) salvo che sia diversamente disposto e sempre che sia dimostrata l’effettiva residenza dello straniero sul territorio nazionale.

Inoltre, la prestazione dell’assegno al nucleo familiare prevista dalla legge n. 153 del 1988 ha natura assistenziale ed essenziale, ai sensi del tredicesimo considerando della direttiva 2003/109/CE e, come tale, non può rientrare nelle deroghe alla regola della parità di trattamento; conclusivamente, l’art. 2, comma 6 bis, l. n. 153 del 1988 si pone in contrasto con la direttiva 2003/109/CE, realizza una oggettiva discriminazione e va, dunque, disapplicato alla luce della disposizione contenuta nell’art. 11, paragrafo 1, della citata direttiva, di immediata applicabilità, sufficientemente precisa e priva di condizioni per la sua esecuzione.

La norma prevede al par. 1, lett. d), che “il soggiornante di lungo periodo gode dello stesso trattamento dei cittadini nazionali per quanto riguarda le prestazioni sociali, l’assistenza sociale ai sensi della normativa nazionale” ed al paragrafo 4 che “gli stati membri possono limitare la parità di trattamento in materia di assistenza e protezione sociale alle prestazioni essenziali”.

La fonte sovranazionale di riferimento è costituita, in questo caso, dunque, dalla direttiva 2003/109/CE con particolare riguardo ai “considerando” 12, 13 e 14 ove è previsto che:

“Per costituire un autentico strumento di integrazione sociale, lo status di soggiornante di lungo periodo dovrebbe valere al suo titolare la parità di trattamento con i cittadini dello Stato membro in una vasta gamma di settori economici e sociali sulle pertinenti condizioni definite dalla presente direttiva.

Con riferimento all’assistenza sociale, la possibilità di limitare le prestazioni per soggiornanti di lungo periodo a quelle essenziali deve intendersi nel senso che queste ultime comprendono almeno un sostegno di reddito minimo, l’assistenza in caso di malattia, di gravidanza, l’assistenza parentale e l’assistenza a lungo termine. Le modalità di concessione di queste prestazioni dovrebbero essere determinate dalla legislazione nazionale.

Gli Stati membri dovrebbero restare sottoposti all’obbligo di concedere ai figli minori l’accesso al sistema educativo a condizioni analoghe a quelle previste per i propri cittadini”.

La Corte di Appello di Torino (con la sentenza oggetto del procedimento esitato nell’ordinanza n. 9022) ha motivato la disapplicazione dell’art. 2, comma 6 bis, del d.l. n. 69 del 1988, conv. in l. n. 153 del 1988, alla luce della direttiva 2011/98/UE, primo paragrafo, lett. e), che prevede che i lavoratori dei Paesi terzi di cui all’art. 3, paragrafo 1, lettere b) e c) (tra i quali rientrava il ricorrente di quel giudizio), beneficiano dello stesso trattamento riservato ai cittadini dello Stato membro in cui soggiornano, tra l’altro, quanto ai settori della sicurezza sociale definiti nel regolamento (CE) n. 883/2004.

Inoltre, secondo la Corte di merito, l’assegno per il nucleo familiare rientra nei settori della sicurezza sociale definiti nel regolamento (CE) n. 883/2004 come confermato dalla sentenza 21.6.2017, C449/16, Martinez Silva della Corte di Giustizia UE, pronunciatasi a proposito dell’assegno previsto dall’art. 65 della legge n. 448 del 23 dicembre 1998, misura analoga a quella in esame.

Lo Stato italiano non ha recepito l’art. 12 della direttiva che è norma di immediata applicazione.

Consegue, anche alla luce di tale percorso motivazionale, la disapplicazione della norma di legislazione ordinaria.

Le parti della direttiva 2011/98/CE rilevanti nella materia in esame sono le seguenti e si rinvengono nei seguenti considerando:

“2. (..) l’Unione europea dovrebbe garantire l’equo trattamento dei cittadini dei paesi terzi che soggiornano regolarmente nel territorio degli Stati membri e che una politica di integrazione più incisiva dovrebbe mirare a garantire loro diritti ed obblighi analoghi a quelli dei cittadini dell’Unione (...); 19. In mancanza di una normativa orizzontale a livello di Unione, i cittadini dei paesi terzi hanno diritti diversi a seconda dello Stato membro in cui lavorano e della loro cittadinanza. Al fine di sviluppare ulteriormente una politica di immigrazione coerente, di ridurre la disparità di diritti tra i cittadini dell’Unione e i cittadini di paesi terzi che lavorano regolarmente in uno Stato membro e di integrare l’acquisizione esistente in materia di immigrazione, è opportuno definire un insieme di diritti al fine, in particolare, di specificare i settori in cui è garantita la parità di trattamento tra i cittadini di uno Stato membro e i cittadini di paesi terzi che non beneficiano ancora dello status di soggiornanti di lungo periodo. Tali disposizioni mirano a creare condizioni di concorrenza uniformi minime nell’Unione, a riconoscere che tali cittadini di paesi terzi contribuiscono all’economia dell’Unione con il loro lavoro e i loro versamenti di imposte e a fungere da garanzia per ridurre la concorrenza sleale tra i cittadini di uno Stato membro e i cittadini di paesi terzi derivante dall’eventuale sfruttamento di questi ultimi. Ai fini della presente direttiva un lavoratore di un paese terzo dovrebbe essere definito, fatta salva l’interpretazione del concetto di rapporto di lavoro in altre disposizioni del diritto dell’Unione, come un cittadino di un paese terzo che è stato ammesso nel territorio di uno Stato membro, che vi soggiorna regolarmente e a cui è ivi consentito lavorare conformemente al diritto o alla prassi nazionale nel contesto di un rapporto di lavoro retribuito (…); 20 Tutti i cittadini di paesi terzi che soggiornano e lavorano regolarmente negli Stati membri dovrebbero beneficiare quanto meno di uno stesso insieme comune di diritti, basato sulla parità di trattamento con i cittadini dello Stato membro ospitante, a prescindere dal fine iniziale o dal motivo dell’ammissione. Il diritto alla parità di trattamento nei settori specificati dalla presente direttiva dovrebbe essere riconosciuto non solo ai cittadini di paesi terzi che sono stati ammessi in uno Stato membro a fini lavorativi, ma anche a coloro che sono stati ammessi per altri motivi e che hanno ottenuto l’accesso al mercato del lavoro di quello Stato membro in conformità di altre disposizioni del diritto dell’Unione o nazionale, compresi i familiari di un lavoratore di un paese terzo che sono ammessi nello Stato membro in conformità della direttiva 2003/86/CE del Consiglio, del 22 settembre 2003, relativa al diritto al ricongiungimento familiare (...); 24. I lavoratori di paesi terzi dovrebbero beneficiare della parità di trattamento per quanto riguarda la sicurezza sociale. I settori della sicurezza sociale sono definiti dal regolamento (CE) n. 883/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, relativo al coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale. Le disposizioni della presente direttiva relative alla parità di trattamento in materia di sicurezza sociale dovrebbero applicarsi anche ai lavoratori ammessi in uno Stato membro direttamente da un paese terzo. La presente direttiva, tuttavia, non dovrebbe conferire ai lavoratori di paesi terzi diritti maggiori di quelli che il diritto vigente dell’Unione già prevede in materia di sicurezza sociale per i cittadini di paesi terzi che si trovano in situazioni transfrontaliere. La presente direttiva non dovrebbe neppure conferire diritti in relazione a situazioni che esulano dall’ambito di applicazione del diritto dell’Unione, ad esempio in relazione a familiari soggiornanti in un paese terzo. La presente direttiva dovrebbe conferire diritti soltanto in relazione ai familiari che raggiungono lavoratori di un paese terzo per soggiornare in uno Stato membro sulla base del ricongiungimento familiare ovvero ai familiari che già soggiornano regolarmente in tale Stato membro (…); 26. Il diritto dell’Unione non limita la facoltà degli Stati membri di organizzare i rispettivi regimi di sicurezza sociale. In mancanza di armonizzazione a livello di Unione, spetta a ciascuno Stato membro stabilire le condizioni per la concessione delle prestazioni di sicurezza sociale nonché l’importo di tali prestazioni e il periodo durante il quale sono concesse. Tuttavia, nell’esercitare tale facoltà, gli Stati membri dovrebbero conformarsi al diritto dell’Unione”.

L’articolo 12, paragrafo 1 lett. e) prevede che “1. I lavoratori dei paesi terzi di cui all’articolo 3, paragrafo 1, lettere b e c), beneficiano dello stesso trattamento riservato ai cittadini dello Stato membro in cui soggiornano per quanto concerne: (…) e) i settori della sicurezza sociale definiti nel regolamento (CE) n. 883/2004”.

Quest’ultimo stabilisce, fra l’altro, che “il presente regolamento si applica a tutte le legislazioni relative ai settori di sicurezza sociale riguardanti: (...) lett. j) "le prestazioni familiari"; (...); art. 1 lett. z) "in natura o in denaro destinata a compensare i carichi familiari, ad esclusione degli anticipi sugli assegni alimentari e degli assegni speciali di nascita o di adozione menzionati nell’allegato I".

2.1. La giurisprudenza comunitaria.

La rimessione è stata determinata dal fatto che la Corte di cassazione ha giudicato non utile a risolvere il dubbio interpretativo la giurisprudenza comunitaria di seguito illustrata in quanto “formatasi su casi in cui sia i titolari dei diritti alla protezione sociale rivendicati che l’intero nucleo familiare agli stessi riferibili risiedevano stabilmente nel territorio dello Stato membro, o si erano trasferiti da uno all’altro Stato membro”.

Le principali argomentazioni delle decisioni della Corte di Giustizia riportate nelle due ordinanze in questione, benché ritenute, appunto, non idonee a risolvere le questioni pendenti davanti alla Corte di legittimità, sono, senza dubbio, interessanti in quanto involgenti l’interpretazione delle direttive comunitarie sopra citate in punto di (latamente) parità di trattamento tra cittadini e stranieri appartenenti a Stati terzi in punto di prestazioni previdenziali ed assistenziali.

Relativamente ai principi di cui alla direttiva 2003/109/CE rileva quanto deciso con la sentenza della Corte di Giustizia 24.4.2012, n. 571/10 Servet Kamberaj, con la quale, relativamente all’affermazione del principio di parità di trattamento, con riferimento alla previdenza ed all’assistenza sociale “ai sensi della legislazione nazionale”, di cui all’art. 11, par. 1, lettera d) della direttiva indicata, è stato affermato che il rinvio “implica che il legislatore dell’Unione abbia inteso rispettare le differenze che sussistono tra gli Stati membri riguardo alla definizione e alla portata esatta delle nozioni di cui trattasi”.

Tuttavia, è stato anche precisato, l’assenza della definizione uniforme “non implica che gli Stati membri possano pregiudicare l’effetto utile della direttiva 2003/109 al momento dell’applicazione del principio della parità di trattamento previsto da tale disposizione”.

La Corte ha concluso affermando che “allorché stabiliscono le misure di previdenza sociale, di assistenza sociale e di protezione sociale definite dalla loro legislazione nazionale e soggiacenti al principio della parità di trattamento sancito all’articolo 11, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2003/109, gli Stati membri devono rispettare i diritti ed osservare i principi previsti dalla Carta, segnatamente quelli enunciati all’articolo 34 di quest’ultima. Ai sensi del paragrafo 3 di tale articolo 34, al fine di lottare contro l’esclusione sociale e la povertà, l’Unione – e dunque gli Stati membri quando attuano il diritto di quest’ultima

- <<riconosce e rispetta il diritto all’assistenza sociale e all’assistenza abitativa volte a garantire un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongono di risorse sufficienti, secondo le modalità stabilite dal diritto dell’Unione e le legislazioni e prassi nazionali>>”.

Con riguardo alla direttiva 2011/98/CE ed al regolamento 883/2004/CE hanno spiccato rilievo le argomentazioni spese da Corte di Giustizia 21.6.2017, C- 449/2016, Martinez Silva relativamente all’assegno per il nucleo familiare previsto dall’art. 65 l. n. 448 del 1998.

Il duplice quesito sottoposto dalla Corte di Appello di Genova alla Corte ha riguardato i seguenti punti: “1) Se una prestazione come quella prevista dall’articolo 65 della legge n. 448/1998, denominata [ANF], costituisca una prestazione familiare ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, lettera j), del regolamento (CE) n. 883/2004.

2) In caso di riposta positiva, se il principio di parità di trattamento sancito dall’articolo 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva 2011/98/UE osti ad una normativa, come quella italiana, in base alla quale un lavoratore di paese terzo in possesso di “permesso unico per lavoro” (avente durata superiore ai sei mesi) non può beneficiare del suddetto [ANF] pur essendo convivente con tre o più figli minori e titolare di redditi inferiori al limite di legge”.

In particolare, rilevano le considerazioni svolte dalla decisione in punto di parità di trattamento ex art. 12, par. 1, e di “settore della sicurezza sociale” che individua il limite invalicabile a quel principio che, dunque, non può essere travolto in quello specifico ambito.

Nel tentativo di operare la delimitazione del principio di parità di trattamento la Corte di Giustizia ha, peraltro, evidenziato come, ai sensi dell’art. 12 della direttiva, fra l’altro “Gli Stati membri possono limitare la parità di trattamento: (...) b) limitando i diritti conferiti ai lavoratori di paesi terzi ai sensi del paragrafo 1, lettera e), senza restringerli per i lavoratori di paesi terzi che svolgono o hanno svolto un’attività lavorativa per un periodo minimo di sei mesi e sono registrati come disoccupati. Inoltre, gli Stati membri possono decidere che il paragrafo 1, lettera e), per quanto concerne i sussidi familiari, non si applichi ai cittadini di paesi terzi che sono stati autorizzati a lavorare nel territorio di uno Stato membro per un periodo non superiore a sei mesi, ai cittadini di paesi terzi che sono stati ammessi a scopo di studio o ai cittadini di paesi terzi cui è consentito lavorare in forza di un visto; (…)” e che “In forza dell’articolo 1, lettera z), del regolamento n. 883/2004, il termine «prestazione familiare», designa tutte le prestazioni in natura o in denaro destinate a compensare i carichi familiari, ad esclusione degli anticipi sugli assegni alimentari e degli assegni speciali di nascita o di adozione menzionati nell’allegato I di tale regolamento”, mentre “l’articolo 3, paragrafo 1, lettera j), del medesimo regolamento prevede che quest’ultimo si applica a tutte le legislazioni relative alle prestazioni familiari. Esso non si applica, secondo il disposto del paragrafo 5, lettera a), di detto articolo, all’assistenza sociale e medica”.

Il nucleo della motivazione si rinviene nel passaggio argomentativo secondo cui “la distinzione fra prestazioni escluse dall’ambito di applicazione del regolamento n. 883/2004 e prestazioni che vi rientrano è basata essenzialmente sugli elementi costitutivi di ciascuna prestazione, in particolare sulle sue finalità e sui presupposti per la sua attribuzione, e non sul fatto che essa sia o no qualificata come prestazione di sicurezza sociale da una normativa nazionale (v., in tal senso, in particolare, sentenze del 16 luglio 1992, Hughes, C78/91, EU:C:1992:331, punto 14; del 20 gennaio 2005, Noteboom, C101/04, EU:C:2005:51, punto 24, e del 24 ottobre 2013, Lachheb, C177/12, EU:C:2013:689, punto 28). Una prestazione può essere considerata come una prestazione di sicurezza sociale qualora sia attribuita ai beneficiari prescindendo da ogni valutazione individuale e discrezionale delle loro esigenze personali, in base ad una situazione definita per legge, e si riferisca a uno dei rischi espressamente elencati nell’articolo 3, paragrafo 1, del regolamento n. 883/2004 (v. in tal senso, in particolare, sentenze del 16 luglio 1992, Hughes, C78/91, EU:C:1992:331, punto 15; del 15 marzo 2001, Offermanns, C85/99, EU:C:2001:166, punto 28, nonché del 19 settembre 2013, Hliddal e Bornand, C216/12 e C217/12, EU:C:2013:568, punto 48)”.

La Corte ha anche specificato che “il fatto che una prestazione sia concessa o negata in considerazione dei redditi e del numero di figli non implica che la sua concessione dipenda da una valutazione individuale delle esigenze personali del richiedente, caratteristica dell’assistenza sociale, nei limiti in cui si tratta di criteri obiettivi e definiti per legge che, quando sono soddisfatti, danno diritto a tale prestazione senza che l’autorità competente possa tener conto di altre circostanze personali (v., in tal senso, sentenza del 16 luglio 1992, Hughes, C78/91, EU:C:1992:331, punto 17). Così, prestazioni attribuite automaticamente alle famiglie che rispondono a determinati criteri obiettivi, riguardanti segnatamente le loro dimensioni, il loro reddito e le loro risorse di capitale, prescindendo da ogni valutazione individuale e discrezionale delle esigenze personali, e destinate a compensare i carichi familiari, devono essere considerate prestazioni di sicurezza sociale (sentenza del 14 giugno 2016, Commissione/Regno Unito, C308/14, EU:C:2016:436, punto 60).

Ulteriormente, ha argomentato che l’espressione “prestazione familiare” di cui all’art. 3, paragrafo 1, lettera j), del regolamento n. 883/2004, comprende “tutte le prestazioni in natura o in denaro destinate a compensare i carichi familiari, ad esclusione degli anticipi sugli assegni alimentari e degli assegni speciali di nascita o di adozione menzionati nell’allegato I di tale regolamento”.

Con riferimento alla specifica prestazione di cui all’art. 65 l. n. 448 del 1998, la Corte ha osservato che essa è concessa a prescindere da ogni valutazione individuale e discrezionale delle esigenze personali del richiedente, in base a una situazione definita per legge, e consiste in una somma di denaro versata ogni anno ai suddetti beneficiari e destinata a compensare i carichi familiari: “si tratta dunque proprio di una prestazione in denaro destinata, attraverso un contributo pubblico al bilancio familiare, ad alleviare gli oneri derivanti dal mantenimento dei figli”.

Pertanto, secondo i canoni enunciati, “costituisce una prestazione di sicurezza sociale, rientrante nelle prestazioni familiari di cui all’articolo 3, paragrafo 1, lettera j), del regolamento n. 883/2004”.

Con riferimento, poi, alla possibilità di escludere la parità di trattamento per i cittadini di Paesi terzi ammessi in uno Stato membro a fini lavorativi a norma del diritto dell’Unione o del diritto nazionale, è stata negata tale opzione nel caso di titolare di un permesso unico ai sensi dell’articolo 2, lettera c), della direttiva, “dato che, in forza di tale disposizione, detto permesso consente a tale cittadino di soggiornare regolarmente a fini lavorativi nel territorio dello Stato membro che l’ha rilasciato”.

Poiché, nella fattispecie specifica della prestazione presa in esame dalla Corte, lo Stato italiano, non ha inteso avvalersi delle deroghe (pure) previste dall’art. 12 della direttiva ai fini della legittima limitazione della fruizione della prestazione (ammissione al lavoro per non più di sei mesi, ammissione a scopo di studio ed altro) “le disposizioni della normativa italiana che limitano il beneficio dell’ANF, nel caso di cittadini di paesi terzi, ai titolari di un permesso di soggiorno di lungo periodo e alle famiglie dei cittadini dell’Unione, disposizioni adottate del resto prima del recepimento nel diritto interno della suddetta direttiva, come risulta dai punti 10 e 11 della presente sentenza, non possono essere considerate come istitutive delle limitazioni al diritto alla parità di trattamento che gli Stati membri hanno la facoltà di introdurre ai sensi della medesima direttiva”.

2.2. Le questioni rimesse.

L’irrisolto dubbio interpretativo che ha indotto la Corte di cassazione a rimettere la questione alla Corte di Giustizia, in entrambe le ordinanze, trae origine dal fatto che il nucleo familiare non costituisce solo la base di calcolo dell’importo relativo alla prestazione, ma individua anche il beneficiario della prestazione “per il tramite del titolare della retribuzione o della pensione cui lo stesso accede”.

Tanto è vero che l’importo dell’assegno per il nucleo familiare è rapportato al numero dei componenti la famiglia, al numero dei figli ed al reddito familiare.

La Corte ha segnalato come, alla luce di proprie precedenti decisioni (su tutte Sez. U, n. 6179/2008, De Matteis, Rv. 602298 – 01, in motivazione, nonché Sez. L, n. 6155/2004, Morcavallo, Rv. 571602 - 01), alla prestazione vada assegnata natura previdenziale essendo raccordata al reddito del nucleo familiare e non del “capo famiglia”.

Secondo altre decisioni, la prestazione avrebbe natura assistenziale in quanto influenzata dal numero e dalla condizione psico fisica dei componenti del nucleo familiare, oltre che dal reddito prodotto dallo stesso.

In sostanza, la prestazione avrebbe lo scopo di operare una redistribuzione del reddito “attraverso un sistema dei trattamenti diretto ad assicurare una tutela in favore di quelle famiglie che si mostrano effettivamente bisognose sul piano finanziario”, variando, la prestazione, in base al numero dei componenti del nucleo ed al suo reddito, con particolare riguardo a soggetti infermi, malati o minorenni.

Nel rimettere la questione alla Corte di Giustizia, si è concluso sostenendo una terza tesi che contemperi le altre due sin qui descritte affermando che “l’istituto in esame realizza una compenetrazione tra strumenti previdenziali ed assistenziali e precisamente tra quelli posti a tutela per il carico di famiglia , con quelli apprestati a tutela di malattie, essendosi rivolta particolare attenzione a quei nuclei familiari che presentano aree di accentuata sofferenza in ragione di infermità che hanno colpito qualcuno dei propri componenti”, pur trattandosi comunque di una prestazione rientrante sia “nell’ambito della previsione di cui all’art. 11, paragrafo 1, lett. d) della direttiva 2003/19/CE che contempla <<le prestazioni sociali, l’assistenza sociale e la protezione sociale ai sensi della legislazione nazionale” che della previsione di cui all’art. 12, paragrafo 1, lettera e) della direttiva 2011/98/CE che contempla <<i settori della sicurezza sociale definiti del regolamento (CE) n. 883/2004>> “.

Ed ecco che allora si spiega l’affermazione della non totale conducenza, rispetto alla specifica tematica sottoposta alla Corte di cassazione, delle precedenti decisioni della Corte di Giustizia in ragione del fatto che “per il diritto nazionale i componenti del nucleo familiare assumono un rilievo essenziale nella struttura del trattamento dell’assegno e sono considerati i sostanziali beneficiari dello stesso trattamento” e proprio da tale circostanza, ossia dal fatto che i familiari componenti sono i sostanziali beneficiari della prestazione, trae origine il dubbio interpretativo.

E rispetto alla specifica tematica la Corte si chiede quale incidenza possa avere la scelta dei familiari di non risiedere presso lo Stato membro.

Conclusivamente i due quesiti posti dalla Corte sono stati i seguenti:

“se l’ art. 11, paragrafo 1 lett. d) della direttiva 2003/109/ del Consiglio, del 25 novembre 2003, nonché il principio di parità di trattamento tra soggiornanti di lungo periodo e cittadini nazionali, debbano essere interpretati nel senso che ostano a una legislazione nazionale in base alla quale, al contrario di quanto previsto per i cittadini dello Stato membro, nel computo degli appartenenti al nucleo familiare, al fine del calcolo dell’assegno per il nucleo familiare, vanno esclusi i familiari del lavoratore soggiornante di lungo periodo ed appartenente a Stato terzo, qualora gli stessi risiedano presso il paese terzo d’origine”;

«se l’ art. 12, paragrafo 1 lett. e) della direttiva 2011/98/ del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, nonché il principio di parità di trattamento tra titolari del permesso unico di soggiorno e di lavoro e cittadini nazionali, debbano essere interpretati nel senso che ostano a una legislazione nazionale in base alla quale, al contrario di quanto previsto per i cittadini dello Stato membro, nel computo degli appartenenti al nucleo familiare, al fine del calcolo dell’assegno per il nucleo familiare, vanno esclusi i familiari del lavoratore titolare del permesso unico ed appartenente a Stato terzo, qualora gli stessi risiedano presso il paese terzo d’origine”.

3. Le ordinanze di remissione alla Corte costituzionale.

Nell’ambito del dibattito instauratosi nell’anno tra le Corti nazionali e sovranazionali, pare interessante segnalare alcune questioni di legittimità costituzionale sollevate direttamente dalla Corte di cassazione.

Con ordinanze nn. 16164 e 16167 (rel. D’Antonio e Fernandes) la Sez. Lavoro ha sollevato distinte questioni di legittimità costituzionale.

La prima ha avuto ad oggetto l’art. 1, comma 125, l. n. 190 del 2014, in relazione agli artt. 3 Cost., 31 Cost. e 117 , comma 1, Cost. quest’ultimo in relazione agli artt. 20, 21, 24, 31 e 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (CFDUE), proclamata a Nizza il 7.12.2000 e adottata a Strasburgo il 12.12.2007, nella parte in cui, ai fini dell’erogazione dell’assegno di natalità, richiede ai soli cittadini extracomunitari anche la titolarità del permesso unico di soggiorno, anziché la titolarità del permesso di soggiorno e di lavoro per almeno un anno, in applicazione della disposizione generale contenuta nell’art. 41 d.lgs. n. 286 del 1998.

La seconda, in rapporto ai medesimi parametri di legittimità, relativamente all’art. 74 d.lgs. n. 151 del 2001 nella parte in cui richiede ai soli cittadini extracomunitari, ai fini dell’erogazione dell’indennità di maternità, anche la titolarità del permesso unico di soggiorno, anziché il permesso di soggiorno per almeno un anno.

Nel primo caso la Corte di Appello di Brescia aveva dichiarato la natura antidiscriminatoria del diniego dell’INPS dell’assegno di natalità al non soggiornante di lungo periodo alla luce del tenore letterale dell’art. 12 della direttiva 2011/98/CE sopra citata, mentre l’Istituto, nel proporre ricorso per cassazione aveva sostenuto l’estraneità della prestazione al settore della sicurezza sociale e, dunque, l’inapplicabilità delle prescrizioni della direttiva e del regolamento CE n. 883/2004.

Nel caso dell’assegno di maternità, invece, i giudici di merito (Corte di Appello di Firenze) avevano respinto la richiesta di prestazione attraverso un’interpretazione letterale della norma di riferimento (richiedente, come per l’assegno di natalità, il possesso del permesso di soggiorno di cui all’art. 9 d. lgs. n. 286 del 1998) e ritenendo l’applicabilità, altresì, dell’art. 80, comma 19, l. n. 388 del 2000 che esige, per l’assegno sociale e le provvidenze economiche che costituiscono provvidenze economiche in base alla legislazione vigente in materia di servizi sociali, il possesso della carta di soggiorno , ora permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo.

Nella sola ordinanza relativa all’assegno di natalità si riscontra un interessante passaggio motivazionale in punto di rilevanza della questione di legittimità.

Infatti la Corte si è posta il problema del rapporto tra la questione di legittimità e la possibilità (pure operata dai giudici di merito) della diretta applicazione dell’art. 12 della direttiva sopra menzionata che, in teoria, potrebbe rendere superflua la decisione della Corte costituzionale.

Sul punto la Corte ha evidenziato la non identità di effetti della concreta disapplicazione dell’inciso relativo al requisito del possesso del permesso di lungo soggiorno, rispetto alla eventuale pronuncia di illegittimità costituzionale.

Si legge nell’ordinanza che “solo in sede di giudizio costituzionale è possibile (…) valutare la ragionevolezza della scelta discrezionale legislativa, frutto di bilanciamento dei contrapposti interessi e considerare (…) gli indici normativi che avrebbero dovuto condurre il legislatore a riconoscere quale unico criterio selettivo giustificato e ragionevole il possesso della carta di soggiorno o di permesso di soggiorno di durata non inferiore ad un anno, previsto dall’art 41 d.lgs. n. 286 del 1998 quale espressione di un principio generale, al fine di riconoscere ai titolari la piena equiparazione ai cittadini italiani ai fini della fruizione delle provvidenze e delle prestazioni, anche economiche, di assistenza sociale”.

La diversità, quindi, degli effetti derivanti dalla eventuale pronuncia di illegittimità, rispetto alla mera disapplicazione della norma incompatibile con la direttiva, giustifica la rilevanza della questione.

In punto di non manifesta infondatezza le due ordinanze contengono argomentazioni sovrapponibili che possono, dunque, ritenersi frutto di una impostazione sufficientemente consolidata in seno alla Corte rispetto alle misure economiche volte a sostenere la genitorialità ed i bisogni essenziali legati alla nascita o all’adozione di un bambino in un contesto caratterizzato da bassi redditi, allo scopo di evitare che una madre possa trovarsi, al momento del parto, in condizione di povertà assoluta.

Per entrambe le prestazioni, qualora i richiedenti siano stranieri extracomunitari (o donne straniere extracomunitarie) è richiesta la titolarità del permesso di lungo soggiorno ex art. 9 d.lgs. n. 286 del 1998, e, quindi, il riconoscimento è riservato a coloro che abbiano dimostrato di disporre di un reddito non inferiore all’importo annuo dell’assegno sociale e, nel caso di richiesta relativa ai familiari, di un reddito sufficiente secondo i parametri indicati nell’art. 29, comma 3, lett. b) del d.lgs. n. 286 del 1998, nonché di un alloggio idoneo e di aver superato un test di conoscenza della lingua italiana.

In relazione all’art. 3 Cost. la Corte dubita che le previsioni di legge ordinaria sopra citate siano legittime nella parte in cui escludono “intere categorie di soggetti, selezionati non in base all’entità ed alla natura del bisogno, ma ad un criterio privo di collegamento con questo, quale la titolarità del permesso di lungo soggiorno che presuppone una durata pregressa della residenza almeno quinquennale, un reddito almeno pari all’importo dell’assegno sociale, un alloggio idoneo e la conoscenza della lingua italiana: determinando con ciò, l’esclusione di chi si trova in situazione di maggior bisogno rispetto a tale categoria e disparità di trattamento tra situazioni identiche o analoghe, con conseguente lesione del principio di eguaglianza”.

Sul punto la Corte ha ricordato come, già in altre occasioni (sentenza n. 40 del 2011), la Corte costituzionale abbia segnalato l’assenza di una ragionevole correlazione tra la residenza protratta nel tempo e i requisiti di bisogno e di disagio della persona che costituiscono il presupposto per fruire di una provvidenza sociale

Peraltro, con specifico riferimento all’assegno di natalità, la Corte ha evidenziato come la prestazione sia fruibile nell’arco di tre anni e, dunque, afferisca a bisogni essenziali della famiglia da soddisfare in un ambito temporale limitato che non sono influenzati dalle vicende di vita pregresse e neppure dai progetti familiari a lungo termine.

Né rilevano, secondo la Corte, esigenze di bilancio atteso che il criterio di esclusione individuato è stato ritenuto non ragionevole.

Interessante, ancora, sul punto, il richiamo a quanto deciso dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 50 del 2019 (sulla quale si tornerà in seguito) in materia di assegno sociale, con particolare riguardo al profilo della legittimità dell’art. 80, comma 19, della l. n. 388 del 2000 nella parte in cui subordina il diritto a percepire l’assegno sociale, per gli stranieri extracomunitari, alla titolarità della carte di soggiorno (ora permesso di lungo soggiorno).

In quel caso, infatti, la previsione è stata ritenuta non irragionevole in quanto l’assegno sociale costituisce una misura a favore di chiunque abbia compiuto 65 anni ed assolve a finalità diverse da quelle delle misure di assistenza legate a specifiche esigenze di tutela della persona che non sopportano discriminazioni, come nel caso delle invalidità psicofisiche.

Quella misura è funzionale a far sì che coloro che si trovano ad uscire dal mondo del lavoro godano di un “sostegno da parte della collettività nella quale hanno operato (non a caso il legislatore esige in capo al cittadino stesso una residenza almeno decennale in Italia), che è anche un corrispettivo solidaristico per quanto doverosamente offerto al progresso materiale e spirituale della società”.

Nell’ordinanza relativa all’assegno di maternità, peraltro, la Corte ha messo in risalto un ulteriore passaggio motivazionale della sentenza n. 50 del 2019, ossia quello nel quale si evidenzia che l’uguaglianza nell’accesso all’assistenza sociale tra italiani e comunitari da un lato ed extracomunitari dall’altro, riguarda servizi e prestazioni afferenti al godimento di diritti inviolabili della persona.

Sul punto la Corte ha evidenziato come la tutela della maternità, anche sotto il profilo del sostegno economico al momento della nascita, possa rientrare nella definizione di “diritto inviolabile della persona” in quanto gode di “diretta tutela costituzionale”.

Quindi, per entrambe le prestazioni in esame, il profilo di irragionevolezza è stato ravvisato nella richiesta ai soli cittadini extracomunitari della titolarità del permesso unico di soggiorno, “anziché della titolarità del permesso di soggiorno e di lavoro per almeno un anno in applicazione della disposizione generale contenuta nell’art. 41 d.lgs. n. 286 del 1998, norma che rappresenta l’equilibrato bilanciamento tra il diritto dell’extracomunitario di godere, a parità di trattamento con i cittadini italiani, delle misure di assistenza sociale e il riscontro di una presenza dello stesso non temporanea né episodica sul territorio nazionale”.

La violazione dell’art. 31 Cost. è stata ravvisata, per entrambe le prestazioni, nell’impedimento alla realizzazione della garanzia costituzionale di protezione della famiglia, della maternità e dell’infanzia nel caso di famiglie e figli i cui genitori non siano in possesso del permesso di lungo soggiorno, pur trovandosi sul territorio nazionale in modo non episodico o temporaneo e vivendo nelle medesime, se non peggiori, condizioni economiche.

Comune anche la ritenuta violazione delle nome di legge ordinaria con l’art. 117, comma 1, Cost. in relazione ad alcune norme della CDFUE (artt. 20, 21, 23, 33 e 34 per l’assegno di natalità; artt. 20, 21, 24, 33 e 34 per quello di maternità).

Il pregiudizio è stato ravvisato rispetto ai principi di uguaglianza e divieto di discriminazioni, anche per cittadinanza, del diritto dei bambini alla protezione ed alle cure necessarie per il loro benessere, alla garanzia della protezione della famiglia sul piano giuridico, economico e sociale e del diritto di accesso alle prestazioni di sicurezza sociale ed ai servizi sociali che assicurano protezione.

Con riguardo al solo assegno di natalità, è stata evidenziata, infine, anche una forma di discriminazione a causa della nazionalità in violazione dell’art. 12, lettera e), direttiva 2011/98/CE più volte citata.

Sul punto la Corte ha riportato (pagg. 16 e 17) le argomentazioni spese dalla sentenza della Corte di Giustizia Martinez Silva, sopra ampiamente riportata, in punto di individuazione delle prestazioni di sicurezza sociale, principio di parità di trattamento e derogabilità di quest’ultimo.

Avendo già riportato quanto deciso dalla Corte europea , pare superfluo tornare, in questa sede, sulle relative argomentazioni.

4. Gli interventi della Corte costituzionale.

Di immediata rilevanza nella tematica in esame sono le decisioni della Corte costituzionale intervenute nel 2019 con riferimento alle questioni di legittimità sollevate da giudici di merito in relazione all’art. 80, comma 19, della l. n. 388 del 2000 (sentenza n. 50 del 2019) e degli artt. 65, comma 1, della l. n. 448 del 1998 e 74, comma 1, del d.lgs. n. 151 del 2001 (ordinanza n. 52 del 2019).

Si tratta di pronunce particolarmente significative se si considera che la prima ha avuto immediata applicazione nella giurisprudenza della Corte di cassazione (come si dirà brevemente in seguito) proprio in relazione ai requisiti ai quali è subordinato il riconoscimento dell’assegno sociale agli stranieri extracomunitari e la seconda presenta profili (parzialmente) intersecanti l’ulteriore questione di legittimità sollevata con l’ordinanza n. 16164 del 2019 dalla Corte di cassazione della quale si è scritto al paragrafo precedente.

Per l’esame di entrambe le decisioni si richiama lo scritto di F. Corvaja, Straniero e prestazioni di assistenza sociale: la Corte costituzionale fa un passo indietro ed uno di lato, in Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, fasc. 3/2019 e la bibliografia ivi citata, con particolare riguardo alla nota 1.

La sentenza n. 50 ha avuto origine dall’ordinanza del 27.1.2016 del Tribunale di Torino, in funzione di giudice del lavoro, che ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 80, comma 19, della l. n. 388 del 2000, nella parte in cui subordina il diritto a percepire l’assegno sociale, per gli stranieri extracomunitari, al requisito “ulteriore” costituito dalla titolarità della carta di soggiorno (ora permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo), in riferimento agli artt. 3, 38 e 10, comma 2 Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848.

Inoltre, il Tribunale di Bergamo, in funzione di giudice del lavoro, con ordinanza del 26.9.2016 ha denunciato la medesima disposizione, sotto analogo profilo, in riferimento agli artt. 3, 10, comma 1, e 117, comma 1, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 14 CEDU.

Le questioni sono state ritenute infondate.

Preliminarmente la Corte ha chiarito la portata dell’art. 20, comma 10, del d.l. n. 112 del 2008, convertito, con modificazioni, nella l. n. 133 del 2008, con il quale è stato previsto che, a decorrere dal 1.1.2009, l’assegno sociale “è corrisposto agli aventi diritto, a condizione che abbiano soggiornato legalmente in via continuativa per almeno dieci anni nel territori nazionale”.

Tale norma è stata ritenuta individuare un requisito aggiuntivo e non sostitutivo rispetto a quello previsto dall’art. 80, comma 19, della l. n. 388 cit.

Nel respingere la questione di legittimità, la Corte ha fatto riferimento sia alla propria precedente giurisprudenza in tema di prestazioni di previdenza ed assistenza sociale agli stranieri, sia, brevemente, alle fonti sovranazionali sopra menzionate.

Con riguardo alla direttiva 2003/109/CE ha precisato di avere, in altra occasione, già chiarito che, entro i limiti consentiti da tale fonte, pur nel rispetto dei diritti fondamentali dell’individuo garantiti dalla Costituzione e dalla normativa internazionale, il legislatore “può riservare talune prestazioni assistenziali ai soli cittadini e alle persone ad essi equiparate soggiornanti in Italia, il cui status vale di per sé a generare un adeguato nesso tra la partecipazione alla organizzazione politica, economica e sociale della Repubblica, e l’erogazione della provvidenza”.

Il richiamo, sul punto, è stato a Corte cost. n. 222 del 2013, ove si è precisato che il principio di uguaglianza riguarda servizi e prestazioni attinenti alla fruizione di “diritti inviolabili della persona” di cui all’art. 2 Cost. e non tanto quelli afferenti l’assistenza sociale di cui all’art. 38 Cost. (ove si fa riferimento al “cittadino”).

È stato, pertanto ribadito, che, anche a causa della “limitatezza delle risorse disponibili” il legislatore può limitare, ed anche escludere, lo straniero extracomunitario dalla fruizione di provvidenze che non assolvano alla funzione di consentire il godimento di diritti inviolabili.

Ciò può essere fatto mediante la previsione, per il cittadino extracomunitario, di ulteriori requisiti “non manifestamente irragionevoli, che ne comprovino un inserimento stabile e attivo” di modo che “le provvidenze divengono il corollario dello stabile inserimento dello straniero in Italia, nel senso che la Repubblica con esse ne riconosce e valorizza il concorso al progresso della società, grazie alla partecipazione alla vita di essa in un apprezzabile arco di tempo”.

Entrando proprio nel nucleo della questione sottoposta al suo esame, la Corte ha evidenziato come la titolarità del permesso di lungo soggiorno sia subordinata alla produzione di un reddito, alla disponibilità di un alloggio ed alla conoscenza della lingua italiana “che sono in sé indici non irragionevoli di una simile partecipazione” sostanziandosi nell’attribuzione di diritti aggiuntivi (specificamente indicati nella sentenza) rispetto al solo permesso di soggiorno rilasciato (per esempio) per motivi familiari e dotato del carattere di provvisorietà.

Ed allora, secondo la Corte, come, in parte, già sopra ricordato, “non è perciò né discriminatorio, né manifestamente irragionevole che il permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo sia il presupposto per godere di una provvidenza economica, quale l’assegno sociale, che si rivolge a chi abbia compiuto 65 anni di età. Tali persone ottengono infatti, alle soglie dell’uscita dal mondo del lavoro, un sostegno da parte della collettività nella quale hanno operato (non a caso il legislatore esige in capo al cittadino stesso una residenza almeno decennale in Italia), che è anche un corrispettivo solidaristico per quanto doverosamente offerto al progresso materiale o spirituale della società (art. 4 Cost.). Rientra dunque nella discrezionalità del legislatore riconoscere una prestazione economica al solo straniero, indigente e privo di pensione, il cui stabile inserimento nella comunità lo ha reso meritevole dello stesso sussidio concesso al cittadino italiano. Pertanto sotto nessun profilo può ritenersi violato l’art. 3 Cost. con riferimento a quegli stranieri che invece tale status non hanno”.

Tornando ad altra fonte sovranazionale menzionata in precedenza, si osserva che la Corte ha escluso che l’obbligo di attribuire l’assegno sociale allo straniero privo del permesso di soggiorno possa derivare dall’art. 12 della direttiva 2011/98/CE che, come detto, richiama il regolamento n. 883/2004 relativo al coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale che impone la parità di trattamento tra i lavoratori stranieri ed i cittadini dello Stato europeo ospitante in quanto non si verte in tema di diritti dei lavoratori.

La violazione dell’art. 38 Cost. è stata esclusa sulla base della ragionevolezza del requisito richiesto per l’accesso alla prestazione, per come già segnalato.

Infine, quanto alle censure riferite agli artt. 10, comma 1 e 2 e 117, comma 1 Cost., in relazione all’art. 14 CEDU, è stata esclusa, per le ragioni già indicate, la natura discriminatoria del requisito richiesto.

Peraltro la Corte ha richiamato la costante giurisprudenza costituzionale (sentenze nn. 187 del 2010, 230 del 2015, 22 del 2015, 40 del 2013, 329 del 2011, 11 del 2009, 306 del 2008) secondo cui il requisito della cittadinanza è in contrasto con l’art. 3 Cost. e con l’art. 14 CEDU solo con riguardo alle prestazioni “destinate al soddisfacimento di bisogni primari e volte alla garanzia per la stessa sopravvivenza del soggetto o comunque destinate alla tutela della salute ed al sostentamento connesso all’invalidità, di volta in volta con specifico riguardo alla pensione di inabilità, all’assegno di invalidità, all’indennità per ciechi e per sordi e all’indennità di accompagnamento”.

La sentenza della Corte si pone in sostanziale continuità con quanto precedentemente già deciso con l’ordinanza n. 180 del 2016 che, nel pronunciare sulla legittimità dell’art. 80, comma 19 cit., nella parte in cui subordina al requisito della titolarità della carta di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo, la concessione agli stranieri legalmente soggiornanti nel territorio dello Stato da almeno dieci anni, del beneficio dell’assegno sociale, ha affermato che il requisito del soggiorno decennale “appare indicativo dell’orizzonte entro il quale il legislatore ha ritenuto di disporre di una materia del tutto singolare come questa dell’assegno sociale, dal momento che il nuovo e più ampio limite temporale richiesto ai fini della concessione del beneficio risulta riferito non solo ai cittadini extracomunitari ma anche a quelli di Paesi UE e financo – stando allo stretto tenore letterale della norma -agli stessi cittadini italiani”.

A ciò si aggiunga che la stessa Corte di cassazione aveva già affermato che in materia di assegno sociale di cui all’art. 3, comma 6, della l. n. 335 del 1995 non è irragionevole la previsione dell’art. 80, comma 19, della l. n. 388 del 2000, applicabile ratione temporis, laddove ne subordina la concessione agli stranieri, legalmente soggiornanti nel territorio dello Stato, al requisito della titolarità della carta di soggiorno, trattandosi di emolumento che prescinde dallo stato di invalidità e, pertanto, non investe la tutela di condizioni minime di salute o gravi situazioni di urgenza (Sez. L, n. 22261/2015, Esposito, Rv. 637397 – 01).

Con l’ordinanza n. 52 del 2019 la Corte ha dichiarato la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale degli artt. 65, comma 1, della l. n. 448 del 1998, come modificato dall’art. 13, comma 1, della l. n. 97 del 2013 e dell’art. 74, comma 1, del d.lgs. n. 151 del 2001, sollevata con riferimento agli artt. 3, 10, comma 2, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 14 CEDU e 38 Cost.

Si tratta della prestazione dell’assegno di maternità per la quale è stata sollevata la questione di costituzionalità dalla Corte di cassazione con l’ordinanza n. 16167 del 2019 della quale si è detto, sebbene per aspetti diversi.

Anche in questo caso il profilo di illegittimità denunciato dal giudice di merito ha avuto ad oggetto la previsione, quale requisito per accedere alle prestazioni dell’assegno per il nucleo familiare per le famiglie numerose e dell’assegno di maternità, del permesso di soggiorno di lungo periodo.

Nel caso specifico le prestazioni erano state richieste da straniera che fruiva di permesso di soggiorno per motivi familiari e, perciò, erano state respinte le relative domande.

La declaratoria di manifesta infondatezza è avvenuta per questioni di natura processuale in quanto, a giudizio della Corte, il giudice rimettente non aveva considerato la direttiva 2011/98/CE ed, in particolare, l’art. 12 della stessa che garantisce ai cittadini di Paesi terzi il diritto alla parità di trattamento con i cittadini degli Stati membri in cui soggiornano per quanto riguarda i settori della sicurezza sociale come definiti dal regolamento n. 884/2004.

Inoltre, nella specie, il titolo di soggiorno della richiedente, secondo la Corte, avrebbe potuto rientrare, ai sensi dell’art. 3, paragrafo 1, lettera b), della direttiva, fra i titoli legittimanti alla fruizione del diritto alla parità di trattamento di cui all’art. 12 per le prestazioni di sicurezza sociale, tra le quali (ai sensi delle definizioni dell’art. 3, paragrafo 1, del regolamento) potrebbero rientrare l’assegno di maternità e le prestazioni familiari.

Dunque, poichè il giudice di merito non ha preso in considerazione né la direttiva menzionata, né la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea sul punto (sentenza Martinez Silva più volte citata), la Corte ha ritenuto insufficienti le argomentazioni del Tribunale allo scopo di soddisfare l’onere motivazionale ai fini del vaglio di ammissibilità della questione.

Si tratta di una declaratoria che sollecita i giudici di merito ad una lettura convenzionalmente orientata della disposizioni di legge ordinaria e che non pare porre preclusioni rispetto alla nuova questione sollevata dalla Corte di cassazione che, come visto, attiene a profili diversi.

Peraltro, nella vicenda esaminata dalla Corte di cassazione (par. 8 della motivazione) la direttiva 2011/98/CE non era richiamabile in quanto, all’epoca dei fatti, non era stata ancora recepita dallo Stato italiano, né era scaduto il termine per il suo recepimento.

5. L’assegno sociale nelle decisioni della Corte di cassazione.

La sentenza n. 50 del 2019 è stata oggetto di ampio richiamo in due decisioni della Corte di cassazione intervenute nell’anno 2019 in punto di requisiti per il riconoscimento dell’assegno sociale.

Sez. L, n. 15170/2019, Mancino, Rv. 654103 – 01, ha enunciato il principio secondo cui lo straniero extracomunitario ha diritto al riconoscimento dell’assegno sociale di cui all’art. 3, comma 6, della l. n. 335 del 1995, alla sola condizione del possesso della carta di soggiorno a tempo indeterminato, ora permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo, senza che sia necessaria anche la residenza anagrafica in Italia.

La fattispecie ha avuto riguardo ad una domanda anteriore al 1.1.2009 e, quindi, all’introduzione, attraverso l’art. 20, comma 10, del d.l. n. 112 del 2008, conv., con modificazioni, nella l. n. 133 del 2008, dell’ulteriore requisito del soggiorno per almeno dieci anni nel territorio nazionale.

Con altra sentenza la Corte si è pronunciata sui requisiti per la fruizione della prestazione per il periodo successivo al 1.1.2009.

In particolare, ha deciso che lo straniero extracomunitario ha diritto al riconoscimento dell’assegno sociale di cui all’art. 3, comma 6, della l. n. 335 del 1995, alla condizione del possesso della carta di soggiorno a tempo indeterminato - ora permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo - nonché, a decorrere dal 1° gennaio 2009, per effetto dell’art. 20, comma 10, del d.l. n. 112 del 2008, conv., con modif., nella l. n. 133 del 2008, del soggiorno legale, in via continuativa, per almeno dieci anni, nel territorio nazionale, senza che tale requisito possa essere considerato quale limite alla libertà di circolazione di cui agli artt. 16, comma 2, Cost., 21 e 45 del T.F.U.E., perché non implica alcun divieto violativo della libera scelta del singolo e si sostanzia in un radicamento territoriale che non si identifica con la assoluta, costante ed ininterrotta permanenza sul territorio nazionale (Sez. L, n. 16989/2019, Fernandes, Rv. 654380 – 01).

Anche in questa circostanza, nella ricostruzione dell’istituto, la Corte ha compiuto un ampio richiamo alla sentenza della Corte costituzionale n. 50 del 2019 segnalando come il requisito della continuità della permanenza sul territorio nazionale integra un requisito richiesto anche al cittadino italiano come segnalato dalla stessa Corte sin dall’ordinanza n. 197 del 2013.

6. Le azioni antidiscriminatorie in materia di indennità di maternità e anf.

La sentenza Sez. L - , n. 14073/2019, Calafiore, Rv. 653970 – 01 è stata così massimata dall’Ufficio: in tema di assegno per maternità ex art. 75 del d.lgs. n. 151 del 2001, costituisce atto di discriminazione in ragione della nazionalità il diniego della prestazione previdenziale ai cittadini di Paesi terzi per mancato possesso della carta di soggiorno, come emerge dalla lettura congiunta degli artt. 43 e 44 del d.lgs. n. 286 del 1998 e delle fonti sovranazionali in materia.

La natura discriminatoria del divieto dell’assegno di maternità è stata dedotta in relazione alla circostanza che tra i requisiti per la fruizione della prestazione vi è, per gli stranieri extracomunitari, il possesso della carta di soggiorno ai sensi dell’art. 9 d.lgs. n. 286 del 1998 (più volte ricordato).

Tale previsione, anche in questa ipotesi, sarebbe incompatibile con l’art. 12 della direttiva 2011/98/CE che afferma il diritto dei lavoratori di Paesi terzi, titolari di un permesso di soggiorno che consente di lavorare (come avvenuto nella fattispecie, nella quale la ricorrente era titolare di permesso di soggiorno in attesa di occupazione), a beneficiare dello stesso trattamento riservato ai cittadini dello Stato membro in cui soggiornano, per quanto attiene ai settori della sicurezza sociale per come definiti dal (più volte ricordato) regolamento n. 884/2004 e, quindi, anche rispetto ai trattamenti di maternità e paternità previsti dall’art. 3, lettera b), del regolamento.

La ricostruzione della sentenza è stata volta alla individuazione degli elementi costitutivi della fattispecie discriminatoria per nazionalità ed è stata operata attraverso una puntuale disamina delle norme di cui agli artt. 43 e 44 d.lgs. n,. 286 del 1998 e 28 d.lgs. n. 150 del 2001.

In particolare, l’esame si è soffermato sul contenuto della prima norma laddove si fa riferimento ad “ogni comportamento che direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose, e che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento lo l’esercizio , in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica”, precisando, altresì, che costituisce atto di discriminazione l’imposizione di condizioni più svantaggiose o il rifiuto di fornire l’accesso all’occupazione, all’alloggio, alla formazione e ai servizi sociali e socio-assistenziali allo straniero regolarmente soggiornante in Italia.

Con il termine “comportamento” si intende fare riferimento ad azioni ed omissioni che si pongano in nesso di causalità diretta o indiretta con le discriminazioni che possono ritenersi tali solo quando la condotta abbia come scopo o effetto la lesione di un diritto umano o una libertà fondamentale.

Proprio l’alternatività degli scopi e degli effetti rende centrale il risultato dell’azione discriminatoria suscettibile di essere sanzionata e la conseguente irrilevanza degli stati soggettivi dell’autore della condotta, sicchè è sufficiente accertare la sussistenza del nesso di causalità tra l’atto e l’evento lesivo prescindendo dalla “dolosa volontà discriminatoria nella determinazione della condotta e nella conseguente disparità di trattamento”.

Infine, sempre con riferimento all’applicazione sostanziale di principi fissati nella normativa sovranazionale (nella specie la direttiva 2003/109/CE recepita con l. n. 97 del 2013) la Corte ha ribadito due importanti principi, uno di natura processuale ed uno sostanziale.

Si tratta della decisione Sez. L - , n. 28745/2019, Calafiore, con la quale si è affermato che nelle discriminazioni collettive in ragione del fattore della nazionalità, ex artt. 2 e 4 del d.lgs. n. 215 del 2003 ed art. 43 del d.lgs. n. 286 del 1998, sussiste la legittimazione ad agire in capo alle associazioni ed agli enti previsti dall’art. 5 d.lgs. n. 215 del 2003 (Rv. 655612 – 01, conformemente a Sez. L - , n. 11165/2017, Riverso, Rv. 644231 – 01).

Inoltre è stato confermato che la mancata concessione, ai cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo in Italia, dell’assegno per il nucleo familiare, previsto dall’art. 65 della l. n. 448 del 1998, per il periodo precedente all’1 luglio 2013, costituisce discriminazione collettiva per ragioni di nazionalità, per violazione del principio di parità in materia di assistenza sociale e protezione sociale, in relazione alle prestazioni essenziali, previsto dalla direttiva 2003/109/CE ed attuato dall’art. 13, comma 1, della l. n. 97 del 2013 (Rv. 655612-02, conforme a Sez. L - , n. 11165/2017, Riverso, Rv. 644231 – 02 e Sez. 6 - L, n. 16593/2018, Spena, Rv. 649499 – 01).

Rilevanti, ai fini che qui più specificamente interessano, le argomentazioni spese dalla Corte per motivare la configurabilità della discriminazione collettiva per ragioni di nazionalità per violazione della direttiva 2003/109/Ce, anche per il periodo precedente all’attuazione di quest’ultima, ovvero prima del 1.7.2013.

È stata quindi respinta la tesi secondo cui la prestazione dell’assegno per il nucleo familiare con almeno tre figli minori concesso dai Comuni, non rientrerebbe nelle prestazioni essenziali di cui alla direttiva, che sarebbe comprensiva delle sole prestazioni che garantiscono l’assistenza personale.

In realtà, l’estensione agli stranieri muniti di permesso di lungo soggiorno della prestazione in esame è avvenuta con l’art. 13, comma 1, della l. n. 97 del 2013 che, richiamando la procedura d’infrazione n. 4009/2013 contestata all’Italia per la non conformità di alcune disposizioni di legge (tra cui l’art. 65 l. n. 448 del 1998) alla direttiva 2003/109/CE, ha esteso la platea dei beneficiari della misura.

Se, dunque, lo scopo della norma è stato quello di rendere conforme l’art. 65 cit. alla normativa sovranazionale, la disposizione “in base ad un’interpretazione orientata in senso comunitario e costituzionale, deve essere intesa nel senso che il diritto dei lungo soggiornanti all’ANF decorra fin dal momento in cui esso doveva essere introdotto nell’ordinamento interno in attuazione della direttiva ed ogni diversa interpretazione metterebbe il testo della l. n. 97 del 2013, art. 13 in contraddizione con il suo oggetto e la sua ratio, oltre ad esporre l’Italia alla contestazione di violazione dell’obbligo di corretta trasposizione della direttiva”.

Quest’ultima, peraltro, scaduto il termine per il suo recepimento (23.1.2006), era dotata di efficacia diretta essendo determinati i beneficiari della prestazione, individuato il contenuto della posizione di vantaggio e considerata la natura di autorità pubblica del soggetto passivo.

Pertanto l’assegno per il nucleo familiare costituisce una prestazione che lo Stato deve garantire in condizione di parità ai sensi dell’art. 11 della direttiva 2003/109/CE anche ai cittadini non comunitari lungo soggiornanti, essendo intervenuto il riconoscimento di cui alla l. n. 97 del 2013 in conformità ad una direttiva direttamente applicabile la cui mancata attuazione configura una discriminazione collettiva per nazionalità.

La Corte, tenuto conto della direttiva e della interpretazione ad essa fornita dalla Corte di Giustizia con la sentenza Kamberaj sopra citata, è giunta a precisare che l’assegno costituisce una “prestazione essenziale in quanto si tratta di una forma di assistenza riferita a famiglie in situazione di povertà in presenza di almeno tre figli minori, tenuto altresì conto del contesto in cui si iscrive l’art. 11, comma 1, lett. d), e della finalità perseguita dalla direttiva 2003/109/; ossia l’integrazione dei cittadini di Paesi terzi che abbiano soggiornato legalmente ed a titolo duraturo negli Stati membri”.

La sentenza della Corte di Giustizia ha espressamente affermato che la nozione di prestazioni essenziali di cui all’art. 11, comma 1, lett. d), della direttiva non è “esaustiva”, sicchè l’omessa menzione nel tredicesimo considerando della misura in esame non comporta che essa non possa essere considerata prestazione essenziale.

Né risulta che lo Stato italiano abbia mai invocato la deroga di cui all’art. 11, comma 4, con riferimento all’assegno per il nucleo familiare.

  • obbligazione
  • procedura civile
  • diritti umani
  • esecuzione della sentenza

VII)

IL DIRITTO ALLA RAGIONEVOLE DURATA DEL PROCESSO, GLI OBBLIGHI DELLO STATO DEBITORE E LA CONFORMAZIONE AL DIRITTO VIVENTE DELLA CORTE EDU.

(di Antonella Filomena Sarracino )

Sommario

1 Premessa. Il quadro normativo di riferimento e le questioni esaminate dalle Sezioni Unite. - 2 Il rapporto tra il giudizio di cognizione e quello esecutivo e l’equiparabilità fra quest’ultimo e l’ottemperanza. Il diritto alla ragionevole durata del processo e quello alla esecuzione delle decisioni interne esecutive. - 3 Le questioni ancillari: l’individuazione del momento in cui comincia la fase esecutiva e la rilevanza del termine di 120 giorni di cui all’art. 14 del d.l. n. 669 del 31 dicembre 1996, conv. dalla legge n. 30 del 28 febbraio 1997. - 4 Gli obblighi dello Stato debitore. Conclusioni.

1. Premessa. Il quadro normativo di riferimento e le questioni esaminate dalle Sezioni Unite.

Sette sentenze delle Sezioni Unite affrontano nuovamente nel 2019 il tema dei rapporti tra cognizione ed esecuzione, ai fini della verifica della durata del processo, ma le pronunzie, come renderà palese l’esame delle stesse, contengono affermazioni di principio che valicano ampiamente i confini dell’indennizzo ex lege Pinto, passando dalla ribadita necessità del giudice di legittimità di conformarsi al diritto vivente della Corte Edu e, più in generale, delle altre Corti sovranazionali, alla rilettura in chiave innovativa degli obblighi gravanti sullo Stato debitore.

Quest’ultima operazione, senza dubbio modernissima, porta alla affermazione che il creditore dello Stato, almeno di regola, con riguardo alle sentenze che non pongano particolari problemi di esecuzione, non deve far ricorso allo strumento esecutivo per ottenere il soddisfacimento dei propri diritti.

Prima di ripercorrere l’impianto motivazionale delle decisioni ed allo scopo di comprenderlo appieno, appare opportuno brevemente richiamare, a grandissime linee, l’assetto normativo in cui esse si calano.

Il diritto al “giusto processo”, consacrato nell’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione europea, è il diritto di ciascuno a veder esaminata la propria causa da un giudice precostituito per legge, indipendente ed imparziale, nell’ambito di un pubblico processo che si concluda in un tempo ragionevole.

Il diritto alla ragionevolezza del tempo della decisione è l’affermazione più moderna contenuta nella norma poc’anzi citata che ha imposto all’Italia, in ragione della forza vincolante della Convenzione, la conformazione della propria legislazione, prima con la riforma dell’art. 111 della Costituzione (sebbene si sia da più parti sostenuto che il “giusto processo” fosse già immanente nella nostra Carta costituzionale, potendo desumersi dalla lettura congiunta degli artt. 2 e 24 ) e poi con la promulgazione della legge n. 89 del 24 marzo del 2001, c.d. Pinto.

Anteriormente alla legge c.d. Pinto, infatti, non esisteva affatto un rimedio specifico che consentisse ai singoli una tutela indennitaria/risarcitoria da irragionevole durata del processo davanti ai giudici nazionali, sicchè gli interessati potevano solo adire la Corte Edu, ai sensi degli artt. 13, 34 e 35 della Convenzione.

L’esame della struttura portante della legge, ad onta delle novelle legislative intervenute nel corso degli anni, ne palesa chiaramente lo scopo: indennizzare l’ansia e la sofferenza per l’incertezza per il protrarsi della lite, senza che ne rilevi l’esito, salvo il limite della temerarietà o, più in generale, dell’abuso.

Il legislatore italiano, sempre nell’ottica di bilanciamento dei plurimi interessi coinvolti, ha poi introdotto, all’art. 4 della legge sull’equa riparazione, la previsione di un termine di decadenza.

La domanda di ristoro, se non proposta in corso di causa, deve essere introdotta, entro sei mesi dal momento in cui la decisione che conclude il procedimento diviene definitiva (sul punto va ricordato che la Corte costituzionale ha di recente dichiarato l´illegittimità costituzionale dell´art. 4 della legge 24 marzo 2001, n. 89, come sostituito dall´art. 55, comma 1, lettera d), del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 2012, n. 134, nella parte in cui non prevede che la domanda di equa riparazione possa essere proposta in pendenza del procedimento presupposto).

Ebbene, come si anticipava, nell’anno appena trascorso, il giudice di legittimità a Sezioni Unite si è nuovamente interrogato su cosa debba intendersi per “decisione definitiva” e dunque su quale sia il momento dal quale comincia a decorrere il termine di decadenza semestrale per la proposizione del giudizio di equa riparazione.

Detta delicata questione, evidentemente, ne sottende un’altra: la possibilità o meno di considerare la fase di cognizione unitariamente rispetto a quella di cognizione, nonché l’equiparabilità del processo di esecuzione a quello di ottemperanza.

Corollari di questo principale interrogativo e questioni serventi rispetto ad esso sono poi quelle relative al momento in cui deve considerarsi introdotto il processo esecutivo, nonché la rilevanza nel procedimento cd. Pinto e nel calcolo della durata del processo del termine di 120 giorni di cui all’art. 14 del d.l. n. 669 del 31 dicembre 1996, convertito dalla legge n. 30 del 28 febbraio 1997.

Prima di indicare la via tracciata dalle S.U., va subito evidenziato come la strada interpretativa percorsa dal giudice di legittimità è stata scelta avendo quale obiettivo, lo si anticipava, l’armonizzazione del sistema di tutela offerto al cittadino dalla legge Pinto al diritto vivente Edu, perché la funzione del giudice nazionale è, scrive la Corte, quella di cooperare, anche con interpretazioni convenzionalmente, oltre che costituzionalmente orientate, con la giurisprudenza sovranazionale, in modo da offrire lo standard più elevato possibile di protezione dei diritti umani.

2. Il rapporto tra il giudizio di cognizione e quello esecutivo e l’equiparabilità fra quest’ultimo e l’ottemperanza. Il diritto alla ragionevole durata del processo e quello alla esecuzione delle decisioni interne esecutive.

Le sette sentenze delle Sezioni Unite, dalla n. 19883/2019 alla 19888/2019, nonché la n. 20404/2019 affrontano quindi nuovamente il tema della equiparabilità del processo di esecuzione e di ottemperanza e, a monte, dell’unicità o meno del processo di cognizione e di esecuzione (sia quanto alla commisurazione della durata del processo, sia ai fini della verifica del rispetto del termine di decadenza) ribaltando, nelle ipotesi in cui debitore è lo Stato, le conclusioni cui era giunta Sez. U, n. 09142/2016, Bianchini, Rv. 639530-01 (questo ufficio ha massimato Sez. U, n. 19883/2019, Conti, Rv. 644838-01, Rv. 644838-02, Rv. 644838-03, Rv. 644838-04).

Senza alcuna pretesa di esaustività, va sul punto sinteticamente ricordato che, dopo un primo approccio (cfr. Sez. U, n. 27348/2009, Forte, Rv. 610863-01 e Sez. U, n. 27365/2019, Forte, Rv. 610863-01) volto a negare la possibilità di considerare unitariamente, ai fini del ristoro da irragionevole durata del processo, cognizione ed esecuzione, stante la asserita diversità funzionale e strutturale dei due processi, la prima rivoluzione in relazione al tema in esame fu offerto da Sez. U, n. 06312/2014, Di Palma, Rv. 630042-01 (e dalle sei sentenze gemelle non massimate dalla n. 06313 alla 06318/2014 del medesimo estensore).

Con queste pronunzie cambia completamente la prospettiva, si afferma, nell’ottica convenzionalmente orientata, in attuazione della effettività delle tutele ed in armonia con l’art. 6, paragrafo 1 della Convenzione, la necessità di valutare unitariamente le due fasi: merito ed esecuzione non sono due processi diversi, ma piuttosto fasi dello stesso, volto alla soddisfazione del diritto, che trova il suo culmine nell’atto conclusivo della procedura esecutiva.

L’ermeneusi dell’assetto normativo è stato poi completato dalla giurisprudenza di legittimità con la già citata Sez. U, n. 09142/2016, Bianchini, Rv. 639530-01 con la quale l’affermazione della necessaria valutazione unitaria di cognizione ed ottemperanza viene bilanciata con altri principi ed interessi.

Si è sostenuto, infatti, che, ai fini dell’equa riparazione, cognizione ed esecuzione vanno considerate unitariamente o separatamente in base alla condotta di parte, allo scopo di preservare la certezza delle situazioni giuridiche e di evitarne l’esercizio abusivo, sicchè ove la parte si sia attivata per l’esecuzione nel termine di sei mesi dalla definizione del processo di cognizione, ai sensi dell’art. 4 della l. n. 89 del 2001, può esigere la valutazione unitaria dei procedimenti, finalisticamente considerati come un unicum, mentre, ove abbia lasciato spirare quel termine, non può più far valere l’irragionevole durata del procedimento di cognizione, non essendovi soluzione di continuità rispetto al successivo processo di esecuzione.

Le conclusioni innanzi riferite, come affermato in apertura, sono state ripensate almeno con riferimento all’ipotesi in cui il debitore, come nel caso dell’indennizzo ex lege Pinto, sia lo Stato.

Osservano al riguardo le Sezioni Unite della Corte che la necessità del renvirement deriva dall’indispensabile ancoraggio al diritto vivente della Corte Edu, perché la giurisprudenza italiana deve collaborare fattivamente con le Corti sovranazionali alla protezione dei diritti fondamentali, in armonia con quanto già ritenuto di recente sia dallo stesso giudice di legittimità a Sezioni Unite che dal Giudice delle leggi (a tal proposito vengono espressamente richiamate, sia Sez. U, n. 33208/2018, Conti, Rv. 652237-01, sia Corte cost. 26.3.2015, n. 49 che Corte cost. 24.1.2019, nn. 24 e 25).

Nel dettaglio, la riflessione del giudice di legittimità italiano parte sia dalla causa Di Blasi ed altri c. Italia, ric. n. 42256/2012, conclusasi con la cancellazione della causa dal ruolo, sia dalla sentenza della Corte europea diritti dell’uomo, 14 settembre 2017, Bozza contro Italia.

Nel primo caso, avente piena efficacia e vincolatività, benchè la decisione della Corte europea sia stata di cancellazione della causa dal ruolo (a conferma si richiama Cass. pen., Sez. 1, n. 50919/2018, Magi, Rv. 274878-01 ed il comma 421, dell’art. 1 della l. n. 147 del 27 dicembre 2013), il Governo italiano ha presentato dichiarazione unilaterale con la quale ha riconosciuto la violazione dell’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione europea in relazione ad una vicenda nella quale, dopo il riconoscimento delle spettanze retributive, nell’inerzia dello Stato debitore (si trattava di impiegati statali), il giudizio di ottemperanza era stato promosso a distanza di poco meno di tre anni.

Nel secondo, la Corte europea espressamente distingue i casi in cui il creditore è un privato, da quelli in cui è una parte pubblica, per evidenziare che in questa seconda ipotesi la fase esecutiva non dovrebbe di norma aver luogo, attese le caratteristiche soggettive del debitore.

La Corte Edu, infatti, dopo aver dato atto che, secondo la propria giurisprudenza, l’esecuzione è parte integrante del processo (Corte europea dei diritti dell’uomo, Hornsby contro Grecia del 19 marzo 1997, Silva Pontes contro Portogallo del 23 marzo 1994, Di Pede e Zappia contro Italia del 26 settembre 1996, Bourdov contro Russia del 7 maggio 2002) e che sussiste sempre l’obbligo per lo Stato contraente di assicurare che ciascun diritto rivendicato trovi la sua effettiva realizzazione, afferma che la consistenza di detto obbligo è diversa a seconda che il debitore sia una pubblica amministrazione o un privato.

Quando debitore è il privato, l’obbligo dello Stato si concretizza, infatti, semplicemente nel garantire al creditore l’assistenza necessaria, di modo che il diritto rivendicato possa trovare la sua realizzazione.

Per converso, quando debitore è lo Stato, di norma, il creditore non deve attivare un procedimento esecutivo per la realizzazione del proprio debito, soprattutto quando l’esecuzione della sentenza non comporti alcuna difficoltà, concretizzandosi nel pagamento di una somma di denaro, dovendo l’autorità pubblica a tanto provvedere spontaneamente (Corte europea dei diritti dell’uomo, Akachev contro Russia del 21 giugno 2008, Chvedov contro Russia del 20 ottobre 2005, Kosmidis e Kosmidis contro Grecia dell’8 novembre 2007), essendo sufficiente la notifica della sentenza o l’espletamento di adempimenti processuali di natura formale.

In conclusione, secondo il diritto vivente della Corte Edu, cognizione ed esecuzione hanno sempre natura unitaria quando debitore è lo Stato, poiché non vi è alcun onere del privato debitore di intentare il procedimento esecutivo, almeno per le sentenze, come quelle di condanna al pagamento di somme di denaro, che alcun problema esecutivo pongono.

Ne consegue che il termine finale entro il quale introdurre l’azione di indennizzo ex lege Pinto è quello della decisione definitiva resa in sede esecutiva, senza che rilevi, quando debitore è lo Stato, ai fini del rispetto del termine di decadenza di cui all’art. 4 cit., il lasso temporale intercorso tra la fine del giudizio di cognizione e l’introduzione di quello esecutivo.

Questo sinteticamente il panorama del diritto vivente della giurisprudenza Edu con cui hanno dovuto confrontarsi le Sezioni Unite che sono giunte alla conclusione di mantenere fermi i principi di Sez. U, n. 09142/2016, Bianchini, Rv. 639530-01 solo con riguardo alle ipotesi in cui debitore sia un privato, mentre in quelle in cui si tratti dello Stato, osservano, l’unitarietà di cognizione ed esecuzione è incondizionata, senza che rilevi il tempo entro il quale è stato iniziato l’eventuale giudizio di cognizione.

Il principio è stato così massimato da questo ufficio: ai fini della decorrenza del termine di decadenza per la proposizione del ricorso ex art. 4 della l. n. 89 del 2001, nel testo modificato dall’art. 55 del d.l. n. 83 del 2012, conv. dalla l. n. 134 del 2012, risultante dalla sentenza della Corte costituzionale n. 88 del 2018, la fase di cognizione del processo che ha accertato il diritto all’indennizzo a carico dello Stato-debitore va considerata unitariamente rispetto alla fase esecutiva eventualmente intrapresa nei confronti dello Stato, senza la necessità che essa venga iniziata entro sei mesi dalla definitività del giudizio di cognizione, decorrendo detto termine dalla definitività della fase esecutiva.

Sul piano argomentativo, la S.C. precisa che la soluzione prescelta non mina né la certezza, né la stabilità delle decisioni giuridiche. Non realizza una tacita abrogazione della norma sulla decadenza che comincerà a decorrere dalla decisione definitiva nel procedimento esecutivo e nemmeno determina un surrettizio allungamento dei tempi di soddisfazione del diritto e del processo, oltre ad essere in linea con il principio, affermato dalla Corte Edu, secondo il quale il creditore dello Stato non è gravato dall’onere di introdurre il giudizio esecutivo per il pagamento di somme di denaro, sicchè permane in capo alla pubblica amministrazione l’obbligo di adempiere al pagamento, senza soluzione di continuità, anche oltre il termine convenzionalmente ritenuto congruo e ragionevole ai fini dell’adempimento spontaneo.

È attento il giudice di Legittimità a precisare, però, che la ritenuta unità della fase di cognizione ed esecuzione, quando debitore è lo Stato, senza necessità di rispetto di alcun termine, comporta inevitabilmente che dal tempo-processo vada detratto quello cagionato dall’inerzia del creditore nella introduzione della fase esecutiva.

Insomma, nel computo della durata complessiva di cognizione ed esecutivo non va considerato come “tempo processo” quello intercorso fra la definitività della fase di cognizione e l’inizio della fase esecutiva, che potrà eventualmente rilevare ai fini del ritardo nell’esecuzione come autonomo pregiudizio, allo stato indennizzabile in via diretta ed esclusiva, in assenza di rimedio interno, dalla Corte dei diritti dell’uomo.

Come già ritenuto nelle innanzi ricordate sette sentenze gemelle a Sezioni Unite del 2014, anche nelle pronunzie in commento si afferma, infatti, che il diritto all’esecuzione delle decisioni interne esecutive non può essere ricondotto all’alveo della legge Pinto e va distinto, sia sul piano strutturale che funzionale, dal diritto alla durata ragionevole del processo.

Il diritto del privato al risarcimento da ritardo nella esecuzione della decisione favorevole eccedente il termine ritenuto congruo di sei mesi e cinque giorni costituisce infatti un autonomo pregiudizio, correlato ad un ritardo attribuibile allo Stato amministrazione (in tema si vedano: Corte Europea dei diritti dell’Uomo, Gaglione contro Italia, del 21 dicembre 2010, ma anche Simaldone contro Italia del 31 marzo 2009) indennizzabile ex art. 41 della Cedu davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo.

Il rilievo che la decisione definitiva non possa che essere quella con la quale viene effettivamente data soddisfazione al diritto preteso in giudizio, comporta, in armonia con le premesse ed anche con quanto già ritenuto da Sez. U, n. 27365/2009, Forte, Rv. 610863-01 e n. 27364/2009 (non massimata), che il giudizio di ottemperanza e quello di esecuzione siano, per quello che qui interessa, assimilabili.

Ed infatti, osserva la Corte, non rileva in questa sede la disputa – che pure ha appassionato la dottrina – relativa alla natura del giudizio di ottemperanza, ritenuto di carattere meramente esecutivo da taluno, di natura cognitoria da altri ed infine, pragmaticamente, di natura mista dall’orientamento prevalente, perché al fine della valutazione unitaria delle due fasi, nell’ottica della legge Pinto, quello che conta è unicamente la notazione che la fase di ottemperanza è anch’essa, innegabilmente, strumento imprescindibile per l’effettività della tutela.

Dunque nella prospettiva ricostruttiva seguita dalla Corte nelle pronunzie del 2019 il processo di ottemperanza va parificato a quello esecutivo per la finalità di dare attuazione al giudicato e di rendere effettiva la tutela degli interessi legittimi e dei diritti in caso di giurisdizione esclusiva.

Nè incide sulla unitarietà delle fasi di merito ed esecuzione la diversità dei plessi giurisdizionali, ordinario ed amministrativo, rilevando solo il tempo processuale necessario a rendere soddisfazione al diritto preteso.

3. Le questioni ancillari: l’individuazione del momento in cui comincia la fase esecutiva e la rilevanza del termine di 120 giorni di cui all’art. 14 del d.l. n. 669 del 31 dicembre 1996, conv. dalla legge n. 30 del 28 febbraio 1997.

Il procedimento esecutivo comincia, scrive la S.C., con la notifica del pignoramento, ai sensi dell’art. 491 c.p.c. ed è da questo momento quindi che va computata la durata di detta fase, essendo la notifica del precetto e/o del titolo esecutivo atti neutri sotto tal profilo.

La seconda questione ancillare riguarda la rilevanza del termine di 120 gg. di cui all’art. 14 del d.l. n. 669 del 31 dicembre 1996, conv. dalla legge n. 30 del 28 febbraio 1997, ai fini della durata del ragionevole processo.

Ebbene, quanto a detto aspetto, la via interpretativa maestra non può che essere quella tracciata da Corte cost., 6 giugno 2018 n. 135, sicchè la specialità del regime di riscossione dei crediti ex lege Pinto esclude che ad esso si applichino termini diversi da quello di sei mesi e 5 gg. per l’adempimento spontaneo.

In ogni caso, specificano le Sezioni Unite, rispetto alle procedure di pagamento di altri debiti della pubblica amministrazione detto termine, laddove impedisce, prima del suo decorso, l’azione esecutiva, potrà eventualmente rilevare sotto il profilo del ritardo nell’esecuzione, dunque, facendo maturare in capo al privato il diritto all’indennizzo autonomamente richiedibile innanzi alla Corte Edu.

Il termine di 120 giorni di cui all’art. 14 del d.l. n. 669 del 1996 non produce quindi alcun effetto ai fini della ragionevole durata del processo esecutivo, né sullo spatium adimplendi che la giurisprudenza nazionale, in modo coerente con la giurisprudenza della Corte Edu, riconosce allo Stato per provvedere al pagamento.

4. Gli obblighi dello Stato debitore. Conclusioni.

Le sette pronunzie delle Sezioni Unite del 2019, pur partendo da questioni specifiche attinenti il sistema indennitario disegnato dal legislatore con la legge Pinto volto al ristoro dei danni dovuti alla lentezza del sistema processuale, si fanno apprezzare, quindi, oltre che per le soluzioni offerte alle singole questioni proposte, per la complessiva rilettura del sistema, rispettosa dei nostri principi costituzionali, in armonia con la giurisprudenza della Corte dei diritti dell’uomo, nonché con la ratio del legislatore.

L’operazione di ripensamento è stata peraltro compiuta avendo sempre presente il quadro di riferimento già tracciato dal giudice di legittimità nei pregressi approdi, con i quali la Corte si è costantemente confrontata, giungendo a modificare le conclusioni raggiunte, in ragione delle riflessioni operate dalla Corte Edu, solo avuto riguardo alle ipotesi in cui il debitore è lo Stato.

I principi contenuti nelle sentenze in commento, ad ogni modo, come si anticipava, trascendono i temi specifici e toccano (ed interferiscono con) questioni e temi ben più generali.

In primis, la ribadita esigenza che il giudice nazionale offra sempre una lettura del corpus normativo in senso convenzionalmente orientato, confrontandosi con il diritto vivente Edu e più in generale con la giurisprudenza delle Corti sovranazionali.

In secundis, la rinnovata attenzione alla effettività della tutela dei diritti che vede quale corollario, almeno quando il debitore è lo Stato, ai fini della commisurazione del tempo del processo, la considerazione unitaria delle fasi di merito ed esecuzione/ ottemperanza, senza che rilevi il tempo intercorso tra l’instaurazione delle due fasi.

Infine, l’affermazione forse più importante delle pronunzie, il fondamento giustificativo della unicità delle fasi, quando debitore è lo Stato, sicchè in dette ipotesi il termine di decadenza comincerà a decorrere sempre dall’ultimo atto della procedura esecutiva: dopo la pronunzia di merito, sussiste un obbligo in capo allo Stato di adempimento delle proprie obbligazioni, che permane anche dopo il termine concesso per provvedervi spontaneamente, senza soluzione di continuità.

Insomma, in accordo con i principi di civiltà giuridica più moderni, se il debitore è lo Stato, l’azione esecutiva, almeno di regola e per le decisioni che non involgano questioni esecutive complesse, non dovrà essere intrapresa, potendo e dovendo il privato confidare nella doverosa esecuzione spontanea da parte dello Stato.

In limine, la decisione delle S.U. di conservare la distinzione, da operarsi, secondo l’insegnamento contenuto nella citata Sez. U, n. 06312/2014, in virtù del principio della domanda tra:

a) il diritto alla esecuzione delle decisioni interne esecutive, dunque il diritto del privato di essere pagato dallo Stato nel tempo non superiore a quello ritenuto ragionevole di sei mesi e cinque giorni, tutelabile, in assenza di rimedio interno, solo davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo ex art. 41 della Convenzione per violazione dell’art. 6, par. 1 della Cedu;

b) il diritto ad un processo di durata ragionevole che, se violato, può essere ristorato, attivando il processo ex lege Pinto, dunque azionando la domanda di indennizzo.

Del resto, scrive il giudice di legittimità approfondendo il tema, l’autonomia dei due pregiudizi è riconosciuta anche dalla stessa Corte Edu che provvede a liquidarli entrambi solo quando sia stata azionata la tutela per tutti e due e sussistano i diversi presupposti originativi delle poste indennitarie, atteso che l’uno è correlato alla irragionevole durata del processo celebrato innanzi al giudice, l’altro, per converso, ad un ritardo dello Stato-amministrazione nel pagamento ‘spontaneo’.

È per questo motivo che nel computo complessivo della durata del processo di cognizione e di esecuzione non va considerato come “tempo processo”, quello intercorso tra la definitività della fase di merito e l’inizio di quella esecutiva che potrà essere invece valorizzato quale violazione del diritto alla esecuzione delle decisione interne esecutive.

La soluzione della Corte sotto tal profilo appare, a ben vedere, obbligata, l’unica possibile nel rispetto della separazione dei poteri dello Stato.

Resta forse solo da riflettere sulla necessità che il Legislatore intervenga sull’intero sistema, riconducendo nell’alveo delle garanzie interne anche il ristoro del pregiudizio cagionato dal ritardo nella esecuzione della decisione favorevole, magari con meccanismi di raccordo con l’indennizzo cd. Pinto, elidendo così il costante ricorso dei privati alla Corte europea dei diritti dell’uomo.

In limine, resta da chiedersi, infine, se l’affermazione di principio sugli obblighi dello Stato debitore (che benchè effettuata rispetto alla legge Pinto sembra ampiamente poterne valicare i confini) vada esteso, più in generale, a tutte le altre pubbliche amministrazioni.

PARTE SECONDA QUESTIONI APERTE IN TEMA DI NULLITÀ

  • urbanistica e edilizia
  • contratto
  • ricorso per annullamento
  • risoluzione di contratto

VIII)

NULLITÀ TESTUALI, NULLITÀ VIRTUALI, NULLITÀ SELETTIVE E NULLITÀ DI PROTEZIONE: PROFILI ANCORA APERTI IN TEMA DI NULLITÀ URBANISTICHE.

(di Valeria Pirari )

Sommario

1 Premessa. - 2 Nullità virtuali. - 3 Nullità di protezione. - 4 Le nullità urbanistiche: nullità virtuale, nullità virtuale di protezione o nullità di protezione virtuale? - 4-a Premessa. - 4-b Le nullità urbanistiche. Il contrasto tra teoria formale (c.d. nullità testuale) e sostanziale (c.d. nullità virtuale). La soluzione. - 4-c Profili problematici: nullità di protezione virtuale e disciplina applicabile.

1. Premessa.

Il sistema delle invalidità negoziali ha subito nel tempo un’importante evoluzione dovuta al proliferare di figure qualificate normativamente col nomen nullità, ma aventi caratteristiche non sempre corrispondenti al relativo modello codicistico, al quale si affiancano. Per questo, tali forme di invalidità sono state ricondotte al sintagma “nullità speciali”, le quali impongono di accertare, di volta in volta, la loro adattabilità allo statuto tradizionale.

L’esigenza di individuare la normativa applicabile si avverte in modo particolare quando l’invalidità è declinata dal legislatore nella forma della nullità di protezione, la quale mal si presta, in virtù della ratio ad essa sottesa, ad essere totalmente incanalata nella rigida bipartizione codicistica della nullità e della annullabilità, ponendosi a cavallo tra i due rimedi.

Non meno arduo è il compito dell’interprete in presenza di norme imperative prive di conseguenze sanzionatorie, previste invece per altre ispirate alla medesima ratio, come spesso accade con i precetti unionali che richiedono un adattamento ai principi di Stati differenti, implicando le stesse la preliminare valutazione della stessa configurabilità, in caso di loro violazione, di nullità fondate sul disposto di cui all’art. 1418, comma 1, c.c. (c.d. nullità virtuale).

Nella trasformazione dello strumento invalidatorio, un forte contributo è provenuto certamente dall’internazionalizzazione del diritto privato, conseguente agli interventi eurounitari sul campo, finalizzati dapprima alla rimozione degli ostacoli al mercato interno e alla valorizzazione del principio della libera concorrenza, ai quali si è successivamente accreditata, col Trattato di Lisbona, la formula del perseguimento della economia sociale di mercato (art. 3, par. 3, del Trattato sull’Unione Europea), in nome della quale sono state moltiplicate le forme di protezione di situazioni di strutturale debolezza contrattuale, da quella dei consumatori a quella delle imprese minori, armonizzando il diritto contrattuale interno in tema di scambio e introducendo appunto la categoria delle nullità di protezione, volte a contrastare, attraverso la disciplina del contenuto minimo dei contratti, le asimmetrie di potere di alcune categorie di contraenti (vedi Freda, Riflessioni sulle c.d. nullità di protezione e sul potere-dovere di rilevazione officiosa; Amadio, Lezioni di diritto civile, seconda edizione, 2016, 169 e segg.). È del resto in esecuzione della Direttiva del Consiglio delle Comunità europee n. 13 del 5 aprile 1993, con la quale è stato imposto agli Stati membri di adottare una tutela contrattuale minima del consumatore nei confronti del professionista, che la l. n. 52 del 1996 ha dettato la disciplina dei contratti dei consumatori, trasfusa negli artt. 33 e ss. del d.lgs. n. 206 del 2005, intitolato “Codice di consumo”.

Può anzi dirsi che è proprio la convergenza tra principi europei, volti all’attuazione del mercato competitivo e trasparente, e principi costituzionali della solidarietà, dell’uguaglianza e del rispetto per la persona umana, volti a rimuovere il sacrificio delle persone più deboli a vantaggio di quelle più forti, ad avere fortemente condizionato e indirizzato, nella gran parte dei casi, gli interventi del legislatore verso una conformazione dell’autonomia privata, nella quale tali principi, permeando l’interesse pubblico, costituiscono, in materia, parametro di valutazione (Polidori, Nullità di protezione e sistematica delle invalidità negoziali, 2016, 13).

Ed è per questo che, secondo alcuni commentatori (ma non così, come si vedrà, secondo la giurisprudenza di legittimità), la mancata previsione di rimedi a precetti cogenti, spesso imposti dal legislatore comunitario, e il proliferare di previsioni normative speciali imporrebbero un ripensamento dello statuto teorico e concettuale delle nullità, non soltanto per la derivata difficoltà di delineare una categoria unitaria dell’istituto, ma anche per il sostanziale avvenuto sgretolamento dei principi di tipicità della cause di annullabilità del contratto e di inderivabilità della nullità da violazioni di regole di correttezza e buona fede, trascinate, per così dire, nell’alveo del difetto genetico da un rimedio letto in termini non strutturali, ma di sanzione a comportamenti da reprimere, oltreché per la discutibilità della stessa distinzione tra gli istituti della nullità e della annullabilità (in tal senso, D’Amico, Nullità virtuale – Nullità di protezione. Variazioni sulla nullità, in I Contratti, 7/2009, 732 e ss.; Amadio, Lezioni di diritto civile, seconda edizione, 2016, 169 e ss.).

Se, infatti, in caso di nullità virtuali, le maggiori difficoltà si pongono, alla stregua della clausola di salvezza consacrata nell’art. 1418, comma 1, c.c. (“salvo che la legge disponga diversamente”), sia in sede di individuazione della natura imperativa della norma (da intendersi come quella avente carattere proibitivo e finalità di garantire interessi generali, collocabili al vertice della gerarchia dei valori protetti dall’ordinamento giuridico, secondo quanto sostenuto da Sez. 5, n. 11351 del 2001, Marziale, Rv. 549138-01), sia in sede di discernimento tra ipotesi di illiceità (cui consegue sempre la nullità) e ipotesi di illegalità (cui non consegue sempre la nullità), facendo entrambe riferimento alla contrarietà a norme imperative (perché dettate anche nell’interesse generale, imponendosi inderogabilmente alla volontà dei contraenti, in tal senso Sez. U., n. 26724/2007, Rordorf, Rv. 600329

01) e non essendo queste necessariamente riconducibili, nonostante la loro inderogabilità, al concetto di ordine pubblico (Gazzoni, Manuale di diritto privato, 965), nel caso delle nullità previste da leggi speciali, in prevalenza di protezione (specie in tema di tutela del consumatore), come si è detto, si pone il problema della disciplina applicabile, con particolare riferimento alla legittimazione ad agire e alla rilevabilità d’ufficio del vizio, e, in certi casi, alle conseguenze che scaturiscono dalla declaratoria di nullità del contratto presupposto rispetto alle operazioni derivanti dallo stesso, quando il soggetto protetto, unico legittimato, faccia valere l’invalidità soltanto rispetto ad alcune di esse (c.d. nullità selettive).

2. Nullità virtuali.

È stato evidenziato come, nell’ambito delle nullità c.d. virtuali, non siano emerse novità di rilievo, stante l’approccio restrittivo adottato dalla giurisprudenza di legittimità, che ha da tempo frenato il ricorso a quella che è stata definita l’“ipertrofia” dell’impiego di tale rimedio invalidatorio (vedi D’Amico, Nullità virtuale – Nullità di protezione. Variazioni sulla nullità, citato, 732 e ss.).

Attraverso l’analisi dei provvedimenti susseguitisi negli anni, ivi compreso quello in rassegna, appare invero evidente come la Suprema Corte abbia il più delle volte escluso la configurabilità della nullità, ora negando rilevanza alle norme, pure imperative, concernenti meri comportamenti dei contraenti, ora reputando insufficienti principi genericamente ricavabili dal sistema in una determinata materia.

Pronunciandosi in tema di intermediazione finanziaria, ad esempio, Sez. U., n. 26724/2007, Rordorf, Rv. 600329-01 (in termini Sez. 1, n. 8462/2014, Didone, Rv. 63088601), ha sostenuto che la nullità del contratto per contrarietà a norme imperative, in difetto di espressa previsione, può seguire alla sola violazione di norme inderogabili concernenti la validità del contratto (perché relative alla struttura o al contenuto del regolamento negoziale delineato dalle parti), ma non anche alla violazione di norme, pure imperative, riguardanti il comportamento dei contraenti (nella specie, relative ai doveri di informazione del cliente e di corretta esecuzione delle operazioni poste a carico dei soggetti autorizzati alla prestazione dei servizi di investimento finanziario ex art. 6 l. n. 1 del 1991). Inoltre, se l’invalidità interviene nella fase antecedente o coincidente con la conclusione del contratto di intermediazione destinato a regolare i successivi rapporti tra le parti (c.d. contratto quadro, assimilabile alla figura del mandato), può soltanto essere fonte di responsabilità precontrattuale, con conseguenze risarcitorie, mentre se interviene successivamente in esecuzione dello stesso, con riguardo alle operazioni di investimento o disinvestimento, va ricondotta a responsabilità contrattuale, con conseguente eventuale risoluzione del contratto, ma non può determinare, in mancanza di esplicita previsione normativa, la nullità del c.d. contratto quadro o dei singoli atti negoziali a norma del primo comma dell’art. 1418 c.c. Si è sostenuto, in particolare, che anche quando la nullità sia fatta dipendere dalla presenza, nel contratto, di clausole riguardanti comportamenti contrari al precetto di buona fede o altri inderogabili precetti legali, pure esistenti nella casistica esaminata, la nullità del contratto non è fatta dipendere dal comportamento tenuto in concreto dalla parte, bensì dal tenore della clausola in esso prevista, e che, nello specifico settore dell’intermediazione finanziaria, non vi sono indici univoci dell’intenzione del legislatore di trattare sempre e comunque le regole di comportamento, ivi comprese quelle concernenti i doveri d’informazione dell’altro contraente, alla stregua di regole di validità degli atti, mentre nessuna indicazione utile potrebbe derivare dalle previsioni contenute nel d.lgs. n. 190 del 2005, in tema di nullità dei contratti di prestazione a distanza dei servizi finanziari, in quanto previsione isolata, con carattere di specialità e tale da non consentire alcuna affermazione di principio. È stato infine considerato come l’interesse alla tutela del buon funzionamento del mercato, su cui si potrebbe riflettere la correttezza del comportamento degli operatori, sia garantito attraverso il sistema dei controlli facenti capo all’autorità pubblica di vigilanza e le sanzioni che ad esso accedono, e come il riconoscimento della dedotta nullità virtuale mal si concilierebbe con l’impossibilità di riconoscere ad essa la disciplina della nullità relativa (sul punto, parte della dottrina aveva, invece, sostenuto che la violazione non determinerebbe la nullità del contratto, ma la sua annullabilità per vizio del consenso ex art. 1427 c.c. o la responsabilità precontrattuale ex art. 1337 c.c. o la responsabilità per danni ex art. 1440 c.c.. In tal senso Galgano, Trattato di diritto civile, vol. 2, terza edizione, Cedam, 324).

Il medesimo approccio restrittivo è stato tenuto nell’anno in rassegna, come si vedrà, allorquando, in tema di nullità c.d. urbanistiche, è stato escluso che dalla nullità c.d. testuale comminata dagli artt. 17 e 40 della l. n. 47 del 1985 e 46 del d.P.R. n. 380 del 2001 (T.U. dell’Edilizia) possa discendere anche una nullità virtuale ex art. 1418, comma 1, c.c. e investire così qualunque negozio avente ad oggetto immobili realizzati in assenza di titolo edilizio o in difformità, totale o parziale, o in variazione essenziale da esso, anche se contenente le “menzioni” richieste dalle predette norme (Sez. U., n. 8230/2019, Sambito, Rv. 653283-01).

Diversamente è accaduto, in verità, con riguardo alla materia locatizia, sia pure coerentemente coi principi espressi nel 2007 circa la necessità che la norma imperativa attenga agli elementi strutturali del negozio perché discenda, dalla sua violazione, un vizio genetico dello stesso, allorquando Sez. U. n. 23601/2017, Travaglino, Rv. 645468-01, ha ravvisato la nullità c.d. virtuale in una fattispecie nella quale era stato registrato un contratto con canone apparente e non reale, sostenendo la nullità e non sanabilità ex art. 1423 c.c. del patto aggiunto di maggiorazione del canone, non già o non soltanto per essere stato violato parzialmente nel quantum l’obbligo di (integrale) registrazione, ma anche per l’illiceità della causa concreta del negozio (intesa nella più moderna nozione di scopo pratico del negozio), siccome disvelante la finalità di elusione ed evasione fiscale, stante la natura imperativa della norma tributaria, individuata nell’art. 53 Cost., avente portata direttamente precettiva.

3. Nullità di protezione.

Le novità di maggior rilievo si sono invero registrate con riguardo alle nullità c.d. testuali di protezione, riferibili al terzo comma dell’art. 1418 c.c. ed espressamente comminate dalla legge, le quali sono poste a tutela del contraente più debole, oltre a caratterizzarsi per un regime giuridico peculiare e non sempre omogeneo, tale da renderle non sovrapponibili, si è detto, alla categoria della nullità tradizionalmente intesa e da sottrarle agli schematismi che la distinguono dal diverso istituto della annullabilità (Polidori, Nullità di protezione e sistematica delle invalidità negoziali, 2016, 45).

Molteplici sono le previsioni normative in materia, ora riferite alla violazione di comportamenti imposti dalla legge ai contraenti, anche se non afferenti al contenuto del contratto, come nel caso delle clausole vessatorie nei contratti conclusi con i consumatori, già previste dall’art. 1469 quinqiues c.c. (secondo cui “L’inefficacia opera soltanto a vantaggio del consumatore e può essere rilevata d’ufficio dal giudice”) e abrogate con l’introduzione del d.lgs. n. 206 del 2005 (c.d. Codice del consumo), il cui art. 36, comma 3, stabilisce che la nullità opera soltanto a vantaggio del consumatore e può essere rilevata d’ufficio dal giudice, ora previste dalla legislazione speciale, come in materia di multiproprietà dall’art. 7 del d.lgs. n. 427 del 1998, abrogato e riportato nell’art. 72 bis del ridetto Codice del consumo; in materia di vendita di immobile da costruire, dall’art. 2 del d.lgs. n. 122 del 2005 (che sancisce l’obbligo del costruttore di procurare, e consegnare all’acquirente, il rilascio di una fidejussione all’atto della stipula di un contratto riguardante un immobile da costruire, o in momento precedente, a pena di nullità, che può essere fatta valere soltanto dall’acquirente); in materia di intermediazione finanziaria dagli artt. 23 e 24 del d.lgs. n. 58 del 1998 (T.U. in materia di intermediazione finanziaria) (secondo cui “i contratti relativi alla prestazione dei servizi di investimento e accessori sono redatti per iscritto a pena di nullità che può essere fatta valere solo dal cliente”); in materia bancaria dall’art. 124 del d.lgs. n. 385 del 1993 (T.U. bancario) (che prevede la nullità del contratto per difetto di forma ex art. 117, commi 1 e 3, rimasti immutati, la quale, ai sensi dell’art. 127, può essere fatta valere solo dal cliente, mentre il contratto può essere modificato solo in senso più favorevole al cliente, disposizione questa modificata dall’art. 4, comma 3, del d.lgs. n. 141 del 2010, nel senso che la disposizione di cui all’art. 127, comma 4, si è conformata al regime giuridico del Codice del Consumo ex d.lgs. n.206 del 2005, secondo cui “le nullità previste dal presente titolo operano soltanto a vantaggio del cliente e possono essere rilevate d’ufficio dal giudice”, (vedi anche Galgano,

Trattato di diritto civile, vol. 2, terza edizione, Cedam, 324), nonché, si ritiene, in materia di nullità c.d. urbanistiche, alla luce della pronuncia delle Sez. U. n. 8230/2019, Sambito, Rv. 653283-01.

È rispetto ad esse che il sistema duale col quale il codice civile atteggia i rimedi dell’invalidità si rivela, secondo parte della dottrina, inadeguato, perché, contemplando i soli due istituti della nullità assoluta (connotata dall’inefficacia iniziale del negozio, dall’azionabilità da parte di qualunque interessato, dalla rilevabilità d’ufficio e dall’imprescrittibilità) e della annullabilità (caratterizzata per contro dall’efficacia iniziale, dalla legittimazione relativa, dalla non rilevabilità d’ufficio e dalla possibile sanabilità attraverso la convalida), non consente di ascrivere la disciplina delle nuove forme di nullità esclusivamente nell’ambito di ciascuno di essi, facendo vacillare, come qualcuno ha detto, la loro stessa distinzione, a dispetto della concezione tradizionale che, intendendola, invece, in modo radicale, aveva revocato in dubbio la riconducibilità delle due figure al medesimo genus (D’Amico, Nullità virtuale – Nullità di protezione. Variazioni sulla nullità, cit., 732 e ss.). Per contro, la giurisprudenza di legittimità è ormai pacificamente orientata nel senso di far rientrare le nullità di protezione nell’alveo delle nullità relative, alla cui disciplina, in assenza di diverse determinazioni normative, soggiacciono, mentre è stata del tutto esclusa l’estensibilità ad esse dello statuto proprio dell’annullamento (cfr da ultimo Sez. 2, n. 30555/2019, Criscuolo, Rv. 656208-01).

In proposito, può ormai ritenersi pacificamente risolto, nel senso della sua riserva in favore del solo contraente debole, il problema della legittimazione all’azione, costituente anzi, secondo Sez. U., n. 28314/2019, Acierno, Rv. 655800-01, il tratto unificante delle nullità di protezione, in quanto desumibile dalla regola contenuta nell’art. 36, comma 3, del d.lgs. n. 206 del 2005 (c.d. Codice del consumo) (secondo cui “la nullità opera soltanto a vantaggio del consumatore …..”), che ne esprime le conseguenze sostanziali, mentre lo spunto normativo è stato individuato dai commentatori nella disposizione codicistica di cui all’art. 1421 c.c. e, in particolare, nella clausola in essa contenuta che, facendo “salve diverse disposizioni di legge”, consente di superare il criterio generale che attribuisce la legittimazione a qualunque interessato, ponendosi con esso ormai in rapporto di specialità, più che di eccezionalità alla regola, in ragione della molteplicità di fattispecie che vi si riferiscono, e confortando l’opinione di quanti hanno ritenuto che il rimedio in questione si ponga a cavallo tra la nullità classica (con riguardo al rilievo officioso) e l’annullabilità (con riguardo alla legittimazione limitata), sia pure mitigata dal mantenimento degli aspetti della imprescrittibilità dell’azione ex art. 1422 c.c. e dei limiti al potere di convalida (si veda su quest’ultimo istituto, da ultimo, Sez. 2, n. 30555/2019, Criscuolo, Rv. 656208-01, citata, secondo cui, in assenza di diverse determinazioni nella normativa speciale, opera il disposto di cui all’art. 1423 c.c.). Con specifico riferimento a questi ultimi istituti, è stato anzi sostenuto che il ricorso agli stessi, in punto di disciplina, sia coerente con le esigenze di tutela del contraente debole che, a differenza di quanto accade nei casi di annullabilità (nei quali l’esigenza di protezione di uno dei contraenti nasce da perturbazioni occasionali e contingenti), si caratterizzano per la presenza di uno squilibrio strutturale, nel quale un soggetto fa valere sul contraente la sua posizione preminente sul mercato (Polidori, Nullità di protezione e sistematica delle invalidità negoziali, 2016, 17-19).

Con specifico riferimento alla convalida, se vi è chi ha sostenuto la sua incompatibilità con l’istituto della nullità relativa, perché in contrasto con le esigenze di tutela della parte debole, che potrebbe subire pressioni in tal senso dalla controparte, e perché la convalidabilità renderebbe l’istituto del tutto assimilabile all’annullamento, indipendentemente dal nomen iuris impresso dal legislatore (A. Gentili, Le invalidità, in I contratti in generale, II, Trattato dei contratti, diretto da Rescigno, 2 edizione, Torino, 2006, 1593), non è mancato chi, evidenziando per contro l’esistenza di casi di annullabilità soggetti a convalida, pur esposti al condizionamento psicologico della parte debole, e l’assenza del pericolo di osmosi con l’istituto dell’annullabilità, essendo la nullità imprescrittibile e rilevabile d’ufficio, ha escluso che sussista un parallelismo tra legittimazione riservata e sanabilità ovvero tra legittimazione allargata e inammissibilità della convalida, derivando invece la convalidabilità o meno di un contratto dalla ratio della patologia, sì da essere esclusa soltanto quando riposi sulla necessità di rimediare ad un grave squilibrio, il cui mantenimento urterebbe contro principi fondamentali, sottratti alla disponibilità dello stesso contraente protetto, come nel caso della fattispecie di cui all’art. 36 del Codice del consumo (Polidori, Nullità di protezione e sistematica delle invalidità negoziali, 2016, 38). Altro Autore, invece, ha affermato l’esistenza di una correlazione tra legittimazione riservata e convalidabilità, sostenendo che questa, nelle nullità di protezione, operi in modo affatto differente rispetto alla previsione di cui all’art. 1444 c.c. in tema di annullamento (nella quale la convalida rende stabili e permanenti effetti che il contratto ha già prodotto), in quanto consente al contratto di produrre quegli effetti che originariamente non era idoneo a produrre (in tal senso D’Amico, Nullità virtuale – Nullità di protezione. Variazioni sulla nullità, in I Contratti, 7/2009, 742).

In proposito, la giurisprudenza di legittimità, per stabilire la convalidabilità o meno di una nullità di protezione, si è affidata, coerentemente con la divisata natura di nullità dell’istituto in esame, al principio consacrato nell’art. 1424 c.c., che ammette la convalida dell’atto nullo soltanto se la legge disponga in tal senso. In linea con tale impostazione, è stato così escluso che possa considerarsi “conferma tacita” della nullità il rilascio tardivo della fidejussione imposta dall’art. 2 della l. n. 122 del 2005 contestualmente all’atto dispositivo di un fabbricato in via di costruzione, non soltanto perché il potere confermatorio spetta, astrattamente, al solo destinatario della tutela (l’acquirente, appunto) e non anche alla sua controparte contrattuale, ma anche perché la legislazione speciale non prevede la convalidabilità della sancita nullità (in tal senso, Sez. 2, n. 30555/2019, Criscuolo, Rv. 656208-01), o che possa ravvisarsi una ratifica tacita dell’acquisto di titoli, non autorizzati dal cliente, nella mancata contestazione dei rendiconti periodicamente inviatigli e nell’ordine impartito di trasferire tutti i titoli sul conto deposito ordinario, in quanto sarebbe intimamente contraddittorio ammettere la possibilità di rimediare alla violazione del requisito di forma, posto dalla legge a presidio della tutela del contraente debole, attraverso atti privi di forma scritta (nella specie, si trattava di contratti di gestione patrimoniale) (in tal senso, Sez. 1, n. 3623/2016, Nazzicone, Rv. 638841-01), mentre è stato qualificato come convalida della nullità dell’atto dispositivo di bene immobile privo delle c.d. menzioni urbanistiche, l’istituto della conferma, espressamente previsto, invece, dagli artt. 17, comma 4, e 40, comma 3, l. n. 47 del 1985, e 46, comma 4, d.P.R. n. 380 del 2001 (in tal senso Sez. U. n. 8230/2019, Sambito, Rv. 653283-01).

Oltre alla legittimazione esclusiva del cliente ad agire in giudizio, il rilievo officioso delle nullità in esame, esplicitato nella regola normativa di cui al ridetto art. 36, comma 3, del Codice del consumo, secondo cui “La nullità …. può essere rilevata d’ufficio dal giudice”, è stato reputato generalmente applicabile a tutte le tipologie di contratti nei quali è previsto tale regime di protezione in favore del cliente, anche quando non espressamente previsto dalle singole disposizioni (ad esempio, non ne fa menzione l’art. 23 T.U.F.), costituendo ormai ius receptum, in quanto definitivamente sancito, in sintonia con i principi eurounitari sul punto, da Sez. U, n. 26242/2014, Travaglino, Rv. 633503-01, sul presupposto della sua funzionalità alla tutela di interessi anche di rilievo costituzionale, quali il corretto funzionamento del mercato (art. 41 Cost.) e l’uguaglianza quantomeno formale tra contraenti forti e deboli (art. 3 Cost.), e ulteriormente ribadito, nell’anno in rassegna, da Sez. U. n. 28341/2019, Acierno, Rv. 655800-01.

E a tale conclusione si è giunti sconfessando chiaramente l’assunto dottrinale secondo cui le nullità speciali hanno fatto implodere il sistema originario delineato dal legislatore del 1942, in quanto, come sostenuto dalla citata Sez. U. n. 26242/2014, Travaglino, Rv. 633503-01, pur nella consapevolezza dell’innegabile trasformazione dell’istituto delle nullità in uno specifico presidio di specifici soggetti attraverso la sempre più frequente introduzione di figure di invalidità c.d. relative, le diverse vicende di nullità negoziale non hanno perso l’essenza della predetta categoria, benché connotate dal carattere della specialità, ma possono essere ricostruite in termini e in rapporti di genus a species, siccome sintesi di elementi eterogenei anche di interesse generale, come quello all’esercizio corretto, ordinato e ragionevole dell’autonomia privata, al rispetto di alcuni principi cardine (quali, tra gli altri, la buona fede, la tutela del contraente debole, la parità di condizioni quantomeno formale nelle asimmetrie economiche sostanziali) e al complessivo equilibrio contrattuale (in materia consumeristica si discorre, infatti, di ordine pubblico di protezione), per il cui perseguimento diventa essenziale il rilievo officioso.

Un ulteriore profilo problematico, proprio del regime delle nullità di protezione, è, infine, quello in cui venga in rilievo la nullità di singole clausole e non dell’intero contratto o delle operazioni realizzate in esecuzione di un contratto-quadro affetto da nullità (c.d. nullità selettive), siccome strettamente correlato alla legittimazione esclusiva del contraente protetto e ai limiti al suo esercizio, nonché al mancato riconoscimento della legittimazione in capo alla sua controparte contrattuale. In tal caso, potrebbero infatti venire in gioco quelle regole di comportamento, da intendersi come regole di buona fede e di correttezza, che, pur non valevoli a permeare in negativo la fattispecie negoziale, inserendosi come vizio genetico e facendone derivare l’invalidità, possono nondimeno costituire un argine all’uso distorto della funzione protettiva propria delle nullità, apportando un correttivo ai relativi effetti.

Questo tema è stato affrontato, nell’anno in rassegna, dalla citata Sez. U. n. 28341/2019, Acierno, Rv. 655800-01, allorché, con specifico riguardo ai contratti di investimento, si è interrogata sulla legittimità e liceità dello strumento delle nullità c.d. selettive, conseguenti alla conformazione bifasica dell’impegno assunto, in tali casi, dalle parti e alla legittimazione ad agire riservata al solo investitore, a cui vantaggio esclusivo operano gli effetti processuali e sostanziali dell’accertamento, partendo dalla considerazione secondo cui il requisito di forma previsto, in chiave funzionale, per il contratto-quadro intende rimediare allo squilibrio di carattere prevalentemente informativo-conoscitivo esistente tra i contraenti in ragione dell’elevato grado di competenza tecnica richiesta nell’ambito degli investimenti finanziari, senza investire la prevista sanzione invalidante anche gli obblighi informativi dell’intermediario che incidono, invece, sul suo adempimento. Tale meccanismo, si è detto, è governato dal principio della buona fede e correttezza contrattuale, sostenuto dai principi solidaristici di matrice costituzionale, il quale opera trasversalmente sia in favore dell’investitore - attraverso la predeterminazione legislativa della nullità e di un rigido sistema di obblighi informativi - sia in favore dell’intermediario - attraverso gli obblighi di lealtà cui l’investitore è tenuto in funzione di garanzia dello stesso.

Il principio di buona fede, che connota bilateralmente l’intero rapporto, incide dunque anche sull’uso selettivo delle nullità di protezione, impedendo che l’esercizio dell’azione di nullità, se finalizzato a colpire gli investimenti non redditizi, possa produrre effetti distorsivi ed estranei alla ratio riequilibratrice in funzione della quale è stato introdotto lo strumento di tutela, e paralizzandone l’operatività.

Se dunque, si è concluso, l’uso selettivo della nullità di protezione non viola in sé il principio di buona fede, benché la legittimazione a farla valere spetti unicamente all’investitore, sia con riguardo al contratto-quadro, sia con riguardo alle singole operazioni che ne sono conseguite, diversamente accade ove si accerti che gli ordini non colpiti dall’azione di nullità abbiano prodotto un rendimento economico superiore al pregiudizio confluito nel petitum, potendo in tal caso l’intermediario opporre l’eccezione di buona fede al fine di paralizzare gli effetti della dichiarazione di nullità degli ordini selezionati e scongiurare un ingiustificato sacrificio economico per sé.

Oltre ad arginare gli effetti della legittimazione riservata in caso di nullità c.d. selettiva, il principio della buona fede è stato visto dalla Suprema Corte anche come correttivo all’operatività degli istituti dell’imprescrittibilità e dell’inconvalidabilità (salva diversa previsione normativa) propri delle nullità.

Prendendo in esame il caso dell’azione di nullità esercitata dall’acquirente di bene immobile da costruire in ragione del mancato rilascio della fidejussione all’atto della stipula del contratto preliminare di trasferimento, concessa soltanto in data successiva, in violazione dell’art. 2 del d.lgs. n. 122 del 2005, Sez. 2, n. 30555/2019, Criscuolo, Rv. 656208-01, constatato che non si era manifestata nella specie alcuna insolvenza del venditore nel lasso di tempo intercorrente tra la conclusione del preliminare e il rilascio tardivo della garanzia e che nel frattempo il compratore aveva anzi conseguito la proprietà del fabbricato, ultimato e agibile, ha ritenuto che la domanda di nullità, in assenza di pregiudizio per l’interesse del promissario acquirente alla cui tutela è preposta (in quanto volta a preservarne l’interesse al recupero delle eventuali somme versate in favore del venditore, in vista del pericolo di insolvenza di quest’ultimo), avesse realizzato un abuso del diritto, perché esercitata per finalità diverse da quelle consentite dall’ordinamento, in violazione dell’obbligo di buona fede e correttezza, costituente autonomo dovere giuridico, in quanto espressione di un generale principio di solidarietà sociale pacificamente costituzionalizzato.

In sostanza, l’obbligo di buona fede è servito per limitare l’uso improprio della nullità di protezione, evitando che l’applicazione rigorosa della relativa disciplina possa realizzare un uso distorto del diritto assegnato all’acquirente, perché disfunzionale rispetto al fine di protezione perseguito sia con riguardo allo specifico interesse dello stesso, quale contraente debole, sia a quello generale e di sistema, e uno sfruttamento opportunistico della normativa, con sacrificio dell’interesse del costruttore e della successiva circolazione immobiliare.

4. Le nullità urbanistiche: nullità virtuale, nullità virtuale di protezione o nullità di protezione virtuale?

4-a. Premessa.

La dottrina si è più volte interrogata su cosa accada se si sia in presenza di una nullità testuale che sia priva di specifica disciplina e per la quale si ponga il dubbio se debbano trovare applicazione le norme generali previste dal codice civile (in termini di legittimazione, prescrizione, rilievo officioso, sanatoria) ovvero la disciplina delle nullità di protezione prevista in casi analoghi, non essendo virtuale la nullità in sé, in quanto comminata normativamente, bensì il suo carattere protettivo (c.d. nullità di protezione virtuale).

Questo caso è del tutto diverso da quello, già affrontato (con riguardo alla materia locatizia), della c.d. nullità virtuale di protezione, la quale si caratterizza, come si è detto, per la presenza di una norma imperativa priva di rimedio sanzionatorio, che invoca l’intervento dell’interprete, una prima volta, per accertare se dal contrasto con tale norma derivi la nullità o altro rimedio o nessun rimedio e, una seconda volta, per individuarne la disciplina.

4-b. Le nullità urbanistiche. Il contrasto tra teoria formale (c.d. nullità testuale) e sostanziale (c.d. nullità virtuale). La soluzione.

A ben vedere il dilemma della sussistenza o meno di una nullità c.d. virtuale, quale conseguente rimedio, non espressamente comminato, alla violazione delle norme previste in materia edilizia, ha connotato l’annoso problema della natura delle c.d. nullità urbanistiche, venuto alla luce all’indomani dell’entrata in vigore della l. n. 47 del 1985, allorquando è stata sancita la nullità degli atti tra vivi aventi ad oggetto il trasferimento, la costituzione o lo scioglimento della comunione di diritti reali relativi ad edifici o loro parti, la cui edificazione sia iniziata dopo l’entrata in vigore della legge (art. 17, comma 2), e di quelli aventi ad oggetto diritti reali relativi ad edifici o loro parti la cui edificazione sia iniziata in data antecedente al 17 marzo 1985 (art. 40, comma 1), quando da essi non risultino, per dichiarazione dell’alienante, gli estremi della concessione ad edificare o di quella in sanatoria ex art. 13 ovvero gli estremi della licenza o della concessione ad edificare o della concessione rilasciata in sanatoria ai sensi dell’articolo 31 (condono in senso stretto) ovvero se agli atti stessi non venga allegata copia conforme della relativa domanda, corredata della prova dell’avvenuto versamento delle prime due rate dell’oblazione, ovvero non venga prodotta una dichiarazione sostitutiva di atto notorio, rilasciata dal proprietario o altro avente titolo, attestante che l’opera risulti iniziata in data anteriore al 2 settembre 1967, nullità peraltro riaffermata anche con il d.lgs. n. 380 del 2001 (c.d. Testo unico dell’edilizia), che, abrogando il disposto di cui al citato art. 17, ne ha riprodotto il contenuto all’art. 46, in termini sostanzialmente analoghi.

Sebbene la correlazione della validità del negozio alla regolarità urbanistica del bene che ne è oggetto non fosse nuova nel nostro ordinamento, in quanto già prevista dall’art. 15 della l. 28 gennaio 1977, n. 10 (c.d. legge Bucalossi) e, prima ancora, dall’art. 10 della l. 6 agosto 1967, n. 765 (c.d. legge ponte), che sanzionavano con la nullità, rispettivamente, gli atti giuridici aventi ad oggetto unità edilizie edificate in assenza di concessione e gli atti di compravendita di terreni abusivamente lottizzati a scopo residenziale, a condizione però, in entrambi i casi, che dall’atto non risultasse che l’acquirente era a conoscenza, rispettivamente, dell’assenza della concessione o di una lottizzazione non autorizzata, la disposizione di cui alla l. n. 47 del 1985 fu salutata dalla dottrina come una vera innovazione rispetto al passato, non soltanto perché l’invalidità fu ancorata non più al bene abusivo dell’atto giuridico, come con la legge Bucalossi, ma al suo trasferimento, colpendosi con essa gli effetti dell’atto di disposizione, e non soltanto perché il suo ambito applicativo fu circoscritto ad alcune tipologie di negozi, mentre prima era esteso genericamente agli atti giuridici, ma soprattutto perché sparì qualsiasi riferimento alla necessaria indicazione, in atto, della conoscenza, da parte dell’acquirente, dell’irregolarità urbanistica del bene che ne era oggetto.

Se, perciò, le invalidità previste dalle precedenti disposizioni sembrava fossero prevalentemente finalizzate a tutelare l’affidamento dell’acquirente e il suo interesse a liberarsi di un vincolo deludente, ciò che indusse una parte della dottrina a ravvisarvi proprio una nullità di protezione, all’indomani dell’entrata in vigore della l. n. 47, i primi commentatori furono concordi nel ritenere che la ratio legis della nuova sanzione civilistica della nullità andasse ricercata non soltanto nell’esigenza, già conosciuta, di tutelare l’interesse privato dell’acquirente, garantendone l’affidamento attraverso la conoscenza della regolarità urbanistica del bene oggetto della compravendita (c.d. funzione informativa), ma anche nell’interesse pubblico a disincentivare l’abusivismo edilizio, impedendo a colui che avesse violato la normativa urbanistica, di trarre vantaggio dalla condotta antigiuridica posta in essere, siccome impossibilitato alla menzione degli estremi di un titolo abilitativo mancante (c.d. funzione preventiva), ragione questa considerata del tutto nuova perché correlata all’esigenza, ad essa sottesa, di tutela dell’interesse pubblico all’ordinato assetto e allo sviluppo urbanistico del territorio.

Ed è proprio sulla base di questo duplice fondamento che, in merito alla nullità c.d. urbanistica, si sono delineate le due teorie della natura “formale” e “sostanziale” della sanzione, a seconda che si ritenesse di voler maggiormente valorizzare l’una o l’altra esigenza.

In particolare, mentre la dottrina minoritaria e la giurisprudenza di legittimità, quantomeno fino al 2013, era concorde nel ritenere che il legislatore del 1985 non avesse apportato alcuna modifica alla natura della nullità sancita dall’art. 15, l. n. 10 del 1977 (c.d. legge Bucalossi), ma, in continuità col passato, avesse inteso tutelare prioritariamente l’interesse privatistico dell’acquirente ad ottenere l’informazione sulla regolarità urbanistica del bene oggetto dell’atto, con la conseguenza che sarebbe stato sufficiente inserirvi la dichiarazione (ossia il titolo autorizzativo) per scongiurare la sua invalidità, restando invece indifferente, a tali fini, la sua mendacità, la dottrina maggioritaria si orientò invece nel senso che si dovesse dare prevalenza alla funzione c.d. “preventiva” della sanzione, sicché non sarebbe stato sufficiente, per evitare la nullità, inserirvi la dichiarazione sul titolo abilitativo, ma sarebbe stata altrettanto necessaria la corrispondenza a verità di quella indicazione, ossia l’effettiva regolarità urbanistica del bene.

Da una parte dunque, i sostenitori della natura formale della sanzione (per tutti, A. Fici, Abusivismo edilizio, invalidità negoziale e contratto preliminare, in NGCC 1988- parte prima; Alpa, Questioni relative alla nozione di nullità nella legge di condono edilizio, in Riv. Giur. Ed., 1986, II, 94) privilegiarono l’interpretazione letterale della norma, affermando che quella prevista fosse una nullità assoluta, testuale e documentale e non virtuale, derivante da un difetto nella speciale determinazione giuridica del bene contrattato, richiesta dalla legge, con riguardo ai riferimenti utili per la sua qualificazione e attestanti la sua idoneità alla circolazione nel traffico giuridico. Si sostenne altresì che la nullità fosse finalizzata alla creazione di un affidamento in favore dell’acquirente circa la realizzabilità del programma negoziale (secondo valutazioni equitative e di buona fede) e fosse riconducibile, secondo alcuni, al comma terzo, dell’art. 1418 c.c. (“il contratto è nullo negli altri casi stabiliti dalla legge”), e non al comma primo (norme imperative) o al comma secondo (requisiti) del medesimo articolo, e secondo altri alla complessiva logica del sistema, e che il legislatore, nel sanzionare con la nullità l’omessa menzione, per dichiarazione dell’alienante, degli estremi della concessione ad edificare o in sanatoria, avesse elevato a requisito formale la presenza nell’atto di alcune dichiarazioni, decretandone l’invalidità quale conseguenza della loro assenza e indipendentemente dalla regolarità dell’immobile che ne costituisce l’oggetto. E si ritenne che tali considerazioni trovassero riscontro nella, altrimenti incongrua, scelta legislativa di limitare la nullità ad alcuni atti, esonerandone altri come la locazione, e nello stesso istituto della conferma di cui agli artt. 17, comma 4, e 40, comma 3, l. n. 47 del 1985 (ripresa negli stessi termini dall’art. 46, comma 4, T.U.E.), visto da alcuni come rispondente all’esigenza di un recupero postumo della veridicità della regolarità urbanistica del bene, non attestata nell’atto, attraverso una successiva dichiarazione unilaterale, da altri come un’emenda ad un vizio di forma finalizzato a reimmettere nel commercio un bene urbanisticamente regolare e da altri ancora come un’integrazione funzionale alla maggiore determinazione dell’oggetto del negozio. In virtù di tale interpretazione, dunque, se la legittimazione ad agire sarebbe stata da riconoscere anche in capo all’alienante (che però sarebbe chiamato a rispondere dei danni ai sensi dell’art. 1338 c.c.) e l’imprescrittibilità della relativa azione sarebbe stata mitigata dai limiti alla retroattività della dichiarazione correlati agli effetti della c.d. pubblicità sanante, ovvero conseguenti alla usucapione ventennale, i casi di abusivismo meno grave rispetto a quelli caratterizzati dall’assenza di concessione, come in caso di varianti o di difformità, sarebbero stati estranei al vizio genetico, stante l’espresso richiamo normativo alla sola menzione della concessione e di quella in sanatoria come alternative (perché separate dalla disgiuntiva “o”), sì da dover quest’ultima essere menzionata soltanto in assenza della prima e dunque in presenza di un abusivismo totale.

Analogamente, il più risalente orientamento della giurisprudenza di legittimità, peraltro anche recentemente confermato, si collocò in tale direzione, sostenendo che la sanzione prevista dagli artt. 17 e 40 avesse il carattere di nullità assoluta, formale, testuale e documentale, in quanto derivante semplicemente dalla mancata indicazione nell’atto, da parte dell’alienante, degli estremi del titolo edilizio o di quello in sanatoria, per la quale nessuna indagine si sarebbe dovuta svolgere né sulla reale esistenza del titolo menzionato o sulla reale conformità urbanistica del bene, rilevante soltanto ai fini della conferma, né sul carattere imperativo e di ordine pubblico del precetto ad essa sotteso, altrimenti necessaria in caso di nullità c.d. virtuale, e che fosse riconducibile alla fattispecie prevista nell’ultimo comma dell’art. 1418 c.c., insuscettibile perciò di interpretazione estensiva e inapplicabile ai contratti con effetti obbligatori, in quanto non in linea con la ratio ad esse sottesa, ravvisabile nell’interesse a prevenire l’abusivismo edilizio, senza però assoggettare le esigenze economiche della produzione edilizia ai tempi richiesti da eventuali preventivi controlli e senza rinunciare, al contempo, all’adozione, da parte delle preposte autorità, di provvedimenti sanzionatori diversi da quelli civilistici, essendo stato detto interesse soddisfatto richiamando l’attenzione dell’acquirente, la cui buona o mala fede sarebbe rimasta irrilevante, sulla necessità di accertare la regolarità del bene attraverso il confronto tra la sua consistenza reale e quella progettuale consacrata nella licenza/concessione (per tutte, Sez. 2, n. 8685 del 1999, Orestano, Rv. 529350-01; Sez. 2, n. 14025 del 1999, Settimj, Rv. 53217101; Sez. 2, n. 8147/2000, Del Core, Rv. 537619-01; Sez. 2, n. 5068 del 2001, Napoletano, Rv. 545604-01; Sez. 2, n. 630 del 2003, Goldoni, Rv. 559824-01; Sez. 2, n. 7534 del 2004, Cola-russo, Rv. 572193-01; Sez. 2, n. 9647/2006, Ebner, Rv. 590417-01; Sez. 2, n. 16876/2013, Scalisi, Rv. 627087-01; Sez. 2, n. 14804/2017, Varrone, Rv. 644670-01), mentre l’alienazione dei beni immobili affetti da irregolarità urbanistiche non sanabili o non sanate avrebbe riguardato il solo ambito dell’esecuzione/inadempimento del negozio con esclusione della fase genetica (tra le tante, Sez. 2, n. 6036/1995, Finocchiaro, Rv. 101744-01; Sez. 2, n. 5898/2004, Mazziotti Di Celso, Rv. 571492-01; Sez. 2, n. 27129/2006, Bucciante, Rv. 594838-01).

Per contro, la dottrina prevalente (per tutti, Luminoso, I nuovi regimi di circolazione giuridica degli edifici, dei terreni e degli spazi a parcheggio - Prime impressioni sulla legge 28 febbraio 1985, n. 47, cit., 326, 332; Luminoso, La Compravendita, Corso di diritto civile, Giappichelli Editore, 2011, 77; Giussani, Irregolarità urbanistiche e invalidità del contratto, nota di commento alla sentenza della Corte di Cassazione n. 23591/2013, in NGCC 2014 - parte prima, 190; Barralis-Ferrero-Podetti, Prime considerazioni sulla commerciabilità degli immobili dopo la l. 28 febbraio 1985, n. 47, in Riv. notar., 1985, I, 521-525, Cataudella, Nullità formali e nullità sostanziali nella normativa sul condono edilizio, in Quadrimestre, 1986, 497- 500), dopo essersi chiesta se, pur essendo assolto l’onere formale richiesto dalla legge, fosse comunque affetto da nullità anche l’atto che contenesse menzioni “urbanistiche” mendaci (postulanti evidentemente l’irregolarità urbanistica dell’immobile che ne è oggetto) e, una volta equiparata la dichiarazione falsa a quella inesistente, se potesse definirsi sostanzialmente menzognera, altresì, la dichiarazione relativa ad un titolo edilizio il quale attenesse a un fabbricato realizzato in totale difformità da essa, stante la diversità del bene negoziato rispetto a quanto assentito, ritenne che, accanto alla nullità c.d. testuale, fosse ravvisabile anche una nullità virtuale, correlata alle ipotesi in cui il bene oggetto del negozio fosse stato edificato in difformità (totale o parziale) e, secondo alcuni, con variazione essenziale, dal titolo edilizio in esso menzionato.

A fondamento di tali assunti si ritenne di valorizzare, infatti, la finalità, perseguita dal legislatore del 1985, di tutelare non solo l’acquirente, ma anche, in funzione preventivo-repressiva, l’interesse pubblico pregiudicato dall’abusivismo urbanistico, colpendo anche sul piano privatistico, come pure su quello amministrativo (con la demolizione o l’acquisizione del bene alla mano pubblica) e penalistico (con la previsione di arresto e ammenda), gli abusi edilizi e urbanistici in sé e per sé considerati e sottraendo così la proprietà all’autonomia negoziale, conformandola e imprimendo agli immobili la qualità di beni in senso giuridico, suscettibili, in quanto tali, di costituire oggetto di diritti e negozi.

Tra le motivazioni poste a sostegno di tale orientamento, che sarebbe stato poi percepito dalla giurisprudenza di legittimità soltanto nel 2013, vi furono alcuni che sostennero l’illegittimità dei negozi relativi a beni abusivi in quanto aventi oggetto impossibile o illecito ovvero causa contrastante con norme imperative, ordine pubblico e buon costume, ex art. 1418, comma 2, c.c., e altri che ancorarono l’invalidità a principi immanenti nell’ordinamento e a esigenze di coerenza sistematica, valorizzando per un verso il disvalore attribuito dall’ordinamento alle pratiche edilizie abusive e correlando, per altro verso, la nullità alle sanzioni penali e amministrative previste per i casi non solo di difetto assoluto di concessione, ma anche di totale difformità da essa (equiparabili ai primi), e, secondo la tesi più rigorosa, anche per quelli di parziale difformità e variazione essenziale.

Ed è in questi termini che la giurisprudenza più recente si è orientata, allorché ha sostenuto che la nullità in esame avesse natura sostanziale, perché rivolta a sanzionare gli atti aventi ad oggetto beni irregolari dal punto di vista edilizio (ivi compresi i contratti preliminari, stante la contrarietà a legge del relativo oggetto), sia sulla base di considerazioni logiche, legate all’incongruità dell’approccio formale col fine perseguito dalla norma che, inasprendo il regime previsto dalla legge n. 10 del 1977, art. 15, aveva reso incommerciabili beni non in regola dal punto di vista urbanistico, sia sulla base della stessa lettera dell’art. 40, comma 2, della l. n. 47, il quale, pur nella sua non perfetta formulazione, oltre ad affermare la rilevanza delle nullità di carattere formale, conteneva il principio della nullità degli atti di trasferimento di immobili irregolari, come indirettamente avvalorato dall’istituto della conferma del contratto di cui al comma 3 dell’art. 40, postulante la validità ab origine dello stesso (in questi termini, Sez. 2, n. 23591, Parziale, Rv. 628025-01; Sez. 2, n. 25811/2014, Triola, Rv. 633640-01).

Questo orientamento, a ben vedere, non è altro che un’applicazione concreta dell’istituto delle nullità c.d. virtuali di cui si è detto, perché fondato sulla ravvisata natura imperativa di una norma, quella che vieta lo sfruttamento del territorio in violazione delle disposizioni poste a suo presidio, dalla cui inosservanza viene fatta discendere, in via ermeneutica, un’invalidità negoziale, in applicazione analogica del sistema di sanzioni, civili, penali e amministrative, espressamente sancito a presidio dell’interesse dell’ordinamento all’ordinato assetto del territorio. Se poi si ravvisasse, quale ulteriore finalità perseguita, anche quella di tutelare il diritto dell’acquirente, inteso come contraente debole perché ignaro, ad essere informato sulla condizione urbanistica del bene e a non acquisirne uno non a norma, sì da essere soggetto, in quanto tale, all’eventuale demolizione o acquisizione alla mano pubblica dello stesso, la ravvisata nullità virtuale acquisirebbe l’ulteriore connotazione di nullità di protezione, assumendo i caratteri di una nullità virtuale di protezione.

Il contrasto, non diacronico, venutosi a creare, è stato risolto, come detto, da Sez. U. n. 8230/2019, Sambito, Rv. 653283-01, che ha aderito alla prima opzione, sostenendo la natura formale della nullità, pur con l’importante precisazione della necessità della veridicità del titolo menzionato nell’atto e della sua riferibilità all’immobile.

A sostegno di questa tesi, si è fatto ricorso, in linea con le indicazioni contenute nell’art. 12, comma 1, delle Preleggi, che non consente all’interprete di modificare il significato tecnico-giuridico delle espressioni che lo compongono, ove si ritenga che l’effetto che ne deriva sia inadatto rispetto alla finalità pratica cui la norma è sottesa, sia al dato letterale delle norme esaminate, che connettono la nullità e l’impossibilità della stipula esclusivamente all’assenza della dichiarazione o allegazione ex art. 40, sia al dato teleologico, da individuarsi soltanto in esito all’esegesi del testo esaminando e non in funzione di finalità ispiratrici del complesso normativo in cui esso è inserito.

È stato poi evidenziato come l’intento perseguito dall’interpretazione sostanzialista, di supportare anche in ambito civilistico il disvalore espresso dall’ordinamento nei confronti del diffuso fenomeno dell’abusivismo edilizio, sia sconfessato dall’essere stata la nullità comminata soltanto con riguardo a specifici atti ad effetti reali inter vivos, con esclusione invece di quelli mortis causa, di quelli ad effetti obbligatori, di quelli riguardanti diritti reali di garanzia e di servitù e di quelli derivanti da procedure esecutive immobiliari, individuali o concorsuali, e come lo stesso istituto della conferma, e l’atto aggiuntivo che la contiene, presuppongano la sussistenza del titolo e della documentazione, senza implicare, altresì, l’effettiva corrispondenza al suo contenuto dell’edificio oggetto del negozio.

È stato inoltre chiarito che la sanzione in esame non possa essere sussunta nell’orbita della nullità c.d. virtuale di cui al comma 1 dell’art. 1418 c.c., la quale presupporrebbe l’esistenza di una norma imperativa e il generale divieto di stipulazione di atti aventi ad oggetto immobili abusivi al fine di renderli giuridicamente inutilizzabili, in quanto non riscontrata in seno allo ius positum, e neppure nell’ambito della nullità di cui al comma 2, dell’art. 1418 citato, per illiceità o impossibilità dell’oggetto o per illiceità della prestazione o della causa per contrarietà a norme imperative o al buon costume, stante l’esclusione di alcune tipologie di atti (quelli sopra richiamati) dal suo ambito applicativo e l’estraneità dell’oggetto e della causa della compravendita, costituiti rispettivamente dal trasferimento della proprietà della res e dallo scambio cosa contro prezzo, dall’illiceità dell’attività di produzione del bene ivi contemplato.

Alla stregua di tali considerazioni, le Sezioni Unite della S.C. hanno dunque ritenuto che la nullità urbanistica costituisca una specifica declinazione del comma 3 dell’art. 1418 c.c., da definirsi come testuale in quanto volta a colpire gli atti in essa menzionati, e sia insuscettibile, in quanto tale, di applicazione estensiva o analogica, ma soggetta a stretta interpretazione, sebbene con la precisazione che il titolo menzionato nell’atto non soltanto debba realmente esistere, così come veridica deve essere la dichiarazione, ma debba altresì riferirsi all’immobile oggetto dell’atto, sia in quanto verrebbe altrimenti svuotata di significato la previsione della conferma di cui agli artt. 46, comma 4, del d.P.R. n. 380 del 2001, e 17, comma 4, e 40, comma 3, della l. n. 47 del 1985 (possibile soltanto in caso di omessa menzione non dipesa da insussistenza del titolo) e la stessa finalità perseguita dal legislatore di limitare le transazioni relative a immobili abusivi, sia in quanto verrebbe vanificata la valenza essenzialmente informativa nei confronti della parte acquirente propria della dichiarazione, richiedente la concreta riferibilità del titolo all’immobile oggetto dell’atto.

Ad avviso della Corte dunque, perde di significato la necessità di distinguere tra difformità totale o parziale o tra variazione essenziale o non essenziale del manufatto realizzato rispetto al titolo abilitativo, in quanto, a differenza di quanto avverrebbe in caso di configurabilità della nullità sostanziale, non rileverebbe al fine di definire l’ambito della nullità del contratto, anche in considerazione della moltiplicazione dei titoli abilitativi previsti in riferimento all’attività edilizia da eseguire e della conseguente indeterminatezza del sistema delle nullità, che verrebbe affidato a gradazioni di irregolarità urbanistica difficilmente identificabili e sostanzialmente lasciate all’arbitrio dell’interprete.

4-c. Profili problematici: nullità di protezione virtuale e disciplina applicabile.

Se però la divisata ratio sottesa alla nullità urbanistica è prevalentemente volta alla tutela degli interessi del solo acquirente, siccome finalizzata a renderlo edotto della condizione urbanistica del bene, richiamando la sua attenzione sul punto attraverso l’assolvimento, da parte dell’alienante (con le c.d. menzioni urbanistiche), dell’obbligo informativo e consentendogli di provvedere alle opportune verifiche relative, vi è da chiedersi se tale rimedio non possa considerarsi come nullità di protezione, al pari di quella prevista per le altre fattispecie contrattuali sopra esaminate. E se così fosse, ci si dovrebbe ulteriormente domandare se la relativa disciplina non vada rimeditata alla luce dei recenti arresti in tema di nullità di protezione, specie con riguardo alla legittimazione all’azione, potendosi invece considerare pacificamente applicabili i principi della imprescrittibilità (da sottoporre eventualmente ai correttivi della buona fede e della correttezza), della rilevabilità d’ufficio (stante l’indiretto perseguimento dell’interesse pubblico a scongiurare la pratica dell’abuso edilizio) e della convalida, stante l’espressa qualificazione in tal senso, da Sez. U. n. 8230/2019, dell’istituto della conferma.

In sostanza, il problema che si pone è quello di stabilire se esista e sia configurabile una nullità di protezione virtuale, di cui, sembra, sussistono tutti gli ingredienti: dalla finalità protettiva degli interessi del solo acquirente, alla previsione normativa della nullità c.d. testuale, dalla mancanza di positive indicazioni sulle esigenze di tutela della parte acquirente, all’assenza di una specifica disciplina cui assoggettarla.

In tema di nullità di protezione virtuale, la dottrina si è espressa, chiedendosi se, in assenza di testuale restrizione della legittimazione, la nullità sarebbe sempre da considerare assoluta, a prescindere da ogni indagine sul suo fondamento assiologico, stante la natura generale del disposto di cui all’art. 1421 c.c. (che estende il potere di agire a qualunque interessato), inteso dai sostenitori dell’orientamento restrittivo come di stretta interpretazione ai sensi dell’art. 14 disp. prel. c.c., o se il mutato panorama normativo e le spinte provenienti dall’Europa, volte alla tutela del contraente debole, non impongano di ridefinire i rapporti regola-eccezione tra legittimazione assoluta e relativa, stante anche il moltiplicarsi di disposizioni che rendono quest’ultima non più sporadica, e di ricercare, di volta in volta, la ratio della comminatoria di nullità, anche attraverso il procedimento analogico, individuando così il regime giuridico della legittimazione attiva (in tal senso Polidori, Nullità di protezione e sistematica delle invalidità negoziali, 2016, 44 e ss.).

E si è concluso che la legittimazione relativa all’azione di nullità non costituisca regola eccezionale, ma speciale, la quale trova fondamento nello stesso art. 1421 c.c. e, in generale, nel sistema da cui è possibile ricavare, in via analogica, la regola processuale.

Se infatti, si è detto, per un verso l’art. 1421 c.c., indipendentemente dall’inciso che pone come norma di chiusura la regola della legittimazione assoluta all’azione, consente di porre in correlazione la causa della nullità e l’interesse protetto con l’ampiezza della legittimazione, atteso che i diversi statuti di disciplina della nullità ammettono le specificazioni e gli adattamenti necessari, nella misura in cui essi non contrastino coi principi generali, come arguibile dal mutamento positivo intervenuto con l’art. 127 del d.lgs. n. 385 del 1993 (T.U. bancario), che ha collegato all’inderogabilità relativa della disciplina a tutela di un contraente la legittimazione ristretta del solo cliente a far valere la nullità (in tal senso Passagnoli, Nullità speciali,1995, 183 e ss.), per altro verso, la limitazione ad una sola delle parti contrattuali della legittimazione all’esperimento dell’azione di nullità, anche nei casi di mancata espressa previsione normativa del carattere unidirezionale del rimedio invalidatorio, e, dunque, della natura protettiva dello stesso, emergente però chiaramente dal fondamento della comminatoria (come nei casi di cui alla l. n. 192 del 1998, artt. 2, 6 e 9, in tema di subfornitura, o al d.lgs. n. 231 del 2002, in tema di lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali o allo stesso art. 143 del Codice di consumo in tema di irrinunciabilità dei diritti del consumatore), andrebbe ricavata dal sistema attraverso il ricorso alla analogia legis (in tal senso, Polidori, Nullità di protezione e sistematica delle invalidità negoziali, 2016, 44 e ss.).

In proposito, si è anzi arrivati a sostenere che proprio la regola del collegamento tra inderogabilità della disciplina a tutela del contraente e legittimazione ad esso riservata, contenuta nell’art. 127 del d.lgs. n. 385 del 1993, e il suo inserimento in un Testo unico, costituente, in quanto tale, fonte duratura e stabile della materia, in uno con la sua qualificazione sotto la rubrica “Regole generali”, riferite a fattispecie (contratti bancari e credito al consumo) aventi “rationes” apparentemente discordi, sia densa di implicazioni. Tale regola, infatti, correla l’aspetto della legittimazione relativa alla ratio della norma a tutela, la quale è riferita non alle caratteristiche soggettive (natura, status, qualità) del contraente protetto, bensì al predominio strutturale di un contraente rispetto ad un altro, al quale, in virtù di un apprezzamento svolto in astratto dal legislatore, viene attribuita rilevanza formale in ragione dell’attitudine dello stesso ad alterare in radice i presupposti di esercizio dell’autonomia negoziale e le dinamiche concorrenziali.

Si è perciò concluso, che, in presenza di rationes compatibili perché connotate da uno squilibrio normativo, è possibile ricorrere in via analogica alla regola della legittimazione relativa per disciplinare varie ipotesi di nullità (testuali, come virtuali), anche perché, in presenza di previsioni dirette a salvaguardare la parte debole, ma prive di indicazioni sulla disciplina applicabile, l’estensione della legittimazione alla parte forte consentirebbe alla stessa di liberarsi da un vincolo non più gradito, esponendo al rischio di un uso strumentale della nullità per ragioni estranee a quelle per le quali era stata comminata, a dispetto delle esigenze di salvaguardia del contraente debole.

Si pensi, tornando alle nullità c.d. urbanistiche, che la pronuncia delle Sezioni unite in esame ha riguardato un caso in cui a far valere la nullità del contratto di compravendita di un bene immobile, edificato in difformità dal titolo autorizzatorio, è stato proprio colui che aveva concretamente commesso l’abuso.

In giurisprudenza, la consapevolezza della peculiarità delle nullità speciali in generale - e di quelle di protezione in particolare - è emersa in modo chiaro con la citata Sez. U. n. 26242/2014, Travaglino, Rv. 633503-01, nella parte in cui ha sostenuto che il predetto sistema sembrerebbe più adatto ad una valutazione caso per caso, attesa la molteplicità delle ipotesi di nullità relativa offerte dal dato normativo, perché funzionale a ciascuna norma, e che, proprio in conseguenza degli interventi della Corte di giustizia, la nozione di nullità relativa di protezione, da intendersi come species del più ampio genus rappresentato dalla nullità negoziale e non come annullabilità rafforzata, deve essere definita ad assetto variabile e di tipo funzionale, perché calibrata sull’assetto di interessi concreto con finalità essenzialmente conformativa del regolamento contrattuale, ma non per questo meno tesa alla tutela di interessi e di valori fondamentali, che trascendono quelli del singolo, stante la natura ancipite della stessa perché finalizzata alla tutela di interessi particolari/seriali (esponenziali alla classe dei consumatori o dei clienti) e generali (integrità del mercato). E, da ultimo, in termini sostanzialmente analoghi la stessa Sez. U. n. 28341/2019, Acierno, Rv. 655800-01, ha affermato la necessità di verificare se possa configurarsi una disciplina generale comune a tutte le nullità di protezione, salvo differenze di dettaglio ove previste da una normativa specifica di settore, o se vi sia la coesistenza di diverse forme di nullità di protezione, ciascuna dotata di un proprio statuto giuridico autonomo eventualmente anche in relazione all’esercizio selettivo dell’azione di nullità.

Tornando dunque alle nullità c.d. urbanistiche, deve ritenersi che la valenza “essenzialmente informativa” nei confronti della parte acquirente delle menzioni dell’alienante, sostenuta da Sez. U. n. 8230/2019, al fine di affermare la necessità della loro veridicità e della riferibilità all’immobile contemplato nell’atto, non potendo la presenza o la mancanza del titolo abilitativo essere affermate in astratto, ma dovendo esserlo in relazione al bene che costituisce l’immobile contemplato nel negozio, consente di ravvisare nel rimedio invalidatorio in esame una funzione sostanzialmente protettiva nei confronti dell’acquirente stesso, tanto da avere indotto il Supremo collegio ad assimilare la dichiarazione mendace alla mancanza di dichiarazione, venendo altrimenti meno la sua funzione di veicolo per la comunicazione di notizie e la conoscenza di documenti, come arguibile dall’istituto della conferma, postulante la reale esistenza del titolo e, a valle, la veridicità dell’informazione derivante dalla dichiarazione.

E se così è, sembra pian piano delinearsi con maggiore chiarezza la fondatezza dell’ipotesi di limitare la legittimazione ad agire al solo acquirente, da considerarsi come parte debole del rapporto, in virtù della sempre maggiore complicazione del quadro normativo di riferimento, quello della materia edilizia ed urbanistica, come venutosi a delineare successivamente al Testo unico dell’edilizia (che contemplava originariamente il solo permesso di costruire) con la l. 21 dicembre 2001, n. 443 (c.d. legge Lunardi), con il d.l. n. 133 del 2014 (c.d. decreto sblocca Italia), convertito con modificazioni con la l. n. 164 del 2014, e successivamente con il d.lgs. 25 novembre 2016, n. 222 (Riforma Madia), e il conseguente proliferare di titoli a seconda del tipo di intervento, spesso lasciati all’auto-asseverazione del costruttore/proprietario (si pensi alla C.I.L.A. o alla S.C.I.A., quest’ultima quale titolo necessario in caso di ristrutturazione c.d. “leggera”, ma anche come alternativa al permesso di costruire sia in caso di nuova edificazione, sia di ristrutturazione c.d. “pesante”), unico soggetto a conoscenza della regolarità del bene anche in caso di interventi successivi alla sua iniziale edificazione, divenuti ormai rilevanti.

Del resto, tale possibile risvolto applicativo di una disciplina a cavallo tra quella codicistica e quella tipicamente propria delle nullità di protezione, in assenza di specifiche determinazioni speciali contemplate dalla normativa di riferimento, trova conforto negli arresti giurisprudenziali sopra citati, ove si consideri che, per un verso, la legittimazione all’azione lasciata al solo contraente debole è stata considerata, come si è detto, il tratto unificante delle nullità di protezione, riconducibile all’art. 36 del Codice del consumo (in tal senso, Sez. U. n. 28314/2019, Acierno, Rv. 655800-01), e, per altro verso, che la disciplina propria delle nullità di protezione, in quanto ad assetto variabile e di tipo funzionale, richiede una valutazione caso per caso in quanto calibrata sull’assetto di interessi concreto con finalità essenzialmente conformativa del regolamento contrattuale (Sez. U. n. 26242/2014, Travaglino, Rv. 633503-01).

Diversamente opinando, l’esercizio dell’azione da parte dell’alienante si presterebbe, come già accaduto, ad un uso distorto del meccanismo invalidatorio, del tutto alieno alla finalità di salvaguardare gli interessi dell’acquirente, magari con un esercizio strumentale della stessa (certamente imprescrittibile ai sensi dell’art. 1422 c.c.) successivamente all’intervenuta prescrizione (decennale) del diritto della controparte ad ottenere la restituzione del corrispettivo pagato, divenuto ormai indebito, salvo il rilievo dell’eccezione di buona fede. Ma questa è un’altra questione.

  • contratto
  • professioni finanziarie
  • risoluzione di contratto
  • servizi finanziari

IX)

LA NULLITÀ DEL CONTRATTO D’INTEMEDIAZIONE FINANZIARIA PER DIFETTO DI FORMA SCRITTA TRA PROTEZIONE E BUONA FEDE

(di Eleonora Reggiani )

Sommario

1 Premessa. - 2 Il quadro normativo. - 3 La nullità prevista dall’art. 23, comma 1, d.lgs. n. 58 del 1998 secondo le Sezioni Unite. - 4 Gli effetti della nullità sulle operazioni eseguite. - 5 L’uso selettivo della nullità. - 6 Le soluzioni interpretative offerte prima dell’intervento delle Sezioni Unite. - 7 Il principio di buona fede come “criterio ordinante” secondo le Sezioni Unite. - 8 Osservazioni di sintesi.

1. Premessa.

Nell’anno in rassegna, le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno adottato un’importante pronuncia riguardante la disciplina dei contratti di intermediazione finanziaria, che aggiunge un ulteriore tassello ad un complesso mosaico, esprimendo ancora una volta la necessità di ricondurre a sistema gli istituti previsti dalle norme di settore e, nel contempo, di rispettare la specificità della materia.

In dichiarata continuità con la sentenza pronunciata l’anno precedente (Sez. U, n. 00898/2018, Di Virgilio, Rv. 646965-01), che ha specificato i caratteri della nullità prevista dall’art. 23, comma 1, d.lgs. n. 58 del 1998, le Sezioni Unite hanno affrontato la questione relativa agli effetti di tale nullità, prestando attenzione, in particolare, all’uso selettivo della stessa, delimitandone i confini alla luce del fondante principio della buona fede (Sez. U, n. 28314/2019, Acierno, Rv. 655800-01).

L’esame di tali decisioni fornisce l’occasione per dare uno sguardo d’insieme agli istituti da esse coinvolti, così come interpretati dalla più recente giurisprudenza di legittimità.

2. Il quadro normativo.

Si devono prima di tutto richiamare le disposizioni normative interessate dalle pronunce sopra menzionate che, in entrambi i casi, hanno riguardato fattispecie disciplinate dal d.lgs. n. 58 del 1998, nella versione antecedente alle modifiche apportate dal d.lgs. n. 164 del 2007.

In primo luogo, va pertanto menzionato il comma 1 dell’art. 23 d.lgs. n. 58 del 1998, ove, nel testo originario, è stabilito quanto segue: «I contratti relativi alla prestazione dei servizi di investimento e accessori sono redatti per iscritto e un esemplare è consegnato ai clienti. La CONSOB, sentita la Banca d’Italia, può prevedere con regolamento che, per motivate ragioni tecniche o in relazione alla natura professionale dei contraenti, particolari tipi di contratto possano o debbano essere stipulati in altra forma. Nei casi di inosservanza della forma prescritta, il contratto è nullo».

Il successivo comma 3, rimasto immutato nel tempo, ha aggiunto che «Nei casi previsti dai commi 1 e 2 la nullità può essere fatta valere solo dal cliente». In base all’art. 1 comma 5, d.lgs. cit., sempre nel testo originario, «Per ‘servizi di investimento’ si intendono le seguenti attività, quando hanno per oggetto strumenti finanziari:

a) negoziazione per conto proprio; b) negoziazione per conto terzi; c) collocamento, con o senza preventiva sottoscrizione o acquisto a fermo, ovvero assunzione di garanzia nei confronti dell’emittente; d) gestione su base individuale di portafogli di investimento per conto terzi; e) ricezione e trasmissione di ordini nonché mediazione. …omissis».

Si devono tenere presenti anche alcune disposizioni del regolamento di attuazione del d.lgs. n. 58 del 1998, sempre nel testo originario, applicabile ratione temporis.

In particolare, l’art. 30 regolamento Consob n. 11522 del 1998, nel disciplinare il “contratto con gli investitori”, e cioè il contratto quadro relativo alla prestazione dei servizi sopra menzionati (escluso il servizio di collocamento e quelli accessori diversi dal finanziamento agli investitori), ha stabilito che «1. Gli intermediari autorizzati non possono fornire i propri servizi se non sulla base di un apposito contratto scritto; una copia di tale contratto è consegnata all’investitore. 2. Il contratto con l’investitore deve:

a) specificare i servizi forniti e le loro caratteristiche; b) stabilire il periodo di validità e le modalità di rinnovo del contratto, nonché le modalità da adottare per le modificazioni del contratto stesso; c) indicare le modalità attraverso cui l’investitore può impartire ordini e istruzioni; d) prevedere la frequenza, il tipo e i contenuti della documentazione da fornire all’investitore a rendiconto dell’attività svolta; e) indicare e disciplinare, nei rapporti di negoziazione e ricezione e trasmissione di ordini, le modalità di costituzione e ricostituzione della provvista o garanzia delle operazioni disposte, specificando separatamente i mezzi costituiti per l’esecuzione delle operazioni aventi ad oggetto strumenti finanziari derivati; f) indicare le altre condizioni contrattuali eventualmente convenute con l’investitore per la prestazione del servizio».

D’altronde, il precedente art. 28 regolamento cit. (sempre nel testo originario) ha chiaramente previsto, al comma 1, che «Prima di iniziare la prestazione dei servizi di investimento, gli intermediari autorizzati devono:

a) chiedere all’investitore notizie circa la sua esperienza in materia di investimenti in strumenti finanziari, la sua situazione finanziaria, i suoi obiettivi di investimento, nonché circa la sua propensione al rischio.

L’eventuale rifiuto di fornire le notizie richieste deve risultare dal contratto di cui al successivo articolo 30, ovvero da apposita dichiarazione sottoscritta dall’investitore;

b) consegnare agli investitori il documento sui rischi generali degli investimenti in strumenti finanziari di cui all’Allegato n. 3».

Il contenuto necessario del contratto quadro, sopra indicato, e gli obblighi di informazione passiva, appena riportati, si pongono peraltro in stretta connessione con quanto previsto dall’art. 21, comma 1, lett. b), d.lgs. n. 58 del 1998, nel testo rimasto immutato nel tempo secondo il quale «Nella prestazione dei servizi di investimento e accessori i soggetti abilitati devono: …omissis… b) acquisire le informazioni necessarie dai clienti e operare in modo che essi siano sempre adeguatamente informati».

Le norme di attuazione, contenute nel regolamento sopra menzionato, contengono numerose disposizioni puntuali, che rendono concreti gli obblighi di informazione attiva e passiva appena richiamati, come ad esempio previsto dai commi 2, 3, 4 e 5 dell’art. 28 regolamento cit. e, con riferimento alle operazioni in conflitto d’interessi e a quelle inadeguate, dagli artt. 27 e 29 regolamenti cit.

Per completezza, si deve evidenziare che le disposizioni del d.lgs. n. 58 del 1998 sono state in gran parte modificate prima dall’art. 4 d.lgs. n. 164 del 2007, che ha recepito la direttiva 2004/39/CE (Mifid 1), e poi dall’art. 2 d.lgs. n. 129 del 2017, che ha recepito la direttiva 2014/65/UE (Mifid 2). Di conseguenza sono stati adottati anche nuovi regolamenti attuativi, che hanno sostituito quello appena illustrato (prima il regolamento Consob n. 16190 del 2007 e poi il regolamento Consob n. 20307 del 2018).

Il testo attualmente vigente del comma 1 dell’art. 23 d.lgs. n. 58 del 1998 stabilisce comunque quanto segue: «1. I contratti relativi alla prestazione dei servizi di investimento, e, se previsto, i contratti relativi alla prestazione dei servizi accessori, sono redatti per iscritto, in conformità a quanto previsto dagli atti delegati della direttiva 2014/65/UE, e un esemplare è consegnato ai clienti. La Consob, sentita la Banca d’Italia, può prevedere con regolamento che, per motivate ragioni o in relazione alla natura professionale dei contraenti, particolari tipi di contratto possano o debbano essere stipulati in altra forma, assicurando nei confronti dei clienti al dettaglio appropriato livello di garanzia. Nei casi di inosservanza della forma prescritta, il contratto è nullo».

È pertanto evidente che, per la parte che qui interessa, non è intervenuto alcun mutamento significativo di disciplina.

3. La nullità prevista dall’art. 23, comma 1, d.lgs. n. 58 del 1998 secondo le Sezioni Unite.

Nell’anno scorso le Sezioni Unite, investite della questione relativa alla validità o meno del contratto quadro di intermediazione finanziaria sottoscritto dal solo investitore e non anche dall’intermediario (cd. contratto “monofirma”), hanno delineato in modo chiaro le peculiari caratteristiche della descritta nullità, prevista dall’art. 23 d.lgs. n. 58 del 1998, fornendo una risposta decisa al vivace dibattito dottrinale oramai da anni in corso in argomento. (66)

Nella richiamata sentenza (Sez. U, n. 00898/2018, Di Virgilio, Rv. 646965-01), le Sezioni Unite hanno preso atto delle pronunce fino ad allora adottate dalla Corte, secondo le quali, in applicazione dell’ordinaria disciplina civilistica, era da ritenersi nullo – per difetto della forma scritta, richiesta ad substantiam dalla legge – il contratto quadro sottoscritto dal solo investitore (cfr. in particolare Sez. 1, n. 05919/2016, Mauro Di Marzio, Rv. 639062-01 e Sez. 1, n. 08395/2016, Acierno, Rv. 639486-01) ed hanno anche tenuto presenti le statuizioni che, pervenendo ad identiche conclusioni, hanno esaminato la questione con riferimento all’analoga disposizione contenuta nell’art. 117 d.lgs. n. 385 del 1993 (così Sez. 1, n. 00036/2017, Valitutti, Rv. 643013-01).

Secondo l’orientamento fino ad allora dominante, almeno in sede di legittimità, l’investitore, unico legittimato a far valere la nullità del contratto quadro ex art. 23 d.lg.s. n. 58 del 1998, poteva agire, deducendo la nullità del contratto quadro, non solo nei casi in cui quest’ultimo era privo della sua sottoscrizione, ma anche quando non era firmato dall’intermediario.

Le Sezioni Unite hanno invece operato una ricostruzione del tutto diversa, evidenziando che a tale soluzione si arriva tenendo conto della stessa formulazione letterale della norma, che esprima chiaramente la peculiare ratio ad essa sottesa.

Prima di tutto, hanno ribadito che l’art. 23 d.lgs. n. 58 del 1998, nel richiedere la forma scritta a pena di nullità, si riferisce non già alle singole operazioni – la cui validità non è soggetta a requisiti formali, a meno che non vi sia una diversa previsione convenzionale – ma al contratto quadro (cfr. da ultimo Sez. 1, n. 19759/2017, Falabella, Rv. 645194-02), aggiungendo che la nullità prevista è posta nell’interesse del cliente, unico soggetto che può farla valere, a tutela del quale è stabilita anche la consegna del contratto, il cui contenuto, disciplinato negli elementi essenziali dall’art. 30 del regolamento Consob n. 11522 del 1998, deve essere messo a totale sua disposizione.

La previsione della nullità, per le Sezioni Unite, serve ad assicurare che, al momento della conclusione del contratto, siano davvero indicati all’investitore non qualificato – come tale, privo delle conoscenze che invece detiene l’intermediario – gli specifici servizi forniti, la durata e le modalità di rinnovo e di modifica del contratto, le modalità con cui si svolgeranno le singole operazioni ed anche i termini e modi di rendicontazione (si tratta del contenuto minimo del contratto, previsto dall’art. 30 del regolamento Consob n. 11522 del 1998, sopra riportato). È infatti l’investitore colui che, nel corso del rapporto, ha bisogno di conoscere e di verificare il rispetto delle modalità di esecuzione dello stesso ed anche le regole che riguardano la vigenza del contratto, anche se la finalità protettiva dell’investitore si riverbera in via mediata sulla regolarità e trasparenza dell’intero mercato finanziario.

Il vincolo di forma, imposto dall’art. 23 del d.lgs. n. 58 del 1998, è così considerato non in senso strutturale, ma funzionale, in considerazione dell’evidenziata finalità protettiva dell’investitore.

Da ciò consegue, secondo le Sezioni Unite, che il contratto quadro deve essere redatto per iscritto e deve essere sottoscritto dall’investitore, cui ne deve essere consegnata una copia, ma non è necessario che il consenso dell’intermediario risulti dalla sottoscrizione, ben potendo ricavarsi da comportamenti concludenti di quest’ultimo, perché la presenza o meno della sua firma nulla aggiunge e nulla toglie alla tutela che la forma scritta è volta a soddisfare.

Le Sezioni Unite hanno anche evidenziato che la ricostruzione così operata porta a configurare la nullità in questione come una sanzione per l’intermediario, che ben si armonizza nel contesto del d.lgs. cit., finalizzato a dettare regole di comportamento per quest’ultimo, in pieno rispetto del principio di proporzionalità, della cui tenuta si potrebbe invece dubitare, ove si accedesse alla diversa interpretazione, secondo la quale il cliente potrebbe far valere la nullità del contratto quadro anche nel caso in cui sia sottoscritto non da lui, ma da chi rappresenta l’intermediario.

In conclusione, con la pronuncia in esame si è evidenziato che il formalismo contrattuale previsto dall’art. 23 d.lgs. n. 58 del 1998 assolve ad una funzione essenzialmente informativa a protezione del cliente (cd. “forma che informa”) che, nei confronti dell’intermediario, si pone come dovere comportamentale, sanzionato, in caso di inadempimento, con la nullità del contratto.

La mancanza della sottoscrizione del contratto quadro non solo può essere fatta valere soltanto dal cliente ma riguarda esclusivamente quest’ultimo, dovendosi conseguentemente escludersi la nullità per vizio di forma, ove manchi la sottoscrizione dell’intermediario.

Le Sezioni semplici della Corte di cassazione si sono subito adeguate al principio come sopra enunciato, escludendo la nullità del contratto quadro firmato dal solo investitore (così Sez. 1, n. 16861/2018, Valitutti, non massimata e Sez. 1, n. 12569/2019, Di Virgilio, non massimata; con riferimento a quanto stabilito per i contratti bancari dall’analoga previsione di cui all’art. 117 d.lgs. n. 385 del 1993, v. Sez. 1, n. 14243/2018, Falabella, Rv. 649119-01; Sez. 1, n. 14646/2018, Laura Tricomi, Rv. 648942-01; Sez. 1, n. 16070/2018, Iofrida, Rv. 649476-01).

Anche la successiva decisione delle Sezioni Unite (Sez. U, n. 28314/2019, Acierno, Rv. 655800-01) si è dichiaratamente posta in continuità con tale pronuncia, come verrà di seguito evidenziato.

4. Gli effetti della nullità sulle operazioni eseguite.

La definizione delle caratteristiche della nullità sancita dall’art. 23 d.lgs. n. 58 del 1998, così come effettuata da Sez. U, n. 00898/2018, Di Virgilio, Rv. 646965-01, si riverbera su di un altro problema interpretativo, sempre legato all’accertamento della menzionata nullità, riferito ai casi in cui il rapporto contrattuale si è comunque svolto, nonostante il difetto di forma del contratto quadro, e l’intermediario abbia, nel tempo, prestato i propri servizi di investimento in favore del cliente.

Si tratta in sostanza di qualificare il rapporto esistente tra il contratto quadro e le singole operazioni successivamente eseguite, al fine di comprendere gli effetti della nullità del contratto quadro su queste ultime.

L’opinione degli interpreti in argomento è variegata e impinge nel sempre acceso dibattito, volto a qualificare, e distinguere, il contratto quadro dal contratto normativo e da altre figure negoziali, rapportandole poi agli atti e ai contratti compiuti.

Nella motivazione della pronuncia a Sezioni Unite appena indicata si accenna a tale problematica, laddove viene affermato che il contratto quadro è destinato a costituire la regolamentazione dei servizi, alla cui prestazione si obbliga l’intermediario verso il cliente, richiamando la giurisprudenza che ha accostato tale figura al mandato, derivandone obblighi e diritti reciproci dell’intermediario e del cliente, in cui le successive operazioni costituiscono momenti attuativi (cfr. le note Sez. U, n. 26724/2007, Rordorf, Rv. 600329-01 e Sez. U, n. 26725/2007, Rordorf, Rv. 600331-01).

Ciò non toglie che tali successive operazioni costituiscano autonomi negozi, ancorché le modalità del loro compimento e le caratteristiche, che le connotano, siano regolamentati nel contratto quadro.

In argomento, si rivela decisiva la ricostruzione operata da Sez. 1, n. 12937/2017, Dolmetta, Rv. 644459-01, seguita dalla successiva giurisprudenza di legittimità, ove, in motivazione, è analizzata la struttura negoziale che – in ragione della vigente normativa di legge e regolamento – risulta propria dello svolgimento dei servizi di investimento.

La Corte ha infatti rilevato quanto segue:

«9. … il contratto quadro assolve la funzione di gettare le base per la futura operatività del rapporto. Nel senso che lo stesso, in particolare, dispone gli obblighi di informazione specifica sull’investitore (c.d. informazione passiva), che sono di subitanea attuazione. E inoltre dispone l’assunzione, o interiorizzazione negoziale, degli obblighi di informazione attiva e adeguatezza circa le singole operazioni, che discendono dalle prescrizioni di legge (art. 21 ss. TUF) e di regolamento Consob (come si è opportunamente rilevato, «i doveri di informazione attiva ... hanno fonte nella legge, ma sono da questa incorporati per via di integrazione nel contenuto tipico del contratto»). E così pure viene a disporre, ancora, una sequenza ordinante dell’ulteriore agire operativo del rapporto concreto: così conformando, e insieme imponendo, lo schema di azione che ciascun ordine dovrà poi rispettare in termini di rigoroso vincolo; secondo una linea che, si è già ricordato, risulta conformata nella funzione di protezione della posizione dell’investitore. Tutto questo non può far dimenticare, però, che la funzione del contratto quadro, ovvero la sua causa negoziale, è quella di fare (per l’investitore) e di far fare (per l’intermediario) degli investimenti. L’eventualità di confinarlo senza residui nello schema del semplice contratto normativo trascura che, nella realtà normativa, come pure operativa, la sua stipulazione importa tra gli altri, anche il compito dell’intermediario di segnalare e proporre all’investitore l’opportunità di effettuare degli investimenti secondo i termini organizzativi e contenutistici che per l’appunto si trovano prescritti da legge e regolamento. Nonché il compito di dare risposta adeguata, e secondo le ridette prescrizioni, alle richieste dell’investitore.

Quanto appena rilevato non spiega, per la verità, solo la ragione per cui l’assenza, in una fattispecie concreta, del contratto quadro implica l’invalidità degli ordini che nel caso si siano susseguiti, per ciò stesso risultanti propriamente acefali (cfr., per tutte, Cass. 11 aprile 2016, n. 7068). Indica altresì come i singoli ordini di investimento, concretamente verificatisi, si pongano all’interno della struttura fissata dal contratto quadro, nell’alveo tracciato dallo stesso. Il che vale a escludere in radice la possibilità di racchiudere la fase logica (ben più che cronologica), che va dalla stipulazione del contratto quadro all’emissione dei singoli ordini, nell’ambito dell’agire precontrattuale (e della conseguente responsabilità), secondo una prospettiva in sé davvero irrealistica. Ché l’assolvimento degli obblighi di informazione attiva e di adeguatezza costituisce proprio il ponte – endocontrattuale, all’evidenza … – di passaggio tra la funzione di investimento, come resa dal contratto quadro, e i singoli investimenti, come inevitabilmente espressi dai singoli ordini: in questa «cinghia di trasmissione» consistendo propriamente la protezione sostanziale che il sistema vigente viene ad assicurare all’investitore.

11 - La consecutiva fase dei singoli ordini è stata definita nei termini di fase «attuativa» del rapporto (questa è la nota formulazione adottata dalle sentenze di Cass. SS.UU. 19 dicembre 2007, n. 26724 e n. 26725). Di certo, la stessa non potrebbe essere considerata come non dipendente dal contratto quadro; certo è pure, peraltro, che la stessa non potrebbe essere definita, o intesa, come fase di mera esecuzione – o comunque di esecuzione meccanica e ripetitiva – del rapporto, secondo l’avviso che per contro è stato manifestato, nel contesto del presente giudizio, dalla Corte territoriale. Di questa fase, in realtà, va sottolineata prima di tutto la sua essenzialità, secondo quanto, del resto, è fatto oggettivamente evidente. Ma, soprattutto, va rimarcato come essa rappresenti – singolo ordine per singolo ordine – la fase realmente decisionale dell’attività di investimento: decisione che, secondo la protezione dettata dal sistema vigente, deve essere frutto di un lungo itinerario, che è interamente contrattuale.».

Se è dunque è vero che gli ordini di investimento successivi al contratto quadro muovono da una singolare manifestazione di volontà e sono dotati di una propria autonoma individualità, che rende possibile che l’azione di risoluzione o di accertamento della nullità interessi solo le operazioni effettuate in esecuzione di detti ordini senza investire il contratto quadro (così Sez. 1, n. 03261/2018, Lamorgese, Rv. 647233-01; Sez. 1, n. 16861/2017, Falabella, Rv. 644971-01; Sez. 1, n. 16820/2016, Falabella, Rv. 640905-01), tuttavia, in base a quanto appena evidenziato, la nullità del contratto quadro travolge ineluttabilmente gli ordini eseguiti a valle (per un’applicazione di tale principio, cfr. Sez. 1, n. 08395/2016, Acierno, Rv. 639486-01; Sez. 1, n. 10116/2018, Marulli, Rv. 648894-01; Sez. 1, n. 06664/2018, Nazzicone, Rv. 648251-01).

Ovviamente, come affermato da Sez. U, n. 28314/2019, Acierno, Rv. 655800-01, in quest’ultima ipotesi, ove venga dedotta in giudizio la nullità di tutte o di alcune delle operazioni effettuate, in ragione della nullità del contratto quadro non sottoscritto dal cliente, l’accertamento di tale nullità non può essere effettuata incidenter tantum, poiché ciò è possibile solo con riferimento a un rapporto diverso da quello dedotto in giudizio, mentre invece, in questo caso, si tratta di un accertamento che riguarda un presupposto giuridico eziologicamente collegato con la domanda, tanto da costituirne la premessa ineludibile (cfr. da ultimo Sez. 6-L, n. 03669/2019, Ghinoy, Rv. 652904-01).

5. L’uso selettivo della nullità.

La ricostruzione sopra riportata del rapporto tra contratto quadro e singole operazioni (in particolare, i singoli ordini di investimento, impartiti dal cliente ed eseguiti dall’intermediario) conduce ad affrontare la questione esaminata dalle Sezioni Unite nell’anno in rassegna.

Si tratta della valutazione della legittimità o meno del ricorso da parte dell’investitore all’istituto della nullità prevista dall’art. 23 d.lgs. n. 58 del 1998, per far valere la nullità di alcuni soltanto tra gli ordini di investimento eseguiti nel corso del rapporto, nonostante la nullità del contratto quadro (ovviamente si tratta, di regola, degli ordini che hanno comportato perdite per l’investitore), al fine di ottenere in restituzione le somme investite e andate perse.

La questione sorge perché, come sopra evidenziato, solo l’investitore può far valere la descritta nullità del contratto quadro ai sensi dell’art. 23 d.lgs. n. 58 del 1998, ma gli interpreti si sono interrogato sugli effetti di tale scelta, una volta compiuta, ed anche sull’esistenza di limiti interni ed esterni al corrispondente potere, offrendo dottrina e giurisprudenza soluzioni tra loro estremamente diversificate, anche in ordine alle possibili eccezioni o domande riconvenzionali che possono essere formulate dall’intermediario.

6. Le soluzioni interpretative offerte prima dell’intervento delle Sezioni Unite.

In un primo momento la giurisprudenza di legittimità (Sez. 1, n. 08395/2016, Acierno, Rv. 639486-01), nell’affermare che la nullità prevista dall’articolo menzionato, in quanto nullità di protezione, può essere eccepita dall’investitore anche limitatamente ad alcuni degli ordini di acquisto, a mezzo dei quali è stata data esecuzione al contratto viziato, ha espressamente esaminato, in motivazione, l’eccezione sollevata dall’intermediario, relativa alla ritenuta abusività, e conseguente illegittimità, del ricorso alla nullità selettiva, ritenendola infondata.

In particolare, la S.C. ha rilevato che la nullità prevista per il contratto quadro in mancanza della forma scritta ad substantiam non cambia natura, se riferita alle operazioni successivamente compiute. Anche tale nullità è rilevabile esclusivamente dall’investitore ed è configurabile come nullità di protezione. Quest’ultimo pertanto, in applicazione degli artt. 99 e 100 c.p.c., può selezionare il rilievo della nullità e rivolgerlo agli acquisti di prodotti finanziari, dai quali si ritenga illegittimamente pregiudicato, rendendo gli altri acquisiti estranei al giudizio, senza che tale conclusione contrasti con la rilevabilità d’ufficio (anche) della nullità di protezione, affermata dalle Sezioni Unite (cfr. Sez. U, n. 26242/2014, Travaglino, Rv. 633503-01), le quali si sono limitate ad estendere l’accertamento ufficioso alle nullità protettive non dedotte dalle parti, ma non hanno consentito il rilievo anche in relazione ad atti diversi da quelli verso i quali la censura è dalle parti rivolta.

Successivamente, la medesima S.C. ha espresso un orientamento del tutto diverso. In particolare, Sez. 1, n. 06664/2018, Nazzicone, Rv. 648251-02, ha ritenuto che, accertata la nullità del contratto d’investimento, il venir meno della causa giustificativa delle attribuzioni patrimoniali comporta l’applicazione della disciplina dell’indebito oggettivo di cui agli artt. 2033 ss. c.c., con il conseguente sorgere dell’obbligo restitutorio reciproco tra le parti, subordinato alla domanda di parte ed all’assolvimento degli oneri di allegazione e di prova, avente ad oggetto, da un lato, le somme versate dal cliente all’intermediario per eseguire l’operazione e, dall’altro lato, i titoli consegnati dall’intermediario al cliente e gli altri importi incassati a titolo di frutti civili o di corrispettivo per la rivendita a terzi, a norma dell’art. 2038 c.c., con conseguente applicazione della compensazione fra i reciproci debiti sino alla loro concorrenza.

In altre parole, secondo tale ricostruzione, il regime di protezione si esaurisce nella legittimazione esclusiva del cliente a far valere la nullità per difetto di forma, ma poi, dichiarata l’invalidità del contratto quadro, gli effetti caducatori e restitutori possono essere fatti valere da entrambe le parti.

Solo per completezza, deve richiamarsi un’altra pronuncia che ha esaminato la questione, ma solo per ritenerla estranea alla specifica materia del contendere.

Si tratta di Sez. 1, n. 10116/2018, Marulli, Rv. 648894-01, ove si è affermato che, se le singole operazioni di investimento hanno avuto esecuzione in mancanza della stipulazione del contratto quadro, all’investitore che chiede la declaratoria di nullità solo per alcune di esse, non sono opponibili l’eccezione di dolo generale fondata sull’uso selettivo della nullità e, in ragione della protrazione nel tempo del rapporto, quella di intervenuta sanatoria del negozio nullo per rinuncia a valersi della nullità o per convalida di esso, essendo l’una e l’altra prospettabili solo nel caso in cui esista un contratto quadro (anche se invalido).

Dalla lettura della motivazione si evince che la pronuncia ha riguardato un caso in cui era incontroverso che il cliente avesse per anni svolto un elevato numero di operazioni di investimento e disinvestimento senza che fosse mai stato stipulato un accordo quadro. In questo caso, ha ritenuto la Corte di cassazione, se un contratto manca, perché mai le parti hanno inteso dare al rapporto una veste formale stabile e definitiva, ci si trova in presenza di un coacervo di singole operazioni, tante quante sono quelle poste in essere attraverso l’esecuzione degli ordini impartiti di volta in volta dall’investitore, ciascuna delle quali ubbidisce al proprio statuto giuridico e conserva perciò la propria individualità.

È possibile rivenire anche un ulteriore orientamento che, sollecitato da una parte della dottrina, ha prospettato l’esperibilità dell’exceptio doli generalis, al fine di paralizzare l’uso selettivo della nullità, ritenendo contraria a buona fede la pretesa di far valere il difetto di forma del contratto quadro, per porre nel nulla, non tutte, ma solo alcune delle operazioni compiute. Tale posizione è evidenziata in particolare nell’ordinanza interlocutoria, che ha nuovamente rimesso la questione alle Sezioni Unite (Sez. 1, n. 23927/2018, Valitutti, non massimata), rinviando anche alle precedenti ordinanze interlocutorie (Sez. 1, nn. 1238812389-12390/2017, Genovese, non massimate, cui è seguita la statuizione delle Sezioni Unite sul contratto monofirma, sopra illustrata, che ha dichiarato assorbiti gli ulteriori mezzi e, con essi, la questione in esame).

Per quanto riguarda le soluzioni interpretative adottate dalla dottrina, il riferimento all’exceptio doli assume connotazioni variegate, volte a paralizzare l’azione di restituzione del cliente.

Alcun interpreti hanno considerato contrario a buona fede l’uso selettivo della nullità di protezione in sé, per il solo fatto che, con intento opportunistico, in questo modo vengono selezionati solo gli ordini di investimento o disinvestimento non lucrativi per l’investitore, con effetto solo di paralizzare l’azione di restituzione del cliente, senza consentire alcuna ripetizione in favore dell’intermediario. Altri autori non hanno ritenuto sempre illegittimo l’uso selettivo della nullità, ma solo quando sia espressione di malafede o frode, per essere preordinato alla produzione di un pregiudizio in danno dell’intermediario. Altri ancora hanno fatto ricorso alla categoria dell’abuso del diritto, configurando tale evenienza quando il fine dell’azione risulti incoerente rispetto a quello in funzione del quale la legge attribuisce il potere di azione. (67)

7. Il principio di buona fede come “criterio ordinante” secondo le Sezioni Unite.

Come sopra anticipato, le Sezioni Unite hanno espressamente affermato di risolvere il problema dell’uso selettivo della nullità sancita dall’art. 23 d.lgs. n. 58 del 1998, adottando una soluzione che si pone in continuità con la pronuncia adottata nell’anno precedente (Sez. U, n. 00898/2018, Di Virgilio, Rv. 646965-01).

Al riguardo, si deve richiamare un passaggio importante della decisione assunta nel 2018, ove le Sezioni Unite hanno evidenziato che «…ragionando in termini più generali, può affermarsi che nella ricerca dell’interpretazione preferibile, siccome rispondente al complesso equilibrio tra interessi contrapposti, ove venga istituita dal legislatore una nullità relativa, come tale intesa a proteggere in via diretta e immediata non un interesse generale, ma anzitutto l’interesse particolare, l’interprete deve essere attento a circoscrivere l’ambito della tutela privilegiata nei limiti in cui viene davvero coinvolto l›interesse protetto dalla nullità, determinandosi altrimenti conseguenze distorte o anche opportunistiche».

Nella sentenza successivamente adottata (Sez. U, n. 28314/2019, Acierno, Rv. 655800-01), le Sezioni Unite hanno evidenziato che la precedente pronuncia sopra ricordata, nel ritenere assolto l’obbligo della forma scritta nonostante il contratto fosse sottoscritto soltanto dall’investitore, ha riconosciuto alla disposizione dell’art. 23 d.lgs. n. 58 del 1998 la funzione di protezione effettiva del cliente, senza legittimare l’esercizio dell’azione di nullità in forma abusiva in modo da far conseguire all’investitore ingiusti vantaggi.

L’opzione fortemente funzionalistica nella conformazione dell’obbligo della forma scritta, adottata da Sez. U, n. 00898/2018, Di Virgilio, Rv. 646965-01, è stata considerata come «determinata dall’esigenza di non trascurare l’applicazione dei principi di buona fede e correttezza anche nell’esercizio dei diritti in sede giurisdizionale».

In tale ottica, le Sezioni Unite hanno esaminato la nullità sancita dall’art. 23 d.lgs. n. 58 del 1998, raccordandola con le altre nullità protettive, rinvenendo, quale elemento unificante, l’esclusività della legittimazione a far valere tali nullità in capo al soggetto protetto dalla disposizione, in deroga al disposto dell’art. 1421 c.c.

Tale esclusività, hanno precisato le Sezioni Unite, non impedisce il rilievo ufficioso delle menzionate nullità, anche dove non è espressamente previsto dalla legge, perché, come chiarito da Sez. U, n. 26242/2014, Travaglino, Rv. 633503-01, le nullità protettive costituiscono, alla stregua delle indicazioni provenienti dalla Corte di giustizia, species del più ampio genus rappresentato dalle nullità, dal momento che tutelano interessi e valori fondamentali – quali il corretto funzionamento del mercato ex art. 41 Cost. e l’uguaglianza almeno formale tra contraenti forti e deboli – i quali trascendono gli interessi del singolo contraente (Sez. U, n. 26242/2014, Travaglino, Rv. 633503-01), fermo restando che il rilievo del giudice deve comunque essere subordinato ad una manifestazione d’interesse del soggetto legittimato (Sez. 2, n. 26614/2018, Criscuolo, Rv. 651009-01).

Secondo le Sezioni Unite, l’esclusione della legittimazione all’azione di nullità dell’altro contraente è il frutto della predeterminazione legislativa della posizione di squilibrio contrattuale tra le parti, riferita a determinate tipologie contrattuali, e l’attribuzione al contraente meno forte dell’esclusività nella scelta in ordine alla proposizione di tale azione è uno strumento di riequilibrio normativo.

In tale ottica è pertanto consequenziale l’emersione di un’ulteriore caratteristica delle nullità protettive, le quali non solo possono essere fatte valere soltanto dal soggetto da esse protetto, ma operano anche a vantaggio esclusivo di quest’ultimo.

Le Sezioni Unite hanno rilevato che tale connotazione è esplicitata nell’art. 36, comma 3, d.lgs. n. 206 del 2005 (cd. Codice del consumo), che disciplina in generale il regime delle nullità delle clausole vessatorie, ed anche nel novellato art. 127, comma 2, d.lgs. n. 385 del 1993, che regola alcune nullità dei contratti bancari.

Sebbene tale precisazione non sia espressa nell’art. 23 d.lgs. n. 58 del 1998, le medesime Sezioni Unite hanno tuttavia affermato che la nullità opera a vantaggio esclusivo del cliente anche in questo caso, perché si tratta di una connotazione implicita nella caratterizzazione funzionale della medesima, enunciata nella sopra illustrata Sez. U, n. 00898/2018, Di Virgilio, Rv. 646965-01.

Nei contratti d’investimento, hanno poi precisato le Sezioni Unite, lo squilibrio contrattuale assume un carattere prevalentemente conoscitivo-informativo, fondandosi sull’elevato grado di competenza tecnica di coloro che operano nell’ambito degli investimenti finanziari, non comparabile con le conoscenze dell’investitore non qualificato che si appresta a compiere operazioni finanziarie, aggiungendo che comunque non tutti i rimedi volti a limitare, o a colmare, l’asimmetria informativa, sono riconducibili alla nullità di protezione.

Una volta stabilito l’equilibrio formale con il testo contrattuale scritto, la condizione soggettiva dell’investitore e le scelte d’investimento, che connotano peculiarmente gli obblighi informativi dell’intermediario nella prestazione dei servizi di investimento, incidono sullo scrutinio dell’adempimento di quest’ultimo, ai fini del risarcimento del danno o della risoluzione del contratto, tenendo sempre conto, in concreto, della buona fede del cliente al momento della rivelazione delle sue caratteristiche d’investitore e del suo grado di conoscenza delle dinamiche degli investimenti finanziari (Sez. U, n. 26724/2007, Rordorf, Rv. 600329-01).

In tale quadro, secondo le Sezioni Unite, il principio di buona fede e correttezza contrattuale, sostenuto dai principi solidaristici di matrice costituzionale, è operante, in relazione agli interessi dell’investitore, mediante la predeterminazione legislativa delle nullità di protezione predisposte a suo esclusivo vantaggio, in funzione di riequilibrio generale ed astratto delle condizioni negoziali garantite dalla conoscenza del testo del contratto quadro, nonché mediante la previsione di un rigido sistema di obblighi informativi a carico dell’intermediario. Tuttavia, non può escludersi la configurabilità di un obbligo di lealtà dell’investitore in funzione di garanzia per l’intermediario che abbia correttamente assunto le informazioni necessarie a determinare il profilo soggettivo del cliente al fine di conformare gli investimenti alle sue caratteristiche, alle sue capacità economiche e alla sua propensione al rischio. Può, pertanto, rilevarsi che anche nei contratti caratterizzati da uno statuto di norme non derogabili dall’autonomia contrattuale, volte a proteggere il contraente che strutturalmente è in una posizione di squilibrio rispetto all’altro, il principio di buona fede possa avere un ambito di operatività trasversale, non limitata soltanto alla definizione del sistema di protezione del cliente, quando gli strumenti normativi di riequilibrio possono essere da quest’ultimo utilizzati, anche in sede giurisdizionale, per arrecare un ingiustificato pregiudizio all’altra parte, pur se applicati conformemente al paradigma legale.

In via generale dunque, l’uso selettivo della nullità prevista dall’art. 23 d.lgs. n. 58 del 1998 non è dalle Sezioni Unite ritenuto in contrasto con lo statuto normativo delle nullità di protezione, ma – e questo è il punto centrale – la sua operatività deve essere modulata e conformata dal principio di buona fede.

In particolare, dell’invalidità del contratto quadro prevista dall’art. 23 d.lgs. n. 58 del 1998 può avvalersi soltanto l’investitore, e ciò avviene non solo sul piano sostanziale della legittimazione esclusiva ma anche su quello sostanziale dell’operatività ad esclusivo suo vantaggio. L’intermediario non può avvantaggiarsi degli effetti diretti di tale nullità e conseguentemente non è legittimato ad agire in via riconvenzionale o in via autonoma per far valere la nullità di ordini non impugnati chiedendo le conseguenti restituzioni.

Tuttavia, le Sezioni Unite hanno ritenuto che i principi di solidarietà ed uguaglianza sostanziale, di derivazione costituzionale (art. 2, 3, 41 e 47 Cost., quest’ultimo con specifico riferimento ai contratti d’investimento), sui quali le stesse Sezioni Unite, con la pronuncia n. 26642 del 2014, hanno riposto il fondamento e la ratio delle nullità di protezione, operano anche in funzione di riequilibrio effettivo endocontrattuale, quando l’azione di nullità, utilizzata in forma selettiva, determini esclusivamente un sacrificio economico sproporzionato nell’altra parte. Limitatamente a tali ipotesi, l’intermediario può opporre all’investitore un’eccezione, qualificabile come di buona fede, idonea a paralizzare gli effetti restitutori dell’azione di nullità selettiva proposta soltanto in relazione ad alcuni ordini.

Al fine di modulare correttamente il meccanismo di riequilibrio effettivo delle parti contrattuali di fronte all’uso selettivo delle nullità di protezione, secondo le Sezioni Unite, occorre effettuare un esame degli investimenti complessivamente eseguiti, ponendo in comparazione quelli oggetto dell’azione di nullità, derivata dal vizio di forma del contratto quadro, con quelli che ne sono esclusi, al fine di verificare se permanga un pregiudizio per l’investitore corrispondente al petitum azionato, dovendo ritenersi, in questa ultima ipotesi, che l’investitore abbia agito coerentemente con la funzione tipica delle nullità protettive, ovvero quella di operare a vantaggio di chi le fa valere.

Per accertare se l’uso selettivo della nullità di protezione sia stato oggettivamente finalizzato ad arrecare un pregiudizio all’intermediario, si deve verificare l’esito degli ordini non colpiti dall’azione di nullità e, ove sia stato vantaggioso per l’investitore, porlo in correlazione con il petitum azionato in conseguenza della proposta azione di nullità.

Può dunque accadere che gli ordini non colpiti dall’azione di nullità abbiano prodotto un rendimento economico superiore al pregiudizio confluito nel petitum. In tale ipotesi, può essere opposta, ed al solo effetto di paralizzare gli effetti della dichiarazione di nullità degli ordini selezionati, l’eccezione di buona fede, al fine di non determinare un ingiustificato sacrificio economico in capo all’intermediario stesso.

Può anche accadere che un danno per l’investitore, anche al netto dei rendimenti degli investimenti relativi agli ordini non colpiti dall’azione di nullità, si sia comunque determinato. In tale ipotesi, entro il limite del pregiudizio per l’investitore accertato in giudizio, l’azione di nullità non contrasta con il principio di buona fede. Oltre tale limite, opera, ove sia oggetto di allegazione, l’effetto paralizzante dell’eccezione di buona fede.

In conclusione, secondo tale ricostruzione, se i rendimenti degli investimenti non colpiti dall’azione di nullità superano il petitum, l’effetto impeditivo è integrale, ove invece si determini un danno per l’investitore, anche all’esito della comparazione con gli altri investimenti non colpiti dalla nullità selettiva, l’effetto paralizzante dell’eccezione opererà nei limiti del vantaggio ingiustificato conseguito.

8. Osservazioni di sintesi.

Se si volesse riassumere in pochissime parole il senso delle due pronunce a Sezioni Unite appena illustrate potrebbe sinteticamente dirsi che, per le Sezioni Unite, la nullità prevista dall’art. 23 d.lgs. n. 58 del 1998, in quanto posta a tutela dell’investitore, quale parte debole del contratto, può essere fatta valere solo da quest’ultimo, opera esclusivamente a suo vantaggio e nei limiti in cui realizza la sua protezione.

In base a tale premessa, Sez. U, n. 00898/2018, Di Virgilio, Rv. 646965-01 ha escluso la configurabilità della menzionata nullità nel caso di contratto quadro monofirma, firmato però dall’investitore, perché la sottoscrizione di chi rappresenta l’intermediario nulla aggiunge e nulla toglie alla funzione di protezione svolta dal richiesto rigore formale del contratto.

In termini analoghi, Sez. U, n. 28314/2019, Acierno, Rv. 655800-01, pur non ritenendo in sé illecito l’uso selettivo di tale nullità, ha rilevato che non vi è più protezione dell’investitore, ma un uso sfunzionale del potere di azione a quest’ultimo conferito, nel caso in cui, selezionando le operazioni finanziarie da far dichiarare nulle, ottenga un risultato economico eccedente rispetto al vantaggio attribuito dalla legge.

In altre parole, secondo le Sezioni Unite, la possibilità di far valere in via esclusiva la nullità del contratto quadro per difetto di forma scritta consente all’investitore di decidere se porre o no nel nulla le operazioni effettuate, provocando le restituzioni totali o parziali (a seconda che faccia o meno uso selettivo della nullità), ma non gli consente di conseguire un vantaggio ulteriore, e superiore, agli effetti che otterrebbe per effetto della dichiarazione di nullità di tutte le operazioni compiute in ragione della mancata sottoscrizione del contratto quadro.

Tale soluzione è il risultato di una rilettura a tutto campo dei rapporti tra investitore e intermediario.

È chiara la consapevolezza che detti rapporti siano minuziosamente disciplinati dal legislatore (e dalle norme regolamentari di attuazione) già prima della stipula del contratto quadro, mediante la previsione di obblighi di comportamento, e in particolare di obblighi di informazione attiva e passiva, finalizzati a colmare lo squilibrio esistente tra le parti. L’adempimento di alcuni di tali obblighi, quelli che il legislatore ritiene più importanti, devono risultare dal contenuto necessario del contratto stesso, che deve essere firmato dall’investitore a pena di nullità (azionabile solo dal cliente) e che deve essere a lui consegnato in copia. Gli altri obblighi comportamentali, se pure non assurgono a un’importanza tale da determinare alcuna nullità, in caso di inottemperanza, rilevano comunque, ai fini della configurazione di una responsabilità precontrattuale, se attengono alla fase che precede la stipula del contratto quadro, o contrattuale, se attengono alla fase di attuazione del contratto (v. in questi stessi termini Sez. 1, n. 08462/2014, Didone, Rv. 630886-01).

In tale contesto, non deve sorprendere il ricorso effettuato dalle Sezioni Unite ai canoni della buona fede e della correttezza, nel valutare il comportamento tenuto dalle parti in relazione ad un contratto quadro invalidamente stipulato, tenuto conto che, come sopra evidenziato, a prescindere alla validità o meno del menzionato contratto, il rapporto tra investitore e intermediario è già un rapporto a rilevanza giuridica, affasciato da un coacervo di obblighi di comportamento previsti e disciplinati direttamente dalla legge (e dalle norme regolamentari di attuazione).

Come evidenziato da Sez. U, n. 00898/2018, Di Virgilio, Rv. 646965-01, e supra riportato, la nullità prevista dall’art. 23 d.lgs. n. 58 del 1998 costituisce una sanzione per il mancato adempimento dell’obbligo imposto dalla legge all’intermediario di redigere un contratto per iscritto e di farlo firmare all’investitore ma, secondo quando evidenziato da Sez. U, n. 28314/2019, Acierno, Rv. 655800-01, l’esperimento della relativa azione si pone in contrasto con il principio di buona fede, ove l’uso selettivo della nullità porti a far lucrare in vantaggio diverso e ulteriore rispetto a quello consentito dalla norma che prevede tale azione. La buona fede deve infatti improntare il rapporto tra le parti non solo durante l’esecuzione dello stesso, ma anche nella successiva fase contenziosa (per la rilevanza nel processo della condotta contraria a buona fede del creditore, cfr. ad esempio Sez. 6-L, n. 26089/2019, Cavallaro, Rv. 655428-01; Sez. 6-2, n. 19898/2018, Falaschi, Rv. 650068-01).

È comunque evidente che l’importanza degli istituti convogliati e dei principi coinvolti soprattutto in quest’ultima pronuncia delle Sezioni Unite sono destinati ad alimentare, e certo non a spegnere, l’acceso dibattito già sorto intorno a tali questioni.

  • contratto
  • risoluzione di contratto

X)

IL REGIME PROCESSUALE DELLE NULLITÀ NEGOZIALI

(di Laura Mancini )

Sommario

1 Natura e funzione dell’azione di nullità contrattuale. - 2 L’interesse all’accertamento della nullità quale condizione dell’azione e criterio di determinazione della legittimazione ad agire. - 3 La legittimazione ad agire dei contraenti. - 3.1 L’azione di nullità del contratto inter alios. - 4 La legittimazione relativa. - 5 La rilevabilità d’ufficio. - 7 Il giudicato sulla nullità del contratto.

1. Natura e funzione dell’azione di nullità contrattuale.

Secondo l’opinione dominante in dottrina l’azione di nullità ex art. 1421 c.c. ha natura dichiarativa (G. CHIOVENDA, Azioni e sentenze di mero accertamento, in Riv. dir. proc., 1933, I, 29 e ss.; V. ANDRIOLI, Lezioni di diritto processuale civile, I, 2, Napoli, 1961, 251 e ss.; C.M. BIANCA, Diritto civile, III, Milano, 2019) in quanto tende all’accertamento della nullità del contratto, la quale opera di diritto. Soltanto un’opinione isolata (A. PROTO PISANI, Appunti sulla tutela di mero accertamento, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1978, II, 1, 329 e ss.; in giurisprudenza si vedano le remote Sez. 1, n. 2648/1970, Della Valle, Rv. 349071-01; Sez. 1, n. 3820/1980, Bologna, Rv. 407666-01) ne assume la natura costitutiva sul presupposto che la pronuncia alla quale è volta elimina la giuridica rilevanza del negozio nullo, rimuovendone gli effetti legali indiretti che talora questo è idoneo a produrre.

Il fondamento del rimedio è stato individuato nella tutela dell’interesse generale alla certezza del diritto, identificato dalla riflessione dottrinale più risalente nell’esigenza di sicurezza giuridica generata dall’idoneità del negozio a suscitare incertezza sulla propria esistenza ed efficacia e da opinioni più recenti nell’incertezza soggettiva provocata dalla contestazione della nullità ad opera della controparte (A. FALZEA, Accertamento (teoria generale), in Enc. del dir., I, 1958, 209) ovvero nell’incertezza oggettiva derivante dalla sussistenza di un contratto che presenti al contempo gli elementi minimi per potersi ritenere esistente ed elementi impeditivi della sua efficacia (G. FILANTI, Nullità (diritto civile), in Enc. giur., XXI, Roma, 1990; F. PECCENINI, Commento sub art. 1421 c.c., in Commentario del codice civile, SCIALOJA-BRANCA, a cura di F. GALGANO, Bologna, 1998, 164).

L’azione di nullità codicistica rappresenta un unicum nell’esperienza giuridica europea, non avendo precedenti né nel sistema giuridico italiano anteriore all’emanazione del codice del 1942, né in altri ordinamenti di civil law, non potendosi stabilire un parallelismo con il § 256 della ZPO relativo all’accertamento dell’esistenza o inesistenza di un rapporto giuridico (Feststellungsklage), ostandovi - al di là dell’affinità semantica di tale accertamento con quello relativo alla validità del contratto, rilevata da alcuni autori - il fatto che nel sistema tedesco l’azione di nullità ha natura costitutiva e, comunque, è esperibile in via residuale soltanto quando non sia possibile o comunque utile un’azione di condanna volta ad ottenere l’esecuzione o la restituzione di una prestazione (§ 43 VwGO).

La peculiarità di tale rimedio e la ragione del suo limitato ambito applicativo si colgono attraverso il raffronto con l’azione di ripetizione dell’indebito. Difatti, ogniqualvolta il contratto nullo venga eseguito, l’interesse all’accertamento dell’invalidità del titolo in via principale perde consistenza e cede il posto a quello per una pronuncia incidentale di nullità funzionale alla condanna alla restituzione ex art. 2033 c.c.

Il fatto che in caso di adempimento del contratto nullo la verifica della nullità degrada necessariamente a questione pregiudiziale ha generato dubbi sull’utilità dell’azione di nullità.

La dottrina più risalente (N. COVIELLO, Manuale di diritto civile italiano, Milano, 1924, 333) motivava la superfluità di un’azione di accertamento, in via principale, della nullità negoziale sul presupposto che tale forma di invalidità opera ipso iure e che oggetto di accertamento possono essere soltanto diritti soggettivi o rapporti giuridici e, poiché il contratto nullo non è idoneo a generare alcun diritto, rispetto ad esso si configurano soltanto “situazioni giuridiche preliminari” (G. FILANTI Inesistenza e nullità del negozio giuridico, Napoli, 1983, 116), le quali possono essere accertate soltanto in via pregiudiziale e incidentale in altri processi (E. RICCI, Sull’accertamento della nullità e della simulazione dei contratti come situazioni preliminari, in Riv. dir. proc., 1994, 654)

Il dubbio circa l’utilità dell’azione ex art. 1421 c.c. è stato alimentato dalla stessa giurisprudenza di legittimità, la quale ha escluso la sussistenza dell’interesse ad agire in nullità nel caso di prescrizione della condictio indebiti (Sez. 3, n. 5575/2003, Talevi, Rv. 562014-01; Sez. 3, n. 27334/2005, Segreto, Rv. 590465-01)

Si è, tuttavia, osservato che, anche ove si ritenesse valida la tesi che, sulla premessa della portata assorbente dell’azione di ripetizione dell’indebito rispetto all’azione di nullità, sostiene l’inammissibilità della domanda di nullità nel caso in cui il contratto sia stato eseguito e sia ancora esperibile l’azione di ripetizione dell’indebito, dovrebbe comunque riconoscersi uno spazio di operatività dell’azione di nullità quale “pura azione preventiva d’accertamento di una qualità del titolo” (S. PAGLIANTINI, Struttura e funzione dell’azione di nullità contrattuale, in Riv. dir. civ., 2011, 6, 753 e ss.).

Il rimedio ex art. 1421 c.c. – rileva la dottrina da ultimo richiamata -può, infatti, arrecare utilità alle parti nella misura in cui, a fronte dell’erronea apparenza di validità generata dal contratto nullo, attesta preventivamente l’inesistenza di diritti o rapporti nascenti da quest’ultimo. Un interesse qualificato all’accertamento in via principale della nullità del titolo che non abbia ancora ricevuto esecuzione è, dunque, configurabile e attiene all’accertamento dell’invalidità del contratto quale presupposto dell’inesistenza del diritto preteso. Si tratta, quindi, di un interesse necessariamente riflesso e strumentale in quanto l’accertamento della nullità contrattuale costituisce un mezzo rispetto allo “scopo ablativo degli obblighi apparentemente riferibili ad esso” (così S. PAGLIANTINI, Struttura e funzione dell’azione di nullità contrattuale, cit. 753 e ss.).

Un interesse autonomo alla declaratoria di invalidità del contratto in via preventiva non può, invece, essere ravvisato in capo ai terzi (su cui si veda, infra, il § 3.1.), rispetto ai quali l’accertamento della nullità costituisce necessariamente un medio logico dell’azione, costitutiva o di condanna, esperita e, precisamente, un accertamento negativo pregiudiziale in via incidentale in vista della decisione su altro oggetto (in questi termini E. RICCI, Sull’accertamento della nullità e della simulazione dei contratti come situazioni preliminari, cit., 662).

In definitiva, stando all’impostazione da ultimo richiamata, per le parti del contratto la nullità può formare oggetto tanto di eccezione, avente ad oggetto un fatto impeditivo dell’efficacia del contratto inteso a paralizzare una pretesa da quest’ultimo nascente, quanto di domanda autonoma proposta in via preventiva al fine di evitare molestie della controparte o dei terzi subacquirenti di buona fede ai quali, con il trascorrere del tempo, la sentenza di nullità non sarebbe più opponile. In tale ultimo caso la sentenza di nullità accerta, al contempo, che il diritto della controparte non è mai sorto.

2. L’interesse all’accertamento della nullità quale condizione dell’azione e criterio di determinazione della legittimazione ad agire.

L’art. 1421 c.c. riconosce a chiunque vi abbia interesse, salvo che la legge non disponga diversamente, la legittimazione all’esercizio dell’azione di nullità.

L’interesse al quale la disposizione fa riferimento assolve alla precipua funzione di ampliare il novero dei legittimati attivi nel giudizio di nullità oltre i contraenti, in deroga al principio di relatività degli effetti del contratto sancito dall’art. 1372 c.c. In forza di tale disposizione la legittimazione viene, infatti, attribuita non solo ai titolari del rapporto di cui si assume l’invalidità, ma anche ai terzi, titolari di un rapporto distinto, ma da esso dipendente, che subirebbero comunque gli effetti della pronuncia di accertamento (F. PECCENINI, Commento sub art. 1421 c.c., in Commentario del codice civile SCIALOJA- BRANCA, cit., 165).

Tale elemento testuale ha indotto la maggior parte degli interpreti (A. BONFILIO, B. MARICONDA, L’azione di nullità, in I contratti in generale, diretto da G. ALPA, M. BESSONE, IV, I, Torino, 1992, 464; S. PAGLIANTINI, L’azione di nullità tra legittimazione ed interesse, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2011, 408) e della giurisprudenza (Sez. 3, Sentenza n. 338/2001, Finocchiaro, Rv. 543069-01; Sez. 2, Sentenza n. 5420/2002, Mensitieri, Rv. 553734-01; Sez. 1, n. 4372/2003, Di Amato, Rv. 561395-01) a ritenere che l’interesse menzionato dall’art. 1421 c.c. non sia sovrapponibile dall’interesse ad agire ex art. 100 c.p.c.

Il lemma “interesse” impiegato nell’art. 1421 c.c. assolve, in definitiva, alla funzione di “criterio di determinazione della legittimazione ad agire” ed è, quindi, di natura sostanziale, nel senso che deve ritenersi intimamente connesso con la situazione giuridica soggettiva che il contratto nullo può diminuire o danneggiare, così che può essere identificato con la “relazione di utilità” concretamente intercorrente tra la sentenza di accertamento della nullità e la situazione giuridica danneggiata o danneggiabile.

Per quanto concerne, invece, l’interesse ad agire quale condizione dell’azione di nullità, la giurisprudenza di legittimità, sin dalla nota sentenza delle Sezioni Unite n. 1553 del 27 giugno del 1961 – che enunciò il principio di diritto secondo il quale il carattere generale dell’azione di nullità ex art. 1421 c.c., la quale può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse e può essere rilevata d’ufficio dal giudice, non esime il soggetto che la propone dal dimostrare in concreto la sussistenza di un proprio interesse ad agire secondo le norme generali e con riferimento all’art. 100 c.p.c., attraverso la dimostrazione della necessità di ricorrere al giudice per evitare una lesione attuale del proprio diritto ed il conseguente danno alla propria sfera giuridica. In mancanza della dimostrazione di un concreto interesse ad agire, da parte dell’attore, l’azione di nullità non può essere, almeno di regola proposta sotto la specie di un fine generale di attuazione della legge – ne ha individuato i caratteri indefettibili nella concretezza, effettività, attualità ed apprezzabilità.

Dalla modulazione di tale principio compiuta dalla più recente giurisprudenza di legittimità è scaturita un’ampia elaborazione casistica.

Tra le ultime pronunce emblematica è Sez. 6-2, n. 2489/2019, Criscuolo, Rv. 652507-01, la quale ha stabilito che in materia testamentaria, l’attore titolare della legittimazione ad esercitare le azioni di nullità ed annullamento non è esentato dal dimostrare la sussistenza di un proprio concreto interesse ad agire, per cui l’azione stessa non è proponibile in mancanza della prova, da parte del medesimo attore, della necessità di ricorrere al giudice per evitare - attraverso la rimozione degli effetti del testamento impugnato - una lesione attuale del proprio diritto ed il conseguente danno alla propria sfera giuridica.

In materia di contratti bancari Sez. 6-1, n. 21646/2018, Falabella, Rv. 650473-01, ha, invece, chiarito che in tema di conto corrente bancario, l’assenza di rimesse solutorie eseguite dal correntista non esclude l’interesse di questi all’accertamento giudiziale, prima della chiusura del conto, della nullità delle clausole anatocistiche e dell’entità del saldo parziale ricalcolato, depurato delle appostazioni illegittime, con ripetizione delle somme illecitamente riscosse dalla banca, atteso che tale interesse mira al conseguimento di un risultato utile, giuridicamente apprezzabile e non attingibile senza la pronuncia del giudice, consistente nell’esclusione, per il futuro, di annotazioni illegittime, nel ripristino di una maggiore estensione dell’affidamento concessogli e nella riduzione dell’importo che la banca, una volta rielaborato il saldo, potrà pretendere alla cessazione del rapporto.

In ambito lavoristico interessanti spunti ricostruttivi sono stati offerti da Sez. L, n. 18819/2018, Amendola F., Rv. 649879-01, la quale, ricordando la stretta correlazione dell’interesse ad agire con il principio di economia processuale e di uso responsabile del processo, ha chiarito che in tema di lavoro a tempo determinato, la domanda volta all’accertamento della illegittima apposizione del termine richiede la prova di un interesse concreto ed attuale ad agire ovvero della possibilità di conseguire un risultato concretamente rilevante, in vista della tutela di una lesione non meramente potenziale, ottenibile mediante il processo e l’intervento necessario di un giudice.

Di sicuro rilievo sistematico è, infine, Sez. 2, n. 2447/2014, Carrato, Rv. 629709-01, secondo la quale la legittimazione generale all’azione di nullità, prevista dall’art. 1421 c.c., non esime l’attore dal dimostrare la sussistenza di un proprio concreto interesse, a norma dell’art. 100 c.p.c. non potendo tale azione essere esercitata per un fine collettivo di attuazione della legge.

3. La legittimazione ad agire dei contraenti.

L’estensione della legittimazione riconosciuta dall’art. 1421 c.c. a “chiunque vi ha interesse” è, dunque, delimitata da un interesse la cui nozione è ritenuta dagli interpreti concettualmente e funzionalmente distinta rispetto a quella desumibile dall’art. 100 c.p.c.

Secondo l’orientamento tradizionale della giurisprudenza di legittimità, rispetto alle parti del contratto della cui validità si discute, l’interesse all’accertamento della nullità è in re ipsa e, quindi, la locuzione “chiunque vi ha interesse”, usata dall’art. 1421 c.c. per individuare i soggetti legittimati ad esperire l’azione di nullità, si riferisce ai terzi che, non avendo sottoscritto il contratto, sono rimasti ad esso estranei (Sez. 2, n. 7017/1994, Vella, Rv. 487538-01; Sez. 3, n. 9010/1999, Fiduccia, Rv. 529479-01). La presunzione di esistenza dell’interesse degli stipulanti, rilevante ai fini della legittimazione, non esime, tuttavia, dal verificare l’interesse ad agire ex art. 100 c.p.c., il quale non necessita di dimostrazione quando il contraente agisca per la ripetizione dell’indebito ovvero in rivendica e, quindi, la nullità del contratto costituisca un medio logico della pronuncia di condanna richiesta, mentre deve essere oggetto di attento esame nell’ipotesi di domanda di accertamento della nullità in via principale.

In coerenza con tali assunti, la giurisprudenza ha a più riprese affermato che legittimata alla domanda di nullità è anche la parte che vi abbia dato causa, non trovando applicazione in materia negoziale il principio, di natura esclusivamente processuale, sancito dall’art. 157 c.p.c., a mente del quale la nullità non può essere opposta dalla parte che vi ha dato causa, né da quella che vi ha rinunciato tacitamente (in tal senso si veda Sez. 1, n. 10121/2007, Panzani, Rv. 597009-01).

Contro tale ricostruzione incisive obiezioni sono state mosse da una parte della dottrina (S. PAGLIANTINI L’azione di nullità tra legittimazione ed interesse, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2, 2011, 407 e ss.), la quale ha evidenziato come la necessità di verificare caso per caso la ricorrenza di un concreto interesse all’azione di nullità trovi, per contro, conferma non solo nelle previsioni, affatto marginali, di nullità relativa testuale disseminate nell’ordinamento e ricadenti nella proposizione eccettuativa collocata in apertura nel testo dell’art. 1421 c.c., ma anche in una serie di fattispecie in cui l’ammissibilità della denuncia della nullità ad opera della parte che vi abbia dato causa è esclusa ex lege (come ad esempio in materia di locazione ad uso abitativo, in cui, il combinato disposto degli artt. 1, comma 4, e 13, comma 6, della legge n. 431 del 1998 esclude che il locatore che, abusando del proprio potere negoziale, abbia ottenuto la stipula verbale del contratto possa esperire l’azione di nullità per difetto di forma ad substantiam), o può essere negata in via di interpretazione.

Tale preclusione, evidenzia l’opinione in esame, secondo alcuni trova giustificazione nell’assenza della meritevolezza dell’interesse ad agire (in tal senso si veda S. POLIDORI, Discipline della nullità ed interessi protetti, Napoli, 2001, 124 e ss.; M. F. GHIRGA, La meritevolezza della tutela richiesta. Contributo allo studio sull’abuso dell’azione giudiziale, Milano, 2004) e, secondo altri, nel fatto che la domanda di accertamento di nullità ad opera della parte che vi ha dato causa integra un’ipotesi di abuso del diritto di azione (G. VERDE, Sulla “minima unità strutturale” azionabile nel processo (a proposito di giudicato e di emergenti dottrine), in Riv. dir. proc., 1981, 577 e ss.).

La questione della legittimazione delle parti all’azione di nullità coinvolge, dunque, il più ampio e dibattuto tema dell’abuso dei poteri processuali.

A fronte dell’orientamento che, facendo leva sull’efficacia tipizzata e, quindi, predeterminata degli atti processuali, esclude che rispetto ad essi possa discorrersi di violazione del generale canone di buona fede, si registra, infatti, un indirizzo che propone una rilettura costituzionalmente orientata dell’art. 100 c.p.c. (alla luce degli artt. 24 e 111 Cost.) giungendo a ravvisare nell’abuso dello strumento processuale una violazione del giusto processo.

Per la prima tesi gli effetti tipici dell’atto sono del tutto indipendenti dalla volontà in esso manifestata perché discendono dalla sola conformità al paradigma legale, con la conseguenza che, laddove sia ravvisabile un minimo vantaggio per la parte, non è configurabile un potere del giudice di sindacare la meritevolezza dell’interesse dalla stessa perseguito con l’uso del mezzo processuale (in dottrina si veda M. TARUFFO, Elementi per una definizione di abuso del processo, in L’abuso del diritto, Padova, 1998, 449; M. DE CRISTOFARO, Doveri di buona fede e abuso degli strumenti processuali, in Studi in onore di Giorgio Cian, I, Padova, 2010, 708 e ss.; in giurisprudenza Sez. U, n. 108/2000, Finocchiaro, Rv. 53547901). Ne deriva, stando a questa impostazione, la legittimità in re ipsa del fine perseguito in quanto tipico dello strumento processuale prescelto.

L’opposto approccio ermeneutico ha ottenuto autorevole conferma attraverso il nuovo corso della giurisprudenza di legittimità inaugurato dalle Sezioni Unite con la nota pronuncia n. 23726/2007, Morelli, Rv. 599316-01, la quale ha sancito il principio dell’infrazionabilità del credito in plurime richieste giudiziali di adempimento, contestuali o scaglionate nel tempo.

Con specifico riguardo all’azione di nullità del contratto, un autorevole segnale di revisione dell’impostazione tradizionale predicativa della legittimazione in re ipsa delle parti del contratto, proviene da Sez. U, n. 18214/2015, Travaglino, Rv. 636227-01, la quale, dopo aver premesso che il contratto di locazione ad uso abitativo stipulato senza la forma scritta ex art. 1, comma 4, della l. n. 431 del 1998 è affetto da nullità assoluta, rilevabile da entrambe le parti e d’ufficio, attesa la ratio pubblicistica del contrasto all’evasione fiscale, ha precisato che a tale regime generale fa eccezione l’ipotesi prevista dal successivo art. 13, comma 5 (comma 6 a seguito della riforma introdotta dalla l. n. 208 del 2015), in cui la forma verbale sia stata abusivamente imposta dal locatore, nel qual caso il contratto è affetto da nullità relativa di protezione, denunciabile dal solo conduttore (nello stesso senso si veda anche Sez. 3, n. 14364/2016, Carluccio, Rv. 640577-01).

Per quanto concerne, infine, i risvolti della struttura plurilaterale del contratto sulla configurazione soggettiva del giudizio di nullità, la giurisprudenza di legittimità ha precisato che in tal caso non ricorre un’ipotesi di litisconsorzio necessario giacché la pronuncia non ha natura costitutiva, ma si concreta in una declaratoria circa l’idoneità del negozio a produrre effetti nel rapporto tra i litiganti e, come tale, è suscettibile di pratica attuazione nell’ambito di quel rapporto, ancorché non possa fare stato, ad altri effetti, nei confronti di soggetti che, sebbene partecipi del negozio impugnato, siano rimasti estranei al giudizio (si vedano in tal senso, Sez. 1, n. 1125/1966, Leone, Rv. 322253-01; Sez. 2, n. 2685/1969, Mongardi, Rv. 342355-01; Sez. 2, Sentenza n. 729/1973, Coletti, Rv. 362940-01 e, indirettamente, Sez. 2, n. 5179/1991, Carnevale, Rv. 472074-01).

La Corte ha, inoltre, precisato che, premesso che il litisconsorzio necessario ricorre, oltre che nei casi espressamente previsti dalla legge, allorquando la situazione sostanziale plurisoggettiva dedotta in giudizio debba essere necessariamente decisa in maniera unitaria nei confronti di tutti i soggetti che ne siano partecipi, onde non privare la decisione dell’utilità connessa all’esperimento dell’azione proposta, e ciò indipendentemente dalla natura del provvedimento richiesto, non rilevando, di per sé, il fatto che la parte istante abbia richiesto una sentenza costitutiva, di condanna o meramente dichiarativa, ove venga dedotta la nullità di un contratto con pluralità di parti, il litisconsorzio suddetto non è configurabile quando la domanda di nullità, avente natura dichiarativa, sia stata proposta da uno dei contraenti nei confronti di uno solo degli altri, mentre è ravvisabile se la medesima azione sia stata esercitata da un terzo che assuma l’invalidità e l’inefficacia del contratto stipulato inter alios (Sez. 1, n. 19804/2016, Lamorgese, Rv. 641841-01).

3.1. L’azione di nullità del contratto inter alios.

Si è già evidenziato come l’art. 1421 c.c., nel disporre che la nullità può essere fatta valere “da chiunque vi ha interesse”, individui, appunto, nell’interesse una “situazione legittimante”, ossia un criterio di determinazione della legitimatio ad causam idoneo ad estendere anche a terzi estranei al vincolo contrattuale il novero dei soggetti ammessi all’azione di nullità.

Occorre, tuttavia, considerare che l’identificazione, proposta dalla dottrina maggioritaria, di tale interesse con l’esigenza di rimuovere l’apparenza di validità del contratto al fine di eliminare gli obblighi da esso apparentemente nascenti, comporta una notevole riduzione dei soggetti ammessi all’esercizio del rimedio.

Ed infatti, se si fa coincidere l’interesse legittimante con l’utilità, strumentale e riflessa, dell’accertamento della nullità rispetto ad altri diritti ed interessi, possono ritenersi legittimati al rimedio soltanto i titolari di un rapporto o di un diritto dipendente dal contratto invalido.

In definitiva, se è vero che la legittimazione all’azione di nullità ex art. 1421 c.c. non coincide necessariamente con la titolarità (affermata) del rapporto giuridico derivante dal contratto invalido, ben potendo essere integrata dalla titolarità di un rapporto diverso, è altrettanto vero che tale ultimo rapporto deve essere avvinto al primo da una relazione di dipendenza “tale per cui il soggetto che agisce in giudizio, pur essendo terzo rispetto al negozio nullo, subirebbe comunque gli effetti della pronuncia di accertamento” (così F. PECCENINI, Commento sub art. 1421 c.c., in Commentario del codice civile, SCIALOJA-BRANCA, cit., 165, richiamando A. BONFILIO, B. MARICONDA, L’azione di nullità, in I contratti in generale, diretto da G. ALPA, M. BESSONE, cit., 464).

Alla stregua di tale premessa, il fideiussore deve ritenersi legittimato a far valere la nullità del contratto da cui deriva l’obbligazione principale, atteso il suo interesse a far risultare l’invalidità di tale obbligazione, che determina l’invalidità anche dell’obbligazione fideiussoria, in ragione del suo carattere accessorio (Sez. 1, n. 4605/1983, Caturani, Rv. 429476-01).

È del pari legittimato il terzo che, ancorché del tutto estraneo al rapporto derivante dal contratto nullo, riceva dall’apparenza da esso creata un danno o una minaccia (F. PECCENINI, Commento sub art. 1421 c.c., in Commentario del codice civile, SCIALOJA-BRANCA, cit., 166).

In questa prospettiva deve ritenersi improponibile la domanda con cui l’attore chieda dichiararsi la nullità, ex art 1418 c.c., di un contratto stipulato da un suo debitore in favore di un terzo e in pregiudizio delle ragioni creditorie, ove non sia provato l’ammontare del credito e l’idoneità del contratto a diminuirne la garanzia patrimoniale (Sez. 1, n. 3024/1977, Battimelli, Rv. 386590-01).

Il socio di società per azioni è, invece, legittimato ad agire per la dichiarazione di nullità del contratto di sottoscrizione di azioni di nuova emissione, stipulato dalla società con i sottoscrittori delle stesse, ove deduca la violazione dell’art. 2342, ult. (divieto di conferimento di opere o servizi), o dell’art. 2358, comma 1, (sostegno finanziario alla sottoscrizione fornito dalla società emittente), quale terzo interessato ai sensi dell’art. 1421 c.c., atteso che dette ipotesi di nullità comportano il rischio della non effettività, totale o parziale, dei nuovi conferimenti e al tempo stesso dell’aumento del capitale sociale, con ricaduta sul patrimonio netto, e tale rischio incide direttamente sul suo interesse (che è esclusivo del socio e non può dirsi assorbito in quello della società) a conservare il valore, in termini sia assoluti che relativi, della sua quota di partecipazione alla società, in quanto, nella misura in cui al formale incremento del capitale - cui corrisponde una riduzione proporzionale della sua quota di partecipazione - non si accompagni un effettivo incremento del patrimonio netto, il valore della quota si riduce, a tutto vantaggio dei sottoscrittori delle nuove azioni (Sez. 1, Sentenza n. 25005/2006, De Chiara, Rv. 594980-01).

Per contro, il socio di società di capitali non è legittimato, per mancanza di interesse, a far valere in giudizio cause di inefficacia o di annullabilità di contratti stipulati, in nome e per conto della società, da falsus procurator, ancorché in concorso con un legittimo rappresentante della società medesima, ove lo statuto sociale affidi la rappresentanza congiunta dell’ente a due amministratori (Sez. 1, n. 835/1995, Nardino, Rv. 489912-01).

L’interesse del terzo ad agire per la nullità in relazione ai diritti di proprietà industriale è, invece, espressamente sancito dalla legge (art. 122 cod. pr. ind.).

Per quanto concerne gli aventi causa, anche per tale categoria la condizione indefettibile della legittimazione è costituita dalla sussistenza di un’utilità specifica collegata all’effetto riflesso della declaratoria di nullità

Con specifico riferimento agli aventi causa dall’alienante, va esclusa la legittimazione di coloro verso i quali la declaratoria di nullità non è idonea a spiegare effetti (S. PAGLIANTINI, L’azione di nullità tra legittimazione ed interesse, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2, 2011, 407 e ss.).

Sono, invece, legittimati all’azione i promissari acquirenti di un fondo acquistato dall’alienante in spregio al diritto di prelazione ex art. 8 della l. n. 590 del 1965, affermando che in tema di contratti agrari, qualora sia sottoscritto un contratto preliminare di vendita di alcuni fondi, subordinatamente alla condizione del mancato esercizio della prelazione legale da parte degli aventi diritto, e costoro abbiano violato tale condizione, esercitando la prelazione senza essere in possesso dei requisiti prescritti ovvero senza il rispetto delle relative modalità, il promittente acquirente non è titolare di un diritto di prelazione e quindi non può esercitare l’azione di riscatto, potendo invece chiedere sia la dichiarazione di nullità del contratto stipulato dal promissario venditore con il terzo, sia l’esecuzione in forma specifica ex art. 2932 c.c. nei confronti del promissario alienante, che non ha mai cessato di essere proprietario del fondo, avendo disposto di questo con atto nullo, pertanto, privo di effetti (Sez. 3, n. 11375/2010, Finocchiaro, Rv. 613349-01).

Inoltre, Sez. 2, n. 4137/1976, Mangia, Rv. 382801-01 ha ritenuto che il successore a titolo particolare nella proprietà condominiale abbia interesse ad impugnare di nullità le deliberazioni dell’assemblea dei condomini, prese prima del suo acquisto, per mancata convocazione del suo dante causa, allorché esse abbiano avuto per oggetto materie (nella specie, tra l’altro, il completamento di opere condominiali e la tabella millesimale) destinate ad incidere nella sua (nuova) sfera giuridica.

Ancora, Sez. 3, n. 8815/1996, Preden, Rv. 500002-01, ha affermato che in materia di contratti di locazione di immobili urbani destinati ad uso non abitativo la vigente normativa, contenuta nella legge 27 luglio 1978 n. 392, consente ai contraenti la libera determinazione del canone iniziale, ma vieta al locatore di pretendere il pagamento di somme, diverse dal canone o dal deposito cauzionale, a fondo perduto o a titolo di “buona entrata”, che è privo di ogni giustificazione nel sinallagma contrattuale, e il relativo patto è nullo ai sensi dell’art. 79 della citata legge (perché diretto ad attribuire al locatore un vantaggio in contrasto con le disposizioni in materia), anche se stipulato dal locatore non con il conduttore, ma con un terzo, che ai sensi degli artt. 1421 e 2033 c.c. potrà far valere la nullità del patto e pretendere la restituzione delle somme indebitamente pagate, purché sia accertato un collegamento tra l’accordo e il contratto di locazione, la cui conclusione era condizionata alla attribuzione patrimoniale non giustificata ad altro titolo.

4. La legittimazione relativa.

Il carattere assoluto della legittimazione ad agire per la declaratoria di nullità sancito dall’art. 1421 c.c. è derogato in forza della clausola di salvezza (“salvo diverse disposizioni di legge”), la quale rinvia alle disposizioni che stabiliscono testualmente che la nullità può essere fatta valere da una soltanto delle parti. Si tratta, innanzitutto, delle ipotesi di nullità protettiva testuale alle quali è correlata una legittimazione relativa.

Vanno, a tal fine, menzionate le fattispecie della vendita dei beni di consumo (art. 134, comma 1, cod. cons.) e della commercializzazione a distanza di servizi finanziari ai consumatori (artt. 67 septiesdecies, comma 4, e octiesdecies, comma 1, cod. cons.), della tutela dei diritti patrimoniali degli acquirenti di immobili da costruire (art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 122 del 2005), dei contratti bancari e di credito ai consumatori (art. 127 del d.lgs. n. 385 del 1993), dei contratti relativi alla prestazione di servizi di investimento (artt. 23, comma 2, 30, comma 7, 100-bis, comma 3, del d.lgs. n. 58 del 1998) e, a protezione degli assicurati, dei contratti di assicurazione conclusi con imprese non autorizzate (art. 167, comma 2, del d.lgs. n. 209 del 2005).

Nelle ipotesi richiamate la legittimazione relativa è giustificata dall’essere la nullità prevista ad esclusiva tutela del contrente debole.

Per quanto concerne, invece, la nullità delle clausole vessatorie contenute nei contratti con i consumatori di cui all’art. 36, comma 3, cod. cons., in dottrina si registrano due differenti interpretazioni (la divergenza è rilevata da S. PAGLIANTINI, Commento sub artt. 1421 e 1422 c.c., in Commentario del codice civile, diretto da E. GABRIELLI, Torino, 2012, 657 e ss.), posto che, a fronte della tesi prevalente, secondo la quale la disposizione contempla un’ipotesi di nullità a legittimazione relativa assistita da una rilevabilità officiosa che incontra il limite della condotta processuale del consumatore “sostanzialmente incompatibile col risultato derivante dalla rilevata nullità” (V. ROPPO, Il contratto, in Trattato IUDICA-ZATTI, Milano, 2001, 845 e 919), altra minoritaria opinione sostiene che la previsione di una nullità che “opera soltanto a vantaggio del consumatore”, si riferisca ad una “nullità parziale unidirezionale più che ad una legittimazione riservata” (in questi termini A. GENTILI, L’inefficacia delle clausole abusive, in Riv. dir. civ., 1997, I, 432, richiamato in S. PAGLIANTINI, Commento sub artt. 1421 e 1422 c.c., in Commentario del codice civile, cit., 658).

La questione che in subiecta materia ha impegnato maggiormente l’opera ricostruttiva degli interpreti è quella della rilevabilità d’ufficio delle nullità relative.

La dottrina dominante tende ad identificare la ratio delle nullità protettive nell’ordine pubblico di protezione (G. GIOIA, Nullità di protezione tra esigenze del mercato e nuova cultura del contratto conformato, in Corr. giur., 1999, 606) ovvero di direzione, ossia nell’ordine pubblico economico, formula con la quale si indica il ruolo primario assolto dall’intervento pubblico nell’economia e nell’iniziativa privata anche in funzione di politica sociale (A. ARENIELLO, Ordine pubblico e funzione notarile, in Spontaneità del mercato e regole giuridiche, Atti del XXXIX Congresso nazionale del notariato, Milano, 2002, 344-345). La nullità, da sanzione civilistica diventa uno strumento di protezione volto a scongiurare comportamenti abusivi da parte del contraente forte ai danni della parte debole. Per tale ragione la legittimazione relativa, che costituisce la regola generale in tema di nullità di protezione, lungi dall’essere sintomatica della natura individuale o disponibile dell’interesse, risponde all’esigenza di impedire un utilizzo abusivo della patologia negoziale da parte del contraente forte, in danno del contraente protetto dalla norma di tutela (G. PERLINGIERI, La convalida delle nullità relative e la sanatoria dei negozi giuridici, 158, Napoli, 2011).

L’opinione più diffusa in dottrina e la più recente giurisprudenza di legittimità (per cui si veda, per tutte, Sez. U, n. 26242 e 26243 del 12 dicembre 2014) concordano nel ritenere che il rapporto tra nullità assoluta e nullità relativa di protezione non sia di regola a eccezione, ma di genus ad speciem, così che le norme codicistiche possono essere applicate nella misura in cui siano compatibili con la speciale ratio propria delle nullità protettive, così come sono suscettibili di applicazione analogica le previsioni delle leggi speciali che si rivelino espressione di un principio più generale.

Ne deriva, secondo l’impostazione in esame, che, nelle ipotesi in cui il legislatore non offra indicazioni sullo specifico regime della legittimazione, ove si appuri che la nullità che viene in rilievo assolve ad una funzione protettiva, deve applicarsi analogicamente la regola generale sulla nullità di protezione e quindi la legittimazione riservata al solo contraente debole (in tal senso G. PERLINGIERI, La convalida delle nullità di protezione e la sanatoria dei negozi giuridici, cit., 16 e ss.).

La disputa dogmatica sulla quale si sono innestati i più recenti approdi della giurisprudenza di legittimità in materia di nullità protettive è stata vivificata dai contributi offerti dalla giurisprudenza della Corte di giustizia dell’UE, vera creatrice del modello della nullità di protezione.

È noto come in un primo momento il giudici di Lussemburgo, adottando un approccio pragmatico alla questione della rilevabilità d’ufficio delle nullità protettive, abbiano ritenuto di perseguire l’obiettivo di protezione del contraente debole qualificando tale potere in termini di mera facoltà e non di potere-dovere (si vedano, a riguardo, le pronunce rese nei casi Océano Grupo Editorial (cause riunite C-240/98 e C-244198), Cofidis (C- 473/00), Ynos Kft (C-302/04) e Rampion (C-429/05).

La prospettiva è mutata significativamente con la sentenza del 26 ottobre 2006, causa C-168/05, Mostaza Claro c. Centro Mòvil Milenium SL, nella quale la Corte di giustizia ha mostrato di intendere la rilevabilità d’ufficio della nullità di protezione non più in termini di facoltà, ma di obbligo. Alla base di tale mutamento di indirizzo vi è la considerazione della natura pubblica dell’interesse su cui si fonda la tutela garantita ai consumatori.

Con la sentenza del 4 giugno 2009, causa C-243/09, Pannon GSM Zrt. c. Erzsébet Sustikné Gyorfi, la Corte di Lussemburgo ha ribadito il principio di obbligatorietà del rilievo d’ufficio della natura abusiva di una clausola relativa ad un contratto concluso tra un professionista e un consumatore da parte del giudice nazionale, ponendo, inoltre, a carico di quest’ultimo un dovere di interpello volto a porre il consumatore nelle condizioni di opporsi alla declaratoria di nullità della clausola vessatoria.

Con la pronuncia del 6 ottobre 2009, causa C-40/08, Asturcom Telecomunicaciones SL c. Cristina Rodrìguez, la Corte si è spinta oltre, chiarendo che la ratio delle nullità di protezione viene identificata in un “canone di un ordine pubblico, che [...] diviene, attraverso una serie di interventi di direzione del mercato e di protezione del contraente economicamente debole, ordine pubblico di protezione proteso a perseguire, attraverso lo strumento negoziale, una politica dirigistica di ricerca dell’equilibrio giuridico nei rapporti negoziali non conclusi fra imprenditori”. Il rango di norme di ordine pubblico è stato ripreso e sottolineato a più riprese dalla giurisprudenza successiva (tra cui va menzionata, per l’incisività dell’iter argomentativo, Corte di giust., 30 maggio 2013, C- 488/11, Asbeek Brusse).

Sulla stessa linea si è, inoltre, posta la decisione resa nel caso Banco Español de Crédito, del 14 giugno 2012 (causa C-618/10), con la Corte di Giustizia è giunta ad estendere la rilevabilità d’ufficio anche alla fase monitoria del procedimento d’ingiunzione, fase processuale caratterizzata da cognizione sommaria e inaudita altera parte.

Con la sentenza del 21 febbraio 2013, causa C-472/11, Banif Plus Bank Zrt c. Csaba Csipai e Viktòria Csipai è stato, infine, chiarito che, ai sensi degli articoli 6, paragrafo 1, e 7, paragrafo 1, della Direttiva 93/13/CEE, il giudice nazionale che abbia accertato d’ufficio il carattere abusivo di una clausola contrattuale non è tenuto, per poter trarre le conseguenze derivanti da tale accertamento, ad attendere che il consumatore, informato dei suoi diritti, presenti una dichiarazione diretta ad ottenere l’annullamento di detta clausola.

Le direttrici ermeneutiche offerte dalla Corte di giustizia dell’Unione europea hanno orientato il corso della giurisprudenza nazionale, la cui evoluzione è stata segnata dai due fondamentali snodi rappresentati dai noti arresti nomofilattici del 2012 (Sez. U, n. 14828/2012, D’Ascola, Rv. 623290-01) e del 2014 (Sez. U, n. 26242/2014, Travaglino, Rv. 633502-01, 633503-01, 633503-01, 633504-01, 633505-01, 633506-01, 633507-01, 633508-01, 633509-01 e n. 26243/2014, Travaglino, Rv. 633558-01, 633559-01, 633560-01, 633561-01, 633562-01, 633563-01, 633564-01, 633565-01).

Con la prima delle suddette pronunce la Corte, nel contesto di una più ampia disamina sul tema della rilevabilità d’ufficio della nullità contrattuale, a proposito delle nullità relative, ha chiarito che il giudice ha il potere-dovere di rilevare dai fatti allegati e provati, o comunque emergenti ex actis, una volta provocato il contraddittorio sulla questione, ogni forma di nullità del contratto, purché non soggetta a regime speciale, con esclusione, quindi, delle nullità di protezione, il cui rilievo è espressamente rimesso alla volontà della parte protetta.

Con le sentenze n. 26242 e n. 26243 del 2014 le Sezioni Unite, chiamate nuovamente a pronunciarsi sul regime processuale delle nullità contrattuali - e, segnatamente, sulla rilevabilità d’ufficio delle nullità speciali, sui rapporti tra le azioni di risoluzione, annullamento e rescissione e la rilevabilità d’ufficio della nullità, sui rapporti tra l’azione di nullità esperita dalla parte e la rilevabilità officiosa di una nullità negoziale diversa da quella prospettata e sull’efficacia del giudicato, in successivi processi, dell’accertamento della nullità, oggetto del primo giudizio - con specifico riferimento alla rilevabilità d’ufficio delle nullità di protezione cd. virtuali hanno enunciato il principio di diritto secondo il quale “La rilevabilità officiosa delle nullità negoziali deve estendersi anche a quelle cosiddette di protezione, da configurarsi, alla stregua delle indicazioni provenienti dalla Corte di giustizia, come una “species” del più ampio “genus” rappresentato dalle prime, tutelando le stesse interessi e valori fondamentali - quali il corretto funzionamento del mercato (art. 41 Cost) e l’uguaglianza almeno formale tra contraenti forti e deboli (art. 3 Cost) - che trascendono quelli del singolo”.

La Corte è giunta a tale esito ermeneutico muovendo dall’assunto, ricorrente nella giurisprudenza europea e condiviso dalla dottrina maggioritaria, secondo il quale le nullità protettive sono volte a tutelare interessi e valori fondamentali come il complessivo equilibrio contrattuale e, più in generale, l’integrità e l’efficienza del mercato, tanto che per esse si parla di ordine pubblico di protezione.

Il potere del giudice di rilevare la nullità anche nei casi di nullità protettive è, invero, “essenziale al perseguimento di interessi di interessi che possono addirittura coincidere con i valori costituzionalmente rilevanti, quali il corretto funzionamento del mercato (art. 41 Cost.) e l’uguaglianza quanto meno formale tra contraenti forti e deboli (art. 3 Cost.), poiché lo squilibrio contrattuale tra le parti altera non soltanto i presupposti dell’autonomia negoziale ma anche le dinamiche concorrenziali tra imprese”.

In netta discontinuità con l’arresto nomofilattico del 2012, la Corte ha, quindi, precisato che il rilievo d’ufficio delle nullità protettive, in quanto volto a rafforzare la tutela accordata alla parte debole del rapporto, la quale potrebbe non essere in grado di usufruire della tutela accordatale, non è incompatibile con la legittimazione relativa.

Il rilievo d’ufficio postula che la nullità emerga dai fatti allegati e dalla documentazione prodotta, che il giudice attivi il contraddittorio sulla questione ai sensi dell’art. 101 c.p.c. e che all’indicazione alla parte del motivo di invalidità non segua la dichiarazione, da parte della stessa, di non volersene avvalere.

Come si avrà modo di chiarire meglio nel prosieguo (si veda, infra, il § 5), tale meccanismo processuale postula la distinzione tra l’attività di rilevazione/indicazione e l’attività di dichiarazione della nullità, in forza della quale alla prima non deve conseguire necessariamente la seconda.

Ne discende che, ove il giudice rilevi la nullità del contratto, occorre distinguere il caso in cui alla rilevazione segua la domanda di accertamento della nullità, da quella in cui la parte legittimata chieda, comunque, una pronuncia nel merito. In tale ultima ipotesi, così come in quella in cui il giudice intenda definire il giudizio in base alla cd. ragione più liquida, ovvero, alla luce dell’istruttoria svolta, non ritenga più ravvisabile la rilevata nullità, alcuna declaratoria, neanche in via incidentale, di nullità contrattuale può essere resa.

5. La rilevabilità d’ufficio.

In dottrina predomina l’idea che la rilevabilità d’ufficio sancita dall’art. 1421 c.c. costituisca uno strumento coerente con la funzione di sanzione-rimedio a presidio dei valori fondamentali dell’ordinamento giuridico tipica della nullità (si veda, per tutti, S. MONTICELLI, Fondamento e funzione della rilevabilità d’ufficio della nullità negoziale, in Rivista di diritto civile, 1990, II, 669 e ss.).

Altri autori hanno, invece, identificato il fondamento di tale potere-dovere giudiziale nell’esigenza di salvaguardare la certezza dei traffici impedendo il formarsi di giudicati sulla validità del negozio nullo ed eliminando atti idonei a suscitare affidamenti essenzialmente precari (G. FILANTI, Inesistenza e nullità del negozio giuridico, cit., 135; G. PASSAGNOLI, Nullità speciali, Milano, 1995, 189; A. PASSARELLA, Rilevabilità d’ufficio della nullità del contratto, in I contratti, 2013, 1, 81).

In tale prospettiva il rilievo officioso costituisce una deroga al principio della domanda giustificata dall’art. 2907, comma 1, c.c., votata a salvaguardare l’interesse indisponibile protetto dalle nullità e la finalità di conservazione dell’intangibilità della struttura di interessi regolati dall’ordinamento giuridico (M. FRANZONI, Il contratto annullabile, in Trattato Bessone, XIII, VII, Il contratto in generale, Torino, 2002, 175 e ss.).

Di contrario avviso si è mostrata altra opinione (A. GENTILI, Le invalidità, in AA.VV., I contratti in generale, a cura di E. GABRIELLI, Torino, 2006, II, 1585, richiamato da S. PAGLIANTINI, Struttura e funzione dell’azione di nullità, in Riv. dir. civ., 2011, 753 e ss.), la quale ha, invece, individuato una serie di ragioni idonee a contrastare la tesi della funzionalizzazione della rilevabilità d’ufficio a un interesse superindividuale, come il fatto che tale tecnica processuale postuli l’introduzione, necessariamente ad iniziativa di parte, di un giudizio avente ad oggetto il contratto nullo; il fatto che la nullità debba risultare dagli atti e dai documenti di causa soggetti al principio dispositivo; il fatto che nel giudizio di nullità del contratto non è previsto l’intervento del Pubblico Ministero, e che la correlazione tra la rilevabilità d’ufficio e l’interesse superindividuale è, in ogni caso, ravvisabile solo con riferimento all’illiceità e alla contrarietà a buon costume del contratto e non anche in relazione alla mancanza di un elemento strutturale dello stesso.

In giurisprudenza per lungo tempo ha dominato l’orientamento secondo il quale il giudice non può rilevare d’ufficio la nullità, ancorché risultante dagli atti, ove la pronuncia non sia rilevante per la decisione della lite, né può disporre senza istanza di parte indagini volte al relativo accertamento (Sez. U, n. 1553/1961, cit.).

In applicazione di tale principio, la Corte di Cassazione ha affermato che solo se sia in contestazione l’applicazione o l’esecuzione di un atto la cui validità rappresenti un elemento costitutivo della domanda, il giudice è tenuto a rilevare, in qualsiasi stato e grado del giudizio, l’eventuale nullità dell’atto, indipendentemente dall’attività assertiva delle parti. Al contrario, qualora la domanda sia diretta a far dichiarare l’invalidità del contratto o la risoluzione per inadempimento, la deduzione - nella prima ipotesi – di una causa di nullità diversa da quella posta a fondamento della domanda e – nella seconda ipotesi – di una qualsiasi causa di nullità o di un fatto costitutivo diverso dall’inadempimento, sono inammissibili, né tali questioni possono essere rilevate d’ufficio, ostandovi il divieto di pronunciare ultra petita (in tal senso, ex multis, Sez. 2, n. 2398/1988, Anglani, Rv. 458175-01; Sez. 1, n. 2637/2003, Rordorf, Rv. 560629-01; Sez. 1, n. 18062/2004, Genovese, Rv. 576854-01; Sez. L, n. 19903/2005, Vidiri, Rv. 584615-01).

Da tale impostazione si sono, tuttavia, discostate alcune pronunce (tra cui si vedano Sez. 1, n. 2858/1997, Bibolini, Rv. 503442 - 01; Sez. 2, n. 13628/2001, Settimj, Rv. 549984-01; Sez. 3, n. 23674/2008, Talevi, Rv. 604877-01; Sez. 3, n. 2956/2011, Amendola A., Rv. 61661501), secondo le quali il giudice può rilevare d’ufficio la nullità di un contratto, a norma dell’art. 1421 c.c., anche se sia stata proposta la domanda di annullamento (o di risoluzione o di rescissione), senza incorrere nel vizio di ultrapetizione, atteso che in ognuna di tali domande è implicitamente postulata l’assenza di ragioni che determinino la nullità del contratto medesimo.

Il giudice deve, pertanto, rilevare d’ufficio le nullità negoziali, non solo se sia stata proposta azione di esatto adempimento, ma anche se sia stata proposta azione di risoluzione o di annullamento o di rescissione del contratto, procedendo all’accertamento incidentale relativo ad una pregiudiziale in senso logico-giuridico (concernente cioè il fatto costitutivo che si fa valere in giudizio -cosiddetto punto pregiudiziale) idoneo a divenire giudicato, con efficacia, pertanto, non soltanto sulla pronunzia finale, ma anche, ed anzitutto, circa l’esistenza del rapporto giuridico sul quale la pretesa si fonda (Sez. 3, n. 6170/2005, Segreto, Rv. 581474-01)

Il contrasto così delineatosi è stato composto dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 14828/2012, D’Ascola, Rv. 623290-01, con la quale è stato enunciato il principio di diritto secondo il quale, alla luce del ruolo che l’ordinamento affida alla nullità contrattuale, quale sanzione del disvalore dell’assetto negoziale e atteso che la risoluzione contrattuale è coerente solo con l’esistenza di un contratto valido, il giudice di merito, investito della domanda di risoluzione del contratto, ha il potere-dovere di rilevare dai fatti allegati e provati, o comunque emergenti ex actis, una volta provocato il contraddittorio sulla questione, ogni forma di nullità del contratto stesso, purché non soggetta a regime speciale (escluse, quindi, le nullità di protezione, il cui rilievo è espressamente rimesso alla volontà della parte protetta); il giudice di merito, peraltro, accerta la nullità incidenter tantum senza effetto di giudicato, a meno che sia stata proposta la relativa domanda, anche a seguito di rimessione in termini, disponendo in ogni caso le pertinenti restituzioni, se richieste.

Le Sezioni Unite, in linea con la concezione della nullità quale sanzione per il disvalore dell’assetto negoziale, pur optando per la soluzione interpretativa per la quale la l’azione di risoluzione è coerente solo con l’esistenza di un contratto valido, ponendosi la nullità come evento impeditivo logicamente anteriore alla fattispecie estintiva della risoluzione, ne delimitano l’operatività, ritenendo che il giudice possa rilevare d’ufficio la nullità soltanto se questa emerga dai fatti allegati e provati o, comunque, ex actis, previa attivazione del contraddittorio sulla questione, incorrendo altrimenti nel vizio della cd. terza via, e solo se non operi un regime speciale, essendo le nullità di protezione espressamente rimesse al rilievo del contraente protetto e, soprattutto, senza efficacia di giudicato, a meno che sia stata proposta la relativa domanda, anche a seguito di rimessione in termini.

A tale ultimo riguardo la pronuncia del 2012 ha stabilito che “il giudicato implicito sulla validità del contratto, secondo il paradigma ormai invalso (cfr. Cass. S.U. 24883/08; 407/11; 1764/11), potrà formarsi tutte le volte in cui la causa relativa alla risoluzione sia stata decisa nel merito, con esclusione delle sole decisioni che non contengano statuizioni che implicano l’affermazione della validità del contratto”.

Con successiva ordinanza interlocutoria depositata il 27 novembre 2012, n. 21083, la Seconda Sezione civile ha ritenuto di dover rimettere gli atti al Primo Presidente per l’assegnazione alle Sezioni Unite della seguente questione di massima di particolare importanza: “se la nullità del contratto possa essere rilevata d’ufficio non solo allorché sia stata proposta domanda di adempimento o di risoluzione del contratto ma anche nel caso in cui sia domandato l’annullamento del contratto stesso”. Con ulteriore ordinanza interlocutoria n. 16630 del 2013, la Seconda Sezione civile ha richiesto un nuovo intervento delle Sezioni Unite ritenendo di non condividere pienamente il principio di diritto (e le relative motivazioni a sostegno) della sentenza delle Sezioni Unite n. 14828/2012, “nella parte in cui, per un verso, si afferma che, poiché la risoluzione contrattuale è coerente solo con l’esistenza di un contratto valido, il giudice di merito, investito della domanda di risoluzione del contratto, ha il potere-dovere, previa provocazione del contraddittorio sulla questione, di rilevare ogni forma di nullità del contratto stesso (salvo che non sia soggetta a regime speciale) e, per altro verso, si asserisce che il medesimo giudice di merito accerta la nullità “incidenter tantum” senza effetto di giudicato, a meno che non sia proposta la relativa domanda, pervenendosi, tuttavia, alla conclusione che il giudicato implicito sulla validità del contratto si forma tutte le volte in cui la causa relativa alla risoluzione sia stata decisa nel merito (e ciò deve ritenersi si verrebbe a verificare - anche nell’ipotesi come quella specificamente ricorrente nella controversia oggetto del ricorso in esame - di suo rigetto per effetto della ritenuta “ragione più liquida”, ovvero in virtù dell’esclusivo esame di una questione assorbente idonea, da sola, a sorreggere la decisione del giudice adito, che non abbia richiesto alcuna valutazione - nemmeno meramente incidentale - sulle questioni concernenti l’esistenza e la validità del contratto stesso).

Le più volte citate pronunce nomofilattiche n. 26242 e 26243 del 2014 hanno, quindi, risolto la questione affermando che il rilievo d’ufficio della nullità è ammissibile, oltre che nel giudizio promosso per l’adempimento e la risoluzione, anche in quello instaurato per l’annullamento o la rescissione, e che il giudice innanzi al quale sia stata proposta domanda di nullità contrattuale deve rilevare d’ufficio l’esistenza di una causa di quest’ultima diversa da quella allegata dall’istante, essendo quella domanda pertinente ad un diritto autodeterminato, sicché è individuata indipendentemente dallo specifico vizio dedotto in giudizio.

Con le pronunce in esame si assiste, dunque, al definitivo superamento – in parte avviato dalle Sezioni Unite del 2012 – del principio secondo il quale la nullità non può essere rilevata d’ufficio quando l’attore non abbia richiesto l’esecuzione del contratto, ma la declaratoria di nullità, la rescissione o la risoluzione dello stesso. Il fondamento della precedente impostazione era identificato nell’idea secondo la quale la nullità del contratto resta nell’ambito della domanda proposta e, quindi, può essere rilevata d’ufficio dal giudice solo se opera come ragione di rigetto della pretesa fatta valere, come, appunto nel caso in cui l’attore domanda l’attuazione del contratto, mentre, quando questi voglia escluderne gli effetti per ragioni diverse dalla nullità (rescissione, risoluzione, annullamento) che poteva invocare e che non ha invocato, la nullità non integra un fatto impeditivo che può essere fatto valere con l’eccezione, ma configura una ragione che favorisce la pretesa dell’attore, sia pure in termini diversi da quelli prospettati con la domanda e, quindi, l’eventuale rilievo di ufficio si porrebbe in contrasto con il principio della domanda.

Tale indirizzo giurisprudenziale era avversato dalla prevalente dottrina la quale, sia pure con percorsi argomentativi diversi, era orientata ad ammettere il rilievo d’ufficio nelle cause di impugnativa negoziale (per la cui disamina si veda I. PAGNI, Nullità del contratto – Il “sistema” delle impugnative negoziali dopo le Sezioni unite”, in Giur. it., 2015, 1, 70 e ss.).

L’assunto della rilevabilità d’ufficio della nullità in tutte le azioni in cui si controverta sul contratto invalido, ivi comprese le impugnative negoziali, riposa sul fondamentale assunto per il quale l’oggetto di tali ultimi giudizi non può essere identificato con i diritti di impugnativa e, segnatamente, con il diritto potestativo fondato sul singolo motivo (di annullamento, rescissione, risoluzione, nullità) dedotto in giudizio, ma con le situazioni soggettive sostanziali sorte dal contratto.

Difatti, chiariscono le Sezioni Unite, “anche il diritto potestativo (all’annullamento, alla rescissione, alla risoluzione del contratto) postula come oggetto necessario l’esistenza (degli effetti) dell’atto, tanto se di diritto potestativo si discorra nella sua forma sostanziale, quanto se con riferimento a quella del suo necessario esercizio giudiziale: la ricostruzione della tutela costitutiva nella ristretta dimensione del diritto alla modificazione giuridica, ipotizzata come situazione soggettiva rivolta verso lo Stato-giudice, piuttosto che nei confronti della controparte, è destinata a infrangersi sulla più ampia linea di orizzonte rappresentata dalla necessità che il giudice dichiari, in sede tutela costitutiva e non solo, e in modo vincolante per il futuro, il modo d’essere (o di non essere) del rapporto sostanziale che, con la sentenza, andrà a costituirsi, modificarsi, estinguersi”.

Il rilievo d’ufficio può, pertanto, essere esercitato in tutti i casi in cui oggetto del giudizio sia un negozio ad efficacia eliminabile, nel cui paradigma devono essere ricondotti tanto i negozi invalidi, ma temporaneamente inefficaci (come il negozio annullabile e quello rescindibile), quanto i negozi validi e inizialmente efficaci, soggetti ad un sopravvenuto squilibrio del sinallagma (contratto risolubile). Presupposto necessario di ciascuno di essi è, dunque, l’esistenza di effetti eliminabili ex tunc, effetti che sono incompatibili con la nullità cui è, invece, correlata la radicale inefficacia ab origine dell’atto.

La ricostruzione delle Sezioni Unite coinvolge anche il tema della rilevabilità, da parte del giudice, di una causa di nullità diversa da quella dedotta dalla parte con la domanda introduttiva.

Premesso che la domanda di accertamento della nullità del contratto integra una domanda autodeterminata, il giudizio sull’invalidità non può che essere definitivo ed omnicomprensivo, a prescindere dai motivi di nullità prospettati dalla parte.

La giurisprudenza anteriore all’arresto nomofilattico era, invece, concorde nell’escludere che il giudice potesse rilevare d’ufficio un motivo di nullità diverso da quello fatto valere dalla parte (Sez. 1, n. 89/2007, Gilardi, Rv. 594360-01, Sez. 3, n. 28424/2008, Bandini, Rv. 605614-01) Sez. L, n. 15093/2009, Bandini, Rv. 608891-01), ritenendo, a tal fine, ostativa la natura eterodeterminata della domanda.

Contro tale impostazione, in dottrina era diffusa la convinzione secondo la quale la domanda di nullità negoziale è tesa all’accertamento negativo della non validità del contratto e, pertanto, deve identificarsi in ragione di tale petitum, consentendo ed anzi imponendo al giudice di accertarne tutte le possibili cause. La sentenza dichiarativa della nullità di un contratto per un motivo diverso da quello allegato dalla parte corrisponde pur sempre alla domanda originariamente proposta, sia per causa petendi (l’inidoneità del contratto a produrre effetti a causa della sua nullità), sia per petitum (la declaratoria di invalidità e di conseguente inefficacia ab origine dell’atto). A fronte di una domanda di accertamento e di declaratoria di nullità del contratto, sussiste, quindi, il potere-dovere del giudice di rilevare anche d’ufficio i diversi motivi di nullità non allegati dalla parte ex art. 1421 c.c., poiché il rilievo non ha più ad oggetto un’eccezione, ma un ulteriore titolo della domanda, in forza del quale essa può trovare legittimo accoglimento a condizione che la diversa causa di nullità emerga dalle rituali allegazioni delle parti o dalle produzioni documentali in atti.

Traendo spunto dalle suddette argomentazioni, le Sezioni Unite hanno, pertanto, concluso che “la domanda di accertamento della nullità negoziale si presta allora, sul piano dinamico-processuale, a un trattamento analogo a quello concordemente riservato alle domande di accertamento di diritti autodeterminati, inerenti a situazioni giuridiche assolute, anch’esse articolate in base ad un solo elemento costitutivo. Il giudizio di nullità/non nullità del negozio (il thema decidendum e il correlato giudicato) sarà, così definitivo e a tutto campo indipendentemente da quali e quanti titoli di nullità siano stati fatti valere dall’attore”.

Le pronunce del 2014 hanno offerto importanti precisazioni anche con riferimento alle modalità di rilevazione officiosa della nullità.

Come già evidenziato trattando delle nullità protettive, la Corte distingue tra la rilevazione/indicazione della nullità ex art. 1421 c.c. e la dichiarazione della nullità, precisando come solo la prima di tali attività debba ritenersi obbligatoria per il giudice e come la stessa possa non tradursi in una declaratoria quante volte, trattandosi di nullità relativa, la parte avvantaggiata non intenda avvalersene o il giudice all’esito dell’attività istruttoria, re melius perpensa, non ritenga più ravvisabile la rilevata nullità o, infine, lo stesso giudice definisca la controversia sulla base della ragione più liquida.

A fronte dell’indicazione della nullità da parte del giudice, le parti possono richiedere al giudice di pronunciarsi sulla nullità ex art. 34 c.p.c. oppure di decidere sulla domanda originaria.

Con riferimento al primo caso, le Sezioni Unite hanno chiarito che la domanda di nullità non è soggetta alle preclusioni di cui all’art. 183 c.p.c., dovendosi, a tal fine, attribuire al riferimento alle memorie contenenti osservazioni sulla questione di cui all’art. 101 c.p.c. una portata ampia, tale da consentire anche la proposizione di una domanda formalmente tardiva (in tal senso I. PAGNI, Nullità del contratto – Il “sistema” delle impugnative negoziali dopo le Sezioni unite”, cit.).

Ulteriori precisazioni, a riguardo, sono state recentemente offerte da Sez. 2, n. 3308/2019, Oliva, Rv. 652439-01, secondo la quale la rilevazione d’ufficio delle nullità negoziali - sotto qualsiasi profilo, anche diverso da quello allegato dalla parte, e altresì per le ipotesi di nullità speciali o di protezione - è sempre obbligatoria, purché la pretesa azionata non venga rigettata in base a una individuata “ragione più liquida”, e va intesa come indicazione alle parti di tale vizio. La loro dichiarazione, invece, ove sia mancata un’espressa domanda della parte all’esito della suddetta indicazione officiosa, costituisce statuizione facoltativa - salvo per le nullità speciali, che presuppongono una manifestazione di interesse della parte - del medesimo vizio, previo suo accertamento, nella motivazione e/o nel dispositivo della pronuncia, con efficacia di giudicato in assenza di sua impugnazione. In applicazione di tale principio, la Corte ha ritenuto che la sentenza, emessa in altro giudizio e passata in giudicato, con la quale era stata incidentalmente dichiarata la nullità del contratto preliminare di vendita del diritto d’uso di un box auto, spiegasse i suoi effetti anche nel successivo giudizio instaurato dalla promittente alienante nei confronti dei promissari acquirenti per il rilascio del bene e per il pagamento delle spese di gestione e dell’indennità di occupazione.

Per quanto concerne la proponibilità della domanda di nullità in appello, la sentenza delle Sezioni Unite n. 26243/2014, Travaglino, Rv. 633566-01 dalla lettura coordinata dell’art. 345 c.p.c., che sancisce l’inammissibilità delle domande nuove proposte dinanzi al giudice dell’impugnazione, e dell’art. 1421 c.c. che consente la rilevabilità d’ufficio senza limitazioni di grado, trae la conclusione che al giudice di appello investito di una domanda nuova di declaratoria di nullità di un negozio del quale in primo grado si era chiesta l’esecuzione, la risoluzione, la rescissione, l’annullamento (senza che il giudice di prime cure abbia rilevato né indicato alle parti cause di nullità negoziale), è preclusa la facoltà di esaminarla perché inammissibile.

Lo stesso giudice del gravame è, invece, tenuto a rilevare d’ufficio una causa di nullità non dedotta né rilevata in primo grado, indicandola alle parti ai sensi dell’art. 101, comma 2, c.p.c. (norma di portata generale e dunque applicabile anche in sede di appello). In ogni caso, ai sensi dell’art. 345, comma 2, c.p.c., le parti possono riproporre la quaestio nullitatis sotto forma di eccezioni rilevabili di ufficio.

In linea con tale impostazione, Sez. U, n. 7294/2017, Frasca, Rv. 643337-01 ha affermato che il potere di rilievo officioso della nullità del contratto spetta anche al giudice investito del gravame relativo ad una controversia sul riconoscimento di pretesa che suppone la validità ed efficacia del rapporto contrattuale oggetto di allegazione - e che sia stata decisa dal giudice di primo grado senza che questi abbia prospettato ed esaminato, né le parti abbiano discusso, di tali validità ed efficacia - trattandosi di questione afferente ai fatti costitutivi della domanda ed integrante, perciò, un’eccezione in senso lato, rilevabile d’ufficio anche in appello, ex art. 345 c.p.c. (in senso conforme si vedano, altresì, Sez. 6-2, n. 8841/2017, Criscuolo, Rv. 643814-01; Sez. 6-3, n. 19251/2018, Positano, Rv. 650242-01; Sez. 2, n. 26495/2019, Giannaccari, Rv. 655652-01).

7. Il giudicato sulla nullità del contratto.

Tra le questioni connesse all’accertamento giudiziale della nullità negoziale, particolare interesse dogmatico continua a suscitare - nonostante gli interventi nomofilattici del 2012 e del 2014 - quella relativa all’efficacia della statuizione sulla quaestio nullitatis che non abbia formato oggetto di domanda di parte, in via principale o in via incidentale ai sensi dell’art. 34 c.p.c., ma che sia stata resa incidenter tantum – a seguito del rilievo officioso del giudice - in un giudizio avente ad oggetto l’adempimento, la risoluzione, la rescissione o l’annullamento del contratto.

È, inoltre, controverso se, nel caso in cui la questione non sia stata sollevata, un accertamento implicito sulla ‘non nullità’ del contratto possa dedursi dalla decisione sulla domanda originaria.

Entrambi i profili evidenziati si inquadrano nella più generale tematica dei limiti oggettivi del giudicato, sulla quale si registrano orientamenti divergenti, posto che una parte degli interpreti propende per la tesi estensiva, in forza del quale il giudicato riguarda anche gli elementi pregiudiziali che costituiscono il presupposto logico necessario ai fini della decisione (in giurisprudenza si vedano, ex aliis, Sez. L, n. 4426/2000, Celentano, Rv. 535445-01; Sez. U, n. 6632/2003, Marziale, Rv. 562504-01; Sez. 3, n. 11672/2007, D’Amico, Rv. 59671001; Sez. L, n. 15093/2009, Bandini, Rv. 608889-01; Sez. L, n. 5581/2012, Meliadò, Rv. 621797 01 In dottrina si vedano M. TARUFFO, «Collateral estoppel» e giudicato sulle questioni, in Riv. dir. proc., 1972, 288 ss.; L.P. COMOGLIO, Il principio di economia processuale, II, Padova, 1982, 119 ss), mentre altra opinione adotta un approccio restrittivo (in tal senso, tra le altre, Sez. 3, n. 11356/2006, Scarano, Rv. 591349-01; Sez. L, n. 4751/1995, Mercurio, Rv. 492060-01; Sez. L, n. 381/1989, Genghini, Rv. 461510-01; Sez. L, n. 4276/1985, D’Alberto, Rv. 441766-01), in forza del quale l’oggetto del giudicato sostanziale è limitato all’accertamento del diritto dedotto con la domanda (G. CHIOVENDA, Principi di diritto processuale civile, Napoli, 1980, 1153 ss.; V. ANDRIOLI, Diritto processuale civile, Napoli, 1979, 1013; L. MONTESANO, voce Accertamento giudiziale, in Enc. giur., I, Roma, 1988, 5 ss.).

In una posizione intermedia si collocano gli autori che, muovendo dalla distinzione tra pregiudizialità tecnica e logica, ritengono che solo in quest’ultimo caso il giudicato si estenda all’intero rapporto complesso (S. MENCHINI, I limiti oggettivi del giudicato civile, Milano, 1987, 87 ss.; F.P. LUISO, Diritto processuale civile, I, Milano, 2013, 164 ss.).

Ai sostenitori della tesi estensiva si deve l’elaborazione della nozione di giudicato implicito, in forza della quale il giudicato si forma non solo su ciò che la sentenza espressamente afferma o nega, ma anche sulle questioni e gli accertamenti che, in quanto rappresentano le premesse necessarie alla decisione, devono ritenersi essere state esaminate dal giudice anche se non risultano menzionate nel percorso motivazionale.

Tale impostazione postula il concetto di decisione implicita, identificabile con la statuizione contenuta in un provvedimento giurisdizionale, ma non espressa in termini linguistici. La volontà decisoria del giudice in relazione al caso concreto viene, infatti, manifestata attraverso il linguaggio, ma il ragionamento sillogistico che è alla base del giudizio, poiché è ispirato ai principi della logica comunemente condivisi, consta, oltre che di proposizioni espresse, anche di proposizioni inespresse, ma implicate da quelle espresse e, quindi, dalle stesse deducibili.

Il giudicato implicito sulle questioni di merito è strettamente collegato alla nozione di pregiudiziale in senso logico, con la quale si indica il fatto costitutivo del diritto che si fa valere (c.d. punto pregiudiziale) o, come si sostiene in dottrina, “il rapporto giuridico dal quale nasce l’effetto dedotto in giudizio” (L. DITTRICH, Diritto processuale civile, Milano, 2019).

La nozione appena delineata va, come noto, distinta da quella di pregiudiziale in senso tecnico, con la quale si indica una situazione che, pur rappresentando un presupposto dell’effetto dedotto in giudizio, è, tuttavia, distinta e indipendente dal fatto costitutivo sul quale si fonda tale effetto e, poiché non concerne l’oggetto del processo, è solamente passibile di accertamento in via incidentale, salvo che per legge o a seguito di apposita domanda formulata da una delle parti non sia richiesta una decisione con efficacia di giudicato.

La pregiudizialità tecnica investe i presupposti dell’effetto dedotto in giudizio, ovvero le circostanze che rappresentano il fondamento giuridico del fatto costitutivo rispetto al diritto dedotto in giudizio. Quella logica indica il collegamento che unisce il rapporto giuridico con l’effetto dedotto in giudizio (S. MENCHINI, Regiudicata civile, in Dig. disc. priv., XVI, 467; in giurisprudenza si veda, da ultimo, Sez. L, n. 9409/2018, Marchese, Rv. 648183-01).

Nella giurisprudenza di legittimità, l’orientamento maggioritario ritiene che l’efficacia del giudicato copre non soltanto la pronuncia finale, ma anche l’accertamento che si presenta come necessaria premessa o come presupposto logico-giuridico della pronuncia medesima (emblematica, in proposito è Sez. 3, n. 6170/2005, Segreto, Rv. 581474-01, ma in termini non dissimili si sono espresse, tra le altre, Sez. 1, n. 22520/2011, Salvago, Rv. 620387-01; Sez. 2, Falaschi, n. 15508/2011, Falaschi, Rv. 618651-01; Sez. L, n. 28415/2017, Spena Rv. 646278-01 e, tra le meno recenti, Sez. L, n. 990/1994, Mercurio, Rv. 485168-01; Sez. L, n. 1811/1993, Prestipino, Rv. 480881-01). In tal caso la necessità della formazione del giudicato anche sul punto pregiudiziale (e anche in assenza di un’apposita richiesta) deriva dal fatto che oggetto del dictum di merito è, in primo luogo, l’accertamento dell’esistenza del rapporto giuridico sul quale la pretesa si fonda.

Altre decisioni hanno, invece, precisato che la pronunzia di rigetto della domanda, non più soggetta ad impugnazione, non costituisce giudicato implicito - con efficacia vincolante nei futuri giudizi - laddove del rapporto che ne costituisce il presupposto logico-giuridico non abbiano formato oggetto di specifica disamina e valutazione da parte del giudice le questioni concernenti l’esistenza, la validità e la qualificazione. Ne consegue che la sentenza di rigetto della domanda di risoluzione del contratto adottata sulla base del principio della c.d. “ragione più liquida” (in base al quale la domanda può essere respinta sulla base della soluzione di una questione assorbente senza che sia necessario esaminare previamente tutte le altre) ovvero emessa in termini meramente apodittici, senza un accertamento effettivo, specifico e concreto del rapporto da parte del giudice, al punto da risultare un evidente difetto di connessione logica tra dispositivo e motivazione, non preclude la successiva proposizione di una domanda di nullità del contratto (che a norma dell’art. 1421 c.c. il giudice deve rilevare anche d’ufficio non solo se sia stata proposta l’azione di adempimento ma anche se sia stata chiesta la risoluzione o l’annullamento o la rescissione del contratto), in quanto in tal caso si fanno valere effetti giuridici diversi e incompatibili rispetto a quelli oggetto del primo accertamento, sicché, trattandosi di diritti eterodeterminati (per l’individuazione dei quali è cioè necessario fare riferimento ai fatti costitutivi della pretesa che identificano diverse “causae petendi”), non può ritenersi che, all’intero rapporto giuridico, ivi comprese le questioni di cui il primo giudice non abbia avuto bisogno di occuparsi per pervenire alla pronunzia di rigetto, il giudicato si estenda in virtù del principio secondo cui esso copre il dedotto ed il deducibile (Sez. 3, n. 11356/2006, Scarano, Rv. 591349-01; in senso conforme Sez. 3, n. 21266/2007, Scarano, Rv. 599517-01).

Anche in dottrina si registrano soluzioni discordanti.

Secondo una prima tesi, stante la disciplina di cui all’art. 34 c.p.c., il giudicato si forma esclusivamente sul diritto dedotto in giudizio, mentre al di fuori di una previsione legislativa, il dispiegarsi dell’autorità di cosa giudicata sulle questioni pregiudiziali richiederebbe un’espressa domanda di parte grazie alla quale si determinerebbe un ampliamento dell’oggetto del giudizio (G. CHIOVENDA, Principi di diritto processuale civile, cit., 1153 ss.).

Altra opinione ritiene, invece, che nell’art. 34 c.p.c. rientrino le sole questioni pregiudiziali in senso tecnico e non anche quelle in senso logico. Queste ultime, sostanziandosi in antecedenti logico giuridici necessari a pervenire alla statuizione finale, sono investite dal giudicato anche in assenza di domanda (S. SATTA, Commentario al codice di procedura civile, I, Milano, 1966, 147 ss.). Ne deriva che le questioni di merito giudicate non sono soltanto quelle espressamente risolte, ma anche quelle la cui soluzione è implicita perché costituisce una premessa necessaria della soluzione delle prime (in tal senso si vedano, tra gli altri, S. MENCHINI, I limiti oggettivi del giudicato civile, cit., 94 ss.; A. PROTO PISANI, Note problematiche e no sui limiti oggettivi del giudicato civile, in Foro it., 1987, I, 446 ss.;

F.P. LUISO, Diritto processuale, I, cit., 163).

Nell’ambito di tale variegato e affatto univoco contesto ermeneutico le più volte menzionate pronunce nomofilattiche n. 26242 e 26243 del 2014, all’esito di un’imponente opera di ricostruzione sistematica, hanno proposto una soluzione in grado di coniugare le opposte istanze di celerità ed economia processuale e di certezza giuridica sottese alle tesi in campo.

Le decisioni affrontano le ipotesi in cui il giudice, in difetto della domanda ex art. 34 c.p.c.sulla questione pregiudiziale di nullità del contratto indicata dal giudice alle parti, si pronunci sulla sola domanda originaria di adempimento, di risoluzione, di rescissione o di annullamento rigettandola o accogliendola.

Se la domanda originaria viene respinta a causa della rilevata nullità del contratto e tale ragione viene esplicitata nella motivazione, la statuizione sull’invalidità è idonea al giudicato tra le parti, nel senso che tale dictum sarà tra le stesse vincolante anche in successivi giudizi in cui si faccia ancora questione di diritti nascenti dal contratto nullo, ma non anche nei rapporti con i terzi, per lo meno con riferimento ai contratti aventi ad oggetto diritti soggetti a trascrizione, posto che l’art. 2652 c.c., nel disciplinare la trascrizione della domanda giudiziale, consente l’operatività dell’effetto prenotativo della pubblicità nel solo caso della sentenza di accoglimento della domanda, mentre le pronunce di nullità, di annullamento, di risoluzione, di rescissione o revoca, sono soggette, ai sensi dell’art. 2655 c.c., a semplice annotazione in margine alla trascrizione o iscrizione dell’atto, con effetto a valere dal momento della formalità.

Come evidenziato dalle stesse Sezioni Unite, tale ricostruzione è ispirata alla dottrina tedesca del “vincolo al motivo portante” (A. ZUENER, Die objectiven Grenzen der Rechtskraft im Rahmen rechtlicher Sinnzusammenhänge, Tübingen, 1959).

In dottrina (C. CONSOLO, Nullità del contratto, suo rilievo totale o parziale e poteri del giudice, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2011, 7 e ss.) è stato precisato che tale teoria “postula il vincolo al motivo portante del precedente giudicato di rigetto in ogni successivo processo nel quale si controverta di diritti ed effetti strettamente collegati al primo da nessi funzionali di “senso giuridico”- uno (forse il più forte) dei quali è la corrispettività delle prestazioni contrattuali - che lo strumento processuale non può né spezzare né disarticolare, ma è chiamato a “rispecchiare”. E la sussistenza di detto nesso funzionale di stretto diritto positivo (c.d. rechtliche Sinnzusammenhang) dipende dall’atteggiarsi del sottostante rapporto sostanziale, ed è dunque più concretamente selettivo rispetto a quello adottato dalla vecchia, e soprattutto ingombrante, dottrina della c.d. pregiudizialità logico-giuridica di cui è eco nella figura (nota solo al codice italiano) degli accertamenti incidentali ex lege. Ipotesi tipica in cui può dirsi sussistente questo rechtliche Sinnzusammenhang è allora proprio quella dei contratti sinallagmatici. Sussiste qui infatti l’esigenza, anch’essa tipica del regime di corrispettività, che le diverse statuizioni di diversi giudici aventi ad oggetto le controprestazioni che trovano titolo nel contratto non solo non si pongano in contrasto tra loro, ma anzi concorrano a dare attuazione allo scambio”.

Quando, invece, il rigetto della domanda sia stato pronunciato senza che la nullità sia stata rilevata d’ufficio e, quindi, neanche dichiarata, si formerà il giudicato implicito sulla validità del negozio, salvo che la decisione risulti fondata sulla ragione più liquida, non potendosi in tale ultimo caso ritenere che la validità sia stata, neanche implicitamente, scrutinata.

Attraverso tale significativa precisazione la Corte mostra di non aderire incondizionatamente al principio del giudicato implicito sul dedotto e sul deducibile.

L’argomento logico per il quale, il giudice, se si è pronunciato su un determinato punto, ha evidentemente risolto in senso non ostativo tutti quelli il cui esame doveva ritenersi preliminare a quello esplicitamente deciso, deve essere, secondo le Sezioni Unite, opportunamente temperato.

Se, infatti, è vero che l’oggetto della domanda e del processo è il petitum sostanziale e processuale dedotto dall’attore e riferito alla sua causa petendi così che il giudice è obbligato, anche in assenza di eccezione di parte, a rilevare ex officio eventuali profili di nullità della situazione giuridica sostanziale sottesa alla domanda valutata nella sua interezza (e cioè del negozio/rapporto sottostante), non di meno non può escludersi che, in forza dei principi di speditezza, economia e celerità delle decisioni, il processo possa essere definito, senza che la nullità sia dichiarata nel provvedimento decisorio finale, con una pronuncia fondata sulla ragione più liquida di rigetto della domanda (prescrizione, adempimento, mancata scadenza dell’obbligazione), nella consapevolezza di non dovere affrontare, nell’esplicitare le ragioni della decisione, il più vasto tema della validità del negozio, che avrebbe eventualmente imposto una troppo lunga e incerta attività istruttoria.

In caso di accoglimento della domanda, preceduto o meno dal rilievo d’ufficio della nullità, si forma, invece, il giudicato implicito sulla non nullità del contratto, che le parti non potranno più rimettere in discussione.

Si forma, infine, il giudicato implicito sulla validità del contratto quando il giudice, che sia stato investito ab origine da una domanda di nullità, la rigetti senza rilevare altra causa di nullità.

In dottrina (I. PAGNI, Nullità del contratto – Il “sistema” delle impugnative negoziali dopo le Sezioni unite”, cit.) è stato evidenziato come le Sezioni Unite non abbiano espressamente chiarito se, nel fare riferimento alla nullità dichiarata nella sola motivazione ovvero di giudicato implicito sulla non nullità del contratto abbiano inteso configurare un vero e proprio giudicato idoneo - laddove non vengano in rilievo limiti relativi alla trascrizione - a produrre effetti nei confronti dei terzi – effetti diversi a seconda della tesi che si accolga in tema di limiti soggettivi del giudicato (in tal senso I. PAGNI, op. cit.) -, ovvero soltanto una preclusione per le parti alla proposizione in un successivo giudizio di domande che conducano a risultati contrastanti con l’assetto di interessi regolato dal primo processo (tale ultima opzione interpretativa è fatta propria da C. CONSOLO, F. GODIO, Patologia del contratto e ( modi dell’)accertamento processuale, in Corriere giur., 2015, 225 e ss.).

  • licenziamento
  • contratto di lavoro
  • diritto del lavoro

XI)

LA RILEVAZIONE OFFICIOSA DELLE NULLITÀ NEL DIRITTO DEL LAVORO

(di Luigi Di Paola )

Sommario

1 Premessa. - 2 La rilevabilità di ufficio della nullità della clausola appositiva del termine nel contratto di lavoro. - 3 La non rilevabilità di ufficio della nullità del licenziamento. - 4 Implicazioni: ammissibilità o meno della riproposizione della domanda di impugnativa in relazione a profili diversi.

1. Premessa.

Nell’area del diritto del lavoro la categoria della nullità assume particolare rilievo in due ambiti (nei quali si è rivelato più accentuato il contenzioso), ossia quello del contratto a termine illegittimo in quanto stipulato in difetto dei requisiti di legge (ad esempio, per insussistenza delle ragioni giustificative - secondo la previgente disciplina -, per superamento del termine massimo di durata, per violazione di determinati divieti, per inosservanza degli oneri di forma, etc.) e quello del licenziamento connotato da un forte disvalore (che il legislatore, appunto, ha ritenuto di dover sanzionare con la nullità), in quanto intimato, a titolo esemplificativo, per ragioni discriminatorie o pretestuose, a scopo di ritorsione, oppure in frode alla legge, o, ancora, nella ricorrenza di determinate situazioni nelle quali il legislatore preclude al datore di porre fine al rapporto di lavoro.

L’idea che la clausola appositiva del termine priva dei requisiti di legittimità sia affetta da nullità - con conseguente operatività, in chiave sostitutiva, della norma imperativa imperniata sulla regola della indeterminatezza temporale del contratto di lavoro - è espressa nitidamente nella giurisprudenza della Suprema Corte, e, a quanto consta, non risulta esser mai stata messa in discussione in dottrina.

Si è ritenuto che l’armonia del sistema sia stata tuttavia turbata dall’introduzione, con il c.d. “collegato lavoro” del 2010, di un termine di decadenza per la proposizione dell’impugnativa ad opera del lavoratore, giacché la tardività dell’iniziativa consoliderebbe la situazione di apparenza, in naturale contrasto con la improduttività di effetti insita nella nullità.

Tuttavia l’ordinamento fa notoriamente registrare casi in cui si realizza una sorta di effetto sanante (in senso atecnico) della nullità a seguito del mancato compimento di determinati atti che il legislatore reputa necessari per il conseguimento di un obiettivo di certezza nelle relazioni giuridiche.

Ne costituisce un chiaro esempio, nel settore lavoristico, proprio la disciplina del licenziamento, incentrata (sin dal lontano 1966, anno di emanazione della legge n. 604, la prima recante una disciplina organica dei licenziamenti individuali) sull’operatività della decadenza in tutti i casi di illegittimità dell’atto espulsivo, ossia non solo in caso di annullabilità, ma anche nelle più radicali ipotesi di nullità ed inefficacia.

Ciò posto, in passato si era sempre ritenuto, con riferimento ad entrambi i predetti ambiti, che, essendo imperniate le azioni di impugnativa sulla nullità, il giudice fosse inevitabilmente vincolato allo specifico motivo dedotto dal lavoratore, essendogli impedita la rilevazione officiosa della nullità sotto profili diversi.

In particolare, era dominante il convincimento - su cui v., tra le altre, Sez. L, n. 15093/2009, Bandini, Rv. 608891-01 - che il principio della rilevabilità d’ufficio della nullità dell’atto va necessariamente coordinato con il principio dispositivo e con quello della corrispondenza tra chiesto e pronunciato, e trova applicazione soltanto quando la nullità si ponga come ragione di rigetto della pretesa attorea (ad esempio, di esecuzione di un atto nullo), non anche quando sia invece la parte a chiedere la dichiarazione di invalidità di un atto ad essa pregiudizievole, dovendo in tal caso la pronuncia del giudice essere circoscritta alle ragioni di illegittimità denunciate dall’interessato, senza potersi fondare su elementi rilevati d’ufficio o tardivamente indicati, giacché in tal caso l’invalidità dell’atto si pone come elemento costitutivo della domanda attorea (più di recente, in tema di licenziamento, v. Sez. L, n. 13673/2015, Tricomi, Rv. 635958-01, ove è statuito che qualora il lavoratore, impugnato il licenziamento, agisca in giudizio deducendo il difetto di giusta causa o giustificato motivo, l’eventuale motivo discriminatorio o ritorsivo, pur ricavabile da circostanze di fatto allegate, integra un ulteriore, e non già compreso, motivo di illegittimità del recesso, come tale non rilevabile d’ufficio dal giudice e neppure configurabile come mera diversa qualificazione giuridica della domanda).

Sennonché, come è noto, le Sezioni Unite (Sez. U, n. 26242/2014, Travaglino, Rv. 633505 01) sono pervenute alla conclusione che il giudice innanzi al quale sia stata proposta domanda di nullità contrattuale deve rilevare di ufficio l’esistenza di una causa di quest’ultima diversa da quella allegata dall’istante, essendo quella domanda pertinente ad un diritto autodeterminato, sicché è individuata indipendentemente dallo specifico vizio dedotto in giudizio.

L’impatto nel diritto del lavoro è stato, come si vedrà, diversificato, avendo giocato in maniera decisiva la diversa natura e struttura (bilaterale, nel contratto a termine, unilaterale, nel licenziamento) degli atti oggetto di impugnazione giudiziale da parte del lavoratore.

2. La rilevabilità di ufficio della nullità della clausola appositiva del termine nel contratto di lavoro.

La S.C., allineandosi all’indirizzo promosso dalla citata sentenza delle Sezioni Unite, ha stabilito - cfr. Sez. 6-L, n. 16977/2017, Doronzo, Rv. 645039-01 - che «Il giudice innanzi al quale sia stata proposta domanda di accertamento della nullità di un contratto o di una singola clausola contrattuale ha il potere-dovere di rilevare d’ufficio -previa instaurazione del contraddittorio sul punto -l’esistenza di una causa di nullità diversa da quella prospettata, che abbia carattere portante ed assorbente e che emerga dai fatti allegati e provati o comunque dagli atti di causa, salvo che non si tratti di nullità a regime speciale. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, che aveva dichiarato d’ufficio la nullità del contratto, avente ad oggetto un incarico dirigenziale a soggetto non inserito nei ruoli della P.A., rilevando la mancanza della motivazione prevista dall’art. 19, comma 6, del d.lgs. n. 165 del 2001, a fronte di una domanda di accertamento della nullità della apposizione al contratto di un termine inferiore ai tre anni, con richiesta di sostituzione legale, ex artt. 1418 e 1339 c.c., della relativa clausola)».

Tale indirizzo è stato riconfermato, in seguito, con altre pronunzie (Sez. L, n. 20388/2018, Negri Della Torre, Rv. 650120-01, e Sez. L, n. 8914/2019, Arienzo, Rv. 653218-01, la quale ha cassato la sentenza di merito che aveva ritenuto tardiva la domanda di nullità parziale per insussistenza del documento di valutazione dei rischi, diversa da quella originariamente formulata con il ricorso introduttivo).

La S.C. non si è, allo stato, ancora pronunciata sull’ipotesi in cui la domanda del lavoratore non sia fondata sulla nullità della clausola appositiva del termine.

Un’ipotesi esemplificativa, tratta da vicenda realmente scrutinata in sede di merito (App. Firenze n. 816/2015), è quella in cui il lavoratore agisca per far accertare in via esclusiva la avvenuta cessione di azienda, con conseguente prosecuzione del suo rapporto di lavoro - benché formalmente caratterizzato dalla presenza di un termine già scaduto al tempo della cessione - con il cessionario.

Nella predetta ipotesi non sembrano ravvisabili ostacoli alla rilevabilità officiosa della nullità - ove risultante dagli atti - della clausola appositiva del termine, poiché viene in considerazione l’ulteriore principio, del pari espresso dalla richiamata sentenza delle Sezioni Unite, secondo cui «Il rilievo ex officio di una nullità negoziale - sotto qualsiasi profilo ed anche ove sia configurabile una nullità speciale o “di protezione” - deve ritenersi consentito, sempreché la pretesa azionata non venga rigettata in base ad una individuata “ragione più liquida”, in tutte le ipotesi di impugnativa negoziale (adempimento, risoluzione per qualsiasi motivo, annullamento, rescissione), senza, per ciò solo, negarsi la diversità strutturale di queste ultime sul piano sostanziale, poiché tali azioni sono disciplinate da un complesso normativo autonomo ed omogeneo, affatto incompatibile, strutturalmente e funzionalmente, con la diversa dimensione della nullità contrattuale».

Tuttavia occorrerà, in tal caso, fare i conti con la decadenza, che dovrà essere eccepita dalla controparte a seguito della necessaria instaurazione del contraddittorio ad opera del giudice; con la conseguenza che, ove l’eccezione appositamente formulata dovesse rilevarsi, all’esito, fondata, il giudice medesimo non potrà dichiarare la nullità della clausola appositiva del termine.

3. La non rilevabilità di ufficio della nullità del licenziamento.

Con una prima pronuncia (Sez. L, n. 17286/2015, Manna A., Rv. 636802-01), la S.C. ha affermato che la nullità di una sanzione disciplinare per violazione del procedimento finalizzato alla sua irrogazione rientra tra quelle cd. di protezione, poiché ha natura inderogabile ed è posta a tutela del contraente più debole del rapporto, vale a dire il lavoratore, sicché è rilevabile d’ufficio.

Tale orientamento è stato subito superato da una successiva sentenza (Sez. L, n. 7687/2017, Di Paolantonio, Rv. 643577-01) nella quale è stato puntualizzato che «La disciplina della invalidità del licenziamento è caratterizzata da specialità, rispetto a quella generale della invalidità negoziale, desumibile dalla previsione di un termine di decadenza per impugnarlo e di termini perentori per il promovimento della successiva azione di impugnativa, che resta circoscritta all’atto e non è idonea a estendere l’oggetto del processo al rapporto, non essendo equiparabile all’azione con la quale si fanno valere diritti autodeterminati; ne consegue che il giudice non può rilevare di ufficio una ragione di nullità del licenziamento diversa da quella eccepita dalla parte, trovando tale conclusione riscontro nella previsione dell’art. 18, comma 7, della l. n. 300 del 1970, come modificato dalla l. n. 92 del 2012, e dell’art. 4 del d.lgs. n. 23 del 2015, nella parte in cui fanno riferimento alla applicazione delle tutele previste per il licenziamento discriminatorio, quindi affetto da nullità, “sulla base della domanda formulata dal lavoratore”».

In buona sostanza, secondo il testé illustrato insegnamento - che non sembra collimare con quello di cui è espressione la più volte richiamata pronuncia delle Sezioni Unite, la quale, con riguardo alle impugnative negoziali, identifica l’oggetto del giudizio nel negozio e nel rapporto giuridico sostanziale che ne scaturisce -, la causa petendi dell’azione proposta dal lavoratore per contestare la validità e l’efficacia del licenziamento «va individuata nello specifico motivo di illegittimità dell’atto dedotto nel ricorso introduttivo, in quanto ciascuno dei molteplici vizi dai quali può derivare la illegittimità del recesso discende da circostanze di fatto che è onere del ricorrente dedurre e allegare».

Le argomentazioni della Corte fanno perno su due principi portanti, in cui vengono simultaneamente in considerazione entrambi i profili che mettono fuori gioco - in virtù della disposizione contenuta nell’art. 1324 c.c. (recante “Norme applicabili agli atti uni-laterali”, ove è previsto che “Salvo diverse disposizioni di legge, le norme che regolano i contratti si osservano, in quanto compatibili, per gli atti unilaterali tra vivi aventi contenuto patrimoniale”) - l’applicabilità della disciplina dettata in materia di nullità dei contratti alla nullità del licenziamento, ossia, da un lato, quello della sussistenza di “diverse disposizioni” e, dall’altro, quello dell’incompatibilità dovuta alla natura dell’atto.

Il primo principio attiene alla specialità della disciplina della invalidità del licenziamento desumibile dall’esistenza di un doppio termine di decadenza per far valere ogni sorta di vizio dell’atto espulsivo.

Tuttavia l’effetto preclusivo determinato dalla decadenza potrebbe, nel caso, forse provare troppo, giacché esso è comune anche all’impugnativa della nullità del contratto a termine, rispetto al quale opera, come sopra visto, il rilievo officioso della nullità.

Anche il richiamo alle disposizioni contenute nell’art. 18 st.lav. e nell’art. 4 del d.lgs. n. 23 del 2015, che fanno riferimento alla “domanda formulata dal lavoratore” potrebbe non essere decisivo ai fini della valutazione della questione, giacché le predette disposizioni contemplano solo il licenziamento discriminatorio, ma non le altre ipotesi di nullità; ed in ogni caso la rilevazione officiosa non è sostitutiva della domanda del lavoratore, ma ha una funzione propulsiva, in quanto, una volta evidenziata la questione, starà al lavoratore medesimo introdurre il nuovo motivo oppure no.

Il secondo principio concerne l’oggetto dell’azione di impugnativa, individuato nell’atto e non nel rapporto (di cui accertare la persistenza); sicché la domanda non può essere equiparata, attesa la varietà dei profili di invalidità da cui il recesso può essere affetto, a quella di accertamento di diritti autodeterminati, solo rispetto ai quali si profilerebbe legittima la rilevazione officiosa della nullità.

Tale ultima argomentazione ha una maggiore forza persuasiva, giacché nello schema dell’azione di nullità contrattuale è implicito il richiamo ad un unico fatto costitutivo, facendosi valere la non esistenza del rapporto fondamentale, mentre in quella di impugnativa del licenziamento si verifica il fenomeno contrario, ossia si mira al riconoscimento della persistenza del rapporto quale effetto della nullità del licenziamento stesso; e la nullità in questione, come evidenziato nella sentenza, è suscettibile di essere originata da più fatti, da individuarsi necessariamente fin dall’origine da chi agisce in giudizio, anche in ragione dei vincoli stringenti posti dal rito.

Decisamente sullo sfondo rimane l’eventuale obiezione incentrata sulla potenziale equiparabilità dell’azione di impugnativa del licenziamento nullo a quella di nullità - suscettibile di essere rilevata di ufficio - del negozio bilaterale risolutorio.

Sta di fatto che il predetto orientamento è stato convalidato da successive sentenze (Sez. L, n. 23869/2018, Torrice, Rv. 650548-01, e Sez. L, n. 9675/2019, Torrice, Rv. 653619-01), sicché può dirsi, attualmente, consolidato.

4. Implicazioni: ammissibilità o meno della riproposizione della domanda di impugnativa in relazione a profili diversi.

Si tratta infine di stabilire se sia ammissibile la proposizione di una nuova domanda avente ad oggetto stesso petitum ma diversa causa petendi fondata su un profilo di nullità non dedotto e non rilevato nel primo giudizio.

Con riguardo al contratto a termine, attesa la riconosciuta rilevabilità officiosa della nullità -che necessariamente si correla al diritto autodeterminato che si fa valere con l’azione -, dovrebbe valere la regola che è preclusa una domanda successiva alla prima con la quale il lavoratore intenda impugnare lo stesso contratto deducendo un motivo di nullità non evidenziato in precedenza.

Va tuttavia segnalato che la S.C., con una recente sentenza, ha ritenuto che la pluralità di azioni non integri abuso del processo (cfr. Sez. L, n. 3226/2018, Patti, Rv. 646733-01: «Nel rito del lavoro, la proposizione in giudizio di una domanda relativa a un contratto già impugnato con un precedente ricorso, fondata tuttavia su una diversa causa petendi, non costituisce abuso del processo per ingiustificato e arbitrario frazionamento della domanda, in quanto non mira a realizzare una esclusiva utilità dell’attore e non determina un inutile aggravamento della posizione della controparte. (Nella specie, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza che aveva dichiarato inammissibile la domanda di nullità di un contratto a termine con Poste italiane s.p.a., per violazione della clausola di contingentamento di cui all’art. 2, comma 1 bis, del d.lgs. n. 368 del 2001, sul presupposto che il ricorrente aveva già impugnato lo stesso contratto per contrarietà della medesima disposizione alla direttiva 1999/70/CE)».

Pertanto, stando a tale orientamento, l’effetto preclusivo non si realizzerebbe in virtù della semplice proposizione della seconda domanda.

Ciò, tuttavia, non dovrebbe escludere che l’effetto in questione possa scaturire a seguito del giudicato di rigetto (attestante la validità della clausola appositiva del termine) formatosi sulla prima, in virtù del “deducibile”, la cui nozione è anche proiezione, in qualche modo, del nesso di incompatibilità tra azioni.

Ciò è quanto sembra desumersi da Sez. L, n. 25745/2017, Lorito, Rv. 646114-01, nella quale è stato precisato che il giudicato di rigetto sulla domanda di accertamento della nullità del termine apposto ad un contratto di lavoro stipulato da un dipendente delle Poste s.p.a., per genericità delle mansioni da svolgere e della sede di lavoro, precludesse l’esame in un successivo giudizio della nullità dello stesso termine per violazione dell’art. 8 del c.c.n.l. 1994; nella pronuncia è affermato, per quanto di immediato interesse, che, in linea di massima, tutti i possibili fatti che possano determinare la nullità del contratto concorrono a definire l’unica azione dichiarativa della nullità; e, nel caso, «tutti i fatti che convergevano a definire la nullità del termine apposto al contratto inter partes concorrevano alla produzione di un medesimo effetto giuridico e, in quanto tali, dovevano rinvenire sede in un medesimo contesto di azione».

Il che potrebbe portare, in definitiva, a ritenere che nell’azione volta a far valere la nullità del termine apposto al contratto di lavoro l’oggetto della domanda e del processo è unico; con la conseguenza che ove il lavoratore abbia promosso separati giudizi per far valere, in relazione ad un unico contratto, distinte cause di nullità, la domanda successivamente proposta dovrebbe ritenersi sovrapponibile alla prima e suscettibile di riunione ai sensi dell’art. 273 c.p.c. o, ricorrendone le condizioni, attratta nell’area di operatività della litispendenza di cui all’art. 39 c.p.c. (imponendosi la cancellazione dal ruolo della causa che risulti posteriormente iscritta; nel qual caso dovrebbe esser però concesso al lavoratore di integrare la domanda formulata nel primo giudizio con le deduzioni già contenute nel secondo).

Con riguardo al licenziamento, essendosi in presenza di diritto eterodeterminato, sono ammesse più azioni di impugnativa.

Pertanto, in astratto, il lavoratore che avesse impugnato un licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo sul presupposto della insussistenza delle ragioni organizzative, potrebbe, con successiva azione, impugnare lo stesso licenziamento deducendone la nullità (insuscettibile di esser rilevata dal giudice nel primo giudizio benché risultante dagli atti).

Qui, per contenere il rischio di proliferazione dei giudizi si può far leva su due barriere preclusive. La prima potrebbe esser ravvisata nell’effetto impeditivo determinato dal difetto di interesse del lavoratore a far valere un motivo di licenziamento non dedotto nell’azione precedente, sulla scorta del principio affermato dalle Sezioni Unite in materia di divieto di frazionamento della domanda (Sez. U, n. 4090/2017, Di Iasi, Rv. 643111-01, ove è chiarito che «Le domande aventi ad oggetto diversi e distinti diritti di credito, benché relativi ad un medesimo rapporto di durata tra le parti, possono essere proposte in separati processi, ma, ove le suddette pretese creditorie, oltre a far capo ad un medesimo rapporto tra le stesse parti, siano anche, in proiezione, inscrivibili nel medesimo ambito oggettivo di un possibile giudicato o, comunque, fondate sullo stesso fatto costitutivo, - sì da non poter essere accertate separatamente se non a costo di una duplicazione di attività istruttoria e di una conseguente dispersione della conoscenza dell’identica vicenda sostanziale - le relative domande possono essere formulate in autonomi giudizi solo se risulti in capo al creditore un interesse oggettivamente valutabile alla tutela processuale frazionata, e, laddove ne manchi la corrispondente deduzione, il giudice che intenda farne oggetto di rilievo dovrà indicare la relativa questione ex art. 183, c.p.c., riservando, se del caso, la decisione con termine alle parti per il deposito di memorie ex art. 101, comma 2, c.p.c.”).

Potrebbe ipotizzarsi, seguendo tale via, che il lavoratore debba dedurre, con la domanda volta al conseguimento della declaratoria di illegittimità del licenziamento, tutti i possibili vizi afferenti quest’ultimo.

Il secondo giudizio, in tale ottica, dovrebbe esser dichiarato inammissibile ove non emerga l’interesse alla proposizione di un’azione separata.

Qualora invece detto interesse sussista (ad esempio, ove sia stato scoperto il fattore di discriminazione dopo la proposizione del primo giudizio con il quale si era fatto valere il difetto di giusta causa) ed ove si ravvisi tra i due procedimenti una ipotesi di connessione, il secondo potrebbe essere riunito al primo, o riassunto, ex art. 40 c.p.c., per la trattazione unitaria; ove poi quest’ultima non sia, per varie ragioni, possibile, sarebbe ipotizzabile l’utilizzo della sospensione ex art. 337, secondo comma, c.p.c. in caso di intervenuta sentenza che accordi la tutela reintegratoria “piena” nel primo giudizio, poiché essa rende inutile il secondo (essendosi in presenza di un concorso di diritti), avendo il lavoratore già conseguito la massima utilità possibile, ovvero la reintegra nel posto di lavoro (ammessa in entrambi i regimi dettati dalla legge “Fornero” e dal Jobs Act).

La seconda barriera potrebbe essere offerta dall’operatività della decadenza, ove si ammetta che essa possa essere impedita solo in relazione al vizio esternato nel ricorso giudiziale; sicché, ove il lavoratore abbia fatto valere, ad esempio, solo la insussistenza delle ragioni addotte dal datore a supporto del licenziamento, la decadenza dovrebbe ritenersi impedita solo in relazione a tale azione, e non a quella ipoteticamente proponibile per far valere il motivo illecito o quello discriminatorio (comportanti la nullità del licenziamento).

PARTE TERZA APPROFONDIMENTI IN TEMA DI NESSO CAUSALE E DANNO

  • contratto
  • ricorso per inadempienza
  • responsabilità contrattuale
  • prova

XII)

NESSO CAUSALE E INADEMPIMENTO: DA QUESTIONE PROBATORIA A DICRIMINANTE STRUTTURALE

(di Paolo Spaziani )

Sommario

1 Le regole di struttura e le regole di funzione in tema di nesso causale. - 2 Il problema della ripartizione dell’onere della prova del nesso causale tra l’esigenza di applicazione della regola generale e quella di armonizzazione dei rimedi contro l’inadempimento. - 3 Il rapporto di causalità quale elemento della fattispecie costitutiva del diritto al risarcimento e oggetto dell’onere probatorio del creditore. - 4 Le obiezioni della dottrina e le possibili repliche. - 5 Le sentenze dell’11 novembre 2019 nn. 28991 e 28992 e la nuova rilevanza del nesso causale quale elemento distintivo strutturale di diverse fattispecie di responsabilità contrattuale in relazione al tipo di obbligazione.

1. Le regole di struttura e le regole di funzione in tema di nesso causale.

Il nesso causale, quale requisito costitutivo della fattispecie di responsabilità (contrattuale ed extracontrattuale), ha posto tradizionalmente problemi sia di struttura che di funzione.

Le regole di struttura sono le regole tradizionalmente elaborate dalla dottrina ed accolte in giurisprudenza per accertare la relazione di causalità intercorrente tra un fatto (cronologicamente o, comunque, logicamente) precedente (la causa) e un fatto (cronologicamente o, comunque, logicamente) successivo (la conseguenza).

Nella fattispecie di responsabilità, il fatto (cronologicamente o, comunque, logicamente) precedente è la condotta del danneggiante (fatto illecito o inadempimento); il fatto (cronologicamente o, comunque, logicamente) successivo è il danno.

Poiché il danno può essere inteso come evento lesivo o come conseguenza dannosa risarcibile, il giudizio causale si scompone, sul piano della struttura, in due autonomi e consecutivi segmenti, il primo volto ad identificare il nesso di causalità materiale che lega la condotta all’evento lesivo, il secondo diretto ad accertare il nesso di causalità giuridica che lega l’evento lesivo alle conseguenze dannose risarcibili.

Tali segmenti, per consolidato orientamento giurisprudenziale, sono governati da diverse regole di struttura.

Precisamente, la causalità materiale deve essere ricostruita in applicazione delle regole desumibili dagli artt. 40 e 41 c.p. (c.d. teoria della condicio sine qua non), temperate dal principio della c.d. causalità adeguata o regolarità causale (secondo cui ciascuno è responsabile soltanto delle conseguenze della sua condotta, attiva o omissiva, che appaiono sufficientemente prevedibili al momento nel quale ha agito), nonché dal principio che impone di considerare lo scopo della norma violata (Normzwecklehre) di cui deve tenersi conto nella ricostruzione della misura della relazione probabilistica in astratto (e svincolata da ogni riferimento soggettivo) tra comportamento ed evento dannoso (Sez. U., n. 576 del 2008, Segreto, Rv. 600899-01; Sez. 3, n. 10741 del 2009, Spagna Musso, Rv. 608391-01).

Invece, la causalità giuridica deve essere ricostruita in applicazione della regola contenuta nell’art.1223 c.c., richiamato, in sede extracontrattuale, dall’art. 2056 c.c., che impone di accertare la consequenzialità immediata e diretta tra il pregiudizio (danno emergente o lucro cessante) e l’inadempimento o l’illecito (Sez. 3, n. 21255 del 2013, Travaglino, Rv. 628703-01).

Diversamente da quelle di struttura, le regole di funzione attengono, non al momento sostanziale della ricostruzione, in astratto, del rapporto di causalità, ma al momento processuale dell’accertamento, in concreto, del predetto rapporto (sia materiale che giuridico) con riguardo ad una specifica fattispecie. Esse, in altre parole, non concorrono a regolare il procedimento logico-giuridico diretto alla rappresentazione concettuale del nesso causale, ma costituiscono i criteri probatori da applicare nel processo per dimostrare la sussistenza, nel caso specifico, del predetto nesso, e cioè l’inveramento del concetto astratto di causalità, quale risultante dal giudizio formulato in base alle regole di struttura, nella fattispecie concreta.

Con riguardo alle regole di funzione, non rileva la distinzione tra causalità giuridica e causalità materiale ma quella tra responsabilità civile e responsabilità penale, in quanto il regime probatorio applicabile nel processo civile si riconduce alla regola del “più probabile che non” o della preponderanza dell’evidenza, mentre il regime probatorio applicabile nel processo penale si riconduce a quella della prova “oltre il ragionevole dubbio” (Sez. U., n. 576 del 2008, Segreto, Rv. 600899-01; Sez. 3, n. 10741 del 2009, Spagna Musso, Rv. 608391-01).

La regola del “più probabile che non” costituisce un criterio di determinazione del grado di conferma necessario o sufficiente per ritenere provato un determinato enunciato fattuale sulla base di un ragionamento inferenziale che tiene conto della qualità, quantità, attendibilità e coerenza delle prove disponibili (M. Taruffo, La valutazione delle prove, in Le prove nel processo civile, Milano, 2012, p. 207 e ss.).

Il giudice è autorizzato a ricorrere a tale criterio in ragione del principio di libero apprezzamento, che ne costituisce il fondamento (art. 116, comma 1, c.p.c.).

La valutazione delle prove, che il giudice compie discrezionalmente secondo il suo prudente apprezzamento, trova il suo nucleo centrale nella formulazione delle inferenze probatorie.

Il ragionamento inferenziale si riscontra non solo nel procedimento di valutazione delle prove indirette o per induzione (nelle quali da un fatto noto assunto come premessa, vengono tratte conclusioni intorno alla verità o falsità di un fatto ignorato), ma anche nel procedimento di valutazione delle prove dirette (es. prova testimoniale) e, in genere, in quello riguardante tutte le prove libere, venendo meno soltanto in relazione alle prove legali.

Le inferenze logiche tengono conto della quantità e della qualità delle prove disponibili, del loro grado di attendibilità e della loro coerenza. All’aumentare di tali variabili, aumenta, infatti, l’intensità del grado di conferma della verità o falsità dell’enunciato di fatto che ha formato oggetto della prova, in quanto aumenta la probabilità (da intendersi come probabilità logica e non come probabilità statistica) che esso sia effettivamente vero o effettivamente falso.

Quando non provvede la legge a determinare lo standard di conferma necessario o sufficiente per ritenere provato un enunciato di fatto, si rende necessario individuare un criterio razionale, al fine di evitare che la discrezionalità del giudice (fondata sul principio del libero apprezzamento) non sconfini nell’arbitrio.

Il criterio del “più probabile che non” o della “probabilità prevalente” risponde a tale esigenza di razionalità poiché consente di ritenere adeguatamente dimostrata (e dunque processualmente provata) una determinata ipotesi fattuale se essa, avuto riguardo ai complessivi risultati dell’esperimento probatorio, appare più probabile di ogni altra ipotesi, ed in particolare dell’ipotesi contraria.

Con riguardo alla prova del nesso causale (M. Taruffo, La prova del nesso causale, in Rivista critica del diritto privato, 2006, pp.129-130), l’applicazione della regola del “più probabile che non” comporta, dunque, che una certa condotta - attiva od omissiva - può essere considerata causa di un evento dannoso nei casi in cui, avuto riguardo ai risultati probatori, le probabilità che esso evento sia la conseguenza di quella condotta risultino maggiori delle probabilità che non lo sia (criterio del “più probabile che non” propriamente detto, il quale esige la prevalenza assoluta: 51%), nonché nei casi in cui, pur inserendosi nell’ambito di una pluralità di cause alternative o di possibili concause dell’evento dannoso (tutte con un certo grado di conferma positiva alla luce delle prove acquisite), abbia tuttavia ricevuto il grado relativamente maggiore di conferma probatoria, ancorché inferiore al 50% (criterio della “prevalenza relativa”) (Sez. 3, n. 158991 del 2011, Travaglino, Rv. 618880-01).

2. Il problema della ripartizione dell’onere della prova del nesso causale tra l’esigenza di applicazione della regola generale e quella di armonizzazione dei rimedi contro l’inadempimento.

In ordine alla responsabilità contrattuale, diversamente da quanto accaduto con riguardo a quella extracontrattuale, si è a lungo dibattuto in giurisprudenza sulla individuazione della parte processuale onerata di introdurre nel processo i mezzi di prova necessari a consentire la formulazione del giudizio inferenziale da parte del giudice.

Per lunga parte del secolo scorso, il contrasto giurisprudenziale aveva riguardato, per la verità, tutti i requisiti costitutivi obiettivi della fattispecie di responsabilità contrattuale (inadempimento, nesso causale, danno), in quanto ad un orientamento maggioritario che ne attribuiva l’onere probatorio al creditore, in rigorosa applicazione della regola generale fissata dall’art. 2697, comma 1, c.c. (cui si sarebbe dovuto fare eccezione solo per l’elemento subiettivo della colpa, oggetto della presunzione stabilita dall’art. 1218 c.c.), si contrapponeva un orientamento minoritario che muoveva dalla diversa esigenza di armonizzazione della disciplina dei vari rimedi contro l’inadempimento delle obbligazioni: in ragione di tale esigenza, dunque, l’onere del creditore avrebbe dovuto essere circoscritto alla dimostrazione della fonte (legale o negoziale) del proprio credito, spettando al debitore la prova di avere esattamente adempiuto all’obbligazione.

Agli inizi del nostro secolo, il contrasto era stato composto, come è noto, dando prevalenza all’orientamento minoritario.

Le Sezioni Unite, infatti, non solo avevano aderito alla tesi che esentava il creditore dall’onere di provare l’inadempimento e addossava al debitore l’onere di provare l’adempimento, sia con riguardo alla fattispecie dell’inadempimento totale, sia con riguardo alla fattispecie dell’adempimento inesatto (Sez. U, n. 13533 del 2011, Preden, Rv. 549956-01), ma avevano anche precisato - sia pure con riferimento alla peculiare fattispecie della responsabilità del medico e della struttura per inadempimento dell’obbligazione professionale sanitaria - che, una volta dimostrata dal paziente attore la fonte del suo diritto (il contratto o il contatto sociale), egli avrebbe potuto limitarsi ad allegare l’inadempimento e la sua astratta idoneità a cagionare il danno lamentato (l’insorgenza o l’aggravamento della patologia), gravando sulla struttura e sul medico convenuti l’onere di provare l’esatto adempimento della prestazione sanitaria o, al limite, l’irrilevanza causale dell’eventuale inesatto adempimento (Sez. U, n. 577 del 2008, Segreto, Rv. 600903-01).

Anche la sussistenza del nesso causale tra l’inadempimento (o inesatto adempimento) e il danno era divenuta, come quella della colpa e della stessa condotta inadempiente, oggetto di una presunzione a carico del debitore, rispetto alla quale quest’ultimo era tenuto a fornire la prova contraria, residuando, in capo al creditore, oltre quello di mera allegazione, soltanto l’onere di provare il titolo del suo diritto e il pregiudizio subìto (Sez. 3, n. 15993 del 2011, Amendola, Rv. 619504-01; Sez. 3, n. 27855 del 2013, Amendola, Rv. 629769-01; Sez. 3, 20547 del 2014, Scrima, Rv. 632891-01; Sez. 3, n. 24073 del 2017, Olivieri, Rv. 645834-01).

3. Il rapporto di causalità quale elemento della fattispecie costitutiva del diritto al risarcimento e oggetto dell’onere probatorio del creditore.

Il regime di ripartizione dell’onere della prova dei requisiti costitutivi della fattispecie di responsabilità contrattuale delineato dalle Sezioni Unite appariva insoddisfacente sia sul piano dogmatico sia sul piano pratico.

Sul piano dogmatico, non appariva pienamente giustificata l’equiparazione di tale regime a quello degli altri rimedi posti a tutela del diritto di credito, atteso che nella domanda di adempimento o di risoluzione del contratto (art. 1453 c.c.), diversamente che in quella di risarcimento del danno (art.1218 c.c.), per un verso l’inadempimento non rientra tra i fatti costitutivi della pretesa (costituendo soltanto un presupposto logico della domanda), mentre, per altro verso, l’adempimento si caratterizza come fatto estintivo del diritto di credito e forma pertanto oggetto delle eventuali eccezioni del debitore, rientrando tra i fatti che egli ha l’onere di provare, ai sensi dell’art. 2697, comma 2, c.c.. Al contrario, nella domanda di risarcimento del danno contrattuale è l’inadempimento ad integrare, insieme al danno e al nesso causale, la vicenda fattuale costitutiva della fattispecie talché il trasferimento di tale vicenda dalla sfera dell’onere probatorio dell’attore (in cui rientra naturaliter in base all’art. 2697, comma 1, c.c.) in quella del convenuto, può trovare giustificazione soltanto nei principi di presunzione di persistenza del diritto e di vicinanza della prova. Ma tali principi, mentre possono essere invocati in relazione al fatto di inadempimento (essendo più agevole per il debitore dare la prova positiva del fatto estintivo dell’obbligazione che non, per il creditore, fornire la dimostrazione negativa della sua inesistenza), difficilmente possono trovare applicazione in relazione alla dimostrazione del nesso causale tra quel fatto e il danno che ne è conseguito: tanto il nesso causale “materiale” (intercorrente tra l’inadempimento e l’evento di danno) quanto il nesso causale “giuridico” (intercorrente tra l’evento lesivo e le sue conseguenze pregiudizievoli) integrano infatti elementi egualmente “distanti” da entrambi i soggetti del rapporto obbligatorio, talché non può ipotizzarsi a carico del debitore l’onere di fornire una prova liberatoria rispetto all’assenza del nesso di causa analoga a quella richiestagli in relazione all’esattezza dell’adempimento.

Sul piano pratico, la concreta applicazione del regime delineato dalle Sezioni Unite, produceva importanti conseguenze sia in ambito processuale che nella realtà socio-economica, le quali si facevano particolarmente apprezzare in relazione alle fattispecie di inadempimento delle obbligazioni professionali, tra cui figurano, con peculiare rilevanza, le ipotesi di responsabilità sanitaria.

In ambito processuale, avuto riguardo al carattere tecnico della prestazione e alla sovente necessità di ricorrere ad una consulenza tecnica per accertarne la puntuale esecuzione (e, conseguentemente, sia l’esattezza o meno dell’adempimento sia l’incidenza causale dell’eventuale inesatto adempimento), non era semplice stabilire dove finisse l’onere di allegazione (spettante al creditore) e dove iniziasse l’onere probatorio (spettante al debitore).

Nella realtà socio-economica, per effetto della posizione di eccezionale sfavore in cui era stato proiettato il debitore inadempiente (onerato di fornire la prova liberatoria della irrilevanza eziologica del suo inesatto adempimento) e della conseguente proliferazione, in sede giurisprudenziale, di pronunce di condanna emesse nei confronti delle strutture sanitarie e dei medici al risarcimento del danno in favore dei pazienti, si erano generati effetti negativi sia sulla spesa pubblica (cresciuta a dismisura per effetto dell’aumento degli oneri assicurativi) sia sulla tutela del diritto alla salute, messa in pericolo dal deprecabile fenomeno della cd. medicina difensiva.

Tali effetti, con specifico riguardo al settore medico, hanno indotto, come è noto, il legislatore a ricondurre la materia della responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie sotto una disciplina specifica (l. 8 marzo 2017, n.24), la quale, tra l’altro, con un’opinabile operazione di qualificazione giuridica - ritenuta tuttavia legittima dalla S.C., che ha affermato che la sussistenza del potere del giudice di procedere alla qualificazione dei fatti e dei rapporti giuridici e alla sussunzione degli stessi in una fattispecie legale già presente nell’ordinamento, non esclude la possibilità di riconoscere un omologo potere anche al legislatore, sempre che il suo esercizio non metta in discussione la tutela costituzionale essenziale dei diritti fondamentali che formano oggetto del rapporto medesimo (Sez. 3, n. 28994 del 2019, Valle, Rv. 655792-01) -ha assoggettato l’azione di risarcimento del danno esperita dal paziente nei confronti dell’esercente la professione sanitaria che opera all’interno della struttura alla disciplina della responsabilità extracontrattuale (art.7, comma 3, l. n. 24 del 2017), così consentendo l’adozione di un regime di riparto dell’onere della prova più favorevole al debitore.

Al di là dell’intervento del legislatore - e sempre prendendo le mosse da fattispecie di inadempimento dell’obbligazione professionale sanitaria, ma con l’affermazione di principi destinati ad operare anche al di fuori di tali fattispecie -la giurisprudenza di legittimità ha proceduto ad una operazione di “riequilibrio” del regime di distribuzione dell’onere probatorio del nesso causale nella responsabilità contrattuale.

In piena conformità al sistema delineato dal codice e desumibile dal combinato disposto della norma generale di cui all’art. 2697 c.c. e di quella speciale di cui all’art. 1218 c.c., è stato così affermato, e reiteratamente ribadito, il principio secondo cui nei giudizi di risarcimento del danno da responsabilità medica, è onere del paziente dimostrare l’esistenza del nesso causale, provando che la condotta del sanitario è stata, secondo il criterio del “più probabile che non”, causa del danno, sicché, ove la stessa sia rimasta assolutamente incerta, la domanda deve essere rigettata (Sez. 3, n. 29315 del 2017, Sestini, Rv. 646653 - 01; Sez. 3, n. 3704 del 2018, Tatangelo, Rv. 647948-01; Sez. 3, n. 20812 del 2018, Rv. 650417-01).

Quando il danneggiato abbia assolto a tale onere, spetta al convenuto dimostrare l’impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile, provando che l’inesatto adempimento è stato determinato da un impedimento imprevedibile ed inevitabile con l’ordinaria diligenza (Sez. 3, n. 18392 del 2017, Scoditti, Rv. 645164-01; Sez. 3, n. 26700 del 2018, Guizzi, Rv. 651166-01; Sez. 3, n. 27606 del 2019, Dell’Utri, Rv. 655640-02).

Il carattere generale di tali rimeditati principi è dimostrato dalla loro applicazione anche al di fuori delle obbligazioni sanitarie, avendo essi trovato operatività, ad es., in tema di responsabilità dello Stato ai sensi dell’art. 35 ter dell’Ordinamento penitenziario (Sez. 3, n. 31556 del 2018, Fiecconi, Rv. 651946) ed essendo stati da ultimo ribaditi -peraltro nell’ambito di un orientamento già precedentemente affermatosi - in tema di responsabilità dell’intermediario finanziario per i danni subìti dall’investitore (Sez. 1, n. 14335 del 2019, Amatore, Rv. 653890-01).

Il nesso causale, dunque, costituisce oggetto dell’onere probatorio spettante al creditore in quanto, come tutti gli elementi obiettivi della fattispecie di responsabilità contrattuale, integra un fatto costitutivo del diritto al risarcimento del danno.

L’onere di fornire la prova liberatoria - che grava sul debitore inadempiente o inesattamente adempiente e che scatta solo quando il creditore abbia provato gli elementi obiettivi della fattispecie posta a fondamento della domanda risarcitoria - si giustifica in ragione della presunzione di cui all’art. 1218 c.c. e concerne la dimostrazione dell’impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile; si tratta - in una prospettiva interpretativa conforme al dettato costituzionale che tiene conto dei criteri di normalità e ragionevolezza che improntano il vincolo obbligatorio e che dunque rifiuta di concepire una responsabilità per inadempimento estesa sino al limite dell’impossibilità oggettiva e assoluta - della prova dell’impedimento non prevedibile e non superabile con la diligenza ordinariamente richiesta in ordine al tipo di obbligazione assunta: in una parola, della prova dell’assenza di colpa.

4. Le obiezioni della dottrina e le possibili repliche.

Non ostante la piena conformità al sistema del codice, il rimeditato orientamento giurisprudenziale in tema di riparto dell’onere della prova sul nesso causale ha incontrato le critiche della dottrina, la quale ha formulato due obiezioni fondamentali.

In primo luogo, si è osservato che nella struttura dell’illecito contrattuale, diversamente che in quella dell’illecito extracontrattuale, non troverebbe spazio la causalità materiale, talché, in presenza di un inadempimento, il creditore non sarebbe tenuto a dimostrare il nesso di consequenzialità tra l’evento lesivo e la condotta negligente, imperita o imprudente del debitore, spettando a quest’ultimo l’onere di provare la vicenda estintiva del rapporto, a seguito di esatto adempimento o di impossibilità della prestazione per causa non imputabile.

Nella disciplina della responsabilità contrattuale, diversamente che in quella delittuale, ove il debitore non riesca a fornire la predetta prova liberatoria (e solo allora), si porrebbe, dunque, unicamente un problema di causalità giuridica, ovvero della quantificazione dell’entità del danno risarcibile ai sensi dell’art. 1223 c.c..

In secondo luogo, si è osservato che l’art. 1218 c.c. lascerebbe poco spazio alla colpa, evidenziandosi al riguardo, per un verso, che la diligenza nell’adempimento di cui all’art. 1176 c.c. andrebbe valutata in senso oggettivo e, per l’altro, che la nozione di caso fortuito non coinciderebbe con l’assenza di colpa, trattandosi di evento imprevedibile, inevitabile e invincibile del tutto estraneo alla condotta del debitore (A. Procida Mirabelli Di Lauro, in Danno e responsabilità, 2019, 2, 248 s.).

Entrambe le obiezioni si espongono ad agevoli repliche.

Alla prima si può rispondere che la distinzione tra responsabilità contrattuale e responsabilità extracontrattuale trova fondamento in una differenziazione ontologica che si riconduce alla natura dell’obbligo violato - specifico nella prima, generico nella seconda - cui conseguono le note differenze in riferimento alla disciplina, ma non si traduce in una distanza strutturale tale da escludere la necessaria presenza, in entrambe, dei requisiti costitutivi dell’illecito civile, atteso che in tanto può configurarsi un diritto al risarcimento in quanto una condotta contra ius abbia “cagionato” la lesione di un interesse meritevole di tutela.

Anche nell’illecito contrattuale, dunque, è dato distinguere strutturalmente i diversi requisiti del fatto (l’inadempimento), del danno (l’evento lesivo) e del nesso di causalità materiale (la relazione di causalità tra il fatto e l’evento di danno).

Diversamente opinando, si dovrebbe riconoscere alla fattispecie di responsabilità contrattuale una struttura monistica (costituita dal solo elemento dell’inadempimento) ma tale struttura non giustificherebbe la configurazione di un rimedio giudiziale (l’azione di risarcimento del danno) diverso dall’azione di adempimento e - limitatamente alle obbligazioni derivanti da contratti sinallagmatici - dall’azione di risoluzione del contratto. La circostanza che, invece, il rimedio risarcitorio possa sempre essere utilizzato unitamente agli altri due rimedi contro l’inadempimento (tra i quali invece sussiste un rapporto di alternatività: art. 1453 c.c.) dimostra che i presupposti dell’uno e degli altri rimedi sono diversi, richiedendosi, per quello risarcitorio, oltre l’inadempimento imputabile (cioè colpevole), anche il danno, che deve necessariamente essere legato all’inadempimento da rapporto di causalità materiale.

Il rilievo che il nesso di causalità che interessa la responsabilità contrattuale non è solo quello giuridico ma anche quello materiale, trova poi un’esplicita conferma positiva nel disposto dell’art. 1227, comma 1, c.c., che stabilisce una riduzione del risarcimento nell’ipotesi in cui il fatto colposo del creditore abbia concorso a “cagionare” il danno, ritenendosi tradizionalmente (v. già Sez. 3, n. 240 del 2001, Segreto, Rv. 543011-01) che tale disposizione, a differenza di quella contenuta nel secondo comma del medesimo articolo, si riferisca al “danno-evento” e non al “danno-conseguenza”.

Occorre infine aggiungere che la circostanza - affermata dalla prevalente dottrina e ormai incontroversa in giurisprudenza -che l’operatività dell’art. 1223 c.c. sia circoscritta ai ccdd. danni-conseguenze, non ridimensiona il problema del nesso causale e della relativa prova nella responsabilità contrattuale, poiché il creditore è pur sempre onerato della dimostrazione del rapporto di causalità giuridica, che intercorre tra l’evento lesivo (di cui dunque si conferma la sussistenza e che non può non essere legato da causalità materiale con l’inadempimento) e le conseguenze negative risarcibili; la dimostrazione del nesso di causalità giuridica deve essere fornita dal creditore in osservanza del precetto di cui all’art. 2697, comma 1, c.c. (in quanto elemento costitutivo del diritto al risarcimento), dunque prima che scatti, per il debitore, l’onere della prova liberatoria ai sensi dell’art. 1218 c.c..

Quanto alla seconda obiezione, è agevole rilevare che essa, nel riproporre la tesi della natura oggettiva della responsabilità contrattuale, aderisce ad una concezione risalente (G.Osti, Revisione critica della teoria sull’impossibilità della prestazione, in Riv. dir. civ., 1918, 209 e ss.; Id., Deviazioni dottrinali in tema di responsabilità per inadempimento delle obbligazioni, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1954, 593), le cui estreme ricadute, inconciliabili con i caratteri di normalità e ragionevolezza che improntano il vincolo obbligatorio (C.M. Bianca, Diritto civile 5, La responsabilità, Milano, 2012, 24) hanno formato oggetto già in passato di autorevoli tentativi di temperamento (E. Betti, Teoria generale delle obbligazioni, I, Milano, 1953, 107; F. Galgano, in Contratto e impresa, 1989, 32; E. Mengoni, Responsabilità contrattuale, in Enc. dir., XXXIX, 1988, 1072) e che è stato successivamente superato non solo nell’evoluzione del pensiero dottrinale (M. Giorgianni, L’inadempimento, Milano, 1975) ma anche - e principalmente - nel diritto vivente giurisprudenziale (C.M. Bianca, Diritto civile 5, La responsabilità, cit., 24-25; Id., Alla ricerca del fondamento della responsabilità contrattuale, in Riv. dir. civ., 2019, 1277 e ss.).

5. Le sentenze dell’11 novembre 2019 nn. 28991 e 28992 e la nuova rilevanza del nesso causale quale elemento distintivo strutturale di diverse fattispecie di responsabilità contrattuale in relazione al tipo di obbligazione.

I rilievi della dottrina sulla presunta mancanza del nesso di causalità materiale nella struttura dell’illecito contrattuale, benché tutt’altro che persuasivi, hanno tuttavia influenzato, in parte, le ultime decisioni della Suprema Corte.

Sempre in tema di inadempimento dell’obbligazione professionale medica, si è infatti bensì ribadito, da un lato, che, ove sia dedotta la responsabilità contrattuale del sanitario per inesatta esecuzione della prestazione di diligenza professionale e la lesione del diritto alla salute, è onere del danneggiato provare, anche a mezzo di presunzioni, il nesso di causalità tra l’aggravamento della situazione patologica (o l’insorgenza di nuove patologie) e la condotta del debitore inadempiente, mentre spetta a quest’ultimo dimostrare, ove il creditore abbia assolto il proprio onere probatorio, l’impedimento imprevedibile e inevitabile che ha determinato l’inesattezza adempitiva; ma si è anche specificato, dall’altro lato, che solo con riguardo alla responsabilità per inadempimento delle obbligazioni professionali, il danno evento consta della lesione non dell’interesse strumentale alla cui soddisfazione è preposta l’obbligazione (perseguimento delle leges artis nella cura dell’interesse del creditore), ma dell’interesse primario (che nelle obbligazioni mediche è costituito dal diritto alla salute) presupposto a quello contrattualmente regolato (Sez. 3, n. 28991 del 2019, Scoditti, Rv. 655828-01).

Con tale specificazione, la pronuncia in esame (e con essa la successiva pronuncia n. 28992 del 2019, non massimata) ha posto la distinzione, perspicuamente formulata nella motivazione, tra obbligazioni di dare o facere non professionale e obbligazioni di facere professionale.

La struttura pluralistica tradizionale della fattispecie di responsabilità contrattuale rimarrebbe concettualmente e funzionalmente integra soltanto nelle obbligazioni di facere professionale mentre verrebbe parzialmente meno nelle obbligazioni di dare e in quelle di facere non professionale.

In queste ultime, infatti, non sarebbe funzionalmente identificabile il danno-evento, quale elemento costitutivo autonomo derivante causalmente dall’inadempimento (causalità materiale), poiché l’evento lesivo, traducendosi nella lesione dell’interesse creditorio cui la prestazione deve corrispondere (art. 1174 c.c.) finirebbe per coincidere con l’inadempimento.

Di conseguenza, allegare l’inadempimento significherebbe già allegare il danno-evento che ne è derivato poiché entrambi si risolverebbero, in sostanza, nella mancata corrispondenza della prestazione all’interesse creditorio.

Ma poiché l’inadempimento non deve essere provato dal creditore, spettando al debitore la prova dell’adempimento, il danno-evento (la causalità materiale) rimarrebbe fuori dal tema di prova del creditore, il quale sarebbe chiamato a dimostrare soltanto la causalità giuridica, e cioè la sussistenza delle conseguenze pregiudizievoli (danni-conseguenze) cagionate dall’evento lesivo.

La causalità materiale tornerebbe invece ad assumere un’autonomia funzionale (e, dunque, a richiedere una specifica allegazione e una specifica prova) nelle fattispecie di inadempimento delle obbligazioni professionali, poiché in queste la lesione dell’interesse creditorio al diligente esercizio della professione nell’osservanza delle relative leges artis (lesione nella quale si traduce l’inadempimento) non concreta di per sé il danno-evento, che si integra soltanto con la lesione del (diverso) interesse primario del cliente (interesse alla guarigione, nell’obbligazione del medico; alla vittoria della causa, in quella dell’avvocato) cui l’interesse corrispondente alla prestazione rimasta inesattamente adempiuta era strumentale.

Solo nell’ambito di tali fattispecie di responsabilità, pertanto, il danno evento, quale lesione dell’interesse finale, costituirebbe un quid pluris rispetto all’inadempimento (lesione dell’interesse strumentale di cui all’art. 1174 c.c.) e sarebbe possibile dunque individuare tra i due requisiti costitutivi della fattispecie uno scollamento logico (ed eventualmente anche cronologico) che deve essere saldato dal nesso di causalità materiale.

Al contrario, nelle fattispecie di responsabilità per inadempimento delle obbligazioni di dare o di facere non professionale il danno evento non sarebbe autonomamente individuabile, in quanto non sarebbe ravvisabile la lesione di un interesse diverso da quello cui corrisponde la prestazione ex art. 1174 c.c., talché esso finirebbe per coincidere (logicamente e cronologicamente) con l’inadempimento, e cioè con una vicenda fattuale che esula dal tema di prova del creditore, per rientrare nel tema della prova liberatoria del debitore.

Alla luce di tali rilievi, si delineano, con riguardo alle due tipologie di obbligazioni, due fattispecie di responsabilità strutturalmente diverse in relazione alla diversa morfologia del rapporto di causalità.

Nella fattispecie di responsabilità per inadempimento delle obbligazioni di facere professionale, esso rapporto continua a scindersi nei due segmenti della causalità materiale e della causalità giuridica e di entrambi deve fornire la prova il creditore.

Nella fattispecie di responsabilità per inadempimento delle obbligazioni di dare o di facere non professionale, invece, il rapporto medesimo si esaurisce nel solo nesso di causalità giuridica, poiché non è ravvisabile un danno evento autonomamente configurabile rispetto al fatto di inadempimento, riducendosi conseguenzialmente l’area del tema di prova del creditore.

Il problema del nesso causale cessa, dunque, di costituire oggetto di una questione attinente soltanto alla ripartizione dell’onere della prova tra le due parti del rapporto obbligatorio e diviene una discriminate strutturale della fattispecie di responsabilità contrattuale, la cui morfologia muta al mutare della tipologia dell’obbligazione assunta.

Gli esaminati ultimi arresti della Suprema Corte presentano un forte impatto sistematico poiché si pongono in controtendenza rispetto all’evoluzione dottrinale e giurisprudenziale della teorica dell’inadempimento degli ultimi decenni, nella quale si era affermata una concezione della responsabilità contrattuale fondata sull’unicità della regola dettata dall’art. 1218 c.c., in quanto regola generale valevole per ogni tipo di obbligazione.

L’esigenza dell’unitarietà della disciplina trovava fondamento nel riscontro dell’unitarietà strutturale della fattispecie di responsabilità, la quale era generalmente costituita dai tre elementi obiettivi dell’inadempimento, del danno (nei due aspetti di danno evento e di danno conseguenza) e del nesso causale (nei due segmenti della causalità materiale e della causalità giuridica, governati da diverse regole di struttura e dalla medesima regola di funzione), nonché dall’elemento subiettivo dell’imputabilità dell’inadempimento medesimo.

In ragione di tale esigenza, si era pervenuti a disattendere, sotto il profilo della responsabilità, le tralatizie distinzioni tra le diverse tipologie di obbligazioni, in particolare quella tra obbligazioni di mezzi e di risultato, la quale, analogamente a quella tra obbligazioni specifiche e generiche, era stata mantenuta ed utilizzata solo ai fini della classificazione della prestazione e non anche ai fini dell’applicazione di diversi regimi di responsabilità, soggettiva per le prime e oggettiva per le seconde (v., ad es., Sez. U., n. 15781 del 2005, Elefante, Rv. 583089-01; Sez. 2, n. 28575 del 2013, Bursese, Rv. 629241-01).

Le nuove pronunce tornano invece ad introdurre una distinzione strutturale nella fattispecie di responsabilità contrattuale, fondata sulla diversa tipologia di obbligazione.

Si tratta, inoltre, di una distinzione strutturale più rilevante di quella tradizionalmente individuata tra le fattispecie di inadempimento delle obbligazioni specifiche e delle obbligazioni di mezzi e le fattispecie di inadempimento delle obbligazioni generiche e delle obbligazioni di risultato poiché, mentre in queste ultime la variazione strutturale riguardava l’elemento subiettivo della fattispecie, l’attuale distinzione attribuisce invece rilevanza all’elemento obiettivo del nesso causale, che si configura diversamente nelle due fattispecie, ampliandone o restringendone la composizione e producendo, conseguentemente, notevoli riflessi sull’ambito dei fatti che costituiscono oggetto dell’onere probatorio delle due diverse parti del rapporto obbligatorio.

I prossimi arresti della S.C. ci diranno se i principi affermati dalle sentenze nn. 28991 e 28992 del 2019 si consolideranno in un preciso indirizzo o se l’autonoma rilevanza del nesso di causalità materiale tornerà ad essere affermata, quale elemento generale della fattispecie unitaria della responsabilità contrattuale, anche con riguardo alle ipotesi di inadempimento delle obbligazioni non professionali, eventualmente in ragione della portata generale del già richiamato disposto dell’art. 1227, comma 1, c.c., nonché del rilievo logico che la prova del rapporto di causalità giuridica presuppone necessariamente l’individuazione, quale suo primo elemento, dell’evento lesivo, il quale intanto assume importanza quale causa delle conseguenze negative, in quanto costituisca a sua volta la conseguenza dell’inadempimento.

  • giurisdizione penale
  • azione civile
  • conflitto di giurisdizioni

XIII)

RAPPORTI TRA GIUDIZIO PENALE E GIUDIZIO CIVILE: IL PROBLEMA DELLA SCELTA DELLE REGOLE DI VALUTAZIONE DEL NESSO CAUSALE NEL GIUDIZIO DI RINVIO A SEGUITO DI ANNULLAMENTO DISPOSTO DALLA CASSAZIONE PENALE AI SOLI EFFETTI CIVILI AI SENSI DELL’ART. 622 C.P.P.

(di Irene Ambrosi )

Sommario

1 Le questioni di rilevanza nomofilattica enucleate nella nota del Presidente della Terza Sezione Civile. - 2 La decisione n. 15859 del 2019 della Terza Sezione Civile. - 2.1 Il quadro ordinamentale sull’esercizio dell’azione civile nel processo penale attraverso l’esame delle fonti normative di riferimento e i principi affermati dalla Corte costituzionale in materia. - 2.2 L’ambito applicativo dell’art. 622 cod. proc. pen. - 2.3 Le questioni prospettabili e le possibili tesi ricostruttive. - 3 La soluzione prescelta: il giudizio di rinvio ex art. 622 cod. proc. pen. come giudizio autonomo, sui generis, restituito alla sede sua propria. - 4 Il principio di autonomia del giudizio di rinvio ex art. 622 cod. proc. pen. nei più recenti arresti della giurisprudenza civile di legittimità.

1. Le questioni di rilevanza nomofilattica enucleate nella nota del Presidente della Terza Sezione Civile.

Con nota del 23 ottobre 2018, il Presidente della Terza Sezione Civile ha illustrato una serie di questioni “di rilevanza nomofilattica” che attengono alle regole applicabili nel giudizio di rinvio innanzi alla Corte d’appello civile a seguito di annullamento disposto dalla Corte di cassazione penale ai soli effetti civili ai sensi dell’art. 622 cod. proc. pen.

Le questioni possono così riassumersi:

- se al giudizio di rinvio ex art. 622 cod. proc. pen sia applicabile o meno la disciplina di cui agli artt. 392 e ss. cod. proc. civ.;

- se il giudice civile del rinvio sia vincolato o meno alle statuizioni contenute nella sentenza della Corte di cassazione penale;

- quale sia il criterio applicabile nel giudizio civile di rinvio, alla valutazione sulla sussistenza o meno del nesso causale (civile del “più probabile che non”), enunciato dalle Sezioni unite civili (68) o (penale dell’ “alta probabilità logica”) enunciato dalle Sezioni unite penali (69);

- se, in caso di sentenza penale irrevocabile di non doversi procedere per intervenuta estinzione del reato per prescrizione, il giudice civile del rinvio debba o meno rivalutare interamente il fatto, in via autonoma, tenendo conto di tutti gli elementi di prova acquisiti, nel rispetto del contraddittorio, in sede penale, coerentemente con quanto statuito dalle Sezioni unite civili nella sentenza n. 1768 del 2011 (70), circa la mancanza di efficacia extra penale della sentenza di non doversi procedere per prescrizione.

Nella nota del Presidente della Terza sezione civile si afferma che “la natura del giudizio di rinvio ex art. 622 cod. proc. pen. è quella di giudizio autonomo sia in senso strutturale sia funzionale, essendosi verificata una scissione tra le materie sottoposte a giudizio, mediante la restituzione dell’azione civile - con il giudizio di rinvio – all’organo giudiziario cui essa appartiene naturalmente” e che tale giudizio di rinvio soltanto formalmente costituisce una prosecuzione di quello penale, con la duplice conseguenza: per un verso che, sebbene sia tecnicamente regolato dagli artt. 392-394 cod. proc. civ., in esso non è configurabile un vincolo paragonabile a quello derivante dall’enunciazione del principio di diritto ex art. 384, comma 2, cod. proc. civ., e che l’eventuale principio di diritto affermato dalla Corte di cassazione penale non vincola il giudice civile del rinvio (71); per l’altro, che è del tutto estranea all’assetto del giudizio di rinvio ex art. 622 cod. proc. pen. la possibilità di applicazione di criteri e regole probatorie, quale quella dell’alta probabilità logica, tipiche della fase penale, esauritasi a seguito del rinvio.

Ciò si ritiene confermato sia dal fondamento sotteso all’art. 622 cod. proc. pen., individuato in quello di evitare ulteriori interventi del giudice penale ove non vi sia più nulla da accertare agli effetti penali, sia dall’oggetto del giudizio di rinvio, “costituito da una situazione soggettiva autonoma rispetto a quella posta a fondamento della doverosa comminatoria della sanzione penale. L’interesse civilistico e quello penalistico risultano avere in comune soltanto un fatto, quale presupposto del diritto al risarcimento a un lato, e del dovere di punire all’altro.”

Secondo questa impostazione, il rinvio della Corte di cassazione penale al giudice civile competente “non ha ad oggetto la mera restituzione dell’azione civile all’organo giudiziario a cui essa appartiene ma sembrerebbe operare una translatio della competenza funzionale del giudice penale a quello civile poiché rimette in discussione la res in iudicium deducta”.

Come esplicitato nell’incipit della richiamata nota, il nucleo essenziale del problema rilevato dalla Terza Sezione civile attiene alle regole di valutazione del nesso causale applicabili nei giudizi di rinvio a seguito di annullamento disposto dalla Cassazione penale ai soli effetti civili, ai sensi dell’art. 622 cod. proc. pen.

Il peculiare problema si è posto in quanto alcune pronunce della Quarta Sezione Penale (72), in casi di annullamento agli effetti civili di sentenze di assoluzione, con rinvio al giudice civile ai sensi dell’art. 622 cod. proc. pen., hanno affermato che nel successivo giudizio di rinvio ai fini dell’accertamento del nesso di causalità, il giudice civile è tenuto ad applicare le regole di giudizio del diritto penale - e, quindi, il criterio dell’ “elevato grado di credibilità razionale” enunciato dalle Sezioni unite Franzese - e non le distinte regole di giudizio consolidatesi nella giurisprudenza civile (ulteriormente divaricatesi da quelle penali per effetto della differenziata disciplina introdotta dal cd. decreto Balduzzi nel 2012 e dalla successiva cd. legge Gelli Bianco nel 2017 (73)), in quanto l’azione civile esercitata nel processo penale è quella per il risarcimento del danno patrimoniale o non, cagionato dal reato, ai sensi degli artt. art. 185 cod. pen. e art. 74 cod. proc. pen.

Con l’affermazione di tali principi, la giurisprudenza di legittimità civile rivendica al giudice civile del rinvio l’autonomia di valutazione dei fatti accertati nel processo penale, mediante l’applicazione dei criteri civilistici di valutazione delle prove.

Per fondare tale autonomia viene offerta, nella medesima nota, un’interpretazione che configura il giudizio di rinvio ai sensi dell’art. 622 cod. proc. pen. come un giudizio autonomo rispetto a quello penale, con la conseguenza che la Cassazione penale, nella sentenza che annulli con rinvio ai soli effetti civili ai sensi dell’art. 622 cod. proc. pen., non potrebbe porre vincoli al giudice di rinvio e che “l’eventuale enunciazione del principio di diritto da parte del giudice penale può considerarsi tamquam non esset nel giudizio civile”.

Affermazioni di analogo tenore a quelle contenute nella nota a firma del Presidente della Terza Sezione civile sono contenute anche in una recente sentenza della stessa sezione che – rigettando il ricorso per cassazione proposto avverso una sentenza di condanna al risarcimento dei danno pronunciata in sede di rinvio ex art. 622 cod. proc. pen. -ha espresso il principio di diritto così massimato dall’Ufficio del Massimario e del Ruolo della Suprema Corte: “In materia di rapporti tra processo penale e civile, la sentenza di proscioglimento dell’imputato per intervenuta prescrizione del reato, passata in giudicato, non esplica alcuna efficacia vincolante nel giudizio civile di danno, anche quando lo stesso si svolga nelle forme del giudizio di rinvio conseguente a quello penale, ex art. 622 c.p.p., giacché rispetto ad esso – sebbene regolato dagli artt. 392-394 c.p.c. – non è ipotizzabile un vincolo paragonabile a quello derivante dall’enunciazione del principio di diritto ex art. 384, comma 2, c.p.c.” (74).

Viene ritenuta, in particolare, la conseguente libertà del giudice civile «nella ricostruzione dei fatti e nella loro valutazione» e la conseguente, legittima applicazione del criterio civilistico del "più probabile che non" nella valutazione del nesso causale, in luogo di quello tipico del processo penale dell’alta probabilità logica (75).

In merito alle questioni poste dalla richiamata nota, l’Ufficio del Massimario e del Ruolo della Suprema Corte, su richiesta del Presidente aggiunto della Suprema Corte, ha redatto una relazione tematica depositata il 19 febbraio 2019 (76).

2. La decisione n. 15859 del 2019 della Terza Sezione Civile.

La Terza Sezione Civile con la pronuncia 12 giugno 2019 n. 15859 ha affrontato le questioni di rilevanza nomofilattica, affermando la piena autonomia di giudizio del giudice civile rispetto a quello penale attraverso il seguente principio di diritto, per come massimato dall’Ufficio del Massimario e del Ruolo della Corte di cassazione: “Nel giudizio civile di rinvio ex art. 622 c.p.p. si determina una piena "translatio" del giudizio sulla domanda civile, sicché la Corte di appello civile competente per valore, cui la Cassazione in sede penale abbia rimesso il procedimento ai soli effetti civili, applica le regole processuali e probatorie proprie del processo civile e, conseguentemente, adotta, in tema di nesso eziologico tra condotta ed evento di danno, il criterio causale del "più probabile che non" e non quello penalistico dell’alto grado di probabilità logica, anche a prescindere dalle contrarie indicazioni eventualmente contenute nella sentenza penale di rinvio.” (77).

La sentenza in esame ha esaminato, anzi tutto, il quadro ordinamentale sull’esercizio dell’azione civile nel processo penale, con riferimento ai principi enunciati dalla Corte costituzionale in tema di separatezza e di autonomia tra giudizio civile e penale; in secondo luogo, ha individuato l’ambito applicativo del giudizio di rinvio ex art. 622 cod. proc. pen. nonché le possibili tesi ricostruttive in merito alle questioni prospettate; infine ha illustrato la soluzione prescelta ovvero quella di un giudizio di rinvio ex art. 622 cod. proc. pen. come giudizio autonomo restituito alla sua sede naturale.

2.1. Il quadro ordinamentale sull’esercizio dell’azione civile nel processo penale attraverso l’esame delle fonti normative di riferimento e i principi affermati dalla Corte costituzionale in materia.

Nella decisione richiamata, anzi tutto il Collegio ha richiamato la disciplina dell’esercizio dell’azione civile nel processo penale evidenziando le radicali trasformazioni da essa subite nel passaggio dal codice di procedura penale del 1930 a quello del 1988, ispirati a principi profondamente diversi: mentre, nel precedente sistema inquisitorio, essa appariva improntata al principio della unitarietà della funzione giurisdizionale - e quindi del primato della giurisdizione penale e della sua pregiudizialità -nel novellato ordinamento processuale, ispirato al sistema accusatorio, si afferma il diverso principio della parità dei diversi ordini giurisdizionali e della sostanziale autonomia e separazione dei relativi giudizi.

Il nuovo codice di procedura penale - pur disattendendo la proposta di escludere tout court dal processo la possibilità di costituzione della parte civile, in quanto istituto storicamente coerente con sistemi processuali di tipo inquisitorio - ha previsto un assetto dell’azione civile nel processo penale profondamente diverso da quello del codice previgente, ispirandosi al principio della parità ed originarietà dei diversi ordini giurisdizionali e della separazione e dell’autonomia del giudizio civile rispetto a quello penale, eliminando la pregiudizialità necessaria del processo penale rispetto a quello civile di danno e ridimensionando notevolmente gli effetti della sentenza penale irrevocabile nel processo civile in cui venga proposta la domanda di risarcimento.

In primo luogo, la Corte richiama il dettato dell’art 75, comma 2, cod. proc. pen. ove si prevede, difatti, l’assoluta autonomia dell’azione civile rispetto al parallelo processo penale. Venuta meno la sospensione necessaria del processo civile fino alla pronuncia della sentenza penale irrevocabile, l’azione civile proposta innanzi al giudice civile prosegue in tale sede ove non venga trasferita nel processo penale alle condizioni previste dall’art. 75, comma 1, cod. proc. pen., e vengono distinti il ruolo della persona offesa dal reato - portatrice di un interesse penale finalizzato alla repressione del fatto criminoso - e quello del danneggiato dal reato che, costituendosi parte civile, mira soltanto al risarcimento dei danni cagionati dal reato (78).

In proposito, il Collegio osserva che, pur mantenendo intatta la possibilità della costituzione di parte civile, il codice del 1988 incentiva, nella sostanza, l’esercizio dell’azione civile nella sede sua propria, prevedendo, in tal caso, che, ove il processo penale si concluda con una sentenza irrevocabile di condanna, tale sentenza abbia efficacia di giudicato nel giudizio civile quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso (art. 651 cod. proc. pen.). Viceversa, lo stesso codice di rito esclude un’analoga efficacia della sentenza irrevocabile di assoluzione, la quale - grazie alla "clausola di salvaguardia" contenuta nella parte finale dell’art. 652, comma 1, cod. proc. pen. - non produce effetti nel giudizio civile ove l’azione civile sia stata proposta davanti al giudice civile prima della sentenza penale di primo grado, e non sia stata trasferita nel processo penale. Ai sensi dell’art. 652 cod. proc. pen., l’efficacia di giudicato nel giudizio civile di danno della sentenza irrevocabile di assoluzione è poi limitata all’accertamento che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto è stato compiuto nell’adempimento di un dovere o nell’esercizio di una facoltà legittima, e si esplica solo nei confronti del danneggiato che si sia costituito o sia stato posto in condizioni di costituirsi parte civile, e non abbia esercitato l’azione civile in sede propria ai sensi dell’art. 75, comma 2, cod. proc. pen.

Il Collegio rammenta, sul punto, che l’art. 652 cod. proc. pen. trova comunque applicazione nel solo caso di giudizio autonomamente instaurato innanzi al giudice civile, dal primo grado, e non anche nel caso di annullamento con rinvio al giudice civile competente per valore in grado d’appello ai sensi dell’art. 622 cod. proc. pen.: in quest’ultimo caso, infatti, la sentenza di assoluzione dell’imputato, annullata su ricorso della parte civile, pur restando ferma agli effetti penali, non produce effetti extra penali (79); in proposito, secondo l’insegnamento di una pressoché unanime dottrina, nei casi in cui sia prevista l’efficacia extra penale della sentenza penale irrevocabile ove non debba aver luogo la sospensione del processo civile, si afferma che la sentenza penale avrà efficacia nel giudizio civile soltanto ove il giudicato penale si formi in tempo utile per essere fatto valere in sede civile (con la conseguenza che, nel caso opposto, potrà solo utilizzarsi, ricorrendone i presupposti, il rimedio della revocazione di cui all’art. 395 cod. proc. civ.); infine, che l’art. 538, comma 1, cod. proc. pen. ha continuato a collegare (nonostante le contrarie proposte avanzate in sede di progetto preliminare) in via esclusiva la decisione sulla domanda della parte civile alla condanna dell’imputato ("... quando pronuncia sentenza di condanna, il giudice decide sulla domanda per le restituzioni e il risarcimento del danno, proposta a norma degli articoli 74 e seguenti").

In questa ottica, osserva la Corte, la condanna penale è, pertanto, l’indispensabile presupposto dell’accoglimento dell’azione civile: e il collegamento stabilito dall’art. 538 cod. proc. pen. tra la decisione sulle questioni civili e la condanna dell’imputato - che riflette il carattere accessorio e subordinato dell’azione civile proposta nel processo penale rispetto agli obiettivi propri dell’azione penale, che si focalizzano sull’accertamento della responsabilità ex delicto dell’imputato - è stato ritenuto dalla Corte costituzionale non in contrasto con gli artt. 3, 24 e 111 Cost., atteso che "l’impossibilità di ottenere una decisione sulla domanda risarcitoria, laddove il processo penale si concluda con una sentenza di proscioglimento per qualunque causa (salvo che nei limitati casi previsti dall’art. 578 cod. proc. pen.) costituisce uno degli elementi di cui il danneggiato deve tener conto nel quadro della valutazione comparativa dei vantaggi e degli svantaggi delle due alternative che gli sono offerte". In tale occasione, la Corte costituzionale ha avuto altresì occasione di affermare la compatibilità di tale assetto con il principio di ragionevole durata del processo, in quanto "la preclusione della decisione sulle questioni civili, nel caso di proscioglimento dell’imputato per qualsiasi causa - compreso il vizio totale di mente - se pure procrastina la pronuncia definitiva sulla domanda risarcitoria del danneggiato, costringendolo ad instaurare un autonomo giudizio civile, trova però giustificazione nel carattere accessorio e subordinato dell’azione civile proposta nell’ambito del processo penale rispetto alle finalità di quest’ultimo, e segnatamente nel preminente interesse pubblico (e dello stesso imputato) alla sollecita definizione del processo penale che non si concluda con un accertamento di responsabilità, riportando nella sede naturale le istanze di natura civile fatte valere nei suoi confronti. Ciò, in linea, una volta ancora, con il favore per la separazione dei giudizi cui è ispirato il vigente sistema processuale" (80). La Corte costituzionale - con una affermazione di sicuro rilievo per la fattispecie esaminata- ha ritenuto l’assoluta compatibilità del sistema nazionale con l’art. 16, paragrafo 1, della direttiva 25 ottobre 2012, n. 2012/29/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato, e stabilisce l’obbligo degli Stati membri di garantire alla vittima "il diritto di ottenere una decisione in merito al risarcimento da parte dell’autore del reato nell’ambito del procedimento penale entro un ragionevole lasso di tempo", trattandosi di obbligo "espressamente subordinato alla condizione che «il diritto nazionale [non] preveda che tale decisione sia adottata nell’ambito di un altro procedimento giudiziario» (81).

Tuttavia, con la sentenza penale di condanna, la domanda civile non necessariamente deve essere accolta, in quanto, ove il giudice ritenga non sussistere il danno dedotto (ovvero che tale danno non sia connesso al reato), egli rigetterà la domanda di parte civile: l’art. 538, comma 1, cod. proc. pen. prevede, difatti, che, quando pronuncia sentenza di condanna, il giudice "decide sulla domanda per le restituzioni e il risarcimento del danno", con disposizione innovativa rispetto al vecchio codice. In tal caso, la sentenza di condanna penale, pronunciando altresì sull’azione civile, ha efficacia preclusiva di un nuovo giudizio in sede sua propria - a meno che, nel successivo e autonomo giudizio civile, il danneggiato già costituitosi parte civile non faccia valere diverse e distinte ragioni di danno, ovvero rappresenti un petitum diverso da quello originario.

In caso di sentenza penale di assoluzione o di non doversi procedere, invece, il giudice non si pronuncia sull’azione civile, la quale potrà essere comunque riproposta nella sede sua propria, in quanto, a differenza che nel codice abrogato, il codice vigente non prevede formule di proscioglimento preclusive alla sua riproposizione, ma soltanto accertamenti ostativi, se fatti valere in sede civile, all’accoglimento del merito della domanda di chi si pretende danneggiato dal reato. L’art. 652 cod. proc. pen., infatti, a differenza dell’art. 25 del codice abrogato, non prevede, in caso di sentenza dibattimentale di assoluzione, il divieto di riproporre l’azione civile in sede propria, ma soltanto l’efficacia di giudicato, nel giudizio civile di danno, di taluni accertamenti contenuti nella sentenza irrevocabile di assoluzione nei confronti di chi sia costituito o sia stato posto in grado di costituirsi parte civile, e non abbia esercitato l’azione civile ai sensi dell’art. 75, comma 2, cod. proc. pen., cioè ab initio nella sede propria.

Sottolinea il Collegio, inoltre, che il codice di rito penale introduce, peraltro, una disposizione - di carattere eccezionale (82) rispetto alla regola secondo cui il giudice penale non si pronuncia sull’azione civile in caso di sentenza di proscioglimento - contenuta nell’art. 578 cod. proc. pen., a mente della quale, se è stata pronunciata condanna, anche generica, dell’imputato alle restituzioni o al risarcimento dei danni a favore della parte civile, il giudice di appello o la Corte di cassazione, nel dichiarare estinto il reato per amnistia o per prescrizione, decidono comunque sull’impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili. La norma, ispirata ad esigenze di economia processuale (cioè quella di evitare che il giudizio sulle restituzioni o il risarcimento debba ricominciare davanti al giudice civile quando nel processo penale, nel grado precedente, si sia ritenuta la sussistenza del reato e della responsabilità civile) prevede quindi un caso in cui, con la sentenza di proscioglimento (di non doversi procedere per estinzione del reato) il giudice penale si pronuncia anche sull’azione civile, confermando o revocando le statuizioni civili contenute nella sentenza impugnata.

Rammenta ancora come il codice del 1988 riconosca, all’art. 576, a differenza del codice abrogato, il potere della parte civile di impugnare (e quindi anche appellare) le sentenze di proscioglimento (83). In proposito, le Sezioni unite penali (Cass. Sez. un. 11 luglio 2006 n. 25083, Negri) hanno ritenuto che l’art. 576 cod. proc. pen. conferisca al giudice dell’impugnazione il potere di decidere sulla domanda al risarcimento e alle restituzioni pur in mancanza di una precedente statuizione sul punto, in quanto "il giudice dell’impugnazione ha, nei limiti del devoluto e agli effetti della devoluzione, i poteri che il giudice di primo grado avrebbe dovuto esercitare. Se si convince che tale giudice ha sbagliato nell’assolvere l’imputato, ben può affermare la responsabilità di costui agli effetti civili e (come indirettamente conferma il disposto di cui all’art. 622 cod. proc. pen.) condannarlo al risarcimento e alle restituzioni, in quanto l’accertamento incidentale equivale virtualmente - oggi per allora - alla condanna di cui all’art. 538, comma 1, cod. proc. pen., che non venne pronunciata per errore"; con la conseguenza che, ove l’impugnazione avverso la sentenza di proscioglimento sia stata proposta anche agli effetti penali, la Corte d’appello che dichiara l’estinzione del reato per prescrizione o amnistia può condannare l’imputato al risarcimento dei danni in favore della parte civile impugnante agli effetti civili.

Pertanto, il principio secondo cui lo stesso giudice penale può pronunciarsi sulla domanda risarcitoria o restitutoria solo in quanto contestualmente giudichi e accerti la sussistenza della responsabilità penale, alla quale consegue la statuizione sulla responsabilità civile, subisce (nonostante il contrario avviso di una dottrina e di una giurisprudenza minoritaria) una importante eccezione nel caso di accoglimento dell’impugnazione proposta dalla parte civile avverso la sentenza di proscioglimento, ai sensi dell’art. 576 cod. proc. pen.

Il Collegio evidenzia infine come l’art. 573 cod. proc. pen. preveda che "l’impugnazione per i soli effetti civili è proposta, trattata e decisa con le forme ordinarie del processo penale", e ciò anche se con essa non concorra alcuna impugnazione agli effetti penali (84).

Ricostruito il quadro normativo di riferimento, il Collegio ha richiamato due rilevanti principi affermati dalla Corte costituzionale con riguardo , da un lato, agli effetti “irreversibili” derivanti dalla scelta del danneggiato di esercitare l’azione civile nel processo penale (85) e, dall’altro, a quelli derivanti dall’assetto di separatezza tra giudizio civile e penale (86).

Il primo principio è quello secondo cui “l’inserimento dell’azione civile nel processo penale pone in essere una situazione in linea di principio differente rispetto a quella determinata dall’esercizio dell’azione civile nel processo civile anche ove si tratti di azione di restituzioni o di risarcimento dei danni derivanti da reato (cfr. sent. n. 108 del 1970), e ciò in quanto tale azione assume carattere accessorio e subordinato rispetto all’azione penale, sicché è destinata a subire tutte le conseguenze e gli adattamenti derivanti dalla funzione e dalla struttura del processo penale, cioè dalle esigenze, di interesse pubblico, connesse all’accertamento dei reati e alla rapida definizione dei processi” (87).

Il secondo principio affermato dalla Corte costituzionale chiarisce che “l’assetto generale del nuovo processo penale è ispirato all’idea della separazione dei giudizi, penale e civile”, essendo “prevalente, nel disegno del codice, l’esigenza di speditezza e di sollecita definizione del processo penale, rispetto all’interesse del soggetto danneggiato di esperire la propria azione nel processo medesimo” (88).

2.2. L’ambito applicativo dell’art. 622 cod. proc. pen.

La Terza Sezione Civile nella decisione in commento ha premesso che riguardo al giudizio sulla domanda risarcitoria, appare necessario distinguere, sul piano teorico, le due principali ipotesi di rinvio del giudice penale a quello civile ricomprese nell’ambito del meccanismo di rinvio sancito dall’art. 622 cod. proc. pen.

La prima ipotesi di annullamento si verifica quando il rinvio al giudice civile viene disposto a seguito dell’annullamento su ricorso della parte civile "ai soli effetti della responsabilità civile", ex art. 576 cod. proc. pen., della sentenza di assoluzione ("di proscioglimento", recita con formula più ampia l’art. 622), limitatamente agli effetti civili.

La seconda ipotesi si verifica quando il rinvio al giudice civile viene disposto:

a) a seguito dell’annullamento delle sole disposizioni o capi della sentenza penale di condanna dell’imputato che riguardano l’azione civile (su ricorso dell’imputato ex art. 574 cod. proc. pen. o della parte civile ex art. 576 cod. proc. pen.);

b) a seguito di condanna (pronunciata nel precedente grado di giudizio) anche generica alle restituzioni e al risarcimento dei danni: il giudice di appello e la Corte di cassazione, nel dichiarare estinto il reato per amnistia o prescrizione, decidono, in tal caso, sull’impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli effetti civili, ex art. 578 cod. proc. pen.

Il Collegio ha evidenziato che i due casi ricondotti alla seconda ipotesi di annullamento sono resi omogenei dal fatto che, a differenza della prima - ove l’annullamento ha ad oggetto ai fini civili la sentenza di assoluzione - l’annullamento ha ad oggetto le statuizioni civili della sentenza di condanna (o di non doversi procedere per estinzione del reato), e si differenziano a loro volta tra loro perché, mentre nel primo caso la sentenza penale di condanna, almeno agli effetti penali, passa in giudicato, nella seconda non si forma un giudicato penale di condanna.

La Corte ha richiamato il fondamento della disposizione de qua, come generalmente individuata nell’esigenza di far cessare la giurisdizione del giudice penale qualora l’accertamento penalistico debba ritenersi definitivamente compiuto, onde il giudizio di rinvio davanti al giudice civile possa celebrarsi secondo le regole (anche probatorie) proprie del processo civile, derogando alla regola, enunciata dall’art. 573 cod. proc. pen., secondo cui l’impugnazione per i soli interessi civili è proposta, trattata e decisa con le forme ordinarie del processo penale.

Ha rammentato in proposito le critiche osservazioni espresse dalla dottrina processualpenalistica in occasione dell’introduzione dell’art. 622 cod. pen. proc., la quale ha accusato il legislatore di essere incorso in un vero e proprio lapsus normativo equiparando, non coerentemente, due fattispecie del tutto eterogenee (quella dell’annullamento dei capi civili, ad esempio perché i danni risultano mal liquidati, e quella dell’accoglimento del ricorso della parte civile contro un proscioglimento) (89).

Ha rammentato ancora la rilevante decisione delle Sezioni unite penali della Cassazione (Sez. un. 18 luglio 2013, n. 40109, Sciortino) che ha ritenuto l’art. 622 cod. proc. pen. applicabile anche al caso di accoglimento del ricorso per cassazione proposto dall’imputato avverso la sentenza con cui il giudice di appello, dichiarando non doversi procedere per intervenuta prescrizione del reato (o per intervenuta amnistia), abbia confermato le statuizioni civili senza motivare, a tal fine, in ordine alla responsabilità dell’imputato; in tal modo risolvendo il contrasto sorto nella giurisprudenza di legittimità, che si era pronunciata talvolta a favore dell’annullamento con rinvio al giudice penale, altre volte per l’applicabilità tout court dell’art. 622 cod. proc. pen., e affermando espressamente che «il tema proposto involge scelte di sistema attinenti ai rapporti tra azione civile ed azione penale nell’attuale assetto codicistico, ispirato al favor separationis; al contempo, comporta ricadute immediate sull’ampiezza della tutela riconosciuta alla parte civile, attese le diverse forme del giudizio di rinvio, a seconda che esso sia disposto verso il giudice civile ovvero verso il giudice penale, con le consequenziali, diverse regole procedimentali e probatorie» (90).

Questa prospettiva adottata dalle Sezioni unite penali nel 2013 è posta in correlazione con quella analoga adottata dalle Sezioni Unite civili nel 2011 in punto di applicabilità, nel giudizio cd. "di rinvio", delle regole del giudizio civile, tanto processuali quanto (e soprattutto) probatorie (Sez. un, 26 gennaio 2011, n. 1768) che, a loro volta, risolvendo un contrasto giurisprudenziale, avevano affermato come la sentenza di proscioglimento dell’imputato per intervenuta prescrizione o amnistia del reato non esplica alcuna efficacia vincolante extra penale nel giudizio di rinvio, con la conseguenza che «in tal caso il giudice civile, pur tenendo conto degli elementi di prova acquisiti in sede penale , deve interamente ed autonomamente rivalutare il fatto in contestazione» (91).

2.3. Le questioni prospettabili e le possibili tesi ricostruttive.

La sentenza in esame passa in rassegna otto diverse di questioni che possono insorgere in conseguenza dei vincoli, processuali e probatori, posti dalla Cassazione penale al giudice civile in sede di rinvio.

La prima attiene all’oggetto del processo, considerato che il diritto al risarcimento dei danni è un diritto eterodeterminato (Cass. Sez. un., 27 dicembre 2010 n. 26128), sicché l’identificazione della domanda è conseguenza esclusiva dell’individuazione del petitum e della causa petendi.

La seconda afferisce al rapporto tra l’azione civile esercitata nel processo penale ed i fatti costitutivi del diritto al risarcimento del danno - individuati, in quella sede, con esclusivo riferimento al reato oggetto dell’esercizio dell’azione penale.

La terza ha riguardo alla rilevanza, sul piano probatorio, dell’attività difensiva svolta dalle parti nel processo penale, destinata a dipanarsi in relazione agli elementi della responsabilità penale dell’imputato: all’esito della trasmigrazione del procedimento dalla sede penale a quella civile, diverso è l’ambito entro cui l’attività difensiva verrebbe a svolgersi, ove fosse consentito alle parti di trattare le relative questioni (e al giudice del rinvio di deciderle) in base alla prospettazione del fatto sotto il profilo non del reato, ma dell’illecito civile ex art. 2043 e ss..

La quarta, collegata alla precedente, pone l’interrogativo se l’istituto dell’annullamento deciso dalla cassazione penale "solo" agli effetti civili consenta che il fatto storico perda la sua originaria connessione con il reato per riacquistare il carattere di illecito civile, e seguire conseguentemente i canoni probatori propri di quel processo, con particolare riguardo alla fattispecie del nesso causale.

La quinta ha riguardo al rapporto tra l’illecito civile e i reati a condotta vincolata. Nell’azione civile esercitata nel processo penale, la fattispecie posta a fondamento del diritto al risarcimento del danno è quella prevista dalla norma incriminatrice, che, in caso di reati a condotta vincolata, deve presentare le specifiche modalità previste dalla norma penale. In particolare, ove l’azione civile esercitata nel processo penale abbia ad oggetto il risarcimento del danno causato da un reato a condotta vincolata, si pone il problema se, nel giudizio di rinvio innanzi al giudice civile competente per valore in grado d’appello, possano essere fatte valere (e il giudice possa accogliere la domanda sulla base di) modalità della condotta diverse da quelle tipizzate dalla norma penale, che pacificamente rilevino, invece, ai sensi dell’art. 2043 cod. civ.

La sesta pone l’interrogativo circa la difforme valutazione dell’elemento soggettivo dell’illecito ove l’azione civile sia stata esercitata in un processo penale per un reato doloso e la legge penale non preveda espressamente la punibilità del fatto anche a titolo di colpa (come, ad esempio, per il reato di danneggiamento): in tali ipotesi, ci si interroga se, nel giudizio civile di rinvio ex art. 622 cod. proc. pen., possa essere fatto valere il (e il giudice possa accogliere la domanda sulla base del) diverso elemento soggettivo della colpa, perfettamente fungibile con quello del dolo nell’illecito civile, a differenza che per i delitti (art. 42, comma 2, cod. pen.). Ed ancora, nel diverso caso in cui il processo penale abbia avuto ad oggetto un reato colposo, si pone la speculare questione se, nel giudizio civile di rinvio, l’elemento soggettivo della colpa sia omologo o meno all’elemento soggettivo del reato (cioè se la nozione di colpa civile sia sovrapponibile alla nozione di colpa penale).

La settima si pone con riguardo all’ipotesi di azione civile esercitata nel processo penale per un reato colposo qualora, nel giudizio di rinvio innanzi al giudice civile, la domanda di risarcimento venga formulata in base ad un diverso titolo di responsabilità, diverso da quella generale per colpa di cui all’art. 2043 cod. civ., come nelle ipotesi di cui agli artt. 2048 e ss. cod. civ.

L’ottava, infine, pone l’interrogativo se la sussistenza di una causa di non punibilità prevista dalla legge penale (in tema di responsabilità dell’esercente la professione sanitaria, quella prevista dall’art. 590-sexies, secondo comma, cod. pen.) precluda o meno l’accoglimento della domanda risarcitoria in sede civile (92).

Infine, su di un piano strettamente processuale, il Collegio sottolinea che l’orientamento largamente prevalente della giurisprudenza civile di legittimità, ritenendo applicabile al giudizio di rinvio ex art. 622 cod. proc. pen. la disciplina di cui agli artt. 392 e segg. cod. proc. civ., esclude che in tale giudizio le parti possano svolgere nuova attività assertiva o probatoria in ragione della sua natura cd. "chiusa" (93).

Osserva la Corte che la soluzione delle enumerate questioni dipende in larga misura dalla configurazione strutturale e funzionale del giudizio di rinvio ex art. 622 cod. proc. pen., in ordine alla quale richiama tre diversi orientamenti, tra loro alternativi.

Un primo orientamento considera tale giudizio come prosecuzione stricto iure di quello penale, con la conseguenza, tra le altre, che il danneggiato non potrà far valere in questa fase fatti costitutivi diversi da quelli che integrano la fattispecie di reato contestata in sede penale. Su tale premessa si fondano le argomentazioni della più recente giurisprudenza penale di legittimità, più volte ricordata, secondo cui "l’azione civile che viene esercitata nel processo penale è quella per il risarcimento del danno, patrimoniale o non, cagionato dal reato, ai sensi degli artt. 185 c.p. e 74 c.p.p., con la conseguenza che, nella sede civile, la natura della domanda non muta: si dovrà, cioè, valutare incidentalmente l’esistenza di un fatto di reato in tutte le sue componenti obiettive e subiettive (94).

Una seconda tesi ricostruisce il giudizio di rinvio ex art. 622 in termini di procedimento autonomo su di un piano tanto morfologico quanto funzionale, sicché, a seguito dell’annullamento ai soli effetti civili, si realizzerebbe una scissione strutturale tra giudizi ed una divaricazione funzionale tra materie a seguito della "restituzione" dell’azione civile così ripristinata all’organo giudiziario cui essa appartiene naturalmente. Soltanto formalmente sarebbe lecito discorrere, pertanto, di una "prosecuzione" del giudizio, mentre neanche su di un piano formale appare legittimo qualificarla come continuazione del giudizio penale, il giudizio di rinvio svolgendosi solo tecnicamente secondo la disciplina dettata dagli artt. 392-394 cod. proc. civ (95). civ. può riguardare anche uno o entrambi gli elementi oggettivi della stessa ("petitum" e "causa petendi"), sempre che la domanda così modificata risulti comunque connessa alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio e senza che, perciò solo, si determini la compromissione delle potenzialità difensive della controparte, ovvero l’allungamento dei tempi processuali. Ne consegue l’ammissibilità della modifica, nella memoria ex art. 183 cod. proc. civ., dell’originaria domanda formulata ex art. 2932 cod. civ. con quella di accertamento dell’avvenuto effetto traslativo.” Sez. un, 15 giugno 2015, n. 12310, Rv. 635536 – 01. Da ultimo, in senso conforme, per l’ammissibilità della modificazione dell’originaria domanda risarcitoria, formulata da un investitore nei confronti dell’intermediario finanziario, in quella di risoluzione per inadempimento, tenuto conto che entrambe le richieste riguardavano la stessa operazione di compravendita titoli ed erano fondate sull’allegazione dei medesimi comportamenti inadempienti dell’intermediario v. Sez. VI - I, 25 maggio 2018, n. 13091 Rv. 649542 - 01, in tema di ammissibilità della sostituzione della domanda di adempimento di obbligazione contrattuale con quella di ingiustificato arricchimento v. Sez. un., 13 settembre 2018, n. 22404, Rv. 650451 - 01.

Un terzo orientamento, intermedio tra i primi due, è infine quello (suggestivamente prospettato in dottrina) secondo il quale, da un canto, il giudizio di rinvio sarebbe "vicenda autonoma rispetto al processo penale, non rappresentandone - sia pure ai fini della sola statuizione sugli effetti civili - la prosecuzione avanti alla giurisdizione ordinaria civile, successivamente alla intervenuta fase di cassazione in sede penale" e pertanto "dotata di autonomia strutturale e funzionale essendosi verificata una scissione tra le materie sottoposte a giudizio mediante il ritorno dell’azione civile alla cognizione del suo giudice naturale"; dall’altro, tuttavia (ma non del tutto coerentemente con la premessa strutturale), "il giudice civile dovrebbe uniformarsi al principio di diritto contenuto nella pronuncia penale di legittimità, e ciò perché egli è investito della controversia esclusivamente entro i limiti segnati dalla sentenza di cassazione e dalle questioni da essa decise, secondo il combinato disposto degli artt. 384, secondo comma e 143 disp.att. c.p.c.)". La sentenza della Cassazione penale "vincolerebbe, pertanto, il giudice di rinvio non solo in ordine al principio di diritto affermato, ma anche quanto alle questioni di fatto costituenti il presupposto necessario ed inderogabile della pronuncia" (96).

Ritiene il Collegio che l’adozione della prima tesi come, sul piano procedurale, l’adozione della terza, risolverebbe tout court le questioni sopra elencate, escludendone in radice la rilevanza, mentre la seconda ne impone inevitabilmente l’esame, rimuovendosi, con essa, i limiti connessi alla collocazione originaria dell’azione civile in seno al processo penale.

3. La soluzione prescelta: il giudizio di rinvio ex art. 622 cod. proc. pen. come giudizio autonomo, sui generis, restituito alla sede sua propria.

In ordine ai rapporti tra l’azione penale e quella civile, il Collegio evidenzia che il fondamento della scelta compiuta dal legislatore ex art. 622 cod. proc. pen. nel rimettere le parti dinanzi al giudice civile ben può essere ravvisato nella presa di coscienza del dissolvimento delle ragioni che avevano originariamente giustificato il sacrificio dell’azione civile alle ragioni dell’accertamento penale, a seguito della costituzione di parte civile. In tal modo, la scelta legislativa ha privilegiato il ritorno dell’azione civile alla sede sua propria, e discorrendo di una forma di ‘rinvio’ (quello di cui all’art. 622 c.p.p.) la cui natura, tuttavia, solo formalmente (attesane l’infungibilità lessicale) evoca i principi propri di quel giudizio, ma che non può in alcun modo configurarsi alla stregua di una ‘prosecuzionÈ del processo penale (ogni interesse penalistico dovendosi ritenere ormai definitivamente dissolto), bensì alla stregua di giudizio autonomo (benché sui generis), sia in senso strutturale che funzionale, essendosi realizzata la definitiva scissione tra le materie sottoposte a giudizio, mediante la restituzione dell’azione civile - con il giudizio di ‘rinvio’, che più opportunamente andrebbe definito di rimessione - all’organo giudiziario cui essa appartiene naturalmente (in proposito, non appare senza significato che autorevole dottrina abbia prospettato l’esigenza di riflettere, de iure condendo, sull’opportunità di lasciare alla competenza del giudice penale anche il giudizio di rinvio ai soli effetti civili, in linea con la strada suggerita dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 29 del 1972: soluzione, questa, che avrebbe l’indubbio pregio di ricondurre a coerenza il sistema, al pari di quella, affatto speculare, e pure adombrata in dottrina e nei lavori preparatori del codice di rito penale, di escludere tout court la parte civile dal processo penale) (97).

Afferma il Collegio che si è dunque al cospetto, giusta il disposto dell’art. 622 cod. proc. pen. così correttamente interpretato, di una sostanziale, definitiva ed integrale translatio iudicii dinanzi al giudice civile, con la conseguenza che rimane del tutto estranea all’assetto del giudizio di rinvio la possibilità di applicazione di criteri e regole probatorie, processuali e sostanziali, tipici della fase penale esauritasi a seguito della pronuncia della Cassazione, atteso che la funzione di tale pronuncia, al di là della restituzione dell’azione civile all’organo giudiziario cui essa naturaliter appartiene, è limitata a quella di operare un trasferimento della competenza funzionale dal giudice penale a quello civile, essendo propriamente rimessa in discussione la res in iudicium deducta, nella specie costituita da una situazione soggettiva ed oggettiva del tutto autonoma (il fatto illecito) rispetto a quella posta a fondamento della doverosa comminatoria della sanzione penale (il reato), attesa la limitata condivisione, tra l’interesse civilistico e quello penalistico, del solo punto in comune del “fatto” (e non della sua qualificazione), quale presupposto del diritto al risarcimento, da un lato, e del dovere di punire, dall’altro.

Rilevanti, inoltre, le osservazioni svolte dalla Terza Sezione civile sulla necessità che la questione dei limiti processuali imposti dalla natura cd. chiusa del giudizio di rinvio ex art. 394 comma 3 cod. proc. civ. possa essere rimeditata.

Osserva il Collegio in proposito che la morfologia di questo giudizio di rinvio, ricostruita in termini di autonomia strutturale e funzionale rispetto al processo penale ormai conclusosi, consente di ritenere legittima, oltre alla possibilità di formulazione di nuove conclusioni sorte in conseguenza di quanto rilevato dalla sentenza di cassazione penale, anche l’emendatio della domanda ai fini della prospettazione degli elementi costitutivi dell’illecito civile, sia pur nei limiti del sistema generale delle preclusioni fissato dall’art. 183 cod. proc. civ., alla luce del recente insegnamento delle sezioni unite di questa Corte che in diversi casi ha ritenuto ammissibile la modificazione dell’originaria domanda (98). Nello specifico, l’emendatio della domanda potrà essere legittimamente proposta dal danneggiato ed altrettanto legittimamente esaminata dal giudice, stante la disciplina del codice di rito penale che, con riferimento alle formalità della costituzione di parte civile, impone modalità contenutistiche e formali sostanzialmente omologhe a quelle previste dal codice di rito civile per il contenuto della citazione - analogamente a quanto si legge all’art. 163, comma 3, n. 4 cod. proc. civ., nel codice di rito penale viene previsto sia che la dichiarazione di costituzione contenga, tra l’altro, "l’esposizione delle ragioni che giustificano la domanda" (art. 78, comma 1, lett. d) cod. proc. pen.), sia che la citazione del responsabile civile contenga la specifica "indicazione delle domande che si fanno valere" nei suoi confronti (art. 83, comma 3, lett. b). Pertanto, per un verso, si prevede la precisazione della causa petendi al momento della costituzione di parte civile, per l’altro, si sancisce l’obbligo per la parte civile di precisare il petitum depositando conclusioni scritte comprendenti, se è richiesto il risarcimento, anche la determinazione del suo ammontare (art.523 comma 2 c.p.p.).

Inoltre, a parere della Corte, dovrà parimenti ritenersi ammessa, in sede di giudizio dinanzi alla Corte d’appello in unico grado, una eventuale, diversa valutazione dell’elemento soggettivo (colpa anziché dolo) ed una eventuale, diversa qualificazione del titolo di responsabilità ascritta al danneggiante, ove i fatti costitutivi posti a fondamento dell’atto di costituzione di parte civile siano gli stessi che il giudice di appello è chiamato ad esaminare. La tutela del diritto di difesa del danneggiante sarà, in tal caso, garantita dal disposto dell’art. 101 comma 2 c.p.c., poiché, in presenza di una rilevazione officiosa del giudice, gli sarà consentito il deposito di memorie contenenti osservazioni sulla questione a seguito della riserva di decisione prevista dalla norma citata, così operandosi un equo bilanciamento tra le contrapposte posizioni di chi non abbia spiegato tutte le necessarie difese in sede penale, e di chi, di converso, si vede sottratto un grado di giudizio per far valere il proprio diritto risarcitorio.

Osserva ancora il Collegio che, pur nella sostanziale consonanza delle regole di enunciazione del "principio di diritto" (nel sistema processuale penale e civile) indirizzate al giudice del rinvio perché ad esse si uniformi (art. 173, comma 2, disp. att. cod. proc. pen. e art. 384 cod. proc. civ.), esse tuttavia presuppongono che di vero e proprio giudizio di rinvio si tratti, e non risultano applicabili allorquando, come nella specie, l’azione civile si sia ormai affrancata dal giudizio penale in ragione della scissione determinatasi a seguito della valutazione compiuta dal giudice penale che, chiusa la fase penale e "fermi gli effetti penali della sentenza", rimette ai soli effetti civili la cognizione del giudice civile competente in grado di appello. Del resto, la Corte sottolinea che offre ulteriore conforto alla soluzione predicativa della valenza soltanto lessicale dell’espressione "rinvio al giudice civile" la considerazione che non è consentito al giudice penale, nel sistema vigente - ispirato al principio di separazione dei processi e all’indipendenza dei giudicati -di decidere anche sulle domande civili quando prosciolga l’imputato, tenuto conto che gli accertamenti al riguardo sarebbero del tutto impropri, perché compiuti da un giudice penale che, dovendo prosciogliere, rimane privo di competenza sull’azione civile.

Il Collegio osserva, peraltro, che se, nel processo penale, a differenza che in quello civile, la parte civile può legittimamente rendere testimonianza, in mancanza di una norma speculare a quella dell’art. 246 cod. proc. civ, e tale testimonianza può essere sottoposta al cauto e motivato apprezzamento del giudice penale, che può fondare la sentenza di condanna anche soltanto su di essa, l’efficacia probatoria di tale atto processuale deve essere vagliata alla stregua delle regole processuali del codice di rito civile.

Dalle argomentazioni che precedono pertanto il Collegio non ritiene conforme l’orientamento della Cassazione civile che, in passato, ha ritenuto che la testimonianza resa dalla parte civile nel processo penale conservi il suo valore anche quando, con l’accoglimento del ricorso della parte civile contro la sentenza di proscioglimento dell’imputato, il solo processo civile prosegua dinanzi al giudice di rinvio, fondando tale convincimento sull’erroneo presupposto secondo il quale, in tal caso, continuerebbero ad applicarsi, in parte qua, le regole proprie del processo penale, e la deposizione giurata della parte civile, ormai definitivamente acquisita, andrebbe esaminata dal giudice del rinvio esattamente come avrebbe dovuto esaminarla il giudice penale se le due azioni non si fossero occasionalmente separate (99) . Viceversa, deve ritenersi illegittima l’eventuale ricostruzione del fatto dannoso - ovvero qualsiasi eventuale riconoscimento di efficacia probatoria - che faccia riferimento alle dichiarazioni rese in sede penale, in veste di testimone, dalla parte civile. Una diversa interpretazione si porrebbe, difatti, in aperto contrasto con il principio che vincola il giudice del rinvio ex art. 622 c.p.p. al rispetto dei canoni sostanziali e processuali propri del giudizio civile, tra cui quello di cui all’art. 246 c.p.c., ai sensi del quale "non possono essere assunte come testimoni le persone aventi nella causa un interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio".

Quanto alle prove dichiarate inutilizzabili nel processo penale che secondo un orientamento della Cassazione penale sono state ritenute non utilizzabili nel giudizio civile (100), il Collegio ritiene che a tale principio non può darsi alcun seguito e va condiviso, viceversa, altro orientamento della Cassazione civile sul punto che, seppure con riguardo ad un giudizio civile autonomamente instaurato e non proveniente da un annullamento con rinvio ex art. 622 cod. proc. pen., ha condivisibilmente affermato che, nell’ordinamento processualcivilistico, mancando una norma di chiusura sulla tassatività tipologica dei mezzi di prova, il giudice può legittimamente porre a base del proprio convincimento anche prove cosiddette atipiche, purché idonee a fornire elementi di giudizio sufficienti, se ed in quanto non smentite dal raffronto critico con le altre risultanze del processo (101).

In base al principio del libero convincimento, pertanto, il giudice civile può autonomamente valutare, nel contraddittorio tra le parti, ogni elemento dotato di efficacia probatoria e, dunque, anche le prove raccolte in un processo penale e, segnatamente, le dichiarazioni verbalizzate dagli organi di polizia giudiziaria in sede di sommarie informazioni testimoniali. In tale contesto, deve ritenersi che il giudice civile possa trarre elementi di convincimento – sempre che li sottoponga ad adeguato vaglio critico - anche dalle dichiarazioni c.d. autoindizianti rese da un soggetto in un procedimento penale, non potendo la sanzione di inutilizzabilità prevista dall’art. 63 cod. proc. pen., posta a tutela dei diritti di difesa in quella sede, spiegare effetti al di fuori del processo penale. L’utilizzabilità, difatti, è categoria del solo rito penale, ignota al processo civile, e le prove precostituite, quali gli stessi documenti provenienti da un giudizio penale, entrano legittimamente nel processo, attraverso la produzione e nella decisione in virtù di un’operazione di logica giuridica, e tali risultanze probatorie appaiono contestabili solo se svolte in contrasto con le regole, rispettivamente, processuali o di giudizio, che vi presiedono (102).

Il Collegio condivide inoltre l’orientamento di legittimità secondo il quale, con specifico riferimento ai poteri di valutazione delle risultanze probatorie riservati al giudice di merito, l’obbligo di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale (imposto dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo con la sentenza 21 settembre 2010, Marcos Barrios/Italia, in relazione all’art. 6, par. 1 della Convenzione EDU) si impone soltanto in ambito penalistico ogni qualvolta si intenda riformare la sentenza assolutoria di primo grado in ossequio della regola di giudizio "al di là di ogni ragionevole dubbio" e della garanzia costituzionale della presunzione di non colpevolezza di cui all’art. 27, comma secondo, Cost., ma non è applicabile ai giudizi risarcitori civili, governati - in tema di accertamento del nesso causale tra condotta illecita e danno - dalla diversa regola probatoria del "più probabile che non", e ciò tanto più ove venga richiesta in appello l’affermazione della responsabilità del presunto danneggiante (nella specie, responsabilità da circolazione stradale) negata dal giudice di primo grado (103).

Sottolinea, pertanto, la Corte che il giudice civile, in sede di rinvio, nell’apprezzare integralmente l’istruzione probatoria compiuta in sede penale, possa porla a fondamento della propria decisione quale prova atipica - sia se raccolta in contraddittorio tra le stesse parti in virtù del principio dell’unità della giurisdizione (ad esempio, la deposizione di un testimone ovvero le risultanze di una consulenza tecnica assunte in dibattimento) - sia allorquando il dibattimento sia mancato, ponendo in tal caso come condizione la rituale acquisizione in giudizio della relativa documentazione al fine di trarne oggetto di valutazione delle parti (ad esempio, quando l’imputato abbia scelto un rito alternativo ovvero sia rilevante apprezzare il contenuto delle sommarie informazioni assunte nel corso delle indagini preliminari), per poi -in entrambi i casi- sottoporla a vaglio critico, svincolato dalla valutazione fornita dal giudice penale, senza che rilevino le peculiari regole in materia di ammissione e di assunzione delle prove relative al diverso ambito penalistico nel quale sono state assunte risultando il principio del libero convincimento, così inteso, in piena armonia con le implicazioni sottese al principio di parità che governa nel sistema processuale vigente i rapporti tra il processo penale e quello civile.

Il Collegio, infine, sottolinea che a non diversa soluzione deve giungersi quanto all’individuazione delle regole probatorie applicabili in tema di nesso causale.

Il nodo da sciogliere è il seguente:

se, ai fini dell’accoglimento della domanda di risarcimento del danno, nel giudizio di rinvio debbano continuare ad applicarsi le regole processuali penali che hanno governato il processo fino all’annullamento da parte della Corte di cassazione - con la conseguenza che l’an della responsabilità debba essere accertato secondo il canone dell’aldilà di ogni ragionevole dubbio (così come avviene nel giudizio penale d’impugnazione avverso la sentenza di proscioglimento impugnata dalla sola parte civile)

-ovvero se, una volta separata la res iudicanda penale da quella civile, a quest’ultima possano applicarsi le regole processuali civili, con la conseguente sufficienza di un minor grado di certezza in ordine alla sussistenza degli elementi costitutivi dell’illecito, secondo il canone civilistico del "più probabile che non", trova appagante soluzione nella stessa premessa posta in ordine alla natura del giudizio di rinvio.

Secondo la Corte, alla luce degli stessi criteri di ragionevolezza, di effettività della tutela e di bilanciamento di interessi più volte affermati dal Giudice delle leggi e dalle Corti sovranazionali, non appare conforme a diritto vincolare il giudizio civile alle regole processuali penali, imponendo un trattamento differenziato a seconda che la pretesa civile della persona offesa venga azionata nel processo penale oppure in quello civile, una volta che il primo abbia definitivamente esaurito la sua funzione.

Trattamento differenziato che, a parere del Collegio, potrebbe, oltretutto, determinare effetti paradossali nel caso in cui due persone danneggiate dallo stesso fatto illecito (danno parentale per uccisione di un congiunto) scelgano l’una di costituirsi parte civile nel giudizio penale e l’altra di esercitare l’azione di risarcimento dei danni in quello civile. In tale caso, all’esito del rinvio al giudice civile ex art. 622 c.p.p., nonostante la rinnovata dimensione (soltanto) civilistica del procedimento, l’una potrebbe vedersi rigettare la domanda risarcitoria, l’altra vederla accolta dal giudice adito in conseguenza della applicazione di una diversa regola causale - così ponendosi, a tacer d’altro, un evidente problema di conformità a Costituzione di una siffatta interpretazione.

Pertanto, il Collegio sceglie di dar seguito al più recente orientamento della Suprema Corte (Cass. 12 aprile 2017, n. 9358) alla luce del quale, riassunto il processo nella sede civile, il giudice di rinvio non è affatto vincolato, nella ricostruzione del fatto, a quanto accertato dal giudice penale: se, tecnicamente, il giudizio di rinvio è regolato dagli artt. 392

- 394 cod. proc. civ., è del tutto evidente che non è per questo in alcun modo ipotizzabile un vincolo come quello che consegue all’enunciazione di un principio di diritto ai sensi dell’art. 384, secondo comma, cod. proc. civ. da parte di questa Corte: con conseguente dovere del giudice civile, nella (libera) ricostruzione dei fatti e nella loro (libera) valutazione, di applicare del criterio civilistico del "più probabile che non" nella valutazione del nesso causale, in luogo di quello tipico del processo penale dell’alta probabilità logica, e con conseguente irrilevanza, sul piano processuale, dell’eventuale, contraria indicazione contenuta nella sentenza penale di rinvio ex art. 622 c. p. p..

Sottolinea in conclusione, il Collegio che i principi dianzi esposti sembrano trovare indiretta e ulteriore conferma nella stessa disposizione dell’art. 187, capoverso, cod. pen., la quale, statuendo per i condannati per uno stesso reato l’obbligo in solido al risarcimento del danno, non esclude, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, ipotesi diverse di responsabilità solidale di soggetti che non siano colpiti da alcuna condanna o siano colpiti da condanna per reati diversi o siano taluni colpiti da condanna e altri no. (104)

4. Il principio di autonomia del giudizio di rinvio ex art. 622 cod. proc. pen. nei più recenti arresti della giurisprudenza civile di legittimità.

Trascorso neppure un mese dalla pubblicazione della sentenza n. 15859 del 2019, la Corte è tornata ad affermare in via generale che nel giudizio civile di rinvio ex art. 622 c.p.p. si determina una piena translatio del giudizio sulla domanda, sicché la Corte di appello competente per valore, cui la Cassazione in sede penale abbia rimesso il procedimento ai soli effetti civili, applica le regole processuali e probatorie proprie del processo civile. In particolare ha poi ritenuto non consentita nel giudizio civile l’utilizzazione, alla stregua di una testimonianza, delle dichiarazioni rese dalla persona offesa sentita quale testimone nel corso del processo penale, dovendo trovare applicazione, viceversa, il divieto sancito dall’art. 246 cod. proc. civ. di assumere come testimoni le persone aventi nella causa un interesse che ne potrebbe legittimare la partecipazione al giudizio, fermo restando che le medesime dichiarazioni, potendo costituire fonte di convincimento ai fini della decisione, sono liberamente valutabili dal giudice, purché idonee a fornire elementi di giudizio sufficienti nell’ambito delle complessive risultanze istruttorie. (105)

Lo stesso principio secondo cui nel giudizio civile di rinvio ex art. 622 c.p.p. si determina una piena translatio del giudizio sulla domanda civile, è stato anche ribadito con riferimento all’ambito della responsabilità sanitaria, affermando che la Corte di appello civile competente per valore, cui la Cassazione in sede penale abbia rimesso il procedimento ai soli effetti civili, ai fini della valutazione dell’elemento soggettivo e oggettivo dell’illecito ex art. 2043 c.c., applica i criteri di accertamento della responsabilità civile, i quali non sono sovrapponibili ai più rigorosi canoni di valutazione penalistici, funzionali all’esercizio della potestà punitiva statale. Nella fattispecie, la Corte ha confermato la pronuncia della corte d’appello adita in sede di rinvio, a seguito della cassazione, su ricorso delle parti civili, della sentenza di assoluzione di un medico imputato di omicidio colposo per avere prematuramente dimesso un paziente operato alla mano e deceduto per emorragia interna, la quale, rivalutando il fatto dal punto di vista civilistico, aveva ritenuto provata la grave negligenza del sanitario consistita nell’incompleta, imprudente e imperita valutazione del complesso quadro clinico in cui versava la vittima in quanto tossicodipendente e affetta da gravi patologie. (106)

In tema di assicurazione obbligatoria sulla responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli a motore e dei natanti, la Suprema Corte ha sottolineato che il giudicato di condanna del danneggiante non può essere opposto dal danneggiato che agisca nei confronti dell’assicuratore perché devono essere garantiti il diritto di difesa del terzo ed i principi del giusto processo e del contraddittorio. Pertanto, detto giudicato può avere nel successivo giudizio esclusivamente efficacia di prova documentale (107).

In merito ai limiti del contenuto della domanda, la Corte ha precisato, inoltre, che qualora la parte civile abbia infruttuosamente esercitato l’azione civile in sede penale, nel giudizio di rinvio disposto dal giudice di legittimità ai sensi dell’art. 622 c.p.p. in seguito ad annullamento della sentenza penale per i soli effetti civili, il contenuto della domanda della parte civile non può essere ridotto o ampliato, né il giudice del rinvio può ammettere domande nuove volte ad ottenere la liquidazione del danno, ove in sede penale la parte civile abbia chiesto solamente una condanna generica, al di fuori dell’ipotesi di cui all’art. 539 c.p.p., riflettente la fattispecie di cui all’art. 278 c.p.c. relativa alla pronuncia non definitiva con riserva al prosieguo per la liquidazione dei danni. (108)

Con la stessa pronuncia, è stato altresì precisato che ove l’azione civile sia stata esercitata in un processo penale per un reato solo doloso nel giudizio civile di rinvio ai sensi dell’art. 622 c.p.p., in relazione alla responsabilità ex art. 2043 c.c. o ex art. 2049 c.c., può essere fatto valere il diverso elemento soggettivo della colpa, il quale nell’illecito civile, a differenza che per i delitti, è perfettamente fungibile con quello del dolo. Nella specie, la Suprema Corte ha confermato la decisione con la quale il giudice del rinvio ex art. 622 c.p.p. aveva ritenuto sussistente la responsabilità civile di un direttore di banca per non avere vigilato sul dipendente della propria filiale che, delegato dalle vittime, aveva emesso e incassato numerosi assegni circolari e bancari di ingente importo privi di bene fondi e in assenza di provvista sul conto corrente delle deleganti, nonostante il giudice penale ne avesse escluso la responsabilità a titolo di concorso nel reato di appropriazione indebita per assenza del dolo. (109)

Notevole rilievo nell’ambito dei principi affermati in tema di giudizio di rinvio ex art. 622 cod. proc. pen. assume la decisione con cui la Corte ha affermato che l’azione risarcitoria diretta contro il magistrato per il fatto costituente reato commesso nell’esercizio delle sue funzioni, prevista dall’art. 13 della legge n. 117 del 1988, è ammessa solo nelle ipotesi in cui sia intervenuta sentenza di condanna del magistrato passata in giudicato, ovvero nel caso in cui la domanda stessa, in quanto inserita nel processo penale mediante costituzione di parte civile, possa essere oggetto di decisione (del giudice penale) contestualmente all’accertamento del verificarsi del reato, ricorrendo un’eccezionale ipotesi di pregiudizialità necessaria dell’accertamento penale del fatto reato, atteso che la mera deduzione della configurabilità come reato del comportamento attribuito al magistrato eluderebbe le finalità di garanzia approntate dal legislatore a difesa della funzione giurisdizionale e non già del singolo soggetto che la esercita; pertanto, nel giudizio di rinvio conseguente alla cassazione della sentenza penale ai sensi dell’art. 622 c.p.p., difettano i presupposti per far valere la responsabilità risarcitoria diretta del magistrato, posto che l’accertamento penale del fatto reato non è surrogabile con l’accertamento compiuto dal giudice civile ai fini della pronuncia sulla domanda risarcitoria, stante l’autonomia strutturale e funzionale del giudizio di rinvio.

  • indennità di assicurazione
  • assicurazione contro gli infortuni
  • assicurazione infortuni sul lavoro
  • assistenza sociale
  • assicurazione per invalidità
  • assicurazione danni
  • assicurazione malattia
  • assicurazione sulla vita
  • regime pensionistico
  • assistenza agli invalidi
  • danno
  • trasfusione di sangue
  • infortunio sul lavoro

XIV)

LA COMPENSATIO LUCRI CUM DAMNO ALL’INDOMANI DELLE PRONUNCE A SEZIONI UNITE

(di Andrea Penta )

Sommario

1 Premessa: l’approccio metodologico delle Sezioni Unite. - 2 Le direttrici sottese alle pronunce delle Sezioni Unite: la pensione di reversibilità. - 3 L’indennizzo assicurativo. - 4 La rendita Inail da infortunio in itinere. - 5 La detraibilità dell’indennità di accompagnamento. - 6 Le questioni rimaste irrisolte: le spese per le prestazioni a domicilio erogate dal servizio pubblico. - 7 Il danno conseguente al contagio a seguito di emotrasfusioni con sangue infetto. - 8 Un meccanismo di surrogazione o di rivalsa è sempre indefettibile? - 9 Il vantaggio frutto di scelte autonome e del sacrificio del danneggiato. - 10 Le polizze infortuni. - 11 L’omogeneità dei beni. - 12. L’assicurazione sulla vita. - 13 L’indennità di malattia, la pensione di invalidità e le prestazioni assistenziali. - 14 La finalità solidaristica perseguita. - 15 Conclusioni.

1. Premessa: l’approccio metodologico delle Sezioni Unite.

Nel risolvere le varie questioni che si agitano intorno all’istituto della compensatio lucri cum damno, le Sezioni Unite hanno fornito i criteri direttivi cui affidarsi per il futuro.

Importante è dare atto preliminarmente dell’approccio metodologico adottato dalla Suprema Corte.

Gli interrogativi posti dalle ordinanze interlocutorie, ai quali era sottesa una richiesta indistinta e omologante di tutte le possibili evenienze legate al sopravvenire, al fatto illecito produttivo di conseguenze dannose, di benefici collaterali al danneggiato, sono stati esaminati dalle Sezioni Unite nei limiti della loro rilevanza: fino al punto, cioè, in cui essi rappresentavano un presupposto o una premessa sistematica indispensabile per l’enunciazione, a risoluzione dei contrasti di giurisprudenza, di principi di diritto legati all’orizzonte di attesa delle fattispecie concrete.

Questa delimitazione di ambito e di prospettiva, secondo i giudici di legittimità, non rappresenta il frutto di una scelta discrezionale del Collegio decidente, ma conseguenza che si ricollega alle funzioni ordinamentali e alle attribuzioni processuali delle Sezioni Unite, alle quali è affidata, non l’enunciazione di principi generali e astratti o di verità dogmatiche sul diritto, ma la soluzione di questioni di principio di valenza nomofilattica pur sempre riferibili alle specificità del singolo caso della vita.

Se ne ha una conferma nella stessa previsione dell’art. 363 c.p.c., perché, anche là dove la Corte di cassazione è chiamata ad enunciare un principio di diritto nell’interesse della legge, si tratta, tuttavia, del principio di diritto al quale il giudice di merito avrebbe dovuto attenersi nella risoluzione della specifica controversia.

Da ciò consegue che, per quanto le decisioni in esame abbiano una valenza nomofilattica, l’intento sotteso alle stesse non è quello di dare una soluzione a tutte le molteplici fattispecie che potrebbero verificarsi, ma di fornire pratici criteri sulla cui base risolverle.

Apprezzabile è senz’altro l’opzione per una regola non rigida, come quella che avrebbe potuto portare sempre ed in ogni caso ad escludere a priori l’esistenza stessa del danno in presenza di un vantaggio riconducibile alla condotta illecita, avallando un approccio diversificato a seconda della fattispecie.

Una verifica caso per caso consente, infatti, di selezionare le ipotesi di operatività del meccanismo, nel senso di ammetterne l’operatività ogni qualvolta sia rinvenibile nell’ordinamento un correttivo di tipo equitativo che valorizzi l’indifferenza del risarcimento, ma, nello stesso tempo, eviti che della stessa benefici l’autore dell’illecito.

Non esiste, invero, un unico principio generale qualificabile come compensatio lucri cum damno, ma un principio di tal fatta, ammesso (e non concesso) che possa trovare un fondamento sul piano normativo o che, comunque, possa essere consacrato come regola giurisprudenziale alla stregua del diritto vivente, può essere applicato differenziando caso per caso.

In quest’ottica, può essere compresa l’affermazione contenuta in tutte le pronunce, a mente della quale «La selezione tra i casi in cui ammettere o negare il diffalco deve essere fatta, dunque, per classi di casi, passando attraverso il filtro di quella che è stata definita la “giustizia” del beneficio e, in questo ambito, considerando la funzione specifica svolta dal vantaggio».

Ed è alla stregua di tali criteri che nel presente scritto si analizzeranno, senza ovviamente pretese di esaustività (data la magmaticità della materia), le questioni rimaste irrisolte anche all’indomani delle pronunce delle Sezioni Unite.

L’analisi deve, però, essere preceduta inevitabilmente da una rapida rassegna delle dette pronunce, onde estrapolarne le linee direttive.

2. Le direttrici sottese alle pronunce delle Sezioni Unite: la pensione di reversibilità.

Le Sezioni Unite, risolvendo un contrasto che era insorto all’interno delle sezioni semplici (in particolare, tra n. 20548 del 2014, Rv. 632962 – 01, conforme all’indirizzo poi condiviso, e n. 13537 del 2014, Rv. 631440 - 01), hanno statuito che al risarcimento del danno patrimoniale patito dal familiare di persona deceduta per colpa altrui non deve essere detratto il valore capitale della pensione di reversibilità accordata dall’Inps al familiare superstite in conseguenza della morte del congiunto, trattandosi di una forma di tutela previdenziale connessa ad un peculiare fondamento solidaristico e non geneticamente connotata dalla finalità di rimuovere le conseguenze prodottesi nel patrimonio del danneggiato per effetto dell’illecito del terzo (Sez. U, n. 12564/2018, Giusti, Rv. 648647 - 01).

La sentenza n. 12564/2018, delineando una impostazione comune anche alle altre tre sentenze di pari data (su cui postea), evidenzia che la soluzione della specifica questione rimessa all’esame delle Sezioni Unite coinvolge un tema di carattere più generale, che attiene alla individuazione della attuale portata del principio della compensatio lucri cum damno e sollecita una risposta all’interrogativo se e a quali condizioni, nella determinazione del risarcimento del danno da fatto illecito, accanto alla poste negative si debbano considerare, operando una somma algebrica, le poste positive che, successivamente al fatto illecito, si presentano nel patrimonio del danneggiato.

A ben vedere, l’ordinanza di rimessione poneva un quesito di portata più ampia di quello riguardante la detraibilità o meno della pensione di reversibilità: se, in tema di risarcimento del danno, ai fini della liquidazione dei danni civili il giudice debba limitarsi a sottrarre dalla consistenza del patrimonio della vittima anteriore al sinistro quella del suo patrimonio residuato al sinistro stesso, senza far ricorso prima alla liquidazione e poi alla compensatio; e se, di conseguenza, quando l’evento causato dall’illecito costituisce il presupposto per l’attribuzione alla vittima, da parte di soggetti pubblici o privati, di benefici economici il cui risultato diretto o mediato sia attenuare il pregiudizio causato dall’illecito, di questi il giudice debba tener conto nella stima del danno, escludendone l’esistenza per la parte ristorata dall’intervento del terzo.

Avuto riguardo alla questione concernente la necessità, in tema di danno patrimoniale patito dal familiare di persona deceduta per colpa altrui, di detrarre (o meno) dall’ammontare del risarcimento il valore capitale (recte, capitalizzato) della pensione di reversibilità percepita dal superstite in conseguenza della morte del congiunto, le Sezioni Unite affidano il rovesciamento dell’orientamento tradizionale, anzitutto, al rilievo che l’art. 1223 c.c. esige una lettura unitaria, e non asimmetrica, sia quando si tratta di accertare il danno sia quando si tratta di accertare il vantaggio per avventura originato dal medesimo fatto illecito (110).

In quest’ottica, vantaggi e svantaggi derivati da una medesima condotta possono compensarsi anche se alla produzione di essi abbiano concorso, insieme alla condotta umana, altri atti o fatti, ovvero direttamente una previsione di legge.

A dirla in termini diversi, per quantificare le conseguenze pregiudizievoli dell’illecito dal punto di vista economico, non potrebbe spezzarsi la serie causale e ritenere che il danno derivi dall’illecito e l’incremento patrimoniale rappresentato dalla pensione di reversibilità no, e ciò perché senza il primo non vi sarebbe stato il secondo.

A sostegno della soluzione nel senso della detraibilità si richiama, inoltre, il principio di indifferenza: il risarcimento non deve impoverire il danneggiato, ma neppure arricchirlo, sicché non può creare in favore di quest’ultimo una situazione migliore di quella in cui si sarebbe trovato se il fatto dannoso non fosse avvenuto, immettendo nel suo patrimonio un valore economico maggiore della differenza patrimoniale negativa indotta dall’illecito.

Se l’atto dannoso porta, accanto al danno, un vantaggio, quest’ultimo deve essere calcolato in diminuzione dell’entità del risarcimento: infatti, il danno non deve essere fonte di lucro e la misura del risarcimento non deve superare quella dell’interesse leso o condurre, a sua volta, ad un arricchimento ingiustificato del danneggiato. Questo principio è desumibile dall’art. 1223 c.c., il quale implica, in linea logica, che l’accertamento conclusivo degli effetti pregiudizievoli tenga anche conto degli eventuali vantaggi collegati all’illecito in applicazione della regola della causalità giuridica. Se così non fosse - se, cioè, nella fase di valutazione delle conseguenze economiche negative, dirette ed immediate, dell’illecito non si considerassero anche le poste positive derivate dal fatto dannoso -, il danneggiato ne trarrebbe un ingiusto profitto, oltre i limiti del risarcimento riconosciuto dall’ordinamento giuridico (nel senso che il risarcimento è finalizzato a sollevare dalle conseguenze pregiudizievoli dell’altrui condotta e non a consentire una ingiustificata locupletazione del soggetto danneggiato, cfr. Sez. 1, n. 16088/2018, Nazzicone, Rv. 649565 – 01).

In altri termini, il risarcimento deve coprire tutto il danno cagionato, ma non può oltrepassarlo, non potendo costituire fonte di arricchimento del danneggiato, il quale deve, invece, essere collocato nella stessa curva di indifferenza in cui si sarebbe trovato se non avesse subito l’illecito: come l’ammontare del risarcimento non può superare quello del danno effettivamente prodotto, così occorre tener conto degli eventuali effetti vantaggiosi che il fatto dannoso ha provocato a favore del danneggiato, calcolando le poste positive in diminuzione del risarcimento.

È da questo passaggio logico che parte l’iter motivazionale della sentenza, la quale ritiene controversi la portata e l’ambito di operatività della compensatio, soprattutto là dove il vantaggio acquisito al patrimonio del danneggiato in connessione con il fatto illecito derivi da un titolo diverso e vi siano due soggetti obbligati, appunto sulla base di fonti differenti.

È la situazione che si verifica quando, accanto al rapporto tra il danneggiato e chi è chiamato a rispondere civilmente dell’evento dannoso, si profila un rapporto tra lo stesso danneggiato ed un soggetto diverso, a sua volta obbligato, per legge o per contratto, ad erogare al primo un beneficio collaterale. A titolo esemplificativo, viene fatto l’esempio dell’assicurazione privata contro i danni, nella quale l’assicuratore, verso il pagamento di un premio, si obbliga a rivalere l’assicurato, entro i limiti convenuti, del danno ad esso prodotto da un sinistro; o, ancora, dei benefici della sicurezza e dell’assistenza sociale, da quelli legati al rapporto di lavoro (e scaturenti dalla tutela contro gli infortuni e le malattie professionali) a quelli rivolti ad assicurare ad ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto di mezzi necessari per vivere una tutela assistenziale; o, infine, delle numerose previsioni di legge che contemplano indennizzi o speciali elargizioni che lo Stato corrisponde, per ragioni di solidarietà, a coloro che subiscono un danno in occasione di disastri o tragedie e alle vittime del terrorismo o della criminalità organizzata.

A ben vedere, la vicenda sottoposta al vaglio delle Sezioni Unite si colloca proprio in quest’ambito. In essa il duplice rapporto bilaterale è rappresentato, da un lato, dalla relazione creata dal fatto illecito, permeata dalla disciplina della responsabilità civile, che garantisce, dopo il decesso della vittima primaria in conseguenza del sinistro stradale, il risarcimento del danno patrimoniale sofferto dai familiari in conseguenza della perdita del sostentamento economico loro assicurato in vita dal congiunto; dall’altro, dalla relazione discendente dalla legislazione previdenziale, la quale, attraverso la pensione di reversibilità, assicura a quei medesimi familiari un trattamento economico alla morte del titolare della posizione previdenziale, anche quando il decesso dipenda dal fatto illecito di un terzo.

In questa ed in altre fattispecie similari si tratta di stabilire se l’incremento patrimoniale realizzatosi in connessione con l’evento dannoso per effetto del beneficio collaterale avente un proprio titolo e una relazione causale con un diverso soggetto tenuto per legge o per contratto ad erogare quella provvidenza debba restare nel patrimonio del danneggiato cumulandosi con il risarcimento del danno o debba essere considerato ai fini della corrispondente diminuzione dell’ammontare del risarcimento.

Le Sezioni Unite affermano, infine, che, nelle ipotesi in cui, pur in presenza di titoli differenti, vi sia unicità del soggetto responsabile del fatto illecito fonte di danni ed al contempo obbligato a corrispondere al danneggiato una provvidenza indennitaria vale la regola del diffalco, dall’ammontare del risarcimento del danno, della posta indennitaria avente una cospirante finalità compensativa.

La compensatio opera, cioè, in tutti i casi in cui sussista una coincidenza tra il soggetto autore dell’illecito tenuto al risarcimento e quello chiamato per legge ad erogare il beneficio, con l’effetto di assicurare al danneggiato una reintegra del suo patrimonio completa e senza duplicazioni.

A riprova della correttezza di tale metodologia viene richiamato il precedente, sempre a Sezioni Unite (Sez. U, n. 00584/2008, Segreto, Rv. 600919 -01), con il quale era stato affermato che l’indennizzo corrisposto al danneggiato, ai sensi della legge 25 febbraio 1992, n. 210, a seguito di emotrasfusioni con sangue infetto deve essere integralmente scomputato dalle somme spettanti a titolo di risarcimento del danno, venendo altrimenti la vittima a godere di un ingiustificato arricchimento consistente nel porre a carico di un medesimo soggetto (il Ministero della salute) due diverse attribuzioni patrimoniali in relazione al medesimo fatto lesivo (sul punto vedasi postea).

È a questo punto che le Sezioni Unite forniscono il loro apporto originale e costruttivo alla questione, affermando che la sollecitazione a compiere la verifica in tema di assorbimento del beneficio nel danno in base ad un test eziologico unitario, secondo il medesimo criterio causale prescelto per dire risarcibili le poste dannose, non può spingersi fino al punto di attribuire rilevanza a ogni vantaggio indiretto o mediato, perché ciò condurrebbe ad un’eccessiva dilatazione delle poste imputabili al risarcimento, finendo con il considerare il verificarsi stesso del vantaggio un merito da riconoscere al danneggiante.

In quest’ottica, non possono rientrare nel raggio di operatività della compensatio i casi in cui il vantaggio si presenti come il frutto di scelte autonome e del sacrificio del danneggiato, come avviene nell’ipotesi della nuova prestazione lavorativa da parte del superstite, prima non occupato, in conseguenza della morte del congiunto.

Allo stesso modo, nel determinare il risarcimento del danno, non sono computabili gli effetti favorevoli derivanti dall’acquisto dell’eredità da parte degli eredi della vittima: la successione ereditaria, infatti, è legata non già al fatto di quella morte, bensì al fatto della morte in generale, che si sarebbe verificata (anche se in un momento successivo) in ogni caso, a prescindere dall’illecito.

A supporto di questa tesi viene richiamato quell’insegnamento dottrinale (P. TRIMARCHI, Causalità e danno, Milano, 1967, 82) a mente del quale le conseguenze vantaggiose, come quelle dannose, possono computarsi solo finché rientrino nella serie causale dell’illecito, da determinarsi secondo un criterio adeguato di causalità (111), sicché il beneficio non è computabile in detrazione con l’applicazione della compensatio allorché trovi altrove la sua fonte e nell’illecito solo un coefficiente causale.

Il secondo passaggio fondante della struttura motivazionale della sentenza è rappresentato dalla convinzione secondo cui affidare il criterio di selezione tra i casi in cui ammettere o negare il cumulo all’asettico utilizzo delle medesime regole anche per il vantaggio finirebbe per ridurre la quantificazione del danno, e l’accertamento della sua stessa esistenza, ad una mera operazione contabile, trascurando così la doverosa indagine sulla ragione giustificatrice dell’attribuzione patrimoniale entrata nel patrimonio del danneggiato.

Invece, ai fini della delineazione di quel criterio di selezione, proprio da tale indagine occorre muovere, guardando alla funzione di cui il beneficio collaterale si rivela essere espressione, per accertare se esso sia compatibile o meno con una imputazione al risarcimento.

Partendosi dal presupposto per cui la determinazione del vantaggio computabile richiede che il vantaggio sia causalmente giustificato in funzione di rimozione dell’effetto dannoso dell’illecito, in tanto le prestazioni del terzo incidono sul danno in quanto siano erogate in funzione di risarcimento del pregiudizio subito dal danneggiato. La prospettiva non è, quindi, quella della coincidenza formale dei titoli, ma quella del collegamento funzionale tra la causa dell’attribuzione patrimoniale e l’obbligazione risarcitoria.

Si arriva, infine, nello sviluppo delle ragioni sottese alla decisione, a quello che probabilmente ne costituisce il fulcro.

Secondo le Sezioni Unite, occorre, infatti, altresì accertare se l’ordinamento abbia coordinato le diverse risposte istituzionali, del danno da una parte e del beneficio dall’altra, prevedendo un meccanismo di surroga o di rivalsa, capace di valorizzare l’indifferenza del risarcimento, ma nello stesso tempo di evitare che quanto erogato dal terzo al danneggiato si traduca in un vantaggio inaspettato per l’autore dell’illecito.

Solo attraverso la predisposizione di quel meccanismo, teso ad assicurare che il danneggiante rimanga esposto all’azione di "recupero" ad opera del terzo da cui il danneggiato ha ricevuto il beneficio collaterale, può aversi detrazione della posta positiva dal risarcimento.

Il passaggio chiave è il seguente: <<Se così non fosse, se cioè il responsabile dell’illecito, attraverso il non-cumulo, potesse vedere alleggerita la propria posizione debitoria per il solo fatto che il danneggiato ha ricevuto, in connessione con l’evento dannoso, una provvidenza indennitaria grazie all’intervento del terzo, e ciò anche quando difetti la previsione di uno strumento di riequilibrio e di riallineamento delle poste, si avrebbe una sofferenza del sistema, finendosi con il premiare, senza merito specifico, chi si è comportato in modo negligente>>.

Non corrisponde, infatti, al principio di razionalità-equità che la sottrazione del vantaggio sia consentita in tutte quelle vicende in cui l’elisione del danno con il beneficio pubblico o privato corrisposto al danneggiato a seguito del fatto illecito finisca per avvantaggiare esclusivamente il danneggiante, apparendo preferibile in tali evenienze favorire chi senza colpa abbia subito l’illecito rispetto a chi colpevolmente lo abbia causato.

Peraltro, chiariscono le Sezioni Unite, stabilire quando accompagnare la previsione del beneficio con l’introduzione di tale meccanismo di surrogazione o di rivalsa, il quale consente al terzo di recuperare le risorse impiegate per erogare una provvidenza che non rinviene il proprio titolo nella responsabilità risarcitoria, è una scelta spettante al legislatore. Ad esso soltanto compete, in definitiva, trasformare quel duplice, ma separato, rapporto bilaterale in una relazione trilaterale, così apprestando le condizioni per il dispiegamento dell’operazione di scomputo.

In conclusione, i due presupposti essenziali per poter svolgere la decurtazione del vantaggio sono: a) il contenuto, "per classi omogenee o per ragioni giustificatrici", del vantaggio; b) la previsione, appunto, di un meccanismo di surroga, di rivalsa o di recupero, che "instaura la correlazione tra classi attributive altrimenti disomogenee".

Così, in tutti i casi in cui sia una norma legislativa ad attribuire, "senza regolare l’eventuale rapporto con il tema risarcitorio", un vantaggio collaterale, il giudice della responsabilità civile non può procedere, tout court, ad effettuare l’operazione compensativa o di defalco. Se così facesse, egli vanificherebbe il senso più profondo della previsione normativa costituente il titolo dell’attribuzione, che risiederebbe nell’assunzione da parte della generalità del carico di determinati svantaggi subiti dal o dai soggetti danneggiati, non nella volontà di premiare chi si è comportato in modo negligente o di alleggerire la sua posizione debitoria.

È alla luce degli enunciati principi che le Sezioni Unite risolvono la specifica questione oggetto del contrasto.

Invero, dopo aver premesso che la pensione di reversibilità appartiene al più ampio genus delle pensioni ai superstiti, affermano che è una forma di tutela previdenziale nella quale l’evento protetto è la morte, vale a dire un fatto naturale che, secondo una presunzione legislativa, crea una situazione di bisogno per i familiari del defunto, i quali sono i soggetti protetti.

Nella pensione di reversibilità, la finalità previdenziale "si raccorda a un peculiare fondamento solidaristico" (Corte cost., sentenza n. 174 del 2016). Si tratta di una solidarietà che "si realizza quando il bisogno colpisce i lavoratori ed i loro familiari per i quali, però, non può prescindersi dalla necessaria ricorrenza dei due requisiti della vivenza a carico e dello stato di bisogno, i quali si pongono come presupposti del trattamento". Per effetto della morte del lavoratore, dunque, "la situazione pregressa della vivenza a carico subisce interruzione", ma il trattamento di reversibilità "realizza la garanzia della continuità del sostentamento ai superstiti" (Corte cost., sentenza n. 286 del 1987).

L’erogazione della pensione di reversibilità non è geneticamente connotata dalla finalità di rimuovere le conseguenze prodottesi nel patrimonio del danneggiato per effetto dell’illecito del terzo. Quell’erogazione non soggiace ad una logica e ad una finalità di tipo indennitario, ma costituisce piuttosto l’adempimento di una promessa rivolta dall’ordinamento al lavoratore-assicurato che, attraverso il sacrificio di una parte del proprio reddito lavorativo, ha contribuito ad alimentare la propria posizione previdenziale: la promessa che, a far tempo dal momento in cui il lavoratore, prima o dopo il pensionamento, avrà cessato di vivere, quale che sia la causa o l’origine dell’evento protetto, vi è la garanzia, per i suoi congiunti, di un trattamento diretto a tutelare la continuità del sostentamento e a prevenire o ad alleviare lo stato di bisogno.

Sussiste, dunque, una ragione giustificatrice che non consente il computo della pensione di reversibilità in differenza alle conseguenze negative che derivano dall’illecito, perché quel trattamento previdenziale non è erogato in funzione di risarcimento del pregiudizio subito dal danneggiato, ma risponde ad un diverso disegno attributivo causale. La causa più autentica di tale beneficio deve essere individuata nel rapporto di lavoro pregresso, nei contributi versati e nella previsione di legge: tutti fattori che si configurano come serie causale indipendente e assorbente rispetto alla circostanza (occasionale e giuridicamente irrilevante) che determina la morte.

Ciò in quanto la pensione di reversibilità spetta per il fatto-decesso come tale, senza alcuna rilevanza della causa, naturale o umana, di esso; ed è attribuita, alle condizioni stabilite dalla normativa, come effetto delle contribuzioni che il lavoratore ha pagato nel corso dello svolgimento del rapporto. In questa prospettiva, l’occasione materiale del decesso, ossia il fatto illecito altrui, resta del tutto confinata all’esterno (direi, sullo sfondo) di questa erogazione previdenziale; e scomputarne l’importo quando per evenienza il decesso abbia origine da un illecito civile produrrebbe conseguenze di dubbia costituzionalità.

Da ultimo, le Sezioni Unite hanno sottoposto a revisione critica un non minoritario indirizzo, secondo cui negare la compensatio tra risarcimento del danno patrimoniale da uccisione del congiunto e pensione di reversibilità avrebbe finito per "abrogare in via di fatto" l’azione di surrogazione spettante all’ente previdenziale, privando l’assicuratore sociale o l’ente previdenziale di un diritto loro "espressamente attribuito dalla legge".

In realtà, chiariscono le Sezioni Unite, nessuna delle norme richiamate nella sentenza n. 13537 del 2014 lascia chiaramente intendere la sussistenza di un subentro dell’Inps nei diritti del familiare superstite, percettore del trattamento pensionistico di reversibilità, verso i terzi responsabili del fatto illecito che ha determinato la morte del congiunto.

Invero, la surrogazione dell’art. 1916, quarto comma, c.c. si applica alle assicurazioni sociali contro gli infortuni sul lavoro; l’art. 14 della legge 12 luglio 1984, n. 222, prevede la surroga delle prestazioni in tema di invalidità pensionabile, che non sono assimilabili alla pensione di reversibilità ai superstiti; analogamente, l’art. 41 della legge 4 novembre 2010, n. 183, stabilisce sì, a vantaggio dell’ente erogatore, il recupero, nei confronti del responsabile civile e della compagnia di assicurazioni, delle prestazioni erogate in conseguenza del fatto illecito di terzi, ma con riguardo alle pensioni, agli assegni e alle indennità, spettanti agli invalidi civili ai sensi della legislazione vigente; infine, l’art. 42 della medesima legge, nel disciplinare le comunicazioni delle imprese di assicurazione all’Inps, si occupa delle azioni surrogatorie e di rivalsa spettanti all’ente assicuratore «nei casi di infermità comportante incapacità lavorativa, derivante da responsabilità di terzi».

In quest’ottica, non ricorre l’ulteriore presupposto costituito dal subentro del terzo erogatore della pensione nei diritti spettanti al danneggiato e, per l’effetto, si deve pervenire alla conclusione che dal risarcimento del danno patrimoniale patito dal familiare di persona deceduta per colpa altrui non debba essere detratto il valore capitale della pensione di reversibilità accordata dall’Inps al familiare superstite in conseguenza della morte del congiunto.

3. L’indennizzo assicurativo.

Non vi è dubbio che la questione intorno alla quale il contrasto era più acceso e sulla quale si attendeva, pertanto, maggiormente un intervento chiarificatore delle Sezioni Unite fosse quella concernente la detraibilità (o meno) dal quantum risarcitorio dell’indennizzo assicurativo.

L’occasione è stata offerta dalla nota vicenda del disastro aereo verificatosi nei cieli di Ustica.

Dopo aver ribadito i concetti già espressi con la sentenza n. 12564 in ordine alle differenti conseguenze che dovrebbero derivare, sul piano pratico, a seconda che il vantaggio (acquisito al patrimonio del danneggiato in connessione con il fatto illecito) derivi da un titolo diverso e vi siano due soggetti obbligati (appunto sulla base di fonti differenti) o che, pur in presenza di titoli differenti, vi sia unicità del soggetto responsabile del fatto illecito fonte di danni ed al contempo obbligato a corrispondere al danneggiato una provvidenza indennitaria, le Sezioni Unite, con la sentenza n. 12565/2018 (Giusti, Rv. 648648 – 01; in passato cfr. n. 13233 del 2014, Rv. 631753 - 01), evidenziano che, nella fattispecie in esame, sussistendo la responsabilità del terzo per il danno prodotto da un sinistro per il cui rischio il danneggiato si era in precedenza assicurato, a quest’ultimo spetterebbero distinti diritti di credito: da un lato, il credito di risarcimento nei confronti del responsabile e, dall’altro, il credito di indennizzo nei confronti dell’assicuratore.

Dopo aver delineato i due orientamenti formatisi, in seno alla giurisprudenza di legittimità, avuto riguardo all’ambito operativo della compensatio in presenza di una duplicità di posizioni pretensive di un soggetto verso due soggetti diversi tenuti, ciascuno, in base ad un differente titolo, le Sezioni Unite ribadiscono, anche in tema di indennizzo assicurativo, che, se da un lato non può fornirsi una lettura asimmetrica dell’art. 1223 c.c., dall’altro, non può neppure attribuirsi rilevanza ad ogni vantaggio indiretto o mediato, perché ciò finirebbe con il considerare il verificarsi stesso del vantaggio un merito da riconoscere al danneggiante.

Ribadiscono altresì che diventa nevralgica, al fine di decidere in merito all’operatività o meno dello scomputo da compensatio, la doverosa indagine sulla ragione giustificatrice dell’attribuzione patrimoniale entrata nel patrimonio del danneggiato, occorrendo guardare alla funzione di cui il beneficio collaterale si rivela essere espressione e dovendo depotenziare l’argomento della coincidenza formale dei titoli.

Ribadiscono, infine, che il meccanismo di surroga o di rivalsa è l’unico capace di valorizzare l’indifferenza del risarcimento, ma nello stesso tempo di evitare che quanto erogato dal terzo al danneggiato si traduca in un vantaggio inaspettato per l’autore dell’illecito.

Nell’analizzare la specifica questione oggetto del contrasto, le Sezioni Unite hanno, in primo luogo, evidenziato che, nell’assicurazione contro i danni, l’indennità assicurativa è erogata in funzione di risarcimento del pregiudizio subito dall’assicurato in conseguenza del verificarsi dell’evento dannoso, sicchè essa soddisfa, neutralizzandola in tutto o in parte, la medesima perdita al cui integrale ristoro mira la disciplina della responsabilità risarcitoria del terzo autore del fatto illecito.

Quando si verifica un sinistro per il quale sussiste la responsabilità di un terzo, al danneggiato che si era assicurato per tale eventualità competono, quindi, due distinti diritti di credito che, pur avendo fonte e titolo diversi, tendono ad un medesimo fine: il risarcimento del danno provocato dal sinistro all’assicurato-danneggiato.

Tali diritti sono, però, concorrenti, giacché ciascuno di essi rappresenta, sotto il profilo funzionale, un mezzo idoneo alla realizzazione del medesimo interesse, che è quello dell’eliminazione del danno causato nel patrimonio dell’assicurato-danneggiato per effetto della verificazione del sinistro, sicché l’assicurato-danneggiato non può pretendere dal terzo responsabile e dall’assicuratore degli ‘indennizzi’ che nel totale superino i danni che il suo patrimonio ha subito.

Ed ecco, dunque, riemergere la valenza assorbente del fine perseguito dagli emolumenti corrisposti e della funzione dagli stessi assicurata.

Infatti, dato il carattere sussidiario dell’obbligazione assicurativa, quando il danneggiato, prima di percepire l’indennizzo assicurativo, ottiene il risarcimento integrale da parte del responsabile, cessa l’obbligo di indennizzo dell’assicuratore (Sez. 2, n. 02595/1966, Pratis, Rv. 325000 - 01); se, invece, è l’assicuratore a indennizzare per primo l’assicurato, quando il risarcimento da parte del terzo responsabile non ha ancora avuto luogo, allora, ai sensi dell’art. 1916 c.c., l’assicuratore è surrogato, fino alla concorrenza dell’ammontare dell’indennità corrisposta, nel diritto dell’assicurato verso il terzo medesimo.

La surrogazione, infatti, secondo il ragionamento delle Sezioni Unite, mentre consente all’assicuratore di recuperare aliunde quanto ha pagato all’assicurato-danneggiato, impedisce a costui di cumulare, per lo stesso danno, la somma già riscossa a titolo di indennità assicurativa con quella ancora dovutagli dal terzo responsabile a titolo di risarcimento, e di conseguire così due volte la riparazione del pregiudizio subito. Senza la surrogazione, invece, l’assicurato danneggiato conserverebbe l’azione di risarcimento contro il terzo autore del fatto illecito anche per l’ammontare corrispondente all’indennità assicurativa ricevuta: ma l’art. 1916 gliela toglierebbe, perché la trasmetterebbe all’assicuratore. Il risarcimento resta, tuttavia, dovuto dal danneggiante per l’intero, essendo questi tenuto a rimborsare all’assicuratore l’indennità assicurativa e a risarcire l’eventuale maggior danno al danneggiato: la riscossione dell’indennità da parte dell’assicurato-danneggiato in conseguenza dell’evento dannoso non ha, quindi, alcuna incidenza sulla situazione del terzo responsabile, il quale deve risarcire, in ogni caso, l’intero danno.

Proseguendo nel solco ormai intrapreso, le Sezioni Unite attribuiscono alla surrogazione ai sensi dell’art. 1916 c.c. (dell’assicuratore nei diritti dell’assicurato verso i terzi responsabili) una duplice e concorrente finalità: (a) anzitutto, la salvaguardia del principio indennitario (desumibile dagli artt. 1882, 1904, 1905, 1908, primo comma, 1909, 1910, terzo comma, c.c.), per cui la prestazione assicurativa non può mai trasformarsi in una fonte di arricchimento per l’assicurato e determinare, in suo favore, una situazione economica più vantaggiosa di quella in cui egli verserebbe se l’evento dannoso non si fosse verificato; (b) in secondo luogo, la conservazione del principio di responsabilità (artt. 1218 e 2043 c.c.), per cui l’autore del danno è in ogni caso tenuto all’obbligazione risarcitoria, senza possibilità di vedere elisa o ridotta l’entità della relativa prestazione per effetto di una assicurazione non da lui, o per lui, stipulata. A queste finalità ne viene aggiunta una terza, vale a dire quella di consentire all’ente assicuratore, attraverso il recupero della perdita costituita dalla somma erogata a titolo di indennità, una riduzione dei costi di gestione del ramo e quindi, tendenzialmente, un contenimento del livello dei premi nei limiti in cui l’assicuratore sia in grado di recuperare dai terzi responsabili quanto erogato in forza dei propri impegni contrattuali.

Inoltre, viene sottoposta a critica la lettura, fornita da una parte della giurisprudenza, che ammette la cumulabilità, in capo all’assicurato che abbia riscosso l’indennità dalla propria compagnia, dell’intero ammontare del risarcimento del danno dovuto dal terzo responsabile, secondo cui, per perfezionare la vicenda successoria della surrogazione e sancire la perdita del diritto al risarcimento in capo all’assicurato, non basterebbe il fatto oggettivo del pagamento dell’indennità, ma occorrerebbe anche il presupposto soggettivo della comunicazione, indirizzata dall’assicuratore al terzo responsabile, di avere pagato e di volersi surrogare al proprio assicurato. La surrogazione, cioè, a dire dell’opinione criticata, opererebbe solo se e nel momento in cui l’assicuratore comunicasse al terzo responsabile l’avvenuta solutio e manifestasse contestualmente la volontà di surrogarsi nei diritti dell’assicurato verso il medesimo terzo, al fine appunto di rivalersi su questo della somma pagata a quello. Affinché, da potenziale che era, divenga attuale e operante, il diritto di surrogazione dell’assicuratore richiederebbe questa manifestazione di volontà ad hoc da parte dell’assicuratore, perché è alla sua iniziativa e disponibilità che la legge rimetterebbe il perfezionamento della successione a titolo derivativo nel diritto di credito.

È appunto da una tale configurazione (la surrogazione dell’assicuratore intesa, non come effetto automatico del pagamento dell’indennità, ma come facoltà il cui esercizio dipende dall’assicuratore solvens) che discenderebbe, in base all’opinione non condivisa dalle Sezioni Unite, il corollario per cui, qualora l’assicuratore non si avvalesse di tale facoltà, il pagamento dell’indennizzo lascerebbe immutato il diritto dell’assicurato di agire per ottenere l’intero risarcimento del danno nei confronti del terzo responsabile senza che questi potesse opporgli in sottrazione - essendo diverso il titolo di responsabilità aquiliana rispetto alla fonte del debito indennitario gravante sull’assicuratore - l’avvenuta riscossione dell’indennità assicurativa.

Secondo le Sezioni Unite, poiché nel sistema dell’art. 1916 c.c. è con il pagamento dell’indennità assicurativa che i diritti contro il terzo si trasferiscono, ope legis, all’assicuratore, deve escludersi un ritrasferimento o un rimbalzo di tali diritti all’assicurato per il solo fatto che l’assicuratore si astenga dall’esercitarli.

Il subentro non è rimesso all’apprezzamento dell’assicuratore solvens. La perdita del diritto verso il terzo responsabile da parte dell’assicurato (che avviene contestualmente al pagamento del terzo) e l’acquisto da parte dell’assicuratore (che avviene nello stesso momento, salva rinuncia, preventiva o successiva) sono effetti interdipendenti e contemporanei basati sul medesimo fatto giuridico previsto dalla legge: il pagamento dell’indennità assicurativa. Questa interpretazione è confermata dall’analisi dell’art. 1203 c.c., il quale, attraverso l’ampio rinvio del n. 5 («negli altri casi stabiliti dalla legge»), è suscettibile di comprendere nell’ambito della surrogazione legale, operante di diritto, anche questa forma peculiare di successione a titolo particolare nel credito, nella quale la prestazione dell’assicuratore è diretta ad estinguere un rapporto diverso da quello surrogato (cfr. Sez. U, n. 09554/1997, Morozzo della Rocca, Rv. 508394 - 01).

Attraverso l’automaticità, il legislatore, in ossequio al principio indennitario, ha voluto impedire proprio la possibilità per l’assicurato-danneggiato, una volta ricevuto l’indennizzo dall’assicuratore, di agire per l’intero nei confronti del terzo responsabile.

Da ultimo, viene sottoposta a critica la tesi che ammette la reclamabilità dell’intero risarcimento del danno in aggiunta al già conseguito indennizzo assicurativo sulla base della circostanza che l’assicurato abbia versato all’assicuratore dei regolari premi, che sarebbero altrimenti sine causa.

In sostanza, si tratta di una tesi che giustifica l’arricchimento della vittima in ragione del "rapporto oneroso di assicurazione", essendo irragionevole trattare allo stesso modo, sul piano risarcitorio, chi abbia e chi non abbia stipulato un rapporto assicurativo, con relativi oneri di pagamento del premio.

Ad avviso del Collegio, si tratta di conclusione non condivisibile, giacché nella assicurazione contro i danni la prestazione dell’indennità non è in rapporto di sinallagmaticità funzionale con la corresponsione dei premi da parte dell’assicurato, essendo l’obbligo fondamentale dell’assicuratore quello dell’assunzione e della sopportazione del rischio a fronte della obiettiva incertezza (che sussiste nel momento in cui il pagamento del premio viene effettuato) circa il verificarsi del sinistro e la solvibilità del terzo responsabile; tanto è vero che, se alla scadenza del contratto il rischio non si è verificato, il premio resta ugualmente dovuto. Il pagamento dei premi, in altri termini, è in sinallagma con il trasferimento del rischio, non con il pagamento dell’indennizzo.

È pur vero che, non essendo, in base all’art. 1932 c.c., gli artt. 1910 e 1916 c.c. inderogabili, non vi sarebbero ragioni di contrasto con l’ordine pubblico nella pattuizione in virtù della quale una parte si premuri di garantirsi, dietro il pagamento di un premio, un indennizzo in caso di infortunio (o più indennizzi con una pluralità di polizze), a prescindere dalla circostanza che un terzo possa essere tenuto al risarcimento del danno da fatto illecito.

Tuttavia, questa pattuizione eventuale, ove ammessa, potrebbe consentire di superare il divieto di cumulo tra indennizzi in caso di pluralità di polizze infortuni (ex art. 1910 c.c.), mentre resterebbe aperta la questione del rapporto tra indennizzo contrattuale e risarcimento del danno (essendo l’eventuale deroga al principio indennitario contenuta nella polizza infortuni indifferente per il terzo responsabile, anche ai sensi dell’art. 1372, co. 2, c.c.). Il responsabile del danno potrebbe, pertanto, sempre invocare il fatto che il danneggiato abbia già ricevuto, in tutto o in parte, un indennizzo e limitarsi a risarcire il differenziale o, comunque, coinvolgere l’assicuratore per gli infortuni perché partecipi al ristoro del danno.

4. La rendita Inail da infortunio in itinere.

Con la sentenza n. 12566/2018 (Giusti, Rv. 648649 - 01) le Sezioni Unite hanno analizzato e risolto la questione se dall’ammontare del danno risarcibile si debba scomputare la rendita per l’inabilità permanente riconosciuta dall’INAIL a seguito di infortunio occorso al lavoratore durante il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di abitazione a quello di lavoro (conf. Sez. 3, n. 16580/2019, Scarano, Rv. 654558 – 01), statuendo che l’indennità che il danneggiato-assicurato abbia riscosso in conseguenza di quel fatto è erogata in funzione di risarcimento del pregiudizio subito dall’assicurato in conseguenza del verificarsi dell’evento dannoso e soddisfa, neutralizzandola in tutto o in parte, la medesima perdita al cui integrale ristoro mira la disciplina della responsabilità del terzo autore del fatto illecito (negli stessi sostanziali termini si è espressa Sez. L, n. 06269/2019, Patti, Rv. 653182 – 01, in una fattispecie in cui erano state erogate una rendita Inail, nonchè una pensione privilegiata ed un incentivo all’esodo agevolato).

Anche su tale questione la S.C., dopo aver dato atto dell’esistenza di un contrasto al suo interno (in particolare, tra n. 25733 del 2014, Rv. 633738 – 01, e n. 21897 del 2009, Rv. 609951 – 01), evidenzia che, in caso di infortunio sulle vie del lavoro scaturito da un fatto illecito di un terzo estraneo al rapporto giuridico previdenziale, la vittima può contare su un sistema combinato di tutele, basato sul concorso delle regole della protezione sociale garantita dall’INAIL e di quanto riveniente dalle regole civilistiche in materia di responsabilità.

Il duplice rapporto bilaterale è quindi rappresentato, per un verso, dal welfare garantito dal sistema di assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro, che dà titolo ad ottenere le prestazioni dell’assicurazione, e, per l’altro verso, dalla relazione creata dal fatto illecito del terzo, permeata dalla disciplina della responsabilità civile.

È in questo contesto che si tratta di stabilire se l’incremento patrimoniale realizzatosi in connessione con l’evento dannoso per effetto del beneficio collaterale avente un proprio titolo e una relazione causale con un diverso soggetto tenuto per legge o per contratto ad erogare quella provvidenza, debba restare nel patrimonio del danneggiato, cumulandosi con il risarcimento del danno, o debba essere considerato ai fini della corrispondente diminuzione dell’ammontare del risarcimento.

Nel rinviare ai paragrafi dedicati alle sentenze nn. 12564 e 12565 per un’analisi approfondita dei vari passaggi logici in comune posti a fondamento della decisione, le Sezioni Unite fondano l’intero impianto motivazionale, anche con riferimento alla fattispecie in esame, sul meccanismo di surroga o di rivalsa.

Avuto riguardo alla specifica questione oggetto del contrasto, il Collegio rileva in primo luogo che, nell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro, la rendita INAIL costituisce una prestazione economica a contenuto indennitario erogata in funzione di copertura del pregiudizio (l’inabilità permanente generica, assoluta o parziale, e, a seguito della riforma apportata dal d.lgs. 23 febbraio 2000, n. 38, anche il danno alla salute) occorso al lavoratore in caso di infortunio sulle vie del lavoro.

In secondo luogo, evidenzia che il ristoro del danno coperto dall’assicurazione obbligatoria può presentare delle differenze nei valori monetari rispetto al danno civilistico (Cass., Sez. lav., 11 gennaio 2016, n. 208, non massimata; Sez. L, n. 09166/2017, F. Amendola, Rv. 644028 - 01). Nondimeno, la rendita corrisposta dall’INAIL soddisfa, neutralizzandola in parte, la medesima perdita al cui integrale ristoro mira la disciplina della responsabilità risarcitoria del terzo, autore del fatto illecito, al quale sia addebitabile l’infortunio in itinere subito dal lavoratore.

Dopo aver impostato nei termini che precedono la questione, le Sezioni Unite tornano a porre al centro del ragionamento il diritto di surroga spettante all’Inail.

Il sistema normativo prevede un meccanismo di riequilibrio idoneo a garantire che il terzo responsabile dell’infortunio “sulle vie del lavoro”, estraneo al rapporto assicurativo, sia collateralmente obbligato a restituire all’INAIL l’importo corrispondente al valore della rendita per inabilità permanente costituita in favore del lavoratore assicurato.

Difatti, l’art. 1916 c.c. dispone che l’assicuratore che ha pagato l’indennità è surrogato, fino alla concorrenza dell’ammontare di essa, nei diritti dell’assicurato verso il terzo danneggiante. Tale disposizione si applica, per espressa previsione, «anche alle assicurazioni contro gli infortuni sul lavoro e contro le disgrazie accidentali», estendendosi così il diritto di surrogazione agli enti esercenti le assicurazioni sociali. Il diritto di surrogazione stabilito a favore dell’assicuratore comporta, per effetto del pagamento dell’indennità, una sostituzione personale ope legis di detto assicuratore all’assicurato-danneggiato nei diritti di quest’ultimo verso il terzo responsabile del danno.

Inoltre, l’art. 142 del codice delle assicurazioni private (approvato con il d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209) - nel riprodurre le previsioni contenute nell’abrogato art. 28 della legge 24 dicembre 1969, n. 990, sull’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli a motore e dei natanti - stabilisce che, qualora il danneggiato sia assistito da assicurazione sociale, l’ente gestore di questa abbia diritto di ottenere direttamente dall’impresa di assicurazione il rimborso delle spese sostenute per le prestazioni erogate al danneggiato ai sensi delle leggi e dei regolamenti che disciplinano detta assicurazione, sempreché a quest’ultimo non sia già stato pagato il risarcimento. Proprio per evitare detta evenienza, il comma 2 del citato art. 142 prevede, in continuità con la precedente disposizione, un articolato meccanismo di interpello del danneggiato, con la richiesta di una dichiarazione attestante che lo stesso non abbia diritto ad alcuna prestazione da parte di istituti che gestiscono assicurazioni sociali obbligatorie, e di comunicazione al competente ente di assicurazione sociale, ove il danneggiato dichiari di avere diritto a tali prestazioni.

Sullo specifico punto si segnala che la recente l. 30 dicembre 2018, n. 145 (con decorrenza dall’1 gennaio 2019), all’art. 1, comma 1126, lett. f), ha modificato il testo e la portata normativa del comma 2 dell’art. 142 cod. ass. nei termini che seguono:

«Prima di provvedere alla liquidazione del danno, l’impresa di assicurazione è tenuta a richiedere al danneggiato una dichiarazione attestante che lo stesso non ha diritto ad alcuna prestazione da parte di istituti che gestiscono assicurazioni sociali obbligatorie. Ove il danneggiato dichiari di avere diritto a tali prestazioni, l’impresa di assicurazione è tenuta a darne comunicazione al competente ente di assicurazione sociale e potrà procedere alla liquidazione del danno solo previo accantonamento di una somma a valere sul complessivo risarcimento dovuto idonea a coprire il credito dell’ente per le prestazioni erogate o da erogare a qualsiasi titolo» (n.d.r.: evidenziazione in grassetto dello scrivente).

Così formulata, la disposizione sembrerebbe prevedere che la somma da accantonarsi in favore dell’ente di assicurazione sociale, che, a sua volta, dovrebbe coprire il credito vantato dall’ente per le prestazioni erogate o erogande, debba essere decurtata dal complessivo risarcimento dovuto dall’impresa di assicurazione in favore del danneggiato, e non più distinguendo a seconda delle voci specifiche ristorate.

Le due norme - l’art. 1916 c.c., da una parte, e l’art. 142 del codice delle assicurazioni private, dall’altra - regolano rapporti intersoggettivi diversi, rispettivamente nei confronti del terzo responsabile e del suo assicuratore, e tuttavia contrassegnati da un elemento comune: la successione nel credito risarcitorio dell’assicurato-danneggiato, la quale attribuisce all’ente gestore dell’assicurazione sociale che abbia indennizzato la vittima la titolarità della pretesa nei confronti dei distinti soggetti obbligati, al fine di ottenere il rimborso tanto dei ratei già versati quanto del valore capitalizzato delle prestazioni future.

La surrogazione, secondo l’impostazione privilegiata dalle Sezioni Unite, mentre consente all’istituto di recuperare dal terzo responsabile le spese sostenute per le prestazioni assicurative erogate al lavoratore danneggiato, impedisce a costui di cumulare, per lo stesso danno, la somma già riscossa a titolo di rendita assicurativa con l’intero importo del risarcimento del danno dovutogli dal terzo, e di conseguire così due volte la riparazione del medesimo pregiudizio subito.

Il minimo comune denominatore è rappresentato dalla convinzione che le somme che il danneggiato si sia visto liquidare dall’INAIL a titolo di rendita per l’inabilità permanente vanno detratte dall’ammontare dovuto, allo stesso titolo, dal responsabile al predetto danneggiato.

Infatti, mancando tale detrazione, il danneggiato verrebbe a conseguire un importo maggiore di quello cui ha diritto.

L’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni è espressione del favor che la Costituzione e il legislatore hanno inteso accordare al lavoratore con l’addossare in ogni caso all’istituto le prestazioni previdenziali, le quali assumono perciò carattere di anticipazione rispetto all’assolvimento dell’obbligo a carico del responsabile (Corte cost., sentenza n. 134 del 1971). Ma l’intervento del sistema di sicurezza sociale attraverso l’erogazione della prestazione assicurativa non consente al lavoratore di reclamare un risarcimento superiore al danno effettivamente sofferto: gli consente, invece, di agire nei confronti del terzo, cui è addebitabile l’infortunio in itinere, per ottenere la differenza tra il danno subito e quello indennizzato, allo stesso titolo, dall’INAIL (e così le Sezioni Unite hanno fatto salvo il diritto del lavoratore di agire nei confronti del danneggiante per ottenere tale eventuale differenza). L’infortunato, pertanto, perde la legittimazione all’azione risarcitoria per la quota corrispondente all’indennizzo assicurativo riscosso o riconosciuto in suo favore, mentre conserva il diritto ad ottenere nei confronti del responsabile il residuo risarcimento ove il danno sia solo in parte coperto dalla detta prestazione assicurativa.

Per l’altro verso, l’ente previdenziale, avendo provveduto all’erogazione delle prestazioni indennitarie a causa del fatto illecito di un terzo estraneo al rapporto assicurativo, potrà pretendere attraverso la surrogazione, esercitabile anche nei confronti dell’assicuratore della responsabilità civile di detto terzo responsabile, il rimborso delle spese sostenute per erogare quelle prestazioni, in tal modo impedendo che il responsabile civile, avvantaggiandosi ingiustamente dell’intervento della protezione previdenziale in favore dell’infortunato, paghi soltanto il danno differenziale al lavoratore.

Il risarcimento resta pertanto dovuto dal responsabile del sinistro per l’intero, essendo questi tenuto a rimborsare all’ente gestore dell’assicurazione sociale le spese sostenute per le prestazioni erogate al lavoratore e a risarcire il maggior danno al danneggiato: la riscossione della rendita INAIL da parte dell’assicurato-danneggiato in conseguenza dell’evento dannoso non ha, quindi, alcuna incidenza sulla prestazione del terzo responsabile, il quale dovrà risarcire, in ogni caso, l’intero danno.

Inserendosi nel solco di tale impostazione, Sez. 3, n. 14362/2019, Guizzi, Rv. 654202 – 01, ha affermato che la rendita vitalizia in favore del coniuge superstite del lavoratore vittima di un infortunio in itinere, così come quella temporanea liquidata ai figli, assolve ad una funzione di "anticipo" del ristoro del danno da perdita degli apporti economici garantiti dal familiare deceduto e va, quindi, detratta dall’ammontare del risarcimento dovuto, allo stesso titolo, da parte del terzo responsabile del fatto illecito ai congiunti, i quali, di conseguenza, hanno diritto ad ottenere l’importo residuo, nel caso in cui il danno liquidato sia stato soltanto in parte coperto dalla predetta prestazione assicurativa, e non somme ulteriori.

5. La detraibilità dell’indennità di accompagnamento.

Le Sezioni Unite (Sez. U, n. 12567/2018, Giusti, Rv. 648650 – 01) sono state chiamate a risolvere anche il contrasto di giurisprudenza (in particolare, tra n. 07774 del 2016, Rv. 639494 – 01, e n. 20548 del 2014, Rv. 632962 – 01) sulla questione se nella liquidazione del danno patrimoniale relativo alle spese di assistenza che una persona invalida (nel caso di specie, un neonato vittima di malpractice medica) è costretta a sostenere vita natural durante per l’assistenza personale, debba tenersi conto, in detrazione (del valore capitalizzato), della indennità di accompagnamento erogata dall’Istituto nazionale della previdenza sociale.

Ribadendo il concetto già espresso con le precedenti (sia pure contestuali, sul piano della pubblicazione) pronunce, le Sezioni Unite rinnovano il riconoscimento della valenza assorbente della ragione giustificatrice dell’attribuzione patrimoniale erogata dal terzo e della funzione in concreto assolta dal beneficio collaterale erogato ed individuano il punto cruciale dell’intera costruzione nel meccanismo di surroga o di rivalsa.

Venendo alla specifica questione oggetto del contrasto, le Sezioni Unite muovono dal rilievo che l’indennità di accompagnamento è riconosciuta dalla legge 11 febbraio 1980, n. 18, a favore di coloro, anche minori di diciotto anni, che si trovano nella impossibilità di deambulare senza l’aiuto permanente di un accompagnatore o che, non essendo in grado di compiere gli atti quotidiani della vita, abbisognano di un’assistenza continua.

Non v’è dubbio che alla base della previsione legislativa vi sia una finalità solidaristica ed assistenziale: con l’erogazione di quell’indennità a chi si trova in condizioni di bisogno, lo Stato corrisponde, infatti, ad un interesse di tutta la collettività, garantendo l’esistenza delle condizioni necessarie all’effettivo godimento dei diritti fondamentali e realizzando la tutela della persona umana in situazione di difficoltà.

L’afflato solidaristico della comunità che si esprime attraverso la scelta legislativa assistenziale di per sé non escluderebbe, secondo la S.C., il computo di quel beneficio ai fini dell’operazione di corretta stima del danno, ma sempre che ricorresse la seguente, duplice condizione:

a) che il vantaggio abbia la funzione di rimuovere le conseguenze prodottesi nel patrimonio del danneggiato per effetto dell’illecito;

b) che sia legislativamente previsto un meccanismo di riequilibrio idoneo ad assicurare che il responsabile dell’evento dannoso, destinatario della richiesta risarcitoria avanzata dalla vittima, sia collateralmente obbligato a restituire all’amministrazione pubblica l’importo corrispondente al beneficio da questa erogato all’assistito.

Sulla base di tali presupposti, le Sezioni Unite ritengono applicabile, nel caso di specie, lo scomputo da compensatio, con la sottrazione, dall’ammontare del risarcimento del danno, del valore capitalizzato della indennità di accompagnamento.

Per un verso, infatti, quest’ultima, prevista dalla legge ed erogata in favore del danneggiato in conseguenza della minorazione invalidante, è rivolta a fronteggiare e a compensare direttamente - e non mediatamente - il medesimo pregiudizio patrimoniale causato dall’illecito: appunto, quello consistente nella necessità di dover retribuire un collaboratore od assistente per le necessità della vita quotidiana del minore reso disabile per negligenza al parto.

Per altro verso, lo strumento di riequilibrio, idoneo ad escludere che l’autore della condotta dannosa finisca per giovarsi di quella erogazione solidaristica e, nello stesso tempo, a mantenere la stima del danno entro i binari della ragionevolezza e della proporzionalità, sarebbe rappresentato dall’art. 41 della legge 4 novembre 2010, n. 183.

Secondo questa disposizione, infatti, «le pensioni, gli assegni e le indennità, spettanti agli invalidi civili ai sensi della legislazione vigente, corrisposti in conseguenza del fatto illecito di terzi, sono recuperate fino a concorrenza dell’ammontare di dette prestazioni dall’ente erogatore delle stesse nei riguardi del responsabile civile e della compagnia di assicurazioni», mentre è rimessa ad un decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze (poi emanato in data 19 marzo 2013) la fissazione dei criteri e delle tariffe per la determinazione del valore capitale delle prestazioni erogate agli invalidi civili.

Si tratta, sostengono i giudici di legittimità, di una disposizione che - benché ancorata non al modello della successione a titolo particolare nel diritto di credito risarcitorio dell’assistito, ma a quello della previsione, in capo all’ente erogatore, di un diritto di credito autonomo e distinto (112) - è significativa per un duplice ordine di considerazioni.

In primo luogo, perché essa conferma logicamente la funzione compensativa dell’indennità di accompagnamento corrisposta all’invalido civile: una provvidenza che -quando l’invalidità dipenda, come nell’ipotesi di specie, dalla responsabilità del medico e della struttura ospedaliera - ha la specifica finalità di concorrere a rimuovere le conseguenze prodottesi nel patrimonio del danneggiato per effetto dell’illecito o dell’inadempimento e del danno che ne è derivato. In tanto, infatti, si giustifica il "recupero" da parte dell’ente erogatore del valore capitale dell’indennità di accompagnamento nei confronti del terzo autore della condotta dannosa, in quanto l’erogazione assistenziale condivide, con il risarcimento del danno, la finalità di riparare il pregiudizio rappresentato dagli oneri di assistenza.

In secondo luogo, perché quella previsione, componendo le risposte del sistema (dell’obbligo risarcitorio da responsabilità medica, da una parte, e dell’intervento solidaristico dell’assistenza sociale, dall’altra), determina i presupposti non solo per il recupero da parte dell’istituto erogatore, ma anche per una imputazione del beneficio collaterale al risarcimento, non potendo l’autore della condotta colposa essere tenuto a rispondere due volte per lo stesso fatto, una volta (verso il danneggiato) per un importo pari all’intero ammontare del danno risarcibile, l’altra (verso l’amministrazione pubblica) per un importo corrispondente al valore capitalizzato dell’indennità di accompagnamento erogato dall’Inps.

In sostanza, vista dal lato dell’assistito-danneggiato, la percezione del beneficio dell’indennità di accompagnamento, essendo rivolta alla medesima copertura degli oneri di assistenza provocati dal fatto illecito del terzo, assume la valenza di un anticipo, per ragioni di solidarietà sociale ed in presenza della lesione di interessi primari costituzionalmente protetti, della somma che potrà essere ottenuta dal terzo a titolo di risarcimento del danno. La previsione dell’azione ex art. 41 della legge n. 183 del 2010, diretta a consentire all’istituto pubblico erogatore di recuperare dal terzo responsabile quanto corrisposto al proprio assistito, impedisce a quest’ultimo di cumulare, per lo stesso danno, la somma già riscossa a titolo di beneficio assistenziale con l’intero importo del risarcimento.

6. Le questioni rimaste irrisolte: le spese per le prestazioni a domicilio erogate dal servizio pubblico.

Per quanto fosse strettamente connessa a quella relativa all’indennità di accompagnamento, le Sezioni Unite non si sono pronunciate sull’altra questione sollevata con l’ordinanza interlocutoria, avente ad oggetto le spese per le prestazioni a domicilio erogate dal servizio pubblico.

Sul punto le stesse si sono limitate ad escludere l’ammissibilità dei motivi che lamentavano la mancata detrazione anche del valore delle prestazioni a domicilio erogate dal Servizio sanitario regionale. Sotto questo profilo, infatti, le censure articolate non si confrontavano adeguatamente con la ratio decidendi che sosteneva la pronuncia della corte d’appello, la quale aveva evidenziato, con un accertamento di fatto congruamente motivato, che quelle prestazioni erano limitate ad alcuni accessi e non riducevano né elidevano la necessità di una continua assistenza, diurna e notturna, i cui oneri costituivano, invece, il danno emergente liquidato dal giudice del merito.

Di qui la non rilevanza, nella specie, di un problema di compensatio, posto che, appunto, quei servizi domiciliari non erano in sostanza rivolti alla copertura del medesimo pregiudizio ritenuto risarcibile dal giudice del merito.

Peraltro, in proposito, è opportuno ricordare che la Corte Suprema sembra essere orientata nel senso che, nel caso di cure mediche rese dal servizio sanitario nazionale in favore del danneggiato dal fatto illecito altrui, all’ente gestore non competerebbe l’azione di rivalsa prevista dall’art. 1916 c.c., né l’azione surrogatoria di cui all’art. 1203, n. 3, c.c., per difetto, in entrambi i casi, dei presupposti di legge (atteso che, dopo l’introduzione del principio di gratuità delle prestazioni medesime e la fiscalizzazione del relativo finanziamento, per un verso non è più riconoscibile al SSN la qualifica di assicuratore sociale, mentre, per altro verso, non esiste un diritto del danneggiato nel quale l’ente possa surrogarsi). Non competerebbe altresì l’azione speciale prevista dall’art. 1 l. 3 dicembre 1931, n. 1580, poiché tale disposizione è stata abrogata dal d.l. 25 giugno 2008, n. 112. Per recuperare i costi delle prestazioni eseguite in favore del danneggiato, il servizio sanitario nazionale potrebbe agire per il risarcimento del danno extracontrattuale, ex art. 2043 c.c., nei confronti dell’autore del fatto illecito, stante l’obbligo dell’autore dell’illecito di risarcire tutte le conseguenze dirette dello stesso, compresi i costi sostenuti dal SSN per le cure mediche e l’assistenza sanitaria. A ciò non osterebbe la gratuità delle prestazioni sanitarie, che varrebbe solo nei rapporti fra servizio e degente, ma non escluderebbe la responsabilità aquiliana del danneggiante per i costi sostenuti a causa della sua condotta illecita. Il servizio non avrebbe titolo, tuttavia, ad agire per il recupero delle spese sostenute in favore delle vittime di sinistri derivanti dalla circolazione dei veicoli a motore o dei natanti, poiché tali prestazioni sanitarie sono già compensate ex lege mediante un contributo sui premi delle assicurazioni per la responsabilità civile, previsto dall’art. 334 d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209, espressamente definito come sostitutivo delle azioni spettanti alle Regioni e agli altri enti che erogano prestazioni a carico del servizio sanitario nazionale( Sez. 3, n. 24289/2017, D’Arrigo, Rv. 645836 - 01).

7. Il danno conseguente al contagio a seguito di emotrasfusioni con sangue infetto.

Consolidata deve reputarsi la giurisprudenza della S.C. in tema di risarcimento del danno conseguente al contagio a seguito di emotrasfusioni con sangue infetto.

Fermo restando che la scomputabilità dell’indennizzo di cui alla l. n. 210 del 1992 deriva, ancor prima che dalla funzione ristoratrice del danno coincidente con quella del risarcimento, dalla coincidenza sul piano soggettivo del soggetto tenuto ad erogare l’indennizzo e di quello responsabile per omissione dei dovuti controlli (vale a dire, il Ministero della salute), per Sez. 3, n. 04309/2019, Positano, Rv. 652747 – 01, in caso di responsabilità per contagio da virus HBV, HIV o HCV a seguito di emotrasfusioni con sangue infetto, opera la compensatio anche laddove solo in apparenza non sussista coincidenza fra il danneggiante e il soggetto che eroga la provvidenza - nella specie, rispettivamente, Azienda Sanitaria Locale e Regione Umbria -, allorquando possa comunque escludersi che, per effetto del diffalco, si determini un ingiustificato vantaggio per il responsabile, benché la l. n. 210 del 1992 non preveda un meccanismo di surroga e rivalsa sul danneggiante in favore di chi abbia erogato l’indennizzo. Da ciò si ricavano due importanti corollari: 1) il presupposto della coincidenza soggettiva, in presenza del quale è escluso il cumulo, deve essere scrutinato in termini sostanziali; 2) nell’ipotesi in cui si verifichi la detta coincidenza, viene meno la necessità della ricorrenza di un meccanismo riequilibratore analogo a quello previsto dall’art. 1916 c.c., vale a dire di uno dei presupposti reputati indefettibili dalle Sezioni Unite.

Sempre in materia Sez. 3, n. 21837/2019, Scarano, Rv. 655085 – 02, ha ribadito che, nel giudizio promosso nei confronti del Ministero della salute per il risarcimento del danno conseguente al contagio a seguito di emotrasfusioni con sangue infetto, l’indennizzo di cui alla l. n. 210 del 1992 può essere scomputato dalle somme liquidabili a titolo di risarcimento del danno solo se sia stato effettivamente versato o, comunque, sia determinato nel suo preciso ammontare o determinabile in base a specifici dati della cui prova è onerata la parte che eccepisce il lucrum, posto che l’astratta spettanza di una somma suscettibile di essere compresa tra un minimo ed un massimo, a seconda della patologia riconosciuta, non equivale alla sua corresponsione e non fornisce elementi per individuarne l’esatto ammontare, né il carattere predeterminato delle tabelle consente di determinare, in mancanza di dati specifici cui è onerato chi eccepisce il lucrum, il preciso importo da portare in decurtazione del risarcimento (Sez. 3, n. 02778/2019, Moscarini, Rv. 652294 – 01; in tal senso, in passato, v. Sez. 6 - 3, n. 14932/2013, De Stefano, Rv. 626869 – 01 e, più di recente, Sez. 3, n. 20909/2018, Moscarini, Rv. 650441 – 01). In applicazione del principio, la S.C. ha cassato la sentenza di appello che, ai fini della detrazione dall’importo risarcitorio dell’indennizzo ex lege n. 210 del 1992, ne aveva ritenuto provata la corresponsione al dante causa dei ricorrenti, alla luce della documentazione versata in atti e delle allegazioni contenute nella citazione introduttiva del giudizio di primo grado, sebbene il relativo mandato di pagamento fosse stato prodotto senza quietanza.

Tuttavia, per quanto le Sezioni Unite nel 2008 (Sez. U, n. 00584/2008, cit.) abbiano avallato la tesi contraria al cumulo, l’indennizzo viene riconosciuto al soggetto leso come misura economica di sostegno aggiuntiva, volta a realizzare una forma di solidarietà puramente assistenziale (più precisamente, viene riconosciuto quando il cittadino subisce un danno alla salute nell’adempimento dei doveri di solidarietà), e per il solo fatto di aver subìto un danno permanente in seguito al contagio, e sembra pertanto del tutto svincolato da un’eventuale responsabilità ex art. 2043 c.c.

8. Un meccanismo di surrogazione o di rivalsa è sempre indefettibile?

Al di là dei casi in cui non occorre (recte, non soccorre) un meccanismo di surrogazione o di rivalsa (cfr. il caso dell’indennizzo ex lege n. 210 del 1992 in precedenza analizzato) e di quelli in cui, con qualche forzatura, questo meccanismo è stato individuato sul piano normativo (cfr., quanto all’indennità di accompagnamento, l’art. 41 della legge 4 novembre 2010, n. 183; § 5.1.), è necessario domandarsi se sia sempre e comunque necessario ricercarlo e, soprattutto, quali siano le conseguenze, ai nostri fini, nel caso in cui siffatta ricerca dia esiti negativi.

Il tutto alla luce della considerazione generale per cui sia nel caso in cui il danneggiato riceva prima l’indennizzo assicurativo, sia nel caso in cui consegua prima il risarcimento, il danno — almeno per la quantità coperta dall’ammontare dell’indennizzo — è da considerarsi ormai ristorato. Nella prima evenienza l’intervento dell’assicuratore riesce ad elidere, almeno fino alla concorrenza del corrisposto a titolo di indennizzo, il pregiudizio sofferto dalla vittima, non potendosi pretendere il risarcimento di un danno che non sussiste più; nel secondo caso, l’assicuratore non è tenuto alla corresponsione di alcuna indennità, non essendovi più alcuna conseguenza lesiva da riparare. In definitiva, l’eventuale somma percepita dal danneggiato a titolo indennitario escluderebbe la sussistenza stessa, in parte qua, di un danno: un danno indennizzato, infatti, non dovrebbe essere più, per la parte indennizzata, tale, almeno nell’orbita di un sistema di responsabilità civile come il nostro che, salvo spunti di carattere (ancora) settoriale, rifugge da intenti punitivi (nel senso di un’apertura, peraltro, si rinvia a Sez. U, n. 16601/2017, D’Ascola, Rv. 644914 – 01), sanzionatori o, comunque, lato sensu afflittivi per il danneggiante e si pone il solo scopo di rimediare, mediante la ricostituzione (in forma specifica o per equivalente monetario) del patrimonio del danneggiato, ad un’alterazione patrimoniale o patrimonialmente valutabile della di lui sfera giuridica. Così Cass. 13233/2014, cit., nel ribadire, in tema di polizze assicurative contro gli infortuni, la teoria del cd. “doppio binario” (sul punto, vedasi postea), ha affermato che indennizzo assicurativo e risarcimento non si potrebbero cumulare non già perché sarebbe operante in tale ipotesi il principio della compensatio, ma perché, nell’assicurazione contro i danni, un danno risarcibile non ci sarebbe più per la parte indennizzata dall’assicuratore.

L’ammissibilità del cumulo di indennizzo e risarcimento non dovrebbe, a rigore, farsi dipendere dalla circostanza che l’assicuratore del danneggiato abbia o meno manifestato la volontà di surrogarsi a quest’ultimo nei confronti del responsabile, ex art. 1916 c.c.; e ciò in quanto la surrogazione dell’assicuratore non dovrebbe interferire in alcun modo con il problema dell’esistenza del danno, essendo del tutto irrilevante che sia stato esercitato o meno tale diritto, giacché non può mai essere risarcito un danno non più esistente per essere stato indennizzato, almeno fino all’ammontare dell’indennizzo assicurativo.

In realtà, a ben vedere, l’istituto della surrogazione e la stima del danno da fatto illecito sono "sganciati", perché la detrazione del vantaggio è necessaria per la corretta stima del danno, non per evitare al danneggiante un doppio pagamento; ne consegue che, una volta escluso qualsiasi nesso di implicazione reciproca o bilaterale, il pagamento effettuato dall’assicuratore sociale o privato dovrà sempre essere detratto dal risarcimento, a nulla rilevando né che l’ente pagatore non abbia diritto alla surrogazione, né che, avendolo, vi abbia rinunciato. Del resto, le stesse Sezioni Unite sembrerebbero essersi orientate in tal senso nel momento in cui, con riferimento al disastro aereo di Ustica, affermano che la Corte d’Appello di Roma ha <<correttamente escluso che X - che nel 1980 è stata integralmente tacitata dal proprio assicuratore, avendo incassato da A, per la perdita dell’aeromobile, un’indennità assicurativa di lire 3.800.000.000, importo superiore al valore corrente dell’aeromobile al momento del disastro, stimato dal c.t.u. in lire 1.586.510.540 - possa poi cumulare, per lo stesso danno, la somma già riscossa a titolo di indennità assicurativa con l’ammontare del risarcimento dovuto dai terzi responsabili, a nulla rilevando che A non abbia mai esercitato la surroga nei confronti dei Ministeri (la sottolineatura è dello scrivente). Infatti, una volta che abbia riscosso l’indennizzo dal proprio assicuratore, il danneggiato non può agire contro il responsabile se non per la differenza, non essendovi spazio per una doppia liquidazione a fronte di un pregiudizio identico. E poiché nella specie tale indennità è superiore al valore corrente dell’aeromobile al momento del disastro, essa, in assenza di prova della sua insufficienza rispetto al danno effettivo, ha effettivamente eliso, secondo l’incensurabile apprezzamento dei giudici del merito, il danno, e con esso il diritto di X di ottenere, da parte delle Amministrazioni convenute, il risarcimento per la perdita dell’aeromobile>>.

Assolvendo, dunque, indennizzo e risarcimento ad una identica funzione, la corresponsione dell’indennizzo al danneggiato-assicurato produce l’effetto di elidere in misura corrispondente il suo credito risarcitorio nei confronti del danneggiante, che pertanto si estingue, non potendo più essere preteso né azionato, e ciò anche prescindendo da un meccanismo di surroga o di rivalsa. La surrogazione dell’assicuratore non interferisce in alcun modo con il problema dell’esistenza del danno, e quindi con il principio indennitario: abbia o non abbia l’assicuratore rinunciato alla surroga, non potrebbe essere risarcito il danno inesistente ab origine o non più esistente, ed il danno indennizzato dall’assicuratore sarebbe un danno che avrebbe cessato di esistere dal punto di vista giuridico dal momento in cui la vittima avesse percepito l’indennizzo e fino all’ammontare di questo.

L’estinzione del diritto al risarcimento in capo all’assicurato avverrebbe per effetto del solo pagamento dell’indennità assicurativa e non in conseguenza della surrogazione, la quale, semmai, sarebbe un effetto (posterius) dell’estinzione e non la causa di essa.

È chiaro, infine, che, qualora pagasse prima il responsabile, la percezione dell’integrale risarcimento da parte del danneggiato-creditore estinguerebbe l’obbligazione del danneggiante-debitore, di modo che l’assicuratore che avesse pagato l’indennizzo non potrebbe più agire in surrogazione, in quanto il danneggiante potrebbe validamente eccepire l’estinzione del proprio debito.

Ed allora, al di fuori dei casi in cui il detto meccanismo è espressamente contemplato in termini di riequilibrio, ciò non esclude che una verifica caso per caso consente di selezionare le ipotesi di operatività della compensatio ogni qualvolta sia rinvenibile nell’ordinamento un altro correttivo di tipo equitativo che valorizzi l’indifferenza del risarcimento, ma, nello stesso tempo, eviti che della stessa benefici l’autore dell’illecito.

Tale correttivo (al netto dei casi in cui, come visto, sussiste una coincidenza tra il soggetto autore dell’illecito tenuto al risarcimento e quello chiamato per legge o contratto ad erogare il beneficio) dovrebbe essere individuato nella finalità o funzione economico-sociale (indennitaria o previdenziale) perseguita attraverso l’erogazione dell’indennizzo.

9. Il vantaggio frutto di scelte autonome e del sacrificio del danneggiato.

Sebbene non sempre sia agevole distinguere a seconda che il sacrificio, da parte del soggetto danneggiato, si traduca nel versamento di contributi (nel qual caso, in tema di pensione di reversibilità, si è ammesso il cumulo con il risarcimento) o nella corresponsione di premi (nel qual caso, in tema di indennizzi assicurativi, si è, invece, avallata la tesi dello scomputo), a rigore, non potrebbero rientrare nel raggio di operatività della compensatio i casi in cui il vantaggio si presenti come il frutto di scelte autonome e del sacrificio del danneggiato, come avviene nell’ipotesi della nuova prestazione lavorativa da parte del superstite, prima non occupato, in conseguenza della morte del congiunto. In quest’ottica, per aversi nell’ambito del giudizio di responsabilità civile una riduzione del danno risarcibile, sarebbe necessario che con il danno prodotto concorresse un autentico lucro prodotto, vale a dire un "gratuito vantaggio economico".

In quest’ottica, il patto in deroga all’art. 1916 c.c. viene inteso, da una parte della dottrina (113), come diretto a vantaggio dell’assicurato (cioè volto a consentire che questi ottenga sia il risarcimento integrale che l’indennizzo), e non del responsabile civile (nel senso che la compagnia, a fronte del maggior premio conseguito, si impegna preventivamente a non far valere il credito, in cui subentrerà, contro l’autore dell’illecito). Altrimenti, non si capirebbe la ragione per la quale l’assicurato contro gli infortuni dovrebbe accettare di pagare (come normalmente avviene nella prassi) un premio più elevato in cambio di un atto abdicativo che avvantaggerebbe (solo) un terzo. Tuttavia, il pagamento del premio è in sinallagma con il trasferimento del rischio e non con il pagamento dell’indennizzo, tanto è vero che, se alla scadenza del contratto il rischio non si è verificato, il premio resta ugualmente dovuto (cfr. § 3.5.). D’altra parte, se fosse sufficiente pagare il premio per cumulare indennizzo e risarcimento, e quindi trasformare il sinistro in una occasione di lucro, allora si dovrebbe conseguentemente ammettere che il contratto concluso non è più un’assicurazione, ma una scommessa, nella quale puntando una certa somma (il premio) lo scommettitore può ottenere una remunerazione complessiva assai superiore al danno subito. La possibilità di cumulare indennizzo e risarcimento darebbe luogo, in teoria, ad un interesse positivo dell’assicurato all’avverarsi del sinistro, venendo così meno sia il requisito strutturale e funzionale del rischio (che, ai sensi dell’art. 1895 c.c., deve configurarsi come la possibilità di avveramento di un evento futuro, incerto, dannoso e non voluto), sia il fondamentale requisito di un interesse dell’assicurato contrario all’avverarsi del sinistro, desumibile dall’art. 1904 c.c.

Sia pure sotto un diverso angolo visuale, non è chiaro se, in presenza di una previsione normativa nel senso della finalità indennitaria perseguita con il beneficio collaterale riconosciuto, l’indagine del giudice debba fermarsi o debba estendersi anche all’altro profilo, vale a dire l’esistenza, in favore del terzo che a vario titolo lo abbia erogato, di un meccanismo di surroga, di rivalsa o di recupero. Al contempo, se l’attribuzione avesse expressis verbis lo scopo di ristorare il pregiudizio subito dal danneggiato, occorrerebbe ugualmente scrutinare se la sua erogazione fosse o meno legata da un rapporto di sinallagmaticità (recte, di corrispettività) con un pregresso sacrificio economico gravante sul danneggiato. A voler prestare adesione alla soluzione prospettata dalle Sezioni Unite, al fine di scomputare l’indennizzo patrimoniale dal risarcimento preteso dal danneggiato, non sarebbe sufficiente una previsione normativa in tal senso, così come non sarebbe sufficiente la finalità indennitaria perseguita, ma sarebbe altresì necessaria l’assenza di un sacrificio di tipo economico a carico del danneggiato. In tal guisa ragionando, però, si introdurrebbe, di fatto, un terzo requisito, rappresentato dalla corrispettività (sotto forma di contributi o di premi) dell’indennizzo versato.

10. Le polizze infortuni.

Anche nel contesto delle polizze infortuni, le conclusioni cui sono pervenute le Sezioni Unite potrebbero, a volte, rivelarsi non estensibili.

Invero, di frequente le dette polizze prevedono la generica erogazione di determinate somme al verificarsi dell’infortunio, da calcolarsi in funzione della gravità del danno subìto ed alla misura del capitale assicurato indicato in polizza, ma senza alcun esplicito riferimento al concetto di danno biologico. Ben può accadere, allora, che a fronte di una modestissima IP, sia erogata, in forza del patto negoziale, una somma ingente (e completamente disallineata dai consueti parametri di liquidazione). E questo potrebbe smentire la tesi secondo cui la copertura “per le disgrazie accidentali” (non mortali) avrebbe – sempre e comunque - una “funzione indennitaria” (di “rivalere” o “risarcire un danno”, ai sensi degli artt. 1882, prima parte, e 1905 c.c.), anziché, lato sensu, previdenziale.

Guardando alle proposte assicurative presenti sul mercato, si scopre che buona parte dei contratti assicurazioni infortuni quantificano l’indennizzo riconoscibile in funzione dell’ammontare del premio versato. Ciò induce a riconoscere in simili operazioni vere e proprie operazioni di risparmio previdenziale, finalizzate ad assicurarsi mezzi adeguati alle proprie esigenze di vita in ipotesi di infortunio (utilizzando qui la nota definizione di assistenza e previdenza sociale di cui al dettato dell’art. 38, comma 2, Cost.), e non tanto coperture per garantirsi avverso ai danni (patrimoniali e non) derivanti dall’infortunio.

Appare allora necessario privilegiare un approccio che non escluda, ed anzi apprezzi, la possibilità di diversamente inquadrare le assicurazioni infortuni (e le assicurazioni della persona in genere) a seconda delle finalità effettivamente perseguite dalle parti, in ossequio a scopi che possono essere tanto indennitari quanto previdenziali (L. LOCATELLI, Assicurazione contro gli infortuni non mortali e cumulo di indennizzo e risarcimento del danno, in Responsabilità Civile e Previdenza, 2014, 6, 1885). Scopi che saranno rivelati, di volta in volta, dalla stessa struttura contrattuale, la quale, a seconda dei casi, potrebbe collegare ad infortuni del medesimo tipo prestazioni “risarcitorie” (in quanto mirate al ristoro dei pregiudizi effettivamente patiti ed ancorate ai concetti di danno biologico, non patrimoniale o patrimoniale) ovvero “previdenziali” (perché volte a soddisfare esigenze di risparmio e di provvista correlate al verificarsi di eventi infortunistici).

In definitiva, la natura dei contratti di assicurazione infortuni, ben al di là della distinzione tra eventi mortali e non mortali, deve essere rintracciata nella causa in concreto assegnata dalle parti alla convenzione assicurativa. Occorre, in particolare, comprendere se con un contratto di assicurazione infortuni il singolo contraente abbia inteso coprirsi da un vero e proprio danno alla persona oppure garantirsi, attraverso un’operazione di risparmio, le risorse per far fronte, secondo una logica para-previdenziale (non in linea con la funzione indennitaria), al mutamento delle condizioni di vita a seguito dell’infortunio.

Più in generale, l’accertamento che l’illecito abbia prodotto anche l’attribuzione patrimoniale non è sufficiente per poterla considerare come posta da conteggiare nel bilancio del danno, occorrendo altresì verificare quale sia la vera causa giustificativa dell’attribuzione, al fine di valutare se sia effettivamente autonoma rispetto al rapporto risarcitorio, o se invece abbia anch’essa una funzione sostanzialmente risarcitoria.

In particolare, occorre adeguatamente riflettere se le polizze attualmente in commercio (o quantomeno una parte di esse) si propongano effettivamente quale strumento riparatore di un danno e non, invece, quale strumento previdenziale completamente slegato dalla valutazione civile della lesione del bene dell’integrità fisica.

Per quanto l’accoglimento anche da parte del legislatore del danno biologico, il progredire delle teorie sul risarcimento del danno alla persona (sino a giungere ai più moderni arresti giurisprudenziali sul danno patrimoniale e non patrimoniale) e l’introduzione di specifiche tabelle di origine legale e giurisprudenziale fanno sì che sia possibile riconoscere la possibilità di introdurre una, sufficientemente precisa, valutazione del danno da menomazione o da malattie, questa possibilità di assegnare alla lesione una valutazione specifica non deve far dimenticare che la persona non può e non deve, comunque, essere confusa con la cosa. In quest’ottica, non può escludersi la possibilità di stipulare un contratto previdenziale che tuteli la persona attraverso un indennizzo che superi il valore civilistico di un bene che il legislatore si guarda bene dal considerare una cosa. Occorre, dunque, riflettere di volta in volta se l’assicurato attraverso una determinata polizza infortuni acquista un trasferimento di rischio a carattere previdenziale.

Occorre poi considerare quei progetti di vendita delle polizze infortuni che passano anche attraverso la rinuncia alla surrogazione, atta a consentire, almeno in via astratta, la possibilità per il cliente di ottenere, in caso di infortunio provocato da responsabilità di terzi, il cumulo delle due voci.

La clausola con la quale l’assicuratore contro i danni rinuncia preventivamente al diritto di surroga nei confronti del responsabile, di regola, giova soltanto a quest’ultimo (v. infra), il cui patrimonio non potrà essere aggredito dall’assicuratore ai sensi dell’art. 1916 c.c. È, tuttavia, opinione diffusa (ma errata, in quanto una eventuale clausola di tal fatta potrebbe produrre effetti solo nei rapporti tra assicurazione ed assicurato, ma giammai, ai sensi dell’art. 1372 c.c., in quelli tra l’assicurato ed il terzo responsabile, nei confronti del quale ultimo rappresenterebbe una res inter alios acta) che le parti del contratto di assicurazione, in deroga al principio indennitario, possano prevedere una rinuncia all’azione di surroga in favore non del responsabile, ma dell’assicurato, il quale potrebbe così pretendere sia il risarcimento dal terzo, sia l’indennità dall’assicuratore(Sez. 3, n. 08714/1998, Perconte Licatese, Rv. 112961 - 01).

L’impostazione più corretta è la seguente. La surrogazione, sia essa legale o convenzionale, determina la successione dell’assicuratore nel credito dell’assicurato e del beneficiario verso il responsabile del danno, che è, quindi, obbligato al risarcimento nei confronti dell’assicuratore nei limiti della somma da questo versata all’avente diritto; per effetto di essa, l’originario rapporto obbligatorio avente ad oggetto il risarcimento del danno si scinde in due diversi rapporti che hanno sorte propria e rimangono reciprocamente indifferenti; l’uno, avente la stessa natura del rapporto originario, riguarda il dovere del terzo responsabile di corrispondere il risarcimento del danno all’assicurato o al beneficiario nella misura eccedente le indennità a costoro già corrisposte dall’assicuratore, l’altro riguarda il dovere del terzo responsabile di rivalere l’assicuratore delle indennità corrisposte in forza del contratto di assicurazione. Ne consegue che, mentre la rinuncia dell’assicuratore all’esercizio della surroga per tutto l’ammontare della indennità corrisposta all’assicurato o al beneficiario giova solo al responsabile civile, l’importo del risarcimento spettante al danneggiato va, comunque, ridotto in misura pari all’ammontare della indennità versata dall’assicuratore medesimo all’assicurato (Sez. 3, n. 06091/1994, Favara, Rv. 487187 - 01).

11. L’omogeneità dei beni.

Incertezze potrebbero, ancora, residuare nel caso in cui le poste compensative del risarcimento e dell’indennizzo non avessero la stessa natura giuridica (in relazione alla fonte) e, quindi, concernessero beni non omogenei (ad esempio, non potrebbe operare la compensazione qualora la polizza coprisse voci di pregiudizio patrimoniale – spese mediche, perdita di guadagno -, laddove il danno azionato in via risarcitoria contro il responsabile attenesse a profili non patrimoniali), nel qual caso potrebbe ugualmente (cioè anche a voler prestare adesione alla tesi contraria al cumulo) dubitarsi sulla sovrapponibilità delle due forme di ristoro (sulla omogeneità delle poste da porre in compensazione si segnala Sez. 3, n. 09704/1997, Rv. 508562, e Sez. 3, n. 05650/1996, Rv. 498179).

In particolare, i principi sopra declinati in tanto potrebbero essere applicati in quanto le poste di danno (indennizzato e risarcibile) fossero omogenee. Così, qualora l’assicurazione coprisse il danno da perdita della capacità di lavoro (danno patrimoniale), e la vittima del fatto illecito avesse subìto soltanto un danno biologico (danno non patrimoniale), nessuna detrazione sarebbe possibile, a nulla rilevando che l’assicuratore avesse, per effetto di particolari clausole contrattuali che ammettessero l’indennizzabilità di un danno presunto, pagato ugualmente l’indennizzo.

Sul tema avrà senz’altro un’incidenza la modifica apportata dalla l. n. 145/2018 agli artt. 10 e 11 del T.U. n. 1124 del 31 giugno 1965, regolatore della disciplina INAIL.

I nuovi commi 6, 7 e 8 dell’art. 10 stabiliscono attualmente quanto segue:

«Non si fa luogo a risarcimento qualora il giudice riconosca che questo complessivamente calcolato per i pregiudizi oggetto di indennizzo, non ascende a somma maggiore dell’indennità che a qualsiasi titolo ed indistintamente per effetto del presente decreto è liquidata all’infortunato o ai suoi aventi diritto. Quando si faccia luogo a risarcimento, questo è dovuto solo per la parte che eccede le indennità liquidate a norma degli artt. 66 e seguenti e per le somme liquidate complessivamente ed a qualunque titolo a norma dell’art. 13, comma 2, lettere a) e b), del d.lgs. 23 febbraio 2000, n. 38. Agli effetti dei precedenti commi sesto e settimo l’indennità d’infortunio è rappresentata dal valore capitale della rendita complessivamente liquidata, calcolato in base alle tabelle di cui all’articolo 39 nonché da ogni altra indennità erogata a qualsiasi titolo» (n.d.r.: evidenziazione in grassetto dello scrivente).

La norma sembra avallare la tesi che, prendendo le mosse dall’art. 10, comma 7, d.P.R. n. 1124/1965, ritiene che il “danno differenziale” spettante all’infortunato derivi dal raffronto tra l’ammontare complessivo (dal che la definizione di calcolo “per poste complessive”) del risarcimento e quello delle indennità liquidate dall’INAIL, al fine di evitare un’ingiustificata attribuzione in favore degli aventi diritto, i quali, diversamente, percepirebbero, in relazione al medesimo infortunio, sia l’intero danno sia le indennità.

La scelta legislativa appare opinabile, atteso che, se per un verso consente di fatto di superare le incertezze in sede applicativa che deriverebbero dal criterio cd. per poste omogenee o “posta per posta”, per un altro verso, ovviamente allorquando si sia al cospetto di lesioni di entità pari o superiore al 16%, determinerebbe una indebita commistione tra danno patrimoniale e non, in aperto contrasto con la visione bipolare propugnata dalle sentenze di San Martino del 2009.

12.. L’assicurazione sulla vita.

Viceversa, per la dottrina pronunciatasi funditus sulla questione (M. ROSSETTI, Il diritto delle assicurazioni, II, Cedam, 2011, 15), nel caso dell’assicurazione sulla vita, l’assicurato ha ritenuto opportuno, durante la sua vita, pagare dei premi, per garantire ai beneficiari che, in caso di morte, i suoi risparmi sarebbero stati attribuiti ai detti beneficiari. In questo caso, sarebbe illogico pensare ad una compensatio. In particolare, nel caso di assicurazione sulla vita, l’indennità si cumulerebbe con il risarcimento, perché si sarebbe di fronte ad una forma di risparmio posta in essere dall’assicurato sopportando l’onere dei premi, e l’indennità, vera e propria contropartita di quei premi, svolgerebbe una funzione diversa da quella risarcitoria e sarebbe corrisposta per un interesse che non è quello di beneficiare il danneggiante. Ciò, del resto, sarebbe in linea con la direttiva seguita dal Draft Common Frame of Reference, in base al cui art. 6:103 del libro VI, dedicato alla equalisation of benefits, i vantaggi derivanti al soggetto che abbia sofferto un danno giuridicamente rilevante in conseguenza dell’evento dannoso non debbono essere presi in considerazione nel quantificare il danno, a meno che sia giusto e ragionevole farlo, avuto riguardo al tipo di danno sofferto, alla natura della responsabilità addebitata alla persona che ha causato il danno e, quando il beneficio sia erogato da un terzo, allo scopo perseguito conferendo il beneficio.

13. L’indennità di malattia, la pensione di invalidità e le prestazioni assistenziali.

In caso di sinistro che comporti la perdita totale o parziale, temporanea o definitiva, della capacità lavorativa, il danneggiato non può cumulare la prestazione previdenziale che abbia eventualmente percepito (a titolo di indennità di malattia o di pensione di invalidità) con l’integrale risarcimento del danno patrimoniale da lucro cessante, essendo entrambe le poste finalizzate al ristoro della lesione del medesimo bene della vita (vale a dire, la capacità di produrre reddito), sicchè, nel caso in cui l’ente previdenziale abbia corrisposto a tale titolo un’indennità al danneggiato, di quest’importo si dovrà tenere conto nella liquidazione del pregiudizio posto, sul piano risarcitorio, a carico del danneggiante (Sez. 3, n. 18050/2019, D’Arrigo, Rv. 654357 – 01).

Avuto riguardo alla questione del cumulo di stipendio e risarcimento del danno da incapacità lavorativa temporanea, nel caso di danno alla salute di un impiegato, per quanto la questione fu in un primo tempo affrontata affermandosi che, nel caso in cui un impiegato fosse rimasto assente dal lavoro a causa di un infortunio, continuando a percepire la retribuzione, egli avesse diritto di chiedere al danneggiante anche il danno da incapacità temporanea (cfr., in tal senso, Sez. 3, n. 04004/1968, Rv. 337584 – 01, Sez. 3, n. 02413/1977, Rv. 386120 – 01, e Sez. 3, n. 02413/1977, Rv. 386120 – 01, secondo cui la perdita o la diminuzione della capacità lavorativa costituiscono, di per sè, un danno risarcibile, senza che, nella determinazione dello stesso, possa influire il fattore, del tutto contingente ed estraneo, di una insussistente effettiva riduzione del guadagno, correlativa alla accertata incapacità lavorativa), occorre dare atto che la giurisprudenza di merito si è sulla stessa successivamente orientata nel senso che in tale evenienza non sussiste danno patrimoniale, e pertanto non compete alcun risarcimento a questo titolo, a meno che il lavoratore non deduca di avere dovuto rinunciare a straordinari o trasferte, o di avere subito pregiudizi nella carriera per la forzata assenza dal lavoro.

In realtà, nella fattispecie ipotizzata, ove lo stipendio continuasse ad essere percepito dall’infortunato nella sua interezza, il danno, sotto questo profilo, non si produrrebbe. Avuto riguardo alle pensioni, agli assegni e alle indennità spettanti agli invalidi civili e corrisposti in conseguenza del fatto illecito di terzi, anche alla luce del d.m. 19 marzo 2013, occorrerebbe tener presente che la prestazione verrebbe resa anche in assenza di illecito e deriverebbe perciò direttamente dal sistema assistenziale pubblico e solo indirettamente dall’illecito aquiliano. Peraltro, una parte della giurisprudenza di merito ritiene che, in caso di inabilità permanente che abbia provocato la dispensa dal servizio, con conseguente assegnazione della pensione di invalidità, il danneggiato potrebbe reclamare, nei confronti del danneggiante, solo la differenza tra gli stipendi che lo stesso avrebbe percepito ove avesse continuato a prestare la propria attività e l’ammontare della pensione di invalidità sino alla data di attribuzione di quella di vecchiaia, per evitare una ingiustificata locupletazione da parte dell’infortunato.

Al contempo, in tema di danno patrimoniale patito dalla vittima di un illecito, dall’ammontare del risarcimento deve essere detratto il valore capitale dell’assegno di invalidità erogato dall’INPS (ex art. 1 della l. n. 222 del 1984, dall’INPS alla vittima di un incidente stradale), attese la funzione indennitaria assolta da tale emolumento e la possibilità per l’ente previdenziale di agire in surrogazione nei confronti del terzo responsabile o del suo assicuratore (Sez. 3, n. 04734/2019, Cirillo, Rv. 652834 - 01).

Anche in materia di prestazioni assistenziali, l’art. 1 della legge 21 novembre 1988, n. 508, nella parte in cui, modificando la disciplina dell’indennità di accompagnamento, ha, tra l’altro, previsto l’incompatibilità della suddetta indennità “con analoghe prestazioni concesse per invalidità contratte per cause di guerra, di lavoro o di servizio”, dovrebbe essere interpretato nel senso che, al fine della verifica della sussistenza o meno del suddetto rapporto di analogia, il raffronto tra le prestazioni deve essere operato facendosi esclusivo riferimento alla natura e alle finalità delle stesse. Ne consegue che il divieto di cumulo in oggetto dovrebbe considerarsi operante esclusivamente rispetto alle prestazioni dirette a sopperire alle medesime esigenze cui fa fronte l’indennità di accompagnamento e non con riguardo a prestazioni predisposte per soddisfare altre e differenti esigenze e necessità (Sez. L, n. 19226/2011, Rv. 619096 – 01).

In questo ambito, Sez. L, n. 30568/2019, Mancino, Rv. 655874 - 01, ha stabilito che le prestazioni assistenziali relative all’indennità di accompagnamento e alla cecità parziale sono cumulabili, ove ricorrano i rispettivi presupposti, a condizione che il riconoscimento delle stesse avvenga in base a malattie o minorazioni diverse, e la cecità non sia stata, quindi, valutata quale fattore concorrente ad integrare lo stato di inabilità, funzionale all’attribuzione dell’indennità di accompagnamento. In particolare, le due prestazioni sono cumulabili in ragione della diversa funzione di tali provvidenze, che tendono, nell’uno caso, a sopperire alla condizione di bisogno di chi a causa dell’invalidità non é in grado di procacciarsi i necessari mezzi di sostentamento, nell’altro, a consentire ai soggetti non autosufficienti condizioni esistenziali compatibili con la dignità della persona umana, dovendosi considerare, nella valutazione complessiva dello stato di inabilità totale, l’eventuale concorso della cecità parziale con le altre minorazioni nel determinare la perdita di autonomia e autosufficienza che dà diritto all’indennità di accompagnamento per effetto della sentenza della Corte cost. n. 346 del 1989.

Un caso con riferimento al quale la S.C. sembra essere pervenuta a conclusioni condivise (Sez. 3, n. 31007/2018, Olivieri, Rv. 651941 – 01; Sez. 6 - 3, n. 01002/2019, Cirillo, Rv. 652093 – 01) è quello della morte di un militare in servizio, a seguito di patologia contratta a causa dell’inquinamento ambientale radioattivo da uranio impoverito cui era stato sottoposto durante una missione internazionale. In questa fattispecie dal risarcimento del danno non patrimoniale liquidato iure proprio ai suoi familiari deve essere detratto, in applicazione del principio della compensatio lucri cum damno, l’indennizzo già erogato agli stessi familiari in conseguenza del decesso del congiunto (nel secondo caso l’indennizzo era stato erogato al militare ai sensi dell’art. 2, commi 78 e 79, della l. n. 244 del 2007, ratione temporis applicabile), trattandosi di una forma di tutela avente finalità compensativa ed essendo posto a carico del medesimo soggetto (Amministrazione statale) obbligato al risarcimento del danno.

14. La finalità solidaristica perseguita.

Secondo un’autorevole dottrina (C. M. BIANCA, Dell’inadempimento delle obbligazioni, in Commentario c.c., a cura di Scialoja e Branca, libro IV, artt. 1218-1229, Bologna-Roma, 1970, 231), l’attribuzione del terzo potrebbe essere qualificata come beneficio incidente sull’evento lesivo «solo quando la prestazione del terzo sia formalmente giustificata in funzione di risarcimento del danno» (il vantaggio, cioè, deve essere causalmente giustificato in funzione di rimozione dell’effetto dannoso dell’illecito). In quest’ottica, ove fosse rintracciata una finalità, anche indiretta, di ristoro del danno, la somma del vantaggio andrebbe defalcata dalla liquidazione del danno, non già in applicazione del principio della compensatio, ma semplicemente perché il danno risulterebbe in parte già risarcito.

Dovrebbe, pertanto, ammettersi il cumulo allorquando, ad esempio, la finalità dell’attribuzione fosse espressamente di natura solidaristica (si pensi all’indennità riconosciuta ai Comuni distrutti per il disastro del Vajont), a prescindere dalla sua fonte (illecito, contratto o legge).

Nel senso del cumulo tra risarcimento e indennizzo, di regola, si è espressa la giurisprudenza della Corte di Cassazione in materia di speciali elargizioni in favore di familiari di vittime cadute in servizio (poliziotti o carabinieri o militari dell’Arma) o di vittime del terrorismo e della criminalità organizzata (si pensi, ad esempio, ai militari di leva). Sul punto, una pluralità di rationes decidendi, magari combinate tra loro, sorreggono questa scelta applicativa: il rapporto di mera occasionalità, la disomogeneità del titolo, ma, soprattutto, l’accentuato carattere solidaristico a fronte di vicende particolarmente tragiche.

In particolare, per quanto concerne le cc.dd. “speciali elargizioni” riconosciute alle predette categorie, potrebbe (recte, dovrebbe) sostenersene (ad onta di quanto statuito da Sez. 1, n. 09779/1995, Nardino, Rv. 494036 -01, che, di fatto, ha elevato la causa del lucro dal rango di “occasione” a quello di “causa”) il carattere previdenziale (sostenendo, cioè, che la “speciale elargizione” corrisposta per motivi di solidarietà trovi solo occasione, ma non dipendenza, genetica o causale, nel fatto illecito dannoso, che ha reso attuale una delle ipotesi previste dalla legge per l’erogazione di quell’indennizzo), siccome espressione di solidarietà nazionale.

15. Conclusioni.

Così inquadrata la questione, forse sarebbe prudente non optare per una regola rigida, come quella che porta sempre ed in ogni caso ad escludere a priori l’esistenza stessa del danno in presenza di un vantaggio riconducibile alla condotta illecita, e mantenere quell’approccio diversificato sino ad oggi assunto, forse inconsapevolmente, dalla giurisprudenza.

Una verifica caso per caso consentirebbe, infatti, di selezionare le ipotesi di operatività del meccanismo.

Non è semplice, come visto, ammettere l’operatività della compensatio ogni qualvolta sia rinvenibile nell’ordinamento un correttivo di tipo equitativo che valorizzi l’indifferenza del risarcimento, ma, nello stesso tempo, eviti che della stessa benefici l’autore dell’illecito. O meglio, tale approccio può determinare difficoltà nel momento in cui si individua un correttivo di tal fatta all’esterno del meccanismo, nelle varie forme di surrogazione previste per legge o per contratto, che assicurano almeno in astratto che il danneggiante rimanga esposto all’azione di rivalsa/recupero ad opera del terzo da cui il danneggiato abbia ricevuto il vantaggio portato in detrazione al suo obbligo risarcitorio.

Semmai, il correttivo potrebbe operare implicitamente dall’interno in tutti i casi in cui sussista una coincidenza tra il soggetto autore dell’illecito tenuto al risarcimento e quello chiamato per legge o contratto ad erogare il beneficio, con l’effetto di assicurare al danneggiato una reintegra del suo patrimonio integrale e senza duplicazioni (così G. DE NOVA, Intorno alla compensatio lucri cum damno: considerazioni conclusive, in Juscivile, 2018, 1).

Senza tralasciare la necessità imprescindibile di indagare sulla ragione giustificatrice dell’attribuzione patrimoniale entrata nel patrimonio del danneggiato.

  • concorrenza
  • contratto di lavoro
  • proprietà intellettuale
  • responsabilità civile
  • danno
  • azione per accertamento della responsabilità
  • diritto del lavoro

XV)

IL DANNO IN RE IPSA

(di Laura Mancini )

Sommario

1 Il danno in re ipsa e la funzione della responsabilità civile. - 2 La nozione di pregiudizio in re ipsa nella teoria del danno. - 3 Danno conseguenza e danno in re ipsa nella giurisprudenza di legittimità. - 4 Il danno patrimoniale in re ipsa. Illecito anticoncorrenziale e tutela risarcitoria. - 4.1 Il danno da lesione della proprietà intellettuale. - 4.2 Il danno da lesione del diritto di proprietà e degli altri diritti reali. - 4.3 Danno in re ipsa, abuso del contratto di lavoro a termine e demansionamento. - 5 Danno in re ipsa e danno non patrimoniale.

1. Il danno in re ipsa e la funzione della responsabilità civile.

La nozione di danno in re ipsa, postulando l’identificazione del pregiudizio risarcibile con l’evento di danno risultante dalla lesione di un interesse meritevole di tutela secondo l’ordinamento giuridico, diverge nettamente dal modello teorico, da tempo condiviso dalla dottrina e dalla giurisprudenza maggioritarie, che configura il danno come conseguenza, ossia come perdita, patrimoniale o non patrimoniale, ontologicamente distinta dall’evento dannoso e, pertanto, necessitante di specifica allegazione e dimostrazione (Sez. U, n. 26972/2008, Preden, Rv. 605494-01).

Tali antitetiche concezioni continuano, non di meno, a coesistere nella giurisprudenza di legittimità talora generando soluzioni, se non in aperto contrasto, quantomeno sistematicamente discordanti (sulla nozione di contrasto “atipico” si rinvia a Sez. U, n. 12310/2015, Di Iasi, Rv. 635536-01).

Occorre, peraltro, considerare che la disomogeneità interpretativa che affiora dalle pronunce più recenti, specie in materia di danno da lesione del diritto di proprietà, anche intellettuale, e dei diritti della personalità, non sempre sottende un reale dissidio sulla configurabilità del danno in re ipsa, trovando talvolta esclusiva spiegazione nell’impiego improprio di quest’ultima espressione linguistica. Come si chiarirà meglio nel prosieguo, in alcune decisioni tale formula icastica viene, infatti, utilizzata in modo atecnico - e, quindi, senza una preventiva ricognizione dei suoi specifici presupposti concettuali - per indicare situazioni alle quali, secondo massime di comune esperienza, normalmente si associa un pregiudizio, con conseguente sgravio probatorio, ma non assertorio, per il danneggiato.

La tesi che intravede nel danno risarcibile un automatico corollario della lesione dell’interesse giuridicamente protetto appare, dunque, distonica rispetto alla più accreditata ricostruzione, proposta dalla teoria cd. causale (sulla quale si veda, infra, il § 2) e mutuata da una parte cospicua della giurisprudenza dell’ultimo decennio, che, invece, tende a collocare la lesione dell’interesse in un momento distinto e logicamente antecedente rispetto alle (soltanto) eventuali conseguenze dannose.

Inoltre, l’identificazione del pregiudizio risarcibile con l’evento di danno risultante dalla lesione del diritto, predicata dalla teoria del danno in re ipsa, conduce all’introduzione di un vero e proprio danno punitivo incompatibile con il sistema perché privo di copertura normativa (in tal senso si veda, tra le altre, Sez. 6-3, n. 19434/2019, Iannello, Rv. 654622-02).

È appena il caso di ricordare che la Corte di Cassazione (Sez. U, n. 16601/2017, D’Ascola, Rv. 644914-01), pur ammettendo, in linea con la giurisprudenza costituzionale, che, accanto alla preponderante e primaria funzione compensativo-riparatoria della responsabilità civile, dal sistema normativo che è venuto componendosi nel corso degli anni è emersa una natura polifunzionale e, quindi, anche preventiva, o deterrente o dissuasiva, e sanzionatorio-punitiva, ha avvertito che tale rinnovato approccio non consente una generalizzata facoltà di modulazione giudiziale del risarcimento avulsa dal concreto pregiudizio accertato, dal momento che ogni imposizione di prestazione personale esige un’intermediazione legislativa in forza del principio di cui all’art. 23 Cost., correlato agli artt. 24 e 25 Cost., con la conseguenza che il risarcimento punitivo può ritenersi configurabile soltanto a condizione che sia supportato da un’apposita previsione normativa.

Il principio di stretta correlazione tra riparazione pecuniaria e perdita effettivamente subita, che è alla base della negazione della sovracompensazione correlata alla funzione punitiva della tutela risarcitoria, sembra, infine, trovare riscontro anche nelle fonti eurounitarie.

Al riguardo, significativi spunti ricostruttivi possono trarsi dall’art. 13 della direttiva 2004/48/CE sul risarcimento del danno da violazione dei diritti di proprietà intellettuale (cd. direttiva enforcement), il cui XXVI considerando precisa che il risarcimento del danno da violazione dei diritti di proprietà intellettuale non mira ad introdurre un “obbligo di prevedere un risarcimento punitivo”, e dall’art. 3, § 3 della direttiva 2014/104/UE sul private enforcement nel diritto della concorrenza, attuata con il d.lgs. 19 gennaio 2017, n. 3, a mente del quale “il risarcimento comprende il danno emergente, il lucro cessante e gli interessi e non determina sovracompensazioni” (sui quali si vedano, infra, i §§ 4 e 4.1.).

Sebbene la Corte di giustizia dell’Unione europea (si veda, in particolare, la sentenza del 25 gennaio 2017, causa C-367/15) ne abbia sottovalutato la portata sistematica, tali disposizioni sembrano palesare, per lo meno a livello programmatico, una tendenza del legislatore europeo ad escludere i punitive damages dalla gamma dei rimedi esperibili nell’ambito degli ordinamenti degli stati membri contro le aggressioni alla proprietà intellettuale o le condotte anticoncorrenziali, in un’ottica di armonizzazione con i principi vigenti in dette materie negli ordinamenti nazionali.

In conclusione, l’indiscutibile portata sistematica della questione della configurabilità del danno in re ipsa, la cui soluzione coinvolge i più generali temi della morfologia del danno risarcibile e della funzione della tutela risarcitoria, rende auspicabile un’esegesi che salvaguardi la coerenza del sistema riconducendo a sintesi, univoca e consapevole, le molteplici e spesso inconciliabili istanze - di compensazione, di deterrenza, di armonizzazione, di effettività della tutela giurisdizionale - emergenti da un contesto legislativo, sia interno che sovranazionale, e culturale in via di incessante trasformazione.

2. La nozione di pregiudizio in re ipsa nella teoria del danno.

Una, sia pur sintetica, ricognizione dei modelli concettuali di danno elaborati dalla riflessione dottrinale costituisce una premessa necessaria alla ricostruzione del danno in re ipsa e alla verifica della sua compatibilità con il sistema della responsabilità civile emergente dall’attuale quadro ordinamentale.

La marcata differenza strutturale tra le due accezioni di pregiudizio risarcibile, – i.e. del danno conseguenza e del danno coincidente con la stessa lesione del diritto – che ancora oggi convivono nella giurisprudenza di legittimità, trova spiegazione nel divario sussistente tra i rispettivi fondamenti teorici, posto che la nozione di danno in re ipsa risulta coerente con la teoria normativa del danno, mentre il concetto di danno conseguenza collima con la connotazione compensativa propria dell’approccio causale.

Le due ricostruzioni dogmatiche divergono sia sotto il profilo dell’individuazione dell’oggetto del danno, sia con riferimento alla stessa struttura della fattispecie generatrice del pregiudizio risarcibile.

Per la teoria normativa, elaborata dalla dottrina tedesca (R. NEUNER, Interesse und Vermögensschaden, in Arch. civ. pr., CXXXIII, 1931, 277 e ss.), ma recepita anche da alcuni autori italiani (A. DE CUPIS, Danno, in Enc. del dir., XI, Milano, 1962; G. ALPA, Trattato di diritto civile, IV, Milano, 1999), l’oggetto del danno si identifica con l’oggetto della tutela giuridica e, quindi, coincide con l’interesse protetto dall’ordinamento.

Secondo la definizione che ha ricevuto maggiore credito tra gli interpreti (E. BETTI, Id quod interest, in Nss. D.I., VIII, Torino, 1962), l’interesse indica la tensione tra un soggetto e un determinato bene idoneo a soddisfare un bisogno ovvero a far conseguire un’utilità e, più precisamente, la possibilità che un bisogno venga appagato attraverso un determinato bene. L’interesse può riferirsi tanto ad un bene patrimoniale, ossia ad un bene esteriore rispetto al soggetto ed idoneo a soddisfare un bisogno economico ed economicamente valutabile, quanto ad un bene non patrimoniale. La lesione del primo dà luogo al danno patrimoniale, la lesione del secondo al danno non patrimoniale.

La concezione normativa si pone nel solco del progressivo superamento - avviato dalla dottrina francese attraverso l’elaborazione della nozione di danno, quale sintesi dei dommages e degli intérêts, recepita nel Codice Napoleonico – tanto della teoria reale di tradizione romanistica, quanto della teoria differenziale di matrice tedesca, rivelatesi nel tempo inidonee ad offrire un fondamento dogmatico valido per tutte le forme di pregiudizio suscettibili di riparazione, ivi compreso il danno non patrimoniale (tra i detrattori della teoria differenziale si veda, nella dottrina italiana, R. SCOGNAMIGLIO, Appunti sulla nozione di danno, in Scritti giuridici, Padova, 1996, I, 470 e ss.).

Infatti, alla stregua del modello reale, la tutela risarcitoria era limitata alle ipotesi di distruzione o alterazione della realtà materiale, mentre per la teoria differenziale (F. MOMMSEN, Zur Lehre von dem Interesse, Braunschweig, 1855) il danno risarcibile poteva essere identificato esclusivamente con la differenza tra l’ammontare del patrimonio in un certo momento e l’ammontare che il patrimonio avrebbe avuto senza il verificarsi dell’evento dannoso (cd. differenzehypothese).

La concezione normativa si prefigge, quindi, di superare le insufficienze dell’approccio patrimonialistico proprio di tali ultime impostazioni contrapponendovi una nozione di danno esclusivamente giuridica, in forza della quale elemento costitutivo della fattispecie risarcitoria non è più la distruzione del bene o la diminuzione del patrimonio, ma la stessa lesione dell’interesse protetto dalla norma giuridica.

Sulla dematerializzazione e depatrimonializzazione del danno implicate da tale ricostruzione si sono, tuttavia, appuntate le critiche dei sostenitori della teoria causale (per la quale si vedano, tra gli altri, G. GORLA, Sulla cosiddetta causalità giuridica: «fatto dannoso e conseguenze», in Riv. dir. comm., 1951, I, 405 e più recentemente M. FRANZONI, L’illecito, Milano, 2010), secondo la quale l’evento di danno, risultante dalla violazione di una situazione giuridica soggettiva meritevole di tutela secondo l’ordinamento giuridico, deve, invece, essere considerato autonomamente rispetto al danno vero e proprio (cd. danno conseguenza), da individuarsi nelle perdite patrimoniali o non patrimoniali ad esso conseguenti.

Muovendo dall’interpretazione sistematica degli artt. 1223 c.c. e 2043 c.c., l’approccio causale propone una scomposizione dell’accertamento del danno risarcibile in due autonomi e consecutivi segmenti, il primo dei quali volto a identificare il nesso di causalità materiale che avvince la condotta all’evento di danno, e il secondo diretto a verificare il nesso di causalità giuridica che lega tale evento alle conseguenze dannose (G. GORLA, Sulla cosiddetta causalità giuridica: «fatto dannoso e conseguenze», cit.).

Tale ricostruzione riposa sul principio di integrale riparazione del danno, secondo il quale il risarcimento deve porre il danneggiato nella medesima situazione in cui si trovava prima dell’inadempimento -e, quindi, sul più generale canone privatistico in forza del quale ogni attribuzione patrimoniale deve avere una causa in grado di giustificarla -e rappresenta la fase più matura del processo di secolarizzazione della responsabilità civile di cui sono espressioni significative la sempre più netta emancipazione dell’illecito civile dall’illecito penale, il dissolvimento della connotazione sanzionatoria della responsabilità civile e la configurazione della tutela risarcitoria in termini di pura reazione al danno.

La distinzione ontologica dell’evento rispetto al danno conseguenza è stata, invece, rifiutata da un’altra parte della dottrina (F. REALMONTE, Il problema del rapporto di causalità nel risarcimento del danno, Milano, 1967), la quale ha escluso che il danno possa rappresentare un’entità materialmente percepibile e ulteriore rispetto all’evento, individuandovi semplicemente una valutazione economica dell’evento stesso.

Contro tale soluzione ermeneutica è stato, tuttavia, obiettato che l’evento, per quanto ingiusto, non è mai di per sé dannoso. Esso si inserisce in una realtà più complessa e induce il danneggiato a compiere una scelta tra sopportare il prodursi del danno o agire positivamente per evitarlo. Solo questa situazione di inerzia o di attività è valutabile sotto il profilo economico, mentre “l’evento, in quanto fatto fisico contrastante con il soddisfacimento di un interesse, in sé considerato non è mai un danno, ma produce un danno che consisterà o nell’insoddisfazione di un bisogno o in un’attività economicamente costosa della persona colpita che assicuri ugualmente a questa il soddisfacimento del suo interesse” (L. CORSARO, Responsabilità civile, in Enc. giur., XXI, Roma, 1988). In quest’ottica, la violazione della servitù di non sopraelevare non può, ad esempio, ritenersi di per sé dannosa in quanto comportante un’automatica diminuzione di valore del fondo dominante, posto che, invece, il danno si produce solo nel momento in cui il proprietario intenderà vendere il fondo, così mettendo in atto la facoltà di disporre del bene, ovvero nel momento in cui vorrà soddisfare il bisogno per cui la servitù era stata costituita, esercitando, ad esempio, la facoltà di godimento del paesaggio.

In entrambi i casi, osserva la dottrina in esame, si prende in considerazione la situazione determinata dall’evento e non l’evento in sé, in ossequio al tenore dell’art. 2043 c.c., a mente del quale il danno risarcibile è quello ‘causato’ da un fatto illecito.

Il danno costituisce, dunque, un elemento eventuale del fatto illecito, ben potendo la condotta dolosa o colposa determinare un evento di danno ingiusto, senza che ad esso consegua un pregiudizio, mentre la tutela risarcitoria risulta predisposta dall’ordinamento quale specifica reazione ad un effettivo depauperamento patrimoniale o non patrimoniale.

In definitiva, dai contributi dottrinali riconducibili alla teoria causale si trae una nozione di pregiudizio risarcibile diametralmente opposta rispetto a quella di danno in re ipsa, perché fondata sul presupposto indefettibile della perdita o della diminuzione di un’utilità ottenuta attraverso il bene-interesse oggetto della situazione giuridica soggettiva lesa.

Ogni situazione giuridica soggettiva si compone di un interesse (elemento funzionale) (E.BETTI, Id quod interest, cit.) che, come già evidenziato, identifica la tensione verso un bene attraverso il quale è possibile soddisfare un fine (realizzazione di utilità o soddisfacimento di bisogni) ritenuto meritevole di tutela dall’ordinamento (S. PUGLIATTI, Beni (teoria generale), in Enc. del dir., V, 1959), mediante l’esercizio di una serie di poteri e facoltà accordati riconosciuti dalla legge al suo titolare.

Nella prospettiva in esame la lesione della situazione giuridica soggettiva cagiona un danno risarcibile nella misura in cui comporta la frustrazione del soddisfacimento dei bisogni o del conseguimento delle utilità per i quali la stessa situazione giuridica soggettiva è predisposta dall’ordinamento giuridico.

Tale perdita può conseguire alla soppressione o alla modificazione peggiorativa del bene ovvero derivare dall’impedimento, sia pure temporaneo, dell’esercizio delle facoltà di cui si sostanzia il contenuto della situazione giuridica soggettiva, apprezzate non nella loro dimensione astratta, ma alla stregua delle concrete modalità del loro svolgimento al tempo della lesione.

Oggetto della tutela risarcitoria non è, quindi, la situazione giuridica soggettiva in sé considerata, né il bene che ne forma oggetto, né le facoltà che ne costituiscono il contenuto, ma la possibilità che, attraverso il bene e le facoltà, un bisogno venga soddisfatto o un’utilità venga conseguita.

Ciò in quanto, nella prospettiva della teoria causale l’utile essenza si colloca all’esterno del bene interesse oggetto della situazione giuridica soggettiva (nel senso della non estensibilità di tale assunto ai diritti della persona, il cui carattere non strumentale, ma finale fa sì che l’utilità sia incorporata nel diritto stesso, si sono, tuttavia, espressi GIAMPICCOLO, La tutela giuridica della persona umana e il c.d. diritto alla riservatezza, Padova, 1958; T. PELLEGRINI, Danno conseguenza e danno non patrimoniale. Spunti di ricostruzione sistematica, in Eur. dir. priv., 2, 2016, 455 e ss.).

Emblematica, a riguardo, è l’opinione che, sul presupposto che l’utilità di un bene per un soggetto non consiste nella titolarità, ma nell’utilizzo, è giunta a definire il danno come “lesione di volontà giuridicamente tutelata” “poiché è quest’ultimo il passaggio con cui il bene riesce a soddisfare un bisogno o a realizzare un desiderio, soddisfazione cui la volontà tende” (E. GIUSIANA, Il concetto di danno giuridico, Milano, 1944).

In conclusione, dalla sintesi delle riflessioni dottrinali riconducibili all’approccio causale è possibile ricavare le indicazioni ricostruttive di seguito illustrate.

Se, per un verso, la soppressione, totale o parziale, del bene è in sé risarcibile, sotto forma di danno emergente, anche nel caso in cui al momento della lesione antigiuridica il titolare non ne stesse ricavando alcuna utilità, giacché il venir meno della stessa essenza, materiale o giuridica, del bene determina l’eliminazione in via definitiva dell’astratta attitudine di questo a soddisfare un bisogno e, quindi, ogni possibilità di suo impiego utile; per altro verso, un fatto illecito che comporti la compressione o la riduzione transitorie della possibilità di utile impiego del bene genera un danno risarcibile soltanto se l’utilizzo di esso, da parte del titolare, per il soddisfacimento di un bisogno fosse in atto al tempo della lesione.

È stato, inoltre, precisato che, nel caso in cui il bene attraverso il quale l’ordinamento garantisce il soddisfacimento di un bisogno meritevole di tutela venga soppresso o disperso, il danno consiste, ad un tempo, nella perdita definitiva del valore d’uso e di scambio del bene medesimo (T. PELLEGRINI, Danno conseguenza e danno non patrimoniale. Spunti di ricostruzione sistematica, cit.). Tale pregiudizio integra, infatti, un danno emergente ed è rappresentato dall’impossibilità di utilizzazione del bene stesso in funzione di una scelta di mercato secondo criteri di normalità (D. MESSINETTI, Danno giuridico, in Enc. del dir., 490).

Ne consegue che, ove la perdita del bene venga risarcita quale danno emergente mediante la corresponsione del valore di scambio, e tale valore venga naturalmente commisurato al valore d’uso, l’introiezione del secondo nel primo impedisce di liquidare autonomamente il lucro cessante, dal momento che il valore dei beni rappresenta normalmente il riflesso della capacità degli stessi di procurare utilità future (I. FISHER, Teoria dell’interesse, 1930, Opere, a cura di A. PELLANDA, Torino, 1974). Difatti, la valutazione del valore economico del bene perduto, accertato e liquidato in funzione delle sue intrinseche e specifiche caratteristiche, delle prestazioni fino a quel momento ottenute attraverso il suo impiego e della sua età, comprende già l’utilità che esso avrebbe ancora potuto procurare al proprietario (M. FRANZONI, Il danno risarcibile, Milano, 2010, 93).

In altre parole, anche in caso di perdita definitiva del bene può essere valorizzato il concreto impiego di questo al momento dell’illecito, ma al limitato fine di individuare la tipologia di bene da considerare nella stima del suo valore di scambio.

Un diverso problema si pone nell’ipotesi in cui la lesione del diritto non si sia tradotta nella soppressione del bene che ne forma oggetto e, quindi, l’alterazione o la soppressione dell’attitudine della res a soddisfare le esigenze del titolare non possa ritenersi definitiva (si pensi all’occupazione sine titulo di un immobile).

In questo caso, nella prospettiva della teoria causale, la sola lesione della situazione giuridica soggettiva non fa sorgere, ex se, il diritto al risarcimento del danno, posto che, in mancanza della distruzione o della dispersione del bene oggetto del diritto, un danno emergente non è configurabile, mentre un lucro cessante può ravvisarsi soltanto ove venga allegata e provata una perdita effettiva di utilità, assumendo, a tal fine, rilevanza decisiva le modalità in cui si atteggiava l’esercizio del diritto al momento dell’illecito.

3. Danno conseguenza e danno in re ipsa nella giurisprudenza di legittimità.

Nell’evoluzione dell’elaborazione giurisprudenziale sulla nozione di danno risarcibile uno snodo decisivo è rappresentato dall’arresto nomofilattico dell’11 novembre 2008, con il quale la Corte ha ritenuto di disattendere l’impostazione che identificava il danno con l’evento dannoso (cd. “danno evento”), evidenziando come tale tesi, enunciata dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 184/1986, fosse stata superata dalla successiva giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 372/1994) e di legittimità (Sez. 3, n. 8827 e 8828 del del 2003).

Le Sezioni Unite hanno, inoltre, apertamente respinto la nozione di danno in re ipsa in quanto idonea a snaturare la funzione del risarcimento “che verrebbe concesso non in conseguenza dell’effettivo accertamento di un danno, ma quale pena privata per un comportamento lesivo” (Sez. U, n. 26972/2008, Preden, Rv. 605489-01).

Si è già evidenziato come l’autorità di tale enunciazione non sia, comunque, valsa ad orientare le pronunce successive entro un percorso ermeneutico uniforme, tanto che a distanza di oltre un decennio continuano a coesistere tanto la tesi che - sulla scorta della segmentazione del processo dannoso nel duplice nesso di causalità, giuridica e materiale – ripudia l’identificazione del danno con la lesione del diritto, quanto la tesi che, invece, ammette tale sovrapposizione.

Il primo orientamento, che ha ricevuto ampio credito nelle pronunce della Terza Sezione civile, muove dalla premessa secondo la quale “il sistema del risarcimento del danno delineato dal codice civile, nella responsabilità civile, esclude in modo irrevocabile la ipotesi di una configurabilità del danno patrimoniale “in re ipsa”, in quanto la obbligazione risarcitoria non insorge in seguito alla mera colposa o dolosa violazione del diritto (antigiuridicità della condotta), ma soltanto a causa delle “conseguenze” pregiudizievoli eventualmente prodottesi come effetto di tale violazione, conseguenze che, riguardate sul piano degli accadimenti fenomenici implicano un evento ulteriore ed ontologicamente apprezzabile rispetto a quello determinativo della violazione del diritto” (Sez. 3, n. 11203/2019, Olivieri, Rv. 653590-01).

Con specifico riferimento ai danni da lesione dei diritti reali, sui quali si concentra con particolare evidenza la segnalata discontinuità interpretativa, la pronuncia richiamata, dando seguito a una tendenza sempre più nettamente delineatasi nell’ultimo ventennio (si veda, per tutte, Sez. 2, n. 16202/2002, Settimj, Rv. 55856501), ha avvertito che occorre distinguere tra la compressione della facoltà di godimento del bene, intesa quale violazione del diritto spettante al proprietario o al titolare di altro diritto reale parziario, che integra l’elemento della fattispecie illecita costituito dalla condotta contra ius, dalle conseguenze negative di natura patrimoniale che da tale violazione possono derivare, conseguenze delle quali deve essere dimostrata, da chi agisce per il risarcimento del danno, sia l’esistenza, intesa come accadimento fenomenico eziologicamente legato alla condotta violativa del diritto, che la consistenza, ossia l’entità dimensionale del pregiudizio arrecato al patrimonio del soggetto leso, di norma espressa secondo un valore corrispondente all’equivalente monetario.

La pronuncia precisa, altresì, che la massima tralatizia secondo la quale, in caso di spossessamento illecito del bene immobile, il danno subito dal proprietario deve ritenersi in re ipsa, discendendo dalla perdita della disponibilità del bene e dall’impossibilità di conseguire l’utilità ricavabile dal bene medesimo in relazione alla sua natura normalmente fruttifera, può ritenersi valida nella sola misura in cui con la stessa si intenda affermare il raggiungimento nel caso concreto della prova presuntiva della conseguenza patrimoniale pregiudizievole, presunzione iuris tantum da ritenersi superata ove emerga che il proprietario si fosse intenzionalmente disinteressato dell’immobile (Sez. 2, n. 20823/2015, Picaroni, Rv. 636674-01). In altre parole, affinché possa ritenersi operante la presunzione suddetta, l’impedito sfruttamento del bene deve essere accertato come effettivamente probabile in relazione alle specifiche circostanze concrete.

Ne discende, secondo la Terza Sezione civile, che chi alleghi di aver subito un danno è tenuto a provare di non aver potuto locarlo o utilizzarlo direttamente ovvero di aver perso l’occasione di venderlo a prezzo conveniente o di aver sofferto altre situazioni pregiudizievoli, mentre un danno patrimoniale non è neppure astrattamente configurabile ove emerga che il bene era stato lasciato dal proprietario in stato di abbandono o, comunque, che il proprietario si era disinteressato del suo impiego a scopo remunerativo.

In quest’ottica si palesa illogico l’assunto secondo il quale la lesione della facoltà di godimento dell’immobile integra ex se un danno valutabile in relazione al valore locativo del bene (cd. danno figurativo), posto che, se al momento della lesione l’immobile era direttamente destinato dal proprietario ad uso abitativo, il danno conseguenza che viene a prodursi consiste unicamente negli oneri cui il proprietario deve far fronte per soddisfare l’esigenza abitativa e, dunque, nelle spese che deve sostenere per procurarsi un altro immobile dove abitare.

L’approccio ermeneutico prescelto dalla decisione appena richiamata è condiviso da un cospicuo numero di pronunce riguardanti svariate fattispecie (tra le quali si vedano, Sez. Sez. L, n. 29206/2019, Esposito, Rv. 655757-01; Sez. 3, n. 23987/2019, Iannello, Rv. 655032-01; Sez. 3, n. 19434/2019, Iannello, Rv. 654622-02; Sez. 3, n. 11203/2019, Olivieri, Rv. 653590-01; Sez. 3, n. 5807/2019, Guizzi, Rv. 652841-01; Sez. 3, n. 31537/2018, Rossetti, Rv. 651944-01; Sez. 3, n. 31233/2018, Iannello, Rv. 651942-01; Sez. 2, n. 28742/2018, Bellini, Rv. 651525-01; Sez. 6-2, n. 21239/2018, Falaschi, Rv. 650352-01; Sez. 3, n. 13071/2018, Graziosi, Rv. 648709-01; Sez. 3, n. 11269/2018, Olivieri, Rv. 648606-01; Sez. 6-3, n. 7594/2018, Scarano, Rv. 648443-01; Sez. 3, n. 2056/2018, Scarano, Rv. 647905-01; Sez. 3, n. 25420/2018, Vincenti, Rv. 646634-01; Sez. 3, n. 31233/2018, Iannello, Rv. 651942-01; Sez. 2, n. 10362/2018, Fortunato, Rv. 648354-01; Sez. 2, n. 22201/2017, Grasso Gianluca, Rv. 645554-01; Sez. 3, n. 20889/2016, Olivieri, Rv. 642928-01; Sez. 3, n. 20643/2016, Vincenti, Rv. 642923-02; Sez. 3, n. 3173/2016, Rossetti, Rv. 639074-01; Sez. 1, n. 25921/2015, Valitutti, Rv. 638178-01; Sez. 1, n. 24559/2015, Valitutti, Rv. 638165-01; Sez. 3, n. 20620/2015, Rossetti, Rv. 637581-01; Sez. 1, n. 17791/2015, Valitutti, Rv. 636638-01; Sez. 3, n. 24474/2014, D’Amico, Rv. 633450-01; Sez. 6-3, n. 18812/2014, Frasca, Rv. 632941-01; Sez. 3, n. 15240/2014, Cirillo, Rv. 631712-01; Sez. 1, n. 12370/2014, Scaldaferri, Rv. 631374-01; Sez. 1, n. 23194/2013, Acierno, Rv. 628570-01; Sez. 6-1, n. 21865/2013, Bernabai, Rv. 627750-01; Sez. 1, n. 20695/2013, Bernabai ,Rv. 627910-01; Sez. 3, n. 15111/2013, Segreto, Rv. 626875-01; Sez. 1, n. 1000/2013, Berruti, Rv. 625135-01; Sez. 1, n. 227/2013, Berruti, Rv. 624762-01; Sez. L, n. 7471/2012, Tria, Rv. 622793-01; Sez. 3, n. 2226/2012, Armano, Rv. 621826-01; Sez. L, n. 25691/2011, Bandini, Rv. 619940-01; Sez. 3, n. 10527/2011, Scarano, Rv. 618207-01). Un’altra parte della giurisprudenza di legittimità appare, invece, orientata ad ammettere la configurabilità del danno in re ipsa.

Secondo tale opzione interpretativa, adottata soprattutto in materia di danno patrimoniale da lesione del diritto di proprietà e degli altri diritti reali, in caso di occupazione senza titolo di un bene, il danno subito dal proprietario è in re ipsa, discendendo dalla perdita della disponibilità del bene, la cui natura è normalmente fruttifera, e dall’impossibilità di conseguire l’utilità da esso “anche solo potenzialmente ricavabile” (in tal senso si vedano, tra le altre, Sez. 2, n. 20708/2019, Carrato, Rv. 654984-02; Sez. 2, n. 12630/2019, Picaroni, Rv. 653643-01; Sez. 2, n. 21501/2018, Grasso Giuseppe, Rv. 650315-02; Sez. 2, n. 20545/2018, Federico, Rv. 649998-01; Sez. 2, n. 21239/2018, Falaschi, Rv. 650352-01; Sez. 2, n. 17460/2018, Scarpa, Rv. Rv. 649269-01; Sez. 1, n. 29990/2018, Sambito, Rv. 651590-01; Sez. 3, n. 22815/2017, Moscarini, Rv. 645508-01; Sez. 2, n. 13792/2017, Scarpa, Rv. 64447101; Sez. 2, n. 8511/2017, Scalisi, Rv. 643535-01; Sez. 2, n. 19215/2016, Falaschi, Rv. 64128901; Sez. 1, n. 12954/2016, Lamorgese, Rv. 640103-01; Sez. 2, n. 4713/2016, Lombardo, Rv. 639356-01; Sez. 2, n. 20823/2015, Picaroni, Rv. 636674-01; Sez. 3, n. 9137/2013, D’Amico, Rv. 626051-01; Sez. 2, n. 14213/2012, Manna F., Rv. 623540-01; Sez. 2, n. 14222/2012, Matera, Rv. 623541-01; Sez. 6-2, n. 5334/2012, Piccialli, Rv. 621784-01; Sez. 2, n. 24100/2011, Piccialli, Rv. 619749-01; Sez. 3, n. 8730/2011, Lanzillo, Rv. 617890-01).

In una posizione intermedia si collocano alcune decisioni che, pur non identificando – come quelle appena richiamate - il danno risarcibile con l’evento di danno, in determinate fattispecie, tra le quali va ancora una volta annoverata l’occupazione senza titolo, sollevano il danneggiato dall’onere della prova ritenendo operante una presunzione di sussistenza del pregiudizio risarcibile.

Il danno subito dal proprietario per l’indisponibilità del bene, precisa l’indirizzo in esame, può definirsi in re ipsa solo in senso descrittivo, “cioè di normale inerenza del pregiudizio all’impossibilità stessa di disporre del bene, senza comunque far venir meno l’onere per l’attore quanto meno di allegare, e anche di provare, con l’ausilio delle presunzioni, il fatto da cui discende il lamentato pregiudizio, ossia che se egli avesse immediatamente recuperato la disponibilità dell’immobile, l’avrebbe subito impiegato per finalità produttive, quali il suo godimento diretto o la sua locazione” (Sez. Sez. 6-3, n. 25898/2016, Rubino, Rv. 642400-01) (tra le decisioni riconducibili a tale indirizzo, si vedano, Sez. 6-3, n. n. 20856/2017, Sestini, non massimata; Sez. 3, n. 16670/2016, Tatangelo, Rv. 641485-01; Sez. 3, n. 13224/2016, Olivieri, non massimata; Sez. 2, n. 20823/2015, Picaroni, Rv. 636674-01; Sez. 3, n. 5058/2012, Frasca, non massimata).

4. Il danno patrimoniale in re ipsa. Illecito anticoncorrenziale e tutela risarcitoria.

Uno dei settori in cui la questione della configurabilità del pregiudizio in re ipsa assume maggiore interesse sistematico è quello della responsabilità da illecito anticoncorrenziale e, segnatamente, della tutela risarcitoria in caso di pregiudizio conseguente all’applicazione, attraverso un’intesa restrittiva o altra pratica anticoncorrenziale posta in essere da un’impresa collocata al livello iniziale della catena del valore, di un sovrapprezzo – cd. over-charge - che, in forza del fenomeno della traslazione (cd. passing-on) si propaghi verso il basso, producendo una diminuzione nella sfera patrimoniale dei soggetti posti nei livelli successivi della filiera produttiva o distributiva.

In tale ambito disciplinare la tensione tra logica compensativa ed effettività della tutela risarcitoria, di cui l’elaborazione teorica del danno in re ipsa rappresenta un chiaro epifenomeno, è particolarmente tangibile perché amplificata, per un verso, dalla complessità della prova del danno derivante dalla violazione delle regole sulla concorrenza - la quale, in difetto di meccanismi legali di sgravio probatorio, può tradursi in un ostacolo insuperabile all’accesso alla tutela risarcitoria -, e, per altro verso, dalla spiccata funzionalizzazione di tale ultimo rimedio all’obiettivo, eminentemente pubblicistico, del corretto funzionamento del mercato che informa la disciplina antitrust.

Il dissidio tra le suddette istanze non sembra essere stato composto neanche dal d.lgs. 19 gennaio 2017, n. 3, attuativo della direttiva 2014/104/UE sull’azione risarcitoria ai sensi del diritto nazionale per violazione del diritto della concorrenza degli Stati membri dell’UE, la quale costituisce il punto di approdo di un risalente processo evolutivo teso ad attuare il cd. private antitrust enforcement attraverso il rafforzamento della cooperazione tra livello pubblico e privato nell’applicazione delle norme sulla concorrenza e la predisposizione delle condizioni di accesso alla giustizia dei soggetti danneggiati da condotte anticompetitive in un’ottica di potenziamento della tutela dei consumatori.

I capisaldi di tale percorso vanno rinvenuti nelle pronunce rese dalla Corte di giustizia dell’Unione Europea nelle cause Courage c. Crehan, 20 settembre 2001, C-453/99 e Manfredi c. Lloyd Adriatico Assicurazioni, 13 luglio 2006, cause riunite C-295/04, C-296/04, C-297/04 e C-298/04, con le quali è stato riconosciuto per la prima volta il risarcimento del danno causalmente riconducibile ad un’intesa o ad altra pratica anticoncorrenziale, in applicazione delle garanzie del diritto di difesa di cui agli artt. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, 6 e 13 della CEDU e del principio di ingiustificato arricchimento che deve essere annoverato tra i principi generali dell’Unione europea.

Per quanto concerne la tutela privatistica, si è già evidenziato in premessa come la logica compensativa alla quale la disciplina di matrice eurounitaria sul risarcimento del danno da illecito antitrust appare dichiaratamente ispirata, emerga dall’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 3 del 2017, a mente del quale “Il risarcimento comprende il danno emergente, il lucro cessante e gli interessi e non determina sovracompensazioni” e dai considerando 13, 38 e 51, nonché dall’art. 3 comma 2, della direttiva 2014/104/UE, secondo il quale “il pieno risarcimento pone una persona che abbia subito un danno nella situazione in cui si sarebbe trovata se la violazione del diritto della concorrenza non fosse stata commessa. Esso comprende quindi il diritto al risarcimento per il danno emergente e per il lucro cessante, oltre al pagamento di interessi”.

Nella prospettiva eurounitaria, la funzione compensativa è, dunque, attuata attraverso l’espressa limitazione del quantum risarcitorio all’effettivo pregiudizio subito (l’art. 14, comma 1, del d.lgs. n. 3 del 2017 dispone che “il risarcimento del danno causato da una violazione del diritto della concorrenza dovuto al soggetto danneggiato si deve determinare secondo le disposizioni degli articoli 1223, 1226 e 1227 del codice civile”).

In perfetta coerenza con l’ordito della direttiva 2014/104/UE - e, segnatamente, con la nozione “mommseniana” di pregiudizio delineata all’art. 3, comma 2, secondo il quale il risarcimento deve porre una persona che abbia subito un danno nella situazione in cui si sarebbe trovata se la violazione della concorrenza non fosse stata commessa – e in piena aderenza al sistema codicistico della tutela risarcitoria, il legislatore nazionale sembra, dunque, escludere suggestioni punitive o logiche di deterrenza.

Eppure tale precisazione programmatica risulta smentita dalla stessa norma di trasposizione interna in esame, la quale al comma 2 introduce una presunzione di esistenza del danno da illecito concorrenziale che non collima affatto con l’opzione compensativa (“L’esistenza del danno cagionato da una violazione del diritto alla concorrenza consistente in un cartello si presume, salva prova contraria dell’autore della violazione”) e al comma 3 precisa che il giudice può chiedere assistenza all’autorità garante della concorrenza formulando specifiche richieste sugli orientamenti che riguardano la quantificazione del danno.

La semplificazione dell’onere probatorio operata dal legislatore eurounitario e nazionale risponde, all’evidenza, al fine ultimo del private enforcement rappresentato dalla garanzia dell’efficacia regolatoria in senso deterrente dei presidi privatistici, i quali, al pari degli istituti di natura pubblicistica (funzione di controllo e sanzionatoria delle autorità garanti), risultano, in definitiva, concepiti in funzione della tutela della concorrenza.

Permane, ciò non di meno, il problema del coordinamento del rimedio risarcitorio delineato dalla disciplina antitrust con il sistema codicistico della responsabilità civile, posto che, come osservato in dottrina (E. CAMILLERI, Il risarcimento per violazioni del diritto della concorrenza: ambito di applicazione e valutazione del danno, in Nuove leggi civ. comm., 2018, 1, 143 e ss.; G. VILLA, La direttiva europea sul risarcimento del danno antitrust: riflessioni in vista dell’attuazione, in Corr. giur., 2015, 308), la presunzione legale di esistenza del danno e il tecnicismo richiesto per la sua stima, per un verso, autorizzano in via ordinaria il ricorso alla valutazione equitativa del giudice e, per altro verso, specie per gli acquirenti indiretti, favoriscono la deriva verso forme di danno in re ipsa.

In proposito, non è superfluo ricordare che la giurisprudenza di legittimità anteriore al private enforcement europeo già riconosceva - per lo meno su un piano astratto, stanti le difficoltà probatorie in cui si imbatteva l’acquirente indiretto gravato dell’onere della prova, ai sensi dell’art. 2697 c.c., non solo della violazione antitrust, ma anche del danno causalmente riconducibile alla lesione delle regole sulla concorrenza - la risarcibilità del danno da violazione di norme concorrenziali (Sez. 3, n. 993/2010, Chiarini, Rv. 611386-01; Sez. 3, n. 2305/2007, Spirito, Rv. 595539-01; Sez. 1, n. 14716/2005, Panebianco, Rv. 583044-01; Sez. U, n. 2207/2005, Berruti, Rv. 579019-01).

Va, inoltre, evidenziato che per lungo tempo la Corte, dando seguito, anche in subiecta materia, al prevalente orientamento che escludeva la risarcibilità del danno in re ipsa, ha negato la configurabilità di un danno risarcibile quale conseguenza automatica di una, pur accertata, condotta anticompetitiva (secondo Sez. 1, n. 20695/2013, Bernabai, Rv. 62791001, il danno cagionato mediante abuso di posizione dominante non è in re ipsa, ma, in quanto conseguenza diversa ed ulteriore rispetto alla distorsione delle regole della concorrenza, deve autonomamente provarsi secondo i principi generali in tema di responsabilità aquiliana).

Emblematiche, a riguardo, sono, inoltre, le pronunce che, proprio al fine di evitare il proliferare di fattispecie di danno in re ipsa sono giunte a riconoscere all’accertamento amministrativo compiuto dall’Autorità garante per la concorrenza e il mercato valore di prova privilegiata ma non vincolante (Sez. 6-3, n. 9116/2014, Rv. 630684-01; Sez. 1, n. 13846/2019, Falabella, Rv. 654261-01; Sez. 1, n. 18176/2019, Sambito, Rv. 654545-02).

Un significativo temperamento della rigorosa applicazione delle regole sul riparto dell’onere della prova si intravede, invece, nell’orientamento che reputa possibile fondare sull’accertamento dell’Autorità garante e sulla conseguente sanzione applicata all’impresa per aver partecipato ad un’intesa anticoncorrenziale, la presunzione dell’indebito aumento del prezzo di mercato, senza che possa ritenersi violato il divieto praesumptum de praesumpto non admittitur.

Secondo le pronunce aderenti a tale impostazione, nel danno subito dalla generalità dei consumatori per effetto dell’illecito antitrust, accertato sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, deve ritenersi ricompreso, come suo essenziale componente, il danno subito dai singoli consumatori, posto che tale ultimo pregiudizio, pur concettualmente distinguibile, sul piano logico, dal primo, non lo è sul piano fattuale e, dunque, non richiede, per essere dimostrato, un’ulteriore presunzione (Sez. 1, n. 12551/2013, Lamorgese, Rv. 626623-01; si vedano, nella medesima direzione, Sez. 6-3, n. 9116/2014, De Stefano, Rv. 630684-01; Sez. 1, n. 11904/2014, Di Amato, Rv. 631486-01; Sez. 3, 13486/2011, De Stefano, Rv. 618735-01; Sez. 3, Sentenza n. 11610 del 26/05/2011, Lanzillo, Rv. 618225-01).

4.1. Il danno da lesione della proprietà intellettuale.

Anche in materia di proprietà intellettuale la disputa sulla morfologia e sulla prova del danno patrimoniale conseguente alla lesione dei diritti sulle opere dell’ingegno ha ricevuto nuova linfa dall’intervento del legislatore eurounitario.

La direttiva 2004/48/CE sul rispetto dei diritti di proprietà intellettuale è, infatti, intervenuta a rafforzare la disciplina nazionale delle privative intellettuali e industriali introducendo anche specifiche misure a garanzia della tutela risarcitoria.

La fonte normativa eurounitaria è stata recepita nel nostro ordinamento con il d.lgs. 16 marzo 2006, n. 140 (c.d. decreto enforcement) che ha modificato l’art. 125 del codice della proprietà industriale (d.lgs. 10 febbraio 2005, n. 30) e l’art. 158 della legge sulla protezione del diritto d’autore (L. 22 aprile 1941, n. 633).

L’analogo testo del primo comma dell’art. 125 e del secondo comma dell’art. 158 novellati, dopo aver precisato che il risarcimento dovuto al danneggiato è liquidato secondo le disposizioni degli articoli 1223, 1226 e 1227 c.c., individua nelle conseguenze economiche negative, compreso il mancato guadagno, subite dal titolare del diritto leso e nei benefici realizzati dall’autore della violazione i parametri per la determinazione del danno risarcibile.

La dottrina prevalente ritiene che il riferimento ai “benefici realizzati dall’autore della violazione” e agli “utili realizzati in violazione del diritto” contenuto nelle disposizioni in esame non valga a snaturare la funzione riparatoria della misura ivi disciplinata, deponendo in tal senso, oltre al tenore della rubrica dell’art. 125 c.p.i., l’espresso richiamo al “risarcimento dovuto al danneggiato” e la menzione degli artt. 1223, 1226 e 1227 c.c. contenuta nel testo della disposizione (A. PLAIA, Proprietà intellettuale e risarcimento del danno, Torino, 2005).

In senso contrario si è, invece, espressa l’opinione secondo la quale l’elemento dei “benefici realizzati dall’autore della violazione”, esulando dalle regole cardine della tutela risarcitoria, avvicini il rimedio ivi contemplato nell’alveo della tutela restitutoria (C. CASTRONOVO, S. MAZZAMUTO, Manuale di diritto privato europeo, Milano, 2007, 195).

Altra impostazione ritiene che la norma si discosti dai canoni codiscistici per l’individuazione del danno risarcibile perché valorizza, oltre al danno emergente e al lucro cessante, elementi, quali, appunto, i “benefici realizzati dall’autore della violazione”, estranei ad una logica puramente risarcitoria e, piuttosto, congeniali ad una finalità di elisione o di controbilanciamento di tutti gli effetti negativi che la condotta usurpativa ha avuto, nell’obiettivo di ristabilire il corretto svolgimento dell’attività di mercato (C. GALLI, Il risarcimento del danno e la retroversione degli utili nel diritto della concorrenza e della proprietà intellettuale, in Riv. dir. ind., 2019, 57 e ss.).

In linea con tale approccio ermeneutico, una parte della giurisprudenza di legittimità ha affermato che in tema di risarcimento dei danni patrimoniali conseguenti all’illecito sfruttamento del diritto d’autore, ai fini della valutazione equitativa del danno determinato dalla perdita del vantaggio economico che il titolare del diritto avrebbe potuto conseguire se avesse ceduto a titolo oneroso i diritti dell’opera, si può ricorrere al parametro costituito dagli utili conseguiti dall’utilizzatore abusivo, mediante la condanna di quest’ultimo alla devoluzione degli stessi a vantaggio del titolare del diritto. Con tale criterio la quantificazione del risarcimento, più che ripristinare le perdite patrimoniali subite, svolge una funzione parzialmente sanzionatoria, in quanto diretta anche ad impedire che l’autore dell’illecito possa farne propri i vantaggi (Sez. 3, n. 8730/2011, Lanzillo, Rv. 617891-01).

Un più nutrito gruppo di pronunce ha, invece, affermato che i benefici e gli utili cui fanno riferimento le disposizioni in materia di danno da lesione della proprietà intellettuale assolvono alla funzione di utile criterio di riferimento nella valutazione del lucro cessante trattandosi di un indice presuntivo delle potenzialità di guadagno sottratte alla parte lesa. In tal senso si è espressa Sez. 1, n. 4048/2016, Ragonesi, Rv. 638807-01, la quale, facendo seguito a Sez. 1, n. 6251/1983, Senofonte, Rv. 431011-01, ha stabilito che in tema di valutazione equitativa del danno subito dal titolare del diritto di utilizzazione economica di un’opera dell’ingegno non è precluso al giudice il potere-dovere di commisurare quest’ultimo, nell’apprezzamento delle circostanze del caso concreto, al beneficio tratto dall’attività vietata, assumendolo come utile criterio di riferimento del lucro cessante, segnatamente quando esso sia correlato al profitto del danneggiante, nel senso che questi abbia sfruttato a proprio favore occasioni di guadagno di pertinenza del danneggiato, sottraendole al medesimo (in senso conforme si veda, inoltre, Sez. 1 n. 3390/2003, Berruti, Rv. 560961-01) .

La novità più significativa introdotta dal d.lgs. n. 140 del 2006 si rinviene, tuttavia, nel terzo comma dell’art. 125 c.p.i. a mente del quale “in ogni caso il titolare del diritto leso può chiedere la restituzione degli utili realizzati dall’autore della violazione, in alternativa al risarcimento del lucro cessante o nella misura in cui essi eccedono tale risarcimento”.

In dottrina si registrano orientamenti contrastanti circa la collocazione sistematica di tale disposizione, propendendo taluni per la riconduzione della relativa fattispecie nel paradigma della tutela risarcitoria, e sostenendo altri la qualificazione del rimedio in questione in termini di ingiustificato arricchimento ex art. 2041 c.c.

Appare di intuitiva evidenza come alla base della ricostruzione proposta dai fautori della prima delle suddette tesi vi sia, ancora una volta, l’adesione alla concezione punitivo-sanzionatoria della tutela risarcitoria, deponendo in tal senso la considerazione per la quale nella logica dell’integrale riparazione del danno gli utili realizzati dall’usurpatore non necessariamente corrispondono al mancato guadagno del danneggiato.

Sullo sfondo del dibattito suscitato dalla novellazione degli artt. 125 cod. pr. ind. e dell’art. 158 l. dir. aut. imposta dal diritto eurounitario, persiste, nell’ambito della giurisprudenza di legittimità, il risalente dissidio sulla morfologia del danno, patrimoniale e non patrimoniale, derivante dalla lesione della proprietà intellettuale.

A fronte di un nutrito numero di pronunce che fanno coincidere il danno, in re ipsa, con la violazione di privativa escludendo che il danneggiato sia gravato dall’onere di dimostrare altro che non sia la sua estensione (Sez. 1, n. 12954/2016, Lamorgese, Rv. 640103-01; Sez. 1, Sentenza n. 14060/2015, Genovese, Rv. 635790-01; Sez. 3, n. 8730/2011, Lanzillo, Rv. 61789001; Sez. 1, n. 3672/2001, Palmieri, Rv. 544738-01), si registra, invero, un indirizzo di segno contrario, secondo il quale, anche nella materia in esame, il danno cagionato da violazione di privativa non è in re ipsa, ma, essendo conseguenza diversa ed ulteriore dell’illecito rispetto anche alla distorsione della concorrenza da eliminare comunque, richiede di essere provato secondo i principi generali che regolano le conseguenze del fatto illecito, solo tale avvenuta dimostrazione consentendo al giudice di passare alla liquidazione del danno, eventualmente facendo ricorso all’equità (Sez. 1, n. 19430/2003, Berruti, Rv. 569057-01; Sez. 1, n. 1000/2013, Berruti, Rv. 625135-01; Sez. 1, n. 17791/2015, Valitutti, Rv. 636638-01).

4.2. Il danno da lesione del diritto di proprietà e degli altri diritti reali.

Il danno patrimoniale da lesione del diritto di proprietà e degli altri diritti reali costituisce una fattispecie privilegiata per la verifica della tenuta sistematica della teorica del danno in re ipsa.

Non a caso le divergenze dell’interpretazione giurisprudenziale in merito alla configurabilità di tale figura di pregiudizio emergono con maggiore frequenza e nitidezza proprio in tale materia e, segnatamente, con riferimento alla fattispecie di limitazione temporanea della facoltà del proprietario di godimento del bene.

Secondo un primo orientamento (per il quale si vedano, da ultimo, Sez. 3, n. 11203/2019, Olivieri, Rv. 653590-01; Sez. 3, n. 13071/2018, Graziosi, Rv. 648709-01; Sez. 3, n. 31233/2018, Iannello, Rv. 651942-01), nel caso di occupazione illegittima di un immobile il danno subito dal proprietario non può ritenersi sussistente in re ipsa, atteso che tale concetto giunge ad identificare il pregiudizio risarcibile con l’evento dannoso e a configurare un vero e proprio danno punitivo, ponendosi così in contrasto sia con l’insegnamento delle Sezioni Unite (sentenza n. 26972/2008) secondo il quale quel che rileva ai fini risarcitori è il danno-conseguenza, che deve essere allegato e provato, sia con l’ulteriore e più recente intervento nomofilattico (sentenza n. 16601/2017) che ha riconosciuto la compatibilità del danno punitivo con l’ordinamento giuridico soltanto nel caso di espressa sua previsione normativa, in applicazione dell’art. 23 Cost. Ne consegue che il danno da occupazione sine titulo, in quanto particolarmente evidente, può essere agevolmente dimostrato sulla base di presunzioni semplici, ma un alleggerimento dell’onere probatorio di tale natura non può includere anche l’esonero dalla allegazione dei fatti che devono essere accertati, ossia l’intenzione concreta del proprietario di mettere l’immobile a frutto.

In termini analoghi Sez. 6-3, n. 19434/2019, Iannello, Rv. 654622-02, ha affermato che il danno non patrimoniale subito in conseguenza di immissioni di rumore superiori alla normale tollerabilità non può ritenersi sussistente in re ipsa, atteso che tale concetto giunge ad identificare il danno risarcibile con la lesione del diritto (nella specie, quello al normale svolgimento della vita familiare all’interno della propria abitazione ed alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini di vita quotidiane) ed a configurare un vero e proprio danno punitivo, per il quale non vi è copertura normativa. Ne consegue che il danneggiato che ne chieda il risarcimento è tenuto a provare di avere subito un effettivo pregiudizio in termini di disagi sofferti in dipendenza della difficile vivibilità della casa, potendosi a tal fine avvalere anche di presunzioni gravi, precise e concordanti sulla base però di elementi indiziari diversi dal fatto in sé dell’esistenza di immissioni di rumore superiori alla normale tollerabilità.

Nella medesima prospettiva deve essere, altresì, considerata Sez. 2, n. 10362/2018, Fortunato, Rv. 648354-01, secondo la quale la realizzazione di opere in violazione di norme recepite dagli strumenti urbanistici locali, diverse da quelle in materia di distanze, non comportano immediato e contestuale danno per i vicini, il cui diritto al risarcimento presuppone l’accertamento di un nesso tra la violazione contestata e l’effettivo pregiudizio subito. La prova di tale pregiudizio deve essere fornita dagli interessati in modo preciso, con riferimento alla sussistenza del danno ed all’entità dello stesso.

Secondo un altro indirizzo (per il quale si vedano Sez. 6-2, n. 12630/2019, Picaroni, Rv. 653643-01; Sez. 2, n. 20545/2018, Federico, Rv. 649998-01; Sez. 2, n. 21239/2018, Falaschi, Rv. 650352-01), nel caso di occupazione illegittima di un immobile il danno subito dal proprietario è, invece, in re ipsa, discendendo dalla perdita della disponibilità del bene, la cui natura è normalmente fruttifera, e dalla impossibilità di conseguire l’utilità da esso ricavabile.

La soluzione adottata dall’orientamento minoritario riposa sull’assunto secondo il quale la lesione del diritto di proprietà, sia essa attuata attraverso l’imposizione abusiva di una servitù o mediante la violazione delle distanze legali, ovvero sotto forma di occupazione abusiva, dà luogo ad altrettante limitazioni della facoltà di godimento e di disposizione in cui si sostanzia il contenuto del diritto reale, alle quali corrisponde necessariamente una diminuzione del valore di scambio del bene che ne forma oggetto.

In coerenza con tale impostazione, Sez. 2, n. 17460/2018, Scarpa, Rv. Rv. 649269-01, ha precisato che in materia di condominio, ove sia provata l’utilizzazione da parte di uno dei condomini della cosa comune in modo da impedirne l’uso, anche potenziale, agli altri partecipanti, è risarcibile in quanto in re ipsa il danno patrimoniale per lucro interrotto, come quello impedito nel suo potenziale esplicarsi, mentre non è configurabile come in re ipsa un danno non patrimoniale inteso come disagio psico-fisico conseguente alla mancata utilizzazione di un’area comune condominiale, potendosi ammettere il risarcimento del danno non patrimoniale solo in conseguenza della lesione di interessi della persona di rango costituzionale, oppure nei casi previsti dalla legge. Sulla stessa linea si è espressa Sez. 2, n. 21501/2018, Grasso Giuseppe, Rv. 650315-02, la quale ha precisato che, in tema di violazione delle distanze tra costruzioni previste dal codice civile e dalle norme integrative, quali i regolamenti edilizi comunali, al proprietario confinante che lamenti tale violazione compete sia la tutela in forma specifica, finalizzata al ripristino della situazione antecedente al verificarsi dell’illecito, sia quella risarcitoria, e il danno che egli subisce (danno conseguenza e non danno evento) deve ritenersi in re ipsa, senza necessità di una specifica attività probatoria, essendo l’effetto, certo e indiscutibile, dell’abusiva imposizione di una servitù nel proprio fondo e, quindi, della limitazione del relativo godimento che si traduce in una diminuzione temporanea del valore della proprietà.

Secondo Sez. 1, n. 29990/2018, Sambito, Rv. 651590-01, in caso di occupazione illegittima di un immobile è, invece, ravvisabile, secondo una presunzione iuris tantum, l’esistenza di un danno connesso alla perdita di disponibilità del bene ed all’impossibilità di conseguirne la relativa utilità; in conseguenza di un simile spossessamento non sussiste uno specifico criterio di legge che indichi in quale modo il danno debba essere liquidato, ed occorre provvedere ad una stima equitativa, potendo anche utilizzarsi il criterio degli interessi legali calcolati sul prezzo di cessione volontaria del bene, quando esso non conduca ad una quantificazione del danno manifestamente incongrua in considerazione del caso concreto.

4.3. Danno in re ipsa, abuso del contratto di lavoro a termine e demansionamento.

In ambito lavoristico la questione della configurabilità del danno in re ipsa viene in rilievo soprattutto in materia di pubblico impiego privatizzato, con riferimento all’ipotesi di abusiva reiterazione di contratti di lavoro a tempo determinato.

Come chiarito in più occasioni dalla giurisprudenza di legittimità (si veda, da ultimo, Sez. L, n. 9114/2019, De Felice, non massimata), il principio cardine sancito dall’art. 36 del d.lgs. n. 165 del 2001 - in forza del quale la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori da parte di pubbliche amministrazioni non può determinare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato -, pur non ponendosi in contrasto con le fonti eurounitarie (e, segnatamente, con la clausola 5 paragrafo 2 dell’Accordo quadro sul lavoro a tempo determinato del 18 marzo 1999 che figura in allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio il quale non impone la previsione della trasformazione in contratti a tempo indeterminato dei contratti di lavoro a tempo determinato (Corte giust., sentenze del 4 luglio 2006, Adeneler e a., C-212/04; del 7 settembre 2006, Marrosu e Sardino, C-53/04; Vassallo, C-180/04, e del 23 aprile 2009, Angelidaki e a., C-378/07; nonché ordinanze del 12 giugno 2008, Vassilakis e a. ,C-364107; del 24 aprile 2009, Koukou, C-519/08; del 23 novembre 2009, Lagoudakis e a. , da C-162108, e del 1° ottobre 2010, Affatato, C-3/10)), non di meno non esime dall’obbligo – imposto agli stati membri - di prevedere misure effettive volte, comunque, ad evitare e a sanzionare l’utilizzo abusivo del contratto di lavoro a termine nel settore pubblico.

A tale proposito, la Corte di giustizia dell’Unione europea (si veda, da ultimo, la sentenza del 7 marzo 2018, C-949/16, Santoro) ha avallato l’approdo ermeneutico cui è pervenuta, all’esito di una lunga evoluzione, la giurisprudenza di legittimità e che risulta compendiato nei principi enunciati dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione nella sentenza n. 5072/2016, Amoroso, Rv. 639066-01, secondo la quale, in materia di pubblico impiego privatizzato, nell’ipotesi di abusiva reiterazione di contratti a termine, la misura risarcitoria prevista dall’art. 36, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001, va interpretata in conformità al canone di effettività della tutela affermato dalla Corte di Giustizia UE (ordinanza 12 dicembre 2013, in C-50/13), sicché, mentre va escluso - siccome incongruo - il ricorso ai criteri previsti per il licenziamento illegittimo, può farsi riferimento alla fattispecie omogenea di cui all’art. 32, comma 5, della legge n. 183 del 2010, quale danno presunto, con valenza sanzionatoria e qualificabile come “danno comunitario”, determinato tra un minimo ed un massimo, salva la prova del maggior pregiudizio sofferto, senza che ne derivi una posizione di favore del lavoratore privato rispetto al dipendente pubblico, atteso che, per il primo, l’indennità forfetizzata limita il danno risarcibile, per il secondo, invece, agevola l’onere probatorio del danno subito.

L’elaborazione giurisprudenziale della nozione di “danno comunitario” è stata caratterizzata da una costante ricerca di adeguamento del sistema interno al diritto eurounitario, la quale, in un primo momento, si è tradotta nell’applicazione, anche all’area del lavoro pubblico, della disciplina speciale, relativa al danno subito dal lavoratore privato nel periodo tra la cessazione del termine illegittimo e la sentenza costitutiva, di cui all’art. 32, commi 5 e 7, della legge 4 ottobre 2010, n. 183, a prescindere dall’intervenuta costituzione in mora del datore di lavoro e dalla prova concreta di un danno, trattandosi di indennità forfetizzata e onnicomprensiva per i danni causati dalla nullità del termine (Sez. L, n. 19371/2013, Manna A., Rv. 628401-01).

Successivamente la Corte ha elaborato una speciale tipologia di danno da illegittima apposizione del termine al contratto di lavoro con il pubblico dipendente, il cui risarcimento, in conformità ai canoni di adeguatezza, effettività, proporzionalità e dissuasività rispetto al ricorso abusivo alla stipulazione di contratti a termine, è configurabile quale sanzione ex lege a carico del datore di lavoro. Di conseguenza, per la liquidazione del ristoro di tale pregiudizio è stato ritenuto utilizzabile, in via tendenziale, il criterio indicato dall’art. 8 della legge n. 604 del 1966, e non il sistema indennitario onnicomprensivo previsto dall’art. 32 della legge n. 183 del 2010, né il criterio previsto dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, che non hanno alcuna attinenza con l’indicata fattispecie (Sez. L, n. 27481/2014, Tria, Rv. 634073-01).

Con l’arresto nomofilattico del 2016 il danno comunitario sembra, invece, essere stato ricondotto nel paradigma della responsabilità contrattuale di diritto comune, sul presupposto che l’art. 36, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001 contiene un riferimento al “danno risarcibile”. Non di meno, poiché non è configurabile un pregiudizio da perdita del posto di lavoro a tempo indeterminato (dal momento che “in nessun caso il rapporto di lavoro a termine si potrebbe convertire in rapporto a tempo indeterminato perché l’accesso al pubblico impiego non può avvenire - invece che tramite di concorso pubblico - quale effetto, sia pur in chiave sanzionatoria, di una situazione di illegalità”), il danno in questione deve essere identificato nella perdita di chance di un’occupazione alternativa migliore.

Sotto il profilo probatorio, le Sezioni Unite, in considerazione dell’esigenza di attribuire, nella prospettiva comunitaria, maggiore consistenza ed effettività al danno risarcibile, hanno precisato che, in caso di abusivo ricorso al contratto a termine, la difficoltà, per il lavoratore, di provare il pregiudizio subito ridonda in deficit di adeguamento della normativa interna a quella comunitaria e, quindi, in violazione di quest’ultima, la quale, per essere (pacificamente) non autoapplicativa, opererebbe, non di meno, come parametro interposto ex art. 117, comma 1, Cost. e potrebbe inficiare la legittimità costituzionale della norma interna (art. 36, comma 5, d.lgs. n. 165 del 2001). Di qui l’applicazione della fattispecie, sistematicamente coerente e strettamente contigua a quella in oggetto, di cui all’art. 32, comma 5, della legge n. 183 del 2010, la quale prevede un’ipotesi di danno presunto - con valenza sanzionatoria e qualificabile come “danno comunitario” - determinato tra un minimo ed un massimo, salva la prova del maggior pregiudizio sofferto, senza che ne derivi una posizione di favore del lavoratore privato rispetto al dipendente pubblico, atteso che, per il primo, l’indennità forfetizzata limita il danno risarcibile, per il secondo, invece, agevola l’onere probatorio del danno subito.

Tale agevolazione probatoria, osservano le Sezioni Unite, assolve pienamente alla funzione di dissuasione e di rafforzamento della tutela del lavoratore pubblico richiesta dalla giurisprudenza della Corte di giustizia.

La presunzione di esistenza del danno così elaborata dalla Corte di Cassazione, ancorché trovi giustificazione nell’esigenza di adeguamento della normativa nazionale alle fonti eurounitarie, rappresenta, in definitiva, un’ulteriore vistosa deviazione dal principio di integrale riparazione del danno e, quindi, dal modello teorico della teoria causale seguito dalla giurisprudenza prevalente.

Analoga questione si pone in materia di danno da demansionamento.

Secondo l’orientamento condiviso dalla giurisprudenza di legittimità, dalla violazione, da parte del datore di lavoro, dell’art. 2103 c.c. può derivare un pregiudizio di natura patrimoniale, consistente nella perdita della capacità professionale, nella mancata acquisizione di un maggiore saper fare e nella perdita di chance, ossia di ulteriori possibilità di guadagno o di ulteriori potenzialità occupazionali; e un pregiudizio di natura non patrimoniale conseguente alla lesione di interessi di natura personale come la salute e la dignità personale del lavoratore tutelate, quali oggetto di diritti inviolabili, dagli artt. 2, 4 e 32 Cost. (Sez. L, n. 1178/2017, Patti, non massimata; Sez. L, n. 11045/2004, De Luca, Rv. 573530-01).

Per quanto concerne, in particolare, la prima ipotesi, il danno patrimoniale da demansionamento consiste nell’impoverimento delle capacità del lavoratore per il mancato esercizio quotidiano del diritto di elevare la professionalità lavorando, essendo il complesso di capacità e di attitudini definibile con il termine ‘professionalità’ un bene economicamente valutabile, posto che esso rappresenta uno dei principali parametri per la determinazione del valore di un dipendente sul mercato del lavoro. Ne deriva che, ai fini della liquidazione, è ammissibile, nell’ambito di una valutazione necessariamente equitativa, il ricorso al parametro della retribuzione (Sez. L, n. 12253/2015, Amendola F., Rv. 635727-01).

Per quanto concerne il profilo probatorio, con la sentenza delle Sezioni Unite n. 4063/2010, Morcavallo, Rv. 611367-01, si è affermato l’orientamento secondo il quale, una volta accertato il demansionamento professionale del lavoratore, il giudice del merito può desumere l’esistenza del danno dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, frustrazione professionale) dai quali si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno, facendo ricorso, ai sensi dell’art. 115 c.p.c., alle nozioni generali derivanti dall’esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove (nella medesima direzione si vedano Sez. L, n. 9901/2018, Marotta, Rv. 647781-01; Sez. 1, n. 24585/2019, Mercolino, Rv. 655766-02).

A tal fine particolarmente significativi devono considerarsi, secondo Sez. L, n. 19923/2019, Pagetta, Rv. 654787-02 e Sez. L, n. 21/2019, Cinque, Rv. 652445-01, elementi come la qualità e quantità dell’esperienza lavorativa pregressa, il tipo di professionalità colpita, la durata del demansionamento, l’esito finale della dequalificazione e le altre circostanze del caso concreto.

Tale impostazione esclude la natura di danno in re ipsa del pregiudizio da demansionamento sul presupposto che, ferma l’astratta potenzialità lesiva dell’assegnazione del lavoratore a mansioni inferiori, la produzione di conseguenze pregiudizievoli non è automatica e indefettibile, ma soltanto eventuale, così che che grava sul lavoratore l’onere della prova del pregiudizio lamentato.

In dottrina è stato, tuttavia, evidenziato come il metodo di valutazione presuntiva del danno così delineato dalla Corte si presti ad automatismi, nella misura in cui si riconosca una relazione di regolarità causale tra demansionamento e impoverimento del bagaglio di conoscenze e di esperienze del lavoratore senza pretendere la dimostrazione delle occasioni da quest’ultimo effettivamente perdute, assistendosi, in tal caso, all’identificazione del danno-conseguenza (perdita di professionalità) con l’evento di danno (dequalificazione) (U. GARGIULO, Se il danno da demansionamento è (quasi) in re ipsa, in Riv. it. dir. lav., 2015, 1004 e ss. (nota a Sez. L, n. 12253/2015); D. LO RE, A proposito del demansionamento: il danno in re ipsa, la strada del ritorno, in ADL, 2018, 540 e ss.).

Diviene, pertanto, essenziale, al fine di evitare di dare ingresso ad una nuova fattispecie di danno in re ipsa, che non si ritenga assolto l’onere assertorio e probatorio laddove la domanda risarcitoria si limiti all’allegazione del fatto della violazione dell’art. 2103 c.c., senza contenere l’indicazione di ogni circostanza idonea a sorreggere la richiesta di danni, quali, ad esempio, i risultati negativi conseguenti alla perdita di professionalità, le ragionevoli aspettative frustrate, le capacità professionali perdute, i riflessi negativi conseguenti alla perdita di aggiornamento, l’eventuale perdita di chance, la mancata possibilità di ottenere avanzamenti in carriera, la difficoltà di ricollocare all’esterno la propria professionalità (in questi termini Sez. L, n. 17174/2013, Venuti, non massimata; Sez. L, n. 20663/2011, Maisano, non massimata).

5. Danno in re ipsa e danno non patrimoniale.

Si è più volte evidenziato come, a partire dalle pronunce nomofilattiche dell’11 novembre 2008, nella giurisprudenza di legittimità sia andato consolidandosi l’orientamento che, sulla scorta di una nota dottrina (GORLA, Sulla cosiddetta causalità giuridica: «fatto dannoso e conseguenze», cit.), scompone il giudizio di responsabilità in due distinti segmenti riguardanti, rispettivamente, l’accertamento delle condizioni in presenza della quali un fatto può essere qualificato come causa dell’evento di danno (causalità materiale), e la determinazione del contenuto dell’obbligazione risarcitoria che ne consegue, governata dalla causalità giuridica e deputata a identificare le condizioni in presenza delle quali una perdita o un mancato guadagno possono essere considerati conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento o dell’evento di danno ingiusto.

Si è anche posto in risalto come la tesi che nega la configurabilità del danno in re ipsa costituisca uno dei principali corollari di tale impostazione e come, al pari di questa, risulti coerente con la funzione, se non esclusiva (Sez. U, n. 16601/2017, D’Ascola, Rv. 644914-01), comunque precipua, di compensazione propria della responsabilità civile.

“Alla responsabilità civile - insegna la Corte - è assegnato il compito precipuo di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione. E ciò vale per qualsiasi danno, compreso il danno non patrimoniale o morale” (Sez. 3, 1183/2007, Fico, Rv. 596200-01)

Il modello teorico alla stregua del quale il pregiudizio risarcibile costituisce entità fenomenica distinta dispetto alla lesione dell’interesse meritevole di tutela secondo l’ordinamento giuridico è stato, quindi, esteso anche alla materia del danno non patrimoniale, sia che derivi da reato (Sez. 3, n. 8421/2011, Segreto, Rv. 617669-01), sia che consegua alla lesione di diritti inviolabili della persona costituzionalmente garantiti (Sez. 3, n. 10527/2011, Scarano, Rv. 618207-01; Sez. 3, n. 13614/2011, D’Alessandro, Rv. 618822-01; Sez. 6-1, n. 21865/2013, Bernabai, Rv. 627750-01; Sez. 3, n. 25420/2017, Vincenti, Rv. 646634-04; Sez. 6-3, n. 7594/2018, Scarano, Rv. 648443-01; Sez. 3, n. 31537/2018, Rossetti, Rv. 651944-01), sia che si configuri come ristoro tipizzato dal legislatore (come in materia di danno da lesione della privacy, per il quale si vedano Sez. 6-1, n. 22100/2013, Ragonesi, Rv. 627948-01; Sez. 3, n. 16133/2014, Vincenti, Rv. 632536-01; ovvero in tema di equa riparazione per la durata irragionevole del processo, Sez. 1, n. 12242/2009, Giusti, Rv. 608298-01).

Nel processo evolutivo che ha portato al superamento dell’identificazione del danno non patrimoniale con la lesione dell’interesse tutelato dall’ordinamento (per la quale si veda la nota sentenza della Corte costituzionale n. 184 del 1986), un passaggio decisivo è rappresentato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 372 del 1994, la quale - muovendo dalla lettura dell’art. 2059 c.c., non in termini di autonoma fattispecie di illecito, distinta da quella di cui all’art. 2043 c.c., ma di norma di disciplina dei presupposti e dei limiti di risarcibilità del danno non patrimoniale - ha chiarito che il danno risarcibile, “nella sua attuale ontologia giuridica, segnata dalla norma vivente dell’art. 2043 c.c., cui è da ricondurre la struttura stessa dell’illecito aquiliano, [...] non si identifica con la lesione dell’interesse tutelato dall’ordinamento, ma con le conseguenze di tale lesione”.

Sviluppando gli spunti ermeneutici offerti dal nuovo corso inaugurato dal Giudice delle leggi, le sentenze delle Sezioni Unite n. 26972, n. 26973, n. 26974 e n. 26975 del 2008 hanno definitivamente chiarito che il danno non patrimoniale, ancorché determinato dalla lesione di diritti inviolabili della persona, non integra danno evento, ma danno conseguenza, così che esso non sussiste in re ipsa, ma necessita sempre di allegazione e prova. Non di meno, la prova del pregiudizio non patrimoniale può essere offerta mediante testimoni o documenti o, essenzialmente, dimostrando tutti quegli elementi che, nella concreta fattispecie, siano idonei a fornire la serie concatenata dei fatti noti che consentano di risalire mediante ragionamento presuntivo al fatto ignoto.

Alla stregua delle indicazioni offerte dalle Sezioni Unite, l’onere assertorio e probatorio deve, quindi, riguardare indistintamente ciascuna componente del pregiudizio lamentato, sia essa patrimoniale o non patrimoniale, senza che possano tollerarsi automatismi liquidativi a detrimento delle effettive esigenze di ripristino dettate dall’alterazione dell’equilibrio giuridico nel caso concreto.

Ne consegue che l’allegazione e la prova del danno non patrimoniale non può limitarsi all’enunciazione e alla dimostrazione della subita lesione di un diritto inviolabile, dovendo essere al contempo identificato il pregiudizio agli interessi della persona non connotati da rilevanza economica ad essa conseguente (A. SCARPA, Allegazione e prova del danno non patrimoniale, in Immobili e proprietà, 2019, 2, 99 e ss.).

Con specifico riguardo all’enucleazione dei fatti con funzione individuatrice della domanda e, quindi, degli elementi costitutivi del diritto sostanziale risarcitorio, la dottrina (E.ALLORIO, Giudicato su domanda parziale, in Giur. it., 1958, I, 1, 399 e ss.; G. VERDE, Sulla “minima unità strutturale” azionabile nel processo (a proposito del giudicato e di emergenti dottrine), in Riv. dir. proc., 1989, 573 e ss.), muovendo dal presupposto della natura eterodeterminata del diritto al risarcimento del danno (condiviso dalla stessa giurisprudenza di legittimità, per la quale si vedano, tra le altre, Sez. 3, n. 5503/2019, Rossetti, Rv. 652836-01; Sez. 3, n. 10577/2018, Frasca, Rv. 648595-01), identifica tale diritto non solo attraverso il richiamo al fatto generatore e alla situazione soggettiva lesa, ma anche mediante la singola voce di danno di volta in volta dedotta in giudizio.

Coerente con la qualificazione dell’azione risarcitoria in termini di domanda eterodeterminata è il principio dell’unitarietà del diritto al risarcimento del danno da cui discende la regola dell’infrazionabilità del giudizio risarcitorio, in forza della quale quando un soggetto agisce per chiedere il risarcimento dei danni cagionatigli da un determinato comportamento del convenuto ha l’onere di dedurre tutte le possibili voci di pregiudizio originate da quella condotta, con la conseguenza che non è ammissibile che taluno introduca un giudizio per il risarcimento del danno esponendo determinate componenti dello stesso e poi, definito il giudizio con sentenza passata in giudicato, agisca nuovamente per il risarcimento di altri danni derivanti dallo stesso fatto, ma in relazione ad altre voci, diverse da quelle prima esposte (su cui si vedano, ex aliis, Sez. 3, n. 17019/2018, Saija, Rv. 649441-02; Sez. 6-3, n. 22503/2016, Rossetti, Rv. 642994-01; Sez. 6-3, n. 21318/2015, Carluccio, Rv. 637490-01)

Alla stregua di tali indicazioni, gli elementi costitutivi del diritto al risarcimento del danno non patrimoniale e, quindi, della causa petendi dell’azione risarcitoria, vanno, pertanto, individuati nel fatto storico generatore del danno, nella lesione di un interesse protetto, nelle concrete conseguenze pregiudizievoli, non economicamente valutabili, da essa derivate, ovvero negli elementi attraverso i quali l’iniuria ha trovato effettiva consistenza fattuale.

Per quanto concerne la prova del danno non patrimoniale, la regola generale che impone, anche in subiecta materia, una rigorosa applicazione del criterio di ripartizione dell’onere della prova di cui all’art. 2697 c.c., subisce un temperamento attraverso l’ampia ammissione, da parte dei giudici di legittimità, del ricorso alla prova presuntiva (in tale direzione si vedano, tra le altre, Sez. 3, n. 28989/2019, Dell’Utri, Rv. 656223-01; Sez. 3, n. 14392/2019, Valle, Rv. 654094-01; Sez. L, n. 29784/2018, Marotta, Rv. 651673-01; Sez. 3, n. 11754/2018, Vincenti, Rv. 648794-01).

Non sono, tuttavia, mancate in dottrina manifestazioni di dissenso, avendo alcuni autori rilevato come la giurisprudenza, fondando non di rado il ragionamento presuntivo inteso a verificare la sussistenza del danno non patrimoniale non su fatti secondari introdotti in giudizio con finalità probatorie, ma sulla stessa lesione dell’interesse della persona non suscettibile di valutazione economica, finisca con l’avallare una prova in re ipsa del pregiudizio non patrimoniale (E. TUCCARI, La prova del pregiudizio non patrimoniale attraverso le presunzioni, in Nuova giur. civ. comm., 2011, 1012 e ss.; R. BREDA, Danni civili – “Di doman non c’è certezza: il futuro del danno non patrimoniale”, in Nuova giur. civ. comm., 2016, 1274 e ss.).

Il ragionamento presuntivo in forza del quale al giudice è consentito di riconoscere come esistente un certo pregiudizio in tutti i casi in cui si verifichi una determinata lesione, talora impropriamente identificato nel fatto notorio – il quale indica una circostanza concreta non soggetta a prova e, quindi, sottratta all’onere di allegazione (S. PATTI, Le prove. Parte generale, Milano, 2010, 23; F. CARNELUTTI, Massime d’esperienza e fatti notori, in Riv. dir. proc., 1959, 639; in giurisprudenza, per la distinzione tra fatti notori e massime di esperienza, si veda Sez. 5, n. 5438/2017, Carbone, Rv. 643456-01) -, trova, invero, fondamento nelle massime di esperienza (M. TARUFFO, Considerazioni sulle massime d’esperienza, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2009, 2, 551), le quali non operano sul terreno dell’accadimento storico, ma su quello della valutazione dei fatti, in quanto costituiscono regole di giudizio basate su leggi naturali, statistiche o di mera esperienza, comunemente e pacificamente accettate in un determinato ambiente (Sez. 3, n. 8546/2008, Frasca, Rv. 602633-01; Sez. 3, n. 11754/2018, Vincenti, Rv. 648794-01; Sez. 3, n. 901/2018, Travaglino, Rv. 647125-01).

La massima di comune esperienza costituisce il risultato del processo di generalizzazione dei caratteri comuni di una serie di fatti passati che, pur estranei al processo, vengono assunti come dati di partenza. La peculiarità di tale regola di giudizio, il cui impiego da parte del giudice è consentito dall’art. 115, comma 2, c.p.c., risiede nel fatto che in forza di essa il ragionamento inferenziale può essere fondato non solo sul fatto secondario, ma sul fatto principale: il fatto ignorato – nella specie l’esistenza del danno non patrimoniale – può, pertanto, essere tratto da un elemento costitutivo dell’illecito noto, come la lesione del dritto personale cagionata dal fatto illecito ovvero dall’inadempimento.

Il ricorso alle massime di esperienza rientra nell’ambito del giudizio presuntivo -atteso che l’art. 2729 c.c. fa riferimento ad un collegamento tra fatti senza alcuna differenziazione tra fatti principali e fatti secondari -, ma si distingue dalla prova per presunzioni vera e propria, attraverso la quale si fa derivare la conoscenza del fatto ignorato da un altro fatto secondario, estraneo alla fattispecie costitutiva dell’illecito e introdotto in giudizio come elemento probatorio.

Alla stregua di tale premessa, si palesa con sufficiente chiarezza la distinzione tra danno in re ipsa e danno dimostrabile attraverso il ricorso al ragionamento presuntivo, nella duplice declinazione della prova per presunzioni e dell’impiego delle massime di comune esperienza.

L’elemento discretivo deve, infatti, essere individuato nella possibilità, o meno, di fornire la prova contraria.

Nella nozione di danno in re ipsa il danno è esso stesso elemento della lesione, così che viene a configurarsi un rapporto di implicazione necessaria in ragione del quale diviene superflua sia l’allegazione, che la prova, essendo precluso all’autore dell’illecito dedurre e dimostrare il contrario; il ragionamento presuntivo poggia, invece, su una implicazione meramente probabile che, a propria volta, si traduce in una regola probatoria (id quod plerumque accidit).

Orbene, alla stregua dell’orientamento interpretativo che esclude la configurabilità del danno in re ipsa, ciò che deve ritenersi precluso è esclusivamente la costruzione di un rapporto di necessarietà assoluta tra lesione e danno, insuscettibile di confutazione attraverso la prova contraria.

Resta, comunque, ferma la centralità dell’onere di allegazione gravante sul danneggiato - la cui latitudine riflette la complessità e multiformità delle concrete alterazioni esistenziali in cui può esteriorizzarsi il danno non patrimoniale che, a sua volta, deriva dall’ampiezza contenutistica dei diritti della persona investiti dalla lesione ingiusta - non potendo il giudice, in ogni caso, sopperire alle carenze assertorie relative all’oggetto della domanda e ai fatti, principali e secondari, dedotti a sostegno della stessa (A. SCARPA, Allegazione e prova del danno non patrimoniale, cit., 99 e ss.).

Tra le fattispecie in cui ricorre più frequentemente la questione dell’ambito di operatività del ragionamento presuntivo ai fini della prova del danno non patrimoniale è quella dei pregiudizi derivanti dalla perdita o dalla compromissione del rapporto parentale.

Difatti, la Cassazione ha, a più riprese, ribadito che, in caso di perdita definitiva del rapporto matrimoniale e parentale, ciascuno dei familiari superstiti ha diritto ad una liquidazione comprensiva di tutto il danno non patrimoniale subìto, in proporzione alla durata e all’intensità del vissuto, nonché alla composizione del restante nucleo familiare in grado di prestare assistenza morale e materiale, avuto riguardo all’età della vittima e a quella dei familiari danneggiati, alla personalità individuale di costoro, alla loro capacità di reazione e sopportazione del trauma e ad ogni altra circostanza del caso concreto, da allegare e provare (anche presuntivamente, secondo nozioni di comune esperienza) da parte di chi agisce in giudizio, spettando alla controparte la prova contraria di situazioni che compromettono l’unità, la continuità e l’intensità del rapporto familiare (Sez. 3, n. 11212/2019, Valle, Rv. 653591-01; nella stessa direzione si vedano, tra le altre, Sez. 3, n. 2788/2019, Porreca, Rv. 652664-02; Sez. L, n. 14655/2017, Negri Della Torre, Rv. 645856-01).

L’essenzialità del compiuto assolvimento dell’onere assertorio è sottolineata con particolare rigore da Sez. 3, n. 10527/2011, Scarano, Rv. 618210-01, secondo la quale, nel caso di morte di un prossimo congiunto, un danno non patrimoniale diverso ed ulteriore rispetto alla sofferenza morale (c.d. danno da rottura del rapporto parentale) non può ritenersi sussistente per il solo fatto che il superstite lamenti la perdita delle abitudini quotidiane, ma esige la dimostrazione di fondamentali e radicali cambiamenti dello stile di vita, che è onere dell’attore allegare e provare. Tale onere di allegazione, peraltro, va adempiuto in modo circostanziato, non potendo risolversi in mere enunciazioni generiche, astratte od ipotetiche. In applicazione del principio, la Corte ha ritenuto non adeguatamente adempiuto il suddetto onere di allegazione da parte dei genitori di persona deceduta in un sinistro stradale che avevano domandato il ristoro - in aggiunta al danno morale - anche del danno c.d. esistenziale, allegando a fondamento di tale pretesa la perdita “del piacere di condividere gioie e dolori col figlio” e dei “riti del vivere quotidiano, quali potevano essere il cinema assieme alla sera, l’alternarsi alla guida della macchina, le vacanze, le telefonate durante la giornata, il caffè appena svegli, il pranzo, la cena, i regali inattesi”) (nel medesimo senso si vedano, altresì, Sez. 3, n. 21060/2016, Scarano, Rv. 642934-02; Sez. 3, n. 28989/2019, Dell’Utri, Rv. 656223-02).

Secondo altre pronunce, ai fini della delimitazione dell’estensione dell’onere della prova gravante sul familiare superstite, assume, invece, rilevanza il grado di parentela, perché il soggetto che abbia patito un danno per l’uccisione di un membro della famiglia nucleare viene a trovarsi in posizione di vantaggio, potendo lo stretto vincolo di parentela costituire il fatto noto attraverso il quale risalire al fatto ignorato dell’esistenza di un danno ai sensi dell’art. 2727 c.c. Trattandosi, tuttavia, di preaesumptio hominis spetta al convenuto l’onere di dimostrare che, nonostante lo stretto rapporto di parentela, la vittima primaria e la vittima secondaria non erano legati da alcun vincolo affettivo.

In tale prospettiva la presunzione non opera, invece, in caso di uccisione o grave menomazione di un parente non stretto (quale potrebbe essere il cugino, il nipote ex fratre, ecc.), gravando sull’attore l’onere di dimostrare che era legato alla vittima da un intenso rapporto affettivo, la cui rottura ha provocato conseguenze pregiudizievoli in termini di sofferenza morale e di alterazione dell’esistenza.

In questo caso la prova deve vertere non solo sullo stato di afflizione in cui è venuto a trovarsi il superstite dopo la scomparsa del congiunto, ma anche sulla natura e sul concreto svolgimento del rapporto interpersonale con quest’ultimo. Potranno, a tale fine, essere dedotti quali fatti secondari utili al ragionamento presuntivo, la stretta frequentazione con la vittima, la vicinanza di affetti o di interessi, un’intesa amichevole, la risalente e prolungata convivenza e comunque qualunque altro elemento concreto da cui desumere l’assimilabilità di quel rapporto ad una relazione filiale, genitoriale o fraterna.

Su questa linea, Sez. L, n. 29784/2018, Marotta, Rv. 651673-01 e Sez. L, n. 26614/2019, Blasutto, Rv. 655512-01, hanno affermato che la prova del danno da sofferenza interiore per la perdita del familiare può essere fornita mediante presunzione fondata sull’esistenza dello stretto legame di parentela riconducibile all’interno della famiglia nucleare, superabile dalla prova contraria, gravante sul danneggiante, imperniata non sulla mera mancanza di convivenza (che, in tali casi, può rilevare al solo fine di ridurre il risarcimento rispetto a quello spettante secondo gli ordinari criteri di liquidazione), bensì sull’assenza di legame affettivo tra i superstiti e la vittima, nonostante il rapporto di parentela.

In termini non dissimili si è espressa Sez. 6-3, n. 3767/2018, Rossetti, Rv. 648035-02, secondo la quale l’uccisione di una persona fa presumere da sola, ex art. 2727 c.c., una conseguente sofferenza morale in capo ai genitori, al coniuge, ai figli o ai fratelli della vittima, a nulla rilevando né che la vittima e il superstite non convivessero, né che fossero distanti (circostanze, queste ultime, le quali potranno essere valutate ai fini del quantum debeatur). Nei casi suddetti è, pertanto, onere del convenuto provare che vittima e superstite fossero tra foro indifferenti o in odio, e che, di conseguenza, la morte della prima non abbia causato pregiudizi non patrimoniali di sorta al secondo (in tale direzione si veda, altresì, Sez. 3, n. 12146/2016, Vincenti, Rv. 640287-01).

  • risoluzione di contratto
  • responsabilità contrattuale
  • contratto di locazione

XVI)

L’ECCEZIONE DI INADEMPIMENTO NELLE LOCAZIONI E LA BUONA FEDE NELL’ESECUZIONE DEL CONTRATTO

(di Irene Ambrosi, Stefano Pepe )

Sommario

1 Premessa. - 2 Strumenti di autotutela e di tutela nel rapporto di locazione. Fondamento e limiti di esercizio del diritto: eccezione di inadempimento e buona fede. - 3 Criteri ermeneutici di valutazione della legittimità della sospensione della prestazione sinallagmatica.

1. Premessa.

Nel corso del 2019 la Corte di cassazione ha esaminato, nell’ambito del rapporto sinallagmatico intercorrente tra le prestazioni del conduttore e del locatore, da un lato, la differente tutela apprestata dall’art. 1460 c.c. rispetto a quella di carattere giudiziale di cui all’art. 1578 c.c. e, dall’altro, l’operatività nell’ambito del rapporto contrattuale in esame del principio di buona fede quale limite all’operatività dello strumento dell’autotutela previsto dall’art. 1460 c.c.

Particolarmente rilevanti le conclusioni dell’analisi compiuta che collocano i due istituti nel sistema su piani funzionalmente diversi: per un verso, l’eccezione di inadempimento (art. 1460 c.c.) quale strumento di autotutela, calato nella fase di esecuzione del contratto, con funzione sospensiva delle prestazioni corrispettive, per l’altro, la domanda di risoluzione del contratto o di riduzione del prezzo nel caso di vizi della cosa locata (art. 1578 c.c.) quale strumento di tutela, calato nella fase genetica del contratto, che incide direttamente sulla fonte dell’obbligazione, con funzione risolutiva o riequilibratrice del sinallagma.

Su tutto, la Suprema Corte ha posto il canone della correttezza e buona fede come oggettivo parametro comportamentale e criterio ermeneutico dirimente al fine di valutare se la sospensione della controparte dell’inadempiente, avuto riguardo “alle circostanze del caso concreto”, è contraria a “buona fede”.

In applicazione di tali conclusioni, la Corte di cassazione ha fornito criteri per un’interpretazione meno rigida e formalistica delle evenienze nelle quali ritenere legittimo il ricorso alla sospensione del pagamento dei canoni da parte del conduttore.

2. Strumenti di autotutela e di tutela nel rapporto di locazione. Fondamento e limiti di esercizio del diritto: eccezione di inadempimento e buona fede.

Un primo rilevante arresto giurisprudenziale è quello della Sez. 3, n. 16917/2019, Graziosi, Rv. 654434 - 01, che ha ricevuto la seguente massimazione dall’Ufficio del Massimario e del Ruolo: “L’art. 1578 c.c. offre al conduttore una tutela contro i vizi della cosa locata esistenti al momento della consegna che presuppone l’accertamento giudiziale dell’inadempimento del locatore ai propri obblighi ed incide direttamente sulla fonte dell’obbligazione; al contrario, l’art. 1460 c.c. prevede una forma di autotutela che attiene alla fase esecutiva e non genetica del rapporto e consente al conduttore, in presenza di un inadempimento del locatore, di sospendere liberamente la sua prestazione, nel rispetto del canone della buona fede oggettiva, senza la necessità di adire il giudice ai sensi dell’art. 1578 c.c.”.

Il primo aspetto esaminato dalla pronuncia in esame è stato quello del rapporto tra l’art. 1460 c.c. e l’art. 1578 c.c.

In proposito l’art. 1460 c.c. prevede che «nei contratti con prestazioni corrispettive, ciascuno dei contraenti può rifiutarsi di adempiere la sua obbligazione, se l’altro non adempie o non offre di adempiere contemporaneamente la propria, salvo che termini diversi per l’adempimento siano stati stabiliti dalle parti o risultino dalla natura del contratto. Tuttavia non può rifiutarsi la esecuzione se, avuto riguardo alle circostanze, il rifiuto è contrario alla buona fede» Il successivo art. 1578 c.c. sancisce che «Se al momento della consegna la cosa locata è affetta da vizi che ne diminuiscono in modo apprezzabile l’idoneità all’uso pattuito, il conduttore può domandare la risoluzione del contratto o una riduzione del corrispettivo, salvo che si tratti di vizi da lui conosciuti o facilmente riconoscibili. Il locatore è tenuto a risarcire al conduttore i danni derivati da vizi della cosa, se non prova di avere, senza colpa, ignorato i vizi stessi al momento della consegna».

Nella fattispecie sottoposta alla Corte parte conduttrice aveva sospeso il pagamento dei canoni dovuti alla locatrice sull’asserito grave inadempimento alle prestazioni contrattuali di quest’ultima; sospensione che, in ultimo, la Corte d’Appello aveva ritenuto illegittima. In particolare, i giudici di merito avevano ritenuto conforme al principio di buona fede il ricorso al rifiuto dal pagamento del canone (ex art 1460 c.c.) solo in presenza della proporzionalità delle reciproche prestazioni del contratto di locazione e, dunque, alla luce dei rispettivi inadempimenti, avendo ritenuto la Corte giustificata la sospensione totale del pagamento del canone - qui effettuata dall’attuale ricorrente soltanto nel caso di totale compromissione del godimento del bene. Inoltre, i giudici di merito avevano ritenuto che il mancato pagamento del canone di locazione da parte del conduttore (ex art. 1460 c.c.), e dunque l’inadempimento della principale obbligazione posta a suo carico, non può intendersi legittimato dall’eccezione di inadempimento sollevata dalla medesima parte, avente fondamento su una riduzione o una diminuzione di godimento del bene, per evento ricollegabile al fatto del locatore. La sospensione totale o parziale del pagamento del canone, invero, è legittima nella sola ipotesi in cui vi sia sproporzione fra i rispettivi inadempimenti delle parti, da valutarsi non in rapporto alla rappresentazione soggettiva che le parti ne facciano, bensì in relazione alla situazione oggettiva. In ragione di ciò può ritenersi giustificata una sospensione integrale dell’adempimento dell’obbligo del conduttore di corrispondere il canone di locazione solo a fronte di una effettiva compromissione totale del godimento del bene locato (che nella fattispecie non era avvenuta), ferma restando la necessità di accertare giudizialmente, in seguito alla sospensione dell’adempimento a carico del conduttore, la carenza della prestazione della controparte. In mancanza dell’accertamento predetto, la condotta del conduttore costituisce fatto arbitrario ed illegittimo che altera il sinallagma contrattuale e determina uno squilibrio tra le prestazioni delle parti per effetto di una unilaterale ragion fattasi, che configura, pertanto, inadempimento colpevole all’obbligo di adempiere esattamente e puntualmente al contratto stipulato ed all’obbligazione principale a suo carico gravante.

La Corte di cassazione con la sentenza in esame sottopone a critica l’ultima parte dell’iter argomentativo seguito dalla Corte di merito circa il necessario successivo intervento giudiziale volto a verificare la legittimità dell’inadempimento del conduttore (ex art 1460 c.c.), seppure allo stesso tempo rilevi che questo trova fondamento in un proprio precedente (Sez. 3, n. 14739/2005, Chiarini, Rv. 583885 - 01).

Il Collegio osserva che l’art 1460 c.c. fornisce uno strumento di autotutela (114) per l’ipotesi di esecuzione in versione negativa, ovvero inadempimento o adempimento inesatto, e la “traduzione” della norma nel caso concreto risiede nel rispetto del parametro della buona fede oggettiva - non soggettiva, la mera incolpevole ignoranza di ledere il diritto altrui non può quindi legittimare l’inadempimento - diversamente, la lettura fornita dalla Corte d’Appello si riduce nel ravvisare nell’art. 1460 c.c. una mera avanguardia dell’articolo 1578, nel senso che, componendosi una fattispecie a formazione progressiva, solo l’esercizio delle azioni previste da quest’ultima norma può condurre a ritenere legittima la sospensione dell’adempimento del pagamento del canone da parte del conduttore - e, ovviamente, soltanto se l’esito dell’azione è positivo per l’attore.

In proposito, la Corte si sofferma sulla natura di rimedio meramente temporaneo dell’art. 1460 c.c. da cui può, dunque, derivare una delle tre ipotesi seguenti:

- in primo luogo, se l’inadempimento che l’ha provocata persiste, esso condurrà alla risoluzione del contratto, e l’eccipiente sarà liberato dalla propria obbligazione”;

- in secondo luogo, se l’inadempimento di controparte cessa, “cessa anche il diritto di autotutela dell’eccipiente, il quale sarà perciò obbligato all’adempimento”;

- in terzo luogo, se l’inadempimento di controparte risulta insussistente oppure inidoneo a giustificare l’eccezione (il che - può ben aggiungersi - giuridicamente equivale), “l’eccipiente sarà tenuto all’adempimento, ovvero sarà esposto all’azione di risoluzione per inadempimento”.

Ne consegue che l’exceptio inadimpleti contractus mai potrà “avere effetti liberatori, ma solo effetti sospensivi, transeunti della “forza di legge” del contratto”.

Gli effetti liberatori potranno scaturire “solo dalla risoluzione del contratto, sia essa giudiziale, automatica o consensuale”. Peraltro, qualora il contratto sia di durata, ex articolo 1458 c.c. la risoluzione non potrà “travolgere le obbligazioni sorte nel periodo in cui il contratto ebbe esecuzione”.

La differenza tra il rimedio di cui all’art. 1460 c.c. e quello di cui all’art. 1578 c.c. è, dunque, evidente, laddove dopo l’applicazione del primo sussiste l’eventualità che l’esecuzione contrattuale si riattivi, riprendendo ad adempiere la parte che ha suscitato l’applicazione dell’art. 1460 ad opera di controparte, quest’ultima a sua volta conseguentemente ripianando il proprio inadempimento reattivo: eventualità in cui ictu oculi non vi è alcuno spazio (ovvero, sotto forma processuale, non vi è alcun interesse) per esercitare le azioni dell’art. 1578 c.c. Ma anche nell’eventualità opposta, in cui l’esecuzione non viene riattivata, non è necessario proporre azione ai sensi della suddetta norma, ben potendo le parti, secondo i principi generali dell’autonomia negoziale, risolvere “in proprio” (risoluzione consensuale), risolvere “automaticamente” (ai sensi dell’art. 1456 c.c.) o anche andare oltre, mediante un negozio di accertamento transattivo.

In conclusione, l’art. 1460 c.c. è un paradigma dell’esecuzione del contratto che ne prevede la sospensione; ma, proprio perché attiene alla fase esecutiva, non incide “alla radice”, ovvero sul contratto in sé come vincolo cui le parti si sono reciprocamente avvinte spendendo la loro autonomia giuridico-negoziale (artt. 1321, 1322 e 1372 c.c.). Non si è, pertanto, sul piano dell’art. 1578 c.c. che incide direttamente sulla fonte delle obbligazioni - il contratto, appunto - apportandone la risoluzione o la riequilibrante riforma del sinallagma.

Il secondo aspetto esaminato dalla Corte ha comportato il rigetto del ricorso proposto dalla conduttrice in quanto contrario al canone della buona fede ex art. 1460 c.c. il mancato pagamento dei canoni di locazione da essa posto in essere.

Al riguardo, ha richiamato quanto da tempo ravvisato dalla giurisprudenza di legittimità e cioè come l’art. 1175 c.c. sia una delle norme che innervano il sistema contrattuale del principio della buona fede come oggettivo parametro comportamentale (e dunque non quale percezione soggettiva, come quando, in altri campi, integra una species dell’elemento soggettivo dell’agente) (115); in tale prospettiva, correttezza e buona fede oggettiva sono, in realtà, un’endiadi sia semanticamente sia intrinsecamente. Nell’ipotesi della sospensione dell’adempimento regolato dall’articolo 1460 c.c. l’endiadi è presente a mezzo del secondo comma dell’articolo, il quale, con il riferimento “alle circostanze”, evidentemente proprie del caso concreto, correla ad esse la potenziale sospensione della controparte dell’inadempiente per determinare se secondo “buona fede” tale sospensione possa concretizzarsi; ciò non può non significare commisurazione del rilievo sinallagmatico delle obbligazioni coinvolte, id est proporzionalità (116).

Pertanto, la Corte ha osservato che la suindicata sospensione del pagamento del canone non era conforme al parametro della buona fede oggettiva, in quanto non era proporzionale all’inadempimento di controparte, avendo la conduttrice continuato a godere dell’immobile fino al momento del rilascio, sfruttandolo a fini economici, mentre parte locatrice non ha ricevuto alcuna prestazione, in quanto è stato omesso il pagamento del canone di locazione.

Nel caso di specie, infatti, non si poteva sostenere che a causa della mancata manutenzione straordinaria l’immobile sia risultato inutilizzabile come albergo, avendo la società conduttrice continuato a svolgervi la propria attività sino a quando è stata costretta a rilasciarlo per intervento del giudice.

3. Criteri ermeneutici di valutazione della legittimità della sospensione della prestazione sinallagmatica.

Sempre nel corso dell’anno 2019, la Suprema Corte, Sez. 3, n. 16918/2019, Graziosi, Rv. 654401 – 02, è tornata ad esaminare i limiti di operatività dell’autotutela di cui all’art. 1460 c.c. esprimendo il seguente principio di diritto, così massimato: «In tema di locazione di immobili, il conduttore può sollevare l’eccezione di inadempimento ai sensi dell’art. 1460 c.c. non solo quando venga completamente a mancare la prestazione della controparte, ma anche nel caso in cui dall’inesatto adempimento del locatore derivi una riduzione del godimento del bene locato, purché la sospensione, totale o parziale, del pagamento del canone risulti giustificata dall’oggettiva proporzione dei rispettivi inadempimenti, riguardata con riferimento al complessivo equilibrio sinallagmatico del contratto e all’obbligo di comportarsi secondo buona fede».

Dopo aver preliminarmente riaffermato la natura di “rimedio necessariamente temporaneo” dell’eccezione di inadempimento di cui all’art. 1460 c.c. che interviene nel corso dell’esecuzione del contratto e ne prevede la sospensione e, pertanto, si pone su un piano diverso da quello dell’art. 1578 c.c. che incide direttamente sulla fonte delle obbligazioni, la Corte ha specificato ulteriormente i principi sopra espressi ribadendo, in particolare, che la buona fede richiamata dall’art. 1460 c.c. è quella oggettiva, la quale ha la funzione di bilanciare le contrapposte prestazioni nel corso dell’esecuzione del contratto e, in ragione di ciò, giustifica la sospensione di una di esse solo nel caso in cui vi è una oggettiva sproporzione tra di esse. In sostanza, nei contratti a prestazioni corrispettive non è legittimo il ricorso all’art. 1460 c.c. se l’inadempimento di controparte, in relazione alla sua obiettiva entità e all’interesse dell’avversario, risulti di scarsa importanza, così da evidenziare la contrarietà alla buona fede del rifiuto ex art 1460 c.c. L’eccezione di inadempimento, come detto, mira a conservare l’equilibrio sostanziale e funzionale alle obbligazioni contrapposte, onde chi eccepisce ex art. 1460 c.c. è in buona fede solo se il suo comportamento è oggettivamente ragionevole e logico, nel senso che abbia concreta giustificazione nel rapporto tra le prestazioni eseguite e quelle rifiutate, in relazione ai legami di corrispettività e contemporaneità di esse, per cui l’exceptio non rite adimpleti contractus ai sensi dell’art. 1460 c.c. esige che la proporzionalità tra gli inadempimenti sia valutata oggettivamente in riferimento all’intero equilibrio del contratto, e quindi non secondo la rappresentazione soggettiva delle parti.

La Corte di cassazione con la richiamata sentenza, in applicazione di tali principi, supera una interpretazione rigida fornita dalla stessa giurisprudenza di legittimità secondo la quale il conduttore legittimamente può far ricorso alla sospensione del pagamento dei canoni solo quando il locatore omette completamente l’adempimento della propria prestazione e, quindi, rende impossibile il godimento del bene locato (117).

In proposito secondo un orientamento della Corte di cassazione (cfr., tra le pronunce massimate non eccessivamente risalenti, Sez. n. 10639/2012, D’Amico Rv. 623120-01) si era affermato che, in tema di locazione di immobili urbani per uso diverso da quello abitativo, la cosiddetta autoriduzione del canone (e, cioè, il pagamento di questo in misura inferiore a quella convenzionalmente stabilita) costituiva fatto arbitrario ed illegittimo del conduttore, che provocava il venir meno dell’equilibrio sinallagmatico del negozio, anche nell’ipotesi in cui detta autoriduzione sia stata effettuata dal conduttore in riferimento al canone dovuto a norma dell’art. 1578 c.c., comma 1, per ripristinare l’equilibrio del contratto, turbato dall’inadempimento del locatore e consistente nei vizi della cosa locata. Secondo l’orientamento in esame, infatti, tale norma non dà facoltà al conduttore di operare detta autoriduzione, ma solo a domandare la risoluzione del contratto o una riduzione del corrispettivo, essendo devoluto al potere del giudice di valutare l’importanza dello squilibrio tra le prestazioni dei contraenti. In conformità a tale interpretazione la Sez. 6 - 3, n. 13887/2011, Finocchiario, Rv. 618817- 01 - massimata come certa lex - ha affermato che il conduttore di un immobile non può astenersi dal versare il canone, ovvero ridurlo unilateralmente, nel caso in cui si verifichi una riduzione o una diminuzione nel godimento del bene, quand’anche tale evento sia ricollegabile al fatto del locatore. La sospensione totale o parziale dell’adempimento dell’obbligazione del conduttore è, difatti, legittima soltanto qualora venga completamente a mancare la controprestazione da parte del locatore, costituendo altrimenti un’alterazione del sinallagma contrattuale che determina uno squilibrio tra le prestazioni delle parti. Ed ancora, la Sez. 3, n. 261/2008, Di Nanni, Rv. 601212 – 01 ha precisato che in tema di locazione al conduttore non è consentito di astenersi dal versare il canone, ovvero di ridurlo unilateralmente, nel caso in cui si verifichi una riduzione o una diminuzione nel godimento del bene, e ciò anche quando si assume che tale evento sia ricollegabile al fatto del locatore. La Corte in tale ultima sentenza ha precisato che la sospensione totale o parziale dell’adempimento dell’obbligazione del conduttore è, difatti, legittima soltanto qualora venga completamente a mancare la controprestazione da parte del locatore, costituendo altrimenti un’alterazione del sinallagma contrattuale che determina uno squilibrio tra le prestazioni delle parti. Inoltre, secondo il principio inadimplenti non est adimplendum, la sospensione della controprestazione è legittima solo se conforme a lealtà e buona fede. Nella specie, in applicazione del riportato principio, la Corte ha confermato la sentenza con cui il giudice di appello aveva limitato il periodo di inutilizzabilità dell’immobile locato - con conseguente esonero del conduttore dal pagamento dei canoni della locazione e degli accessori - a quello di effettiva inagibilità dei locali, danneggiati dall’acqua utilizzata per spegnere un incendio sviluppatosi nel condominio.

Un conciso ma adeguato specimen del ragionamento adottato da questo orientamento può qualificarsi nella motivazione di Sez. 3, n. 14739/2005, Chiarini, Rv. 583885 – 01 secondo la quale: “La giurisprudenza ha ripetutamente ribadito il principio secondo il quale la principale e fondamentale obbligazione del conduttore di immobili è il pagamento del canone di locazione, sì che non gli è consentito di astenersi dal corrisponderlo anche nel caso in cui si verifichi una riduzione o una diminuzione del godimento del bene, nemmeno nel caso in cui egli assuma che tale evento sia ricollegabile al fatto del locatore. Infatti la sospensione dell’adempimento di detta obbligazione, ai sensi dell’art. 1460 c.c., è legittima soltanto quando sia giudizialmente accertato che è venuta completamente a mancare la prestazione della controparte, altrimenti costituisce fatto arbitrario ed illegittimo del conduttore che altera il sinallagma contrattuale e determina uno squilibrio tra le prestazioni delle parti per effetto di un’ unilaterale ragion fattasi del conduttore, che perciò configura inadempimento colpevole all’obbligo di adempiere esattamente e puntualmente al contratto stipulato e all’obbligazione principale per il conduttore. A ciò deve aggiungersi che… la sospensione della prestazione sinallagmatica – secondo il prin-cipio inadimplenti non est adimplendum - è legittima soltanto se è conforme a lealtà e buona fede, il che è da escludere se il conduttore continua a godere dell’immobile, e al momento in cui gli è chiesto il pagamento del canone, assume l’inutilizzabilità del bene all’uso convenuto, perché in tal modo fa venir meno la proporzionalità tra le rispettive prestazioni. Dunque in tal caso, per conformare il suo comportamento a buona fede, può soltanto chiedere una riduzione del canone proporzionata all’entità del mancato godimento, in analogia al disposto dell’art. 1584 c.c. (…) ovvero può chiedere la risoluzione del contratto (…)”.

La Corte con la sentenza in esame supera il suindicato indirizzo formalistico e offre criteri ermeneutici dai quali desumere la legittimità della sospensione della prestazione sinallagmatica.

Viene, infatti, affermato che la permanenza della detenzione della cosa locata è compatibile con la sospensione totale del canone nel caso in cui l’inutilizzabilità di detta detenzione renda totale anche l’inadempimento del locatore, qualora invece sussista ancora un grado di utilizzabilità dell’immobile locato, ovvero una “quota” di adempimento del locatore, il conduttore potrà sospendere in proporzione il versamento del canone, applicandosi quindi integralmente l’art. 1460 c.c. e seguendo, per effettuarne nel concreto la corretta applicazione, il parametro posto nel secondo comma dell’articolo, ove lo si evince a contrario: se non corrisponde alla buona fede oggettiva sospendere l’adempimento nel caso in cui l’inadempimento o l’adempimento inesatto di controparte “avuto riguardo alle circostanze” non giustifichi la sospensione, viceversa la sospensione è corrispondente alla buona fede oggettiva quando “avuto riguardo alle circostanze” l’inadempimento o l’adempimento inesatto del locatore è tale da giustificare il rifiuto di adempimento del conduttore. E in questo raffronto sintonizzante non può non venire inclusa pure la sospensione parziale - quindi la determinazione proporzionale del quantum del canone sospeso - proprio perché (cfr. articolo 1218 c.c.) si tratta di una reazione che deve essere il consequenziale riverbero non solo di un inadempimento, ma - come il più delle volte è configurabile nel contratto locatizio quando l’eccipiente è il conduttore che permanga nella detenzione dell’immobile - anche di un adempimento inesatto (exceptio rite non adimpleti contractus).

In conclusione, la Corte perviene ad una lettura dell’art. 1460 c.c., meno formale e rigida e che meglio tiene conto del concreto bilanciamento delle diverse prestazioni poste a carico del locatore e del conduttore; lettura che rende effettiva, in applicazione del canone della buona fede oggettiva richiamata dalla norma, la tutela da quest’ultima apprestata alle parti.

In sostanza non viene limitata l’applicazione dell’art. 1460 c.c. ai casi in cui sia del tutto assente la prestazione di una delle parti, potendo il conduttore anche solo sospendere la propria prestazione di pagamento dei canoni di locazione in modo proporzionale e, dunque, nel rispetto del principio della buona fede oggettiva, all’inadempimento da parte del locatore della corrispettiva prestazione del godimento del bene. Osserva la Corte di cassazione che l’autotutela che conferisce l’articolo in esame al conduttore in caso di inadempimento del locatore non è «atrofizzabile dalla tipicità del contratto, in quanto - in ultima analisi - consistente nell’applicazione della buona fede oggettiva nell’esecuzione contrattuale».

A conferma dell’indirizzo sopra riportato, la Sez. 3, n. 20322/2019, Iannello Rv. 654927 - 03 ha, poi, affermato che in tema di locazione di immobili, il conduttore può sollevare l’eccezione di inadempimento, ai sensi dell’art. 1460 c.c., non solo quando venga completamente a mancare la prestazione del locatore, ma anche nell’ipotesi di suo inesatto inadempimento, tale da non escludere ogni possibilità di godimento dell’immobile, purché la sospensione del pagamento del canone appaia giustificata, in ossequio all’obbligo di comportarsi secondo buona fede, dall’oggettiva proporzione dei rispettivi inadempimenti, avuto riguardo all’incidenza della condotta della parte inadempiente sull’equilibrio sinallagmatico del contratto, in rapporto all’interesse della controparte. Nella specie, in applicazione del principio, la Suprema Corte ha accolto il ricorso proposto dal conduttore, che aveva lamentato l’erroneità della decisione di merito nella parte in cui aveva ritenuto illegittima la sospensione, da parte sua, del pagamento dei canoni, a fronte dell’inadempimento del locatore all’obbligo assunto di ottenere dalla pubblica amministrazione il mutamento di destinazione d’uso dell’immobile da “magazzino” a “locale commerciale”, nonché per le infiltrazioni d’acqua e gli allagamenti verificatisi.

PARTE QUARTA ALCUNE QUESTIONI INTERDISCIPLINARI

  • procedura civile
  • procedura penale

XVII)

IL DIVIETO DI NE BIS IN IDEM CONVENZIONALE NEI RECENTI APPRODI DELLA GIURISPRUDENZA DI LEGITTIMITÀ CIVILE E PENALE

(di Paolo Bernazzani, Andrea Venegoni )

Sommario

1 Premessa. - 2 Recenti pronunce in tema di ne bis in idem nella giurisprudenza delle sezioni civili. - 3 Le più recenti pronunce di legittimità in materia penale.

1. Premessa.

Il tema del ne bis in idem è certamente uno di quelli sui quali la crescente interazione tra diritto sovranazionale e diritto nazionale nel corso degli ultimi anni ha maggiormente inciso, trasformandolo da argomento, se non di nicchia, certamente non centrale, in una materia oggetto di un intenso dibattito giurisprudenziale e dottrinale.

Le ragioni di questo fenomeno sono varie. Alcune para-giuridiche, come la maggiore attenzione posta negli ultimi anni – non solo a livello giuridico, ma si potrebbe dire anche sociale - alla tutela dei diritti individuali; altre più strettamente di diritto, come l’elaborazione da parte della Corte EDU del concetto di “materia penale”, per cui quest’ultima è ben più ampia del “diritto penale”, comprendendo non solo ciò che è formalmente “penale”, ma anche ciò che, qualificato formalmente come “amministrativo” deve però ritenersi, in virtù di alcune specifiche caratteristiche enucleate dalla Corte (c.d. criteri Engel), sostanzialmente penale, e le sue conseguenze su quanto previsto dall’art. 4 del Protocollo n. 7 della Convenzione EDU, adottato nel 1984, secondo cui «nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato a seguito di una sentenza definitiva conformemente alla legge ed alla procedura penale di tale Stato».

Inoltre, vanno richiamate l’adozione, nel 2000, e la successiva incorporazione nei Trattati, della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, il cui art. 50 contempla il principio per cui «nessuno può essere perseguito o condannato per un reato per il quale sia già stato assolto o condannato nell’Unione a seguito di una sentenza penale definitiva conformemente alla legge».

La lieve differenza, che appare già solo a livello letterale, tra le formulazioni del concetto a livello convenzionale e di Unione Europea, nonché l’elaborazione che ne è seguita ad opera della Corte di Strasburgo e quella di Lussemburgo è, poi, certamente, un elemento di stimolo per ulteriori riflessioni.

Il tema è diventato oggi, quindi, di grandissimo interesse, riguardando, a livello pratico, non più solo i procedimenti formalmente penali, ma anche quelli formalmente civili, in cui si discute, però, dell’applicazione di sanzioni che possono essere qualificate come sostanzialmente penali. Il campo delle sanzioni finanziarie e tributarie è, al riguardo, in prima fila.

Per questo il coinvolgimento della Corte di cassazione sul tema si svolge oggi, ormai, “a tutto campo” e riguarda, come detto, numerose sezioni della stessa.

Il lavoro giurisprudenziale è accentuato anche dai nuovi contorni che la definizione del principio va assumendo, a seguito dell’elaborazione delle Corti sovranazionali.

In una parola, e riservando poi alla seconda parte considerazioni più specifiche, si può affermare che il trend nell’analisi sul contenuto del principio è quello di una progressiva evoluzione da un concetto che, semplificando, si potrebbe definire come formale o processuale, in cui rileva essenzialmente - sul presupposto che si rientri nel concetto di “materia penale” - il riconoscimento della sussistenza dei requisiti dell’“idem factum” e del doppio procedimento (“bis”), ad un sistema che, sempre semplificando, si potrebbe dire più caratterizzato da profili sostanziali, in cui, -pur senza abbandonare i tradizionali concetti di “bis” e “idem factum”, e pur enucleando precisi criteri di coordinamento fra procedimenti di diversa natura si pone al centro dell’attenzione la verifica in ordine all’esistenza di un unico sistema sanzionatorio “integrato”, in cui il criterio determinante per stabilire se vi sia violazione o meno del superiore divieto di un doppio giudizio sul medesimo fatto è la constatazione di un’unica risposta punitiva ed il risultato di proporzionalità complessiva della sanzione inflitta nell’ambito dei due procedimenti. (Sulla evoluzione del concetto di ne bis in idem da una dimensione essenzialmente processuale ad una dotata di maggiori connotazioni sostanziali si veda, in dottrina, A. GALLUCCIO, La Grande Sezione della Corte di giustizia si pronuncia sulle attese questioni pregiudiziali in materia di bis in idem, in Dir. Pen. Cont., n. 3 del 2018).

Ai fini di questa valutazione, vari sono i criteri che vengono in rilievo, anche a seconda del parametro sovranazionale al quale ci si riferisce: la «connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta» tra i due procedimenti, le modalità di acquisizione e trasferimento delle prove tra essi, e, last but not least, la proporzionalità della complessiva risposta sanzionatoria.

In quest’ultima accezione, quindi, l’esistenza di due procedimenti per lo stesso fatto non implica necessariamente violazione del divieto di bis in idem, se ricorrono le condizioni che inducono a ritenere che gli stessi sono, in realtà, espressione di un’unica risposta punitiva.

È però evidente che tale definizione non può che rinviare ad un’analisi che, a questo punto, è legata alle caratteristiche fattuali della fattispecie concreta che, ovviamente, possono variare da caso a caso, con la conseguenza che l’analisi giurisprudenziale diventa sempre più rilevante.

In questo senso, il lavoro intende dare una panoramica di alcune posizioni espresse di recente dalla Corte analizzando sia le pronunce penali, sia quelle civili nei settori che, come detto sopra, appaiono maggiormente coinvolti, quelli delle sanzioni amministrative e tributarie.

2. Recenti pronunce in tema di ne bis in idem nella giurisprudenza delle sezioni civili.

Il diritto tributario è pienamente coinvolto nella tematica del ne bis in idem per la ragione che si tratta di un settore che prevede un proprio sistema sanzionatorio, formalmente amministrativo (caratterizzato da sanzioni a volte di importi rilevanti, anche dopo la recente riforma di cui al d. lgs. 158 del 2015), il quale non di rado si interseca con le sanzioni penali vere e proprie, di cui al d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 e successive modifiche, ma in cui, allo stesso tempo, è espressamente codificato il sistema del “doppio binario”, e quindi, l’apertura di un procedimento per l’irrogazione sia delle sanzioni penali sia di quelle amministrative (art. 20 d.lgs. n. 74 del 2000). Un sistema, quindi, in cui potenziali contrasti con il divieto di bis in idem sono frequenti.

Come è stato messo in luce dalla dottrina (F. GALLO, Il ne bis in idem: un esempio per riflettere sul “ruolo” delle Alte Corti e sugli effetti delle loro pronunzie, in www.cortedicassa-

zione.it), basta pensare alle condotte di omesso versamento (sanzionate penalmente dagli artt. 10-bis e 10-ter del d.lgs. n. 74 del 2000 ed in via amministrativa dall’art. 13 del d.lgs. n. 471 del 1997), ma anche alle condotte di indebita compensazione (che costituiscono illecito penale ex art. 10-quater del decreto n. 74 ed illecito amministrativo ai sensi dello stesso art. 13 del decreto n. 471), di occultamento e distruzione delle scritture contabili (che costituiscono illecito amministrativo di cui all’art. 9 del decreto n. 471 ed illecito penale quale mancata conservazione della contabilità di cui all’art. 10 del decreto n. 74) ed a quelle di omessa, infedele o fraudolenta dichiarazione (che sono previsti quali illeciti penali dagli artt. 5, commi 1 e 2, 4, 2 e 3 del decreto n. 74 e illeciti amministrativi di cui agli artt. 1, 2 e 5 del decreto n. 471).

Non è infrequente, quindi, che in relazione alla stessa condotta sostanziale si instaurino due procedimenti, uno penale, diretto all’accertamento delle responsabilità personali in relazione alla fattispecie criminosa, ed uno tributario, diretto al recupero delle imposte evase, con irrogazione delle relative sanzioni.

Ciò comporta, quindi, che quando si discute delle sanzioni formalmente amministrative venga eccepito il ne bis in idem, se il procedimento penale ha avuto tempi più brevi e si è già concluso.

Senza alcuna pretesa di esaustività per i limiti di spazio di questo lavoro, si intende qui dare conto delle applicazioni più recenti del principio nelle sedi in cui la Cassazione si è occupata delle sanzioni formalmente amministrative, sia tributarie che finanziarie.

Va premesso che anche nel diritto interno si è diffuso il principio, relativo all’aspetto dell’idem factum, derivante sia dal diritto convenzionale, quanto da quello euro unitario, secondo cui, ai fini del divieto di “bis”, deve aversi riguardo ai fatti nella loro materialità, indipendentemente dalla qualificazione giuridica operata dalle singole legislazioni nazionali (Sez. 2, n. 31633/2018, Cosentino).

Quanto al concetto di “bis”, la giurisprudenza tributaria della Corte tende ad occuparsi, ovviamente, dell’ammissibilità di un procedimento civile dopo un procedimento penale per lo stesso fatto.

La sentenza della Sez. 5, n. 34219/2019, Condello, è una delle più recenti sul tema.

In essa la Corte di Cassazione, a partire dalla decisione della Corte EDU, 15 novembre 2016, A e B contro Norvegia, ricorda che «secondo la Corte EDU, la disposizione convenzionale non esclude lo svolgimento parallelo di due procedimenti, purché essi appaiano connessi dal punto di vista sostanziale e cronologico in maniera sufficientemente stretta e purché esistano meccanismi in grado di assicurare risposte sanzionatorie nel loro complesso proporzionate e, comunque, prevedibili».

La sentenza prosegue, poi, evidenziando che l’esito interpretativo così raggiunto è stato recepito anche dalla Grande Sezione della Corte di Giustizia della UE, nelle tre sentenze coeve del 20 marzo 2018 (rispettivamente in causa C-537/16, Garlsson Real Estate SA e altri c. Consob, nelle cause riunite C-596/16 e C-597/16, Di Puma c. Consob e Zecca c. Consob, e, in causa C-524/15, Menci, quest’ultima relativa alla materia tributaria), secondo cui la violazione del ne bis in idem sancito dall’art. 50 CDFUE non si verifica a) allorché le due sanzioni perseguano scopi differenti e complementari, sempre che b) il sistema normativo garantisca una coordinazione fra i due procedimenti sì da evitare eccessivi oneri per l’interessato e c) assicuri comunque che il complessivo risultato sanzionatorio non risulti sproporzionato rispetto alla gravità della violazione, derivando tale obbligo dall’art. 52, par. 1, della Carta e dal principio di proporzionalità delle pene sancito dall’art. 49, par. 3.

Infine, evidenzia che anche la Corte costituzionale, con la sentenza n. 43 del 24 gennaio 2018, ha messo in rilievo che, nell’interpretazione di tale concetto, «si è passati dal divieto imposto agli Stati aderenti di configurare per lo stesso fatto illecito due procedimenti che si concludono indipendentemente l’uno dall’altro, alla facoltà di coordinare nel tempo e nell’oggetto tali procedimenti, in modo che essi possano reputarsi nella sostanza come preordinati a un’unica, prevedibile e non sproporzionata risposta punitiva, avuto specialmente riguardo all’entità della pena (in senso convenzionale) complessivamente irrogata».

L’importante conseguenza di tale evoluzione è che non si può continuare a sostenere che il divieto di bis in idem convenzionale abbia carattere esclusivamente processuale, giacché criterio eminente per affermare o negare il legame materiale è proprio quello relativo all’entità della sanzione complessivamente irrogata.

In termini pratici, secondo tale interpretazione, a fronte di una prima sanzione di modesta entità, sarebbe del tutto ammissibile l’instaurazione del secondo procedimento per lo stesso fatto, in presenza di quegli elementi che rivelino l’unicità di risposta sanzionatoria, ad iniziare dal criterio temporale.

Dopo avere, quindi, solo accennato alla sentenza della Corte EDU Bjarni Armannsson c. Islanda del 16 aprile 2019 - che ha fornito ulteriori criteri per valutare il criterio della connessione tra i due procedimenti, in particolare non solo con riferimento alla tempistica degli stessi, ma anche alla modalità di formazione ed acquisizione della prova in ciascuno di essi -la decisione citata passa, quindi, all’esame della situazione concreta alla luce di tali principi.

L’analisi di questa sentenza offre, inoltre, lo spunto per ricordare la dimensione anche euro-unitaria del principio del ne bis in idem.

Esso, infatti, non è proprio solo del sistema convenzionale, ma, già appartenendo da sempre al sistema dell’Unione, è stato in esso consacrato con l’art. 50 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, già ricordato in apertura.

Come è stato messo in luce dalla dottrina (NASCIMBENE, Ne bis in idem, diritto internazionale e diritto europeo, in Dir. Pen. Cont., maggio 2018), vi sono alcune differenze nella declinazione del principio tra i due sistemi: l’art. 50 CDFUE rappresenta la forma più evoluta di protezione poiché la tutela disposta vale sia nell’ordinamento nazionale di ogni Stato membro, sia nei rapporti fra gli ordinamenti nazionali, diversamente dall’art. 4 Protocollo n. 7 CEDU, che si applica solo all’interno della giurisdizione di uno Stato membro. Nell’ambito del diritto dell’Unione, l’applicazione del principio corrisponde all’acquis comunitario, e precisamente alla Convenzione Applicativa dell’Accordo di Schengen CAAS (artt. 54-58), alla sentenza della Corte di Giustizia Gözütok e Brügge, alle norme contenute in altre convenzioni comunitarie (art. 7 della Convenzione relativa alla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee, art. 10 della Convenzione relativa alla lotta contro la corruzione).

Altra differenza nella configurazione del principio nei due sistemi è, poi, l’ambito materiale. L’art. 51, par. 1, prevede, infatti, che la Carta si applica a istituzioni, organi e organismi dell’Unione e agli Stati «esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione”. La Corte, peraltro, come messo in luce sempre dalla stessa dottrina, “nella sentenza Åkerberg Fransson ha fornito un’interpretazione estensiva dell’obbligo del giudice di garantire la piena efficacia del diritto dell’Unione, compresa la Carta».

Per quanto riguarda l’applicazione del principio all’interno di uno Stato membro, comunque, il diritto garantito ha lo stesso significato e la stessa portata del corrispondente diritto sancito dalla CEDU, e quindi dal Protocollo n. 7, in conformità alla clausola orizzontale di salvaguardia contenuta nell’art. 52, par. 3. Anche la Corte di Lussemburgo aderisce, quindi, alla teoria sulla natura delle sanzioni, elaborata dalla Corte EDU, basata sui c.d. “principi Engel”, (si veda, tra le altre, la sentenza Bonda, caso C-489/10) e nella sopra menzionata sentenza Garlsson Real Estate, determinata da un rinvio pregiudiziale ad opera sempre della sezione tributaria della Corte di Cassazione, ha affermato che «l’articolo 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea dev’essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa nazionale, che consente di celebrare un procedimento riguardante una sanzione amministrativa pecuniaria di natura penale nei confronti di una persona per condotte illecite che integrano una manipolazione del mercato, per le quali è già stata pronunciata una condanna penale definitiva a suo carico, nei limiti in cui tale condanna, tenuto conto del danno causato alla società dal reato commesso, sia idonea a reprimere tale reato in maniera efficace, proporzionata e dissuasiva.”

In questo modo ha dimostrato di accedere alla visione “sostanzialista” emersa poi in maniera più chiara nelle sentenze della Corte EDU, seppure vi sia una lieve differenza nell’interpretazione che le due Corti offrono per valutare la ricorrenza o meno del divieto, ponendo la Corte di Lussemburgo più l’accento sul concetto di “proporzionalità” della risposta sanzionatoria, e concentrandosi la Corte di Strasburgo sui sopra ricordati elementi quali la vicinanza temporale dei due procedimenti.

Questi principi sono stati già recepiti dalla Corte di cassazione, che, quanto al primo ambito, nella sentenza della Sez. 5, n. 27564/2018, Chindemi, Rv. 651068-02 che ha chiuso, al momento, la vicenda “Garlsson” - nella quale la stessa sezione aveva sia sollevato questione di legittimità costituzionale che effettuato rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia -, e ha rimesso gli atti al giudice di merito per verificare se «la pena detentiva applicata (gg. 80 di reclusione) con il cumulo della sanzione amministrativa irrogata (5 milioni di euro) eccedano “quanto strettamente necessario” per conseguire l’obiettivo di interesse generale costituito dalla tutela della integrità dei mercati finanziari dell’Unione e della fiducia del pubblico negli strumenti finanziari».

Quanto all’analisi del principio che si basa sulla connessione temporale tra i due procedimenti, la Corte di cassazione, oltre che con la sentenza n. 34219/2019 sopra citata, ne ha fatto ulteriore concreta applicazione con la decisione della Sez. 5, n. 33050/2019, D’Orazio, escludendo la violazione del divieto di bis in idem in un caso in cui gli elementi di fatto indicavano una stretta connessione tra la risposta sanzionatoria penale e quella formalmente amministrativa-tributaria.

L’esame di questa sentenza conduce all’analisi di uno degli approdi più recenti della Corte EDU in materia, costituente un ulteriore sviluppo del concetto di “unitarietà della risposta sanzionatoria”.

Si tratta della sentenza Bjarni Armannsson contro Islanda, del 16.4.2019, citata anche nella decisione n. 34219 del 2019.

In essa, per la valutazione dell’unicità della risposta sanzionatoria, si pongono in rilievo elementi quali la tempistica dei due procedimenti e le modalità di raccolta e valutazione delle prove.

Se questi elementi rivelano una sostanziale coincidenza tra i due procedimenti, si può ritenere che la risposta punitiva sia unica; in caso contrario, si può incorrere nella violazione del divieto di ne bis in idem.

In particolare, nel caso di specie, la Corte EDU individua alcuni elementi chiave per giungere alla conclusione nel senso che vi è stata violazione dell’art. 4 del protocollo 7. Questi possono individuarsi nei seguenti:

a. lo svolgimento del procedimento “amministrativo” (sostanzialmente penale) e di quello formalmente penale in due momenti temporali diversi, senza coincidenza degli stessi;

b. il fatto che le prove siano state autonomamente raccolte e valutate in ciascuno dei due procedimenti, con conseguente assenza di unitarietà di raccolta e valutazione della prova stessa;

c. il fatto che nel procedimento penale non sia emerso in maniera chiara, per mancanza di motivazione specifica, se ed in che misura l’applicazione della sanzione amministrativa abbia inciso sulla determinazione dell’ammontare della sanzione pecuniaria penale; in altri termini, le due sanzioni pecuniarie sono apparse slegate tra loro, rafforzando l’idea di una applicazione indipendente ed autonoma in ciascun procedimento, lasciando intendere che ciò crea problemi anche sotto il profilo della proporzionalità della risposta sanzionatoria.

Sotto il primo profilo, la Corte evidenzia che l’arco temporale dell’intera vicenda processuale (amministrativa e penale) è stato di quattro anni e dieci mesi: ebbene, in tutto questo periodo, i due procedimenti si sono svolti in parallelo solo per cinque mesi, da marzo ad agosto 2012. Dopo la chiusura definitiva del procedimento amministrativo, quello penale è proseguito ancora per un anno e cinque mesi.

Inoltre, sul piano penale l’indagine è stata svolta in maniera autonoma ed indipendente da quella amministrativa, non vi è stato trasferimento delle prove da un livello all’altro, tanto che anche la sanzione pecuniaria penale non ha dato conto dell’incidenza di quella amministrativa già applicata.

La sopra citata sentenza della Cassazione n. 33050 del 2019 appare attenta anche a questi aspetti, evidenziando la stretta vicinanza temporale tra la risposta penalistica e quella tributaria contro la violazione in questione.

Va, infine, nuovamente menzionata Sez 2, n. 31633/2018, Cosentino, in materia di sanzioni per violazioni di leggi finanziarie, che rappresenta la conclusione della vicenda “Zecca” su cui si era espressa la Corte di Giustizia, proprio da essa sollecitata, evidenzia un ulteriore profilo, e cioè come, ai fini della valutazione del ne bis in idem, diverso sia il problema a seconda che la sentenza penale sia stata di assoluzione o di condanna. Se è intervenuta sentenza di assoluzione definitiva, in particolare, è più difficile ammettere la pendenza di un procedimento ai fini dell’applicazione di una sanzione amministrativa per gli stessi fatti, facendo applicazione diretta dell’art. 50 CDFUE e del principio di proporzionalità.

Afferma, infatti, la sentenza che «la Corte di giustizia, come già esposto nel paragrafo 12 che precede, ha quindi giudicato non proporzionata, in quanto eccedente rispetto all’obiettivo di proteggere l’integrità dei mercati finanziari e la fiducia del pubblico negli strumenti finanziari, la prosecuzione di un procedimento inteso all’irrogazione di una sanzione amministrativa pecuniaria di natura penale nel caso in cui una sentenza penale definitiva di assoluzione abbia giudicato non provati i fatti perseguiti sia in sede penale che in sede amministrativa (sent. C-596/16 e C597/16, Di Puma e Zecca, § 44). La stessa Corte, per contro, ha ritenuto che la prosecuzione del procedimento sanzionatorio amministrativo per i medesimi fatti che abbiano formato oggetto di una sentenza penale di condanna non sia preclusa sempre e necessariamente e, in relazione a tale ipotesi, ha affermato che è possibile derogare al divieto di bis in idem quando la possibilità di cumulare procedimenti e sanzioni penali con procedimenti e sanzioni amministrative di natura penale sia prevista dalla legge (sent. Garlsson Real Estate § 44), le sanzioni che si cumulano perseguano scopi complementari, riguardanti, eventualmente, aspetti diversi del medesimo comportamento illecito interessato (sent. Garlsson Real Estate § 46, sent. Menci § 44) e, sotto altro aspetto, sussistano norme che assicurino un coordinamento volto a ridurre allo stretto necessario l’onere supplementare che un simile cumulo comporta per gli interessati (sent. Garlsson Real Estate § 55, sent. Menci §§ 53 e 55)».

Sulla base di queste considerazioni, rilevato che nel caso di specie il procedimento penale si era concluso con una sentenza definitiva di assoluzione, la Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso in sede civile, in cui si discuteva dell’applicazione delle sanzioni amministrative.

3. Le più recenti pronunce di legittimità in materia penale.

Sul versante delle pronunce di legittimità che hanno interessato la materia penale, di particolare rilevanza appare Sez. 5, n. 39999 del 15/04/2019, Respigo, Rv. 276963-04, che ha affrontato ex professo la questione della violazione del principio del ne bis in idem che regola i rapporti tra illecito penale e illecito amministrativo “sostanzialmente penale” nell’ordinamento interno, alla luce dei criteri indicati dalla giurisprudenza delle Corti europee per stabilire se una fattispecie si inscriva all’interno dell’alveo della materia penale di accezione eurounitaria.

La decisione è così massimata:

«In tema di abuso di informazioni privilegiate, nel caso in cui siano state già definitivamente inflitte le sanzioni amministrative previste dall’art. 187-bis del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, in modo tale da assorbire completamente il disvalore della condotta, risultando coperti aspetti rilevanti sia a fini penali che amministrativi, e pienamente tutelato l’interesse protetto dell’integrità dei mercati finanziari e della fiducia del pubblico negli strumenti finanziari, il giudice di merito o quello di legittimità - ricorrendo le condizioni previste dall’art. 620, comma 1, lett. l) cod. proc. pen. - può disapplicare integralmente la sanzione penale, atteso che, in tal caso, il cumulo delle sanzioni risulterebbe radicalmente sproporzionato e contrario ai principi sanciti dagli artt. 50 CDFUE e 4 Pro. n. 7 CEDU, come interpretati dalla Corte di giustizia dell’Unione europea nelle sentenze Grande Sezione, Menci (C-524/15); Garlsson Real Estate SA e altri contro Consob (C-537/16); Di Puma contro Consob e Consob contra Zecca (C-596/16 e C-597/16) e dalla Corte EDU nella sentenza GC, A e B contro Norvegia del 2016. (In motivazione, la Corte ha precisato che il giudice, nella valutazione complessiva dell’afflittività del carico risultante dalla combinazione delle discipline sanzionatorie, tenendo conto delle sanzioni principali e accessorie e della confisca, ha il dovere di spingersi oltre la verifica meramente quantitativa o legata alle ragioni di tutela dell’interesse protetto, valorizzando anche le esigenze di garanzia individuale)».

Il caso di specie affrontato dalla Corte riguardava un soggetto sottoposto, secondo scansioni pressoché coeve, a procedimento penale ed a procedimento amministrativo relativo all’irrogazione di sanzioni Consob; quest’ultimo era stato definito con sentenza della Suprema Corte di rigetto del ricorso proposto (Cass. civ., sez. 2, n. 26344/2017, Rv. 645961-01), che aveva reso definitiva la sanzione disposta con delibera Consob n. 18070 del 2.1.2012; di qui la questione relativa alla violazione o meno del principio del ne bis in idem convenzionale (cfr., sul punto, sempre in materia penale, anche Sez. 3, n. 5934 del 12/09/2018, dep. 2019, Giannino, Rv. 275833; Sez. 3, n. 19334 del 11/02/2015, Andreatta, Rv. 264809; Sez. 3, n. 48591 del 26/04/2016, Pellicani, Rv. 268493).

In tale prospettiva, la decisione in commento muove da una puntuale ed analitica ricostruzione dei fondamentali approdi ermeneutici della giurisprudenza sovranazionale, non trascurando, peraltro, di riservare adeguato spazio ad un’opportuna ricognizione dei più recenti arresti decisori della giurisprudenza interna di legittimità sul tema, intervenuta in materia di abusi di mercato successivamente alla sentenza A e B contro Norvegia della Corte EDU ed all’affermazione della nota regola interpretativa della sufficiently close connection in substance and time, abbinata ad una verifica della natura integrata della sanzione ed alla sua proporzionalità rispetto al disvalore del fatto.

Il percorso evolutivo del principio in esame è ampiamente noto e non necessita di superfetazioni argomentative. Basterà ricordare che la questione nasce essenzialmente dalla sfasatura tra la nozione formalistica di “materia penale” utilizzata nel nostro ordinamento e la nozione sostanzialistica fatta propria dalla Corte EDU, attestata sui celebri criteri Engels della natura dell’illecito e del grado di afflittività della sanzione. Le più recenti e significative sentenze delle Corti europee, fra cui campeggiano la decisione della corte di Giustizia dell’Unione Europea del 26 febbraio 2013, nella causa C-617/10, Åkerberg Fransson, e quella della Corte EDU del 4 marzo 2014, nella causa Grande Stevens c. Italia, forniscono un’interpretazione del ne bis in idem tale da proiettare il principio verso una notevole espansione della sua sfera di garanzia, sino a leggervi una preclusione non solo alla inflizione di una doppia sanzione, ma anche alla stessa instaurazione di un doppio giudizio. È altrettanto noto come il panorama interpretativo sia stato fortemente inciso dalla pronuncia del 15 novembre 2016, nella causa A e B c. Norvegia, con cui la Corte EDU ha introdotto l’inedito criterio della sufficiently close connection in substance and in time, escludendo la violazione del ne bis in idem allorquando i diversi procedimenti siano avvinti da un legame materiale e temporale sufficientemente stretto, individuando il primo profilo nel perseguimento di finalità complementari da parte dei distinti procedimenti, nella prevedibilità della duplicazione degli stessi, nel grado di coordinamento probatorio fra essi e nella circostanza che, nel commisurare la seconda sanzione, possa tenersi conto della sanzione irrogata per prima, in modo da evitare un eccessivo carico sanzionatorio per il medesimo fatto (nella giurisprudenza di legittimità, negli stessi termini, cfr., da ultimo, Sez. 3, n. 22033 del 07/02/2019, Palma, Rv. 276023-01).

La portata, senza dubbio innovativa, di tale decisione è stata ben scolpita, del resto, dalla parole della Corte costituzionale, nel senso che «il ne bis in idem convenzionale cessa di agire quale regola inderogabile conseguente alla sola presa d’atto circa la definitività del primo procedimento, ma viene subordinato a un apprezzamento proprio della discrezionalità giudiziaria in ordine al nesso che lega i procedimenti, perché in presenza di una “close connection” è permesso proseguire nel nuovo giudizio ad onta della definizione dell’altro. Inoltre, neppure si può continuare a sostenere che il divieto di bis in idem convenzionale ha carattere esclusivamente processuale, giacché criterio eminente per affermare o negare il legame materiale è proprio quello relativo all’entità della sanzione complessivamente irrogata» (C. cost., sent. n. 43 del 2018).

Il medesimo criterio, come già sopra annotato, è stato adottato anche dalla Corte di Giustizia UE con le sentenze Menci (C-524/15), Garlsson Real Estate SA ed altri contro Consob (C-537/16) e Di Puma contro Consob e Consob contro Zecca (cause riunite C- 596/16 e C-597/16).

Il percorso ermeneutico seguito dalla Suprema Corte con la sentenza Respigo si muove, dunque, entro le descritte coordinate ed altresì – in modo, per così dire, programmatico - nel solco tracciato dalle precedenti pronunce della stessa Quinta sezione penale, fatte oggetto di ampi e puntuali richiami: sono, in particolare, la n. 49869 del 21/09/2018, Chiarion, Rv. 274604-01, in tema di abuso di informazioni privilegiate ex art. 184, comma 1, lett. b), TUF (si tratta della vicenda da cui era germinata la questione di legittimità costituzionale dichiarata inammissibile dalla Corte costituzionale con sentenza n. 102 del 2016); la n. 45829 del 16/07/2018, Franconi, Rv. 274179-02/03, riferita ad un’ipotesi di aggiotaggio manipolativo prevista dall’art. 185 TUF; infine, la n. 5679 del 09/11/2018, dep. 2019, Erbetta, Rv. 275314-01, che ha affrontato l’ipotesi di patteggiamento per una fattispecie di manipolazione del mercato sanzionata sia penalmente, ai sensi dell’art. 185 TUF, sia, in seguito a procedimento CONSOB, ai sensi dell’art. 187-ter TUF.

Il comune denominatore delle tre decisioni citate ben si può cogliere nella condivisione delle coordinate decisorie tracciate dalla Grande Chambre nella sentenza A e B contro Norvegia del 2016 e dalla Corte di Giustizia UE nelle sentenze del marzo 2018, in particolare le pronunce Menci e Garlsson Real Estate.

Affermata, sotto il profilo prettamente procedimentale della sufficiently close connection, la compatibilità tra i distinti percorsi sfociati nell’applicazione di una sanzione amministrativa “sostanzialmente penale” e nell’irrogazione della pena in relazione alle fattispecie anche formalmente penalistiche, sulle quali vertevano i ricorsi, i profili di maggiore interesse del citato trittico decisorio, fatti oggetto di puntuale richiamo da parte della sentenza n. 39999/19 della Quinta sezione, riguardano l’accertamento della proporzionalità della sanzione complessivamente irrogata.

In sintesi, è opportuno ricordare che la sentenza Franconi ha affermato il principio secondo cui «l’irrogazione per il medesimo fatto sia di una sanzione penale che di una sanzione amministrativa definitiva - ai sensi degli artt. 185 e 187-ter, d.lgs. 24 febbraio 1998, n.58 - non determina la violazione del principio del ne bis in idem, a condizione che il cumulo delle sanzioni risulti proporzionale alla gravità del fatto commesso, in conformità ai principi di cui agli artt. 49, 50 e 52 CDFUE, nonché 4 Prot. n. 7 CEDU, così come interpretati dalle sentenze della Corte di Giustizia dell’Unione Europea C-524/15, Menci; C-537/16, Garlsson Real Estate, nonché dalla sentenza della Corte EDU del 15 novembre 2016, A e B c. Norvegia».

In tale contesto ricostruttivo, la sentenza Franconi non ha mancato di valorizzare, altresì, il novellato art. 620, lett. l), cod. proc. pen., per stabilire che la Corte di cassazione «può valutare direttamente e senza disporre annullamento con rinvio la proporzionalità del cumulo sanzionatorio derivante dall’irrogazione della sanzione penale e di quella amministrativa definitiva, a condizione che non sia necessario procedere ad ulteriori accertamenti di fatto», a tal fine facendo riferimento ai criteri di cui all’art. 133 cod. pen.

L’applicazione di tali criteri al caso di specie ha condotto la sentenza n. 45829/2018 a ritenere rispettato il criterio di proporzionalità del cumulo delle sanzioni inflitte agli interessati rispetto alla gravità dei fatti addebitati, considerando che le sanzioni penali si erano attestate nel minimo edittale e che quelle amministrative pecuniarie, nonché quelle accessorie applicate dalla CONSOB, pur essendo superiori al minimo, apparivano distanti dai limiti più elevati previsti rispettivamente dall’art. 187-ter e dall’art. 187-quater, tenuto altresì conto del criterio compensativo previsto dall’art. 187-terdecies TUF.

La sentenza Erbetta, seguendo la medesima linea interpretativa, ha puntualizzato che, in tema di manipolazione di mercato e di impatto degli artt. 50 della Carta di Nizza e 4 Prot. n. 7 CEDU, nella lettura offerta dalle Corti europee, sul doppio binario sanzionatorio previsto dal d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, nel caso di patteggiamento richiesto prima dell’entrata in vigore della legge 23 giugno 2017, n. 103, la Corte di cassazione può censurare il mancato proscioglimento dell’imputato per bis in idem ex art. 129 cod. proc. pen. soltanto nell’ipotesi eccezionale in cui la sanzione amministrativa già inflitta ai sensi dell’art. 187–ter del citato decreto sia commisurata in maniera tale da assorbire il disvalore della condotta, sia negli aspetti rilevanti a fini penali che in quelli posti a fondamento della complementare sanzione amministrativa, sicché il cumulo delle sanzioni risulti radicalmente sproporzionato (nella specie, la Corte ha rigettato il ricorso dell’imputato che aveva riportato sanzioni prossime ai minimi edittali in ciascuno dei due procedimenti, ritenute proporzionate alla complessiva gravità del fatto scrutinata dal giudice del patteggiamento secondo i criteri di cui all’art. 133 cod. pen.).

La sentenza Chiarion, infine, si segnala per l’affermazione che, «nel caso di sanzione irrevocabile irrogata dalla Consob, la verifica del giudice penale circa la sua legittimità rispetto all’osservanza del principio del ne bis in idem, con riguardo quindi alla proporzionalità del complessivo trattamento sanzionatorio irrogato, consente esclusivamente la disapplicazione in mitius del minimo edittale della reclusione previsto dalla norma penale, con esclusione della multa in ragione del meccanismo “compensativo” di cui all’art. 187-terdecies TUF», con la precisazione che la predetta deroga dal minimo edittale della pena della reclusione trova in ogni caso il limite insuperabile della sanzione minima di cui all’art. 23 cod. pen.

Più specificamente, il perno essenziale della costruzione decisoria gravita tutto sull’affermazione che la disapplicazione della norma relativa alla sanzione non ancora divenuta irrevocabile potrà essere totale soltanto quando la sanzione definitiva irrogata per prima sia di per sé sola proporzionata al complessivo disvalore del fatto: eventualità che è certamente ravvisabile in modo più agevole laddove la sanzione già divenuta irrevocabile sia quella penale e la valutazione circa il rispetto o meno del principio del ne bis in idem riguardi la sanzione amministrativa (si tratta, ad esempio, dell’ipotesi considerata dalla sentenza Garlsson Real Estate). Diversamente, come la stessa sentenza Chiarion avverte, una disapplicazione totale appare di assai più ardua configurabilità - alla luce della evidenziata estraneità della sanzione irrogata dall’autorità amministrativa rispetto al nucleo essenziale dell’apparato sanzionatorio, rappresentato dal diritto penale – qualora la “prima” sanzione divenuta irrevocabile sia quella formalmente amministrativa irrogata dalla Consob: in tale ipotesi, invero, la disapplicazione in toto della sanzione penale potrebbe, al più, affermarsi in ipotesi del tutto eccezionali, in cui la sanzione speculare formalmente amministrativa – evidentemente calibrata sui massimi edittali in rapporto ad un fatto di consistente gravità - corrisponda, di per sé sola, al criterio della proporzionalità rispetto alle diverse componenti proprie dei due illeciti.

In ogni caso, dunque, a parte l’ipotesi marginale da ultimo richiamata, l’accertata sproporzione del trattamento sanzionatorio complessivamente irrogato rispetto alla garanzia del ne bis in idem deve comportare, nel caso di sanzione amministrativa già divenuta irrevocabile, una rimodulazione in mitius della sanzione penale, con il limite, quanto alla reclusione, posto dall’art. 23 cod. pen. e, quanto alla multa, derivante dal meccanismo "compensativo" di cui all’art. 187-terdecies TUF. Rimodulazione che, sempre secondo la sentenza Chiarion (al pari di altre pronunce, fra le quali Sez. 5, n. 45829 del 16/07/2018, F., Rv. 274179–03), può essere effettuata anche in sede di legittimità, sulla base degli elementi di fatto già accertati (cfr., sul punto, anche il dictum di Sez. U, n. 3464 del 30/11/2017, dep. 2018, Matrone, Rv. 271831, con riferimento all’interpretazione dell’art. 620, comma 1, lett. l, cod. proc. pen.): soluzione, peraltro, ritenuta non praticabile nella specie, coinvolgendo profili valutabili in sede di merito.

È in tale ampia cornice ermeneutica, dunque, che si inserisce coerentemente anche la sentenza Respigo.

Il Collegio afferma esplicitamente di condividere l’impostazione adottata dalle tre precedenti sentenze della stessa Quinta sezione, ed in particolare dalla pronuncia Chiarion, anche in tema di insider trading, fattispecie penale prevista dall’art. 184 TUF cui fa riscontro l’illecito amministrativo contemplato dall’art. 187-bis cod. pen. (oggi riformulato dal d. lgs. n. 107 del 2018).

La decisione n. 39999/2019, pertanto, muove da un giudizio positivo circa «la compatibilità convenzionale delle procedure parallele di doppio binario» rispetto all’ipotesi di insider trading, posto che i procedimenti penale ed amministrativo, oltre ad avere ad oggetto addebiti del tutto omogenei nella loro materialità, risultavano, altresì, collegati secondo il criterio della sufficiently close connection in substance and time.

Sul versante, poi, della valutazione di proporzionalità del complessivo trattamento sanzionatorio a fronte del disvalore dei fatti commessi, la Corte ribadisce «il principio secondo cui, anche in tema di insider trading e ne bis in idem, la disapplicazione della disciplina penale potrà avere luogo soltanto nell’ipotesi in cui la sanzione amministrativa già inflitta in via definitiva sia strutturata in maniera e misura tali da assorbire completamente il disvalore della condotta (“coprendo” sia aspetti rilevanti a fini penali che a fini amministrativi e, in particolare, offrendo tutela complessivamente e pienamente adeguata e soddisfacente all’interesse protetto dell’integrità dei mercati finanziari e della fiducia del pubblico negli strumenti finanziari), poiché in tal caso il cumulo delle sanzioni risulta radicalmente sproporzionato e contrario ai principi sanciti dagli artt. 50 CDFUE e 4 Prot. n. 7 CEDU, come interpretati dalle Corti europee [Corte EDU, G.C., A e B contro Norvegia del 2016 e CGUE, Grande Sezione, Menci (C-524/15), Garlsson Real Estate SA e altri contro Consob (C-537/16) e Di Puma contro Consob e Consob contro Zecca (cause riunite C- 596/16 e C-597/16]».

In tale prospettiva, la Corte sottolinea che la disapplicazione della norma che commina la sanzione penale, qualora la sanzione amministrativa già inflitta esaurisca il bisogno di punizione, è ipotesi rara ma non paradossale, soprattutto in un settore, come quello degli abusi di mercato, in cui alla sanzione penale fanno eco sanzioni amministrative di notevole severità; particolarmente significativo, in tale contesto, è il passaggio argomentativo volto ad evidenziare che la necessità di bilanciamento fra istanze di tutela dell’integrità dei mercati ed il rispetto delle garanzie individuali non deve trovare ostacolo né nel principio di obbligatorietà dell’azione penale, né in quello di legalità sulle cui basi si fonda la teoria dell’illecito penale nel nostro ordinamento: a tal fine, il Collegio di legittimità opera un plastico richiamo all’ordinanza n. 48 del 2017 della Corte costituzionale, che ha ribadito il dovere, imposto al giudice nazionale dall’art. 11 della Costituzione, di dare piena ed immediata applicazione alle norme dell’Unione europea dotate di efficacia diretta e non applicare le norme interne ritenute con esse inconciliabili.

Del tutto coerente con tali premesse è, poi, il fatto che i giudici di legittimità, nell’affrontare il compito di declinare le concrete modalità di attuazione del principio, sottolineino l’importanza di apprezzare la proporzionalità della sanzione pecuniaria tenendo conto del meccanismo “compensativo” previsto dall’art. 187-terdecies TUF, secondo cui, quando per lo stesso fatto è stata applicata a carico del reo o dell’ente una sanzione amministrativa pecuniaria ai sensi dell’art. 187-septies, l’esecuzione della pena pecuniaria e della sanzione pecuniaria dipendente da reato è limitata alla parte eccedente quanto già riscosso dall’autorità amministrativa. Altro criterio convergente, debitamente posto in evidenza dalla Corte, è quello ispirato alla necessità che la verifica complessiva dell’entità del trattamento sanzionatorio sia allargata anche alla confisca ex art. 187 TUF ed alle pene accessorie.

Degna di particolare notazione, fra tutte, è, comunque, l’indicazione – in sé non nuova, ma certamente qui sviluppata in maniera autonoma -di utilizzare i parametri normativi previsti dall’art. 133 cod. pen., allargandone la portata, in modo da consentire il bilanciamento fra il disvalore del fatto, comprensivo degli aspetti penali e amministrativi, e l’afflittività globale della sanzione integrata, tenendo conto non solo della pena principale, ma anche delle pene accessorie e della confisca.

Sviluppando coerentemente tali coordinate esegetiche, la Corte è pervenuta, nel caso sottoposto a giudizio, ad annullare con rinvio la sentenza impugnata limitatamente al trattamento sanzionatorio, demandando al giudice di merito di accertare, sulla base dei criteri e dei principi enunciati, se la sanzione amministrativa irrogata esaurisca il disvalore del fatto, eventualmente disapplicando o rimodulando la sanzione penale; in particolare, ai giudici di appello è stato prescritto di scrutinare sia l’incidenza del fatto sulla fiducia degli investitori nel mercato e l’impatto sul buon funzionamento di questo, sia il rilievo di tutti gli elementi soggettivi e oggettivi che influiscono sul rapporto tra sanzione e disvalore del fatto, fra cui il comportamento collaborativo dell’imputato e l’episodicità della sua condotta.

Da notare è, altresì, il richiamo alla necessità di tener conto delle conseguenze della sentenza della Corte costituzionale n. 112 del 2019 (adottata il 6 marzo 2019 e depositata il 10 maggio 2019, nelle more della stesura della motivazione della sentenza Respigo) sulla confisca amministrativa già passata in giudicato, nel senso di determinare l’eliminazione della quota sanzionatoria riferita al prodotto dell’illecito, lasciando la quota di confisca riferita al solo profitto (vale a dire - puntualizza la Corte - il guadagno effettivo al netto, calcolato dalla vendita delle azioni di ciascuna società, successiva al loro acquisto indebito tramite abuso in informazioni privilegiate).

È noto, infatti, che il TUF prevede due diverse forme di confisca, a seconda che il medesimo fatto di insider trading integri gli estremi di un reato ovvero di un illecito amministrativo: la confisca penale (art. 187) riguarda il prodotto o il profitto del reato e i beni utilizzati per commetterlo; la confisca amministrativa (art. 187-sexies), modificata a seguito del d.lgs. n. 107 del 2018, che ha eliminato il riferimento ai beni utilizzati, è stata interessata dalla citata sentenza n. 112 del 2019 della Corte costituzionale, i cui effetti si sostanziano nell’escludere l’estensione del meccanismo ablativo al prodotto dell’illecito, residuando quindi la confiscabilità in via amministrativa del solo profitto. La Corte costituzionale, invero, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998, nel testo originariamente introdotto dall’art. 9, comma 2, lettera a), della legge 18 aprile 2005, n. 62, nella parte in cui prevede la confisca obbligatoria, diretta o per equivalente, del prodotto dell’illecito e dei beni utilizzati per commetterlo, e non del solo profitto; ha dichiarato, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l’illegittimità costituzionale dell’art. 187-sexies del medesimo decreto legislativo, nella versione risultante dalle modifiche apportate dall’art. 4, comma 14, del d.lgs. 10 agosto 2018, n. 107, nella parte in cui prevede la confisca obbligatoria, diretta o per equivalente, del prodotto dell’illecito, e non del solo profitto.

Così tratteggiati i connotati essenziali della decisione che, forse più di altre, è dotata di un ampio e solido corredo interpretativo in un’ottica “integrata” e di sistema, v’è da aggiungere che il panorama giurisprudenziale di legittimità del 2019, sul versante penale, pone in debita evidenza ulteriori pronunce.

In particolare, Sez. 3, n. 5934 del 12/09/2018, dep. 2019, Giannino, Rv. 275833 – 04 si inserisce nell’illustrato filone interpretativo, adottando i medesimi registri decisori esaminati per affermare che «non sussiste la violazione del ne bis in idem convenzionale nel caso della irrogazione, per il medesimo fatto per il quale vi sia stata condanna a sanzione penale definitiva, di una sanzione formalmente amministrativa, della quale venga riconosciuta la natura sostanzialmente penale, ai sensi dell’art. 4, Protocollo n. 7, CEDU, come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nelle cause Grande Stevens e altri contro Italia del 4 marzo 2014 e Nykanen contro Finlandia del 20 maggio 2014, quando tra il procedimento amministrativo e quello penale sussista una connessione sostanziale e temporale efficientemente stretta, tale che le due sanzioni siano parte di un unico sistema sanzionatorio, secondo il criterio dettato dalla suddetta Corte nella decisione A. e B. contro Norvegia del 15 novembre 2016».

Nella specie, la Corte, dopo avere superato, escludendone la fondatezza, la distinta - seppur connessa -questione della invocata specialità dell’illecito amministrativo previsto dall’art. 27, comma 18, del d.l. n. 185 del 2008, convertito dalla legge n. 2 del 2009, rispetto al delitto di indebita compensazione di cui all’art. 10-quater del d.lgs. n. 74 del 2000, che prevede la soglia di punibilità di 50.000 euro, non prevista dalla fattispecie amministrativa (ciò in quanto la fattispecie penale ha riguardo alla condotta, diversa e ulteriore, consistente nell’omesso versamento dell’imposta dovuta: cfr. anche Sez. 3, n. 30267 del 08/05/2014, Acerbis, Rv. 260260), non ha ravvisato la violazione del suddetto divieto di bis in idem in quanto la sanzione amministrativa non era ancora irrevocabile al momento della decisione di secondo grado del procedimento penale per reati tributari relativi ai medesimi fatti. Né appariva decisiva, secondo la Corte, la circostanza che, nelle more del giudizio di legittimità, il provvedimento sanzionatorio amministrativo fosse divenuto irrevocabile, «posto che, a prescindere da ogni approfondimento circa la natura sostanzialmente penale della sanzione irrogata, rimane il dato che l’avvio del presente procedimento penale è avvenuto in epoca prossima all’inizio del procedimento amministrativo», dovendosi, quindi, ribadire la sussistenza di una connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta fra i due procedimenti.

Una puntuale applicazione dei principi illustrati è stata operata da Sez. 5, n. 28346 del 12/04/2019, Caroli, Rv. 276644 – 01, secondo cui la violazione del ne bis in idem tributario, in sede di revisione ex art. 630 cod. proc. pen. (invocata dal ricorrente in forza della sentenza della Corte Costituzionale n. 113 del 2011 ed in relazione alla decisione della Corte EDU, Grande Stevens contro Italia, per essere stato già assoggettato a sanzioni tributarie, aventi natura penale, con conseguente preclusione all’applicazione della pena per il corrispondente reato) non può essere dedotta in assenza degli elementi identificativi, anche temporali, degli illeciti, dei relativi procedimenti e delle sanzioni comminate, che consentano di valutare la insussistenza di una connessione sostanziale o temporale sufficientemente stretta da far ritenere le sanzioni comminate parte di un unico sistema.

Peculiari declinazioni dei principi in tema di ne bis in idem convenzionale provengono, infine, da ulteriori decisioni. Sez. 5, n. 38717 del 06/06/2019, Bresciani, Rv. 277115 - 01 ha affermato che, in materia di furto di energia elettrica, le sanzioni previste dall’art. 59 d.lgs. 26 ottobre 1995, n. 504, hanno natura amministrativa ed assolvono ad un’autonoma funzione ripristinatoria del bene giuridico leso, da individuare nella sottrazione del consumo all’imposta, e non hanno finalità punitive, in quanto producono effetti sul soggetto obbligato all’adempimento fiscale, indipendentemente dall’essere o meno quest’ultimo l’autore dell’abusivo prelievo. La conseguenza tratta dalla Corte è, dunque, che l’irrogazione di tali sanzioni non comporta la violazione del principio del ne bis in idem convenzionale. Seguendo un’affine linea argomentativa Sez. 3, n. 51044 del 03/10/2018, M. Rv. 274128 – 01, ha affermato che, in materia di reati concernenti violazioni edilizie, l’imposizione dell’ordine di demolizione di un manufatto abusivo, anche se disposta dal giudice penale ai sensi dell’art. 31, comma 9, del d.P.R. n. 380 del 2001, ha natura di sanzione amministrativa che assolve ad un’autonoma funzione ripristinatoria del bene giuridico leso e non ha finalità punitive, producendo effetti sul soggetto che è in rapporto con il bene, indipendentemente dall’essere o meno quest’ultimo l’autore dell’abuso; ne consegue che lo stesso non determina alcuna violazione del principio del ne bis in idem convenzionale, come interpretato dalla più volte richiamata sentenza della Corte EDU nella causa Grande Stevens c. Italia del 4 marzo 2014.

Una complessiva valutazione degli orientamenti interpretativi sottesi alle decisioni in esame porta a riconoscere come, almeno tendenzialmente, la giurisprudenza penale di legittimità tenda ad escludere, sia pure entro i limiti di generalizzazione correlati alla natura casistica dell’accertamento, la sussistenza di ostacoli strutturali e di criticità di sistema che possano ostacolare la compatibilità del “doppio binario” procedimentale previsto dall’ordinamento interno, con i principi convenzionali; il tutto innestato su moduli accertativi per quanto possibile duttili e scevri da schematismi in guisa da consentire il reale e concreto bilanciamento fra il disvalore complessivo del fatto, comprensivo dei profili penali ed amministrativi, e la globale carica di afflittività della sanzione integrata, valutata in tutte le sue articolazioni.

Si tratta di una linea di tendenza che, in prospettiva evolutiva, potrà senza dubbio essere valorizzata anche alla luce delle indicazioni che provengono dalla più recente giurisprudenza della Corte costituzionale.

Con la recente sentenza n. 222 del 18 giugno 2019 (in G.U. 30 ottobre 2019, n. 44), la Corte ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale, sollevate in riferimento agli artt. 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 4 del Protocollo n. 7 alla Conv. EDU e all’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali UE, dell’art. 649 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede l’applicabilità della disciplina del divieto di un secondo giudizio nei confronti di un imputato al quale, con riguardo agli stessi fatti, sia già stata irrogata in via definitiva, nell’ambito di un procedimento amministrativo, una sanzione di carattere sostanzialmente penale ai sensi della Convenzione EDU e dei relativi Protocolli.

Nella specie, il giudice rimettente, chiamato a giudicare in ordine ad un’imputazione di omesso versamento dell’Iva ex art. 10-ter del d.lgs. n. 74 del 2000, a fronte di una condotta, già definitivamente sanzionata in via amministrativa ex art. 13, comma l, del d.lgs. n. 471 del 1997, aveva dedotto la contrarietà dell’art. 649 cod. proc. pen. al divieto di bis in idem, inteso nei termini sopra illustrati, «non potendosi- in particolare- applicare nella specie l’art. 649 cod. proc. pen., il cui tenore letterale sarebbe inequivoco nell’ancorare la pronuncia di una sentenza di non doversi procedere a una previa sentenza irrevocabile sullo stesso fatto, pronunciata da altro giudice penale».

La pronuncia di inammissibilità resa dalla Corte costituzionale, motivata in ragione della mancanza di adeguata indicazione delle ragioni per le quali non sarebbero soddisfatte, nella specie, le condizioni di ammissibilità di un “doppio binario” procedimentale e sanzionatorio, nei termini indicati dalle tre sentenze gemelle della Grande sezione della Corte di giustizia UE del 20 marzo 2018 (le già citate Garlsson Real Estate SA, Di Puma e Consob, Menci; quest’ultima scaturita da una domanda pregiudiziale formulata dallo stesso giudice a quo), non ha impedito alla Corte (come già puntualmente osservato dalla Relazione di questo Ufficio n. 69/19 del 30.11.2019) di individuare essa stessa una serie di indici normativi utili ad orientare l’interprete nell’applicazione del criterio della sufficiently close connection, in funzione dei quali sembra tendenzialmente da escludersi che il sistema italiano del doppio binario sanzionatorio penale ed amministrativo in materia tributaria evidenzi - già in termini, per così dire, generali ed astratti -, profili di incompatibilità con il regime sovranazionale dei diritti fondamentali.

In tal senso, viene, in particolare, valorizzato il contenuto precettivo degli artt. 12-bis, 13, 19, 20 e 21, dello stesso d.lgs. n. 74 del 2000, nonché di altre disposizioni che prevedono obblighi di comunicazione degli illeciti tributari da parte della Guardia di finanza all’Autorità giudiziaria (art. 331 cod. proc. pen.), ovvero da parte dell’Autorità giudiziaria alla Guardia di finanza (art. 36 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600) ed all’Agenzia delle entrate (art. 14, comma 4, della legge 24 dicembre 1993, n. 537), in modo da assicurare una sostanziale contestualità dell’avvio dell’accertamento tributario e del procedimento penale. Parimenti, la Corte costituzionale ha rimarcato la rilevanza delle disposizioni che consentono forme di circolazione del materiale probatorio acquisito nel corso dell’indagine penale all’accertamento tributario e viceversa (cfr. gli artt. 63, comma l, d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, e 33, comma 3, d.P.R. n. 600 del 1973, nonché, specularmente, l’art. 220 disp. att. cod. proc. pen.). Si tratta di un complesso normativo di indubbia pregnanza, al quale la Corte stessa ha ritenuto di affiancare «la giurisprudenza [sia civile che penale] relativa all’utilizzabilità del materiale istruttorio raccolto in ciascun procedimento, quale elemento di prova e fonte di convincimento da parte del giudice che istruisce l’altro procedimento».

  • procedura penale
  • credito
  • sequestro di beni
  • sanzione penale
  • confisca di beni
  • impresa in difficoltà
  • esecuzione della sentenza
  • fallimento

XVIII)

I RAPPORTI TRA MISURE CAUTELARI PENALI E PROCEDURE CONCORSUALI CONCORRENTI SUI MEDESIMI BENI: LA SENTENZA MANTOVA PETROLI A METÀ STRADA TRA LA NOMOPOIESI GIURISPRUDENZIALE E LA NUOVA REGOLAZIONE LEGALE DEL TRAFFICO DELLE PRECEDENZE

(di Raffaele Piccirillo )

Sommario

1 La decisione delle Sezioni Unite nel caso Fallimento Mantova Petroli: una revisione del presente che recupera il passato e guarda al futuro. - 1.1 La legittimazione processuale del curatore come risvolto processuale della questione sostanziale dei rapporti tra vincolo penale e vincolo concorsuale concorrenti sui medesimi beni. - 1.2 L’indifferenza delle soluzioni giurisprudenziali per i contenuti della censura sollevata dal curatore contro il sequestro. - 2 Il precedente Focarelli: la visione funzionalista dei rapporti tra sequestro/confisca e fallimento e il riconoscimento della legittimazione del curatore. - 3 Il precedente Uniland: il disconoscimento della legittimazione del curatore come riflesso della centralità conferita ai diritti dominicali nel sistema di tutela dei terzi. - 3.1 L’estensibilità del principio Uniland oltre l’ambito del sequestro “231”. - 4 I primi segnali di insoddisfazione della giurisprudenza per il principio Uniland: il riconoscimento della legittimazione del curatore a contrastare il sequestro successivo al fallimento. - 4.1 . Il riconoscimento della legittimazione del curatore a impugnare il sequestro post-fallimentare e il principio di consecuzione delle procedure concorsuali. - 5 Le fratture più profonde: il riconoscimento della legittimazione del curatore a impugnare anche sequestri disposti prima del fallimento. - 6 La questione rimessa alle Sezioni Unite nel 2019 e la lettura dell’art. 618, comma 1-bis, cod. proc. pen. - 7 Le ragioni del cambio di rotta. - 7.1 1. La centralità degli artt. 322, 322-bis e 325 cod. proc. pen. e la distinta fisionomia dell’avente diritto alla restituzione. - 7.2 Il curatore fallimentare titolare di una disponibilità autonoma e giuridicamente tutelata dei beni fallimentari. Conseguenze in tema di opponibilità del giudicato cautelare. - 7.3 L’interesse concreto del curatore a contrastare il sequestro. - 7.3.1 Le disfunzioni superate dalla decisione Mantova Petroli. - 7.4 4. Le conclusioni delle Sezioni Unite e l’art. 320 del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza. - 8 La legittimazione del curatore a impugnare il sequestro di prevenzione. - 9 Il rapporto tra sequestri penali e liquidazione giudiziale nel Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza. - 9.1 Prevalenza della liquidazione giudiziale sul sequestro conservativo. - 9.2 Prevalenza incondizionata della liquidazione giudiziale sul sequestro penale impeditivo. - 9.3 3. L’estensione al sequestro ex art. 321 comma 2 cod. proc. pen. della disciplina del Titolo IV del Libro I del Codice antimafia: ragioni dell’intervento. - 9.3.1 L’ambito omnicomprensivo della nuova disciplina. - 9.3.2 3.2. I contenuti della disciplina: la prevalenza procedurale del sequestro a fini di confisca. - 9.3.3 La resistenza dei diritti di credito di fronte al sequestro finalizzato alla confisca: le condizioni sostanziali e la procedura di accertamento. - 10 Il nuovo significato della legittimazione del curatore fallimentare a contrastare il sequestro penale.

1. La decisione delle Sezioni Unite nel caso Fallimento Mantova Petroli: una revisione del presente che recupera il passato e guarda al futuro.

L’evento giurisprudenziale più rilevante dell’anno appena trascorso, nel settore dei rapporti tra sequestro penale a fini di confisca e procedure concorsuali, è certamente la decisione Sez. U, n. 45936 del 26/09/2019, Fall. Mantova Petroli s.r.l. in liquidazione, Rv. 277257-01 dove le Sezioni Unite, specificamente interpellate sul punto, enunciano il principio: «Il curatore fallimentare è legittimato a chiedere la revoca del sequestro preventivo a fini di confisca e ad impugnare i provvedimenti in materia cautelare reale».

La rilevanza della pronuncia deriva dal fatto che essa opera un radicale cambio di rotta rispetto a quanto enunciato dal medesimo consesso esattamente cinque anni prima, nella sentenza Sez. U, n. 11170 del 25/09/2014 - dep. 2015, Uniland s.p.a., Rv. 263685 che, con riferimento solo apparentemente circoscritto al sequestro disposto nei confronti dell’ente ai sensi degli artt. 19-53 del d. lgs. n. 231 del 2001, affermava: «In tema di responsabilità da reato degli enti, il curatore fallimentare non è legittimato a proporre impugnazione avverso il provvedimento di sequestro preventivo funzionale alla confisca dei beni della società fallita».

Nel contempo, l’ultimo enunciato recupera, come in un esercizio di resipiscenza, un dictum più risalente, Sez. U, n. 29951 24/05/2004, Focarelli, Rv. 263685: «Il curatore del fallimento, nell’espletamento dei compiti di amministrazione del patrimonio fallimentare, ha facoltà di proporre sia l’istanza di riesame del provvedimento di sequestro preventivo, sia quella di revoca della misura, ai sensi dell’art. 322 cod. proc. pen., nonché di ricorrere per cassazione ai sensi dell’art. 325 stesso codice avverso le relative ordinanze emesse dal tribunale del riesame».

Infine, la decisione anticipa l’efficacia del Codice dell’insolvenza e della crisi d’impresa (d’ora in avanti "CCII"), il d. lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 che, a partire dal prossimo 15 agosto 2020, regolerà i rapporti tra la liquidazione giudiziale e le misure cautelari penali in un apposito Titolo VIII, includente la previsione dell’art. 320, ai sensi della quale «Contro il decreto di sequestro e le ordinanze in materia di sequestro il curatore può proporre richiesta di riesame e appello nei casi, nei termini e con le modalità previsti dal codice di procedura penale. Nei predetti termini e modalità il curatore è legittimato a proporre ricorso per cassazione».

1.1. La legittimazione processuale del curatore come risvolto processuale della questione sostanziale dei rapporti tra vincolo penale e vincolo concorsuale concorrenti sui medesimi beni.

Non è soltanto il revirement operato rispetto alla presa di posizione più recente a giustificare l’interesse per la pronuncia adottata dalle Sezioni Unite nel 2019.

Riguardato diacronicamente, il tema della legittimazione del curatore è una tappa della faticosa ricerca del miglior bilanciamento tra gli interessi, parimenti pubblicistici, sottesi al procedimento penale e a quello fallimentare e, in termini ancora più generali, è un aspetto della questione della salvaguardia dei terzi che vantano un diritto sui beni oggetto dell’ablazione penale.

La più tangibile riprova di quanto detto si ricava dai precedenti del 2004 e del 2014.

In entrambi i casi il contrasto interpretativo atteneva alla definizione dei rapporti di prevalenza tra il vincolo penale e quello fallimentare, nel caso di concorrenza di entrambi sui medesimi beni. Si domandava, in buona sostanza, al massimo organo nomofilattico di stabilire se il vincolo cautelare penale dovesse essere sensibile, o invece, rimanere impermeabile alle ragioni della procedura concorsuale.

Più specificamente, la sentenza Focarelli rispondeva al quesito «se sia consentito il sequestro preventivo finalizzato alla confisca facoltativa di beni provento di attività illecita dell’indagato e di pertinenza di impresa dichiarata fallita».

Il primo quesito sottoposto alle Sezioni Unite nel 2014 rifletteva la necessità di specificazione della soluzione indicata dalla decisione precedente in relazione al sequestro finalizzato alla confisca obbligatoria: «Se, per disporre il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente a norma dell’art. 19, comma secondo, d. lgs. 8 giugno 2001, n. 231, con riferimento a beni di pertinenza della massa attiva di un fallimento, il giudice penale possa limitarsi ad accertare la confiscabilità dei cespiti, senza prendere in considerazione le esigenze tutelate dalla procedura concorsuale, o debba invece procedere ad una valutazione comparativa tra le ragioni di questa, e segnatamente dei creditori in buona fede, e quelle afferenti alla pretesa punitiva dello Stato».

L’altro scaturiva dall’esigenza di coordinare il sistema delle ablazioni stricto sensu penali con un’importante evoluzione che era nel frattempo intervenuta nel settore delle misure patrimoniali di prevenzione, l’introduzione con il Codice antimafia del 2011 di una specifica disciplina dei rapporti tra sequestro/confisca e procedure concorsuali, nella cornice di un apposito titolo, il Titolo IV, dedicato alla salvaguardia dei diritti dei terzi. Si domandava allora alla Corte «se la verifica delle ragioni dei singoli creditori, al fine di accertarne la buona fede, debba essere compiuta dal giudice penale o, invece, dal giudice fallimentare, eventualmente in applicazione analogica della disciplina dei sequestri di prevenzione di cui al titolo IV del d. lgs. 6 settembre 2011, n. 159 (cd. codice antimafia)»).

Le divergenti affermazioni in punto di legittimazione del curatore rispecchiavano la diversa visione del tema generale: più pragmatica la prospettiva Focarelli, più ideologica la visione sottesa alla decisione Uniland.

L’embricazione del tema della legittimazione processuale del curatore in quello più generale dei rapporti tra le procedure si apprezza anche guardando al repertorio delle decisioni passate in rassegna dalla Sezione remittente e dalle Sezioni Unite nel 2019 per prospettare e risolvere la questione. Alcune di esse non affrontano, in realtà, il tema della legittimazione del curatore ma quello della sensibilità o meno della confisca rilevante nel caso particolare alle ragioni della procedura fallimentare: quasi a dire che l’affermazione della permeabilità della misura cautelare penale implica quella della legittimazione del curatore ad impugnarla, e viceversa (118).

1.2. L’indifferenza delle soluzioni giurisprudenziali per i contenuti della censura sollevata dal curatore contro il sequestro.

Le soluzioni Focarelli e Uniland non distinguevano tra il caso nel quale il curatore prospettava l’insussistenza dei presupposti della misura cautelare penale (fumus, periculum, corretta qualificazione giuridica del bene aggredito) e quello nel quale, senza contestarne i presupposti, invocava la soccombenza funzionale della misura penale rispetto al vincolo fallimentare. Nell’una e nell’altra evenienza, indifferentemente, la legittimazione era affermata (Focarelli) o negata (Uniland).

Alla necessità di operare una distinzione aveva, invero, fatto richiamo, nel suo ricorso per cassazione, la curatela del Fallimento Mantova Petroli.

L’appello dichiarato inammissibile dal Tribunale del riesame con la decisione impugnata era incentrato (anche) sulla contestazione della legittimità del vincolo, che sarebbe stato apposto su somme di denaro non qualificabili come profitto del contestato reato tributario. Non si trattava allora di dirimere la questione della coesistenza di due vincoli entrambi legittimi, alla quale avrebbe dovuto intendersi circoscritto, secondo i ricorrenti, il principio dettato dalle Sezioni unite cinque anni prima.

Le Sezioni Unite hanno implicitamente smentito questa prospettiva.

L’analisi della decisione del 2014 spiega perché.

Il primo motivo di ricorso formulato nel caso Uniland ineriva, infatti, alla violazione degli artt. 2, 5, 19 e 53 d. lgs. n. 231 del 2001, per essere stato il sequestro adottato e mantenuto per un reato che non figurava (e tuttora non figura) nell’elenco di quelli che possono dar luogo alla responsabilità dell’ente ex art. 24 ss. d. lgs. n. 231 del 2001. Era infatti accaduto che il reato societario (artt. 2632 cod. civ. e 25-ter d. lgs. n. 231 del 2001) contestato nella fase genetica della misura fosse stato riqualificato, nei confronti dell’organo apicale della società, dopo l’avvio della procedura concorsuale, in bancarotta societaria (non ricompresa nell’elenco di cui sopra), lasciando immutata la contestazione nei confronti dell’ente.

Le Sezioni Unite riconobbero, incidentalmente, la fondatezza della censura affermando che «In tema di responsabilità degli enti ai sensi del d. lgs. 231/2001, il reato contestato alla persona fisica deve corrispondere a quello chiamato a fungere da presupposto per la responsabilità della persona giuridica» (Rv. 263679-01).

Nell’iter argomentativo si evocavano il principio di doppia legalità che impronta il sistema della responsabilità dell’ente (art. 2 d. lgs. cit.); i precedenti di legittimità in tema di reato complesso non annoverato nell’elenco di cui agli art. 24 ss. d. lgs. cit. ma incorporante una fattispecie che invece vi è compresa (Sez. 2, n. 41488 del 29/09/2009, Rimoldi); una corretta interpretazione del principio di autonomia della responsabilità dell’ente (art. 8 d. lgs, cit.).

Nonostante dunque il riconoscimento del grave vizio di legittimità – la carenza di base legale della confisca e, di conseguenza, del sequestro finalizzato ad assicurarne gli effetti – le Sezioni unite avevano dichiarato inammissibile il ricorso per il difetto di legittimazione del curatore impugnante.

Questo risvolto destò reazioni di smarrimento e sorpresa in più di un commentatore:

«Al cospetto di una sentenza così complessa sotto il profilo interpretativo e ricostruttivo di un tessuto normativo indubbiamente articolato, riesce difficile, se non impossibile, nascondere un certo senso di smarrimento a fronte di taluni profili di (almeno apparente) disallineamento rispetto alla coerenza che, nel suo complesso, la caratterizza. Il primo motivo di perplessità è connesso all’esito cui giunge (inammissibilità del ricorso delle curatele, pur a fronte dell’accertata carenza dei presupposti per l’applicabilità del sequestro finalizzato alla confisca. E tale perplessità pare vieppiù confermata se si confronta l’impostazione in tal senso adottata dalla Corte con l’aspetto maggiormente convincente della soluzione proposta, consistente nell’affermata possibilità di coesistenza dei vincoli di cui si è discusso: quello imposto dalla confisca e quello imposto dalla procedura concorsuale. Tale coesistenza […] sembrerebbe implicare la necessaria ri-espansione delle pretese restitutorie in capo ai titolari di questi ultimi [dei diritti dei terzi, n.d.e.] allorquando (come in questo caso) la confisca non possa in nessun modo operare, essendovi di ostacolo, come bene rileva la sentenza, il principio di stretta legalità» (119).

«Sorprende […] la recisa negazione della legittimazione del Curatore a proporre impugnazione contro il provvedimento ablativo. Par difficile in verità contestare l’esistenza non tanto di un semplice interesse, ma di un vero e proprio dovere del curatore fallimentare ad apprendere alla massa tutti i beni di proprietà del fallito, come è indubitabilmente anche il bene già appartenente al debitore e a costui confiscato al di fuori dei casi previsti dalla legge (qui, in mancanza di un reato presupposto che legittimasse il sequestro ex art. 53 d. lgs. n. 231/2001); e dunque contestare che la legittimazione del curatore ad impugnare un provvedimento di sequestro o confisca contra legem si fondi proprio su tale dovere» (120).

Ora il rischio del consolidamento del sequestro illegittimo o illegale con pregiudizio dei creditori, per assenza di soggetti che – una volta escluso il curatore – siano effettivamente interessati ad impugnarlo, fu uno degli argomenti più frequentemente utilizzati dalla Corte, quando cominciò a prendere le distanze dal principio Uniland. Quell’argomento ha lasciato una traccia tanto nell’ordinanza di rimessione della Terza sezione quanto nella soluzione poi adottata dalle Sezioni Unite.

Neppure l’ultima decisione conferisce però rilievo dirimente a questa distinzione.

Il riconoscimento della legittimazione del curatore è, da questo punto di vista, incondizionato. Tanto è vero che la Corte ha esaminato nel merito sia le censure formulate dal ricorrente avverso la qualificazione dei cespiti caduti in sequestro come profitto del reato tributario, che quelle intese a far prevalere, per ragioni funzionali, il vincolo fallimentare su quello penale.

Il quadro muterà con l’entrata in vigore il Codice dell’insolvenza e della crisi d’impresa. Lo si desume dal sistema complessivo delineato dagli artt. 317 ss. CCII, sul quale ci si soffermerà nella parte finale di questo contributo (v. infra § 9).

2. Il precedente Focarelli: la visione funzionalista dei rapporti tra sequestro/confisca e fallimento e il riconoscimento della legittimazione del curatore.

Come si è detto, la questione devoluta nel 2004 verteva sul «se sia consentito il sequestro preventivo finalizzato alla confisca facoltativa di beni provento di attività illecita dell’indagato e di pertinenza di impresa dichiarata fallita», e cioè sul se il vincolo di indisponibilità determinato dall’apertura della procedura fallimentare fosse in grado di assorbire le esigenze proprie del vincolo penale, tanto da precluderne l’imposizione o da imporne la revoca, nel caso di fallimento sopraggiunto.

Le Sezioni Unite rispondevano al quesito, subordinando la legittimità del sequestro preventivo, funzionale alla confisca facoltativa, di beni provento di attività illecita e appartenenti ad un’impresa dichiarata fallita, nei cui confronti sia instaurata la relativa procedura concorsuale, alla condizione «che il giudice, nell’esercizio del suo potere discrezionale, dia motivatamente conto della prevalenza delle ragioni sottese alla confisca rispetto a quelle attinenti alla tutela dei legittimi interessi dei creditori nella procedura fallimentare» (Rv. 228165-01).

La valutazione doveva concentrarsi sulle modalità di svolgimento della procedura concorsuale, sulle qualità dei creditori ammessi al passivo, sull’ammontare di quest’ultimo.

La prospettiva da tenere in considerazione era il rischio che il fallito indagato/imputato riacquistasse la disponibilità del bene per evenienze fisiologiche connesse alla chiusura del fallimento o all’instaurazione di un concordato ex art. 124 l. fall., che poteva comportare il sostanziale riacquisto della disponibilità dei beni non vincolati al procedimento o non trasferiti all’assuntore. Potevano poi verificarsi condotte surrettizie, come la costituzione fittizia di diritti di credito o di diritti reali nei confronti dello stesso fallito, non sicuramente contrastabili con i poteri di scioglimento dei contratti, con azioni revocatorie e di simulazione; né con l’impugnazione dei crediti ammessi (100 l. fall.) e la revocazione (art. 102 l. fall.).

Alla necessità di monitorare gli sviluppi della procedura concorsuale si legava l’affermazione dell’esigenza, «pur in mancanza di una previsione legislativa», di uno scambio di informazioni e di conoscenza tra l’autorità giudiziaria penale e quella civile e la prefigurazione della possibilità di accompagnare alla restituzione dei beni alla curatela l’imposizione di prescrizioni ex art. 185 d. att. cod. proc. pen. (121).

Le rationes decidendi esprimevano due importanti prese di posizione.

La prima consisteva nel rifiuto della dogmatica esclusione del rilievo pubblicistico degli interessi perseguiti dalla procedura concorsuale che – dicevano le Sezioni Unite, richiamando la giurisprudenza civilistica e la Relazione ministeriale alla legge fallimentare - sovrastano quelli dei singoli creditori, facendo assurgere la tutela della par condicio al rango di «altissimo interesse pubblico».

Con quest’affermazione si coniugava la definizione del ruolo del curatore che non andava considerato come soggetto privato, che agisce in rappresentanza o sostituzione (ex lege) del fallito e/o dei singoli creditori, ma come «un organo che svolge una funzione pubblica nell’ambito dell’amministrazione della giustizia, incardinato nell’ufficio fallimentare, a fianco del tribunale e del giudice delegato, quale ausiliario di giustizia e, di conseguenza, è sempre e costantemente “terzo” rispetto a tutti, perfino quando agisce per la tutela di un diritto già esistente nel patrimonio del fallito e che avrebbe potuto essere fatto valere da quest’ultimo se non fosse intervenuto il fallimento».

A dimostrazione dell’assunto, si elencavano le fonti del potere del curatore, si precisavano le finalità istituzionali del suo agire, si sottolineavano i controlli che presidiano la sua attività gestoria:

«Il curatore è investito dei propri poteri dalla legge ed è nominato dal tribunale fallimentare, in maniera del tutto autonoma rispetto alla volontà del fallito ed il fatto che tuteli indirettamente anche gli interessi di quest’ultimo, oltre che quelli dei creditori, non può significare che gli si debba riconoscere una funzione di rappresentanza, dal momento che tale tutela è comunque rivolta all’esecuzione forzata del patrimonio sottoposto alla procedura concorsuale. D’altra parte, gli stessi poteri di amministrazione del patrimonio fallimentare sono soggetti a specifici controlli e vincoli da parte dell’autorità giudiziaria, che vigila sull’intera attività del curatore. Anche nei casi in cui viene considerato avente causa dal fallito, ad esempio quando esercita un diritto già presente nel patrimonio di questi, è sempre l’interesse della procedura a essere tutelato dall’ufficio fallimentare, e non quello del fallito o dei creditori».

Queste premesse si combinavano con l’analisi funzionale del sequestro preventivo finalizzato alla confisca facoltativa, che si differenzia da quello probatorio, per il fatto di non svolgere «alcuna funzione strumentale rispetto al procedimento penale»; e da quello finalizzato alla confisca obbligatoria, per non essere finalizzato a impedire la circolazione di un bene intrinsecamente illecito.

E allora non poteva escludersi, in linea astratta, che lo spossessamento determinato dalla procedura concorsuale assorbisse la funzione propria del sequestro penale, quella «di evitare che il reo resti in possesso delle cose che sono servite a commettere il reato o che ne sono il prodotto o il profitto, e che quindi potrebbero mantenere viva l’idea del delitto commesso e stimolare la perpetrazione di nuovi reati», contemperandola con la garanzia dei creditori sul patrimonio dell’imprenditore fallito. A questa esigenza non poteva essere indifferente l’ordinamento penale, quando la presunzione di pericolosità sottesa alla misura di sicurezza «inerisca non alla cosa illecita in sé ma alla relazione che la lega al soggetto che ha commesso il reato».

La dottrina sintetizzava: «il legislatore non può fissare una norma che regoli i casi di collisione tra procedure concorsuali e confisca facoltativa. Troppe sono le variabili in gioco. La soluzione […] non è questione di fact né di law: è questione di discretion» (122).

Fin qui la soluzione del contrasto rilevante nel caso devoluto.

Ma le sezioni unite andavano oltre e, in un obiter finalizzato a risolvere su più ampia scala il tormento esegetico, consideravano altre tipologie di sequestro.

Era simile alla soluzione adottata per il caso oggetto del ricorso quella suggerita per in relazione al caso del sequestro impeditivo (art. 321, comma 1, cod. proc. pen.).

Le sezioni unite dissentivano sia dall’approccio che ravvisava nella procedura concorsuale un’ipotesi di superamento delle condizioni di applicabilità della misura, sì da implicarne automaticamente la revoca (art. 321, comma 3, cod. proc. pen.); sia da quello che rigidamente escludeva l’idoneità della procedura concorsuale a costituire sede di realizzazione della finalità preventiva.

A giudizio delle sezioni unite, anche in questo caso, non sono giustificate soluzioni astratte: «il giudice ben può disporre l’applicazione, il mantenimento o la revoca del sequestro previsto dall’art. 321, comma 1, cod. proc. pen., senza essere vincolato dagli effetti di cui all’art. 42 l. fall.».

Il giudice dovrà bilanciare i motivi della cautela con le ragioni attinenti alla tutela dei legittimi interessi dei creditori, considerando il concreto svolgimento della procedura concorsuale.

All’esito di detta valutazione, il bene potrà anche essere restituito all’ufficio fallimentare, ferma restando la possibilità di una nuova applicazione della misura cautelare reale nei casi in cui riacquisti attualità il pericolo del suo uso a fini di reiterazione del reato o di aggravamento delle sue conseguenze.

Un puro schema funzionalistico governava la soluzione degli altri casi.

Il sequestro conservativo (art. 316 cod. proc. pen.) soccombe sempre alla procedura concorsuale perché risponde esclusivamente a una finalità di tutela del credito. Ed allora, in quanto strumentale e prodromico ad una esecuzione individuale nei confronti del debitore ex delicto (obbligazioni civili da reato e pena pecuniaria) o ex processo (spese processuali e debiti verso l’erario), rientra, in caso di fallimento dell’obbligato, nell’area operativa del divieto di cui all’art. 51 l. fall., secondo cui dal giorno della dichiarazione di fallimento nessuna azione individuale può essere iniziata o proseguita sui beni compresi nel fallimento.

Sul polo opposto si situavano il sequestro probatorio e quello preventivo funzionale all’assicurazione della confisca obbligatoria.

Il primo prevale, sempre e comunque, sul fallimento perché opinare diversamente significherebbe sottrarre una prova al processo. Nel bilanciamento dei principi, la prevalenza non può che esser data all’accertamento della verità. Tanto più che il vincolo del sequestro probatorio è temporaneo e non pregiudica definitivamente la massa passiva.

Il secondo è insensibile alla procedura concorsuale per due ordini di ragioni.

La prima attiene alla presunzione assoluta sottesa alla scelta legislativa di configurare l’ablazione come obbligatoria, che elide per il giudice qualsiasi spazio di discrezionalità: «la valutazione che viene richiesta al giudice della cautela reale sulla pericolosità della cosa non contiene margini di discrezionalità, in quanto la res è considerata pericolosa in base ad una presunzione assoluta: la legge vuole escludere che il bene sia rimesso in circolazione, sia pure attraverso l’espropriazione del reo, sicché non può consentirsi che il bene stesso, restituito all’ufficio fallimentare, possa essere venduto medio tempore e il ricavato distribuito ai creditori».

La seconda richiama l’analisi di scopo che caratterizza l’intera decisione e fa perno sull’intrinseca e oggettiva pericolosità della cosa, di norma sottoposta alla confisca obbligatoria:

«Le finalità del fallimento non sono in grado di assorbire la funzione assolta dal sequestro: la vocazione strumentale rispetto al processo è attenuata e prevale l’esigenza preventiva di inibire l’utilizzazione di un bene intrinsecamente e oggettivamente pericoloso in vista della sua definitiva acquisizione da parte dello Stato. Le ragioni di tutela dei terzi creditori sono destinate ad essere pretermesse rispetto alla prevalente esigenza di tutela della collettività». Le due parti della giustificazione figuravano nella sentenza in esame come segmenti di un unico ragionamento.

Da questa impostazione discendeva il pieno e incondizionato riconoscimento della legittimazione del curatore a contrastare il sequestro penale imposto sui beni già compresi nell’attivo fallimentare o suscettibili di essere ad esso acquisiti.

In quanto ausiliario di giustizia connotato da terzietà, il curatore del fallimento «è sicuramente legittimato a proporre sia l’istanza di riesame del provvedimento di sequestro preventivo sia quella di revoca della misura, ai sensi dell’art. 322 c.p.p. (nonché a proporre ricorso per Cassazione, ex art. 325 c.p.p., avverso le relative ordinanze emesse dal Tribunale per il riesame). Egli, invero, agisce in tal modo (previa rituale autorizzazione del giudice delegato), per la rimozione di un atto pregiudizievole ai fini della reintegrazione del patrimonio, attendendo alla sua funzione istituzionale rivolta alla ricostruzione dell’attivo fallimentare».

3. Il precedente Uniland: il disconoscimento della legittimazione del curatore come riflesso della centralità conferita ai diritti dominicali nel sistema di tutela dei terzi.

Nel 2014, le Sezioni Unite affrontavano un sequestro disposto ai sensi degli artt. 19-53 d.lgs. n. 231 del 2001.

Come anticipato, il primo aspetto della controversia interpretativa focalizzava un nodo problematico dell’indicazione fornita dall’obiter della sentenza Focarelli dedicato ai rapporti tra sequestro finalizzato alla confisca obbligatoria e procedura fallimentare.

Si trattava di stabilire se il sequestro destinato a prevalere in ogni caso sul vincolo fallimentare fosse soltanto quello inteso ad assicurare la confisca di cose in sé pericolose, secondo il modello codicistico dell’art. 240 cod. pen., come pareva desumersi da quella parte della motivazione che abbiamo sopra definito analisi di scopo (123); o se, invece, doveva ritenersi dirimente la presunzione assoluta formulata da legislatore sottraendo al giudice qualsiasi margine di valutazione discrezionale, nel qual caso il sequestro finalizzato alla confisca all’ente - essendo quest’ultima configurata come sanzione obbligatoria - avrebbe dovuto rimanere insensibile alla procedura fallimentare (124).

Aderendo ad una delle opzioni in campo, le Sezioni Unite avrebbero potuto risolvere la controversia concentrandosi sulla natura obbligatoria e sanzionatoria della confisca ex art. 19 d. lgs. n. 231 del 2001, dalla quale sarebbe stato possibile far derivare «la regola […] che i creditori del fallito non possono ottenere soddisfazione su una somma di denaro ottenuta illecitamente grazie all’attività costituente reato» (125).

Ed invece quel Collegio elaborò una soluzione più articolata che, senza disconoscere la funzione istituzionale del curatore, né la necessità di salvaguardia dei diritti dei creditori terzi rispetto alla vicenda penale che sta alla base del sequestro, differiva la tutela di questi ultimi al momento conclusivo della procedura fallimentare.

Giocava un ruolo centrale, in quella ricostruzione, la disposizione dell’art. 19 d. lgs. n. 231 del 2001, e in particolare la clausola di salvaguardia dei diritti acquisiti dai terzi in buona fede che, secondo la Corte, esigerebbe la titolarità del diritto di proprietà o di un diritto reale sui beni passibili di apprensione in sede penale.

«[…] l’espressione letterale usata dal legislatore e la logica del sistema, che vuole salvaguardare, dal sequestro prima e dalla confisca poi, provvedimenti che intendono ristabilire l’ordine economico turbato dalla illecita attività dell’ente, soltanto i diritti dei terzi gravanti sui beni oggetto dell’apprensione da parte dello Stato, rendono certi che salvaguardato è il diritto di proprietà del terzo acquisito in buona fede, oltre agli altri diritti reali insistenti sui predetti beni, mobili o immobili che siano. Del resto, la norma non parla di salvaguardia dei diritti di credito eventualmente vantati da terzi proprio perché si intendono salvaguardare soltanto i beni, che seppure siano provento di illecito, appartengano - "cose appartenenti", secondo l’espressione usata dall’art. 240, terzo comma, cod. pen. - a terzi estranei al reato, o meglio all’illecito commesso dall’ente» (p. 19 s.).

Sennonché di un tale diritto non sono titolari i creditori, almeno fino a quando la procedura fallimentare non si sia conclusa con l’approvazione del piano di riparto e l’assegnazione dei beni, e non è titolare il curatore che ne rappresenta gli interessi.

«È, infatti, evidente che coloro che si insinuano nel fallimento vantando un diritto di credito non possono essere ritenuti per tale solo fatto titolari di un diritto reale sul bene ai sensi e per gli effetti previsti dall’art. 19 del decreto sulla responsabilità degli enti, perché sarà proprio con la procedura fallimentare che, sulla scorta delle scritture contabili e degli altri elementi conoscitivi propri della procedura, si stabilirà se il credito vantato possa o meno essere ammesso al passivo fallimentare. Il curatore, nel contempo, individuerà tutti i beni che debbono formare la massa attiva del fallimento, arricchendola degli eventuali esiti favorevoli di azioni revocatorie, e soltanto alla fine della procedura si potrà, previa vendita dei beni ed autorizzazione da parte del giudice delegato del piano di riparto, procedere alla assegnazione dei beni ai creditori. È soltanto in questo momento che i creditori potranno essere ritenuti titolari di un diritto sui beni che potranno far valere nelle sedi adeguate (p. 24)» (126).

Da tale premessa discendeva che la tutela degli interessi della par condicio creditorum interferenti con il vincolo penale non poteva che essere differita a tale momento, quando il curatore aveva ormai esaurito il suo compito e la legittimazione ad agire non poteva spettare che ai creditori assegnatari o agli eventuali acquirenti dei beni:

«La sede adeguata ove far valere i diritti del terzo non potrà essere, nella ipotesi dinanzi indicata, che quella dell’incidente di esecuzione. Infatti, come si è già notato, il legislatore ha demandato al giudice penale che deve disporre il sequestro dei beni ex art. 19 d.lgs n. 231 del 2001 e/o la confisca degli stessi l’onere di salvaguardare i diritti dei terzi acquisiti in buona fede; quindi è il competente giudice della cognizione penale che prima di disporre il sequestro e/o la confisca dovrà valutare se la titolarità del bene sia stata acquisita dal terzo in buona fede. Quando, però, sia stata pronunciata sentenza definitiva di condanna dell’ente e sia stata disposta la confisca dei beni appartenenti allo stesso, il giudice competente a decidere sulla istanza del terzo non potrà che essere il giudice dell’esecuzione penale, che, ai sensi degli artt. 665 e s. cod. proc. pen., è chiamato a risolvere, su istanza delle parti interessate, tutte le questioni che attengono alla esecuzione dei provvedimenti giudiziari definitivi» (p. 25).

Non era dunque negata la funzione pubblicistica della procedura fallimentare e del curatore. Su questi aspetti, la decisione Uniland è perfettamente in linea con il precedente:

«Il vincolo apposto sui beni del fallito a seguito della apertura di una procedura concorsuale ha una indubbia rilevanza pubblica, come del resto è lecito desumere dalla relazione ministeriale alla legge fallimentare, perché mira a spossessare il fallito o la società fallita dei beni che costituiscono la garanzia patrimoniale del ceto creditorio, ad evitare ulteriori depauperamenti del patrimonio stesso, a garantire la par condicio creditorum. Si tratta di finalità di indubbio rilievo pubblicistico che meritano considerazione e tutela. Del resto, il curatore, come messo in evidenza dalla giurisprudenza civilistica oltre che da quella penale (vedi Sez. U, Focarelli del 2004, citata), non può essere considerato come un soggetto privato che agisca in rappresentanza o sostituzione del fallito e/o dei singoli creditori o del comitato dei creditori, ma deve essere visto come organo che svolge una funzione pubblica ed affianca il tribunale ed il giudice delegato per il perseguimento degli interessi dinanzi indicati. Si tratta, quindi, di procedure essenziali, con indubbi profili di interesse pubblico, per il raggiungimento dei fini innanzi precisati; di conseguenza anche il vincolo apposto sui beni del fallito in occasione dell’apertura di una procedura concorsuale è indispensabile e non può essere eluso» (§ 6.2).

Le questioni sono altre: la fede incondizionata nella possibilità di pacifica coesistenza dei due vincoli, che induce la Corte finanche a dubitare del concreto interesse del curatore a contrastare il sequestro penale che, in ultima analisi, garantisce la conservazione di quei beni sui quali, al termine della procedura fallimentare, i creditori potranno far valere i loro diritti; la connotazione «prevalentemente gestionale», anziché dominicale, del ruolo del curatore, che lo individua come soggetto non assimilabile ai terzi salvaguardati dall’art. 19 del d. lgs. n. 231 del 2001 (v. pag. 29 ss. della motivazione).

3.1. L’estensibilità del principio Uniland oltre l’ambito del sequestro “231”.

Nel caso devoluto alle Sezioni Unite nel 2019, il provvedimento impugnato ha per oggetto un sequestro disposto nei confronti di persone fisiche per violazioni tributarie (omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto), a fini di assicurazione della confisca diretta del profitto prevista dall’art. 12-bis d. lgs. 10 marzo 2000, n. 74.

Non sarebbe stato dunque applicabile, secondo la curatela ricorrente, il principio dettato nel 2014 per il diverso caso del sequestro per equivalente nei confronti dell’ente, nei cui confronti, tra l’altro, mai potrebbe configurarsi una responsabilità da reati tributari, non essendo questi ultimi compresi nel catalogo di cui agli artt. 24 ss. del d. lgs. n. 231 del 2001.

Aderendo alla prospettiva della sezione remittente, le Sezioni Unite hanno però disatteso la proposta di distinguishing ritenendo, anche sotto questo profilo, ineludibile il confronto con il precedente.

Al di là del riferimento testuale all’art. 19 d. lgs. n. 231 del 2001 (sicuramente non estensibile al sequestro de quo), gli argomenti utilizzati nella decisione del 2014 impongono di ritenere quel diniego esteso all’intero ambito dei provvedimenti cautelari finalizzati a confisca, come già affermato in numerose decisioni (tra queste, Sez. 3, n. 23388 del 01/03/2016, Ivone, Rv. 267346-01).

In particolare, il Collegio ha segnalato il respiro extra-settoriale degli argomenti "civilistici" incentrati sulla carenza, in capo al curatore e al ceto creditorio da lui istituzionalmente tutelato, di un diritto dominicale, ritenuto essenziale per configurare la legittimazione. Altrettanto generali, in quanto riflesso dell’illustrata visione strutturale dei rapporti tra le due procedure, sono gli argomenti che indussero a dubitare dell’interesse concreto del medesimo a contrastare il vincolo penale:

«Nella sentenza Uniland si osservava infatti che la dichiarazione di fallimento non trasferisce alla curatela la proprietà dei beni del fallito, ma solo l’amministrazione e la disponibilità degli stessi. Se ne desumeva pertanto che nessun diritto reale su tali beni può essere riconosciuto al curatore, il quale ha unicamente compiti gestionali, mirati al soddisfacimento dei creditori; e si aggiungeva che il curatore neppure esercita diritti in rappresentanza dei creditori stessi, i quali, fino alla conclusione della procedura concorsuale, vantano una mera pretesa sui beni del fallito e non hanno quindi alcun titolo per la restituzione degli stessi. Ponendosi altresì in dubbio, nella sentenza indicata, che il curatore abbia un interesse concreto tutelabile ad opporsi a provvedimenti di sequestro e confisca che non recano effettivo pregiudizio alla integrità della massa fallimentare, la cui tutela è oggetto delle funzioni della curatela, dal momento che lo Stato può far valere il suo diritto sui beni solo alla conclusione della procedura e con la salvaguardia dei diritti dei creditori» (Par. 2. del considerato in diritto).

A ulteriore conferma della bontà della scelta di non sottrarsi al confronto con il precedente, potrebbe osservarsi che l’art. 53, comma 1 del d. lgs. n. 231 del 2001 (che certamente assumeva rilevanza nel caso Uniland), rinvia alle disposizioni del codice di rito in tema di sequestro preventivo e relative impugnazioni (artt. 322 e 322-bis c.p.p.), disposizioni delle quali la Corte aveva evidentemente fornito, nel 2014, una lettura riduttiva che non poteva non condizionare la soluzione del tema in relazione ad altre tipologie di sequestro a fini di confisca.

Per quanto poi specificamente attiene al sequestro finalizzato alla confisca per reati tributari, la giurisprudenza successiva al 2014 era più volte pervenuta alla conclusione che la tesi dell’insufficienza di una pretesa creditoria a fondare un diritto restitutorio e la connessa legittimazione processuale sarebbe stata, in detto contesto, persino più cogente che in quello del procedimento 231.

Mentre, infatti, l’art. 19 d. lgs., n. 231 del 2001 fa salvi i "diritti" acquisiti dai terzi di buona fede, l’art. 322-ter cod. pen. (così come il vigente art. 12-bis, comma 1, d. lgs. n. 74 del 2000, introdotto dal d. lgs. n. 158 del 2015) riferisce la salvaguardia ai beni che "appartengano" a persona estranea al reato.

Analogamente, Sez. 3, n. 28090 del 16/05/2017, Falcone, sempre in materia di confisca del profitto di un reato tributario (art. 10-bis d. lgs. n. 74 del 2000), affermava che la validità del principio Uniland (Rv. 263685) «deve essere a fortiori ribadita allorquando la dichiarazione di fallimento della società i cui beni siano stati colpiti dal provvedimento di sequestro sia successiva a quest’ultimo» e che - non potendo revocarsi in dubbio, nel caso di specie, la piena disponibilità dei beni al momento dell’esecuzione del sequestro da parte dell’indagato – detti beni non avrebbero certamente potuto essere inclusi nell’attivo di un fallimento non ancora dichiarato, il cui sopravvento comunque «non determina alcuna successione a titolo particolare del curatore al fallito, quantunque quest’ultimo perda per effetto della sentenza dichiarativa del fallimento l’amministrazione e il potere di disporre dei suoi beni».

4. I primi segnali di insoddisfazione della giurisprudenza per il principio Uniland: il riconoscimento della legittimazione del curatore a contrastare il sequestro successivo al fallimento.

Non hanno tardato a manifestarsi nella giurisprudenza successiva all’arresto nomofilattico del 2014, i segni dell’insoddisfazione per l’assetto delineato da quella pronuncia.

A meno di un anno dal deposito della decisione cominciava a delinearsi un indirizzo che temperava i rigori di quel principio, ammettendo la legittimazione del curatore a contrastare il sequestro, quando questo fosse stato disposto dopo la dichiarazione di fallimento.

Alle origini di questa linea interpretativa – del cui consolidamento danno conto tanto la sezione remittente quanto l’ultima pronuncia delle ultime Sezioni Unite (pag. 9 della motivazione) – sta un passaggio incidentale della sentenza Sez. 3, n. 42469 del 12/07/2016, Amista, Rv. 268015-01, attinente, così come il caso trattato nella sentenza Mantova Petroli s.p.a., a un sequestro preventivo disposto a fini di confisca del profitto dei reati di cui agli artt. 2 e 8 d. lgs. n. 74 del 2000.

In quella decisione si afferma:

«Il curatore fallimentare non è legittimato a proporre impugnazione avverso il provvedimento di sequestro preventivo, anche per equivalente, emesso anteriormente alla dichiarazione di fallimento di un’impresa, in quanto non è titolare di alcun diritto sui beni del fallito, né in proprio, né quale rappresentante dei creditori del fallito i quali, prima della conclusione della procedura concorsuale, non hanno alcun diritto restitutorio sui beni. (In motivazione la Corte ha precisato che la legittimazione per impugnare consegue alla effettiva disponibilità del bene e che, invece, la dichiarazione di fallimento successiva al sequestro non conferisce alla procedura la disponibilità dei beni del fallito in considerazione del fatto che, da un lato, questi ne conserva il diritto di proprietà e, dall’altro, che il pregresso vincolo penale assorbe ogni potere fattuale su tali beni, escludendo ogni disponibilità diversa sugli stessi)».

Muovendosi ancora nelle pieghe della motivazione Uniland, la Terza Sezione sosteneva che – dovendosi conferire alla nozione di disponibilità, nel settore delle cautele reali, «contenuto esclusivamente fattuale, corrispondente in sostanza all’istituto civile del possesso» - laddove il sequestro penale e la sua esecuzione precedono il fallimento, quest’ultimo non può acquisire la disponibilità dei beni caduti sotto il vincolo penale, «onde non può a tale potere fattuale aggrapparsi per conseguire una legittimazione ad impugnare il vincolo penale».

Se la carenza del possesso ha rilevanza decisiva per affermare che il curatore, oltre a non poter vantare una posizione di diritto restitutorio, non può neppure qualificarsi come «soggetto al quale le cose sono state (in fatto) sequestrate» (a termini degli artt. 322, 322-bis e 325 cod. proc. pen.), «il quadro finale avrebbe potuto forse essere diverso nel caso in cui il sequestro preventivo finalizzato a confisca avesse investita una massa attiva fallimentare

– essendo già stato dichiarato il fallimento ed avendo già il curatore preso in suo possesso gestorio i beni del fallito». In questo caso, la barriera del difetto di legittimazione potrebbe non riuscire a «districa(re) l’eventuale conflitto tra gli interessi salvaguardati a mezzo della sanzione penale della confisca e della cautela a essa prodromica da un lato e gli interessi inclusi nella procedura fallimentare dall’altro».

L’affermazione incidentale della sentenza Amista diveniva risolutivo principio di diritto nella decisione Sez. 3, n. 45574 del 29/05/2018, Evangelista, Rv. 273951-01: «In tema di reati tributari, il sequestro preventivo finalizzato alla confisca di cui all’art. 12-bis, d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, non può essere adottato sui beni già assoggettati alla procedura fallimentare, in quanto la dichiarazione di fallimento importa il venir meno del potere di disporre del proprio patrimonio in capo al fallito, attribuendo al curatore il compito di gestire tale patrimonio al fine di evitarne il depauperamento».

Non assumeva rilievo, nel caso di specie, il tema della legittimazione impugnatoria del curatore perché questa era stata riconosciuta dal Tribunale del riesame impugnato, che era però pervenuto al rigetto dell’appello sul presupposto della natura obbligatoria e sanzionatoria della confisca ex art. 12-bis d. lgs. n. 74 del 2000 cautelata con il sequestro di specie, dalla quale faceva discendere la prevalenza su ogni altra ragione dell’esigenza di «inibire l’utilizzazione di un bene in vista della sua definitiva acquisizione da parte dello Stato».

Secondo la Terza Sezione, il giudice territoriale era incorso in più d’un equivoco nell’applicazione dei principi dettati dalla sentenza Uniland ad un caso che si presentava radicalmente diverso, per il fatto di avere ad oggetto un sequestro disposto su beni già entrati nell’attivo fallimentare.

La preesistenza della procedura fallimentare imponeva – secondo la Corte - una diametrale inversione di prospettiva, «traducendosi in un ostacolo che relega ad un ruolo del tutto secondario la natura rivestita dalla confisca cui è finalizzato il sequestro», posto che l’indisponibilità dei beni in capo al fallito, posta a presidio degli interessi pubblicistici (gli stessi evidenziati dalla decisione Amista: «necessità che il tracollo dell’impresa non si estenda a macchia di leopardo ai soggetti che con questa abbiano avuto rapporti») non ne consente l’assoggettabilità al vincolo penale.

Si richiamava, quindi, la nozione di disponibilità quale potere di fatto sul bene, già costituito in capo all’ufficio fallimentare, con la sottolineatura della sufficienza di tale condizione di fatto a fondare la legittimazione processuale del curatore quale "persona alla quale le cose sono state sequestrate", legittimazione alla quale non poteva conseguire la negazione della tutela che il fallimento merita in quanto possessore terzo rispetto al reato.

Alcuni commentatori ravvisarono nel correttivo introdotto dalla decisione Amista un equilibrio accettabile, che peraltro recuperava una preziosa indicazione fornita dalla Corte costituzionale (Corte cost. n. 190 del 1994), quando aveva individuato proprio il criterio cronologico tra quelli che il legislatore avrebbe potuto praticare, per pervenire ad un assetto equilibrato dei rapporti tra i creditori concorsuali e la misura patrimoniale di prevenzione (127).

Era in effetti possibile leggere in questo orientamento un segnale di recuperata consapevolezza della centralità delle norme processuali specificamente dedicate all’impugnazione del sequestro, che erano state impropriamente svalutate dalla sentenza Uniland in favore della clausola di salvaguardia contenuta nell’art. 19 cit. (128).

Sulla scelta del parametro normativo e sulla sua interpretazione si erano del resto criticamente soffermati diversi commentatori della decisione.

Alcuni avevano segnalato la lettura arbitrariamente riduttiva del termine "diritti" impiegato nella clausola di salvaguardia dell’art. 19 del d.lgs. cit.:

«Dunque, secondo le Sezioni unite, poiché la norma parla solo di "diritti", senza specificare che si tratti di "diritti di credito", essa deve intendersi circoscritta ai soli "diritti reali". Il giurista vede dunque cadere un baluardo del diritto costituito dall’universale principio secondo il quale il legislatore ubi voluit dixit. In forza di esso qualora una norma intenda circoscrivere l’applicazione ad una limitata sfera di diritti, ciò deve essere esplicitamente previsto dovendosi, in mancanza di specificazione, ritenere la disciplina ovviamente estesa a tutti i diritti (di credito e di carattere reale)» (129).

Secondo altra prospettiva, invece, la delimitazione dei diritti salvaguardati nel caso di confisca obbligatoria ex art. 19 d. lgs. cit. era corretta, ma proprio per questa ragione la Corte non avrebbe dovuto fondare su quella disposizione la regolamentazione dei rapporti tra confisca e fallimento. Proprio perché ha riguardo esclusivamente a diritti reali, la disposizione non ha attinenza con il tema dei rapporti con la procedura fallimentare, nella quale vengono essenzialmente in gioco pretese creditorie. La sua funzione in questo contesto è, tutto sommato, residuale: potrebbe attagliarsi alla tutela del terzo che acquista il bene in sede fallimentare, prima ancora che sia stato apposto il vincolo del sequestro (130) o che, per ragioni legate alla tempistica delle trascrizioni, lo acquisti successivamente.

Il vero banco di prova della legittimazione del curatore avrebbe dovuto essere individuato negli artt. 322, 322-bis e 325 cod. proc. pen., valevoli anche nel caso del sequestro all’ente, in forza del richiamo operato dall’art. 53 d. lgs. n. 231 del 2001 (131).

4.1. . Il riconoscimento della legittimazione del curatore a impugnare il sequestro post-fallimentare e il principio di consecuzione delle procedure concorsuali.

Il consolidamento della linea esegetica appena esposta suggeriva al ricorrente la formulazione di un’altra proposta di sottrazione del caso particolare al dictum preclusivo del 2014.

Al tempo dell’imposizione del vincolo penale, i liquidatori della Mantova Petroli avevano già richiesto l’ammissione al concordato preventivo. Il principio di consecuzione delle procedure concorsuali avrebbe imposto, allora, di retrodatare gli effetti della sopravvenuta dichiarazione di fallimento ad un’epoca anteriore al sequestro. Ne sarebbe conseguita la possibilità di ricondurre la vicenda al principio che riconosce la legittimazione del curatore ad agire contro i vincoli penali apposti su beni già entrati nell’attivo fallimentare.

Anche questa proposta è stata respinta dalle Sezioni Unite.

Il principio di consecuzione, dice in sostanza il Collegio, risponde all’esclusiva finalità di individuare gli atti depauperativi della massa fallimentare passibili di revocatoria ai sensi dell’art. 67 l. fall., come risulta dal dato testuale dell’art. 69-bis, comma secondo, l. fall., a termini del quale, nel caso in cui alla domanda di concordato preventivo segua la dichiarazione di fallimento, i termini previsti per l’individuazione degli atti dispositivi soggetti ad azioni revocatorie, in quanto compiuti in un determinato periodo antecedente la declaratoria di fallimento, decorrono dalla data di pubblicazione della domanda di concordato nel registro delle imprese. In questa limitata accezione il principio è costantemente inteso dalle sezioni civili della Corte (Sez. 1 civ., n, 15724 del 11/06/2019, Rv. 654456; Sez. 1 civ., n. 25728 del 14/12/2016, Rv. 642756; Sez. 1 civ., n. 5924 del 14/03/2016, Rv. 639058; Sez. 1 civ., n. 2335 del 17/02/2012, Rv. 621348).

È la stessa giurisprudenza civilistica poi ad escludere l’assimilazione del concordato preventivo al fallimento, ai fini che qui interessano, quando afferma che il debitore ammesso al concordato preventivo subisce uno spossessamento attenuato dei suoi beni, nel senso che di essi mantiene non solo la proprietà, ma anche l’amministrazione e la disponibilità, sia pure con le limitazioni proprie di quella particolare procedura concorsuale (Sez. 5 civ., n. 4728 del 25/02/2008, Rv. 602013; Sez. 5 civ., n. 6211 del 16/03/2007, Rv. 597037).

La consapevolezza di questo dato induce, in ambito penale, l’affermazione per la quale «È legittimo il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente dei beni mobili ed immobili nella disponibilità dell’unico socio di una società ammessa al concordato preventivo, atteso che il debitore conserva l’amministrazione e la disponibilità dei beni nell’ambito della procedura» (Sez. 3, n. 13996 del 08/02/2012, Verlato, Rv. 252618 – 01) (132).

Rebus sic stantibus, non v’è margine di estensione analogica del principio affermato dalla giurisprudenza Amista al caso di sequestro successivo alla pubblicazione della domanda di ammissione al concordato preventivo:

«Proprio il passaggio dell’amministrazione e della disponibilità dei beni del fallito da quest’ultimo alla curatela, per effetto della dichiarazione di fallimento, costituisce infatti […] il presupposto dell’orientamento che attribuisce al curatore la legittimazione all’impugnazione dei provvedimenti di sequestro disposti successivamente a quella declaratoria; in mancanza del quale vengono meno i requisiti per il riconoscimento di tale legittimazione, secondo l’orientamento indicato, relativamente ai provvedimenti di sequestro emessi precedentemente alla dichiarazione di fallimento pur se di seguito a una pregressa domanda di ammissione del fallito al concordato preventivo, la quale non attribuisce alla curatela quel potere di fatto sui beni sequestrati che ne giustificherebbe la facoltà di impugnazione. Anche per il caso in esame, nel quale ricorrono le condizioni appena descritte, il principio affermato nella sentenza Uniland, pur se precisato dalla successiva giurisprudenza di cui si è detto, escluderebbe pertanto la legittimazione della curatela all’impugnazione che ha dato luogo all’ordinanza oggetto del ricorso in discussione».

5. Le fratture più profonde: il riconoscimento della legittimazione del curatore a impugnare anche sequestri disposti prima del fallimento.

Non sono mancati segnali di più radicale rottura con il principio dettato nel 2014, pronunce nelle quali, cioè, si ammise che, a prescindere dal rapporto cronologico tra sequestro e fallimento, occorreva verificare in concreto l’interesse del curatore, quale soggetto deputato all’amministrazione dei beni, a chiedere la revoca o ad impugnare il provvedimento cautelare (Sez. 3, n. 37439 del 07/03/2017, Cosentino; Sez. 6, n. 37638 del 13/02/2019, Fallimento Radio Tele Europa s.r.l.; Sez. 3, n. 17749 del 17/12/2018 – dep. 2019, Casa di cura Trusso s.p.a., Rv. 275453; Sez. 3, n. 47737 del 24/09/2018, Fallimento Paninvest s.p.a., Rv. 275438; Sez. 3, n. 45578 del 6/06/2018, Fallimento Laziale RE.MA.PRI. s.n.c.).

Alcune di queste pronunce riguardavano, invero, ipotesi particolari.

Nel caso Laziale RE.MA.PRI di Mencattini Floriano & c. s.n.c., per esempio, veniva in gioco la carenza del titolo genetico dell’apprensione: gli immobili caduti in sequestro appartenevano alla società, mentre il dispositivo di sequestro per equivalente menzionava i soli beni immobili e mobili registrati della persona fisica indagata. Ed allora la Corte ha ritenuto "del tutto esistente" la legittimazione del curatore «perché i beni, ove effettivamente vi sia l’assenza del titolo genetico, sono stati illegittimamente sottratti alla massa fallimentare e vi sarebbero entrati ove non fosse stato illegittimamente eseguito il sequestro».

Nel caso Fallimento Paninvest s.p.a., veniva in gioco la necessità per il curatore di dare esecuzione ad una sentenza passata in giudicato di revocatoria fallimentare, che aveva disposto la restituzione al fallimento di beni formalmente intestati ad una società schermo. Tale decisione, a giudizio della Corte, fondava di per sé il diritto del curatore alla restituzione dei beni, a termini dell’art. 322 cod. proc. pen.

Al di là della peculiarità dei casi, era però inequivocabile nella motivazione di queste e delle altre pronunce ascrivibili al medesimo filone un dissenso di metodo (ora dissimulato, ora più esplicito) rispetto al ragionamento svolto nella sentenza n. 11170 del 2015.

6. La questione rimessa alle Sezioni Unite nel 2019 e la lettura dell’art. 618, comma 1-bis, cod. proc. pen.

Il tenore delle ultime decisioni richiamate nel paragrafo precedente è risultato evidentemente troppo stridente con il principio enunciato dalla sentenza Uniland e perciò la Terza Sezione (133) ha rimesso alle Sezioni Unite la questione vertente sul «Se il curatore fallimentare sia legittimato a chiedere la revoca del sequestro preventivo a fini di confisca e ad impugnare i provvedimenti in materia cautelare reale quando il vincolo penale sia stato disposto prima della dichiarazione di fallimento».

La rimessione è avvenuta ai sensi dell’art. 618-comma 1-bis, cod, proc. pen., disposizione introdotta dall’art. 1, comma 66, legge 23 giugno 2017, n. 103, che impone la re-investitura del Collegio nomofilattico, ogniqualvolta una sezione della corte ritenga di non condividere il principio di diritto enunciato in precedenza dal medesimo organo.

La sezione remittente condivideva evidentemente l’indirizzo secondo il quale l’ipotesi di rimessione obbligatoria deve trovare applicazione anche con riferimento ai principi enunciati in decisioni intervenute prima dell’entrata in vigore della nuova disposizione (134).

Implicitamente aderendo a questa lettura, la decisione Fall. Mantova Petroli aggiunge che la necessità di propiziare il nuovo intervento nomofilattico non viene meno nel caso in cui il precedente dictum investa un tema che – come nel caso di specie -non costituiva diretto oggetto della questione interpretativa in precedenza devoluta. Quello che conta è che, sia pure «nello sviluppo dell’argomentazione», il precedente abbia fornito una «precisa indicazione di principio», «nell’ottica del cui superamento si giustifica la rimessione della relativa questione secondo la previsione dell’art. 618, comma 1-bis, cod. proc. pen.» (pag. 8 del considerato in diritto).

7. Le ragioni del cambio di rotta.

Il percorso motivazionale del Collegio può essere strutturato secondo una scansione che ricalca la tematizzazione dottrinaria della questione.

Era comune ai diversi commentatori della sentenza Uniland l’individuazione dei seguenti nodi critici:

a) l’amputazione interpretativa dei dati testuali degli artt. 322, 322-bis, 325 cod. proc. pen.;

b) la sostanziale sottovalutazione dei munera ad officium conferiti dalla legge fallimentare al curatore e della loro incidenza sul tema della sua abilitazione ad avversare il sequestro;

c) l’inconsistenza del "dubbio" palesato dalle Sezioni Unite del 2014 sull’interesse concreto e giuridicamente tutelabile del curatore ad impugnare.

7.1. 1. La centralità degli artt. 322, 322-bis e 325 cod. proc. pen. e la distinta fisionomia dell’avente diritto alla restituzione.

È determinante, nel ragionamento sviluppato dalla sentenza Mantova Petroli, il dato certo di carattere normativo desumibile dalle norme processuali dedicate specificamente al tema dell’impugnazione dei provvedimenti cautelari reali, a partire da quella che regola l’appello avverso le ordinanze di sequestro preventivo (art. 322-bis cod. proc. pen.), la procedura sulla quale si era innestato il ricorso de quo.

La disposizione attribuisce la legittimazione - oltre che al pubblico ministero, all’imputato e al suo difensore – anche alla «persona alla quale le cose sono state sequestrate e quella che avrebbe diritto alla loro restituzione». Nello stesso modo si esprimono l’art. 322, in materia di riesame del decreto di sequestro preventivo e l’art. 325, a proposito del ricorso per cassazione avverso le ordinanze che decidono nelle procedure di riesame e di appello.

Da questa formulazione – dice la Corte - risulta evidente la non sovrapponibilità della categoria soggettiva “persona alla quale le cose sono state sequestrate” a quella “persona che avrebbe diritto alla loro restituzione”.

Si tratta di «soggetti diversi e non coincidenti. L’avente diritto alla restituzione, come riconosciuto dalla giurisprudenza di legittimità, può essere individuato in una persona diversa da quella cui il bene è stato sequestrato (Sez. 2, n. 51753 del 03/12/2013, Casella, Rv. 257359; Sez. 2, n. 39247 del 08/10/2010, Gaias, Rv. 248772)». La sua distinta fisionomia è chiaramente definita dalle decisioni che lo individuano quale soggetto portatore di un proprio interesse meritevole di tutela (Sez. 6, n. 2599 del 27/05/1994, Della Volta, Rv. 199051), che può discendere anche da un rapporto di fatto con il bene, non essendo necessaria la titolarità del diritto reale che, invece, caratterizza la nozione di «persona alla quale le cose sono state sequestrate».

Si è per tal via riconosciuta la legittimazione a impugnare dei possessori e dei detentori qualificati dei beni caduti in sequestro, come il conduttore di un immobile (Sez. 3, n. 26196 del 22/04/2010, Vicidomini, Rv. 247693) o il promissario acquirente già immesso nel possesso del bene (Sez. 3, n. 42918 del 22/10/2009, Soto, Rv. 245222).

7.2. Il curatore fallimentare titolare di una disponibilità autonoma e giuridicamente tutelata dei beni fallimentari. Conseguenze in tema di opponibilità del giudicato cautelare.

Alla tipologia di rapporto appena definita appartiene la relazione del curatore con i beni del fallimento, quale si può desumere dalle disposizioni della legge fallimentare che ne definiscono la missione istituzionale e le prerogative.

La giurisprudenza civilistica del resto – notano le Sezioni Unite - qualifica esplicitamente il curatore come detentore dei beni del fallimento (Sez. 2 civ., n. 16853 del 11/08/2005, Rv. 585055). E si tratta senz’altro di una detenzione qualificata, anche per il carattere pubblicistico della funzione per la quale la stessa è attribuita.

È inevitabile il richiamo degli artt. 42, comma 1 e 43 l. fall.

In altre decisioni anticipatrici della svolta si erano individuati ulteriori referenti normativi negli artt. 31, 51 e 240 l. fall.:

«Più in particolare, il curatore, che cumula la legittimazione ad agire che gli deriva dalla gestione patrimoniale degli affari del fallito e la legittimazione ad agire che gli deriva dalla rappresentanza degli interessi patrimoniali dei creditori che, ai sensi dell’art. 51 l. fall., non possono iniziare o proseguire azioni esecutive individuali, ma devono sottoporre la loro pretesa all’accertamento degli organi fallimentari secondo le regole proprie del concorso, è un soggetto che:

a) ai sensi dell’art. 31 l. fall., ha l’amministrazione del patrimonio fallimentare e compie tutte le operazioni della procedura sotto la vigilanza del giudice delegato e del comitato dei creditori, nell’ambito delle funzioni ad esso attribuite, stando in giudizio con l’autorizzazione del giudice delegato, salvo che in alcuni casi specificati dalla legge; b) ai sensi dell’art. 42 l. fall., a seguito della sentenza che dichiara il fallimento, ha l’amministrazione e la disponibilità dei beni del fallito esistenti alla data della dichiarazione di fallimento, a meno che il curatore, previa auto-rizzazione del comitato dei creditori, non abbia rinunciato alla relativa acquisizione; c) ai sensi dell’art. 43 l. fall., sta in giudizio nelle controversie, anche in corso, relative ai rapporti patrimoniali del fallito, il quale può intervenire in giudizio personalmente solo per le questioni dalle quali può dipendere un’imputazione di bancarotta a suo carico o se l’intervento è previsto dalla legge (o, va aggiunto, se il curatore ha mostrato disinteresse rispetto a quella lite, per esempio l’impugnativa di un avviso di accertamento tributario o di una cartella esattoriale); d) ai sensi dell’art. 240 l. fall. può costituirsi parte civile nel procedimento per bancarotta fraudolenta a carico del fallito con la puntualizzazione che, laddove abbia manifestato il relativo disinteresse, alla costituzione possono provvedere i creditori in proprio, i quali hanno sempre e comunque una legittimazione autonoma allorquando intendano far valere un titolo di azione propria personale» (Sez. 3, n. 37439 del 07/03/2017, Cosentino; ripresa da Sez. 3, n. 17749 del 17/12/2018, Casa di cura Trusso s.p.a. in liquidazione, Rv. 275453).

Quello che conta però è la sottolineatura della strumentalità dell’acquisizione della disponibilità dei beni del fallito da parte degli organi della procedura fallimentare e la funzione di amministrazione della massa attiva nella prospettiva della conservazione della stessa ai fini della tutela dell’interesse dei creditori e la connessione tra il profilo sostanziale e quello processuale della rappresentanza in giudizio, ex art. 43 l. fall., dei rapporti di diritto patrimoniale compresi nel fallimento (Sez. 2 civ., n. 11737 del 15/05/2013, Rv. 626734).

Si tratta di affermazioni in piena sintonia con la dottrina, che aveva sottolineato come l’impropria esaltazione del profilo dominicale avesse determinato nel 2014 la svalutazione degli, invece decisivi, munera gestori del curatore:

«[…] contrariamente a quanto affermato [dalle sentenze Uniland e n. 23388/16, n.d.e.], sarebbero proprio il ruolo svolto dal curatore e le funzioni a questo connesse a fondare la sua legittimazione ad impugnare il provvedimento cautelare. Tale legittimazione sarebbe infatti collegata a quelli che – come pacificamente riconosciuto – sono i suoi poteri/doveri di gestione e di amministrazione del patrimonio fallimentare, non dovendo essere confuso con il diritto da cui gli deriva la titolarità dei beni del fallimento o con la rappresentanza degli interessi dei singoli creditori. Il ruolo del curatore ha ad oggetto la gestione dei beni dell’attivo fallimentare nell’interesse della procedura e si svolge sotto il controllo del giudice delegato e del comitato dei creditori, così come stabilito dalla disciplina di riferimento contenuta negli artt. 31 e 43 l. fall. Proprio in virtù di tale ruolo, quindi, il curatore può e deve disporre dei beni fallimentari nell’interesse dei creditori concorsuali, ancorché sotto la vigilanza […]. L’apposizione del vincolo cautelare sui beni fallimentari, lungi dal rafforzare la garanzia dei creditori, che anzi ne risultano danneggiati, impedisce quindi al curatore lo svolgimento di quella funzione gestionale oggetto del suo ruolo pubblico. Il sequestro priva infatti il curatore della possibilità di disporre dei beni fallimentari e quindi di amministrare nei termini descritti, così ledendo il suo diritto/dovere di derivazione pubblicistica. […]. L’interesse del curatore ad impugnare sarebbe pertanto legato al carattere gestorio del suo ruolo e alla situazione di stallo determinata dall’apposizione del vincolo reale, lesivo del diritto alla ripartizione pro quota dell’attivo vantato dai creditori concorsuali» (135);

«[…] la legittimazione del curatore a partecipare al procedimento incidentale cautelare […] deriva non già dal riconoscimento a tale organo della qualità, prevista dall’art. 19 d. lgs. n. 231 del 2001, di terzo titolare di diritti acquisiti in buona fede (qualità eventualmente facente capo al creditore), ma dalla funzione esercitata nella procedura concorsuale» (136).

Discende logicamente da questo passaggio argomentativo un’ulteriore conseguenza.

Uno dei motivi di ricorso contestava il passaggio della decisione impugnata nel quale il Tribunale, investito dalla curatela in sede d’appello cautelare, riteneva precluse alcune questioni, per essersi sulle stesse già espresso in un provvedimento, non impugnato, emesso a seguito del riesame proposto dal legale rappresentante della società, riesame al quale la curatela era rimasta estranea.

L’autonomia della legittimazione del curatore e delle sue ragioni sostanziali – dice la Corte (§ 10) – impedisce una tale soluzione:

«Una volta ritenuta l’autonoma legittimazione della curatela all’impugnazione dei provvedimenti in materia di sequestro, la decisione sull’istanza di riesame del sequestro proposta dalla Mantova Petroli, pronunciata in un giudizio al quale la curatela era estranea, non può considerarsi in alcun modo preclusiva dell’impugnazione del curatore, intesa a far valere le diverse ragioni attinenti al rapporto fra il vincolo penale sotteso al sequestro e quello derivante dalla procedura fallimentare, evidentemente estranee al giudizio di riesame attivata dalla società dichiarata fallita».

7.3. L’interesse concreto del curatore a contrastare il sequestro.

È a questo punto aperta la strada per il superamento del dubbio palesato dalla decisione Uniland sulla configurabilità di un interesse concreto del curatore a reagire all’imposizione del sequestro penale.

«È assai dubbio – si leggeva nei passaggi finali della motivazione - che il curatore fallimentare possa avere un interesse concreto giuridicamente tutelabile ad opporsi ai provvedimenti di sequestro e confisca, perché la massa fallimentare, la cui integrità il curatore è tenuto a garantire, non subisce alcun pregiudizio da tali provvedimenti, in quanto lo Stato, come si è posto in evidenza, potrà far valere il suo diritto sui beni sottoposti a vincolo fallimentare, salvaguardando i diritti riconosciuti ai creditori, soltanto a conclusione della procedura».

L’osservazione rivelava l’approccio ideologico, secondo il quale «i due vincoli possono coesistere e […] l’uno non ostacola l’altro, anzi, sotto certi profili, si può dire che il sequestro prima e la confisca poi tutelano in misura rafforzata gli interessi del ceto creditorio» (pag. 23).

Per le Sezioni Unite del 2019, al contrario, proprio la circostanza che il curatore «si appalesa anche in termini di fatto come l’unico soggetto destinatario dell’eventuale restituzione del bene, nelle sue funzioni di rappresentanza del fallimento e di amministrazione del relativo patrimonio» e che a lui faccia capo la funzione di salvaguardia della massa fallimentare «non consente […] di escludere l’attualità di un siffatto interesse nella rimozione di vincoli comunque potenzialmente incidenti sulla valutazione della consistenza patrimoniale dell’attivo».

Sembrano così convalidate dall’ultima pronuncia alcune proposizioni dell’ordinanza di rimessione e di quella giurisprudenza che, discostandosi dalle affrettate generalizzazioni della decisione Uniland, aveva propugnato un metodo di verifica caso per caso, alla stregua del quale ben potevano darsi casi nei quali il curatore fosse l’unico soggetto concretamente interessato a contrastare il sequestro.

Nell’esposizione delle ragioni di dissenso dal principio Uniland, la Terza Sezione segnalava che il mancato riconoscimento della legittimazione ad impugnare del curatore priva il ceto creditorio di concreta tutela «quando il sequestro grava su beni in relazione ai quali è ragionevole contestare la legittimità di una eventuale confisca» e che ad una tale contestazione il debitore potrebbe non essere in concreto interessato, «ad esempio, perché gravato da enormi passività», con la conseguenza che «l’insussistenza dei presupposti per disporre l’ablazione sarebbe rimessa esclusivamente al rilievo officioso del giudice».

Nella decisione Sez. 3, n. 37439 del 07/03/2017, Cosentino (v. supra par. 5) si legge: «Quanto all’interesse ad impugnare, l’idea secondo la quale l’interessato coincida sempre con l’indagato o con la società fallita è tutta da verificare in concreto, perché, allorquando sui beni siano apposti plurimi vincoli, è ben possibile che l’indagato non abbia alcun interesse, mentre la curatela ne abbia molteplici, sicché negarle seccamente la legittimazione, sulla base di una tralaticia applicazione del principio della sentenza Uniland finisce per negare la tutela dell’avente diritto. Per contro, generalizzare la legittimazione del curatore all’impugnativa, negandola all’indagato o al legale rappresentante della società fallita pure conduce ad un diniego di tutela quando la curatela abbia dimostrato disinteresse per quell’azione giudiziale».

In Sez. 3, n. 17749 del 17/12/2018, Casa di cura Trusso s.p.a. in liquidazione, Rv. 275453 (pag. 6 s.) si osservava poi che la salvaguardia delle esigenze di tutela della massa fallimentare, ove si fosse optato per la pedissequa applicazione del principio Uniland, «potrebbe essere rimessa alla non certa volontà ora dell’indagato ora, laddove si tratti di persona diversa, di colui che era il legale rappresentante della società fallita (il cui interesse alla conservazione della integrità della massa fallimentare è, tuttavia, assai meno pressante di quello riscontrabile in capo al soggetto incaricato di gestirla e di portarla, nella misura più ricca possibile, al soddisfacimento, all’esito della procedura concorsuale, delle istanze restitutorie del "ceto creditorio") anche nel caso in cui il provvedimento cautelare reale fosse stato, in ipotesi, emesso in assenza delle condizioni, delle forme e nella misura che lo avrebbero potuto giustificare e, pertanto, anche nel caso in cui lo stesso fosse del tutto illegittimo».

Il principio del diniego generalizzato della legittimazione del curatore – si aggiungeva - doveva confrontarsi con l’ipotesi concreta che non fosse chiaramente ravvisabile «un reale interesse nei soggetti ritenuti legittimati ad impugnare la misura, considerato che costoro non si gioverebbero, o comunque si gioverebbero solo in via subordinata rispetto al fallimento, dell’eventuale accoglimento della loro richiesta impugnatoria».

7.3.1. Le disfunzioni superate dalla decisione Mantova Petroli.

Il rifiuto della pregiudiziale esclusione di un interesse del curatore ad agire contro il sequestro penale disposto sui beni già entrati o suscettibili di essere attratti all’attivo fallimentare risolve le gravi aporie logiche e funzionali segnalate dalla dottrina.

Si era osservato che l’esclusione di una tutela preventiva dei beni che dovrebbero poi essere attratti nell’attivo e la conseguente estromissione del curatore dal rimedio cautelare innescava un circolo vizioso:

«Basti pensare come l’assoggettamento dei beni del fallito al sequestro precluda la loro vendita e dunque la trasformazione della massa attiva in somme di denaro da ripartire ai creditori all’esito della liquidazione. In altre parole, è impedito, dalla cautela reale, così come dalla sanzione della confisca, lo stesso verificarsi della circostanza che, secondo la pronuncia annotata, funge da presupposto affinché scatti in capo ai creditori la titolarità di diritti tutelabili in sede penale, oltre che in sede concorsuale. Anche in vista della tutela dei suddetti interessi della massa dei creditori opera il curatore fallimentare. Questa figura, in qualità di parte, ancorché sui generis, del procedimento concorsuale, esercita poteri (processuali) preordinati alla tutela "finale" dei singoli creditori. Tali situazioni soggettive sono accertate tramite la procedura concorsuale e, per essere soddisfatte, richiedono di essere garantite nella sede penale, per così dire, in via preventiva, attraverso la eliminazione dei vincoli giuridici che, come il sequestro, risultano idonei a pregiudicare il riparto dell’attivo fallimentare» (137).

I risvolti disfunzionali della soluzione si avvertivano particolarmente nel caso di sequestro di aziende e compendi produttivi, quando si fosse configurata l’opportunità di proseguire l’attività ai sensi dell’art. 104 l. fall.

La sentenza Uniland prefigurava, per tale ipotesi, l’applicazione della disposizione prevista dall’art. 53, comma 1-bis, d. lgs. n. 231 del 2001, secondo la quale in caso di sequestro (ex art. 19 del decreto citato) di società, aziende e beni il custode amministratore giudiziario ne consente l’utilizzo e la gestione agli organi societari esclusivamente al fine di garantire la continuità e lo sviluppo aziendali, concludendo: «Ebbene, quando la società venga dichiarata fallita e gli organi societari vengano sostituiti nella gestione patrimoniale dal curatore fallimentare, è a quest’ultimo che il custode giudiziario consentirà l’utilizzo e la gestione dei beni aziendali; il curatore, che tra i suoi compiti ha anche quello di preservare il patrimonio societario, gestirà lo stesso secondo le norme previste dalla legge fallimentare» (p. 25).

Ora la soluzione immaginata, quand’anche giuridicamente praticabile (138), avrebbe comportato «un’anomala subordinazione del curatore fallimentare rispetto al custode giudiziario nominato in sede di sequestro preventivo, con tutta una serie di potenziali conflitti anche tra le diverse decisioni, in merito alle modalità ed alla prosecuzione della gestione, che potrebbero insorgere tra il giudice penale che ha disposto il sequestro ed il giudice delegato che sovrintende alla procedura fallimentare» (139).

Ma, in realtà, anche nell’ipotesi in cui ricada sul denaro, il sequestro determina un blocco della procedura concorsuale, che il curatore avrebbe il dovere di scongiurare. Anche in questo caso, infatti, «sussiste l’interesse ad eliminare un vincolo che, precludendo la soddisfazione dei creditori in seguito al riparto dell’attivo, impedisce il raggiungimento di uno degli obiettivi della procedura concorsuale. Il pagamento dei creditori rientra tra i compiti del curatore fallimentare» (140).

E comunque restava incongrua la differente valutazione, nella pronuncia del 2014, del ruolo dei creditori uti singuli e del curatore che rappresenta la par condicio (141); ed era evidente la farraginosità del meccanismo che imponeva ai creditori concorsuali di fare i conti con due procedure che «dovrebbero sostanzialmente rincorrersi reciprocamente, avendo l’una conseguenze sull’altra» (142).

7.4. 4. Le conclusioni delle Sezioni Unite e l’art. 320 del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza.

Una volta abbattuti i cardini argomentativi del dictum precedente, la conclusione delle Sezioni Unite non può che essere quella dell’incondizionato riconoscimento della legittimazione dell’organo fallimentare. Non ha fondamento – dice la Corte - la limitazione della legittimazione del curatore alle impugnazioni riguardanti beni sequestrati successivamente alla dichiarazione di fallimento, prospettata dall’indirizzo giurisprudenziale formatosi successivamente alla sentenza Uniland.

«La legittimazione all’impugnazione del curatore, in quanto derivante dalla sua posizione di soggetto avente diritto alla restituzione dei beni sequestrati, investe necessariamente la totalità dei beni facenti parte dell’attivo fallimentare. Ciò corrisponde peraltro al dato normativo rinvenibile nel già rammentato contenuto dell’art. 42 legge fall., per il quale la dichiarazione di fallimento, privandone il fallito, conferisce alla curatela la disponibilità di tutti i beni di quest’ultimo esistenti alla data del fallimento; e quindi anche di quelli già sottoposti a sequestro. Non può pertanto essere impedito al curatore di far valere le ragioni della procedura fallimentare con riguardo a tali beni, essi pure facenti parte dell’attivo fallimentare entrato nella disponibilità della curatela, avverso il vincolo apposto sugli stessi».

La soluzione recepisce l’auspicio formulato in un’annotazione dell’ordinanza di rimessione, nella quale si raccomandava un riassetto ermeneutico conformato al principio di proporzionalità e al bilanciamento assiologico imposto dalla materia, tale da rifuggire da qualsiasi generalizzazione categoriale, apparendo «non risolutivo il criterio temporale riferito alla dichiarazione di fallimento, dal momento che i mezzi di impugnazione previsti dal codice di rito, nel far riferimento alla "persona alla quale le cose sono state sequestrate e a quella che avrebbe diritto alla loro restituzione" sono a disposizione di chiunque sia titolare di una situazione giuridicamente protetta, coincidente non solo con un diritto soggettivo assoluto, ma anche con un rapporto di fatto tutelato dal diritto e comunque rilevante ai fini del giudizio» (143).

Ed è perciò comprensibile che la sentenza Mantova Petroli abbia riscosso l’adesione dei suoi primi commentatori (144).

Nel loro incedere, le Sezioni Unite implicitamente disattendono una possibile ragione di conservazione del principio dettato dalla sentenza del 2014, una ragione collegata alla cennata disposizione del Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza.

Nella decisione Sez. 2, n. 27262 del 16/04/2019, Curatela Fallimento Eurocoop Società Cooperativa in liquidazione, Rv. 276284-01 si era osservato che, se è vero che la nuova disposizione palesa l’insoddisfazione del legislatore per «l’attuale consolidato assetto giurisprudenziale», è anche vero che di tale innovativa previsione non vi sarebbe stato bisogno se già il quadro normativo attuale consentisse al curatore di agire. E perciò, pur ricono scendone i limiti («il provvedimento cautelare non sarebbe più passibile di impugnazione, mancando nel fallito la disponibilità dei beni e l’interesse ad agire»), la Seconda Sezione non aveva ritenuto che ciò costituisse ragione sufficiente «per discostarsi dal consolidato orientamento di questa Corte».

Le Sezioni Unite non hanno temuto di anticipare l’entrata in vigore della nuova disposizione, ritenendo evidentemente che essa non rappresenta una reale novità ma un chiarimento di quanto già desumibile dalla lettura sistematica delle norme vigenti (145).

8. La legittimazione del curatore a impugnare il sequestro di prevenzione.

La sentenza Sez. 2, n. 38573 del 17/05/2019, Mediterranea s.p.a., Rv. 277396 afferma, nel diverso ambito del procedimento di prevenzione patrimoniale, un principio analogo a quello affermato, con riferimento al sequestro penale, dalla decisione Mantova Petroli: «In tema di misure di prevenzione patrimoniali, il curatore fallimentare, quale organo titolare di una funzione pubblica, è legittimato a proporre impugnazione avverso il provvedimento di sequestro eseguito dopo la dichiarazione di fallimento su beni appartenenti alla massa attiva, in quanto tale misura, avendo natura provvisoria, può essere in tutto o in parte annullata o revocata, così consentendo al curatore di recuperare la potestà gestoria sui beni stessi».

Nella motivazione si valorizza la funzione istituzionale del curatore, mettendo in luce alcuni aspetti peculiari della disciplina del d. lgs. 6 novembre 2011, n. 159, quale risulta dalla modifica introdotta con d. lgs. 17 ottobre 2017, n. 161.

Al decreto del 2017 si deve anzitutto l’introduzione dell’autonoma impugnabilità del sequestro di prevenzione, nel testo dell’art. 27 d. lgs. cit., che oggi annovera tra i provvedimenti impugnabili anche quelli con i quali il tribunale dispone l’applicazione del sequestro, mentre prima menzionava i soli provvedimenti dispositivi della confisca e quelli che revocano la misura cautelare.

Lo stesso provvedimento ha poi apportato significative modifiche agli artt. 63 e 64 del Codice antimafia, le norme dedicate alla disciplina dei rapporti tra il sequestro di prevenzione e le procedure concorsuali, che distinguono il caso della dichiarazione di fallimento successiva al sequestro (art. 63), da quello della dichiarazione anteriore (art. 64).

Le innovazioni valorizzate dalla decisione consistono, in particolare, nell’inserzione, sia nell’una che nell’altra disposizione (art. 64, comma 1 e 63, comma 6), di una necessaria interlocuzione del giudice fallimentare con il curatore e con il comitato dei creditori, prima dell’adozione dei provvedimenti intesi ad assicurare l’esecuzione del sequestro di prevenzione.

Con particolare riferimento alla previsione dell’art. 64 (confacente al caso di specie, nel quale si trattava di sequestro successivo alla dichiarazione di fallimento), la Corte ha osservato che la previsione di un’obbligatoria finestra di ascolto del curatore ("sentito il curatore"), prima che il giudice delegato possa disporre la separazione dei beni in sequestro dalla massa attiva del fallimento, ha il senso «di sottolineare la funzione pubblica del curatore medesimo, che sviluppa una interlocuzione ritenuta necessaria con gli altri organi del fallimento ai fini dell’individuazione dei beni da conferire all’amministratore delle procedure di prevenzione».

La ratio di tali modifiche si ricollega dunque alla «funzione pubblica nell’ambito dell’amministrazione della giustizia» già riconosciuta al curatore dai precedenti sopra richiamati.

Ed è a tali disposizioni che bisogna guardare quando si tratti del sequestro, anziché a quella dell’art. 52 dello stesso Codice antimafia, impropriamente richiamata dal giudice territoriale nell’ordinanza impugnata, ove si negava la legittimazione del curatore sul presupposto che «lo strumento a garanzia dei creditori, se la massa fallimentare coincide con i beni sottoposti al sequestro, è […] il subprocedimento di cui agli art. 52 ss. d.lgs. n. 159/2011, in virtù del quale il Tribunale, sentiti il curatore e il comitato dei creditori, dichiara chiuso il fallimento, con possibilità per i creditori di essere soddisfatti davanti al Giudice della prevenzione, previa verifica della loro buona fede e del carattere non strumentale dei crediti all’attività illecita». Un’affermazione che riecheggia la tesi del realizzo differito dei diritti dei creditori, enunciata dalla decisione Uniland (espressamente citata nell’ordinanza impugnata) per pervenire ad analogo esito.

In realtà, osserva la Seconda sezione, l’art. 52 cit. è norma che attiene alla confisca e che non si presta a regolare il tema dell’impugnazione del sequestro «che, in quanto misura cautelare, e quindi provvisoria, può anche essere in tutto o in parte revocata o annullata, facendo con ciò recuperare al curatore, nel coordinamento con gli altri organi del fallimento, la potestà gestoria sui beni della massa fallimentare».

Neppure è appropriata la citazione della decisione Uniland, avuto riguardo sia alla diversità dei contesti (procedimento all’ente versus procedimento di prevenzione); sia alla circostanza che lo stesso principio Uniland è declinato dalla giurisprudenza successiva nel senso di non precludere la legittimazione del curatore nel caso di sequestro intervenuto, come nel caso di specie, dopo la dichiarazione di fallimento (la sentenza Mediterranea s.p.a.riprende la massima della succitata decisione Amista).

9. Il rapporto tra sequestri penali e liquidazione giudiziale nel Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza.

Con l’adozione del Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza (d. lgs. n. 14 del 2019), il legislatore si è definitivamente assunto la responsabilità di regolare il traffico delle precedenze tra vincoli penali e gestioni concorsuali, quando queste concorrano sui medesimi beni.

Il nuovo sistema recepisce dall’esperienza giurisprudenziale la necessità di distinguere la disciplina di detti rapporti in ragione della funzione delle diverse tipologie di cautela.

Le soluzioni prescelte, le regole di prevalenza/soccombenza stabilite, appaiono ora assimilabili a quelle già elaborate in sede pretoria (così è per quanto concerne i sequestri conservativi e, in certa misura, anche per quelli impeditivi); ora distanti da ciascuna delle soluzioni indicate in precedenza (così è per il sequestro finalizzato alla confisca).

Un pregio indiscutibile del nuovo assetto risiede nell’aver stabilito un comune statuto di tutela per i creditori, concorsuali e singoli, dei soggetti destinatari di misure patrimoniali penali e per i creditori dei soggetti sottoposti a procedimenti di prevenzione patrimoniale.

9.1. Prevalenza della liquidazione giudiziale sul sequestro conservativo.

L’art. 319 CCII, dedicato ai rapporti della liquidazione giudiziale con il sequestro conservativo ex art. 316 cod. proc. pen., sancisce la soccombenza di quest’ultimo, configurando in capo al giudice penale il divieto di disporlo in pendenza di quest’ultima (art. 319, comma

1) e l’obbligo di revocarlo, su istanza del curatore e con restituzione dei beni al medesimo, nel caso di liquidazione giudiziale sopravvenuta al sequestro (art. 319, comma 2).

Le ragioni di questa disciplina sono evidentemente le stesse a suo tempo illustrate dalle Sezioni Unite nel 2004 (v. supra § 2). Del resto, l’art. 150 CCII riproduce sostanzialmente il previgente art. 51 l. fall., stabilendo il divieto di promozione o prosecuzione delle azioni esecutive e cautelari individuali, a partire dal giorno della dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale, anche per crediti maturati durante la liquidazione giudiziale.

9.2. Prevalenza incondizionata della liquidazione giudiziale sul sequestro penale impeditivo.

In tema di sequestro impeditivo, la soccombenza del vincolo penale a quello fallimentare è apparentemente declinata dal legislatore in termini più radicali di quanto indicato dalle Sezioni Unite nel 2004.

Lo spossessamento conseguente alla procedura concorsuale (146), realizzando gli scopi del vincolo penale, ne ostacola sia l’applicazione a liquidazione aperta, che il mantenimento, nel caso di liquidazione sopravvenuta. Fanno ovviamente eccezione: le cose intrinsecamente pericolose (i beni la cui fabbricazione, uso, detenzione alienazione costituisca reato, sempre che dette attività non possano essere consentite mediante autorizzazione amministrativa); i beni non compresi nella procedura liquidatoria (art. 146 CIC (147)) o, non suscettibili di liquidazione, per disposizione di legge o per decisione degli organi della procedura (148).

Il meccanismo della revoca è attivato dal curatore, che dovrà comunicare all’autorità giudiziaria penale la dichiarazione dello stato di insolvenza e di apertura della liquidazione giudiziale, ma anche i successivi provvedimenti di revoca e chiusura della procedura concorsuale con l’elenco delle cose non liquidate e già sottoposte a sequestro.

La disposizione non ammette che il giudice penale, valutate le circostanze di fatto, possa applicare il sequestro impeditivo, ritenendo in concreto inidoneo il vincolo fallimentare a soddisfare l’esigenza di cui all’art. 321 cod. proc. pen.

Alcuni dei rischi prefigurati nella decisione Focarelli per giustificare la scelta di non vietare in assoluto il sequestro impeditivo o il suo mantenimento, appaiono però scongiurati a monte nel nuovo assetto.

Si allude, in particolare al rischio che l’accesso a procedure concorsuali alternative possa consentire il riacquisto della cosa: in un caso siffatto, nulla impedirebbe di ripristinare il sequestro in precedenza revocato o di imporlo, se mai applicato prima, posto che il divieto di imposizione del sequestro riguarda soltanto i beni che formano oggetto della liquidazione giudiziale (149).

Gli oneri informativi attribuiti al curatore – nella misura in cui includono il provvedimento di revoca o chiusura della liquidazione giudiziale e l’elenco delle cose già liquidate e non sottoposte a sequestro - sembrano funzionali al monitoraggio di quegli sviluppi della procedura concorsuale che possono comportare il riacquisto della disponibilità dei beni da parte del fallito sottoposto al procedimento penale. È a ben vedere tipizzata dal Codice della crisi quell’esigenza di raccordo informativo e coordinamento operativo tra gli organi preposti alle procedure concorrenti che le Sezioni Unite avevano affermato nel 2004 per via esegetica (150).

9.3. 3. L’estensione al sequestro ex art. 321 comma 2 cod. proc. pen. della disciplina del Titolo IV del Libro I del Codice antimafia: ragioni dell’intervento.

In attuazione dell’art. 13, comma 1 della legge delega (legge 19 ottobre 2017, n. 155), il Governo ha emanato due disposizioni:

a) l’art. 373 del d. lgs. n. 14 del 2019, che opera un’ulteriore interpolazione dell’art. 104bis, comma 1-bis, disp. att. cod. proc. pen. che, così come riconfigurato, recita «Quando il sequestro è disposto ai sensi dell’articolo 321, comma 2 del codice ai fini della tutela dei terzi e nei rapporti con la procedura di liquidazione giudiziaria si applicano, altresì, le disposizioni di cui al titolo IV del Libro I del citato decreto legislativo (d. lgs. n. 159 del 2011)»;

b) l’art. 317 CCII che, nel primo comma, demanda alla disciplina dello stesso titolo IV del Libro I del Codice antimafia la regolazione delle "condizioni" e dei "criteri di prevalenza" rispetto alla gestione concorsuale delle misure cautelari reali ricadenti sulle cose indicate nell’art. 142; per poi precisare, nel comma 2 «per misure cautelari reali… si intendono i sequestri delle cose di cui è consentita la confisca disposti ai sensi dell’articolo 321, comma 2 del codice di procedura penale, la cui attuazione è disciplinata dall’art. 104-bis delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale».

Il senso dell’intervento è quello di completare il percorso di armonizzazione della disciplina in tema di tutela dei diritti dei terzi e di rapporti con la procedura concorsuale, superando definitivamente il "doppio statuto di tutela dei creditori", in forza del quale ai creditori singoli o concorsuali di soggetti coinvolti in procedimenti di prevenzione patrimoniale era dedicata una disciplina specifica; mentre la salvaguardia degli interessi dei creditori di soggetti colpiti da sequestri e confische penali comuni era affidata alle cangianti e incerte discipline di matrice giurisprudenziale delle quali abbiamo sopra dato conto.

La delega legislativa, essendo declinata nel senso di dettare disposizioni di coordinamento con il codice antimafia, ipotecava il risultato.

Nella Relazione illustrativa al codice della crisi di impresa si leggeva la chiara indicazione di superare il mito della coesistenza tra i vincoli: «Il concorso di vincoli di natura diversa sui medesimi beni è ammissibile, sul piano astratto, e pacificamente ammesso in giurisprudenza; in concreto, tuttavia, ha dato luogo a esiti pratici non soddisfacenti, tanto da richiedere un intervento normativo volto a determinare condizioni e criteri di prevalenza delle misure adottate in sede penale» (151).

Su questa scia si erano posti, prima dell’ultimo intervento, la legge n. 161 del 2017 e il d. lgs. n. 21 del 2018 che, intervenendo sul testo dell’art. 104-bis disp. att. cod. proc. pen., avevano già esteso la disciplina del richiamato Titolo IV del Libro I del Codice antimafia alle tipologie ablatorie funzionalmente più omogenee a quel contesto, e cioè ai sequestri e alle confische "allargate" previste dall’art. 240-bis cod. pen. (previgente art. 12-sexies d. l. n. 306 del 1992) e ai sequestri e alle confische adottati nei procedimenti relativi ai delitti di cui all’art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen.

A riprova di quanto l’esigenza di armonizzazione fosse avvertita dalla giurisprudenza, è utile richiamare l’indirizzo giurisprudenziale che, già prima del 2017, aveva esteso ai sequestri e alle confische ex art. 12-sexies d.l. cit. la disciplina del citato Titolo IV del Codice antimafia, profittando di un intervento normativo (art. 1, comma 190 della legge n. 228 del 2012) che aveva, in realtà, richiamato la sola disciplina della destinazione e dell’amministrazione dei beni confiscati (Titolo III del Libro I d. lgs. n. 159 del 2011) (152).

Dopo l’intervento legislativo del 2017, parte della dottrina propose di ripercorrere quella linea interpretativa per colmare la lacuna residua, per estendere cioè la disciplina del Codice antimafia in tema di tutela dei diritti dei creditori e rapporto con le procedure concorsuali ai sequestri preventivi comuni. L’operazione ermeneutica si presentava costituzionalmente "necessitata": il principio di parità di trattamento avrebbe imposto di riconoscere «a tutti i creditori che si trovino nella stessa situazione (cioè quella di subire la misura ablatoria del proprio debitore) un unico e comune procedimento nel quale far valere le loro (anche se limitate) ragioni» (153).

9.3.1. L’ambito omnicomprensivo della nuova disciplina.

S’inferisce dai dati testuali sopra riportati e dalla storia dell’intervento normativo come il regime del Codice antimafia sarà applicabile, a partire dal 15 agosto 2020, al sequestro preventivo funzionale a qualsiasi tipo di confisca, senza distinzioni legate al carattere obbligatorio o discrezionale della sua applicazione, alla natura (sanzionatoria o di misura di sicurezza), all’oggetto (diretta o per equivalente), alla dimensione allargata (art. 240-bis cod. pen.) o specifica (fondata cioè su nessi derivativi/strumentali della res con il reato, secondo il modello delineato dall’art. 240 cod. pen.) degli effetti.

E senza che neppure assuma rilievo il destinatario (persona fisica o giuridica) della misura ablatoria, dal momento che il Governo ha scelto di non esercitare la delega di cui all’art. 13, comma 2, della legge n. 155 del 2017, che richiedeva una disciplina di coordinamento con le misure cautelari previste dal d. lgs. n. 231 del 2001, differenziata rispetto a quella prevista per il sequestro preventivo comune, in quanto improntata alla prevalenza del diritto concorsuale, fatte salve «le ragioni di preminente tutela di interessi di carattere penale» (154).

9.3.2. 3.2. I contenuti della disciplina: la prevalenza procedurale del sequestro a fini di confisca.

Definito l’ambito applicativo, si può procedere ad una sintetica illustrazione della disciplina il cui primo tratto saliente è costituito dalla generalizzata prevalenza procedurale del sequestro finalizzato alla confisca sul vincolo concorsuale.

Tanto deriva dal richiamo dell’art. 317 CCII ai "criteri di prevalenza" dettati dal Codice antimafia. In quella sede, la prevalenza del vincolo penale è sancita sia nel caso di sequestro successivo alla dichiarazione di fallimento (oggi liquidazione giudiziale), sia nel caso di sequestro anteriore all’apertura della gestione concorsuale ed è declinata in triplice senso:

a) esclusione/separazione dei beni sequestrati o confiscati rispetto alla liquidazione giudiziale (artt. 63, comma 4 e 64, comma 1 d. lgs. n. 159 del 2011);

b) chiusura della procedura concorsuale, nel caso in cui non vi siano nel patrimonio compreso nella liquidazione giudiziale beni che non siano nel contempo sequestrati o confiscati (artt. 63, comma 7 e 64, comma 10 d. lgs. cit.);

c) acquisizione alla liquidazione giudiziale dei soli beni rispetto ai quali sia stata revocata la misura patrimoniale penale (artt. 63, comma 6, e 64, comma 10, d. lgs. n. 159 del 2011).

È evidente la dissonanza rispetto alla soluzione ipotizzata dalla decisione Focarelli che riteneva rigidamente insensibili alla procedura concorsuale i soli sequestri finalizzati alla confisca obbligatoria; mentre, nel caso di sequestro finalizzato alla confisca facoltativa, prevedeva uno schema flessibile che demandava alla discretion del giudice penale i bilanciamenti necessari per conciliare le diverse esigenze sottese ai due vincoli, sul presupposto della loro pari dignità pubblicistica (v. supra § 2).

Deriva dal nuovo assetto l’irrilevanza (almeno a partire dal prossimo agosto) del dibattito, mai davvero sopito, su cosa dovesse intendersi per confisca obbligatoria ai fini de quibus (v. supra § 3 nn. 7-8).

Il legislatore ha evidentemente valorizzato la caratura interamente pubblicistica degli interessi sottesi al vincolo penale, rispetto a quella parzialmente privatistica del vincolo fallimentare, che in ultima analisi richiama le ragioni creditorie di cui all’art. 2740 cod. civ. (155).

9.3.3. La resistenza dei diritti di credito di fronte al sequestro finalizzato alla confisca: le condizioni sostanziali e la procedura di accertamento.

Il fatto che la liquidazione giudiziale non comporti di per sé un divieto di applicazione del sequestro o della confisca non significa che gli interessi dei creditori debbano soccombere di fronte all’ablazione penale.

Il rinvio integrale al Titolo IV del Codice antimafia include, infatti, gli artt. 52 ss., e cioè alle regole sostanziali e procedurali che assicurano la tutela dei diritti dei terzi di buona fede, ivi compresi i diritti di credito, già nella fase del sequestro e anche nell’ipotesi in cui la loro realizzazione interferisca con vincoli imposti a fini di confisca obbligatoria (156).

Per questa ragione, la disciplina che entrerà in vigore il 15 agosto 2020 supera i rigori della decisione Focarelli che, in tema di concorrenza del vincolo fallimentare con quello penale correlato a confisca obbligatoria, stabiliva una regola di incondizionata e definitiva prevalenza del sequestro sulle istanze della par condicio creditorum.

Ma sovverte anche la prospettiva della sentenza Uniland, che riservava la tutela preventiva ai soli diritti dominicali, differendo quella dei diritti di credito ad epoca successiva alla chiusura della procedura concorsuale, quando, con l’assegnazione, sarebbe avvenuta una sorta di trasformazione del diritto creditorio in diritto reale tutelabile.

E ancora, la nuova disciplina rende inattuale la distinzione operata dalla decisione Sez. U, n. 9 dell’8/06/1999, Bacherotti tra i modi e le forme di tutela dei diritti dominicali e quelli dei diritti reali di godimento o di garanzia, individuando soltanto i primi come impedimenti immediati del sequestro e della confisca; mentre i secondi si atteggiavano come meri limiti di gestione del vincolo penale, che ben poteva essere imposto e mantenuto sui beni che formassero contestualmente oggetto del ius sequelae del creditore (157).

Si è opportunamente parlato di un ampliamento categoriale dei diritti dei terzi tutelabili di fronte alle misure patrimoniali, un diritto che trova la sua affermazione nell’art. 52, comma 1, d. lgs. n. 159 del 2011, secondo il quale «la confisca non pregiudica i diritti di credito dei terzi che risultano da atti aventi data certa anteriore al sequestro, nonché i diritti reali di garanzia costituiti in epoca anteriore al sequestro»; e che risulta azionabile già nella fase del sequestro (158).

Le condizioni sostanziali della tutela sono elencate dallo stesso art. 52.

È significativa, ai fini che ci occupano, la condizione dettata dal primo comma della disposizione, che stabilisce il principio di cristallizzazione del passivo individuando nel sequestro il termine finale entro il quale deve sorgere il diritto di credito e dev’essere stata costituita la garanzia reale, vincolando i beni sequestrati al soddisfacimento dei soli creditori anteriori, principio chiaramente ispirato dalla preoccupazione del legislatore di evitare la pre-costituzione di creditori di comodo.

L’esigenza di evitare insinuazioni surrettizie ispira anche le condizioni dettate dalle lettere c) e d) dell’art. 52, in base alle quali, nel caso di promessa di pagamento, di ricognizione di debito o di titoli di credito, deve essere provato dal creditore o dal portatore il rapporto fondamentale.

Ricalca poi un consolidato orientamento della giurisprudenza la condizione «che il credito non sia strumentale all’attività illecita o a quella che ne costituisce il frutto o il reimpiego», in relazione alla quale incombe sul creditore l’onere di fornire la prova di «avere ignorato in buona fede il nesso di strumentalità».

Quali parametri di valutazione dell’affidamento incolpevole del creditore, il terzo comma dell’art. 52 menziona le condizioni delle parti, i rapporti personali e patrimoniali tra le stesse e il tipo di attività svolta dal creditore, «anche con riferimento al ramo di attività, alla sussistenza di particolari obblighi di diligenza nella fase precontrattuale nonché, in caso di enti, alle dimensioni degli stessi».

Si richiamano, allo scopo di concretizzare i criteria normativi, gli approdi giurisprudenziali che valorizzano le maggiori fonti informative di cui può disporre il creditore istituzionale (159); ma anche il particolare rigore richiesto nella verifica dell’affidamento incolpevole di coloro che hanno rapporti continuativi con l’impresa sottoposta alla misura di prevenzione, a fronte della maggiore prudenza richiesta nella valutazione del comportamento di chi si trova a stipulare un unico atto negoziale, a meno che l’illiceità dell’attività non possa ritenersi fatto notorio nell’ambiente in cui è avvenuta la negoziazione.

Rileva poi la disposizione limitatrice della prospettiva di realizzo del credito (art. 53), per la quale «i crediti per titolo anteriore al sequestro, verificati ai sensi delle disposizioni di cui al capo II, sono soddisfatti dallo Stato nel limite del 60 per cento del valore dei beni sequestrati o confiscati, risultante dalla stima redatta dall’amministratore o dalla minor somma eventualmente ricavata dalla vendita degli stessi». In giurisprudenza si legge questa disposizione in termini di «trasformazione della pretesa del terzo in un mero diritto al ristoro patrimoniale, delimitato non oltre una soglia massima definita ex lege» (160).

Il procedimento di accertamento dei diritti dei terzi è regolato dagli artt. 57 ss., secondo un principio di tutela della par condicio mutuato dalla procedura fallimentare e scandito dalle fasi: della formazione dell’elenco dei creditori con fissazione dell’udienza di verifica dei crediti (art. 57, modellato sull’art. 89 l. fall.); della presentazione delle domande da parte dei creditori (art. 58); della udienza di verifica dei crediti e della formazione dello stato passivo (art. 59); della vendita e liquidazione dei beni (art. 60); del progetto e piano di pagamento dei crediti (art. 61).

10. Il nuovo significato della legittimazione del curatore fallimentare a contrastare il sequestro penale.

Discende dalla nuova disciplina dei rapporti tra misure cautelari penali e procedure concorsuali una, finora inedita, diversificazione dei margini entro i quali il curatore fallimentare può esercitare la legittimazione processuale riconosciutagli dall’art. 320 CCII.

Nel caso di sequestro impeditivo e conservativo, egli potrà far valere, oltre che l’insussistenza dei presupposti della misura, la prevalenza della liquidazione giudiziale così come prevista dagli artt. 318 e 319 CCII.

Nel caso di sequestro finalizzato alla confisca, l’interesse ad agire del curatore dovrà misurarsi con la sola ipotesi dell’illegittimità del sequestro per difetto dei presupposti procedurali della misura reale (essenzialmente il fumus del reato) o della confisca che, con il sequestro, si intende assicurare.