PARTE OTTAVA LA GIURISDIZIONE

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CAPITOLO XXXIII

LA GIURISDIZIONE E IL RIPARTO DI GIURISDIZIONE.

(di Paolo Porreca )

Sommario

1 Regolamento preventivo di giurisdizione. - 2 Questioni processuali. - 3 I limiti esterni alla giurisdizione: il sindacato sulle decisioni del giudice amministrativo. - 4 Limiti esterni e perimetro della giurisdizione contabile. - 5 Reciproci confini della giurisdizione ordinaria e amministrativa. - 5.1 Ulteriore casistica. - 6 Ambito della giurisdizione tributaria. - 7 Usi civici. - 8 Giurisdizione e diritto internazionale.

1. Regolamento preventivo di giurisdizione.

Prendendo le mosse dai profili processuali emergenti dal lavoro di approfondimento delle sezioni unite sul tema della giurisdizione, viene in rilievo il regolemento preventivo quale istituto che vive propriamente della giurisprudenza di legittimità.

In Sez. U, n. 10092/2015, Amendola, Rv. 635273, si è tornati a precisare i contenuti che il regolamento in parola deve implementare per non incorrere nella sanzione dell'inammissibilità prevista dall'art. 366, comma 1, n. 3, c.p.c., qualora, cioè, non contenga gli estremi della controversia necessari alla definizione della questione di giurisdizione e alla verifica di proponibilità del mezzo, ossia le parti, l'oggetto e il titolo della domanda, il procedimento cui si riferisce l'istanza e la fase in cui esso si trova. Si può dire trovi così conferma la giurisprudenza secondo cui l'istanza di regolamento, pur non essendo un mezzo di impugnazione ma soltanto uno strumento per risolvere in via preventiva ogni contrasto, reale o potenziale, sulla potestas iudicandi del giudice adito, e pur potendo quindi non contenere specifici motivi di ricorso, e cioè l'indicazione del giudice avente giurisdizione o delle norme e delle ragioni su cui si fonda, deve recare l'esposizione sommaria dei fatti di causa, in modo da consentire alla Corte di cassazione di conoscere dall'atto, senza attingerli aliunde, gli elementi indispensabili per una precisa cognizione dell'origine e dell'oggetto della controversia, dello svolgimento del processo e delle posizioni in esso assunte dalle parti.

In una chiave coerente, d'altra parte, Sez. U, n. 06496/2015, Giusti, Rv. 634862, sottolineano che il ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione non incorre nella pur applicabile sanzione d'improcedibilità di cui all'art. 369, comma 2, n. 4, c.p.c., quando il ricorrente non abbia depositato un documento in esso richiamato e tale atto sia irrilevante ai fini della definizione della questione di giurisdizione.

Alcune decisioni hanno affrontato poi la connessione con il peculiare tema dell'intervento, chiarendosi, in particolare da Sez. U, n. 11131/2015, Petitti, Rv. 635361, che chi interviene volontariamente in un giudizio in relazione al quale già è stato proposto il regolamento di giurisdizione non ha diritto all'integrazione del contraddittorio davanti alla Corte di cassazione, atteso che l'interveniente volontario accetta lo stato oltre che il grado in cui il giudizio si trova.

Mette conto di menzionare, sul punto, che nello stesso arresto, Rv. 635362 ed Rv. 635363, è stato ribadito come la qualità formale di parte nel giudizio di merito, requisito della legittimazione a proporre il regolamento, può essere acquisita anche con intervento volontario successivo alla sospensione per incidente di costituzionalità che, a sua volta, non esclude la pendenza del processo e l'innesco di un'autonoma fase processuale diretta non al compimento di atti propri del giudizio sospeso bensì alla verifica chiarificatrice del potere giurisdizionale del giudice adito.

L'interesse ad avvalersi dello strumento, infatti, nasce per ogni parte che veda contestata la giurisdizione del giudice investito, quand'anche, ad esempio, esso sia stato proposto innanzi a due giurisdizioni distinte dubitando soggettivamente quale sia quella effettivamente esistente: in tale ipotesi, specificano Sez. U, n. 14345/2015, Frasca, Rv. 635954, il regolamento può essere proposto con rigurado ad entrambi i processi pendenti, trattandosi della medesima questione il cui apprezzamento non può che essere unitario.

Suddetto interesse permane, peraltro, anche se, nelle more della risoluzione del già proposto regolamento, venga pronunciata sentenza di merito, e ciò proprio per il carattere necessariamente "condizionato" che, in punto di giurisdizione, riveste quella pronuncia (Sez. U, n. 09861/2015, Rordorf, Rv. 635278, in un caso che aveva visto la sopravvenuta dichiarazione di fallimento).

In prospettiva per certi versi simmetrica merita segnalazione l'opzione di Sez. U, n. 15200/2015, Travaglino, Rv. 635993, a mente della quale l'ammissione al passivo, contestata con opposizione, di un credito il cui accertamento è già devoluto alla giurisdizione di un arbitro straniero, non esclude il potere del giudice concorsuale di ammettere il credito con riserva, considerandolo come "condizionale" rispetto all'esito del processo pendente dinanzi al giudice competente, senza che sussista, in tal caso, una questione di giurisdizione proponibile con lo strumento del regolamento ex art. 41 c.p.c.

Ed è nella sopra descritta cornice sistematica che vanno collocate quelle decisioni che sottolineano anche in modo piuttosto rigoroso la preclusione alla proposizione del regolamento derivante dalla decisione di merito, specificando che essa interviene al momento del trattenimento in decisione quando, cioè, si radica già il potere decisorio (Sez. U, n. 05747/2015, Amendola, Rv. 634614). Così come la casistica che nega la proponibilità in ipotesi di adozione, da parte del giudice delegato, del decreto di ammissione di un credito al passivo di una procedura concorsuale, posto che esso è idoneo, ove non opposto, ad acquisire efficacia di giudicato seppure endoprocessuale e posto che la successiva opposizione instaura un giudizio diverso rispetto a quello da considerarsi concluso in via decretale (Sez. U, n. 15200/2015, cit., Rv. 635992). Così come ritengono inammissibile il regolamento quando non penda il processo e perciò anche nel caso un procedimento di tipo anticipatorio, quale quello possessorio, non abbia visto seguire l'istanza ex art. 703, comma 4, c.p.c., per la rivalutazione nel pieno merito, ferma restando, invece, l'esperibilità dello strumento nella fase sommaria ancorché connotata da risoluzioni involgenti la giurisdizione innervate, però, dal carattere della provvisorietà (Sez. U, n. 15155/2015, Ragonesi, Rv. 636070).

Risulta logica, poi, la declinazione ermeneutica secondo cui, stante la funzione dell'istituto e quella della Corte regolatrice, la statuizione ex art. 41, c.p.c., costituisce giudicato vincolante innanzi tutto nel processo all'interno del quale è domandata, motivo per cui non può essere riesaminata con nuovo ricorso per cassazione avverso la decisione del giudice di cui si era affermata, neppure adducendo, come sottolineano Sez. U, n. 13567/2015, Giusti, Rv. 635686, che taluni aspetti non sarebbero stati esaminati.

Diversamente dalla decisione delle sezioni unite, le statuizioni dei giudici di merito sulla sola giurisdizione non sono invece idonee ad acquistare autorità di cosa giudicata in senso sostanziale, e cioè con effetti esterni al processo in cui sono state rese, se non quando in esse la decisione, sia pure implicita, sulla giurisdizione, si rapporti con una statuizione di merito (Sez. U, n. 15208/2015, Ambrosio, Rv. 635998).

Uno degli ultimi provvedimenti dell'anno in senso temporale, ma di certo tra i più rilevanti per le implicazioni sistematiche, è quello di Sez. U, n. 23542/2015, Amoroso, Rv. 637243, Rv. 637244, Rv. 637245, che in primo luogo ha precisato che anche in sede di regolamento preventivo si fa applicazione del principio della "ragione più liquida": in un giudizio elettorale soggetto all'art. 22 del d.lgs. 1° settembre 2011 n. 150, che aveva originato un ricorso ex art. 41 c.p.c. senza notifica al pubblico ministero, invece parte necessaria a mente del comma 3 del prima citato articolo, le sezioni unite rilevano la mancata integrazione del contraddittorio ma non ne dispongono la sanatoria per rilevata inammissibilità del ricorso, così da non dar corso a un'attività processuale inutile e lesiva del valore costituzionale della ragionevole durata del processo di cui il sopra menzionato principio costituisce applicazione.

Nello stesso arresto l'inammissibilità del ricorso è stata affermata perché si deduceva una questione di competenza e non di giurisdizione, qual è quella contenuta nella doglianza secondo la quale era comunque la corte di appello ex art. 669-terdecies c.p.c., e non il tribunale in diversa composizione, a doversi pronunciare sul reclamo avverso la cautela disposta dallo stesso ufficio inibendo gli effetti del d.P.C.M. con cui, a norma dell'art. 8 del d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235, il presidente della regione Campania era stato sospeso dalla carica per condanna in primo grado penale a titolo di abuso d'ufficio ex art. 323 c.p. Tutto ciò in uno all'altra inammissibilità rilevata in ordine alla doglianza di eccesso di potere giurisdizionale di quel giudice, lamentata sull'assunto che la tutela cautelare era preclusa dall'omessa inclusione del giudizio coinvolto nelle ipotesi di sospensione ex art. 5 del d.lgs. n. 150 del 2011, e che la questione di costituzionalità contestualmente sollevata sull'art. 8 in parola non permetteva di omettere l'applicazione della norma della cui legittimità si dubitava fin tanto che non censurata dalla Consulta: temi su cui la Corte con chiarezza osserva che quella così proposta non era identificabile come una questione di giurisdizione, dovendo trovare risposta nel sistema delle impugnazioni, salve ripercussioni in invasioni o turbative di altro potere dello Stato, e in specie del Governo che aveva emesso il d.P.C.M. di sospensione dalla carica.

2. Questioni processuali.

Sez. U, n. 19787/2015, Amoroso, Rv. 637136, hanno precisato, sul versante processuale e in sintonia con Sez. U, n. 02242/2015, Spirito, Rv. 634186, che, a seguito dell'introduzione legislativa della translatio iudicii intergiurisdizionale, la cassazione senza rinvio dev'essere disposta solo nel caso di vero e proprio difetto assoluto di giurisdizione da parte, cioè, di qualsiasi giudice, non quando, ad esempio, si statuisca un'errata estensione del potere da parte del giudice la cui sentenza viene cassata e che, quindi, può ius dicere sull'oggetto sia pure entro diversi limiti.

Quanto alla materia processuale, per così dire residua, che investe il tema qui in esame, è opportuno segnalare ulteriori decisioni.

Sez. U, n. 15477/2015, Petitti, Rv. 636043, hanno dato continuità all'orientamento che ammette la convertibilità dell'impugnativa per cassazione, inammissibile come ricorso ordinario e quale istanza di regolamento preventivo, in denuncia di conflitto di giurisdizione, solo, però, ove ne presenti i requisiti formali e i relativi presupposti, ovvero quando, da un lato, il ricorso risulti ritualmente notificato al soggetto destinatario personalmente e non al suo procuratore e, dall'altro, quando sia riferibile a sentenze che costituiscono altrettante decisioni declinatorie della potestas iudicandi, non più revocabili dai diversi giudici che le hanno pronunciate su di una identica domanda, e perciò idonee a integrare gli estremi del conflitto reale negativo, denunciabile ai sensi dell'art. 362 c.p.c., comma 2, n. 1.

Da menzionare è poi la puntualizzazione di Sez. U, n. 21951/2015, Petitti, Rv. 636916, sui rapporti tra conflitto negativo di giurisdizione e translatio iudicii normata dall'art. 59 della legge 18 giugno 2009 n. 69, la cui lettura così si stabilizza: il meccanismo delineato dagli artt. 59 ricordato e 11 c.p.a. perché possa essere introdotto un regolamento di giurisdizione d'ufficio presuppone che un primo giudice declini la giurisdizione e indichi un secondo giudice che egli ritiene fornito di giurisdizione; che tale giudizio venga riassunto dinnanzi a questo secondo giudice; che il secondo giudice a sua volta non condivida l'indicazione data dal primo; che per tale ragione, alla prima udienza, chieda alla Corte di cassazione di definire a chi spetti la giurisdizione. In particolare, nel caso esaminato, la causa non era stata riassunta tempestivamente e dunque, anche se la domanda restava la medesima, il secondo giudice, ancorché fosse quello indicato, era tenuto a statuire sulla giurisdizione non ostandovi la precedente statuizione declinatoria della giurisdizione, poiché il decorso del termine ultimo per la riassunzione escludeva che la domanda potesse ritenersi "riproposta" e che il successivo giudizio potesse considerarsi riassunzione del primo. Con l'ulteriore e logico corollario che le parti, in un caso simile, se non intendano attendere la pronuncia sulla giurisdizione del secondo giudice, non essendo vincolate alla precedente declinatoria di giurisdizione possono proporre regolamento preventivo, ovvero, se anche questo giudice declini la giurisdizione, sollevare il conflitto, ai sensi dell'art. 362, comma 1, n. 1, c.p.c., stante la precedente pronuncia di difetto di giurisdizione.

Sez. U, n. 10323/2015, Di Blasi, Rv. 635456, hanno invece ricordato l'estensione del principio della translatio iudicii anche alle pronunce declinatorie della giurisdizione emesse dai giudici di merito, nonostante queste ultime, a differenza di quella delle sezioni unite della Corte di cassazione, non impongano, al giudice del quale è stata affermata la giurisdizione, di conformarvisi. Aggiungendo che si tratta di soluzione ragionevole dell'ordinamento atteso che le parti dispongono, per la soluzione dell'eventuale conflitto negativo di giurisdizione, del ricorso per cassazione ex art. 362, comma 2, c.p.c., che consente di pervenire alla decisione della questione di giurisdizione con effetti vincolanti nei confronti del giudice ad quem, rendendo praticabile la migrazione dinanzi a lui.

Infine, Sez. U, n. 04619/2015, De Marzo, Rv. 634674, hanno sottolineato, ancora una volta, la connessione tra la pregiudiziale sulla giurisdizione e il principio di ragionevole durata del processo. Si è quindi ribadito che il ricorso incidentale proposto dalla parte totalmente vittoriosa nel giudizio di merito, che investa questioni pregiudiziali di rito quale quella attinente alla giurisdizione, non può che avere natura di ricorso condizionato, indipendentemente da ogni espressa indicazione di parte, dovendo essere esaminato con priorità solo se la questione pregiudiziale di rito o altre anche preliminari di merito, rilevabili d'ufficio, non siano state oggetto di decisione esplicita o implicita da parte del giudice di merito. Qualora, invece, sia intervenuta detta decisione, il suddetto ricorso incidentale andrà esaminato solo in presenza dell'attualità dell'interesse, sussistente unicamente nell'ipotesi di fondatezza del ricorso principale.

3. I limiti esterni alla giurisdizione: il sindacato sulle decisioni del giudice amministrativo.

Il tema dei limiti esterni alla giurisdizione amministrativa è stato affrontato in un arresto, tra i più significativi degli ultimi anni, concernente l'impugnativa di una decisione del Consiglio di Stato che, riformando quella di prime cure, aveva annullato la delibera del Consiglio Superiore della Magistratura di nomina del presidente aggiunto della Suprema Corte di cassazione. I giudici amministrativi avevano ritenuto preliminarmente che non ostasse il collocamento in quiescenza delle parti in lite in considerazione della natura sostanziale dell'interelle legittimo fatto valere e stante la pesistente esigenza di una risposta di giustizia alle censure mosse all'atto amministrativo aggredito; e, nel merito, che fosse fondato il rilievo con cui il ricorrente aveva evidenziato la minore esperienza giurisdizionale del soggetto nominato, in particolare quella, per 18 anni, presso l'avvocatura dello Stato, che non poteva essere compensata dalla maggiore estensione temporale che, invece, connotava l'esercizio delle funzioni di legittimità del concorrente.

Sez. U, n. 19787/2015, cit., Rv. 636134 e Rv. 636135, sono state così indotte dalla fattispecie a svolgere una compiuta disamina della giurisprudenza sull'eccesso di potere giurisdizionale, quale costruzione di matrice applicativa di una fattispecie generale di difetto di giurisdizione del giudice, nella specie amministrativo.

Si è in primo luogo distinta l'ipotesi del giudizio di legittimità da quello di ottemperanza, osservando che nel primo caso i limiti esterni sono travalicati quando si entri nel merito della discrezionalità amministrativa debordando dalla verifica della "non pretestuosità", ovvero dell'illogicità, e attingendo alla sfera della "non condivisione" dell'atto sindacato, ovvero della diversa valutazione dei fatti ad esso sottesi. Nel secondo caso, normato come giurisdizione di merito dall'art. 112, comma 3, c.p.a., cui si raccordano le ipotesi di violazione ed elusione del giudicato, l'eccesso si concretizza quando il giudice amministrativo ritiene erroneamente sussistenti i presupposti dell'ottemperanza.

Il precedente del 2015 in rassegna precisa altresì che nell'ambito dell'ottemperanza una peculiare ipotesi di eccesso si ha quando il giudice amministrativo conformi l'agire dell'amministrazione a un contenuto impossibile per essere oramai "chiusa" la vicenda, non sussistendo più le condizioni perché si possa provvedere e cioè ottemperare, trovando spazio la sola via compensativa e risarcitoria. Profili che emergono quando il giudice ordini al Consiglio Superiore della Magistratura di attribuire ora per allora un incarico a magistrati che siano in quiescenza.

Linea ermeneutica già ripresa quest'anno da Sez. U, n. 01823/2015, Rordorf, Rv. 634375, che però aveva escluso l'eccesso di potere giurisdizionale in una decisione del Consiglio di Stato adottata nel giudizio di ottemperanza per la mancata esecuzione di una sentenza di annullamento della delibera di conferimento di un incarico giudiziario direttivo da parte del Consiglio Superiore della Magistratura. La decisione del giudice amministrativo aveva ritenuto ammissibili i motivi aggiunti diretti ad accertare la natura elusiva del giudicato propria della rinnovata deliberazione dell'amministrazione e, in accoglimento degli stessi, aveva escluso la presenza di elementi significativi di novità rispetto alla prima delibazione, esercitando i conseguenti poteri sostitutivi mediante designazione di un commissario ad acta. L'esclusione dell'eccesso di potere è stata affermata, in quel caso, perché veniva in questione solo il modo in cui la giurisdizione era stata in concreto esercitata, senza che potesse assumere rilievo il fatto che uno dei candidati all'incarico fosse prossimo a un pensionamento non ancora maturato.

Uno del nova del Sez. U n. 19787/2015, cit., sta però nell'affinamento del rapporto tra vicenda "chiusa" e giudizio di legittimità: si esclude, in particolare, che il collocamento in quiescenza possa impedire il sindacato di legittimità del giudice amministrativo, altrimenti, diversamente da quanto accade in sede di ottemperanza, determinandosi uno stallo nelle forme della cristallizzazione accidentale della situazione di fatto precedente la pronuncia di annullamento richiesta che, invece, se accolta, aprirebbe il varco alla possibilità risarcitoria per perdita non del posto ma della chance di ricoprirlo. In buona sostanza, ne sarebbe altrimento leso il diritto alla tutela giurisdizionale e al corretto andamento dell'amministrazione.

In questa cornice riesce agevole comprendere l'iter logico dei tre principi di diritto in cui l'arresto è infine sfociato, ossia:

a) l'esclusione dell'eccesso di potere giurisdizionale quando, in ipotesi di duplice impugnativa dello stesso atto amministrativo sia con ricorso per ottemperanza che con ricorso in sede di legittimità, il Consiglio di Stato, dopo ave rigettato la prima domanda, si pronunci sulla seconda accogliendola;

b) l'esclusione del medesimo eccesso quando, in ipotesi di concorso bandito dal Consiglio Superiore della Magistratura per l'attribuzione di un incarico giudiziario, il Consiglio di Stato si pronunci sull'appello avverso una pronuncia del tribunale amministrativo regionale avente ad oggetto la delibera di conferimento del posto bandito, ancorché il magistrato istante non sia più nel ruolo della magistratura per collocamento in quiescenza e sebbene quest'ultima circostanza inibisca l'ordine, in sede di ottemperanza, di assegnazione dell'incarico ora per allora al magistrato vittorioso;

c) l'affermazione della sussistenza dell'eccesso quando, nella fattispecie sopra descritta, il Consiglio di Stato operi direttamente una valutazione di merito del contenuto della delibera dell'organo di autogoverno della magistratura ordinaria, apprezzandone la ragionevolezza e così sovrapponendosi alla discrezionalità amministrativa qui espressione del potere costituzionale di cui all'art. 105 Cost. e, in questa latitudine, rafforzata dalle novità legislative apportate dall'art. 2, comma 4, del d.l. 24 giugno 2014 n. 90, convertito dalla legge 11 agosto 2014 n. 114, all'art. 17, comma 2, della legge 24 marzo 1958 n. 195.

Ciò tanto più se si ripensi alle sottolineature di Sez. U, n. 06494/2015, Giusti, Rv. 634786, in cui, in un caso di valutazione comparativa per l'assegnazione di una cattedra universitaria, si richiama l'attenzione sul fatto che la lettera a) del comma 4 dell'art. 114, citato, non limita il potere giudiziale di emanazione diretta dell'atto amministrativo ai soli casi di attività vincolata dalla pubblica amministrazione.

Il 2015 è stato in ogni caso un anno ricco di precisazioni in tema di giudizio sui limiti esterni della giurisdizione amministrativa in sede di ottemperanza, e merita di essere menzionata anche Sez. U, n. 15476/2015, Petitti, Rv. 636366, che ha escluso, in quel contesto, l'eccesso di potere pure nel caso di valutazione dello ius superveniens, posto che il giudice deve valutare, in vista dell'esatta realizzazione dello scopo del procedimento, tutte le sopravvenienze, di fatto e di diritto che, ricadendo sul giudicato, ne rendono eventualmente impossibile la realizzazione.

Non può peraltro omettersi la segnalazione di un altro caso di particolare messa a fuoco dei limiti esterni della giurisdizione amministrativa in connessione, questa volta, con il diritto dell'Unione europea.

Sez. U, n. 02242/2015, cit., hanno ripreso il nodo della giurisprudenza fatta propria dall'adunanza plenaria del Consiglio di Stato con la sentenza 7 aprile 2011 n. 4 (peraltro in overruling rispetto all'arresto 10 novembre 2008 n. 11) secondo cui il ricorso incidentale diretto a contestare la legittimazione del ricorrente principale, mediante censura della sua ammissione a una procedura di gara, dev'essere esaminato prioritariamente anche nel caso in cui nell'impugnativa principale si alleghi l'interesse strumentale alla rinnovazione dell'intera procedura, indipendentemente dal numero dei concorrenti che vi hanno preso parte, inclusa perciò l'ipotesi in cui i concorrenti rimasti in gara siano soltanto due (e coincidano con il ricorrente principale e con l'aggiudicatario ricorrente incidentale), ciascuno mirante ad escludere l'altro per mancanza, nelle rispettive offerte presentate, dei requisiti minimi di idoneità dell'offerta. Con la conseguenza che a fronte di due imprese che sollevano a vicenda la medesima questione, una può incorrere nell'inammissibilità del ricorso e l'altra ottenere il mantenimento della sua in tesi illegittima aggiudicazione.

Già Sez. U, n. 10294/2012, Tirelli, Rv. 623049, avevano segnalato che in questo modo si innescava una crisi del sistema che, al contrario, dovrebbe assicurare la possibilità di provocare l'intervento del giudice per ripristinare la legalità e dare alla vicenda un assetto conforme a quello voluto dall'ordinamento, tanto più che l'aggiudicazione può dare vita ad una posizione preferenziale solo se acquisita in modo legittimo. Tuttavia in quell'occasione la Corte ritenne che <<il principio adottato dall'adunanza plenaria del Consiglio di Stato non costituisse conseguenza di un aprioristico diniego di giustizia, ma di un possibile errore di diritto che, pur rendendo ammissibile il ricorso avverso la predetta sentenza del Consiglio di Stato, ai sensi dell'art. 111 Cost., comma 8, stante l'evoluzione del concetto di giurisdizione nel senso di strumento per la tutela effettiva delle parti, non ne giustificava la cassazione per eccesso di potere giurisdizionale>>.

Il quadro è mutato a seguito della pronuncia della Corte di giustizia, 4 luglio 2013, causa C-100/12, sull'art. 1, par. 3, della direttiva del Consiglio 21 dicembre 1989, n. 89/665/CEE, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all'applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori, come modificata dalla direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio, dell'11 dicembre 2007 n. 2007/66/CE. La Corte europea ha statuito che la norma dell'Unione dev'essere interpretata sul punto nel senso che la suddetta prescrizione sovranazionale osta al fatto che il descritto ricorso principale sia dichiarato inammissibile in conseguenza dell'esame preliminare dell'eccezione di inammissibilità senza pronunciarsi sulla conformità con le suddette specifiche tecniche sia dell'offerta dell'aggiudicatario che ha ottenuto l'appalto, sia di quella dell'offerente che ha proposto il ricorso principale.

E in Sez. U, n. 02242/2015, cit., è stato per così dire implementato l'assunto del giudice europeo secondo cui devono essere esaminati entrambi i ricorsi simmetricamente "escludenti", siccome ciascuno dei concorrenti potrebbe far valere un analogo interesse legittimo all'esclusione dell'offerta degli altri.

La statuizione conclude che quando sia sopravvenuta la decisione della Corte europea, la sua violazione costituisca uno di quei casi <<estremi>> in cui il radicale sovvertimento delle norme sovranazionali, la cui violazione espone peraltro lo Stato a sanzioni anche ingenti, preclude l'accesso alla giurisdizione spettante e quindi viola in negativo i suoi limiti esterni.

Lo stravolgimento delle norme di rito, e correlativo diniego di giustizia, è stato ad esempio escluso da Sez. U, n. 20413/2015, Travaglino, Rv. 636915, nell'ipotesi di denuncia della sentenza del Consiglio di Stato che, in una controversia relativa alla tutela di un bene culturale, aveva rilevato il difetto di legittimazione attiva di un'associazione ambientalista: è sembrato qui evidente che la figura dell'eccesso di potere giurisdizionale non potesse spingersi fino a questo, esondando nel sindacato diretto sulla lettura del tessuto normativo applicabile alla fattispecie.

Proprio l'aggancio ai casi estremi permette di escludere l'incoerenza dell'affermazione, fatta propria da Sez. U, n. 09099/2015, Spirito, Rv. 635182, che, in un caso concernente la composizione di un collegio del Consiglio di Stato, ha riaffermato l'orientamento per cui la carenza di giurisdizione prende corpo solo nelle ipotesi di alterazioni strutturali dell'organo stesso, per vizi di numero o di qualità dei suoi membri, che ne precludono l'identificazione con quello delineato dalla legge. Diversamente vertendosi in tema di violazione di norme processuali, esorbitante dai limiti del sindacato delle sezioni unite.

Forse meno estrema ma altrettanto "incidente" è la violazione, da parte del giudice amministrativo di ultima istanza, di una norma procedimentale dirimente sull'espansione della giurisdizione quale l'affermazione di un giudicato interno, che si traduce, in questa chiave, non in una violazione interna ai limiti giurisdizionali coinvolti ma in una vera e propria decisione "sulla" giurisdizione, come argomentano Sez. U, n. 04682/2015, Chiarini, Rv. 634425.

4. Limiti esterni e perimetro della giurisdizione contabile.

Ai confini tra errore in procedendo e limite esterno alla giurisdizione, questa volta contabile, si muovono anche Sez. U, n. 00476/2015, Ambrosio, Rv. 633599, esaminando la norma sulla definizione agevolata dei giudizi di responsabilità erariale, di cui all'art. 1, comma 231, della legge 23 dicembre 2005 n. 266. La lettura offerta è quella per cui non si tratta di una norma sulla giurisdizione ma di una modalità procedimentale di definizione del giudizio contabile e, quindi, di una questione interna allo stesso processo.

La Corte ha aggiunto che deve di conseguenza escludersi in radice qualsiasi iniziativa di rimessione da parte della Corte regolatrice al giudice delle leggi, proprio perché la tutela con riguardo agli atti processuali è assicurata nell'ambito del processo ed è all'interno del processo stesso che può essere sollevata la questione di costituzionalità delle norme che, eventualmente, non garantiscano un'adeguata tutela dei diritti della parte.

Il corrispondente in qualche modo sostanziale di questa conclusione in latitudine processuale è stato offerto da Sez. U, n. 06493/2015, Giusti, Rv. 634784, che hanno sottolineato una volta di più come l'accertamento della responsabilità per danno erariale operato nei confronti del funzionario pubblico non può mai integrare una violazione dei limiti esterni della giurisdizione della Corte dei conti, non implicando un sindacato sul merito delle scelte discrezionali del funzionario, ma unicamente un controllo sulla legittimità del suo operato.

I confini tra giurisdizione ordinaria e contabile, dall'interessante angolo visuale del ne bis in idem, caratterizzano Sez. U, n. 14632/2015, Pellecchia, Rv. 636278, che escludono quella violazione quando al giudizio civile introdotto dall'amministrazione per per danni cagionati da un soggetto investito di un rapporto di servizio con la stessa si aggiunga quello, per i medesimi fatti, promosso dal procuratore contabile davanti al relativo giudice. La ratio della soluzione sta nella diversa matrice dei giudizi, il primo svolto nell'interesse della singola amministrazione, il secondo nel più generale interesse pubblico al corretto utilizzo delle risorse dell'amministrazione in quanto tale e con una funzione sanzionatoria maggiore di quella che, evidentemente, non declina, in questa sistematica, il carattere compensativo dell'altra tipologia di responsabilità.

Concettualmente in linea con quanto appena osservato, Sez. U, n. 14689/2015, Bandini, Rv. 635777, rilevano che, invece, nell'attività contrattuale collettiva, i rappresentanti sindacali dei dipendenti pubblici non perseguono gli interessi della pubblica amministrazione quanto gli interessi antagonistici dei lavoratori, e pertanto essi non sono soggetti alla giurisdizione contabile per le conseguenze degli accordi stipulati.

In uno al rapporto di servizio è quello concessorio a monte ovvero, a valle, il vincolo di destinazione pubblicistica a fungere da elementi discriminanti per il riconoscimento della giurisdizione contabile. In Sez. U, n. 00473/2015, Amendola, Rv. 634650, si è rimarcato che il nuovo sistema dell'accreditamento per l'assistenza sanitaria di cui all'art. 8 del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502, come integrato dall'art. 6 della legge 23 dicembre 1994, n. 724 e successive modificazioni, non ha inciso sulla natura del rapporto tra struttura privata ed ente pubblico che è di natura concessoria, atteso che la prima, a seguito del provvedimento di accreditamento, viene inserita in modo continuativo e sistematico nell'organizzazione pubblica per il settore in questione, in modo da poter accedere alla qualifica di ente erogatore del servizio e fornire le relative prestazioni, istituzionalmente spettanti all'ente pubblico. Ne consegue che tra quest'ultimo e la struttura accreditata si instaura un rapporto di servizio in senso lato e sussiste la giurisdizione della Corte dei conti laddove il privato sia chiamato a rispondere per danno erariale con riferimento ad accordi corruttivi intervenuti con il funzionario che ha agito per l'ente di appartenenza.

In Sez. U, n. 23306/2015, Vivaldi, Rv. 637293, la conclusione è opposta nel caso di azione di risarcimento dei danni subiti da Alitalia s.p.a., partecipata pubblica, per le condotte illecite delle sue figure gestorie, stante l'esclusione di un rapporto di servizio, anche latamente inteso, determinata dall'autonomia patrimoniale societaria. Mentre Sez. U, n. 10094/2015, Giusti, Rv. 635272, negano la giurisdizione contabile partendo dall'esclusione del vincolo pubblicistico sulle somme erogate ai partiti politici a titolo di rimborso delle spese elettorali (nella disciplina anteriore alla legge 6 luglio 2012, n. 96): ragion per cui la condotta appropriativa del tesoriere del partito non può dare luogo a responsabilità erariale soggetta alla giurisdizione del giudice contabile, ma a responsabilità civile soggetta alla giurisdizione del giudice ordinario, che il partito stesso, associazione privata non riconosciuta, può adire per il ripristino della propria consistenza patrimoniale.

Su opposto versante Sez. U, n. 23897/2015, Spirito, Rv. 637611, che riafferma il principio per cui è soggetto alla giurisdizione della Corte dei conti il giudizio sulla responsabilità di soggetti privati destinatari di fondi pubblici, concessi per attuare interventi di loro interesse ma rientranti in un piano o programma pubblicistico che l'amministrazione si propone di realizzare, i quali distolgano le risorse ottenute dalle finalità cui erano preordinate così arrecando all'amministrazione stessa un danno corrispondente al mancato conseguimento degli obiettivi da essa perseguiti.

Proprio il contenuto pubblicistico del rapporto previdenziale, quale relazione trilatera infrazionabile, ha fatto optare Sez. U, n. 11769/2015, Mammone, Rv. 635485, per la giurisdizione contabile nel caso di azione di rivalsa esercitata dall'ente datoriale nei confronti del dipendente in quiescenza per ratei erogati in misura superiore al dovuto.

5. Reciproci confini della giurisdizione ordinaria e amministrativa.

Mettendo ora più a fuoco i reciproci confini tra giurisdizione amministrativa e ordinaria devono in primo luogo essere segnalate le decisioni che contribuiscono a una ricognizione sistematica del perimetro in parola. In questo senso vengono in risalto:

Sez. U, n. 19453/2015, Travaglino, Rv. 636877, secondo cui appartiene alla giurisdizione ordinaria la domanda risarcitoria avanzata dall'utente di un servizio pubblico nei confronti del soggetto privato assunto come inadempiente in relazione al corrispondente contratto di trasporto attuativo del servizio: si è colta qui l'occasione per distinguere la class action "pubblica" prevista dal d.lgs. 20 dicembre 2009 n. 198, da quella civilistica prevista dall'art. 140-bis del d.lgs. 6 settembre 2005 n. 206: la prima funzionale al conseguimento di un risultato che giovi, indistintamente, a tutti i contitolari dell'interesse diffuso al ripristino del corretto svolgimento della funzione amministrativa ovvero della corretta erogazione del servizio, mentre la seconda a traduzione dell'esercizio di un diritto individuale oggetto di trasposizione in capo a ciascun titolare singolarmente identificato;

Sez. U, n. 10095/2015, Rordorf, Rv. 635334, che rimarcano come spetti al giudice amministrativo stabilire, in concreto e nel merito, se sia meritevole di tutela o di mero fatto l'interesse del privato volto a ottenere o conservare un bene della vita posto a confronto con il potere attribuito dalla legge all'amministrazione non per la soddisfazione di quell'interesse individuale ma di un interesse pubblico che lo ricomprende e per la cui realizzazione è dotata di discrezionalità. La fattispecie era quella azionata in via cautelare dai titolari di una società quotata nei confronti della Consob non per ottenere un risarcimento del danno subìto - sotteso a una distinta domanda non oggetto del regolamento - ma la condanna dell'autorità a esercitare i poteri di vigilanza, assegnati a tutela della correttezza e trasparenza dei mercati finanziari, al fine di elidere il rischio di danni paventati per il futuro;

analogamente ragionano Sez. U, n. 15154/2015, Cappabianca, Rv. 635999, che collocano nella medesima area giurisdizionale la lite riguardante la legittimità del diniego opposto dal gestore delle infrastrutture aeroportuali alla richiesta, del subgestore di una specifica area, di assegnazione di uno spazio per l'esercizio dell'attività di "handling" perché quel gestore è affidatario del corrispondente pubblico servizio ed è qualificabile come organismo di diritto pubblico, svolgendo un complesso di attività finalizzate a soddisfare interessi generali, sicché la lite incide sulle modalità di esercizio dei poteri autoritativi allo stesso conferiti (anche se, bisogna dire, la decisione aggiunge altra ratio decidendi facendo leva sul fatto che il conflitto, vertendo su atti e provvedimenti relativi a rapporti di concessione di beni pubblici e in materia di pubblici servizi, era attratta comunque alla giurisdizione esclusiva di detto giudice ex art. 133, comma 1, lett. b) e c), c.p.a.).

Un pendant logico della perimetrazione è declinato da Sez U, n. 02244/2015, Spirito, Rv. 634254, e Sez. U, n. 20079/2015, Manna, Rv. 637251, quando specificano che il potere di disapplicazione dell'atto amministrativo illegittimo da parte del giudice ordinario non può essere esercitato se venga posto a fondamento del diritto dedotto in giudizio contro l'amministrazione che lo abbia a adottato per un suo sindacato "diretto", ma solo se sia antecedente logico e quindi oggetto di una pregiudiziale nella lite tra soggetti diversi, ovvero, come rimarca la seconda decisione citata, a cognizione propriamente incidentale. Decisioni cui vanno affiancate Sez. U, n. 06788/2015, Giusti, Rv. 634766, che hanno confermato la costante nomofilachia per cui il giudice civile non può comunque disapplicare l'atto amministrativo la cui legittimità sia stata affermata dall'omologo amministrativo con sentenza passata in giudicato.

In questo quadro è poi importante la frastagliata casistica sugli accordi tra amministrazioni che determinano la giurisdizione del giudice amministrativo anche se vi sia richiesta risarcitoria o sia coinvolto altro diritto soggettivo anche a primario rilievo costituzionale quale quello alla salute. In questo senso Sez. U, n. 04948/2015, Chiarini, Rv. 634506, osservano che la convenzione stipulata tra il Ministero dei trasporti, l'ente Ferrovie dello Stato e un Comune, avente ad oggetto la soppressione dei passaggi a livello attraverso la costruzione di opere sostitutive secondo il piano poliennale di sviluppo della rete ferroviaria nazionale previsto dalla legge 12 febbraio 1981, n. 17, assolve alla funzione di individuazione convenzionale dell'accordo di programma tra enti pubblici a conclusione di un procedimento preordinato all'esercizio delle rispettive pubbliche funzioni, dal che discende che rientra tra gli accordi di cui all'art. 15 della legge 7 agosto 1990, n. 241, con devoluzione alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ex art. 11, comma 5, della stessa legge. E anche la convenzione per la gestione di una farmacia stipulata tra Comune e Consorzio intercomunale è un accordo tra pubbliche amministrazioni e per questo, scrivono Sez. U, n. 11376/2015, Di Palma, Rv. 635509, comporta la stessa conseguenza sul riparto in parola.

Il contiguo ambito di quelli che negli studi si qualificano come contratti c.d. pubblici e dei rapporti di tipo concessorio induce a dar conto qui di due decisioni: per Sez. U, n. 12178/2015, Mammone, Rv. 635541, la domanda del gestore di una clinica privata convenzionata diretta ad ottenere la riclassificazione della struttura in una superiore fascia di accreditamento e la conseguente applicazione di un più elevato tariffario delle prestazioni è devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (ex art. 33 del d.lgs. 31 marzo 1998 n. 80 allora applicabile prima dell'entrata in vigore dell'art. 133, comma 1, lettera c) del c.p.a.), atteso che la pubblica amministrazione, quando riscontra le condizioni di applicabilità o revisione della convenzione di accreditamento di tipo concessorio, esercita una potestà pubblica, che così qualifica la relazione, diretta a organizzare e attuare il servizio sanitario; Sez. U, n. 07959/2015, Spirito, Rv. 634960, prendono invece le mosse dall'appartenenza di beni al patrimonio indisponibile di un ente pubblico (si trattava di piscine comunali, tali quindi ex art. 826, comma 3, c.p.c., essendo destinate al soddisfacimento dell'interesse della collettività allo svolgimento delle attività sportive) per giungere ad affermare che quando essi siano dati in concessione a privati restano alla giurisdizione amministrativa le controversie sul rapporto conseguente, inclusa quella sull'inadempimento degli obblighi concessori e sulla decadenza del concessionario.

Va detto che in altra fattispecie su cui risulta utile riflettere in uno a quella sintetizzata, i nodi sono sciolti da Sez. U, n. 12177/2015, Di Cerbo, Rv. 635542, affermando la natura negoziale dell'affidamento di un'area comunale non indisponibile a privati con una convenzione che prevedeva reciproche obbligazioni e, in particolare, da parte del Comune il trasferimento temporaneo del diritto di superficie finalizzato all'installazione di impianti eolici; da parte dei privati la progettazione, realizzazione e gestione degli impianti stessi. La suddetta natura è stata ritenuta anche se l'atto era stato posto in essere in esito a gara pubblica. Dal che si è desunta l'instaurazione di un rapporto paritetico che non permetteva al Comune di esercitare poteri autoritativi. Con conseguente appartenenza alla giurisdizione ordinaria della domanda di nullità o risoluzione della convenzione per inidoneità dovuta all'assenza strutturale di vento.

Come si può notare riaffiorano, nell'ermeneutica giurisprudenziale, alcuni tradizionali criteri discretivi del riparto, come la natura appunto paritetica, privatistica del rapporto coinvolto: così in Sez. U, n. 14476/2015, Di Blasi, Rv. 635783, sulla domanda di pagamento del compenso avanzata da un professionista incaricato della progettazione di uno sturmento urbanistico particolareggiato. Ma anche Sez. U, n. 17741/2015, Frasca, Rv. 636142, evidenziano in senso omogeneo questo profilo nella controversia avente ad oggetto l'escussione, da parte di un comune, di una polizza fideiussoria rilasciata a garanzia dell'adempimento di obblighi ed oneri assunti dal partecipante ad una gara di appalto di opere pubbliche, posto che le domande di accertamento dell'inesistenza della debenza dell'importo preteso dall'ente, e di manleva in relazione a quanto eventualmente da pagarsi a quest'ultimo, non potevano che avere riguardo al rapporto civilistico di garanzia.

Nel caso invece il rapporto assuma le vesti dell'appalto pubblico, Sez. U, n. 09861/2015, cit., Rv. 635279, confermano che la giurisdizione del giudice ordinario sussiste quando la domanda attenga alla fase esecutiva del rapporto contrattuale - come, in Sez. U, n. 14559/2015, Ragonesi, Rv. 635779, nell'ipotesi della domanda di adempimento in cui si sostanzia la pretesa di revisione dei prezzi espressamente ricondotta a una specifica clausola del contratto - o quando l'amministrazione, dietro lo schermo dell'annullamento in autotutela, intervenga direttamente sul contratto per vizi suoi propri, anziché sulle determinazioni prodromiche. Mentre l'annullamento in autotutela di un atto amministrativo propriamente prodromico alla stipula del contratto ha natura autoritativa e discrezionale e quindi il relativo vaglio di legittimità spetta al giudice amministrativo, la cui giurisdizione esclusiva (art. 133, comma 1, lettera e), n. 1, c.p.a.) si estende alla conseguente domanda per la dichiarazione di inefficacia o nullità del contratto. In altri termini, come si esprimono Sez. U, n. 14188/2015, Mazzacane, Rv. 635892, riprendendo una lettura che si può definire granitica, nelle procedure ad evidenza pubblica per la conclusione dei contratti da parte dell'amministrazione, gli atti e le condotte assunti prima dell'aggiudicazione e tra questa e la stipula, rientrano nel sindacato spettante al giudice amministrativo, quanto accade successivamente in quello del giudice dei diritti. E pertanto - precisano Sez. U, n. 14555/2015, Ragonesi, Rv. 635780 - la decisione di sciogliersi dal vincolo dopo la stipula o l'aggiudicazione che ad essa equivale nel regime anteriore al codice dei contratti adottato con il d.lgs. 12 aprile 2006 n. 163, integra un recesso di natura civilistica giustiziabile in sede ordinaria.

Si è anche messo a fuoco che nei casi in cui il rapporto privato-amministrazione pubblica sia"misto" bisogna fare perno sul criterio della prevalenza funzionale: così per Sez. U, n. 13864/2015, D'Ascola, Rv. 635923, la convenzione avente ad oggetto l'integrale ristrutturazione e ampliamento di un impianto sportivo comunale nonché la sua successiva gestione pluriennale, è da qualificare come costruzione e gestione di opera pubblica con valenza preponderante della prima ai fini del riparto, e non mero affidamento in gestione dei conseguenti servizi, se, nella comparazione tra le prestazioni a carico del concessionario, risulti preminente il primo aspetto in modo da identificare il vero oggetto del contratto in relazione all'interesse concretamente perseguito dalle parti. Con conseguente giurisdizione ordinaria sulla domanda di pagamento delle opere eseguite, inerente alla fase esecutiva.

Nella stessa cornice e per le medesime conclusioni si è esclusa la fattispecie questa volta della fornitura di servizi nel caso di Sez. U, n. 14185/2015, Spirito, Rv. 635895, qualificando quale locazione il contratto stipulato dall'amministrazione per il reperimento di immobili da adibire ad attività istituzionali quali quelle delle aziende sanitarie, stante il permanere della cosa locata nel patrimonio del locatore e l'assenza di una prestazione di attività dello stesso in favore della controparte pubblica.

L'elemento dirimente della potestà autoritativa gioca d'altro canto un generale ruolo dirimente nelle variegate ipotesi di domande di pagamento in qualche modo soggette o meno ad essa: Sez. U, n. 06919/2015, Bernabai, Rv. 634768, hanno escluso la legislazione sui servizi di accoglienza per il Giubileo dell'anno 2000 avesse previsto obbligazioni di finanziamento a carico dell'amministrazione statale, dato che gli erogatori in base ad essa non erano destinati ad acquisire diritti soggettivi se non quando l'autorità avesse liquidato le somme in forza di criteri definiti in via amministrativa e connotati da discrezionalità, con conseguente giurisdizione amministrativa; analogamente per Sez. U, n. 15151/2015, Cappabianca, Rv. 635997, resta al giudice amministrativo la controversia proposta da un'amministrazione comunale nei confronti del Ministero della Giustizia per ottenere il rimborso delle spese di gestione degli uffici giudiziari, di cui agli artt. 1 e 2 della legge 24 aprile 1941, n. 392 (secondo il regime antecedente alle modifiche introdotte a cominciare dalla legge 23 dicembre 2014, n. 190), vista l'insussistenza di un diritto soggettivo dei Comuni a conseguire l'integrale restituzione delle spese indicate, nonché l'autoritativa determinazione del quantum del contributo gravante sullo Stato. Nella stessa logica, per conclusioni opposte, si pongono Sez. U, n. 23898/2015, Spirito, Rv. 637612, in tema di pagamento del corrispettivo dei servizi di trasporto pubblico extraurbano dove si radica la giurisdizione in capo al giudice ordinario <<non attenendo [la domanda di pagamento] al mancato o illegittimo esercizio di un potere discrezionale dell'amministrazione concedente, bensì alla radicale negazione delle condizioni normativamente previste per l'insorgenza della pretesa pecuniaria, connotante il petitum, vantata dalla concessionaria>>.

5.1. Ulteriore casistica.

Accostando sistematicamente i temi dell'uso del territorio e quello concettualmente connesso dell'espropriazione, vengono in rilievo gli arresti di Sez. U, n. 08619/2015, Di Iasi, Rv. 635084, e Sez. U, n. 14345/2015, cit., Rv. 635955. Nel primo una domanda di condanna al pagamento di oneri di urbanizzazione avanzata da un consorzio di sviluppo industriale, è stata fatta rientrare nell'ambito della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo prevista dall'art. 133, comma 1, lettera f), c.p.a., motivando, riguardo al profilo soggettivo richiesto dalla norma come del resto già dal precedente art. 34 del d.lgs. n. 80 del 1998, sull'assunto che un tale ente pubblico economico svolge attività non solo privatistica di tipo imprenditoriale, ma anche pubblicistica attinente alla localizzazione industriale. La seconda delle due decisioni da ultimo ricordate aveva riguardo a una lite insorta tra un consorzio per lo sviluppo di aree industriali ed un'impresa insediata nell'area consortile circa la debenza, da parte di quest'ultima, di oneri (non di urbanizzazione ma) conseguenti all'alienazione di un immobile senza l'autorizzazione del consorzio, in asserita violazione di una prescrizione in tal senso contenuta nel regolamento consortile. L'identica conclusione fa perno sull'afferenza, seppure non direttamente alla nozione di urbanistica o edilizia, pur sempre a un particolare aspetto di ciò che resta l'uso del territorio. Questo quand'anche l'impresa sostenga la carenza del potere, in capo al consorzio, di formulare nel suo regolamento quella prescrizione, per l'evidente ragione che si tratta del merito su cui il giudice competente deve pronunciarsi.

Nella materia delle espropriazioni è interessante seguire l'analisi nomofilattica del concetto di "atti, provvedimenti, accordi e comportamenti, riconducibili, anche mediatamente, all'esercizio di un pubblico potere, delle pubbliche amministrazioni", locuzione come noto utilizzata dall'art. 133, comma 1, lettera g), c.p.a. per la riconduzione alla giurisdizione esclusiva amministrativa. In Sez. U, n. 10879/2015, Di Amato, Rv. 635545, si osserva che la mediata riconducibilità non può essere ravvisata soltanto quando la pubblica amministrazione esercita un pubblico potere avvalendosi della facoltà di adottare strumenti intrinsecamente privatistici, <<poiché l'avverbio "mediatamente" viene utilizzato dalla norma anche con riferimento ai comportamenti, il cui connotato caratteristico non è quello di essere strumenti intrinsecamente privatistici>>. Corollario della premessa è la riconducibilità all'esercizio di un pubblico potere di un'occupazione d'urgenza decretata prima ma proseguita dopo la dichiarazione di pubblica utilità e anche dopo la sopravvenuta inefficacia che aveva travolto quest'ultima. Questo perché restava <<riconoscibile>> l'esercizio del potere ablatorio che aveva avviato il tutto, pur se poi l'ingerenza nella proprietà privata era stata mantenuta senza titolo. La decisione s'impone all'attenzione anche perché esclude sia possibile ipotizzare una <<giurisdizione differenziata>> quanto al danno da apprensione e quanto al danno da mancata restituzione, che cozzerebbe con i principi del giusto processo quale volto a realizzare ragionevioli economie processuali.

In materia societaria sicuro rilievo hanno Sez. U, n. 01237/2015, Di Palma, Rv. 633757, riferita a un caso di revoca dell'amministratore di nomina pubblica, ex art. 2449 c.c., di una società per azioni partecipata dall'ente locale revocante. La conclusione della spettanza al giudice ordinario discende dalla qualificazione uti socius e non iure imperii dell'atto posto in essere dall'ente a valle della scelta, soggetta a disciplina pubblicistica (con conseguente bifasicità analoga a quella in tema di appalti), non solo del socio ma ancor prima del modello societario la cui natura privatistica non è mutata dalla partecipazione pubblica. Tanto più dopo che l'art. 4, comma 13, quarto periodo, del d.l. 6 luglio 2012 n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135 ha segnalato la natura generale del principio, in materia di controllate pubbliche, secondo cui per quanto non diversamente stabilito e salvo deroghe espresse si applica comunque la disciplina del codice civile in materia di società di capitali.

In tema di pubblico impiego mette conto di segnalare una particolare decisione che si colloca in un quadro generale piuttosto stabile: Sez. U, n. 08069/2015, Curzio, Rv. 635082, hanno statuito che rientra nella giurisdizione del giudice ordinario, a norma dell'art. 69 del d.lgs. 30 marzo 2001 n. 165, la domanda giudiziale di accertamento del diritto al riscatto degli anni universitari per fini pensionistici qualora l'istanza, presentata prima della cesura legislativa del 30 giugno 1998, non sia stata definita in alcun modo (nel caso perché era stata smarrita dall'amministrazione).

E in un contesto consolidato si pone anche Sez. U, n. 02359/2015, Bandini, Rv. 634259, che hanno dato continuità all'orientamento per cui, intervenuta l'abrogazione - ex art. 4 della legge 11 aprile 2000 n. 83 - dei commi 6 e 7 dell'art. 28 dello statuto dei lavoratori, le controversie promosse dai sindacati e aventi ad oggetto condotte lesive delle loro prerogative poste in essere da pubbliche amministrazioni, restano assoggettate solo alla disciplina del citato d.lgs. n. 165 del 2001 (art. 63, comma 3). Con conseguente giurisdizione ordinaria, anche quando la condotta antisindacale afferisca a un rapporto di lavoro pubblico non contrattualizzato e incida su situazioni giuridiche soggettive individuali dei dipendenti.

Sono infine connotate da profili di sistematicità Sez. U, n. 13570/2015, Giusti, Rv. 635684, che utilizzano il classico discrimine della carenza di potere per assegnare, ai sensi dell'art. 5 del d.lgs. 16 luglio 2012 n. 109, alla giurisdizione ordinaria l'impugnazione dell'espulsione dello straniero durante il procedimento di emersione del lavoro irregolare, se non adottata per ragioni di ordine pubblico e sicurezza dello Stato.

6. Ambito della giurisdizione tributaria.

Il 2015 ha dato modo alla Suprema Corte di operare alcune significative precisazioni sui rapporti tra giurisdizione ordinaria e tributaria.

In Sez. 5, n. 19609/2015, Marulli, Rv. 636547, si legge che la polizza fideiussoria, prevista dall'art. 38-bis del d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 633 al fine di consentire al contribuente il rimborso delle eccedenze IVA risultanti dalla dichiarazione annuale in forma accelerata (ovvero senza preventivo riscontro della spettanza), e consistente nell'obbligo per la società di assicurazione di versare le somme richieste dall'ufficio IVA, quando non vi abbia già provveduto il contribuente, configura un contratto autonomo di garanzia connotato dalla non accessorietà dell'obbligazione di garanzia rispetto all'obbligazione garantita, sicché, qualora la società di assicurazione impugni la cartella di pagamento emessa nei suoi confronti contestando l'operatività della garanzia, senza porre in discussione il debito tributario del contribuente, la controversia é devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario.

All'opposto, come rilevano Sez. U, n. 00641/2015, Greco, Rv. 633758, le controversie aventi ad oggetto il provvedimento di iscrizione di ipoteca su immobili, cui l'Amministrazione finanziaria può ricorrere in sede di riscossione delle imposte sul reddito, ai sensi dell'art. 77 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, appartengono sicuramente alla giurisdizione del giudice tributario in ragione della natura tributaria dei crediti garantiti dall'ipoteca, senza che possa avere rilievo la destinazione dei beni a fondo patrimoniale.

In generale il decisivo criterio per perimetrare la giurisdizione in parola è appunto la natura tributaria o meno della prestazione in gioco. In questo senso in Sez. U, n. 21950/2015, Petitti, Rv. 636982, si è tornati ad escludere la giurisdizione tributaria, affermando quella ordinaria, riguardo alla controversia relativa al canone per l'occupazione di spazi e aree pubbliche (COSASP), proprio perché si tratta di un obbligo dovuto in ragione dell'utilizzazione di suolo pubblico che esula dalla doverosità della prestazione in uno al collegamento di questa alla pubblica spesa. In questo caso la giurisprudenza di legittimità ha ricevuto l'avallo in termini di diritto vivente da parte della Consulta sin dalla decisione di Corte cost., 14 marzo 2008, n. 64.

Percorso opposto anche in termini di storia della giurisprudenza quello che assegna alla giurisdizione tributaria la tariffa di igiene ambientale regolata dall'art. 49 del d.lgs. 5 febbraio 1997 n. 22 (cosiddetta prima versione della TIA, cui poi è succeduto il regime della seconda TIA di cui all'art. 238 del d.lgs. 3 aprile 2006 n. 152, oggetto sul punto dell'interpretazione autentica resa dall'art. 14, comma 33, del d.l. 31 maggio 2010 n. 78, convertito con modificazioni dalla legge 30 luglio 2010 n. 122): Sez. U, n. 23114/2015, Virgilio, Rv. 637137, confermano la natura tributaria, di sostanziale continuità con la tariffa di smaltimento dei rifiuti solidi urbani (TARSU) affermata da Corte cost., 24 luglio 2009 n. 238.

Secondo Sez. 6-T, n. 00134/2015, Cosentino, Rv. 633912 la richiesta di pagamento della tariffa annua forfettaria per il finanziamento dei controlli sanitari ufficiali di cui al d.lgs. 19 novembre 2008 n. 194, innesca una controversia devoluta al giudice specializzato. Si sottolinea come la natura tributaria dell'imposizione emerga dalla doverosità della prestazione, imposta non solo in forza dell'interesse generale al bene della salute ma anche dei vincoli derivati dalle disposizioni comunitarie (in riferimento al regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio 29 aprile 2004 n. 882/CE). Per completezza va rimarcato che l'ordinanza mette l'accento anche sul diretto collegamento con la pubblica spesa, giacché, si evidenzia, grava sullo Stato - per una platea di destinatari individuati in relazione al presupposto dall'attività da essi svolta nel settore alimentare - l'obbligo di organizzare controlli ufficiali e di predisporre strutture, mezzi e personale per la loro effettuazione.

Infine, Sez. U, n. 14554/2015, Di Blasi, Rv. 635781, hanno precisato che rientra nella giurisdizione tributaria la controversia sulle somme liquidate dalle commissioni tributarie a titolo di spese processuali, poiché, ai sensi dell'art. 2 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, a tale giurisdizione tributaria appartengono tutte le controversie relative ai tributi, di ogni genere e specie, con "ogni accessorio".

7. Usi civici.

Per la valenza generale è importante ricordare l'arresto di Sez. U, n. 23112/2015, Virgilio, Rv. 637337, in cui è stato ribadito che la giurisdizione del Commissario per la liquidazione degli usi civici in materia di esecuzione delle proprie decisioni è limitata alla cognizione sulle opposizioni proposte dalle parti, non estendendosi, cioè, all'esecuzione amministrativa dopo il trasferimento di tali compiti alle regioni secondo quanto stabilito dal d.P.R. 24 luglio 1977 n. 616, all'art. 66, commi 5 e 6.

8. Giurisdizione e diritto internazionale.

Sicuramente una delle decisioni di maggiore rilievo di quest'anno è tra le ultime in senso cronologico: si tratta di Sez. U, n. 21946/2015, Giusti, Rv. 637130. Il caso era quello della richiesta di delibazione di una sentenza statunitense che aveva riconosciuto un'ingente somma a titolo di danni, in parte risarcitori in altra parte punitivi, ad alcuni cittadini di nazionalità nord americana nei confronti della Repubblica islamica dell'Iran, del Ministero dell'informazione e della sicurezza dello stesso Stato, in solido con rappresentanti dell'alta amministrazione iraniana, per attentati terroristici contro popolazione civile avvenuti in Israele. La Corte di cassazione innanzi tutto dà seguito agli arresti del 22 ottobre 2014 n. 238 e 3 marzo 2015 n. 30 con cui la Corte costituzionale ha ritenuto che l'immunità degli Stati esteri dalla giurisdizione civile per gli atti compiuti nell'esercizio dei poteri sovrani, riconosciuta dal diritto internazionale consuetudinario, non può valere a escludere l'accesso alla giurisdizione italiana in relazione ad azioni derivanti da crimini di guerra e contro l'umanità lesivi dei diritti fondamentali della persona, trattandosi di principio irrinunciabile del nostro sistema costituzionale. Con ciò resistendo, in chiave di "controlimite", all'opposto principio affermato dalla Corte internazionale di giustizia, 3 febbraio 2012, Germania c. Italia, secondo cui nella prassi internazionale non si rinvengono elementi sufficienti a dedurre l'esistenza in parte qua di una deroga alla regola dell'immunità per atti statali iure imperii. La Corte di cassazione per un verso nega quindi vi potesse essere a tale titolo declinatoria di giurisdizione, anche se, per altro verso, finisce per confermare la negatoria dell'exequatur sull'assunto che, esulando la fattispecie dall'ambito applicativo della Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968, si doveva far applicazione dell'art. 3 della legge 31 maggio 1995 n. 218, e dunque guardare ai criteri di collegamento stabiliti dal codice di procedura civile italiano quanto alla competenza per territorio, dai quali derivava l'incompetenza della corte statunitense che aveva pronunciato la sentenza. L'ermeneutica applicativa è di assoluta novità nella parte in cui ricostruisce che la giurisprudenza costituzionale italiana non ha implicato una regola di giurisdizione civile universale per le azioni risarcitorie da delicta iure imperii ma, "solamente", l'inoperatività, nella parte ritagliata, della norma consuetudinaria sull'immunità quale affermata dalla giurisprudenza internazionale.

Una peculiare decisione da collocare nel quadro dei rapporti di diritto internazionale tra Stati è poi quella di Sez. U, n. 06496/2015, cit., Rv. 634863, riguardante una controversia tra un ente ecclesiastico civilmente riconosciuto e alcuni soggetti privati, avente ad oggetto la restituzione di beni immobili situati nel territorio italiano. La Corte ha rilevato il carattere civile della controversia a contenuto patrimoniale, dunque estranea ai profili confessionali. Posto che lo Stato riconosce la giurisdizione della Chiesa cattolica solo in ambito ecclesiastico, a norma dell'art. 2, paragrafo 1, dell'Accordo con la Santa Sede del 18 febbraio 1984, ratificato con legge 25 marzo 1985 n. 121, se ne trae la comprensibile conseguenza della sussistenza della giurisdizione italiana dato che non sono investiti nodi inerenti alla potestà spirituale né l'esercizio del potere disciplinare nei confronti degli appartenenti alla confessione religiosa.

Altro arresto degno di nota per la fattispecie affrontata è quella di Sez. U, n. 06603/2015, Travaglino, Rv. 634769, alla cui attenzione era stato portato il caso della Repubblica brasiliana convenuta in giudizio quale garante dei debiti di imprese statali per espressa previsione costituzionale. La Corte ha ritenuto che, anche qui, i profili patrimoniali escludessero interferenze con i poteri sovrani di auto-organizzazione dello Stato e, pertanto, che potesse operare il principio consuetudinario della immunità ristretta. Sia l'obbligazione principale assunta dalla società di diritto brasiliano che quella accessoria di garanzia facente capo allo Stato estero gravitavano evidentemente nell'orbita del diritto privato e dei rapporti gestori interprivatistici. Lo Stato brasiliano non aveva emanato atti di contenuto pubblicistico volti all'esclusione degli effetti di tale garanzia, <<bensì assunto la qualità di adiectus solutionis causa esclusivamente in forza di una norma (costituzionale) che lo dichiarava co-obbligato (senza necessità di "mediazione" legislativa o amministrativa), dell'impresa insolvente>>. La fattispecie era diversa da quella, più nota, relativa all'emissione e al collocamento sul mercato internazionale dei titoli obbligazionari argentini, in cui era emersa la <<distinzione tra atti compiuti iure privatorum (quelli, appunto, di emissione e collocamento dei bonds) e atti d'imperio, quali, in quella specie, i provvedimenti di moratoria adottati dal governo di quello Stato in attuazione di poteri sovrani incidenti tanto sulla legge di bilancio statuale quanto su finalità pubblicistiche ad essi sottese>>.

Dello stesso tenore sono Sez. U, n. 19784/2015, Travaglino, Rv. 637088, che hanno affermato la sussistenza della giurisdizione del giudice ordinario in un caso nel quale un consolato, convenuto in giudizio con una domanda di accertamento del diritto di proprietà su beni illegittimamente affidatigli con provvedimento abnorme dell'autorità giudiziaria penale successivamente revocato, aveva per un verso rifiutato la restituzione e per altro verso eccepito l'operatività dell'immunità ristretta. Anche in questa ipotesi il coinvolgimento di profili meramente patrimoniali escludeva ogni interferenza con funzioni sovrane anche nella forma del mantenimento di buoni rapporti internazionali.

In punto di diritto internazionale privato e processualcivilistico, viene in rilievo in primo luogo la precisazione di Sez. 3, n. 22992/2015, Spirito, Rv. 637684, in cui è stato negato che la clausola convenzionale derogatoria della giurisdizione, pattuita tra un soggetto italiano e un altro straniero, possa impedire a quest'ultimo di optare per la giurisdizione italiana giovandosi della riserva che l'art. 3, comma 1, della legge n. 218 del 1995 assegna al convenuto residente o domiciliato o con rappresentante autorizzato a stare in giudizio in Italia

Da ultimo, sembrano sempre utili le precisazioni di Sez. U, n. 08571/2015, Bernabai, Rv. 635085, che hanno ribadito il costante insegnamento secondo il quale ai fini della determinazione della giurisdizione nei casi di responsabilità aquiliana a norma dell'art. 5 della Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968, il decisivo luogo dell'evento dannoso coincide sia con quello in cui l'azione ovvero l'omissione è stata compiuta, sia con il luogo del c.d. danno iniziale (si trattava di pretesa lesione del credito dovuta a un'indebita escussione di una garanzia), con simmetrica esclusione, ai soli fini in discussione, della rilevanza dei c.d. danni-conseguenza nonché, per evitare disfunzionali fenomeni di forum shopping, della rilevanza del luogo dove si trovano le vittime secondarie danneggiate, cioè, in via mediata (nel caso, per l'esercizio di un'azione di rivalsa).

PARTE NONA IL PROCESSO

  • spese processuali
  • giudice
  • pubblico ministero
  • procedura civile
  • competenza per materia
  • servizio postale
  • competenza giurisdizionale
  • competenza territoriale
  • capacità di agire
  • avvocato
  • consulenza e perizia
  • interesse ad agire
  • prova
  • ricusazione
  • esecuzione della sentenza

CAPITOLO XXXIV

IL PROCESSO IN GENERALE

(di Francesca Miglio, Andrea Penta )

Sommario

1 Il giudice. - 1.1 Determinazione del valore della causa. - 1.2 Competenza per valore. - 1.3 Competenza per materia. - 1.3.a Ripartizione delle funzioni tra le sezioni specializzate in materia di proprietà intellettuale ed industriale di cui al d.lgs. 27 giugno 2003 n. 168 e giudice del lavoro. - 1.4 Competenza per territorio. - 1.4.a Foro del consumatore. - 1.5 Regolamento di competenza su istanza di parte. - 1.6 Regolamento di competenza di ufficio. - 1.7 Delle modificazioni della competenza per ragioni di connessione. - 1.7.a Accertamento del rapporto pregiudicante. - 1.7.b Domanda riconvenzionale. - 1.8 Litispendenza. - 1.9 Continenza. - 1.10 Astensione e ricusazione. - 2 Gli ausiliari del giudice. Il consulente tecnico d'ufficio. - 3 Il Pubblico Ministero, le parti e i difensori. - 3.1 La partecipazione del Pubblico Ministero al processo civile. - 3.2 Le parti. Capacità processuale. - 3.3 I difensori. - 3.4 Le spese processuali. - 4 Il principio della domanda. - 5 Interesse ad agire. - 6 Legittimazione ad agire. - 7 Il principio del contraddittorio. - 8 Pluralità di parti. - 8.1 Litisconsorzio necessario. - 8.2 Litisconsorzio facoltativo. - 8.3 Intervento volontario e integrazione del contraddittorio. - 8.4 Successione di parti. - 9 I principi generali. L'art. 112 c.p.c. - 9.1 L'omessa pronuncia. - 10 Il principio di disponibilità delle prove. - 10.1 Il principio di non contestazione. - 11 La valutazione delle prove. - 12 Le forme degli atti e dei provvedimenti. - 12.1 Il contenuto della sentenza. - 12.2 La decisione a seguito di trattazione orale. - 13 La pubblicazione e comunicazione della sentenza. - 14 Le notificazioni. - 14.1 Le varie fattispecie di notificazione. - 14.2 Le notificazioni a mezzo del servizio postale. - 15 I termini processuali. - 16 La nullità degli atti. - 16.1 I vizi di costituzione del giudice. - 17 La nullità della sentenza.

1. Il giudice.

La Suprema Corte è tornata ad affermare o a ribadire importanti principi in ordine agli istituti che disciplinano l'individuazione del giudice competente (competenza, litispendenza, continenza, connessione) e agli istituti che ne garantiscono la imparzialità (astensione e ricusazione).

1.1. Determinazione del valore della causa.

Sez. 3, n. 17202/2015, Rubino, Rv. 636477, ha statuito che nelle cause originariamente incardinate dinanzi al pretore, ancora pendenti alla data del 2 giugno 1999 ed attribuite, ex art. 1 del d. lgs. 19 febbraio 1998, n. 51, alla competenza del tribunale, qualora la parte abbia inserito nell'atto introduttivo la c.d. clausola di contenimento del valore complessivo della causa, lo stesso rimane fissato nei limiti della competenza del giudice originariamente adito, in quanto il limite quantitativo della domanda non può variare nel corso del processo in ragione dei mutamenti normativi dei criteri di competenza.

In materia di determinazione del valore delle cause aventi ad oggetto prestazioni di assistenza sociale, ha statuito Sez. U, n. 10454/2015, Nobile, Rv. 635277, che tali prestazioni hanno natura alimentare, in quanto fondate esclusivamente sullo stato di bisogno del beneficiario, a differenza delle prestazioni previdenziali, che presuppongono un rapporto assicurativo e hanno più ampia funzione di tutela. Pertanto, in tali controversie, il valore della causa, ai fini della liquidazione delle spese di giudizio, si stabilisce con il criterio previsto dall'art. 13, comma 1, c.p.c. per le cause relative alle prestazioni alimentari, sicché, se il titolo è controverso, il valore si determina in base all'ammontare delle somme dovute per due anni.

1.2. Competenza per valore.

Secondo Sez. 6-3, n. 11287/2015, Cirillo, Rv. 635602, nel caso in cui vengano proposte cumulativamente, dinanzi al giudice di pace, una domanda di condanna al pagamento di una somma di danaro, inferiore al limite massimo di competenza per valore del giudice adito ed una domanda di condanna ad un facere, per la quale non sia indicato alcun valore, quest'ultima deve ritenersi di valore corrispondente al suddetto limite massimo, sicché il cumulo delle due domande comporta il superamento della competenza per valore del giudice di pace.

1.3. Competenza per materia.

Ha affermato Sez. 6-1, n. 02833/2015, Bisogni, Rv. 634420, che ai sensi dell'art. 38 disp. att. c.c., come novellato dall'art. 3 della legge 10 dicembre 2012, n. 219, il tribunale per i minorenni resta competente a conoscere della domanda di declaratoria di decadenza o di limitazione della potestà dei genitori ancorché, nel corso del giudizio, sia stata proposta, dinanzi al Tribunale ordinario, domanda di separazione personale dei coniugi o di divorzio, trattandosi di interpretazione aderente al dato letterale della norma, rispettosa del principio della perpetuatio jurisdictionis, di cui all'art. 5 c.p.c., nonché coerente con ragioni di economia processuale e di tutela dell'interesse superiore del minore, che trovano fondamento nell'art. 111 Cost., nell'art. 8 CEDU e nell'art. 24 della Carta di Nizza.

1.3.a. Ripartizione delle funzioni tra le sezioni specializzate in materia di proprietà intellettuale ed industriale di cui al d.lgs. 27 giugno 2003 n. 168 e giudice del lavoro.

Sez. 6-L, n. 15619/2015, Arienzo, Rv. 636585, ha ritenuto che tale ripartizione configura una questione di competenza e non di mera distribuzione degli affari, attesa la mancata istituzione della sezione specializzata presso ogni distretto, realizzandosi, diversamente, una asimmetria del sistema tra l'ipotesi in cui la declaratoria di competenza sia emessa nell'ambito di un tribunale presso il cui distretto non risulti dislocata alcuna sezione specializzata, ovvero, per contro sia invece istituita, sicché solo nel primo caso, in violazione dei principi di cui agli artt. 3 e 24 Cost., sarebbe proponibile dalla parte il rimedio del regolamento di competenza.

1.4. Competenza per territorio.

Ha statuito Sez. 6-3, n. 07835/2015, Frasca, Rv. 635215, che l'opposizione a decreto ingiuntivo emesso da una sezione distaccata di tribunale anteriormente alla sua soppressione in forza del d. lgs. 7 settembre 2012, n. 155, con trasferimento del territorio ad altro tribunale e notificato dopo la data di efficacia della soppressione stessa, pur originariamente proponibile dinanzi al tribunale accorpante ex art. 9 comma 2 del d.lgs. cit., a seguito dell'intervento correttivo operato con il d.lgs. 19 febbraio 2014, n. 14 (che ha introdotto i commi 2 bis e 2 ter del medesimo articolo) resta, per competenza sopravvenuta, del tribunale a cui apparteneva il territorio della sezione soppressa. Ne consegue che ove la opposizione sia stata incardinata dinanzi al tribunale accorpante, il giudice è tenuto, senza caducare il decreto, a declinare la competenza a favore del tribunale cui apparteneva la sezione soppressa, spettando a quest'ultimo la cognizione sulla validità dell'atto.

Analogamente Sez. 6-3, n. 06276/2015, Barreca, Rv. 634735, ha ritenuto che ai sensi dell'art. 9 del d. lgs. 7 settembre 2012, n. 155, come integrato dall'art. 8 del d. lgs. 19 febbraio 2014, n. 14, l'opposizione a decreto ingiuntivo emesso dalla sezione distaccata di tribunale prima della sua soppressione si propone al tribunale che ne costitutiva la sede principale anche se la porzione di territorio della sede distaccata è stata attribuita - dal 13 settembre 2013 (data di efficacia del d.lgs. n. 155 del 2012) - al circondario di un diverso ufficio giudiziario.

Secondo Sez. 6-2, n. 17130/2015, Giusti, Rv. 636140, in materia di competenza territoriale, l'art. 23 c.p.c., che prevede per le cause condominiali il foro esclusivo del luogo in cui si trovano i beni comuni o la maggior parte di essi, è derogabile poiché non rientra nell'ipotesi di cui all'art. 28 c.p.c., né il carattere esclusivo del foro stesso implica una diversa soluzione, sicché è valida ed efficace la clausola del regolamento condominiale che stabilisca un foro convenzionale per ogni controversia relativa al regolamento medesimo.

Sez. 6-2, n. 12148/2015, Petitti, Rv. 635568, ha peraltro stabilito che la competenza del forum rei sitae, ai sensi dell'art 23 c.p.c., si applica anche quando oggetto di comproprietà sia un bene mobile (nella specie un natante) poiché la norma impiega il termine "condominio" quale sinonimo di "comunione", senza riguardo per il tipo di bene comune.

Secondo Sez. 6-2, n. 00180/2015 , Giusti, Rv. 634057, l'art. 23 c.p.c. si applica a tutte le liti tra singoli condomini attinenti ai rapporti giuridici derivanti dalla proprietà delle parti comuni del'edificio o dall'uso e godimento delle stesse, incluse quelle relative al risarcimento dei danni arrecati alla proprietà individuale.

La Suprema Corte ha inoltre affrontato il tema del rapporto tra competenza per territorio ed accordo della parti, affermando che la clausola di deroga della competenza territoriale contenuta in un contratto concluso da una società in nome collettivo è vincolante anche per i singoli soci, agli effetti dell'art. 2267 c.c., operando, pertanto, nei confronti della società e dei soci responsabili per le obbligazioni sociali il medesimo foro convenzionale pattuito come esclusivo, senza che possa intervenire alcuna modificazione della competenza per ragioni di connessione oggettiva ex art. 33 c.p.c., che presuppone siano convenuti dinanzi al medesimo giudice più soggetti per i quali operino differenti fori generali, anche convenzionali, sempreché il giudice adito sia competente per territorio per almeno una delle parti convenute (Sez. 6-2, n. 11950/2015, Manna, Rv. 635592).

Sullo stesso tema, Sez. 6-2, n. 14390/2015, Manna, Rv. 635896, ha ritenuto che la clausola contrattuale di deroga della competenza per territorio assolve la funzione di designare l'ufficio giudiziario di maggiore prossimità per una delle parti attraverso un rinvio mobile alle norme dell'ordinamento giudiziario che fissano la sede e le articolazioni territoriali del foro prescelto. Ne consegue che la soppressione dell'ufficio giudiziario indicato convenzionalmente non rende inefficace la suddetta clausola, che dovrà intendersi riferita all'ufficio giudiziario che abbia accorpato quello soppresso.

In materia di azione di risarcimento del danno conseguente al contenuto diffamatorio di una trasmissione televisiva o più in generale, da lesione di diritti della personalità derivanti da mezzi di comunicazione di massa, Sez. 6-3, n. 00271/2015, Cirillo, Rv. 633942, ha affermato che il criterio di competenza del forum commissi delicti di cui all'art. 20 c.p.c., individuato nel luogo di domicilio, o, se diverso, dalla residenza del soggetto danneggiato non ha carattere esclusivo, ma concorre con la regola generale per cui i fori di cui agli artt. 18, 19 e 20 c.p.c. sono comunque alternativi.

Secondo Sez. 6- 3, n. 10858/2015, Cirillo, Rv. 635495, ai fini della competenza per territorio di cui all'art. 20 c.p.c., non incide sul forum destinatae solutionis la pattuita modalità del prezzo della vendita per mezzo delle c.d. ricevute bancarie poiché queste, non avendo efficacia di obbligazione cartolare, ma essendo destinate soltanto a facilitare la riscossione delle rate del credito per mezzo dei servizi bancari, non determinano lo spostamento del luogo di adempimento dal domicilio del creditore, come previsto dall'art. 1182, comma 3, c.c., a quello del debitore, salvo che la suddetta modalità di pagamento sia stata convenuta con carattere esclusivo e il creditore abbia rinunziato espressamente al suo diritto di ricevere il pagamento nel proprio domicilio, ai sensi dell'art. 1182 e dell'art. 1498, comma 3, c.c.

1.4.a. Foro del consumatore.

Ha ritenuto Sez. 6-3, n. 14287/2015, Scarano, Rv. 635850, che la disciplina del foro del consumatore, esclusivo e speciale e, come tale, prevalente rispetto ai fori individuati alla stregua degli artt. 18, 19 e 20 c.p.c., è applicabile anche ai contratti di video lotteria, configurandosi le attività dei concessionari che consentono agli utilizzatori di parteciparvi, dietro corrispettivo, come prestazione di servizi ex art. 49 Trattato CE. L'applicabilità della suddetta disciplina, peraltro, è da ritenersi preclusa solo qualora ricorra il presupposto oggettivo della trattativa ex art. 34, comma 4, del d. lgs. 6 settembre 2005, n. 206, sempre che concretamente caratterizzata dai requisiti della individualità, serietà ed effettività.

1.5. Regolamento di competenza su istanza di parte.

La Suprema Corte, sull'istituto in esame, ha ribadito il principio che le pronunce che decidono soltanto sulla competenza e sulle spese di primo e secondo grado, ad eccezione delle sentenze del giudice di pace (art. 46 c.p.c.), devono essere impugnate esclusivamente con il regolamento necessario di cui all'art. 42 c.p.c., che configura il regolamento di competenza come mezzo di impugnazione tipico per ottenere una diversa statuizione. Ne consegue che, in tal caso, è inammissibile l'impugnazione proposta nelle forme del ricorso ordinario per cassazione, salva la possibilità di conversione in istanza di regolamento di competenza se ne ricorrono i requisiti e lo stesso sia proposto nel termine di trenta giorni, decorrente dalla notificazione ad istanza di parte o dalla comunicazione del provvedimento a opera della cancelleria (Sez. 6-2, n. 09268/2015, Petitti, Rv. 635258).

Nella stessa materia, Sez. L, n. 16359/2015, Amendola, Rv. 636347, ha statuito che nel regime dell'art. 38 c.p.c., novellato dall'art. 4 della legge 26 novembre 1990, n. 353, nel quale tutte le questioni di competenza devono essere introdotte nel processo, sia tramite eccezione di parte che d'ufficio, entro tempi stabiliti, la decisione del giudice di merito che abbia statuito solo sulla competenza deve essere impugnata esclusivamente con il regolamento necessario di competenza; pertanto tale mezzo d'impugnazione è proponibile anche quando esista una questione sulla ammissibilità e tempestività dell'eccezione di competenza o sul tempestivo rilievo di ufficio della medesima, e la Corte di cassazione, ove verifichi che la sentenza declinatoria della competenza sia stata emessa in violazione delle regole di tempestività dell'eccezione o del rilievo di ufficio, deve dichiarare la tardività della eccezione o del rilievo.

In merito ai requisiti dell'atto impugnatorio, Sez. 6-3, n. 16134/2015, Scarano, Rv. 636483, ha poi precisato che il regolamento di competenza è configurato - salvo il caso in cui sia destinato a risolvere un conflitto virtuale di competenza - come uno specifico mezzo di impugnazione avverso i provvedimenti che pronunciano sulla competenza, sicché, in ossequio al principio di autosufficienza, deve contenere tutti gli elementi previsti dall'art. 366 c.p.c., in ordine ai quali l'art. 47 dello stesso codice non disponga una regolamentazione differenziata e, dunque, ai sensi del n. 6 della norma, la parte è tenuta, oltre a richiamare gli atti e i documenti del giudizio di merito, anche a riprodurli nel ricorso e ad indicare in quale sede processuale siano stati prodotti.

Sez. 6-2, n. 17129/2015, Giusti, Rv. 636136, ha chiarito che il provvedimento di sospensione del processo, ai sensi dell'art. 295 c.p.c., pur avendo la forma della ordinanza, non è revocabile dal giudice che lo ha pronunciato, poiché tale revocabilità confliggerebbe con la previsione della sua impugnabilità mediante regolamento necessario di competenza. Ne consegue che ove la parte, anziché proporre il regolamento nel termine previsto dall'art. 47, comma 2, c.p.c., abbia presentato istanza di revoca dell'ordinanza di sospensione al giudice che l'aveva emanata e questi abbia emesso un provvedimento meramente confermativo di quello precedente, la mancata impugnazione della prima ordinanza, determina la inammissibilità del regolamento proposto avverso il secondo provvedimento, risultando altrimenti eluso - mediante la inammissibile proposizione di un'istanza di revoca - il termine perentorio previsto dalla norma.

Nello stesso ambito, Sez. 6-L, n. 02302/2015, Marotta, Rv. 634310, ha statuito che in tema di regolamento di competenza, l'art. 45 della legge 18 giugno 2009, n. 69, nel modificare l'art. 42 c.p.c., prevedendo la forma decisoria dell'ordinanza, non ha inciso sul relativo regime impugnatorio, sicché in caso di ordinanza resa a verbale di udienza, il termine per la proposizione della impugnazione decorre dalla data di questa, trattandosi di provvedimento che, ai sensi dell'art. 176 cod. proc. civ, si reputa conosciuto dalle parti.

Secondo Sez. 6-1, n. 17650/2015, Bisogni, Rv. 636541, l'ordinanza declinatoria della competenza resa dal tribunale in composizione monocratica in una controversia instaurata dopo la entrata in vigore della legge n. 69 del 2009 presuppone il previo invito alle parti alla precisazione delle conclusioni, sicché ove la decisione sia stata emessa senza il rispetto di tale formalità, la stessa è impugnabile con il regolamento di competenza.

Sempre in tema di provvedimenti impugnabili con lo strumento in esame, Sez. 6-3, n. 03915/2015, De Stefano, Rv. 634538, ha precisato che il provvedimento di sospensione del processo ex art. 48 c.p.c., in ragione della proposizione di un precedente regolamento di competenza, integra una ipotesi di sospensione cd. impropria, avverso la quale non è ammissibile un autonomo regolamento di competenza, trattandosi di evenienza che esula dall'ambito dell'art. 42 c.p.c., riferito esclusivamente ai casi di sospensione per pregiudizialità.

Anche nella materia in esame la Suprema Corte ha precisato un importante principio inerente alla incidenza dell'accordo delle parti sulla determinazione del giudice competente.

In particolare, secondo Sez. 6-2, n. 05817/2015, Giusti, Rv. 635055, l'accordo endoprocessuale di proroga della competenza può formarsi anche in pendenza di un giudizio per regolamento avverso una ordinanza affermativa della competenza, ma priva del carattere di decisorietà perché non preceduta dalla remissione della causa in decisione con invito delle parti a precisare le rispettive conclusioni, atteso che, in tale evenienza, il regolamento è destinato ad una pronuncia di inammissibilità e non può, dunque, condurre ad una statuizione sulla competenza dotata di efficacia maggiore rispetto all'accordo.

1.6. Regolamento di competenza di ufficio.

In materia di regolamento di competenza di ufficio, Sez. 6-3, n. 16143/2015, Frasca, Rv. 636484, ha ribadito che il giudice indicato come competente da quello originariamente adito, ed innanzi al quale la causa sia stata riassunta, può rilevare, a sua volta, la propria incompetenza non oltre la prima udienza di trattazione, essendogli altrimenti preclusa la possibilità di sollevare il conflitto di competenza.

Nello stesso ambito, Sez. 6-3, n. 00728/2015 Ambrosio, Rv. 634389, ha ritenuto che il regolamento di competenza di ufficio postula che il giudice dinanzi al quale la causa è riassunta a seguito di incompetenza dichiarata dal primo giudice per ragioni di materia o di territorio inderogabile si ritenga a sua volta incompetente sotto i medesimi profili, sicché ove il giudice ad quem declini la propria competenza senza individuare la competenza per materia o territoriale inderogabile del primo o di altro giudice, il conflitto di competenza è inammissibile, profilando implicitamente il suo diniego l'applicabilità dell'ordinario criterio di distribuzione per valore.

In tema di regolamento di competenza, inoltre, la pronuncia con cui la Corte di cassazione definisca il regolamento proposto da una delle parti, anche quando si sostanzi in una declaratoria di inammissibilità, preclude al giudice innanzi al quale il processo deve essere riassunto di proporre regolamento di ufficio ex art. 45 c.p.c., posto che la decisione intervenuta definisce la questione sotto tutti i profili ipotizzabili anche se non esaminati ex professo dalla Corte (Sez. 6-3, n. 17478/2015, Vivaldi, Rv. 636513).

1.7. Delle modificazioni della competenza per ragioni di connessione.

Ha affermato Sez. 6-3, n. 18111/2015, Frasca, Rv. 636739, che nel caso di domanda di rilascio di bene immobile asseritamente occupato sine titulo, quando il convenuto spieghi domanda riconvenzionale di accertamento di una rapporto di affittanza, la competenza per materia sull'accertamento positivo o negativo del rapporto agrario impone, salvo che la domanda riconvenzionale risulti prima facie infondata, la rimessione della intera controversia al giudice specializzato, inerendo entrambe le pretese all'accertamento dell'unico rapporto, con conseguente nesso pregiudicante per incompatibilità.

1.7.a. Accertamento del rapporto pregiudicante.

Secondo Sez. 6-3, n. 03725/2015, Frasca, Rv. 634754, la richiesta del convenuto di accertamento con efficacia di giudicato ex art. 34 c.p.c. di un rapporto pregiudicante, deve essere ritualmente formulata con la comparsa di risposta tempestivamente depositata, mentre ove egli abbia dedotto la questione solo in via di eccezione, riservandosi la domanda in caso di contestazione attorea, la domanda è tardiva (e inammissibile) in quanto per sciogliere il nesso di subordinazione occorre attendere la prima udienza di comparizione, nella quale l'attore potrebbe manifestare la sua contestazione.

1.7.b. Domanda riconvenzionale.

Ha affermato Sez. 6-3, n. 14369/2015, Frasca, Rv. 636010, che la pronuncia del giudice il quale, a fronte di una domanda principale ed una riconvenzionale disponga lo scioglimento del cumulo, escludendo che lo stesso possa mantenersi per ragioni di connessione e poi declini la propria competenza in ordine alla domanda riconvenzionale, affermandola, invece, per la domanda principale, ha natura di pronuncia sulla competenza ai sensi dell'art. 36 c.p.c.

Nello stesso ambito, secondo Sez. 2, n. 08814/2015, Manna, Rv. 635183, l'inammissibilità della domanda riconvenzionale che non comporti spostamento di competenza non è rilevabile di ufficio, ma solo su tempestiva eccezione della parte convenuta.

1.8. Litispendenza.

Ha ritenuto Sez. 6-1, n. 18252/2015, Ragonesi, Rv. 636688, che le questioni di litispendenza vanno decise con riferimento alla situazione processuale esistente al momento della relativa pronuncia, dovendosi tenere conto anche delle vicende processuali sopravvenute, sicché, in caso di definizione di uno dei giudizi pendenti, cessano le condizioni per l'applicabilità dell'art. 39 c.p.c.

Nello stesso ambito, Sez. 6-1, n. 16454/2015, Scaldaferri, Rv. 636628, ha affermato che due cause pendenti tra le stesse parti e con identità di causa petendi e di petitum sono in rapporto di litispendenza e non di continenza anche nel caso in cui una di esse abbia ad oggetto più domande, una sola delle quali avanzata nell'altro procedimento, ben potendo in tale ipotesi la litispendenza essere dichiarata con riferimento ad una soltanto delle domande proposte.

Secondo Sez. 6-3, n. 10509/2015, Carluccio, Rv. 635604, in materia di litispendenza, ai fini dell'applicazione del principio di prevenzione tra cause in rapporto di continenza, l'una iniziata con ricorso monitorio, l'altra con citazione, occorre avere riguardo, per quest'ultima, al perfezionamento del procedimento di notificazione con consegna dell'atto al destinatario anche in caso di nullità della notificazione, se il vizio sia stato sanato, con effetto ex tunc a seguito di rinnovazione ex art. 291 c.p.c.

Nella materia in esame è stata resa una interessante pronuncia da Sez. 6-2, n. 11949/2015, Manna, Rv. 635595, in particolare in relazione ai procedimenti cautelari. La Suprema Corte ha affermato che in caso di accoglimento della domanda cautelare (confermato in sede di reclamo), seguito da rituale inizio del giudizio di merito, ai fini della individuazione del giudice preventivamente adito, deve tenersi conto della data di instaurazione del procedimento cautelare, atteso l'inequivocabile collegamento che la norma impone tra ordinanza di accoglimento e causa di merito, anche in base al testo dell'art. 669 octies, comma 6, c.p.c. aggiunto dal d.l. 14 marzo 2005, n. 35, convertito dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, il quale, per i provvedimenti cautelari ivi previsti, ha attenuato, ma non escluso, il vincolo di strumentalità tra la misura e il giudizio di merito, e considerando altresì come la proposizione della domanda cautelare ante causam al giudice competente a conoscere del merito ai sensi del'art. 669 ter c.p.c. preannunci una scelta processuale che, per il principio di autoresponsabilità ed affidamento processuale, vincola la parte ricorrente ed onera quella resistente ad eccepire la incompetenza già in sede cautelare.

1.9. Continenza.

Nella materia in esame, Sez. 1, n. 18564/2015, De Chiara, Rv. 636701, ha ritenuto che nel caso di continenza tra una causa introdotta con rito ordinario ed una introdotta con rito monitorio, ai fini dell'individuazione del giudice preventivamente adito, il giudizio introdotto con ricorso per decreto ingiuntivo deve ritenersi pendente alla data di deposito di quest'ultimo, trovando applicazione il criterio di cui all'ultimo comma dell'art. 39 c.p.c. come modificato dalla legge n. 69 del 2009, senza che rilevi la circostanza che l'emissione del decreto e la sua notifica siano avvenuti successivamente, agli effetti dell'art. 643, comma 3, c.p.c.

Nello stesso ambito Sez. 6-2, n. 19773/2015, Giusti, Rv. 636557, ha ritenuto che in caso di riassunzione ex art. 50 c.p.c., il processo continua dinanzi al giudice competente, sicché, ai fini della prevenzione, nella continenza di cause, il tempo del processo è quello della notifica dell'atto introduttivo davanti al primo giudice, seppur incompetente.

Sez. 6-L, n. 15618/2015, Marotta, Rv. 636582, ha affrontato un particolare caso di riunione per continenza o connessione dell'opposizione a decreto ingiuntivo con altro processo instaurato dinanzi ad un diverso ufficio a seguito di procedimento cautelare ante causam, affermando che la competenza territoriale sulle cause riunite, in tal caso, spetta al giudice del giudizio introdotto con il ricorso monitorio, trattandosi di competenza funzionale e inderogabile, senza che rilevi l'assenza di eccezioni di parte nel giudizio cautelare, che in quanto tale non è soggetto a preclusioni ex art. 38 c.p.c.

Sez. 6-L, n. 11076/2015, Mancino, Rv. 635525, ha ritenuto che il socio lavoratore di una società cooperativa nell'ambito di un appalto di servizi, licenziato a fronte dell'impegno della società subentrante di procedere alla sua assunzione, poi non effettuata, qualora agisca per la costituzione del rapporto di lavoro e, in via subordinata, per l'annullamento del licenziamento, può adire, anche per la domanda nei confronti della società subentrante, il tribunale del luogo dove si trova la dipendenza aziendale cui era addetto, trattandosi di domande in rapporto di connessione per il titolo, si da consentire la instaurazione del giudizio davanti al giudice territorialmente competente per il rapporto di lavoro già in essere.

1.10. Astensione e ricusazione.

Sez. 2, n. 02593/2015, Falaschi, Rv. 634134, ha ritenuto che l'obbligo del giudice di astenersi, previsto dall'art. 51, comma 1, c.p.c., si riferisce ai casi in cui egli abbia conosciuto della causa in altro grado del processo e non anche ai casi in cui lo stesso abbia trattato una causa diversa vertente su un oggetto analogo, ancorché tra le stesse parti e che in tale ipotesi non sussistono gravi ragioni di convenienza rilevanti come motivo di ricusazione.

Nello stesso ambito, Sez. L, n. 03136/2015, Roselli, Rv. 634322, ha ritenuto che la fase dell'opposizione, ai sensi dell'art. 1, comma 51, legge 28 giugno 2012, n. 92, non costituisce un grado diverso rispetto a quello che ha preceduto l'ordinanza, ma solo la prosecuzione del medesimo giudizio in forma ordinaria, sicché non è configurabile alcuna violazione riconducibile all'art. 51, comma 1, n. 4, c.p.c., nel caso in cui lo stesso giudice persona fisica abbia conosciuto della causa in entrambe le fasi.

Sez. 6-3, n. 18976/2015, Frasca, Rv. 636844, ha affermato che in tema di ricusazione del giudice, la "inimicizia" del ricusato, a sensi dell'art. 51, comma 1, n. 3 c.p.c. non può essere dedotta dal contenuto di provvedimenti da lui emessi in altri processi concernenti il ricusante, tranne che le anomalie denunciate siano tali da non consentire neppure di identificare l'atto come provvedimento giurisdizionale; tuttavia, qualora ricorra tale ipotesi, il giudice della ricusazione deve anche accertare se quelle anomalie, in ipotesi ascrivibili ad altre cause, siano state determinate proprio da grave inimicizia nei confronti del ricusante, sul quale incombe l'onere di allegare fatti e circostanze rivelatrici dell'esistenza di ragioni di avversione o di rancore estranei alla realtà processuale.

Sez. U, n. 13018/2015, Petitti, Rv. 635710, ha affermato che in tema di ricusazione del giudice, non è "causa pendente" tra ricusato e ricusante, ai sensi dell'art. 51, comma 1, n. 3 c.p.c., il giudizio di responsabilità di cui alla legge 13 aprile 1988, n. 117, atteso che il magistrato non assume mai la qualità di debitore di chi abbia proposto la relativa domanda, questa potendo essere rivolta, anche dopo la legge 27 febbraio 2015, n.18, nei soli confronti dello Stato.

Sullo stesso tema, la Suprema Corte, nella decisione in precedenza richiamata, Rv. 635709, ha ritenuto inammissibile l'istanza di ricusazione proposta nei confronti di un giudice solo perché egli aveva concorso al rigetto di una precedente istanza di ricusazione della stessa parte, in quanto, fuori della previsione di cui all'art. 51, comma 1, n. 4, c.p.c., il provvedimento giurisdizionale tipico, non affetto da anomalie evidenti, non rivela grave inimicizia del giudice solo perché contrario all'interesse della parte.

Circa il regime impugnatorio relativo alle ordinanze che decidono sulla ricusazione, Sez. 6-3, n. 01932/2015, Frasca, Rv. 634244, ha affermato che l'ordinanza di rigetto dell'istanza di ricusazione non è impugnabile con ricorso straordinario per cassazione, perché, pur avendo natura decisoria, manca del necessario carattere di definitività e non ne è precluso il riesame nel corso del processo attraverso il controllo sulla pronuncia resa da (o con il concorso del) iudex suspetctus, in quanto l'eventuale vizio causato dalla incompatibilità del giudice ricusato si risolve in motivo di nullità dell'attività svolta dal giudice stesso e, quindi, in gravame della sentenza da lui emessa.

2. Gli ausiliari del giudice. Il consulente tecnico d'ufficio.

Sez. 3, n. 18313/2015, Chiarini, Rv. 636725, ha affermato che il consulente tecnico d'ufficio svolge, nell'interesse della giustizia, funzioni ausiliarie del giudice di natura non giurisdizionale, sicché è obbligato a risarcire i danni cagionati in violazione dei doveri connessi all'ufficio senza che sia ipotizzabile una concorrente responsabilità del Ministero della giustizia.

Sez. 6-3, n. 01815/2015, Amendola, Rv. 634182, ha affermato che il giudice di merito, quando aderisce alle conclusioni del consulente tecnico che nella relazione abbia tenuto conto, replicandovi, dei rilievi dei consulenti di parte, esaurisce l'obbligo della motivazione con l'indicazione delle fonti del suo convincimento, e non deve necessariamente soffermarsi anche sulle contrarie allegazioni dei consulenti tecnici di parte, che, sebbene non espressamente confutate, restano implicitamente disattese perché incompatibili, senza che possa configurarsi vizio di motivazione, in quanto le critiche di parte, che tendono al riesame degli elementi di giudizio già valutati dal consulente tecnico, si risolvono in mere argomentazioni difensive.

Nello stesso ambito, Sez. 3, n. 12703/2015, Vincenti, Rv. 635773, ha chiarito che il giudice del merito non è tenuto a fornire un'argomentata e dettagliata motivazione là dove aderisca alle elaborazioni del consulente ed esse non siano state contestate in modo specifico dalle parti, mentre, ove siano state sollevate censure dettagliate e non generiche, ha l'obbligo di fornire una precisa risposta argomentativa correlata alle specifiche critiche sollevate, corredando con una più puntuale motivazione la propria scelta di aderire alle conclusioni del consulente d'ufficio.

Sez. 1, n. 06138/2015 Genovese, Rv. 634880, ha affermato che in tema di dichiarazione dello stato di adottabilità di un minore, ove i genitori facciano richiesta di una consulenza tecnica relativa alla valutazione della loro personalità e capacità educativa nei confronti del minore per contestare elementi, dati e valutazioni dei servizi sociali - ossia organi dell'Amministrazione che hanno avuto contatti sia con il bambino che con i suoi genitori - il giudice che non intenda disporre tale consulenza deve fornire una specifica motivazione che dia conto delle ragioni che la facciano ritenere superflua, in considerazione dei diritti personalissimi coinvolti nei procedimenti in materia di filiazione e della rilevanza accordata in questi giudizi, anche dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, alle risultanze di perizie e consulenze.

Sez. 3, n. 12921/2015, Rubino, Rv. 635808, ha affermato che il consulente tecnico di ufficio ha il potere di acquisire ogni elemento necessario per espletare convenientemente il compito affidatogli, anche se risultante da documenti non prodotti in giudizio, sempre che non si tratti di fatti che, in quanto posti direttamente a fondamento delle domande e delle eccezioni, debbono essere provati dalle parti.

Sez. 1, n. 17399/2015, Lamorgese, Rv. 636775, ha ribadito che la decisione di ricorrere o meno ad una consulenza tecnica d'ufficio costituisce un potere discrezionale del giudice, che, tuttavia, è tenuto a motivare adeguatamente il rigetto dell'istanza di ammissione proveniente da una delle parti, dimostrando di poter risolvere, sulla base di corretti criteri, i problemi tecnici connessi alla valutazione degli elementi rilevanti ai fini della decisione, senza potersi limitare a disattendere l'istanza sul presupposto della mancata prova dei fatti che la consulenza avrebbe potuto accertare. Pertanto, nelle controversie che, per il loro contenuto, richiedono si proceda ad un accertamento tecnico, il mancato espletamento di una consulenza medico-legale, specie a fronte di una domanda di parte in tal senso (nella specie, documentata attraverso l'allegazione di un certificato medico indicativo del nesso di causalità tra la sindrome depressiva lamentata e la condotta illecita del convenuto), costituisce una grave carenza nell'accertamento dei fatti da parte del giudice di merito, che si traduce in un vizio della motivazione della sentenza.

3. Il Pubblico Ministero, le parti e i difensori.

3.1. La partecipazione del Pubblico Ministero al processo civile.

Ha ritenuto Sez. 6-1, n. 17664/2015, Acierno, Rv. 636543, che nelle cause relative allo stato delle persone (nella specie accertamento giudiziale della paternità), la mancata trasmissione degli atti al P.M., il cui intervento è obbligatorio ai sensi dell'art. 70, comma 1, n. 3, c.p.c., dà luogo a nullità della sentenza, che, se resa nel giudizio di appello, va cassata con rinvio alla corte d'appello affinché, previo coinvolgimento del P.G., provveda alla trattazione e decisione della causa.

Nello stesso ambito, Sez. 1, n. 06136/2015, Genovese, Rv. 634962, ha riaffermato che al fine del rispetto della prescrizione relativa all'intervento obbligatorio del P.M. nei procedimenti civili riguardanti lo stato delle persone, non è necessaria la presenza di un rappresentante di tale ufficio nel corso delle udienze, né che rassegni le proprie conclusioni, ma è sufficiente che egli sia stato informato mediante l'invio degli atti del giudizio e così posto in condizioni di sviluppare l'attività ritenuta opportuna.

3.2. Le parti. Capacità processuale.

Ha ritenuto Sez. T, n. 12531/2015, Federico, Rv. 635747, che nei confronti delle persone inabilitate, le quali devono stare in giudizio con la necessaria assistenza del curatore, il procedimento di notificazione ha carattere complesso in quanto può ritenersi perfezionato solo quando l'atto sia portato a conoscenza tanto della parte quanto del curatore, per mettere quest'ultimo in grado di svolgere la sua funzione di assistenza. Ne consegue che, ai sensi dell'art. 75 c.p.c., analogicamente applicabile, per identità di ratio, alla cartella di pagamento, la notifica al solo inabilitato, che non sia effettuata pure nei confronti del curatore, è giuridicamente inesistente, non assumendo rilievo la mancata indicazione della curatela nelle dichiarazioni dei redditi, atteso che è onere dell'Amministrazione individuare la persona che ha la rappresentanza dell'incapace.

Sez. 3, n. 12714/2015, Amendola, Rv. 635819, ha ritenuto che nell'ipotesi in cui sia convenuto in giudizio, in proprio, un soggetto privo di capacità processuale (per essere stato interdetto legalmente ex art. 32 c.p.), il riacquisto della capacità in fase di gravame determina la sanatoria della nullità della sua costituzione in giudizio, con efficacia ex tunc - ai sensi dell'art. 182 c.p.c. - idonea ad escludere l'invalidità della domanda proposta nei suoi confronti, ma non anche del giudizio svolto in violazione del principio del contraddittorio, sicché il giudice d'appello è tenuto a pronunciarsi su di essa, previa declaratoria della nullità della sentenza di primo grado, senza rimettere la causa al primo giudice.

Nello stesso ambito, Sez. 6-3, n. 14518/2015, Carluccio, Rv. 636002, ha affermato che nel giudizio introdotto dai genitori di un minorenne, quando si verifichi una causa interruttiva riguardante la controparte, è nullo l'atto di riassunzione fatto dal difensore degli attori originari in nome esclusivamente del figlio divenuto, medio tempore, maggiorenne, ma non conferitario della procura, giacché il raggiungimento della maggiore età e la contestuale perdita da parte dei genitori della rappresentanza legale del minorenne, determina esso stesso una causa interruttiva del giudizio, che, solo quando non sia dichiarata, consente all'originario mandato - per il principio della ultrattività - di continuare a spiegare i suoi effetti nella fase processuale in cui l'evento si verifica.

Sez. 3, n. 16274/2015, Cirillo, Rv. 636619, ha ritenuto che in tema di rappresentanza processuale, il potere rappresentativo, con la correlativa facoltà di nomina dei difensori e conferimento di procura alla lite, può essere riconosciuto soltanto a colui che sia investito di potere rappresentativo di natura sostanziale in ordine al rapporto dedotto in giudizio, sicché, in difetto, è esclusa la legitimatio ad processum del rappresentante e il relativo accertamento - attenendo alla verifica della regolare costituzione del rapporto processuale - può essere effettuato anche d'ufficio in ogni stato e grado del giudizio, compreso quello di legittimità, con il solo limite del giudicato sul punto. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha cassato la decisione con cui il giudice di appello - nel pronunciarsi sul gravame proposto dall'assicuratore della responsabilità civile, terzo chiamato in garanzia nell'ambito di un giudizio risarcitorio, diretto a far valere l'inoperatività della polizza - aveva respinto l'eccezione con cui l'attrice-danneggiata, già vittoriosa in primo grado, aveva inteso far valere il difetto di legittimazione del procuratore del chiamato in garanzia per l'omessa dimostrazione del conferimento dei poteri inerenti la qualità di procuratore speciale, erroneamente motivato sul presupposto dell'estraneità dell'appellata al rapporto tra assicurato ed assicuratore).

Secondo Sez. 1, n. 18571/2015, Lamorgese, Rv. 636776, l'autorizzazione a stare in giudizio emessa dall'organo collegiale competente, necessaria perché un ente pubblico possa agire o resistere in causa, attiene alla legitimatio ad processum, ossia all'efficacia e non alla validità della costituzione dell'ente a mezzo dell'organo che lo rappresenta, sicché può intervenire ed essere prodotta pure nel corso del giudizio, e, quindi, anche dopo che sia scaduto il termine per l'opposizione a decreto ingiuntivo.

Sez. 6-2, n. 05343/2015, Manna, Rv. 634875, ha precisato che il difetto di legittimazione processuale della persona fisica, che agisca in giudizio in rappresentanza di un ente, può essere sanato, in qualunque stato e grado del giudizio (e, dunque, anche in appello), con efficacia retroattiva e con riferimento a tutti gli atti processuali già compiuti, per effetto della costituzione in giudizio del soggetto dotato della effettiva rappresentanza dell'ente stesso, il quale manifesti la volontà, anche tacita, di ratificare la precedente condotta difensiva del falsus procurator. La ratifica e la conseguente sanatoria devono ritenersi ammissibili anche in relazione ad eventuali vizi inficianti la procura originariamente conferita al difensore da soggetto non abilitato a rappresentare la società in giudizio, trattandosi di atto soltanto inefficace e non anche invalido per vizi formali o sostanziali, attinenti a violazioni degli artt. 83 e 125 c.p.c.

3.3. I difensori.

Le decisioni di maggior rilievo hanno ad oggetto in modo particolare il mandato alle liti.

Sez. 3, n. 14634/2015, Pellecchia, Rv. 636279, ha ribadito che quando la difesa di due parti, tra loro in conflitto anche solo potenziale di interessi, sia stata affidata allo stesso avvocato, la parte che abbia conferito per seconda la procura a quest'ultimo deve ritenersi non costituita in giudizio, perché un difensore non può assumere il patrocinio di due parti che si trovino o possono trovarsi in posizione di contrasto.

Secondo Sez. 6-L, n. 02460/2015, Arienzo, Rv. 634543, nel giudizio di cassazione, la procura speciale al difensore può essere apposta, ai sensi dell'art. 83, comma 3, c.p.c., solo a margine o in calce degli atti ivi indicati (ossia del ricorso e del controricorso, nonché della memoria di nomina del nuovo difensore) in aggiunta o - per i giudizi instaurati successivamente alla novella di cui alla legge n. 69 del 2009 - in sostituzione del difensore originariamente designato. Ne consegue che, fuori da tali ipotesi, la procura deve essere rilasciata, ai sensi dell'art. 83, comma 2, c.p.c., con atto pubblico o scrittura privata autenticata, nel quale debbono essere indicati gli elementi essenziali del giudizio, quali l'indicazione delle parti e della sentenza impugnata.

Analogamente, ha affermato Sez. 3, n. 13329/2015, Rossetti, Rv. 635909, che nel giudizio di cassazione, la procura speciale può essere rilasciata a margine o in calce solo del ricorso o del controricorso, trattandosi degli unici atti indicati, con riferimento al giudizio di legittimità, dall'art. 83, comma 3, c.p.c., sicché, ove non sia rilasciata in occasione di tali atti, il conferimento deve avvenire, ai sensi del secondo comma del citato articolo, con atto pubblico o con scrittura privata autenticata che facciano riferimento agli elementi essenziali del giudizio, quali l'indicazione delle parti e della sentenza impugnata, senza che ad una diversa conclusione possa pervenirsi nel caso in cui sopraggiunga la sostituzione del difensore.

Sez. 6-3, n. 01205/2015, Ambrosio, Rv. 634038, ha affermato che il mandato apposto in calce o a margine del ricorso per cassazione è, per sua natura, speciale, senza che occorra per la sua validità alcuno specifico riferimento al giudizio in corso od alla sentenza contro la quale si rivolge, poiché il carattere di specialità è deducibile dal fatto che la procura al difensore forma materialmente corpo con il ricorso o il controricorso al quale essa si riferisce.

Nello stesso ambito, Sez. 3, n. 13314/2015, Scrima, Rv. 635917, ha ritenuto validamente proposto il ricorso per cassazione, notificato alla parte avversaria e recante la sottoscrizione di uno solo dei due difensori del ricorrente, se il mandato alle liti, riportato a margine dell'atto, risulti, in chiusura, sottoscritto da entrambi i difensori, ciò bastando per ritenere proveniente da entrambi i difensori nominati la certificazione della sottoscrizione del conferente la procura, e quindi per l'attribuzione a ciascuno di essi di pieni poteri di rappresentanza processuale.

Secondo Sez. 2, n. 15538/2015, Lombardo, Rv. 636082, l'art. 83, comma 3, c.p.c., nell'attribuire alla parte la facoltà di apporre la procura in calce o a margine di specifici e tipici atti del processo, fonda la presunzione che il mandato così conferito abbia effettiva attinenza al grado o alla fase del giudizio cui l'atto che lo contiene inerisce, per cui la procura per il giudizio di cassazione rilasciata in calce o a margine del ricorso, in quanto corpo unico con tale atto, garantisce il requisito della specialità del mandato al difensore, al quale, quando privo di data, deve intendersi estesa quella del ricorso stesso, senza che rilevi l'eventuale formulazione genericamente omnicomprensiva (ma contenente comunque il riferimento anche alla fase di cassazione) dei poteri attribuiti al difensore, tanto più ove il collegamento tra la procura e il ricorso per cassazione sia reso esplicito attraverso il richiamo ad essa nell'intestazione dell'atto di gravame.

Secondo Sez. 3, n. 07179/2015, Pellecchia, Rv. 635036, l'illeggibilità della firma del conferente la procura alla lite, apposta in calce od a margine dell'atto con cui sta in giudizio una società, esattamente indicata con la sua denominazione, è irrilevante quando il nome del sottoscrittore risulti dal testo della procura stessa, dalla certificazione d'autografia resa dal difensore o dal testo dell'atto o anche quando sia con certezza desumibile dall'indicazione di una specifica funzione o carica, che ne renda identificabile il titolare per il tramite dei documenti di causa o delle risultanze del registro delle imprese.

Ha ritenuto Sez. 3, n. 11165/2015, Amendola, Rv. 635466, che la procura speciale alle liti rilasciata all'estero, sia pur esente dall'onere di legalizzazione da parte dell'autorità consolare italiana, nonché dalla cd. apostille, in conformità alla Convenzione dell'Aja del 5 ottobre 1961, ovvero ad apposita convenzione bilaterale, è nulla, agli effetti dell'art. 12 della legge 31 maggio 1995, n. 218, relativo alla legge regolatrice del processo, ove non sia allegata la traduzione dell'attività certificativa svolta dal notaio, e cioè l'attestazione che la firma sia stata apposta in sua presenza da persona di cui egli abbia accertato l'identità, vigendo pure per gli atti prodromici al processo il principio generale della traduzione in lingua italiana a mezzo di esperto.

Ha affermato Sez. L, n. 12068/2015, Ghinoy, Rv. 635551, che nelle controversie in materia di lavoro, il giudice può disporre d'ufficio, ai sensi dell'art. 421, comma 2, c.p.c., l'ammissione di mezzi istruttori in ordine al luogo di rilascio della procura alle liti, in quanto presupposto della valida instaurazione del rapporto processuale, quali, nella specie, la richiesta di produzione dei titoli di viaggio attestanti la presenza in Italia del mandante e l'interrogatorio formale della stessa parte, in modo da ritenere, all'esito, la sussistenza di elementi di giudizio integrativi idonei a concludere che sia stata acquisita la prova contraria al rilascio nel territorio dello Stato di detta procura.

Sez. 3, n. 08489/2015, De Stefano, Rv. 635203, ha ritenuto che la procura rilasciata al difensore da una persona giuridica è valida quando nell'intestazione dell'atto processuale, nonché nel testo del mandato a suo margine, siano indicate le persone che rappresentano l'ente, la sottoscrizione delle quali risulti autenticata dal legale, ancorché non sia fatta menzione della fonte dei loro poteri di rappresentanza, potendo il destinatario dell'atto verificare, dal registro delle imprese, l'effettiva spettanza di tali poteri ai soggetti conferenti il mandato difensivo.

Secondo Sez. 3, n. 17206/2015, Barreca, Rv. 636651, la procura speciale apposta a margine del ricorso per cassazione, sottoscritta dai due soggetti menzionati nell'epigrafe come rappresentanti della società ricorrente, non è inficiata dalla mancata espressa menzione di uno di essi nel testo a stampa del mandato, poiché la firma della procura è sufficiente ad attribuirne la paternità ad entrambi nella qualità indicata in ricorso e ribadita accanto a ciascuna delle due firme, le quali, inoltre, devono ritenersi correttamente autenticate dal difensore con un unico visto.

Ha affermato Sez. 3, n. 07117/2015, Barreca, Rv. 635095, che il giudizio di opposizione agli atti esecutivi, come disciplinato dagli artt. 618 c.p.c. e 185 disp. att. c.p.c. (nel testo modificato dalla legge 24 febbraio 2006, n. 52), sebbene diviso in due fasi, presenta struttura unitaria, stante il collegamento tra la fase, eventuale, di merito e quella sommaria, di talché la procura rilasciata al difensore per l'opposizione agli atti esecutivi dinanzi al giudice dell'esecuzione deve intendersi conferita anche per il successivo giudizio di merito, in mancanza di una diversa esplicita volontà della parte che limiti il mandato alla fase sommaria.

Infine appare opportuno segnalare Sez. L, n. 11551/2015, Doronzo, Rv. 635845, che in materia di spese processuali, ha ribadito che qualora il ricorso per cassazione sia stato proposto dal difensore in assenza di procura speciale da parte del soggetto nel cui nome egli dichiari di agire in giudizio, l'attività svolta non riverbera alcun effetto sulla parte e resta nell'esclusiva responsabilità del legale, di cui è ammissibile la condanna al pagamento delle spese del giudizio.

3.4. Le spese processuali.

Sez. 3, n. 17215/2015, Ambrosio, Rv. 636650, ha ritenuto che in tema di liquidazione delle spese del giudizio, in caso di difesa di più parti aventi identica posizione processuale e costituite con lo stesso avvocato, è dovuto un compenso unico secondo i criteri fissati dagli artt. 4 e 8 del d.m. 10 marzo 2014, n. 55 (salva la possibilità di aumento nelle percentuali indicate dalla prima delle disposizioni citate), senza che rilevi la circostanza che il comune difensore abbia presentato distinti atti difensivi (art. 4 del d.m. cit.), né che le predette parti abbiano nominato, ognuna, anche altro (diverso) legale, in quanto la ratio della disposizione di cui all'art. 8, comma 1, del d.m. n. 55 del 2014, è quella di fare carico al soccombente solo delle spese nella misura della più concentrata attività difensiva quanto a numero di avvocati, in conformità con il principio della non debenza delle spese superflue, desumibile dall'art. 92, comma 1, c.p.c.

Secondo Sez. 3, n. 00817/2015, Rossetti, Rv. 634642, nel giudizio di cassazione, si configura un'ipotesi di colpa grave tale da legittimare l'irrogazione, a carico del soccombente, dell'ulteriore somma di cui all'art. 385, comma 4, c.p.c. (nel testo, introdotto dall'art. 13 del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, successivamente abrogato dall'art. 46, comma 20, della legge n. 69 del 2009, ma ancora applicabile ratione temporis, operando la nuova disposizione nei giudizi instaurati dopo il 4 luglio 2009, data di sua entrata in vigore), quando la parte abbia agito, o resistito, con la coscienza dell'infondatezza della domanda o dell'eccezione, ovvero senza avere adoperato la normale diligenza per acquisire la coscienza dell'infondatezza della propria posizione. (Nella specie, la S.C. ha fatto applicazione della norma a carico dei ricorrenti soccombenti, i quali pretendevano di ricondurre alla simulazione del contratto l'ipotesi di contrasto tra la sua "qualificazione formale" e la volontà delle parti).

Sez. 3, n. 16056/2015, Sestini, Rv. 636621, ha ritenuto che la condanna di più parti soccombenti al pagamento in solido delle spese processuali può essere pronunciata quando vi sia indivisibilità o solidarietà del rapporto sostanziale, ovvero per comunanza di interessi, che può desumersi anche dalla semplice identità delle questioni sollevate e dibattute, ovvero dalla convergenza di atteggiamenti difensivi. (In applicazione del principio, la S.C. ha cassato il capo della sentenza di merito relativo alla condanna dei due soccombenti al pagamento, in solido, delle spese processuali, non essendo stato individuato alcun interesse comune ad entrambi e, per effetto dell'ingiustificato vincolo solidale, la parte, poi ricorrente in cassazione, era stata condannata al pagamento di diritti ed onorari previsti per uno scaglione più elevato delle tariffe, relativo alla somma maggiore dovuta dall'altro soccombente).

Nella materia in esame, infine, Sez. 1, n. 20289/2015, Nappi, Rv. 637441, ha statuito che il giudice del rinvio, cui la causa sia stata rimessa anche per provvedere sulle spese del giudizio di legittimità, si deve attenere al principio della soccombenza applicato all'esito globale del processo, piuttosto che ai diversi gradi del giudizio e al loro risultato, sicchè non deve liquidare le spese con riferimento a ciascuna fase del giudizio, ma, in relazione all'esito finale della lite, può legittimamente pervenire ad un provvedimento di compensazione delle spese, totale o parziale o, addirittura, condannare la parte vittoriosa nel giudizio di cassazione e, tuttavia, complessivamente soccombente, al rimborso delle stesse in favore della controparte.

4. Il principio della domanda.

Sez. 2, n. 07260/2015, Manna, Rv. 634830, ha ritenuto che in tema di azioni di nunciazione, il procedimento cautelare termina con l'ordinanza di accoglimento o di rigetto del giudice monocratico o del collegio in caso di reclamo, mentre il successivo processo di cognizione richiede un'autonoma domanda di merito. Il processo di cognizione che si svolga in difetto dell'atto propulsivo di parte a causa dell'erronea fissazione giudiziale di un'udienza posteriore all'ordinanza cautelare, è affetto da nullità assoluta, per violazione del principio della domanda, rilevabile d'ufficio e non sanata dall'instaurarsi del contraddittorio tra le parti.

Nella stessa materia, Sez. 1, n. 21272/2015, Nappi, Rv. 637410, ha affermato che la carenza degli elementi costitutivi del diritto azionato è deducibile o rilevabile di ufficio in ogni stato e grado del giudizio, fatta salva la preclusione eventualmente derivante dal giudicato, sicché la Suprema Corte, nel cassare la sentenza impugnata avente contenuto solo processuale, può, nell'esercizio del potere attribuitole dall'art. 384, comma 2, c.p.c., negare l'astratta configurabilità del diritto soggettivo affermato dall'attore con l'atto introduttivo del giudizio, e così rigettare la domanda, purché sulla corrispondente questione di diritto si sia svolto il contraddittorio nella stessa fase di legittimità.

5. Interesse ad agire.

Ha affermato Sez. L, n. 10036/2015, Bandini, Rv. 635390, che la valutazione dell'interesse ad agire deve essere effettuata con riguardo all'utilità del provvedimento richiesto rispetto alla lesione denunciata, non rilevando la valutazione delle diverse, ed eventualmente maggiori, utilità di cui l'attore potrebbe beneficiare in forza di posizioni giuridiche soggettive alternative a quella fatta valere. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto l'interesse ad agire di cittadini italiani dipendenti di società statunitense controllata da impresa italiana, al fine di ottenere il trattamento previdenziale italiano, pur non avendo essi svolto una comparazione tra il vantaggio perseguito e le utilità derivanti dal sistema previdenziale statunitense e dalle forme assicurative private attivate dal datore di lavoro).

Sez. 3, n. 04228/2015, Salmè, Rv. 634704, ha ritenuto che in tema di procedimento esecutivo, qualora il credito, di natura esclusivamente patrimoniale, sia di entità economica oggettivamente minima, difetta, ex art. 100 c.p.c., l'interesse a promuovere l'espropriazione forzata, dovendosi escludere che ne derivi la violazione dell'art. 24 Cost., in quanto la tutela del diritto di azione va contemperata, per esplicita od anche implicita disposizione di legge, con le regole di correttezza e buona fede, nonché con i principi del giusto processo e della durata ragionevole dei giudizi ex art. 111 Cost. e 6 CEDU. (Nella specie, il creditore, dopo aver ricevuto il pagamento della complessiva somma portata in precetto, pari ad euro 17.854,94, aveva ugualmente avviato la procedura esecutiva, nelle forme del pignoramento presso terzi, per l'intero importo, deducendo, nel corso della procedura stessa, l'esistenza di un residuo credito di euro 12,00 a titolo di interessi maturati tra la data di notifica del precetto e la data del pagamento).

Nell'ambito del dibattuto tema dell'interesse ad agire nelle azioni di mero accertamento, Sez. L, n. 14961/2015, Tria, Rv. 636240, ha ritenuto che in caso di malattia professionale non indennizzabile per il mancato raggiungimento della soglia minima di inabilità permanente, pari al 6 per cento, il giudice non può emanare una pronuncia di mero accertamento, perché essa avrebbe ad oggetto soltanto uno degli elementi costitutivi del diritto alla rendita non suscettibile di autonomo accertamento, dovendosi, peraltro, riconoscere, ove una siffatta positiva declaratoria sia stata comunque adottata, l'interesse dell'INAIL ad impugnare e rimuovere la sentenza di primo grado, emessa contra legem, contenente una statuizione che riguarda, in ogni caso, l'Istituto, e ciò a prescindere dal contenuto immediatamente lesivo della stessa.

Nello stesso ambito, si è espressa Sez. 1, n. 16162/2015, Lamorgese, Rv. 636440, secondo la quale, colui che agisce con l'azione di accertamento, anche se negativo, deve essere titolare dell'interesse, attuale e concreto, ad ottenere un risultato utile, giuridicamente rilevante e non conseguibile se non con l'intervento del giudice, mediante la rimozione di uno stato di incertezza oggettiva sull'esistenza del rapporto giuridico dedotto in causa. (Nella specie, la S.C. ha escluso l'interesse dei ricorrenti all'azione inibitoria con riferimento allo sfruttamento economico di alcuni film, non avendo gli stessi validamente acquistato i relativi diritti).

Sez. L, n. 01035/2015, Manna, Rv. 634049, ha affermato che nelle cause proposte dopo il 3 settembre 1998 - data di entrata in vigore del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112 - ed aventi ad oggetto il diritto a prestazioni assistenziali (nella specie, l'accertamento della condizione di portatore di handicap grave ai sensi dell'art. 3, commi 1 e 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104), il titolare dal lato passivo del diritto controverso è l'I.N.P.S., soggetto obbligato alle prestazioni, che deve essere convenuto in giudizio, restando esclusa l'ammissibilità di una azione di mero accertamento dello stato di invalidità civile.

Sez. L, n. 16262/2015, Manna, Rv. 636587, ha affermato che l'interesse ad agire in un'azione di mero accertamento non implica necessariamente l'attualità della lesione di un diritto, essendo sufficiente uno stato di incertezza oggettiva, anche non preesistente al processo, in quanto sorto nel corso del giudizio a seguito della contestazione sull'esistenza di un rapporto giuridico o sull'esatta portata degli obblighi e dei diritti da esso scaturenti, che non sia superabile se non con l'intervento del giudice. (Nella specie, riguardante la cessione di contratto di lavoro nell'ambito di un trasferimento di ramo d'azienda, la S.C. ha ritenuto sussistente l'interesse ad agire al fine di individuare il reale datore di lavoro, pur non avendo i lavoratori ceduti dedotto alcuna conseguenza pregiudizievole).

Nella materia in esame, di particolare rilievo è Sez. U, n. 19704/2015, Di Iasi, Rv. 636309, secondo cui sussiste l'interesse del contribuente ad impugnare la cartella di pagamento della quale - a causa dell'invalidità della relativa notifica - sia venuto a conoscenza solo attraverso un estratto di ruolo rilasciato su sua richiesta dal concessionario della riscossione; a ciò non osta l'ultima parte del comma 3 dell'art. 19 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, in quanto una lettura costituzionalmente orientata impone di ritenere che l'impugnabilità dell'atto precedente non notificato unitamente all'atto successivo notificato - impugnabilità prevista da tale norma - non costituisca l'unica possibilità di far valere l'invalidità della notifica di un atto del quale il contribuente sia comunque venuto legittimamente a conoscenza e quindi non escluda la possibilità di far valere l'invalidità stessa anche prima, giacché l'esercizio del diritto alla tutela giurisdizionale non può essere compresso, ritardato, reso più difficile o gravoso, ove non ricorra la stringente necessità di garantire diritti o interessi di pari rilievo, rispetto ai quali si ponga un concreto problema di reciproca limitazione.

6. Legittimazione ad agire.

Ha affermato Sez. 6-2, n. 01650/2015, Bianchini, Rv. 634034, che ciascun comproprietario, in quanto titolare di un diritto che, sia pure nei limiti segnati dalla concorrenza dei diritti degli altri partecipanti, investa la intera cosa comune (e non una sua frazione), è legittimato ad agire o resistere in giudizio per la tutela della stessa nei confronti di un singolo condomino, anche senza il consenso degli altri partecipanti.

Nella stessa materia, secondo Sez. 3, n. 14671/2015, Vincenti, Rv. 636179, in caso di mandato all'incasso senza rappresentanza, il mandatario non è legittimato ad agire in giudizio per conseguire l'adempimento del terzo debitore, non essendo munito di alcun potere rappresentativo, né avendo acquisito in capo a sé alcun diritto di credito. (In applicazione di tale principio - affermato in relazione ad una fattispecie in cui la società attrice, mandataria all'incasso senza rappresentanza dei crediti delle società mandanti, aveva agito in nome proprio, senza essere titolare dei diritti che intendeva tutelare giudizialmente - la S.C. ha confermato la decisione con cui il giudice di merito aveva escluso in capo all'attrice sia la legittimazione ad causam, sia quella sostanziale).

Le differenze tra legittimazione ad agire (intesa come diritto di ottenere dal giudice, in base alla sola allegazione di parte, una decisione di merito, favorevole o sfavorevole) e concreta titolarità del rapporto dedotto in giudizio sono state analizzate nell'ordinanza interlocutoria della Sez. 6-3, n. 02977/2015, Vivaldi.

La questione rimessa alla decisione delle Sezioni Unite riguarda, in particolare, il contrasto interpretativo emerso nella giurisprudenza delle sezioni civili in materia di contestazione della effettiva titolarità del rapporto controverso.

Sul punto, la tesi minoritaria sostiene che tale contestazione costituirebbe mera difesa; l'orientamento maggioritario, al contrario, afferma che la contestazione della concreta titolarità del diritto sostanziale costituirebbe oggetto di un'eccezione in senso tecnico, non rilevabile di ufficio (a differenza dell'eccezione di carenza di legittimazione ad agire) ma affidata alla disponibilità delle parti e da introdursi, dunque, nei tempi e nei modi previsti per le eccezioni di parte.

7. Il principio del contraddittorio.

In tale materia si segnala Sez. 1, n. 17392/2015, Di Virgilio, Rv. 636702, secondo cui, nell'ordinamento processuale vigente manca una norma di chiusura sulla tassatività tipologica dei mezzi di prova, sicché il giudice può legittimamente porre a base del proprio convincimento anche prove cd. atipiche, quali le dichiarazioni scritte provenienti da terzi, della cui utilizzazione fornisca adeguata motivazione e che siano idonee ad offrire elementi di giudizio sufficienti, non smentiti dal raffronto critico con le altre risultanze istruttorie, senza che ne derivi la violazione del principio di cui all'art. 101 c.p.c., atteso che, sebbene raccolte al di fuori del processo, il contraddittorio si instaura con la produzione in giudizio.

8. Pluralità di parti.

8.1. Litisconsorzio necessario.

Secondo Sez. 3, n. 13191/2015, Rossetti, Rv. 635974, il terzo pignorato non è parte necessaria nel giudizio di opposizione all'esecuzione o di opposizione agli atti esecutivi qualora non sia interessato alle vicende processuali relative alla legittimità e alla validità del pignoramento, dalle quali dipende la liberazione dal relativo vincolo.

Sez. 3, n. 08891/2015, De Stefano, Rv. 635265, ha ritenuto che in caso di espropriazione contro il terzo proprietario, ai sensi degli artt. 602 e segg. c.p.c., il debitore originario o diretto è litisconsorte necessario nella controversia distributiva di cui all'art. 512 c.p.c. (nel testo anteriore alla novella intervenuta con l'art. 2, comma 3, lett. e), del d.l. 14 marzo 2005, n. 35, conv. con modif. dalla legge 14 maggio 2005, n. 80), essendo il soggetto nei cui confronti l'accertamento della sussistenza e dell'entità dei crediti e dei privilegi posti a base dell'azione esecutiva contro il terzo è destinato a produrre effetti immediati e diretti, sicché, ove egli non sia stato evocato in giudizio, la sentenza resa nella controversia distributiva è inutiliter data e la conseguente nullità, se non precedentemente rilevata in sede di merito, deve essere rilevata d'ufficio dal giudice di legittimità con rimessione della causa al giudice di primo grado.

Sez. 3, n. 07685/2015, Rossetti, Rv. 635101, ha ritenuto che in tema di sinistro stradale con pluralità di danneggiati, l'art. 140, comma 4, del d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209, ha natura di norma processuale, poiché introduce una ipotesi di litisconsorzio necessario, sicché, in difetto di espressa previsione, non è suscettibile di applicazione retroattiva, non trovando applicazione ai giudizi introdotti prima della sua entrata in vigore.

Secondo Sez. 2, n. 07460/2015, San Giorgio, Rv. 634999, il termine concesso dal giudice per l'integrazione del contraddittorio nei casi previsti dall'art. 102 c.p.c. ha natura perentoria e non può essere né rinnovato, né prorogato ai sensi dell'art. 153 c.p.c., sicché, in caso di mancata integrazione del contraddittorio nei confronti del litisconsorte necessario, il provvedimento di cancellazione della causa dal ruolo emesso dal giudice ex artt. 291, comma 3, e 307, comma 3, c.p.c. comporta la contemporanea ed automatica estinzione del processo, anche in difetto di eccezione di parte, senza alcuna possibilità di riassunzione, trattandosi di un provvedimento che implica una pronuncia di mero rito ricognitiva dell'impossibilità di proseguire la causa in mancanza di una parte necessaria.

Ha ritenuto Sez. 2, n. 00678/2015, Falaschi, Rv. 634744, che in caso di morte di una delle parti nel corso del giudizio di primo grado, la sua legittimazione attiva e passiva si trasmette agli eredi, i quali vengono a trovarsi, per tutta l'ulteriore durata del processo, in una situazione di litisconsorzio necessario di ordine processuale, sicché, ove l'impugnazione sia stata proposta nei confronti di uno soltanto degli eredi della parte deceduta, il giudice d'appello deve ordinare, anche d'ufficio ed a pena di nullità, l'integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri coeredi, o comunque ritenere gli stessi legittimati ove si costituiscano spontaneamente.

Secondo Sez. 1, n. 01623/2015, Lamorgese, Rv. 634030, l'azione promossa dal socio di una società di capitali per la revoca del liquidatore ex art. 2450, comma 4 (oggi art. 2487, comma 4), c.c. - rimedio cui il primo è direttamente legittimato a tutela dei suoi diritti di partecipazione, che diventano liquidi ed esigibili solo con la liquidazione della società - implica il litisconsorzio necessario con la società, così come nelle società di persone è necessaria la presenza in giudizio di tutti i soci.

In tema di litisconsorte necessario pretermesso (come il terzo titolare di diritto autonomo e incompatibile, il falsamente rappresentato e il titolare di status incompatibile con quello accertato tra altre parti), che ai sensi dell'art. 404 c.p.c. è ammesso all'opposizione ordinaria avverso la sentenza resa in un giudizio inter alios, Sez. U, n. 01238/2015, Frasca, Rv. 634087, ha riconosciuto allo stesso la proponibilità di una azione di accertamento autonoma della sua posizione, precisando tuttavia che, sino al passaggio in giudicato della sentenza che riconosca la situazione come da lui dedotta, gli è preclusa ogni tutela, anche cautelare, avverso l'efficacia esecutiva o gli effetti esecutivi o accertativi derivanti dalla sentenza inter alios non opposta.

Ha ritenuto Sez. L, n. 01172/2015, Bronzini, Rv. 634273, che la domanda della lavoratrice dipendente volta al riconoscimento dell'indennità di maternità (riconducibile alla fattispecie disciplinata dall'art. 2110 c.c.) va proposta non solo nei confronti del datore di lavoro, ma anche dell'INPS, ricorrendo nei loro confronti un'ipotesi di litisconsorzio necessario ex art. 102 c.p.c., in quanto, ai sensi dell'art. 1 del d.l. 30 dicembre 1979, n. 663, convertito nella legge 29 febbraio 1980, n. 33, l'INPS è l'unico soggetto obbligato ad erogare le indennità di malattia e maternità ex art. 74 della legge 23 dicembre 1978, n. 833, mentre il datore di lavoro ha solo il dovere di anticiparne l'importo, salvo conguaglio con i contributi e le altre somme da corrispondere all'Istituto, sempreché la prestazione sia effettivamente dovuta dall'Istituto previdenziale.

Nella materia in esame, infine, Sez. 3, n. 20890/2015, Pellecchia, Rv. 637483, ha ritenuto che nel giudizio risarcitorio conseguente all'illecita lesione del diritto alla riservatezza, il Garante per la protezione dei dati personali, quale estraneo alla pretesa, non riveste il ruolo di litisconsorte necessario, diversamente dal caso del giudizio che consegue alla impugnazione di un proprio provvedimento.

8.2. Litisconsorzio facoltativo.

Secondo Sez. 2, n. 13414/2015, Mazzacane, Rv. 635889, nel caso in cui più acquirenti di singole unità immobiliari facenti parte dello stesso edificio agiscano congiuntamente per far valere il vincolo di destinazione delle porzioni del fabbricato da riservare a parcheggio, a norma dell'art. 18 della legge 6 agosto 1967, n. 765, sono dedotti in giudizio i distinti diritti di ognuno, non collegati tra loro se non dall'identità del titolo legale da cui derivano, sicché si verte in un'ipotesi di litisconsorzio tipicamente "facoltativo" ai sensi dell'art. 103 c.p.c. e non occorre, quindi, che al giudizio partecipino necessariamente tutti gli altri condomini, a nulla rilevando il corrispettivo dovuto a titolo di integrazione del prezzo di vendita della singola unità immobiliare, posto che il relativo obbligo rimane a carico soltanto di quei condomini che hanno agito per il riconoscimento del diritto d'uso a parcheggio.

8.3. Intervento volontario e integrazione del contraddittorio.

Ha affermato Sez. U, n. 11131/2015, Petitti, Rv. 635361, che chi interviene volontariamente in un giudizio (nella specie, amministrativo) in relazione al quale già è stato proposto regolamento di giurisdizione non ha diritto all'integrazione del contraddittorio davanti alla Corte di cassazione, atteso che l'interveniente volontario accetta lo stato e il grado in cui il giudizio si trova.

8.4. Successione di parti.

Secondo Sez. 3, n. 07365/2015, Barreca, Rv. 635196, in tema di azioni possessorie, quando la successione a titolo particolare nel possesso avvenga dopo la proposizione della domanda di reintegrazione o di manutenzione nei confronti dell'autore dello spoglio, la sentenza ha effetto, ai sensi dell'art. 111, comma 4, c.p.c., nei confronti dell'avente causa, senza che operi la clausola di salvezza degli effetti della trascrizione ivi prevista, in quanto la domanda di reintegrazione o di manutenzione non va trascritta ai sensi e per gli effetti dell'art. 2653, n. 1, c.c. e, perciò, resta irrilevante la trascrizione del titolo d'acquisto. Ne consegue che la sentenza pronunciata contro il dante causa è titolo eseguibile nei confronti dell'acquirente.

Nella stessa materia, ha affermato Sez. 6-2, n. 04536/2015, Proto, Rv. 634717, che il successore a titolo particolare nel diritto controverso, ai sensi dell'art. 111 c.p.c., può intervenire nel processo anche nel giudizio di rinvio, non essendo preclusa tale facoltà nemmeno dall'art. 344 c.p.c., che limita l'intervento in appello.

Secondo Sez. T, n. 19611/2015, Marulli, Rv. 6365192, il processo tributario iniziato nei confronti di una società successivamente estintasi per cancellazione dal registro delle imprese non può proseguire nel giudizio di cassazione ad opera o nei confronti degli ex-soci, poiché essi rispondono del pagamento di tali imposte, ex art. 36, comma 3, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, solo se abbiano ricevuto beni sociali dagli amministratori nel corso degli ultimi due periodi di imposta precedenti alla messa in liquidazione o dai liquidatori durante il tempo della liquidazione, e nei limiti del valore di detti beni, per cui l'accertamento di tali circostanze comporta un ampliamento del thema decidendum e del thema probandum, non consentito in sede di legittimità.

Nella stessa materia, Sez. 1, n. 25974/2015, Ragonesi, in corso di massimazione, ha ritenuto che la cancellazione di una società dal registro delle imprese non determina il trasferimento dell'azione in capo al socio, ma la cessazione della materia del contendere, qualora si controverta non già su diritti o beni non compresi nel bilancio di liquidazione, ma in ordine a mere pretese ovvero a diritti ancora illiquidi ed incerti, che necessitino di un accertamento giudiziale non concluso.

9. I principi generali. L'art. 112 c.p.c.

Nutrita e significativa è stata, nell'ultimo anno, la produzione giurisprudenziale della Corte in tema di principi generali che governano il processo civile.

In termini generali, il potere-dovere del giudice di inquadrare nella esatta disciplina giuridica i fatti e gli atti che formano oggetto della contestazione incontra il limite del rispetto del petitum e della causa petendi, sostanziandosi nel divieto di introdurre nuovi elementi di fatto nel tema controverso. Da ciò consegue che il vizio di ultra o extra petizione ricorre quando il giudice di merito, alterando gli elementi obiettivi dell'azione (petitum o causa petendi), emetta un provvedimento diverso da quello richiesto (petitum immediato), oppure attribuisca o neghi un bene della vita diverso da quello conteso (petitum mediato), così pronunciando oltre i limiti delle pretese o delle eccezioni fatte valere dai contraddittori (Sez. 3, n. 18868/2015, D'Amico, Rv. 636968). Il tema è strettamente connesso a quello della differenza tra mutatio ed emendatio libelli analizzato da Sez. U, n. 12310/2015, Di Iasi, Rv. 635536, di cui si tratterà in altra sezione della presente Rassegna.

Sez. 2, n. 19502/2015, Manna, Rv. 636568, ha escluso la sussistenza della violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato allorché il giudice, qualificando giuridicamente in modo diverso rispetto alla prospettazione della parte i fatti da questa posti a fondamento della domanda, le attribuisca un bene della vita omogeneo, ma ridimensionato, rispetto a quello richiesto. In quest'ottica, al cospetto di un'azione di risoluzione per inadempimento di contratto preliminare e di conseguente condanna del promittente venditore alla restituzione del doppio della caparra ricevuta, si è ritenuto che non pronunzi ultra petita il giudice che accerti la nullità del contratto e condanni il promittente venditore alla restituzione della caparra stessa (producendo, del resto, la risoluzione e la nullità effetti diversi quanto alle obbligazioni risarcitorie, ma identici quanto agli obblighi restitutori delle prestazioni). In qualche modo la questione è collegata a quella esaminata e risolta dalla nota Sez. U, n. 26242/2014, Travaglino, Rv. 633506.

Parimenti, Sez. 1, n. 16213/2015, Mercolino, Rv. 636495, ha ribadito che la diversa qualificazione giuridica del rapporto controverso da parte del giudice d'appello rispetto a quanto ritenuto dal giudice di primo grado non costituisce vizio di extrapetizione, rientrando tale potere-dovere nelle attribuzioni del giudice dell'impugnazione, senza necessità, quindi, di specifica impugnazione o doglianza di parte, purché egli operi nell'ambito delle questioni riproposte con il gravame e lasci inalterati il petitum e la causa petendi, non introducendo nel tema controverso nuovi elementi di fatto.

Nel medesimo solco, Sez. 2, n. 12953/2015, Abete, Rv. 635707, ha statuito, in tema di rivendicazione, che il giudice può riconoscere l'esistenza di una proprietà pro quota pure laddove si assuma esistere una proprietà esclusiva, senza con ciò trasmodare dai limiti della domanda, ricorrendo il vizio di ultrapetizione soltanto allorché dalla pronunzia derivino effetti giuridici più ampi di quelli richiesti dall'attore.

D'altra parte, il giudice del merito, nell'indagine diretta all'individuazione del contenuto e della portata delle domande sottoposte alla sua cognizione, non è tenuto ad uniformarsi al tenore letterale degli atti nei quali esse sono contenute, ma deve, per converso, avere riguardo al contenuto sostanziale della pretesa fatta valere, come desumibile dalla natura delle vicende dedotte e rappresentate dalla parte istante, mentre incorre in vizio di omesso esame ove limiti la sua pronuncia alla sola prospettazione letterale della pretesa, trascurando la ricerca dell'effettivo contenuto sostanziale della stessa (Sez. 3, n. 21087/2015, Stalla, Rv. 637476).

Per Sez. L, n. 08872/2015, Nobile, Rv. 635355, viceversa, nel caso in cui il giudice di merito statuisca su una questione proposta dal ricorrente in primo grado in via incidentale, ritenendola, invece, quale domanda autonoma, sussiste violazione dell'art. 112 c.p.c., sicché la sentenza deve essere cassata per essere incorsa in vizio di ultrapetizione.

Sez. 3, n. 06457/2015, Pellecchia, Rv. 634943, ha considerato non nuova la domanda di restituzione di quanto pagato in esecuzione di una sentenza provvisoriamente esecutiva, con la conseguenza di ritenere che la stessa possa chiedersi, per la prima volta, con lo stesso atto di appello avverso quest'ultima, anche in sede di precisazione delle conclusioni, non potendo tale domanda considerarsi nuova e, quindi, preclusa. Pertanto, il giudice del gravame che omettesse di pronunciarsi sulla stessa incorrerebbe nella violazione di cui all'art. 112 c.p.c.

È opportuno ricordare che, proprio perché l'interpretazione della domanda spetta al giudice del merito, ove questi abbia espressamente ritenuto che era stata avanzata, tale statuizione, ancorché in ipotesi erronea, non può essere censurata per ultrapetizione, atteso che il suddetto difetto non è logicamente verificabile prima di aver accertato l'erroneità della relativa motivazione (Sez. L, n. 21874/2015, Nobile, 637389).

9.1. L'omessa pronuncia.

Per Sez. T, n. 03417/2015, Iofrida, Rv. 634649, l'omessa pronuncia, quale vizio della sentenza, può essere utilmente prospettata solo con riguardo alla mancanza di una decisione da parte del giudice in ordine ad una domanda che, ritualmente e incondizionatamente proposta, richiede una pronuncia di accoglimento o di rigetto. Tale vizio deve essere, dunque, escluso in relazione ad una questione esplicitamente o anche implicitamente assorbita in altre statuizioni della sentenza e che è, quindi, suscettibile di riesame nella successiva fase del giudizio, se riprospettata con specifica censura.

Sez. T, n. 00452/2015, Crucitti, Rv. 634428, ha ulteriormente precisato che il vizio di omessa pronuncia da parte del giudice d'appello è configurabile allorché manchi completamente l'esame di una censura mossa al giudice di primo grado, mentre non ricorre nel caso in cui il giudice d'appello fondi la decisione su una costruzione logico-giuridica incompatibile con la domanda.

Secondo Sez. L, n. 02687/2015, Lorito, Rv. 634284, integra violazione dell'art. 112 c.p.c., l'omessa pronuncia su un'eccezione di parte, ritualmente sollevata in giudizio, avente ad oggetto la tardiva introduzione, con l'atto di appello, di nuove allegazioni di fatto, che, alterando uno dei presupposti della domanda iniziale, inseriscano nel processo un nuovo tema d'indagine, sul quale non si sia formato in precedenza il contraddittorio (nella specie, la sentenza d'appello aveva erroneamente valorizzato, a fronte delle lacunose indicazioni contenute nell'atto introduttivo del giudizio di primo grado - ai fini dell'individuazione dei fatti determinativi dell'evento lesivo -, nuove ed ulteriori circostanze, introdotte in sede di impugnazione, che non si erano risolte in una mera specificazione del thema decidendum, ma in un suo sostanziale ampliamento).

10. Il principio di disponibilità delle prove.

Un ambito tuttora non adeguatamente esplorato appare quello delle prove atipiche.

Sez. 3, n. 13229/2015, De Stefano, Rv. 636013, ha ammesso che nel vigente ordinamento processuale, improntato al principio del libero convincimento del giudice e in assenza di una norma di chiusura sulla tassatività tipologica dei mezzi di prova, questi possa porre a fondamento della decisione anche prove atipiche, non espressamente previste dal codice di rito, della cui utilizzazione fornisca adeguata motivazione e che siano idonee ad offrire elementi di giudizio sufficienti, non smentiti dal raffronto critico con le altre risultanze del processo.

Nel solco della stessa impostazione, per Sez. 3, n. 00840/2015, Vincenti, Rv. 633913, il giudice civile, in assenza di divieti di legge, può formare il proprio convincimento anche in base a prove atipiche, come quelle raccolte in un altro giudizio tra le stesse o tra altre parti, delle quali la sentenza ivi pronunciata costituisce documentazione, fornendo adeguata motivazione della relativa utilizzazione, senza che rilevi la divergenza delle regole, proprie di quel procedimento, relative all'ammissione e all'assunzione della prova (costituita, nella specie, da una deposizione testimoniale resa in assenza del contraddittorio nel corso di un procedimento disciplinare a carico di un avvocato nella fase svoltasi dinanzi al consiglio dell'ordine locale).

Interessanti sono le pronunce adottate sull'estensione dei poteri di acquisizione documentali di spettanza del consulente tecnico d'ufficio. Sulla questione si segnalano Sez. 3, n. 12921/2015, Rubino, Rv. 635808 (secondo cui il consulente tecnico di ufficio ha il potere di acquisire ogni elemento necessario per espletare convenientemente il compito affidatogli, anche se risultanti da documenti non prodotti in giudizio, sempre che non si tratti di fatti che, in quanto posti direttamente a fondamento delle domande e delle eccezioni, debbono essere provati dalle parti), e Sez. 2, n. 04729/2015, Petitti, Rv. 634655 (a mente del quale il consulente tecnico d'ufficio può, ai sensi dell'art. 194, comma 1, c.p.c., assumere, anche in assenza di espressa autorizzazione del giudice, informazioni da terzi e verificare fatti accessori necessari per rispondere ai quesiti, ma non anche accertare i fatti posti a fondamento di domande ed eccezioni, il cui onere probatorio incombe sulle parti, sicché gli accertamenti compiuti dal consulente oltre i predetti limiti sono nulli per violazione del principio del contraddittorio, e, perciò, privi di qualsiasi valore, probatorio o indiziario).

10.1. Il principio di non contestazione.

Sez. T, n. 02196/2015, Terrusi, Rv. 634386, ha sostenuto che il principio di non contestazione si applica anche nel processo tributario, ma, attesa l'indisponibilità dei diritti controversi, riguarda esclusivamente i profili probatori del fatto non contestato, e sempreché il giudice, in base alle risultanze ritualmente assunte nel processo, non ritenga di escluderne l'esistenza.

Sez. 3, n. 19896/2015, Rossetti, 637316, ha avuto il merito di chiarire che anche nei giudizi sorti anteriormente all'introduzione formale del principio suddetto mediante la modifica dell'art. 115 c.p.c., era imposto al convenuto di prendere posizione, in modo chiaro ed analitico, sui fatti posti dall'attore a fondamento della propria domanda, in virtù dell'art. 167 dello medesimo codice, sicché quei fatti dovevano darsi per ammessi, senza necessità di prova, quando il convenuto nella comparsa di costituzione e risposta si era limitato a negare genericamente la "sussistenza dei presupposti di legge" per l'accoglimento della domanda attorea, senza alcuna contestazione chiara e specifica della stessa.

Peraltro, il principio in esame non opera con riferimento alla legittimazione ad causam, attenendo essa al contraddittorio e dovendo essere verificata anche d'ufficio in ogni stato e grado del processo, con il solo limite del giudicato interno (Sez. 3, n. 21176/2015, Rubino, Rv. 637493).

Non va dimenticato, inoltre, che il difetto di specifica contestazione rileva diversamente a seconda che risulti riferibile ai fatti giuridici costitutivi della fattispecie non conoscibili d'ufficio (fatti principali) ovvero ai fatti dalla cui prova si può inferire l'esistenza dei primi (fatti secondari): mentre nella prima ipotesi trova applicazione l'art. 167 c.p.c. che, onerando il convenuto (come si è visto) di prendere posizione in ordine ai fatti allegati dall'attore, ne rende superflua la prova in quanto non controversi, nella seconda ipotesi la mancata non contestazione consente al giudice solo di utilizzarli liberamente come argomenti di prova ai sensi dell'art. 116, comma 2, c.p.c. (Sez. 1, n. 19709/2015, Mercolino, Rv. 637339).

Da ultimo, è importante ricordare (Sez. 6, n. 22461/2015, Manna, Rv. 637029) che l'onere di contestazione specifica dei fatti posti dall'attore a fondamento della domanda opera unicamente per il convenuto costituito e nell'ambito del solo giudizio di primo grado, nel quale soltanto si definiscono irretrattabilmente thema decidendum e thema probandum. Da ciò consegue che non rileva a tal fine la condotta processuale tenuta dalle parti in appello.

11. La valutazione delle prove.

Numerose e significative sono le pronunce che si sono dedicate al tema della valutazione delle prove.

Sez. 1, n. 06025/2015, Bisogni, Rv. 634858, ha ribadito che, nel giudizio promosso per l'accertamento della paternità naturale, il rifiuto di sottoporsi ad indagini ematologiche - nella specie opposto da tutti gli eredi legittimi del preteso padre - costituisce un comportamento valutabile da parte del giudice, ai sensi dell'art. 116, comma 2, c.p.c., di così elevato valore indiziario da poter da solo consentire la dimostrazione della fondatezza della domanda.

Per Sez. L, n. 04773/2015, Macioce, Rv. 634812, qualora il giudice del merito ritenga sussistere un insanabile contrasto tra le deposizioni testimoniali sui fatti costitutivi della domanda, fondando tale convincimento non sul rapporto numerico dei testi, ma sul dato oggettivo di detto contrasto, ritenuto ostativo al raggiungimento della certezza necessaria alla decisione, e, con valutazione congruamente motivata, reputi non superabile il contrasto sulla scorta delle ulteriori risultanze istruttorie documentali, inidonee a dimostrare la fondatezza della domanda, l'insufficienza del quadro probatorio ricade in danno della parte sulla quale grava l'onere della prova, comportando, conseguentemente, il rigetto della domanda da questa proposta.

Sempre in tema di prova testimoniale, Sez. 1, n. 00569/2015, Didone, Rv. 634331, ha confermato che, mentre i testimoni de relato actoris sono quelli che depongono su fatti e circostanze di cui sono stati informati dal soggetto che ha proposto il giudizio, così che la rilevanza del loro assunto è sostanzialmente nulla (in quanto vertente sul fatto della dichiarazione di una parte e non sul fatto oggetto dell'accertamento, fondamento storico della pretesa), i testimoni de relato in genere, invece, depongono su circostanze che hanno appreso da persone estranee al giudizio, quindi sul fatto della dichiarazione di costoro, e la rilevanza delle loro deposizioni, pur attenuata perché indiretta, è idonea ad assumere rilievo ai fini del convincimento del giudice, nel concorso di altri elementi oggettivi e concordanti che ne suffraghino la credibilità.

Quanto all'attendibilità di un testimone, la relativa valutazione deve avvenire con riferimento al contenuto della dichiarazione dallo stesso resa, e non aprioristicamente e per categorie di soggetti, al fine di escluderne ex ante la capacità a testimoniare (Sez. 3, n. 19215/2015, Scarano, Rv. 636964).

Sez. 3, n. 20125/2015, Vincenti, 637482, ha ribadito il principio per cui, qualora il giudice d'appello dissenta dalle conclusioni del consulente tecnico d'ufficio nominato in secondo grado ed accolga quelle del consulente tecnico d'ufficio designato in primo grado, deve enunciare le ragioni della scelta, contestando le contrastanti argomentazioni della seconda consulenza.

12. Le forme degli atti e dei provvedimenti.

Con riferimento agli atti di parte, Sez. T, n. 12525/2015, Cigna, Rv. 635748, ha ribadito che nel processo tributario, come in quello civile, la lingua italiana è obbligatoria per gli atti processuali in senso proprio e non anche per i documenti prodotti dalle parti, relativamente ai quali il giudice ha, pertanto, la facoltà, e non l'obbligo, di procedere alla nomina di un traduttore in forza dell'art. 123 c.p.c., di cui si può fare a meno allorché non vi siano contestazioni sul contenuto del documento o sulla traduzione giurata allegata dalla parte e ritenuta idonea dal giudice, mentre, al di fuori di queste ipotesi, è necessario procedere alla nomina di un traduttore, non potendosi ritenere non acquisiti i documenti prodotti in lingua straniera.

In relazione ai provvedimenti, è opportuno ulteriormente distinguere le irregolarità riguardanti l'intestazione da quelle concernenti la motivazione della sentenza.

Quanto alle prime, vengono inquadrate nell'ambito delle mere irregolarità formali la mancata indicazione del nome dei magistrati componenti del collegio giudicante, che, secondo le risultanze del dispositivo letto in udienza coerente con il relativo verbale, abbiano pronunciato la decisione (Sez. L, n. 04875/2015, Ghinoy, Rv. 634814, per la quale trattasi di mero errore materiale, emendabile ai sensi degli artt. 287 e 288 c.p.c.), la mancata, erronea o incompleta trascrizione nella sentenza delle conclusioni delle parti (Sez. 3, n. 18609/2015, Scrima, Rv. 636980; Sez. 3, n. 12864/2015, Barreca, Rv. 635880; salvo che si sia tradotto in un'omessa pronuncia sulle domande o eccezioni delle parti, oppure in un difetto di motivazione in ordine ai punti decisivi prospettati dalle parti), l'omessa indicazione del nome di una delle parti (Sez. 2, n. 05660/2015, Proto, Rv. 635001; salvo che la stessa riveli che il contraddittorio non si era regolarmente costituito a norma dell'art. 101 c.p.c., o generi incertezza circa i soggetti ai quali la decisione si riferisce).

Peraltro, con riferimento alla prima fattispecie, è a segnalarsi un contrasto di vedute, se si considera che Sez. 3, n. 19214/2015, Scrima, Rv. 637084, ha sostenuto che la sentenza che, regolarmente sottoscritta dal Presidente (anche in qualità di estensore), non rechi i nominativi dei giudici costituenti il collegio deliberante (con conseguente impossibilità di desumerne l'identità) è nulla per vizio di costituzione del giudice, ai sensi dell'art. 158 c.p.c.

La mancanza della data di pubblicazione della sentenza non è causa di nullità, ove la cancelleria del competente ufficio giudiziario ne abbia annotato l'avvenuta pubblicazione nel registro cronologico, l'abbia trasmessa all'ufficio del registro degli atti giudiziari ed abbia comunicato alle parti costituite l'avvenuto deposito della decisione, cosicché la parte interessata abbia potuto tempestivamente impugnare la pronuncia a lei sfavorevole (Sez. 6-T, n. 00118/2015, Iacobellis, Rv. 634218).

Da ultimo, meritevole di segnalazione è Sez. 3, n. 22871/2015, Barreca, Rv. 637862, la quale ha escluso che sia affetta da nullità per mancanza di sottoscrizione la sentenza redatta in formato elettronico dal giudice che vi abbia apposto la propria firma digitale a norma dell'art. 15 del d.m. 21 febbraio 2011, n. 44. Ciò in quanto, in tale evenienza, è garantita l'identificabilità dell'autore, l'integrità del documento e l'immodificabilità (se non dal suo autore e sempre che non sia intervenuta la pubblicazione) del provvedimento ed è equiparata la firma digitale alla sottoscrizione autografa (in base ai principi del d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82).

12.1. Il contenuto della sentenza.

Sez. 6-3, n. 15088/2015, Cirillo, Rv. 636180, ha ribadito che, nell'ordinario giudizio di cognizione, la portata precettiva della sentenza va individuata tenendo conto non solo del dispositivo, ma anche integrando questo con la motivazione. Ne deriva che, ove manchi un vero e proprio contrasto tra dispositivo e motivazione, deve ritenersi prevalente la statuizione contenuta in una delle due parti del provvedimento, che va interpretato secondo l'unica statuizione in esso contenuta.

Peraltro, in camera di consiglio, poiché il dispositivo redatto ai sensi dell'art. 276, comma 5, c.p.c. ha valore (salvo che nelle controversie assoggettate al rito del lavoro) meramente interno, non può ritenersi alcuna nullità della sentenza per il solo fatto che quel dispositivo, munito della sottoscrizione del presidente, non risulti agli atti (Sez. 1, n. 22113/2015, Valitutti, 637282).

Sul piano formale, è reputata nulla per omessa motivazione la sentenza fin dall'origine priva di una pagina, se la motivazione risultante dalle altre pagine evidenzia una frattura logico-espositiva che non consente di ricostruire l'esatto e compiuto ragionamento posto a base della decisione (Sez. 2, n. 09488/2015, Matera, Rv. 635246). Soddisfa il requisito di cui all'art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c. anche la sentenza che, pur in assenza di una delle pagine originariamente redatte, consenta di desumere la ragione per la quale ogni istanza proposta dalle parti sia stata esaminata (Sez. L, n. 21420/2015, Ghinoy, Rv. 637576).

Intimamente connessa alla questione su riportata è quella della sentenza che, pur avendo l'indicazione esatta delle pagine o anche in assenza di una delle pagine originariamente redatte, consenta di desumere la ragione per la quale ogni istanza proposta dalle parti sia stata esaminata e di ricostruire l'esatto ragionamento posto a base della decisione. In siffatta evenienza Sez. L, n. 21420/2015, Ghinoy, cit., ha ritenuto che la decisione soddisfi comunque il requisito di cui all'art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c., nella parte in cui richiede che l'esposizione dei fatti di causa riassuma concisamente il contenuto sostanziale della controversia e che nella motivazione sia chiaramente illustrato il percorso logico-giuridico seguito.

È parimenti nulla, per violazione dell'art. 132, n. 4, c.p.c., e dell'art. 118 disp. att. c.p.c., nella formulazione anteriore alle modifiche apportate dalla legge 18 giugno 2009, n. 69, la sentenza in cui sia totalmente omessa, per materiale mancanza, la parte della motivazione riferibile ad argomentazioni rilevanti per individuare e comprendere le ragioni, in fatto e in diritto, della decisione (Sez. 3, n. 12864/2015, citata, in un caso in cui la motivazione era materialmente priva della parte idonea a far comprendere le ragioni per cui la prova testimoniale, assunta e valutata con favore nel primo grado, in appello fosse stata ritenuta inadeguata a dimostrare la sussistenza di un fatto controverso e decisivo per il giudizio).

Quanto all'iter logico, meritevole di particolare menzione è Sez. U, n. 00642/2015, Di Iasi, Rv. 634091, che ha enunciato l'importante principio secondo cui, nel processo civile ed in quello tributario, la sentenza la cui motivazione si limiti a riprodurre il contenuto di un atto di parte (o di altri atti processuali o provvedimenti giudiziari), senza niente aggiungervi, non è nulla, qualora le ragioni della decisione siano, in ogni caso, attribuibili all'organo giudicante e risultino in modo chiaro, univoco ed esaustivo, atteso che al giudice non è imposta l'originalità né dei contenuti né delle modalità espositive (conf.

Sez. T, n. 09334/2015, Di Iasi, Rv. 635474).

Tuttavia, la sentenza motivata mediante la trascrizione delle deduzioni di una parte, consistenti nel rinvio a tutte le argomentazioni svolte nel ricorso introduttivo, è nulla, in quanto non consente di individuare in modo chiaro, univoco ed esaustivo le ragioni, attribuibili al giudicante, su cui si fonda la decisione (Sez. 6-T, n. 22652/2015, Crucitti, Rv. 637064).

Parimenti, non adempie il dovere di motivazione il giudice che si limiti a richiamare principi giurisprudenziali asseritamente acquisiti, senza tuttavia formulare alcuna specifica valutazione sui fatti rilevanti di causa (Sez. T, n. 22242/2015, Botta, Rv. 637116).

Ai fini della sufficienza della motivazione della sentenza, il giudice non può, quando esamina i fatti di prova, limitarsi ad enunciare il giudizio nel quale consiste la sua valutazione, perché questo è il solo contenuto "statico" della complessa dichiarazione motivazionale, ma deve impegnarsi anche nella descrizione del processo cognitivo attraverso il quale è passato dalla sua situazione di iniziale ignoranza dei fatti alla situazione finale costituita dal giudizio, che rappresenta il necessario contenuto "dinamico" della dichiarazione stessa (Sez. 5, n. 24784).

12.2. La decisione a seguito di trattazione orale.

Per Sez. 3, n. 12203/2015, Travaglino, Rv. 635627, l'adozione del modello "semplificato" di decisione, di cui all'art. 281 sexies c.p.c., non esonera comunque il giudice dall'obbligo di fornire alle parti una motivazione che consenta di ricostruire, sia pur sinteticamente, i fatti di causa, ed offra alla fattispecie concretamente esaminata una soluzione corretta sul piano logico-giuridico.

Dal canto suo, Sez. 3, n. 06394/2015, Vivaldi, Rv. 635066, ha precisato che la sentenza pronunciata a norma dell'art. 281 sexies c.p.c., con la lettura del dispositivo in udienza, ma senza il contestuale deposito della motivazione, è nulla in quanto non conforme al modello previsto dalla norma, dovendosi altresì escludere la sua conversione in una valida sentenza ordinaria, poiché la pubblicazione del dispositivo consuma il potere decisorio del giudice, sicché la successiva motivazione è irrilevante in quanto estranea alla struttura dell'atto processuale ormai compiuto.

13. La pubblicazione e comunicazione della sentenza.

Sez. 6-T, n. 00118/2015, citata, ha puntualizzato che, alla stregua di quanto disposto dall'art. 156 c.p.c., le formalità di pubblicazione della sentenza, indicate nel primo comma dell'art. 133 dello stesso codice, non sono previste dalla legge a pena di nullità.

Sul tema non può non essere menzionata Corte cost., n. 3 del 12 gennaio 2015, che ha reputato non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 133, commi 1 e 2, e 327, comma 1, c.p.c. (nel testo anteriore alla modifica apportata dall'art. 46, comma 17, legge 69 del 2009), come interpretati dalla Corte di cassazione, sezioni unite civili, con la sentenza n. 13794 dell'1 agosto 2012, censurati nella parte in cui, qualora le attività di deposito della sentenza e di effettiva pubblicazione della stessa abbiano luogo in due momenti diversi, farebbero decorrere tutti gli effetti giuridici derivanti dalla pubblicazione della sentenza dalla data del suo deposito. Nella procedura di pubblicazione disciplinata dall'art. 133 c.p.c., che si articola nel deposito della sentenza da parte del giudice e nella presa d'atto del cancelliere, l'atto fondamentale è il primo.

Secondo un'interpretazione costituzionalmente orientata, per costituire dies a quo del termine per l'impugnazione, la data apposta in calce alla sentenza dal cancelliere deve essere qualificata dalla contestuale adozione delle misure volte a garantirne la conoscibilità e solo da questo concorso di elementi consegue tale effetto, situazione che, in presenza di una seconda data, deve ritenersi di regola realizzata solo in corrispondenza di quest'ultima. Il ritardato adempimento (imputabile alla sola amministrazione giudiziaria), attestato dalla diversa data di pubblicazione, rende di fatto inoperante la dichiarazione dell'intervenuto deposito, pur se formalmente rispondente alla prescrizione normativa.

Nel solco di tale pronuncia Sez. 6-2, n. 10675/2015, D'Ascola, Rv. 635422, ha ritenuto che, in caso di doppia data - di deposito e di pubblicazione - apposta dal cancelliere sulla sentenza, si intende rimessa in termini e non decaduta la parte che abbia proposto l'impugnazione nel termine "lungo" decorrente non dalla data di deposito, ma dalla successiva data di pubblicazione, qualora emerga dagli atti, anche per implicito, che dall'attestazione del deposito non sia derivata la conoscenza della sentenza.

Sez. 6-L, n. 06050/2015, Arienzo, Rv. 634849, è pervenuta, in tema di ricorso per cassazione (ai fini della decorrenza del termine lungo, di cui all'art. 327, comma 1, c.p.c.), ad analoga conclusione, conferendo rilevanza alla seconda annotazione, cui consegue l'effettiva pubblicità della sentenza con il compimento delle operazioni prescritte dall'art. 133 c.p.c., quali misure volte a garantire la conoscibilità della decisione, essenziale per l'esercizio del diritto di difesa.

Sul tema, va, peraltro, evidenziato che la Seconda Sezione civile, con ordinanze interlocutorie nn. 18775 e 19140 del 2015, ha sottoposto, rilevata l'assistenza di un contrasto, la questione alle Sezioni Unite, al fine di stabilire, in presenza di due date attestanti deposito e pubblicazione della sentenza, la decorrenza del termine lungo per l'impugnazione, nonché l'ambito e le modalità di applicazione dell'istituto della rimessione in termini.

Gli indicati problemi non si pongono nel caso di sentenza pronunciata ai sensi dell'art. 281 sexies c.p.c., dato che la stessa, integralmente letta in udienza e sottoscritta dal giudice con la sottoscrizione del verbale che la contiene, deve ritenersi in quel momento pubblicata e non può essere dichiarata nulla nel caso in cui il cancelliere non abbia dato atto del deposito in cancelleria e non vi abbia apposto la data e la firma immediatamente dopo l'udienza (Sez. 3, n. 11176/2015, Barreca, Rv. 635565).

Invero, la previsione normativa dell'immediato deposito in cancelleria del provvedimento è finalizzata a consentire, da un lato, al cancelliere il suo inserimento nell'elenco cronologico delle sentenze, con l'attribuzione del relativo numero identificativo, e, dall'altro, alle parti di chiederne il rilascio di copia (eventualmente, in forma esecutiva).

14. Le notificazioni.

Sez. T, n. 19060/2015, Cigna, Rv. 636563, ha ribadito il principio per cui, in tema di notificazione degli atti processuali, qualora la notificazione dell'atto, da effettuarsi entro un termine perentorio, non si concluda positivamente per circostanze non imputabili al richiedente, questi ha la facoltà e l'onere di richiedere all'ufficiale giudiziario la ripresa del procedimento notificatorio, e, ai fini del rispetto del termine, la conseguente notificazione avrà effetto dalla data iniziale di attivazione del procedimento, sempreché il notificante fornisca la prova che il mancato perfezionamento della prima notifica non gli sia addebitabile ed attivi un nuovo procedimento entro un termine ragionevolmente contenuto, tenuti presenti i tempi necessari secondo la comune diligenza per conoscere l'esito negativo della notificazione e per assumere le informazioni ulteriori.

Peraltro, con riferimento al ricorso per cassazione, Sez. 1, n. 16040/2015, Campanile, Rv. 636507, lo ha dichiarato inammissibile in un caso in cui era stato notificato tempestivamente presso il precedente indirizzo del difensore della controparte nonostante la conoscenza o conoscibilità dell'intervenuto trasferimento dello studio (nella specie, risultante dagli atti difensivi e dalla corrispondenza posteriore), non potendosi applicare il principio secondo il quale è legittima la ripresa del procedimento notificatorio in esito all'insuccesso di un precedente tentativo di notificazione, che postula la non imputabilità al richiedente della mancata esecuzione della precedente notificazione.

Sez. T, n. 03755/2015, Federico, Rv. 634563, nel confermare che il momento di perfezionamento per il notificante, ai fini della tempestività dell'impugnazione è costituito dalla consegna dell'atto da notificarsi all'ufficiale giudiziario, ha precisato che la relativa prova può essere ricavata dal timbro, ancorché privo di sottoscrizione, da questi apposto sull'atto, recante il numero cronologico, la data e la specifica delle spese, salvo che sia in contestazione la conformità al vero di quanto da esso desumibile, atteso che le risultanze del registro cronologico, che egli deve tenere ai sensi dell'art. 116, comma 1, n. 1, del d.P.R. 15 dicembre 1959, n. 1229, fanno fede fino a querela di falso.

Per Sez. 2, n. 15326/2015, Nuzzo, Rv. 636026, la regola stabilita dall'art. 138, comma 1, c.p.c., secondo cui l'ufficiale giudiziario può sempre eseguire la notificazione mediante consegna nelle mani proprie del destinatario, ovunque lo trovi, è applicabile anche nei confronti del difensore di una delle parti in causa, essendo questi, dopo la costituzione in giudizio della parte a mezzo di procuratore, l'unico destinatario delle notificazioni da eseguirsi nel corso del procedimento (art. 170, comma 1, c.p.c.), sicché, al fine della decorrenza del termine per l'impugnazione, è valida la notifica della sentenza effettuata a mani proprie del procuratore costituito, ancorché in luogo diverso da quello in cui la parte abbia, presso il medesimo, eletto domicilio.

Quanto alla notificazione di atti giudiziari e di corretta determinazione del luogo di residenza o dimora abituale del destinatario, costituisce idonea fonte di convincimento, per confermare o superare le risultanze anagrafiche (aventi valore meramente presuntivo), l'indicazione della residenza fatta dalla parte nel contratto all'origine della controversia dedotta in giudizio (Sez. 3, n. 17021/2015, Rubino, Rv. 636300).

La Terza Sezione, con ordinanza interlocutoria n. 1392 del 2015, aveva rimesso alle Sezioni Unite la questione di massima di particolare importanza avente ad oggetto la possibilità di estendere il principio di "scissione" degli effetti della notificazione agli atti sostanziali o a quelli processuali con effetti sostanziali. Le Sezioni Unite, a soluzione della questione, hanno affermato il principio secondo cui, ove il diritto non si possa far valere se non con un atto processuale, la prescrizione è interrotta dall'atto di esercizio del diritto, ovvero dalla consegna dell'atto all'ufficiale giudiziario per la notifica, mentre in ogni altro caso opera la soluzione opposta (Sez. U, n. 24822/2015, Vivaldi, Rv. 637603).

14.1. Le varie fattispecie di notificazione.

In base a Sez. 3, n. 03590/2015, Travaglino, Rv. 634482, è nulla la notifica ex art. 140 c.p.c. effettuata nel luogo di residenza del destinatario, come risultante dai registri anagrafici, qualora questi si sia trasferito altrove ed il notificante ne conosca l'effettiva residenza o domicilio, in quanto evincibili dalla stessa relata dell'ufficiale giudiziario.

Sempre in tema di notifica in caso di irreperibilità del destinatario, Sez. 6-2, n. 19772/2015, D'Ascola, Rv. 637033, ha precisato che la detta notifica si perfeziona per quest'ultimo col ricevimento della raccomandata informativa, che rende conoscibile l'atto, essendo necessario il decorso dei dieci giorni dalla spedizione della raccomandata solo nel caso in cui questa non sia stata ricevuta.

Quando il destinatario della notifica si sia trasferito all'estero senza annotazione nei registri d'anagrafe, il notificante, che abbia comunque avuto conoscenza dell'avvenuto trasferimento di residenza, è tenuto in ogni caso a svolgere ulteriori ricerche presso l'ufficio consolare prima di procedere alla notificazione nelle forme dell'art. 143 c.p.c., fermo restando che l'omissione di tali incombenze comporta l'inesistenza della notificazione solo se eseguita in un luogo privo di collegamento con il destinatario, determinando, altrimenti, la mera nullità della stessa.

Due pronunce significative sono state adottate sul tema delle notificazioni alle amministrazioni dello Stato.

Sez. 2, n. 04977/2015, Giusti, Rv. 634877, ha affermato che, qualora il ricorso per cassazione sia notificato all'Avvocatura distrettuale dello Stato anziché all'Avvocatura generale dello Stato, il vizio della notifica è sanato, con efficacia ex tunc, dalla costituzione in giudizio del destinatario del ricorso, da cui si può desumere che l'atto abbia raggiunto il suo scopo.

Nella medesima direzione si sono orientate le Sezioni Unite - sez. U, n. 00608/2015, Napoletano, Rv. 633916 - le quali, con ordinanza interlocutoria, hanno statuito, in materia di ricorso per cassazione proposto nei confronti della P.A., che è nulla la notifica effettuata presso l'Avvocatura distrettuale, anziché presso l'Avvocatura generale dello Stato, sicché ne è ammissibile la rinnovazione presso quest'ultima, ponendosi una diversa soluzione in contrasto con il principio di ragionevole durata del processo.

In proposito, va, peraltro, ricordato che la funzione di rappresentanza e domiciliazione legale delle Amministrazioni dello Stato da parte dell'Avvocatura è circoscritta alla sola attività giudiziaria (Sez. 6-2, n. 04260/2015, Manna, Rv. 634556).

Opportunamente, Sez. T, n. 14230/2015, Bielli, Rv. 635876, ha chiarito, in tema di notificazione ad una persona giuridica, eseguita a mezzo posta alla persona fisica che la rappresenta, ai sensi dell'art. 145, comma 1, c.p.c. (sia nell'attuale formulazione, sia nel testo anteriore, applicabile ratione temporis), che non è il plico, ma l'atto da notificare che deve indicare, a pena di nullità, la qualità di rappresentante della persona giuridica e la sua residenza, domicilio e dimora abituale, come si desume sia dal dato letterale sia dalla possibile mancanza del plico.

14.2. Le notificazioni a mezzo del servizio postale.

Sez. T, n. 19623/2015, Cirillo, Rv. 636610, ha ribadito, in tema di ricorso per cassazione, che la prova dell'avvenuto perfezionamento della notifica dell'atto introduttivo, ai fini della sua ammissibilità, deve essere data, tramite la produzione dell'avviso di ricevimento, entro l'udienza di discussione, che non può essere rinviata per consentire all'impugnante di provvedere a tale deposito, salvo che lo stesso ottenga la rimessione in termini, offrendo la prova documentale di essersi tempestivamente attivato nel richiedere all'amministrazione postale, a norma dell'art. 6, comma 1, della legge 20 novembre 1982, n. 890, un duplicato dell'avviso stesso.

Parimenti, Sez. 6-2, n. 04891/2015, Manna, Rv. 634638, ha confermato che l'avviso di ricevimento della raccomandata rappresenta l'unico documento idoneo ad attestare la consegna del plico e la data di questa, mentre, ove sia il destinatario a dover provare la data della notificazione, è sufficiente la produzione della busta che contiene il plico, in sé idonea ad attestare che prima della data risultante dal timbro postale apposto non poteva essere avvenuta la consegna.

Per Sez. 6-T, n. 16289/2015, Cosentino, Rv. 636147, in caso di notifica a mezzo del servizio postale, l'avviso di ricevimento prova, fino a querela di falso, la consegna al destinatario, a condizione che l'atto sia stato consegnato presso il suo indirizzo e che il consegnatario abbia apposto la propria firma, ancorché illeggibile o apparentemente apocrifa, nello spazio dell'avviso relativo alla "firma del destinatario o di persona delegata", risultando irrilevante, in quanto non integra una nullità ex art. 160 c.p.c., l'omessa indicazione dell'indirizzo del destinatario sulla ricevuta di ritorno.

Interessante appare Sez. 3, n. 11140/2015, De Stefano, Rv. 635506, la quale ha avuto modo di precisare che, ai fini della validità della notificazione o comunicazione tramite i servizi postali di atti giudiziari ed extragiudiziali in materia civile o commerciale a persona residente in altro Stato membro dell'Unione Europea, da eseguirsi mediante lettera raccomandata con ricevuta di ritorno o mezzo equivalente, ai sensi dell'art. 14 del Regolamento CE n. 1393/2007 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 13 novembre 2007, non vanno osservate le formalità diverse e maggiori previste dall'ordinamento italiano per la notificazione a mezzo posta, vanificandosi, altrimenti, la facoltà alternativa concessa da detta norma, ispirata dalla reciproca fiducia nell'efficienza dei servizi postali degli stati membri (cfr., altresì, Sez. 3, n. 10543/2015, De Stefano, Rv. 635609, sia pure in materia di circolazione intereuropea di titoli esecutivi).

Sebbene concerna maggiormente gli aspetti sostanziali, merita, infine, di essere segnalata Sez. 6-3, n. 03261/2015, Vivaldi, Rv. 634394, a tenore della quale il servizio di notificazioni a mezzo posta si basa su di un mandato ex lege tra colui che richiede la notificazione e l'ufficiale giudiziario che la esegue, eventualmente avvalendosi, quale ausiliario, dell'agente postale, nell'ambito di un distinto rapporto obbligatorio, al quale il notificante rimane estraneo.

Ne consegue che, in caso di ritardo nella spedizione o nel recapito dell'atto notificato, nei confronti del richiedente la notifica risponde, ai sensi dell'art. 1228 c.c., esclusivamente l'ufficiale giudiziario, non anche l'agente postale del quale costui si avvalga.

Di forte impatto è una recente pronuncia (Sez. L, n. 20072/2015, Ghinoy) la quale, in un caso di notifica a mezzo Pec del ricorso per Cassazione, ha statuito che la stessa si perfeziona per il notificante nel momento in cui viene generata la ricevuta di accettazione e per il destinatario con la ricevuta di consegna. La mancata produzione di quest'ultima determina l'inesistenza della notifica, con conseguente impossibilità per il giudice di disporne il rinnovo ex art. 291 c.p.c.

15. I termini processuali.

Sez. T, n. 12544/2015, Ferro, Rv. 636356, nell'estendere al contenzioso tributario l'istituto della rimessione in termini ora previsto dalla norma generale di cui all'art. 153, comma 2, c.p.c., ha confermato che lo stesso opera sia con riferimento alle decadenze relative ai poteri processuali "interni" al giudizio, sia a quelle correlate alle facoltà esterne e strumentali al processo, quali l'impugnazione dei provvedimenti sostanziali.

Sez. 6-2, n. 12405/2015, Petitti, Rv. 635569, ha avuto il pregio di chiarire che l'istanza di rimessione in termini può essere contestuale all'atto scaduto, nessuna disposizione imponendo alla parte di avanzare la richiesta separatamente ed anteriormente.

Ovviamente, come ha ribadito Sez. L, n. 20992/2015, Maisano, Rv. 637732, la relativa richiesta richiede la dimostrazione che la decadenza sia stata determinata da una causa non imputabile alla parte, perché cagionata da un fatto estraneo alla sua volontà.

Da ciò consegue che l'istituto non può essere invocato quando la parte stessa, dovendo integrare una delibera di ammissione al gratuito patrocinio erroneamente emessa da un consiglio dell'ordine degli avvocati incompetente, non abbia per tale ragione provveduto alla iscrizione a ruolo di una causa di appello nel termine di legge (Sez. 3, n. 21794/2015, D'Amico, Rv. 637539), trattandosi in tal caso di una scelta della parte medesima (la quale avrebbe potuto pagare il contributo unificato e ricorrere solo successivamente all'assistenza tramite il patrocinio a spese dello Stato).

Pur essendo emanata in ambito fallimentare, applica il principio di economia processuale Sez. 1, n. 15146/2015, Ferro, Rv. 636106, che, in tema di impugnazione della sentenza dichiarativa di fallimento, ha disatteso l'istanza con cui l'appellante, che non aveva notificato il ricorso ed il decreto presidenziale di fissazione dell'udienza nel termine ordinatorio ex art. 18, comma 4, del r.d. 16 marzo 1942, n. 267 (nel testo, applicabile ratione temporis, modificato dal d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5), ne aveva chiesto, successivamente al suo decorso e senza allegare alcuna causa di giustificazione, uno nuovo per provvedervi.

Secondo la Corte ostava a tale concessione l'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 154 c.p.c. che, in ipotesi di impugnazione e sulla scorta dei principi sottesi all'art. 111, comma 2, Cost., deve tenere conto della legittima aspettativa della controparte al consolidamento, entro un confine temporale rigorosamente definito e ragionevolmente breve, del provvedimento giudiziario già emesso.

In tema di impugnazioni, Sez. 3, n. 17313/2015, De Stefano, Rv. 636514, ha statuito che il computo del termine di decadenza dall'impugnazione di cui all'art. 327 c.p.c. è operato, ai sensi degli artt. 155, comma 2, c.p.c. e 2963, comma 4, c.c., non ex numero bensì ex nominatione dierum, sicché, indipendentemente dall'effettivo numero dei giorni compresi nel periodo, il termine scade allo spirare della mezzanotte del giorno del mese corrispondente a quello in cui il termine ha cominciato a decorrere.

Sez. L, n. 16303/2015, Napoletano, Rv. 636346, ha sostenuto che la disciplina del computo dei termini di cui all'art. 155, comma 4, c.p.c., che proroga di diritto, al primo giorno seguente non festivo, il termine che scade in un giorno festivo, si applica, per il suo carattere generale, a tutti i termini, anche perentori, contemplati dal codice di rito.

Interessante, per la peculiarietà della vicenda, è Sez. 2, n. 05895/2015, Proto, Rv. 634944, a mente della quale, qualora il termine per la proposizione del ricorso per cassazione scada il 29 giugno, giorno di festività dei Santi apostoli Pietro e Paolo, patroni di Roma, la scadenza deve intendersi prorogata di diritto al giorno seguente non festivo, ai sensi dell'art. 155, comma 4, c.p.c., determinandosi il carattere di "festività" in base alla legge 27 maggio 1949, n. 260, e successive modificazioni, le quali, pur ignorando le festività dei santi patroni delle città, includono espressamente il giorno dei Santi Pietro e Paolo nell'elenco di quelli festivi agli effetti civili.

16. La nullità degli atti.

Sez. 3, n. 07086/2015, Cirillo, Rv. 635103, ha chiarito che la sentenza la cui deliberazione risulti anteriore alla scadenza dei termini di cui all'art. 190 c.p.c. (nella specie, quelli per il deposito delle memorie di replica) non è automaticamente affetta da nullità, occorrendo dimostrare la lesione concretamente subita in conseguenza della denunciata violazione processuale, indicando le argomentazioni difensive - contenute nello scritto non esaminato dal giudice - la cui omessa considerazione avrebbe avuto, ragionevolmente, probabilità di determinare una decisione diversa da quella effettivamente assunta.

Sulla specifica questione, sembra, peraltro, che si sia in presenza di un contrasto tra sezioni, se si considera che per Sez. 6, n. 20180/2015, Vivaldi, 637461, una sentenza di tal fatta è nulla, risultando per ciò solo impedito ai difensori l'esercizio, nella sua completezza, del diritto di difesa, senza che sia necessario verificare la sussistenza, in concreto, del pregiudizio che da tale inosservanza deriva alla parte.

L'approccio è stato differente per quanto concerne la sentenza resa ai sensi dell'art. 281 sexies c.p.c. pronunciata all'esito di udienza all'uopo appositamente fissata, ma non preceduta dalla discussione orale delle parti, bensì dallo scambio di comparse conclusionali, avendo Sez. 3, n. 07104/2015, Frasca, Rv. 635107, sostenuto che la stessa è affetta da nullità, destinata tuttavia a sanarsi se non tempestivamente eccepita nel corso dell'udienza in cui la sentenza sia stata pronunciata.

Si rinvia al par. 4.2., per quanto concerne l'ipotesi di sentenza pronunciata a norma dell'art. 281 sexies c.p.c. con la lettura del dispositivo in udienza, ma senza il contestuale deposito della motivazione, ed al par. 4., per quanto riguarda il caso dell'omessa indicazione, nell'intestazione della sentenza, del nome di una delle parti.

Con riferimento alla nota d'iscrizione a ruolo, la stessa, per Sez. 2, n. 04163/2015, Abete, Rv. 634529, è, ai sensi dell'art. 156 c.p.c. ed in mancanza di un'espressa sanzione di nullità, nulla per irregolarità formali, con conseguente mancata costituzione della parte, solo quando difettino i requisiti indispensabili per il raggiungimento del suo scopo, che è quello di portare la causa a conoscenza del giudice perché possa trattare e decidere la lite instauratasi fra le parti con l'atto di citazione.

Ne consegue che non ne ricorrono i presupposti quando la nota, ancorché incompleta o erronea in qualcuno dei suoi elementi, sia comunque tale da consentire d'individuare con sicurezza il rapporto processuale su cui è invocata la pronuncia del giudice adito.

Sebbene concerni il rito del lavoro, di interesse appare Sez. L, n. 01906/2015, Patti, Rv. 634195, secondo cui il dispositivo letto in udienza non è più modificabile da parte del giudice che ha emesso la decisione, sicché è radicalmente nulla la sentenza con la quale sia stato adottato un nuovo dispositivo, di contenuto diverso dal precedente.

Avuto riguardo alle vicende anomale del processo, Sez. 2, n. 01676/2015, Scalisi, Rv. 633984, ha avuto l'occasione per chiarire che la notificazione dell'atto di riassunzione del giudizio alla parte personalmente, anziché al suo difensore costituito (come prescritto dall'art. 170, comma 1, c.p.c. e dall'art. 125, comma 3, disp. att. c.p.c.), impedisce la valida instaurazione del rapporto processuale, salvo che il destinatario della notifica si costituisca, verificandosi in tale ultima ipotesi la sanatoria della nullità per raggiungimento dello scopo cui l'atto era diretto, ai sensi dell'art. 156, comma 3, c.p.c., anche quando la costituzione avvenga al solo scopo di far valere tale vizio.

16.1. I vizi di costituzione del giudice.

Di particolare spessore è Sez. U, n. 09099/2015, Spirito, Rv. 635182, alla stregua della quale la carenza di giurisdizione per illegittima composizione del giudice speciale (nella specie, Sezione del Consiglio di Stato) è ravvisabile solo in caso di alterazione strutturale dell'organo giudicante, per vizio di numero o qualità dei suoi membri, che ne precluda l'identificazione con l'organo delineato dalla legge, mentre la semplice violazione di norme processuali (nella specie, per dedotta incompatibilità dei magistrati) esorbita dai limiti del sindacato delle Sezioni Unite.

Pur concernendo una fattispecie soggetta ratione temporis alla disciplina antecedente alle modifiche introdotte dall'art. 15 del d.lgs. 1 settembre 2011, n. 150, merita menzione Sez. 2, n. 04362/2015, Mazzacane, Rv. 634778, secondo cui la pronuncia sull'opposizione al decreto di liquidazione dei compensi agli ausiliari, ai sensi dell'art. 170 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, spetta (recte, spettava) alla competenza funzionale del presidente dell'ufficio giudiziario in composizione monocratica, con riferimento non solo all'ufficio, ma anche alla persona del titolare di questo.

Pertanto, la decisione assunta dal tribunale in composizione collegiale è (recte, era) nulla per vizio di costituzione del giudice ai sensi dell'art. 158 c.p.c., in quanto esplicazione di funzioni decisorie da parte di magistrati ai quali le stesse non sono attribuite dalla legge.

17. La nullità della sentenza.

Nel rinviare per l'esame di alcuni profili patologici, al par. 4.1., qui merita di essere segnalata, anche per la particolarità della fattispecie, Sez. T, n. 15002/2015, Ferro, Rv. 636162, a tenore della quale la sentenza emessa nei confronti delle parti del giudizio, ma con motivazione e dispositivo relativi a causa diversa, concernente altri soggetti, è priva degli elementi necessari per la formazione del giudicato sul rapporto controverso ed è, quindi, affetta da nullità insanabile, che, nel corso del processo, è rilevabile d'ufficio dal giudice dell'impugnazione.

Sez. 3, n. 01448/2015, Stalla, Rv. 633965, ribadisce l'importante principio per cui l'omesso mutamento del rito (da quello speciale del lavoro a quello ordinario e viceversa) non determina ipso iure l'inesistenza o la nullità della sentenza, ma assume rilevanza invalidante soltanto se la parte che se ne dolga in sede di impugnazione indichi lo specifico pregiudizio processuale concretamente derivatole dalla mancata adozione del rito diverso, quali una precisa e apprezzabile lesione del diritto di difesa, del contraddittorio e, in generale, delle prerogative processuali protette della parte.

  • accesso alla giustizia
  • azione civile

CAPITOLO XXXV

IL GIUDIZIO DI PRIMO GRADO

(di Eduardo Campese )

Sommario

1 L'introduzione della causa in generale. - 1.1 Le domande originariamente proposte. - 1.2 I vizi degli atti introduttivi e della costituzione delle parti. - 1.3 Chiamata in causa ed intervento del terzo. - 2 La fase di trattazione in generale. - 2.1 La precisazione o modificazione delle domande. - 3 Le vicende anormali del processo. - 3.1 Riunione, separazione e trasferimento di procedimenti. - 3.2 Sospensione del processo. - 3.3 Interruzione del processo. - 4 La decisione della causa ed i vizi del relativo provvedimento.

1. L'introduzione della causa in generale.

È noto che il procedimento di cognizione di primo grado si articola, convenzionalmente, in tre fasi, – introduzione, istruzione in senso ampio (a sua volta suddivisa in fase di trattazione, di eventuale istruzione in senso stretto e di rimessione in decisione) e decisione – prive di una vera e propria autonomia l'una rispetto alle altre, mirando, invero, tale ripartizione, più semplicemente, a consentire di ricomprendere all'interno di ciascuna di esse una serie di atti con riguardo alla loro particolare funzione, alla quale corrisponde la prevalenza di certe caratteristiche strutturali.

In particolare, la fase di introduzione consiste in una serie di atti qualificati, nel loro complesso, dallo scopo di instaurare il processo, così realizzando il primo contatto giuridico tra i suoi soggetti (o, se si preferisce, dando vita al cosiddetto rapporto giuridico processuale) attraverso la proposizione della domanda: ed è proprio su quest'ultima, tipico atto nel quale si concreta l'iniziativa del soggetto che chiede la tutela giurisdizionale, che si impernia tale fase.

1.1. Le domande originariamente proposte.

Nel corso del 2015, la Suprema Corte ha reso alcune interessanti pronunce riguardanti la formulazione della domanda dell'attore e di quella eventualmente proposta dal convenuto in via riconvenzionale.

In particolare, ad avviso di Sez. 3, n. 03366/2015, Rossetti, Rv. 634518, in caso di azione per il risarcimento dei danni, l'attore, ove abbia chiesto, alternativamente, la condanna generica o quella integrale, può limitare la propria pretesa alla sola pronuncia sull'an debeatur, senza necessità del consenso del convenuto, il quale, peraltro, può chiedere, in via riconvenzionale, che l'accertamento della responsabilità si estenda al quantum debeatur, onde verificare l'insussistenza del danno.

Sez. 2, n. 10206/2015, Matera, Rv. 635409, resa in tema di usucapione, ha, invece, sancito che la decadenza dalla proposizione di una tale domanda in via riconvenzionale, per inosservanza del termine stabilito dall'art. 166 c.p.c., non impedisce alla stessa di produrre gli effetti di una semplice eccezione di usucapione, mirante al rigetto della pretesa attrice, sempre che la costituzione sia comunque avvenuta nel termine utile per proporre le eccezioni.

Meritevole di segnalazione, appare, altresì, Sez. 2, n. 08814/2015, Manna, Rv. 635183, la quale ha chiarito che l'inammissibilità della domanda riconvenzionale che non comporti spostamento di competenza non è rilevabile d'ufficio, ma solo su tempestiva eccezione della parte riconvenuta.

1.2. I vizi degli atti introduttivi e della costituzione delle parti.

Tra le decisioni, depositate nel 2015, riguardanti i vizi degli atti introduttivi del giudizio e della costituzioni delle parti, merita di essere immediatamente segnalata Sez. 2, n. 01681/2015, Abete, Rv. 634607, che ha opportunamente specificato che la nullità dell'atto di citazione per petitum omesso od assolutamente incerto, ai sensi dell'art. 164, comma 4, c.p.c., postula una valutazione caso per caso, dovendosi tener conto, a tal fine, del contenuto complessivo dell'atto di citazione, dei documenti ad esso allegati, nonché, in relazione allo scopo del requisito di consentire alla controparte di apprestare adeguate e puntuali difese, della natura dell'oggetto e delle relazioni in cui, con esso, questa si trovi.

Va, poi, ricordata Sez. 3, n. 13328/2015, Rossetti, Rv. 636016, secondo la quale, nei giudizi risarcitori, la domanda deve descrivere in modo concreto i pregiudizi dei quali si invoca il ristoro, senza limitarsi a formule generiche, come la richiesta di risarcimento dei "danni subiti e subendi", perché tali istanze, quando non nulle ex art. 164 c.p.c., non obbligano il giudice a provvedere sul risarcimento di danni che siano concretamente descritti solo in corso di causa.

Sez. 1, n. 12059/2015, Genovese, Rv. 635620, inoltre, occupandosi della contestuale proposizione giudiziale di più domande (nella specie, alcune alternative tra loro ed altre subordinate al mancato accoglimento delle prime), ha statuito che l'omessa indicazione della causa petendi per ciascuna di esse, anche in relazione alla pluralità di negozi ed atti che le riguardano, ne rende assolutamente incerto l'oggetto, attesa la molteplicità delle possibili combinatorie e la postulazione di un inammissibile ruolo attivo e selettore da parte del giudice, determinandone, pertanto, la corrispondente nullità, ex artt. 164, comma 4, e 163, comma 3, nn. 3 e 4, c.p.c.

Con specifico riferimento, invece, ai vizi della costituzione delle parti, deve subito rimarcarsi Sez. 2, n. 04163/2015, Abete, Rv. 634529, da cui emerge che, ai sensi dell'art. 156 c.p.c., in mancanza di un'espressa sanzione di nullità, la nota d'iscrizione a ruolo è nulla per irregolarità formali, con conseguente mancata costituzione della parte, solo quando difettino i requisiti indispensabili per il raggiungimento del suo scopo, che è quello di portare la causa a conoscenza del giudice perché possa trattare e decidere la lite instauratasi fra le parti con l'atto di citazione, sicché non ne ricorrono i presupposti quando la nota, ancorché incompleta o erronea in qualcuno dei suoi elementi, sia comunque tale da consentire d'individuare con sicurezza il rapporto processuale su cui è invocata la pronuncia del giudice adito.

Ispirata alle medesime finalità è, poi, Sez. 1, n. 15130/2015, Campanile, Rv. 636049, che, benché resa nell'ambito di un procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo, ha ribadito, con affermazione di evidente valenza generale, che la costituzione in giudizio avvenuta mediante deposito in cancelleria, oltre che della nota di iscrizione a ruolo, del fascicolo contenente, tuttavia, copia dell'atto di citazione (cosiddetta velina) anziché, come previsto dall'art. 165 c.p.c., l'originale di essa, non arreca alcuna lesione sostanziale ai diritti della controparte, costituendo, pertanto, una mera irregolarità, che resta sanata dal successivo deposito dell'originale medesimo.

Sembra opportuno, altresì, menzionare Sez. 3, n. 12714/2015, Amendola, Rv. 635819, che ha ritenuto che laddove sia convenuto in giudizio, in proprio, un soggetto privo di capacità processuale (nella specie si trattava di una persona interdetta legalmente ex art. 32 c.p.), il riacquisto della capacità in fase di gravame determina la sanatoria della nullità della sua costituzione in giudizio, con efficacia ex tunc – ai sensi dell'art. 182 c.p.c. – idonea ad escludere l'invalidità della domanda proposta nei suoi confronti, ma non anche del giudizio svolto in violazione del principio del contraddittorio, sicché il giudice d'appello è tenuto a pronunciarsi su di essa, previa declaratoria della nullità della sentenza di primo grado, senza rimettere la causa al primo giudice.

Da ultimo, perché pur sempre collegata alla costituzione delle parti, sebbene non inerente specificamente alla sua patologia, non appare irragionevole evidenziare che Sez. 1, n. 10741/2015, Genovese, Rv. 635578, ha avuto cura di ribadire che il giudice che accerti che una parte ha ritualmente ritirato, ex art. 169 c.p.c., il proprio fascicolo, senza che poi risulti, al momento della decisione, nuovamente depositato o reperibile, non è tenuto, in difetto di annotazioni della cancelleria e di ulteriori allegazioni indiziarie attinenti a fatti che impongano accertamenti presso quest'ultima, a rimettere la causa sul ruolo per consentire alla medesima parte di ovviare alla carenza riscontrata, ma ha il dovere di decidere la controversia allo stato degli atti.

1.3. Chiamata in causa ed intervento del terzo.

In tema di chiamata in causa del terzo su istanza di parte, giova segnalare che, in quest'anno, i giudici di legittimità hanno dato ulteriore seguito all'orientamento inaugurato da Sez. U, n. 04309/2010, Forte, Rv. 611567.

Infatti, Sez. 3, n. 09570/2015, Scrima, Rv. 635286, e Sez. 6-T, n. 01112/2015, Perrino, Rv. 634031, hanno ribadito che, nel processo civile, come in quello tributario, al di fuori delle ipotesi di litisconsorzio necessario, è discrezionale il provvedimento del giudice di fissazione di una nuova udienza per consentire la citazione del terzo: conseguentemente, sebbene sia stata tempestivamente chiesta dal convenuto la chiamata in causa del terzo ex art. 269 c.p.c., in manleva o in regresso, il giudice può, per esigenze di economia processuale e di ragionevole durata del processo, rifiutare di fissare una nuova prima udienza per la costituzione del terzo.

Va pure rimarcata, in tema di intervento del terzo, Sez. 2, n. 17328/2015, Bursese, Rv. 636226, la quale, dopo aver premesso che la comparsa di intervento del successore a titolo particolare nel diritto controverso deve essere notificata al convenuto contumace anche se l'interventore si associ alle domande degli altri soggetti, già partecipi del giudizio, poiché il contumace, oltre a poter contestare la legittimità dell'intervento o opporre eccezioni personali, ha comunque diritto ad essere informato della presenza in causa di una nuova parte, salvo il caso in cui la comparsa d'intervento non contenga domande nei suoi confronti, ha precisato che l'omessa notifica dell'atto d'intervento comporta la nullità della sentenza ma non la sua inesistenza, sicché nel giudizio d'appello, non essendo applicabili gli artt. 353 e 354 c.p.c., la causa deve essere decisa nel merito, secondo le regole generali.

È utile, poi, ricordare anche in questa sede, benché resa in sede di opposizione a decreto ingiuntivo, Sez. 1, n. 22113/2015, Valitutti, Rv. 637283, che ha riaffermato che l'opponente a decreto ingiuntivo che intenda chiamare in causa un terzo deve necessariamente chiederne l'autorizzazione al giudice, a pena di decadenza, nell'atto di opposizione, non potendo provvedere a citarlo direttamente alla prima udienza, sicché, ove invece proceda in tal modo, il verificarsi della corrispondente decadenza, rilevabile di ufficio, è insuscettibile di sanatoria per effetto della costituzione del terzo chiamato che non abbia, sul punto, sollevato eccezioni, atteso che il principio della non rilevabilità di ufficio della nullità di un atto per avvenuto raggiungimento dello scopo si riferisce esclusivamente all'inosservanza di forme in senso stretto, e non di termini perentori, stabiliti a pena di decadenza, per i quali vigono apposite e separate norme.

Si segnala, da ultimo, che sono tuttora pendenti, innanzi alle Sezioni Unite, le questioni relative: a) al se la nullità dell'atto di chiamata in garanzia di un terzo, determinata dal mancato espresso conferimento al difensore della relativa facoltà nella procura ad litem o nel contesto dell'atto cui essa accede, sia rilevabile d'ufficio o solo su eccezione di parte e, in quest'ultima evenienza, se possa considerarsi sanata qualora il chiamato si costituisca in giudizio senza dedurre preliminarmente il vizio in questione; b) al se la contestazione della titolarità, attiva o passiva, del rapporto dedotto in giudizio costituisca una mera difesa oppure un'eccezione in senso tecnico.

2. La fase di trattazione in generale.

Avvenuta la costituzione delle parti (o di almeno una di esse), ha inizio la fase di istruzione, ma va subito precisato che, in tal caso, la parola istruzione assume un significato molto ampio, vale a dire quello che si ricava, per esclusione, dal rilievo che la fase in discorso abbraccia tutte le attività processuali che si svolgono dopo l'introduzione della causa fino al momento in cui iniziano gli atti in funzione diretta della decisione, e che sono raggruppati nella corrispondente terza fase.

Dal che si desume che istruire la causa – nel senso ampio che viene ora in rilievo – significa svolgere tutte le attività che sono necessarie perché la stessa possa essere decisa, cioè, in altri termini, renderla matura per la decisione.

Occorrerà, insomma, una sorta di impostazione o di programmazione del giudizio in tutti i suoi aspetti di diritto, sia processuale che sostanziale, e di fatto, con la conseguente determinazione di un iter logico nel quale si inserirà, poi, – se ed in quanto verrà ritenuta necessaria – l'eventuale attività di acquisizione delle prove (istruzione in senso stretto).

Questa fase, come si è già anticipato, si ripartisce, a sua volta, convenzionalmente, in tre sottofasi: quella di trattazione, che ha la particolare funzione della prima presa di conoscenza delle domande con l'impostazione dei relativi problemi, ivi compresi quelli concernenti l'eventuale necessità di precisazioni o ampliamento, nonché di ulteriori atti per acquisire prove o altri elementi di giudizio; quella di istruzione probatoria (altrimenti detta istruttoria in senso stretto), soltanto eventuale, consistente nell'acquisizione dei mezzi di prova che il giudice abbia ritenuto ammissibili e rilevanti ai fini della decisione; quella della rimessione (o riserva) totale della causa in decisione, che funge da ponte per il passaggio alla terza fase del processo, ossia a quella di decisione.

Rinviandosi, per quanto riguarda la fase istruttoria in senso stretto, al capitolo XXVII di questa rassegna, si esamineranno, nei paragrafi successivi, le principali pronunce rese, nel corso di quest'anno, dalla Suprema Corte con riguardo alle tematiche delle altre due fasi prima descritte.

2.1. La precisazione o modificazione delle domande.

Va immediatamente segnalata Sez. U, n. 12310/2015, Di Iasi, Rv. 635536, che ha composto il contrasto nuovamente manifestatosi nella giurisprudenza di legittimità in ordine alla questione concernente il se – ove l'attore abbia chiesto con l'atto di citazione una sentenza costitutiva ex art. 2932 c.c. sulla base di una scrittura privata da lui qualificata come preliminare di vendita immobiliare – costituisce domanda nuova o mera emendatio libelli la richiesta di una pronuncia dichiarativa dell'avvenuto trasferimento della proprietà del medesimo immobile, oggetto del contratto qualificato come contratto definitivo di compravendita.

La suddetta pronuncia ha ritenuto che «la modificazione della domanda ammessa ex art. 183 c.p.c. può riguardare anche uno o entrambi gli elementi oggettivi della stessa ("petitum" e "causa petendi"), sempre che la domanda così modificata risulti comunque connessa alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio e senza che, perciò solo, si determini la compromissione delle potenzialità difensive della controparte, ovvero l'allungamento dei tempi processuali. Ne consegue l'ammissibilità della modifica, nella memoria ex art. 183 c.p.c., dell'originaria domanda formulata ex art. 2932 c.c. con quella di accertamento dell'avvenuto effetto traslativo».

In particolare, le Sezioni Unite, al fine di spiegare il perché hanno deciso di mutare orientamento rispetto al proprio precedente costituito da Sez. U, n. 01731/1996, Carbone, Rv. 496140, hanno effettuato – e qui va rimarcata l'importanza della pronuncia – una ricognizione più generale sul rapporto tra mutatio ed emendatio libelli.

Si è rilevato, invero, che, sul punto, vige, in linea generale, il principio, più che consolidato, secondo il quale è ammissibile solo la modificazione della domanda introduttiva che costituisce semplice emendatio libelli, ravvisabile quando non si incide né sulla causa petendi (ma solo sull'interpretazione o qualificazione giuridica del fatto costitutivo del diritto), né sul petitum (se non nel senso di meglio quantificarlo per renderlo idoneo al concreto ed effettivo soddisfacimento della pretesa fatta valere). Al contrario, è assolutamente inammissibile quella modificazione della domanda che si risolve in una mutatio libelli, ricorrente quando si avanza una pretesa obiettivamente diversa da quella originaria, introducendo nel processo un petitum diverso e più ampio oppure una causa petendi fondata su situazioni giuridiche non prospettate prima, così ponendo al giudice un nuovo tema d'indagine e spostando i termini della controversia.

La situazione, apparentemente univoca, ha generato nella realtà un fenomeno ben più complesso, atteso che finora, in molti singoli casi, pur non contravvenendo espressamente al descritto principio, si è giunti a ritenere sostanzialmente ammissibili anche domande che presentavano, invece, mutamenti in ordine ai suddetti elementi modificativi.

C'è stato, in altre parole, un contrasto in tale crocevia processuale più consistente di quanto non apparisse ad un primo esame della giurisprudenza.

Le Sezioni Unite hanno, pertanto, voluto operare, in primo luogo, una ricognizione della struttura dell'udienza di comparizione, disciplinata dall'art. 183 c.p.c.: secondo la pronuncia in esame, la non ammissibilità della proposizione di domande nuove nel corso dell'udienza di cui alla citata norma, considerando come "nuove" le domande che differiscono da quella iniziale anche solo per uno degli elementi identificativi sul piano oggettivo, è solo una consolidata ma immotivata convinzione.

Nell'art. 183 c.p.c. non si rinviene, infatti, alcun esplicito divieto di domande nuove (come, invece, ad esempio, nell'art. 345 c.p.c.).

Non solo: l'art. 189 c.p.c., in tema di rimessione della causa al collegio – laddove afferma che il giudice istruttore invita le parti a precisare davanti a lui le conclusioni «nei limiti di quelle formulate negli atti introduttivi o a norma dell'art. 183 c.p.c.» – lascia intendere che, in realtà, le parti possono cambiare le domande e conclusioni avanzate nell'atto introduttivo, anche in modo apprezzabile.

Effettuata tale precisazione, si è pertanto proceduto a definire i tre tipi di domande previste dall'art. 183 c.p.c.: le domande "nuove", le "precisate" ed, infine, le "modificate".

Con riguardo alle domande "nuove", pur non riscontrandosi un espresso divieto, le Sezioni Unite le hanno ritenute implicitamente vietate ad eccezione di quelle che per l'attore rappresentano una reazione alle opzioni difensive del convenuto.

Le domande "precisate" sono invece le stesse domande introduttive che non hanno subito modificazioni ma semplici precisazioni, finalizzate a definirle, puntualizzarle, circostanziarle meglio.

Quanto alle domande "modificate", è stato giustamente rilevato che la norma non prevede alcun limite, né quantitativo né qualitativo, alla modificazione ammessa.

Ne consegue che, per la pronuncia in esame, la modificazione delle domande ex art. 183 c.p.c. è ammissibile senza limiti, anche con riferimento al petitum ed alla causa petendi. E tale circostanza si evincerebbe non solo dalla previsione di ben tre termini, per formularle, replicare ad esse e provarle, ma anche perché, trattandosi di udienza di prima comparizione, la trattazione della causa non è ancora sostanzialmente iniziata e, conseguentemente, una modifica anche incisiva della domanda non arrecherebbe alcun pregiudizio all'ordinato svolgimento del processo.

Peraltro, da tale interpretazione non deriverebbe una degenerazione del processo, giacché la domanda modificata deve pur sempre riguardare la medesima vicenda sostanziale dedotta in giudizio con l'atto introduttivo o comunque essere a questa collegata o posta in alternativa. E nemmeno si rischierebbe un allungamento dei tempi processuali, atteso che la domanda modificata sostituisce la domanda iniziale e non si aggiunge ad essa, interviene nella fase iniziale del giudizio e non comporta tempi superiori a quelli già preventivati dal medesimo art. 183 c.p.c.

Neppure, infine, può ritenersi che una simile interpretazione possa "sorprendere" la controparte ovvero mortificarne le potenzialità difensive perché «l'eventuale modifica avviene sempre in riferimento e connessione alla medesima vicenda sostanziale in relazione alla quale la parte è stata chiamata in giudizio; la parte sa che una simile modifica potrebbe intervenire, sicché non si trova rispetto ad essa come dinanzi alla domanda iniziale» e, infine, «alla suddetta parte è in ogni caso assegnato un congruo termine per potersi difendere e controdedurre anche sul piano probatorio».

Da ultimo, le Sezioni Unite hanno ritenuto che i risultati ermeneutici così raggiunti appaiono in completa consonanza sia con l'esigenza – ripetutamente perseguita nel codice di rito, talora anche attraverso modifiche della disciplina sulla competenza – di realizzare, al fine di una maggiore economia processuale ed una migliore giustizia sostanziale, la concentrazione nello stesso processo e dinanzi allo stesso giudice delle controversie aventi ad oggetto la medesima vicenda sostanziale (basti pensare alle disposizioni codicistiche in tema di connessione e riunione dei procedimenti), sia, più in generale, con i valori funzionali del processo come via via enucleati, nel corso degli ultimi anni, dalla dottrina e dalla giurisprudenza di legittimità.

Sez. 2, n. 01585/2015, Abete, Rv. 633977, dal canto suo, ha sottolineato che si ha mutatio libelli quando la parte immuti l'oggetto della pretesa ovvero quando introduca nel processo, attraverso la modificazione dei fatti giuridici posti a fondamento dell'azione, un tema di indagine e di decisione completamente nuovo, fondato su presupposti totalmente diversi da quelli prospettati nell'atto introduttivo e tale da disorientare la difesa della controparte e da alterare il regolare svolgimento del contraddittorio.

Sempre con riguardo al tema della precisazione/modificazione della domanda originaria, vanno infine segnalate, in ragione della peculiarità delle singole fattispecie affrontate: a) Sez. 3, n. 16801/2015, Stalla, Rv. 636353, secondo cui la domanda di rilascio dell'immobile locato include anche quella diretta al rilascio delle pertinenze, sicché quest'ultima non costituisce domanda nuova e può essere proposta, per la prima volta, anche in appello; b) Sez. 1, n. 13767/2015, Di Virgilio, Rv. 635851, a tenore della quale nell'azione revocatoria fallimentare, avente ad oggetto la dichiarazione di inefficacia di più rimesse bancarie solutorie, non viene proposta una sola domanda, ma tante domande quante sono le rimesse ritenute revocabili, trattandosi di domande fondate su fatti costitutivi diversi, sicché, ove in sede di precisazione delle conclusioni sia richiesta la revoca di un maggior numero di rimesse, rispetto a quelle indicate nell'atto di citazione, deve ritenersi che sia stata proposta una inammissibile domanda nuova, poiché l'estensione della revoca comporta il riferimento a fatti costitutivi nuovi e non allegati con l'originario atto di citazione; c) Sez. 1, n. 01589/2015, Mazzacane, Rv. 633841, che ha nuovamente precisato che non costituisce estensione del petitum o domanda nuova, né modifica la materia del contendere, la richiesta di liquidazione del danno in via equitativa, quando la domanda formulata nell'atto introduttivo abbia avuto ad oggetto il risarcimento del danno da determinarsi in corso di giudizio.

3. Le vicende anormali del processo.

Per evidenti ragioni di sistematicità, si ritiene opportuno raggruppare nel presente paragrafo, suddividendolo in corrispondenti sottoparagrafi, le più interessanti pronunce rese dalla Suprema Corte, nell'anno in rassegna, con riguardo alle vicende comunemente definite come "anormali" del processo, vale a dire la riunione, separazione e trasformazione dei procedimenti, nonché la sospensione e l'interruzione del processo.

3.1. Riunione, separazione e trasferimento di procedimenti.

Con riguardo alle vicende processuali in questione, va immediatamente rimarcata Sez. U, n. 02245/2015, Spirito, Rv. 634424, la quale ha ribadito che, in tema di connessione di cause, il provvedimento di riunione, fondandosi su valutazioni di mera opportunità, costituisce esercizio del potere discrezionale del giudice, e ha natura ordinatoria, essendo pertanto insuscettibile di impugnazione ed insindacabile in sede di legittimità.

Meritevole di interesse, soprattutto per la ricorrenza, nella pratica, del fenomeno da essa affrontato, è Sez. 1, n. 00567/2015, Cristiano, Rv. 633952, che ha avuto cura di precisare che le decadenze processuali verificatesi nel giudizio di primo grado non possono essere aggirate dalla parte che vi sia incorsa mediante l'introduzione di un secondo giudizio identico al primo ed a questo riunito, in quanto la riunione di cause identiche non realizza una vera e propria fusione dei procedimenti, tale da determinarne il concorso nella definizione dell'effettivo thema decidendum et probandum, restando anzi intatta l'autonomia di ciascuna causa.

Ne consegue che, in tale evenienza, il giudice – in osservanza del principio del ne bis in idem ed allo scopo di non favorire l'abuso dello strumento processuale e di non ledere il diritto di difesa della parte in cui favore sono maturate le preclusioni – deve trattare soltanto la causa iniziata per prima, decidendo in base ai fatti tempestivamente allegati ed al materiale istruttorio in essa raccolto, salva l'eventualità che, non potendo tale causa condurre ad una pronuncia sul merito, venga meno l'impedimento alla trattazione della causa successivamente instaurata.

Sicuramente di rilievo, è, infine, Sez. T, n. 10323/2015, Di Blasi, Rv. 635456, che ha ritenuto il principio della translatio iudicii estensibile anche alle pronunce declinatorie della giurisdizione emesse dai giudici di merito (nella specie, dal giudice tributario), nonostante queste ultime, a differenza di quella delle Sezioni Unite della Corte di cassazione, non impongano, al giudice del quale è stata affermata la giurisdizione, di conformarvisi, atteso che, comunque, le parti dispongono, per la soluzione dell'eventuale conflitto negativo di giurisdizione, del ricorso per cassazione ex art. 362, comma 2, c.p.c., che consente di pervenire alla decisione della questione di giurisdizione con effetti vincolanti nei confronti del giudice ad quem e rende, pertanto, praticabile la translatio iudicii dinanzi a lui.

3.2. Sospensione del processo.

Molteplici sono state le decisioni in tema di sospensione necessaria del processo, ex art. 295 c.p.c., che, come è ormai pacifico, può essere disposta quando la decisione del medesimo dipenda dall'esito di altra causa, nel senso che questo abbia portata pregiudiziale in senso stretto, e cioè vincolante, con effetto di giudicato, all'interno della causa pregiudicata, ovvero che una situazione sostanziale rappresenti fatto costitutivo, o comunque elemento fondante della fattispecie di altra situazione sostanziale, sicché occorra garantire uniformità di giudicati, essendo la decisione del processo principale idonea a definire, in tutto o in parte, il thema decidendum del processo pregiudicato.

Tanto premesso, Sez. 6-2, n. 17129/2015, Giusti, Rv. 636136, ha chiarito che il provvedimento di sospensione del processo, ai sensi dell'art. 295 c.p.c., pur avendo la forma dell'ordinanza, non è revocabile dal giudice che lo ha pronunciato, poiché tale revocabilità confliggerebbe con la previsione della sua impugnabilità mediante regolamento necessario di competenza. Da ciò ha tratto la conseguenza che, ove la parte, anziché proporre il regolamento nel termine previsto dall'art. 47, comma 2, c.p.c., abbia presentato istanza di revoca dell'ordinanza di sospensione al giudice che l'aveva emanata e questi abbia emesso un provvedimento meramente confermativo di quello precedente, la mancata impugnazione della prima ordinanza determina l'inammissibilità del regolamento proposto avverso il secondo provvedimento, risultando altrimenti eluso – mediante l'inammissibile proposizione di un'istanza di revoca – il termine perentorio previsto dalla norma.

Sez. 6-1, n. 15797/2015, Ragonesi, Rv. 636203, ha, invece, escluso la sussistenza di un rapporto di pregiudizialità necessaria, tale da imporre la sospensione del processo ex art. 295 c.p.c., tra il giudizio di responsabilità dell'amministratore di una società ex art. 2393 c.c., di natura contrattuale, e quello di accertamento della nullità di alcuni contratti stipulati dalla stessa società e della responsabilità extracontrattuale di terzi soggetti, attesa l'ontologica differenza sia delle parti sia delle causae petendi, idonea ad escludere ogni potenziale situazione di contrasto tra giudicati.

Interessanti, soprattutto per la frequenza della tipologia di controversie in cui esse sono state rese, sono, poi, Sez. 6-3, n. 15094/2015, Cirillo, Rv. 636184, che ha negato la configurabilità di un rapporto di pregiudizialità, tale da giustificare la sospensione del processo ex art. 295 c.p.c. tra la controversia, pendente tra locatore e locatario, per intervenuta scadenza del contratto di locazione ed il giudizio di sfratto per morosità, instaurato dal locatario nei confronti del subconduttore, attesa la parziale diversità soggettiva delle parti dei rispettivi giudizi e tenuto conto che l'obbligo del subconduttore al pagamento dei canoni a favore del sublocatore persiste fino a che perduri l'occupazione dell'immobile, senza che assuma rilievo l'intervenuta soluzione del contratto di locazione principale; e Sez. 6-3, n. 13423/2015, Cirillo, Rv. 635782, secondo cui, qualora pendano, contemporaneamente, un procedimento di convalida di licenza ed un altro giudizio, tra soggetti parzialmente differenti, in cui si controverta della validità della scheda testamentaria che il locatore abbia utilizzato come titolo per pretendere il rilascio del bene, non ricorrono i presupposti per la sospensione necessaria del procedimento ex art. 657 c.p.c., sia per la diversità esistente tra le parti dei menzionati giudizi, sia perché l'accertamento della proprietà dell'immobile locato non integra una questione pregiudiziale in ordine alla legittimazione a locare.

Ha, invece, affrontato i rapporti tra gli artt. 279, comma 4, 295 e 337 c.p.c., Sez. 6-2, n. 05894/2015, Giusti, Rv. 635070, chiarendo che nel rapporto fra il giudizio di impugnazione di una sentenza parziale e quello che sia proseguito davanti al giudice che ha pronunciato detta sentenza o al giudice dichiarato competente, l'unica possibilità di sospensione di quest'ultimo giudizio è quella su richiesta concorde delle parti, ai sensi dell'art. 279, comma 4, c.p.c., che trova applicazione anche nel caso di sentenza parziale sul solo an debeatur, restando esclusa sia la sospensione ai sensi dell'art. 295 c.p.c., sia la sospensione ai sensi del secondo comma dell'art. 337 c.p.c., per l'assorbente ragione che il giudizio è unico e che, pertanto, la sentenza resa in via definitiva è sempre soggetta alle conseguenze di una decisione incompatibile sulla statuizione oggetto della sentenza parziale.

Sez. 6-L, n. 00798/2015, Mancino, Rv. 634272, ha, dal canto suo, ritenuto che quando tra due giudizi esista rapporto di pregiudizialità, e quello pregiudicante sia stato definito con sentenza non passata in giudicato la sospensione del giudizio pregiudicato può essere disposto soltanto ai sensi dell'art. 337, comma 2, c.p.c., sicché ove il giudice abbia provveduto ai sensi dell'art. 295 c.p.c., il relativo provvedimento, a prescindere da ogni accertamento circa la sussistenza del rapporto di pregiudizialità, è illegittimo e va annullato, ferma restando la possibilità, da parte del giudice di merito dinanzi al quale il giudizio andrà riassunto, di un nuovo e motivato provvedimento di sospensione ai sensi dell'art. 337, comma 2, c.p.c.

Sez. 6-3, n. 21914/2015, Frasca, Rv. 637590, ha, tra l'altro, ricordato che, nell'ambito del rito sommario, è illegittima l'adozione di un provvedimento di sospensione ai sensi degli artt. 295 c.p.c. o 337, comma 2, c.p.c. (dovendosi, quando ricorrano i presupposti delle menzionate norme, procedere a disporre il passaggio dal rito sommario a quello di cognizione piena).

Da ultimo, vanno segnalate, perché inerenti la tematica della pregiudizialità penale, Sez. 6-2, n. 19383/2015, D'Ascola, Rv. 636533, secondo cui la pendenza del giudizio penale sull'imputazione di usura non impone la sospensione del giudizio civile sulla nullità del patto commissorio, atteso che quest'ultimo può configurarsi anche in assenza di convenzione usuraria, sicché tra i due giudizi, pur concernenti i medesimi fatti, non ricorre il nesso di pregiudizialità-dipendenza ex art. 295 c.p.c., e Sez. 6-2, n. 00313/2015, Giusti, Rv. 633943, la quale ha precisato che la sospensione necessaria del processo civile per pregiudizialità penale, ai sensi dell'art. 295 c.p.c., nell'ipotesi in cui alla commissione del reato oggetto dell'imputazione penale una norma di diritto sostanziale ricolleghi un effetto sul diritto oggetto del giudizio civile, è subordinata alla condizione della contemporanea pendenza dei due processi, civile e penale, e, quindi, dell'avvenuto esercizio dell'azione penale da parte del P.M. nei modi previsti dall'art. 405 c.p.p., mediante la formulazione dell'imputazione o la richiesta di rinvio a giudizio, sicché tale sospensione non può essere disposta sul presupposto della mera presentazione di una denuncia e della conseguente apertura di indagini preliminari.

3.3. Interruzione del processo.

Tra le numerose statuizioni di legittimità che, nel corso del 2015, hanno riguardato le vicende interruttive del giudizio, meritano di essere immediatamente ricordate due decisioni, il cui denominatore comune va individuato nel fatto che entrambe precisano le precipue finalità di cui deve essere munita la dichiarazione del procuratore per provocare l'effetto interruttivo. Il riferimento è a: i) Sez. 2, n. 19139/2015, Mazzacane, Rv. 636472, secondo cui la dichiarazione, da parte del procuratore, di uno degli eventi che, a norma dell'art. 300 c.p.c., comportano l'interruzione del processo, deve essere finalizzata al conseguimento di tale effetto o corredata dei necessari requisiti formali (quali la formulazione in udienza o in atto notificato alle altre parti), sicché non determina interruzione del processo la dichiarazione contenuta nella comparsa conclusionale, nella quale il difensore si sia limitato a chiedere la fissazione di apposita udienza istruttoria, riservandosi in tale sede di dichiarare l'evento; ii) Sez. 2, n. 10210/2015, Migliucci, Rv. 635413, a tenore della quale la dichiarazione resa dal procuratore della parte costituita, ai sensi dell'art. 300 c.p.c., pur avendo la struttura di una dichiarazione di scienza, ha carattere negoziale e suppone la volontà del dichiarante di provocare l'interruzione stessa, con la conseguenza che quest'ultima non si realizza allorché la causa interruttiva (nella specie, l'intervenuto fallimento della parte, anteriormente all'entrata in vigore dell'art. 43, comma 3, l.fall., introdotto dal d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5) risulti esposta soltanto per fini diversi, quale quello di ottenere il rinvio della trattazione della causa per esigenze di difesa.

Con specifico riguardo alla riassunzione del processo, dopo il verificarsi della sua interruzione, si ricordano, invece, Sez. 3, n. 18318/2015, Rubino, Rv. 637071, in cui si è spiegato che, nel caso di cumulo di cause scindibili, laddove il giudice – a fronte di un evento che concerna uno solo dei soggetti coinvolti nelle diverse vertenze – non separi le cause ed interrompa, piuttosto, l'intero processo, la riassunzione effettuata mediante deposito del relativo ricorso in cancelleria, nel termine semestrale previsto dall'art. 305 c.p.c., deve ritenersi tempestiva rispetto a tutte le parti, sicché, ove ricorso e decreto di fissazione dell'udienza di riassunzione non siano state notificate ad alcune di esse, non può essere dichiarata, rispetto a costoro, l'estinzione parziale del processo, dovendosi, invece, in applicazione analogica dell'art. 291 c.p.c., ordinare la rinnovazione della notifica entro un termine perentorio; Sez. 3, n. 09000/2015, Scrima, Rv. 635210, che ha opportunamente precisato che, per la valida riassunzione del processo sospeso o interrotto, l'istante può utilizzare, anziché la comparsa o il ricorso al giudice per la fissazione dell'udienza di prosecuzione, la citazione della parte ad udienza fissa, la cui idoneità al raggiungimento dello scopo previsto nell'art. 297 c.p.c. resta condizionata all'avvenuta notifica dell'atto alla controparte prima della scadenza del termine perentorio entro il quale va promossa la prosecuzione del giudizio; Sez. 2, n. 07465/2015, Scalisi, Rv. 635177, secondo la quale la nullità dell'atto di riassunzione conseguente alla violazione dell'art. 125 disp. att. c.p.c., per l'omessa indicazione dell'oggetto della domanda e delle ragioni della stessa, nonché del richiamo all'atto introduttivo del giudizio, può essere sanata mediante la costituzione in giudizio di tutti – e non solo di alcuni – dei coeredi del defunto; e Sez. 6-3, n. 14518/2015, Carluccio, Rv. 636002, per la quale, nel giudizio introdotto dai genitori di un minorenne, quando si verifichi una causa interruttiva riguardante la controparte, è nullo l'atto di riassunzione fatto dal difensore degli attori originari in nome esclusivamente del figlio divenuto, medio tempore, maggiorenne, ma non conferente la procura, giacché il raggiungimento della maggiore età e la contestuale perdita da parte dei genitori della rappresentanza legale del minorenne, determina esso stesso una causa interruttiva del giudizio, che, solo quando non sia dichiarata, consente all'originario mandato – per il principio della ultrattività – di continuare a spiegare i suoi effetti nella fase processuale in cui l'evento si verifica.

Meritevole di menzione appare, poi, Sez. 6-3, n. 19267/2015, Barreca, Rv. 636947, secondo cui, nell'ipotesi di morte della parte verificatasi nel corso del giudizio di primo grado, gli atti successivamente compiuti senza che sia stata dichiarata l'interruzione del processo, compresa la sentenza, sono nulli ed il vizio è soggetto al principio della conversione dei motivi di nullità in motivi di impugnazione, sicché la suddetta nullità deve essere dedotta dalla parte colpita dall'evento interruttivo con il mezzo di impugnazione previsto per la sentenza.

Da ultimo, vanno evidenziate, riguardando il verificarsi di un evento interruttivo in danno del difensore costituito, Sez. 6-3, n. 03782/2015, Amendola, Rv. 634500, la quale ha chiarito che a seguito delle sentenze della Corte cost. 15 dicembre 1967, n. 139, 2 dicembre 1970, n. 178, 6 luglio 1971, n. 159, e 19 febbraio 1976, n. 36, il termine per la riassunzione o la prosecuzione del processo interrotto per la morte del procuratore costituito di una delle parti in causa decorre non già dal giorno in cui si è verificato l'evento interruttivo, bensì da quello in cui la parte interessata alla riassunzione abbia avuto di tale evento conoscenza legale, mediante dichiarazione, notificazione o certificazione, ovvero a seguito di lettura in udienza dell'ordinanza di interruzione; e Sez. 6-3, n. 14520/2015, Carluccio, Rv. 635984, da cui si desume che il principio secondo cui la sospensione dall'esercizio della professione dell'unico difensore, a mezzo del quale la parte è costituita in giudizio, determina l'automatica interruzione del processo, anche se il giudice e le altre parti non ne abbiano avuto conoscenza, con conseguente nullità degli atti successivi, presuppone il concreto pregiudizio arrecato al diritto di difesa.

4. La decisione della causa ed i vizi del relativo provvedimento.

Giova premettere che la fase di decisione è tuttora oggetto di autonoma disciplina esclusivamente nelle cause riservate al collegio e contempla l'udienza di discussione soltanto nelle ipotesi in cui questa sia stata richiesta; mentre, nelle cause attribuite al giudice unico, la suddetta fase rimane, in pratica, assorbita nella rimessione (o riserva) in decisione, riemergendo in un'apposita udienza (davanti al giudice unico) nelle sole ipotesi di richiesta di discussione, salva la diversa eventualità della discussione prevista dall'art. 281-sexies c.p.c. ove il giudice monocratico scelga la trattazione orale.

Fermo quanto precede, e ricordato, altresì, che, come affermato da Sez. 3, n. 19895/2015, Rossetti, Rv. 637313, è ammissibile la pronuncia di sentenze di condanna condizionali, a patto che l'elemento condizionante sia certo ed inequivoco, dovendosi ciò escludere quando l'efficacia di una sentenza sia subordinata ad un ulteriore accertamento di merito da compiersi in un nuovo giudizio di cognizione, appaiono meritevoli di menzione alcune decisioni, intervenute nel corso di quest'anno, che hanno contribuito a meglio delimitare i contorni e l'efficacia della pronuncia di cessazione della materia del contendere.

Invero, Sez. 3, n. 17312/2015, De Stefano, Rv. 636482, ha chiarito che una siffatta declaratoria, o la valutazione di soccombenza virtuale per la liquidazione delle relative spese di lite, non sono idonee ad acquistare autorità di giudicato sul merito delle questioni oggetto della controversia, né possono precluderne la riproposizione in diverso giudizio.

Sez. 6-T, n. 05188/2015, Conti, Rv. 634695, invece, muovendo dal presupposto che nel processo tributario, come in quello civile, la cessazione della materia del contendere presuppone, da un lato, che nel corso del giudizio siano sopravvenuti fatti tali da eliminare le ragioni di contrasto e l'interesse alla richiesta pronuncia di merito e, dall'altro, che le parti formulino conclusioni conformi, ne ha tratto la conseguenza che l'allegazione di un fatto sopravvenuto, assunto da una sola parte come idoneo a determinare la cessazione della materia del contendere, comporta la necessità della valutazione del giudice, a cui spetterà l'eventuale dichiarazione dell'avvenuto soddisfacimento del diritto azionato ovvero la pronuncia sul merito dell'azione.

Sez. 3, n. 03598/2015, Scrima, Rv. 634471, infine, ha ritenuto che, in caso di intervenuta transazione extraprocessuale, ove le parti non concordino sulla rilevanza giuridica dell'atto o sul suo contenuto, occorre accertare se la transazione investa o meno l'oggetto della domanda contenziosa, sicché non può esservi declaratoria di cessazione della materia del contendere, che costituisce pronuncia processuale per sopravvenuta carenza di interesse, idonea a formare giudicato solo processuale, ma va esaminato il merito della domanda, la quale va rigettata qualora si accerti che la transazione ha regolamentato tutti i rapporti contenziosi tra le parti.

In tema di vizi della decisione, poi, merita, senza dubbio, primaria attenzione Sez. U, n. 00642/2015, Di Iasi, Rv. 634091, intervenuta sul tema della validità della sentenza civile che sia costituita dalla mera riproduzione di un atto di parte, dettando le condizioni per escluderne la nullità.

In particolare, muovendo dall'assunto che la sentenza civile non è un'opera dell'ingegno tutelabile a norma dell'art. 2575 c.c., ed all'esito di un'accurata analisi dell'evoluzione della disciplina della sentenza – di cui ne è prospettato un iter storico e sociologico, da testo solenne, paludato, compiaciuto e barocco a decisione funzionale rispetto alle richieste delle parti – si è osservato che il lavoro del giudice non è "creativo": egli deve rispettare gli artt. 99 e 112 c.p.c., deve decidere iuxta alligata et probata (art. 115 c.p.c.), gli è inibito l'utilizzo della scienza privata come di private informazioni (art. 97 disp. att. c.p.c.), deve rispettare i canoni del giudizio di diritto (art. 113 c.p.c.) quando non gli sia consentito il ricorso all'equità (art. 144 c.p.c.), deve evitare decisioni "della terza via" (artt. 183, comma 4 e 384, comma 3, c.p.c., cui deve aggiungersi l'art. 101, comma 2, c.p.c.), deve tener conto dell'interpretazione della legge fornita dal giudice di legittimità (più un'aspirazione a cui tende il sistema che una regola positiva effettivamente vigente).

Non essendo il lavoro del giudice né "letterario", né "creativo", né "originale" («una "originalità" della decisione e delle ragioni che la sostengono, come valore in sé, non è neanche concepibile o auspicabile»), «la sentenza è l'atto conclusivo di un processo nel quale hanno agito più soggetti, ciascuno in certa misura contribuendo alla decisione finale, la quale, sotto questo profilo, può essere considerata un risultato "corale"». Di qui la possibilità che la decisione venga resa «sia richiamando gli atti [del processo], sia direttamente riportandoli (in tutto o in parte) nella sentenza (…) trattandosi di atti anch'essi non costituenti opere letterarie e non protetti dalla disciplina del diritto d'autore (…) per la sentenza, che non è opera letteraria, non conta la paternità del testo nelle sue modalità espressive ma l'attribuibilità al giudice dei suoi contenuti, derivante dal fatto che quei contenuti sono stati "fatti propri" dal giudice nel momento in cui ha ritenuto di riportarli in sentenza per rendere ragione della decisione assunta, assumendosene la relativa responsabilità (…) l'unico problema reale di una motivazione siffatta sorge infatti solo se il contenuto dell'atto riportato a scopo motivazionale non è idoneo e sufficiente a sostenere la decisione. Esclusivamente in questo caso quindi, e solo per tale motivo, non per altri, la sentenza sarebbe censurabile».

Alla stregua di tali argomentazioni, si è, pertanto, statuito che «nel processo civile ed in quello tributario, la sentenza la cui motivazione si limiti a riprodurre il contenuto di un atto di parte (o di altri atti processuali o provvedimenti giudiziari), senza niente aggiungervi, non è nulla qualora le ragioni della decisione siano, in ogni caso, attribuibili all'organo giudicante e risultino in modo chiaro, univoco ed esaustivo, atteso che, in base alle disposizioni costituzionali e processuali, tale tecnica di redazione non può ritenersi, di per sé, sintomatica di un difetto d'imparzialità del giudice, al quale non è imposta l'originalità né dei contenuti né delle modalità espositive, tanto più che la validità degli atti processuali si pone su un piano diverso rispetto alla valutazione professionale o disciplinare del magistrato».

Successivamente, peraltro, Sez. 6-T, n. 22652/2015, Crucitti, Rv. 637064, ha ritenuto di dover precisare che, nel processo civile ed in quello tributario, la sentenza motivata mediante la trascrizione delle deduzioni di una parte, consistenti nel rinvio a tutte le argomentazioni svolte nel ricorso introduttivo, è nulla, ex artt. 132, comma 2, n. 4, c.p.c. e 36 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, in quanto non consente di individuare in modo chiaro, univoco ed esaustivo le ragioni, attribuibili al giudicante, su cui si fonda la decisione.

Parimenti degna di nota appare, poi, Sez. 6-3, Vivaldi, n. 20180/2015, Rv. 637461, secondo la quale è nulla la sentenza emessa dal giudice prima della scadenza dei termini ex art. 190 c.p.c., risultando, per ciò solo, impedito ai difensori l'esercizio, nella sua completezza, del diritto di difesa, senza che sia necessario verificare la sussistenza, in concreto, del pregiudizio che da tale inosservanza deriva alla parte, giacché, trattandosi di termini perentori fissati dalla legge, la loro violazione è già stata valutata dal legislatore, in astratto ed una volta per tutte, come autonomamente lesiva, in sé, del diritto di difesa. Sullo stesso punto, peraltro, va segnalata, in senso contrario, Sez. 3, n. 07086/2015, Cirillo, Rv. 635103, che, invece, ha sancito che la sentenza la cui deliberazione risulti anteriore alla scadenza dei termini ex art. 190 c.p.c., non è automaticamente affetta da nullità, occorrendo dimostrare la lesione concretamente subita in conseguenza della denunciata violazione processuale, indicando le argomentazioni difensive – contenute nello scritto non esaminato dal giudice – la cui omessa considerazione avrebbe avuto, ragionevolmente, probabilità di determinare una decisione diversa da quella effettivamente assunta.

Sempre in tema di vizi della decisione, possono ricordarsi Sez. 3, n. 19214/2015, Scrima, Rv. 637084, la quale ha precisato che la sentenza che, regolarmente sottoscritta dal Presidente, anche in qualità di estensore, non rechi i nominativi dei giudici costituenti il collegio deliberante, con conseguente impossibilità di desumerne l'identità, è nulla per vizio di costituzione del giudice, ai sensi dell'art. 158 c.p.c., e non per difetto assoluto di sottoscrizione, ex art. 161 c.p.c., sicché la corte di appello, rilevata, anche di ufficio, tale nullità, è tenuta a trattenere la causa ed a deciderla nel merito, senza rimetterla al primo giudice, non ricorrendo, nella specie, alcuna delle ipotesi di rimessione tassativamente previste dall'art. 354 c.p.c., e Sez. 1, n. 17956/2015, Campanile, Rv. 636771, secondo cui non integra gli estremi del vizio di omessa pronuncia la decisione che, accogliendo la domanda di una parte, comporti la reiezione dell'eccezione inerente alla sua inammissibilità, anche se manchi, in proposito, una specifica argomentazione: deve, infatti, ritenersi la sussistenza di una statuizione implicita di rigetto quando la pretesa (o l'eccezione, nella specie di inammissibilità della impugnazione del lodo) avanzata col capo di domanda non espressamente esaminato risulti incompatibile con l'impostazione logico-giuridica della pronuncia.

Di notevole interesse, perché risulta essere la prima decisione intervenuta sullo punto, è Sez. 3, n. 22871/2015, Barreca, Rv. 637862, che ha sancito che la sentenza redatta in formato elettronica dal giudice e da questi sottoscritta con firma digitale, ai sensi dell'art. 15 del d.m. 21 febbraio 2011, n. 44, non è affetta da nullità per difetto di sottoscrizione, attesa l'applicabilità al processo civile del cd. "Codice dell'amministrazione digitale".

Da ultimo, considerato il peculiare scopo della presente rassegna, va menzionata anche Sez. 6-3, n. 01207/2015, Carluccio, Rv. 633960, la quale ha opportunamente precisato che il procedimento di correzione degli errori materiali o di calcolo, previsto dagli artt. 287 e 288 c.p.c., è diretto a porre rimedio ad un vizio meramente formale della sentenza, derivante da divergenza evidente e facilmente rettificabile tra l'intendimento del giudice e la sua esteriorizzazione, con esclusione di tutto ciò che attiene al processo formativo della volontà. Coerentemente, detto procedimento, ed il provvedimento mediante il quale la sentenza può essere corretta, hanno natura amministrativa, sicché, al riguardo, non opera il principio della immutabilità del giudice, di cui all'art. 276 c.p.c., dovendosi intendere il riferimento di cui all'art. 287 alla correzione effettuata dallo "stesso giudice" nel senso di "stesso ufficio giudiziario", senza che rilevi la persona fisica del magistrato che ha pronunciato il provvedimento.

  • obbligazione
  • responsabilità
  • testimonianza
  • consulenza e perizia
  • prova

CAPITOLO XXXVI

LE PROVE

(di Rosaria Giordano )

Sommario

1 Principio di non contestazione. - 2 Onere della prova. - 2.1 Controversie in materia di obbligazioni. - 2.2 Controversie in tema di responsabilità extracontrattuale. - 2.3 Controversie in materia di lavoro. - 2.4 Opposizione a sanzioni amministrative irrogate dalla Banca d'Italia. - 2.5 Parità delle armi tra le parti ed attenuazione della regola dell'onere della prova. - 3 Documenti. - 3.1 Disconoscimento e verificazione della scrittura privata. - 3.2 Querela di falso. - 4 Confessione. - 5 Testimonianza. - 5.1 Limiti oggettivi di ammissibilità della prova per testi. - 5.2 Limiti soggettivi di ammissibilità della prova per testi. - 5.3 Deduzione ed ammissione della prova. - 5.4 Confronto. - 6 Presunzioni. - 7 Prove atipiche. - 8 Consulenza tecnica d'ufficio.

1. Principio di non contestazione.

La necessità di provare attiene ai soli fatti, tra quelli allegati in giudizio, controversi tra le parti.

Alla stregua di quanto ribadito da Sez. 3, n. 21176/2015, Rubino, Rv. 637493, invero, il principio di non contestazione mira proprio a selezionare i fatti pacifici ed a separarli da quelli controversi, per i quali soltanto sussiste l'esigenza dell'istruzione probatoria.

Come noto, l'art. 115 c.p.c. è stato novellato dalla legge 18 giugno 2009, n. 69, nel senso che i fatti non specificamente contestati dalla parte costituita possono essere posti dal giudice a fondamento della decisione senza che occorra dimostrarli. Ne consegue che una contestazione generica – rispetto a fatti oggetto di specifica e puntuale allegazione ad opera dell'altra parte e rientranti nella sfera di conoscibilità di chi è onerato della contestazione – è priva di qualsivoglia effetto.

Sulla questione, Sez. 3, n. 19896/2015, Rossetti, Rv. 637316, ha precisato che, anche nei giudizi promossi prima dell'introduzione formale del principio di non contestazione mediante la predetta modifica dell'art. 115 c.p.c., è imposto al convenuto di prendere posizione, in modo chiaro ed analitico, sui fatti posti dall'attore a fondamento della propria domanda, in virtù dell'art. 167 c.p.c., sicché quei fatti debbono darsi per ammessi, senza necessità di prova, quando il convenuto nella comparsa di costituzione e risposta si sia limitato a negare genericamente la "sussistenza dei presupposti di legge" per l'accoglimento della domanda dell'attore, senza alcuna contestazione chiara e specifica della stessa.

2. Onere della prova.

L'art. 2697 c.c., in tema di riparto dell'onere probatorio tra le parti del giudizio, può assurgere a criterio di decisione dei fatti controversi, nell'ipotesi di mancata prova.

Invero, il divieto di non liquet posto in capo al giudice determina, in ogni sistema giuridico, l'esigenza di individuare una regola di giudizio che ripartisca il rischio dell'omessa prova tra le parti, affinché, nell'ipotesi in cui manchi, anche in via presuntiva, la dimostrazione dell'esistenza di un fatto idoneo a produrre determinate conseguenze giuridiche, la carenza di prova venga posta a carico della parte alla quale spettava l'onere di provare la sussistenza dello stesso.

La fondamentale importanza delle regole in materia di onere della prova è confermata dalla particolare attenzione riservata alla medesima nella giurisprudenza di legittimità in diversi ambiti.

2.1. Controversie in materia di obbligazioni.

Si segnala, in primo luogo, Sez. 3, n. 01455/2015, Carluccio, Rv. 634067, la quale ha chiarito che, nelle controversie aventi ad oggetto l'estinzione dell'obbligazione per modi diversi dall'adempimento, la restituzione volontaria al debitore del titolo originale del credito, da parte del creditore, vale come liberazione dall'obbligazione, in conformità alla valutazione legale tipica del suddetto comportamento prevista dall'art. 1237, comma 1, c.c., a condizione che il debitore, secondo il principio generale posto dall'art. 2697 c.c., provi la volontarietà della restituzione da parte del creditore o da persona ad esso riferibile.

Inoltre, Sez. 2, n. 07820/2015, Proto, Rv. 635232, ha statuito che, nell'ipotesi di cessione pro solvendo di cambiali in luogo dell'adempimento, l'estinzione dell'obbligazione originaria si verifica solo con la riscossione del credito verso il debitore ceduto, con conseguente onere di quest'ultimo, in applicazione dell'art. 2697, comma 2, c.c., di provare non solo la cessione, ma anche l'intervenuta estinzione del debito.

2.2. Controversie in tema di responsabilità extracontrattuale.

Principi significativi sono stati affermati anche in tema di onere della prova della responsabilità extracontrattuale.

Invero, Sez. 3, n. 08989/2015, Scarano, Rv. 635339, ha precisato che, nell'attività medico-chirurgica, allorché risulti accertata una condotta negligente che depone per la responsabilità del medico operante e, conseguentemente, della struttura sanitaria, spetta all'uno ed all'altra, in applicazione del principio della "vicinanza della prova", dimostrare che il risultato anomalo o anormale, rispetto al convenuto esito dell'intervento, sia dipeso da un evento imprevedibile, non superabile con l'adeguata diligenza.

Con riferimento alla prova del danno patrimoniale da lucro cessante per riduzione della capacità lavorativa specifica, nell'ipotesi di illecito lesivo dell'integrità psico-fisica della persona, Sez. 3, n. 02758/2015, D'Amico, Rv. 634401, ha statuito che il danneggiato è tenuto a dimostrare, anche tramite presunzioni, di svolgere, al momento dell'infortunio, un'attività produttiva di reddito e di non aver mantenuto, dopo di esso, una capacità generica di attendere ad altri lavori confacenti alle sue attitudini personali.

Sotto altro profilo, Sez. 1, n. 25921/2015, Valitutti, Rv. 638178, ha ribadito che, sebbene ai sensi dell'art. 2600, comma 3, c.c., a fronte dell'accertamento di concreti fatti materiali di concorrenza sleale, operi una presunzione di colpa a carico dell'autore del fatto materialmente antigiuridico, tuttavia incombe su colui il quale fa valere la responsabilità la prova della sussistenza del danno, che non può considerarsi derivante in re ipsa dai predetti fatti.

2.3. Controversie in materia di lavoro.

Sez. L, n. 01335/2015, Amendola, Rv. 634303, ha precisato che, in tema di collocamento obbligatorio, il lavoratore che impugni la mancata assunzione deve dedurre e provare esclusivamente l'iscrizione nell'albo di cui alla l. 29 marzo 1985, n. 113, e l'esistenza di un atto di avviamento al lavoro, mentre è onere del datore di lavoro dimostrare l'insussistenza nella propria organizzazione del posto corrispondente alla mansione assegnata al lavoratore.

Sotto altro profilo, Sez. L, n. 04601/2015, Bronzini, Rv. 634850, ha statuito che l'onere di allegare e provare l'insieme dei fatti integranti un trasferimento di ramo d'azienda incombe sul datore di lavoro cedente che intenda avvalersi degli effetti previsti dall'art. 2112 c.c., trattandosi di eccezione al principio generale del necessario consenso del lavoratore ceduto.

Con riferimento al giudizio di impugnazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, Sez. L, n. 04460/2015, Roselli, Rv. 634596, ha affermato il rilevante principio per il quale, atteso che la causa petendi è costituita dall'inesistenza dei fatti giustificativi del potere spettante al datore di lavoro, grava su quest'ultimo l'onere di provare la concreta sussistenza delle ragioni inerenti all'attività produttiva e l'impossibilità di utilizzare il lavoratore licenziato in altre mansioni compatibili con la qualifica rivestita, senza che l'indicazione, da parte del lavoratore che si sia fatto parte diligente, di un posto di lavoro alternativo a lui assegnabile, o l'allegazione di circostanze idonee a comprovare l'insussistenza del motivo oggettivo di licenziamento, comporti un inversione dell'onere della prova.

2.4. Opposizione a sanzioni amministrative irrogate dalla Banca d'Italia.

Peculiari e sotto alcuni profili innovativi sono i principi enunciati da Sez. 1, n. 22848/2015, Nazzicone, Rv. 637769, per la quale, in tema di sanzioni amministrative irrogate dalla Banca d'Italia ai consiglieri non esecutivi delle società bancarie, il soggetto che afferma la responsabilità è tenuto ad allegare e provare l'esistenza di segnali d'allarme che avrebbero dovuti indurli, in ragione del dovere di agire informati posto dall'art. 2381, commi 3 e 6, e dall'art. 2392 c.c., anche in considerazione dei requisiti di professionalità richiesti dall'art. 26 del d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385, ad esigere un supplemento di informazioni o ad attivarsi in altro modo, mentre, assolto tale onere, spetta agli amministratori dimostrare di avere tenuto la condotta attiva dovuta o la causa esterna che abbia reso non percepibili quei segnali o impossibile qualsiasi condotta volta a scongiurare il danno, in quanto in materia di sanzioni amministrative l'art. 3 della l. 24 novembre 1981, n. 689, pone una presunzione di colpa a carico dell'autore del fatto vietato.

2.5. Parità delle armi tra le parti ed attenuazione della regola dell'onere della prova.

La Corte non ha trascurato di ribadire che la regola generale posta dall'art. 2697 c.c. in tema di riparto dell'onere della prova può essere attenuata quando una rigida applicazione della stessa potrebbe condurre a risultati sostanzialmente iniqui.

Si segnala, in tale prospettiva, Sez. 6-1, n. 04262/2015, Acierno, Rv. 634731, la quale ha espressamente affermato che l'onere della prova gravante sul richiedente lo status di apolide deve ritenersi attenuato, poiché quest'ultimo, oltre a godere della titolarità dei diritti della persona la cui attribuzione è svincolata dal possesso della cittadinanza, beneficia, in base ad una interpretazione costituzionalmente orientata della normativa vigente, di un trattamento giuridico analogo a quello riconosciuto ai cittadini stranieri titolari di una misura di protezione internazionale, di talché eventuali lacune o necessità di integrazioni istruttorie per la suddetta dimostrazione possono essere colmate mediante l'esercizio di poteri-doveri officiosi da parte del giudice, che può richiedere informazioni o documentazione alle autorità pubbliche competenti dello Stato italiano, di quello di origine o di quello verso il quale possa ravvisarsi un collegamento significativo con il richiedente medesimo.

3. Documenti.

La Suprema Corte è intervenuta per effettuare rilevanti precisazioni sia sulle complesse questioni afferenti il disconoscimento e la verificazione della scrittura privata, sia in ordine a talune problematiche concernenti il giudizio di falso.

3.1. Disconoscimento e verificazione della scrittura privata.

Il tempestivo disconoscimento ex art. 214 c.p.c. della scrittura privata da parte dell'apparente sottoscrittore determina, per la parte la quale abbia prodotto e voglia avvalersi del documento, l'onere di proporre tempestiva istanza di verificazione.

Sul tema, Sez. 1, n. 16551/2015, Nazzicone, Rv. 636340, ha evidenziato che, a seguito del disconoscimento della fotocopia della scrittura privata, la parte che intende avvalersene è tenuta a produrre l'originale e, in caso di ulteriore disconoscimento, a chiederne la verificazione, atteso che solo con l'originale si realizzano la diretta correlazione e l'immanenza della personalità dell'autore della sottoscrizione, che giustificano la fede privilegiata che la legge assegna al documento medesimo, così da fondare una presunzione legale superabile dall'apparente sottoscrittore solo con l'esito favorevole della querela di falso.

Con riguardo all'istruttoria ed alla decisione del procedimento di verificazione, Sez. 1, n. 15686/2015, Nazzicone, Rv. 636202, ha chiarito che il giudice, ancorché abbia disposto una consulenza grafica, ha il potere-dovere di formare il proprio convincimento sulla base di ogni elemento istruttorio obiettivamente conferente, comprese le risultanze della prova testimoniale e la valutazione del comportamento complessivo tenuto dalla parte cui la sottoscrizione sia attribuita, senza essere vincolato ad alcuna graduatoria fra le varie fonti di accertamento della verità. Si è evidenziato, sotto quest'ultimo profilo, che la consulenza tecnica sull'autografia di una scrittura privata disconosciuta, da un lato, non costituisce un mezzo imprescindibile per la verifica dell'autenticità della sottoscrizione, come si desume dalla formulazione dell'art. 217 c.p.c., mentre, dall'altro, non è suscettibile di conclusioni obiettivamente certe, tenuto conto del carattere irripetibile della forma della scrittura umana.

In ordine alla valenza del disconoscimento delle riproduzioni informatiche di cui all'art. 2712 c.c., Sez. L, n. 03122/2015, Buffa, Rv. 634590, ha affermato che detto disconoscimento, che fa perdere alle stesse la qualità di prova, sebbene non sia soggetto ai limiti ed alle modalità previste dall'art. 214 c.p.c., deve tuttavia essere chiaro, circostanziato ed esplicito, dovendosi concretizzare nell'allegazione di elementi attestanti la non corrispondenza tra realtà fattuale e realtà riprodotta. È stato poi ribadito che tale disconoscimento non ha gli stessi effetti di quello previsto dall'art. 215, comma 2, c.p.c., perché mentre questo, in mancanza di richiesta di verificazione e di suo esito positivo, preclude l'utilizzazione della scrittura, il primo non impedisce che il giudice possa accertare la conformità all'originale anche attraverso altri mezzi di prova, comprese le presunzioni.

Significativa, enunciando un principio difforme da quello reso dalla Suprema Corte in altre occasioni, è la posizione di Sez. 2, n. 05574/2015, Petitti, Rv. 634839, per la quale, nel giudizio di opposizione a decreto irrogativo di sanzione pecuniaria per violazione dell'art. 2 del d.l. 6 giugno 1956, n. 476 (convertito in l. 25 luglio 1956, n. 786), ove la prova dell'illecito valutario sia costituita da un assegno, colui contro il quale tale prova è addotta può disconoscere la propria sottoscrizione e porre in discussione l'autenticità del titolo di credito, ma il conseguente accertamento istruttorio non va compiuto nelle forme del giudizio di verificazione ex art. 216 c.p.c., ben potendo l'amministrazione dimostrare l'elemento materiale dell'illecito con altri mezzi di prova ed eventualmente pure mediante presunzioni.

Sotto altro profilo, con riguardo ai documenti per contrastare i quali è necessario esperire la querela di falso, Sez. U, n. 12307/2015, Travaglino, Rv. 635554, rivedendo l'orientamento in precedenza affermato sulla medesima questione, ha statuito che la parte la quale contesta l'autenticità del testamento olografo deve proporre domanda di accertamento negativo della provenienza della scrittura, e grava su di essa l'onere della relativa prova, secondo i principi generali dettati in tema di accertamento negativo e, pertanto, senza necessità di proporre querela di falso.

3.2. Querela di falso.

Ribadito da Sez. 3, n. 13321/2015, Armano, Rv. 635927, il consolidato principio in virtù del quale l'efficacia di prova del documento fino a querela di falso riguarda soltanto il contenuto cd. estrinseco dell'atto, la Corte è inoltre intervenuta su diverse questioni processuali inerenti il giudizio di querela di falso.

In particolare, Sez. 2, n. 16919/2015, Scalisi, Rv. 636466, ha precisato che la procura speciale soddisfa i requisiti di cui all'art. 221, comma 2, c.p.c., qualora dall'atto risulti che il rappresentato abbia consapevolezza della falsità di taluni documenti essenziali prodotti in giudizio e nel mandato siano specificati i documenti da impugnare con la volontà esplicita di proporre querela.

Inoltre, Sez. 3, n. 25456/2015, Cirillo, in corso di massimazione, ha chiarito che, in tema di querela di falso incidentale, è superfluo l'interpello della parte che ha prodotto il documento oggetto della stessa in ordine alla volontà di avvalersene, nell'ipotesi in cui il giudice abbia previamente delibato l'irrilevanza di detto documento ai fini della decisione.

Per altro verso, Sez. 6-2, n. 19576/2015, Rv. 636744, ha evidenziato che è inammissibile il regolamento di competenza, su istanza del proponente la querela di falso innanzi al giudice di pace, avverso il provvedimento di sospensione del processo reso dal medesimo giudice agli effetti dell'art. 313 c.p.c., diretto a far valere l'inammissibilità della querela, atteso che il controllo di legittimità, in tale ipotesi, è limitato alla verifica dell'avvenuta proposizione della querela di falso e che la disposizione non sia stata abusivamente invocata, spettando al giudice della querela l'esame delle questioni procedurali o sostanziali attinenti alla stessa.

Sul novero dei giudizi nei quali può essere proposta querela di falso incidentale, Sez. 6-3, n. 17473/2015, Frasca, Rv. 637466, ha statuito che la stessa è proponibile nel corso del procedimento per regolamento di competenza solo quando riguardi atti del medesimo (ossia, il ricorso, la memoria ex art. 47, ultimo comma, c.p.c., la decisione impugnata, le memorie del procedimento ai sensi dell'art. 380 ter o dell'art. 380 bis c.p.c.) ovvero documenti di cui è ammesso il deposito ai sensi dell'art. 372 c.p.c., e non invece in riferimento ad atti del procedimento che si è svolto innanzi al giudice del merito.

Sez. 6-3, n. 15601/2015, Frasca, Rv. 636721, ha affermato che il giudizio sulla causa di merito, sospeso ex lege ai sensi dell'art. 225, comma 2, c.p.c., una volta intervenuta la decisione del collegio sul falso, prosegue innanzi al giudice istruttore e la successiva decisione deve tenere conto della sentenza di primo grado sulla querela, ancorché appellata, ovvero della sentenza di appello se sopravvenuta nelle more del giudizio, senza che il processo possa essere sospeso in attesa del passaggio in giudicato della decisione sulla querela, poiché non ricorre una ipotesi di pregiudizialità in senso tecnico ai sensi dell'art. 295 c.p.c., essendo la sospensione (cd. impropria) relativa al solo utilizzo di uno strumento probatorio.

4. Confessione.

Di importante valenza, anche pratica, sono le precisazioni rese in tema di confessione, specie in ordine ai soggetti che, avendo la disponibilità del diritto relativo ai fatti oggetto della controversia, sono legittimati a rendere la stessa (art. 2731 c.c.).

In particolare, per Sez. 1, n. 15570/2015, Ferro, Rv. 636275, nel giudizio di opposizione allo stato passivo, il curatore fallimentare, in quanto terzo rispetto al fallito e privo della capacità di disporre del diritto controverso, non può essere sollecitato alla confessione mediante interrogatorio formale con riferimento a vicende solutorie attinenti all'obbligazione dedotta in giudizio.

È stato chiarito, poi, da Sez. 1, n. 07135/2015, Nappi, Rv. 634912, che le dichiarazioni rese dal sindaco di un comune in relazione ad attribuzioni conferite ad altri organi dell'ente rappresentato dallo stesso non possono avere efficacia di confessione, sia per difetto di legittimazione del presunto confitente, sia per difetto della capacità di disporre del diritto controverso.

Inoltre, Sez. L, n. 17702/2015, Doronzo, Rv. 636801, ha evidenziato che la dichiarazione di fatti a sé sfavorevoli resa dal datore di lavoro in un verbale ispettivo non ha valore di confessione stragiudiziale con piena efficacia probatoria nel rapporto processuale, ma costituisce prova liberamente apprezzabile dal giudice, in quanto, da un lato, l'ispettore del lavoro, pur agendo quale organo della Pubblica Amministrazione, non la rappresenta in senso sostanziale, e, pertanto, non è il destinatario degli effetti favorevoli, ed anche perché è assente l'animus confitendi, trattandosi di dichiarazione resa in funzione degli scopi dell'inchiesta.

5. Testimonianza.

La Corte ha affermato importanti e, talvolta, inediti principi in tema di prova testimoniale, sia in ordine ai limiti oggettivi e soggettivi di ammissibilità della stessa, sia circa questioni di carattere più squisitamente processuale afferenti le modalità di deduzione di tale mezzo di prova, le valutazioni da compiere ai fini della rilevanza della stessa ed i poteri del giudice.

5.1. Limiti oggettivi di ammissibilità della prova per testi.

La Suprema Corte è più volte intervenuta sulle non trascurabili questioni afferenti i limiti oggettivi di ammissibilità della prova testimoniale.

Sotto un primo profilo, Sez. 1, n. 03336/2015, Didone, Rv. 634413, ha ribadito che i limiti legali di prova di un contratto per il quale sia richiesta la forma scritta ad substantiam ovvero ad probationem, così come i limiti di valore previsti dall'art. 2721 c.c. per la prova testimoniale, operano esclusivamente quando il suddetto contratto sia invocato in giudizio come fonte di reciproci diritti ed obblighi tra le parti contraenti e non anche quando se ne evochi l'esistenza come semplice fatto storico influente sulla decisione del processo ed il contratto risulti stipulato non tra le parti processuali, ma tra una sola di esse ed un terzo.

Sulla questione si segnala, Sez. L, n. 11479/2015, Manna, Rv. 635717, secondo cui, atteso che il licenziamento è un atto unilaterale per il quale è richiesta la forma scritta ad substantiam, non è ammissibile la prova per testi, salva la perdita incolpevole del relativo documento, senza che tale divieto possa essere superato con l'esercizio officioso dei poteri istruttori da parte del giudice, che può intervenire solo sui limiti fissati alla prova testimoniale dagli artt. 2721, 2722 e 2723 c.c. e non sui requisiti di forma richiesti per l'atto.

Sempre in tema di limiti oggettivi della prova testimoniale, Sez. 3, n. 07090/2015, Vincenti, Rv. 634833, ha precisato che, poiché l'art. 2726 c.c., nell'estendere al pagamento i limiti stessi, si riferisce al pagamento del debito contrattuale oggetto di giudizio, siffatti limiti non operano per la prova dell'aliunde perceptum, quale fatto storico esterno a quel debito.

In ordine al principio di prova per iscritto idoneo, ai sensi dell'art. 2724, n. 1, c.c., a consentire l'ammissione della prova testimoniale nonostante ricorrano i limiti oggettivi della stessa, Sez. 1, n. 15845/2015, Genovese, Rv. 636446, ha affermato che detto principio può anche essere costituito da una scrittura non firmata, purché le dichiarazioni in essa contenute siano state espressamente o tacitamente accettate dal dichiarante, del quale non è necessaria la sottoscrizione.

5.2. Limiti soggettivi di ammissibilità della prova per testi.

La regola enunciata dall'art. 246 c.p.c. («non possono essere assunte come testimoni le persone aventi nella causa un interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio») è ormai da alcuni anni al centro di un dibattito, arricchito anche da alcune decisioni della Corte europea dei diritti dell'uomo, in ordine alla compatibilità della stessa con i principi del giusto processo, con peculiare riguardo al diritto alla prova, come componente essenziale del diritto di agire in giudizio, laddove l'unica persona informata sui fatti si trovi nella condizione soggettiva descritta dalla predetta norma.

Si segnala Sez. 3, n. 17199/2015, De Stefano, Rv. 636475, la quale ha chiarito che i singoli condomini sono privi di capacità a testimoniare nelle cause che coinvolgono il condominio, poiché l'eventuale sentenza di condanna è immediatamente azionabile nei confronti di ciascuno di essi.

5.3. Deduzione ed ammissione della prova.

Da un lato, l'art. 244 c.p.c. pone in capo alla parte la quale richieda l'ammissione della prova testimoniale l'onere di deduzione della stessa «mediante indicazione specifica delle persone da interrogare e dei fatti, formulati in articoli separati, sui quali ciascuna deve essere interrogata» e, dall'altro, il giudice, nel decidere sull'istanza istruttoria, deve avere riguardo sia all'ammissibilità del mezzo di prova articolato, sia alla rilevanza dei fatti dedotti ai fini della decisione.

Quanto alle modalità di deduzione della prova per testi, per Sez. 3, n. 11114/2015, Rubino, Rv. 635449, non si verifica rinuncia al mezzo istruttorio articolato, né, tanto meno, alla volontà di dimostrare i fatti contestati, qualora la parte, che ne abbia comunque formulato i relativi capitoli, rimetta all'apprezzamento del giudice se assumerla direttamente o avvalersi, per il proprio convincimento, anche in conformità a principi di economia processuale e di celerità procedimentale, dei verbali di un diverso giudizio tra le stesse parti, purchè ritualmente prodotti ed offerti al contraddittorio, in cui quella medesima prova sullo specifico punto sia stata già raccolta.

Sui criteri che il giudice deve utilizzare ai fini dell'ammissione della prova per testi, Sez. L, n. 20693/2015, Bronzini, Rv. 637254, ha precisato che è illegittimo, ponendosi in contrasto con il diritto alla prova, il rigetto, per genericità della stessa, dell'istanza di prova testimoniale volta all'accertamento della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, qualora i capitoli di prova siano specificamente finalizzati a dimostrare la ricorrenza degli indici più significativi della subordinazione.

Un importante principio è stato inoltre affermato dalla Corte con riguardo ai limiti entro i quali il giudice può esercitare il proprio potere officioso di disporre l'audizione del teste di riferimento. La questione, esaminata da Sez. 3, n. 18324/2015, Frasca, Rv. 636798, attiene, in particolare, alla possibilità di assumere tale prova qualora la parte avrebbe potuto, tenendo conto degli atti a disposizione, richiederne tempestivamente l'assunzione. La Suprema Corte ha statuito che il potere officioso del giudice ammettere il teste di riferimento, ai sensi dell'art. 257, comma 1, c.p.c., comportando una deroga al potere di deduzione probatoria della parte, può essere esercitato soltanto ove la conoscenza del fatto da parte del terzo si sia palesata nel corso di una testimonianza e non anche quando la stessa emergeva già dalle allegazioni di una delle parti.

5.4. Confronto.

Sul tema, Sez. 6-1, n. 01547/2015, Cristiano, Rv. 634239, ha chiarito che, nell'ipotesi di contrasto fra le dichiarazioni rese dai testimoni escussi, il giudice è tenuto a confrontare le deposizioni raccolte ed a valutare la credibilità dei testi in base ad elementi soggettivi ed oggettivi, come la loro qualità e vicinanza alle parti, l'intrinseca congruenza di dette dichiarazioni e la convergenza di queste con gli eventuali elementi di prova acquisiti, per poi esporre le ragioni che lo hanno portato a ritenere più attendibile una testimonianza rispetto all'altra o ad escludere la credibilità di entrambe.

6. Presunzioni.

L'art. 2727 c.c. descrive le presunzioni come «le conseguenze che la legge o il giudice trae da un fatto noto per risalire ad un fatto ignorato». La prova critica o indiziaria è una prova in senso pieno e non un argomento di prova, poiché il fatto secondario deve essere dimostrato attraverso gli ordinari mezzi di prova e soltanto in seguito il giudice effettuerà un ragionamento mediante il quale potrà dichiarare l'esistenza o l'inesistenza del fatto primario, rilevante ai fini della decisione.

Sulle prove presuntive si segnala, in particolare, Sez. 5, n. 04080/2015, Marulli, Rv. 634980, per la quale, in materia di accertamento delle imposte sui redditi, la "contabilità in nero", costituita da appunti personali ed informazioni dell'imprenditore, rappresenta un valido elemento indiziario, dotato dei requisiti di gravità, precisione e concordanza prescritti dall'art. 39 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, dovendo ricomprendersi tra le scritture contabili disciplinate dagli artt. 2709 e ss. c.c. tutti i documenti che registrino, in termini quantitativi o monetari, i singoli atti d'impresa ovvero rappresentino la situazione patrimoniale dell'imprenditore ed il risultato economico dell'attività svolta, ed incombendo sul contribuente l'onere di fornire la prova contraria.

7. Prove atipiche.

Nel ribadire l'assunto in virtù del quale nel vigente ordinamento processuale, improntato al principio del libero convincimento del giudice ed in assenza di una norma di chiusura sulla tassatività tipologica dei mezzi di prova, questi può porre a fondamento della decisione anche prove atipiche (assunto condiviso anche in dottrina, ferma l'impossibilità di porre a fondamento della decisione prove acquisite illecitamente), Sez. 3, n. 13229/2015, De Stefano, Rv. 636013, ha precisato che dell'utilizzazione delle stesse deve essere fornita di adeguata motivazione e deve trattarsi di prove idonee ad offrire elementi di giudizio sufficienti, non smentiti dal raffronto critico con le altre risultanze del processo.

Sul punto, Sez. 1, n. 17392/2015, Di Virgilio, Rv. 636702, ha evidenziato che l'assunzione a fondamento della decisione di prove atipiche costituite da dichiarazioni scritte provenienti da terzi non comporta una violazione del principio di cui all'art. 101 c.p.c., atteso che, sebbene raccolte al di fuori del processo, il contraddittorio si instaura con la produzione in giudizio.

8. Consulenza tecnica d'ufficio.

La consulenza tecnica d'ufficio non è un mezzo di prova, bensì uno strumento istruttorio mediante il quale il giudice acquisisce o integra nella fase istruttoria cognizioni tecniche delle quali non è munito e che sono nondimeno necessarie per la decisione della controversia.

Peraltro, anche se la scelta di ricorrere o meno ad una consulenza tecnica d'ufficio si concreta nell'esercizio di un potere discrezionale del giudice, per Sez. 1, n. 17399/2015, Lamorgese, Rv. 636775, lo stesso è tenuto a motivare adeguatamente il rigetto dell'istanza di ammissione proveniente da una delle parti, dimostrando di poter risolvere, sulla base di corretti criteri, i problemi tecnici connessi alla valutazione degli elementi rilevanti ai fini della decisione, senza potersi limitare a disattendere l'istanza sul presupposto della mancata prova dei fatti che la consulenza avrebbe potuto accertare. Invero, nelle controversie che, per il loro contenuto, richiedano si proceda ad un accertamento tecnico, il mancato espletamento di una consulenza, specie a fronte di una domanda di parte in tal senso, costituisce una grave carenza nell'accertamento dei fatti da parte del giudice di merito, che può tradursi in un vizio della motivazione della sentenza.

Nella medesima prospettiva, Sez. 1, n. 06138/2015, Genovese, Rv. 634880, ha precisato che, in tema di dichiarazione dello stato di adottabilità di un minore, ove i genitori facciano richiesta di una consulenza tecnica relativa alla valutazione della loro personalità e capacità educativa nei confronti del minore per contestare elementi, dati e valutazioni dei servizi sociali, il giudice che non intenda disporre tale consulenza deve fornire una specifica motivazione che dia conto delle ragioni che la facciano ritenere superflua, in considerazione dei diritti personalissimi coinvolti nei procedimenti in materia di filiazione e della rilevanza accordata in questi giudizi, anche dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, alle risultanze di perizie e consulenze.

  • procedura civile

CAPITOLO XXXVII

LE IMPUGNAZIONI

(di Salvatore Saija )

Sommario

1 Le impugnazioni in generale. - 2 Appello. Le novità normative. Evoluzione applicativa. - 3 (segue) In generale. - 4 Cassazione. Le novità normative. Evoluzione applicativa. - 5 (segue) In generale. - 6 Revocazione. - 7 Le altre impugnazioni.

1. Le impugnazioni in generale.

Nel presente paragrafo, verranno riportate le più significative pronunce del 2015 con valenza generale per tutti i mezzi di impugnazione.

Così, quanto alla notificazione dell'impugnazione, Sez. L, n. 04247/2015, Amendola, Rv. 634580, ha stabilito che la regola secondo cui tutte le notificazioni vanno eseguite presso la cancelleria del giudice, ove il procuratore esercente fuori dalla circoscrizione del tribunale non abbia eletto domicilio nel luogo in cui ha sede l'autorità procedente, non esclude che l'impugnazione possa essere notificata nel domicilio eletto presso lo studio del difensore esercente fuori dal circondario stesso (ma nel medesimo distretto), non potendo ravvisarsi alcuna nullità. Tuttavia, nel caso in cui la notifica così tentata non abbia esito positivo (per mancato reperimento del difensore, stante l'avvenuto trasferimento del proprio domicilio), per Sez. 2, n. 11666/2015, Matera, Rv. 635596, il relativo rischio resta a carico del notificante, sicchè ai fini dell'osservanza del termine breve per la proposizione dell'appello non ha rilievo la notificazione inutilmente tentata presso il domicilio eletto.

Ancora, Sez. 2, n. 15326/2015, Nuzzo, Rv. 636026, ha ribadito che la regola di cui all'art. 138, comma 1, c.p.c., secondo cui l'ufficiale giudiziario può sempre eseguire la notificazione a mani del destinatario ovunque lo trovi, è applicabile anche al difensore costituito di una delle parti in causa, con la conseguenza che, ai fini della decorrenza del termine breve per impugnare, è valida la notificazione della sentenza effettuata a mani del predetto difensore, per quanto in luogo diverso rispetto al domicilio eletto.

Per Sez. 2, n. 03824/2015, Abete, Rv. 634522, poiché l'impugnazione, nel caso di mancata dichiarazione di residenza o elezione di domicilio, dev'essere notificata alla parte personalmente ex art. 330, ult. comma, c.p.c., in caso di decesso della stessa la notificazione agli eredi deve effettuarsi collettivamente e impersonalmente, ma va esiguita nominatim ex artt. 137 e ss. c.p.c., a prescindere dall'avvenuta notifica della sentenza e dalla circostanza che il decesso si sia verificato prima o dopo di essa.

Sempre sul tema, Sez. 6-L, n. 06389/2015, Fernandes, Rv. 635138, ha ribadito che affinchè la notificazione dell'impugnazione nei confronti del procuratore costituito di controparte, che abbia eletto domicilio nel luogo del procedimento e che abbia successivamente mutato domicilio, debba essere effettuata presso quest'ultimo, occorre la duplice condizione che il procuratore stesso assuma una iniziativa atta a portare a conoscenza di controparte detto mutamento, e che l'iniziativa si esteriorizzi formalmente, o con dichiarazione resa a verbale d'udienza, ovvero con la notificazione di apposito atto. Tuttavia, per Sez. 1, n. 16040/2015, Campanile, Rv. 636507, la notifica del ricorso per cassazione effettuata presso il precedente domicilio del difensore di controparte, nonostante la conoscenza o la conoscibilità del mutamento di domicilio (evincibile dagli atti difensivi e dalla pregressa corrispondenza), comporta l'inammissibilità del ricorso, non potendo autorizzarsi il ricorrente a rinotificare il ricorso, ciò presupponendo che l'esito negativo della notifica non sia a lui imputabile. Per concludere sul tema specifico, la recentissima Sez. 3, n. 25339/2015, Scrima, Rv. 638122, ha ribadito che ove la notifica dell'impugnazione presso il procuratore costituito (pressso il domicilio eletto o effettivo) abbia avuto esito negativo per caso fortuito o forza maggiore (come nel caso di trasferimento del domicilio non comunicato), il procedimento notificatorio ben può riattivarsi e perfezionarsi anche dopo lo spirare del termine, mediante istanza al giudice ad quem corredata dall'attestazione dell'omessa notifica, tesa ad ottenere la fissazione di un termine perentorio per il completamento della notificazione, ovvero mediante tempestiva richiesta (ossia, entro un tempo ragionevolmente contenuto) rivolta all'Ufficiale giudiziario per la ripresa del procedimento notificatorio, con effetti dalla data iniziale di attivazione del procedimento.

Sez. L, n. 00857/2015, Bandini, Rv. 634296, ha affermato che la rinnovazione della notifica dell'impugnazione che avvenga presso il difensore costituito nel precedente grado, ma dopo che sia decorso un anno dalla pubblicazione della sentenza, è nulla per violazione dell'art. 330, ult. comma, c.p.c., con conseguente inammissibilità dell'impugnazione, a meno che la parte, prima che questa sia dichiarata, non provveda a notificare alla parte personalmente, entro il termine perentorio già concesso.

In relazione al caso di cancellazione della società, parte del giudizio, dal registro delle imprese, Sez. 3, n. 15724/2015, Scarano, Rv. 636189, ha affermato che ove questa sia avvenuta dopo l'emissione della sentenza d'appello e in pendenza del termine per proporre il ricorso per cassazione, sicchè non ne sia stata possibile la dichiarazione, né il procuratore della società estinta abbia notificato l'evento alla controparte, legittimamente questa può notificare l'impugnazione alla società, sebbene cancellata ed estinta, presso il domicilio del suddetto difensore, per il principio di ultrattività del mandato alla lite.

Poiché detto principio, per definizione, non può operare ove l'evento interruttivo colpisca la parte contumace, Sez. 2, n. 16555/2015, Manna, Rv. 636166, ha affermato che, ancorchè l'evento non sia stato notificato o certificato ai sensi dell'art. 300, comma quarto, c.p.c., l'atto di impugnazione dev'essere notificato agli eredi, indipendentemente sia dal momento in cui il decesso sia avvenuto e a prescindere dall'eventuale sua ignoranza, quand'anche incolpevole, da parte del soccombente.

Per il caso in cui l'impugnazione sia stata notificata al legale rappresentante di soggetto divenuto maggiorenne in corso di giudizio, senza che l'evento sia stato dichiarato o notificato, Sez. 3, n. 23213/2015, Cirillo, Rv. 637783, ha ribadito che la spontanea costituzione del soggetto – quand'anche al solo scopo di eccepire la nullità dell'impugnazione – esplica efficacia sanante, non venendo in rilievo alcuna menomazione delle proprie facoltà difensive.

In tema di acquiescenza, Sez. 2, n. 17267/2015, D'Ascola, Rv. 636138, dopo aver ribadito che essa può dirsi sussistente solo ove l'interessato ponga in essere comportamenti dai quali si desuma, in modo univoco, la volontà di non contrastare gli effetti giuridici della sentenza, ovvero compia atti incompatibili con la volontà di impugnare, ha precisato come non costituisca acquiescenza la proposizione, con finalità di cautela, di un giudizio ex art. 2932 c.c. per l'esecuzione di un contratto preliminare, con riguardo all'impugnazione di sentenza resa sulla domanda di annullamento del contratto di compravendita ex art. 428 c.c.

Relativamente al termine per impugnare, Sez. 6-2, n. 04260/2015, Manna, Rv. 634556, ha ribadito che la notificazione della sentenza alla parte presso il procuratore costituito, anziché al procuratore stesso, è comunque idonea a far decorrere il termine breve per impugnare sia per il destinatario che per il notificante, irrilevante essendo che la notifica sia indirizzata ad una P.A. presso l'Avvocatura dello Stato.

Non è invece idonea a far decorrere il termine breve per impugnare, per Sez. 6-1, n. 18278/2015, Scaldaferri, Rv. 636577, la comunicazione del testo integrale della sentenza effettuata dalla cancelleria a mezzo PEC (anteriormente alla novella dell'art. 133, comma 2, c.p.c., apportata dal d.l. 24 giugno 2014, n. 90, convertito con modifiche dalla legge 11 agosto 2014, n. 114).

Nello stesso senso, Sez. 3, n. 16804/2015, Sestini, Rv. 636386, ha ribadito che la notifica della sentenza (unitamente al precetto) alla controparte personalmente, anziché al procuratore costituito a norma degli artt. 170, comma 1, e 285, c.p.c., è inidonea a far decorrere il termine breve d'impugnazione, sia per il notificante che per il destinatario.

Sullo stesso tema, Sez. 2, n. 15326/2015, Nuzzo, Rv. 636026, ha affermato che la regola di cui all'art. 138, comma 1, c.p.c., secondo cui l'ufficiale giudiziario può sempre eseguire la notificazione a mani del destinatario ovunque lo trovi, è applicabile anche al difensore costituito di una delle parti in causa, con la conseguenza che, ai fini della decorrenza del termine breve per impugnare, è valida la notificazione della sentenza effettuata a mani del predetto difensore, per quanto in luogo diverso rispetto al domicilio eletto.

Ancora, Sez. 6-3, n. 11333/2015, Frasca, Rv. 635600, ha stabilito che ove il procuratore costituito di una delle parti abbia eletto il proprio domicilio in comune diverso da quello sede dell'ufficio giudiziario adito, la notificazione della sentenza che sia stata effettuata sia presso il domicilio irritualmente eletto (per quanto successivamente essa sia stata effettuata anche presso la cancelleria del giudice) è valida e idonea a far decorrere il termine breve per impugnare.

Sullo stesso tema, ove la notificazione dell'impugnazione sia invalida, Sez. L, n. 08299/2015, Roselli, Rv. 635122, nel solco di consolidata giuriprudenza, ha affermato che detta notifica equivale comunque alla conoscenza legale della sentenza impugnata, con la conseguenza che, essendosi consumato il potere di impugnare, decorre da essa il termine breve ex art. 325 c.p.c. Tuttavia, per Sez. 6-3, n. 09258/2015, Frasca, Rv. 635337, in fattispecie assai peculiare (la parte aveva proceduto alla notifica di una prima impugnazione, non seguita da iscrizione a ruolo, e aveva quindi notificato una nuova impugnazione), la notifica così effettuata comunque denota, per il notificante, la legale conoscenza della sentenza, ma determina la decorrenza del termine breve ex art. 325 c.p.c. solo dal momento del perfezionamento del procedimento di notificazione nei confronti del destinatario, in quanto esso deve realizzarsi per entrambe le parti nello stesso momento. Ancora, Sez. 3, n. 02848/2015, Scarano, Rv. 634601, ha affermato che il principio di consumazione del potere di impugnazione non esclude che propòstane una prima, viziata, se ne proponga una ulteriore, immune dai vizi che inficiavano la prima, purchè ciò avvenga prima che ne sia dichiarata l'inammissibilità e comunque entro il termine "breve" di decadenza (ut supra), decorrente dalla data di notifica della prima impugnazione.

Sempre sul potere d'impugnazione, Sez. L, n. 18162/2015, Blasutto, Rv. 636575, ha ribadito che riguardo alle sentenze del giudice del lavoro, salva l'ipotesi eccezionale di cui all'art. 433, comma 2, c.p.c., esso non sorge per effetto della sola lettura del dispositivo in udienza, postulando che la sentenza sia completa nei suoi elementi strutturali, motivazione compresa. Pertanto, la declaratoria d'inammissibilità del ricorso per cassazione proposto avverso il solo dispositivo della sentenza d'appello letto in udienza non comporta la consumazione del detto potere, sicchè la sentenza stessa può essere impugnata, dopo il suo deposito, nel rispetto dei termini di cui agli artt. 325 e 327 c.p.c.

Sotto altro profilo, Sez. 3, n. 17003/2015, Sestini, Rv. 636325, ha ribadito che la previsione dell'art. 328, ult. comma, c.p.c., che prevede la proroga del termine annuale di impugnazione di cui all'art. 327 c.p.c. nel caso in cui, dopo sei mesi dalla pubblicazione della sentenza, intervengano la morte o perdita della capacità della parte o del suo legale rappresentante, si riferisce solo alla parte, e non al suo procuratore, la cui disciplina è dettata dall'art. 301 c.p.c., insuscettibile essendo la prima previsione di estensione in via interpretativa.

Sullo stesso tema, Sez. L, n. 10226/2015, Blasutto, Rv. 635397, ha precisato che l'interruzione del termine per l'impugnazione prevista dall'art. 328 c.p.c. concerne non soltanto l'ipotesi della morte della parte destinataria della notifica, ma anche quella della parte notificante.

Sempre riguardo al termine lungo ex art. 327 c.p.c., Sez. 6-3, n. 14267/2015, Carluccio, Rv. 635879, ha ribadito che, ai sensi dell'art. 58 della legge 18 giugno 2009, n. 69, la riduzione del detto termine da un anno a sei mesi dalla pubblicazione della sentenza, disposto dall'art. 58 l. cit., si applica ai giudizi instaurati in primo grado a decorrere dal 4 luglio 2009, e non anche alle impugnazioni proposte da tale data, che restano quindi soggette al termine annuale.

Quanto alla decadenza, nel solco di consolidato indirizzo, Sez. 2, n. 11666/2015, Matera, Rv. 635597, ha ribadito che poiché l'inammissibilità dell'impugnazione per inosservanza dei termini stabiliti a pena di decadenza è correlata alla tutela di interessi indisponibili ed è, quindi, rilevabile d'ufficio, essa non può essere sanata dalla spontanea costituzione dell'appellato.

Relativamente alle impugnazioni incidentali, Sez. 1, n. 16171/2015, Nappi, Rv. 636344, in linea con consolidato orientamento, ha ribadito che la parte vittoriosa non può proporre impugnazione incidentale, che presuppone la soccombenza, ma può chiedere al giudice dell'impugnazione di fornire una motivazione più corretta, fermo restando il dispositivo, riproponendo, in appello, le medesime questioni ex art. 346 c.p.c., ovvero sollecitando il potere di correzione della motivazione nel giudizio di cassazione, ex art. 384 c.p.c.

2. Appello. Le novità normative. Evoluzione applicativa.

Nel corso del 2015, la giurisprudenza della Corte ha ulteriormente messo a fuoco le novità introdotte all'istituto dall'art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito in legge 7 agosto 2012, n. 134.

Com'è noto, gli interventi legislativi sul procedimento in grado d'appello, dopo la riforma del 1950 (che segnò, sotto il profilo in esame, un passo indietro rispetto all'impostazione codicistica del 1940, determinando un ritorno verso l'appello quale novum judicium), volgono verso una tendenziale affermazione dell'appello come impugnazione vincolata, avente natura di revisio prioris istantiae. In questo solco si pone anche la cennata riforma, che, al dichiarato scopo di offrire una soluzione per lo smaltimento dell'arretrato che affligge le corti d'appello, ha riformulato gli artt. 342, comma 1, e 345, comma 3, c.p.c. e ha introdotto gli artt. 348 bis e 348 ter c.p.c., disposizioni tutte applicabili ai giudizi di secondo grado introdotti dal giorno 11 settembre 2012.

Va segnalata innanzitutto la rimessione alle Sezioni Unite della questione in punto di ricorribilità per cassazione avverso l'ordinanza ex art. 348 ter c.p.c., stante il contrasto tra Sez. 6-2, n. 07273/2014, Giusti, Rv. 630754, secondo cui tale ordinanza è ricorribile per cassazione ove l'appello sia stato dichiarato inammissibile per ragioni processuali, e Sez. 6-3, n. 08940/2014, Frasca, Rv. 630776, che propende, invece, per la non esperibilità in assoluto del ricorso per cassazione, sia ordinario che straordinario (ordinanza interlocutoria, Sez. 2, n. 00223/2015, Giusti).

Una diversa angolazione prospettica distingue invece Sez. 6-3, n. 13923/2015, Cirillo, Rv. 636019, secondo cui, ove il giudice d'appello, provvedendo a norma dell'art. 348 bis, c.p.c., non si limiti a dichiarare l'inammissibilità per probabile esito infausto, ma compia anche uno scrutinio sul merito del gravame, si è al cospetto di un provvedimento che, sebbene rivesta la forma di ordinanza, ha in realtà natura di sentenza, ed è quindi ricorribile per cassazione.

In relazione al termine per la proposizione del ricorso per cassazione, Sez. 6-3, n. 15239/2015, Frasca, Rv. 636287, con specifico riferimento alle controversie in materia di opposizione esecutiva, ha stabilito che qualora venga pronunciata l'inammissibilità dell'appello ai sensi dell'art. 348 bis, c.p.c., il ricorso dev'essere proposto entro sessanta giorni decorrenti dalla comunicazione della relativa ordinanza, non applicandosi la sospensione feriale dei termini ai sensi dell'art. 3 della legge 7 ottobre 1969, n. 742.

La data della comunicazione di cancelleria dell'ordinanza che abbia pronunciato l'inammissibilità dell'appello per probabile esito infausto, secondo Sez. 6-3, n. 13622/2015, De Stefano, Rv. 635912, costituisce il dies a quo per la proposizione del ricorso per cassazione entro i successivi sessanta giorni, quand'anche essa sia stata effettuata a mezzo posta elettronica certificata. Nello stesso senso, si pone Sez. U, n. 25208/2015, Ambrosio, Rv. 637628, che ha anche affermato che la Corte, nell'esercizio del suo dovere d'ufficio di verificare la tempestività dell'impugnazione, ha il potere di accedere direttamente agli atti e di accertare la data di comunicazione dell'ordinanza (ove il ricorrente, come nella specie, assuma non aver ricevuto alcuna notifica della stessa), in ciò non potendo ravvisarsi alcuna violazione dell'art. 101, comma 2, in relazione al disposto dell'art. 384, comma 3, c.p.c., trattandosi di questione di diritto, per di più di natura processuale. Ancora più in dettaglio, la recente Sez. 6-3, n. 20236/2015, De Stefano, Rv. 637570, ha precisato che, poichè il termine breve di sessanta giorni per la proposizione del ricorso per cassazione avverso l'ordinanza in discorso decorre prioritariamente dalla data della sua comunicazione, detta data costituisce requisito essenziale (di contenuto-forma) del ricorso, sicchè il ricorrente è onerato di allegare gli elementi necessari per poterne configurare la tempestività.

Tuttavia, Sez. L, n. 18024/2015, Curzio, Rv. 636571, ha precisato che la suindicata regola che individua il dies a quo vale soltanto quando la comunicazione permetta al destinatario di conoscere la natura del provvedimento adottato, implicante lo speciale regime d'impugnazione previsto. Nella specie, ai fini del decorso del termine in questione, si è quindi ritenuta inidonea la comunicazione tramite posta elettronica certificata di un biglietto di cancelleria che recava l'indicazione, relativa all'appello "dichiarato inammissibile".

Sempre riguardo agli effetti della comunicazione di detta ordinanza, Sez. 6-3, n. 15235/2015, Frasca, Rv. 636288, (ribadita dalla successiva Sez. 6-3, n. 25115/2015, Frasca,) ha affermato che ai fini del ricorso per cassazione avverso la sentenza di primo grado non è applicabile il termine "lungo" previsto dall'art. 327 c.p.c., sicchè esso dev'essere proposto entro i successivi sessanta giorni (ovvero, entro i sessanta giorni dalla sua notificazione, se anteriore).

Il termine "breve", peraltro, inizia a decorrere immediatamente, per le parti presenti e per quelle che avrebbero dovuto esserlo (secondo la regola generale di cui all'art. 176 c.p.c.) ove l'ordinanza di cui all'art. 384, comma 1, c.p.c., sia pronunciata in udienza (Sez. 6-3, n. 25119/2015, Frasca).

Sez. 6-3, n. 02784/2015, Frasca, Rv. 634388, ha ancora affermato che, in caso di ricorso per cassazione avverso la sentenza di primo grado ai sensi dell'art. 348 ter, comma 3, c.p.c., costituisce onere del ricorrente, a pena d'inammissibilità, indicare che la questione sollevata in sede di legittimità aveva già trovato ingresso nel giudizio d'appello per essere stata oggetto del relativo motivo di gravame, essendo pur sempre applicabili gli artt. 329 e 346 del codice di rito.

3. (segue) In generale.

Sul piano generale, vanno in primo luogo segnalate le numerose pronunce che hanno affrontato la questione dell'appellabilità di provvedimenti resi in primo grado.

Anzitutto, Sez. 6-L, n. 02815/2015, Marotta, Rv. 634595, ha confermato l'orientamento per cui, in tema di opposizione a ordinanza ingiunzione, a seguito dell'abrogazione dell'ultimo comma dell'art. 23 della legge 24 novembre 1981, n. 689, operata dall'art. 26 del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, la sentenza di primo grado è soggetta ad appello secondo la regola generale ex art. 339 c.p.c., e non più a ricorso diretto per cassazione.

Del tutto peculiare è il regime impugnatorio concernente l'ordinanza emessa dal giudice dell'esecuzione per obblighi di fare o di non fare. Al riguardo, Sez. 3, n. 17314/2015, De Stefano, Rv. 636480, ha affermato che ove con questa il giudice abbia risolto una controversia insorta tra le parti, essa assume la natura di sentenza resa in un giudizio di opposizione all'esecuzione, sicchè è soggetta al regime di impugnazione proprio di tale tipo di provvedimento. Ne consegue che, ove l'ordinanza sia stata resa nel periodo compreso tra il 1° marzo 2006 e il 4 luglio 2009, essa non è appellabile, ma solo ricorribile per cassazione (in relazione al testo dell'art. 616 c.p.c. applicabile ratione temporis, che ne escludeva l'appellabilità).

Allo stesso modo, per Sez. 6-3, n. 13628/2015, Barreca, Rv. 635914, le sentenze emesse nello stesso periodo nei giudizi di opposizione all'esecuzione, ex art. 615 c.p.c., sono soggette a ricorso per cassazione e non sono appellabili, a prescindere dal contenuto della statuizione impugnata, compresa la regolamentazione delle spese di lite.

Sempre in tema di esecuzione forzata, Sez. 3, n. 06410/2015, De Stefano, Rv. 634941, nonché Sez. 3, n. 10250/2015, Frasca, Rv. 635498, hanno affernato che la sentenza emessa nel giudizio di accertamento dell'obbligo del terzo ex art. 548 c.p.c., non essendo assimilabile a quella resa in giudizio di opposizione all'esecuzione ex art. 615 c.p.c. (in relazione al testo dell'art. 616 c.p.c., ut supra), è impugnabile con l'appello e non con il ricorso straordinario per cassazione.

Con riguardo al procedimento di sfratto per morosità, Sez. 6-3, n. 17582/2015, Lanzillo, Rv. 636469, ha statuito che poiché la dichiarazione del locatore circa la persistenza della morosità del conduttore costituisce il presupposto del provvedimento di convalida, questo è appellabile solo se col gravame si tenda a contestarne la sussistenza, e non già per dedurne la non veridicità.

Ancora, in tema di opposizione a cartella esattoriale per omissioni contributive, Sez. L, n. 15392/2015, Patti, Rv. 636411, ha affermato che qualora l'iscrizione ipotecaria sia stata impugnata solo come atto conseguente, per non aver potuto previamente impugnare la cartella in quanto non notificata, la domanda ha natura ordinaria, investendo il rapporto previdenziale obbligatorio, e non già di opposizione all'esecuzione, con la conseguenza che la relativa decisione è soggetta, ai sensi dell'art. 24, comma 6, d.lgs. 26 febbraio 1999, n. 46, all'appello e non al ricorso per cassazione (come propugnato dal ricorrente, avuto riguardo al testo dell'art. 616 c.p.c. applicabile ratione temporis), che se proposto va dichiarato inammissibile.

Sez. 6-3, n. 11739/2015, Armano, Rv. 635479, ha ribadito che al fine di stabilire se una sentenza del giudice di pace sia stata pronunciata secondo equità, e sia quindi appellabile solo nei limiti di cui all'art. 339, comma 3, c.p.c., occorre avere riguardo non già al contenuto della decisione, ma al valore della causa, da determinarsi secondo i princìpi di cui agli artt. 10 e ss. c.p.c., e senza tenere conto del valore indicato dall'attore ai fini del pagamento del contributo unificato. Pertanto, ove l'attore abbia formulato dinanzi al giudice di pace una domanda di condanna al pagamento di una somma di denaro inferiore a millecento euro (e cioè al limite dei giudizi di equità cd. "necessaria", ai sensi dell'art. 113, comma 2, c.p.c.), accompagnandola però con la richiesta della diversa ed eventualmente maggior somma che "sarà ritenuta di giustizia", la causa deve ritenersi – in difetto di tempestiva contestazione ai sensi dell'art. 14 c.p.c. – di valore indeterminato, e la sentenza che la conclude sarà appellabile senza i limiti prescritti dall'art. 339 c.p.c.

Sullo stesso tema, Sez. 3, n. 09292/2015, Scarano, Rv. 635284, ha ribadito che, nel caso in cui siano proposte dinanzi al giudice di pace due domande connesse, di cui la principale da decidersi secondo equità e la riconvenzionale secondo diritto, la sentenza con cui il giudice affermi la propria competenza sulla prima e la declini sulla seconda, negando l'applicazione della regola di cui all'art. 40 c.p.c., deve considerarsi resa in causa soggetta a regola decisoria secondo diritto, sicchè, nel regime anteriore alla modifica dell'art. 339 c.p.c., disposta dall'art. 1 del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, essa dev'essere impugnata con l'appello.

Ancora sul tema, Sez. 6-3, n. 03715/2015, Amendola, Rv. 634462, ha affermato che, qualora il tribunale, adito quale giudice d'appello avverso sentenza del giudice di pace emessa secondo equità, abbia omesso di rilevare l'inammissibilità dell'appello, il ricorrente per cassazione deve comunque dedurre l'inosservanza delle norme sul procedimento, ovvero delle norme costituzionali o comunitarie, o dei principi regolatori della materia, pena l'inammissibilità ex artt. 339, comma 3, e 360, comma 1, c.p.c.

Sez. 3, n. 05598/2015, Lanzillo, Rv. 634772, ha poi statuito che nel caso di estinzione per incorporazione della società appellata in altra società nel corso del giudizio di primo grado, non dichiarata, la notifica dell'impugnazione effettuata nei confronti del procuratore domiciliatario non è inesistente, bensì nulla, e può essere sanata tramite rinnovazione dell'atto o spontanea costituzione della società incorporante.

Per il caso di inesistenza della notifica dell'atto d'appello, Sez. 5, n. 20672/2015, Bruschetta, Rv. 636647, ha affermato che costituisce onere dell'appellante dimostrare che il convenuto rimasto contumace fosse a conoscenza del processo, dovendo presumersi la sua ignoranza dello stesso; in mancanza, la sentenza resa in grado d'appello è nulla, e se impugnata per cassazione, essa dev'essere cassata senza rinvio, poiché l'appello avrebbe dovuto dichiararsi inammissibile.

Sul piano dell'interesse ad impugnare, Sez. L, n. 02682/2015, Venuti, Rv. 634575, ha ribadito che ove l'appellante si limiti a dedurre soltanto vizi di rito, ancorchè con la prima pronuncia si sia deciso anche il merito in senso a lui sfavorevole, l'impugnazione è ammissibile nel solo caso in cui i vizi, se fondati, comportino la rimessione al primo giudice, nelle ipotesi di cui agli artt. 353 e 354 c.p.c. In caso contrario, ove l'appellante non censuri anche la statuizione di merito, l'appello va dichiarato inammissibile, anche per non rispondenza al modello legale di impugnazione. Nello stesso senso, la recente Sez. 3, n. 24612/2015, D'Amico, Rv. 637945.

Sez. 3, n. 06894/2015, Scrima, Rv. 634985, ha poi ribadito che la parte totalmente vittoriosa in primo grado non ha interesse ad impugnare la sentenza in relazione a motivi attinenti alla motivazione stessa, neanche ove lamenti un ipotetico pregiudizio dal formarsi del giudicato su di essa.

Ancora, Sez. 3, n. 17017/2015, Stalla, Rv. 636318, ha affermato che non sussiste interesse alla proposizione dell'appello incidentale tardivo ove quest'ultimo sia diretto a impugnare un capo della sentenza estraneo all'appello principale e per una ragione diversa da quest'ultimo.

È poi incompatibile con la volontà di avvalersi del mezzo d'impugnazione, ed integra quindi, secondo Sez. 3, n. 12606/2015, Frasca, Rv. 635885, acquiescenza tacita, la condotta processuale dell'appellante che, pur postulando l'erroneità in fatto o in diritto della sentenza di primo grado, non censuri tuttavia la motivazione nella parte idonea a sorreggere comunque la prima decisione.

Al contrario, non implica acquiescenza, secondo Sez. 6-3, n. 06027/2015, Frasca, Rv. 634893, l'impugnazione proposta nell'interesse di una sola parte dal difensore che, nel grado precedente, assisteva più parti, ben potendo le restanti promuoverla con l'assistenza di diverso difensore.

Sul piano della legittimazione ad impugnare, è stato ribadito l'orientamento per cui essa spetta soltanto al soggetto che sia stato parte nel precedente grado di giudizio. Così, secondo Sez. 2, n. 01671/2015, Falaschi, Rv. 634064, l'interveniente volontario in primo grado, proprio in quanto ha assunto la qualità di parte nel giudizio, è legittimato a proporre appello non solo quando le sue istanze siano state respinte nel merito, ma anche quando la decisione abbia sancito l'inammissibilità dello stesso intervento, o siano state del tutto pretermesse sulle domande con esso formulate.

Sotto diversa angolazione, e riguardo all'ipotesi di chiamata in garanzia impropria, la recente Sez. 3, n. 24640/2015, Rubino, Rv. 637999, ha ribadito che il terzo chiamato può impugnare la sentenza di primo grado anche in relazione al rapporto principale, ma solo nell'ambito del rapporto di garanzia e per i riflessi che la statuizione può spiegare su di esso, ma a condizione che egli abbia contestualmente impugnato anche la propria condanna in manleva, in caso contrario formandosi il giudicato su questa.

In relazione al termine per impugnare, Sez. L, n. 16303/2015, Napoletano, Rv. 636346, ha precisato che la regola dettata dall'art. 155, comma 4, c.p.c., che proroga di diritto al primo giorno seguente non festivo il termine scadente in un giorno festivo, ha valenza generale e si applica anche al termine breve ex art. 434, comma 2, c.p.c., per la proposizione dell'appello nelle controversie soggette al rito del lavoro.

Sempre riguardo a dette controversie, Sez. L, n. 14401/2015, Manna, Rv. 636063, ha ribadito che la proposizione dell'impugnazione oltre tale termine, ovvero, in caso di mancata notifica della sentenza, oltre il termine "lungo" ex art. 327 c.p.c., comporta l'inammissibilità dell'appello anche nel caso in cui esso sia stato proposto con atto di citazione anziché con ricorso, laddove l'atto non sia stato depositato in cancelleria entro i detti termini.

La Corte, con Sez. 1, n. 15146/2015, Ferro, Rv. 636106, resa in un giudizio avente ad oggetto opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento ante riforma del 2006, ha precisato che ove l'appellante non abbia notificato il ricorso e il decreto di fissazione di udienza nel termine ordinatorio di cui all'art. 18, comma 4, della legge fallimentare (nel testo applicabile ratione temporis), non può chiedere di essere rimesso in termini senza allegare alcuna causa di giustificazione, ostando a ciò una interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 154 c.p.c., sulla scorta dei principi sottesi all'art. 111, comma 2, Cost.

Nello stesso senso, in relazione alle controversie soggette al rito del lavoro, Sez. L, n. 01175/2015, Lorito, Rv. 634080, ha stabilito che, nel caso in cui l'appellante non abbia notificato il ricorso e il decreto di fissazione di udienza, benché ritualmente avvisato ex art. 435 c.p.c., né, mancando di partecipare all'udienza, abbia addotto alcuna giustificazione onde essere rimesso in termini, l'improcedibilità dell'impugnazione può essere dichiarata d'ufficio ancorchè la notifica sia avvenuta per altra udienza successiva, cui la causa sia stata rinviata d'ufficio dal giudice.

La Corte, inoltre, con riguardo ad un giudizio di opposizione a verbale di accertamento di infrazione stradale, iniziato in epoca successiva all'entrata in vigore del d.lgs. 1° settembre 2011, n. 150, ha altresì ribadito l'inammissibilità del ricorso erroneamente proposto con citazione invece che con ricorso qualora il deposito dell'atto di citazione in cancelleria, per l'iscrizione a ruolo, sia avvenuto oltre il termine fissato per la proposizione dell'appello, quantunque notificato prima della sua scadenza (Sez. 6-3, n. 25061/2015, Vivaldi, Rv. 638032).

Ancora sul termine per impugnare, Sez. 3, n. 16194/2015, Rubino, Rv. 636045, ha affermato che la mancata comunicazione al procuratore costituito di una delle parti della ordinanza di rimessione alla c.d. sezione stralcio, pur comportando la nullità di tutti gli atti processuali e della sentenza resa dal G.O.A., non esime il difensore dalla necessità di dedurre il vizio con la proposizione di appello, entro il termine di cui all'art. 327 c.p.c.

Nell'ambito del contenzioso elettorale, Sez. 6-1, n. 18022/2015, Acierno, Rv. 636711, ha affermato che l'appello avverso l'ordinanza decisoria adottata dal tribunale dev'essere proposta copn atto di citazione entro il termine perentorio previsto dall'art. 702 quater c.p.c., sicchè ove esso sia stato proposto con ricorso, la tempestività dev'essere valutata con riguardo alla data di notifica alla controparte e non già a quella di deposito in cancelleria.

Sull'appello incidentale, Sez. 3, n. 01127/2015, Travaglino, Rv. 633990, ha ribadito che, in caso di rinvio d'ufficio dell'udienza ex art. 168 bis, comma 4, c.p.c., non si determina una riapertura dei termini per il deposito della comparsa di costituzione e risposta, e quindi per la proposizione dell'impugnativa, dal momento che occorre far esclusivo riferimento o al termine indicato nell'atto di citazione in appello, ovvero alla data fissata dal giudice istruttore, ex art. 168 bis, comma 5, c.p.c. Ne consegue che l'appello incidentale proposto con comparsa depositata successivamente all'udienza fissata nell'atto d'appello, rinviata però d'ufficio ex art. 168 bis, comma 4, c.p.c., è inammissibile per tardività.

Ancora Sez. 3, n. 12724/2015, Carluccio, Rv. 635947, ha ribadito che l'avvenuta impugnazione della sentenza di primo grado comporta che tutte le altre impugnazioni avverso la medesima debbano essere proposte in via incidentale nello stesso giudizio entro il termine di cui all'art. 343 c.p.c., con la conseguenza che l'impugnazione proposta oltre tale termine è inammissibile ancorchè non siano spirati i termini di cui agli artt. 325 e 327 c.p.c., che conservano rilevanza solo per l'operatività delle conseguenze previste dall'art. 334, comma 2, c.p.c.

L'attore totalmente vittorioso in primo grado, in giudizio avente ad oggetto risarcimento danni, non ha l'onere di proporre appello incidentale per invocare una diversa fonte di responsabilità del danneggiante, per Sez. 3, n. 09294/2015, Scarano, Rv. 635285, ove il giudice di primo grado abbia applicato una delle norme invocate quale titolo di responsabilità, ciò non comportando la formazione di giudicato implicito, trattandosi di mera qualificazione giuridica.

Riguardo all'onere di specificità dei motivi d'appello, sancito come detto dall'art. 342 c.p.c., Sez. 3, n. 18307/2015, Scarano, Rv. 636741, in linea con consolidato indirizzo, ha affermato che ai fini del suo assolvimento non occorre una formalistica enunciazione, sufficiente essendo che le argomentazioni contrapposte dall'appellante a quelle riportate nella decisione impugnata siano tali da inficiarne il fondamento logico giuridico (fattispecie antecedente alla riforma del 2012).

Sempre Sez. 3, n. 13203/2015, Vincenti, Rv. 636006, ha sancito che ove in primo grado l'attore abbia allegato la conclusione di un contratto di mandato avvenuta, alternativamente, in forma orale o per fatti concludenti, l'accertamento negativo contenuto al riguardo nella sentenza impugnata comporta l'onere di proporre specifici motivi di appello in relazione ad ambedue i profili, pena la formazione del giudicato interno su quello non riproposto, stante la diversità del tema di indagine sotteso a ciascuna delle allegazioni.

Nello stesso senso, Sez. 6-2, n. 04259/2015, Manna, Rv. 634914, ha affermato che l'appello avverso la sentenza che affermi una duplice ragione della decisione, di cui la prima logicamente e giuridicamente pregiudiziale rispetto alla seconda, va dichiarato inammissibile ove non contenga specifiche censure alla prima di esse.

Con specifico riferimento al processo del lavoro, Sez. L, n. 02143/2015, Ghinoy, Rv. 634309, ha stabilito che l'art. 434, comma 1, c.p.c., anch'esso modificato dall'art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito in legge 7 agosto 2012, n. 134 in coerenza col paradigma generale previsto dall'art. 342 del codice di rito, non richiede forma determinate, ma impone al ricorrente in appello di individuare in modo chiaro ed esauriente il quantum appellatum, circoscrivendo il giudizio di gravame agli specifici capi della sentenza impugnata, nonché ai passaggi argomentativi che la sorreggono e formulando, sotto il profilo qualitativo, le ragioni di dissenso rispetto al percorso adottato dal giudice di prime cure, in modo da esplicitare l'idoneità delle censure a determinare le auspicate modifiche alla decisione appellata.

Sempre riguardo all'onere di specificità, Sez. 3, n. 21791/2015, D'Amico, Rv. 637556, ha statuito come esso sia rispettato ove l'appellante, che si dolga della mancata o erronea liquidazione delle spese operata dal primo giudice, alleghi all'atto d'appello la nota spese che si assume erroneamente liquidata, e non si limiti a farlo in atti o memorie successivamente depositate.

Quanto ai poteri del giudice d'appello, Sez. 3, n. 02880/2015, Carleo, Rv. 634493, ha confermato l'orientamento secondo cui la rimessione al primo giudice ai sensi dell'art. 354 c.p.c., stante la sua eccezionalità, non può essere disposta se non nei casi espressamente previsti, sicchè se ne deve escludere l'applicabilità nel caso di sentenza dichiarativa dell'estinzione emessa nelle forme ordinarie, ai sensi dell'art. 307, ult. comma, c.p.c., limitata essendo la rimessione, in subiecta materia, all'ipotesi di riforma della sentenza con la quale il tribunale, in base all'art. 308, comma 2, dello stesso codice, abbia respinto il reclamo contro la ordinanza del giudice istruttore che ha dichiarato l'estinzione del processo.

Sez. 3, n. 17195/2015, Barreca, Rv. 636209, ha poi ribadito che in assenza di uno specifico motivo d'impugnativa, il giudice d'appello che rigetti il gravame non può disporre la compensazione delle spese del giudizio di primo grado.

Nel solco di consolidato orientamento, non costituisce vizio di extrapetizione, secondo Sez. 1, n. 16213/2015, Mercolino, Rv. 636495, la diversa qualificazione giuridica del rapporto controverso da parte del giudice d'appello rispetto a quanto ritenuto dal giudice di primo grado, ciò rientrando nei suoi poteri, purchè la diversa qualificazione sia coerente con le questioni riproposte, lasciando inalterati il petitum e la causa petendi, e non introduca nel tema controverso nuovi elementi di fatto.

Ancora, sul tema di sentenza declinatoria della competenza pronunciata dal giudice di pace in causa esorbitante dai limiti della giurisdizione equitativa, Sez. 6-3, n. 13623/2015, De Stefano, Rv. 636072, ha ribadito che ove venga proposto appello avverso tale statuizione, il tribunale è investito dell'esame del merito quale giudice d'appello, dovendo escludersi che, nel caso di fondatezza della censura, debba rimettersi la causa al giudice di pace per la rinnovazione del giudizio di primo grado.

Del pari, per Sez. 3, n. 12714/2015, Amendola, Rv. 635819, deve escludersi la rimessione al primo giudice nel caso in cui, convenuto in giudizio, in proprio, un soggetto privo della capacità processuale (nella specie, interdetto legalmente), questi abbia successivamente riacquistato la capacità in fase di gravame, determinandosi in tal caso la sanatoria della nullità della sua costituzione in giudizio, ex art. 182 c.p.c., ma non anche della validità del giudizio svolto in violazione del principio del contraddittorio, occorrendo quindi che il giudice d'appello pronunci sulla domanda originaria, previa declaratoria della nullità della sentenza.

Quanto alla riforma in grado d'appello della sentenza declinatoria della giurisdizione, Sez. U, n. 03025/2015, Napoletano, Rv. 634062, ha affermato che il giudice di primo grado al quale la causa sia stata dunque rimessa ex art. 353 c.p.c. non può proporre regolamento di giurisdizione d'ufficio, ma è tenuto a statuire sulla domanda.

Ove il giudice d'appello abbia emesso sentenza non definitiva e disposto per il prosieguo del giudizio, secondo Sez. 1, n. 00488/2015, Benini, Rv. 634226, la cassazione senza rinvio della detta sentenza comporta che viene a cessare immediatamente la potestas judicandi dello stesso giudice, sicchè l'eventuale sentenza definitiva successivamente emessa è affetta da inesistenza per abnormità, che può essere denunciata in ogni tempo con ordinaria azione di accertamento, ma anche con i mezzi ordinari di impugnazione.

In fattispecie assai peculiare, Sez. 3, n. 22978/2015, Frasca, Rv. 637776, ha statuito che quando il giudice d'appello ravvisa che il diritto riconosciuto dalla sentenza di primo grado esiste ma è stato erroneamente quantificato, non solo non può pronunciare una pronuncia parziale di riforma della sentenza di primo grado solo sul "quantum", ma, se statuisca erroneamente, non può disporre la condanna alla restituzione di quanto corrisposto dalla parte appellante in forza dell'esecuzione, e ciò in quanto si è comunque al di fuori del paradigma dell'art. 278 c.p.c., sia degli artt. 277 e 279 n. 4 c.p.c.

Sul piano del procedimento, va anzitutto segnalata Sez. 6-L, n. 02816/2015, Marotta, Rv. 634629, che ha ribadito che la disciplina dell'inattività delle parti dettata dal codice di procedura civile per il giudizio di cognizione di primo grado e di appello trova applicazione anche nell'ambito del cd. rito del lavoro, non ostandovi né la sua specialità, né i principi cui esso si ispira, sicchè, ove all'udienza di discussione ex art. 437 c.p.c. dinanzi al giudice d'appello nessuno compaia, non è possibile decidere la causa, occorrendo provvedere ai sensi degli artt. 181 e 348 c.p.c.

Per il caso di sentenza declinatoria della competenza e conseguente riassunzione, Sez. U, n. 15996/2015, Travaglino, Rv. 636104, ha affermato che la "conservazione dell'appello ai fini della <<translatio iudicii>> non opera per l'impugnazione proposta allo stesso giudice che ha emesso la sentenza impugnata (nella specie, medesimo tribunale, adito quale tribunale regionale delle acque e poi quale tribunale superiore delle acque), mancando, in tal caso, uno strumento processuale che legittimi il passaggio dal primo al secondo grado".

Riguardo ai giudizi di opposizione ad ordinanza-ingiunzione introdotti nella vigenza dell'art. 23 della legge 24 novembre 1981, n. 689, Sez. 2, n. 12954/2015, Picaroni, Rv. 635706, ha affermato che le regole speciali dettate per il giudizio di primo grado non si estendono automaticamente al giudizio d'appello in mancanza di specifica previsione normativa, sicchè non trova applicazione nel giudizio di secondo grado la regola per cui occorre procedere alla lettura del dispositivo in udienza, a pena di nullità della sentenza.

Sempre sul tema delle modalità di emissione della sentenza d'appello, la recente Sez. 3, n. 22871/2015, Barreca, Rv. 637863, ha affermato che <<è corretto e non viola gli artt. 281 sexies e 350-352 c.p.c., l'operato del giudice d'appello che, intendendo decidere la causa ai sensi dell'art. 281 sexies c.p.c., in forza del disposto dell'ultimo comma dell'art. 352 c.p.c. (aggiunto dall'art. 27, comma l, lett. d, della legge 12 novembre 2011 n. 183), esaurita l'attività prevista nell'art. 350, non dovendo provvedere a norma dell'articolo 356, all'udienza fissata per la trattazione dell'appello invita l'unica parte presente – essendo l'altra assente non giustificata – a precisare le conclusioni, senza fissare un'altra udienza allo scopo ed, in mancanza di istanza di parte di rinvio della discussione orale ad un'udienza successiva, ordina la discussione orale nella stessa udienza e pronuncia sentenza al termine della discussione, dando lettura del dispositivo e della concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione>>.

Sul tema dell'ultrattività del rito, Sez. 3, n. 13311/2015, Scrima, Rv. 635802, ha statuito che, nelle controversie aventi ad oggetto sinistri stradali, introdotte prima dell'entrata in vigore della legge 21 febbraio 2006, n. 102 (che prevedeva il loro assoggettamento al rito del lavoro, senza dettare una disciplina transitoria), l'appello dev'essere proposto con le forme e nei termini del rito ordinario, allorchè la causa sia stata trattata e decisa in primo grado secondo tale rito.

Al contrario, ove la sentenza di primo grado sia stata resa nelle forme del rito del lavoro e, alla data di abrogazione dell'art. 3 della legge n. 102 del 2006, sia ancora pendente il termine per proporre l'appello, secondo Sez. 1, n. 02265/2015, Acierno, Rv. 634976, questo dev'essere proposto con le forme e nei termini di cui all'art. 434, comma 2, c.p.c., trattandosi di controversia ancora pendente ai sensi dell'art. 53, comma 2, della legge 18 giugno 2009, n. 69.

Quanto alle domande "assorbite", Sez. 2, n. 07457/2015, San Giorgio, Rv. 635000, in linea con consolidato orientamento, ha ribadito che l'appellato la cui domanda principale sia stata accolta nel giudizio di primo grado ha l'onere di riproporre la domanda subordinata su cui il primo giudice non abbia pronunciato perché assorbita, pena la presunzione di rinuncia ex art. 346 c.p.c.

Ancora, Sez. 6-3, n. 15605/2015, De Stefano, Rv. 636467, ha affermato che ove l'attore abbia convenuto in giudizio una pluralità di soggetti, il rigetto della domanda per intervenuta prescrizione nei confronti di tutti i predetti, in uno con l'accertamento della titolarità passiva in capo ad uno solo di essi, onera l'attore ad impugnare anche tale ultima statuizione, in mancanza formandosi il giudicato su di essa.

In relazione alle controversie soggette al rito del lavoro, Sez. L., n. 00461/2015, Balestrieri, Rv. 634077, ha ribadito che alla parte rimasta contumace in primo grado, o che ivi si sia tardivamente costituita, non è preclusa la contestazione in grado d'appello, presupponendo il principio di non contestazione un comportamento concludente della parte costituita.

Ove sia stata proposta querela di falso nel corso del giudizio d'appello, secondo Sez. 3, n. 18892/2015, Rubino, Rv. 636667, quando questo sia stato sospeso e il giudice non abbia indicato il tribunale territorialmente competente, la tempestiva riassunzione dinanzi a tribunale comunque incompetente non determina l'estinzione del giudizio, giacchè è sufficiente a scongiurare tale esito la circostanza che il querelante si sia attivato entro il termine perentorio assegnatogli ex art. 355 c.p.c. per introdurre il giudizio di falso.

Con specifico riguardo al procedimento di adozione, secondo Sez. 1, n. 15365/2015, De Chiara, Rv. 636487, ove l'adottando abbia compiuto i dodici anni al tempo del giudizio d'appello, egli dev'essere audito, ciò potendo ricavarsi dall'art. 15 della legge 4 maggio 1983, n. 184, che, sebbene imponga tale obbligo espressamente ai fini della dichiarazione di adottabilità, esprime tuttavia una nuova considerazione del minore quale portatore di bisogni ed interessi che, pur non vincolando il giudice, non possono essere ignorati.

Sempre in tema di dichiarazione di adottabilità del minore, Sez. 1, n. 15369/2015, Valitutti, Rv. 636485, ha precisato che i genitori dell'adottando, se esistenti, sono le sole parti necessarie e quindi litisconsorti necessari anche in grado d'appello, benché non costituiti in primo grado, nonché unici soggetti a dover essere obbligatoriamente sentiti.

Per il caso di erronea individuazione del giudice d'appello, Sez. 6-3, n. 22321/2015, Armano, Rv. 637861, in motivato contrasto con Sez. 6-L, n. 11969/2015, Rv. 635553, ha recentemente escluso che ciò possa configurare – in fattispecie in cui era stata adita la sezione specializzata agraria, sebbene la prima decisione fosse stata resa dal tribunale ordinario – questione di competenza, non potendo trovare applicazione né la regola della translatio judicii di cui all'art. 50 c.p.c., né tampoco la disciplina dinamica della competenza, ex art. 38 c.p.c., essendosi già formato il giudicato sulla sentenza impugnata a cagione di detta erronea individuazione. Secondo la citata pronuncia, dette conclusioni hanno carattere generale, e valgono: <<aa) sia per il caso in cui l'impugnazione venga proposta avanti ad un giudice territorialmente non corrispondente a quello indicato dalla legge (appello contro sentenza del giudice di pace proposto ad un tribunale di una circoscrizione diversa da quella di cui fa parte il giudice che l'ha pronunciata; appello contro sentenza del tribunale proposto a corte d'appello diversa da quella del distretto di cui fa parte il tribunale); bb) sia per il caso in cui, pur rispettata la regola territoriale l'impugnazione venga proposta avanti a giudice di tipo diverso da quello che la legge individua (appello contro sentenza del giudice di pace proposto alla Corte d'Appello); cc) sia per il caso di impugnazione proposta a giudice diverso da quello legittimato ma con la particolarità ch'esso rientri nella stessa tipologia di ufficio giudiziario di quel giudice (es.: revocazione contro sentenza del tribunale proposta ad altro tribunale); dd) sia per il caso di impugnazione proposta a giudice che nella ripartizione verticale dell'organizzazione del processo civile impugnazioni non sia <<superiore>> a quello che abbia pronunciato la sentenza (es.: appello contro sentenza del tribunale proposto ad altro tribunale) o addirittura sia collocato in posizione inferiore>>.

Diverse pronunce hanno interessato il tema della scindibilità o inscindibilità di cause. In particolare, Sez. 2, n. 06780/2015, Falaschi, Rv. 634744, ha ribadito che, nel caso di morte di una delle parti del giudizio di primo grado, la sua legittimazione (attiva o passiva) si trasmette agli eredi, la cui posizione integra, per tutta la ulteriore durata del giudizio, litisconsorzio necessario processuale. Pertanto, ove l'appello sia stato proposto contro uno soltanto degli eredi, il giudice d'appello deve ordinare d'ufficio l'integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri, a pena di nullità, salva la loro costituzione spontanea.

Sez. 5, n. 15292/2015, La Torre, Rv. 636035, ha affermato che nelle cause scindibili o indipendenti, l'appello incidentale tardivo ben può investire capi diversi da quelli impugnati in via principale, ma non può determinare l'estensione soggettiva del giudizio e, quindi, non può proporsi contro parti diverse da quelle che hanno proposto l'appello principale, essendosi formato nei confronti delle prime il giudicato interno.

Ancora, Sez. 2, n. 10808/2015, Matera, Rv. 635656, ha affermato che sussiste un'ipotesi di litisconsorzio necessario processuale in sede di gravame qualora ad una pluralità di coeredi sia richiesto l'adempimento pro quota dell'unica obbligazione del de cuius, stante l'unicità genetica del rapporto obbligatorio.

Per il caso di chiamata in garanzia cd. impropria, Sez. 3, n. 12919/2015, Rubino, Rv. 635908, ha affermato che, qualora la sentenza di primo grado abbia accolto sia la domanda di molestia che quella di garanzia, l'impugnazione da parte del garante del capo concernente la responsabilità del convenuto, nel caso di accoglimento, non può recare beneficio al convenuto stesso, che non l'abbia impugnato, giacchè nei suoi confronti s'è già formato il giudicato, a ciò non ostando neanche il disposto dell'art. 1306, comma 2, c.c., che, pur regolando l'effetto espansivo della sentenza favorevole al coobbligato solidale, presuppone tuttavia che questi non abbia preso parte al giudizio in cui detta sentenza è stata resa.

Riguardo a giudizio svoltosi con pluralità di parti in cause scindibili, ex art. 332 c.p.c., Sez. 3, n. 13355/2015, Rubino, Rv. 635981, ha confermato l'orientamento per cui la notificazione dell'appello a tutte le parti, avendo la mera funzione di litis denuntiatio, non determina la qualità di parte del giudizio di impugnazione in capo al destinatario, con la conseguenza che non sussistono i presupposti per la pronuncia a suo favore della condanna alle spese a norma dell'art. 91 c.p.c., che esige la qualità di parte, e perciò una vocatio in ius, e la soccombenza.

Con riferimento all'intervento adesivo volontario, ai sensi dell'art. 105 c.p.c., Sez. 2, n. 09150/2015, Nuzzo, Rv. 635243, ha affermato che, pur ricorrendo un'ipotesi di cause sostanzialmente scindibili, si configura un litisconsorzio necessario processuale e la causa deve considerarsi inscindibile nei confronti dell'interveniente, con la conseguenza che egli è legittimato a proporre impugnazione incidentale tardiva, ex art. 334 c.p.c., anche contro una parte diversa da quella che ha impugnato la sentenza e su un capo di sentenza diverso da quello oggetto dell'impugnazione principale.

Sez. 3, n. 08693/2015, D'Amico, Rv. 635078, ha affermato che ove il giudice di primo grado abbia pronunciato impropriamente l'estromissione di uno dei convenuti per carenza di legittimazione passiva (ma in realtà respingendo nel merito la domanda nei suoi confronti), la parte soccombente, che abbia appellato la sentenza solo nei confronti delle altre parti, così accettando detta pronuncia, è tenuto a notificare alla parte estromessa l'appello ai sensi dell'art. 332 c.p.c. Ne deriva che la costituzione in appello di quest'ultima dev'essere considerata inammissibile, mancando l'impugnativa sulla pronuncia di estromissione, né potendo essa qualificarsi come intervento ad adiuvandum, non ricorrendo i presupposti di cui all'art. 344 c.p.c.

Con specifico riferimento al rito del lavoro, Sez. L, n. 01915/2015, Manna, Rv. 634308, ha ribadito che nel caso in cui il ricorso in appello sia stato depositato in cancelleria entro il termine lungo di cui all'art. 327 c.p.c., l'integrazione del contraddittorio eventualmente disposta ex art. 331 c.p.c. dev'essere notificata, anche dopo il decorso del suddetto termine, non alla parte personalmente, bensì al suo procuratore costituito.

Infine, numerose pronunce hanno riguardato il tema dei nova in appello. Così, Sez. 6-2, n. 01529/2015, Bianchini, Rv. 633836, ha confermato l'orientamento per cui, in sede di appello, non è possibile introdurre la domanda avente ad oggetto l'attribuzione di interessi non richiesti in primo grado, attesa la novità della domanda stessa, salvo che si tratti di accessori che non avrebbero potuto chiedersi precedentemente.

Al contrario, Sez. 3, n. 06457/2015, Pellecchia, Rv. 634943, ha affermato che la domanda di restituzione di quanto indebitamente pagato in forza di sentenza esecutiva può essere avanzata per la prima volta con l'atto d'appello e anche in sede di precisazione delle conclusioni, non potendo tale domanda considerarsi nuova.

In materia di locazione, Sez. 3, n. 16801/2015, Stalla, Rv. 636353, ha affermato che la domanda di rilascio dell'immobile locato include anche quella diretta al rilascio delle pertinenze, sicchè questa non integra domanda nuova e può essere proposta, per la prima volta, anche in appello.

In tema di acquisto della proprietà a titolo originario, Sez. 2, n. 00040/2015, Giusti, Rv. 633805, ha affermato che non viola il divieto di "ius novorum" la deduzione, da parte del convenuto in rivendica, dell'acquisto per usucapione, ordinaria o abbreviata, della proprietà dell'area, qualora egli abbia eccepito in primo grado la proprietà in forza di diverso titolo, giacchè il diritto di proprietà appartiene alla categoria dei diritti cd. eterodeterminati, che si identificano in virtù del loro contenuto, e non già per il titolo che ne costituisce la fonte, la cui deduzione è funzionale ai fini dell'assolvimento dell'onere probatorio.

Sez. 2, n. 17322/2015, Falaschi, Rv. 636224, ha ribadito che per il principio di infrazionabilità e contestualità della prova testimoniale, ricavabile dall'art. 244 c.p.c., coordinato con le regole dell'ammissione delle nuove prove in appello, è inammissibile l'istanza istruttoria vertente non già sulle medesime circostanze già ammesse in primo grado, ma anche quella diretta ad integrare o confutare le risultanze della prova già espletata in primo grado.

Sempre sul piano probatorio, Sez. 1, n. 17341/2015, Genovese, Rv. 636643, ha affermato che l'art. 345, comma 3, c.p.c. (nel testo applicabile ratione temporis), impone al giudice d'appello che ammetta la produzione di documenti non prodotti in primo grado, in quanto indispensabili ai fini della decisione, di motivare espressamente sulla ritenuta attitudine, positiva o negativa, della nuova produzione a dissipare lo stato di incertezza sui fatti controversi.

In tema di opposizione a decreto ingiuntivo, Sez. U, n. 14475/2015, Curzio, Rv. 635758, risolvendo il contrasto sul punto tra diverse pronunce di legittimità, ha affermato che l'art. 345, comma 3, c.p.c., va interpretato nel senso che i documenti prodotti in sede monitoria e rimasti a disposizione della controparte, seppur non versati in atti in primo grado, rimangono tuttavia nella sfera di cognizione del giudice dell'opposizione, in forza del principio "di non dispersione della prova" ormai acquisita al processo; ne deriva che essi, ove prodotti in appello, non possono considerarsi nuovi, sicchè la loro produzione è pienamente ammissibile.

Secondo Sez. 1, n. 12049/2015, Di Virgilio, Rv. 635619, la novità di un documento, preclusiva della produzione in appello ai sensi dell'art. 345, comma 3, c.p.c., deve valutarsi alla luce della sua produzione in giudizio, irrilevante essendo la sua mera indicazione.

Sullo stesso tema, ma in ambito del processo del lavoro, Sez. L, n. 14820/2015, Venuti, Rv. 636459, ha affermato che l'omessa indicazione dei documenti prodotti nell'atto di costituzione in giudizio, e l'omesso contestuale deposito, determinano la decadenza della parte, a meno che non siano successivamente formati o la loro produzione sia giustificata dall'evoluzione del processo, sicchè il giudice d'appello, ai sensi dell'art. 437 c.p.c., può ammetterne la produzione con valutazione discrezionale, non sindacabile in sede di legittimità, ove ritenga tali documenti comunque ammissibili, perché indispensabili ai fini della decisione.

In tema di licenziamento disciplinare, Sez. L., n. 00655/2015, Tria, Rv. 634187, ha affermato che ove il lavoratore abbia impugnato il licenziamento allegandone la natura ritorsiva, la successiva deduzione in appello di nuovi profili di illegittimità integra domanda nuova e, perciò, inammissibile.

Sez. L, n. 15506/2015, Blasutto, Rv. 636234, ha ribadito che si ha domanda nuova per modificazione della causa petendi, come tale inammissibile in appello, ove i nuovi elementi dedotti in secondo grado comportino un mutamento dei fatti costitutivi della domanda, in modo tale da determinare una pretesa diversa da quella esaminata in primo grado e sulla quale non s'è svolto in quella sede il contraddittorio.

Sempre riguardo al rito del lavoro, Sez. 6-L, n. 00547/2015, Pagetta, Rv. 634096, ha ribadito l'orientamento per cui, in tema di prestazioni assistenziali, la produzione in appello della documentazione afferente al requisito reddituale è tardiva e, quindi, inammissibile, trattandosi di circostanze già deducibili e dimostrabili in primo grado. Né può farsi ricorso all'attivazione dei poteri officiosi ex art. 437, comma 2, c.p.c., in relazione a dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà attestante il possesso del detto requisito, trattandosi di documento non avente valore neanche indiziario, bensì di mera allegazione, provenendo esso dalla stessa parte interessata.

Infine, Sez. L, n. 08924/2015, Berrino, Rv. 635346, ha affermato che ove il convenuto si sia tardivamente costituito, al giudice d'appello non è comunque precluso l'esame dei documenti ciononostante prodotti in primo grado, in assenza di tempestiva opposizione all'irrituale produzione.

4. Cassazione. Le novità normative. Evoluzione applicativa.

Com'è noto, l'art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv. in legge n. 134 del 2012, oltre ad aver introdotto il cd. filtro in appello, ha anche apportato una significativa modifica all'art. 360, comma 1, n. 5), c.p.c., in tema di motivi di ricorso per cassazione. Ciò sia nella medesima ottica deflattiva perseguita per l'appello, sia anche allo scopo di enfatizzare la funzione nomofilattica della Corte. La norma de qua, che dapprima (nella formulazione dettata dall'art. 2 del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40) consentiva il ricorso per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, prevede ora – in relazione alle sentenze pubblicate dal giorno 11 settembre 2012 – la proponibilità del ricorso per cassazione <<per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti>>.

Nel corso del 2015, la Corte è nuovamente tornata su alcuni aspetti della novella in discorso, dando comunque continuità all'indirizzo segnato da Sez. U, n. 08053/2014, Rv. 629830. Questa importante pronuncia (che si riporta per comodità espositiva), dopo aver evidenziato che la descritta riformulazione dell'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. ripropone pressoché testualmente l'originario testo del codice di rito del 1940, ha affermato che la norma in discorso "deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall'art. 12 delle preleggi, come riduzione al <<minimo costituzionale>> del sindacato di legittimità sulla motivazione.

In questo senso, Sez. 6-3, n. 13928/2015, Cirillo, Rv. 636030, ha ribadito che, alla luce del novellato art. 360, comma 1, n. 5), c.p.c., non è più denunciabile il vizio di contraddittoria motivazione della sentenza, precisando anche che tale vizio non possa ritenersi sopravvivere come ipotesi di nullità della sentenza ai sensi del n. 4) dell'art. 360 c.p.c.

Circa l'esatta portata della novella, Sez. 6-L, n. 02498/2015, Blasutto, Rv. 634531, e n. 13448/2015, Arienzo, Rv. 635853, hanno ribadito che l'omesso esame di elementi istruttori non integra di per sé il vizio di omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, qualora il fatto storico sia stato comunque preso in considerazione da parte del giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze istruttorie.

Nello stesso senso si è pronunciata Sez. L, n. 14324/2015, Bandini, Rv. 636037, relativamente a procedimento disciplinare a carico di lavoratore subordinato, evidenziando che la censura, in sede di legittimità, di violazione del principio di immediatezza della contestazione, alla luce del novellato art. 360, comma 1, n. 5), c.p.c., è inammissibile qualora il motivo di ricorso per l'omesso esame di elementi istruttori non si risolva nella prospettazione di un vizio di omesso esame di un fatto decisivo, ove il fatto storico sia stato comunque preso in considerazione dal giudice.

In tema di procedimento di separazione tra coniugi e di affidamento dei figli minori, Sez. 6-1, n. 18817/2015, Mercolino, Rv. 636766, ha affermato che non è denunciabile in cassazione, ai sensi della predetta norma come novellata, la mera omessa o errata valutazione da parte del giudice di merito delle relazioni psicosociali e dei pareri psicodiagnostici acquisiti, poiché essa non si traduce in una anomalia o omissione motivazionale ove comunque nel provvedimento sia stato dato risalto all'esigenza di conservare un rapporto tra il minore e il genitore non affidatario.

Deve adeguatemente segnalarsi, per essere – da quel che consta – la prima decisione di accoglimento sul punto, Sez. 1, n. 12314/2015, Ragonesi, Rv. 635618, che, in tema di plagio, ha ritenuto sussistere il denunciato vizio ai sensi del nuovo art. 360, comma 1), n. 5, c.p.c., nel caso in cui il primo giudice, nel quantificare il lucro cessante riconosciuto al titolare dell'opera plagiata, non abbia indicato il criterio utilizzato né abbia specificato le ragioni per cui lo abbia ritenuto come il più adeguato ad individuarne, in rapporto alla peculiarità del caso, il relativo ammontare (così statuendo, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata che, nel determinare il danno, aveva omesso di valutare che l'opera plagiata – articoli apparsi su giornali – e quella plagiaria – romanzo – non erano in concorrenza tra loro poiché distribuite su circuiti commerciali affatto diversi e con differenti tipi di pubblico, ed esaurendo la prima, diversamente dalla seconda – peraltro edita dopo più di un anno – la propria distribuzione e vendita in tempi brevissimi).

Con specifico riferimento all'arbitraggio, Sez. 6-1, n. 19677/2015, Genovese, Rv. 637123, ha affermato che l'accertamento dell'equità della prestazione dedotta in contratto ad opera del terzo, cui è stata rimessa dalle parti contraenti, è rimessa alla prudente valutazione del giudice del merito, che può essere censurata dalla Corte di cassazione nei limiti, sopra cennati, del "minimo costituzionale".

Sempre in tal senso, Sez. 6-3, n. 23828/2015, De Stefano, Rv. 637781, ha ribadito che la ricostruzione del fatto operata dal giudice di merito può essere sindacata in sede di legittimità solo ove la motivazione manchi del tutto o sia fondata su espressioni o argomenti tra loro manifestamente inconciliabili, ovvero perplessi, ovvero ancora obiettivamente incomprensibili.

Infine, riguardo a procedimento avente ad oggetto responsabilità disciplinare di magistrato, Sez. U, n. 01241/2015, Amoroso, Rv. 633756, ha precisato che la descritta novella non può avere concrete ricadute sulla denunciabilità del vizio di contraddittoria motivazione da parte del ricorrente, atteso che, in forza del disposto dell'art. 24 della legge 23 febbraio 2006, n. 109, esso può essere proposto ai sensi dell'art. 606, lett. e), c.p.p., che appunto ne prevede la denunciabilità.

Altro filone di pronunce attiene ai vizi denunciabili mediante ricorso per cassazione a seguito della pronuncia di inammissibilità dell'appello per ragionevole improbabilità di accoglimento, impugnazione che, come s'è detto (v. § 2), dev'essere proposta direttamente avverso la pronuncia di primo grado, ai sensi dell'art. 348 ter, comma 3, c.p.c.

In particolare, in base al disposto del comma quarto di tale articolo, <<Quando l'inammissibilità è fondata sulle stesse ragioni, inerenti alle questioni di fatto, poste a base della decisione impugnata, il ricorso per cassazione di cui al comma precedente può essere proposto esclusivamente per i motivi di cui ai numeri 1), 2), 3) e 4) del primo comma dell'articolo 360>>. Pertanto, nel caso di cd. "doppia conforme in facto" (ossia, di una pronuncia di merito da parte del giudice di primo grado, seguita dalla declaratoria di inammissibilità ex art. 348 bis c.p.c., fondata sulle stesse ragioni, inerenti alle questioni di fatto poste a base della decisione impugnata), non è consentita la proposizione del ricorso per cassazione per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, ex art. 360, comma 1, n. 5), c.p.c.

In proposito, non constano, nell'anno in esame, pronunce su tale ultima questione. In ogni caso, mette conto qui evidenziare Sez. 6-3, n. 06140/2015, Amendola, Rv. 634886, secondo cui la peculiarità dell'impugnazione prevista dall'art. 348 ter, comma 3, c.p.c., laddove ne individua l'oggetto nella sentenza di primo grado e non già nell'ordinanza emessa dal giudice d'appello, non esclude la natura ordinaria del ricorso per cassazione, sicchè esso deve contenere, a pena di inammissibilità, le prescrizioni dettate dall'art. 366 c.p.c., tra cui "l'esposizione sommaria dei fatti di causa", prevista al n. 3) dello stesso articolo.

Ancora, va evidenziata Sez. 6-1, n. 20470/2015, Acierno, Rv. 637505, che ha ribadito che tale ordinanza, ove emessa nei casi in cui ne è consentita l'adozione, non è ricorribile per cassazione neanche ai sensi dell'art. 111 Cost., non avendo essa carattere di definitività e prevedendo espressamente l'art. 348 ter, comma 3, c.p.c., l'impugnabilità della sentenza di primo grado.

Infine, Sez. 6-3, n. 18827/2015, Frasca, Rv. 636967, ha affermato che, ove anche volesse sostenersi l'insegnamento di Sez. 6-2, n. 07273/2014, che appunto propugna la persistente autonoma impugnabilità dell'ordinanza che dichiari l'inammissibilità dell'appello per motivi diversi, essa va impugnata con lo stesso ricorso proposto avverso la sentenza di primo grado e nei termini prescritti dall'art. 348 ter, comma 3, c.p.c., <<sia perché è logicamente prioritario l'esame dell'impugnazione dell'ordinanza rispetto alla sentenza, sia perché, applicando all'ordinanza il termine lungo dalla comunicazione ex art. 327 c.p.c., il decorso di distinti termini per impugnare i due provvedimenti comporterebbe il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado, rendendo incomprensibile la ricorribilità avverso l'ordinanza>>.

5. (segue) In generale.

Si segnalano di seguito le più significative pronunce sul giudizio di legittimità, rinviandosi per altri profili, comuni al ricorso per cassazione, al cap. XXXVIII sul processo del lavoro ed al cap. XLIV sul processo tributario.

Numerose pronunce si sono occupate del tema della ricorribilità per cassazione avverso i provvedimenti diversi dalle sentenze rese in grado d'appello o in unico grado.

Così, Sez. 1, n. 06683/2015, Cristiano, Rv. 634749, ha escluso che il decreto di rigetto del reclamo che abbia respinto l'istanza di fallimento sia soggetto al ricorso straordinario per cassazione, ex art. 111, comma 7, Cost., trattandosi di provvedimento non definitivo e privo di natura decisoria su diritti soggettivi, non potendo configurarsi un diritto del creditore ad ottenere il fallimento del proprio debitore.

Sempre in ambito fallimentare, Sez. 1, n. 19790/2015, De Marzo, Rv. 636680, ha escluso la ricorribilità per cassazione dei provvedimenti emessi dal tribunale ai sensi dell'art. 15, comma 8, della legge fallimentare, perché aventi natura cautelare e privi dei caratteri di decisorietà e definitività.

Ancora in ambito concorsuale, Sez. 1, n. 05094/2015, Cristiano, Rv. 634685, ha del pari negato la ricorribilità ex art. 111 Cost. avverso il decreto con cui la corte d'appello abbia respinto il reclamo avverso il provvedimento sulla revoca del curatore fallimentare per giustificati motivi, in quanto la disciplina è permeata dall'interesse pubblicistico al regolare svolgimento e al buon esito della procedura, incidendo solo indirettamente sull'interesse del curatore; il provvedimento che dispone la revoca, quindi, ha natura amministrativa e ordinatoria ed è privo di valenza decisoria su posizioni di diritto soggettivo.

Sez. 6-1, n. 04701/2015, Bisogni, Rv. 634635, ha ribadito che i provvedimenti emessi in sede di reclamo riguardo alla designazione o nomina di amministratore di sostegno, trattandosi di provvedimenti distinti da quelli che dispongono l'amministrazione, non sono ricorribili per cassazione, il ricorso essendo ammesso esclusivamente nell'ipotesi di cui all'art. 720 bis, ultimo comma, c.p.c., relativamente ai decreti di carattere decisorio, quali quelli che dispongono l'apertura o la chiusura dell'amministrazione, assimilabili, per loro natura, alle sentenze emesse in materia di interdizione ed inabilitazione, mentre tale facoltà non si estende ai provvedimenti a carattere gestorio.

Sez. 1, n. 16227/2015, Valitutti, Rv. 636331, ha escluso la ricorribilità per cassazione del decreto emesso dalla corte d'appello in sede di reclamo avverso il decreto del tribunale dei minorenni che ha disposto, ai sensi dell'art. 333 c.c., l'affido di un minore ai servizi sociali, in quanto adottato per l'esclusiva tutela dgli interessi del minore.

Ancora, Sez. 6-3, n. 03279/2015, Barreca, Rv. 634483, ha sancito l'inammissibilità del ricorso straordinario per cassazione avverso il decreto della corte d'appello che abbia deciso sul reclamo ai sensi degli artt. 2888 c.c. e 113 disp. att. c.c. contro il rifiuto di cancellazione di iscrizione ipotecaria da parte del conservatore, poiché detto decreto è insuscettibile di passare in giudicato in quanto emesso in procedimento privo di carattere contenzioso, e fermo il diritto dell'istante ad una pronuncia di accertamento del diritto ad ottenere detta cancellazione.

Tuttavia, secondo Sez. 1, n. 15131/2015, Campanile, Rv. 636206, ove il detto procedimento (nella specie, avente ad oggetto il rifiuto del conservatore di eseguire una trascrizione ex art. 745 c.p.c., cui rinvia l'art. 113 disp. att. c.c.) si concluda con una condanna alle spese, ad onta della sua natura di volontaria giurisdizione, il provvedimento assume valenza decisoria e può quindi essere impugnato con ricorso straordinario per cassaizone, ai sensi dell'art. 111 Cost.

Del pari, Sez. L, n. 01176/2015, D'Antonio, Rv. 634301, ha escluso la ricorribilità per cassazione, ai sensi dell'art. 111 Cost., avverso l'ordinanza che abbia provveduto sulla sospensione dell'esecuzione nell'ambito di opposizione proposta ai sensi degli artt. 615, 617 o 619 c.p.c., ovvero avverso l'ordinanza collegiale emessa ai sensi dell'art. 669 terdecies, c.p.c. in sede di reclamo avverso la stessa, trattandosi nel primo caso di provvedimento soggetto a specifico rimedio, e, in entrambi i casi, di provvedimenti non definitivi, suscettibili di essere ridiscussi nel giudizio di merito.

Ciò vale, secondo Sez. 6-2, n. 13637/2015, Giusti, Rv. 635681, anche se il tribunale in composizione collegiale, respingendo il reclamo avverso il diniego di tutela possessoria, abbia disposto sulle spese senza assegnare il termine per l'introduzione del giudizio di merito, giacchè il provvedimento incide su situazioni di rilevanza meramente processuale e non ha carattere decisorio né definitivo.

Analogamente, secondo Sez. 6-3, n. 25064/2015, Barreca, Rv. 638027 e Sez. 6-3, n. 25111/2015, Barreca, deve escludersi la ricorribilità per cassazione del provvedimento con cui il giudice dell'esecuzione, adito con opposizione agli atti esecutivi, abbia dichiarato il ricorso improponibile, condannando l'opponente alla rifusione delle spese, ma senza assegnare i termini per l'introduzione del giudizio di merito, trattandosi di statuizione di carattere non definitivo, giacchè lo stesso opponente può comunque iscrivere la causa a ruolo per la prosecuzione della causa con cognizione piena, ovvero instare presso il giudice dell'esecuzione, ai sensi dell'art. 289 c.p.c., onde chiedere la fissazione del relativo termine.

Nello stesso senso, Sez. 1, n. 00896/2015, Genovese, Rv. 634000, ha escluso la ricorribilità per cassazione del provvedimento di diniego della tutela d'urgenza ex art. 700 c.p.c., in quanto privo del carattere di definitività. Del pari, Sez. 6-3, n. 13774/2015, De Stefano, Rv. 635916, ha affermato lo stesso principio in relazione ai provvedimenti resi dalla corte d'appello sulla provvisoria esecuzione della sentenza di primo grado.

Ancora, Sez. 1, n. 17522/2015, Valitutti, Rv. 636764, ha ribadito l'inammissibilità del ricorso per cassazione avverso l'ordinanza del giudice di primo grado di estinzione del giudizio, poiché il provvedimento, se adottato dal tribunale in composizione monocratica, è assimilabile alla sentenza emessa dal collegio ex art. 308, comma 2, c.p.c., e dev'essere quindi impugnato con l'appello, mentre, se emesso dal giudice istruttore in causa in cui il tribunale giudica in composizione collegiale, conserva natura di ordinanza reclamabile al collegio.

Sez. 1, n. 11456/2015, Campanile, Rv. 635628, ha stabilito che, dopo l'entrata in vigore del nuovo testo dell'art. 360, comma 3, c.p.c., come sostituito a decorrere dal 2 marzo 2006, dal d.lgs. n. 40 del 2006, è inammissibile il ricorso per cassazione avverso la sentenza che abbia deciso esclusivamente una questione preliminare di merito, senza definire, neanche parzialmente, il giudizio.

Ancora, Sez. 3, n. 10543/2015, De Stefano, Rv. 635608, in tema di titolo esecutivo europeo, sul rilievo che questo ha solo funzione integrativa del titolo esecutivo nazionale (ossia, di renderlo idoneo alla circolazione intereuropea), ha affermato che le contestazioni del debitore seguono i mezzi di impugnativa suoi propri, con la conseguenza dell'inammissibilità del ricorso straordinario per cassazione avverso il provvedimento adottato dalla corte d'appello in sede di reclamo proposto contro il diniego di revoca del certificato, ai sensi dell'art. 10 del regolamento comunitario del 21 aprile 2004, n. 805/2004/CE.

In applicazione del principio dell'apparenza, Sez. 1, n. 02948/2015, Didone, Rv. 634382, ha negato la ricorribilità per cassazione avverso il decreto ex art. 21 l. fall. emesso – in fattispecie antecedente alle modifiche apportate dalla riforma della legge fallimentare del 2006 – dal giudice delegato anziché dal collegio, occorrendo far riferimento, ai fini dell'identificazione del mezzo d'impugnazione, al rito concretamente applicato a tutela dell'affidamento della parte.

Sempre nel senso dell'inammissibilità del ricorso straordinario, Sez. L, n. 08878/2015, Ghinoy, Rv. 635354, ha affermato la non ricorribilità del decreto di omologazione del requisito sanitario ritenuto sussistente dal c.t.u. nell'accertamento tecnico preventivo, emesso ai sensi dell'art. 445 bis, c.p.c., poiché le conclusioni dell'accertamento divengono intangibili se non contestate dalle parti, nel termine fissato dal giudice ai sensi del comma 4 dello stesso articolo, prima dell'emissione del decreto. Allo stesso modo, evidenziandone il carattere non decisorio, Sez. L, n. 08932/2015, Ghinoy, Rv. 635347, ha escluso nella stessa tipologia di procedimento la ricorribilità avverso il decreto che dichiari l'inammissibilità della domanda per difetto dei relativi presupposti.

Infine, sul tema della impugnabilità, Sez. 6-2, n. 06063/2015, Proto, Rv. 634864, ha affermato che può procedersi all'impugnazione cumulativa con unico ricorso avverso diverse sentenze allorchè queste, pur concernendo diversi procedimenti, rechino tuttavia la soluzione di identica questione di diritto, quale nella specie una ripetuta condotta di omessa comunicazione di dati personali e della patente del conducente ai sensi dell'art. 126 bis, cod. strada.

Quanto alla decorrenza del termine per la proposizione del ricorso per cassazione, Sez. 6-L, n. 06050/2015, Arienzo, Rv. 634849, ha affermato che, ove sulla sentenza siano apposte due date, una di deposito (senza specificazione che trattasi della minuta), e l'altra di pubblicazione, occorre avere riguardo – secondo un'interpretazione costituzionalmente orientata alla luce di Corte cost. 22 gennaio 2015, n. 3 – alla seconda annotazione, cui consegue l'effettiva pubblicità della sentenza.

Ancora sul termine per impugnare, Sez. L, n. 07624/2015, Amendola, Rv. 635227, ha ribadito che, ove il ricorrente abbia ottenuto dal giudice della revocazione, ex art. 398, comma 4, c.p.c., la sospensione del termine per proporre ricorso per cassazione, questi ha l'onere, a pena d'inammissibilità, di indicare e provare, producendo idonea documentazione ex art. 372 c.p.c., l'istanza di sospensione, il provvedimento che la concede e la comunicazione della sentenza che provvede sulla revocazione stessa, al fine di consentire alla Corte di verificare la tempestività del ricorso.

Quanto alla notificazione del ricorso a mezzo del servizio postale, Sez. 5, n. 19623/2015, Cirillo, Rv. 636610, ha ribadito che la prova del perfezionamento dev'essere data dal ricorrente entro l'udienza di discussione, non potendo essa rinviarsi affinchè egli provveda, a meno che non dimostri di essersi tempestivamente attivato nel richiedere all'amministrazione postale un duplicato dell'avviso.

Nello stesso senso, riguardo alla notifica del controricorso, Sez. 3, n. 07361/2015, Frasca, Rv. 634823, ha precisato che l'istanza di rimessione in termini non è suscettibile di esame da parte del collegio ove il difensore non sia comparso all'udienza ex art. 379 c.p.c., poiché l'esercizio di difesa della parte, rilevante per il dovere decisorio della Corte di cassazione, è solo quello dispiegato tramite la partecipazione all'udienza di discussione.

Ancora sulla notifica, Sez. 6-3, n. 13919/2015, Frasca, Rv. 635979, ha ritenuto nulla, e non inesistente, la stessa notifica, ove eseguita presso il domicilio eletto ad un procuratore che abbia lo stesso cognome di quello indicato in sentenza, ma nome diverso, tenuto conto del fatto che l'identicità dello studio e del cognome valgono a determinare una relazione con l'intimato, con la conseguenza che può dispòrsene la rinnovazione.

Sempre sul controricorso, Sez. 3, n. 24639/2015, Rubino, Rv. 638042, ha confermato l'orientamento secondo cui il termine di venti giorni dalla scadenza del termine per il deposito del ricorso, da individuare ai fini della tempestività della notifica del controricorso stesso, ai sensi dell'art. 370 c.p.c., va individuato avuto riguardo al termine di perfezionamento della notifica del ricorso per il destinatario dell'atto.

Relativamente all'interesse ad impugnare, Sez. 1, n. 03336/2015, Didone, Rv. 634411, ha ribadito che il successore a titolo particolare nel diritto controverso, mentre può impugnare la sentenza di merito entro il termine di decadenza, non può tuttavia intervenire nel giudizio di legittimità, difettando una specifica disciplina al riguardo.

Sez. L, n. 11919/2015, Tria, Rv. 635664, ha sancito l'inammissibilità per difetto d'interesse dell'impugnazione del decreto di omologa nel procedimento ex art. 445 bis c.p.c., relativamente alla compensazione delle spese, ove il ricorso, con cui si insta per il mero accertamento delle condizioni sanitarie, non abbia ad oggetto la richiesta di specifici benefici, ma sia solo prodromico alla proposizione di eventuali future domande amministrative.

Sempre sul tema, per il caso in cui si verifichi, in pendenza del gravame, successione a titolo particolare nel diritto controverso ex art. 111 c.p.c., Sez. 3, n. 08477/2015, Rossetti, Rv. 635079, ha affermato che ove la sentenza sia stata pronunciata nei confronti di un mandatario, munito anche di rappresentanza processuale, che abbia precisato le conclusioni nell'interesse del successore non costituitosi in giudizio, la parte soccombente non ha interesse a far valere tale vizio con l'impugnazione, atteso che essa è comunque tenuta ad eseguirla nei confronti di tutti i successori a titolo particolare dell'originario creditore.

In materia di esecuzione forzata, e segnatamente di pignoramento presso terzi, Sez. 3, n. 06903/2015, Rubino, Rv. 635037, ha negato la sussistenza dell'interesse al ricorso per cassazione in capo al debitore opponente, rimasto soccombente nel giudizio instaurato ai sensi degli artt. 615 e 617 c.p.c., nel caso in cui il giudice dell'esecuzione abbia dichiarato l'improcedibilità dell'esecuzione stessa per dichiarazione negativa del terzo, giacchè il debitore non può comunque conseguire (ove non sia stato instaurato il giudizio ex art. 548 c.p.c.) un risultato più favorevole.

Ancora, Sez. L, n. 00658/2015, Amendola, Rv. 633855, ha ribadito l'inammissibilità del ricorso incidentale, per difetto d'interesse, ove esso sia proposto dalla parte totalmente vittoriosa e al solo fine di ottenere una modifica della motivazione della sentenza impugnata.

Sul piano della legittimazione attiva, Sez. 1, n. 17974/2015, Lamorgese, Rv. 636512, ha ribadito che essa spetta solo a chi formalmente abbia rivestito la qualità di parte nel precedente grado di giudizio conclusosi con la sentenza impugnata, poiché con l'impugnazione si esercita non un potere sostanziale, bensì processuale.

Ancora, Sez. 1, n. 03456/2015, Genovese, Rv. 635535, ha affermato che il trust non è ente dotato di personalità giuridica, ma un insieme di beni e rapporti destinati ad un fine determinato e formalmente intestati al trustee, che pur essendo l'unico soggetto di riferimento nei rapporti con i terzi, svolge tale ruolo non come legale rappresentante, bensì come colui che dispone del diritto. Ne consegue che la legittimazione a rilasciare la procura speciale per la proposizione del ricorso per cassazione nell'interesse di un'impresa costituita in trust spetta al legale rappresentante dell'impresa stessa.

Quanto agli aspetti più strettamente procedimentali, Sez. 3, n. 14662/2015, Amendola, Rv. 636372, ha affermato che l'erronea indicazione delle generalità del ricorrente non comporta l'inammissibilità dell'impugnazione, purchè l'identità effettiva possa evincersi dall'intestazione della sentenza impugnata e dall'intestazione del ricorso, oltre che dalla procura speciale.

Analogamente, Sez. 3, n. 21786/2015, D'Amico, Rv. 637618, ha ribadito il superiore principio, precisando che l'omessa indicazione della residenza della persona fisica o della sede della persona giuridica, del codice fiscale o della partita IVA della parte, non implica l'inammissibilità del ricorso, a differenza di quanto avviene nel giudizio tributario, la cui disciplina speciale non è però applicabile nel giudizio di legittimità.

Sez. 2, n. 07032/2015, Petitti, Rv. 634836, ha affermato che ove il difensore non domiciliato in Roma abbia chiesto, a norma dell'art. 135 disp. att. c.p.c., di ricevere le comunicazioni di cancelleria a mezzo lettera raccomandata, non è idonea la comunicazione effettuata con altra modalità (nella specie, a mezzo fax).

Sez. 6-L, n. 03971/2015, Pagetta, Rv. 634622, ha ribadito che la rinuncia al ricorso per cassazione determina l'estinzione del processo anche in caso di mancanza di accettazione, poiché tale atto non ha natura "accettizia" (non necessita, cioè, di accettazione) e determina il passaggio in giudicato della sentenza impugnata, con conseguente venir meno dell'interesse a contrastare l'impugnazione, salva la condanna del rinunciante alle spese del giudizio.

Ancora sulla rinuncia, Sez. 6-L, n. 00901/2015, Blasutto, Rv. 634070, ha affermato che non è sufficiente che essa provenga dal solo difensore, occorrendo anche la sottoscrizione della parte ad substantiam, a meno che il primo non sia munito di mandato speciale a questo effetto. Inoltre, ove essa intervenga dopo la fissazione dell'udienza pubblica o camerale e della relativa comunicazione alle parti, per Sez. 2, n. 14922/2015, Scalisi, Rv. 636024, l'estinzione del processo dev'essere dichiarata non già ai sensi dell'art. 391, comma 1, c.p.c., bensì con ordinanza collegiale ai sensi dell'art. 375, n. 3), dello stesso codice.

Sono legittimati alla rinuncia a norma dell'art. 2495 c.c., secondo Sez. 6-3, n. 09828/2015, Frasca, Rv. 635399, i soci di società cancellata dal registro delle imprese, in quanto essi hanno legittimazione passiva rispetto ai crediti vantati verso la società estinta.

Nel caso di procedimento camerale, ex art. 380 bis, c.p.c., Sez. 6-3, n. 06418/2015, Ambrosio, Rv. 634931, ha precisato che ove il ricorrente rinunci al ricorso, la Corte deve procedere alla declaratoria di estinzione, sebbene la relazione avesse prospettato una causa di inammissibilità. In tale ipotesi, il termine ultimo per rinunciare va individuato in quello in cui diventa preclusa alle parti ogni ulteriore attività processuale.

Riguardo allo ius postulandi, Sez. 6-L, n. 02460/2015, Arienzo, Rv. 634543, ha affermato che nel giudizio di cassazione, la procura speciale al difensore può essere apposta, ai sensi dell'art. 83, comma 3, c.p.c., solo a margine o in calce al ricorso o al controricorso, ovvero (per i giudizi instaurati a far data dal 4 luglio 2009) alla memoria di nomina di nuovo difensore, sicchè, al di fuori di tali ipotesi, essa deve essere rilasciata con atto pubblico, o con scrittura privata autenticata, nella quale devono essere indicati gli elementi essenziali del giudizio, quali le parti e la sentenza impugnata. Tuttavia, Sez. 6-3, n. 01205/2015, Ambrosio, Rv. 634038, ha affermato, in linea con precedenti pronunce, che la specialità del mandato apposto a margine o in calce al ricorso può di per sé ricavarsi dalla sua collocazione (formando materialmente corpo con l'atto processuale cui accede), non occorrendo per la sua validità alcuno specifico riferimento al procedimento in corso o alla sentenza impugnata. Nello stesso senso, si segnala anche Sez. 2, n. 15538/2015, Lombardo, Rv. 636082. Infine sul punto, in relazione a giudizio instaurato prima del 4 luglio 2009, Sez. 3, n. 13329/2015, Rossetti, Rv. 635909, ha ribadito che la procura in discorso non può essere rilasciata a margine o in calce della memoria di costituzione di nuovo difensore.

Sez. L, n. 11551/2015, Doronzo, Rv. 635845, ha ribadito che, qualora il ricorso per cassazione sia stato proposto da difensore in assenza di procura speciale del soggetto nel cui interesse egli abbia dichiarato di agire, l'attività svolta non può riverberare alcun effetto su quest'ultimo, sicchè è ammissibile la condanna del legale al pagamento delle spese di lite, in proprio.

In fattispecie peculiare, Sez. 3, n. 22979/2015, Carluccio, Rv. 638103, ha negato il difetto della specialità della procura, originariamente rilasciata per la proposizione di ricorso avverso sentenza non definitiva, ove il numero della sentenza definitiva sia aggiunto successivamente, a penna, nel corpo della medesima procura, stesa a margine del ricorso per cassazione, con cui siano state impugnate entrambe le pronunce.

Sempre sul tema, per il caso di pluralità di difensori, Sez. 3, n. 17292/2015, Pellecchia, Rv. 636210, ha ribadito che ove solo uno di essi sia iscritto nell'apposito albo e abbia sottoscritto l'atto, resta irrilevante che l'altro difensore sia parimenti dotato dell'iscrizione o abbia anch'egli sottoscritto l'atto stesso. Sempre in caso di pluralità di difensori, Sez. 3, n. 13314/2015, Scrima, Rv. 635917, ha precisato che ove il ricorso per cassazione sia stato notificato all'avversario con la sottoscrizione di uno solo dei due difensori, esso è validamente proposto se il mandato alle liti risulti, in chiusura, sottoscritto da entrambi i difensori, ciò sufficiente essendo per ritenere proveniente dai predetti la certificazione di autografia della sottoscrizione della parte e, quindi, sussistente l'attribuzione a ciascuno di essi di pieni poteri di rappresentanza processuale.

Sez. 6-3, n. 03898/2015, Ambrosio, Rv. 634540, ha ribadito che, nel giudizio di cassazione, il decesso dell'unico difensore non determina l'interruzione del processo, ma solo faculta la Corte di differire l'udienza di discussione, per consentire alla parte di nominare nuovo difensore; tuttavia, ciò presuppone che detto decesso risulti dall'attestazione dell'ufficiale giudiziario nella relata di notifica dell'avviso di udienza e che sia mancato il tempo ragionevole, per la parte, di provvedere alla nomina di nuovo difensore.

Del pari, secondo Sez. 1, n. 15566/2015, Genovese, Rv. 636537, nel caso di cancellazione del difensore dall'albo degli avvocati di appartenenza, la comunicazione dell'avviso d'udienza conseguentemente effettuata presso la cancelleria della Corte, ai sensi dell'art. 366, comma 2, ultima parte, c.p.c., è valida, persistendo l'obbligo del professionista, in forza del mandato ricevuto, di adoperarsi diligentemente presso il proprio assistito affinchè questi si doti di nuovo difensore.

Lo stesso principio deve applicarsi, secondo Sez. 6-L, n. 14901/2015, Marotta, Rv. 636241, nel caso di sospensione disciplinare a tempo indeterminato dell'unico difensore.

Quanto all'elezione di domicilio, Sez. 2, n. 03224/2015, Falaschi, Rv. 634524, ha affermato che ove il difensore domiciliatario designato si sia trasferito in altra sede, senza comunicare la variazione alla cancelleria delle Corte, le comunicazioni della fissazione dell'udienza ex art. 377 c.p.c. si effettuano presso la stessa cancelleria, in applicazione del disposto dell'art. 366, comma 2, c.p.c., per il caso di mancata elezione di domicilio.

In relazione al controricorso, Sez. 6-3, n. 14969/2015, Barreca, Rv. 636185, ha stabilito che è valida la sua notificazione in cancelleria, ove il ricorrente ivi abbia eletto il domicilio, senza che rilevi l'indicazione, nel ricorso, dell'indirizzo di posta elettronica certificata, poiché la notifica a tale indirizzo presuppone la mancata elezione di domicilio in Roma.

Sez. L, n. 04249/2015, Doronzo, Rv. 634624, ha affermato che l'art. 366 c.p.c. si applica anche al controricorso in relazione ai requisiti di contenuto e forma, sicchè la notifica di un atto successivo che miri a colmarne le lacune è inammissibile.

Ancora, Sez. 2, n. 04977/2015, Giusti, Rv. 634877, ha ribadito che in caso di notifica del ricorso per cassazione all'Avvocatura Distrettuale dello Stato, anzichè all'Avvocatura Generale dello Stato, la costituzione in giudizio del destinatario del ricorso sana, con effetto ex tunc, il vizio della notifica; tuttavia, poiché la sanatoria è contestuale alla costituzione del resistente, la notifica del controricorso deve ritenersi tempestiva ancorchè intervenuta oltre il termine di cui all'art. 370 c.p.c., non avendo tale termine iniziato il suo decorso a cagione dell'inefficacia della notifica del ricorso stesso.

Relativamente all'impugnazione incidentale, Sez. L, n. 05695/2015, Doronzo, Rv. 634799, ha ribadito che – fermo il principio per cui una volta proposta impugnazione contro una sentenza, tutte le altre devono essere proposte in via incidentale, sicchè nel giudizio di cassazione esse devono proporsi in seno al controricorso – tale modalità non può considerarsi essenziale, sicchè ogni impugnazione autonomamente proposta (anche se di tipo adesivo) si converte comunque in impugnazione incidentale, la cui ammissibilità è condizionata al rispetto del termine di quaranta giorni risultante dal combinato disposto degli artt. 370 e 371 c.p.c., indipendentemente dai termini (breve o lungo) di impugnazione in astratto operativi.

In continuità con l'insegnamento di Sez. U, n. 07381/2013, Rv. 625558, la recente Sez. 1, n. 04619/2015, De Marzo, Rv. 634674, ha ribadito che il ricorso incidentale della parte totalmente vittoriosa nel giudizio di merito, che investa questioni pregiudiziali di rito o preliminari di merito, ha natura di ricorso condizionato indipendentemente da ogni espressa indicazione, e ciò in ossequio al principio di ragionevole durata del processo, che sottende il fine primario di ottenere una pronuncia nel merito. Ne consegue che esso dev'essere esaminato con priorità solo ove le questioni pregiudiziali di rito o preliminari di merito, rilevabili d'ufficio, non siano state esaminate dal giudice di merito, in caso contrario dovendo invece procedersi al suo esame solo nel caso di fondatezza del ricorso principale. Nello stesso senso, v. anche Sez. 6-2, n. 07523/2015, Falaschi, Rv. 635045.

Ancora, Sez. 1, n. 16548/2015, Rv. 636337, ha affermato che il ricorrente incidentale è esonerato dall'onere di produrre la sentenza impugnata solo se vi ha già provveduto il ricorrente principale, in caso contrario incorrendo anch'egli nell'improcedibilità del ricorso.

Infine, sul tema dell'impugnazione incidentale, Sez. 3, n. 06077/2015, Rubino, Rv. 634913, ha ribadito che il ricorso incidentale tardivo, proposto oltre i termini di cui agli artt. 325, comma 2, ovvero 327, comma 1, c.p.c., è inefficace se il ricorso principale sia a sua volta inammissibile, senza che rilevi che esso è stato proposto nel rispetto del termine di quaranta giorni dalla notificazione del ricorso principale, ex art. 371, comma 1, c.p.c.

Quanto alla funzione della memoria ex art. 378 c.p.c., Sez. 6-3, n. 03780/2015, Scarano, Rv. 634440, ha ribadito che con essa non possono sanarsi i vizi di genericità o indeterminatezza dei motivi di ricorso, potendosi solo illustrare e chiarire le ragioni giustificatrici dei motivi tempestivamente enunciati in ricorso, e non già integrare quelli originariamente inammissibili.

Sempre riguardo alla memoria, Sez. 2, n. 18346/2015, Falaschi, Rv. 636427, ha ribadito che il termine di cinque giorni prima dell'udienza deve intendersi non "libero", operando il criterio generale di cui all'art. 155, comma 1, c.p.c.

In relazione al deposito di atti, Sez. 2, n. 00870/2015, Proto, Rv. 634419, ha affermato che non sussiste l'improcedibilità del ricorso ex art. 369 c.p.c. ove il ricorrente, depositatane una copia fotostatica priva della relata di notifica, provveda tuttavia a depositare l'originale notificato, separatamente, a norma dell'art. 372 c.p.c., entro venti giorni dall'ultima notifica, non potendo ritenersi ammissibile il recupero di una condizione di procedibilità del ricorso mancante al momento della scadenza del termine per il deposito del ricorso.

Ancora sul deposito del ricorso, Sez. L, n. 01325/2015, Venuti, Rv. 634014, ha ribadito che l'avvenuta costituzione di controparte non sana l'omissione del ricorrente, che appunto non vi abbia provveduto, giacchè il principio di sanatoria delle nullità per raggiungimento dello scopo attiene alla violazione delle forme processuali in senso stretto e non si applica alla violazione dei termini perentori, per le quali vigono apposite e separate disposizioni. Ciò vale anche, secondo Sez. 6-3, n. 10784/2015, Ambrosio, Rv. 635446, nel caso in cui il ricorrente si sia limitato a depositare una copia del ricorso, peraltro priva della relata di notifica, a nulla rilevando che controparte abbia notificato il controricorso, senza formulare alcuna eccezione di improcedibilità.

Sempre sul tema, ma riguardo alla documentazione probatoria della asserita qualità di procuratore speciale in senso sostanziale della parte ricorrente, Sez. 3, n. 16274/2015, Cirillo, Rv. 636620, ha ribadito che il ricorso va dichiarato inammissibile ove detta documentazione non venga prodotta al più tardi ai sensi dell'art. 372 c.p.c., giacchè la Corte non è messa in condizione di verificare l'esistenza e i limiti del potere rappresentativo.

Riguardo all'onere di depositare la copia conforme della sentenza impugnata a pena di improcedibilità ex art. 369, comma 2, n. 2), c.p.c., Sez. 3, n. 01443/2015, Pellecchia, Rv. 634107, ha ribadito che ove il ricorrente abbia allegato (espressamente, o per implicito) che la sentenza stessa gli è stata notificata, la copia depositata deve contenere anche la relata di notifica, così da consentire alla Corte di verificare la tempestività dell'impugnazione, a tutela dell'esigenza pubblicistica del rispetto del vincolo della cosa giudicata formale; in mancanza, il ricorso dev'essere dichiarato improcedibile, non potendosi in ciò ravvisare alcuna lesione del precetto di cui all'art. 24 Cost.

Ancora, Sez. 5, n. 01012/2015, Marulli, Rv. 634032, ha del pari sancito l'improcedibilità del ricorso, ex art. 369, comma 2, n. 2), c.p.c., ove la copia della sentenza prodotta sia incompleta, così restando precluso ogni accesso cognitivo alle ragioni del decisum. Né l'omesso deposito può essere superato, secondo Sez. 5, n. 14207/2015, Botta, Rv. 635796, dalla conoscenza che della sentenza possa aversi in altro modo, per essere stata prodotta dalla controparte o per essere comunque presente nel fascicolo d'ufficio.

Parimenti improcedibile è il motivo non intellegibile, secondo Sez. 6-3, n. 09262/2015, Frasca, Rv. 635237, ove nell'originale del ricorso depositato manchino una o più pagine, anche in tal caso irrilevante essendo che una copia completa sia stata prodotta dalla controparte.

Riguardo alla correzione dell'errore materiale della sentenza della Corte di cassazione, Sez. 6-3, n. 15238/2015, Frasca, Rv. 636181, ha affermato che l'omessa produzione di copia autentica della sentenza comporta l'improcedibilità del ricorso, poiché l'art. 391 bis c.p.c., rinviando agli artt. 365 e ss., richiede l'osservanza (anche) di quanto prescritto nell'art. 369, comma 2, n. 2, del medesimo codice.

La procura rilasciata al difensore nel giudizio concluso con la sentenza da correggere, secondo Sez. 6-2, n. 00730/2015, Bianchini, Rv. 633895, è valida anche per il procedimento ex art. 391 bis, c.p.c., non introducendosi con la relativa istanza una autonoma fase processuale, ma un mero incidente dello stesso giudizio.

Ancora, Sez. 6-2, n. 05727/2015, Falaschi, Rv. 634710, ha escluso l'istanza di correzione dell'errore materiale della sentenza impugnata possa essere avanzata col controricorso, occorrendo che essa sia proposta dinanzi al giudice di merito che l'ha pronunciata.

In relazione al procedimento camerale ex art. 380 bis c.p.c., Sez. 6-2, n. 02726/2015, Giusti, Rv. 634230, ha affermato che ove non sia stato osservato il termine di venti giorni per la notifica del decreto di fissazione dell'adunanza e della relazione, la conseguente nullità resta sanata, per il principio di raggiungimento dello scopo, ove il difensore comunque compaia in camera di consiglio, discutendo dell'ammissibilità e del merito del ricorso, così dimostrando che la violazione non ha inficiato la possibilità di adeguatamente esplicare le proprie facoltà difensive nell'interesse della parte assistita.

In relazione alle conclusioni del P.M., Sez. 3, n. 08000/2015, Barreca, Rv. 635100, ha precisato che la facoltà delle parti di presentare brevi osservazioni per iscritto, onde replicarvi, ai sensi dell'art. 379, comma 4, c.p.c., può essere esercitata solo dal difensore che abbia preso parte all'udienza di discussione ed in occasione della stessa, onde consentire alle altre parti di averne conoscenza, sicchè è inammissibile il deposito successivo, in cancelleria, di osservazioni recanti la dizione "note scritte ex art. 379 c.p.c.".

Sul tema della produzione di nuovi documenti, è significativa Sez. 5, n. 00950/2015, Chindemi, Rv. 634957, che ne ha ritenuto l'ammissibilità in sede di legittimità, quand'anche formatisi in epoca antecedente alla proposizione del ricorso, ove la necessità della loro produzione derivi da un mutamento della giurisprudenza sovranazionale affermatosi in epoca successiva.

Sempre sulla produzione documentale, Sez. L, n. 04350/2015, Lorito, Rv. 634586, ha affermato che l'onere di depositare i contratti e gli accordi collettivi su cui il ricorso si fonda, imposto a pena di improcedibilità dall'art. 369, comma 2, n. 4), c.p.c., può ritenersi soddisfatto solo con la produzione del testo integrale del contratto collettivo, insufficiente essendo a tal fine il mero richiamo, in calce al ricorso, all'intero fascicolo di parte nel giudizio di merito, ove manchi una puntuale indicazione del documento nell'elenco degli atti.

Sullo stesso tema, in ambito di regolamento preventivo di giurisdizione, Sez. U, n. 06496/2015, Giusti, Rv. 634862, ha escluso doversi dichiarare l'improcedibilità ove il ricorrente non abbia depositato un documento richiamato nel ricorso e tale atto sia irrilevante ai fini della decisione.

Circa i requisiti di forma e contenuto del ricorso, Sez. 6-3, n. 01926/2015, Frasca, Rv. 634266 ha ribadito che, onde soddisfare il requisito di cui all'art. 366, comma 1, n. 3), c.p.c., il ricorso deve contenere una esauriente e chiara esposizione, seppur non analitica o particolareggiata, dei fatti di causa, in modo da far risultare le pretese delle parti, con gli elementi di fatto e le ragioni di diritto su cui si fondano, le eccezioni, le difese e le deduzioni di ciascuna parte, lo svolgersi delle vicende processuali nelle sue articolazioni, le argomentazioni essenziali, in fatto e in diritto, su cui si fonda la sentenza impugnata e sulle quali si chiede alla Corte una diversa valutazione.

Ancora, Sez. 6-3, n. 02527/2015, Amendola, Rv. 634245, ha ribadito che la tecnica del cd. "assemblaggio", mediante la quale il ricorrente, anziché procedere all'esposizione sommaria dei fatti di causa prevista dall'art. 366, comma 1, n. 3), c.p.c., riproduca pedissequamente gli atti di causa e la sentenza impugnata, mediante "spillatura", cartacea o elettronica che sia, viola la ratio della predetta norma, costringendo la Corte ad un esame "indaginoso" per l'individuazione e la selezione delle questioni ancora controverse, sicchè essa comporta l'inammissibilità del ricorso. Nello stesso senso, si segnala Sez. 5, n. 18363/2015, Bielli, Rv. 636551, secondo cui tale tecnica comporta un mascheramento dei dati effettivamente rilevanti, a meno che l'insieme dei documenti integralmente riprodotti, essendo facilmente individuabile ed isolabile, possa essere separato ed espunto dal ricorso, così potendosene valutare l'autosufficienza alla luce degli ordinari criteri di valutazione relativi ai singoli motivi.

Quanto al requisito di autosufficienza del ricorso, di cui si rinviene la fonte normativa nell'art. 366, comma 1, n. 6), c.p.c., vanno segnalate numerose pronunce. Così, Sez. 2, n. 04365/2015, Mazzacane, Rv. 634720, ha ribadito che ove il ricorrente si dolga del fatto che il giudice di merito non abbia erroneamente ammesso il giuramento decisorio, egli ha l'onere di indicare specificamente il contenuto della formula del giuramento stesso, onde consentire la valutazione delle questioni da risolvere e della sua decisività, non potendo sopperirsi alle lacune del ricorso mediante indagini integrative.

Sez. 1, n. 16900/2015, Sambito, Rv. 636324, ha poi affermato che l'onere di indicare specificamente nel ricorso anche gli atti processuali su cui si fonda e di trascriverli nella loro completezza, in ossequio al principio di autosufficienza, si assolve mediante indicazione della sede in cui essi sono rinvenibili (fascicolo d'ufficio o di parte), provvedendo anche alla loro individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, così come pervenuta alla Corte di cassazione, così da renderne possibile l'esame.

Ancora, Sez. 2, n. 17049/2015, Lombardo, Rv. 636133, ha ribadito che ove il ricorrente lamenti la mancata pronuncia del giudice d'appello su uno o più motivi di gravame, il requisito dell'autosufficienza resta violato ove nel ricorso non si riportino integralmente i motivi stessi, in modo da consentire alla Corte di verificare che le questioni non siano "nuove" e di valutarne la fondatezza, senza dover procedere all'esame dei fascicoli d'ufficio o di parte.

In tema di contenzioso tributario, Sez. 5, n. 02928/2015, Meloni, Rv. 634343, ha sancito l'inammissibilità del ricorso, per difetto del requisito in discorso, avverso la sentenza che abbia ritenuto correttamente motivato l'atto impositivo, ove il ricorrente non abbia riportato la motivazione di quest'ultimo, così precludendo alla Corte ogni valutazione. Analogamente, Sez. 5, n. 16010/2015, Bruschetta, Rv. 636268, ha sancito l'inammissibilità del ricorso per cassazione avverso la sentenza che abbia ritenuto legittima una cartella di pagamento, ove sia stata omessa la trascrizione del contenuto dell'atto impugnato, così non potendo il giudice di legittimità verificare la corrispondenza tra contenuto dello stesso e quanto asserito dal contribuente.

Ancora, Sez. 5, n. 14784/2015, Marulli, Rv. 636120, ha del pari evidenziato che il ricorrente, onde rispettare il principio dell'autosufficienza, deve indicare specificamente, a pena di inammissibilità, oltre al luogo in cui ne è avvenuta la produzione, gli atti e i documenti sui quali il ricorso si fonda mediante riproduzione diretta del contenuto che sorregge la censura oppure attraverso la riproduzione indiretta di esso, con specificazione della parte del documento cui corrisponde l'indiretta riproduzione.

Quanto ai poteri della Corte di cassazione, Sez. L, n. 04676/2015, Manna, Rv. 634811, ha ribadito che lo ius superveniens (nella specie, comportante un maggior credito risarcitorio per il lavoratore) è applicabile, anche d'ufficio, in sede di legittimità, a condizione che non rechi una reformatio in peius per il ricorrente, stante il principio dispositivo (art. 112 c.p.c.) e quello dell'interesse ad agire (art. 100 c.p.c.).

Sez. 5, n. 02180/2015, Cirillo, Rv. 634724, ha affermato che la Corte, quando decide nel merito, ai sensi dell'art. 384, comma 2, c.p.c., può anche affrontare la questione rimasta assorbita in appello, purchè essa sia stata riproposta con un ricorso incidentale ritualmente azionato.

Ancora sul tema, Sez. 2, n. 04975/2015, Matera, Rv. 635071, ha ribadito che la cassazione "sostitutiva", con pronuncia nel merito, è ammessa solo quando la controversia possa essere dcisa sulla base dei medesimi elementi di fatto che costituiscono il presupposto dell'erronea pronuncia in diritto, e non anche quando, per effetto della cassazione, si renda necessario decidere questioni non esaminate nella pregressa fase processuale con una decisione che, non valendo a sostituirne altra precedente, si configura come ulteriore rispetto a quella cassata.

In tema di questioni di giurisdizione, Sez. U, n. 08074/2015, D'Ascola, Rv. 634938, ha ribadito che le Sezioni Unite sono anche giudice del fatto, sicchè devono esaminare l'atto negoziale la cui valutazione incida sulla determinazione della giurisdizione.

La recente Sez. L, n. 21439/2015, Roselli, Rv. 637497, ha poi ribadito che, nel giudizio di legittimità, è precluso alla Corte il potere di accertare i fatti o anche solo la loro valutazione a fini istruttori, come anche dimostrato dall'intervento normativo più volte evidenziato circa la sindacabilità della motivazione.

In relazione agli effetti della cassazione, Sez. 3, n. 17213/2015, Frasca, Rv. 636436, ha ribadito risalente orientamento, secondo cui, in caso di cassazione della sentenza non definitiva, il giudizio di legittimità instaurato nelle more avverso la sentenza definitiva comporta, ove la prima statuizione abbia carattere pregiudiziale, l'automatica caducazione di quest'ultima, con conseguente inammissibilità del ricorso per cassazione pendente, svuotatosi di contenuto e di interesse.

Nel solco di Sez. U, n. 19980/2014, Rv. 632162, in ordine alla natura del termine per la proposizione della istanza di fissazione della udienza di cui all'art. 391, comma 3, c.p.c., la successiva Sez. 5, n. 16625/2015, Iofrida, Rv. 636311, ha ribadito che il decreto di cui all'art. 391, comma 1, c.p.c. ha la medesima funzione e il medesimo effetto (di attestazione che il processo di cassazione deve chiudersi perché si è verificato un fenomeno estintivo) che l'ordinamento processuale riconosce alla sentenza (o all'ordinanza) da adottare ove l'evento estintivo non coinvolga la controversia nella sua interezza, con la differenza che, mentre nei confronti dei detti provvedimenti è ammessa la revocazione ex art. 391 bis c.p.c., avverso il decreto presidenziale l'art. 391, comma 3, c.p.c., prevede solo un'istanza di fissazione di udienza collegiale per la trattazione del ricorso, da depositarsi nel termine, da ritenersi perentorio, salva la generale possibilità di rimessione in termini prevista dall'art. 153, comma 2, c.p.c., di dieci giorni dalla comunicazione del decreto, indipendentemente dal fatto che quest'ultimo rechi o meno una pronuncia sulle spese.

Un cospicuo numero di pronunce hanno riguardato il tema dei vizi denunciabili col ricorso.

Anzitutto, deve segnalarsi Sez. U, n. 09100/2015, Rordorf, Rv. 635452, che ha affermato che il fatto che con un unico motivo di ricorso si articolino più profili di doglianza, ciascuno dei quali idoneo ad essere prospettato come motivo autonomo, non implica l'inammissibilità dell'impugnazione, sufficiente essendo che la sua formulazione permetta alla parte di coglierne chiaramente il contenuto onde consentirne la confutazione analitica, alla stessa stregua di quanto avrebbe potuto fare se essi fossero stati enumerati singolarmente.

Anche Sez. L, n. 25386/2015, Esposito, Rv. 638085, in linea con l'orientamento "sostanzialista", ha affermato che, ove col ricorso sia denunciato vizio di motivazione ai sensi del art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. (nella specie, nel testo previgente), ma dal ricorso stesso sia chiaramente evincibile che si lamenti un vizio di omessa pronuncia, denunciabile ai sensi del n. 4 dell'articolo citato (nella specie, per mancata considerazione di un secondo contratto a termine in essere tra le parti, come da domanda originaria), nulla osta a siffatta riqualificazione della sussunzione, e ciò anche alla luce del principio iura novit curia, recepito nell'art. 113 c.p.c., nonché di quello, di derivazione sovranazionale, della cd. "effettività" della tutela giurisdizionale (insito nel diritto al giusto processo, sancito dall'art. 111 Cost.), come anche elaborato dalla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo.

Riguardo al vizio di violazione o falsa applicazione di norma di diritto, ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3), c.p.c., Sez. 6-L, n. 02150/2015, Arienzo, Rv. 634520, ha affermato che, ove il ricorrente impugni decisione di appello emessa a seguito di pregressa cassazione con rinvio affinchè il giudice del merito valuti i i profili risarcitori, qualora il giudice di rinvio abbia ritenuto preclusivo dell'esame demandatogli la sussistenza di giudicato interno, il preteso vizio della sentenza impugnata dev'essere fatto valere come omissione di pronuncia per violazione dell'art. 112 c.p.c. ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 4), c.p.c., e non già del n. 3), sicchè il ricorso così proposto va dichiarato inammissibile.

Ancora, Sez. 6-5, n. 00635/2015, Caracciolo, Rv. 634359, ha ribadito che la denuncia della violazione o falsa applicazione di norme di diritto, che in tesi inficia la sentenza impugnata, postula, pena l'inammissibilità, che vengano puntualmente indicate le norme asseritamente violate, ma anche che vengano rese specifiche argomentazioni tese a dimostrare in qual modo le affermazioni in diritto contenute nella sentenza stessa si pongano in contrasto con le norme che regolano la fattispecie o con l'interpretazione propugnata dalla dottrina o dalla prevalente giurisprudenza di legittimità.

Così, Sez. 3, n. 06902/2015, Pellecchia, Rv. 634989, ha ribadito che è onere del ricorrente indicare con specificità e completezza quale sia il vizio da cui si assume essere affetta la sentenza impugnata, sicchè è inammissibile il motivo di ricorso col quale il ricorrente lamenti la violazione di una serie di norme sostanziali "in relazione all'art. 360, comma 1, c.p.c.", senza precisare se intenda censurare la sentenza per motivi attinenti la giurisdizione o la competenza, per violazione di norme di diritto o per nullità del procedimento.

In linea con l'insegnamento di Sez. U, n. 17931/2013, la successiva Sez. 6-3, n. 19124/2015, Barreca, Rv. 636722, ha ribadito che ove col ricorso sia denunciata puramente e semplicemente "violazione e falsa applicazione di norme di diritto" ai sensi dell'art. 112 c.p.c., il ricorso è inammissibile, poiché il ricorrente non ha fatto alcun riferimento alle conseguenze che l'errore sulla legge processuale ha comportato, ossia la nullità della sentenza e/o del procedimento, insufficiente essendo la sola argomentazione sulle pretesa violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato.

Ancora, Sez. 6-2, n. 16644/2015, Giusti, Rv. 636168, ha ribadito che non può denunciarsi in cassazione ai sensi dell'art. 360, comma 1), n. 3), c.p.c., la violazione di circolari della P.A., trattandosi di atti interni privi di valenza normativa.

Sotto altro profilo, Sez. 1, n. 13086/2015, Nappi, Rv. 635730, ha ribadito che, quando si discuta della corretta interpretazione di norma di diritto, il giudizio del giudice di merito può risultare incensurabile anche se mal giustificato, poiché la decisione erroneamente motivata in diritto non è soggetta a cassazione, ma a correzione della motivazione, ex art. 384, comma 4, c.p.c., quando il dispositivo sia comunque corretto.

Sez. 6-L, n. 07941/2015, Fernandes, Rv. 635159, ha ribadito che quando si assuma che la sentenza di secondo grado, impugnata con ricorso ordinario per cassazione per "violazione di legge", è l'effetto di un errore di fatto risultante dagli atti del processo, il ricorso è inammissibile, essendo denunziato un tipico vizio revocatorio, che può essere fatto valere solo con lo specifico strumento della revocazione, disciplinato dall'art. 395 c.p.c., non potendo trasformarsi un errore revocatorio in errore di diritto.

In relazione all'error in procedendo, denunciabile a norma dell'art. 360, comma 1, n. 4), c.p.c., Sez. 5, n. 19410/2015, Iofrida, Rv. 636606, ha ribadito che la denuncia di tale vizio faculta la Corte ad esaminare direttamente gli atti del giudizio di merito, ma presuppone pur sempre che il ricorso, nel rispetto del principio di autosufficienza, riporti gli atti e i documenti sui quali esso si fonda, al fine di individuare esattamente in che termini si ponga il vizio processuale, così da consentire alla Corte di effettuare il controllo del regolare svolgimento del processo, senza procedere a verifiche generalizzate.

Ancora, sullo stesso tema, Sez. 1, n. 16164/2015, Nappi, Rv. 636503, ha precisato che in tal caso la Corte di cassazione è giudice anche del fatto, sicchè può accedere direttamente agli atti sui quali il ricorso è fondato e interpretare direttamente l'atto processuale (nella specie, atto d'appello, di cui era stata denunciata l'omessa pronuncia su un motivo), indipendentemente dalla motivazione esibita al riguardo.

La già citata Sez. 3, n. 22978/2015, Frasca, Rv. 637775, ha affermato che <<una nullità per inosservanza delle forme processuali e, dunque, una violazione di norma del procedimento, qualora si sia verificata, può essere apprezzata ai sensi del n. 4 dell'art. 360 c.p.c. come idoneo motivo di ricorso per cassazione solo se risulti che, qualora non si fosse verificata e la forma processuale prescritta fosse stata osservata, la decisione di merito non avrebbe potuto essere resa nel senso in cui lo è stata.>>.

In relazione al vizio di motivazione (avuto riguardo all'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. nel testo ante riforma), Sez. 1, n. 03270/2015, Di Virgilio, Rv. 634408, ha ribadito che il vizio di contraddittorietà della motivazione ricorre solo in presenza di argomentazioni contrastanti e tali da non permettere di comprendere la ratio decidendi che sorregge il decisum adottato, per cui non sussiste motivazione contraddittoria quando, dalla lettura della sentenza, non sussista alcuna incertezza su quella che è stata la volontà del giudice. In applicazione del medesimo principio, Sez. 3, n. 13318/2015, Vivaldi, Rv. 635910, ha escluso sussistere contraddittorietà della motivazione laddove il giudice d'appello, dopo aver affermato l'infondatezza del gravame, lo abbia parzialmente accolto, giacchè la lettura della sentenza, nella specie, non lasciava alcun dubbio sull'effettiva volontà del giudicante.

Sez. 6-5, n. 01414/2015, Di Blasi, Rv. 634358, ha ribadito che spetta al giudice del merito la valutazione degli elementi probatori, che non può essere sindacata in cassazione se non sotto il profilo della congruità della motivazione.

Ancora, Sez. L, n. 00066/2015, Manna, Rv. 634076, ha affermato che la mancata ammissione di prova testimoniale può essere denunciata in sede di legittimità per vizio di motivazione, in ordine all'attitudine dimostrativa di circostanze rilevanti ai fini del decidere.

Con specifico riferimento al testo della norma in dicorso come modificato dal d.lgs. n. 40 del 2006, applicabile ratione temporis, Sez. 3, n. 17037/2015, Frasca, Rv. 636317, ha affermato che il riferimento al <<fatto controverso e decisivo per il giudizio>> implicava che la motivazione della "quaestio facti" fosse affetta non da mera contraddittorietà, insufficienza o mancata considerazione, bensì da vera e propria insostenibilità logica della motivazione.

Ancora, Sez. 1, n. 10749/2015, Genovese, Rv. 635564, ha affermato che, ove il ricorrente abbia denunciato il travisamento della prova, la struttura del ragionamento del giudice del merito può essere travolta solo dall'elemento probatorio che sia stato ritualmente acquisito e non valutato, poiché il travisamento implica non già un'erronea valutazione dei fatti, ma la constatazione che quell'elemento probatorio utilizzato dal giudice in sentenza è specificamente contraddetto da uno specifico atto processuale.

Quanto al cd. overruling (che consiste nel mutamento di precedente consolidata interpretazione della norma processuale), Sez. U, n. 10453/2015, Chiarini, Rv. 635453, ha precisato che, alla luce dell'indirizzo inaugurato dalla sentenza n. 7607 del 2010 delle Sezioni Unite, secondo cui il termine breve per impugnare le sentenze del Tribunale regionale delle acque pubbliche decorre dalla notifica della copia integrale del dispositivo, senza dover attendere la previa registrazione della sentenza (come invece richiesto dal precedente indirizzo), deve ritenersi comunque tempestivamente proposto il ricorso, entro il termine lungo di cui all'art. 327 c.p.c., allorquando la notifica sia intervenuta prima del detto mutamento di giurisprudenza.

Relativamente al regime delle spese, Sez. 3, n. 00817/2015, Rossetti, Rv. 634642, in controversia introdotta in primo grado in epoca antecedente al 4 luglio 2009, ha affermato che nel giudizio di cassazione si configura un'ipotesi di colpa grave, tale da legittimare l'irrogazione dell'ulteriore somma di cui all'art. 385, comma 4, c.p.c. (nel testo applicabile ratione temporis), quando la parte abbia agito o resistito con la coscienza dell'infondatezza della domanda o dell'eccezione, o comunque senza aver adoperato la normale diligenza (nella specie, i ricorrenti soccombenti pretendevano di ricondurre alla simulazione del contratto l'ipotesi di contrasto tra la sua qualificazione formale e la volontà delle parti). Nello stesso senso si pone la successiva Sez. 3, n. 04930/2015, Rossetti, Rv. 634773, che ha precisato che sostenere una tesi palesemente infondata ha il significato di non intelligere quod omnes intelligunt.

Sempre sul tema delle spese, ma avuto riguardo al regime introdotto dall'art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall'art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228, Sez. 6-2, n. 13636/2015, Giusti, Rv. 635682, ha affermato che la "ratio" della norma, che pone a carico del ricorrente rimasto soccombente l'obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, va individuata nella finalità di scoraggiare le impugnazioni dilatorie o pretestuose, sicchè tale meccanismo sanzionatorio si applica per l'inammissibilità originaria del gravame (nella specie, ricorso per cassazione) ma non per quella sopravvenuta (nella specie, per sopravvenuto difetto di interesse).

La successiva Sez. 6-3, n. 14515/2015, Carluccio, Rv. 636018, ha precisato che il predetto obbligo di versamento si applica ai procedimenti iniziati in data successiva al 30 gennaio 2013, dovendosi aver riguardo al momento in cui la notifica del ricorso per cassazione si è perfezionata, con la ricezione dell'atto da parte del destinatario, sicchè, in caso di ricorso per cassazione indirizzato a due intimati, è sufficiente, ad escludere l'applicabilità del doppio contributo, che la ricezione dell'atto sia avvenuta anche per solo uno di essi, in data anteriore al 30 gennaio, posto che la notifica del ricorso ad una delle parti è condotta già sufficiente per l'instaurazione del procedimento dinanzi alla Corte.

Relativamente al giudizio di rinvio, Sez. 6-2, n. 04290/2015, Manna, Rv. 634729, ha affermato che nell'ipotesi di rinvio cd. improprio (o restitutorio) da parte della Corte di cassazione, il giudice di rinvio – non essendosi dapprima pronunciato sul merito della controversia – può esaminare tutte le questioni ritualmente proposte, ove non correlate al principio di diritto enunciato e agli effetti che da questo conseguono sulla decisione impugnata.

Nello stesso senso, la recentissima Sez. 3, n. 24336/2015, Pellecchia, Rv. 637778, nel richiamarsi ad un orientamento risalente, ha precisato che la contumacia del convenuto nel giudizio di rinvio non preclude l'esame delle eccezioni tempestivamente sollevate (e riproposte in appello), in quanto la contumacia non implica rinuncia alle eccezioni stesse, persistendo anzi il dovere del giudice del rinvio di pronunciare su di esse, ove in precedenza la relativa pronuncia sia rimasta assorbita.

Con specifico riferimento al rito del lavoro, Sez. L, n. 04979/2015, Maisano, Rv. 634609, ha affermato che l'eccezione di estinzione per tardiva riassunzione dinanzi al giudice del rinvio va sollevata in sede di costituzione prima dell'udienza di discussione ex art. 416 c.p.c., così dovendo intendersi la locuzione <<prima di ogni difesa>>, anche alla luce del principio di ragionevole durata del processo.

Sotto altro profilo, sez. 6-L, n. 01995/2015, Pagetta, Rv. 634291, ha ribadito che l'efficacia vincolante della sentenza di cassazione con rinvio presuppone la permanenza della disciplina normativa in virtù della quale è stato affermato il principio di diritto, sicchè, in caso di sua successiva abrogazione o modifica per effetto di ius superveniens, detta efficacia viene meno.

Sempre sull'efficacia vincolante della sentenza di cassazione, Sez. 1, n. 16171/2015, Nappi, Rv. 636345, ha ribadito che essa preclude la rilevabilità del giudicato (sia interno che esterno) ove detta questione sia con essa incompatibile.

Sotto connessa ma diversa angolazione, Sez. 6-5, n. 18600/2015, Rv. 636302, ha ribadito la natura di "processo chiuso" del giudizio di rinvio, con la conseguenza che le parti non possono avanzare richieste diverse da quelle già prese, né formulare difese che, per la loro novità, alterino il thema decidendum ovvero evidenziano un fatto ex lege ostativo all'accoglibilità dell'avversa pretesa, la cui affermazione sia in contrasto con il giudicato implicito ed interno, sì da porre nel nulla gli effetti intangibili della sentenza di cassazione ed il principio di diritto in essa affermato non in via astratta, ma ai fini della decisione del caso concreto.

Ancora riguardo al rito del lavoro, Sez. 6-L, n. 02729/2015, Garri, Rv. 634287, ha affermato che anche in sede di rinvio è possibile produrre nuovi documenti, in deroga al divieto ex art. 437 c.p.c., se sussista l'indispensabilità ai fini della decisione della causa.

Quanto al regime delle spese giudiziali, Sez. 3, n. 15868/2015, Cirillo, Rv. 636370, ha affermato che la parte che, dopo essere rimasta soccombente nei due gradi di giudizio, resti vittoriosa all'esito del giudizio di rinvio, ha diritto alla rifusione delle spese non solo per quest'ultimo e per quello di legittimità, ma anche per i due precedenti giudizi di merito, sempre che ne abbia fatto richiesta.

Sez. 3, n. 07710/2015, Spirito, Rv. 635098, ha poi negato l'ammissibilità dell'intervento volontario nel giudizio di rinvio, ove il terzo non versi in una delle ipotesi di cui all'art. 404 c.p.c. Nello stesso senso, riguardo a giudizio di rinvio conseguente ad annullamento della sentenza penale ai soli effetti civili, Sez. 3, n. 07175/2015, Travaglino, Rv. 635029, ha ribadito che deve escludersi l'ammissibilità dell'intervento del terzo che sia rimasto estraneo dal processo penale, se non nei limiti in cui egli deduca la titolarità di un diritto autonomo, tale da legittimare la proposizione di opposizione di terzo ex art. 404 c.p.c.

6. Revocazione.

Riguardo ai rapporti tra giudizio di cassazione e quello di revocazione avverso la stessa sentenza, secondo Sez. 3, n. 03362/2015, Scarano, Rv. 634644, la riattivazione del primo – sospeso in pendenza del secondo – non necessita di istanza di riassunzione ex art. 297 c.p.c., poiché il giudizio di cassazione è dominato dall'impulso d'ufficio, il cui concreto esercizio può essere sollecitato dalla parte interessata anche con una mera segnalazione informale della cessazione della causa di sospensione.

In relazione al caso di contemporanea pendenza di due ricorsi per cassazione avverso la sentenza di merito in grado d'appello e contro quella pronunciata dallo stesso giudice d'appello nel successivo giudizio di revocazione, Sez. 3, n. 10534/2015, Ambrosio, Rv. 635610, ha statuito che essi devono essere riuniti in applicazione analogica dell'art. 335 c.p.c., stante la connessione esistente tra le due pronunce.

Circa la proposizione della domanda di revocazione, Sez. 5, n. 01554/2015, Greco, Rv. 634616, ha confermato pacifico orientamento secondo cui l'espressione <<stesso giudice>>, di cui all'art. 398, comma 1, c.p.c., designa lo stesso ufficio giudiziario e non già le stesse persone fisiche autrici della sentenza revocanda, e neanche la stessa sezione.

Riguardo ai singoli motivi di revocazione, la già citata Sez. 3, n. 03362/2015, Scarano, Rv. 634645, ha ribadito che l'ipotesi di cui all'art. 395, n. 3), c.p.c., presuppone la preesistenza del documento rispetto alla decisione impugnata, ossia che esso sia stato recuperato solo in epoca successiva, irrilevante essendo che il documento stesso faccia riferimento a fatti antecedenti alla sentenza, sicchè l'ipotesi di revocazione in discorso non può utilmente essere invocata nel caso in cui il documento sia di formazione ad essa successiva.

Ancora, circa l'errore di fatto, Sez. 6-5, n. 00321/2015, Cosentino, Rv. 634143, ha ribadito che esso deve consistere in una falsa percezione di quanto emerge dagli atti, ossia in una svista materiale su circostanze decisive, emergenti direttamente dagli atti con carattere di immediatezza e rilevabilità, dovendo escludersi ogni apprezzamento in ordine alla valutazione in diritto delle risultanze processuali e, quindi, come nella specie, la denunciabilità della erronea presupposizione dell'inesistenza di un giudicato.

Sez. L, n. 00156/2015, D'Antonio, Rv. 633849, ha poi escluso che il decreto di archiviazione emesso dal giudice penale ex art. 409 c.p.p., per la sua natura di atto giudiziale non definitivo, possa integrare accertamento di falsità di una prova che possa dar luogo a revocazione ex art. 395, n. 2), c.p.c.

Per quanto concerne, infine, la revocazione della sentenza della Corte di cassazione, Sez. 6-5, n. 04456/2015, Iacobellis, Rv. 634487, ha precisato che l'errore di fatto che può legittimarne la proposizione, ai sensi dell'art. 395, n. 4), c.p.c., deve presentare i caratteri dell'evidenza e dell'obiettività, e deve concernere gli atti "interni" al giudizio dinanzi alla stessa Corte svolto, ossia quelli che essa esamina direttamente nell'ambito del motivo di ricorso o delle questioni rilevabili d'ufficio.

Così, Sez. 6-3, n. 12655/2015, Amendola, Rv. 635883, ha negato sussistere i caratteri dell'evidenza e dell'obiettività del preteso errore nella circostanza che la Corte non abbia tenuto conto, nella decisione, di una tabella in fieri del Tribunale di Milano in tema di danno biologico, pur richiamata dalla parte, trattandosi di una tabella ancora inesistente.

Ancora, Sez. 6-3, n. 10517/2015, De Stefano, Rv. 635606, ha rilevato che ove la Corte abbia dichiarato l'improcedibilità del ricorso per carenza della copia notificata della sentenza impugnata, la prova della sua presenza nel fascicolo può essere data dimostrando l'epressa menzione dell'atto nel ricorso notificato, ovvero sulla base di altri elementi, a condizione che questi non rientrino nell'esclusiva disponibilità della parte che sia onerata della relativa prova e, quindi, diversi dall'indice di deposito degli atti vistato dalla cancelleria.

Ancora sul tema, Sez. 6-3, n. 15608/2015, De Stefano, Rv. 636653, ha precisato che la pretermissione di una doglianza di giudicato esterno, intervenuto dopo la proposizione del ricorso ma denunciato in seno alla memoria ex art. 378 c.p.c. costituisce vizio revocatorio ai sensi dell'art. 395, n. 4), c.p.c.

Del pari, per Sez. 5, n. 17163/2015, Bielli, Rv. 636612, costituisce errore revocatorio l'aver omesso la Corte di cassazione di esaminare un motivo con cui si denuncia la mancata valutazione di una doglianza relativa alla lesione del diritto di difesa. Analogamente, per Sez. L, n. 14420/2015, Nobile, Rv. 636456, la decisione della Corte di cassazione che si fondi sull'asserita mancanza della notifica del ricorso è affetta da vizio revocatorio ove detta notifica risulti invece dagli atti.

Non costituisce invece vizio denunciabile ai sensi dell'art. 391 bis c.p.c., secondo Sez. 6-5, n. 06669/2015, Iacobellis, Rv. 635197, l'accertamento circa l'esistenza di overruling, trattandosi di tipica valutazione di diritto;né tantomeno è ammissibile il ricorso per cassazione per revocazione, proposto ai sensi degli artt. 395, n. 4, e 391 bis c.p.c., avverso sentenza di cassazione con rinvio, giacchè ogni errore revocatorio può essere fatto valere nel giudizio di rinvio (in tal senso, nel solco di consolidato orientamento, Sez. 6-3, n. 20393/2015, De Stefano, Rv. 637491).

Sez. 6-3, n. 23832/2015, De Stefano, Rv. 637768, ha poi ribadito che la mancata notifica dell'avviso di fissazione di udienza ai sensi dell'art. 377 c.p.c. non costituisce vizio revocatorio denunciabile ex artt. 395, n. 4, e 391 bis c.p.c., giacchè, pur trattandosi di error in procedendo, la mancata conseguente partecipazione all'udienza da parte del difensore non può eziologicamente ricollegarsi al contenuto della sentenza.

Ancora, sull'argomento, in tema di contenuto-forma del ricorso, vanno segnalate Sez. 1, n. 16224/2015, Bisogni, Rv. 636338, che ha ribadito come il ricorso per revocazione ex art. 391 bis c.p.c. debba essere sottoscritto da difensore minuto di procura speciale, inutilizzabile essendo a tal fine quella rilasciata per il prededente ricorso per cassazione, nonché Sez. U, n. 13863/2015, D'Ascola, Rv. 635785, che ha confermato precedente orientamento secondo cui detto ricorso deve contenere, a pena di inammissibilità, l'indicazione del motivo della revocazione e l'esposizione dei fatti di causa rilevanti, come rispettivamente previsto dagli artt. 398, comma 2, e 366, n. 3), c.p.c.

Infine, Sez. U, n. 23833/2015, Di Iasi, Rv. 637609, ha escluso che col ricorso per revocazione possa denunciarsi il vizio di cui all'art. 395, n. 5, c.p.c., quand'anche la sentenza sia stata resa ai sensi dell'art. 384, comma 2, c.p.c., il vizio di violazione di giudicato non essendo denunciabile, relativamente alla revocazione delle sentenza della Suprema Corte, per consapevole scelta del legislatore.

7. Le altre impugnazioni.

Un breve cenno, infine, meritano alcune pronunce concernenti altri mezzi di impugnazione.

Anzitutto, in tema di opposizione di terzo, Sez. U, n. 01238/2015, Frasca, Rv. 634087, ha affermato che <<Il litisconsorte necessario pretermesso (come anche il terzo titolare di diritto autonomo e incompatibile, il falsamente rappresentato e il titolare di status incompatibile con quello accertato tra altre parti), che ai sensi dell'art. 404 c.p.c. è ammesso all'opposizione ordinaria avverso la sentenza resa in un giudizio inter alios, può anche proporre una azione di accertamento autonoma della sua posizione, ma, sino al passaggio in giudicato della sentenza che riconosca la situazione come da lui dedotta, gli è preclusa ogni tutela, anche cautelare, avverso l'efficacia esecutiva o gli affetti esecutivi o accertativi derivanti dalla sentenza inter alios non opposta>>.

Con specifico riferimento alla opposizione di terzo cd. revocatoria, la recentissima Sez. 3, n. 24631/2015, D'Amico, Rv. 638035, ha ribadito che <<La sentenza che accoglie l'opposizione di terzo revocatoria ex art. 404, secondo comma, c.p.c., proposta da un avente causa o da un creditore di una delle parti avverso la sentenza passata in giudicato o comunque esecutiva (ovvero il decreto ingiuntivo divenuto esecutivo ai sensi dell'art. 647 c.p.c.), quando sia l'effetto di dolo o collusione a suo danno (e quindi pregiudichi un suo diritto o, comunque, una sua situazione giuridica favorevole), non comporta l'inefficacia del precedente giudicato opposto, nei soli confronti del terzo opponente, mantenendolo fermo nel rapporto tra le parti originarie, bensì la totale eliminazione della sentenza (o del decreto) passata in giudicato nei confronti delle parti del processo originario, con effetto riflesso e consequenziale nei confronti del terzo opponente>>.

Infine, Sez. L, n. 16359/2015, Amendola, Rv. 636347, ha ribadito che il principio secondo cui la sentenza che abbia statuito solo sulla competenza dev'essere impugnata col regolamento necessario di competenza si estende anche alle questioni circa l'ammissibilità e la tempestività dell'eccezione di incompetenza, o sul tempestivo rilievo d'ufficio della medesima.

  • spese processuali
  • licenziamento
  • giurisdizione del lavoro
  • prova

CAPITOLO XXXVIII

IL PROCESSO DEL LAVORO E PREVIDENZIALE

(di Giovanni Fanticini, Milena D'Oriano )

Sommario

1 Questioni di giurisdizione. - 2 Questioni di competenza. - 3 Varie questioni di rito. - 3.1 Presupposti processuali. - 3.2 Thema decidendum. - 3.3 Mezzi istruttori. - 3.4 Inattività delle parti. - 3.5 Decisione e giudicato. - 4 Il processo in primo grado. - 5 Le impugnazioni. - 6 L'impugnazione dei licenziamenti e il cd. rito Fornero. - 7 Profili specifici del processo in materia di previdenza. - 7.1 La competenza territoriale. - 7.2 La consulenza tecnica. - 7.3 I mezzi di prova. - 7.4 Il regime delle spese. - 7.5 L'accertamento tecnico preventivo ex art. 445 bis c.p.c.

1. Questioni di giurisdizione.

Le pronunce in tema di giurisdizione attengono prevalentemente al riparto tra giudice ordinario e giudice amministrativo o contabile su vicende riguardanti il lavoro pubblico contrattualizzato e le pensioni dei pubblici dipendenti.

È stata data ulteriore conferma al consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui - una volta stabilito che con la data del 30 giugno 1998 coincide il discrimine temporale per il passaggio dalla giurisdizione amministrativa a quella ordinaria (art. 45, comma 17, del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80, poi trasfuso nell'art. 69, comma 7, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165) - la giurisdizione spetta, di regola, al giudice ordinario, per ogni questione che riguardi il periodo del rapporto successivo alla predetta data o che parzialmente investa anche il periodo precedente qualora <<risulti essere sostanzialmente unitaria la fattispecie dedotta in giudizio>> e, in via di eccezione, al giudice amministrativo, per le sole questioni che riguardino unicamente il periodo del rapporto compreso entro la data suddetta (Sez. U, n. 23459/2015, Napoletano; in precedenza; Sez. U, n. 20726/2012, Amoroso, Rv. 624043).

Pertanto, per effettuare il corretto riparto di competenza giurisdizionale occorre individuare il momento storico in cui si sono verificati i fatti materiali e/o le circostanze giuridicamente rilevanti dedotte nella controversia e accertare se gli stessi integrino una <<fattispecie unitaria>> (come avviene - secondo Sez. U, n. 23459/2015, Napoletano, - quando la causa ha ad oggetto la spettanza della retribuzione ex art. 2126 c.c. per un rapporto di lavoro pubblico svolto "a cavallo" del 30 giugno 1998).

Diversamente, la domanda di condanna dell'ente pubblico al risarcimento del danno conseguente alla mancata integrazione del trattamento previdenziale liquidato all'atto della cessazione del rapporto (quest'ultima anteriore al 30 giugno 1998 e, quindi, inerente a rapporto integralmente esaurito nel periodo pregresso) - in quanto attinente all'omesso versamento nell'ambito di una forma di previdenza interna a carattere aziendale - può solo genericamente e latamente definirsi "previdenziale" (in relazione alla sua funzione), trattandosi in realtà di un <<accantonamento di una parte della retribuzione a fini previdenziali>>;la diversa natura della contribuzione de qua rispetto a quella dei contributi previdenziali obbligatori e la stretta relazione tra la prestazione retributiva e il rapporto di impiego determinano la devoluzione della controversia - avente ad oggetto situazioni giuridiche soggettive interamente maturate prima del 30 giugno 1998 - al giudice del rapporto e, cioè al giudice amministrativo (Sez. U, n. 10183/2015, Napoletano, Rv. 635333; del tutto analogo è il precedente di Sez. U, n. 21554/2009, Morcavallo, Rv. 609707).

La pronuncia precisa altresì che solo quando la prestazione è dovuta da un ente preposto alla previdenza obbligatoria nell'ambito di un rapporto previdenziale - che trova fonte esclusiva nella legge e ha causa, soggetti e contenuto diversi rispetto al rapporto di lavoro (il quale è mero presupposto di fatto del rapporto previdenziale) - la giurisdizione spetta al giudice ordinario anche quando il lavoratore sia un pubblico impiegato, salvo il caso di giurisdizione della Corte dei conti.

In base ai medesimi criteri di ripartizione - e, cioè, alla collocazione della vicenda concretamente analizzata nel <<periodo del rapporto di lavoro successivo al 30 giugno 1998>> o in quello antecedente - è stata riconosciuta, invece, la giurisdizione ordinaria relativamente alla domanda giudiziale di accertamento del diritto al riscatto degli anni universitari per fini pensionistici, sebbene l'istanza amministrativa risalisse a prima del 30 giugno 1998: a tale data <<la "questione" relativa alla sussistenza del diritto in questione era "aperta" ... in quanto erano state formulate istanze ma l'amministrazione non si era ancora espressa con un provvedimento di accoglimento o di rigetto, né erano scaduti termini collegati ad un possibile silenzio rigetto>>, dato che la richiesta della lavoratrice era stata smarrita dalla P.A. e quest'ultima l'aveva respinta soltanto nel 2001 (Sez. U, n. 08069/2015, Curzio, Rv. 635082).

In conformità con altre pronunce (Sez. U, n. 10509/2010, Morcavallo, Rv. 612908; Sez. U, n. 25039/2013, Di Cerbo, Rv. 628057), la stessa sentenza ha escluso la giurisdizione della Corte dei conti in materia pensionistica nei casi in cui si controverte della inclusione nella base di calcolo del trattamento previdenziale di elementi volti ad assicurare un trattamento integrativo delle prestazioni.

Al contrario, la giurisdizione esclusiva del giudice contabile riguardo alle pensioni dei pubblici dipendenti (ai sensi dell'art. 13 del r.d. 12 luglio 1934, n. 1214) concerne anche l'azione di rivalsa svolta dalla P.A. per i ratei erogati in misura superiore al dovuto a causa di errate comunicazioni trasmesse dalla datrice di lavoro (ex art. 8, comma 2, del d.P.R. 8 agosto 1986, n.538); infatti, è <<il contenuto pubblicistico del rapporto dedotto in giudizio l'elemento di discrimine della giurisdizione, anche se la vicenda specifica riguardi non già il pagamento del debito di pensione ma la restituzione di somme percepite allo stesso titolo>> (Sez. U, n. 11769/2015, Mammone, Rv. 635485).

Ai fini del riparto di giurisdizione non assume rilievo l'incidenza di una condotta sindacale sulle situazioni soggettive individuali dei pubblici impiegati, perché le controversie promosse dalle associazioni sindacali ai sensi dell'art. 28 st.lav. sono sempre assoggettate alla giurisdizione del giudice ordinario; difatti, abrogando l'art. 28, commi 6 e 7, della legge 20 maggio 1970, n. 300, il legislatore ha inequivocamente attribuito al giudice ordinario le controversie relative a comportamenti antisindacali delle pubbliche amministrazioni (ex art. 63, comma 3, d.lgs. n. 165 del 2001), ancorché sia richiesta la rimozione di un provvedimento incidente su posizioni individuali regolate con atti amministrativi (Sez. U, n. 02359/2015, Bandini, Rv. 634259). La sentenza sottolinea - richiamando Corte cost., 24 aprile 2003, n. 143 - che non è ipotizzabile un contrasto di giudicati in caso di coesistenza di due controversie, l'una promossa dal sindacato, innanzi al giudice ordinario, per la repressione del comportamento antisindacale e l'altra promossa, innanzi al giudice amministrativo, dal dipendente ancora in regime di lavoro pubblico per contestare la legittimità del provvedimento incidente sul suo rapporto di impiego: o si ricorre ad <<una prevenzione del paventato conflitto di giudicati, attraverso il coordinamento, ex art. 295 del codice di procedura civile, dell'azione individuale con quella promossa dal sindacato>>, oppure si dichiara <<la radicale negazione di ogni possibilità di conflitto pratico di giudicati, riconoscendo la totale autonomia delle due azioni in quanto volte a tutelare distinte situazioni sostanziali>>.

Infine, non è riconducibile al pubblico impiego il rapporto instaurato con il commissario straordinario di un ente pubblico in quanto l'incarico - seppur con attribuzione di funzioni pubbliche - ha natura onoraria, difettando una procedura concorsuale per la scelta del soggetto in base a elementi tecnico-amministrativi, l'inserimento nell'apparato organizzativo della P.A., la soggezione allo statuto dei pubblici dipendenti, il carattere retributivo del compenso e la durata tendenzialmente indeterminata del rapporto (al contrario, nel caso del funzionario onorario, la nomina è politico-discrezionale, l'inserimento nell'amministrazione è meramente funzionale all'incarico, la disciplina del rapporto scaturisce dall'atto di designazione, il compenso è di tipo indennitario e l'incarico è solo temporaneo); conseguentemente, <<la giurisdizione va determinata, in applicazione dei criteri generali, tenendo conto delle sostanziali situazioni giuridiche soggettive, di diritto o di interesse legittimo, fatte valere in giudizio>> (Sez. U, n. 17591/2015, Di Cerbo, Rv. 636103; nel caso, la S.C. ha ritenuto che la domanda svolta nei confronti del commissario straordinario dell'ente per la ripetizione di quanto indebitamente versatogli per effetto di delibere nulle spettasse alla giurisdizione del giudice ordinario, essendo la situazione sostanziale dedotta inquadrabile come diritto soggettivo).

Attiene in senso lato a questioni di giurisdizione - e, segnatamente, alla portata del Regolamento CE n. 44/2001 concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l'esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale - la decisione di Sez. L, n. 09210/2015, Manna, Rv. 635293: nel confermare l'esecutività conferita ad una sentenza di altro paese dell'Unione Europea contenente la condanna di INPS al pagamento delle prestazioni previste in caso di insolvenza del datore di lavoro, la S.C. ha statuito che le predette prestazioni ex art. 2 della legge 29 maggio 1982, n. 297, pur avendo natura previdenziale, non rientrano nella materia della <<sicurezza sociale>>, sottratta all'operatività della disciplina dettata del Regolamento comunitario in tema di giurisdizione e circolazione delle decisioni.

2. Questioni di competenza.

È pacifico che non pone una questione di competenza in senso proprio - attenendo invece alla ripartizione degli affari all'interno dello stesso ufficio e al rito prescritto per lo svolgimento del processo - l'ordinanza del giudice del lavoro che dichiara la propria incompetenza per materia in favore di una diversa sezione del medesimo tribunale.

In contrasto con altre recenti decisioni (Sez. 6-3, n. 05313/2014, Armano, Rv. 631008, e, in motivazione, anche Sez. 6-L, n. 09553/2014, Marotta), la Suprema Corte ha perciò reputato inammissibile il regolamento di competenza avverso il provvedimento declinatorio della competenza, non potendosi validamente invocare - per ammettere il gravame ex art. 42 c.p.c. - il principio dell'apparenza, il quale <<è idoneo a regolare la scelta del mezzo dell'impugnazione, ma ai fini dell'impugnabilità o meno del provvedimento vale il criterio cd. "della prevalenza della sostanza sulla forma degli atti processuali", secondo cui ciò che definisce il regime da applicare all'atto processuale, anche ai fini della relativa impugnazione, è la sua sostanza e non la sua forma>> (Sez. 6-3, n. 08905/2015, Ambrosio, Rv. 635212).

La ripartizione delle controversie tra le sezioni specializzate in materia di proprietà intellettuale ed industriale di cui al d.lgs. 27 giugno 2003, n. 168 ed il giudice del lavoro determina, invece, l'insorgenza di una vera e propria questione di competenza, con conseguente ammissibilità del regolamento di competenza (così Sez. 6-L, n. 15619/2015, Arienzo, Rv. 636585; contra, Sez. 6-1, n. 11448/2014, Bernabai, Rv. 631473): nella motivazione si spiega che proprio in base alla terminologia impiegata dal legislatore i compiti assegnati alle sezioni specializzate sono a queste espressamente attribuiti sotto il profilo della "competenza", diversamente da quanto stabilito per il giudice del lavoro, al quale è riconosciuta un'autonoma funzione nell'ambito della competenza del tribunale; inoltre, diversamente opinando si realizzerebbe un'asimmetria del sistema qualora la declaratoria di competenza sia emessa da un tribunale presso il cui distretto non risulti dislocata alcuna sezione specializzata, ovvero, per contro, tale sezione sia invece istituita, dato che solo nel primo caso sarebbe proponibile il rimedio del regolamento ex art. 42 c.p.c.

Nello specifico caso, la S.C. ha regolato la competenza per materia attribuendola al giudice del lavoro, poiché la responsabilità del direttore generale di una società per azioni era dedotta in relazione a presunte inadempienze nello svolgimento delle sue mansioni (le scelte assunte avevano comportato l'errato investimento di titoli della società) e, cioè, nell'ambito del rapporto di lavoro, al quale esplicitamente si riferisce l'art. 2396 c.c., che fa <<salve le azioni esercitabili in base al rapporto di lavoro>> e, così, le distingue dalla disciplina relativa alle altre responsabilità dei vertici aziendali (Sez. 6-L, n. 15619/2015, Arienzo, Rv. 636586).

I criteri per la determinazione della competenza territoriale nelle controversie disciplinate dall'art. 409 c.p.c. sono rigidamente determinati dall'art. 413 c.p.c., ma solo i commi 2, 3 e 4 della predetta disposizione - relativi ad un rapporto di lavoro (privato) già costituito - prevedono una competenza per territorio inderogabile (nel luogo dove è sorto il rapporto, nel foro dell'azienda o della dipendenza, dove il lavoratore parasubordinato ha il proprio domicilio), mentre il penultimo comma individua - come foro sussidiario e non alternativo - quello generale delle persone fisiche ex art. art. 18 c.p.c. (cioè, il luogo di residenza, domicilio o dimora del convenuto e, in mancanza, dell'attore); nonostante l'espresso richiamo del solo art. 18 c.p.c., è invocabile, sempre sussidiariamente, anche il foro generale della persone giuridiche ex art. 19 c.p.c.

Muovendo da questi presupposti e dalla consolidata affermazione giurisprudenziale secondo cui non può configurarsi eccezione alla competenza territoriale inderogabile per realizzare un simultaneus processus su cause oggettivamente connesse tra parti diverse (ex art. 33 c.p.c.), Sez. 6-L, n. 11076/2015, Mancino, Rv. 635525, ha rilevato che il divieto di applicazione dell'art. 33 c.p.c. non riguarda il criterio di competenza sussidiario ex artt. 18 e 19 c.p.c.; conseguentemente, <<l'attore, se promuove una causa tenendo conto, per l'individuazione della competenza per territorio, delle disposizioni contenute nei suddetti art. 413, commi 2, 3 e 4 può bene adire contemporaneamente il medesimo giudice con riferimento ad una seconda causa, che sia connessa con la prima, a prescindere dal luogo della residenza o del domicilio o della sede della parte, persona fisica o giuridica, convenuta in giudizio>> (nella fattispecie, si è statuito che il lavoratore, licenziato a fronte dell'impegno di una società subentrante nell'appalto di procedere alla sua assunzione poi non effettuata, può adire il tribunale del luogo dove si trova la dipendenza aziendale cui era addetto qualora agisca contemporaneamente nei confronti della subentrante per la costituzione del rapporto di lavoro - causa altrimenti soggetta al criterio di competenza ex art. 19 c.p.c. - e, in via subordinata, nei confronti della ex datrice di lavoro per l'annullamento del licenziamento).

È uniforme l'orientamento - ripreso anche nella pronuncia da ultimo citata - secondo cui i fori alternativi individuati in base ai criteri di competenza dell'art. 413, comma 2, c.p.c. operano solo con riguardo alle pretese inerenti ad un rapporto di lavoro già costituito, mentre le controversie promosse per l'adempimento di un obbligo contrattuale di assunzione attraverso la costituzione di un nuovo rapporto di lavoro devono essere radicate nel foro generale di cui all'art. 18 c.p.c. (e, implicitamente, all'art. 19 c.p.c.).

Tuttavia, le decisioni relative all'assunzione di lavoratori invalidi avviati obbligatoriamente e al necessario adattamento dell'art. 413 c.p.c. (Sez. U, n. 11043/2001, Evangelista, Rv. 548960) costituiscono espressione di un principio generale, in base al quale - nel caso in cui un rapporto di lavoro si configuri come presupposto per il sorgere del diritto alla costituzione di un successivo rapporto - i criteri di identificazione della competenza territoriale vanno riferiti al rapporto in essere, stante il collegamento funzionale fra i rapporti in questione (Sez. 6-L, n. 02152/2015, Arienzo, Rv. 634521; nella fattispecie, il ricorrente, già dipendente di un istituto bancario, era stato trasferito ad altro istituto di credito a seguito di trasferimento di ramo d'azienda ex art. 2112 cod. civ.).

L'equazione, ai fini dell'individuazione dei criteri di competenza territoriale, fra rapporto di lavoro già costituito e rapporto di lavoro costituendo (o virtuale) determina un'erosione della portata applicativa dell'art. 413, comma 7, c.p.c., sia nel lavoro privato (rispetto ai criteri ex art. 413, comma 2, c.p.c.), sia nel rapporto di pubblico impiego (ovviamente in riferimento all'art. 413, comma 5, c.p.c.).

Perciò - sulla scorta del menzionato principio generale e in relazione a domande di docenti precari volte ad ottenere, in base al d.m. 8 aprile 2009, n. 42, l'iscrizione nelle graduatorie permanenti costituite in diverse province "a pettine", anziché "in coda" (con riferimento, quindi, al punteggio di cui gli stessi erano titolari nella graduatoria principale) - si è statuito che la competenza territoriale appartenga al foro nel quale ciascuno di essi prestava la propria attività al momento della domanda, poiché la pretesa azionata si riferisce alle modalità di inserimento nelle graduatorie con riferimento al punteggio precedentemente conseguito e ciò rende manifesto il collegamento funzionale con il rapporto in essere al momento della proposizione del ricorso e con la sede dell'ufficio in tal guisa individuata (Sez. 6-L, n. 10449/2015, Arienzo, Rv. 635398). Ancora più significativamente Sez. 6-L, n. 10697/2015, Arienzo, Rv. 635459 ha ritenuto che la domanda diretta all'accertamento del diritto di un'insegnante all'inclusione nella graduatoria dell'ufficio scolastico provinciale, con conseguente immissione in ruolo e sottoscrizione del contratto a tempo indeterminato, spetti al giudice nella cui circoscrizione ha sede l'ufficio dove la ricorrente chiede di essere assunta (cioè, la struttura periferica presso la quale si pretenda la costituzione del rapporto di lavoro pubblico, conseguenza del domandato inserimento nella graduatoria provinciale), dovendosi, agli effetti dell'art. 413, quinto comma, c.p.c., <<stabilire un'equazione fra rapporto di lavoro già costituito e rapporto di lavoro virtuale>>.

In tema di applicazione dei criteri di competenza fissati dall'art. 444 c.p.c. per le cause previdenziali, la Suprema Corte ha specificato che <<l'ufficio dell'ente>> - al quale si riferisce il comma 3 per determinare la competenza sulle controversie inerenti agli obblighi dei datori di lavoro e alle relative sanzioni - è quello individuato in relazione alla sede dell'impresa o ad una sua dipendenza e legittimato a ricevere e riscuotere i contributi o a restituirne l'eccedenza secondo disposizioni di legge o di statuto; ne consegue l'irrilevanza di eventuali provvedimenti derogatori attributivi dei rapporti assicurativi e previdenziali ad uffici con competenza territoriale su ambiti non comprensivi della sede dell'impresa, così come è ininfluente la previsione di centri operativi non concretamente dotati del potere di gestione esterna dei rapporti contributivi con i soggetti aventi sede nella corrispondente circoscrizione (Sez. 6-L, n. 10702/2015, Marotta, Rv. 635460).

Appartiene all'ambito delle cause previdenziali la domanda del lavoratore di ottenere dall'INPS, in caso di insolvenza del datore di lavoro, la corresponsione del TFR a carico del fondo di cui all'art. 2 della legge 29 maggio 1982, n. 297, trattandosi di prestazione che scaturisce dal rapporto assicurativo-previdenziale e non in forza del rapporto di lavoro; conseguentemente, la competenza territoriale per tali controversie si radica, ai sensi dell'art. 444, comma 1, c.p.c., presso il giudice del lavoro del luogo di residenza dell'attore e non secondo i criteri stabiliti dall'art. 413 c.p.c. per le cause di lavoro (Sez. 6-L, n. 06480/2015, Arienzo, Rv. 635090).

Al contrario, quando l'oggetto della controversia è la richiesta di ripetizione di un presunto indebito fondata sulla cessazione del rapporto previdenziale con l'iscritto, non è dedotto in giudizio il rapporto assicurativo-previdenziale e la competenza territoriale appartiene, in forza del rinvio operato dagli artt. 442, comma 2, e 413, comma 7, c.p.c., al giudice del foro generale delle persone fisiche di cui all'art. 18 c.p.c. (Sez. 6-L, n. 15620/2015, Fernandes, Rv. 636583).

Determina una questione di competenza la decisione riguardante l'attribuzione di una lite alla cognizione dell'autorità giudiziaria ordinaria o a quella degli arbitri rituali (Sez. U, n. 24153/2013, Segreto, Rv. 627786); tuttavia, l'art. 806 c.p.c. - nel testo anteriore alle modifiche apportate dal d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40 (che escludeva la facoltà di far decidere da arbitri le controversie previste dagli artt. 409 e 442 c.p.c.) - impedisce l'operatività della clausola compromissoria, contenuta nello statuto della cooperativa e non prevista da accordi o contratti collettivi, rispetto alla domanda di risarcimento per danno da "mobbing" avanzata dal socio lavoratore; in tal caso la potestà decisionale spetta alla <<competenza funzionale del giudice del lavoro anche quando i rapporti di lavoro instaurati siano temporanei>> (Sez. 6-3, n. 18110/2015, Frasca, Rv. 636740).

Quanto alle impugnazioni delle decisioni di merito che abbiano statuito solo sulla competenza, l'unico rimedio esperibile è costituito dal regolamento di competenza ex art. 42 c.p.c.; tale mezzo di impugnazione deve essere impiegato per tutte le questioni afferenti la competenza, tra le quali rientra anche quella concernente la corretta applicazione dell'art. 38 c.p.c. (ammissibilità e tempestività dell'eccezione, decadenza dalla medesima, tempestivo rilievo di ufficio), la cui violazione non integra un generico errore sull'applicazione della legge processuale (Sez. L, n. 16359/2015, Amendola, Rv. 636347; in applicazione di tale principio, è stata confermata la declaratoria di inammissibilità dell'appello - avverso una sentenza dichiarativa dell'incompetenza territoriale - che aveva come unico motivo la decadenza dall'eccezione di incompetenza sollevata in primo grado per la mancata indicazione del giudice competente).

3. Varie questioni di rito.

3.1. Presupposti processuali.

Ai sensi dell'art. 100 c.p.c. costituisce condizione dell'azione l'interesse della parte alla proposizione della domanda giudiziale; in proposito, si è rilevato che per la promozione di un'azione di mero accertamento occorre una situazione di oggettiva incertezza, non essendo invece necessaria una lesione attuale di un diritto dell'attore; secondo Sez. L, n. 16262/2015, Manna, Rv. 636587 non è essenziale che l'interesse preesista al processo, potendo lo stesso sorgere nel corso di giudizio a seguito della contestazione sull'esistenza di un rapporto giuridico o sull'esatta portata dei diritti e degli obblighi da esso scaturenti (così, in un caso riguardante la cessione di contratto di lavoro nell'ambito di un trasferimento di ramo d'azienda, si è ritenuto sussistente l'interesse ad agire al fine di individuare il reale datore di lavoro, pur non avendo i lavoratori ceduti dedotto alcuna concreta conseguenza pregiudizievole).

Ha interesse, concreto e attuale, all'impugnazione la parte che possa ritrarre utilità giuridica dall'eventuale accoglimento del gravame: ciò si verifica anche quando la decisione contiene una statuizione su un presupposto logico-giuridico della pronuncia medesima relativo a una circostanza - introdotta dal convenuto come eccezione sul fatto costitutivo - che comporta un accertamento principale nel giudizio e non un mero accertamento incidentale su questioni pregiudiziali, diverse e indipendenti dal fatto costitutivo (Sez. L, n. 25304/2015, Patti, Rv. 638186).

L'accertamento, anche se definitivo, dell'insussistenza dell'interesse ad agire ex art. 100 c.p.c. <<non regola con efficacia di giudicato sostanziale il rapporto dedotto in giudizio bensì solo una condizione per proporre la domanda e per ottenere la trattazione del merito, estranea all'indagine sulla fondatezza della pretesa e con attitudine al giudicato meramente formale>>, di talché esso è inidoneo a realizzare un potenziale conflitto di giudicati, trattandosi di giudicato su questione di rito, con effetti soltanto endoprocessuali (Sez. L, n. 18160/2015, Amendola F., Rv. 636421). Nella specie, su opposizione del datore di lavoro decisa con sentenza passata in giudicato, era stato negato il diritto del lavoratore di procedere ad esecuzione forzata in ragione della carenza di liquidità del credito (requisito ex art. 474 c.p.c.) portato nel titolo azionato; il lavoratore aveva quindi proposto una domanda volta ad ottenere un titolo esecutivo recante un diritto di credito liquido, domanda dichiarata inammissibile (con sentenza definitiva) in ragione della ritenuta liquidità del credito risultante dal provvedimento originario e, dunque, della carenza di interesse del ricorrente; chiamata a decidere sull'eccezione di giudicato sollevata dal datore in un'altra opposizione ex art. 615 c.p.c. avanzata per identici motivi, la S.C. ha rilevato l'inattitudine della declaratoria di inammissibilità a scalfire il giudicato formatosi sull'insussistenza del diritto di agire in executivis del lavoratore in virtù della risalente pronuncia.

Il tentativo obbligatorio di conciliazione ex art. 410 c.p.c. ratione temporis vigente costituisce condizione di proponibilità della domanda giudiziale; il datore di lavoro - che intenda evitare il (facoltativo) arbitrato sulle sanzioni disciplinari previsto dall'art. 7, commi 6 e 7, st.lav. e ricorrere al giudice ordinario - è tenuto a richiedere il predetto tentativo entro il termine di dieci giorni dall'invito rivoltogli dall'ufficio provinciale del lavoro, a pena di decadenza che viene impedita con la tempestiva consegna della lettera all'ufficio postale, restando irrilevante la data di ricezione della medesima (Sez. L, n. 14352/2015, Lorito, Rv. 635905).

3.2. Thema decidendum.

Costituiscono "barriere preclusive" per convenuto e appellato i termini fissati per la tempestiva costituzione, individuati dagli artt. 416 e 436 c.p.c. in <<almeno dieci giorni prima della udienza>> di discussione (rispettivamente, di primo e di secondo grado); la verifica del rispetto dei menzionati termini deve essere eseguita prendendo a riferimento non già l'udienza originariamente stabilita dal provvedimento del giudice, ma quella eventualmente fissata a seguito di rinvio d'ufficio (con modifica, quindi, del precedente decreto di fissazione) ed effettivamente svoltasi in sostituzione della prima (Sez. L, n. 08684/2015, Blasutto, Rv. 635119).

Nel medesimo termine fissato ex artt. 416 e 436 c.p.c. per la tempestiva costituzione deve essere sollevata l'eccezione di estinzione del processo per tardiva riassunzione davanti al giudice di rinvio; l'espressione "prima di ogni altra sua difesa" contenuta nell'art. 307, comma 4, c.p.c. (nella formulazione ratione temporis vigente, antecedente alla legge 18 giugno 2009, n. 69) deve essere così interpretata, conformemente alla ratio di garantire il tempestivo ed ordinato svolgimento del giudizio, nel rispetto del principio della ragionevole durata del processo di cui all'art. 111 Cost. (Sez. L, n. 04979/2015, Maisano, Rv. 634609).

Le preclusioni all'ampliamento del thema decidendum, fissate sia per il primo grado di giudizio sia per l'appello, riguardano le eccezioni "in senso proprio" (che richiedono, cioè, nuovi accertamenti di fatto) - come la deduzione della natura pubblica della società-datore di lavoro in una controversia avente ad oggetto la conversione del contratto di lavoro a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato (Sez. L, n. 08290/2015, Balestrieri, Rv. 635223) - e le domande riconvenzionali - tra le quali non può, però, annoverarsi l'allegazione del datore di lavoro, convenuto per l'accertamento della conversione del contratto per illegittima apposizione del termine, della risoluzione del rapporto per mutuo consenso, dato che la stessa mira soltanto al rigetto della domanda del lavoratore (Sez. L, n. 16339/2015, Nobile, Rv. 636348).

3.3. Mezzi istruttori.

La formazione del thema decidendum incide anche sul thema probandum, poiché il principio di non contestazione - il quale presuppone un comportamento concludente della controparte costituita e non trova applicazione né quando questa è rimasta contumace né quando si è costituita tardivamente in primo grado (Sez. L, n. 00461/2015, Balestrieri, Rv. 634077, dove si precisa che in entrambi i predetti casi non è preclusa la contestazione, per la prima volta, in appello) - esonera dalla dimostrazione delle circostanze non specificamente confutate.

L'onere di specifica contestazione riguarda sia l'an sia il quantum: difatti, il convenuto che contesti la sussistenza del credito - negando non l'esistenza del rapporto lavorativo ma solo la propria titolarità passiva dell'obbligazione contrattuale - non afferma necessariamente l'erroneità della quantificazione della pretesa e, cioè, dei conteggi svolti dall'avversario, i quali, in assenza di censura, si consolidano nell'importo formulato. (Sez. L, n. 10116/2015, Macioce, Rv. 635635).

Nel rito del lavoro, secondo la più recente (e ormai consolidata) giurisprudenza di legittimità ciascuna delle parti è tenuta, a pena di decadenza, a indicare nell'atto di costituzione in giudizio i documenti prodotti (prove costituite) e a depositarli contestualmente a tale atto.

La regola subisce eccezioni per i documenti formatisi successivamente alla costituzione in giudizio o nel caso in cui la loro produzione sia giustificata dall'evoluzione della vicenda processuale, sicché il giudice ne può ammettere la produzione, ai sensi dell'art. 421 c.p.c. e, in appello, ai sensi dell'art. 437 c.p.c., secondo una valutazione discrezionale e insindacabile in sede di legittimità, ove ritenga tali mezzi di prova comunque ammissibili, perché rilevanti e indispensabili ai fini del decidere: Sez. L, n. 14820/2015, Venuti, Rv. 636459, ha ritenuto giustificata la produzione dell'istanza di fallimento, posto che la questione dell'infrannualità del credito, per il pagamento del TFR e delle ultime mensilità al Fondo di Garanzia, era sorta solo con la memoria difensiva dell'INPS; viceversa, Sez. 6-L, n. 00547/2015, Pagetta, Rv. 634096, ha statuito che nelle controversie assistenziali non sono ammissibili né la produzione in appello, né la sollecitazione dei poteri officiosi di acquisizione (ex art. 437 c.p.c.) della documentazione relativa al cd. requisito reddituale, perché questa concerne circostanze deducibili e dimostrabili in primo grado e ciò esclude la riferibilità della prova all'evoluzione della vicenda processuale. La deroga al divieto di deposito di nuovi documenti, se ritenuti <<indispensabili ai fini della decisione>> ex art. 437 c.p.c., trova applicazione anche nel giudizio di rinvio a seguito di pronuncia di cassazione, quando le produzioni documentali, in ragione della loro particolare efficacia dimostrativa e del loro grado di decisività, siano tali da condurre ad un esito necessario della controversia (Sez. 6-L, n. 02729/2015, Garri, Rv. 634287).

La facoltà di dolersi di una tardiva produzione documentale - rectius, del provvedimento di ammissione - deve essere tempestivamente esercitata, poiché la mancata formulazione di opposizione o l'omessa proposizione, nel termine perentorio fissato dal giudice, di proprie istanze istruttorie implica accettazione e, conseguentemente, impossibilità di far valere il vizio procedurale nel prosieguo del giudizio (Sez. L, n. 10102/2015, Berrino, Rv. 635548). Parimenti, in assenza di tempestiva opposizione all'irrituale produzione, i documenti prodotti unitamente all'atto di tardiva costituzione del convenuto in primo grado devono considerarsi ritualmente acquisiti e il giudice di appello può prenderli in considerazione ai fini della decisione (Sez. L, n. 08924/2015, Berrino, Rv. 635346).

Non può annoverarsi tra le prove documentali la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà (nel caso, riferita al "requisito reddituale" in una controversia assistenziale), priva di qualsivoglia valore probatorio o indiziario, in quanto la parte non può far derivare elementi di prova favorevoli, ai fini del soddisfacimento dell'onere della prova, da proprie dichiarazioni (Sez. 6-L, n. 00547/2015, Pagetta, Rv. 634096).

Sempre in tema di prove, si è ritenuto che l'ampia possibilità, riconosciuta dall'art. 421 c.p.c., di disporre d'ufficio mezzi istruttori non riguarda solamente la vicenda sostanziale che è oggetto della controversia, ma si estende anche agli aspetti processuali e, segnatamente, alla validità della procura, la quale costituisce presupposto della corretta instaurazione del rapporto processuale (Sez. L, n. 12068/2015, Ghinoy, Rv. 635551; nella specie, al fine di individuare il luogo di rilascio del mandato ad litem, il giudice aveva richiesto la produzione di titoli di viaggio attestanti la presenza in Italia del mandante ed aveva proceduto ad interrogatorio formale della stessa parte).

3.4. Inattività delle parti.

La mancata comparizione di entrambe le parti nel corso del giudizio comporta - per il combinato disposto degli artt. 181, 309 e 359 c.p.c. (nel regime applicabile sia prima che dopo le modifiche apportate dall'art. 50 del d.l. 25 giugno 2008, n. 112, convertito in legge, con mod., dall'art. 1, comma 1, legge 6 agosto 2008, n. 133) - l'indefettibile fissazione di una nuova udienza da comunicarsi a cura della cancelleria e, in caso di reiterazione dell'assenza, la cancellazione della causa dal ruolo, nonché - soltanto per i giudizi instaurati dopo il 25 giugno 2008 - la dichiarazione di estinzione del processo (Sez. L, n. 16358/2015, Blasutto, Rv. 636349).

La fattispecie in cui il solo appellante omette di comparire all'udienza di discussione ex art. 437 c.p.c. è regolata in maniera parzialmente differente dall'art. 348, comma 2, c.p.c. in ambedue le fattispecie si deve escludere la possibilità di procedere ad immediata decisione della causa, la quale deve invece essere rinviata ad una nuova udienza, da comunicare nei modi previsti; viceversa, il ripetersi del difetto di comparizione comporta - come detto con riguardo all'inerzia di entrambe le parti - la cancellazione della causa dal ruolo (e, solo per i processi più recenti, la declaratoria di estinzione), mentre la reiterata assenza dell'appellante conduce all'improcedibilità dell'impugnazione, efficace sanzione per un comportamento determinante un'irragionevole dilatazione dei tempi del processo (Sez. 6-L, n. 02816/2015, Marotta, Rv. 634629).

3.5. Decisione e giudicato.

Per il combinato disposto degli artt. 429, comma 1, secondo periodo, e 430 c.p.c., la decisione del giudice del lavoro va assunta mediante la lettura del dispositivo all'esito della discussione e in tal caso il contenuto della motivazione successivamente depositata deve fedelmente rispecchiare il contenuto del dispositivo, che è assolutamente immodificabile: è quindi radicalmente nulla la sentenza che corregge, sostituendolo, il dispositivo letto in udienza, anche se questo è affetto da un insanabile contrasto tra la prima parte, di accoglimento dell'appello e rigetto della domanda di illegittimità del licenziamento del lavoratore, e la seconda, contenente declaratoria di illegittimità del licenziamento e condanna della società datrice alla reintegrazione e ai conseguenti adempimenti retributivi e contributivi (Sez. L, n. 01906/2015, Patti, Rv. 634195); del pari, l'immutabilità del dispositivo consente di ricorrere al procedimento di correzione ex artt. 287 ss. c.p.c. solo qualora sussista una parziale coerenza fra lo stesso dispositivo e la motivazione della sentenza e non già quando la correzione si risolva in un ripensamento - non consentito - del giudice, fermo restando che l'autonoma impugnazione delle parti corrette ai sensi dell'art. 288 c.p.c. riguarda la sola ipotesi in cui, attraverso il surrettizio ricorso al procedimento di correzione, venga modificato il contenuto decisorio della sentenza, affetta non da errori materiali o di calcolo, bensì da errori di diritto (Sez. L, n. 25978/2015, Di Paolantonio, Rv. 638208; nel caso di specie, la Suprema Corte ha ritenuto che la parte non avesse né l'obbligo né l'interesse ad impugnare la sentenza corretta, dato che l'ordinanza della Corte territoriale si era limitata a prendere atto della non corrispondenza del dispositivo letto in udienza con quello trascritto nella sentenza pubblicata, già precedentemente impugnata, senza però modificare la motivazione della decisione).

Le disposizioni che regolano l'influenza di un giudizio su un altro e prevengono il conflitto di giudicati sono diverse quando è intervenuta una decisione, anche se non definitiva: infatti, in presenza di un rapporto di pregiudizialità tra distinte controversie, l'art. 295 c.p.c. - che comporta una sospensione necessaria del processo - non può trovare applicazione quando è intervenuta in una delle liti una pronuncia giudiziale, non passata in giudicato perché oggetto di gravame, dovendosi in tal caso applicare l'art. 337, comma 2, c.p.c. e la facoltà discrezionale di sospensione da questo prevista (così Sez. 6-L, n. 00798/2015, Mancino, Rv. 634272, la quale - richiamando Sez. U, n. 10027/2012, Vittoria, Rv. 623042 - ha dichiarato illegittimo e annullato il provvedimento del giudice di merito adottato ai sensi dell'art. 295 c.p.c., rimettendo nel contempo allo stesso giudice la valutazione delle circostanze idonee a giustificare una eventuale sospensione ex art. 337 c.p.c.).

Infine, la S.C. ha ritenuto che non possa prospettarsi un rapporto di automatica consequenzialità tra la sentenza definitiva di assoluzione del lavoratore emessa nel processo penale e il giudizio riguardante il suo licenziamento disciplinare, sia perché la contestazione disciplinare non è ontologicamente assimilabile alla formulazione dell'accusa nel procedimento penale, sia perché i fatti ivi accertati, ancorché non decisivi ai fini della responsabilità penale, possono conservare rilevanza nel sindacato sul rapporto di lavoro, senza alcuna preclusione derivante dalla pronunciata assoluzione alla cognizione della domanda da parte del giudice civile (Sez. L, n. 00013/2015, Tria, Rv. 634075).

4. Il processo in primo grado.

Il meccanismo processuale delineato dall'art. 415, comma 4, c.p.c. - cioè, la notifica del ricorso introduttivo precedentemente depositato e del decreto di fissazione dell'udienza di discussione - è stato oggetto di significative pronunce, apparentemente contrastanti, tra loro e anche con antecedenti statuizioni della Suprema Corte

Nel solco di precedenti arresti (ex multis, Sez. U, n. 20604/2008, Vidiri, Rv. 604554 e 604555), Sez. 6-L, n. 02005/2015, Blasutto, Rv. 634277, ha confermato la declaratoria di improcedibilità del ricorso introduttivo perché - in difetto di produzione della copia notificata dell'atto o di allegazione e prova di un legittimo impedimento idoneo a giustificare l'assegnazione di un nuovo termine per provvedere all'incombente - non può trovare applicazione la disciplina dell'art. 348 c.p.c., dettata per l'ipotesi di inattività delle parti successiva all'instaurazione del contraddittorio.

In senso diametralmente opposto si è pronunciata Sez. L, n. 01483/2015, Amendola F., Rv. 634192, affermando che anche nel caso di omessa o inesistente notifica del ricorso introduttivo del giudizio e del decreto di fissazione dell'udienza, deve essere concesso un nuovo termine - questo sì perentorio - per la rinnovazione della notifica. Il révirement giurisprudenziale merita un approfondimento sia per illustrare la dettagliata motivazione che sorregge il provvedimento, sia per dar conto delle fattispecie a cui il pronunciamento è applicabile.

Innanzitutto, si è osservato che il consolidato orientamento espresso da Sez. U, n. 20604/2008, Vidiri, Rv. 604554 e 604555 - secondo il quale la sanzione di improcedibilità per omessa notifica del ricorso si applica anche nell'opposizione a decreto ingiuntivo per crediti di lavoro - è stato recentemente rivisto da Sez. U, n. 05700/2014, San Giorgio, Rv. 629676 e Sez. U, n. 09558/2014, San Giorgio, Rv. 630713, le quali, in materia di equa riparazione per durata irragionevole del processo, hanno stabilito che, in ipotesi di omessa o inesistente notifica del ricorso e del decreto di fissazione dell'udienza, può concedersi al ricorrente un nuovo termine, avente carattere perentorio, entro il quale rinnovare la notifica; difatti, <<a differenza di quelli di impugnazione o di opposizione a decreto ingiuntivo, il procedimento di cui si tratta non presuppone ... la legittima aspettativa della controparte al consolidamento, entro un confine temporale rigorosamente predefinito e ragionevolmente breve, di un provvedimento giudiziario già emesso>> e, <<rispetto al processo di appello nel rito del lavoro ed alla opposizione a decreto ingiuntivo, procedimenti di natura impugnatoria, a struttura bifasica, ... nel procedimento de quo la notifica del ricorso assolve unicamente la funzione di consentire la instaurazione del contraddittorio>>.

Oltre a non essere prevista dalla legge una sanzione che comporti il divieto di accesso alla giurisdizione in caso di omessa notifica del ricorso (così come nei procedimenti disciplinati dalla cd. legge Pinto), si è puntualmente considerato che l'introduzione del processo del lavoro "normale" (cioè, non impugnatorio di una precedente decisione, anche monitoria) non determina frizioni con l'esigenza di tutelare legittime aspettative della controparte al consolidamento di un provvedimento giurisdizionale già emesso, situazione che invece si verifica nell'appello e nell'opposizione a decreto ingiuntivo.

Peraltro, la vocatio in ius si compone del deposito del ricorso e della sua notificazione, di talché l'omissione della seconda non inficia la validità del primo (art. 159 c.p.c.) e non comporta inesistenza ma, piuttosto, nullità della vocatio, con conseguente potere (e dovere, ex art. 162, comma 1, c.p.c.) del giudice di disporre la rinnovazione degli atti nulli.

Più in generale, i principi sistematici di conservazione degli atti, di economia dei giudizi e di strumentalità dei processo conducono a permettere la sanatoria dei vizi degli atti processuali per addivenire ad una decisione nel merito, soluzione da privilegiare - qualora possibile - ad una chiusura in rito.

Infine, il principio di ragionevole durata ex art. 111 Cost. deve necessariamente riferirsi, più che al dato formale del decorso del tempo tra l'iscrizione a ruolo e la definizione della causa, al lasso temporale tra la proposizione della domanda e la pronuncia sul merito del diritto preteso; perciò, anche al fine di evitare la riproposizione del medesimo ricorso, il che comporterebbe un inevitabile differimento dei tempi necessari ad ottenere una decisione di merito, la fissazione di un termine per la rinnovazione corrisponde a una lettura conforme ai valori costituzionali e alle statuizioni della CEDU e della Corte di Giustizia sulle modalità di attuazione della tutela giudiziaria.

In conclusione, la sentenza in esame non costituisce un vero e proprio overruling rispetto al precedente consolidato orientamento, ma - con ampia motivazione - limita la declaratoria di improcedibilità per omessa notifica del ricorso ex art. 415, comma 4, c.p.c. alle fattispecie in cui vi è un interesse della controparte alla definitività di un provvedimento già emanato (e forse a queste può ricondursi anche la menzionata pronuncia - apparentemente contrastante - di Sez. 6-L, n. 02005/2015, Blasutto, Rv. 634277, che riguardava un'opposizione a cartella di pagamento concernente contributi omessi, atto idoneo a "stabilizzarsi" con effetti assimilabili a quelli del giudicato, come stabilito da Sez. L, 04338/2014, Bandini).

Anche Sez. L, n. 22355/2015, Maisano, Rv. 637792, ha ammesso la rinnovazione della notificazione dell'opposizione di cui all'art. 1, comma 52, della legge 28 giugno 2012, n. 92 (cd. rito Fornero), pur rilevando l'inesistenza di qualsiasi notifica del ricorso e del decreto di fissazione dell'udienza di discussione nei termini prescritti dalla citata norma: la doglianza, relativa all'illegittimità della remissione in termini concessa dai giudici di merito, è stata respinta richiamando gli stessi principi espressi da Corte cost., 14 gennaio 1977, n. 15 (riguardante, però, il termine ex art. 435, comma 2, c.p.c.) e, cioè, stabilendo - con una lettura costituzionalmente orientata delle disposizioni - che il decreto di fissazione dell'udienza ex art. 1, comma 51, della legge n. 92 del 2012 deve essere comunicato all'opponente e che solo tale momento può costituire dies a quo del termine per la notificazione all'opposto. Esplicitamente, la S.C. ha inteso operare un <<coordinamento>> tra il <<principio della giusta durata del processo>> e <<quello del giusto processo>>; si deve però osservare che - in assenza di una declaratoria di illegittimità costituzionale dell'art. 1, comma 52, della legge n. 92 del 2012 (come quella, citata, che ha riguardato l'art. 435, comma 2, c.p.c.) - lo scostamento rispetto all'indirizzo interpretativo di Sez. U, n. 20604/2008, Vidiri, Rv. 604554 e 604555, è significativo e nel caso è pure ravvisabile una legittima aspettativa della controparte al consolidamento della già emessa ordinanza ex art. 1, comma 49, del "rito Fornero" (diversamente dalla fattispecie esaminata da Sez. L, n. 01483/2015, Amendola F, Rv. 634192).

La tardiva notificazione del ricorso introduttivo e del decreto di fissazione non ha, comunque, le medesime conseguenze della sua completa omissione; Sez. L, n. 09222/2015, De Marinis, Rv. 635292, applica gli stessi principi di Corte cost., 24 febbraio 2010, n. 60 (espressi, però, in riferimento all'art. 435 c.p.c.) e, anche in mancanza di istanza e di concessione di proroga del termine ordinatorio ex art. 415, comma 4, c.p.c., conferma la validità della notifica eseguita dopo il suo spirare, ma entro un lasso temporale tale da garantire l'esigenza di contenimento del processo entro limiti ragionevoli e la salvaguardia del diritto di difesa della controparte tenuta a costituirsi entro un termine perentorio.

Come sopra esposto, il termine per la tempestiva costituzione in giudizio del convenuto è stabilito dall'art. 416 c.p.c. in <<almeno dieci giorni prima della udienza>> effettivamente svoltasi a seguito di rinvio disposto d'ufficio, non dovendosi in tal caso prendere a riferimento l'udienza originariamente fissata nel decreto ex art. 415 c.p.c. (Sez. L, n. 08684/2015, Blasutto, Rv. 635119).

5. Le impugnazioni.

Il termine "breve" sancito dall'art. 434, comma 2, c.p.c. per il deposito del ricorso in appello soggiace alla disciplina generale dei termini processuali e, conseguentemente, ad esso si applica anche l'art. 155, comma 4, c.p.c., che proroga di diritto, al primo giorno seguente non festivo, il termine che scade in un giorno festivo (Sez. L, n. 16303/2015, Napoletano, Rv. 636346).

Il predetto termine "breve" ex art. 434, comma 2, c.p.c. - così come il termine "lungo" di cui all'art. 327, comma 1, c.p.c. - ha natura decadenziale e, pertanto, è radicalmente inammissibile l'impugnazione depositata in cancelleria dopo il suo spirare; questa regola non subisce deroga nel caso in cui l'appello sia stato irritualmente proposto con citazione anziché con ricorso poiché, per aversi sanatoria dell'atto ai sensi dell'art. 156, ultimo comma, c.p.c. per <<convertibilità della citazione in ricorso>>, occorre che lo stesso sia comunque depositato entro il termine predetto (Sez. L, n. 14401/2015, Manna, Rv. 636063, ha cassato la sentenza di appello non ritenendo scusabile l'errore indotto dall'art. 134 del d.lgs. 10 febbraio 2005, n. 30, norma dichiarata costituzionalmente illegittima anteriormente alla pronuncia di primo grado).

Sempre in tema di ammissibilità del gravame, qualora il giudice del lavoro abbia pronunciato in udienza la sentenza completa di dispositivo e motivazione (ex art. 429, comma 1, primo periodo, c.p.c.) e abbia contestualmente dato provvedimenti istruttori, la decisione deve intendersi pubblicata e conosciuta dalle parti senza obbligo di alcuna comunicazione da parte del cancelliere (con conseguente decorrenza da tale momento del termine "lungo" ex art. 327 c.p.c.); tuttavia, la riserva facoltativa d'appello non deve necessariamente essere effettuata alla medesima udienza - che non è ragionevolmente identificabile come <<la prima udienza successiva alla pubblicazione, ai sensi e per gli effetti previsti dall'art. 340 I comma c.p.c.>> - potendo essere ritualmente compiuta con un atto successivo, nel rispetto del termine per impugnare (Sez. L, n. 24805/2015, Ghinoy, Rv. 638166).

A seguito dell'intervento di Corte cost., 14 gennaio 1977, n. 15, il termine di dieci giorni per la notifica del ricorso all'appellato (ex art. 435, comma 2, c.p.c.) decorre dalla rituale comunicazione all'appellante dell'avvenuto deposito del decreto presidenziale di fissazione dell'udienza di discussione; se, nonostante tale comunicazione, il ricorrente omette la notificazione e non adduce, nel corso dell'udienza, alcun giustificato impedimento al fine di essere rimesso in termini, l'impugnazione deve essere dichiarata improcedibile anche d'ufficio, non ostando a tale declaratoria il compimento della notifica per un'altra successiva udienza a cui la causa sia stata rinviata al fine di acquisire il fascicolo di primo grado (Sez. L, n. 01175/2015, Lorito, Rv. 634080).

Riguardo alle notificazioni nel secondo grado di giudizio, si è altresì statuito che all'integrazione del contraddittorio in appello ex art. 331 c.p.c. non si applica la disposizione dell'art. 330, ultimo comma, c.p.c., la quale riguarda il rito ordinario (in cui la pendenza dell'appello si verifica al momento della notifica della citazione) e non anche quello speciale, in cui la pendenza è data dal deposito del ricorso; pertanto, se quest'ultimo atto è stato compiuto entro l'anno dalla pubblicazione della sentenza, la notifica dell'atto di integrazione va eseguita - anche dopo il decorso del termine annuale - non alla parte personalmente, bensì al suo procuratore costituito (Sez. L, n. 01915/2015, Manna, Rv. 634308).

L'art. 434, comma 1, c.p.c. è stato riscritto dall'art. 54, comma 1, lettera c)-bis, del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 134, e la sua attuale formulazione coincide quasi integralmente con il testo dell'art. 342, comma 1, c.p.c., contestualmente introdotto.

Le novellate disposizioni perseguono lo scopo di migliorare l'efficienza dell'appello rendendo esplicita l'esigenza che l'appellante, in un'ottica di leale collaborazione ed a pena di inammissibilità del gravame, rispetti precisi oneri nella formalizzazione delle ragioni dell'impugnazione, individuando in modo chiaro ed esauriente il quantum appellatum. Dall'esame della ratio legis si evince che non si è affatto voluto imporre irragionevoli adempimenti formali, limitativi dell'accesso alla tutela giurisdizionale e non corrispondenti ad esigenze di economia dei tempi processuali; piuttosto, deve desumersi che il legislatore abbia inteso ottenere una esaustiva definizione del thema decidendum del giudizio di gravame, richiedendo all'appellante l'espressa individuazione non solo dei punti e dei capi della sentenza che vengono impugnati, ma anche dei passaggi argomentativi che li sorreggono, i quali ultimi devono essere contestati attraverso la proposizione di un percorso logico alternativo a quello adottato dal giudice, <<sì da esplicitare la idoneità di tali ragioni a determinare le modifiche della decisione censurata>> (Sez. L, n. 02143/2015, Ghinoy, Rv. 634309, che ha trovato successiva conferma in Sez. U, n. 10878/2015, Di Amato, la quale <<perviene così ad un approdo sostanzialmente coincidente con quello cui era giunta la prevalente giurisprudenza ... in relazione alla precedente formulazione dell'art. 342 c.p.c.>>).

Il thema decidendum dell'appello non può, in ogni caso, essere più ampio rispetto a quello del primo grado come stabiliscono gli artt. 345, comma 1, e 437, comma 2, c.p.c.: non è ammessa, dunque, la tardiva introduzione di nuove allegazioni di fatto che, alterando uno dei presupposti della domanda iniziale, inseriscano nel processo un nuovo tema d'indagine, sul quale non si sia formato in precedenza il contraddittorio.

A fronte della rituale eccezione di novità delle allegazioni formulate in atto di gravame, il giudice di merito è tenuto a pronunciarsi, comportando altrimenti la decisione una violazione del disposto dell'art. 112 c.p.c. (Sez. L, n. 02687/2015, Lorito, Rv. 634284, ha cassato la sentenza d'appello che aveva valorizzato a fronte delle lacunose indicazioni, contenute nell'atto introduttivo del giudizio di primo grado - ai fini dell'individuazione dei fatti determinativi dell'evento lesivo - nuove ed ulteriori circostanze, introdotte in sede di impugnazione, che non si erano risolte in una mera specificazione del thema decidendum, ma in un suo sostanziale ampliamento).

In forza dei medesimi principi, deve escludersi la possibilità di dedurre in sede di gravame nuovi profili di illegittimità del licenziamento, impugnato in primo grado perché avente carattere ritorsivo, allegando soltanto in appello - quale nuova causa petendi (implicante un diverso tema di indagine e di decisione) - la violazione della procedura di cui all'art. 7 st.lav. (Sez. L, n. 00655/2015, Tria, Rv. 634187).

Con riguardo al ricorso per cassazione e ai provvedimenti suscettibili di tale gravame, Sez. L, n. 18162/2015, Blasutto, Rv. 636575, ha dichiarato l'inammissibilità dell'impugnazione del solo dispositivo della sentenza di appello letto in udienza (salva l'eccezionale ipotesi prevista dall'art. 433, comma 2, c.p.c.), poiché soltanto alla decisione completa di motivazione è possibile muovere censure specifiche e motivate in riferimento ai motivi denunciabili ex art. 360 c.p.c., mentre l'impugnazione non è esperibile in base alla mera soccombenza; tuttavia, la dichiarazione d'inammissibilità del ricorso proposto prima della giuridica esistenza della sentenza non determina la consunzione del diritto di impugnare la statuizione dopo il suo deposito, purché non siano decorsi i termini prescritti.

La sentenza Sez. L, n. 14431/2015, Lorito, Rv. 636059, esamina la peculiare impugnazione - ex artt. 412-quater e 808-ter c.p.c. - del lodo emanato a conclusione della procedura arbitrale instaurata in una controversia di lavoro privato: in considerazione della natura irrituale dell'arbitrato de quo, alla decisione deve attribuirsi il valore di atto negoziale, che può essere annullato per errore, violenza, dolo degli arbitri (ad esempio, per alterata percezione o falsa rappresentazione dei fatti), ma anche per inosservanza delle disposizioni inderogabili di legge o di contratti o accordi collettivi. In forza di tali principi, si è considerato errore di fatto (e, quindi, ammissibile motivo di impugnazione) e non di giudizio l'errata delimitazione temporale della fattispecie materiale esaminata (nel caso, la S.C. ha cassato la sentenza di merito, ritenendo che, ai fini della recidiva del licenziamento disciplinare, la disposizione contrattuale collettiva applicata facesse riferimento all'anno solare e non all'anno di calendario).

6. L'impugnazione dei licenziamenti e il cd. rito Fornero.

L'esigenza di definire entro tempi certi (e rapidi) le controversie in tema di licenziamento ha indotto il legislatore a modificare l'art. 6, comma 2, della legge 15 luglio 1966, n. 604, dapprima imponendo l'avvio del giudizio entro il termine di 270 giorni dall' "impugnazione" extragiudiziale a pena di inefficacia di quest'ultima (art. 32, comma 1, legge 4 novembre 2010, n. 183) e, poi, riducendo il predetto termine a 180 giorni (art. 1, comma 38, legge n. 92 del 2012).

Le stesse disposizioni si applicano anche alle cause riguardanti la nullità del termine apposto al contratto di lavoro, alle quali il cd. Collegato Lavoro ha esteso il rigoroso regime delle decadenze, prevedendo l'onere di impugnazione stragiudiziale di e successiva azione giudiziaria entro tempi certi, decorrenti dalla scadenza del termine (per i contratti in corso) o dalla data di entrata in vigore della legge n. 183 del 2010; tuttavia, anche a tali controversie si applica il differimento al 31 dicembre 2011 dell'entrata in vigore del sistema delle decadenze (come previsto dall'art. 32, comma 1-bis, della menzionata legge n. 183 del 2010, introdotto dal d.l. 29 dicembre 2010, n. 225, convertito nella legge 26 febbraio 2011, n. 10) e la proroga concerne sia i contratti i cui termini non erano ancora scaduti alla data di entrata in vigore del d.l. n. 10 del 2011, sia quelli il cui termine per l'impugnativa fosse già antecedentemente spirato (Sez. 6-L, n. 25103/2015, Mancino, Rv. 637925; nello stesso senso, Sez. 6-L, n. 13563/2015, Arienzo, e Sez. 6-L, n. 02494/2015, Garri).

Il dies a quo del termine per proporre l'azione giudiziale decorre dal compimento della contestazione extragiudiziale - da identificarsi, per esigenze di celerità e certezza, con il momento di spedizione e non di ricezione dell'atto - e non dalla scadenza dei 60 giorni concessi per l'impugnazione stragiudiziale (Sez. L, n. 05717/2015, Maisano, Rv. 634797)

I termini di decadenza e di inefficacia dell'impugnazione del licenziamento prescritti dalla menzionata norma trovano applicazione ogniqualvolta si deduca l'invalidità del recesso datoriale prospettandone la nullità (come espressamente previsto dall'art. 32, comma 2, della legge n. 183 del 2010: <<Le disposizioni di cui all'articolo 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604, come modificato dal comma 1 del presente articolo, si applicano anche a tutti i casi di invalidità del licenziamento>>) e, quindi, anche nei confronti del dirigente (Sez. L, n. 22627/2015, Tricomi, Rv. 637960).

Non è invece ipotizzabile alcun termine di decadenza per l'impugnazione di un licenziamento intimato solo oralmente, sia perché il licenziamento orale deve ritenersi giuridicamente inesistente e inidoneo ad incidere sulla continuità del rapporto di lavoro, sia perché l'art. 6, comma 1, della legge n. 604 del 1966 (come modificato dalla legge n. 183 del 2010) fissa il dies a quo del termine di 60 giorni dalla ricezione della comunicazione del licenziamento <<in forma scritta, ovvero dalla comunicazione, anche se in forma scritta, dei motivi, ove non contestuale>>; pertanto, il lavoratore può far valere in ogni tempo l'inefficacia del licenziamento, senza previa impugnativa stragiudiziale dello stesso (Sez. L, n. 22825/2015, Doronzo, Rv. 637879).

Con specifico riferimento alla struttura del cd. rito Fornero, dettato per l'impugnativa dei licenziamenti nelle ipotesi disciplinate dall'art. 18 st.lav., Sez. L, n. 03136/2015, Roselli, Rv. 634322, ha escluso che la fase dell'opposizione, ai sensi dell'art. 1, comma 51, della legge n. 92 del 2012, costituisca un grado diverso rispetto a quella che ha preceduto l'ordinanza, dovendosi piuttosto ravvisare una prosecuzione del medesimo giudizio in forma ordinaria; conseguentemente, non può profilarsi alcuna incompatibilità ex art. 51, n. 4, c.p.c. per il giudice che, dopo aver condotto la fase sommaria, sia investito anche dell'opposizione.

La pronuncia ha trovato successiva ed autorevole conferma nelle statuizioni di Corte cost., 13 maggio 2015, n. 78, che - nel dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost., degli artt. 51, comma 1, n. 4, c.p.c. e 1, comma 51, della legge n. 92 del 2012 - ha respinto la prospettazione di un obbligo di astensione per il magistrato investito dell'opposizione che abbia pronunciato la precedente ordinanza. La Consulta ha rilevato che la prima fase - necessaria, sommaria ed informale - e la seconda successiva - eventuale e a cognizione piena - non vertono sullo stesso oggetto: mentre l'ordinanza opposta è pronunciata su un ricorso "semplificato" e sulla base dei soli atti di istruzione ritenuti allo stato indispensabili, l'opposizione non è limitata alla cognizione di errores in procedendo o in iudicando eventualmente commessi, ma può investire anche diversi profili soggettivi (stante il possibile intervento di terzi), oggettivi (in ragione dell'ammissibilità di domande nuove, anche in via riconvenzionale, purché fondate sugli stessi fatti costitutivi) e procedimentali; ciò esclude che la fase oppositoria possa configurasi come un altro grado del processo, rispetto al quale sarebbe da ritenersi sussistente l'obbligo di astensione. Anzi, il fatto che entrambe le fasi dell'unico grado di un procedimento unitario possano essere svolte dal medesimo magistrato si rivela funzionale all'attuazione del principio del giusto processo per il profilo della sua ragionevole durata e ad una miglior tutela del lavoratore (la manifesta inammissibilità di un'analoga questione di legittimità costituzionale era stata pronunciata da Corte cost., 16 luglio 2014, n. 205).

Dalla riconosciuta struttura bifasica del giudizio si evince che la fase a cognizione ordinaria iniziata con l'opposizione non costituisce un'impugnazione e, cioè, un'istanza di revisione del precedente giudizio, come tale inidonea ad introdurre nuovi temi; pertanto, l'opposizione può investire nuovi profili soggettivi ed oggettivi, fra i quali le eccezioni in senso stretto non sollevate dall'interessato durante la fase sommaria, come quella di decadenza dal potere di impugnazione, giudiziale ed extragiudiziale, del licenziamento ex art. 6 della legge n. 604 del 1966 (Sez. L, n. 25046/2015, De Marinis, Rv. 638004).

Il procedimento disciplinato dall'art. 1, commi 47 e ss., della legge n. 92 del 2012 mira ad abbreviare i tempi per addivenire alla definitiva decisione sull'impugnativa di un licenziamento ex art. 18, st.lav.; la specialità del rito, dunque, non è volta alla tutela dell'interesse del lavoratore, bensì a soddisfare esigenze di speditezza del processo. Da tali considerazioni Sez. L, n. 23073/2015, Doronzo, Rv. 637950, trae i seguenti corollari: 1) il lavoratore non può rinunciare al rito speciale; 2) rientra nei poteri-doveri del giudice l'individuazione dei presupposti applicativi della speciale disciplina processuale; 3) il ricorrente non ha l'onere di allegare la sussistenza del "requisito dimensionale" del datore di lavoro ex art. 18 st.lav. (potendo peraltro desumersi l'allegazione proprio dalla scelta del "rito Fornero" e la sua implicita conferma dalla condotta assertiva della controparte); 4) conseguentemente, il lavoratore non ha l'onere di provare il predetto requisito dimensionale, spettando casomai al datore di lavoro fornire supporto probatorio alla propria eccezione di insussistenza del presupposto applicativo.

La peculiarità del rito e le sue finalità "acceleratorie" riguardano anche il thema decidendum: non a caso l'art. 1, comma 48, della legge n. 92 del 2012 stabilisce esplicitamente che il cumulo di domande diverse è ammesso solo se siano basate su fatti costitutivi identici a quelli fondanti la richiesta di tutela reale, volendosi così evitare un ampliamento dell'ambito di applicazione del procedimento speciale o, comunque, un suo rallentamento dovuto alla trattazione di istanze eterogenee. Per tale ragione deve, quindi, reputarsi improponibile la domanda di riassunzione ex art. 8 della legge n. 604 del 1966, proposta dal lavoratore in via subordinata all'applicazione dell'art. 18 st.lav., attesa la diversità (in particolare, quanto al numero dei dipendenti e alla natura delle imprese datrici) dei rispettivi fatti costitutivi (Sez. L, n. 16662/2015, Maisano, Rv. 636735).

Nel procedimento regolato dal cd. rito Fornero è ammessa, nella fase sommaria, una pronuncia sulla competenza per territorio del giudice e l'ordinanza ha, anche su tale statuizione, attitudine al giudicato (Sez. U, n. 17443/2014, Di Cerbo, Rv. 632605); al contrario, il mancato rilievo, ex officio o su eccezione di parte, dell'incompetenza del giudice nel procedimento cautelare ante causam (ex art. 700 c.p.c., per l'immediata reintegra) non determina il definitivo consolidamento della competenza dell'ufficio giudiziario adito anche per il successivo giudizio di merito, in quanto nel procedimento cautelare non trova applicazione il regime dell'art. 38 c.p.c., a norma del quale la causa si radica definitivamente innanzi al giudice incompetente se la questione non è tempestivamente rilevata o eccepita (Sez. 6-L, n. 00797/2015, Fernandes, Rv. 633997).

Da ultimo, in applicazione dei principi affermati da Corte cost., 14 gennaio 1977, n. 15 con riguardo all'art. 435, comma 2, c.p.c., si è ritenuto - coordinando il <<principio della giusta durata del processo>> e <<quello del giusto processo>> - che il decreto di fissazione dell'udienza ex art. 1, comma 51, della legge n. 92 del 2012 (nella fase di opposizione) debba essere comunicato all'opponente e che solo da tale momento decorra il termine per la notificazione all'opposto; perciò, in difetto della rituale comunicazione del provvedimento e anche in assenza di qualsivoglia tentativo di notifica, la parte opponente va rimessa in termini per consentire l'instaurazione del contraddittorio con la controparte (Sez. L, n. 22355/2015, Maisano, Rv. 637792).

7. Profili specifici del processo in materia di previdenza.

7.1. La competenza territoriale.

In tema di competenza territoriale per le controversie relative agli obblighi dei datori di lavoro ed all'applicazione delle relative sanzioni civili, Sez. 6-L, n. 10702/2015, Marotta, Rv. 635460, precisa che, ai sensi dell'art. 444, comma 3, c.p.c., per ufficio dell'ente, da individuare in correlazione alla sede dell'impresa o ad una sua dipendenza, deve intendersi quello che, in quanto investito del potere di gestione esterna, sia in generale legittimato, per legge o per statuto, a ricevere i contributi ed a pretenderne il pagamento o a restituirne l'eccedenza, senza che influiscano gli eventuali provvedimenti derogatori con cui si attribuiscano tutti o parte dei rapporti assicurativi e previdenziali ad uffici con competenza territoriale su ambiti non comprensivi della sede dell'impresa, nonché la previsione di centri operativi non dotati, in concreto, del potere di gestione esterna dei rapporti contributivi con i soggetti aventi sede nella corrispondente circoscrizione territoriale.

Sez. 6-L, n. 15620/2015, Fernandes, Rv. 636583, ribadisce invece che la competenza territoriale per le controversie relative agli obblighi di assistenza e previdenza derivanti dall'autonomia collettiva, appartiene al giudice del foro generale delle persone fisiche di cui all'art. 18 c.p.c., in forza del rinvio operato dagli artt. 442, comma 2, e 413, comma 7, c.p.c.; il principio viene affermato con riferimento ad un giudizio avente ad oggetto la restituzione di prestazioni indebitamente corrisposte a seguito della cessazione del rapporto previdenziale.

7.2. La consulenza tecnica.

Evidenzia Sez. 6-L, n. 13631/2015, Marotta, Rv. 635848, che la rilevabilità di ufficio della nullità della consulenza tecnica in tema di procedimenti relativi a prestazioni previdenziali e assistenziali, per il mancato inoltro della comunicazione di cui all'art. 10, comma 6 bis, del d.l. 30 settembre 2005, n. 203, convertito nella legge 2 dicembre 2005, n. 248, al direttore della sede provinciale INPS competente, introdotta dall'art. 38, comma 7, del d.l. 6 luglio 2011, n. 98, convertito nella legge 15 luglio 2011, n. 111, non si applica quando la consulenza sia stata disposta in epoca antecedente all'entrata in vigore di detta ultima legge, trattandosi di norma processuale applicabile esclusivamente agli atti ad essa successivi.

7.3. I mezzi di prova.

Per Sez. 6-L, n. 01704/2015, Garri, Rv. 634084, il requisito economico previsto dall'art. 12, comma, 2 della legge 30 marzo 1971 n. 118, costituisce un elemento costitutivo del diritto alla pensione di inabilità civile, sicché la relativa documentazione deve essere tempestivamente allegata sin dal giudizio di primo grado, fatto salvo il ricorso del giudice d'appello ai propri poteri istruttori d'ufficio, ai sensi del combinato disposto degli artt. 421 e 437 c.p.c., anche in presenza di decadenze e preclusioni già verificate, con obbligo tuttavia di motivazione in ordine all'ammissione di documentazione reddituale non prodotta in primo grado.

Più rigorosamente Sez. 6-L, n. 00547/2015, Pagetta, Rv. 634096, afferma che nelle controversie assistenziali è inammissibile la produzione in appello della documentazione relativa al cd. requisito reddituale, che, vertendo su circostanze già deducibili e dimostrabili in primo grado, non è giustificata in relazione all'evolversi della vicenda processuale. Né può rilevare, ai fini dell'attivazione dei poteri officiosi, ex art. 437, comma 2, c.p.c., la presenza in atti (in quanto allegata al ricorso di primo grado) della dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà riferita al medesimo requisito, poiché essa non ha, in difetto di diversa e specifica previsione di legge, alcun valore probatorio, neanche indiziario, nel giudizio civile, atteso che la parte non può far derivare elementi di prova favorevoli, ai fini del soddisfacimento dell'onere della prova, da proprie dichiarazioni.

In tema di assegno d'invalidità, per Sez. L, n. 13973/2015, Balestrieri, Rv. 635821, il requisito socio-economico richiesto dall'art. 13, comma 2, della legge n. 118 del 1971, costituisce un fatto costitutivo del diritto alla prestazione assistenziale che, ove non contestato, può ritenersi provato, purché esaustivamente dedotto in giudizio dall'attore, mentre Sez. L, n. 01606/2015, De Renzis, Rv. 634304, evidenzia che, anche a seguito della modifica della legge n. 118 del 1971, in forza dell'art. 1, comma 35, della legge 24 dicembre 2007, n. 247 - che ha sostituito il requisito dello stato di inoccupazione alla cd. incollocazione al lavoro -, la prova del mancato svolgimento di attività lavorativa non può essere data in giudizio mediante una dichiarazione sostitutiva dell'atto di notorietà, che è rilevante nei rapporti amministrativi ma priva di efficacia probatoria in sede giurisdizionale.

Sez. L, n. 17702/2015, Doronzo, Rv. 636801, chiarisce invece che la dichiarazione di fatti a sé sfavorevoli resa dal datore di lavoro in un verbale ispettivo non ha valore di confessione stragiudiziale, con piena efficacia probatoria nel rapporto processuale, ma costituisce prova liberamente apprezzabile dal giudice in quanto l'ispettore del lavoro, pur agendo quale organo della P.A., non la rappresenta in senso sostanziale, e, quindi, non è il destinatario degli effetti favorevoli, ed è assente l'animus confitendi, trattandosi di dichiarazione resa in funzione degli scopi dell'inchiesta.

7.4. Il regime delle spese.

In parte innovativa la decisione delle Sezioni Unite, n. 10454/2015, Nobile, Rv. 635277, che, nel risolvere un contrasto presente nella Sezione Lavoro sui criteri da utilizzare ai fini della individuazione del valore della lite nelle controversie previdenziali ed assistenziali, ha affermato che nelle sole controversie relative a prestazioni assistenziali, il valore della causa ai fini della liquidazione delle spese di giudizio si stabilisce con il criterio previsto dall'art. 13, comma 1, c.p.c. per le cause relative alle prestazioni alimentari, sicché, se il titolo è controverso, il valore si determina in base all'ammontare delle somme dovute per due anni.

In effetti, secondo un indirizzo prevalente, e da ultimo consolidato, vi era una sostanziale assimilazione delle controversie previdenziali e di quelle assistenziali ai fini della liquidazione delle spese giudiziali e per entrambe il valore della causa veniva determinato in base all'art. 13, comma 2, c.p.c. ‹‹cumulando le annualità domandate fino a un massimo di dieci››, in base alla considerazione che le relative prestazioni, pur partecipando della natura delle prestazioni alimentari, si concretizzano in una somma di denaro da corrispondere periodicamente e sono assimilabili alla rendita temporanea o vitalizia; vi era poi un indirizzo molto risalente che optava per l'applicazione ad entrambe le controversie del criterio di cui al comma 1 dell'art. 13 c.p.c.

La S.C., dopo aver messo in risalto le diversità tra le prestazioni di assistenza sociale, fondate e parametrate totalmente ed esclusivamente sullo stato di bisogno e sulla necessità di assicurare i mezzi necessari per vivere, e le prestazioni previdenziali che da un lato presuppongono un rapporto assicurativo, che è assente nelle prime, e dall'altro sono strutturate e finalizzate in funzione di una tutela più ampia per i lavoratori assicurati, e rilevato che tale differenza trova fondamento proprio nell'art. 38 Cost., che al comma 1 garantisce ai cittadini inabili e bisognosi il minimo esistenziale necessario per vivere, mentre al comma 2 garantisce ai lavoratori non soltanto la soddisfazione dei bisogni alimentari di pura sussistenza materiale, bensì anche il soddisfacimento di ulteriori esigenze relative al tenore di vita consentito da un pregresso reddito di lavoro, ha concluso confermando l'indirizzo consolidato, dell'applicabilità del comma 2 dell'art. 13 c.p.c., con riguardo alle prestazioni previdenziali, mentre ha enunciato il principio innanzi indicato per le controversie relative alle prestazioni assistenziali.

Sez. 6-L, n. 00545/2015, Pagetta, Rv. 634268, afferma poi che la parte, che ai fini dell'esenzione delle spese nelle cause per prestazioni previdenziali ha l'onere, ai sensi dell'art. 152 disp. att. c.p.c., di formulare la dichiarazione sostitutiva di certificazione del reddito, attestante il rispetto della soglia reddituale, con la quale si impegna altresì a comunicare le eventuali variazioni rilevanti dei limiti reddituali intervenute fino alla definizione del processo, nel ricorso per cassazione avverso la sentenza d'appello di condanna alle spese per l'assenza in atti della prescritta dichiarazione, non può limitarsi a richiamare quella contenuta negli atti del giudizio di primo grado, ma è tenuta a riprodurne il contenuto, onde permettere la verifica della sua conformità alle prescrizioni di legge.

7.5. L'accertamento tecnico preventivo ex art. 445 bis c.p.c.

Le prime tre sentenze dell'anno in tema di accertamento tecnico preventivo previdenziale (di seguito a.t.p.), la Sez. L. n. 08533/2015, Rv 635345, la Sez. L. n. 08878/2015, Rv. 636354 e la Sez. L. 08932/2015, Rv, 635347, unico relatore Ghinoy, oltre che per le questioni specifiche affrontate, evidenziate dai principi massimati che saranno innanzi riportati, assumono una particolare rilevanza in quanto nella parte motiva segnano una attesa inversione di tendenza rispetto alla posizione inizialmente assunta dalla S. C. in ordine alla natura dello strumento processuale e soprattutto alla posizione ed i poteri del giudice nella prima fase di questa procedura.

Appare infatti definitivamente abbandonata l'interpretazione proposta da Sez. L, n. 06085/2014, La Terza, Rv. 630605 e 630606, che configurava per il giudice quasi un obbligo di procedere all'espletamento della consulenza medico-legale, senza alcun vaglio preventivo dei presupposti processuali della domanda, a favore invece di una valorizzazione, con finalità deflattiva e antiabusiva, dei poteri giurisdizionali in merito alla verifica preliminare dell'inesistenza di ostacoli al riconoscimento del diritto alla prestazione richiesta, e quindi dell'ammissibilità dell'a.t.p. in proiezione di un effettivo interesse ad agire della parte.

La Suprema Corte chiarisce, infatti, che prima di dare ingresso all'accertamento medico legale il giudice è chiamato ad accertare sommariamente la propria competenza, la ricorrenza di una delle ipotesi per le quali è previsto il ricorso alla procedura prevista dall'art. 445 bis c.p.c., l'avvenuta presentazione della domanda amministrativa e del ricorso amministrativo, la tempestività del ricorso giudiziario rispetto alle possibile decadenze, la sussistenza di presupposti costitutivi della prestazione di immediata ed incontrovertibile percezione; solo qualora tale verifica abbia dato esito positivo potrà proseguire nella procedura, mentre, in mancanza di uno di tali elementi, dovrà dichiarare il ricorso inammissibile, con una pronuncia priva di incidenza con efficacia di giudicato su situazioni soggettive di natura sostanziale, che non preclude infatti l'ordinario giudizio di cognizione sul diritto vantato.

In linea con tale ricostruzione, Sez. L, n. 08932/2015, Ghinoy, Rv. 635347, statuisce che non è ricorribile per cassazione ex art. 111 Cost. l'ordinanza di inammissibilità del ricorso per a.t.p. per difetto dei relativi presupposti, in quanto di tratta di un provvedimento che non incide con effetto di giudicato sulla situazione soggettiva sostanziale, data la possibilità per l'interessato di promuovere il giudizio di merito e la sua idoneità a soddisfare la condizione di procedibilità di cui all'art. 445 bis, comma 2, c.p.c., perché conclusivo della fase sommaria.

Sez. L, n. 08533/2015, Ghinoy, Rv. 635345, sul presupposto che l'a.t.p. ex art. 445 bis c.p.c., avente ad oggetto la verifica dei requisiti sanitari che legittimano la pretesa previdenziale o assistenziale, diviene definitivo, in assenza di contestazioni, con il decreto di omologa, vincolando poi l'ente competente all'erogazione, salvo l'accertamento dei soli requisiti giuridico-economici della prestazione invocata, riconosce all'Istituto un interesse, ex art. 100 c.p.c., a contestare le conclusioni della consulenza che accerti la sussistenza delle condizioni per una delle prestazioni cui il ricorso è preordinato.

In Sez. L, n. 08878/2015, Ghinoy, Rv. 635354, si chiarisce invece che il decreto di omologa del requisito sanitario ritenuto sussistente dal c.t.u., emesso dal giudice ai sensi dell'art. 445 bis, comma 5, c.p.c., non è impugnabile con ricorso per cassazione ex art. 111 Cost. in assenza di tempestive contestazioni, poiché le conclusioni dell'accertamento divengono intangibili solo se non contestate nel termine fissato dal giudice ai sensi del comma 4 dello stesso articolo, con possibilità delle parti di impedire, quindi, l'emissione stessa del decreto di omologa e ciò in ragione della necessità di contemperare le esigenze di tutela del diritto di difesa con quelle di garanzia della ragionevole durata del processo.

Le ulteriori decisioni in tema contribuiscono poi a chiarire le regole processuali applicabili a questo procedimento ibrido e peculiare.

Sez. L, n. 12332/2015, Manna A., Rv. 635843, evidenzia che la sentenza emessa all'esito del giudizio di merito conseguente all'accertamento tecnico preventivo previdenziale è soggetta all'ordinario ricorso per cassazione ex art. 360 c.p.c., e non al ricorso straordinario ex art 111 Cost., trattandosi di provvedimento la cui appellabilità è esclusa dall'art. 445 bis, ultimo comma, c.p.c.; nella stessa sentenza si evidenzia, con il principio di cui alla massima Rv. 635844, che la parte che intenda contestare le conclusioni del consulente tecnico di ufficio è tenuta, a pena di inammissibilità, a specificarne i motivi non già con la presentazione della dichiarazione di dissenso ex art. 445 bis, comma 4, c.p.c., ma direttamente con il successivo ricorso introduttivo del giudizio di cui al comma 6, poiché non prevedendo la norma una fase intermedia di interlocuzione con il giudice o la controparte, è processualmente inutile anticipare la specificazione delle ragioni di contestazione al momento della dichiarazione di cui al comma 4, tanto più che a quest'ultima potrebbe anche non seguire l'introduzione del giudizio di cognizione.

Secondo Sez. L, n. 13662/2015, Manna A., Rv. 635957, va comunque escluso che l'ammissione della consulenza tecnica in sede di a.t.p. ex art. 445 bis c.p.c., prima che sia stata verificata l'esistenza dell'interesse ad agire e dei requisiti socio economici previsti dalla legge, comporti un error in procedendo sanzionato dalla legge a pena di nullità, sicché tale vizio non è deducibile in cassazione ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c.

Sempre in tema, Sez. 6-L, n. 13550/2015, Arienzo Rv. 635841, afferma che anche la statuizione sulle spese, contenuta nella sentenza che chiude il procedimento instaurato a seguito del dissenso della parte ricorrente, è impugnabile con ricorso ordinario per cassazione, trattandosi di provvedimento non appellabile ma per il quale non è precluso il ricorso per cassazione, mentre per Sez. L, n. 11919/2015, Tria, Rv. 635664, è inammissibile, per difetto di interesse, l'impugnazione del decreto di omologa relativamente alla declaratoria di compensazione delle spese ove il ricorso, volto ad ottenere il mero accertamento di condizioni sanitarie, non abbia ad oggetto la richiesta di specifici benefici ma sia solo prodromico alla proposizione di eventuali future domande amministrative.

  • titolo di credito
  • esecuzione della sentenza
  • espropriazione

CAPITOLO XXXIX

IL PROCESSO DI ESECUZIONE

(di Raffaele Rossi )

Sommario

1 Condizioni dell'azione esecutiva. - 2 Titolo esecutivo. - 3 Espropriazione presso terzi. - 4 Espropriazione immobiliare: forma dell'atto di pignoramento e suo oggetto. Svariati i profili di disciplina della espropriazione immobiliare passati al vaglio del giudice della nomofilachia. - 4.1 La vendita forzata. - 5 Opposizioni esecutive: profili comuni. - 6 Opposizione all'esecuzione e opposizione di terzo all'esecuzione. - 7 Opposizione agli atti esecutivi. - 8 Controversie in sede di distribuzione del ricavato. - 9 Sospensione dell'esecuzione.

1. Condizioni dell'azione esecutiva.

In tutte le sue diversificate tipologie, il processo esecutivo costituisce estrinsecazione del potere di azione, teleologicamente finalizzato alla soddisfazione di un diritto di credito accertato in un titolo esecutivo, la cui esistenza è stata tradizionalmente considerata la sola condizione, ad un tempo necessaria e sufficiente, per procedere ad esecuzione forzata (nulla executio sine titulo).

Ma l'esecuzione forzata è anche una forma di attività giurisdizionale, come tale permeata dai (anzi, soggiacente ai) principi di grado sovraordinato che conformano ogni controversia: le regole della correttezza e buona fede cui dev'essere improntata la condotta delle parti, il giusto processo, la durata ragionevole dei giudizi.

Proprio muovendo da queste considerazioni di fondo, la giurisprudenza dell'anno in rassegna è giunta a denegare la esperibilità della tutela esecutiva se volta a soddisfare bisogni o conseguire beni giuridicamente irrilevanti, attribuendo all'interesse ad agire valenza di condizione dell'azione esecutiva esterna ed autonoma, abbisognevole cioè di verifica in concreto e non già elemento implicito nel titolo esecutivo, in re ipsa ravvisabile per il solo fatto della sussistenza di un titolo, valido ed efficace, e di un diritto di credito non ancora estinto.

Così, Sez. 3, n. 04228/2015, Salmè, Rv. 634704, ha ritenuto, in caso di crediti a contenuto e funzione esclusivamente patrimoniali, difetti, ex art. 100 c.p.c., l'interesse a promuovere l'espropriazione forzata quando l'entità economica del credito sia oggettivamente minima e perciò giuridicamente irrilevante, dovendo la tutela del diritto di azione ex art. 24 Cost. essere contemperata, per esplicita od anche implicita disposizione di legge, con le regole di correttezza e buona fede, nonché con i principi del giusto processo e della durata ragionevole dei giudizi ex art. 111 Cost. e 6 CEDU (nella specie, il creditore, dopo aver ricevuto il pagamento della complessiva somma portata in precetto, pari ad euro 17.854,94, aveva ugualmente avviato la procedura esecutiva, nelle forme del pignoramento presso terzi, per l'intero importo, deducendo, nel corso della procedura stessa, l'esistenza di un residuo credito di circa euro 12,00 per interessi maturati tra la data di notifica del precetto e la data del pagamento).

Il principio, costituzionalmente garantito, del giusto processo e l'imprescindibile osservanza degli obblighi di buona fede e correttezza giustificano altresì una limitazione al possibile esercizio dell'azione esecutiva allorquando l'iniziativa del creditore configuri un abuso dello strumento processuale.

Affermata la astratta legittimità del cumulo dei mezzi di espropriazione (cioè a dire della facoltà del creditore di promuovere nei confronti del debitore plurime procedure coattive, anche di diverso tipo, sino alla soddisfazione effettiva ed integrale del credito), Sez. 3, n. 07078/2015, Rubino, Rv. 635106, ritiene che l'emissione di un'ordinanza di assegnazione, sebbene di regola non precluda la possibilità di ottenerne altre in relazione allo stesso titolo e fino alla soddisfazione effettiva del credito, rende illegittima la scelta del creditore di intraprendere una nuova esecuzione, allorché egli sia stato integralmente soddisfatto in forza di detto provvedimento e non deduca la mancata ottemperanza all'ordine di assegnazione da parte del suo destinatario.

Per converso, vanno ravvisati l'interesse e la legittimazione ad agire in via esecutiva anche se il creditore sia stato costituito in mora dal debitore. Ad avviso di Sez. 3, n. 08711/2015, Barreca, Rv. 635204, infatti, mora accipiendi e liberazione del debitore non coincidono: la prima (nel caso, in conseguenza di un'offerta di restituzione) vale unicamente a stabilire il momento di decorrenza degli effetti della mora, specificamente indicati dall'art. 1207 c.c.; la seconda, invece, resta subordinata, per legge, all'esecuzione del deposito accettato dal creditore o dichiarato valido con sentenza passata in giudicato.

2. Titolo esecutivo.

Il catalogo dei titoli esecutivi descritto dall'art. 474 c.p.c. costituisce - come è noto - un numerus clausus, per essere riservata l'idoneità a giustificare la soddisfazione in forma coattiva dei crediti ad atti o provvedimenti tassativamente individuati dalla legge.

Non di rado, tuttavia, la giurisprudenza si è trovata a dirimere controversie in ordine alla qualificazione come titolo esecutivo di determinati provvedimenti giudiziali per i quali, in difetto di espressa attribuzione positiva, la efficacia in executivis derivi dalla considerazione sistematica dell'ordito normativo e si correli alla natura e funzione del provvedimento stesso.

In questo filone si inseriscono:

- Sez. 3, n. 13316/2015, Vivaldi, Rv. 635982, secondo cui il decreto di approvazione dell'attribuzione di quote nelle operazioni di divisione, emanato ai sensi dell'art. 195 disp. att. c.p.c., costituisce titolo esecutivo eseguibile anche nei confronti del terzo detentore del bene, il quale è legittimato a proporre opposizione all'esecuzione forzata per rilascio solo a condizione della esistenza in suo favore di un titolo autonomo;

- Sez. 3, n. 20593/2015, Chiarini, Rv. 637444, secondo cui il provvedimento emesso ai sensi dell'art. 669 terdecies c.p.c., confermativo dell'ordinanza con la quale il giudice di prime cure abbia rigettato la richiesta di reintegra nel possesso, rappresenta titolo esecutivo per il pagamento delle spese di giudizio, sostituendo integralmente, in conseguenza dell'effetto devolutivo, l'ordinanza reclamata, sicché se l'esecuzione non ha avuto inizio in base al primo titolo esecutivo, va notificato il solo provvedimento emesso sul reclamo.

In presenza di dubbio sulla riconduzione nell'ambito dei titoli esecutivi di formazione stragiudiziale, l'accertamento giudiziale concerne invece (non solo la forma ma innanzitutto) il contenuto del documento.

A parere di Sez. 3, n. 17194/2015, Rubino, Rv. 636305, al fine di accertare se un contratto di mutuo possa essere utilizzato quale titolo esecutivo, ai sensi dell'art. 474 c.p.c., occorre verificare, attraverso la sua esegesi integrata con quanto previsto nell'atto di erogazione e quietanza o di quietanza a saldo ove esistente, se esso contenga pattuizioni volte a trasmettere con immediatezza la disponibilità giuridica della somma mutuata, e che entrambi gli atti, di mutuo ed erogazione, rispettino i requisiti di forma imposti dalla legge.

Ancora in materia di titolo esecutivo, merita segnalazione Sez. 3, n. 10543/2015, De Stefano, Rv. 635608, la quale, con diffusa ed articolata motivazione, ricostruisce analiticamente la peculiare figura del titolo esecutivo europeo, istituito con il Regolamento CE 21 aprile 2004, n. 805. In detta pronuncia, la S.C. chiarisce che il titolo esecutivo europeo non corrisponde ad una procedura sui generis, ma si articola nella combinazione di due distinti atti o provvedimenti e cioè: - da un lato, un titolo esecutivo domestico, stragiudiziale (con alcune peculiarità) oppure reso all'esito di una procedura giudiziale nazionale tipica nella quale però siano state osservate norme procedurali minime da cui possa desumersi una non contestazione da parte del debitore ingiunto; - dall'altro lato, un provvedimento emesso dallo Stato di formazione del titolo, ulteriore e distinto rispetto ad esso, che riscontri il rispetto di tali norme, ovvero il certificato di titolo esecutivo europeo vero e proprio, che rende il titolo idoneo alla circolazione intraeuropea e a fondare un processo esecutivo in uno qualsiasi degli altri Stati membri dell'Unione. Da tale premessa sistematica, si inferisce che il certificato, avente la descritta funzione meramente servente rispetto al titolo esecutivo nazionale, non ha natura decisoria, sicché le contestazioni del debitore relative alla regolare formazione del titolo esecutivo, debbono essere fatte valere unicamente attraverso i mezzi di impugnazione esperibili avverso di esso, mentre va escluso che il provvedimento adottato dalla Corte di appello in sede di reclamo proposto avverso il diniego di revoca del certificato possa essere impugnato con ricorso per cassazione ex art. 111 Cost.

Quanto all'efficacia ultra partes del titolo, ovvero nei confronti di soggetti diversi dal debitore, la specifica previsione relativa agli eredi del debitore dettata dall'art. 477 c.p.c. è stata esaminata da Sez. 3, n. 14653/2015, Barreca, Rv. 636290, chiara nel precisare che la citata norma non impone alcun obbligo di notificare nuovamente il titolo esecutivo ed il precetto agli eredi di una persona defunta alla quale siano già stati notificati sia l'uno che l'altro, sussistendo invece tale obbligo qualora alla persona poi defunta non sia stato notificato né l'uno né l'altro, oppure sia stato notificato solo il titolo esecutivo e non anche il precetto.

3. Espropriazione presso terzi.

Numericamente non cospicue nell'anno in rassegna le decisioni degne di attenzione in materia di espropriazione presso terzi.

Quanto ai requisiti di forma-contenuto ed alla scansione temporale dell'atto introduttivo, si segnalano:

- Sez. 3, n. 06835/2015, Barreca, Rv. 634822, per cui è solo irregolare - e non già affetto da inesistenza o nullità - il pignoramento presso terzi in cui l'intimazione al terzo pignorato di non disporre, senza ordine del giudice, delle somme o delle cose da lui dovute al debitore esecutato appaia proveniente dall'ufficiale giudiziario, richiesto di effettuare il pignoramento, piuttosto che dal creditore pignorante, tenutovi ai sensi dell'art. 543, comma 2, n. 2), c.p.c.;

- Sez. 3, n. 02742/2015, Chiarini, Rv. 634370, secondo cui il pignoramento presso terzi eseguito prima del perfezionamento della notificazione del precetto nei confronti del debitore è legittimo qualora sia stata concessa l'autorizzazione all'esecuzione immediata ex art. 482 c.p.c., poiché in tal caso l'atto prodromico ha la sola funzione di informare il destinatario dell'iniziativa esecutiva del creditore e non quella di consentire l'adempimento spontaneo.

Nella espropriazione presso terzi, una evenienza assai frequente (quasi paradigmatica) è la sottoposizione a pignoramento di crediti aventi scaturigine in rapporti bancari: sul tema, di estremo interesse, si veda Sez. 3, n. 06393/2015, Vivaldi, Rv. 634964, puntuale nel sottolineare che in ipotesi di contratto di conto corrente bancario affidato con saldo negativo, il creditore non può pignorare le singole rimesse che, affluite sul conto del debitore, abbiano comportato la mera riduzione dello scoperto, ma eventualmente il solo saldo positivo, atteso che il contratto in questione dà luogo ad un rapporto giuridico unitario, composto da poste attive e passive, che non si risolve a seguito del pignoramento.

L'esito naturale dell'espropriazione presso terzi, satisfattivo delle pretese creditorie con la stessa azionate, nonché atto conclusivo del procedimento, è rappresentato dalla ordinanza di assegnazione dei crediti staggiti emessa dal G.E., la quale, ancorché non idonea al giudicato, integra titolo esecutivo di formazione giudiziale, suscettibile a sua volta di essere azionato in via coattiva dal creditore assegnatario nei confronti del terzo pignorato.

Quest'ultimo soggetto, tuttavia, non è tuttavia sprovvisto di tutela: ove intenda eccepire al creditore assegnatario fatti estintivi o impeditivi della sua pretesa sopravvenuti alla pronuncia della ordinanza oppure contestare la pretesa azionata con il precetto può avvalersi dell'opposizione all'esecuzione (Sez. 6-3, n. 11493/2015, Barreca, Rv. 635563); qualora invece intenda far valere avverso l'ordinanza di assegnazione vizi di regolarità formale o sostanziale riferiti a singoli atti esecutivi ovvero al provvedimento stesso, può proporre opposizione agli atti esecutivi (Sez. L, n. 19157/2015, Patti, Rv. 637191).

Circa la decorrenza del termine perentorio per opporre ex art. 617 c.p.c. l'ordinanza di assegnazione, Sez. 3, n. 21081/2015, Barreca, Rv. 637447, opera una attenta distinzione. La pronuncia individua infatti il dies a quo nella data di emissione del provvedimento reso in udienza alla presenza del terzo qualora si tratti di procedure regolate dall'art. 543 c.p.c. nella formulazione anteriore alla modifica operata dalla legge 24 febbraio 2006, n. 52; nelle espropriazioni presso terzi assoggettate al così novellato regime (in cui non è più prevista la citazione del terzo a comparire per rendere la dichiarazione di cui all'art. 547 c.p.c. bensì la comunicazione a mezzo lettera da parte del medesimo al creditore circa l'esistenza del credito), il termine decorre, per il terzo, dal momento in cui questi ne abbia legale conoscenza tramite comunicazione da parte del creditore o con altro strumento idoneo, non trovando applicazione l'art. 176, comma 2, c.p.c.: principio di assoluto rilievo, considerata la generalizzazione delle modalità semplificate di rendimento della dichiarazione del terzo (lettera raccomandata o posta elettronica certificata) operata dalla legge 10 novembre 2014, n. 162.

Sullo stesso argomento, Sez. 6-3, n. 25110/2015, Barreca, Rv. 638306, ribadisce la centralità della conoscenza legale: il termine per proporre l'opposizione agli atti esecutivi avverso l'ordinanza di assegnazione ex art. 553 c.p.c. decorre, per il terzo pignorato, dal momento in cui ha avuto conoscenza legale di questa ordinanza tramite notificazione da parte del creditore, e non dalla data di notifica dell'atto di precetto, se effettuata successivamente alla notificazione dell'ordinanza di assegnazione che costituisce il titolo per agire in executivis nei confronti del terzo.

Ancora in ordine alla posizione del terzo pignorato, Sez. 3, n. 13191/2015, Rossetti, Rv. 635974, ne esclude la qualità di parte necessaria nei giudizi di opposizione all'esecuzione o agli atti esecutivi da altri soggetti intraprese, qualora non sia interessato alle vicende processuali relative alla legittimità e alla validità del pignoramento, dalle quali dipende la liberazione dal relativo vincolo.

4. Espropriazione immobiliare: forma dell'atto di pignoramento e suo oggetto. Svariati i profili di disciplina della espropriazione immobiliare passati al vaglio del giudice della nomofilachia.

Muovendosi secondo l'ordinaria serie procedimentale, vanno considerate in primis le pronunce afferenti la struttura del pignoramento, quale atto complesso avente ad oggetto un diritto reale su bene immobile, questione resa problematica dalle peculiari connotazioni giuridiche della res aggredita e dalla necessaria incidenza delle regole della pubblicità immobiliare.

Nella ricostruzione ermeneutica della sequenza delle attività contemplate dall'art. 555 c.p.c. ("il pignoramento immobiliare si esegue mediante notificazione al debitore e successiva trascrizione di un atto>>), la basilare Sez. 3, n. 07998/2015, Barreca, Rv. 635099, all'esito di una compiuta disamina dei differenti orientamenti espressi dai precedenti di legittimità, configura i due adempimenti della notificazione e della trascrizione come elementi strutturali di una fattispecie a formazione progressiva, differenziando le funzioni assolte da ciascuno di essi. In dettaglio, la notificazione al debitore esecutato - con la ingiunzione ai sensi dell'art. 492 c.p.c. in esso contenuta - è l'atto di inizio del processo esecutivo, necessario e sufficiente per la produzione di effetti autonomamente rilevanti (imprimere il vincolo di indisponibilità sul bene, costituire il debitore custode ex lege dello stesso); la trascrizione nei registri immobiliari ha invece la funzione di completare e perfezionare il pignoramento, determinando effetti di natura sostanziale, quale condizione di efficacia dell'atto nei confronti dei terzi (oltre che di pubblicità notizia nei riguardi dei creditori concorrenti) ma anche di natura processuale, ponendosi come presupposto imprescindibile perché l'esecuzione si svolga e raggiunga il suo esito fisiologico, talché, in caso di mancanza o di inefficacia della trascrizione, il giudice non può dare seguito ad un'istanza di vendita del bene.

Nello stesso ordine di idee, dalla rilevanza della trascrizione quale atto integrativo della efficacia del pignoramento immobiliare - preordinata alla opponibilità ai terzi della vendita o dell'assegnazione ed impeditiva, se omessa o inefficace, della messa in vendita del bene - Sez. 3, n. 09572/2015, Vivaldi, Rv. 635270, desume l'applicabilità al termine per la rinnovazione della trascrizione della disposizione (di carattere generale giusta gli artt. 1187, comma 2, c.c. e 155, comma 4, c.p.c.) concernente la proroga di diritto del giorno di scadenza, se festivo, al primo giorno seguente non festivo.

La considerazione in modo unitario delle due articolazioni del pignoramento immobiliare (cioè a dire della reciproca interazione, per complementarietà di destinatari e funzioni, tra l'atto di pignoramento notificato al debitore e la sua trascrizione) sorregge l'iter argomentativo di Sez. 3, n. 06833/2015, De Stefano, Rv. 635143, chiamata a delibare sulla ritualità di un atto di pignoramento immobiliare privo - a differenza della nota della sua trascrizione - dell'indicazione dell'esatta quota di proprietà, in capo al debitore, dell'immobile staggito. Elemento essenziale per la funzionalità stessa del processo esecutivo è la compiuta e certa identificazione del bene staggito sin dal pignoramento al fine di garantirne la successiva circolazione: sussiste pertanto nullità del pignoramento di beni appartenenti solo in quota all'esecutato ove, nel relativo atto, non sia indicata la misura di quest'ultima, dovendosi tuttavia escludere qualsivoglia vizio inficiante qualora la misura della quota dell'esecutato si ricavi univocamente dalla nota di trascrizione, avuto riguardo alla reciproca integrazione tra i due atti e del generale principio di conservazione degli atti del processo.

Relativa alla forma del pignoramento è pure Sez. 3, n. 02859/2015, Barreca, Rv. 634397: è valido l'atto ex art. 555 c.p.c. recante un'unica sottoscrizione dell'ufficiale giudiziario, apposta in calce alla relazione di notificazione stilata di seguito all'ingiunzione al debitore ex art. 492 c.p.c., garantendo siffatta sottoscrizione la provenienza dall'ufficiale giudiziario anche dell'ingiunzione.

Come è noto, compete al giudice dell'esecuzione il potere-dovere di verificare, mediante l'esame della documentazione ipocatastale ex art. 567 c.p.c., la titolarità in capo al debitore esecutato del diritto (di proprietà o diritto reale minore) pignorato sull'immobile, verifica di natura formale basata su indici di appartenenza del bene desumibili dalle risultanze dei registri immobiliari. Ad avviso di Sez. 3, n. 06833/2015, De Stefano, Rv. 635143, l'accertamento, a seguito di detta verifica, di una estensione del diritto nella titolarità del debitore di contenuto minore rispetto a quanto prospettato nel pignoramento (definibile, quindi, in eccesso), non inficia l'espropriazione: per il principio di conservazione degli atti processuali, il pignoramento resta valido ed efficace limitatamente al diritto nella minore estensione o quota di cui l'esecutato sia titolare, alla duplice condizione che non si dia luogo alla costituzione di nuovi diritti (in precedenza inesistenti) sul bene staggito e che il creditore, annettendo espressamente carattere di inscindibilità al diritto pignorato, non insista sulla vendita del diritto sul bene come da lui erroneamente individuato e non di altro o minore.

Quanto all'oggetto della espropriazione immobiliare, Sez. 1, n. 19658/2015, Nappi, Rv. 637271, ribadisce la validità della vendita forzata di immobile urbanisticamente abusivo, non applicandosi alla procedura esecutiva la nullità prevista dall'art. 40, comma 5, della legge 28 febbraio 1985, n. 47.

4.1. La vendita forzata.

Fatte salve evenienze particolari che determinano un diverso esito (ad esempio, la conversione del pignoramento), il momento centrale della espropriazione forzata immobiliare è rappresentato dalla fase liquidativa, ovvero dalla trasformazione del bene staggito in denaro da distribuire poi tra i creditori.

La complessa sequenza delle operazioni di liquidazione forzata dell'immobile pignorato è retta da un provvedimento del giudice dell'esecuzione, l'ordinanza che dispone la vendita, che costituisce la lex specialis dell'intero segmento procedimentale e regola, anche mediante una eterointegrazione del dato positivo (cioè con statuizioni ulteriori rispetto alle previsioni minime normative), modalità, tempi e condizioni della vendita.

La rigorosa ed incondizionata osservanza delle prescrizioni dettate con l'ordinanza di vendita, anche in ordine ad eventuali modalità straordinarie di pubblicità aggiuntive rispetto a quelle obbligatorie di cui all'art. 490 c.p.c., si impone dunque a garanzia dell'uguaglianza e parità di condizioni tra tutti i potenziali partecipanti alla gara, nonché dell'affidamento da ciascuno di loro riposto nella trasparenza e complessiva legalità della procedura: questi argomenti inducono Sez. 3, n. 09255/2015, De Stefano, Rv. 635283, a reputare che la violazione delle condizioni di vendita fissate con l'ordinanza ex art. 569 c.p.c. comporti l'illegittimità dell'aggiudicazione, che può essere fatta valere da tutti gli interessati, cioè da tutti i soggetti del processo esecutivo, compreso il debitore.

Sulla validità della ordinanza di vendita - precisa Sez. 3, n. 02474/2015, Vivaldi, Rv. 634267 - non incide invece la circostanza che il prezzo base sia stato fissato con riferimento ad una stima effettuata da un esperto verosimilmente inferiore al valore effettivo di mercato, trattandosi di un dato indicativo, che non pregiudica l'esito della vendita e la realizzazione del giusto prezzo attraverso la gara tra più offerenti.

Come ogni provvedimento reso dal G.E., anche l'ordinanza che dispone la vendita è suscettibile di revoca o modifica, in ossequio al dettato dell'art. 487 c.p.c.; modifica ritenuta praticabile, in un fattispecie del tutto singolare, da Sez. 3, n. 03607/2015, Rubino, Rv. 634526, mediante un provvedimento generale innovativo delle condizioni di svolgimento di tutte le vendite forzate dell'ufficio, purché emesso prima dell'esperimento di vendita, debitamente pubblicizzato nelle forme di cui all'art. 490 c.p.c. e non impugnato con l'opposizione agli atti esecutivi (nel caso, si è ritenuta valida la vendita senza incanto in cui l'aggiudicatario del bene aveva versato il saldo prezzo nel termine - diverso e maggiore rispetto a quello originariamente fissato nell'ordinanza ex art. 569 c.p.c. - successivamente stabilito dal G.E. con un provvedimento generale modificativo di tutte le vendite forzate).

Impregiudicato l'esercizio del potere di modifica del G.E., la immutabilità delle condizioni del subprocedimento di vendita fissate con l'ordinanza ex art. 569 c.p.c. è volta a garantire, per l'intero dipanarsi della fase liquidativa, l'uguaglianza e la parità di trattamento tra tutti i partecipanti alla gara, fondamentale presidio di trasparenza della vendita e di tutela dell'affidamento della platea indifferenziata dei potenziali offerenti: così opinando, Sez. 3, n. 11171/2015, De Stefano, Rv. 634526, conclude per la natura perentoria e non prorogabile del termine (fissato dalla legge o dal giudice) per il versamento del saldo del prezzo ad opera del soggetto aggiudicatario del bene staggito.

Scopo della fase liquidativa è di pervenire alla vendita dell'immobile pignorato ad un prezzo "giusto": lo si desume, con chiarezza, dal disposto dell'art. 586 c.p.c., che conferisce al giudice dell'esecuzione un potere discrezionale, alternativo rispetto all'emissione del decreto di trasferimento, di sospendere la vendita <<quando ritiene che il prezzo offerto sia notevolmente inferiore a quello giusto>>.

Un'organica ricostruzione dell'istituto - da sempre foriero di incertezze ermeneutiche e difficoltà applicative - è stata operata da Sez. 3, n. 18451/2015, Frasca, Rv. 636807.

In primo luogo, la pronuncia citata, a dispetto della non perspicua formulazione del dato positivo (frutto di un difetto di coordinamento), colloca l'epoca di esercitabilità del potere di sospensione sin dal momento dell'aggiudicazione, e non già soltanto dopo l'avvenuto versamento del prezzo da parte dell'aggiudicatario.

Di poi, in una lettura sistematica dei principi informanti l'espropriazione immobiliare, definisce le situazioni in cui può trovare applicazione la sospensione della vendita, qualificando come "giusto" il prezzo la cui determinazione è avvenuta secondo il modello procedimentale previsto dal legislatore ovvero sulla base di una partecipazione consapevole e accompagnata dalla possibilità di interlocuzione delle parti del processo. Enucleando una sorta di catalogo delle vicende rilevanti, la S.C. conclude nel senso che il potere di sospendere la vendita ex art. 586 c.p.c. vada esercitato allorquando: a) si verifichino fatti nuovi successivi all'aggiudicazione; b) emerga che nel procedimento di vendita siano avvenute interferenze illecite di natura criminale che abbiano influenzato il procedimento di vendita, ivi compresa la stessa stima; c) il prezzo fissato nella stima posta a base della vendita sia stato frutto di dolo scoperto dopo l'aggiudicazione; d) vengano prospettati da una parte del processo esecutivo fatti o elementi che essa sola conosceva anteriormente all'aggiudicazione e che non erano conosciuti o conoscibili dalle altre parti prima di essa, purché queste ultime li facciano propri esse stesse, adducendo tale soltanto tardiva acquisizione di conoscenza come ragione giustificativa per l'esercizio del potere del giudice dell'esecuzione.

Limite preclusivo alla sospensione della vendita è la emissione del decreto di trasferimento, da intendersi, secondo Sez. 3, n. 10251/2015, Rubino, Rv. 635448, con riferimento alla data in cui esso viene depositato in cancelleria, in forza del principio per cui i provvedimenti del giudice civile acquistano giuridica esistenza dal momento di siffatto deposito (nella specie, è stata considerata ammissibile l'istanza di sospensione della vendita e di revoca o annullamento dell'aggiudicazione proposta quando il decreto di trasferimento, pur sottoscritto, non era ancora stato depositato).

Interferenze tra esecuzioni immobiliari singolari e procedure concorsuali possono accadere quando l'azione esecutiva sia intrapresa per soddisfare un credito nascente da un finanziamento fondiario, dacché in tal caso l'art. 41, comma 2, del d.lgs. 1° settembre 1993, n. 385, abilita il creditore a proseguire l'espropriazione sui beni individuali anche successivamente alla dichiarazione di fallimento del debitore, in deroga al disposto dell'art. 51 della legge fallimentare. Sull'argomento, di rilievo è Sez. 1, n. 06377/2015, Didone, Rv. 634946: la peculiare disciplina di tutela del credito fondiario non deroga alla norma imperativa dettata dall'art. 52 della legge fallimentare (per cui ogni credito, anche se munito di diritto di prelazione o esentato dal divieto di azioni esecutive, deve essere accertato nelle forme e con le modalità del concorso), talché l'insinuazione al passivo configura un onere per la banca mutuante al fine dell'esercizio del diritto di trattenere definitivamente, nei limiti del quantum spettante a ciascun creditore concorrente all'esito del riparto in ambito fallimentare, le somme provvisoriamente percepite a titolo di anticipazione in sede esecutiva.

5. Opposizioni esecutive: profili comuni.

L'anno in rassegna traccia nella giurisprudenza di legittimità il definitivo consolidamento di indirizzi esegetici - già in passato espressi - concernenti la struttura caratterizzante le opposizioni esecutive in senso stretto (cioè a dire le opposizioni proposte dopo l'inizio della procedura esecutiva), come delineate dalla riforma praticata con la legge 24 febbraio 2006, n. 52.

Al riguardo, è affermazione oramai condivisa che i giudizi di opposizione siano articolati in una duplice fase: la prima, a carattere necessario, introdotta da un ricorso diretto al giudice dell'esecuzione e svolta nelle forme del rito camerale (richiamato dall'art. 185 disp. att. c.p.c.) si conclude con un'ordinanza - di natura e contenuto cautelare - con la quale si decide sull'istanza di sospensione della procedura (ovvero, nell'ipotesi di opposizione agli atti esecutivi, di adozione dei provvedimenti indilazionabili), statuendo altresì sulle spese della fase; la seconda, meramente eventuale, si svolge innanzi al giudice competente ai sensi dell'art. 27, comma 2, c.p.c., secondo le modalità (inerenti, innanzitutto, la forma dell'atto introduttivo) del processo ordinario di cognizione (ovvero, nei casi previsti dall'art. 618 bis c.p.c., secondo il rito speciale) ed ha ad oggetto il merito della lite, venendo definita con sentenza idonea al giudicato. L'anello di congiunzione tra i due descritti segmenti è costituito dal termine perentorio, stabilito nella ordinanza conclusiva della prima fase, per la introduzione (o per la riassunzione) della causa di merito innanzi al giudice competente; la cesura che così si configura è tuttavia unicamente funzionale all'attribuzione della cognizione sul merito dell'opposizione ad un giudice tendenzialmente diverso da quello che ha trattato la fase sommaria, ma non esclude - in ragione dello stretto ed ineludibile collegamento tra le due fasi - il carattere unitario del processo di opposizione.

Dalla unitarietà delle opposizioni esecutive (ancorché distinte in una doppia fase) discendono, in linea di logica coerenza, i seguenti, specifici, postulati, tratti da vicende esaminate nell'anno dalla S.C.:

- la procura alle liti conferita per la fase camerale (cioè a dire in relazione al ricorso proposto innanzi al giudice dell'esecuzione) si presume rilasciata anche per il successivo giudizio di merito, salva espressa limitazione dello ius postulandi alla prima fase (Sez. 3, n. 17307/2015, Amendola, Rv. 636430; nello stesso senso, Sez. 3, n. 07117/2015, Barreca, Rv. 635095);

- l'atto di citazione per la controversia di merito è validamente notificato presso il difensore nominato con la procura alle liti rilasciata già nella prima fase, in mancanza di una diversa ed esplicita volontà della parte destinataria che abbia limitato alla fase sommaria la validità del mandato difensivo (Sez. 3, n. 07997/2015, Barreca, Rv. 635096), con la precisazione che se la notificazione dell'atto introduttivo del giudizio di merito sia stata eseguita non personalmente alla parte destinataria, ma nel domicilio da questa eletto presso il difensore già designato per la fase sommaria del medesimo processo, è onere di chi eccepisce la nullità della notificazione provare la espressa limitazione alla fase sommaria della procura conferita (Sez. 3, n. 07997/2015, Barreca, Rv. 635097);

- l'ordinanza con la quale il giudice dell'esecuzione definisce la fase sommaria, accordando (o meno) la misura cautelare, ed omette di fissare il termine perentorio per l'iscrizione a ruolo della causa di merito non è impugnabile con il ricorso straordinario previsto dall'art. 111, comma 7, Cost., essendo priva del carattere della definitività, anche quando il giudice abbia statuito sulle spese (Sez. 6-3, n. 25111/2015, Barreca, Rv. 638308); la fissazione del termine per l'inizio del giudizio di merito si connota infatti come un provvedimento lato sensu istruttorio, cioè sull'ordine del procedimento, sicchè la sua omissione può essere sanata con il rimedio della integrazione dell'ordinanza ex art. 289 c.p.c., potendo in ogni caso le parti procedere, anche a prescindere da un'istanza del genere, alla iscrizione delle causa di opposizione al ruolo contenzioso (Sez. 6-3, n. 25064/2015, Barreca, Rv. 638027);

- ai fini dell'applicazione del termine d'impugnazione di sei mesi, previsto dall'art. 327 c.p.c., nella formulazione novellata dalla legge 18 giugno 2009, n. 69, ed applicabile ai giudizi instaurati dopo l'entrata in vigore della stessa legge, rileva il momento in cui è stata introdotta la fase sommaria, con il deposito del ricorso dinanzi al giudice dell'esecuzione (Sez. 3, n. 09246/2015, Barreca, Rv. 635234).

Circa il raccordo tra le due scansioni del giudizio, Sez. 3, n. 17306/2015, Amendola, Rv. 636429, chiarisce che il termine, assegnato dal giudice all'esito della trattazione camerale per l'introduzione della fase di merito, non decorre dal deposito del provvedimento sommario, ma dal momento in cui l'interessato ne abbia avuto conoscenza legale o di fatto, non assumendo rilevanza, ai fini del rispetto di detto termine, il compimento delle formalità di iscrizione della causa a ruolo, la quale, pur richiamata dalla norma, ha la sola funzione di rimarcare la diversa cognizione (sommaria nella prima fase, piena nella seconda) tipica della struttura bifasica del giudizio di opposizione.

La incidenza sulle regole di svolgimento del processo dell'articolazione in due fasi delle opposizioni esecutive è ben illustrata da Sez. 3, n. 17312/2015, De Stefano, Rv. 636481: nella fase sommaria, devoluta in via esclusiva al giudice dell'esecuzione, trova operatività il rito deformalizzato dei procedimenti camerali, con la conseguenza che in tale fase non sussistono termini perentori o decadenze per la proposizione di domande riconvenzionali; nelle opposizioni in materia locatizia - cioè avverso esecuzioni fondate su titoli formati in cause aventi ad oggetto situazioni giuridiche soggettive nascenti dalla locazione o dal comodato di immobili urbani - alla fase di merito si applica il peculiare statuto del rito locatizio, giusta l'espresso richiamo al capo II del titolo IV del libro secondo operato dall'art. 618 bis c.p.c. ed in considerazione della razionale tendenziale unitarietà di disciplina processuale tra fase cognitiva e fase esecutiva.

Il modus ingrediendi del giudizio a cognizione piena si correla dunque alla materia oggetto della trattazione, consistendo di norma, salve le speciali ipotesi di cui all'art. 618 bis c.p.c., nell'archetipo della citazione. L'adozione di una differente forma dell'atto introduttivo, tuttavia, ancorché erronea, può non integrare vizio inficiante il processo e rivelarsi invece idonea allo scopo, allorquando il diverso atto in concreto utilizzato costituisca valido succedaneo, contenendo tutti gli elementi prescritti dall'art. 163 c.p.c.: così, valenza equipollente alla citazione è stata attribuita da Sez. 3, n. 07117/2015, Barreca, Rv. 635094, ad una comparsa di risposta integrata con il provvedimento del giudice dell'esecuzione con cui si fissava non solo il termine per notificare, ma anche la data dell'udienza di trattazione.

In ordine al regime della sentenza conclusiva dei giudizi di opposizione, è nota la esperibilità di distinti ed autonomi gravami avverso un'unica sentenza in ragione dei plurimi oggetti della stessa (appello per la parte riferibile all'opposizione all'esecuzione, ricorso per cassazione per la parte riferibile all'opposizione agli atti): sulla base di questo insegnamento, Sez. 6-3, n. 19267/2015, Barreca, Rv. 636948, afferma che qualora vengano contestualmente proposte, con il medesimo atto, un'opposizione all'esecuzione e un'opposizione agli atti esecutivi ed il giudice abbia ritenuto assorbente e si sia pronunciato soltanto in merito a quest'ultima, la sentenza è unicamente ricorribile per cassazione.

6. Opposizione all'esecuzione e opposizione di terzo all'esecuzione.

Nella produzione giurisprudenziale sul tema un rilievo assolutamente centrale riveste Sez. U, n. 01238/2015, Frasca, Rv. 634089.

Risolvendo una questione di particolare importanza, all'esito di un'accuratissima analisi in chiave sistematica dei vari istituti interessati, la decisione compie una sorta di actio finium regundorum tra i rimedi - dal discrimine sovente incerto nella casistica applicativa - dell'opposizione di terzo ordinaria (art. 404 c.p.c.), dell'opposizione all'esecuzione (art. 615 c.p.c.) e dell'opposizione di terzo all'esecuzione (art. 619 c.p.c.).

La necessità dell'intervento dell'organo supremo della nomofilachia trae scaturigine dal problema della individuazione degli strumenti di tutela a disposizione del litisconsorte necessario pretermesso avverso un'esecuzione in suo danno intrapresa in forza di un titolo giudiziale inter alios reso, situazione cui - è bene rimarcarlo - le S.U. equiparano, ai fini predetti, fattispecie analoghe, quali il terzo titolare di diritto autonomo e incompatibile con quello accertato nella sentenza azionata, il terzo titolare di uno status incompatibile, il soggetto falsamente rappresentato in giudizio.

Il nucleo centrale dell'arresto può così riassumersi: qualora venga promossa azione esecutiva nei confronti del litisconsorte pretermesso sulla base di un titolo giudiziale formatosi inter alios, quegli (al pari degli altri soggetti sopra citati, accomunati dalla qualità di terzo rispetto al titolo), al fine di incidere sul titolo (e cioè a dire al fine di neutralizzare gli effetti per sé negativi del provvedimento pronunciato in sua pretermissione) non può proporre opposizione all'esecuzione, ai sensi dell'art. 615, commi 1 e 2, c.p.c., neppure se la procedura esecutiva, esperita in forma specifica, lo coinvolga quale detentore materiale del bene, ma, allo scopo di bloccare l'esecuzione (o l'esecutività del titolo), dispone, quale rimedio necessario ed esclusivo, della opposizione di terzo ordinaria (e, in questo ambito, dell'incidentale sospensione dell'esecutività della sentenza ex art. 407 c.p.c.), siccome il presupposto del vizio della sentenza azionata va ravvisato nella violazione del diritto di difesa del terzo pretermesso.

Due le situazioni - precisa la decisione - che consentono il ricorso a (peraltro differenti) incidenti endoesecutivi:

- ove il terzo abilitato all'opposizione ex art. 404 c.p.c. assuma che la statuizione contenuta nel titolo inter alios sia stata già adempiuta o soddisfatta oppure sia stata modificata da vicende di rilievo sostanziale incidenti sul diritto consacrato nel titolo, egli, quale soggetto concretamente colpito dall'esecuzione, è legittimato a proporre (alla stregua del soggetto formalmente contemplato nel titolo) opposizione all'esecuzione;

- allorquando invece la posizione del terzo venga minacciata o attinta dall'esecuzione in forma specifica per un errore nella individuazione dell'oggetto dell'esecuzione (se, a esempio, l'attività esecutiva si estenda al di fuori di quanto previsto dal dictum giudiziale oppure si diriga verso un bene diverso da quello contemplato nel titolo), il terzo, deducendo che l'esecuzione non è sorretta dal titolo, può esperire opposizione di terzo all'esecuzione, quale soggetto effettivamente pregiudicato dall'esecuzione ma formalmente terzo rispetto ad essa.

Tra le altre pronunce in tema di art. 615 c.p.c., degna di nota è la riaffermazione del carattere circoscritto del thema decidendum delle opposizioni avverso l'esecuzione minacciata o intentata in virtù di titolo esecutivo giudiziale: ad avviso di Sez. 6-3, n. 03277/2015, Barreca, Rv. 634447, la contestazione del diritto di procedere ad esecuzione forzata può essere fondata su vizi di formazione del provvedimento solo quando questi ne determinino l'inesistenza giuridica, atteso che gli altri vizi e le ragioni di ingiustizia della decisione vanno fatti valere, ove ancora possibile, solo nel corso del processo in cui il titolo è stato emesso, spettando la cognizione di ogni questione di merito al giudice naturale della causa in cui la controversia tra le parti ha avuto (o sta avendo) pieno sviluppo ed è stata (od è tuttora) in esame.

7. Opposizione agli atti esecutivi.

Rimedio di carattere generale e sussidiario strumentalmente funzionale alla stabilità dei risultati della esecuzione forzata, l'opposizione agli atti esecutivi concerne - quale tipico thema decidendum - la valutazione di conformità di un atto o di un segmento del procedimento esecutivo alle regole (formali e sostanziali) che lo governano, ed è esperibile da tutti i soggetti a vario titolo partecipanti all'esecuzione avverso qualsiasi atto o provvedimento reso nell'ambito della procedura e per il quale non sia previsto altro strumento di reazione.

Ad avviso di Sez. 3, n. 19573/2015, Barreca, Rv. 636988, l'oggetto dell'impugnativa mediante opposizione agli atti esecutivi va circoscritto esclusivamente agli atti riferibili al giudice dell'esecuzione, unico titolare del potere di impulso e controllo del processo esecutivo, sicché ove l'atto (anche eventualmente omissivo) che si assume contrario a diritto sia riferibile solo ad un ausiliario del giudice (ivi compreso l'ufficiale giudiziario), esso è sottoponibile al controllo del giudice dell'esecuzione, ai sensi dell'art. 60 c.p.c. o nelle forme desumibili dalla disciplina del procedimento esecutivo azionato, e solamente dopo che questi si sia pronunciato sull'istanza dell'interessato diviene possibile ricorrere ex art. 617 c.p.c. avverso il relativo provvedimento giudiziale.

Sono invece suscettibili di opposizione agli atti le ordinanze del giudice dell'esecuzione di correzione dell'errore materiale, se l'errore corretto sia tale da ingenerare un obiettivo dubbio sull'effettivo contenuto dell'ordinanza, oppure quando con la correzione sia stata impropriamente riformata la portata decisoria del provvedimento, dando luogo surrettiziamente ad una revoca o ad una modifica di un provvedimento già eseguito e non più opponibile (Sez. 6-3, n. 01891/2015, Barreca, Rv. 634373).

Ancora lo strumento regolato dall'art. 617 c.p.c. va adoperato avverso i provvedimenti di estinzione cosiddetta atipica o di chiusura anticipata dell'esecuzione, ancorché la censura sollevata verta unicamente sul capo di condanna alle spese, considerato che l'opposizione agli atti esecutivi è il rimedio tipico per contestare i provvedimenti del G.E. regolanti l'andamento del processo ed atteso il carattere accessorio della statuizione sulle spese, come tale impugnabile con il mezzo previsto per il capo principale che definisce, in rito o in merito, il procedimento (Sez. 6-3, n. 09837/2015, Barreca, Rv. 635267).

Sulla delimitazione dell'ambito di operatività dello strumento in esame, con Sez. 3, n. 17308/2015, Amendola, Rv. 636479, trova conferma un - più volte espresso in passato - orientamento che esclude la praticabilità dell'opposizione agli atti qualora si deduca l'omessa, inesistente o nulla notificazione del titolo esecutivo (motivi abitualmente sussumibili sotto l'egida dell'art. 617 c.p.c.) avverso una esecuzione promossa (o minacciata) in virtù di un decreto ingiuntivo: in tal caso, infatti, il debitore deve proporre opposizione all'esecuzione ex art. 615 c.p.c. ove assuma l'inesistenza della notifica del provvedimento monitorio, oppure l'opposizione tardiva di cui all'art. 650 c.p.c. qualora denunci un vizio di nullità della notificazione.

Va qualificata come motivo di opposizione agli esecutivi, afferendo il quomodo e non l'an dell'esecuzione forzata, la doglianza concernente la nullità del precetto, e del conseguente pignoramento, nei confronti degli eredi del debitore deceduto per mancato rispetto dell'art. 477, comma 1, c.p.c.: si tratta, infatti, di una irregolarità formale del procedimento seguito dal creditore, per avere egli disatteso un onere imposto a garanzia della legittimità dell'azione esecutiva nei confronti degli eredi del debitore, e non già di una condizione di esistenza del diritto ad agire in executivis (così, Sez. 3, n. 14653/2015, Barreca, Rv. 636289).

Condizione di ammissibilità dell'opposizione agli atti è rappresentata dalla sussistenza di un interesse ad agire ex art. 100 c.p.c.: qualora la contestazione riguardi l'autorizzazione all'esecuzione immediata concessa ai sensi dell'art. 482 c.p.c., secondo Sez. 3, n. 02742/2015, Chiarini, Rv. 634371, l'interesse sorge quando il provvedimento asseritamente ingiustificato o illegittimo abbia causato danni o spese a chi lo abbia subito e venga successivamente ad ottenere definitiva ragione nel merito.

Connotazione essenziale dell'opposizione de qua, strettamente legata alla evidenziata funzione di meccanismo di stabilizzazione degli effetti dell'esecuzione, è la previsione di un rigoroso limite temporale, a pena di preclusione, per la esperibilità del rimedio: secondo l'esegesi oramai affermata dal giudice della nomofilachia, ciò importa l'onere, da parte dell'opponente, di allegazione del momento di effettiva conoscenza dell'atto esecutivo che si assume viziato. Ad avviso di Sez. 3, n. 16780/2015, Frasca, Rv. 636435, la tardività dell'opposizione, ove non decisa dal giudice di merito e dunque non coperta dal giudicato interno, può e deve essere delibata in sede di legittimità (con cassazione senza rinvio della pronuncia), seppure non dedotta come motivo di ricorso, trattandosi di questione relativa ad un termine di decadenza processuale la cui inosservanza è rilevabile di ufficio.

8. Controversie in sede di distribuzione del ricavato.

Contestazioni sull'esistenza o sull'ammontare di uno o più crediti azionati (con il pignoramento o in via di intervento) possono essere sollevate anche quando la procedura espropriativa sia giunta in uno stadio avanzato, ovvero nella fase della distribuzione del ricavato dalla vendita dei beni staggiti.

La identità del thema decidendum delle controversie distributive con l'opposizione all'esecuzione (identità peraltro soltanto parziale, potendo la prima avere ad oggetto, se proposta dai creditori, anche la sussistenza o il grado di diritti di prelazione) ha fatto sorgere il problema dei rapporti tra le due parentesi cognitive, questione risolta da Sez. 3, n. 07108/2015, De Stefano, Rv. 634824, in termini di alternatività di rimedi a disposizione del debitore: l'esecutato che intenda sollevare contestazioni sull'esistenza o sull'ammontare anche solo del credito di un creditore intervenuto di cui si presuma l'ammissione alla partecipazione alla distribuzione, può, in tempo precedente a quest'ultima, proporre opposizione all'esecuzione ex art. 615, comma 2, c.p.c. (sussistendo in ogni momento dell'esecuzione il suo interesse a contestare l'an o il quantum di uno o più crediti azionati) ovvero, a sua discrezione, attendere la fase distributiva per formulare le proprie doglianze, nei modi e per gli effetti dell'art. 512 c.p.c., per la restituzione di quanto conseguito dalla vendita o versato a seguito di conversione del pignoramento.

Ad avviso di Sez. 3, n. 07107/2015, De Stefano, Rv. 635146, integra controversia in sede distributiva, ove in precedenza non sia insorta lite ad identico oggetto ad impulso di altri soggetti del processo esecutivo, la contestazione da parte del creditore procedente o del creditore interventore della ritualità dell'intervento di altro creditore, in quanto non fondato su titolo esecutivo né sorretto da alcuno degli altri presupposti processuali speciali che legittimano l'intervento senza titolo a mente dell'art. 499, comma 1, c.p.c. (esecuzione, al momento del pignoramento, di un sequestro sui beni pignorati; titolarità, al medesimo momento, di un diritto di pegno o di prelazione risultante da pubblici registri; titolarità, al medesimo momento, di un credito di somma di denaro risultante dalle scritture contabili di cui all'art. 2214 c.c.); in quanto sussumibile sotto l'egida delle controversie ex art. 512 c.p.c., essa non è soggetta al termine di cui all'art. 617 c.p.c. con decorrenza dalla data di dispiegamento o di conoscenza dell'intervento.

In caso di controversia distributiva proposta nell'ambito di un'espropriazione contro il terzo proprietario, sussiste litisconsorzio necessario con il debitore originario o diretto, in quanto soggetto nei cui confronti l'accertamento dell'esistenza e dell'entità dei crediti e dei privilegi posti a base dell'azione esecutiva contro il terzo è destinato a produrre effetti immediati e diretti (così, Sez. 3, n. 08891/2015, De Stefano, Rv. 635265).

9. Sospensione dell'esecuzione.

A mente dell'art. 623 c.p.c., <<salvo che la sospensione sia disposta dalla legge o dal giudice davanti al quale è impugnato il titolo esecutivo, l'esecuzione forzata non può essere sospesa che con provvedimento del giudice dell'esecuzione>>.

In virtù della trascritta norma, si distinguono (tralasciando i residuali casi di sospensione ope legis) due fattispecie di sospensione dell'esecuzione: quella cd. esterna, relativa all'esecutività intrinseca del titolo esecutivo (cioè alla sua generale idoneità a fondare azioni coattive per la soddisfazione del diritto) e disposta dal giudice del processo di cognizione in cui si controverte, in fase di gravame, del titolo stesso; quella cd. interna, afferente cioè la singola procedura esecutiva e pronunciata dal giudice designato per la trattazione di essa nell'ambito di uno degli incidenti oppositivi.

Diversi gli effetti e il modo di operare delle due tipologie di sospensione: nel primo caso, su mera sollecitazione delle parti (anche nella forma semplificata della istanza ex art. 486 c.p.c.), il G.E. è tenuto all'adozione di un provvedimento dichiarativo, ricognitivo cioè della intervenuta privazione della efficacia esecutiva del titolo aliunde stabilita; nel secondo caso, al G.E. è devoluta, nella fase sommaria del giudizio oppositivo, una valutazione tipicamente cautelare sulla ricorrenza di gravi motivi legittimanti la temporanea paralisi del procedimento esecutivo, apprezzamento suscettibile di condurre alla estinzione anticipata dell'esecuzione, qualora la relativa ordinanza si stabilizzi (per mancato reclamo o per conferma in sede di reclamo) e non sia introdotta la controversia di merito sulla opposizione.

Sulla complessa problematica, Sez. 3, n. 07364/2015, De Stefano, Rv. 635039, reputa non scorretto l'esercizio del potere di sospensione interna per una causa di sospensione esterna, "nulla vietando che il giudice, investito, per scelta dell'opponente, di una formale opposizione, ritenga di individuare quale giusto motivo di sospensione - c.d. interna - appunto il venir meno della stessa esecutività del titolo, rivestendolo quindi di un'efficacia ulteriore rispetto a quella ordinaria sua propria"; in detta evenienza, qualora il G.E. abbia disposto la sospensione espressamente ai sensi dell'art. 624 c.p.c. (oltremodo con la fissazione di termine perentorio per iniziare il giudizio di merito), è onere delle parti interessate dare comunque corso alla fase di merito, producendosi, in mancanza, l'effetto tipico dell'estinzione del processo di cui al comma 3 del medesimo art. 624 c.p.c.

La sospensione dell'esecuzione, comunque disposta, determina la provvisoria stasi del procedimento e ne impedisce l'ulteriore sviluppo, senza tuttavia provocare la perdita di efficacia dei vincoli apposti o delle attività già compiute: così, nell'esecuzione forzata per obblighi di fare, l'accoglimento dell'istanza di sospensione incidentale ad un'opposizione non consente al G.E. di ordinare la rimessione in pristino di quanto sia stato in precedenza eseguito ai sensi dell'art. 612 c.p.c., potendo unicamente essere inibita la prosecuzione del procedimento (Sez. 6-3, n. 19572/2015, Barreca, Rv. 636991).

Circa il regime di impugnazione, ribadendo un orientamento consolidato, Sez. L, n. 01176/2015, D'Antonio, Rv. 634301, dichiara inammissibile il ricorso per Cassazione proposto avverso l'ordinanza che - nell'ambito di un'opposizione proposta ai sensi degli art. 615, 617 e 619 c.p.c. - provveda sulla sospensione dell'esecuzione, nonché avverso l'ordinanza emessa in sede di reclamo che confermi, revochi o conceda la sospensione, trattandosi nel primo caso di provvedimento soggetto a reclamo ai sensi dell'art. 669 terdecies c.p.c., ed in entrambi i casi di provvedimenti non definitivi, in quanto suscettibili di ridiscussione nell'ambito del giudizio di opposizione.

  • ingiunzione
  • sfratto

CAPITOLO XL

I PROCEDIMENTI SPECIALI

(di Francesco Federici )

Sommario

1 Premessa. - 2 Il procedimento per ingiunzione. - 3 Il procedimento per convalida di licenza o sfratto. - 4 I procedimenti cautelari, di istruzione preventiva, nunciatori, possessori, di urgenza. - 4.1 - 4.2 - 4.3 - 4.4 - 4.5 - 5 Il procedimento sommario di cognizione. - 6 I procedimenti camerali. - 7 Gli altri procedimenti speciali.

1. Premessa.

Nel 2015 nella produzione giurisprudenziale in materia di procedimenti speciali non si rinvengono novità di rilievo sul piano interpretativo. Resta tuttavia importante la conferma di alcuni principi e le puntualizzazioni su alcune questioni, soprattutto in tema di decreto ingiuntivo.

2. Il procedimento per ingiunzione.

Anche quest'anno sono numerosi i provvedimenti intervenuti in materia di procedimento d'ingiuzione, tanto con riguardo alla fase sommaria monitoria, quanto con riferimento alla fase di opposizione a cognizione piena.

Chiarificatrici sono le pronunce sulla competenza funzionale del giudice che ha emesso il provvedimento.

In punto va segnalata Sez. 6-1, n. 16454/2015, Scaldaferri, Rv. 636627, la quale, in un giudizio introdotto ai sensi dell'art. 42 c.p.c., afferma che la competenza funzionale del giudice che ha emesso il provvedimento è inderogabile e immodificabile, anche rispetto a ragioni di litispendenza, continenza o connessione.

Anche Sez. 6-L, n. 15618/2015, Marotta, Rv. 636582, in un caso di riunione per ragioni di continenza o connessione dell'opposizione a decreto ingiuntivo con altro processo instaurato innanzi ad un diverso ufficio a seguito di procedimento cautelare ante causam - nel caso di specie si trattava di procedimento per sequestro cautelare -, ha sostenuto che la competenza territoriale sulle cause riunite spetta al giudice del giudizio introdotto con il ricorso monitorio, trattandosi di competenza funzionale ed inderogabile. E tale criterio trova applicazione anche se non sia stata sollevata eccezione di parte nel giudizio cautelare, che in quanto tale non è soggetto alle preclusioni ex art. 38 c.p.c.

La competenza funzionale è affermata, senza alcuna prospettiva di eccezioni, da Sez. 6-2, n. 10563/2015, Giusti, Rv. 635407, intervenuta per il regolamento di competenza d'ufficio in un caso di emissione di decreto ingiuntivo da parte di giudice di pace. Nella fattispecie, eccepita la sua incompetenza in sede di opposizione, questa era stata accolta, con rimessione della causa, per ragioni di connessione, al tribunale presso il quale già pendeva la causa connessa. La pronuncia del giudice di legittimità in sede di regolamento di competenza ha affermato che l'opposizione a decreto ingiuntivo è devoluta ai sensi dell'art. 645 c.p.c. funzionalmente e inderogabilmente alla cognizione del giudice che ha emesso l'ingiunzione, il quale, anche quando ritenga che la controversia introdotta con l'opposizione esuli dalla propria competenza per materia, non può dichiararsi incompetente e rimettere la causa al giudice ritenuto competente. Tanto perché la questione di competenza non incide sulle valutazioni di merito in ordine alla legittimità del provvedimento monitorio opposto, tra le quali va anche compresa la questione relativa alla eventuale incompetenza del giudice che lo ha emesso, con la conseguente dichiarazione, se fondata, della nullità del decreto opposto. Infatti anche questa decisione costituisce pur sempre esercizio e non diniego della competenza esclusiva del giudice dell'opposizione.

Ancora in ragione della competenza funzionale e inderogabile del giudice che ha emesso il provvedimento monitorio Sez. 6-3, n. 00272/2015, Cirillo, Rv. 634351, nel solco di una interpretazione consolidata, afferma che nel procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo dinanzi al giudice di pace, in ragione della competenza spettante ai sensi dell'art. 645 c.p.c. all'ufficio giudiziario cui appartiene il giudice che ha emesso il decreto, ove l'opponente spieghi domanda riconvenzionale, che per valore ecceda i limiti di competenza del giudice adito, questi è tenuto a separare le cause, trattenendo quella relativa alla opposizione, con rimessione dell'altra al tribunale. Se invece il giudice di pace rimetta l'intera causa, il tribunale può richiedere, nei limiti temporali fissati dall'art. 38 c.p.c., il regolamento di competenza d'ufficio. L'ordinanza supporta la rigida costruzione della suddetta competenza "stante l'assimilabilità del giudizio di opposizione a quello di impugnazione, sicché non può subire modificazioni neppure per una situazione di connessione, senza che rilevi in contrario la eliminazione della regola della rilevabilità d'ufficio delle competenze cosiddette forti in ogni stato e grado".

Interesse suscitano due pronunce aventi ad oggetto la sorte del decreto ingiuntivo emesso da una sezione distaccata del tribunale prima della sua soppressione, ed il cui circondario sia stato aggregato al circondario di altro tribunale.

In Sez. 6-3, n. 06276/2015, Barreca, Rv. 634735, si afferma che ai sensi dell'art. 9 del d.lgs. 7 settembre 2012, n. 155, come integrato dall'art. 8 del d.lgs. 19 febbraio 2014, n. 14, l'opposizione al decreto ingiuntivo emesso dalla sezione distaccata di tribunale prima della sua soppressione si propone al tribunale che ne costituiva la sede principale, anche se la porzione di territorio della sede distaccata sia stata attribuita dall'entrata in vigore del d.lgs. n. 155 del 2012 (13 settembre 2013) al circondario di un diverso tribunale.

Più complessa è Sez. 6-3, n. 07835/2015, Frasca, Rv. 635215, in un caso di decreto ingiuntivo emesso anteriormente alla soppressione della sezione distaccata, ma notificato successivamente alla sua efficacia (13 settembre 2013). Secondo questa pronuncia l'opposizione al provvedimento monitorio emesso da una sezione distaccata di tribunale antecedentemente alla sua soppressione, con accorpamento del territorio ad altro tribunale, e tuttavia notificato dopo la data di efficacia della soppressione stessa, pur se originariamente proponibile innanzi al tribunale accorpante, ex art. 9 del d.lgs. n. 155 del 2012, a seguito dell'intervento correttivo operato dal d.lgs. n. 14 del 2014, resta, per competenza sopravvenuta, del tribunale a cui appartenenva il territorio della sezione soppressa. In base a tale regola, se il giudizio di opposizione sia stato instaurato dinanzi al tribunale accorpante, il giudice è tenuto a declinare la competenza, senza caducare il decreto ingiuntivo, a favore del tribunale cui apparteneva la sezione soppressa, spettando a quest'ultimo la cognizione sulla validità dell'atto. Appare chiaro che in questo caso non si tratta di una eccezione alle regole più volte ribadite sulla competenza funzionale e inderogabile, trattandosi invece di una soluzione prospettata in ragione della instabile legislazione, che sul piano dell'organizzazione territoriale degli uffici, a seguito della soppressione delle articolazioni distaccate di tribunale, ha in alcuni casi comportato un accorpamento dei relativi territori ad un tribunale diverso rispetto a quello di tradizionale appartenenza.

Alle conseguenze del difetto di giurisdizione del giudice che ha emesso il decreto ingiuntivo è invece dedicata Sez. L, n. 17062/2015, Buffa, Rv. 636380, secondo cui il difetto di giurisdizione del giudice del provvedimento monitorio determina comunque la caducazione del decreto medesimo, senza che la traslatio della causa al giudice munito invece di giurisdizione possa salvare il provvedimento.

Altre pronunce sono attente a circoscrivere l'oggetto della controversia insorta a seguito della opposizione.

Così Sez. 3, n. 00818/2015, Rossetti, Rv. 633961, ha circoscritto le questioni che possono essere vagliate dal giudice della opposizione al provvedimento monitorio in una fattispecie in cui era stato richiesto ed ottenuto un decreto ingiuntivo sulla base di cambiali per un credito nascente dalla fornitura di merce, rispetto alla quale però il debitore opponente aveva dimostrato l'esecuzione dell'intero pagamento. In particolare nel caso di specie, alla difesa e alla prova allegata dal debitore, l'opposto aveva ribattuto sostenendo che le cambiali provavano come la causale del credito non fosse solo la fornitura di merce, ma anche la concessione di veri e propri finanziamenti all'opponente. A fronte delle ulteriori ragioni manifestate dall'opposto a conforto del preteso credito (peraltro accolte dal giudice di merito), la S.C. ha chiarito che nel giudizio introdotto con l'opposizione al decreto ingiuntivo, chiesto ed ottenuto sulla base di titoli cambiari e facendo riferimento ad un determinato rapporto causale, l'opposto non può invocare, a fondamento della propria pretesa, l'esistenza di un rapporto causale diverso e ulteriore rispetto a quello descritto nel ricorso monitorio.

Alla perimetrazione dell'oggetto della opposizione va ascritta Sez. 3, n. 00814/2015, Travaglino, Rv. 633972, secondo cui la richiesta di restituzione delle somme corrisposte in forza della provvisoria esecuzione concessa ad un decreto ingiuntivo opposto deve ritenersi consequenziale alla richiesta di revoca del provvedimento monitorio, non alterando i termini della controversia. Essa pertanto non costituisce una domanda nuova ed è dunque ammissibile fino all'udienza di precisazione delle conclusioni innanzi al giudice della opposizione, senza che in tal caso possa rilevarsene una intempestività.

Nella giurisprudenza del 2015 risultano esaminate alcune conseguenze derivanti dalla mancata opposizione al decreto ingiuntivo.

Riguarda l'ambito oggettivo della cosa giudicata, quando il provvedimento monitorio non venga opposto, Sez. 3, n. 13207/2015, Rossetti, Rv. 636014. In essa si afferma che la mancata opposizione al decreto ingiuntivo, ottenuto per canoni di locazione non corrisposti, il giudicato così formatosi fa stato tra le parti non solo sulla esistenza e validità del rapporto corrente inter partes, e sulla misura del canone preteso, ma anche circa l'inesistenza di fatti impeditivi o estintivi, non dedotti ma deducibili nel giudizio di opposizione. Per la portata della decisione è illuminante il caso di specie, nel quale è stato escluso che il debitore locatario, che aveva mancato di impugnare il provvedimento monitorio concesso al locatore contro di lui, potesse invocare in un diverso giudizio la nullità della clausola di determinazione del canone in misura superiore a quella legale, ex art. 2, commi 3 e 5, della legge 9 dicembre 1998, n. 431.

Sez. 2, n. 22696/2015, Picaroni, Rv. 637144, affronta invece gli effetti della mancata opposizione nella ipotesi di decreto ingiuntivo contro debitori solidali. In questo caso l'ingiunto, che non abbia proposto opposizione, non è legittimato ad intervenire neppure ad adiuvandum nel giudizio di opposizione instaurato da altro debitore, in quanto non potrebbe giovarsi della sentenza a questi favorevole, non operando l'art. 1306, comma 2, c.c. a vantaggio di chi sia vincolato da un giudicato formatosi direttamente nei suoi confronti.

Quanto alle spese conseguenti l'emissione del titolo, in un caso in cui alla notifica del decreto ingiuntivo era seguito l'intero pagamento delle somme in esso portate, comprensive degli interessi e delle spese processuali liquidate nel provvedimento monitorio, Sez. L, n. 09807/2015, Bandini, Rv. 635386, afferma che il creditore non può, successivamente al pagamento medesimo, intimare precetto sulla base dello stesso decreto per il pagamento delle spese processuali sostenute dopo la sua emissione e necessarie per la notificazione. Tali spese invece possono essere fatte valere mediante azione di cognizione ordinaria, perché dopo l'avvenuto integrale pagamento degli importi riportati nel titolo, esso perde efficacia esecutiva, con il conseguente venir meno della possibilità giuridica della notifica del precetto.

Con riferimento alla ipotesi di documenti posti a fondamento del ricorso per decreto ingiuntivo, ma non allegati al giudizio di cognizione introdotto con l'opposizione, deve poi segnalarsi Sez. U, n. 14475/2015, Curzio, Rv. 635758, secondo cui l'art. 345, comma 3, c.p.c., va interpretato nel senso che i documenti allegati alla richiesta di decreto ingiuntivo, che siano rimasti a disposizione della controparte agli effetti di quanto previsto dall'art. 638, comma 3, c.p.c., anche quando non siano nuovamente prodotti nella fase di opposizione, rimangono nella sfera di cognizione del giudice di tale fase. Ciò trova fondamento nel principio della "non dispersione della prova", che sia ormai acquisita al processo, e non possono pertanto essere considerati nuovi. Ne discende anche che i suddetti documenti, quando allegati all'atto d'appello contro la sentenza che ha definito il giudizio di primo grado, devono essere ritenuti parimenti ammissibili.

Merita inoltre segnalazione Sez. 2, n. 19868/2015, Matera, Rv. 636732, in relazione alle conseguenze della falsità della procura alle liti. Sul punto la pronuncia afferma che, qualora in appello sia accertata la falsità della procura ad litem apparentemente rilasciata per l'opposizione a decreto ingiuntivo, il giudice deve dichiarare la nullità della sentenza di primo grado, con il conseguente passaggio in giudicato del provvedimento monitorio. Il principio trova fondamento nel fatto che l'invalidità della procura priva l'opposizione di un presupposto indispensabile, ripercuotendosi sull'intera attività processuale successiva.

Interessante è anche Sez. 3, n. 24629/2015, Vivaldi, Rv. 638006, in ordine alla individuazione dell'onere di esperire il tentativo di mediazione in materia di opposizione a decreto ingiuntivo, ai sensi dell'art. 5, del d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28. La sentenza, partendo dalla finalità deflattiva della disciplina, quale procedimento strumentale che consente di confinare il processo nell'ambito della scelta estrema, quando mancano alternative alla soluzione della controversia, sicchè sotto tale profilo è facile porre l'onere della mediazione a carico di chi ha interesse al processo, avverte però la difficoltà di identificazione dell'obbligato quando si tratti di decreto ingiutivo e di opposizione allo stesso, attesa l'inversione logica tra rapporto sostanziale e rapporto processuale. E tuttavia la pronuncia, valorizzando sia il fatto che il creditore ha già scelto un procedimento sommario, di per sé meno complesso, sia l'inutilità di un onere di mediazione in capo a chi, ricorrente del procedimento monitorio, ancora ignora se il debitore vorrà proporre opposizione, conclude affermando che il suddetto onere deve gravare sull'opponente.

Altrettanto rilevante è Sez. 3, n. 24223/2015, Carluccio, Rv. 637815, in tema di nullità della notifica del decreto ingiuntivo. La pronuncia, a fronte di una eccepita inefficacia del provvedimento monitorio per nullità della notifica, afferma che l'inefficacia può solo collegarsi alla ipotesi di inesistenza della notifica, non anche alla notifica nulla o irregolare, la cui sussistenza ha solo l'effetto di consentire all'opponente la tardiva instaurazione del giudizio di opposizione. Ne discende per conseguenza che la stessa nullità o irregolarità della notifica è del tutto priva di effetti qualora il giudizio di opposizione sia stato comunque tempestivamente introdotto.

Sulle conseguenze della erronea notifica dell'atto di opposizione a decreto ingiuntivo va segnalata Sez. 1, n. 22113/2015, Valitutti, Rv. 637284, secondo cui la notifica avvenuta nel domicilio reale della parte opposta, anziché presso il difensore costituito nella fase monitoria, è viziata da nullità, non da inesistenza, sicché può ordinarsene la rinnovazione ai sensi dell'art. 291 c.p.c., che va eseguita comunque presso quest'ultimo, nel termine perentorio appositamente concesso, anche se sia stata omessa la formale revoca della dichiarazione di contumacia della opposta, erroneamente pronunciata in precedenza ed implicitamente revocata dall'assegnazione di quel termine, perché affetta da nullità derivata o consequenziale.

Per la medesima sentenza deve anche segnalarsi, Rv. 637283, in tema di chiamata di terzo da parte dell'opponente, la cui soluzione privilegia la posizione sostanziale delle parti nella fase a cognizione piena. La pronuncia infatti afferma che l'opponente a decreto ingiuntivo che intenda chiamare in causa un terzo non può direttamente citarlo per la prima udienza ma deve chiedere al giudice, nell'atto di opposizione, di essere autorizzato. In mancanza si determina una decadenza rilevabile d'ufficio ed insuscettibile di sanatoria per effetto della costituzione del chiamato, anche quando questi non abbia sollevato eccezioni sul punto. Ciò perché il principio della non rilevabilità d'ufficio della nullità di un atto per raggiungimento dello scopo si riferisce esclusivamente alla inosservanza di forme in senso stretto, e non di termini perentori, per i quali vigono apposite e distinte norme.

Interessante infine, in tema di ingiunzione di pagamento europea, con specifico riferimento alle conseguenze in ipotesi di intempestività della opposizione, Sez. U, n. 10799/2015, Ambrosio, Rv. 635365, secondo cui l'ingiunzione di pagamento europea, quando non opposta nel termine perentorio previsto dall'art. 16 del Regolamento CE 1896/2006 del 12 dicembre 2006, ha efficacia pro iudicato, sicchè il riesame dopo la scadenza del termine ha carattere eccezionale ed i casi nei quali è consentito dall'art. 20 sono di stretta interpretazione. La pronuncia infatti, esaminando l'ipotesi della "manifesta erroneità" dell'ingiunzione, da valutarsi "tenendo conto dei requisiti previsti dal presente regolamento" (art. 20, comma 2, prima parte), afferma che essa si riferisce ai soli errori manifesti, che siano idonei a inficiare la possibilità per il debitore di contestare l'ingiunzione, mentre, quanto alla "manifesta erroneità" per "circostanze eccezionali" (art. 20, comma secondo, seconda parte), sostiene che si riferisca ai soli vizi simili a quelli che giustificano la revocazione straordinaria prevista dall'art. 656 c.p.c., sicchè nell'ambito del riesame per "manifesta erroneità" non rientra l'eccezione del difetto di giurisdizione del giudice dell'ingiunzione.

3. Il procedimento per convalida di licenza o sfratto.

La giurisprudenza della Corte ha sostanzialmente confermato in materia i precedenti indirizzi e poche sono le pronunce, relative ad aspetti processuali, che è utile segnalare.

Sul rapporto tra licenza per finita locazione e sfratto per morosità, in cui siano coinvolti locatore, locatario e subconduttore, è intervenuta Sez. 6-3, n. 15094/2015, Cirillo, Rv. 636184. La pronuncia, ai fini della accoglibilità o meno di una richiesta di sospensione del processo ex art. 295 c.p.c., esclude un rapporto di pregiudizialità tra la controversia per intervenuta scadenza del contratto di locazione, che sia pendente tra locatore e locatario, e il giudizio di sfratto per morosità, promosso dal locatario nei confronti del subconduttore, e ciò sia tenendo conto della parziale diversità soggettiva delle parti coinvolte nei due giudizi, sia perché l'obbligo del subconduttore alla corresponsione dei canoni a favore del sublocatore persiste sino a quando si prolunghi lo stato d'occupazione dell'immobile da parte del subconduttore, e rispetto al quale non assume rilievo l'intervenuta risoluzione del contratto principale di locazione.

Sempre in ragione della prospettata pregiudizialità tra due giudizi, Sez. 6-3, n. 13423/2015, Cirillo, Rv. 635782, afferma che quando siano contestualmente pendenti un procedimento di convalida di licenza ed un giudizio, tra soggetti parzialmente differenti, in cui si controverta della validità della scheda testamentaria utilizzata dal locatore come titolo per il rilascio dell'immobile, deve escludersi la sospensione necessaria del procedimento di licenza, sia per la diversità delle parti coinvolte nei guidizi supposti come pregiudicanti e pregiudicati, sia perché l'accertamento della proprietà dell'immobile locato non integra una questione pregiudiziale in ordine alla legittimazione a locare.

Sez. 6-3, n. 17582/2015, Lanzillo, Rv. 636469, affronta invece la questione della non veritiera attestazione della persistenza della morosità. Sul punto la pronuncia afferma che ai fini della convalida dello sfratto è necessaria la presenza di tutti i presupposti richiesti dalla legge. Se alcuno di essi manchi e la convalida venga ugualmente pronunciata, essa è equiparabile ad un sentenza e come tale è assoggettata all'ordinaria impugnazione con appello. È ciò che accade dunque se sia convalidato lo sfratto pur mancando del tutto la dichiarazione del locatore che la morosità persiste. Non è invece appellabile la convalida quando l'attestazione sia stata resa, ma se ne contesti la veridicità.

È da segnalare inoltre Sez. 3, n. 19525/2015, Stalla, Rv. 636992, che interviene sugli effetti della trasformazione del rito. La pronuncia afferma che nel procedimento per convalida di sfratto l'opposizione dell'intimato provoca una radicale trasformazione del rito, determinando la cessazione dell'originario rapporto processuale, fondato sulla domanda di convalida, e l'insorgere di un nuovo e diverso rapporto processuale, riconducibile ad una ordinaria domanda di accertamento e di condanna, oppure ad una domanda di risoluzione e di condanna, domande che possono ritenersi implicamente proposte dal locatore qualora, dopo l'opposizione dell'intimato, prosegua la sua attività processuale finalizzata alla realizzazione della pretesa sostanziale.

Va poi fatta menzione di alcune questioni processuali afferenti a controversie locatizie ed ai relativi procedimenti speciali, in seno ai quali sia stata richiesta la risoluzione del contratto oppure il risarcimento dei danni da occupazione sine titulo dell'immobile già locato.

Una questione relazionata alla causa petendi di una domanda risarcitoria per occupazione sine titulo di un immobile è affrontata da Sez. 3, n. 19528/2015, Vincenti, Rv. 636987, che esamina la denunciata novità del motivo d'appello, in violazione dell'art. 345 c.p.c., in un caso in cui si affermava che l'attore avesse fondato la richiesta di risarcimento prima sulla scadenza contrattuale del rapporto e poi in forza di una sentenza di accoglimento di uno sfratto per morosità. La Corte esclude la violazione dell'art. 345 c.p.c., sostenendo che non costituisce mutatio libelli la precisazione in sede di gravame che la domanda di risarcimento danni per l'illegittima occupazione di un immobile locato, originariamente proposta sul presupposto dell'intervenuta scadenza contrattuale, possa intendersi riferita anche alla data di introduzione di un separato giudizio di sfratto per morosità, qualora i fatti integranti l'ulteriore causa petendi risultino comunque già dedotti in primo grado ed il petitum risarcitorio sia stato solo specificato in relazione a fatti già allegati, così non determinandosi alcuna novità della domanda.

Sez. 3, n. 11864/2015, Stalla, Rv. 635478, affronta invece la questione della diversa causa risolutiva posta a base della domanda. Sul punto la sentenza sostiene che la risoluzione del contratto di locazione di immobili sulla base di una clausola risolutiva espressa non può essere pronunciata d'ufficio, postulando la corrispondente e specifica domanda giudiziale della parte nel cui interesse quella clausola è stata prevista. Pertanto, una volta proposta con l'intimazione di sfratto per morosità la domanda di risoluzione ex art. 1453 c.c., questa non può essere mutata in richiesta di risoluzione ope legis ai sensi dell'art. 1456 c.c., attesa la radicale diversità dei due istituti, sia con riguardo al petitum, che nella prima ipotesi richiede una sentenza costitutiva, nella seconda una pronuncia dichiarativa, sia con riferimento alla causa petendi, nella prima ipotesi fondata sull'inadempimento grave e colpevole, nella seconda riconducibile alla mera violazione della clausola risolutiva espressa.

4. I procedimenti cautelari, di istruzione preventiva, nunciatori, possessori, di urgenza.

Sotto il profilo processuale si rinvengono alcune interessanti pronunce in materia cautelare e possessoria.

4.1.

In tema di accertamento tecnico preventivo, si sofferma sulle conseguenze della abnormità del provvedimento emesso all'esito del procedimento, individuando quale forma di tutela abbia la parte che subisce il provvedimento abnorme, Sez. 2, n. 19498/2015, Matera, Rv. 636745. La sentenza evidenzia che l'accertamento tecnico preventivo si conclude con il deposito della relazione del consulente nominato dal giudice, il quale, esaurisce il proprio potere-dovere di verificare la sussistenza dei presupposti richiesti dalla legge ai fini dell'ammissione del mezzo di istruzione preventiva con l'ordinanza resa agli effetti dell'art. 696, comma 3, c.p.c. Ne consegue che l'eventuale ordinanza successivamente emanata, con la quale sia rigettato il ricorso e sia pronunciata condanna dell'istante al pagamento delle spese processuali, è del tutto abnorme e come tale, non essendo altrimenti impugnabile - per l'esclusione della sua reclamabilità ex art. 669 terdecies c.p.c. - è suscettibile di ricorso straordinario per cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost.

Dello stesso tenore è Sez. 6-2, n. 21756/2015, Giusti, Rv. 636887, che afferma come il provvedimento di liquidazione delle spese a carico di una parte diversa dal ricorrente - tenuto ad anticiparle - non è previsto dalla legge ed ha natura decisoria e carattere definitivo, sicchè può essere impugnato con ricorso straordinario per cassazione.

4.2.

Sulla giurisdizione in tema di azioni nunciatorie nei confronti della Pubblica Amministrazione sono intervenute le Sez. U, n. 00604/2015, Mazzacane, Rv. 633647, le quali, seguendo un indirizzo già segnato da Sez. U. n. 04633/2007, Rv. 595440, hanno affermato che in tali ipotesi sussiste la giurisdizione del giudice ordinario quando l'attore denunci attività materiali della amministrazione, che possano recare pregiudizio a beni di cui egli si assume proprietario o possessore e il petitum sostanziale della domanda tuteli un diritto soggettivo, come nel caso in cui l'attore deduca la mancata esecuzione dell'ordinanza comunale di demolizione di un fabbricato pericolante che sovrasti la sua proprietà.

Sempre in tema di azioni di nunciazione si è inoltre avuto modo di evidenziare la netta distinzione tra il procedimento sommario cautelare e il giudizio di merito, al cui mancato rispetto sono riconducibili gravi conseguenze processuali.

In particolare Sez. 2, n. 07260/2015, Manna, Rv. 634830, afferma che in tema di azioni di nunciazione il procedimento cautelare termina con l'ordinanza di accoglimento o di rigetto del ricorso, emesso dal giudice monocratico oppure, in fase di reclamo, da quello collegiale. Il successivo processo di cognizione richiede una autonoma domanda di merito. Pertanto, se il processo di cognizione si avvia in difetto dell'atto propulsivo di parte, a causa dell'erronea fissazione giudiziale di una udienza posteriore all'ordinanza cautelare, è affetto da nullità assoluta per violazione del principio della domanda, rilevabile d'ufficio dal giudice e non sanata dall'instaurarsi del contraddittorio tra le parti.

Sul carattere della provvisorietà e non decisorietà dell'ordinanza che chiude la fase cautelare insiste Sez. 6-2, n. 04904/2015, Falaschi, Rv. 634728. La pronuncia puntualizza che i procedimenti nunciatori si articolano in due fasi, la prima di natura cautelare, che si esaurisce con l'emissione di un'ordinanza che concede o nega la tutela interinale, la seconda di merito e a cognizione piena, destinata alla definitiva decisione sulla effettiva titolarità della situazione soggettiva azionata e sulla meritevolezza di tutela possessoria o petitoria. Dal principio ne fa discendere la non ricorribilità per cassazione della ordinanza emessa in sede di reclamo ex art. 669 terdecies c.p.c. avverso il provvedimento reso nella fase cautelare, avendo essa i medesimi caratteri di provvisorietà e non decisorietà, propri di quest'ultimo, ed essendo pertanto inidonea ad acquisire efficacia di giudicato dal punto di vista tanto formale quanto sostanziale.

4.3.

In materia possessoria deve innanzitutto segnalarsi Sez. U, n. 01238/2015, Frasca, Rv. 634086. La pronuncia è importante soprattutto per le innovative conseguenze che ha inteso ricondurre alla ipotesi dell'azione promossa con pretermissione di un litisconsorte necessario. Infatti, nella ipotesi di una azione di riduzione in pristino, incidente su posizioni giuridiche soggettive, appartenenti al litisconsorte necessario pretermesso nel giudizio conclusosi con la formazione del titolo messo in esecuzione, si è negato l'ormai consolidato indirizzo della inopponibilità del titolo giudiziale così formatosi nei confronti del pretermesso (perché, in sintesi, si diceva che la sentenza fosse inutiliter data), e dunque la ricorribilità allo strumento della opposizione all'esecuzione, riconoscendogli al contrario, quale strumento a tutela dei suoi diritti, l'opposizione ordinaria ex art. 404 c.p.c. o anche l'azione di accertamento autonoma della sua posizione. La pronuncia però, al di là dei principi appena accennati, oggetto di più approfondita illustrazione in altra sezione della presente rassegna, ha anche tratteggiato le ipotesi in cui, a fronte della attuazione di un intervento demolitorio, conseguente all'accoglimento di una azione di reintegrazione o di manutenzione, sia considerato litisconsorte necessario il comproprietario o il compossessore non autore dello spoglio. Sul punto essa afferma che, qualora la reintegrazione o la manutenzione del possesso richieda, per il ripristino dello stato dei luoghi, la demolizione di un'opera in proprietà o possesso di più persone, il comproprietario o compossessore non autore dello spoglio è litisconsorte necessario non solo quando egli, nella disponibilità materiale o solo in iure del bene su cui debba incidere l'attività ripristinatoria, abbia manifestato adesione alla condotta già tenuta dall'autore dello spoglio o abbia rifiutato di adoperarsi per l'eliminazione degli effetti dell'illecito, ovvero, al contrario, abbia dichiarato la disponibilità all'attività di ripristino, ma anche nella ipotesi in cui colui che agisca a tutela del suo possesso ignori la situazione di compossesso o di comproprietà, perché in tutte queste fattispecie anche il compossessore o comproprietario non autore della condotta di spoglio è destinatario del provvedimento di tutela ripristinatoria.

Nel caso di specie era stata promossa azione di reintegra nel (com)possesso del muro perimetrale di un edificio condominiale, in cui le parti erano proprietarie di distinte unità abitative, lamentando il ricorrente che la parete condominiale esterna, in corrispondenza dell'appartamento del resistente, era stata abbattuta e ricostruita inglobando, in parte, la superficie del balcone di quest'ultimo (con conseguente ampliamento della unità abitativa dello spossessatore). Il provvedimento di accoglimento della tutela manutentiva diveniva titolo esecutivo, sicché era notificato (dagli eredi dell'originario ricorrente) precetto con intimazione d'adempimento della sentenza. Sennonché un terzo, mai coinvolto nel giudizio, proponeva opposizione alla esecuzione, deducendo di essere coniuge dell'intimato, con questi comproprietaria dell'appartamento, in danno del quale doveva porsi in esecuzione il titolo dedotto con il precetto (con conseguente riduzione della superficie dell'unità abitativa), e lamentando che il titolo, a lei litisconsorte necessaria pretermessa, le era inopponibile.

Si è anche posta questione relativamente alla ammissibilità del regolamento preventivo di giurisdizione. Sulla questione Sez. U, n. 15155/2015, Ragonesi, Rv. 636070, hanno sostenuto che il regolamento preventivo di giurisdizione proposto nel corso del procedimento possessorio sia ammissibile, quando nella fase sommaria, oppure in sede di reclamo, sia stata risolta in senso affermativo o negativo una questione attinente alla giurisdizione, trattandosi di provvedimento che mantiene carattere di provvisorietà ed essendo comunque possibile richiedere la prosecuzione del giudizio, ai sensi dell'art. 703, comma 4, c.p.c., per la rivalutazione della stessa questione. Tuttavia, in difetto di istanza di parte per la fissazione del giudizio di merito, non è proponibile il ricorso ex art. 41 c.p.c., in quanto l'interesse a promuovere l'accertamento sulla giurisdizione postula necessariamente la pendenza di un processo.

4.4.

In tema di sequestro si segnala una sola pronuncia, peraltro relativa alla ammissibilità o meno del regolamento di competenza. Sul punto Sez. 6-2, n. 10435/2015, Giusti, Rv. 635644, sostiene l'inammissibilità del regolamento proposto avverso un provvedimento che non ha carattere definitivo e decisorio, qual'è il provvedimento che autorizza il sequestro conservativo.

4.5.

Altrettanto numericamente esigui risultano i provvedimenti in tema di procedimento cautelare d'urgenza.

Tra essi Sez. L, n. 01828/2015, Napoletano, Rv. 634193, afferma che il carattere solo eventualmente bifasico del procedimento d'urgenza, di cui all'art. 700 c.p.c., non esclude che l'elezione di domicilio effettuata per la fase cautelare e che contenga l'indicazione della sua validità oltre il detto ambito, possa valere anche per le ulteriori fasi processuali rispetto a quella per cui è compiuta, atteso che l'art. 141 c.p.c. individua nella volontà della parte la fonte della legittimità di una elezione di domicilio.

Interessante è poi il principio affermato da Sez. 6-L, n. 00797, Fernandes, Rv. 633997, in ordine alle conseguenze dell'omessa eccezione d'incompetenza del giudice adito nella fase cautelare d'urgenza. Nella pronuncia infatti, intervenuta a proposito di un provvedimento d'urgenza invocato per la reintegra nel posto di lavoro, si sostiene che il mancato rilievo della incompetenza per territorio da parte del giudice adito, così come l'omessa eccezione ad opera delle parti nel procedimento cautelare ante causam, non comportano il definitivo consolidamento, anche ai fini del giudizio di merito, della competenza dell'ufficio giudiziario adito. È escluso infatti nel procedimento cautelare il regime preclusivo delle eccezioni e del rilievo officioso dell'incompetenza, regolato dall'art. 38 c.p.c. Dal principio affermato la pronuncia ne trae come conseguenza l'altro, ossia che, in materia di impugnativa dei licenziamenti nelle ipotesi regolate dall'art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, il giudizio di merito può essere validamente instaurato con il rito di cui all'art. 1, della legge 28 giugno 2012, n. 92, commi 48 e segg., innanzi al giudice competente, ancorché diverso da quello della cautela.

Anche con riguardo al provvedimento d'urgenza il giudice di legittimità ribadisce il principio secondo cui il difetto di definitivià e decisorietà impedisce lo strumento impugnativo del ricorso straordinario ex art. 111, comma 7, Cost. Infatti Sez. 1, n. 00896/2015, Genovese, Rv. 634000, afferma che il ricorso straordinario per cassazione non è proponibile avverso il diniego di provvedimento d'urgenza domandato ai sensi dell'art. 700 c.p.c., perché detto provvedimento difetta di definitività e decisorietà ed è destinato a perdere efficacia a seguito di pronuncia della sentenza definitiva di merito, così che non può incidere su situazioni soggettive di natura sostanziale con efficacia di giudicato.

5. Il procedimento sommario di cognizione.

Pochi sono i provvedimenti che hanno riguardato il procedimento sommario di cognizione.

In ordine alla forma della domanda e alle indicazioni che deve contenere il ricorso introduttivo, ai sensi dell'art. 702 bis, comma 1, Sez. 6-2, n. 19345/2015, Manna, Rv. 637166, puntualizza le conseguenze del mancato avvertimento di cui al n. 7 dell'art. 163, comma 3 c.p.c. Afferma in particolare che il mancato avvertimento di cui all'art. 163 n. 7, espressamente richiamato nell'art. 702 bis, comporta, ove il convenuto si sia costituito lamentandone la mancanza, non la rinnovazione dell'atto, ma il semplice spostamento d'udienza ex art. 164, comma 3, c.p.c., così assicurando alla parte la disponibilità del tempo normativamente previsto per perfezionare la propria difesa senza incorrere in preclusioni e decadenze. Nella pronuncia è inoltre affermato che quando tale differimento sia attuato mediante la rinnovazione del ricorso e della sua notificazione, l'attività processuale espletata si configura come sovrabbondante, sicchè eventuali irregolarità formali non producono effetti invalidanti in base al principio utile per inutile non vitiatur. Nella fattispecie era accaduto che alla eccepita carenza dell'avvertimento era seguito non il mero rinvio ad altra udienza per assicurare gli effetti dell'avvertimento, come previsto dalla legge, ma la rinnovazione dell'atto introduttivo, rinotificato dunque, ma non presso il procuratore domiciliatario ormai già costituito, bensì alla parte personalmente. La sentenza ha dunque evidenziato che la notificazione era un rimedio sovrabbondante rispetto alla previsione normativa, e pertanto la sua irregolarità era irrilevante ai fini della integrazione del contenuto del ricorso.

Sulla appellabilità dell'ordinanza di rigetto emessa all'esito del giudizio sommario è intervenuta Sez. 6-2, n. 22387/2015, Giusti, Rv. 637040, secondo la quale anche l'ordinanza di rigetto della domanda è appellabile ex art. 702 quater c.p.c. Nella sentenza si sottolinea che l'opinione contraria, che si fonda sul richiamo nell'art. 702 quater c.p.c. al solo comma 6 dell'art. 702 ter c.p.c., riferibile alla sola ipotesi dell'accoglimento della domanda, è erronea, dovendosi dare una lettura del citato comma in continuità al contenuto del comma 5 dell'art. 702 ter, quest'ultimo riferito tanto all'accoglimento quanto al rigetto del ricorso. D'altronde, sostiene sempre la pronuncia, una diversa lettura, che discriminasse l'appellabilità secundum eventum litis, sarebbe contraria ai principi di eguaglianza, ragionevolezza e difesa.

In ordine alla ammissibilità della sospensione del giudizio con rito sommario di cognizione e sulle conseguenze di tale sospensione, Sez. 6-3, n. 21914/2015, Frasca, Rv. 637590, afferma che qualora nel corso del procedimento introdotto ai sensi dell'art. 702 bis c.p.c. insorga una questione di pregiudizialità rispetto ad altra controversia, che imponga un provvedimento di sospensione necessaria, ai sensi dell'art. 295 c.p.c., oppure venga invocata l'autorità di una sentenza resa in altro giudizio e tuttora impugnata, ai sensi dell'art. 337, comma 2, c.p.c., si determina la necessità di una istruzione non sommaria. Ne deriva che il giudice, a norma dell'art. 702 ter, comma 3, c.p.c., deve disporre il passaggio al rito della cognizione piena, conseguendone pertanto che, nell'ambito del rito sommario, è illegittima l'adozione di un provvedimento di sospensione ex art. 295 c.p.c. o ex art. 337, comma 2, c.p.c.

Va segnalata infine anche Sez. 2, n. 10177/2015, Piccialli, Rv. 635418, che, sull'ipotesi di frazionamento della domanda giudiziale per lo stesso credito, afferma che l'attore, il quale a tutela di un unico credito dovuto in forza di un unico rapporto obbligatorio agisca con ricorso monitorio per la somma provata documentalmente e con il procedimento sommario di cognizione per la parte residua, non incorre in un abuso dello strumento processuale per il frazionamento del credito, in quanto tale comportamento non si pone in contrasto né con il principio di correttezza e buona fede, né con il principio del giusto processo, dovendosi riconoscere il diritto del creditore a una tutela accellerata mediante decreto ingiuntivo per i crediti provati con documentazione sottoscritta dal debitore.

6. I procedimenti camerali.

Non particolarmente copiosa è anche la giurisprudenza che si è occupata delle questioni processuali relative al rito camerale.

Sui poteri del giudice nel procedimento camerale è intervenuta Sez. 6-2, n. 04412/2015, Manna, Rv. 634450, secondo cui il giudice, al fine di garantire il contraddittorio, l'esercizio del diritto di difesa e l'effettività della tutela giurisdizionale, deve esercitare poteri ufficiosi anche mediante l'applicazione estensiva ed analogica delle disposizioni del processo di cognizione, sicchè è tenuto a indicare alle parti le questioni rilevabili d'ufficio, richiedendo i necessari chiarimenti, al pari di quanto previsto dall'art. 183, comma 4 c.p.c., e se del caso assumendo sommarie informazioni da soggetti terzi, ai sensi dell'art. 738, comma 3, c.p.c. L'unico limite che la pronuncia pone è riferito alla ipotesi in cui tale modalità di acquisizione di elementi di giudizio non sia volta a supplire all'onere probatorio, che incombe invece sulla parte, oppure abbia finalità meramene esplorative. La questione si era posta in tema di procedimento per equa riparazione, nel quale il giudice di merito aveva dichiarato l'inammissibilità del ricorso per una divergenza tra codice fiscale e nome della ricorrente, senza invece provvedere ad attivarsi anche presso l'Agenzia delle entrate al fine di superare i dubbi insorti.

Sul rispetto del contraddittorio e del principio della difesa nei procedimenti camerali di natura contenziosa è intervenuta anche Sez. 6-1, n. 26200/2015, Acierno, Rv. 637912. La pronuncia, in un procedimento camerale in materia di famiglia, ha ribadito la necessità di osservare i diritti di difesa e di contraddittorio, sebbene in una forma diversa dal modello ordinario di cognizione, del quale mancano le scansioni processuali. Ne discende che può rendersi necessaria una udienza per la comparizione delle parti e per il tentativo di conciliazione, non anche la concessione di termini per il deposito di atti difensivi, quando in contrasto con le esigenze di celerità della decisione.

La medesima pronuncia Rv. 637913 va segnalata anche per l'affermazione di altro interessante principio in ordine alla regolarità della celebrazione dell'udienza di comparizione delle parti in sede di reclamo davanti ad un giudice delegato e non dinanzi al Collegio. Sul punto la S.C. ha ribadito che il potere di delega del Collegio ad uno dei componenti, previsto dall'art. 350, comma 1, c.p.c., trova applicazione anche ai procedimenti camerali in fase di appello, trattandosi di norma dettata per il giudizio a cognizione piena, compatibile con la disciplina dei procedimenti camerali.

In materia di famiglia, e con particolare riguardo alla filiazione naturale, è poi utile segnalare Sez. 6-1, n. 18194/2015, Bernabai, Rv. 637108, che afferma come in tema di affidamento dei figli nati fuori dal matrimonio la legge 8 febbraio 2006, n. 54 ha equiparato la posizione dei figli nati more uxorio a quella dei figli nati da genitori coniugati, estendendo la disciplina in materia di separazione e divorzio anche ai procedimenti ex art. 317 bis c.c. (ratione temporis applicabile), che hanno così assunto autonomia procedimentale rispetto ai procedimenti contemplati negli artt. 330, 333 e 336 c.c., senza che abbia alcun rilievo il rito camerale. Ne discende che i decreti emessi dalla corte d'appello avverso i provvedimenti adottati ai sensi dell'art. 317 bis c.c. relativi ai figli nati fuori da matrimonio e alle conseguenti statuizioni economiche, ivi compresa l'assegnazione della casa familiare, sono impugnabili con ricorso straordinario in cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost., ora sostanzialmente equiparato al ricorso ordinario per il richiamo operato dall'ultimo comma dell'art. 360 c.p.c. ai commi 1 e 3.

7. Gli altri procedimenti speciali.

Nella giurisprudenza del 2015 possono segnalarsi alcune pronunce intervenute in procedimenti speciali afferenti varie discipline.

In tema di divisione, Sez. 6-2, n. 09813/2015, Manna, Rv. 635404, a proposito della disciplina delle spese di giudizio, afferma che anche in caso di compensazione delle spese processuali tra le parti, il giudice può legittimamente disporre che quelle relative alla consulenza tecnica d'ufficio siano a carico di tutti i condividenti pro quota, posto che, in ragione della finalità propria della consulenza di ausilio nella valutazione degli elementi che comportino specifiche conoscenze, la prestazione dell'ausiliare deve ritenersi resa nell'interesse generale della giustizia e, per conseguenza, nell'interesse delle parti.

In materia di famiglia, si rinvia alla specifica trattazione. Va peraltro segnalato che alcune pronunce hanno indirizzato l'attenzione, in tema di giurisdizione volontaria e di attività del giudice tutelare, su questioni incidenti sul rapporto processuale.

Sez. 6-1, n. 20471/2015, Acierno, Rv. 637346, afferma che la competenza per l'apertura della tutela dell'interdetto legale, ove questi si trovi in stato di detenzione in esecuzione di sentenza definitiva, va attribuita al giudice tutelare del luogo della sua ultima dimora abituale prima dell'inizio dello stato detentivo, non trovando applicazione il criterio legale della sede principale degli affari e degli interessi dell'interdetto, che presuppone l'elemento soggettivo del volontario stabilimento in un determinato luogo.

La irrilevanza della natura di atto riconducibile alla giurisdizione volontaria del provvedimento di nomina del curatore speciale, ex art. 78 c.p.c., è asserita da Sez. 3, n. 07362/2015, Frasca, Rv. 634825, secondo la quale, allorquando l'esigenza di nomina di un curatore speciale ex art. 78 c.p.c. si manifesti nel corso del giudizio ed in relazione ad esso, la corrispondente istanza deve essere proposta al giudice, monocratico o collegiale, investito del processo pendente, a tanto non ostando la collocazione del provvedimento emesso ai sensi dell'art. 80 c.p.c. nell'alveo della giurisdizione volontaria.

Sulla natura del procedimento avverso il rifiuto del Direttore dell'agenzia del territorio di eseguire una trascrizione è intervenuta Sez. 1, n. 15131/2015 Rv. 636206, che, a proposito del procedimento previsto dagli artt. 113 bis. disp. att. c.c., e dall'art. 745 c.p.c., ne afferma la natura di volontaria giurisdizione non contenziosa, avendo esso ad oggetto non la risoluzione di un conflitto di interessi, ma il regolamento, secondo la legge, dell'interesse pubblico alla pubblicità immobiliare, cosicché in esso non è ravvisabile una parte vittoriosa o soccombente, tanto che il presidente del tribunale si limita a "sentire" il Conservatore (ora direttore della agenzia) e il relativo provvedimento non è suscettibile di passare in giudicato. La pronuncia pertanto conclude sulla questione, sostenendo che in tale procedimento non può provvedersi alla condanna alle spese, che, se invece assunta, legittima il ricorso per cassazione, ai sensi dell'art. 111 Cost., avendo tale pronuncia natura decisoria.

Per concludere è utile fare cenno ad alcune pronunce intervenute su procedimenti speciali, fuori da quelli contemplati nel Libro IV del codice di procedura civile.

In materia di immigrazione, e con riguardo alla competenza sui provvedimenti per proroga del trattenimento in centro di identificazione ed espulsione, Sez. 6-1, n. 19336/2015, De Chiara, Rv. 637225, afferma che è competente il tribunale, in composizione monocratica, ai sensi dell'art. 21, comma 2, d.lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, e non il giudice di pace, a provvedere sulla proroga del trattenimento dello straniero in un centro di identificazione ed espulsione, ove sia ancora pendente il termine per l'impugnazione del diniego di protezione internazionale reso dalla Commissione territoriale, dovendosi riconoscere anche a quest'ultimo la qualifica di richiedente asilo, in forza delle previsioni dell'art. 2, lett. c) e d), della direttiva del Consiglio CEE 1 dicembre 2005, n. 85, relative alle procedure per il riconoscimento e la revoca dello status di rifugiato.

Sullo stesso tema, e relativamente al termine per ricorrere in cassazione avverso i provvedimenti in materia di protezione internazionale, Sez. 6-1, n. 18704, Bisogni, Rv. 636868, sostiene che in tema di tempestività del ricorso per cassazione avverso i suddetti provvedimenti, a seguito della abrogazione dell'art. 35, comma 14, d.lgs. n. 25 del 2008, deve applicarsi il termine ordinario previsto dall'art. 327 c.p.c., e non già quello di trenta giorni di cui all'art. 702 quater c.p.c., relativo al rito sommario di cognizione, applicabile ai giudizi di merito in virtù dell'art. 19, d.lgs. 1° settembre 2011, n. 150. Il principio trova fondamento nella convinzione che il comma 10 di tale ultima disposizione deve essere interpretato nel suo reale significato di attribuire priorità nella trattazione delle controversie in materia di protezione internazionale, non però anche nel senso di rendere applicabili al giudizio di legittimità disposizioni abrogate o riguardanti giudizi di merito, secondo una interpretazione peraltro palesemente in contrasto con il diritto delle parti ad un giusto processo ed all'effettività del diritto di difesa.

In tema di incandidabilità ai sensi dell'art. 143, comma 11, d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 (testo Unico sugli Enti Locali) Sez. U, n. 01747/2015, Giusti, Rv. 634128, affermano che il provvedimento giurisdizionale per la dichiarazione di incandidabilità degli amministratori responsabili delle condotte che hanno dato causa allo scioglimento dei consigli comunali o provinciali per infiltrazioni di tipo mafioso, pur essendo destinato a svolgersi con il rito camerale ex art. 737 e segg., c.p.c., ha una forma speciale di instaurazione, che richiede la proposta del Ministero dell'Interno, ai sensi dell'art. 143, comma 11, del decreto n. 267 del 2000. Questo essendo l'unico schema normaivo, non incide sulla regolarità del procedimento, e non realizza pertanto alcuna nullità, l'ipotesi in cui, nell'ambito del procedimento instaurato a seguito di tale proposta, il Pubblico Ministero presenti un autonomo ricorso per la dichiarazione di incandidabilità, avendo esso natura e funzione di sollecitazione della trattazione dell'atto ministeriale di impulso.

Sulla natura dell'atto proveniente dal Ministero degli Interni, poi, Sez. 1, n. 16048/2015, Bernabai, Rv. 636642, chiarisce che il procedimento giurisdizionale previsto dall'art. 143, comma 11, cit., non ha natura impugnatoria, ma è riconducibile ad un ordinario giudizio camerale contenzioso, regolamentato dagli artt. 737 e segg., c.p.c., soggetto al generale principio della domanda. Ne consegue che non può mancare un atto introduttivo che abbia tutti i requisiti della vocatio in ius e dell'editio actionis, elencati dall'art. 125 c.p.c., da identificarsi nella memoria dell'Avvocatura dello Stato, che rappresenta in giudizio il Ministero dell'Interno. Ad un tempo deve attribuirsi invece alla proposta dello stesso Ministero, prevista dalla stessa disposizione, il valore di atto introduttivo unicamente in una accezione atecnica, idonea come tale a provocare l'attivazione del potere d'impulso del tribunale, volto alla fissazione dell'udienza camerale.

Nell'esaminare infine altri interventi relativi al procedimenti speciali, in materia di procedimento disciplinare nei confronti dell'iscritto nell'albo dei giornalisti, cui è applicabile il rito sommario ex art. 702 bis e segg. c.p.c., Sez. 2, n. 00592/2015, Abete, Rv. 634496, afferma che nel procedimento giurisdizionale disciplinato dall'art. 63, legge 3 febbraio 1963, n. 69, avverso le deliberazioni assunte in materia disciplinare dal Consiglio nazionale dell'Ordine dei giornalisti, la richiesta di un provvedimento cautelare, quale la sospensione della sanzione disciplinare, formulata in via preliminare nel reclamo alla Corte d'appello avverso la sentenza di condanna, dà vita ad un subprocedimento incidentale, come tale privo di autonomia rispetto alla causa di merito, sicché, avvenuta la notifica del ricorso e del decreto di fissazione d'udienza, il contraddittorio è pienamente attuato con la costituzione in giudizio del destinatario dell'atto, senza necessità di ulteriori notifiche, posto che il rito sommario previsto dagli artt. 702 bis e segg., c.p.c., applicabile alle controversie in esame, è caratterizzato dalla omissione di ogni formalità non essenziale al contraddittorio stesso.

Quanto al procedimento di liquidazione degli onorari di avvocato, nel fissare i limiti dell'inappellabilità dell'ordinanza che definisce la procedura introdotta ai sensi dell'art 28, legge 13 giugno 1942, n. 794, Sez. 2, n. 19873/2015, Parziale, Rv. 636795, afferma che l'art. 14, d.lgs. 1° settembre 2011, n. 150, nel dichiarare inappellabile il provvedimento di liquidazione, richiama i limiti operativi della procedura speciale scelta dal professionista, sicchè quando l'ordinanza statuisca sull'an del compenso e non sul solo quantum, essa esula dalla sfera applicativa dell'art. 14 cit., ed è pertanto impugnabile con l'appello e non con il ricorso per cassazione.

  • adozione di minore
  • matrimonio
  • potestà genitoriale
  • responsabilità parentale
  • separazione legale
  • bambino abbandonato
  • figlio naturale

CAPITOLO XLI

LA FAMIGLIA E LA TUTELA DEGLI INCAPACI: PROFILI PROCESSUALI

(di Paolo Di Marzio )

Sommario

1 Il giudizio di separazione personale dei coniugi: termini processuali. - 2 Accertamento dello stato di abbandono e procedimento di adozione. - 3 L'audizione del minore nelle procedure che lo riguardano. - 4 Il collocamento dei minori. - 5 I figli nati fuori dal matrimonio. - 6 Provvedimenti limitativi o ablativi della responsabilità genitoriale. - 7 Giurisdizione e competenza in materia di sottrazione internazionale e rientro dei minori. - 8 Riconoscimento del figlio minore da parte del genitore infrasedicenne: competenza. - 9 L'accertamento giudiziale della paternità. L'impugnazione del riconoscimento del minore per difetto di veridicità, regime probatorio. - 10 Rettificazione di sesso, competenza territoriale. - 11 Amministrazione di sostegno e procedure di interdizione e di inabilitazione. - 12 Comunione legale dei coniugi, revocatoria e (insussistenza del) litisconsorzio. - 13 Procedure minorili, volontaria giurisdizione e ricorso per cassazione. - 14 Il riconoscimento della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio.

1. Il giudizio di separazione personale dei coniugi: termini processuali.

In riferimento al giudizio di separazione personale dei coniugi, la Suprema Corte ha precisato che la proposizione dell'appello si perfeziona, ex art. 8 della l. 6 marzo 1987 n. 74, applicabile in forza dell'art. 23 della stessa legge, con il deposito, nei termini di cui agli artt. 325 e 327 c.p.c., del ricorso nella cancelleria del giudice ad quem, che impedisce ogni decadenza dell'impugnazione. Pertanto, ogni eventuale vizio o inesistenza, giuridica o di fatto, della notificazione del ricorso e del decreto di fissazione dell'udienza di discussione non si comunica all'impugnazione ormai perfezionatasi, ma impone al giudice che rilevi il vizio di indicarlo all'appellante perché provveda a rimuoverlo nel termine all'uopo assegnatogli. Nel caso di specie, il giudice di legittimità ha ritenuto l'inesistenza della notificazione del ricorso in appello, non rinvenuta nel fascicolo di parte sebbene risultasse indicata tra i documenti prodotti e la cui relata, da cui sola può evincersi l'effettiva notifica degli atti processuali, non è stata nemmeno trascritta nel controricorso nel rispetto del principio di autosufficienza, Sez. 1, n. 15137/2015, Valitutti, Rv. 636270.

La Corte si è pure soffermata, con Sez. 1, n. 16909/2015, Nazzicone, Rv. 636506, a proposito dei limiti di intervento ai sensi dell'art. 710 c.p.c. per la modificazione dei provvedimenti relativi alla separazione. Sul punto la pronuncia afferma che la separazione consensuale è un negozio di diritto familiare avente un contenuto essenziale, qual è quello relativo al consenso reciproco a vivere separati, l'affidamento dei figli, l'assegno di mantenimento quando ricorrono i presupposti, ed un contenuto eventuale, che trova solo occasione nella separazione, che può esere costituito da accordi patrimoniali del tutto autonomi che i coniugi concludono in relazione all'instaurazione di un regime di vita separato. Ne consegue che questi ultimi (nel caso di specie si trattava dell'accordo relativo alla vendita della casa coniugale ed alla distribuzione del ricavato in ragione del denaro investito da ciascuno dei coniugi nell'immobile) non sono suscettibili di modifica in sede di azione ex art. 710 c.p.c., che può invece riguardare unicamente le clausole aventi causa nella separazione personale, non i patti autonomi, occasionalmente costituiti in sede di separazione, e che invece restano regolati ai sensi dell'art. 1372 c.c.

2. Accertamento dello stato di abbandono e procedimento di adozione.

Ai sensi dell'art. 38 disp. att. c.c., come modificato dall'art. 3 della l. 10 dicembre 2012, n. 219, ha specificato il giudice di legittimità, rimane radicata presso il tribunale per i minorenni la competenza in ordine all'accertamento dello stato di adottabilità del minore anche nell'ipotesi in cui il procedimento relativo all'accertamento delle condizioni di adottabilità tragga origine da un altro procedimento, relativo alla limitazione della responsabilità genitoriale, per il quale sia stata dichiarata l'incompetenza del tribunale per i minorenni a seguito dell'instaurazione medio tempore di un giudizio di separazione personale tra i genitori, atteso che i procedimenti di adozione sono rimasti nella esclusiva sfera di competenza del tribunale per i minorenni in quanto del tutto estranei alla novellata articolazione delle competenze, Sez. 6-1, n. 14842/2015, Acierno, Rv. 636192.

In tema di adozione di minori, la Suprema Corte ha chiarito che la pendenza del giudizio di separazione personale dei coniugi non giustifica la sospensione del procedimento relativo alla declaratoria di adottabilità instaurato, ai sensi dell'art. 38 disp. att. c.c. (come modificato dall'art. 3 della l. n. 219 del 2012), innanzi al tribunale per i minorenni, per carenza di pregiudizialità giuridica necessaria tra i due procedimenti. L'accertamento dello stato di abbandono e di adottabilità, infatti, avendo ad oggetto le definitive ed irreversibili condizioni di esistenza del minore che versi in una condizione di grave pericolo per la propria crescita, determinato dall'abbandono dei genitori, ha una portata molto più ampia delle decisioni sull'affidamento assunte al fine di risolvere il conflitto genitoriale, anche quando possano sfociare in misure limitative o ablative della responsabilità genitoriale o nell'affidamento a terzi, Sez. 6-1, n. 14842/2015, Acierno, Rv. 636193.

In materia di adozione, ha specificato ancora il giudice di legittimità, l'art. 12 della l. 4 maggio 1983, n. 184, limita le categorie di persone che devono essere sentite nel procedimento per la dichiarazione di adottabilità ai parenti entro il quarto grado che abbiano mantenuto rapporti significativi con il minore, la cui convocazione risponde essenzialmente alla finalità di consentire l'acquisizione di elementi necessari per la valutazione del suo interesse e la prospettazione di soluzioni idonee ad ovviare allo stato di abbandono, senza rescindere il legame con la famiglia di origine. Nel caso di specie, la Suprema Corte ha confermato il provvedimento impugnato che aveva ritenuto irrilevante l'audizione della sorella del minore, la quale aveva dimostrato disinteresse per il fratello e rifiutato di collaborare con la madre alla sua crescita ed alla sua educazione, Sez. 1, n. 18689/2015, Mercolino, Rv. 637107.

3. L'audizione del minore nelle procedure che lo riguardano.

L'audizione dei minori, già prevista nell'art. 12 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, è divenuta un adempimento necessario nelle procedure giudiziarie che li riguardino ed, in particolare, in quelle relative al loro affidamento ai genitori, ai sensi dell'art. 6 della Convenzione di Strasburgo del 25 gennaio 1996, ratificata con la l. n. 77 del 2003, nonché dell'art. 315-bis c.c. (introdotto dalla l. n. 219 del 2012) e degli artt. 336-bis e 337-octies c.c. (inseriti dal d.lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, che ha altresì abrogato l'art. 155-sexies c.c.). Ne consegue che l'ascolto del minore di almeno dodici anni, e anche di età minore ove capace di discernimento, costituisce una modalità, tra le più rilevanti, di riconoscimento del suo diritto fondamentale ad essere informato e ad esprimere le proprie opinioni nei procedimenti che lo riguardano, nonché elemento di primaria importanza nella valutazione del suo interesse, Sez. 1, n. 06129/2015, Acierno, Rv. 634881.

Pronunciando in materia di adozione, la Suprema Corte ha pure specificato che l'art. 15 della l. n. 184 del 1983, come modificato dalla l. 28 marzo 2001, n. 149, laddove dispone che il minore il quale abbia compiuto dodici anni - o anche di età inferiore, se capace di discernimento - deve essere sentito in vista della dichiarazione di adottabilità, esprime un principio che, benché inserito nella disciplina del giudizio di primo grado, deve essere esteso al giudizio di adottabilità nel suo complesso. Ne consegue che, ove l'adottando abbia compiuto i dodici anni al tempo del giudizio di appello, il giudice del gravame è tenuto a procedere alla sua audizione, riflettendo tale obbligo una nuova considerazione del minore quale portatore di bisogni ed interessi che, se consapevolmente espressi, pur non vincolando il giudice, non possono essere ignorati, Sez. 1, n. 15365/2015, De Chiara, Rv. 636487.

4. Il collocamento dei minori.

In tema di collocamento del figlio minore nell'ambito della procedura di separazione personale dei coniugi, non è denunciabile in cassazione, ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., come modificato dall'art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. nella l. 7 agosto 2012, n. 134, la mera omessa od errata valutazione da parte del giudice di merito delle relazioni psicosociali acquisite agli atti e dei pareri psicodiagnostici prodotti, ove nel provvedimento sia stato dato risalto all'esigenza di assicurare la conservazione di un regolare rapporto tra il minore ed il genitore non collocatario, Sez. 6-1, n. 18817/2015, Mercolino, Rv. 636766.

5. I figli nati fuori dal matrimonio.

Il decreto della corte di appello contenente i provvedimenti in tema di affidamento dei figli nati fuori dal matrimonio, e le disposizioni relative al loro mantenimento, ha evidenziato il giudice di legittimità, è ricorribile per cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost. poiché già nel vigore della l. 8 febbraio 2006, n. 54 - che tendeva ad assimilare la posizione dei figli di genitori non coniugati a quella dei figli nati nel matrimonio, - ed a maggior ragione dopo l'entrata in vigore del d.lgs. n. 154 del 2013, che ha abolito ogni distinzione, al predetto decreto vanno riconosciuti i requisiti della decisorietà, in quanto risolve contrapposte pretese di diritto soggettivo, e di definitività, perché ha un'efficacia assimilabile rebus sic stantibus a quella del giudicato, Sez. 1, n. 06132/2015, Lamorgese, Rv. 634872.

L'impugnazione del riconoscimento del figlio nato fuori dal matrimonio per difetto di veridicità può essere accolta, alla luce del principio del favor veritatis, non solo quando l'attore provi che l'autore del riconoscimento, all'epoca del concepimento, era affetto da impotentia generandi o non aveva la possibilità di avere rapporti con la madre, ma anche quando fornisca la prova di essere il vero genitore, così dimostrando nello stesso tempo sia la propria legittimazione che la fondatezza della domanda, Sez. 1, n. 06136/2015, Genovese, Rv. 634961.

Al fine del rispetto della prescrizione relativa all'intervento obbligatorio del P.M. nei procedimenti civili riguardanti lo stato delle persone, la Suprema Corte ha chiarito che non è necessaria la presenza di un rappresentante di tale ufficio nel corso delle udienze e neppure che rassegni le proprie conclusioni, ma è sufficiente che egli sia stato informato mediante l'invio degli atti del giudizio e così posto in condizione di sviluppare l'attività ritenuta opportuna. Il giudice di legittimità ha enunciato il principio nell'ambito di un giudizio di impugnazione del riconoscimento del figlio naturale per difetto di veridicità, Sez. 1, n. 06136/2015, Genovese, Rv. 634962.

La Suprema Corte ha avuto poi occasione di precisare che il giudizio di impugnazione della veridicità del riconoscimento di figlio naturale è suscettibile di produrre rilevanti effetti sullo status della persona del bambino e di incidere su diritti personalissimi, sicché il giudice deve accertare rigorosamente le ragioni che facciano escludere la veridicità del riconoscimento della filiazione anche se non è applicabile il principio, proprio del giudizio penale, secondo cui la prova deve essere fornita "al di là di ogni ragionevole dubbio", Sez. 1, n. 06136/2015, Genovese, Rv. 634963.

6. Provvedimenti limitativi o ablativi della responsabilità genitoriale.

Il giudice di legittimità ha specificato che l'art. 38, comma 1, disp. att. c.c. (come modificato dall'art. 3, comma 1, della l. n. 219 del 2012, applicabile ai giudizi instaurati a decorrere dall'1 gennaio 2013), deve interpretarsi nel senso che, per i procedimenti di cui agli artt. 330 e 333 c.c., la competenza è attribuita in via generale al tribunale dei minorenni ma, quando sia pendente un giudizio di separazione, di divorzio o ex art. 316 c.c., e fino alla sua definitiva conclusione, in deroga a questa attribuzione, le azioni dirette ad ottenere provvedimenti limitativi o ablativi della responsabilità genitoriale, proposte successivamente e richieste con unico atto introduttivo dalle parti (così determinandosi un'ipotesi di connessione oggettiva e soggettiva), spettano al giudice del conflitto familiare, individuabile nel tribunale ordinario se sia ancora in corso il giudizio di primo grado, ovvero nella corte d'appello in composizione ordinaria se penda il termine per l'impugnazione o sia stato interposto appello, Sez. 6-1, n. 01349/2015, Acierno, Rv. 633988.

La Suprema Corte ha quindi riaffermato che, ai sensi dell'art. 38 disp. att. c.c. come novellato dall'art. 3 della l. n. 219 del 2012, il tribunale per i minorenni resta competente a conoscere della domanda diretta ad ottenere la declaratoria di decadenza o la limitazione della potestà dei genitori ancorché, nel corso del giudizio, sia stata proposta innanzi al tribunale ordinario domanda di separazione personale dei coniugi o di divorzio, trattandosi di interpretazione aderente al dato letterale della norma, rispettosa del principio della perpetuatio iurisdictionis di cui all'art. 5 c.p.c., nonché coerente con ragioni di economia processuale e di tutela dell'interesse superiore del minore, che trovano fondamento nell'art. 111 Cost., nell'art. 8 CEDU e nell'art. 24 della Carta di Nizza, Sez. 6-1, n. 02833/2015, Bisogni, Rv. 634420.

Instaurato da parte del P.M. un giudizio ex art. 333 c.c. davanti al tribunale per i minorenni, nel corso del quale sia stata accertata l'insussistenza di comportamenti pregiudizievoli da parte dei genitori nei confronti del proprio figlio minore, il successivo procedimento ex art. 317-bis (oggi art. 337-ter) c.c., introdotto da uno dei genitori e relativo all' affidamento del figlio medesimo, è devoluto alla competenza generale del tribunale ordinario del luogo di residenza abituale del minore, non potendo subire la vis actractiva del tribunale per i minorenni, che ha competenze tassativamente individuate dalla legge, Sez. 6-1, n. 15971/2015, Dogliotti, Rv. 636357.

Il decreto emesso dalla corte d'appello in sede di reclamo avverso il decreto del tribunale per i minorenni che, allo scopo di regolare l'esercizio della potestà genitoriale (ora responsabilità genitoriale), ha disposto ai sensi dell'art. 333 c.c. l'affido di un figlio minore ai servizi sociali, non è ricorribile per cassazione ai sensi dell'art. 360 c.p.c. e, in quanto adottato per l'esclusiva tutela dell'interesse del minore (e non per decidere un contrasto tra contrapposti diritti soggettivi), neppure con il ricorso straordinario ai sensi dell'art. 111 Cost., poiché privo dei caratteri della decisorietà e della definitività, Sez. 1, n. 16227/2015, Valitutti, Rv. 636331.

In tema di affidamento dei figli nati fuori dal matrimonio, la l. n. 54 del 2006 ha equiparato la posizione dei figli nati more uxorio a quella dei figli nati da genitori coniugati, estendendo la disciplina in materia di separazione e divorzio anche ai procedimenti ex art. 317-bis c.c., che hanno assunto autonomia procedimentale rispetto ai procedimenti di cui agli artt. 330, 333 e 336 c.c., senza che abbia alcun rilievo il rito camerale.

Ne consegue che i decreti emessi dalla corte d'appello avverso i provvedimenti adottati ai sensi dell'art. 317-bis c.c. relativi ai figli nati fuori dal matrimonio ed alle conseguenti statuizioni economiche, ivi compresa l'assegnazione della casa familiare, sono impugnabili con ricorso straordinario per cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost., ora equiparato sostanzialmente al ricorso ordinario in forza del richiamo operato dall'ultimo comma dell'art. 360 c.p.c. ai commi 1 e 3 (nel testo novellato dal d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40), Sez. 6-1, n. 18194/2015, Bernabai, Rv. 637108.

7. Giurisdizione e competenza in materia di sottrazione internazionale e rientro dei minori.

Pronunciando in tema di giurisdizione, la Suprema Corte ha chiarito che il regolamento CE 27 novembre 2003, n. 2201/2003, non deroga alla Convenzione dell'Aja del 25 ottobre 1980, in base alla quale la decisione sull'istanza di rientro nel luogo di residenza del minore illecitamente trasferito spetta all'autorità competente del Paese in cui si trova, ma conserva, per un periodo di tempo limitato, la competenza giurisdizionale allo Stato membro in cui il minore aveva la residenza abituale prima del trasferimento, a condizione che sia tempestivamente presentata e successivamente accolta un'istanza di rientro.

Ne consegue una fase di sdoppiamento della competenza giurisdizionale sul rientro e sull' affidamento tesa a garantire, da un lato, che la decisione sul rientro sia presa dal giudice del luogo in cui il minore si trova, in base al criterio di prossimità e possibilità di ascolto e, dall'altro, ad impedire che la sottrazione illecita del minore favorisca, con lo spostamento della giurisdizione, il suo autore, Sez. 1, n. 09632/2015, Bisogni, Rv. 635336.

In tema di illecita sottrazione internazionale di minori, ha chiarito ancora la Suprema Corte, l'avvenuta proposizione dell'impugnazione del decreto del tribunale innanzi ad un giudice incompetente, qual è la corte di appello, non è idonea ad impedire, mediante la rimessione della causa al giudice competente, ossia la Corte di cassazione, la declaratoria di inammissibilità del gravame per decadenza, poiché il principio della traslatio iudicii di cui all'art. 50 c.p.c. non opera in caso di impugnazione proposta ad un giudice di grado diverso da quello avanti al quale si sarebbe dovuta proporre, Sez. 1, n. 17911/2015, Nazzicone, Rv. 637100.

8. Riconoscimento del figlio minore da parte del genitore infrasedicenne: competenza.

La competenza a provvedere sull'autorizzazione al riconoscimento del figlio nato fuori del matrimonio richiesta, ex art. 250, comma 5, c.c., dal genitore non ancora sedicenne, ha statuito la Suprema Corte, appartiene al tribunale ordinario (principio di diritto enunciato ai sensi dell'art. 363, comma 3, c.p.c.), Sez. 6-1, n. 16103/2015, Cristiano, Rv. 636601.

9. L'accertamento giudiziale della paternità. L'impugnazione del riconoscimento del minore per difetto di veridicità, regime probatorio.

Nel giudizio promosso per la dichiarazione giudiziale di paternità naturale, ha chiarito la Suprema Corte, l'efficacia delle indagini ematologiche ed immunogenetiche sul DNA non può essere esclusa per la ragione che esse sono suscettibili di utilizzazione solo per compiere valutazioni meramente probabilistiche. In realtà tutte le asserzioni delle scienze fisiche e naturalistiche hanno questa natura anche se espresse in termini di "leggi", e tutte le misurazioni, anche quelle condotte con gli strumenti più sofisticati, sono ineluttabilmente soggette ad errore, sia per ragioni intrinseche (cosiddetto errore statistico), che per ragioni legate al soggetto che esegue o legge le misurazioni (cosiddetto errore sistematico).

Spetta pertanto al giudice di merito, nell'esercizio del suo potere discrezionale, la valutazione sull'opportunità di disporre indagini suppletive o integrative di quelle già espletate, di sentire a chiarimenti il consulente tecnico di ufficio ovvero di disporre la rinnovazione delle indagini, Sez. 1, n. 06025/2015, Bisogni, Rv. 634855.

Nel giudizio promosso per l'accertamento della paternità naturale, il rifiuto di sottoporsi ad indagini ematologiche, nella specie opposto da tutti gli eredi legittimi del preteso padre, costituisce un comportamento valutabile da parte del giudice, ex art. 116, comma 2, c.p.c., di così elevato valore indiziario da poter essere posto, anche da solo, a fondamento del giudizio di fondatezza della domanda, Sez. 1, n. 06025/2015, Bisogni, Rv. 634858.

L'impugnazione del riconoscimento del figlio nato fuori dal matrimonio per difetto di veridicità può essere accolta, alla luce del principio del favor veritatis, non solo quando l'attore provi che l'autore del riconoscimento, all'epoca del concepimento, era affetto da impotentia generandi o non aveva la possibilità di avere rapporti con la madre, ma anche quando fornisca la prova di essere il vero genitore, così dimostrando nello stesso tempo sia la propria legittimazione che la fondatezza della domanda, Sez. 1, n. 06136/2015, Genovese, Rv. 634961.

Il giudice di legittimità ha poi ritenuto correttamente motivata la sentenza di merito che aveva liquidato i danni conseguenti ad un falso riconoscimento di paternità poi disconosciuto, in base ai parametri utilizzati in materia di perdita del rapporto parentale e di pregiudizi intrafamiliari.

In tal senso il giudice di legittimità ha affermato il principio che la liquidazione del danno non patrimoniale in via equitativa resta affidata ad apprezzamenti discrezionali del giudice di merito, non sindacabili in sede di legittimità purché la motivazione della decisione dia adeguatamente conto del processo logico attraverso il quale si è pervenuti alla liquidazione, indicando i criteri assunti a base del procedimento valutativo, Sez. 1, n. 16222/2015, Bisogni, Rv. 636631.

In tema di accertamento giudiziale della paternità, la Suprema Corte ha avuto occasione di chiarire che le cd. linee guida di esecuzione delle indagini genetiche, dettate dalle principali associazioni internazionali di studiosi ed operatori della genetica forense, sebbene siano prive di forza cogente in quanto non tradotte in protocolli imposti da norme di legge o di regolamento, costituiscono comunque regole comportamentali autoimposte e normalmente rispettate, essendo volte ad assicurare, sulla base delle acquisizioni tecnico-scientifiche del tempo, risultati peritali attendibili e verificabili. La loro inosservanza, pertanto, può far legittimamente dubitare della correttezza delle conclusioni esposte dal consulente tecnico di ufficio, Sez. 1, n. 16229/2015, Genovese, Rv. 636498.

L'azione di impugnazione del riconoscimento del figlio naturale per difetto di veridicità postula, a norma dell'art. 263 c.c., la dimostrazione dell'assoluta impossibilità che il soggetto, autore dell'originario riconoscimento sia, in realtà, il padre biologico del soggetto riconosciuto come figlio (nel caso di specie, la Suprema Corte ha ritenuto che il mero rifiuto del figlio riconosciuto di sottoporsi al prelievo ematologico non potesse essere valutato come prova, adeguata e sufficiente, dell'asserita non veridicità del riconoscimento (Sez. 1, n. 17970/2015, Bisogni, Rv. 637101).

Il giudice di legittimità ha pure avuto occasione di chiarire che, in caso di dichiarazione giudiziale di paternità, l'assunzione del cognome paterno da parte del figlio maggiorenne non è configurabile quale pronuncia accessoria da rendere d'ufficio ma, in quanto espressione di un diritto potestativo del figlio, richiede una apposita domanda da formularsi nell'atto di citazione o comunque nel termine ultimo di cui all'art. 183, comma 5, c.p.c. (nel testo applicabile ratione temporis, anteriore alle modifiche introdotte con il d.l. n. 35 del 2005, conv. con modif. dalla l. n. 80 del 2005), Sez. 1, n. 19734/2015, Mercolino, Rv. 637310.

Inoltre, la Suprema Corte ha statuito che, ai fini del legittimo esercizio del potere di sospensione discrezionale del processo di accertamento giudiziale di paternità ex art. 337, comma 2, c.p.c., in attesa della definizione del giudizio revocatorio sul giudicato intervenuto in un precedente procedimento di disconoscimento di paternità, è necessario che il giudice di secondo grado motivi esplicitamente sui requisiti di pregiudizialità e controvertibilità effettiva della decisione impugnata, posti a base dell'esercizio del potere di sospensione del processo richiesti dalla menzionata disposizione, Sez. 1, n. 21664/2015, Acierno, Rv. 637308.

Il giudice di legittimità si è pure pronunciato in materia di consulenza tecnica d'ufficio ematologica nell'ambito dei giudizi per l'accertamento o il disconoscimento della paternità. La Suprema Corte ha evidenziato che la consulenza tecnica d'ufficio è un mezzo istruttorio ufficioso, sottratto alle preclusioni istruttorie che vincolano le parti del processo, e suscettibile di essere soltanto sollecitato da queste ultime.

Ne discende che la dichiarazione della parte, la quale pure l'aveva richiesta, di voler "rinunciare" alla consulenza tecnica ematologica non assume alcun rilievo vincolante per il giudice che ritenga utile l'ccertamento. Inoltre, può attribuirsi alla consulenza tecnica la qualifica di "esplorativa", e ritenerla perciò inammissibile, sol quando la stessa sia rivolta a supplire a deficienze di allegazione ed istruttorie della parte, con la conseguenza di risultare contra legem, perché destinata ad aggirare il regime giuridico dell'onere della prova. Nel caso di specie la Corte ha affermato che solo in mancanza di qualsiasi allegazione e prova sull'accertamento richiesto la domanda di svolgere l'indagine ematologica, unanimemente ritenuta decisiva in ordine alla verità dei rapporti di filiazione, avrebbe potuto astrattamente ritenersi "esplorativa", Sez. 1, n. 23290/2015, Acierno, Rv. 637699.

10. Rettificazione di sesso, competenza territoriale.

La competenza per territorio in relazione alla domanda di rettificazione di sesso, e conseguentemente del nome, si radica con riferimento al luogo di residenza dell'attore, secondo il disposto dell'art. 2 della l. 14 aprile 1982, n. 164, nonché dell'art. 31, comma 2, del d.lgs. 1 settembre 2011, n. 150, e non con riferimento al luogo in cui si trova l'ufficio dello stato civile dove è stato registrato l'atto da rettificare, in applicazione dell'art. 96 del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, utilizzabile unicamente per i ricorsi rivolti a rettificare una precedente annotazione o a procedere alla ricostituzione, cancellazione o formazione di un atto dello stato civile, Sez. 1, n. 12638/2015, Acierno, Rv. 635652.

11. Amministrazione di sostegno e procedure di interdizione e di inabilitazione.

La Suprema Corte ha statuito che la cartella esattoriale, emessa per il recupero di prestazioni sanitarie indebitamente erogate in favore di un interdetto che identifichi come debitore, anziché l'incapace, il suo tutore, senza menzionarne la qualità, è illegittima per erronea individuazione del soggetto obbligato, poiché realizza un'inammissibile commistione tra soggetti e patrimoni giuridici, invece assolutamente distinti, con violazione dei principi della persistenza della soggettività giuridica, anche dell'incapace, e della personalità della responsabilità patrimoniale, Sez. 6-3, n. 09135/2015, De Stefano, Rv. 635211.

Il curatore dell'inabilitato non ha diritto a indennità, mancando una norma che ne preveda la spettanza e non potendosi estendere a lui il combinato disposto degli artt. 379 e 424 c.c., il quale consente di riconoscere un compenso al tutore per la maggiore intensità delle funzioni di protezione dell'interdetto, Sez. 6-2, n. 09816/2015, Manna, Rv. 635244.

Il giudice di legittimità ha quindi precisato che nei confronti delle persone inabilitate, le quali devono stare in giudizio con la necessaria assistenza del curatore, il procedimento di notificazione ha carattere complesso. Lo stesso, infatti, può ritenersi perfezionato soltanto quando l'atto sia stato portato a conoscenza tanto della parte quanto del curatore, al fine di porre quest'ultimo in condizione di svolgere la sua funzione di assistenza. Ne consegue che, ai sensi dell'art. 75 c.p.c., analogicamente applicabile, per identità di ratio, anche alla cartella di pagamento, la notifica al solo inabilitato, e che pertanto non sia stata effettuata pure nei confronti del curatore, è giuridicamente inesistente, non assumendo rilievo la mancata indicazione della curatela nelle dichiarazioni dei redditi, atteso che è onere dell'Amministrazione individuare la persona che ha la rappresentanza dell'incapace, Sez. T, n. 12531/2015, Federico, Rv. 635747.

Nel giudizio di interdizione il giudice di merito, nel valutare se ricorrono le condizioni previste dall'art. 418 c.c. per la nomina di un amministratore di sostegno, rimettendo gli atti al giudice tutelare, deve considerare che, rispetto all'interdizione e all'inabilitazione, l'ambito di applicazione dell'amministrazione di sostegno va individuato con riguardo non già al diverso, e meno intenso, grado di infermità o di impossibilità di attendere ai propri interessi del soggetto carente di autonomia, ma alle residue capacità e all'esperienza di vita dallo stesso maturate, anche attraverso gli studi scolastici e lo svolgimento dell'attività lavorativa (nella specie, si trattava di un'impiegata in ufficio con mansioni esecutive). Ne consegue che non si può impedire all'incapace, che ha dimostrato di essere in grado di provvedere in forma sufficiente alle proprie quotidiane ed ordinarie esigenze di vita, il compimento, con il supporto di un amministratore di sostegno, di atti di gestione ed amministrazione del patrimonio posseduto (anche se ingente), restando affidato al giudice tutelare il compito di conformare i poteri dell'amministratore e le limitazioni da imporre alla capacità del beneficiario in funzione delle esigenze di protezione della persona e di gestione dei suoi interessi patrimoniali, ricorrendo eventualmente all'ausilio di esperti e qualificati professionisti del settore, Sez. 1, n. 17962/2015, Mercolino, Rv. 637102.

Al tutore di persona interdetta, già costituito e soccombente in primo grado, non necessita l'autorizzazione del giudice tutelare per proporre appello avverso la relativa sentenza, mancando in tale ipotesi, diversamente da quella dell'inizio ex novo del giudizio da parte sua, agli effetti dell'art. 374, n. 5, c.c., la necessità di compiere la preventiva valutazione in ordine all'interesse ed al rischio economico per l'incapace, Sez. 2, n. 19499/2015, Nuzzo, Rv. 636524.

12. Comunione legale dei coniugi, revocatoria e (insussistenza del) litisconsorzio.

Nel giudizio intrapreso, ex art. 2901 c.c., nei confronti di uno solo dei coniugi in regime di comunione legale e riguardante un atto dispositivo compiuto da entrambi, non sussiste il litisconsorzio necessario dell'altro, atteso che l'eventuale accoglimento di tale azione non determinerebbe alcun effetto restitutorio, né traslativo, destinato a modificare la sfera giuridica di quest'ultimo, ma comporterebbe esclusivamente l'inefficacia relativa dell'atto in riferimento alla sola posizione del coniuge debitore e nei confronti, unicamente, del creditore che ha promosso il processo, senza caducare, ad ogni altro effetto, l'atto di disposizione, Sez. 3, n. 17021/2015, Rubino, Rv. 636301.

13. Procedure minorili, volontaria giurisdizione e ricorso per cassazione.

In tema di autorizzazione al rilascio del passaporto al genitore con figlio minore, prevista dall'art. 3, lett. b), della l. 21 novembre 1967, n. 1185, quando difetti l'assenso dell'altro genitore, il giudice di legittimità ha statuito che il provvedimento emesso dal tribunale in esito al reclamo avverso il decreto del giudice tutelare che abbia concesso o negato l'autorizzazione richiesta non ha natura definitiva e decisoria, trattandosi di atto di volontaria giurisdizione volto non a dirimere in via definitiva un conflitto tra diritti soggettivi dei genitori del minore, ma a valutare la corrispondenza del mancato assenso di uno di loro all'interesse del figlio e, dunque, espressivo di una forma gestoria dell'interesse del minore, sicché non è ammissibile il ricorso straordinario per cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost., Sez. 6-1, n. 21667/2015, Mercolino, Rv. 637306.

La Suprema Corte ha pure statuito che il regolamento di competenza non può essere proposto nel corso di un procedimento diretto ad ottenere la pronuncia di decadenza dalla potestà genitoriale ai sensi dell'art. 330 c.c., anche se il medesimo giudizio coinvolge, quali statuizioni meramente consequenziali, le decisioni sull'affidamento esclusivo del minore e la determinazione dell'assegno dovuto per il suo mantenimento.

I provvedimenti camerali diretti a pronunciare la decadenza dalla responsabilità genitoriale e la reintegrazione in essa ai sensi degli artt. 330 e 332 c.c., ovvero a disporne la limitazione, ai sensi dell'art. 333 c.c., sono invero privi del requisito della decisorietà e definitività, atteso che, del resto, non assolvono alla funzione di dirimere una lite tra due soggetti in ordine all'attribuzione di un bene della vita, bensì a quella di controllare e governare gli interessi dei minori.

Tali provvedimenti non sono dotati della stabilità tipica del provvedimento giurisdizionale idoneo al giudicato, poiché sono revocabili in ogni tempo, per motivi originari o sopravvenuti, e, pertanto, deve escludersi che possano essere impugnati mediante regolamento di competenza ad istanza di parte. Invero, in tali procedure l'affermazione o la negazione della competenza ha carattere meramente preliminare e strumentale rispetto alla decisione di merito, della quale condividono il regime impugnatorio, Sez. 6-1, n. 22568/2015, Mercolino, Rv. 637652.

Il giudice di legittimità ha quindi riaffermato che sono inammissibili i ricorsi per cassazione, proposti ai sensi dell' art. 111, comma 7, Cost., quando abbiano ad oggetto provvedimenti emessi in sede di volontaria giurisdizione, quali ad esempio le pronunce di decadenza o reintegrazione nella potestà genitoriale ex artt. 330 e 332 c.c., stante la mancanza dei caratteri della decisorietà e definitività, Sez. 6-1, n. 24477/2015, Acierno, Rv. 638152.

14. Il riconoscimento della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio.

Il coniuge che abbia aderito alla domanda di cessazione degli effetti civili del matrimonio formulata dall'altro coniuge non ha interesse ad impugnare la conseguente sentenza dichiarativa sul presupposto dell'intervenuto annullamento del vincolo in sede ecclesiastica. Il giudizio di nullità canonica è infatti autonomo rispetto a quello ordinario, sicché nessuna interferenza può ipotizzarsi tra le due sentenze, aventi natura, presupposti e finalità diverse, nonché destinate ad avere rilievo in ordinamenti distinti, tanto più che dall'eventuale accoglimento del gravame non può derivare alcuna utilità giuridica alla parte che lo propone, che è configurabile solo in caso di soccombenza, almeno parziale, e non anche nell'ipotesi di adesione alla domanda di controparte, Sez. 1, n. 17969/2015, Bisogni, Rv. 637104.

La Suprema Corte ha quindi confermato l'orientamento recentemente espresso dalle Sezioni Unite (Sez. U, n. 16379/2014, Di Palma, Rv. 631798), affermando che la convivenza triennale "come coniugi", quale situazione giuridica di ordine pubblico ostativa alla delibazione della sentenza canonica di nullità del matrimonio, essendo caratterizzata da una complessità fattuale strettamente connessa all'esercizio di diritti, adempimento di doveri e assunzione di responsabilità di natura personalissima, è oggetto di un'eccezione in senso stretto, non rilevabile d'ufficio, né opponibile dal coniuge, per la prima volta, nel giudizio di legittimità, Sez. 1, n. 18695/2015, Campanile, Rv. 636704.

Il giudice di legittimità, inoltre, dopo aver ribadito che l'eccezione relativa alla convivenza ultratriennale dei coniugi, proposta per opporsi alla delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità matrimoniale, deve intendersi come un'eccezione in senso stretto, non rilevabile d'ufficio, come deciso dalle Sezioni Unite nella ricordata sentenza n. 16379 del 2014, ha anche specificato che quest'ultima pronuncia ha integrato in materia un vero e proprio overrulling; in conseguenza, alla luce del principio costituzionale del giusto processo, l'errore della parte che abbia compiuto oppure omesso o ritardato un atto processuale, facendo affidamento su una consolidata giurisprudenza di legittimità in ordine alle norme regolatrici del processo, non ha rilevanza preclusiva e lo strumento per consentire di rimediare all'errore consistente nella tardiva proposizione dell'eccezione della convivenza ultratriennale dei coniugi, che deve intendersi come oggettivamente scusabile, consiste nella rimessione in termini, Sez. 1, n. 25676/2015, Didone, Rv. 638192.

  • ingiunzione
  • sanzione amministrativa

CAPITOLO XLII

I GIUDIZI DI OPPOSIZIONE AD ORDINANZA INGIUNZIONE

(di Luca Varrone )

Sommario

1 Premessa. - 2 Questioni di costituzionalità. - 2.1 Sul market abuse in relazione al principio di specialità e al divieto del ne bis in idem. - 2.2 Sul principio di irretroattività. - 3 In materia di sanzioni amministrative bancarie e finanziarie. - 4 Sanzioni amministrative in materia di violazioni del codice della strada. - 5 Pronunce in materia di sanzioni amministrative aventi ad oggetto il rito. - 6 Altre pronunce di interesse.

1. Premessa.

Nel presente capitolo viene trattato, sia sotto il profilo processuale che sotto quello sostanziale, l'intero tema delle sanzioni amministrative e del relativo procedimento nei casi soggetti alla giurisdizione del giudice ordinario.

Il capitolo, pertanto, comprende oltre al tradizionale giudizio di opposizione ad ordinanza ingiunzione, anche i procedimenti di opposizione nei confronti delle sanzioni amministrative irrogate dalla Consob e dalla Banca d'Italia. Com'è noto, a seguito delle sentenze della Corte costituzionale n. 162 del 2012 e n. 94 del 2014, tali giudizi sono ritornati alla giurisdizione ordinaria, cui spettavano prima dell'approvazione del d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104. Dunque, la competenza a conoscere del corretto esercizio della potestà sanzionatoria da parte della Consob e della Banca d'Italia oggi spetta alla corte d'appello. Al giudice amministrativo continua ad essere attribuito, invece, il sindacato avverso le sanzioni comminate dall'Autorità Garante della Concorrenza e dall'Autorità per le Garanzie delle Comunicazioni.

Il d.lgs. 1° settembre 2011, n. 150, sulla semplificazione dei riti, ha stabilito un'applicazione generalizzata della disciplina del processo del lavoro per le controversie in tema di opposizione a sanzioni amministrative ex l. 24 novembre 1981, n. 689. Al momento della riforma, i giudizi nei confronti delle sanzioni comminate dalla Consob e dalla Banca d'Italia erano stati già devoluti al TAR Lazio per effetto dell'abrogazione operata dal d.l.gs. n. 104 del 2010 rispettivamente degli artt. 187 septies, commi 4-8, e 195, commi 4-8, TUF e dell'art. 145, commi 4-8, TUB, sicché era del tutto pacifica la loro estraneità all'ambito di operatività della nuova disciplina.

Oggi, a seguito della citata declaratoria di incostituzionalità, il rito applicabile, in tali casi, ha come principale punto di riferimento quello dell'opposizione a ordinanza ingiunzione.

Di qui la trattazione nel presente capitolo.

2. Questioni di costituzionalità.

2.1. Sul market abuse in relazione al principio di specialità e al divieto del ne bis in idem.

Proprio in tema di procedimenti sanzionatori in materia bancaria e finanziaria, deve segnalarsi una prima importantissima pronuncia (Sez. 5, n. 00950/2015, Chindemi, Rv. 634956), con la quale è stata sollevata questione di legittimità costituzionale dell'art. 187 ter, comma 1, del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, per contrasto con l'art. 117 Cost., in relazione agli artt. 2 e 4 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, alla luce della sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, 4 marzo 2014, Grande Stevens ed altri c/Italia, nella parte in cui, in violazione del principio del ne bis in idem, prevede, per gli stessi fatti, la comminatoria congiunta della sanzione amministrativa di cui all'art. 187 ter del d.lgs. n. 58 del 1998 - ritenuta di natura "penale" dalla Corte Europea a prescindere dalla qualificazione operata dal diritto interno - e della sanzione penale prevista dall'art. 185 del medesimo d.lgs., ove la sentenza del procedimento penale, per quest'ultima contestazione, sia passata in giudicato.

In particolare, la Suprema Corte era chiamata a pronunciarsi sull'impugnazione di una sentenza della Corte di Appello di Roma - in relazione ad opposizioni proposte avverso un provvedimento sanzionatorio adottato dalla Consob per l'illecito di cui al già menzionato art. 187 ter TUF - con la quale veniva confermata la delibera impugnata con riferimento alle sanzioni amministrative pecuniarie irrogate. Nelle more del ricorso per cassazione, è intervenuta la pronuncia della CEDU sopra citata, nella quale si è affermata la violazione del principio del ne bis in idem alla luce dell'art. 4, par. 1, del Protocollo n. 7 della CEDU, il quale vieta la duplicazione di giudizi penali e amministrativi e, conseguentemente, la doppia applicazione di sanzioni penali nei confronti dei medesimi soggetti e per i medesimi fatti oggetto di sentenza passata in giudicato.

Secondo la CEDU: a) il presupposto al quale è collegata l'efficacia preclusiva di un nuovo giudizio sullo stesso fatto storico è costituito dal passaggio in giudicato del provvedimento che definisce uno dei due procedimenti riconducibili alla materia penale; b) le sanzioni irrogate dalla Consob per la fattispecie di manipolazione del mercato di cui all'art. 187 ter TUF, benché formalmente qualificate come amministrative dall'ordinamento italiano, debbono essere ricondotte alla "materia penale" agli effetti dell'art. 4 del Protocollo n. 7 della CEDU, e ciò in ragione sia della "natura dell'illecito" (ossia della rilevanza dei beni protetti e della funzione anche deterrente della fattispecie in questione), sia della natura e del grado di severità delle sanzioni (pecuniarie ed interdittive) previste dalla legge e concretamente comminate ai ricorrenti; c) al fine di stabilire se i fatti su cui si è formato il giudicato sono da considerarsi i medesimi per i quali si procede in altro giudizio, occorre aver riguardo non al fatto inteso in senso giuridico, ossia alla fattispecie astratta descritta dagli artt. 187 ter e 185 TUF, ma al fatto in senso storico-naturalistico, ossia alla fattispecie concreta oggetto dei due procedimenti, a prescindere dagli elementi costitutivi rispettivamente previsti dai menzionati articoli.

Ciò premesso, il dubbio di costituzionalità è posto in relazione al sistema del cd. doppio binario tra il reato di manipolazione del mercato (art. 185 TUF) e la analoga fattispecie amministrativa (art. 187 ter TUF), essendo prevista una duplice sanzione penale ed amministrativa, in antitesi col principio espresso dalla CEDU del divieto del ne bis in idem. Infatti, la Corte rileva che i medesimi fatti oggetto della sanzione amministrativa sono stati oggetto di una sentenza di patteggiamento da parte dello stesso soggetto.

La mancata previsione dell'allargamento del principio del ne bis in idem anche ai rapporti tra processi e, specificamente, la cumulabilità tra sanzione penale e amministrativa, applicata in processi diversi, qualora quest'ultima abbia natura di sanzione penale, appare non conforme alle norme costituzionali e ai principi sovranazionali sanciti dalla CEDU. Nell'ordinanza si fa notare che, in base alla previsione di cui all'art. 187 duodecies TUF, <<il procedimento amministrativo di accertamento e il procedimento di opposizione di cui all'art. 187 septies non possono essere sospesi per la pendenza del procedimento penale avente ad oggetto i medesimi fatti o fatti dal cui accertamento dipende la relativa definizione>>. Inoltre, l'art. 187 terdecies TUF prevede, al comma 1, che <<quando per lo stesso fatto è stata applicata a carico del reo o dell'ente una sanzione amministrativa pecuniaria ai sensi dell'art. 187 septies, la esazione della pena pecuniaria e della sanzione pecuniaria dipendente da reato è limitata alla parte eccedente quella riscossa dall'Autorità amministrativa>>. Trattasi del principio del "ne bis in idem attenuato", a cui fa da contraltare il principio del "doppio binario attenuato", principi che potrebbero trovare applicazione nella fattispecie in esame, ove la Consulta dovesse propendere per una pronuncia additiva. Potrebbe così trovare quantomeno parziale legittimità costituzionale il regime del "doppio binario", sia pure nei limiti che eventualmente la Corte vorrà individuare, con conseguente cumulo delle rispettive sanzioni, valutando la possibile applicazione del principio della progressione illecita tra le due fattispecie, penale e amministrativa.

2.2. Sul principio di irretroattività.

La seconda sezione civile (Sez. 2, n. 18025/2015, Petitti) ha dichiarato rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 187 sexies del d.lgs. n. 58 del 1998 e dell'art. 9, comma 6, della l. 18 aprile 2005, n. 62, in riferimento agli artt. 3, 25, comma 2, e 117, comma 1, Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 7 della CEDU, nella parte in cui prevedono che la confisca per equivalente, introdotta per gli illeciti di abuso di informazioni privilegiate e manipolazione del mercato, di cui alla parte V, titolo I bis, del d.lgs. n. 58 del 1998, si applichi anche alle violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore della l. n. 62 del 2005, che le ha depenalizzate, quando il relativo procedimento penale non sia stato definito.

Prima della depenalizzazione avvenuta con la l. n. 62 del 2005, il trattamento sanzionatorio dell'illecito era previsto dal previgente art. 180 del d.lgs. n. 58 del 1998, e consisteva nella pena della reclusione fino a due anni e nella multa da venti a seicento milioni di lire. Ai sensi del comma 5 del medesimo articolo, era previsto che: <<nel caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell'articolo 444 del codice di procedura penale, è sempre ordinata la confisca dei mezzi, anche finanziari, utilizzati per commettere il reato e dei beni che ne costituiscono il profitto, salvo che essi appartengano a persona estranea al reato>>.

Per effetto delle modificazioni introdotte dalla l. n. 62 del 2005, la disciplina sanzionatoria della condotta di abuso di informazioni privilegiate, costituente illecito amministrativo, è ora delineata dall'art. 187 bis del d.lgs. n. 58 del 1998. Ai sensi dell'art. 187 sexies del medesimo d.lgs., l'applicazione delle sanzioni amministrative pecuniarie importa sempre la confisca del prodotto o del profitto dell'illecito e dei beni utilizzati per commetterlo. Qualora non sia possibile eseguire tale confisca, essa può avere ad oggetto somme di denaro, beni o altre utilità di valore equivalente. In nessun caso può essere disposta la confisca di beni che non appartengono ad una delle persone cui è applicata la sanzione amministrativa pecuniaria. Infine, in forza di quanto disposto dall'art. 9, comma 6, della l. n. 62 del 2005, <<le disposizioni previste dalla parte V, titolo I-bis, del testo unico di cui al d.lgs. 28 febbraio 1998, n. 58 (e tra queste quella di cui all'art. 187-sexies), si applicano anche alle violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore della presente legge che le ha depenalizzate, quando il relativo procedimento penale non sia stato definito. Per ogni altro effetto si applica l'articolo 2 del codice penale (...)>>.

Così delineato il quadro normativo, la Corte di cassazione, sulla scorta del contenuto afflittivo della confisca per equivalente, richiama sia la giurisprudenza della Corte Costituzionale (sentenza n. 196 del 2010), secondo cui anche in questi casi deve trovare applicazione il secondo comma dell'art. 25 Cost., che vieta l'applicazione retroattiva di una sanzione penale, anche se in quel caso la confisca aveva natura di misura di sicurezza piuttosto che di sanzione amministrativa, sia quella della Corte Europea dei diritti dell'uomo, secondo cui l'applicazione retroattiva di una confisca di beni riconducibile proprio ad un'ipotesi di confisca per equivalente è in contrasto con i principi sanciti dall'art. 7 della Convenzione.

Tale soluzione deve essere la medesima anche nel caso la confisca per equivalente sia prevista quale sanzione accessoria per un illecito amministrativo. A tal proposito, si cita ancora una volta la Corte europea dei diritti dell'uomo, che, nella sentenza 4 marzo 2014, Grande Stevens e altri, ha riconosciuto il carattere dell'afflittività alle sanzioni amministrative pecuniarie previste dall'art. 187 bis del d.lgs. n. 58 del 1998. D'altro canto, la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 196 del 2010, ha affermato il principio secondo il quale <<tutte le misure di carattere punitivo afflittivo devono essere soggette alla medesima disciplina della sanzione penale in senso stretto>>. Deve quindi ritenersi che qualunque misura che non operi al solo fine di prevenire la commissione di illeciti, anche amministrativi, ma abbia un contenuto punitivo-afflittivo, possa trovare applicazione solo qualora la legge che la preveda sia già entrata in vigore al tempo della commissione del fatto oggetto di sanzione, così come desumibile dall'art. 25 Cost. e, con specifico riferimento agli illeciti amministrativi, dalla disciplina generale prevista dalla l. n. 689 del 1981, la quale, all'art. 1, stabilisce il principio generale secondo cui <<nessuno può essere assoggettato a sanzioni amministrative se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima della commissione della violazione>> (Corte Cost. n. 104 del 2014). Sulla base di tali argomentazioni, con l'ordinanza in commento, si è ritenuta non manifestamente infondata la questione di costituzionalità sopra riportata.

3. In materia di sanzioni amministrative bancarie e finanziarie.

Tra le più importanti sentenze in materia bancaria, deve segnalarsi Sez. 2, n. 19865/2015, Parziale, Rv. 636728, e Sez. 2, n. 26131/2015 Giusti, Rv. 637975. La prima delle pronunce citate, in tema di omessa comunicazione alla Consob, ha ripreso il principio di origine penalistica secondo cui, in assenza di una espressa e specifica previsione che, distinguendo tra omissione e ritardo, preveda una responsabilità graduata in relazione al decorso del tempo in cui avviene l'adempimento tardivo, quest'ultima ipotesi è ricompresa nella prima e l'adempimento tardivo non scrimina. Pertanto, in applicazione di tale principio, si è statuito che l'art. 193, comma 2, TUF, nella formulazione vigente all'epoca dei fatti e antecedente le modifiche introdotte dal d.lgs. n. 195 del 2007, nel sanzionare l'omissione delle comunicazioni previste dall'art. 120 TUF, non prevede alcuna deroga per il ritardo, anche perché altrimenti resterebbe affidata alla discrezionalità dell'autore dell'illecito la possibilità di adempiere in ogni momento. Nella medesima occasione, si è anche affermato che l'art. 120 TUF deve essere interpretato alla luce dell'art. 9, par. 2, della Direttiva 2004/109/CE, che espressamente prevede che <<i diritti di voto sono calcolati in base a tutte le azioni che conferiscono diritti di voto, anche se il loro esercizio è sospeso>>; pertanto, nella nozione di capitale sociale di cui alla norma citata devono essere ricomprese anche le azioni proprie, in relazione alle quali il diritto di voto è solo temporaneamente sospeso, mentre devono essere escluse solo le azioni che non attribuiscono alcun diritto di voto ab origine; ciò in conformità anche con l'art. 2357 ter c.c., che include le azioni proprie nel capitale sociale ai fini del calcolo delle quote richieste per la costituzione e le deliberazioni dell'assemblea. Infine, si è stabilito che l'obbligo di comunicazione di cui all'art. 120 TUF sussiste, oltre che in capo al soggetto che detiene la partecipazione, anche a carico dei soggetti che si trovano in posizione di controllo in una catena di partecipazioni; ne consegue che, in presenza di distinti obblighi informativi, è legittima la duplicazione della sanzione di cui all'art. 193, comma 2, TUF in capo ad unico soggetto che abbia omesso di comunicare la variazione della partecipazione facente capo a lui personalmente e quella gravante sulla società di cui era presidente e legale rappresentante.

Con la seconda sentenza citata (Sez. 2, n. 26131/2015, Giusti, Rv. 637975) si è ritenuta infondata l'istanza avanzata dalla ricorrente di dichiarare la sopravvenuta illegittimità del provvedimento sanzionatorio in applicazione del principio del favor rei, in relazione agli artt. 190, 190-bis e 194-quater TUF, come modificati dal d.lgs. n. 72 del 2015. Secondo la difesa, infatti, a seguito della sopravvenuta modifica dell'art. 190 TUF, disposta dall'art. 5, comma 4, lettera a), del d.lgs. n. 72 del 2015, per le violazioni del testo unico (e relative norme di attuazione) addebitate alla ricorrente non è più prevista l'imputabilità delle stesse in capo all'esponente aziendale, rimanendo responsabile esclusivamente l'intermediario; e, sebbene l'art. 5, comma 5, dello stesso d.lgs. abbia introdotto il nuovo art. 190-bis TUF sulla responsabilità degli esponenti aziendali e del personale per le violazioni in tema di disciplina degli intermediari, dei mercati e della gestione accentrata di strumenti finanziari, tali sanzioni sarebbero applicabili agli esponenti solo al ricorrere di specifici presupposti, nella specie non sussistenti, sicché per la natura sostanzialmente penale delle sanzioni amministrative applicate dall'Autorità di Vigilanza, stante il loro carattere punitivo-afflittivo (è richiamata la sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo 4 marzo 2014, Grande Stevens e altri c. Italia) occorre fare applicazione di tutte le garanzie proprie di questo tipo di sanzioni, tra cui la retroattività in mitius.

Secondo la Suprema Corte, poiché non sono state ancora emanate le disposizioni di attuazione previste dall'art. 196-bis del TUF, allo stato non sono applicabili le modifiche apportate dal d.lgs. n. 72 del 2015 alla parte V del TUF, tra cui quelle che prevedono che sia l'ente, e non più l'esponente aziendale, il soggetto primariamente responsabile delle violazioni di cui all'art. 190 del TUF, e che configurano la responsabilità dell'esponente aziendale soltanto se la condotta abbia inciso in modo rilevante sulla complessiva organizzazione o sui profili di rischio aziendali, o abbia provocato un grave pregiudizio per la tutela degli investitori o per l'integrità ed il corretto funzionamento del mercato, ovvero se la condotta abbia contribuito a determinare la mancata ottemperanza della società o dell'ente a provvedimenti specifici. Pertanto, non essendo ancora applicabile il nuovo, e presunto più favorevole, quadro normativo sanzionatorio viene a mancare la premessa stessa per la valutazione circa l'applicazione retroattiva, in materia, della lex mitior.

Per la stessa ragione, difetta di rilevanza la questione di legittimità costituzionale dell'art. 6 del d.lgs. n. 72 del 2015, nella parte in cui non prevede l'applicazione del principio del favor rei con riferimento alle sanzioni amministrative irrogate ai sensi del TUF prima dell'entrata in vigore dello stesso decreto legislativo, questione sollevata in via subordinata dalla difesa della ricorrente.

Con riferimento al procedimento sanzionatorio amministrativo, Sez. 2, n. 09482/2015, Giusti, Rv. 635245, ha affermato che esso sfugge all'ambito di applicazione della l. 7 agosto 1990, n. 241, in quanto, per la sua natura sanzionatoria, è compiutamente retto dai principi sanciti dalla l. 21 novembre 1981, n. 689. Per questo motivo, non assume alcuna rilevanza il termine di trecentosessanta giorni per la conclusione del procedimento di cui all'art. 4 del regolamento Consob 2 agosto 2000, n. 12697, attesa l'inidoneità di un regolamento interno emesso nell'erroneo convincimento di dover regolare i tempi del procedimento ai sensi della l. n. 241 del 1990 a modificare le disposizioni della l. n. 689 del 1981.

Sez. 2, n. 06778/2015, Petitti, Rv. 634747, è conforme agli insegnamenti della Corte dei diritti dell'uomo, che vuole un sindacato giurisdizionale pieno in materia di sanzioni amministrative "afflittive", per recuperare eventuali deficit di tutela che si siano realizzati nel corso del procedimento amministrativo sanzionatorio, non sempre rispettoso del diritto di difesa ed al contraddittorio. Secondo la pronuncia citata, l'opposizione all'ordinanza ingiunzione non configura un'impugnazione dell'atto, ed introduce, piuttosto, un ordinario giudizio sul fondamento della pretesa dell'autorità amministrativa, devolvendo al giudice adito la piena cognizione circa la legittimità e la fondatezza della stessa, con l'ulteriore conseguenza che, in virtù dell'art. 23 della l. n. 689 del 1981 (applicabile ratione temporis), il giudice ha il potere-dovere di esaminare l'intero rapporto, con cognizione non limitata alla verifica della legittimità formale del provvedimento, ma estesa - nell'ambito delle deduzioni delle parti - all'esame completo nel merito della fondatezza dell'ingiunzione, compresa la determinazione dell'entità della sanzione, secondo i criteri stabiliti dall'art. 11 della legge citata, sulla base di un apprezzamento discrezionale insindacabile in sede di legittimità, se congruamente motivato e immune da errori logici o giuridici.

In perfetta armonia con il precedente ora citato si colloca Sez. 2, n. 25141/2015, Giusti, Rv. 637852. Con tale pronuncia si è affermato che, in tema di intermediazione finanziaria, il procedimento sanzionatorio della Banca d'Italia che postula solo che, prima dell'adozione della sanzione, sia effettuata la contestazione dell'addebito e siano valutate le eventuali controdeduzioni dell'interessato, non viola il principio del contraddittorio né per il fatto dell'omessa trasmissione agli interessati del contenuto del messaggio amministrativo con il quale sono formulate osservazioni di carattere tecnico in merito alle loro controdeduzioni, né per la circostanza che gli stessi non sono stati coinvolti nella fase decisoria del procedimento che si svoge innanzi al Direttorio.

Secondo la Corte è corretta e conforme ai precedenti, la decisione della corte territoriale, la quale ha affermato: a) che dal carattere sanzionatorio del procedimento amministrativo non può di per sè discendere l'equiparazione di tale procedimento - quanto ad ampiezza ed estensione dei poteri difensivi dei soggetti ai quali sia contestata la violazione - al procedimento giurisdizionale; b) che non può essere considerata contrastante con i principi costituzionali una disciplina organizzativa che - come quella emanata dalla Banca d'Italia e qui in esame - ometta di prevedere la diretta partecipazione degli incolpati alla fase decisoria, tenuto conto che in tale fase sono comunque sottoposte alla valutazione dell'organo decidente le difese precedentemente formulate dagli stessi "incolpati"; c) che la proposta di irrogazione della sanzione non vincola l'organo decidente; d) che il contraddittorio difensivo può comunque spiegarsi con la massima ampiezza nella fase giurisdizionale innescata dalla proposizione della opposizione dinanzi alla Corte d'appello, trattandosi di fase avente ad oggetto l'accertamento della fondatezza della pretesa sanzionatoria.

Non può neanche invocarsi la violazione dell'art. 6, par. 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, e ciò in considerazione del principio di continuità tra la fase amministrativa e quella giurisdizionale e della possibilità di recuperare in sede processuale il pieno rispetto dei principi del contraddittorio, dell'imparzialità e della parità di parti. L'art. 6, par. 1, non richiede, infatti, una trasformazione in senso paragiurisdizionale del procedimento amministrativo sanzionatorio (e la necessaria applicazione, già in esso, delle garanzie del giusto processo, prima fra tutte quella del contraddittorio orizzontale tra due parti poste in posizione di parità rispetto all'autorità decidente). Nel caso in cui il procedimento amministrativo non offra garanzie equiparabili a quelle del processo giurisdizionale, la Convenzione postula che l'interessato che subisce la sanzione abbia la concreta possibilità di sottoporre la questione relativa alla fondatezza dell'accusa penale contro di lui mossa ad un organo indipendente e imparziale dotato di piena giurisdizione (sez. II della Corte europea dei diritti dell'uomo, Grande Stevens e altri c. Italia, 4 marzo 2014, n. 18640) il che avviene nella disciplina del procedimento amministrativo sanzionatorio dettata dal nostro sistema nazionale, dove è assicurato il ricorso in opposizione di piena giurisdizione, con il potere del giudice di sindacare, in fatto e in diritto, la fondatezza, l'esattezza e la correttezza della "decisione" amministrativa e della sanzione inflitta.

Merita di essere menzionata anche Sez. 1, n. 10745/2015, Nazzicone, Rv. 635484, che, in tema di sanzioni amministrative irrogate ex art. 145 del d.lgs. 1° settembre 1993, n. 385, per la violazione delle norme che disciplinano l'esercizio dell'attività bancaria, ha escluso che possa costituire una violazione del diritto di difesa e del diritto al contraddittorio il provvedimento dell'autorità sanzionante emesso nei confronti di esponenti bancari nel quale vi sia un'elencazione di una serie di operazioni contestate, sebbene ivi indicate quali meramente esemplificative della situazione irregolare complessivamente riscontrata.

Su un piano più strettamente processuale, si è, infine, affermato che, in tema di opposizione a sanzioni amministrative applicate per abusi di mercato, l'opponente deve notificare il ricorso alla Consob nel termine perentorio di sessanta giorni dalla comunicazione del provvedimento opposto e deve poi depositare il ricorso notificato presso la cancelleria della corte d'appello entro i trenta giorni successivi alla notifica, atteso che l'art. 187 septies TUF intende garantire all'autorità sanzionatoria l'immediata conoscenza dell'opposizione, ancor prima che del ricorso sia investito il giudice (Sez. 2, n. 09482/2015, Giusti, Rv. 635245).

4. Sanzioni amministrative in materia di violazioni del codice della strada.

In tema di sanzioni amministrative per violazioni del codice della strada, deve segnalarsi Sez. 2, n. 18946/2015, Parziale, Rv. 636515, secondo cui la contestazione dell'eccesso di velocità è "immediata", agli effetti dell'art. 201 cod. strada, se avviene in circostanze di tempo (nella specie, pochi minuti dopo la rilevazione) e di luogo (nella specie, luogo prossimo a quello di rilevazione) tali da far escludere la diversità del veicolo fermato e la sostituzione del conducente.

Sempre con riferimento all'immediatezza della contestazione in rapporto alle apparecchiature automatiche di rilevamento della velocità, si è argomentato che l'omissione della contestazione immediata è consentita dall'art. 4, comma 4, del d.l. 20 giugno 2002, n. 121, convertito dalla l. 1° agosto 2002 n. 168, sicché, al fine di garantire il diritto di difesa dell'autore dell'infrazione, è sufficiente che nel verbale di contestazione vengano richiamati gli estremi del decreto prefettizio (di cui non è necessaria l'allegazione) autorizzativo della contestazione differita, potendo il destinatario del verbale ottenere ogni utile informazione con l'esercizio del diritto di accesso alla documentazione amministrativa garantito dall'art. 22 della l. 7 agosto 1990, n. 241. La contestazione immediata ai sensi dell'art. 4, comma 4, del d.l. 20 giugno 2002, n. 121, convertito dalla l. n. 168 del 2002, non è necessaria (Sez. 6-2, n. 00331/2015, Petitti, Rv. 634494).

Interessante l'affermazione della responsabilità solidale del locatore nel caso di locazione del veicolo senza conducente, giacché l'art. 196 cod. strada, pur menzionando esclusivamente il locatario, intende assicurare il pagamento di un soggetto agevolmente identificabile, mentre l'identità del locatario, di regola, è nota soltanto al locatore (Sez. 6-2, n. 18988/2015, Parziale, Rv. 636528).

Nell'ambito del complesso procedimento relativo all'obbligo di comunicazione dei dati relativi al conducente, Sez. 2, n. 15542/2015, Bucciante, Rv. 636027, ha ribadito che il termine entro cui il proprietario del veicolo è tenuto, ai sensi dell'art. 126 bis, comma 2, cod. strada, a comunicare il nominativo all'organo di polizia che procede non decorre dalla definizione del procedimento di opposizione avverso il verbale di accertamento dell'infrazione presupposta, ma dalla richiesta rivolta al proprietario dall'autorità, trattandosi di un'ipotesi di illecito istantaneo previsto a garanzia dell'interesse pubblicistico relativo alla tempestiva identificazione del responsabile, e quindi del tutto autonomo rispetto all'effettiva commissione di un precedente illecito.

In tema di tutela delle minoranze linguistiche nel procedimento sanzionatorio, deve segnalarsi Sez. 6-2, n. 00709/2015, Proto, Rv. 633966, secondo cui è legittima la notificazione ad un cittadino appartenente alla minoranza linguistica slovena del verbale di contestazione di un'infrazione del codice della strada redatto in lingua italiana e senza traduzione, intervenuta solo successivamente e su richiesta dell'interessato, poiché la legge e le norme a tutela della suddetta minoranza (in specie, l'art. 3 dello Statuto della Regione Friuli Venezia Giulia e l'art. 6 Cost.) non contemplano alcuna nullità, limitandosi a riconoscere al cittadino di lingua slovena il diritto a proporre opposizione nella propria lingua - cui corrisponde il dovere del prefetto di esaminarla - e ad ottenere la contestuale traduzione del verbale, la cui inottemperanza è idonea ad integrare una invalidità, denunciabile con l'opposizione, ove ne derivi, e venga allegato, un pregiudizio delle facoltà difensive.

5. Pronunce in materia di sanzioni amministrative aventi ad oggetto il rito.

Come si è detto, a seguito della riforma operata con il d.lgs. n. 150 del 2011, nelle controversie aventi ad oggetto l'opposizione ad ordinanza ingiunzione si applica il rito del lavoro.

Le prime applicazioni del nuovo regime si sono avute con Sez.6-3, n. 25061/2015 Barreca, Rv. 638032, e con Sez. 6-2, n. 18820/2015, Parziale, Rv. 636530.

Con la prima si è affermato che, nel caso il giudizio di primo grado sia iniziato con ricorso al giudice di pace depositato in epoca successiva al 6 ottobre 2011 data di entrata in vigore del d.lgs. n. 150 del 2011, l'appello deve proporsi con le forme del ricorso e non dell'atto di citazione e, nel caso l'appello sia stato proposto con atto di citazione, trova applicazione il principio di ordine generale secondo cui nelle controversie in materia di locazione, alle quali è applicabile, ai sensi dell'art. 447-bis c.p.c., il rito del lavoro, la proposizione dell'appello si perfeziona con il deposito dell'atto in cancelleria nel termine di trenta giorni dalla notificazione della sentenza ovvero, in caso di mancata notifica, nel termine lungo di cui all'art. 327 c.p.c.; e ciò anche se l'appello sia proposto erroneamente con la forma della citazione, assumendo rilievo in tal caso solo la data di deposito della medesima.

L'altra decisione, invece, ha precisato che, nel regime introdotto dall'art. 7 del d.lgs. n. 150 del 2011, l'inammissibilità del ricorso per tardività può essere pronunciata solo con sentenza alla prima udienza. Tuttavia, la pronuncia di inammissibilità resa con ordinanza fuori udienza, prima dell'instaurazione del contraddittorio, essendo riferibile all'abrogato art. 23 della l. n. 689 del 1981, non è provvedimento abnorme, ricorribile per cassazione, ma provvedimento nullo, ordinariamente impugnabile con appello.

In tema di prova del legittimo impedimento a comparire dell'opponente o del suo procuratore, si è ritenuta ammissibile la produzione della prova anche dopo che il giudice abbia pronunciato l'ordinanza di convalida del verbale di accertamento, dovendosi, tuttavia, dimostrare che l'impedimento sia stato improvviso, imprevedibile ed indipendente dalla volontà dell'opponente o del procuratore (Sez. 2, n. 15543/2015, Petitti, Rv. 636080).

Sulla legittimazione passiva nel giudizio di opposizione ad ordinanza ingiunzione, Sez. L, n. 15169/2015, Patti, Rv. 636392, ha stabilito che essa spetta solo all'autorità che ha emesso il provvedimento opposto, ancorché si tratti di organo periferico dell'amministrazione statale, che agisca in virtù di una specifica autonomia funzionale in deroga all'art. 11, comma 1, del r.d. n. 1611 del 1933, come sostituito dall'art. 1 della l. n. 260 del 1958, e che tale legittimazione esclusiva deve ritenersi persistere anche nella fase di impugnazione davanti alla Corte di cassazione, non ostandovi alcuna disposizione da cui sia desumibile il subentro del ministro.

Sez. 2, n. 12954/2015, Picaroni, Rv. 635706, ha escluso che nei giudizi di opposizione ad ordinanza ingiunzione introdotti nella vigenza dell'art. 23 della l. n. 689 del 1981 trovino applicazione nel giudizio di appello le regole speciali dettate per il giudizio di primo grado, anche in mancanza di una espressa previsione normativa in tal senso, sicché non può trovare applicazione in sede di gravame la previsione che richiede, a pena di nullità, la lettura del dispositivo in udienza.

Sempre in tema di opposizione ad ordinanza ingiunzione, Sez. 6-2, n. 05828/2015, Falaschi, Rv. 635054, ha confermato l'orientamento secondo il quale il termine assegnato all'amministrazione per depositare i documenti relativi all'infrazione, fissato in dieci giorni prima dell'udienza di comparizione dall'art. 23, comma 2, della l. n. 689 del 1981, applicabile ratione temporis, non ha natura perentoria e la sua violazione rappresenta una mera irregolarità, sicché la copia conforme del verbale di contestazione tardivamente prodotta è utilizzabile come prova.

In tema di onere probatorio e di poteri d'ufficio del giudice, Sez. 6-2, n. 04898/2015, Falaschi, Rv. 635012, ha affermato che, nel giudizio di opposizione a sanzione amministrativa, grava sull'amministrazione opponente l'onere di provare gli elementi costitutivi dell'illecito, ma la sua inerzia processuale non determina l'automatico accertamento dell'infondatezza della trasgressione, in quanto il giudice, chiamato alla ricostruzione dell'intero rapporto sanzionatorio e non soltanto alla valutazione di legittimità del provvedimento irrogativo della sanzione, può sopperirvi sia valutando i documenti già acquisiti, sia disponendo d'ufficio, ai sensi dell'art. 23, comma 6, della l. n. 689 del 1981, ratione temporis applicabile, i mezzi di prova ritenuti necessari.

Altra importante affermazione riguarda il mezzo di impugnazione delle sentenze che definiscono il giudizio di opposizione a sanzioni amministrative: a seguito dell'entrata in vigore dell'art. 26 del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, che ha abrogato l'ultimo comma dell'art. 23 della l. 24 novembre 1981, n. 689, esso non è più il ricorso per cassazione, ma l'appello, secondo la regola generale dell'art. 339 c.p.c. (Sez. 6-L, n. 02815/2015, Marotta, Rv. 634595).

6. Altre pronunce di interesse.

Si segnala una decisione circa le sanzioni amministrative in materia di collocamento e, in particolare, in riferimento all'art. 47, comma 2, del d.lgs. 20 luglio 1999, n. 300 (successivamente abrogato dall'art. 2 del d.lgs. 21 gennaio 2004, n. 29), che, nel trasferire al prefetto le funzioni svolte dalle direzioni provinciali del lavoro, ne ha subordinato l'effettivo passaggio all'adozione di un apposito regolamento, il quale, pur emanato con d.P.R. 17 maggio 2001, n. 287, non è stato seguito, nei successivi sessanta giorni, dai decreti di attuazione previsti dall'art. 9 del regolamento stesso. Secondo Sez. L, n. 15051/2015, Patti, Rv. 636243, in difetto di tali decreti, gli uffici periferici del Ministero del Lavoro hanno conservato, in forza dell'espressa previsione di cui all'art. 17 del d.P.R. n. 287 del 2001, le originarie funzioni ed attribuzioni, compresa la competenza ad emanare le ordinanze ingiunzioni per violazioni amministrative in materia di lavoro.

La rassegna delle sentenze del 2015 nella materia delle sanzioni amministrative può chiudersi con un importante affermazione di principio circa il rapporto tra concorso nella violazione e responsabilità solidale dei contravventori. A questo proposito, infatti, Sez. 6-2, n. 13134/2015, Petitti, Rv. 635700, ha chiarito che l'art. 5 della l. n. 689 del 1981, che contempla il concorso di persone, recepisce i principi fissati in materia dal codice penale, rendendo così applicabile la pena pecuniaria non soltanto all'autore o ai coautori dell'infrazione, ma anche a coloro che abbiano comunque dato un contributo causale, pure se esclusivamente sul piano psichico. Ne discende che, mentre il pagamento della sanzione in misura ridotta da parte di uno dei concorrenti, a norma dell'art. 16 della l. n. 689 cit., produce effetto anche nei confronti degli obbligati solidali ex art. 6 della stessa legge, tale conseguenza non si estende nei confronti di coloro che hanno concorso nella commissione della violazione, in sintonia con il principio della natura afflittiva della sanzione amministrativa, la quale deve essere pagata da tutti i trasgressori.

  • liquidazione di società
  • impresa in difficoltà
  • fallimento

CAPITOLO XLIII

LE PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI PROCESSUALI

(di Eduardo Campese )

Sommario

1 La dichiarazione di fallimento. - 1.1 Gi organi della procedura fallimentare. - 1.2 L'impugnazione della pronuncia resa sull'istanza di fallimento. - 1.3 La formazione dello stato passivo e le correlate opposizioni. - 1.4 La chiusura del fallimento. - 2 Il concordato fallimentare. - 3 L'esdebitazione. - 4 Il concordato preventivo: modifiche legislative. - 4.1 Il concordato preventivo ed i suoi rapporti con il fallimento. - 5 Gli accordi di ristrutturazione dei debiti. - 6 L'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi. - 7 La liquidazione coatta amministrativa.

1. La dichiarazione di fallimento.

Nel corso dell'anno 2015 molteplici, e di interesse, sono state le decisioni della Suprema Corte che hanno riguardato i profili processuali delle procedure concorsuali.

Muovendo, allora, per intuibili ragioni di ordine sistematico, da quelle concernenti il fallimento, ed, in particolare, il procedimento che conduce alla pronuncia sulla corrispondente istanza, ne vanno certamente segnalate alcune riguardanti i requisiti per l'assoggettabilità alla suddetta procedura.

Sez. 1, n. 19654/2015, Nappi, Rv. 637223, ha ribadito che, in tema di presupposti dimensionali per l'esonero dalla fallibilità dell'imprenditore commerciale, nella valutazione del capitale investito, ai fini del riconoscimento della qualifica di piccolo imprenditore, trovano applicazione i principi contabili, cui si richiama il legislatore nell'art. 1, comma 2, lett. a), l.fall. (nel testo modificato dal d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, applicabile ratione temporis, ed anche successivamente in quello sostituito dal d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169) e di cui è espressione l'art. 2424 c.c., con la conseguenza che, con riferimento agli immobili, iscritti tra le poste attive dello stato patrimoniale, opera - al pari che per ogni altra immobilizzazione materiale - il criterio di apprezzamento del loro costo storico al netto degli ammortamenti, quale risultante dal bilancio di esercizio, ai sensi dell'art. 2426, numeri 1 e 2, c.c., e non il criterio del valore di mercato al momento del giudizio; mentre Sez. 1, n. 10952/2015, Genovese, Rv. 635515, ha opportunamente chiarito che, ai fini del computo del triennio cui fa riferimento l'art. 1, comma 2, lett. a), l.fall. (nel testo modificato dal d.lgs. n. 169 del 2007), per la determinazione dell'attivo patrimoniale occorre fare riferimento agli ultimi tre esercizi antecedenti alla data del deposito dell'unica (ovvero della prima) istanza di fallimento.

Quanto al requisito dimensionale di cui all'art. 1, comma 2, lett. c), l.fall., nel testo introdotto dal d.lgs. n. 169 del 2007, Sez. 1, n. 20877/2015, Nazzicone, Rv. 637452, precisa che è necessario considerare, nell'esposizione debitoria rilevante, anche i crediti contestati, trattandosi di un dato oggettivo, che non può dipendere dall'atteggiamento o dall'opinione soggettiva che sulla singola posta creditoria abbia il debitore.

Sez. 1, n. 17397/2015, Nappi, Rv. 636257, poi, ha statuito che una società già avente ad oggetto l'esercizio di attività agricola non può essere assoggettata a fallimento ove, dismessa l'originaria attività, non abbia svolto alcuna attività imprenditoriale, poiché la relativa dichiarazione può riguardare solo l'imprenditore commerciale; laddove, secondo Sez. 1, n. 02263/2015, Di Virgilio, Rv. 634755, in caso di scioglimento di una società di persone per recesso di uno dei due soli soci, senza che la stessa sia dichiarata estinta, il fallimento del socio superstite, che abbia continuato l'attività sociale come imprenditore individuale, implica la dichiarazione di fallimento della società, il quale, pertanto, può essere esteso, a norma dell'art. 147 l.fall., all'altro socio in precedenza receduto.

Possono menzionarsi qui, per ovvie ragioni sistematiche, anche Sez. 1, n. 01046/2015, Nazzicone, Rv. 634012, secondo cui lo scioglimento del singolo rapporto sociale per alienazione della partecipazione del socio, di cui non sia stata data adeguata pubblicità, ai sensi dell'art. 2290, comma 2, c.c., mediante iscrizione nel registro delle imprese, è inopponibile ai terzi, producendo i suoi effetti solo in ambito societario, e, come tale, non preclude l'estensione del fallimento al socio stesso, ex art. 147 l.fall., malgrado l'essere avvenuta la vendita della quota oltre un anno prima della sentenza dichiarativa di fallimento, atteso che il rapporto societario, per quanto concerne i terzi, a quel momento deve considerarsi ancora in essere; e, soprattutto, Sez. 6-1, n. 22594/2015, Cristiano, Rv. 637668, che ha ritenuto che il fallimento della società di persone sia estensibile ai soci di fatto eredi del socio illimitatamente responsabile, indipendentemente da una formale istanza (che, peraltro, nella specie vi era stata da parte dell'altro socio), in ragione dell'automaticità dell'estensione del fallimento della società ai soci illimitatamente responsabili, e già nell'ambito della stessa procedura prefallimentare. In particolare, appare interessante un passaggio motivazionale della relazione ex art. 380-bis c.p.c., poi fatta propria dal collegio, in cui è stato ritenuto non corretto che <<(...) l'estensione del fallimento ai soci illimitatamente responsabili di una società di persone, il cui nominativo non compaia nella ragione sociale e che non risultino tali in base all'atto costitutivo o ad altro atto scritto comprovante l'acquisto della loro partecipazione, non possa che avvenire ai sensi dell'art. 147, comma 4, l.fall. e che esiga, inoltre l'indicazione della qualità di soci occulti o palesi della fallita. In realtà, ciò che unicamente rileva ai fini della dichiarazione di fallimento in estensione è che la partecipazione del socio illimitatamente responsabile sia accertata: non ricorre, per contro, alcuna preclusione a che l'accertamento sia compiuto nel corso del procedimento volto alla dichiarazione di fallimento della società e che, già in tale sede, uno degli altri soci avanzi l'istanza di estensione (risultando evidente che il comma 4 dell'art. 147 l.fall. regola l'ipotesi residuale in cui l'esistenza di altri soci illimitatamente responsabili emerga solo in data successiva alla dichiarazione di fallimento), né è richiesta la specificazione della natura (palese o occulta) di tale partecipazione (...)>>.

In tema, peraltro, va segnalata anche Sez. 6-1, n. 24112/2015, Ragonesi, Rv. 637712 e Rv. 637713, che ha ritenuto l'insussistenza del litisconsorzio necessario con il socio accomandatario dichiarato fallito nel caso di estensione del fallimento al socio accomandante (ritenuto) illimitatamente responsabile ed ha inoltre stabilito che il termine annuale per la dichiarazione di fallimento di quest'ultimo decorre dalla data in cui sia stata data pubblicità con mezzi idonei al suo recesso.

Merita, altresì, menzione, per la peculiarità della corrispondente vicenda, Sez. 1, n. 02673/2015, Di Virgilio, Rv. 634328, la quale ha precisato che, nel caso in cui, revocata la dichiarazione di fallimento, non sia stato emesso il decreto di chiusura ex art. 119 l.fall., la presentazione della successiva istanza di fallimento, basata sulla prospettazione di fatti intervenuti rivelatori di insolvenza del debitore, non è di per sé preclusa, in difetto di una norma che lo impedisca, spettando al tribunale, in sede di decisione, verificare se sia stato medio tempore emesso il decreto di chiusura del primo fallimento, al fine di poter esaminare nel merito la ricorrenza degli elementi costitutivi della pronuncia di fallimento, che, infatti, devono sussistere al momento della sentenza quali condizioni dell'azione e non del procedimento.

Altre decisioni hanno, invece, reso utili puntualizzazioni riguardanti l'iniziativa del P.M.: Sez. 6-1, n. 18277/2015, Scaldaferri, Rv. 636450, ad esempio, ha precisato che l'art. 7, n. 2, l.fall. riconduce il potere di iniziativa del P.M. alla segnalazione dell'insolvenza - atto privo di contenuto decisorio, neppure come esito di una delibazione sommaria - effettuata dal giudice che labbia rilevata durante un procedimento civile, senza eccezioni e limiti di sorta, sicché non possono escludersi da quella previsione le eventuali segnalazioni eseguite nel corso di procedure esecutive; mentre, secondo Sez. 1, n. 17903/2015, Didone, Rv. 636921, l'istanza di fallimento del P.M. che sia meramente ripetitiva della segnalazione a questi pervenuta ex art. 7, n. 2, l.fall., deve ritenersi ammissibile in ragione dell'assunzione della responsabilità dell'atto e della richiesta, cui egli è legittimato, fermo restando che spetta poi al giudice l'accertamento, in concreto, della segnalata insolvenza.

Di sicuro interesse, poi, è Sez. 1, n. 19797/2015, Didone, Rv. 637328, che, in tema di notificazione del ricorso di fallimento e del decreto di convocazione, ha specificato che la loro effettuazione tramite polizia giudiziaria, ancorché avvenuta senza il provvedimento presidenziale che motivatamente l'abbia disposta, ex art. 15, comma 5, l.fall., giustificandola con ragioni di urgenza, non è inesistente, bensì nulla, in quanto non totalmente incompatibile con le regole della procedura prefallimentare, sicché quel vizio deve considerarsi sanato ove la prima sia giunta a buon fine avendo realizzato lo scopo di portare l'atto a conoscenza del destinatario, ovvero quando il debitore, informato del deposito del ricorso e della fissazione dell'udienza, si sia costituito innanzi al tribunale chiamato a pronunciarsi sulla dichiarazione di fallimento.

Ancora in tema di notificazione del ricorso di fallimento, Sez. 6-1, n. 17499/2015, Acierno, Rv. 636262, ha chiarito che la notifica del ricorso introduttivo di un procedimento prefallimentare a carico di un'impresa individuale, con il pedissequo decreto di sua convocazione ex art. 15 l.fall., è ritualmente eseguita nei confronti della persona fisica dell'imprenditore, secondo le regole di cui agli artt. 138 e ss. c.p.c., attesa la totale identificazione esistente tra quest'ultimo e l'impresa.

Di primaria importanza risulta, altresì, Sez. 1, n. 22352/2015, Ferro, Rv. 637647, che, affrontando, per la prima volta, - sebbene nell'ambito di un procedimento di impugnazione a sentenza dichiarativa di fallimento - il problema della validità della notifica telematica del ricorso introduttivo del giudizio prefallimentare (ma la statuizione assume, comunque, una valenza certamente di carattere più generale), ha ritenuto che per il perfezionamento della stessa deve aversi riguardo unicamente alla sequenza procedimentale prevista dalla legge e, quindi, alla ricevuta di accettazione, che fornisce la prova dell'avvenuta spedizione di un messaggio di posta elettronica certificata, ed alla ricevuta di avvenuta consegna, che dimostra che un messaggio leggibile è giunto all'indirizzo dichiarato dal destinatario. Nessun rilievo può, dunque, essere riconosciuto all'annotazione con la quale il cancelliere, di propria iniziativa e sul presupposto di una asserita non certezza della notifica, abbia invitato il creditore istante ad attivare il meccanismo sostitutivo previsto dall'art. 15, comma 3, l.fall.

Con riguardo, invece, al livello di certezza del credito posto a fondamento dell'istanza di fallimento, Sez. 1, n. 00576/2015, Didone, Rv. 633896, premesso che, ai sensi dell'art. 5 l.fall., lo stato d'insolvenza non presuppone il definitivo accertamento del credito in sede giudiziale né l'esecutività del titolo, ha ritenuto che, per poter chiedere il fallimento, è sufficiente un'ordinanza adottata ai sensi dell'art. 186-bis c.p.c., la quale costituisce valido titolo esecutivo per la somma per cui è emessa, conserva la sua efficacia in caso di estinzione del giudizio e definisce direttamente una parte del merito.

Ed è altresì interessante considerare che Sez. 1, n. 19790/2015, De Marzo, Rv. 636679, ha ribadito che l'accertamento dello stato di insolvenza va compiuto con riferimento alla situazione esistente alla data della sentenza dichiarativa di fallimento, e non già a quella di presentazione del relativo ricorso, altresì chiarendo che il giudice del reclamo ha il potere-dovere di verificarne la sussistenza anche sulla base di fatti diversi da quelli considerati al momento dell'apertura della procedura concorsuale, eventualmente ricavabili dagli atti del fascicolo fallimentare, purché riferibili ad un momento anteriore alla dichiarazione di fallimento. La medesima sentenza, peraltro, si è pronunciata anche sulle misure cautelari adottate in sede di procedimento prefallimentare, affermando (Rv. 636680) che le stesse, prive di decisorietà e definitività, restano assorbite dalla sentenza di fallimento, con conseguente specifica carenza di interesse all'impugnazione in cassazione.

A conclusione di questo paragrafo, infine, sembra utile anche ricordare Sez. 1, n. 10952/2015, Genovese, Rv. 635516, la quale ha sottolineato che, ai fini del computo del limite minimo di fallibilità previsto dall'art. 15, ultimo comma, l.fall., deve aversi riguardo al complesso dei debiti scaduti e non pagati accertati non già alla data della proposizione dell'istanza di fallimento, ma a quella in cui il tribunale decide sulla stessa, nonché Sez. 1, n. 17546/2015, Didone, Rv. 636536, a tenore della quale, ai sensi dell'art. 6, comma 3, del d.l. 6 giugno 2012, n. 74, conv. con modif. dalla l. 1 agosto 2012, n. 122, il procedimento prefallimentare pendente alla data del 20 maggio 2012 è rinviato di ufficio a data successiva al 31 dicembre 2012, sempreché l'interessato non abbia espressamente rinunciato al rinvio, purché una delle parti (o il suo difensore) abbia sede o residenza in uno dei comuni colpiti dagli eventi sismici del 20 e 29 maggio 2012, mirando la disposizione ad impedire disfunzioni organizzative nella celebrazione dei processi, con ricaduta sull'attività processuale delle parti, e dunque risultando adeguatamente giustificata sul piano della ragionevolezza e non lesiva di altri valori ed interessi costituzionalmente tutelati.

1.1. Gi organi della procedura fallimentare.

Giova premettere che il d.l. 27 giugno 2015, n. 83, - recante "Misure urgenti in materia fallimentare, civile e processuale civile e di organizzazione e funzionamento dell'amministrazione giudiziaria" - convertito, con modificazioni, dalla l. 6 agosto 2015, n. 132, è intervenuto, tra l'altro (cfr. capo III, artt. 5, 6 e 7), sui requisiti per la nomina a curatore, rendendoli più stringenti, a maggiore garanzia del ceto creditorio.

In particolare, l'art. 5 della nuova normativa introduce alcune modifiche all'art. 28 l.fall., stabilendo, in primis, un'incompatibilità perpetua e non più soltanto biennale per <<chi ha concorso al dissesto dell'impresa>>. Si tratta di una modifica che, seguendo l'impostazione declinata nella stessa relazione di accompagnamento, ha lo scopo di rafforzare la terzietà e la indipendenza del curatore.

Dal testo ufficiale della l. n 132 del 2015, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale è, invece, scomparsa una causa di incompatibilità che era stata prevista dal d.l. n. 83 del 2015 e che aveva immediatamente dato luogo a discussioni: quella relativa all'aver svolto funzioni di commissario giudiziale nel procedimento di concordato preventivo antecedente l'apertura della procedura concorsuale maggiore. Se, in effetti, vi possono essere casi di inopportunità nella nomina, quale curatore, del medesimo professionista che abbia in precedenza svolto le funzioni di commissario giudiziale, non di meno una incompatibilità assoluta era forse eccessiva. Si può, pertanto, ritenere che l'attuale eliminazione del divieto di nomina a curatore del precedente commissario giudiziale non renda, di per sé, sempre necessaria una nomina coincidente, pur spesso dettata da ragioni di economicità, ma restituisca al tribunale l'esigenza di valutare discrezionalmente, ma con attenzione, i motivi favorevoli e contrari alla nomina dello stesso soggetto, prima come commissario giudiziale poi come curatore, nelle procedure riguardanti la medesima insolvenza.

Si è poi sancito che, nella nomina del curatore, debba tenersi conto <<delle risultanze dei rapporti riepilogativi di cui all'art. 33 quinto comma>> l.fall., così probabilmente potendo ritenersi che il legislatore abbia voluto far riferimento all'esigenza che il tribunale tenga conto nelle nomine dei risultati della liquidazione che i professionisti hanno già conseguito in altre procedure, in modo da alimentare un circuito virtuoso e trasparente nel procedimento di affidamento del delicato incarico di curatore, volto a consentire la nomina di soggetti che già "abbiano dato buona prova di sé".

Sempre in quest'ottica di trasparenza nella distribuzione degli incarichi appare muoversi la prevista istituzione di un registro nazionale presso il Ministero della giustizia, relativo alle nomine dei liquidatori giudiziali, commissari giudiziali e curatori, in cui annotare, altresì, i provvedimenti di chiusura dei fallimenti e di omologazione dei concordati, nonché dei dati relativi all'attivo ed al passivo delle procedure chiuse.

L'art. 6 del decreto, inoltre, ha previsto, al fine di contenere i tempi di gestione delle procedure concorsuali, un termine di due anni per la conclusione della liquidazione fallimentare (chiarendo, peraltro, che, ove il curatore ne ritenga necessario uno maggiore, è tenuto a motivarne specificamente le ragioni), mentre il successivo art. 7 ha anche precisato che le controversie in cui è coinvolto un fallimento o un concordato preventivo godono di una corsia preferenziale, dovendo essere trattate con priorità rispetto alle altre (onde evitare che tale disposizione abbia un valore puramente programmatico e non cogente, si è ulteriormente stabilito che il presidente del tribunale debba annualmente fornire al capo della corte d'appello i dati relativi al numero dei procedimenti in cui è parte un fallimento, la loro durata, le misure adottate per garantire la loro celerità).

Tanto premesso, e passando ad esaminare le pronunce rese dalla Suprema Corte con riferimento agli organi della procedura fallimentare, sembra opportuno ricordare, in questa sede, Sez. 1, n. 05094/2015, Cristiano, Rv. 634685, secondo cui, avverso il decreto della corte d'appello che si sia pronunciata sul reclamo contro il provvedimento del tribunale di accoglimento o di rigetto dell'istanza di revoca del curatore fallimentare per giustificati motivi, ai sensi del combinato disposto degli artt. 23 e 37 l.fall., nel testo novellato dal d.lgs. n. 5 del 2006, non è ammissibile il ricorso straordinario per cassazione da parte dello stesso curatore, del fallito o di qualunque altro interessato, in quanto anche la disciplina riformata è dettata unicamente a tutela dell'interesse pubblicistico al regolare svolgimento e al buon esito della procedura concorsuale, incidendo solo indirettamente sull'interesse del curatore, sicché il provvedimento di revoca di quest'ultimo ha natura amministrativa ed ordinatoria ed è privo di portata decisoria su posizioni di diritto soggettivo.

Sez. 3, n. 11854/2015, Cirillo, Rv. 635477, infine, muovendo dal presupposto che la pubblica funzione svolta dal curatore fallimentare nell'ambito dell'amministrazione della giustizia esclude che possa configurarsi un contrasto di interessi tra lo stesso ed il fallito, ha affermato che quest'ultimo, una volta tornato in bonis, potrà solo sostituirsi al primo nel giudizio da lui intrapreso, nel punto e nello stato in cui esso si trova, accettandolo come tale e senza poter invalidare quanto sia stato legittimamente compiuto dal curatore medesimo allorquando questi lo rappresentava.

Si sono, invece, interessate dell'impugnazione dei provvedimenti resi dagli organi della procedura Sez. 1, n. 02949/2015, Didone, Rv. 634330, statuendo che l'art. 26, comma 1, l.fall., nel testo introdotto dal d.lgs. n. 5 del 2006, non può essere interpretato nel senso che il decreto pronunciato dal tribunale in sede di reclamo avverso un provvedimento del giudice delegato è, a sua volta, impugnabile con ulteriore reclamo alla corte d'appello, altrimenti consentendosi di duplicare il mezzo di tutela e di disporre potenzialmente di quattro gradi di giudizio, con evidente abuso del processo e violazione della sua ragionevole durata; e Sez. 1, n. 20118/2015, Di Virgilio, Rv. 637419, a tenore della quale, in tema di reclamo endofallimentare avverso i decreti del giudice delegato, ex art. 26 l.fall. (nel testo vigente anteriormente al d.lgs. n. 5 del 2006), il termine iniziale di decorrenza per la relativa presentazione coincide con la comunicazione del decreto alla parte, da effettuarsi, di regola, ai sensi degli artt. 136 e ss. c.p.c., ovvero con forme equipollenti, in grado di assicurare l'effettiva ed integrale conoscenza del contenuto del provvedimento e la data in cui essa è avvenuta, operando, in assenza di tali riscontri, il solo termine lungo annuale per la proposizione del reclamo.

1.2. L'impugnazione della pronuncia resa sull'istanza di fallimento.

Merita immediata segnalazione Sez. U, n. 09936/2015, Di Amato, Rv. 635327, secondo la quale, nel caso in cui, a seguito di conflitto positivo di competenza conseguente alla pronuncia dichiarativa di fallimento ed all'apertura della procedura di concordato preventivo da parte di due distinti tribunali, penda regolamento di competenza d'ufficio, la corte d'appello, davanti alla quale sia stata reclamata, anche per ragioni di competenza, la sentenza dichiarativa di fallimento, deve applicare analogicamente l'art. 48 c.p.c. e dichiarare sospeso l'intero procedimento e non solo la questione di competenza, sicché, qualora, in sede di regolamento, venga dichiarata l'incompetenza del tribunale che ha dichiarato il fallimento, è nulla la sentenza della corte d'appello che abbia pronunciato in via non definitiva sul merito prima di dichiarare sospeso il processo sulla questione di competenza.

Sez. 1, n. 19797/2015, Didone, Rv. 637327, poi, ha opportunamente precisato che il reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento va notificato al procuratore della Repubblica presso il tribunale, al quale spetta la legittimazione all'impugnazione, in qualità di ufficio del P.M. funzionante presso il giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata, mentre l'esercizio delle funzioni di P.M. nel giudizio di reclamo spetta al P.G., ai sensi dell'art. 70 del r.d. 30 gennaio 1941, n. 12. Peraltro, la costituzione in sede di reclamo del procuratore della Repubblica, in luogo del P.G., non determina la nullità della sentenza di secondo grado, ma soltanto la nullità della costituzione del P.M., della quale può dolersi esclusivamente il soggetto che avrebbe dovuto presenziare al giudizio, con la conseguente carenza di interesse del reclamante a far valere il predetto vizio.

Sempre in tema di legittimazione, merita menzione anche Sez. 1, n. 19727/2015, Mercolino, Rv. 636681, secondo cui l'amministratore di una società di capitali che non abbia proposto, quale "interessato" ai sensi dell'art. 18 l.fall. (nella formulazione applicabile ratione temporis), opposizione avverso la sentenza dichiarativa di fallimento, non è legittimato ad impugnare autonomamente la sentenza che abbia deciso sull'opposizione proposta dalla società fallita, atteso che, qualora fosse intervenuto nel giudizio, avrebbe assunto la veste di interventore meramente adesivo, ex art. 105, comma 2, c.p.c., come tale legittimato solo all'impugnazione adesiva, mentre, ove non vi avesse partecipato, non sarebbe legittimato per assenza della qualità di parte nel precedente grado di giudizio, né potendo invocare la disciplina degli artt. 110 e 111 c.p.c., nemmeno essendo successore, a titolo universale o particolare, della società.

Sez. 6-1, n. 18339/2015, Scaldaferri, Rv. 636542, inoltre, ha chiarito che, in caso di revoca del fallimento che non precluda la rinnovazione della dichiarazione medesima, il giudice del reclamo, ai sensi dell'art. 354 c.p.c., deve rimettere la causa al primo giudice che, rinnovati gli atti nulli, provvede nuovamente al riguardo.

Ancora in tema di impugnazione della sentenza dichiarativa di fallimento, Sez. 1, n. 15146/2015, Ferro, Rv. 636106, - dopo aver opportunamente specificato di non voler contraddire Sez. U, n. 05700/2014, San Giorgio, Rv. 629676 (secondo cui, giova ricordarlo, in materia di equa riparazione per durata irragionevole del processo, il termine per la notifica del ricorso e del decreto di fissazione dell'udienza alla controparte non è perentorio, non essendo previsto espressamente dalla legge. Ne consegue che il giudice, nell'ipotesi di omessa o inesistente notifica del ricorso e del decreto di fissazione dell'udienza, può, in difetto di spontanea costituzione del resistente, concedere al ricorrente un nuovo termine, avente carattere perentorio, entro il quale rinnovare la notifica), non ravvisandone l'eadem ratio con la fattispecie specificamente oggetto della sua attenzione - ha statuito che va disattesa l'istanza con cui l'appellante, che non abbia notificato il ricorso ed il decreto presidenziale di fissazione dell'udienza nel termine ordinatorio ex art. 18, comma 4, l.fall. (nel testo, applicabile ratione temporis, modificato dal d.lgs. n. 5 del 2006), ne chieda, successivamente al suo decorso e senza allegare alcuna causa di giustificazione, uno nuovo per provvedervi, ostando a tale concessione l'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 154 c.p.c. che, in ipotesi di impugnazione e sulla scorta dei principi sottesi all'art. 111, comma 2, Cost., deve tenere conto della legittima aspettativa della controparte al consolidamento, entro un confine temporale rigorosamente definito e ragionevolmente breve, del provvedimento giudiziario già emesso.

Infine, vanno ricordate Sez. 1, n. 10952/2015, Genovese, Rv. 635517, secondo cui nel giudizio di reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento l'accertamento dello stato di insolvenza va compiuto con riferimento alla data della dichiarazione di fallimento, ma può fondarsi anche su fatti diversi da quelli in base ai quali il fallimento è stato dichiarato, purché si tratti di fatti anteriori alla pronuncia, anche se conosciuti successivamente in sede di gravame e desunti da circostanze non contestate dello stato passivo; e Sez. 1, n. 06683/2015, Cristiano, Rv. 634749, a tenore della quale il decreto reiettivo del reclamo che, a sua volta, ha respinto l'istanza di fallimento non è ricorribile per cassazione ex art. 111, comma 7, Cost., trattandosi di provvedimento non definitivo e privo di natura decisoria su diritti soggettivi, non essendo il creditore portatore del diritto al fallimento del proprio debitore.

1.3. La formazione dello stato passivo e le correlate opposizioni.

Numerose sono state, nell'anno in rassegna, anche le decisioni della S.C. concernenti la formazione dello stato passivo e, soprattutto, le impugnazioni (opposizione, impugnazione dei crediti ammessi e revocazione) dello stesso.

Cominciando, in particolare, da quelle riguardanti l'ammissione al passivo, merita immediata menzione Sez. U, n. 06060/2015, Bernabai, Rv. 634845, che, chiamata a pronunciarsi, tra l'altro, sulla esistenza di una preclusione all'ammissione tardiva al passivo fallimentare degli interessi in ragione della già avvenuta ammissione, in via definitiva, del credito relativo al capitale e della preclusione pro iudicato che ad essa conseguirebbe, ha affermato che la proposizione tardiva della domanda di ammissione al passivo fallimentare del credito accessorio concernente gli interessi moratori, in quanto fondata sul ritardo nell'adempimento, non è impedita, stante la diversità della rispettiva causa petendi, dalla definitiva ammissione in via tempestiva del credito relativo al capitale (nella specie, a titolo di compenso per attività professionale), salvo che gli interessi costituiscano una mera componente della pretesa già azionata, come nel caso del credito risarcitorio da illecito aquiliano.

Con riguardo, poi, alla richiesta di insinuazione al passivo di crediti tributari, risulta certamente meritevole di attenzione, attesa la peculiarità della fattispecie affrontata, Sez. 6-1, n. 21483/2015, Ragonesi, Rv. 637268, la quale ha evidenziato che, per l'insinuazione al passivo dell'Agente, non solo è sufficiente la copia del ruolo da questi allegata alla propria domanda, ma basta la semplice indicazione del cd. codice tributo senza altra specificazione. Ed ha poi aggiunto che il giudice delegato non può sollevare l'eccezione di prescrizione dei crediti tributari - spettando alle commissioni tributarie la cognizione anche dei fatti estintivi delle relative obbligazioni - nemmeno nel caso in cui la prescrizione sia maturata in epoca successiva alla notificazione della cartella esattoriale.

Sez. 1, n. 17787/2015, Didone, Rv. 636855, invece, ha opportunamente precisato che, per far valere il credito tributario nei confronti del fallimento, l'Amministrazione finanziaria o l'esattore devono presentare l'istanza di insinuazione tardiva nel termine annuale previsto dall'art. 101, l.fall., senza che i diversi e più lunghi termini per la formazione dei ruoli e per la emissione delle cartelle, ex art. 25 del d.P.R. 29 settembre 1972, n. 602, possano, di per sé, costituire ragioni di scusabilità per il ritardo.

La medesima sentenza, peraltro, - ritenendo irrilevante, perché riguardante il rapporto interno tra esattore ed ente impositore, l'imputabilità del ritardo a quest'ultimo - ha altresì sottolineato che, in caso di presentazione ultra annuale dell'istanza rispetto alla data di esecutività dello stato passivo, la scusabilità del ritardo va valutata esclusivamente in relazione ai tempi strettamente necessari all'Amministrazione per predisporre i titoli per la tempestiva insinuazione dei propri crediti al passivo.

Proprio in tema di domanda cd. supertardiva (proposta, cioè, ai sensi dell'ultimo comma dell'art. 101 l.fall.), inoltre, Sez. 6-1, n. 21316/2015, Bisogni, Rv. 637221, ha chiarito che, ai fini della sua ammissibilità, il mancato avviso al creditore, da parte del curatore, previsto dall'art. 92 l.fall., integra la causa non imputabile del ritardo da parte del creditore, ma ha aggiunto che al curatore è consentito di poter provare, ai fini dell'inammissibilità della domanda, che il creditore abbia avuto notizia del fallimento indipendentemente dalla ricezione dell'avviso predetto. In senso analogo, si è espressa anche Sez. 1, n. 23302/2015, Ferro, Rv. 637716 e Rv 637715, che ha altresì affermato la compatibilità della relativa disciplina con la Carta costituzionale e, segnatamente, con gli artt. 76, 3 e 47 Cost., mentre Sez. 1, n. 23975/2015, De Chiara, Rv. 637731, ha ulteriormente puntualizzato che, nel caso di tardivo invio dell'avviso ex art. 92 l.fall., il creditore non ha un tempo illimitato per presentare la propria istanza di insinuazione al passivo, ma quello necessario - in nessun modo individuabile preventivamente in un termine fisso (un anno o 90 giorni), ma da valutarsi discrezionalmente caso per caso - a prendere contezza del fallimento ed a redigere la relativa istanza.

Sez. 1, n. 16218/2015, De Chiara, Rv. 636329, poi, occupandosi dell'insinuazione al passivo dei crediti sorti nel corso della procedura fallimentare, ne ha escluso l'assoggettamento al termine di decadenza previsto dall'art. 101, commi 1 e 4, l.fall., mentre la successiva Sez. 6-1, n. 19679/2015, Genovese, Rv. 636718, ha puntualizzato che qualora il diritto di credito sia sorto in epoca posteriore alla data di approvazione dello stato passivo, costituisce criterio razionale quello di valutare il tempo impiegato per la proposizione della domanda, computandolo dal momento di insorgenza del credito fino alla data dell'insinuazione; e di ritenere eccessivo, in assenza di adeguata e specifica giustificazione, un intervallo temporale di quasi due anni.

Degne di menzione sono certamente Sez. 1, n. 01655/2015, Genovese, Rv. 636332, a tenore della quale, in tema di verificazione del passivo, il principio di non contestazione, che pure ha rilievo rispetto alla disciplina previgente quale tecnica di semplificazione della prova dei fatti dedotti, non comporta affatto l'automatica ammissione del credito allo stato passivo solo perché non sia stato contestato dal curatore (o dai creditori eventualmente presenti in sede di verifica), competendo al giudice delegato (e al tribunale fallimentare) il potere di sollevare, in via ufficiosa, ogni sorta di eccezioni in tema di verificazione dei fatti e delle prove; e Sez. 1, n. 19714/2015, Mercolino, Rv. 637273, in cui è stato affermato l'obbligo di interpretare la domanda di insinuazione al passivo nel suo complesso da parte del giudice delegato (e del tribunale in sede di opposizione), con la conseguenza che doveva ivi ritenersi l'ammissione in via ipotecaria di un credito, anche se non espressamente richiesta come tale nelle conclusioni.

Con più generale riguardo ai giudizi di impugnazione dello stato passivo ex art. 99 l.fall., Sez. 1, n. 19653/2015, Nappi, Rv. 637292, ha poi sottolineato che l'omessa notifica del ricorso e del decreto di fissazione dell'udienza al curatore ed agli eventuali creditori controinteressati, entro il termine ordinatorio assegnato dal giudice, non comporta l'inammissibilità dell'impugnazione, atteso che tale sanzione non è prevista dalla legge, né può essere ricavata, in via interpretativa, in base al principio della ragionevole durata del processo, dovendo evitarsi interpretazioni formalistiche delle norme processuali che limitino l'accesso delle parti alla tutela giurisdizionale. Pertanto, qualora il curatore ed i creditori controinteressati non si siano regolarmente costituiti in giudizio, così sanando, con effetto ex tunc, il vizio della notificazione, il giudice dovrà limitarsi ad assegnare al ricorrente un nuovo termine, perentorio, per la notifica, in applicazione analogica dell'art. 291 c.p.c.

Anche il numero di sentenze intervenute in tema di opposizione allo stato passivo appare nutrito, oltre che di sicuro rilievo.

Ad esempio, Sez. 6-1, n. 20385/2015, Scaldaferri, Rv. 637330, muovendo dall'assunto che l'individuazione del regime impugnatorio del provvedimento che ha deciso la relativa controversia dipende, in base al principio di apparenza ed affidabilità, dalla forma adottata dal giudice, purché la stessa sia frutto di una consapevole scelta, che può essere anche implicita e desumibile dalle modalità con le quali si è svolto in concreto il relativo procedimento, ha sancito che, ove il giudizio sia stato trattato secondo il rito vigente prima della riforma attuata con il d.lgs. n. 5 del 2006, ed in coerenza con tale scelta sia stato deciso con sentenza, l'impugnazione di quest'ultima deve essere proposta con l'appello, sebbene l'opposizione riguardi un fallimento già assoggettato alla nuova disciplina.

Sez. 1, n. 15570/2015, Ferro, Rv. 636274 e 6362755, invece, ha sottolineato che, nel giudizio di opposizione allo stato passivo (nel regime cd. intermedio di cui al d.lgs. n. 5 del 2006), il fallito, per quanto destinatario della notifica del ricorso e del decreto di fissazione dell'udienza, non assume la qualità di parte del giudizio e non può, quindi, rendere interrogatorio formale sui fatti oggetto della domanda, né gli è deferibile il giuramento suppletorio o decisorio, ed ha altresì puntualizzato che, nel medesimo giudizio, il curatore, in quanto terzo rispetto al fallito e privo della capacità di disporre del diritto controverso, non può essere sollecitato alla confessione su interrogatorio formale con riferimento a vicende solutorie attinenti all'obbligazione dedotta in giudizio, né gli è deferibile il giuramento decisorio.

Ed una menzione merita anche Sez. 1, n. 24718/2015, Didone, Rv. 638143, la quale ha opportunamente precisato che l'incompatibilità del giudice delegato che abbia fatto parte del collegio in sede di opposizione allo stato passivo non determina la nullità della sentenza per vizio di costituzione del giudice, ma solo un obbligo di astensione, la cui violazione comporta un onere di tempestiva ricusazione. La pronuncia, peraltro, va di contrario avviso rispetto a Sez. 6-1, n. 05426/2012, Cultrera, Rv. 621839, recentemente confermata da Sez. L, 04677/2015, Patti, Rv. 634623.

Interessanti appaiono, altresì, alcune decisioni che hanno riguardato il tema della produzione documentale, a pena di decadenza, di cui all'art. 99, comma 2, n. 4, l.fall.

In particolare, secondo Sez. 6-1, n. 18253/2015, Cristiano, Rv. 636920, il ricorso con il quale, a norma dell'art. 93 l.fall., si propone la domanda di ammissione allo stato passivo non è un documento probatorio del credito e non può, pertanto, ritenersi compreso tra i documenti che, nell'ipotesi in cui il giudice delegato abbia respinto, in tutto o in parte, la domanda, devono essere prodotti, a pena di decadenza, ai sensi dell'art. 99, comma 2, l.fall. al momento del deposito del ricorso in opposizione. Ne deriva che, qualora, in sede di opposizione allo stato passivo, una copia della domanda di ammissione non risulti allegata al fascicolo di ufficio, né a quello di una delle parti, il tribunale, che non sia in grado di ricostruire, sulla scorta degli ulteriori atti processuali, il contenuto di quella e che ne ritenga l'esame indispensabile ai fini della decisione, deve provvedere alla sua acquisizione.

Con più specifico riferimento alla produzione di copia autentica del provvedimento impugnato, invece, vanno segnalate due statuizioni quasi coeve: Sez. 1, n. 19802/2015, Didone, Rv. 636672, ha ritenuto che la stessa, sebbene non prevista a pena di inammissibilità dell'opposizione dall'art. 99 l.fall., come novellato dal d.lgs. n. 169 del 2007, può nondimeno, ove omessa, determinarne il rigetto laddove il giudice, non potendo valutare, in mancanza di tale documento, le censure prospettate dall'opponente, si trovi nell'impossibilità di accertarne la fondatezza; e Sez. 6-1, n. 18253/2015, Cristiano, Rv. 636919, a tenore della quale, in tema di opposizione allo stato passivo, il deposito della copia autentica del decreto impugnato può effettuarsi in qualsiasi momento, anche nel giudizio di rinvio, fino alla chiusura del contraddittorio, trattandosi di un documento indispensabile ai fini della decisione, sicché la sua mancata produzione contestualmente all'atto oppositivo non costituisce causa di improcedibilità del relativo procedimento, il quale, benché di natura impugnatoria, non è qualificabile come appello, non trovando, quindi, applicazione la disciplina di cui agli artt. 339 e ss. c.p.c.

Investono, per contro, direttamente il provvedimento con cui il tribunale, ex art. 99, comma 11, l.fall., pronuncia sul ricorso in opposizione allo stato passivo: Sez. 1, n. 19722/2015, Mercolino, Rv. 637424, secondo cui lo stesso può essere redatto in calce al verbale di udienza, ed in tal caso la mancata indicazione dei componenti del collegio giudicante costituisce un mero errore materiale, emendabile ai sensi degli artt. 287 e 288 c.p.c., dovendosi ritenere, in difetto di elementi contrari, che i magistrati indicati nel predetto verbale coincidano con quelli che, in concreto, hanno partecipato alla deliberazione, essendo l'intestazione priva di autonoma efficacia probatoria, perchè meramente riproduttiva dei dati del verbale di udienza. La stessa sentenza, peraltro, ha anche precisato che quel provvedimento è reso nella forma del decreto, per cui, sebbene abbia natura decisoria, deve essere sottoscritto, giusta l'art. 135, comma 4, c.p.c., dal solo presidente del collegio, non essendo necessaria la firma del relatore; Sez. 1. n. 23632/2015, Ferro, Rv. 637829, la quale ha sancito che la stessa regula iuris, che impone la certezza dell'identità fra il giudice avanti al quale è stato concluso il contraddittorio tra le parti e si è svolta la relativa discussione con finale richiesta di decisione, da un lato, ed il giudice che poi decide quella stessa controversia, dall'altro, appare agevolmente suscettibile di imporsi anche allorquando non si ponga un problema di discrasia fra intestazione o epigrafe della decisione (ove si riportano i nominativi dei giudici che compongono in riunione il collegio decidente) e documentazione del verbale d'udienza (in cui gli stessi giudici siano risultati i destinatari delle citate conclusioni e avanti ai quali si sia svolta la discussione), bensì si rinvenga una più radicale smentita che a quella epigrafe corrisponda per davvero la riconducibilità ai relativi giudici della formazione del convincimento espresso nel provvedimento, posto che questo sia - come avvenuto nel decreto ex art. 99 l.fall. nella specie impugnato - sottoscritto e reso pubblico con deposito in cancelleria ex art. 132 c.p.c. da presidente di collegio del tutto diverso. In tal caso, infatti, non ricorre alcuna possibilità di ipotizzare un diverso rimedio rettificativo, come la correzione dell'errore materiale, mancando - più radicalmente - la stessa prova (come doveva risultare) che quel collegio presso cui si era incardinata la riserva di decisione fosse quello che poi ha reso quest'ultima, facendo fede della convocazione della camera di consiglio, della deliberazione interna e del controllo della motivazione rispetto alle decisioni ivi assunte, proprio ed in primo luogo la sottoscrizione del presidente (diverso).

È, infine, intervenuta in tema di impugnazione dei crediti ammessi Sez. 6-1, n. 04524/2015, Cristiano, Rv. 634509, rimarcando che il creditore che impugna lo stato passivo ex art. 98, comma 3, l.fall. è portatore non solo dei propri interessi, ma anche di quelli di tutti gli altri creditori e, pertanto, è legittimato ad esercitare tutte le azioni volte ad escludere o postergare i crediti ammessi, ivi compresa l'azione revocatoria ordinaria, non potendo l'inerzia del curatore - che abbia omesso di far valere, in via di eccezione, la revocabilità del credito o della garanzia in sede di accertamento del passivo o che non abbia impugnato il provvedimento di rigetto dell'eccezione regolarmente proposta - pregiudicare le ragioni degli altri, incolpevoli, creditori.

1.4. La chiusura del fallimento.

È doveroso premettere che l'art. 7 del già citato d.l. n. 83 del 2015, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 132 del 2015, intervenendo sull'art. 118, comma 2, l.fall., vi ha aggiunto, in fine, i seguenti periodi: <<La chiusura della procedura di fallimento nel caso di cui al n. 3) non è impedita dalla pendenza di giudizi, rispetto ai quali il curatore può mantenere la legittimazione processuale, anche nei successivi stati e gradi del giudizio, ai sensi dell'articolo 43. In deroga all'articolo 35, anche le rinunzie alle liti e le transazioni sono autorizzate dal giudice delegato. Le somme necessarie per spese future ed eventuali oneri relativi ai giudizi pendenti, nonchè le somme ricevute dal curatore per effetto di provvedimenti provvisoriamente esecutivi e non ancora passati in giudicato, sono trattenute dal curatore secondo quanto previsto dall'articolo 117, comma secondo. Dopo la chiusura della procedura di fallimento, le somme ricevute dal curatore per effetto di provvedimenti definitivi e gli eventuali residui degli accantonamenti sono fatti oggetto di riparto supplementare fra i creditori secondo le modalità disposte dal tribunale con il decreto di cui all'articolo 119. In relazione alle eventuali sopravvenienze attive derivanti dai giudizi pendenti non si fa luogo a riapertura del fallimento. Qualora alla conclusione dei giudizi pendenti consegua, per effetto di riparti, il venir meno dell'impedimento all'esdebitazione di cui al comma secondo dell'articolo 142, il debitore può chiedere l'esdebitazione nell'anno successivo al riparto che lo ha determinato>>.

Inoltre, all'articolo 120 l.fall. è stato aggiunto, in fine, il seguente comma: <<Nell'ipotesi di chiusura in pendenza di giudizi ai sensi dell'articolo 118, secondo comma, terzo periodo e seguenti, il giudice delegato e il curatore restano in carica ai soli fini di quanto ivi previsto. In nessun caso i creditori possono agire su quanto è oggetto dei giudizi medesimi>>.

Tanto premesso, e passando ad esaminare le pronunce rese dalla Suprema Corte con riferimento alla chiusura del fallimento, meritano sicuramente segnalazione, Sez. 1, n. 19318/2015, Scaldaferri, Rv. 636714, la quale ha precisato che il decreto con cui la corte di appello confermi, in sede di reclamo, il rigetto dell'istanza di chiusura del fallimento, non è impugnabile con il ricorso straordinario per cassazione, atteso che, limitandosi a non definire la procedura concorsuale, è privo di decisorietà e definitività, e Sez. 1, n. 20292/2015, Nazzicone, Rv. 637224, secondo cui la chiusura del fallimento diventa definitiva solo con l'esaurimento dei mezzi di impugnazione proponibili avverso il corrispondente decreto, e dunque, qualora contro quest'ultimo sia stato proposto il reclamo, con lo spirare del termine di impugnazione del provvedimento che lo abbia deciso ovvero con il rigetto dell'eventuale ricorso per cassazione.

2. Il concordato fallimentare.

Tra le numericamente esigue pronunce rese dalla S.C., nel corso del 2015, in tema di concordato fallimentare, appare in questa sede opportuno ricordare, investendo profili squisitamente procedurali, Sez. 1, n. 17339/2015, Nappi, Rv. 636303, secondo cui, qualora il concordato fallimentare con assunzione preveda la cessione delle azioni revocatorie, la chiusura del fallimento conseguente alla definitività del provvedimento di omologazione determina una successione a titolo particolare dell'assuntore nel diritto controverso regolata dall'art. 111 c.p.c., sicché quest'ultimo, pur potendo intervenire nel giudizio pendente dinanzi alla Corte di cassazione, ma non come parte necessaria, né in sostituzione del curatore fallimentare, non è tuttavia legittimato a rinunciare al ricorso già proposto dalla curatela.

Ha, invece, riguardato il giudizio di omologazione di tale concordato Sez. 1, n. 19645/2015, Scaldaferri, Rv. 636716, ritenendo che il controllo del tribunale, in quella sede, è limitato alla verifica della regolarità formale della procedura e dell'esito della votazione - salvo che non sia prevista la suddivisione dei creditori in classi ed alcune di esse risultino dissenzienti - restando escluso ogni controllo sul merito, giacché la valutazione del contenuto della proposta concordataria, riguardando il profilo della convenienza, è devoluta ai creditori, sulla base del parere inerente ai presumibili risultati della liquidazione formulato dal curatore e dal comitato dei creditori.

La stessa sentenza, peraltro, ha opportunamente chiarito (Rv. 636715) che, in tema di concordato fallimentare, al giudice delegato non è preclusa la partecipazione al collegio che ne decida l'omologazione, rivelandosi inapplicabile, nei suoi confronti, in difetto di specifica previsione normativa, il divieto di cui all'art. 25, comma 2, l.fall., atteso che il relativo giudizio non è assimilabile al reclamo contro i provvedimenti di quel giudice: invero, nell'ambito della procedura concordataria, non è previsto alcun atto dispositivo della procedura stessa da parte del giudice delegato, la cui funzione, ivi, consiste, piuttosto, nel coordinarne ed organizzarne le varie, progressive fasi.

3. L'esdebitazione.

Può, in questa sede, segnalarsi unicamente Sez. 1, n. 14594/2015, Ferro, Rv. 635940, la quale ha affermato che l'istituto dell'esdebitazione, previsto dagli artt. 142 e ss. l.fall., nel testo introdotto dal d.lgs. n. 5 del 2006, e modificato dal d.lgs. n. 169 del 2007, trova applicazione, secondo quanto disposto dalla disciplina transitoria, anche alle procedure di fallimento aperte prima dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 5 del 2006, purché ancora pendenti a quella data (16 luglio 2006), e, tra quest'ultime, a quelle chiuse alla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 169 del 2007 (1 gennaio 2008), sempre che, in quest'ultimo caso, la relativa domanda sia presentata entro un anno dalla medesima data. La stessa pronuncia ha altresì chiarito che la circostanza che l'esdebitazione non sia ammissibile per i fallimenti chiusi prima dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 5 del 2006 non giustifica alcun dubbio di legittimità costituzionale della disciplina transitoria: né per contrasto con l'art. 3 Cost., in quanto, come già statuito da Corte cost. nell'ordinanza 24 febbraio 2010, n. 61, l'applicabilità ratione temporis dell'istituto corrisponde ad una scelta non arbitraria del legislatore, costituendo il tempo un valido elemento di diversificazione tra le situazioni giuridiche; né per contrarietà alle norme antidiscriminatorie della CEDU, posto che, a seguito di Corte cost. 27 febbraio 2008, n. 39, la chiusura del fallimento, seppur dichiarata con decreto anteriore al 16 luglio 2006, determina la cessazione delle generali incapacità personali derivanti al fallito dall'apertura del fallimento. In senso analogo, si è pronunciata anche Sez. 1, n. 24727/2015, Nappi in corso di massimazione, che ha ulteriormente aggiunto che l'esdebitazione non attiene affatto alla capacità personale del fallito, bensì alla sua responsabilità patrimoniale, perché ne comporta, ove ne risulti meritevole, la liberazione dai debiti residui nei confronti dei debitori concorsuali non insoddisfatti.

4. Il concordato preventivo: modifiche legislative.

Il già menzionato d.l. n. 83 del 2015, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 132 del 2015, vigente dal 21 agosto scorso, ha introdotto importanti novità, oltre che nella materia fallimentare, anche in alcuni strumenti per il rilancio delle imprese in crisi, come il concordato preventivo e l'accordo di ristrutturazione dei debiti ex art. 182-bis l.fall. (in particolare, trattasi degli articoli da 1 a 11 del d.l.).

Limitandoci, in questa sede, al primo, la relativa disciplina è rimasta, nel suo impianto generale, del tutto coerente con i capisaldi delle riforme del 2005 e del 2012, con l'attribuzione in via esclusiva al debitore della legittimazione a domandare l'accesso alla procedura concordataria, la previsione della possibilità di presentare domanda di concordato con riserva del piano, l'attestazione del piano ad opera di professionista di designazione "privatistica", il favor per il concordato che assicuri la continuità aziendale, la possibilità di ottenere lo scioglimento o la sospensione dei contratti in corso, l'approvazione del concordato solo con la maggioranza dei crediti ammessi al voto e, quindi, l'assenza di maggioranze per teste, la risoluzione ad iniziativa dei soli creditori, etc.

La novella, piuttosto, al di là dei singoli dettagli normativi, ha inteso porre rimedio ad un aspetto della disciplina del concordato preventivo, quale, in particolare, era emerso a seguito della riforma del 2012, che aveva suscitato forti perplessità e severe critiche da parte degli interpreti e degli operatori economici, vale a dire una tutela forte del debitore a discapito delle ragioni dei creditori: sotto questo profilo, la riforma del 2015 ha inteso assicurare, come è stato giustamente notato, il passaggio da un assetto molto (forse, per certi aspetti, troppo) incentrato sulla tutela del debitore (non a caso corretto, cammin facendo, dalle previsioni sulla nomina del commissario nel concordato con riserva e sull'obbligo di relazioni informative periodiche) ad uno maggiormente attento alle istanze di protezione del ceto creditorio nell'ottica di incrementarne le prospettive di soddisfacimento.

Passando, allora, ad un sintetico esame delle novità introdotte, le stesse possono essere raggruppate a seconda degli obiettivi perseguiti.

Innanzitutto, vengono in rilievo quelle disposizioni che, limitando l'autonomia delle parti, sono rivolte a garantire ai creditori il massimo risultato satisfattivo possibile, al tempo stesso evitando un uso eccessivamente disinvolto, se non abusivo, dello strumento concordatario da parte del debitore.

Si pensi, in particolare, alle norme che hanno: a) stabilito, nel concordato liquidatorio, che la proposta debba assicurare il pagamento di almeno il venti per cento dell'ammontare dei crediti chirografari (art. 160, ultimo comma, l.fall.); b) stabilito, in tutti i concordati, che la proposta indichi l'utilità specificamente individuata ed economicamente valutabile che il debitore si obbliga ad assicurare a ciascun creditore (art. 161, comma 2, lett. e), in fine, l.fall.); c) introdotto la possibilità per i creditori di presentare, sia pure a determinate condizioni, proposte di concordato concorrenti con quella del debitore (art. 163, commi 4, 5, 6 e 7 l.fall.); d) imposto la ricerca di offerte d'acquisto concorrenti con quella eventualmente già contenuta nella proposta (art. 163-bis l.fall); e) anticipato il termine per la modifica della domanda (art. 172, comma 2, l.fall.); f) eliminato, dall'art. 178 l.fall., il meccanismo del silenzio-assenso ai fini dell'approvazione della proposta; g) previsto l'obbligo del commissario di illustrare le utilità che, in caso di fallimento, potrebbero ricavarsi dall'esperimento di azioni risarcitorie e revocatorie (art 172, comma 1, l.fall.); h) previsto la possibilità di attribuire al commissario giudiziale o ad un amministratore giudiziario o al liquidatore nominato i poteri necessari per il compimento degli atti necessari a dare esecuzione alla proposta nel caso in cui il debitore non vi provveda (art. 185, commi 3, 4, 5 e 6 l.fall.).

Vi sono, poi, quelle disposizioni che si muovono nel senso di favorire la soluzione concordataria alla crisi dell'impresa, chiarendo, peraltro, profili che, nella disciplina precedente, erano rimasti oscuri, come le nuove norme in tema di sospensione e scioglimento dei rapporti contrattuali pendenti (art. 169-bis l.fall.).

Sono state introdotte, inoltre, norme volte al contenimento, per quanto possibile, dei costi della procedura di concordato (si pensi, in particolare, all'art. 182-quinquies, l.fall., in tema di finanziamenti prededucibili), in coerenza con la Raccomandazione della Commissione Europea del 12 marzo 2014, nella quale si fa espresso riferimento alla riduzione dei <<costi di ristrutturazione a carico di debitori e creditori>> ("Considerando" n. 11).

Non mancano, infine, le norme di carattere penale, sia di ordine sostanziale, come gli innesti agli artt. 236 e 236-bis l.fall. (collegati all'introduzione dell'art. 182-septies l.fall.), che di carattere procedurale, come le disposizioni che hanno previsto la trasmissione al pubblico ministero (oltre che della domanda di ammissione al concordato, anche) degli atti e dei documenti presentati a corredo della stessa, tra i quali, in particolare, l'attestazione del professionista designato dal debitore, nonché della relazione che il commissario giudiziale deposita ai sensi dell'art. 172 (art. 161, comma 5, in fine, l.fall.), e l'obbligo del commissario giudiziale di comunicare <<senza ritardo>> al pubblico ministero i fatti che possono rilevare ai fini delle indagini preliminari (art. 165, ultimo comma, l.fall.).

4.1. Il concordato preventivo ed i suoi rapporti con il fallimento.

Avuto riguardo all'incentivazione legislativa degli strumenti di soluzione delle crisi d'impresa alternativi al fallimento, opportune sono giunte, alcune puntualizzazioni della Corte in ordine ai rapporti tra concordato preventivo e fallimento, nonché alla natura ed all'estensione del controllo riservato al tribunale sulla proposta di concordato, nelle fasi che ne scandiscono la procedura.

Sez. U, n. 09935/2015, Di Amato, Rv. 635322, - sul punto, peraltro, superando il precedente arrêt rappresentato da Sez. U, n. 01521/2013, Piccininni, Rv. 624794 - ha statuito che, in pendenza di un procedimento di concordato preventivo, sia esso ordinario o con riserva, ai sensi dell'art. 161, comma 6, l.fall., il fallimento dell'imprenditore, su istanza di un creditore o su richiesta del P.M., può essere dichiarato soltanto quando ricorrono gli eventi previsti dagli artt. 162, 173, 179 e 180 l.fall., e cioè, rispettivamente, quando la domanda di concordato sia stata dichiarata inammissibile, quando sia stata revocata l'ammissione alla procedura, quando la proposta di concordato non sia stata approvata e quando, all'esito del giudizio di omologazione, sia stato respinto il concordato; la dichiarazione di fallimento, peraltro, non sussistendo un rapporto di pregiudizialità tecnico-giuridica tra le procedure, non è esclusa durante le eventuali fasi di impugnazione dell'esito negativo del concordato preventivo.

La medesima sentenza, inoltre, ha specificato (Rv. 635323 - 635326): a) che la pendenza di una domanda di concordato preventivo, sia esso ordinario o con riserva, ai sensi dell'art. 161, comma 6, l.fall., impedisce temporaneamente la dichiarazione di fallimento fino al verificarsi degli eventi previsti dagli artt. 162, 173, 179 e 180 l.fall., ma non rende improcedibile il procedimento prefallimentare iniziato su istanza del creditore o su richiesta del P.M., né ne consente la sospensione, ben potendo lo stesso essere istruito e concludersi con un decreto di rigetto; b) che, tra la domanda di concordato preventivo e l'istanza o la richiesta di fallimento ricorre, in quanto iniziative tra loro incompatibili e dirette a regolare la stessa situazione di crisi, un rapporto di continenza. Ne consegue la riunione dei relativi procedimenti ai sensi dell'art. 273 c.p.c., se pendenti innanzi allo stesso giudice, ovvero l'applicazione delle disposizioni dettate dall'art. 39, comma 2, c.p.c. in tema di continenza e competenza, se pendenti innanzi a giudici diversi; c) che la domanda di concordato preventivo, sia esso ordinario o con riserva, ai sensi dell'art. 161, comma 6, l.fall., presentata dal debitore non per regolare la crisi dell'impresa attraverso un accordo con i suoi creditori, ma con il palese scopo di differire la dichiarazione di fallimento, è inammissibile in quanto integra gli estremi di un abuso del processo, che ricorre quando, con violazione dei canoni generali di correttezza e buona fede e dei principi di lealtà processuale e del giusto processo, si utilizzano strumenti processuali per perseguire finalità eccedenti o deviate rispetto a quelle per le quali l'ordinamento li ha predisposti; d) che, in tema di concordato preventivo, quando, in conseguenza della ritenuta inammissibilità della domanda, il tribunale dichiara il fallimento dell'imprenditore, su istanza di un creditore o su richiesta del P.M., può essere impugnata con reclamo solo la sentenza dichiarativa di fallimento e l'impugnazione può essere proposta anche formulando soltanto censure avverso la dichiarazione di inammissibilità della domanda di concordato preventivo.

Di sicuro rilievo, poi, sono anche i principi affermati dalla coeva Sez. U, n. 09934/2015, Di Amato, Rv. 635254 - 635255, da cui si desume: a) che l'interesse ad agire ex art. 100 c.p.c. deve valutarsi alla stregua della prospettazione operata dalla parte, sicché non può negarsene la sussistenza nell'impugnazione proposta contro il decreto reiettivo del reclamo avverso la pronuncia risolutiva di un concordato preventivo ex art. 186 l.fall. (nel testo, applicabile ratione temporis, anteriore alla modifica apportatagli dal d.lgs. n. 169 del 2007), di cui si censuri l'omessa, contestuale ed asseritamente automatica dichiarazione di fallimento del debitore, sul solo presupposto che le conseguenze da trarsi dai fatti allegati siano diverse da quelle sostenute dall'istante, ciò riguardando la fondatezza nel merito della domanda; b) che l'abrogazione espressa della dichiarazione di fallimento di ufficio operata dal d.lgs. n. 169 del 2007, che ha riformato l'art. 186 l.fall., ha valore meramente dichiarativo di un'abrogazione implicita indotta nel precedente testo del medesimo articolo dal d.lgs. n. 5 del 2006, che, riformulando l'art. 6 l.fall., ha reso incompatibile la sopravvivenza di quell'istituto nell'ambito della disciplina del concordato preventivo, così superandone l'ormai disarmonico vecchio testo normativo, divenuto incoerente sia con l'abrogazione della suddetta dichiarazione officiosa che con il mutamento dei presupposti della procedura di concordataria.

Sempre in tema di rapporti tra concordato preventivo e fallimento, - e potendosi qui rinviare, circa la statuizione di Sez. U, n. 09936/2015, Di Amato, Rv. 635327, a quanto, in proposito riportato all'inizio del paragrafo 1.2. di questo scritto - Sez. 6-1, n. 21487/2015, Bisogni, Rv. 637422, ha osservato che, in caso di revoca del concordato preventivo e conseguente dichiarazione di fallimento ai sensi dell'art. 173 l.fall., non è necessaria la convocazione del socio accomandatario cessato (nella specie, la società aveva subito una trasformazione da s.a.s. a s.r.l. nel corso del procedimento prefallimentare) per dichiararne il suo fallimento in estensione ex art. 147 l.fall., ove questi sia stato già convocato in sede prefallimentare, con procedimento iniziato in data antecedente alla proposizione della domanda di concordato preventivo poi ammessa.

Di particolare interesse, è poi - rivelandosi come la prima pronuncia adottata dalla S.C. sullo specifico argomento - Sez. 1, n. 20559/2015, Nazzicone, Rv. 637340, che ha escluso la proponibilità, innanzi al medesimo tribunale, del concordato cd. di gruppo, in assenza di una disciplina positiva che si occupi di regolarne la competenza, le forme del ricorso, la nomina degli organi, nonché la formazione delle classi e delle masse. Secondo questa decisione, pertanto, in base alla vigente normativa, il concordato preventivo può essere proposto unicamente da ciascuna delle società appartenenti al gruppo davanti al tribunale territorialmente competente per ogni singola procedura, senza possibilità di confusione delle masse attive e passive, e, quindi, approvato da maggioranze calcolate con riferimento alle posizioni debitorie di ogni singola impresa.

Sez. 1, n. 00495/2015, Didone, Rv. 633987, poi, intervenuta su una fattispecie - piuttosto frequente nella pratica - di reiterazione di proposte concordatarie, ha sancito che, in tema di concordato preventivo, l'ammissione alla procedura impedisce la proposizione di una ulteriore ed autonoma domanda di concordato rispetto a quella originaria, poiché, rispetto al medesimo imprenditore ed alla medesima insolvenza, il concordato non può che essere unico, sicché, a seguito della rinuncia alla prima domanda di concordato e della presentazione di una nuova proposta, il tribunale non è tenuto, a norma dell'art. 162 l.fall., a sentire il debitore prima di dichiarare l'inammissibilità di quest'ultima e contestualmente pronunciare, ove il P.M. ne abbia formulato la richiesta, l'eventuale fallimento del proponente.

Le finalità proprie di questa rassegna, da coniugarsi con intuibili ragioni di sintesi, impongono, infine, di rimarcare, tra le numerosissime pronunce aventi ad oggetto il concordato preventivo rese dalla S.C. nell'anno 2015, quanto meno: Sez. 2, n. 17606/2015, Abete, Rv. 636286, secondo cui, in caso di concordato preventivo con cessione dei beni ai creditori, il liquidatore ha legittimazione processuale nelle sole controversie relative a questioni liquidatorie e distributive, e non anche in quelle di accertamento delle ragioni di credito e pagamento dei relativi debiti, ancorché influenti sul riparto che segue le operazioni di liquidazione, atteso che, in queste ultime può, ove esperite nei confronti del debitore cedente, spiegare intervento senza essere litisconsorte necessario; Sez. 1, n. 17520/2015, Nappi, Rv. 636143, che ha sancito la inammissibilità del ricorso straordinario per cassazione avverso il decreto con il quale la corte di appello abbia revocato la sospensione di contratti bancari e di leasing concessa dal tribunale nell'ambito di un concordato con riserva, atteso che i provvedimenti di cui all'art. 169-bis l.fall., investendo istanze proponibili dal debitore sia prima che dopo il decreto di ammissione alla procedura concordataria, oltre che da lui reiterabili nel corso di quest'ultima, sono inidonei a produrre effetti di diritto sostanziale con efficacia di giudicato; Sez. 1, n. 16217/2015, Scaldaferri, Rv. 636502, a tenore della quale nel concordato preventivo, il tribunale, una volta accertato il mancato raggiungimento delle maggioranze di cui all'art. 177, comma 1, l.fall., può dichiarare l'inammissibilità della proposta a norma dell'art. 179, comma 1, l.fall., senza che sia a tal fine necessario il giudizio di omologazione; ed, infine, Sez. 1, n. 08575/2015, Mercolino, Rv. 635253, che, in tema di modifiche alla proposta di concordato preventivo, ha stabilito che l'art. 175, comma 2, l.fall. (aggiunto dall'art. 15 del d.lgs. n. 169 del 2007), nel riconoscere espressamente tale facoltà, ne ha rigorosamente limitato l'ambito temporale di esercizio alla fase anteriore all'inizio delle operazioni di voto, senza distinguere tra modifiche migliorative e peggiorative, al fine di evitare che il calcolo delle maggioranze si fondi su voti espressi in riferimento ad un piano diverso da quello destinato ad essere effettivamente eseguito. Né l'ammissibilità di modifiche successive all'approvazione può fondarsi sull'art. 179, comma 2, l.fall. (aggiunto dall'art. 33, comma 1, lett. d-ter), del d.l. n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 134 del 2012), il quale si rivolge ai creditori (e non al debitore) ed implica l'iniziativa del commissario giudiziale in relazione ad eventi estranei alla volontà del debitore e sopravvenuti all'approvazione del concordato, che hanno determinato un mutamento delle condizioni di fattibilità del piano, ed è quindi una norma non utilizzabile in relazione a carenze originarie della proposta. La medesima sentenza, peraltro, ha anche ritenuto (Rv. 635252) che la rinuncia da parte del debitore agli effetti favorevoli della decisione resa in sede di appello, con la quale è stato omologato il concordato preventivo da lui proposto, previa revoca del fallimento dichiarato in primo grado, non esclude la necessità che la S.C. si pronunci sui motivi di ricorso, non potendo rivivere la sentenza di primo grado, la cui efficacia è stata definitivamente assorbita dalla sentenza d'appello, e non essendovi spazio per una dichiarazione di cessazione della materia del contendere. Invero, la menzionata rinuncia si tradurrebbe, sostanzialmente, in una revoca della proposta di concordato, non più ammissibile una volta che gli effetti vincolanti del concordato preventivo, anche nei confronti dei creditori rimasti assenti o dissenzienti, siano stati tradotti in un provvedimento di omologazione.

Da ultimo, può essere utile ricordare anche Sez. 1, n. 24046/2015, Nappi, Rv. 637773, che ha affermato la compensabilità del credito per canoni di locazione maturati successivamente alla data di presentazione della domanda di ammissione al concordato preventivo con altro credito, purché i fatti genetici di entrambe le obbligazioni (e, per i canoni, dunque, il contratto di locazione) siano anteriori alla menzionata data.

5. Gli accordi di ristrutturazione dei debiti.

Non rinvenendosi significative pronunce della Suprema Corte sullo specifico argomento, è comunque opportuno evidenziare che il citato d.l. n. 83 del 2015 ha, di fatto, introdotto un nuovo particolare "accordo di ristrutturazione" dei debiti (art. 182-septies l.fall.) con effetti per banche e intermediari finanziari.

Qualora l'impresa in crisi abbia contratto debiti verso intermediari finanziari pari almeno al cinquanta per cento dell'indebitamento complessivo, può individuare per tali creditori finanziari categorie omogenee, all'interno delle quali l'approvazione del settantacinque per cento (del credito della categoria) rende efficace e vincolante l'accordo per tutti i membri del gruppo (fermo restando l'integrale pagamento dei creditori non-finanziari).

Sostanzialmente, l'introduzione dell'art. 182-septies l.fall. ha come fine quello di togliere a banche che vantino crediti di modesta entità il potere di interdizione in relazione ad accordi di ristrutturazione che vedano l'adesione delle banche creditrici maggiormente esposte.

Infatti, il debitore può ottenere dal tribunale che l'accordo raggiunto valga (cioè venga omologato) anche per i creditori finanziari non aderenti, se il giudice accerta che gli stessi sono stati informati delle trattative e che possono risultare soddisfatti in misura non inferiore rispetto alle alternative concretamente praticabili.

La portata della norma - sulle cui intenzioni il giudizio non può che essere positivo nell'ottica della soluzione della crisi d'impresa - andrà comunque valutata alla luce della sua concreta applicazione da parte dei tribunali in sede di omologa degli accordi.

Analoga disciplina nei confronti dei creditori non aderenti è prevista dall'art. 9 del d.l. in tema di "accordi di moratoria" (art. 182-septies l.fall.), che il debitore può stipulare con le banche.

Tale accordo, attestato da un professionista ex art. 67, comma 3, lettera d), l.fall., deve essere accettato da una maggioranza pari ad almeno il settantacinque per cento dei crediti finanziari e, a differenza di quello "di ristrutturazione", non sconta l'omologa. Pare, quindi, potersi dire che tale accordo di moratoria finisca per soppiantare il vecchio "Piano di risanamento" ex art. 67 l.fall.

6. L'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi.

Meritevole di interesse appare certamente Sez. U, n. 15200/2015, Travaglino, Rv. 635993, secondo cui, qualora, nell'ambito di una procedura di amministrazione straordinaria, sia invocata l'ammissione al passivo, contestata con opposizione ex art. 98 l.fall., di un credito il cui accertamento è già devoluto alla giurisdizione di un arbitro straniero, permane il potere del giudice concorsuale di ammettere il credito con riserva, considerandolo come condizionale rispetto all'esito del processo pendente dinanzi al giudice competente, senza che sussista, in tal caso, una questione di giurisdizione proponibile con lo strumento del regolamento ex art. 41, comma 1, c.p.c.

La medesima ordinanza, peraltro, ha anche affermato (Rv. 635994), più in generale, che in sede arbitrale non possono essere fatte valere ragioni di credito vantate verso una parte sottoposta a fallimento o ad amministrazione straordinaria, giacché l'effetto attributivo della cognizione agli arbitri, proprio del compromesso o della clausola compromissoria, è comunque paralizzato dal prevalente effetto, prodotto dal fallimento o dall'apertura della procedura di amministrazione straordinaria, dell'avocazione dei giudizi, aventi ad oggetto l'accertamento di un credito compreso nella procedura concorsuale, allo speciale ed inderogabile procedimento di verificazione dello stato passivo.

Sez. U, n. 23894/2015, Ragonesi, Rv, 637601 e Rv. 637602, poi, ha ritenuto: a) che, nella procedura de qua, le norme procedimentali che disciplinano la liquidazione dei beni tutelano i diritti soggettivi dei creditori accertati in sede di verifica dello stato passivo, ove successivamente non degradati ad interessi legittimi a fronte di valutazioni discrezionali delle autorità competenti circa la decisione di vendere i cespiti e la scelta degli acquirenti. Ne consegue che spettano alla cognizione del giudice ordinario le controversie riguardanti l'asserita violazione di quelle norme, giusta l'art. 65 del d.lgs. 8 luglio 1999, n. 270, altresì considerandosi che i beni da liquidarsi appartengono ad imprese private, sicché i contratti con cui se ne dispone, stipulati dai commissari per conto dell'impresa, sono regolati, a tutti gli effetti, dalla disciplina civilistica, non essendo equiparabili, né assimilabili, a quelli ad evidenza pubblica; b) la valutazione dei complessi aziendali oggetto di cessione si effettua alla stregua delle inderogabili disposizioni contenute negli artt. 62 e 63 del d.lgs. n. 270 del 1999, aventi carattere imperativo, precisandosi, inoltre, che l'art. 11, comma 3 quinquies, del d.l. 23 dicembre 2013, n. 145, conv., con modif., dalla l. 21 febbraio 2014, n. 9, di interpretazione autentica del menzionato art. 63, ha inteso chiarire che il prezzo di cessione dell'azienda non deriva dal suo valore di stima - rivelandosene, così, non decisiva l'eventuale sua erroneità - bensì da quello attribuito al bene dal mercato, determinato in ragione dell'interesse manifestato dai suoi potenziali acquirenti e dalle loro offerte di prezzo.

Riguardando aspetti squisitamente processuali, sono inoltre qui degne di nota almeno Sez. 6-1, n. 15796/2015, Cristiano, Rv. 636145, dalla quale si desume che la sentenza con cui, in primo grado, venga accertato (integralmente o parzialmente) ovvero rigettato un credito nei confronti di un imprenditore dichiarato insolvente e posto, successivamente alla pubblicazione della stessa, in amministrazione straordinaria, è opponibile alla procedura concorsuale, cosicché il commissario o, in caso di rigetto, il creditore che vuole ottenerne la riforma è tenuto ad appellarla nelle forme ordinarie, secondo la previsione dell'art. 96, comma 2, n. 3, l.fall. (nel testo novellato dal d.lgs. n. 5 del 2006 e dal d.lgs. n. 169 del 2007), applicabile all'amministrazione straordinaria in ragione del richiamo di cui all'art. 53 del d.lgs. n. 270 del 1999; Sez. 1, n. 05526/2015, Lamorgese, Rv. 634643, secondo cui la domanda di estensione della procedura di amministrazione straordinaria al gruppo di imprese di cui la società già ammessa alla procedura fa parte, contrariamente alla diversa ipotesi in cui la richiesta di ammissione alla procedura sia formulata per evitare la dichiarazione di fallimento, non comporta una valutazione con efficacia di giudicato in ordine alla sussistenza dei presupposti per l'applicazione della procedura ed è anzi liberamente riproponibile, sicché il decreto con cui la corte di appello respinga il reclamo avverso il rigetto della relativa domanda non ha carattere decisorio e definitivo e non è impugnabile con il ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost.; ed, infine, Sez. 1, n. 04481/2015, Mercolino, Rv. 634547, che, intervenuta sul procedimento di opposizione all'esclusione dallo stato passivo nella procedura di amministrazione straordinaria, ha opportunamente chiarito che ad esso è applicabile il termine abbreviato previsto per la proposizione dell'appello dall'art. 99, comma 5, l.fall., atteso che l'art. 1, comma 6, della legge 3 aprile 1979, n. 95, richiama la disciplina della liquidazione coatta amministrativa delineata dagli art. 195 e ss. l.fall., comprensivi dell'art. 209, il quale, a sua volta, richiama tutte le norme dall'art. 98 all'art. 103 l.fall., e, quindi, anche quella contenuta nel comma 5 dell'art. 99, e che le esigenze di accelerazione della procedura, che costituiscono la ragione dell'abbreviazione del termine, non sono estranee ai principi strutturali ed alle linee direttive della liquidazione coatta amministrativa e dell'amministrazione straordinaria.

7. La liquidazione coatta amministrativa.

Numericamente esigue sono state le pronunce della S.C., nell'anno in rassegna, che hanno riguardato la procedura di liquidazione coatta amministrativa.

Tra esse, va certamente segnalata Sez. U, n. 06060/2015, Bernabai, Rv. 634846, la quale, muovendo dall'assunto che nella predetta procedura, la partecipazione del creditore al procedimento di formazione dello stato passivo, attraverso la formulazione di domande ai sensi dell'art. 208 l.fall. ovvero di osservazioni o istanze ex art. 207 l.fall., è solo eventuale ma, ove esperita, comporta l'obbligo del commissario liquidatore di provvedere su di esse, ha poi affermato che il silenzio mantenuto dal commissario liquidatore in ordine alle richieste formulate dal creditore ed il mancato inserimento del credito nell'elenco previsto dall'art. 209, comma 1, l.fall. assume valore implicito di rigetto, contro il quale, per evitare il formarsi di una preclusione, il creditore deve proporre opposizione allo stato passivo ai sensi dell'art. 98 l.fall., mentre, ove sia mancata ogni specifica domanda od osservazione alla comunicazione del commissario liquidatore, resta proponibile la domanda tardiva del credito che non sia stato inserito nel suddetto elenco.

Interessante, infine, appare anche Sez. 1, n. 03338/2015, Didone, Rv. 634900, in cui si è precisato che l'art. 95, comma 3, l.fall. - nel testo anteriore alla sostituzione disposta dall'art. 80 del d.lgs. n. 5 del 2006 -, applicabile anche alla liquidazione coatta amministrativa, va interpretato estensivamente nel senso che la norma opera anche nell'ipotesi in cui il fallimento (o la liquidazione coatta amministrativa) sopravvenga alla sentenza di rigetto, anche solo parziale, della domanda proposta da un creditore, il quale, onde evitarne il passaggio in giudicato, è tenuto ad impugnarla, risultando tale soluzione coerente con il principio della ragionevole durata del processo. Ne consegue che la sentenza di accertamento del credito, eventualmente emessa in riforma di quella di primo grado, spiega efficacia nei confronti della procedura, allo stesso modo di quella di rigetto dell'impugnazione proposta o proseguita dal curatore in caso di accoglimento della domanda in primo grado.

  • spese processuali
  • patrocinio gratuito
  • giurisdizione tributaria
  • diritto di agire in giudizio
  • diritto tributario
  • prova

CAPITOLO XLIV

IL PROCESSO TRIBUTARIO

(di Andrea Venegoni, Giuseppe Nicastro )

Sommario

1 La giurisdizione tributaria. - 2 La struttura impugnatoria del processo: la cognizione incidentale del giudice tributario e l'irrilevabilità d'ufficio della nullità dell'atto tributario. - 3 Le parti e la loro rappresentanza e assistenza in giudizio. - 3.1 La legittimazione processuale. - 3.2 La rappresentanza in giudizio. - 3.3 L'assistenza tecnica. - 3.4 Il litisconsorzio. - 3.5 Le spese del giudizio. - 4 Il procedimento dinanzi alla commissione tributaria provinciale. - 4.1 Gli atti impugnabili e l'oggetto del ricorso. - 4.2 Il ricorso. - 4.2.a Il termine. - 4.2.b La rimessione nel termine. - 4.3 La costituzione in giudizio del ricorrente. - 4.4 La costituzione in giudizio della parte resistente. - 4.5 Il deposito di atti e documenti. - 4.6 L'avviso di trattazione della controversia. - 4.7 L'istruzione probatoria. - 4.7.a L'onere della prova. - 4.7.b Il dovere dell'amministrazione finanziaria di esibire i documenti in suo possesso. - 4.7.c I documenti redatti in lingua straniera. - 4.7.d Le dichiarazioni extraprocessuali rese dal terzo. - 4.7.e Il valore probatorio delle perizie di parte e, in particolare, della relazione di stima redatta dall'UTE. - 4.7.f L'efficacia della sentenza penale irrevocabile. - 4.7.g I poteri istruttori officiosi del giudice tributario. - 4.7.h Le prove escluse dalle singole leggi d'imposta. - 4.8 La sospensione, l'interruzione e l'estinzione del processo. - 4.8.a La sospensione del processo. - 4.8.b L'interruzione del processo. - 4.8.c L'estinzione del processo. - 4.9 La deliberazione della decisione. - 4.10 La decisione. - 5 Le impugnazioni. - 5.1 Il giudizio di appello. - 5.1.a La proposizione. - 5.1.b La legittimazione ad appellare, la capacità a stare in giudizio e la partecipazione dell'Agenzia delle Entrate. - 5.1.c Litisconsorzio. - 5.1.d Tempestività dell'impugnazione. - 5.1.e Comunicazioni alle parti. - 5.1.f Svolgimento del giudizio. - 5.1.g Istruttoria. - 5.1.h La deliberazione e la sentenza. - 5.1.i L'estinzione. - 5.2 Il giudizio di cassazione. - 5.2.a La proposizione. - 5.2.b I motivi di ricorso. - 5.2.c I requisiti del ricorso: il principio di autosufficienza. - 5.2.d La fase istruttoria. - 5.2.e La decisione. - 5.2.f L'estinzione per rinuncia. - 5.2.g Il giudizio di rinvio. - 5.3 La revocazione. - 6 Il giudicato. - 7 La conciliazione. - 8 Il giudizio di ottemperanza. - 9 Il patrocinio a spese dello Stato nel processo tributario.

1. La giurisdizione tributaria.

Nel corso del 2015 la Corte ha continuato, come negli anni precedenti, ad affrontare questioni attinenti ai limiti della giurisdizione tributaria rispetto a quella ordinaria o a giurisdizioni specializzate.

In particolare, Sez. U, n. 15201/2015, Di Iasi, Rv. 635996, si sono occupate del problema della giurisdizione sulle controversie attinenti al classamento delle unità immobiliari e all'attribuzione della rendita catastale allorché la rendita o il classamento siano impugnati dall'amministrazione comunale e non dal contribuente. La questione deriva dal fatto che la lettera dell'art. 2, comma 2, del d. lgs. 31 dicembre 1992 n. 546, nel riferirsi alla sussistenza della giurisdizione tributaria, menziona i soli casi in cui tali controversie siano promosse dai singoli possessori. La Corte ha, però, ritenuto che, in base ad una interpretazione costituzionalmente orientata, tale inciso non possa condizionare i limiti della giurisdizione tributaria sulla sola base del profilo soggettivo del ricorrente e, superando la mera espressione letterale, ha ritenuto che lo spirito della norma sia tale per cui rientrano nella giurisdizione tributaria anche le controversie iniziate dall'amministrazione.

Sez. U, n. 14554/2015, Di Blasi, Rv. 635781, si sono, invece, occupate della giurisdizione sulle controversie sulle somme liquidate dalle commissioni tributarie a titolo di spese processuali, riconoscendo la giurisdizione tributaria atteso che la stessa comprende non solo le controversie relative ai tributi, di ogni genere e specie, ma anche quelle relative ad ogni accessorio degli stessi.

In materia di provvedimento di iscrizione di ipoteca su immobili ai fini della riscossione delle imposte sui redditi, poi, Sez. U, n. 00641/2015, Greco, Rv. 633758, hanno stabilito che le relative controversie rientrano nella giurisdizione tributaria in ragione della natura, per l'appunto fiscale, dei crediti garantiti dall'ipoteca, senza che possa avere rilievo la destinazione dei beni a fondo patrimoniale.

In un altro caso, ancora, Sez. T, n. 19609/2015, Marulli, Rv. 636547, ha ritenuto che la polizza fideiussoria per consentire al contribuente il rimborso delle eccedenze IVA, la cui stipula garantisce il contribuente, cioè le società di assicurazione, dall'obbligo di versare le somme richieste dall'Ufficio IVA, ha natura di contratto autonomo di garanzia, cosicché la controversia relativa alla sola operatività della garanzia, senza riferimento al debito tributario del contribuente, appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario.

È stata, invece, ritenuta appartenere alla giurisdizione tributaria la controversia relativa alla richiesta di pagamento della tariffa annua forfettaria per il finanziamento dei controlli sanitari ufficiali. In conformità ad un precedente delle Sezioni Unite del 2014 (Sez. U, n. 13431/2014, D'Ascola, Rv. 631300), infatti, Sez. 6-T, n. 00134/2015, Cosentino, Rv. 633912, ha rilevato la natura tributaria della prestazione, attesa la doverosità della stessa ed il diretto collegamento alla pubblica spesa.

Un'altra questione affrontata riguarda la giurisdizione in tema di sovracanoni di pompaggio di acqua pubblica, per esempio da bacini fluviali per uso industriale, dovuti agli enti locali. Al riguardo, la stessa è stata rimessa al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite ai fini dell'individuazione del giudice munito di giurisdizione su tali controversie, e cioè il giudice tributario o il giudice ordinario oppure il Tribunale delle Acque Pubbliche (Sez. T, n. 18384/2015, Napolitano).

Infine, Sez. U, n. 23114/2015, Virgilio, Rv. 637137, hanno ritenuto rientrare nella giurisdizione tributaria le controversie riguardanti la debenza della tariffa di igiene ambientale (TIA), in quanto tale tariffa non costituisce un'entrata patrimoniale di diritto privato, ma una mera variante della TARSU, di cui conserva la qualifica di tributo.

Quanto agli effetti di una pronuncia sulla giurisdizione, Sez. T, n. 10323/2015, Di Blasi, Rv. 635456, ha affermato che, in caso di sentenza declinatoria della giurisdizione emessa dal giudice tributario, opera il principio della translatio iudicii per la necessità di assicurare l'interesse superiore e costituzionalmente rilevante della continuazione del procedimento, anche se la decisione, in quanto emessa da giudice di merito, non produce effetti vincolanti nei confronti del giudice di cui è stata affermata la giurisdizione. In caso di conflitto negativo di giurisdizione, sarà comunque possibile per le parti adire la Corte di Cassazione ed ottenere così una pronuncia vincolante sul punto.

Ove, proprio a seguito di translatio iudicii, la commissione tributaria decida sull'istanza di sospensione del provvedimento impugnato, ex art. 47 del d.lgs. n. 546 del 1992, prima dell'udienza (o della camera di consiglio) di trattazione della controversia, Sez. U, n. 23113/2015, Virgilio, Rv. 637138, hanno precisato che ciò non è ostativo al promovimento, da parte della stessa, del regolamento di giurisdizione di ufficio, poiché l'art. 59, comma 3, della legge n. 69 del 2009 individua quale termine invalicabile per sollevarlo quello della prima udienza fissata per la trattazione del merito, mentre l'opposta conclusione vanificherebbe la garanzia costituzionale della tutela cautelare, nella quale è insita l'urgenza di provvedere.

Da notare, infine, che, secondo Sez. 6-T, n. 10520/2015, Cosentino, Rv. 635457, l'erronea indicazione da parte del ricorrente dell'organo giurisdizionale, derivante dal contenuto dello stesso atto impugnato che, in sostanza, ha fornito una informazione errata sul punto, può giustificare la rimessione in termini del contribuente, atteso che l'errore è stato generato da una condotta dell'amministrazione, ma non incide sul riparto di giurisdizione.

2. La struttura impugnatoria del processo: la cognizione incidentale del giudice tributario e l'irrilevabilità d'ufficio della nullità dell'atto tributario.

Investono gli stessi assetti di fondo del processo tributario Sez. U, n. 00643/2015, Cappabianca, Rv. 634059 e Sez. U, n. 00644, Cappabianca, Rv. 634150, le quali hanno chiarito che, a parte quella vertente su atti regolamentari o generali, la cognizione incidentale del giudice tributario è circoscritta alle sole questioni appartenenti alla giurisdizione di altro giudice. Ciò per la ragione sistematica della struttura impugnatoria del processo tributario, che trova rispondenza negli artt. 2, comma 3, 7, comma 5, e 19, comma 3, secondo e terzo periodo, del d.lgs. n. 546 del 1992, di tal ché non può essere disapplicato un atto a contenuto concreto che sia autonomamente impugnabile dinanzi alle commissioni tributarie ma che non sia stato oggetto di diretta e autonoma impugnazione (la Corte ha affermato il principio d'ufficio, ai sensi dell'art. 363, comma 3, c.p.c.).

Sempre sul fondamento della struttura impugnatoria del processo tributario, Sez. T, n. 22810/2015, Terrusi, RV 637348, ha affermato che le forme di invalidità dell'atto tributario, ove anche indicate dal legislatore sotto il nomen di nullità, si convertono in mezzi di gravame e non sono rilevabili d'ufficio dal giudice, né possono essere fatte valere per la prima volta in cassazione. Per tale ragione, la Corte ha dichiarato l'inammissibilità del motivo di ricorso per cassazione con il quale il contribuente aveva dedotto la nullità dell'avviso di accertamento, per violazione dell'art. 42, comma 3, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, in quanto sottoscritto da un funzionario delegato da un soggetto che, in conseguenza della sentenza della Corte costituzionale n. 37 del 2015, era carente di potere, atteso che detta nullità non era stata eccepita quale motivo di ricorso avverso l'avviso di accertamento e che ogni indagine sulla stessa era, perciò, ormai preclusa.

Da menzionare infine, in questa sede, Sez. 6-T, n. 23875/2015, Crucitti, Rv. 637511, secondo cui, allorché il contribuente eccepisca in primo grado la nullità dell'iscrizione di ipoteca per violazione dell'art. 50 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, tale doglianza, ancorché fondata su una norma non applicabile alla fattispecie, va comunque qualificata quale deduzione della violazione dei principi che impongono, anche in materia di iscrizione ipotecaria, il rispetto del contraddittorio endoprocedimentale, atteso che il giudice è tenuto a dare adeguata qualificazione giuridica alle tesi del contribuente, ciò che non costituisce rilievo d'ufficio di un'eccezione non proposta.

3. Le parti e la loro rappresentanza e assistenza in giudizio.

3.1. La legittimazione processuale.

Con riguardo alla legittimazione attiva, la Corte ha affermato l'improponibilità dell'impugnazione in primo grado introdotta da un'associazione non riconosciuta già estinta al momento della proposizione del ricorso, statuendo, altresì, la rilevabilità d'ufficio della questione relativa all'inesistenza del ricorrente (Sez. T, n. 20252/2015, Bielli, Rv. 636861).

Sempre in tema di legittimazione ad agire, merita menzione anche Sez. T, n. 08206/2015, Ferro, Rv. 635470, la quale, dopo avere premesso che l'autorizzazione del procuratore della Repubblica all'accesso domiciliare, prevista dall'art. 52 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (richiamato, per le imposte dirette, dall'art. 33 del d.P.R. n. 600 del 1973), legittima solo lo specifico accesso autorizzato e non quello al domicilio di una persona fisica diversa dal contribuente, ha precisato che il decreto autorizzativo del pubblico ministero è impugnabile sia da tale persona fisica che abbia subito l'accesso (davanti al giudice ordinario), sia dal contribuente nei cui confronti è in atto l'accertamento fiscale (in sede di impugnazione del provvedimento che conclude il relativo iter, se adottato, o, in caso contrario, davanti allo stesso giudice ordinario).

Da segnalare, ancora, Sez. 6-T, n. 21765/2015, Caracciolo, Rv. 637011, secondo cui la perdita della capacità processuale del contribuente fallito, che abbia proposto ricorso avverso un diniego di rimborso, è rilevabile d'ufficio solo qualora l'amministrazione finanziaria abbia dimostrato l'interesse della curatela per il rapporto dedotto in giudizio, atteso che solo in tale ipotesi il difetto di legittimazione processuale del fallito assume carattere assoluto.

Infine, Sez. T, n. 23553/2015, Federico, Rv. 637429, ha riconosciuto la legittimazione della moglie codichiarante - in caso di dichiarazione congiunta dei redditi da parte dei coniugi - a impugnare autonomamente l'avviso di accertamento notificato al marito, ancorché divenuto definitivo nei confronti di questi, o, comunque, a contestare la pretesa tributaria su di esso fondata, proponendo ricorso avverso la cartella di pagamento o l'avviso di mora a lei diretti.

Con riguardo alla legittimazione passiva, vanno segnalate due pronunce concernenti la complessa questione dell'identificazione del convenuto nei casi di impugnazione di atti del concessionario della riscossione.

Con la prima di tali pronunce (Sez. 6-T, n. 00097/2015, Perrino, Rv. 634119), relativa, in particolare, all'impugnazione di un'iscrizione ipotecaria conseguente ad una cartella di pagamento, la Corte ha precisato che la contestazione della pretesa tributaria, attuata mediante la detta impugnazione, può essere effettuata direttamente nei confronti dell'ente creditore e che, in tale caso, il concessionario è vincolato alla decisione della commissione tributaria in quanto adiectus solutionis causa. Se la medesima azione è invece proposta nei confronti del concessionario, quest'ultimo, per evitare di rispondere dell'esito eventualmente sfavorevole della lite, ha l'onere di chiamare in causa l'ente creditore - non ricorrendo un'ipotesi di litisconsorzio necessario - senza che l'erronea individuazione del legittimato passivo determini l'inammissibilità del ricorso.

Con la seconda pronuncia (Sez. T, n. 08370/2015, Valitutti, Rv. 635173), concernente, in specie, l'impugnazione del silenzio rifiuto su un'istanza di rimborso del contribuente, la Corte ha invece chiarito che il concessionario del servizio di riscossione è parte nel processo dinanzi alle commissioni tributarie, ai sensi dell'art. 10 del d.lgs. n. 546 del 1992, quando la controversia ha ad oggetto l'impugnazione di atti (ai quali va equiparato il menzionato rifiuto tacito) per vizi derivanti da errori ad esso direttamente imputabili. In tali casi, l'amministrazione finanziaria è invece priva di legittimazione passiva, con la conseguenza che il ricorso proposto esclusivamente nei confronti della stessa è inammissibile, non essendo configurabile un'ipotesi di litisconsorzio necessario e non potendosi, perciò, disporre successivamente l'integrazione del contraddittorio nei confronti del concessionario.

Sulla scorta di tali pronunce, sembra quindi doversi ritenere che, nel caso di impugnazione di atti del concessionario del servizio di riscossione (e, oggi dell'agente della riscossione), quando il contribuente contesti la stessa pretesa tributaria, l'errata individuazione del legittimato passivo nel concessionario non determina l'inammissibilità del ricorso, potendo comportare solo l'eventuale chiamata in causa dell'ente da parte del concessionario (in tale senso, Sez. U, n. 16412/2007, Botta, richiamata anche dalla citata Sez. 6-T, n. 00097/2015); quando il contribuente faccia invece valere vizi propri degli atti, l'errata individuazione del legittimato passivo nell'amministrazione finanziaria comporta, invece, l'inammissibilità del ricorso.

Sul piano delle novità normative in materia, va segnalato che l'art. 9, comma 1, lett. c), del d.lgs. n. 156 del 2015, ha sostituito l'art. 10 del d.lgs. n. 546 del 1992. Il nuovo testo di tale disposizione, eliminando dizioni ormai superate, ha individuato le parti del processo tributario, oltre che nel contribuente, negli uffici delle agenzie fiscali, negli altri enti impositori, nell'agente della riscossione e anche nei soggetti privati abilitati a effettuare attività di liquidazione e di accertamento dei tributi, di riscossione dei tributi e di altre entrate delle province e dei comuni, di cui all'art. 53 del d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, i quali abbiano emesso l'atto impugnato o non emesso l'atto richiesto. La novella ha inoltre previsto che, qualora l'ufficio dell'Agenzia delle entrate abbia una competenza diffusa su tutto o su parte del territorio nazionale, è parte nel processo <<l'ufficio al quale spettano le attribuzioni sul rapporto controverso>>; in tale ipotesi, in sostanza, la legittimazione processuale è quindi in capo non all'ufficio delle entrate che ha adottato l'atto, bensì all'ufficio competente in base al generale criterio del domicilio fiscale del contribuente.

3.2. La rappresentanza in giudizio.

La Corte si è occupata dell'argomento con riguardo, anzitutto, alla rappresentanza dell'ente locale, precisando che il <<dirigente dell'ufficio tributi>>, mediante il quale l'ente locale nei cui confronti è proposto il ricorso può stare in giudizio, anche in grado di appello, a norma del comma 3 dell'art. 11 del d.lgs. n. 546 del 1992, deve intendersi come il dirigente responsabile dell'ufficio dello specifico tributo oggetto della lite (Sez. T, n. 19445/2015, Bruschetta, Rv. 636546).

Quanto alla rappresentanza dell'ufficio periferico dell'Agenzia delle entrate, Sez. T, n. 20648/2015, Federico, Rv. 636898, ha chiarito che quest'ultimo è rappresentato in giudizio dal titolare dell'organo che, qualora non intenda trasferire il potere di rappresentanza processuale a un altro funzionario, può demandare, nell'esercizio dei propri poteri di organizzazione e di gestione delle risorse umane, la sola sottoscrizione materiale dell'atto difensivo ad un delegato alla firma, mero sostituto nell'esecuzione dell'adempimento. Ne consegue che, qualora l'atto difensivo sia stato sottoscritto da tale sostituto con la chiara indicazione della propria qualità (ad esempio, con la formula <<per il dirigente>>), l'ufficio periferico si deve presumere costituito ritualmente in giudizio a mezzo del dirigente legittimato processualmente, senza che sia sufficiente la mera contestazione per fare sorgere l'onere dell'amministrazione finanziaria di fornire la prova dell'atto interno di organizzazione adottato dal dirigente.

Deve qui inoltre farsi cenno alle modifiche apportate all'art. 11 del d.lgs. n. 546 del 1992 dall'art. 9, comma 1, lett. d), del d.lgs. n. 156 del 2015. Con tali modificazioni, si è anzitutto estesa la capacità di stare in giudizio direttamente all'ufficio dell'agente della riscossione (al pari degli uffici delle agenzie fiscali). Inoltre, la legittimazione processuale e la difesa diretta delle cancellerie e delle segreterie degli uffici giudiziari, limitatamente al contenzioso in materia di contributo unificato, è stata prevista non più solo per il giudizio di primo grado ma anche per quello davanti alle commissioni tributarie regionali.

3.3. L'assistenza tecnica.

In conformità con Sez. T, n. 13156/2014, Cirillo, Rv. 631168, Sez. T, n. 18377/2015, Olivieri, Rv. 636552, premesso che, secondo l'art. 72 del d.lgs. 30 luglio 1999, n. 300, le agenzie fiscali possono avvalersi, per la loro rappresentanza in giudizio, del patrocinio dell'avvocatura dello Stato, ai sensi dell'art. 43 del testo unico delle leggi e delle norme giuridiche sulla rappresentanza e difesa in giudizio dello Stato e sull'ordinamento dell'avvocatura dello Stato, approvato con il r.d. 30 ottobre 1933, n. 1611, ha statuito che, a tale fine, non occorre un mandato alle liti o una procura speciale, atteso che i rapporti tra Direttore dell'agenzia e Avvocatura dello Stato restano in ambito meramente interno.

Deve rammentarsi in questa sede che l'art. 9, comma 1, lett. e), del d.lgs. n. 546 del 1992, ha sostituito l'art. 12 del d.lgs. n. 546 del 1992, che disciplina, appunto, l'assistenza tecnica dinanzi alle commissioni tributarie. Le modificazioni più significative rispetto al testo precedente sono: a) l'innalzamento da euro 2.582,28 a euro 3.000,00 della soglia di valore delle controversie in relazione alle quali il contribuente può stare in giudizio anche personalmente (nuovo comma 2); b) l'inserimento, tra i soggetti abilitati all'assistenza tecnica, dei dipendenti dei centri di assistenza fiscale (CAF), limitatamente alle controversie dei propri assistiti che scaturiscono da adempimenti per i quali gli stessi CAF avevano prestato assistenza, sempreché i detti dipendenti siano in possesso dei requisiti di professionalità del diploma di laurea magistrale in giurisprudenza o in economia (od equipollenti) o del diploma di ragioneria e della relativa abilitazione professionale (nuovo comma 3, lett. h); c) l'accentramento in capo al Dipartimento delle finanze del Ministero dell'economia e delle finanze della gestione dell'elenco dei soggetti abilitati all'assistenza tecnica menzionati al comma 3, lett. d), e), f), g) e h), dello stesso art. 12 (competenza sinora ripartita tra il detto Ministero e l'Agenzia delle entrate) e la previsione che lo stesso elenco sia pubblicato sul sito internet del Ministero (nuovo comma 4); d) il rinvio, ai fini della disciplina delle ipotesi di difetto di rappresentanza o di autorizzazione, all'art. 182 c.p.c., con la previsione che l'invito alla regolarizzazione, entro un termine perentorio, degli atti e dei documenti difettosi, possa essere rivolto alle parti, indifferentemente - nel chiaro intento di anticipare quanto più possibile la regolarizzazione del vizio - dal presidente della commissione o della sezione o dal collegio (ne segue che, in conformità a quanto già più volte statuito dalla Corte - da ultimo, con riguardo al processo tributario, Sez. T, n. 15029/2014, Meloni, Rv. 631544 - l'inammissibilità del ricorso potrà essere dichiarata dal giudice solo in esito all'inottemperanza della parte all'invito a provvedere alla regolarizzazione; nuovo comma 10). Da notare, infine, che il comma 3 dell'art. 18 del d.lgs. n. 546 del 1992, come sostituito dall'art. 9, comma 1, lett. m), del d.lgs. n. 156 del 2015, ha introdotto l'obbligo dei difensori di indicare nel ricorso la categoria di appartenenza.

3.4. Il litisconsorzio.

In tema litisconsorzio necessario, di particolare rilievo sono i principi affermati da Sez. 6-T, n. 02094/2015, Perrino, Rv. 634405. Tale pronuncia ha anzitutto chiarito che l'accertamento di un maggior imponibile IVA a carico di una società di persone, se autonomamente operato, non determina, in caso di impugnazione dello stesso, l'instaurazione di un litisconsorzio necessario nei confronti dei soci, attesa l'assenza - in difetto di un meccanismo analogo a quello previsto dagli artt. 40, secondo comma, del d.P.R. n. 600 del 1973, e 5 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 - di un accertamento unitario e dell'automatica imputazione dei redditi della società ai soci in proporzione alla loro partecipazione agli utili, con connessa comunanza della base imponibile tra i tributi a carico, rispettivamente, della società e dei soci. La stessa pronuncia ha ulteriormente precisato che, tuttavia, qualora l'Agenzia delle entrate abbia proceduto, con un unico atto, anche ad accertamenti di imposte dirette ed IRAP a carico della società di persone, fondati su elementi comuni, il profilo dell'accertamento impugnato che concerne l'imponibile IVA, che non sia suscettibile di autonoma definizione in funzione di aspetti ad esso specifici, non si sottrae, data l'inscindibilità delle due situazioni, al vincolo necessario del simultaneus processus. In senso sostanzialmente analogo si è successivamente espressa Sez. T., n. 21340/2015, Greco, Rv. 636904, con riguardo ad una fattispecie in cui l'Agenzia delle entrate aveva proceduto ad accertamenti contestuali di IVA ed ILOR, fondati su elementi comuni, con distinti atti impositivi.

Con riguardo al rapporto tra i giudizi instaurati, rispettivamente, da una società di persone e dai suoi soci, vanno menzionate due pronunce.

Sez. T, n. 21762/2015, Caracciolo, Rv. 637062, ha chiarito che la definitività dell'autonomo avviso di accertamento emesso ai fini dell'IRPEF nei confronti del socio in conseguenza dei maggiori ricavi accertati in capo alla società, ne comporta l'intangibilità ed esclude perciò che il socio, in sede di impugnazione della conseguente cartella di pagamento, possa invocare le vicende dell'atto impositivo riferito alla società (nella specie, la definizione agevolata della pretesa tributaria scaturita dall'istanza di accertamento con adesione autonomamente proposta dalla società al fine di ottenere la rideterminazione della pretesa tributaria a proprio carico).

Sez. T, n. 21960/2015, Virgilio, Rv. 637199, ha affermato che il socio di una società di persone non ha interesse a fare valere il vizio di notifica dell'atto impositivo emesso, a titolo di ILOR, nei confronti della società, nel giudizio avente a oggetto l'avviso di accertamento o la cartella di pagamento emessi nei suoi confronti, a titolo di IRPEF, per il maggior reddito da partecipazione e che il motivo di ricorso, al riguardo formulato, è inammissibile. Ciò in quanto il giudicato favorevole formatosi a favore della società di persone e fondato su un vizio di notifica (o su altra causa non rapportabile ai soci) non si estende a questi ultimi.

Da segnalare, Sez. 6-T, n. 24472/2015, Caracciolo, Rv. 637559, che ha affermato la configurabilità del litisconsorzio necessario tra la società a responsabilità limitata a ristretta base societaria e i soci che abbiano optato per la trasparenza fiscale ai sensi del combinato disposto degli artt. 115 e 116 del d.P.R. n. 917 del 1986, quando la prima impugni l'avviso di accertamento relativo al reddito sociale e/o i secondi impugnino l'avviso di accertamento del proprio reddito di partecipazione. Ciò in quanto il detto combinato disposto genera, similmente a quanto si determina per effetto dell'art. 5 dello stesso decreto, l'imputazione diretta a ciascun socio del reddito imponibile della società, indipendentemente dall'effettiva percezione e proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili, di tal ché si ripropone, anche nel caso di opzione per la trasparenza fiscale, il presupposto obiettivo che è a fondamento del principio di diritto affermato da Sez. U, n. 14815/2008, Merone, Rv. 603330, a proposito della produzione dei redditi in forma associata, a norma del citato art. 5 del d.P.R. n. 917 del 1986.

Vanno poi segnalate due pronunce che hanno fatto applicazione del generale principio in base al quale la solidarietà passiva non integra, neppure nel processo tributario, una fattispecie necessariamente litisconsortile.

In conformità con tale principio, una prima pronuncia ha escluso che la solidarietà passiva tra i soggetti obbligati al pagamento delle imposte ipotecaria e catastale, prevista dall'art. 11, comma 2, del d.P.R. 31 ottobre 1990, n. 347, costituisca presupposto del litisconsorzio necessario, che non trova, pertanto, applicazione con riguardo alle posizioni del venditore e dell'acquirente di un immobile nelle controversie relative alle dette imposte, pretese dall'amministrazione finanziaria sull'atto di trasferimento di un immobile (Sez. 6-T, n. 15958/2015, Cosentino, Rv. 636111; la pronuncia richiama, nello stesso senso, Sez. T, n. 24063/2011, Botta, Rv. 620274, e Sez. T, n. 24098/2014, Chindemi, Rv. 633091, entrambe in tema di imposta di registro).

La seconda pronuncia (Sez. T, n. 18361/2015, Greco, Rv. 636556) ha anzitutto chiarito che, nei giudizi promossi dai contribuenti e aventi ad oggetto la legittimità della ritenuta fiscale operata dal comune (e, in genere, dall'ente erogante) sull'indennità di esproprio o sulla somma corrisposta per la cessione bonaria di un terreno, l'ente locale è soltanto sostituto d'imposta e, quindi, obbligato in solido in un rapporto impositivo che fa capo, come ente impositore, all'amministrazione finanziaria dello Stato. Sulla base di tale premessa, la Corte, in coerenza col principio sopra menzionato, ha affermato che lo stesso ente locale, in quanto obbligato in solido, non è un litisconsorte necessario nel giudizio e che non vi è, perciò, alcun obbligo del giudice di disporre l'integrazione del contraddittorio nei suoi confronti. Da notare che, con riguardo ad un'analoga controversia, era stato espresso opposto avviso da Sez. T, n. 21733/2005, Monaci, Rv. 584952, la quale aveva invece affermato la sussistenza di un litisconsorzio necessario, di carattere sostanziale e non meramente processuale, tra l'ente locale sostituto d'imposta, il contribuente sostituito e l'amministrazione finanziaria.

Come si è visto al par. 3.1 a proposito della legittimazione processuale passiva nel caso di impugnazione di atti del concessionario del servizio di riscossione, la Corte ha escluso sia che, nel caso di azione proposta nei confronti del concessionario per la contestazione della pretesa tributaria, l'ente creditore sia litisconsorte necessario insieme al concessionario (Sez. 6-T, n. 00097/2015, Perrino, Rv. 634119) - sul quale grava, invece, l'onere di chiamare in causa lo stesso ente - sia che, nel caso di azione proposta nei confronti dell'amministrazione finanziaria e diretta a fare valere vizi propri dell'atto, il concessionario sia litisconsorte necessario insieme all'amministrazione (Sez. T, n. 08370/2015, Valitutti, Rv. 635173).

Con riguardo al litisconsorzio facoltativo e, in particolare, agli aspetti procedurali della chiamata in giudizio di un terzo, Sez. 6-T, n. 01112/2015, Perrino, Rv. 634031, ha statuito che, come nel processo civile, anche in quello tributario, al di fuori delle ipotesi di litisconsorzio necessario, la fissazione di una nuova udienza per consentire la citazione del terzo, tempestivamente chiesta dal convenuto, è discrezionale, con la conseguenza che il giudice, per esigenze di economia processuale e di ragionevole durata del processo, può rifiutare di fissare una nuova prima udienza per la costituzione del terzo.

3.5. Le spese del giudizio.

Oltre a richiamare la già citata (al par. 1) Sez. U, n. 14554/2015, Di Blasi, Rv. 635781 - che ha affermato la giurisdizione tributaria sulle controversie concernenti le spese processuali del giudizio tributario - va menzionata Sez. 6-T, n. 22793/2015, Cigna, Rv. 637203, secondo cui, in virtù del rinvio operato dall'art. 15, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992, nel processo tributario, ai procedimenti instaurati dopo il 1° marzo 2006, si applica l'art. 92, secondo comma, c.p.c., nella versione novellata dall'art. 2, comma 2, lett. a), della legge 28 dicembre 2005, n. 263, di tal ché la compensazione delle spese richiede il ricorrere di <<altri giusti motivi, esplicitamente indicati in motivazione>>, i quali non possono essere desunti dal complesso della sentenza, pena la sua cassazione sul punto.

È inoltre utile dare qui sinteticamente conto delle novità introdotte nella disciplina delle spese del giudizio dal d.lgs. n. 156 del 2015.

Le modifiche, apportate all'art. 15 del d.lgs. n. 546 del 1992 e tutte dichiaratamente rivolte a <<rafforzare il principio in base al quale le spese del giudizio tributario seguono la soccombenza>> (così la relazione illustrativa al decreto), sono consistite, principalmente, nel prevedere che: a) la spese possono essere compensate soltanto in caso di soccombenza reciproca o qualora sussistano gravi ed eccezionali ragioni, che devono essere espressamente motivate (nuovo comma 2); b) si applicano, in materia, le disposizioni dei commi primo e terzo dell'art. 96 c.p.c. in tema di responsabilità aggravata (nuovo comma 2-bis); c) le spese di giudizio comprendono, oltre al contributo unificato, gli onorari e i diritti del difensore, le spese generali e gli esborsi sostenuti, oltre al contributo previdenziale e all'imposta sul valore aggiunto, se dovuti (nuovo comma 2-ter); d) la statuizione sulle spese deve essere adottata anche nell'ordinanza con la quale il giudice tributario decide sulle istanze cautelari (quanto alle spese della relativa fase) e tale pronuncia sulle spese conserva efficacia anche dopo la sentenza che definisce il merito del giudizio, salvo diversa statuizione contenuta in quest'ultima (la disposizione, dettata all'evidente scopo di evitare l'abuso delle richieste di tutela cautelare, è contenuta nel nuovo comma 2-quater); e) la parte che abbia rifiutato, senza giustificato motivo, una proposta conciliativa formulata dall'altra parte è tenuta a sopportare le spese del processo qualora il riconoscimento delle sue pretese risulti inferiore al contenuto della proposta che le era stata avanzata (nuovo comma 2-octies, ispirato ad un'evidente finalità deflattiva del contenzioso).

4. Il procedimento dinanzi alla commissione tributaria provinciale.

4.1. Gli atti impugnabili e l'oggetto del ricorso.

Vanno anzitutto menzionate due pronunce delle Sezioni unite.

Di grande rilievo, sia sul piano teorico che per l'impatto su un ampio contenzioso, Sez. U, n. 19704/2015, Di Iasi, Rv. 636309, che ha composto il contrasto insorto in seno alle sezioni tributaria e sesta-tributaria in ordine alla <<autonoma impugnabilità dell'estratto di ruolo tributario>> (così l'ordinanza interlocutoria, Sez. 6-T, n. 16055/2014, Caracciolo).

La pronuncia in rassegna ha anzitutto escluso l'impugnabilità dell'estratto di ruolo in quanto esso, essendo <<solo un documento (un elaborato informatico ... contenente gli elementi della cartella, quindi unicamente gli elementi di un atto impositivo) formato dal concessionario della riscossione>> su richiesta del debitore, è inidoneo <<a contenere qualsivoglia (autonoma e/o nuova) pretesa impositiva, diretta o indiretta>>, con conseguente assoluta mancanza di interesse ad impugnarlo.

La Corte ha inoltre affrontato la diversa questione - postasi in ragione del fatto che il ricorrente si era sempre doluto dell'invalida notificazione della cartella di pagamento - dell'ammissibilità dell'impugnazione della cartella invalidamente notificata e conosciuta dal contribuente solo attraverso l'estratto di ruolo. Al riguardo, le Sezioni unite hanno affermato la possibilità, per il contribuente, di impugnare la cartella (e/o il ruolo) della quale, a causa dell'invalidità della relativa notifica, sia venuto a conoscenza solo mediante l'estratto di ruolo rilasciatogli, su sua richiesta, dall'agente della riscossione. Il collegio ha ritenuto non costituire un ostacolo a tale soluzione il terzo periodo del comma 3 dell'art. 19 del d.lgs. n. 546 del 1992 (secondo cui <<La mancata notificazione di atti autonomamente impugnabili, adottati precedentemente all'atto notificato, ne consente l'impugnazione unitamente a quest'ultimo>>), atteso che una lettura costituzionalmente orientata di tale disposizione impone di ritenere che la prevista impugnabilità dell'atto precedente non notificato unitamente all'atto successivo non costituisca l'unica possibilità di fare valere l'invalidità della notifica di un atto del quale il contribuente sia comunque venuto a conoscenza e pertanto non escluda la possibilità di fare valere tale invalidità anche prima, giacché l'esercizio del diritto alla tutela giurisdizionale non può essere compresso, ritardato, reso più difficile o gravoso, ove ciò non sia imposto dalla stringente necessità di garantire diritti o interessi di pari rilievo, rispetto ai quali si ponga un concreto problema di reciproca limitazione.

Dell'altra pronuncia delle Sezioni unite (Sez. U, n. 12759/2015, Ragonesi, Rv. 635918), resa in sede di regolamento preventivo di giurisdizione, si è già dato conto al par. 1. In questa sede, deve sottolinearsi che la Corte, nell'affermare la giurisdizione del giudice italiano e, in particolare, del giudice tributario, in ordine agli atti di diniego di dare corso alla procedura amichevole prevista dalla Convenzione relativa all'eliminazione delle doppie imposizioni in caso di rettifica degli utili di imprese associate n. 90/436/CEE, resa esecutiva dalla legge 22 marzo 1993, n. 99, adottati dal Ministero delle finanze, ha ritenuto tali atti impugnabili ai sensi dell'art. 19 del d.lgs. n. 546 del 1992, interpretato in modo estensivo in ossequio ai principi costituzionali in materia di tutela del contribuente (artt. 24 e 53 Cost.) e di buon andamento dell'amministrazione (art. 97 Cost.).

Anche le sezioni semplici tributaria e sesta-tributaria hanno reso, nell'anno, numerose pronunce in materia di atti impugnabili dinanzi ai giudici tributari, a conferma dell'esistenza di un panorama assai articolato della giurisprudenza di legittimità sul tema.

In una prospettiva analoga a quella fatta propria dalla pronuncia delle Sezioni unite da ultimo citata, si colloca Sez. 6-T, n. 15957/2015, Cosentino, Rv. 63613. Con tale ordinanza, la Corte ha riconosciuto l'immediata impugnabilità del cosiddetto avviso bonario previsto dall'art. 36-ter, comma 4, del d.P.R. n. 600 del 1973, sull'assunto che, ancorché l'elencazione degli atti impugnabili contenuta nell'art. 19 del d.lgs. n. 546 del 1992 abbia natura tassativa, tuttavia, in ragione dei principi costituzionali di tutela del contribuente e di buon andamento dell'amministrazione, ogni atto adottato dall'ente impositore che porti a conoscenza del contribuente una specifica pretesa tributaria, con l'esplicitazione delle concrete ragioni fattuali e giuridiche, è impugnabile davanti alle commissioni tributarie, senza necessità che esso si manifesti in forma autoritativa.

Sez. T, n. 16006/2015, Napolitano, Rv. 636119, ha ribadito l'impugnabilità, già affermata da Sez. T, n. 28543/2014, Ferro, Rv. 629514, dell'avviso di recupero del credito d'imposta illegittimamente utilizzato in compensazione, anche se emesso anteriormente all'entrata in vigore della legge 30 dicembre 2004, n. 311 (che ne ha stabilito la natura di titolo per la riscossione dello stesso credito), in quanto tale avviso costituisce manifestazione della volontà impositiva dello Stato, al pari degli avvisi di accertamento e di liquidazione.

La Corte ha riconosciuto l'autonoma impugnabilità anche del provvedimento con il quale l'amministrazione finanziaria condiziona il rimborso di un credito IVA al previo pagamento, da parte dell'istante, di debiti fiscali, oppure alla loro compensazione. La statuizione si basa sul fatto che il citato provvedimento, producendo lo stesso effetto giuridico proprio dell'atto tipico di sospensione del rimborso, previsto dall'art. 23, comma 1, del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, deve ritenersi, al pari di questo, autonomamente impugnabile ai sensi del combinato disposto degli artt. 19, comma 1, lett. i), del d.lgs. n. 546 del 1992, e 23, comma 3, del d.lgs. n. 472 del 1997, atteso che la tassatività dell'elenco di cui al menzionato art. 19 deve intendersi riferita non ai singoli provvedimenti nominativamente indicati, ma alle categorie a cui essi sono riconducibili, nelle quali vanno, perciò, compresi anche gli atti atipici e con un nomen iuris diverso da quelli indicati, che producano, però, gli stessi effetti giuridici (Sez. 6-T, n. 13548/2015, Caracciolo, Rv. 635738).

Sono poi da segnalare due pronunce riguardanti l'impugnabilità degli atti relativi alle operazioni catastali.

Con la prima, è stata affermata, tra l'altro, l'impugnabilità dinanzi al giudice tributario del diniego dell'amministrazione in ordine all'istanza di correzione dei dati dichiarati e di rettifica della rendita, proposta del contribuente in ragione della non corrispondenza al vero della situazione di fatto o di diritto denunciata, con la precisazione che, in tale caso, il giudice procederà alla valutazione dell'immobile tenendo conto delle sue mutate condizioni ed eventualmente disapplicando i criteri elaborati dall'amministrazione (Sez. 6-T, n. 02995/2015, Caracciolo, Rv. 634383).

Con una seconda pronuncia, è stata asserita l'impugnabilità del silenzio-rigetto con il quale l'amministrazione finanziaria, respingendo l'istanza di variazione presentata dal contribuente, confermi la precedente rendita catastale. Secondo la Corte, tale silenzio-rigetto deve considerarsi un atto tacito relativo alle operazioni catastali di attribuzione della rendita, impugnabile davanti al giudice tributario ai sensi dell'art. 19, comma 1, lett. f), del d.lgs. n. 546 del 1992, atteso che tale disposizione si riferisce a tutti gli atti catastali, in qualsiasi forma adottati, idonei a produrre effetti negativi in capo al proprietario di un bene immobile (Sez. T, n. 03001/2015, Cosentino, Rv. 634634).

Riconosciuta ormai da tempo, dalle Sezioni unite, la giurisdizione tributaria in ordine alle controversie nelle quali si impugni il rifiuto espresso o tacito dell'amministrazione ad esercitare il potere di autotutela (Sez. U, n. 16776/2005, Cicala, Rv. 585321), la Corte ha proseguito la propria opera volta a definire i casi in cui il detto rifiuto è impugnabile e, qualora l'impugnabilità sussista, il contenuto del sindacato del giudice tributario.

Sotto il primo aspetto, Sez. T, n. 14243/2015, Chindemi, Rv. 635875, ha affermato l'impugnabilità dell'annullamento parziale, adottato nell'esercizio del potere di autotutela, di un avviso impositivo definitivo, in quanto si tratta di un atto che contiene la manifestazione di una compiuta e definitiva pretesa tributaria, rispetto al quale, ancorché riduttivo della pretesa originaria, il contribuente non può essere privato della possibilità di difesa. Da segnalare la difformità di tale pronuncia rispetto a Sez. U, n. 03698/2009, D'Alessandro, Rv. 606565, che aveva invece affermato la non impugnabilità del rifiuto di annullamento, in via di autotutela, dell'atto impositivo definitivo, sul duplice fondamento della natura discrezionale da cui è connotato in tale caso l'esercizio del potere di autotutela e dell'inammissibilità di una controversia che finirebbe con l'avere a oggetto la legittimità di un atto impositivo ormai definitivo.

Sotto il secondo aspetto, Sez. T, n. 03442/2015, Sambito, Rv. 634479, ha precisato che il sindacato giurisdizionale sul diniego espresso o tacito di annullamento in autotutela non può riguardare la fondatezza della pretesa tributaria - atteso che, se ciò fosse possibile, si avrebbe un'inammissibile controversia sulla legittimità di un atto impositivo ormai definitivo o un'indebita sostituzione del giudice nell'attività amministrativa - ma soltanto eventuali profili di illegittimità del rifiuto dell'amministrazione, in relazione alle ragioni di rilevante interesse generale che giustificano l'esercizio del potere di autotutela.

Da menzionare, ancora, Sez. T, n. 08195/2015, Ferro, Rv. 635308, che ha ribadito (in precedenza, Sez. T, n. 12336/2005, Virgilio, Rv. 583757) che il provvedimento di rimborso parziale emesso, a fronte di un'istanza di rimborso d'imposta, dall'Amministrazione finanziaria, senza l'evidenziazione di alcuna riserva o indicazione di una sua natura interlocutoria, ha valore, per la parte relativa all'importo non rimborsato, di rigetto, sia pure implicito, dell'istanza. Da ciò consegue, da un canto, che esso costituisce un atto impugnabile quale rifiuto espresso, nel termine di sessanta giorni dalla sua notificazione, ai sensi degli artt. 19 e 21 del d.lgs. n. 546 del 1992 e, d'altro canto, che è improponibile un'ulteriore istanza di rimborso per il mancato integrale accoglimento della prima e che essa, se proposta, è inidonea alla formazione di un silenzio-rifiuto impugnabile.

A proposito della possibilità, per il ricorrente, di lamentare solo <<vizi propri>> degli atti autonomamente impugnabili (art. 19, comma 3, secondo periodo, del d.lgs. n. 546 del 1992), Sez. 6-T, n. 04818/2015, Conti, Rv. 634696, nell'affermare l'impugnabilità della cartella di pagamento solo, appunto, per vizi suoi propri, ha fatto tuttavia salvo il caso in cui il contribuente sia venuto a conoscenza della pretesa impositiva solo con la notificazione della cartella.

Sempre a proposito della possibilità di impugnazione degli atti autonomamente impugnabili solo per vizi propri, da segnalare il contrasto tra Sez. 6-T, n. 14847/2015, Caracciolo, Rv. 636066, e Sez. T, n. 23061/2015, Terrusi, Rv. 637156, in ordine, in particolare, alla possibilità per il contribuente di prospettare la questione dell'accettazione con beneficio d'inventario in sede di ricorso avverso la cartella di pagamento, una volta divenuto definitivo per omessa impugnazione l'avviso di accertamento o di liquidazione. Tale possibilità è stata affermata dalla pronuncia della sezione sesta-tributaria sulla base del principio secondo cui la responsabilità dell'erede per i debiti tributari derivante dall'accettazione con beneficio d'inventario è opponibile a qualsiasi creditore, ivi incluso l'erario, che, perciò, pur potendo procedere alla notifica dell'avviso di liquidazione nei confronti dell'erede, non può esigere l'imposta ipotecaria, catastale o di successione sino a quando non sia chiusa la procedura di liquidazione dei debiti ereditari e sempre che sussista un residuo attivo in favore dell'erede. La stessa possibilità è stata invece esclusa dalla pronuncia della sezione tributaria, secondo cui il vizio proprio dell'atto impositivo con il quale l'amministrazione pretenda il pagamento dell'intera imposta ereditaria deve essere fatto valere dall'erede che abbia accettato con beneficio d'inventario con l'impugnazione dell'avviso di accertamento o di liquidazione e non può più essere eccepito nel giudizio avente a oggetto l'impugnazione della cartella di pagamento, attesa la preclusione connessa alla definitività dell'atto impositivo non impugnato.

Con riguardo alle conseguenze dell'omessa impugnazione di atti che, ancorché impugnabili, non siano espressamente indicati dall'art. 19, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992, sono da menzionare due pronunce, entrambe espressive del principio secondo cui l'impugnazione di tali atti costituisce non un onere ma una facoltà del contribuente, in quanto costituisce un'estensione della sua tutela, e non comporta, perciò, la preclusione dell'impugnazione dell'atto successivamente notificato. Sulla base di tale premessa, Sez. T, n. 02616/2015, Napolitano, Rv. 634214, ha affermato che l'omessa impugnazione dell'intimazione di pagamento non comporta la cristallizzazione della pretesa tributaria né preclude la successiva impugnazione di uno degli atti tipici indicati dal citato art. 19, comma 1; Sez. T, n. 16952/2015, Bruschetta, Rv. 636281, ha asserito che l'omessa impugnazione dell'atto di variazione della categoria TARSU, con la cui notifica il ruolo era stato portato a conoscenza del contribuente, non preclude il ricorso avverso il successivo avviso di pagamento (cioè avverso un atto non indicato dal comma 1 dell'art. 19 ma anch'esso facoltativamente impugnabile in quanto manifestante il rapporto impositivo).

Da segnalare ancora Sez. T, n. 23061/2015, Terrusi, Rv. 637154, che ha stabilito che l'invito al pagamento di cui all'art. 212 del d.P.R. n. 115 del 2002 è l'unico atto liquidatorio, previsto dalla legge, dell'imposta di registro prenotata a debito, mediante il quale viene comunicata al contribuente un'ormai definita pretesa tributaria, cosicché, a prescindere dalla denominazione, esso va qualificato come avviso di accertamento o di liquidazione, la cui impugnazione non è facoltativa ma necessaria, ai sensi dell'art. 19 del d.lgs. n. 546 del 1992, pena la cristallizzazione dell'obbligazione, che non può più essere contestata nel successivo giudizio avente a oggetto la cartella di pagamento.

A proposito della natura del processo tributario, infine, Sez. 6-T, n. 05466/2015, Iacobellis, Rv. 634868, ha statuito che esso è strutturato come un giudizio d'impugnazione del provvedimento impositivo, natura che impone la disanima della sola pretesa tributaria avanzata con l'atto impugnato, con la conseguenza che il giudice tributario non può estendere la propria indagine alla fondatezza della pretesa avanzata con riguardo a periodi d'imposta non considerati in detto atto.

4.2. Il ricorso.

4.2.a. Il termine.

Di notevole importanza, che trascende il tema del termine per la proposizione del ricorso per investire, prioritariamente, quello dell'applicabilità agli atti tributari del regime di nullità dell'atto amministrativo dettato dagli artt. 21-septies, comma 1, della legge 7 agosto 1990, n. 241, e 31, comma 4, del d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104, Sez. T, n. 18448/2015, Olivieri, Rv. 636451. Sulla base della ritenuta esclusione dell'applicabilità del citato regime di diritto amministrativo alla sanzione di nullità prevista, in particolare, dall'art. 42, terzo comma, del d.P.R. n. 600 del 1973 - motivata in ragione dell'incompatibilità di tale regime con la specificità degli atti tributari, relativamente ai quali il legislatore, nella sua discrezionalità, ha configurato una categoria unitaria d'invalidità-annullabilità - la Corte ha affermato il conseguente onere del contribuente della tempestiva impugnazione degli atti entro il termine decadenziale dell'art. 21 del d.lgs. n. 546 del 1992, senza che alcun vizio possa poi essere invocato nel giudizio avverso l'atto consequenziale o, ove emerga dagli atti processuali, possa essere rilevato di ufficio dal giudice.

Con riguardo alla decorrenza del termine di impugnazione, Sez. T, n. 07874/2015, Valitutti, Rv. 635301, sulla premessa che solo la piena conoscenza dell'atto da parte del contribuente consente il consapevole esercizio del diritto di impugnativa, ha affermato che, nel caso in cui l'atto impositivo, relativo ad imposte per il periodo anteriore al fallimento, sia stato notificato soltanto al curatore e non anche alla società fallita, il termine per proporre il ricorso non può decorrere, per quest'ultima, dalla generica comunicazione alla stessa, da parte del curatore, di un'insinuazione tardiva di un credito erariale, né dalle risultanze della verifica dello stato passivo in cui il detto credito sia stato insinuato, ma solo dalla trasmissione dell'intera documentazione relativa alla pretesa erariale (nella specie, della copia della cartella di pagamento). La Corte ha altresì asserito che l'onere di provare il momento in cui tale atto è venuto a conoscenza del contribuente, in modo da individuare la data di decorrenza del termine per la proposizione del ricorso, ai sensi dell'art. 21 del d.lgs. n. 546 del 1992, grava sull'amministrazione finanziaria.

Da menzionare, ancora, tre pronunce che investono, tra l'altro, l'istituto della sospensione del termine per l'impugnazione nel caso della presentazione, da parte del contribuente, dell'istanza di accertamento con adesione.

Con riguardo all'ambito applicativo dell'istituto, Sez. T, n. 18377/2015, Olivieri, Rv. 636553, ha affermato che la presentazione dell'istanza di accertamento con adesione determina, a norma degli artt. 6 e 12 del d.lgs. 19 giugno 1997, n. 218, la sospensione del termine di decadenza per l'impugnazione non solo dell'atto impositivo, ma anche del provvedimento sanzionatorio, ancorché adottato e notificato con atto separato rispetto all'avviso di accertamento, qualora, trattandosi di una violazione sostanziale, la condotta sanzionata risulti strumentale all'inadempimento dell'obbligazione tributaria.

La seconda pronuncia (Sez. T, n. 13242/2015, Greco, Rv. 635873) concerne l'ipotesi in cui l'istanza di accertamento con adesione sia stata presentata dal curatore del fallimento privo dell'autorizzazione del giudice delegato o del tribunale prevista dall'art. 35 della legge fallimentare (r.d. 16 marzo 1942, n. 267), nel testo vigente ratione temporis (anteriore alla sostituzione operata dall'art. 31, comma 1, del d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5). La Corte, confermando la propria risalente giurisprudenza secondo cui la mancanza della detta autorizzazione, ad integrazione dei poteri del curatore nello svolgimento di attività negoziale, non comporta la nullità dei negozi posti in essere, ma lo loro annullabilità, che può essere fatta valere soltanto dal fallimento, ai sensi dell'art. 1441 c.c. (Sez. 1, n. 05334/1981, Cantillo, Rv. 416074), ha conseguentemente affermato che la presentazione dell'istanza di accertamento con adesione, da parte del curatore, in difetto della necessaria autorizzazione, non integrando la nullità del relativo procedimento, comporta la sospensione del termine per l'impugnazione dell'avviso per un periodo di novanta giorni dalla presentazione dell'istanza, ai sensi dell'art. 6, comma 3, del d.lgs. n. 218 del 1997.

Sez. T, n. 23047/2015, Tricomi, Rv. 637171, infine, ha confermato quanto già affermato da Sez. T, n. 16876/2014, Scoditti, Rv. 632070, in ordine alla non cumulabilità delle sospensioni dei termini per impugnare l'avviso di accertamento previste dall'art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 218 del 1997 (per consentire al contribuente di formulare l'istanza di accertamento con adesione) e dall'art. 15, comma 8, della legge 27 dicembre 2002, n. 289 (al fine della definizione agevolata delle controversie), con la conseguenza che, ove il contribuente abbia formulato istanza di accertamento con adesione relativamente ad un avviso di accertamento che rientra nel campo di applicazione di entrambe le norme, e tale accertamento non si perfezioni, il termine per l'impugnazione dell'atto resta sospeso solo fino al sessantesimo giorno successivo al 19 aprile 2004, secondo la previsione del citato art. 15, comma 8.

Quanto alla sospensione dei termini nel periodo feriale (legge 7 ottobre 1969, n. 742), Sez. T, n. 15412/2015, Iofrida, Rv. 636033, ha statuito la soggezione ad essa dell'impugnazione dell'iscrizione di ipoteca prevista dall'art. 77 del d.P.R. n. 602 del 1973, in quanto, non costituendo tale provvedimento un atto dell'espropriazione forzata, ma di una procedura alternativa, la sua impugnazione non è inquadrabile nell'opposizione all'esecuzione o agli atti esecutivi.

Da ricordare infine che Sez. T, n. 08195/2015, Ferro, Rv. 635308, già citata al par. 4.1, sulla premessa della ritenuta natura di atto impugnabile del provvedimento di rimborso parziale emesso, a fronte di un'istanza di rimborso d'imposta, dall'amministrazione finanziaria (senza l'evidenziazione di riserve o di una sua natura interlocutoria), ha affermato l'onere del contribuente di impugnare lo stesso entro il termine dell'art. 21 del d.lgs. n. 546 del 1992, nonché la non <<tempestività, e correlativa validità>> dell'impugnazione interposta avverso il diniego di rimborso opposto dall'ufficio a fronte di un'ulteriore istanza del contribuente.

4.2.b. La rimessione nel termine.

Quanto all'ambito operativo dell'istituto, disciplinato dall'art. 184-bis c.p.c. (abrogato dall'art. 46, comma 3, della legge 18 giugno 2009, n. 69, e sostituito dalla norma generale dell'art. 153, comma 2, c.p.c.), Sez. T, n. 12544/2015, Ferro, Rv. 636356, ha affermato l'applicabilità dello stesso al rito tributario, nel contesto del quale esso opera con riguardo sia alle decadenze relative ai poteri processuali interni al giudizio, sia a quelle correlate alle facoltà esterne e strumentali al processo, quale l'impugnazione dei provvedimenti sostanziali (la Corte ha peraltro escluso che potesse integrare una causa di non imputabilità della decadenza lo stato di malattia sopravvenuta ed il successivo decesso del difensore, incaricato, nella specie, della riassunzione del giudizio dopo la sentenza di cassazione con rinvio, dieci mesi prima della scadenza del relativo termine).

Sez. 6-T, n. 10520/2015, Cosentino, Rv. 635457, già menzionata al par. 1, ha precisato che l'erronea indicazione, nell'impugnato atto dell'amministrazione finanziaria, dell'organo giurisdizionale al quale è possibile ricorrere (indicazione prevista dall'art. 7, comma 2, lett. c, della legge 27 luglio 2000, n. 212), può giustificare la rimessione in termini del contribuente che vi abbia fatto affidamento, ma non incide sul riparto di giurisdizione.

4.3. La costituzione in giudizio del ricorrente.

Confermando il precedente costituito da Sez. T, n. 14389/2010, D'Alonzo, Rv. 613713, Sez. T, n. 04078/2015, Scoditti, Rv. 634969, ha ribadito che la mancata sottoscrizione in originale, da parte del ricorrente o del suo difensore, della copia del ricorso depositata ai fini della costituzione in giudizio, non determina l'inammissibilità del ricorso, ma costituisce una mera irregolarità. Ciò in quanto l'art. 18, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992, nel disciplinare il ricorso proposto contro più parti, prescrive la sottoscrizione in originale su tutte le copie dell'atto <<destinato alle altre parti>> e non anche sulla copia depositata ai fini della costituzione in giudizio, mentre l'art. 22, comma 3, dello stesso decreto, richiede soltanto che la parte o il suo difensore (quando e se nominato) attestino la conformità di tale copia all'originale notificato alla controparte, la quale può verificare l'esistenza della firma nell'originale dell'atto ad essa spedito o consegnato.

A proposito della produzione, da parte del ricorrente, in sede di costituzione in giudizio, di documenti in copia fotostatica, ai sensi dell'art. 22, comma 4, del d.lgs. n. 546 del 1992, Sez. 6-T, n. 08446/2015, Caracciolo, Rv. 635468, ha affermato che essa costituisce modalità idonea a introdurre la prova nel processo, in quanto, ai sensi dell'art. 2712 c.c., è onere dell'amministrazione finanziaria contestarne la conformità all'originale, con la precisazione che, in tale caso, il giudice tributario è tenuto a disporre l'esibizione del documento in originale, a norma del comma 5 del citato art. 22.

4.4. La costituzione in giudizio della parte resistente.

Con riguardo alle conseguenze della costituzione tardiva del resistente, Sez. T, n. 06734/2015, Meloni, Rv. 635139, ha affermato il principio che la costituzione in giudizio della parte resistente deve avvenire, a norma dell'art. 23, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992, entro sessanta giorni dalla notifica del ricorso, a pena di decadenza dalla facoltà di proporre eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d'ufficio e di fare istanza, se del caso, per la chiamata di terzi in causa, con la conseguenza che, qualora tali difese non siano state in concreto esercitate, nessun altro pregiudizio può derivare al resistente, al quale deve essere riconosciuto il diritto di negare i fatti costitutivi della pretesa attorea, di contestare l'applicabilità delle norme di diritto invocate dal ricorrente, nonché di produrre documenti ai sensi degli artt. 24 e 32 del d.lgs. n. 546 del 1992.

4.5. Il deposito di atti e documenti.

Da segnalare Sez. 6-T, n. 12670/2015, Cicala, Rv. 635745, secondo cui, analogamente al processo civile, anche in quello tributario l'accettazione, da parte del cancelliere, degli atti e documenti depositati dalla parte che si costituisce, mediante l'apposizione del timbro di cancelleria in calce all'indice del fascicolo di parte, ai sensi dell'art. 74, comma 4, disp. att. c.p.c., senza l'annotazione di alcun rilievo formale, fa presumere la regolare produzione degli stessi.

Va poi ricordato che la già citata (al par. 4.4) Sez. T, n. 06734/2015, Meloni, Rv. 635139, ha chiarito che la tardività della costituzione in giudizio della parte resistente non impedisce alla stessa di produrre documenti ai sensi degli artt. 24 e 32 del d.lgs. n. 546 del 1992.

4.6. L'avviso di trattazione della controversia.

A proposito della nullità derivante dall'omessa o irregolare comunicazione dell'avviso di fissazione dell'udienza, previsto dall'art. 33 del d.lgs. n. 546 del 1992, Sez. T, n. 06692, Botta, Rv. 635199, ha affermato che la stessa può essere fatta valere solo impugnando tempestivamente la sentenza che conclude il giudizio, oppure proponendo l'impugnazione tardiva nei limiti e alle condizioni di cui all'art. 327 c.p.c., e che, in mancanza di tali impugnazioni, la sentenza acquista efficacia di giudicato e la sua nullità non può essere fatta valere nei giudizi di impugnazione degli ulteriori atti consequenziali adottati dall'erario sulla base della sentenza ormai passata in giudicato.

4.7. L'istruzione probatoria.

4.7.a. L'onere della prova.

Sez. T, n. 13259/2015, La Torre, Rv. 635874, dopo avere chiarito che, a seguito della riforma del diritto societario operata dal d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, la cancellazione della società dal registro delle imprese, pur provocandone l'estinzione, non determina l'estinzione dei debiti della stessa nei confronti dei terzi rimasti insoddisfatti, ma un fenomeno di diritto successorio sui generis, in cui la responsabilità dei soci è limitata alla parte da ciascuno di essi conseguita nella distribuzione dell'attivo risultante dal bilancio finale di liquidazione, ha affermato che, conseguentemente, l'effettiva percezione delle somme da parte dei soci in base al detto bilancio e l'entità delle medesime devono essere provate dall'amministrazione finanziaria che agisca contro i soci per i pregressi debiti tributari della società, secondo il normale riparto dell'onere probatorio.

4.7.b. Il dovere dell'amministrazione finanziaria di esibire i documenti in suo possesso.

Dando continuità a un orientamento già espresso da Sez. T, n. 21956/2010, Virgilio, Rv. 615448, Sez. T, n. 00958/2015, Virgilio, Rv. 634469, ha confermato che l'art. 6, comma 4, della legge n. 212 del 2000, secondo cui non possono essere richiesti al contribuente documenti o informazioni già in possesso dell'amministrazione finanziaria o di altre amministrazioni pubbliche indicate dal contribuente, dovendo tali documenti essere acquisiti ai sensi dell'art. 18, commi 1 e 2, della legge n. 241 del 1990, costituisce espressione di un principio generale applicabile anche al processo tributario, e presuppone che la documentazione sia già sicuramente in possesso dell'amministrazione o che, comunque, il contribuente ne dichiari e provi l'avvenuta trasmissione alla stessa.

4.7.c. I documenti redatti in lingua straniera.

Sez. T, n. 12525/2015, Cigna, Rv. 635748, ha precisato che, come nel processo civile, anche nel processo tributario l'uso della lingua italiana è obbligatorio per gli atti processuali in senso proprio e non anche per i documenti prodotti dalle parti. Pertanto, nel caso di produzione di documenti redatti in lingua straniera, il giudice ha la facoltà e non l'obbligo di nominare un traduttore ai sensi dell'art. 123 c.p.c., del quale è possibile fare a meno allorquando non vi siano contestazioni sul contenuto del documento o sulla traduzione giurata ad esso allegata dalla parte, mentre, al di fuori di tali ipotesi, è necessario nominare un traduttore, non potendosi ritenere non acquisiti i documenti prodotti in lingua straniera.

4.7.d. Le dichiarazioni extraprocessuali rese dal terzo.

Di rilievo la conferma del principio, già affermato da Sez. T, n. 20028/2011, Cirillo, Rv. 619627, secondo cui, in attuazione dei principi del giusto processo e della parità delle parti, di cui all'art. 111 Cost., anche al contribuente, e non solo all'amministrazione finanziaria, deve essere riconosciuta la possibilità di introdurre nel giudizio davanti alle commissioni tributarie dichiarazioni di terzi rese in sede extraprocessuale, le quali hanno il valore probatorio proprio degli elementi indiziari e come tali debbono essere valutati dal giudice nel contesto probatorio emergente dagli atti (Sez. T, n. 21153/2015, Crucitti, Rv. 637005).

Secondo Sez. T, n. 06946/2015, Cirillo, Rv. 635271, le dichiarazioni rese da un terzo, inserite, anche per riassunto, nel processo verbale di constatazione e recepite nell'avviso di accertamento, hanno valore indiziario e possono assurgere a fonte di prova presuntiva, concorrendo a formare il convincimento del giudice anche se non rese in contraddittorio con il contribuente, senza necessità di ulteriori indagini da parte dell'ufficio.

4.7.e. Il valore probatorio delle perizie di parte e, in particolare, della relazione di stima redatta dall'UTE.

Confermando la recente Sez. T, n. 14418/2014, Chindemi, Rv. 631541, Sez. T, n. 02193/2015, Terrusi, Rv. 634158, ha ribadito che nel processo tributario, nell'ambito del quale sussiste maggiore spazio per le prove cosiddette atipiche, anche la perizia di parte può costituire fonte del convincimento del giudice, che può elevarla a fondamento della propria decisione, a condizione che spieghi le ragioni per le quali la ritenga corretta e convincente. La Corte ha, nella specie, confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto attendibili, nei limiti di quanto ulteriormente emergeva da una perizia di parte prodotta dal contribuente, le risultanze della relazione di stima di un immobile redatta dall'Ufficio tecnico erariale.

4.7.f. L'efficacia della sentenza penale irrevocabile.

Due le pronunce rese dalla Corte sul tema nel corso dell'anno.

La prima di esse (Sez. T, n. 02938/2015, Bruschetta, Rv. 634894) concerne l'efficacia nel processo tributario di tutte le sentenze penali irrevocabili, quale che ne sia il dispositivo, emesse con riguardo a reati relativi ai medesimi fatti posti a fondamento dell'accertamento. Secondo la Corte, tali sentenze rappresentano un semplice elemento di prova, liberamente valutabile dal giudice tributario in rapporto alle ulteriori risultanze istruttorie, anche di natura presuntiva.

La seconda pronuncia (Sez. T, n. 10578/2015, Greco, Rv. 635637) riguarda invece, più in particolare, l'efficacia nel processo tributario della sentenza penale irrevocabile di assoluzione dal reato tributario con la formula <<perché il fatto non sussiste>>. A tale proposito, la Corte ha affermato che, ancorché i fatti accertati in sede penale siano gli stessi per i quali l'amministrazione finanziaria ha promosso l'accertamento nei confronti del contribuente, la detta sentenza non spiega automaticamente efficacia di giudicato, ma può essere presa in considerazione come possibile fonte di prova dal giudice tributario, il quale, nell'esercizio dei propri poteri di valutazione delle prove, deve verificarne la rilevanza nell'ambito specifico in cui la sentenza è destinata a operare.

4.7.g. I poteri istruttori officiosi del giudice tributario.

Il giudice tributario non ha l'obbligo di esercitare ex officio i poteri istruttori officiosi previsti dall'art. 7 del d.lgs. n. 546 del 1992, salvo che ricorra il presupposto dell'impossibilità di acquisire la prova altrimenti, come nel caso in cui una delle parti non possa conseguire documenti in possesso dell'altra (Sez. T, n. 14244/2015, Chindemi, Rv. 635973).

4.7.h. Le prove escluse dalle singole leggi d'imposta.

Anche nel 2015, la Corte ha proseguito la propria pluriennale opera di esame della portata delle disposizioni che prevedono limiti alla facoltà di prova in conseguenza del fatto che, nel corso dell'attività di accertamento, il contribuente ha rifiutato di esibire libri, registri, scritture o documenti.

Sez. T, n. 15283/2015, Crucitti, Rv. 636041, ha riguardato, in particolare, la previsione dell'art. 52, comma 5, del d.P.R. n. 633 del 1972, secondo cui: <<I libri, registri, scritture e documenti di cui è rifiutata l'esibizione non possono essere presi in considerazione a favore del contribuente ai fini dell'accertamento in sede amministrativa o contenziosa. Per rifiuto d'esibizione si intendono anche la dichiarazione di non possedere i libri, registri, documenti e scritture e la sottrazione di essi alla ispezione>>. La Corte ha precisato che la dichiarazione, resa dal contribuente nel corso di un accesso, di non possedere i citati libri, registri, documenti e scritture, inclusi quelli la cui tenuta e conservazione non sia obbligatoria, ne preclude la valutazione in sede amministrativa o contenziosa soltanto qualora si traduca in un sostanziale rifiuto di esibizione, connotato dal dolo, ma non qualora si fondi sull'effettiva indisponibilità del documento per caso fortuito, forza maggiore o colpa, e che, in tale secondo caso, è irrilevante, ai fini dell'utilizzabilità, anche l'omessa esibizione della documentazione una volta cessato l'impedimento. Al riguardo, va sottolineata la difformità di tale pronuncia rispetto a Sez. T, n. 21768/2009, Cicala, Rv. 610425, secondo cui il divieto di utilizzo previsto dalla disposizione citata opera non solo nell'ipotesi di rifiuto (per definizione doloso) dell'esibizione, ma anche nei casi in cui il contribuente dichiari, contrariamente al vero, di non possedere i documenti in suo possesso, o li sottragga all'ispezione, non allo scopo di impedire la verifica, ma per errore non scusabile, di diritto o di fatto (dovuto a dimenticanza, disattenzione, carenze amministrative, o altro). Da segnalare peraltro che, successivamente a tali due pronunce, Sez. T, n. 24503/2015, Olivieri, Rv. 637518, ha affermato il carattere <<meramente apparente [della] dicotomia di indirizzi>> espressi dalla Corte sul punto. Tale pronuncia, muovendo dalla premessa che <<l'originario conflitto giurisprudenziale deve intendersi risolto dalle SSUU n. 45/2000, dovendo attualmente ricollegarsi esclusivamente a condotte dolose il divieto di utilizzabilità successiva della documentazione non esibita in corso di verifica>>, ha poi motivato il ritenuto carattere apparente del contrasto giurisprudenziale sulle circostanze che le <<successive sentenze [...] hanno riportato solo tralatiziamente, senza farne applicazione al caso controverso, la massima dell'indirizzo non seguito dalle SS.UU.>> e che il detto contrasto <<viene, agevolmente, a ricomporsi laddove si osservi che, anche nelle sentenze [espressive di un orientamento analogo a quello, tra le altre, della sentenza n. 21768/2009], la applicazione del divieto di utilizzabilità probatoria del documento non esibito che il contribuente ha dichiarato di non possedere, viene in ogni caso ricondotta alla oggettiva non veridicità di tale dichiarazione, coincidendo in tal modo il presupposto applicativo del divieto, in entrambi gli indirizzi giurisprudenziali a confronto, in una situazione obiettiva che, stante la mancata dimostrazione della veridicità della dichiarazione attraverso le prescritte modalità, si risolve, per presunzione di legge, in un rifiuto di esibizione>>. La sentenza n. 24503 del 2015 si conclude pertanto ribadendo l'interpretazione dell'art. 52, comma 5, del d.P.R. n. 633 del 1972 fornita da Sez. U, n. 00045/2000, Olla, Rv. 534393.

Va infine segnalato, sul piano delle novità normative, che l'art. 6, comma 3, del d.lgs. n. 156 del 2015, ha stabilito che le disposizioni dell'art. 52, comma 5, del d.P.R. n. 633 del 1972, e dell'art. 32, comma 4, del d.P.R. n. 600 del 1973, <<non si applicano a dati, notizie, atti, registri o documenti richiesti dall'amministrazione nel corso dell'istruttoria delle istanze di interpello>>.

4.8. La sospensione, l'interruzione e l'estinzione del processo.

4.8.a. La sospensione del processo.

In tema di sospensione in dipendenza del rapporto di pregiudizialità esistente tra processi tributari, va segnalata Sez. T, n. 16615/2015, Federico, Rv. 636825, la quale, andando in contrario avviso rispetto a Sez. T, n. 16329/2014, Olivieri, Rv. 632247, nonché a Sez. U, n. 21348/2012, Berruti, Rv. 624129, e Sez. 6-1, n. 06207/2014, Bisogni, Rv. 630017 (queste ultime riguardanti il rapporto di pregiudizialità tra processi non tributari), ha cassato con rinvio la sentenza che aveva deciso la causa pregiudicata (avente ad oggetto, nella specie, un provvedimento d'irrogazione di sanzioni) in base alla decisione, non ancora passata in giudicato, della causa pregiudiziale (che, nella specie, aveva annullato l'accertamento di maggiori utili in capo a una società di capitali, cioè l'atto presupposto delle sanzioni irrogate), affermando che, in tale ipotesi, il processo pregiudicato doveva essere sospeso ai sensi dell'art. 295 c.p.c., atteso che i principi del giudicato esterno consentono di attribuire efficacia riflessa alle sole sentenze definitive. Il precedente della sezione tributaria sopra citato aveva invece affermato che, quando tra due giudizi tributari esista un rapporto di pregiudizialità e quello pregiudicante (relativo, nella specie, all'accertamento di un credito d'imposta, evidenziato nella dichiarazione del 1998) sia stato definito con sentenza, sebbene non ancora passata in giudicato, la sospensione del processo pregiudicato (che aveva a oggetto, nella specie, la cartella di pagamento per l'annualità successiva) è possibile soltanto ai sensi dell'art. 337 c.p.c. e non dell'art. 295 dello stesso codice. Anche gli altri due ulteriori arresti citati avevano ritenuto che, nel caso in cui esista, tra due giudizi, un rapporto di pregiudizialità e quello pregiudicante sia stato definito con sentenza non passata in giudicato, la sospensione del giudizio pregiudicato sia possibile - salvi i casi in cui essa sia imposta da una disposizione specifica - soltanto ai sensi dell'art. 337 c.p.c.

Da segnalare, sullo specifico tema, che l'art. 9, comma 1, lett. o), del d.lgs. n. 156 del 2015, ha aggiunto all'art. 39 del d.lgs. n. 546 del 1992 un nuovo comma 1-bis, il quale, riproducendo, nella sostanza, il contenuto dell'art. 295 c.p.c., ha introdotto nel processo tributario un'ulteriore ipotesi di sospensione necessaria, che si aggiunge a quella già prevista dal comma 1 dello stesso art. 39 (secondo il nuovo comma 1-bis, <<La commissione tributaria dispone la sospensione del processo in ogni altro caso in cui essa stessa o altra commissione tributaria deve risolvere una controversia dalla cui definizione dipende la decisione della causa>>). Inoltre, con l'aggiunta, allo stesso art. 39, di un comma 1-ter, si è stabilito che, su richiesta conforme delle parti, il processo sia sospeso nel caso in cui sia iniziata una procedura amichevole ai sensi delle convenzioni internazionali per evitare le doppie imposizioni oppure quando sia iniziata una procedura amichevole ai sensi della Convenzione relativa all'eliminazione delle doppie imposizioni in caso di rettifica degli utili di imprese associate n. 90/463/CEE del 23 luglio 1990.

4.8.b. L'interruzione del processo.

Sez. 6-T, n. 20358/2015, Caracciolo, Rv. 636909, ha affermato che, qualora in pendenza del giudizio intervenga l'estinzione della società contribuente (nella specie, di capitali), il giudice, a fronte del venir meno della capacità di stare in giudizio della stessa, deve disporre l'interruzione del processo ai sensi degli artt. 299 e seguenti c.p.c., al fine di consentire alla parte pubblica, che ne abbia interesse, di riassumerlo nei confronti dei soci subentrati alla società estinta a norma degli artt. 2495 c.c. e 110 c.p.c., non potendo escludere la possibilità del fenomeno successorio in base al solo esame del bilancio di liquidazione.

A proposito della ripresa del processo interrotto, Sez. 6-T, n. 12672/2015, Cicala, Rv. 635747, ha precisato che la riassunzione di tale processo ha luogo con la mera presentazione al presidente della sezione dell'istanza di trattazione, da effettuarsi entro sei mesi dal provvedimento che dichiara l'interruzione, spettando alla segreteria della commissione tributaria l'onere di comunicare alle parti la data della nuova udienza.

4.8.c. L'estinzione del processo.

Sez. T, n. 04574/2015, Crucitti, Rv. 634673, ha precisato che, qualora la definitività dell'accertamento derivi non da una sentenza passata in giudicato ma dalla dichiarazione di estinzione del processo tributario per inattività delle parti (art. 45, comma 4, del d.lgs. n. 546 del 1992), alla riscossione delle imposte e delle sanzioni amministrative per la violazione di norme tributarie non si applica il termine prescrizionale di dieci anni previsto dall'art. 2953 c.c. (sugli effetti del giudicato sulle prescrizioni brevi).

4.9. La deliberazione della decisione.

Sez. T, n. 17163/2015, Bielli, Rv. 636613, ha affermato che, nel caso di rinvio della deliberazione in camera di consiglio, il ritardo della stessa (nella specie, da parte della commissione tributaria regionale), in quanto adottata oltre trenta giorni dall'udienza pubblica di discussione o dall'esposizione del relatore (ove non vi sia stata pubblica udienza) - termine previsto dall'art. 35, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992 - non costituisce una violazione del diritto di difesa del contribuente, lasciando intatti il suo potere di impugnare e i relativi termini.

4.10. La decisione.

Di notevole importanza, che trascende l'ambito dei provvedimenti giurisdizionali delle commissioni tributarie, riguardando, oltre ad essi - e anzitutto - le sentenze e i provvedimenti giurisdizionali civili, Sez. U, n. 00642/2015, Di Iasi, Rv. 634091, con la quale il massimo collegio della Corte si è pronunciato sulla questione relativa alla nullità o no della sentenza la cui motivazione sia costituita esclusivamente dalla riproduzione di un atto di parte (pronuncia che era stata invocata con l'ordinanza interlocutoria Sez. T, n. 01531/2014, Cirillo). Secondo il principio affermato - e dalla Corte espressamente riferito, come accennato, anche ai provvedimenti giurisdizionali delle commissioni tributarie <<in virtù del rinvio al codice di procedura civile contenuto nell'art. 1 d.lgs. n. 546 del 1992 ed in assenza di diverse disposizioni in materia nel suddetto decreto ovvero di incompatibilità con le previsioni di esso>> - la sentenza la cui motivazione si limiti a riprodurre il contenuto di un atto di parte (ovvero di altri atti processuali o provvedimenti giudiziari), senza nulla aggiungervi, non è nulla, sempre che, in tale modo, le ragioni della decisione siano comunque attribuibili al giudicante e risultino in modo chiaro, univoco ed esaustivo. Il collegio ha fondato la propria decisione sul rilevo che, in base alle disposizioni costituzionali e processuali, tale tecnica di redazione del provvedimento giurisdizionale non può, di per sé, ritenersi sintomatica di un difetto d'imparzialità del giudice, al quale non è imposta l'originalità né dei contenuti né delle modalità espositive, considerato anche che la validità degli atti processuali si pone su un piano diverso rispetto a quello della valutazione professionale o disciplinare del magistrato. In senso conforme a tale pronuncia, si è successivamente espressa anche Sez. T, n. 09334/2015, Di Iasi, Rv. 635474.

Sul medesimo tema della motivazione della sentenza per relationem ad un atto di parte o ad altri atti processuali o provvedimenti giudiziari, vanno segnalate altre tre pronunce delle sezioni semplici sesta-tributaria e tributaria, una anteriore e due posteriori all'arresto delle Sezioni unite.

Con la prima di esse, la Corte ha affermato che la motivazione della sentenza può essere redatta per relationem ad altra sentenza non ancora passata in giudicato, purché rimanga autosufficiente, riproducendo i contenuti mutuati e rendendoli oggetto di autonoma valutazione critica nel contesto della diversa, anche se connessa, causa, in modo da consentire la verifica della sua compatibilità logico-giuridica. Qualora la sentenza si limiti invece alla mera indicazione della fonte di riferimento e non sia, perciò, possibile individuare le ragioni poste a fondamento del dispositivo, essa è nulla, ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 4), c.p.c. (Sez. 6-T, n. 00107, Conti, Rv. 633996).

Con la seconda pronuncia, la Corte, senza menzionare il citato precedente delle Sezioni unite, ha ritenuto che la sentenza motivata per relationem mediante mera adesione acritica all'atto d'impugnazione, senza indicazione né della tesi in esso sostenuta, né delle ragioni della condivisione, è ricorribile per cassazione ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 4), c.p.c. (così dovendosi inquadrare la censura del contribuente, nonostante l'erroneo riferimento, dallo stesso operato, al n. 5 di tale comma), essendo nulla per violazione dell'art. 132, comma 2, n. 4), c.p.c., in quanto corredata da motivazione solo apparente (Sez. T, n. 20648/2015, Federico, Rv. 636648).

Con la terza pronuncia, la Corte ha affermato che nei processi civile e tributario la sentenza motivata mediante la trascrizione delle deduzioni di parte, consistenti nel rinvio a tutte la argomentazioni svolte nel ricorso introduttivo, è nulla, ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 4) c.p.c., per violazione degli artt. 132, comma 2, n. 4), e 36, comma 1, n. 4), del d.lgs. n. 546 del 1992, in quanto non consente d'individuare in modo chiaro, univoco ed esaustivo le ragioni, attribuibili al giudicante, su cui si fonda la decisione (Sez. 6-T, n. 22652/2015, Crucitti, Rv. 637064). Nella fattispecie, la Corte ha ritenuto <<non utilmente invocabili>> in senso contrario i principi affermati dal precedente delle Sezioni unite.

Sempre a proposito del contenuto della sentenza, Sez. 6-T, n. 00929/2015, Perrino, Rv. 634142, richiamando il principio, espresso da Sez. T, n. 22845/2010, Bertuzzi, Rv. 615819, secondo cui la concisa esposizione dello svolgimento del processo e dei fatti rilevanti della causa non costituisce un elemento meramente formale, ma un requisito da apprezzare esclusivamente in funzione dell'intelligibilità della decisione e della comprensione delle ragioni poste a suo fondamento, la cui assenza configura un motivo di nullità della sentenza quando non sia possibile individuare gli elementi di fatto considerati o presupposti nella decisione, ha cassato con rinvio la sentenza di merito che si riferiva, genericamente, a una cartella di pagamento per IRPEF 2007, senza precisare la natura del carico tributario e, in particolare, se si trattasse dell'imposta o delle relative sanzioni.

Da segnalare anche Sez. 6-T, n. 25707/2015, Caracciolo, Rv. 638078, che, richiamando il principio già affermato da Sez. T, n. 04442/2010, Bognanni, Rv. 611651, ha escluso che l'utilizzo, da parte del giudice tributario, dell'apprezzamento equitativo ai fini dell'espressione di un giudizio di stima (nella specie, relativa al valore di un'unità abitativa, ai fini della determinazione della plusvalenza realizzata mediante la cessione a titolo oneroso della stessa entro il quinquennio dall'acquisto) possa costituire violazione dell'art. 113 c.p.c.

Vanno infine in questa sede menzionati due arresti riguardanti il provvedimento del giudice tributario con il quale è dichiarata l'estinzione del giudizio per cessazione della materia del contendere.

Quanto alle condizioni per l'adozione di tale pronuncia, Sez. 6-T, n. 05188/2015, Conti, Rv. 634695, ha affermato che nel processo tributario, come in quello civile, la cessazione della materia del contendere presuppone, da un canto, che nel corso del giudizio siano sopravvenuti fatti tali da eliminare le ragioni di contrasto e l'interesse alla pronuncia di merito richiesta e, dall'altro, che le parti formulino conclusioni conformi. Da ciò deriva che l'allegazione di un fatto sopravvenuto, assunto da una sola parte come idoneo a determinare la cessazione della materia del contendere, comporta la necessità della valutazione del giudice, al quale spetterà o dichiarare l'avvenuto soddisfacimento del diritto azionato o, in caso contrario, pronunciarsi sul merito dell'azione.

A proposito degli effetti della stessa pronuncia, Sez. T, n. 05641/2015, Valitutti, Rv. 634954, ha chiarito che l'estinzione del giudizio per cessazione della materia del contendere, conseguente allo sgravio, in via di autotutela, del debito fiscale, determina la caducazione delle pronunce eventualmente emanate nei precedenti gradi di giudizio e non passate in giudicato, ma non è idonea ad acquisire efficacia di giudicato sostanziale, eccezione fatta per l'accertamento del venir meno dell'interesse alla prosecuzione del giudizio.

5. Le impugnazioni.

5.1. Il giudizio di appello.

La giurisprudenza della Corte sul giudizio di appello ha investito aspetti vari dello stesso, dalle questioni sulla proposizione a quelle sulla legittimazione ad appellare, da quelle attinenti a ciò che è rilevabile di ufficio o solo su eccezione di parte a quelle sui poteri istruttori del giudice e sul litisconsorzio.

5.1.a. La proposizione.

Sez. T, n. 11252/2015, Valitutti, Rv. 635675, ha affermato che l'appello notificato con deposito dell'atto presso la segreteria del giudice dell'impugnazione ai sensi dell'art. 17, comma 3, del d. lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, anziché con le forme di cui all'art. 330 c.p.c., è inammissibile, mancando il requisito del concreto collegamento con il destinatario della notifica, atteso che si tratta di luogo presso il quale il giudizio non è stato ancora instaurato. Inoltre, la notifica effettuata con tali modalità non è neppure suscettibile di sanatoria o rinnovazione.

A partire dal 3 dicembre 2005 è entrata in vigore la disposizione di cui all'art. 3 bis, comma 7, d. l. 30 settembre 2005, n. 203, convertito in legge 2 dicembre 2005, n. 248 (oggi abrogata dal d.lgs. 21 novembre 2014, n. 175), secondo cui, ove il ricorso non sia notificato a mezzo di ufficiale giudiziario, l'appellante deve, a pena di inammissibilità, depositare copia dell'atto di appello presso l'ufficio di segreteria della commissione tributaria che ha pronunciato la sentenza impugnata.

Sez. T, n. 05347/2015, Tricomi, Rv. 635060 ha statuito che tale norma si applica ai soli ricorsi successivi alla sua entrata in vigore.

Sez. 6-T, n. 24669/2015, Caracciolo, Rv. 637593, ha specificato che per "deposito della copia dell'atto di appello" non si deve intendere necessariamente un deposito effettuato con consegna diretta e personale da parte del ricorrente, ma l'adempimento può essere soddisfatto anche con la spedizione per posta, tale dovendosi ritenere lo spirito dell'art. 53 del d. lgs. 546 del 1992.

Quando, poi, l'impugnazione di una sentenza non sia stata notificata presso il domicilio eletto, ma presso il procuratore non domiciliatario, la notifica non è inesistente, atteso che comunque il luogo esprime un collegamento con il destinatario, ma è affetta da nullità sanabile ex tunc con il raggiungimento dello scopo dell'atto, con rinnovazione della notifica o con la costituzione dell'intimato (Sez. T, n. 09083/2015, Ferro, Rv. 635473).

Per contro, la costituzione, nel caso di appello notificato a mezzo posta, mediante deposito dell'avviso di ricevimento del plico, in luogo del prescritto avviso di spedizione, non costituisce motivo di inammissibilità dell'impugnazione, atteso che anche l'avviso di ricevimento riporta la data della spedizione ed assolve, pertanto, la funzione probatoria prevista dalla norma (Sez. T, n. 05376/2015, Ferro, Rv. 634694).

Se, poi, la notifica dell'atto di appello è inesistente, l'appello dovrebbe essere dichiarato inammissibile poiché deve presumersi la mancata conoscenza del processo da parte del convenuto contumace, salva prova contraria a carico dell'appellante. In difetto di tale prova, quindi, anche la sentenza di appello deve considerarsi nulla (Sez. T, n. 20672/2015, Bruschetta, Rv. 636647).

Sez. T, n. 23752/2015, Perrino, non ancora massimata, ha ritenuto ammissibile l'appello consegnato all'Amministrazione in copia fotostatica, se la copia depositata presso la segreteria della Commissione tributaria rechi la sottoscrizione autografa del contribuente ricorrente.

Se, inoltre, la copia del ricorso depositata ai fini della costituzione in giudizio non reca la sottoscrizione in originale del ricorrente o del suo difensore, secondo Sez. T, n. 04078/2015, Scoditti, Rv. 634969, non si determina comunque inammissibilità del ricorso, costituendo tale fatto una mera irregolarità, atteso che l'art. 18, comma 3, d. lgs. n. 546 del 1992 richiede la sottoscrizione in originale solo sulle copie dell'atto destinate alle parti e non sulla copia depositata ai fini della costituzione in giudizio.

Sez. T, n. 24770/2015, Greco, non ancora massimata, ha ritenuto che l'omessa allegazione all'atto di appello della sentenza impugnata non determina l'inammissibilità del gravame, atteso che tale adempimento non è espressamente imposto da alcuna norma e che l'art. 53 del d.lgs. 546 del 1992, nel prevedere che il fascicolo trasmesso dalla commissione di primo grado a quella di appello debba includere copia della sentenza anzidetta, costituisce sicuro elemento utile al fine di esonerare dal medesimo onere l'appellante.

Sez. T, n. 15432/2015, Bielli, Rv. 636040 ha, invece, ritenuto che se l'appello principale è inammissibile per mancato deposito dell'atto di impugnazione nella segreteria del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata, è inammissibile anche l'appello incidentale ugualmente non depositato, atteso che la normativa applicabile ratione temporis richiedeva anche all'appellante incidentale, pur se tempestivo, tale incombenza.

5.1.b. La legittimazione ad appellare, la capacità a stare in giudizio e la partecipazione dell'Agenzia delle Entrate.

È stato ritenuto ammissibile l'appello proposto da un ufficio dell'Agenzia delle Entrate diverso da quello nei cui confronti è stata emessa la sentenza, avendo la Corte ritenuto che il carattere unitario dell'Agenzia e la natura impugnatoria del processo tributario, che attribuisce la qualità di parte all'organo nel suo complesso e non alle singole articolazioni territoriali, consentano di giungere a tale conclusione (Sez. T, n. 04862/2015, Valitutti, Rv. 635056).

Allo stesso modo, è stata ritenuta valida la notifica di un appello ad un ufficio territoriale dell'Agenzia delle Entrate diverso da quello che ha emesso l'atto impugnato, atteso che tutti gli uffici periferici dell'Agenzia hanno la capacità di stare in giudizio. (Sez. 6-T, n. 01113/2015, Perrino, Rv. 634160).

In effetti, sulle notifiche alla parte pubblica, anche Sez. T, n. 18936/2015, Olivieri, Rv. 636560, ha statuito che possono essere effettuate sia presso la sede centrale dell'Agenzia che presso l'ufficio periferico, indipendentemente dalle modalità con cui l'Agenzia si era costituita nel precedente grado di giudizio, atteso che l'alternativa tra notifica a mani proprie o nel domicilio eletto opera per tutte le parti. Nella specie, trattandosi della notifica della sentenza ai fini della decorrenza del termine breve di impugnazione, la stessa è stata calcolata dalla notifica avvenuta presso l'ufficio periferico, pur avendo partecipato al giudizio la direzione regionale.

In merito alla capacità di stare in giudizio, Sez. T, n. 19445/2015, Bruschetta, Rv. 636546, ha ritenuto che un ente locale può stare in giudizio, anche in grado di appello, mediante il Dirigente responsabile dell'Ufficio che si occupa dello specifico tributo oggetto di lite.

Quanto alla questione della successione dell'Agenzia delle Entrate al Ministero delle Finanze, Sez. T, n. 06196/2015, Valitutti, Rv. 635006, ha ritenuto che se l'appello è stato proposto nei soli confronti dell'Agenzia delle Entrate, si verifica l'implicita estromissione del Ministero dal processo.

Sul punto, va rilevato che la nuova disciplina del processo tributario, di cui al d. lgs. 24 settembre 2015, n. 156, in vigore dall'1 gennaio 2016, chiarisce definitivamente la questione, prevedendo espressamente l'eliminazione del riferimento all' ufficio del Ministero delle Finanze, sostituito con Agenzia delle Entrate e Agenzia delle Dogane e Monopoli di cui al decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300, o, comunque, enti impositori o agenti della riscossione.

5.1.c. Litisconsorzio.

Quanto, poi, ai casi di litisconsorzio processuale, l'omessa impugnazione della sentenza nei confronti di tutte le parti non determina l'inammissibilità dell'appello, ma la necessità per il giudice di ordinare l'integrazione del contraddittorio, pena la nullità del giudizio di appello (Sez. T, n. 10934/2015, Scoditti, Rv. 635458).

Sez. T, n. 21975/2015, Iofrida, Rv. 637009, ha, poi, ritenuto che, in caso di integrazione del contraddittorio ordinata dal giudice, nella specie nei confronti del concessionario della riscossione da parte dell'ente impositore per motivi attinenti a vizi formali della cartella rimasti assorbiti nel giudizio di primo grado, il mancato adempimento dell'ordine comporta l'estinzione del giudizio di appello e, conseguentemente, il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado.

Sez. T, n. 18361/2015, Greco, Rv. 636556, già citata al paragrafo 3.4, in un caso relativo alla legittimità della quota di ritenuta fiscale trattenuta da un comune sull'indennità di esproprio di immobili di più proprietari, ha sancito che contraddittore degli stessi è l'Amministrazione finanziaria dello Stato, mentre l'ente locale è soltanto sostituto di imposta e non litisconsorte necessario. Non si è quindi in presenza di una causa inscindibile e non vi è obbligo di disporre l'integrazione del contraddittorio nei suoi confronti neppure in secondo grado, una volta decorso il termine per l'impugnazione, per cui se il giudizio di appello si svolge senza la partecipazione dello stesso, non vi è alcuna violazione dell'art. 53 del d. lgs. n. 546 del 1992, secondo il quale l'appello deve essere proposto nei confronti di tutte le parti che hanno partecipato al giudizio di primo grado.

La distinzione tra cause scindibili ed inscindibili in appello torna anche nella sentenza della Sez. T, n. 15292/2015, La Torre, Rv. 636035, secondo cui, nelle cause scindibili o indipendenti, l'appello incidentale tardivo non può determinare un'estensione soggettiva del giudizio e non può quindi essere proposto contro parti diverse da quelle che hanno proposto l'impugnazione in via principale.

5.1.d. Tempestività dell'impugnazione.

A proposito della tempestività dell'impugnazione, Sez. T, n. 04310/2015, Valitutti, Rv. 634909, ha ritenuto che il termine di cui all'art. 327 c.p.c., applicabile in virtù del rinvio alle norme del codice contenuto nella disciplina del processo tributario, va calcolato prescindendo dal numero di giorni da cui è composto ciascun mese, ed aggiungendo quarantasei giorni corrispondente al termine di sospensione dei termini processuale durante il periodo feriale applicabile ratione temporis alla controversia in questione.

In caso di erronea notifica della sentenza per errore sulla norma processuale, con conseguente tardività dell'impugnazione, invece, non è applicabile l'istituto della rimessione in termini per l'impugnazione, non trattandosi di fatto impeditivo estraneo alla volontà della parte (Sez. T, n. 08151/2015, Olivieri, Rv. 635306).

Secondo Sez. T, n. 20040/2015, Iofrida, Rv. 636840, le regole sull'impugnazione tardiva di cui all'art. 334 c.p.c. e 370 e 371 c.p.c., si applicano esclusivamente a quella incidentale in senso stretto, cioè proveniente dalla parte contro cui è stata proposta l'impugnazione; per il ricorso adesivo di una parte a quello principale si applica, invece, la disciplina di cui all'art. 325 c.p.c.

5.1.e. Comunicazioni alle parti.

Le sentenze della Corte sul punto riguardano essenzialmente casi di omessa comunicazione alle parti di momenti essenziali del processo.

Sez. T, n. 06692/2015, Botta, Rv. 635199, già citata al paragrafo 4.6, in un caso di omessa o irregolare comunicazione dell'avviso di fissazione dell'udienza, oltre ad affermare la nullità, ha concluso che la stessa può essere fatta valere solo impugnando tempestivamente la sentenza conclusiva del giudizio o proponendo l'impugnazione tardiva ai sensi dell'art. 327 c.p.c.

In merito allo svolgimento del giudizio di appello nelle forme della pubblica udienza, senza che però sia stato dato preventivo avviso alla parte, si verifica una nullità processuale che travolge la sentenza per violazione del diritto di difesa. Non determina però la retrocessione del processo allo stesso grado di appello (Sez. T, n. 27496/2015, Meloni, Rv. 633674).

5.1.f. Svolgimento del giudizio.

In una serie di decisioni, la Corte si è occupata del problema delle questioni rilevabili d'ufficio o solo su eccezione di parte nel processo di appello.

In particolare, il decorso del termine di decadenza per l'esercizio del potere impositivo da parte dell'amministrazione fiscale è stato ritenuto non rilevabile di ufficio né proponibile per la prima volta in appello dalla parte, atteso che lo spirare di tale termine non riguarda diritti indisponibili dello Stato alla percezione di tributi, ma riguarda solo il diritto del contribuente a non essere esposto alle pretese del fisco senza limiti di tempo. Si tratta, quindi, di eccezione in senso proprio spettante alla parte e, appunto, non rilevabile di ufficio (Sez. 6-T, n. 00171/2015, Cosentino, Rv. 634246).

Anche la domanda di riduzione di imposta, in tema di ICI, di cui all'art. 8 del d. lgs. 30 dicembre 1992, n. 504 è stata ritenuta non proponibile per la prima volta in appello e non rilevabile d'ufficio, determinando un mutamento del fatto costitutivo della pretesa (Sez. T, n. 16236/2015, Di Blasi, Rv. 636095).

La censura di nullità del provvedimento impugnato per mancato espletamento del contraddittorio anticipato con il contribuente è stata ritenuta, ugualmente, eccezione in senso stretto atteso che riguarda l'invalidità dell'atto per violazione di norme procedimentali e non la contestazione della pretesa tributaria, e, quindi, inammissibile ove proposta per la prima volta in appello (Sez. T, n. 19414/2015, Olivieri, Rv. 636603), né rilevabile di ufficio.

Ed ancora, in un giudizio di impugnazione di diniego di rimborso IVA, la deduzione da parte dell'Ufficio del fatto che la somma versata a titolo di imposta dovesse essere assoggettata al meccanismo del pro rata, non è stata ritenuta ammissibile in quanto proposta per la prima volta in appello, trattandosi di eccezione in senso stretto (Sez. T, n. 14231/2015, Bielli, Rv. 635967).

La decadenza del contribuente dalla possibilità di chiedere il rimborso di un tributo indebitamente versato, determinata dal mancato rispetto dei termini fissati per l'istanza, è stata considerata, invece, rilevabile di ufficio in ogni stato e grado del giudizio, in quanto materia sottratta alla disponibilità delle parti, e quindi deducibile per la prima volta anche in appello (Sez. 6-T, n. 00317/2015, Cicala, Rv. 634139, che ha confermato un orientamento consolidato).

Allo stesso modo, la mancanza di data certa della scrittura privata non autenticata, in quanto ha valore di fatto impeditivo del riconoscimento del diritto, è stata ritenuta eccezione in senso lato, e quindi rilevabile di ufficio dal giudice anche in appello (Sez. T, n. 03404/2015, Virgilio, Rv. 634734).

In termini più generali, la Corte ha poi precisato che nel processo d'appello, la nuova difesa del contribuente, non riconducibile all'originaria causa petendi e fondata su fatti diversi da quelli dedotti in primo grado che ampliano la materia del contendere, non integra un'eccezione, ma una nuova domanda attraverso un motivo aggiunto, ed è quindi inammissibile (Sez. T, n. 13742/2015, Bruschetta, Rv. 635832).

In tema di sanzioni, per esempio, Sez. T, n. 01570/2015, Cirillo, Rv. 634346, ha ritenuto che il contribuente che alleghi, quale esimente, il fatto di essersi conformato ad indicazioni contenute in atti dell'Amministrazione, deve dedurre tempestivamente la questione nel giudizio, e non può proporla per la prima volta in appello.

Negli stessi termini, in un caso in cui si discuteva dell'esimente dell'errore sulla norma tributaria per obiettiva incertezza sulla portata ed ambito delle norme cui la violazione si riferiva, anche Sez. T, n. 00440/2015, Cirillo, Rv. 634427).

Diversamente, il fatto che il contribuente avesse aderito al condono ex art. 7 legge 289 del 2002, in un giudizio promosso dallo stesso contribuente di impugnazione del silenzio rifiuto su un'istanza di rimborso, è stato ritenuta questione di ordine pubblico, e quindi rilevabile di ufficio e proponibile per la prima volta in appello (Sez. T, n. 20650/2015, La Torre, Rv. 636896).

Altra questione di cui si è occupata la Corte, è, invece, quella relativa all'interpretazione del concetto di proposizione di una questione o eccezione in appello, su cui la parte sia rimasta soccombente in primo grado. Ai sensi dell'art. 56 d. lgs 546 del 1992, infatti, le questioni ed eccezioni non accolte nella sentenza della commissione provinciale, che non sono specificamente riproposte in appello, si intendono rinunciate e su di esse scende, di conseguenza, il giudicato.

Sez. T, n. 23228/2015, Terrusi, Rv. 637431, si è occupata di un caso relativo ad un accertamento di maggiore imposta di registro per decadenza dai benefici fiscali. La contribuente aveva eccepito in primo grado la decadenza dell'Amministrazione dalla pretesa impositiva. Soccombente davanti alla Commissione provinciale su questo aspetto, ma vittoriosa nel merito, nel giudizio di appello la stessa si limitava a riproporre l'argomento della decadenza, ma senza proporre appello incidentale. Soccombente in appello anche nel merito, ricorreva in Cassazione deducendo nuovamente l'errata applicazione della norma sulla decadenza dalla pretesa impositiva. La Corte rilevava che, in sede di giudizio di appello, la stessa avrebbe dovuto proporre appello incidentale sul punto, atteso che con l'espressione questioni non accolte l'art. 56 intende riferirsi a quelle proposte dalla parte e sui cui il giudice di primo grado non si è pronunciato, per esempio perché le ha ritenute assorbite. Quelle su cui, invece, vi è stata una espressa pronuncia devono essere impugnate tramite appello o appello incidentale, pena il formarsi del giudicato.

Negli stessi termini anche Sez. T, n. 24267/2015, Terrusi, Rv- 637561, secondo cui la riproposizione specifica delle questioni in appello, se può avvenire per relationem, non può però consistere in un mero richiamo generico alle difese ed agli atti del giudizio di primo grado.

5.1.g. Istruttoria.

In altre decisioni, la Corte si è occupata dell'istruttoria nel processo di appello.

Sez. T, n. 03661/2015, Chindemi, Rv. 634467 ha, in particolare, affrontato il problema della produzione dei documenti, affermando che i documenti tardivamente prodotti in primo grado, se prodotti in sede di appello entro il termine perentorio di venti giorni liberi prima dell'udienza, ed acquisiti al fascicolo processuale, sono utilizzabili dal giudice di appello per fondare la propria decisione.

Sez. T, n. 25491/2015, Zoso, non ancora massimata, ha ritenuto ammissibile, ai sensi dell'art. 58 d. dgs. 546 del 1992, la produzione in appello di un documento, nei limiti in cui la stessa non riguardi l'introduzione di una domanda nuova, e non violi pertanto l'art. 57 d. lgs. 546 del 1992.

Per contro, Sez. 5, n. 25464/2015, Federico, non ancora massimata, ha rilevato che, in caso di mancata produzione di un documento ad opera di una delle parti sia nel processo di primo grado che di appello, non è più consentito al giudice di appello ordinarne di ufficio la produzione ai sensi dell'art. 58 d. lgs. 546 del 1992, atteso che, a seguito dell'abrogazione dell'art. 7, comma 3, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, il giudice non può sopperire con la propria iniziativa officiosa all'inerzia delle parti.

5.1.h. La deliberazione e la sentenza.

Sulla conclusione del giudizio di appello, Sez. T, n. 17163/2015, Bielli, Rv. 636613 ha affermato che la ritardata deliberazione in camera di consiglio oltre trenta giorni dall'udienza di discussione o dall'esposizione del relatore (se non vi è stata udienza pubblica) non costituisce violazione del diritto di difesa del contribuente, lasciando intatti il potere di impugnare ed i relativi termini.

La Corte si è anche occupata dei vizi della sentenza, inclusa quella di appello, ritenendo che la stessa deve sempre avere il requisito della autosufficienza anche quando è redatta per relationem, con riferimento o ad altra sentenza non ancora definitiva o con adesione all'atto di impugnazione, nel senso che la stessa deve contenere una autonoma valutazione degli elementi da cui prende spunto ed una valutazione critica degli stessi permettendo di ricostruire l'iter logico seguito per la decisione; la mera motivazione per relationem diventa invece motivazione apparente affetta da nullità ai sensi dell'art. 360 comma 1 n. 4 c.p.c. (Sez. 6-T, n. 00107/2015, Conti, Rv. 633996; Sez. T, n. 20648/2015, Federico, Rv. 636648).

Quanto alla motivazione della sentenza di appello, Sez. T, n. 25889/2015, Bruschetta, non ancora massimata, ha rilevato che, mentre un vizio motivazionale circa l'accertamento di esistenza o di inesistenza di un fatto decisivo e controverso è rilevante come vizio della sentenza impugnata, ben diverso è il vizio consistente nella errata o insufficiente motivazione giuridica. In tal caso, lo stesso è irrilevante, tant'è vero che la Corte ai sensi dell'art. 384, comma 4, c.p.c. deve soltanto correggere o integrare la decisione, se la stessa è conforme a diritto.

Secondo sez. T, n. 26066/2015, Di Blasi, non ancora massimata, ricorre il vizio di omessa motivazione della sentenza, denunziabile in sede di legittimità, ai sensi dell'art.360, comma I n.5 cpc, nella duplice manifestazione di difetto assoluto o di motivazione apparente, quando il Giudice di merito ometta di indicare, nella sentenza, gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero indichi tali elementi senza una approfondita disamina logica e giuridica, rendendo in tal modo impossibile ogni controllo sull'esattezza e sulla logicità del suo ragionamento.

Sez. T, n. 26077/2015, Bruschetta, non ancora massimata, ha ritenuto che la sentenza di appello è nulla se il dispositivo non contiene una precisa determinazione del diritto che riconosce o del bene che intende far conseguire, così da lasciare assoluta incertezza sul contenuto e sulla portata della decisione e, quindi, sul concreto comando giudiziale.

5.1.i. L'estinzione.

Sez. 6-T, n. 22368/2015, Caracciolo, Rv. 637058, ha ritenuto che, in caso di estinzione del processo di appello per inattività delle parti, l'effetto che si produce è quello della cristallizzazione della situazione giuridica così come determinata dalla sentenza di primo grado, che acquista autorità di cosa giudicata.

5.2. Il giudizio di cassazione.

5.2.a. La proposizione.

La Corte si è occupata di alcune questioni legate agli atti prodromici ed introduttivi del giudizio di cassazione.

Innanzi tutto ha premesso che al ricorso per cassazione contro le sentenze delle commissioni tributarie regionali si applicano le norme del codice di procedura civile, e quindi, con riferimento al luogo della notificazione, l'art. 330 c.p.c. (Sez. T, n. 01972/2015, Terrusi, Rv. 634666).

Ha poi affermato che quando nel giudizio di appello l'Agenzia delle Entrate ha partecipato senza l'assistenza dell'Avvocatura dello Stato, la sentenza di appello può essere notificata, ai fini della decorrenza del termine breve per il ricorso in cassazione, sia presso la sede centrale dell'agenzia che presso l'ufficio periferico che, in quanto organo del primo, ha pari capacità di stare in giudizio (Sez. T, n. 00441/2015, Cirillo, Rv. 634432).

Il ricorso per cassazione promosso nei confronti del Ministero dell'Economia e Finanze anziché dell'Agenzia delle Entrate è stato considerato inammissibile poiché tutti i rapporti giuridici del primo sono stati trasferiti alla seconda a partire dall'1 gennaio 2001 (Sez. T, n. 01550/2015, Scoditti, Rv. 634617).

Sez. T, n. 25478/2015, Terrusi, non ancora massimata, ha ritenuto che il ricorso per cassazione instaurato nei confronti di un soggetto ritenuto erroneamente avere soggettività giuridica (nella specie, un trust nella disciplina anteriore al 2006), raggiunge tuttavia lo scopo e non è, quindi, inammissibile, se la controparte dotata di soggettività giuridica (nella specie, il trustee persona fisica) si costituisce in giudizio, sicché può essere esaminato nel merito.

Quanto al requisito della "indicazione delle parti" previsto a pena di inammissibilità del ricorso in cassazione dall'art. 366 n. 1 c.p.c., Sez. 6-T, n. 25399/2015, Cosentino, non ancora massimata, ha ritenuto, in conformità ad orientamento costante, che la sola indicazione del nome e cognome è sufficiente a soddisfare quanto richiesto dalla norma, non essendo necessaria l'indicazione di altri elementi quali la residenza della persona fisica (o la sede della società) e, tanto meno, del codice fiscale.

In materia di tempestività della notifica, Sez. T, n. 19060/2015, Cigna, Rv. 636563 ha affermato, in un caso di ricorso proposto con il termine lungo di cui all'art. 327 c.p.c., che se il primo tentativo di notifica non vada a buon fine per cause non imputabili al notificante, questi ha la facoltà e l'onere di richiedere una nuova notifica e di provare che il mancato perfezionamento della prima non gli sia addebitabile.

Tale prova, ai fini dell'ammissibilità del ricorso, deve essere data tramite la produzione dell'avviso di ricevimento entro l'udienza di discussione, senza che la stessa possa essere rinviata per tale motivo, salvo che il ricorrente abbia ottenuto la rimessione in termini se ne ricorrono i presupposti (Sez. T, n. 19623/2015, Cirillo, Rv. 636610).

Sez. T, n. 03755/2015, Federico, Rv. 634563, ha rilevato il momento di perfezionamento della notifica per il notificante, ai fini della valutazione sulla tempestività, nella consegna all'ufficiale giudiziario dell'atto da notificare, la cui prova può essere ricavata dal timbro da questi apposto sull'atto recante il numero cronologico e la data, anche se privo di sottoscrizione.

A pena di improcedibilità, poi, con il ricorso deve essere depositata anche copia autentica della sentenza impugnata, incombente che non può essere sostituito dal fatto che la sentenza sia già nel fascicolo di ufficio o sia stata depositata da controparte (Sez. T, n. 14207/2015, Botta, Rv. 635796).

Se la copia autentica della sentenza impugnata, depositata dal ricorrente, è incompleta, il ricorso è improcedibile (Sez. T, n. 01012/2015, Marulli, Rv. 634032).

Sez. T, n. 03425/2015, Sambito, Rv. 634476 ha dichiarato inammissibile un ricorso per cassazione la cui copia trasmessa per telefax dall'Avvocatura dello Stato era priva della firma del titolare dell'ufficio ricevente o suo sostituto, avendo ritenuto che la trasmissione tramite mezzi di telecomunicazione di atti giudiziari da parte dell'Avvocatura è sottoposta, a pena di inammissibilità, al doppio requisito che l'atto sia firmato dall'avvocato dello Stato che lo ha redatto e che la copia fotoriprodotta sia sottoscritta dal funzionario titolare dell'ufficio ricevente.

Infine, va ricordato che Sez. T, n. 16032/2015, Cirillo, Rv. 636342 ha affermato che un ricorso per cassazione tardivo, ancorché basato sulla compatibilità della decisione impugnata con la disciplina comunitaria, resta inammissibile, atteso che il diritto comunitario non impone al giudice nazionale di disapplicare le norme processuali interne da cui deriva l'autorità di cosa giudicata.

5.2.b. I motivi di ricorso.

Quanto ai motivi di ricorso, la Corte ha avuto modo di pronunciarsi su quello di omessa pronuncia da parte del giudice di appello, integrante violazione dell'art. 112 c.p.c., che ricorre quando l'esame di una censura mossa alla sentenza di primo grado è del tutto assente nella sentenza di appello, ma non quando il giudice di appello fonda la decisione su una costruzione logico-giuridica incompatibile con la domanda (Sez. T, n. 00452/2015, Crucitti, Rv. 634428).

Invece, il ricorso con cui sia stato denunciato l'errore del giudice di merito sulla percezione di documenti agli atti, è stato ritenuto inammissibile, non corrispondendo tale vizio ad alcuno dei motivi di ricorso di cui all'art. 360 c.p.c., ed integrando, piuttosto, un possibile motivo di revocazione (Sez. T, n. 20240/2015, Olivieri, Rv. 636661).

Sez. T, n. 26110/2015, Olivieri, non ancora massimata, ha marcato la differenza tra errore di fatto ed errore di diritto, esplicitando che il primo consiste nella errata valutazione delle risultanze probatorie, mentre il secondo consiste nella errata o inesatta individuazione della norma di riferimento alla fattispecie, o nella errata interpretazione della stessa, ed ha ribadito l'orientamento secondo cui il primo vizio è deducibile solo come vizio di motivazione ai sensi dell'art. 360 n. 5 c.p.c.

In ossequio al dettato di cui all'art. 360-bis c.p.c., poi, Sez. T, n. 23586/2015, Terrusi, Rv. 637474, ha ritenuto inammissibile - e non infondato nel merito, difformemente dal precedente Sez. U, n. 19051/2010, Vittoria, Rv. 614183 - il ricorso che non conteneva alcun elemento tale a superare il costante orientamento giurisprudenziale formatosi ed applicato nei gradi di merito (nella specie, in materia di impugnazione di attribuzione di categoria catastale di immobile rurale ai fini dell'ICI).

Da rimarcare, al riguardo, l'intervento della novella del processo tributario di cui al d.lgs 24 settembre 2015, n. 156, sul ricorso in cassazione, applicabile a partire dall'1 gennaio 2016, la quale prevede, in primo luogo, la possibilità del ricorso per saltum, per cui su accordo delle parti anche le sentenze di primo grado possono essere impugnate direttamente in cassazione; in secondo luogo, però, ciò potrà avvenire solo per il motivo di cui all'art. 360 comma 1, n. 3 c.p.c., e quindi per falsa applicazione di legge.

5.2.c. I requisiti del ricorso: il principio di autosufficienza.

In merito ai requisiti del ricorso per cassazione, in varie sentenze la Corte si è occupata del requisito dell'autosufficienza: Sez. T, n. 02928/2015, Meloni, Rv. 634343, e Sez. T, n. 16010/2015, Bruschetta, Rv. 636268 hanno rilevato che sono inammissibili, per difetto di tale requisito, ricorsi contro sentenze che hanno ritenuto correttamente motivati o comunque legittimi degli atti impositivi, se è omessa la trascrizione del contenuto di questi ultimi.

Sez. T, n. 02617/2015, Bruschetta, Rv. 634157 ha affermato che, se nel ricorso si rileva la avvenuta formazione di un giudicato esterno, il ricorrente ha l'onere, a pena di inammissibilità, di riprodurre il testo della sentenza che si assume essere divenuta definitiva, senza che sia sufficiente un riassunto sintetico della stessa.

Sez. T, n. 14784/2015, Marulli, Rv. 636120 ha dato una definizione generale del principio di autosufficienza nel ricorso in cassazione, affermando che lo stesso significa che il ricorso <<deve contenere in sé tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito e, altresì, a permettere la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza la necessità di fare rinvio ed accedere a fonti esterne allo stesso ricorso>>. In base a tale principio, il ricorrente ha l'onere di dare il quadro completo dei motivi e degli elementi che li sorreggono, anche sotto il profilo della produzione dei necessari documenti.

Sez. T, n. 23575/2015, Napolitano, Rv. 637488, ha precisato che il requisito di cui all'art. 366 n. 6 c.p.c., secondo cui il ricorso deve contenere la specifica indicazione degli atti processuali e dei documenti sui quali il ricorso si fonda, non è soddisfatto con il mero deposito della sentenza impugnata ed il richiamo al fatto che la documentazione è depositata nel fascicolo di appello, ma richiede un riferimento ai documenti specifici su cui si fonda il ricorso.

Secondo Sez. T, n. 18363/2015, Bielli, Rv. 636551, anche l'integrale riproduzione nel ricorso di una serie di documenti può ugualmente violare il principio di autosufficienza, e renderlo, quindi, inammissibile, non permettendo di riconoscere i dati effettivamente rilevanti, salvo situazioni particolari da valutare in relazione ai singoli motivi.

Se il vizio denunciato nel ricorso in cassazione è un error in procedendo, Sez. T, n. 19410/2015, Iofrida, Rv. 636606 afferma che, per il principio di autosufficienza, la parte dovrebbe riportare nel ricorso tutti gli elementi che consentano di individuare nei suoi termini esatti e non genericamente il vizio dedotto, così da permettere alla Corte di compiere il controllo del corretto svolgersi dell'iter processuale ed esaminare direttamente gli atti del giudizio di merito.

5.2.d. La fase istruttoria.

Quanto alla fase istruttoria, Sez. T, n. 00950/2015, Chindemi, Rv. 634957 si è occupata del problema dell'ammissibilità della produzione di documenti, anche preesistenti alla proposizione del ricorso, ma necessari per far valere eccezioni basate su principi nuovi affermati dalla giurisprudenza sovranazionale dopo la proposizione dell'impugnazione. Così, nella specie, per permettere alla parte di eccepire il principio del ne bis in idem a seguito dell'affermazione dello stesso da parte della Corte Europea dei Diritti Umani, avvenuta dopo la proposizione del ricorso ma prima dell'udienza, è stata ammessa la produzione di documenti esistenti già anteriormente alla proposizione del ricorso in cassazione.

5.2.e. La decisione.

Sez. 6-T, n. 23875/2015, Crucitti, Rv. 637511, ribadisce l'orientamento consolidato secondo cui, anche nel giudizio di cassazione, il giudice non è vincolato alla qualificazione giuridica della questione data dalla parte; se, pertanto, la parte invoca un principio, ma sulla base di norme inconferenti, il giudice può ugualmente accogliere il ricorso dando la adeguata veste giuridica alla questione, ed individuando la normativa correttamente applicabile.

In fase di decisione, non è escluso per la Corte di Cassazione la possibilità di decidere nel merito, purchè la questione, rimasta assorbita in appello, sia stata riproposta con un ricorso incidentale ritualmente azionato (Sez. T, n. 02180/2015, Cirillo, Rv. 634724).

Quanto alla condanna del soccombente al pagamento di una somma a favore della controparte in caso di colpa grave, Sez. T, n. 15030/2015, Terrusi, Rv. 636051, ha affermato che, nonostante l'abrogazione di tale istituto a partire dal 4 luglio 2009, lo stesso si applica ancora alle sentenze dei giudizi di legittimità pubblicate dopo tale data, purché il giudizio di primo grado fosse stato instaurato anteriormente. La nuova normativa, infatti, opera solo per i procedimenti in cui il giudizio di primo grado sia stato instaurato dopo la data suddetta.

In caso di decisione di annullamento con rinvio e successiva mancata riassunzione, si determina l'estinzione del procedimento che comporta la definitività dell'avviso di accertamento originariamente impugnato (Sez. 6-T, n. 21143/2015, Crucitti, Rv. 637007).

5.2.f. L'estinzione per rinuncia.

L'estinzione del giudizio di cassazione per rinuncia può essere pronunciata, secondo l'art. 391 c.p.c., per decreto oppure con sentenza, in quest'ultimo caso quando la Corte deve decidere altri ricorsi contro lo stesso provvedimento.

Sez. T, n. 16625/2015, Iofrida, Rv. 636311, riconosce lo stesso effetto al decreto ed alla sentenza, con la differenza che, mentre nei confronti della sentenza è ammessa la revocazione ai sensi dell'art. 391 bis c.p.c., contro il decreto - che contenga o meno anche una pronuncia sulle spese - è prevista solo la possibilità di fissazione di una udienza collegiale per discutere l'eventuale ricorso da proporsi entro dieci giorni dalla comunicazione del provvedimento.

Sez. T, n. 23751/2015, Olivieri, non ancora massimata, ha specificato che quando il decreto si riferisce solo ad alcune delle parti in causa, lo stesso spiega i suoi effetti solo in relazione ad esse e non estingue l'intero giudizio, cosicché l'istanza, nella specie da parte dell'Amministrazione, di fissazione dell'udienza per la prosecuzione del giudizio - nei confronti della parte rispetto alla quale esso non si è estinto - non è soggetta al termine di cui al comma 3, e quindi non è inammissibile se proposta oltre tale termine.

5.2.g. Il giudizio di rinvio.

La Corte si è anche occupata del giudizio di rinvio a seguito di annullamento da parte della Corte di Cassazione, affermando che, anche nel contenzioso tributario, così come in quello ordinario, lo stesso è un processo chiuso che deve attenersi alle decisioni, agli effetti ed ai principi di diritto della sentenza della Corte, cosicché le parti non possono, con le loro domande od eccezioni, allargarne l'ambito al di fuori degli originari confini (Sez. 6-T, n. 18600/2015, Iacobellis, Rv. 636302).

In esso è anche preclusa l'acquisizione di nuove prove, quali la produzione di nuovi documenti anche se consistenti in una perizia d'ufficio disposta in altro giudizio, salvo che la loro produzione non sia giustificata da fatti sopravvenuti riguardanti, però, la controversia in decisione, oppure da esigenze determinate dalla sentenza di annullamento della Cassazione o, infine, che la loro produzione sia stata impossibile in precedenza per cause di forza maggiore (Sez. T, n. 19424/2015, Marulli, Rv. 636813).

Sul giudizio di rinvio non influisce neppure il giudicato formatosi in separato giudizio in data anteriore a quella del giudizio di legittimità (Sez. T, n. 25468/2015, Iofrida, non ancora massimata).

Da segnalare che la citata novella del processo tributario, di cui al d.lgs. 156 del 2015, in vigore dall'1 gennaio 2016, ha ridotto il termine di riassunzione del giudizio di rinvio da un anno a sei mesi.

5.3. La revocazione.

Sez. T, n. 17163/2015, Bielli, Rv. 636612 ha ravvisato un errore revocatorio nell'omesso esame del motivo di ricorso con cui si denunciava la mancata valutazione di una doglianza relativa alla lesione del diritto di difesa derivante dalla ritardata delibera oltre trenta giorni di una decisione di commissione tributaria.

Sez. T, n. 01554/2015, Greco, Rv. 634616 si è invece occupata del significato dell'espressione stesso giudice con cui l'art. 398 c.p.c. individua l'organo giudiziario davanti al quale si svolge il giudizio di revocazione, affermando che con essa non si devono intendere le stesse persone fisiche autrici della sentenza oggetto di revocazione, ma lo stesso ufficio giudiziario, cosicché il giudizio di revocazione si può svolgere, all'interno dello stesso ufficio, anche davanti ad una sezione diversa da quella che ha emesso la sentenza impugnata. La novella processuale è intervenuta anche su tale istituto, tra l'altro semplificando la norma sui presupposti per l'impugnazione tramite revocazione, sostituendo l'espressione sentenze che involgono accertamenti di fatto e che sul punto non sono ulteriormente impugnabili, con il più lineare le "sentenze pronunciate in grado di appello o in unico grado dalle commissioni tributarie".

6. Il giudicato.

Una prima questione che la Corte ha affrontato nel 2015 in materia di giudicato attiene alla certificazione della definitività di una sentenza. Al riguardo, Sez. T, n. 21366/2015, Bruschetta, Rv. 636957, ha ritenuto che in mancanza di una previsione specifica sulla certificazione del passaggio in giudicato della sentenza, va applicato per "analogia legis", secondo la previsione dell'art.1,comma 2,del d.lgs. 546 del 1992, l'art. 124 d.a.c.p.c., sicché è necessario che il segretario della Commissione tributaria, provinciale o regionale, certifichi, in calce alla copia della sentenza contenente la relazione della notificazione alla controparte o alla copia della sentenza non notificata, che nei termini di legge non è stata proposta impugnazione, mentre non puo' ritenersi equipollente l'attestazione della Commissione tributaria provinciale secondo cui, ad una data posteriore alla scadenza del termine per la proposizione dell'appello di una sua sentenza, non è stata chiesta dalla Commissione tributaria regionale la trasmissione del fascicolo di primo grado prevista dall'art. 53, comma 3, del d.lgs n.546 del 1992. Altre sentenze della Corte nel 2015 sono tese, invece, a specificare i limiti del giudicato. Così, la Corte ha ribadito che le preclusioni derivanti dallo stesso operano solo quando tra i due giudizi vi sia identità di parti, e quindi, nella specie, non ha ritenuto violato il principio del ne bis in idem in un caso in cui il contribuente aveva instaurato due giudizi avverso lo stesso provvedimento di diniego di rimborso, ma uno contro l'Ufficio distrettuale delle imposte e l'altro contro l'Intendenza di Finanza (Sez. T, 03187/2015, Iofrida, Rv. 634517).

Sez. T, n. 25468/2015, Iofrida, non ancora massimata, già citata al paragrafo 5.2, ha precisato che il giudicato formatosi in separato giudizio in data anteriore a quella del giudizio di legittimità non influisce sul successivo giudizio di rinvio, attesa la natura di giudizio "chiuso" dello stesso.

In un'altra decisione, la Corte ha specificato che il giudicato esterno preclude nuovi accertamenti tra le stesse parti quando si tratti degli stessi accertamenti di fatto posti in essere nello stesso quadro normativo (Sez. T, n. 20257/2015, Napolitano, Rv. 636593).

In questo senso, gli effetti del giudicato possono estendersi anche a parti diverse da quelle interessate dal giudizio in cui il giudicato stesso si è formato. Questo, in particolare, quando le posizioni ed i diritti di cui si discute nel nuovo procedimento siano direttamente collegati e dipendenti dagli accertamenti nel processo, tra parti diverse, in cui si è formato il giudicato. Si tratta del c.d. effetto riflesso del giudicato su cui si è soffermata Sez. 6-T, n. 23899/2015, Cosentino, Rv. 637506, che ha affermato che il giudicato formatosi nel giudizio sul presunto maggior reddito a carico di una società a ristretta base partecipativa, nel senso di escludere l'esistenza dello stesso, produce effetti nel separato giudizio sull'avviso di accertamento nei confronti del singolo socio, in quanto l'accertamento del maggior reddito in capo alla società costituisce il presupposto dell'accertamento del maggior reddito in capo al socio, cosicché l'annullamento del primo giustifica l'annullamento del secondo.

Sez. T, n. 16615/2015, Federico, Rv. 636825 ha ulteriormente ribadito che l'efficacia riflessa del giudicato esterno opera solo per le sentenze definitive. Non è possibile, quindi, decidere la causa pregiudicata, in materia di sanzioni, in base alla decisione, non ancora passata in giudicato, della causa pregiudiziale di impugnazione dell'atto di accertamento; in tal caso, invece, il processo pregiudicato deve essere sospeso ex art. 295 c.p.c.

Non ha, invece, effetto di giudicato esterno nel giudizio di impugnazione dell'atto di accertamento la sentenza resa nel giudizio di impugnazione della cartella che abbia dichiarato la cessazione della materia del contendere a seguito di sgravio, e non sia stata impugnata (Sez. T, n. 21590/2015, Bruschetta, Rv. 636905).

In caso di erronea redazione della sentenza, nel senso che la stessa, emessa tra determinate parti ma con motivazione e dispositivo relativi ad una diversa controversia concernente altri soggetti, la Corte ha ritenuto che non vi siano gli estremi per la formazione del giudicato sul rapporto controverso, essendo la sentenza affetta da nullità insanabile rilevabile anche d'ufficio (Sez. T, n. 15002/2015, Ferro, Rv. 636162).

Questione spesso ricorrente in materia tributaria, dove non è raro che gli accertamenti coprano più annualità, è se il giudicato formatosi su una annualità si estenda anche alle altre, oggetto di separato giudizio.

Sez. T, n. 06953/2015, Cirillo, Rv. 635195 si è occupata del problema, giungendo alla conclusione che la sentenza sul contenuto e obblighi del contribuente per un determinato anno di imposta fa stato nei procedimenti tra le stesse parti e sulla stessa imposta per gli anni successivi solo per quanto attiene a quegli aspetti costitutivi della fattispecie che possono considerarsi di carattere permanente, mentre non ha alcuna efficacia se l'accertamento si fonda su presupposti diversi. Il principio, conforme a SS.UU. n. 13916/2006, Rv. 589696, è stato ribadito anche da Sez. T, n. 25281/2015, Iannello, non ancora massimata.

A conclusioni non dissimili è giunta anche Sez. T, n. 04832/2015, Virgilio, Rv. 635058.

Così, è stato ritenuto elemento strutturale, per cui il giudicato sullo stesso si estende ad annualità diverse da quella in contestazione in materia di ICI, il riconoscimento della qualifica di imprenditore agricolo (Sez. T, n. 23032/2015, Di Blasi, Rv. 637168).

Sulla base dello stesso principio, non è stata, invece, riconosciuta efficacia vincolante al giudicato in un caso di accertamento basato sugli studi di settore, atteso che gli elementi che rivelano la capacità contributiva possono variare di periodo in periodo (Sez. T, n. 13498/2015, Cigna, Rv. 635809).

In materia di accertamenti su dichiarazioni congiunte dei coniugi, poi, Sez. T, n. 23553/2015, Federico, Rv. 637429 (già citata al par. 3.1.), ha stabilito che <<la moglie codichiarante è legittimata ad impugnare autonomamente l'avviso di accertamento notificato al marito, ancorché divenuto definitivo nei confronti di quest'ultimo (proprio a seguito del giudicato negativo formatosi nei suoi confronti), o, comunque, a contestare la pretesa tributaria su di esso fondata, proponendo ricorso avverso la cartella di pagamento o l'avviso di mora a lei diretti, atteso che, pur non essendo necessario, affinché insorga la sua responsabilità solidale, che le sia notificato l'avviso di accertamento, il suo diritto di difesa non può essere pregiudicato>>.

In materia di condebitori solidali e limiti soggettivi del giudicato, poi, Sez. T, n. 12766/2015, Meloni, Rv. 635750 ha statuito che il passaggio in giudicato della decisione costituisce uno dei requisiti per l'opponibilità, ai sensi dell'art. 1306, comma 2, c.c., da parte degli altri condebitori solidali, della sentenza pronunciata tra l'amministrazione finanziaria ed uno dei condebitori in solido.

Sez. 6-T, n. 25401/2015, Caracciolo, non ancora massimata, peraltro, ha precisato che, in caso di coobbligati solidali che abbiano impugnato separatamente l'avviso di accertamento, il giudicato formatosi in una controversia, risoltasi in maniera favorevole al contribuente, non spiega i suoi effetti favorevoli anche nei confronti degli altri coobbligati allorchè il motivo dell'accoglimento dell'impugnazione preventivamente proposta da uno dei coobbligati sia relativo a questioni personali, cioè riferite soltanto al condebitore più diligente che ha ottenuto il preventivo provvedimento favorevole.

In applicazione dello stesso principio, Sez. T, n. 25890/2015, Bruschetta, non ancora massimata, ha ritenuto che l'eccezione di decadenza dell'amministrazione dall'accertamento rientra tra le eccezioni personali ex art. 1297 c.c. e che, pertanto, l'art. 1306, comma 2, c.c. non consente di opporre un giudicato favorevole al coobbligato fondato sulla decadenza.

7. La conciliazione.

Nel corso del 2015, la Corte ha avuto modo di occuparsi anche dell'istituto della conciliazione di cui all'art. 48 del d. lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, ed, in particolare, del momento del suo perfezionamento come causa di cessazione della materia del contendere.

Sez. 6-T, n. 14547/2015, Conti, Rv. 635867, ha chiarito che il momento in cui si perfeziona la conciliazione e si determina la cessazione della materia del contendere è solo quello del versamento della somma concordata. Se la proposta di conciliazione è depositata dopo la fissazione dell'udienza ma prima della trattazione in camera di consiglio, pertanto, la commissione tributaria deve rinviare l'udienza di trattazione ad una data successiva alla scadenza del termine per il versamento.

Partendo dallo stesso presupposto secondo il quale la conciliazione si perfeziona solo con il versamento, Sez. 6-T, n. 09019/2015, Conti, Rv. 635493, ha affermato che, in caso di conciliazione giudiziale rateale, la stessa si perfeziona con il versamento almeno della prima rata concordata, entro venti giorni dalla data di redazione del processo verbale, e con la prestazione di garanzie per l'importo delle rate successive, ma il mancato adempimento degli obblighi indicati non permette l'estinzione del processo tributario per cessazione della materia del contendere.

Va rilevato, sul punto, che l'istituto della conciliazione subirà profonde modifiche dal 1 gennaio 2016, a seguito della entrata in vigore della novella del processo tributario di cui al d.lgs. 24 settembre 2015, n. 156, cosicché alcuni principi enunciati nelle decisioni sopra citate dovranno essere oggetto di riconsiderazione. In particolare, la conciliazione viene estesa anche alle liti pendenti in fase di appello, mentre resta sempre esclusa per i giudizi pendenti in cassazione.

A differenza del passato, poi, potranno essere oggetto di conciliazione anche le controversie rientranti tra quelle suscettibili di reclamo/mediazione, non esistendo più il principio di alternatività tra questi istituti e la conciliazione.

La novella prevede due modalità di conciliazione: in udienza e fuori udienza. In entrambi i casi, il perfezionamento della conciliazione è rappresentato dalla stesura del processo verbale con cui le parti raggiungono l'accordo, e non più dal pagamento (a differenza, appunto, di quanto si affermava fino ad ora in giurisprudenza, come attestato dalle decisioni sopra riportate). Tuttavia, il processo verbale ha effetto novativo del precedente rapporto e costituisce titolo per la riscossione, in caso di mancato versamento di quanto previsto nell'accordo consacrato al suo interno. Per favorire tale forma di deflazione processuale, poi, è prevista la possibilità di una riduzione delle sanzioni in misura maggiore rispetto ad oggi.

8. Il giudizio di ottemperanza.

In una sentenza emessa nel corso del 2015, la Suprema Corte si è occupata del giudizio di ottemperanza sotto il profilo dell'individuazione dei mezzi di gravame applicabili contro le relative sentenze.

In particolare, Sez. T, n. 20639/2015, Virgilio, Rv. 636649, ha affermato che contro le sentenze emesse in tale sede, sia dalle commissioni provinciali che regionali, è ammesso solo il ricorso per cassazione, poiché la previsione dell'appello come mezzo di gravame anche per le sentenze delle commissioni regionali creerebbe una disarmonia nel sistema processuale, per cui l'unica possibile conclusione è che le decisioni delle commissioni provinciali siano impugnabili con ricorso in cassazione.

Da rilevare che anche sul punto la novella processuale di cui al d. lgs 156 del 2015 è intervenuta; prima di tutto ha eliminato dal testo vigente di cui all'art. 70 del d. lgs. 546 del 1992 l'inciso "salvo quanto previsto dalle norme del codice di procedura civile per l'esecuzione forzata della sentenza di condanna costituente titolo esecutivo", chiarendo così che solo il giudizio di ottemperanza è lo strumento per l'esecuzione delle sentenze tributarie. In secondo luogo, il giudizio di ottemperanza sarà possibile anche nei confronti dell'agente della riscossione, in quanto lo stesso svolge un'attività oggettivamente di natura pubblica, e viene così equiparato all'ente impositore.

Va, infatti, evidenziato che la novella del processo tributario ha previsto l'immediata esecutorietà, estesa a tutte le parti in causa, delle sentenze emesse dalle commissioni tributarie. L'immediata esecutività, in particolare, riguarda, tra le altre, anche quelle di condanna dell'Amministrazione al pagamento di somme in favore del contribuente, mentre fino ad oggi perché le stesse avessero tale requisito era necessario attendere il passaggio in giudicato.

Ora, sebbene tale norma, a differenza della maggior parte delle altre previsioni del testo legislativo, entrerà in vigore solo dall'1 giugno 2016, e sebbene la normativa preveda anche che il pagamento da parte dell'Amministrazione possa essere subordinato alla prestazione di una garanzia da parte del contribuente in attesa della definitività della sentenza, resta il fatto che la prospettata esecutività delle sentenze prima del giudicato potrebbe avere riflessi sull'utilizzo del giudizio di ottemperanza, unico mezzo per consentire l'esecuzione delle stesse.

Il giudizio di ottemperanza dovrebbe quindi acquistare in futuro un rilievo notevole nel campo del contenzioso tributario.

9. Il patrocinio a spese dello Stato nel processo tributario.

La Corte si è occupata della materia con riguardo al caso in cui nel processo tributario sia parte un fallimento, precisando che, in tale ipotesi, l'ammissione al patrocinio statale segue la procedura dell'art. 144 del d.P.R. n. 115 del 2002 (secondo cui <<Nel processo in cui è parte un fallimento, se il decreto del giudice delegato attesta che non è disponibile il denaro necessario per le spese, il fallimento si considera ammesso al patrocinio ai sensi e per gli effetti delle norme previste dalla presente parte del testo unico, eccetto quelle incompatibili con l'ammissione di ufficio>>), e non quella di cui agli artt. 138 e 139 dello stesso decreto, in quanto le funzioni di vigilanza del giudice delegato prevalgono rispetto a quelle delle commissioni del patrocinio a spese dello Stato operanti, presso ogni commissione tributaria, a norma di tali ultimi articoli (Sez. T, n. 07842/2015, Vella, Rv. 635174).

  • magistrato
  • notaio
  • procedura disciplinare
  • deontologia professionale
  • avvocato

CAPITOLO XLV

I PROCEDIMENTI DISCIPLINARI

(di Gianluca Grasso )

Sommario

1 Premessa. - 2 La responsabilità disciplinare dei magistrati. - 2.1 Gli illeciti disciplinari. - 2.1.a I comportamenti che, violando i doveri di imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo ed equilibrio, e di rispetto della dignità della persona, arrecano un ingiusto danno o un indebito vantaggio a una delle parti. - 2.1.b L'omissione della comunicazione delle situazioni di incompatibilità. - 2.1.c La violazione del dovere di correttezza. - 2.1.d La grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile. - 2.1.e L'indebito affidamento ad altri di attività rientranti nei propri compiti. - 2.1.f Il reiterato, grave e ingiustificato ritardo nel compimento degli atti relativi all'esercizio delle funzioni. - 2.1.g La condotta disciplinare irrilevante. - 2.2 Il procedimento disciplinare. - 2.2.a Profili generali. - 2.2.b Termini dell'azione disciplinare. - 2.2.c Rapporti tra il procedimento disciplinare e il giudizio penale. - 2.2.d Impugnazioni delle decisioni della Sezione disciplinare del C.S.M. - 2.3 Le misure cautelari. - 2.3.a Trasferimento cautelare ad altra sede. - 2.3.b Sospensione cautelare obbligatoria. - 2.3.c Cessazione degli effetti della sospensione cautelare. - 3 La responsabilità disciplinare degli avvocati. - 3.1 Gli illeciti disciplinari. - 3.2 Il procedimento disciplinare. - 3.2.a Sospensione per pregiudizialità penale e decorrenza del termine per la riassunzione ex art. 297 c.p.c. - 3.2.b Il nuovo codice deontologico e i procedimenti in corso al momento della sua entrata in vigore: favor rei e regime della prescrizione. - 4 La responsabilità disciplinare dei notai.

1. Premessa.

La rassegna sulla responsabilità disciplinare contempla le pronunce rese in tale ambito dalla S.C. nei riguardi dei magistrati, degli avvocati e dei notai.

2. La responsabilità disciplinare dei magistrati.

Sul tema della responsabilità disciplinare dei magistrati, le pronunce delle Sezioni Unite hanno riguardato talune fattispecie di illecito, con particolare riguardo all';ipotesi dei ritardi nel deposito dei provvedimenti giurisdizionali, le misure cautelari, nonché le norme procedurali che regolano il giudizio sia dinanzi alla sezione del C.S.M., sia in sede di legittimità.

Si segnala, inoltre, Corte cost., 16 luglio 2015, n. 170, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 13, comma 1, secondo periodo, del d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, limitatamente alle parole da <<quando ricorre>> a <<nonché>>, censurando la norma che disponeva l'obbligatorietà del trasferimento del magistrato ad altra sede o ad altro ufficio quando ricorreva una delle violazioni stabilite dall';art. 2, comma 1, lett. a).

2.1. Gli illeciti disciplinari.

Sugli illeciti disciplinari, la Corte è intervenuta su diverse fattispecie che discendono dall'esercizio delle funzioni, con particolare riguardo alla violazione dei doveri di imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo ed equilibrio, all'omissione della comunicazione delle situazioni di incompatibilità, alla violazione del dovere di correttezza, alla grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile, all'indebito affidamento ad altri di attività rientranti nei propri compiti, al reiterato, grave e ingiustificato ritardo nel compimento degli atti relativi all'esercizio delle funzioni.

2.1.a. I comportamenti che, violando i doveri di imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo ed equilibrio, e di rispetto della dignità della persona, arrecano un ingiusto danno o un indebito vantaggio a una delle parti.

Riguardo al ritardo nella scarcerazione, riconducibile all'art. 2, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 109 del 2006, Sez. U, n. 04954/2015, Curzio, Rv. 634508, ha chiarito che il "danno ingiusto" arrecato a una delle parti dall'incolpato in violazione del dovere di diligenza di cui all'art. 1 del d.lgs. n. 109 del 2006, necessario per la sussistenza dell'illecito, non viene meno allorquando l'imputato, illegittimamente privato della libertà personale a seguito di una permanenza in custodia cautelare oltre i limiti temporali previsti dalla legge, sia successivamente condannato a una pena detentiva di durata superiore alla misura preventiva sofferta. Le Sezioni Unite, nel rigettare l'impugnazione, hanno avuto modo di precisare che l'attuale assetto dei valori costituzionali implica che la condanna successiva non compensa il danno alla libertà personale subito dall'indagato, tenuto conto della non identità dei beni giuridici tutelati, mentre il danno si determina nel momento (e per tutto il tempo) in cui vengono superati i limiti massimi di custodia cautelare fissati dalla legge e non può poi estinguersi, a distanza di tempo, per il solo fatto – comunque incerto sia nel "se" che nel "quando" – del passaggio in giudicato della sentenza di condanna.

Sugli elementi costitutivi dell'illecito previsto dall'art. 2, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 109 del 2006, con particolare riguardo all'elemento psicologico, Sez. U, n. 04953/2015, Curzio, Rv. 634503, ha evidenziato che la fattispecie sussiste anche nel caso in cui la violazione dei doveri di imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo ed equilibrio sia stata colposa e l'evento del danno ingiusto o dell'indebito vantaggio per una delle parti non sia stato previsto o voluto, atteso che la limitazione della sanzione disciplinare al solo illecito doloso la identificherebbe con la sanzione penale, mentre esse hanno finalità, intensità e ambiti diversi.

Con riferimento alle violazioni stabilite dall'art. 2, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 109 del 2006, Corte cost., 16 luglio 2015, n. 170, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale, per violazione dell'art. 3 Cost., dell'art. 13, comma 1, secondo periodo, del d.lgs. n. 109 del 2006, limitatamente alla parte che prevede l'obbligatoria e automatica irrogazione dell'ulteriore sanzione del trasferimento del magistrato ad altra sede o ad altro ufficio. La questione era stata sollevata da Sez. U, n. 11228/2014, Bucciante, Rv. 630887, e da C.S.M., Sezione disciplinare, ord. 14 luglio 2014. La Consulta, nel ritenere fondati i rilievi formulati dalle Sezioni Unite – ma respingendo come manifestamente inammissibile la questione posta dal C.S.M. per ragioni di rito, avendo adottato la Sezione disciplinare una motivazione per relationem – ha affermato che la norma censurata, disponendo l'obbligatorietà del trasferimento del magistrato ad altra sede o ad altro ufficio quando ricorre una delle violazioni stabilite dall'art. 2, comma 1, lett. a), delinea una sanzione rigida, la cui applicazione, essendo basata su una presunzione assoluta, non è conseguenza del necessario rapporto di adeguatezza col caso concreto, e rispetto alla quale l'indispensabile gradualità applicativa non forma oggetto di specifica valutazione. È stata ritenuta altresì sussistente la lesione del principio di uguaglianza, derivante dal diverso e più grave trattamento sanzionatorio riservato – senza alcun riferimento alla gravità dell'elemento materiale o psicologico – al solo illecito de quo, sia l'irragionevolezza dell'automatismo sanzionatorio, la cui ratio non poteva rinvenirsi neppure in una particolare gravità dell'illecito, desumibile dalla peculiarità della condotta, dalla misura della pena o dal rango dell'interesse protetto.

2.1.b. L'omissione della comunicazione delle situazioni di incompatibilità.

In relazione all'illecito disciplinare per omessa comunicazione al C.S.M. delle situazioni di incompatibilità, Sez. U, n. 05682/2015, Amendola, Rv. 634504, ha ricompreso nelle fattispecie rilevanti, ai sensi dell'art. 42 della circolare del C.S.M. n. P-12940 del 25 maggio 2007 e successive modificazioni, la convivenza tra il P.M. e l'ufficiale di polizia giudiziaria stabilmente assegnato alla sezione, a prescindere dalle forme burocratiche di tale assegnazione. Secondo la S.C., la previsione dell'incompatibilità è diretta a tutelare la correttezza e l'imparzialità dell'attività giudiziaria, il cui esercizio, anche solo a livello di immagine, potrebbe essere leso dall'esistenza di legami affettivi e di convivenza tra il magistrato investito del compito di dirigere le indagini e il personale di polizia giudiziaria chiamato a eseguirle, sì da dare luogo a sodalizi percepibili dall'esterno come centri di potere, anziché come strutture operative a fini di giustizia. Si trattava, nella specie, di un brigadiere "aggregato" e non "addetto" alla sezione, considerato che di fatto lo stesso vi aveva svolto in via continuativa e per ben nove anni la sua attività, di talché il magistrato si era trovato a esercitare il singolare ruolo di direzione e di controllo del convivente. La mancata segnalazione al C.S.M. del rapporto con l'ufficiale di polizia giudiziaria assegnato alla sezione è stata ritenuta idonea a integrare l'illecito di cui all'art. 2, comma 2, lett. b), del d.lgs. n. 109 del 2006.

2.1.c. La violazione del dovere di correttezza.

Sulla rilevanza disciplinare di comportamenti abitualmente o gravemente scorretti nei confronti di altri magistrati, Sez. U, n. 07957/2015, Frasca, Rv. 634940, in una vicenda riguardante la magistratura militare, parimenti sottoposta alle disposizioni di cui al d.lgs. n. 109 del 2006, ha ritenuto integrare l'illecito previsto dall'art. 2, comma 1, lett. d), la condotta del sostituto procuratore militare della Repubblica che, assegnatario col procuratore di un fascicolo d'indagine, ne abbia disposto la trasmissione all'autorità giudiziaria ordinaria senza informare il dirigente coassegnatario. Secondo le Sezioni Unite, la condotta costituisce un comportamento gravemente scorretto a prescindere dalla fondatezza della valutazione sulla sussistenza della giurisdizione ordinaria. Il ricorrente aveva infatti eccepito che la condotta potesse essere scriminata dall'art. 2, comma 2, del d.lgs. n 109 del 2006, in quanto riconducibile all'attività di interpretazione di norme di diritto e a quella di valutazione del fatto e delle prove. Tuttavia, la S.C. ha escluso la rilevanza della censura, ritenendo che l'oggetto dell'incolpazione fosse un'attività compiuta unilateralmente da chi, essendo coassegnatario, avrebbe dovuto procedere di concerto, e non dunque un'attività di esegesi o di valutazione, dovendo l'una e l'altra essere compiute unitamente all'altro magistrato o con il suo accordo.

Sulla violazione del dovere di correttezza, Sez. U, n. 10796/2015, Bernabai, Rv. 635366, ha evidenziato che l'offesa recata dal magistrato all'onore e al decoro altrui ha rilevanza disciplinare perché idonea a incidere sulla credibilità e sull'immagine dell'autore, anche qualora la diffamazione non sia penalmente perseguibile per il difetto della querela o per l'esimente della provocazione, dovendosi esigere da un rappresentante dell'ordine giudiziario un livello di correttezza più alto rispetto al comune cittadino. Nella specie, la condotta riguardava l'invio di messaggi telematici nel dominio informatico dell'Associazione nazionale magistrati e le Sezioni Unite hanno ritenuto la condotta rilevante sul piano disciplinare, in quanto l'offesa era destinata a essere percepita da una pluralità indefinita di utenti della rete.

2.1.d. La grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile.

In tema di violazioni dei doveri di diligenza, è stata affermata la responsabilità disciplinare del P.M. che abbia omesso di chiedere la revoca della misura cautelare per scadenza dei termini anche se egli aveva già presentato la richiesta di rinvio a giudizio.

Sez. U, n. 14688/2015, Bandini, Rv. 635778, ha ritenuto che tale richiesta, ai sensi dell'art. 299, comma 3, c.p.p., investa il giudice del potere-dovere di provvedere alla revoca "anche di ufficio", senza tuttavia escludere il concorrente potere-dovere di istanza del P.M.

È stata esclusa, invece, la responsabilità disciplinare nel caso del P.M. che, conferita una delega investigativa alla polizia giudiziaria, non solleciti il deposito della relazione, né faccia istanza di proroga delle indagini, ma presenti richiesta di archiviazione, trattandosi di condotta che rientra nell'ambito della valutazione discrezionale riservata al magistrato inquirente (Sez. U, n. 12311/2015, Di Cerbo, Rv. 635543).

2.1.e. L'indebito affidamento ad altri di attività rientranti nei propri compiti.

Nel novero delle violazioni dei doveri di laboriosità, Sez. U, n. 06495/2015, Giusti, Rv. 634785, con particolare riferimento all'indebito affidamento ad altri di attività rientranti nei compiti del magistrato, ha ritenuto che integri l'illecito disciplinare previsto dall'art. 2, comma 1, lett. o), del d.lgs. n. 109 del 2006 il comportamento del P.M. che conferisca al consulente tecnico un incarico con quesito indeterminato volto alla qualificazione giuridica di fatti penalmente rilevanti. In questo caso, infatti, il magistrato, ancorché riservi a sé la valutazione finale degli esiti della consulenza, affida ad altri funzioni giudiziarie indeclinabili.

2.1.f. Il reiterato, grave e ingiustificato ritardo nel compimento degli atti relativi all'esercizio delle funzioni.

Diverse pronunce della S.C. attengono al ritardo nel deposito dei provvedimenti giurisdizionali.

Si segnalano i profili sulla giustificabilità della condotta e sul relativo onere probatorio, in linea con la giurisprudenza delle Sezioni Unite, che hanno ripetutamente ritenuto che il grave e reiterato ritardo possa esser giustificato dalla ricorrenza di evenienze eccezionali e/o straordinarie, che escludano la punibilità della condotta dell'incolpato, in conformità all'interpretazione della giurisprudenza della Cedu sull'art. 6 del paragrafo 1 della Convenzione. Secondo la Corte di Strasburgo, infatti, l'imposizione di un limite temporale di durata del processo non può prescindere dal considerare che l'obbligo di rispettarlo incombe in primo luogo sugli Stati, su cui è posto il dovere di dotare la magistratura di strutture e personale efficiente, adeguati al rispetto di quell'obbligo.

Sez. U, n. 14268/2015, Di Iasi, Rv. 635987, ha specificato sul punto che la durata ultrannuale dei ritardi nel deposito dei provvedimenti non comporta l'ingiustificabilità assoluta della condotta dell'incolpato. Tuttavia, trattandosi di inosservanza protrattasi oltre l'anno e per un tempo considerevole rispetto alla soglia di illiceità considerata dal legislatore, la condotta è giustificabile solo in presenza di circostanze proporzionate all'ampiezza del ritardo, sicché quanto più esso è grave tanto più seria, specifica, rigorosa e pregnante deve essere la relativa giustificazione, necessariamente comprensiva della prova che, in tutto il lasso di tempo interessato, non sarebbero stati possibili diversi comportamenti di organizzazione e impostazione del lavoro, o che, comunque, essi non avrebbero potuto in alcun modo evitare il grave ritardo o almeno ridurne l'abnorme dilatazione. La pronuncia, inoltre, ha evidenziato che il ritardo nel deposito di provvedimenti può essere giustificato sia in relazione al complessivo carico di lavoro del magistrato, da valutarsi sulla base del numero di cause sul ruolo, indipendentemente da quelle effettivamente trattate e decise, sia in relazione alla sussistenza e all'entità di impegni aggiuntivi di tipo amministrativo o organizzativo, tenendo conto del momento in cui tali impegni siano sopravvenuti e della loro durata rispetto al verificarsi dei ritardi, al fine di valutare la sussistenza di eventuali significative ingerenze sulla programmazione del lavoro dell'incolpato (Sez. U, n. 14268/2015, Di Iasi, Rv. 635988).

Sul medesimo tema della rilevanza delle esimenti, Sez. U, n. 00470/2015, Chiarini, Rv. 633598, ha affermato che l'illecito non sussiste quando i ritardi dipendano per causalità proporzionale dalla complessiva situazione di lavoro dell'incolpato. In tal senso, ai fini dell'accertamento della causa di esclusione della punibilità per inesigibilità della condotta, occorre verificare se le funzioni qualitative e quantitative espletate dal magistrato, le attività e gli incarichi d'ufficio svolti, le condizioni e modalità di lavoro dal medesimo non autonomamente scelte abbiano inciso causalmente, proporzionalmente e specificamente sui tempi a disposizione per il compimento degli atti, in modo da qualificare i ritardi come ragionevoli.

L'antigiuridicità del ritardo nel deposito di provvedimenti, d'altronde, non è eliminata dall'esigenza di smaltire ritardi oggetto di pregresse sanzioni disciplinari (Sez. U, n. 11291/2015, Cappabianca, Rv. 635367), né è ostativa, ai fini della sussistenza dell'illecito, la mancata percezione della gravità dei fatti nella ristretta cerchia giudiziaria, la quale può riflettere una desensibilizzazione circa la gravità della condotta, ma non la rende legittima, né elide la sua rilevanza (Sez. U, n. 04629/2015, D'Ascola, Rv. 634422). In quest'ultimo caso, le Sezioni Unite hanno evidenziato che, se in astratto la considerazione in ambito giudiziario locale della figura professionale del magistrato, che non sia intaccata dalla condotta fondatamente rimproveratagli, può incidere sulla valutazione complessiva ex art. 3 bis del d.lgs. n. 109 del 2006, da ciò non si può inferire che sia determinante sulla sussistenza dell'illecito disciplinare la percezione locale del fenomeno e quindi l'opinione dei dirigenti del magistrato – presidente del tribunale e presidente di sezione – circa "l'immutato prestigio" di cui l'incolpato godrebbe nell'ambiente giudiziario presso cui presta servizio. La lesione del bene giuridico, l'immagine del singolo magistrato e dell'ordine di appartenenza nel suo complesso, tutelata dal sistema degli illeciti disciplinari, va desunta dalla ricaduta che la condotta assume, secondo criteri oggettivi e generalizzabili, nella comunità e nell'ambito su cui la condotta ripercuote i suoi effetti. Nel caso di specie, la rilevante massa delle parti coinvolte nelle centinaia di giudizi cui si riferiscono i gravi ritardi contestati al magistrato e la ripercussione nociva, in questo ambito, dei ritardi nei depositi è stata considerata come fonte di disvalore.

2.1.g. La condotta disciplinare irrilevante.

Sull'esimente della scarsa rilevanza del fatto, è stato confermato che l'art. 3 bis del d.lgs. n. 109 del 2006 introduce nella materia disciplinare il principio di offensività, proprio del diritto penale, secondo il quale la sussistenza dell'illecito va, comunque, riscontrata alla luce della lesione o messa in pericolo del bene giuridico tutelato dalla norma, con accertamento in concreto, effettuato ex post. Nel caso degli illeciti disciplinari dei magistrati, la condotta irrilevante, ai sensi dell' art. 3 bis, quindi, va identificata, una volta accertata la realizzazione della fattispecie tipica, in quella che non compromette l'immagine del magistrato, bene giuridico tutelato dal sistema definito dal d.lgs. n. 109 del 2006.

In applicazione di tali principi, Sez. U, n. 06468/2015, Bandini, Rv. 634767, ha ritenuto che la scarsa rilevanza del fatto debba essere accertata con giudizio globale diretto a riscontrare se l'immagine del magistrato sia stata effettivamente compromessa dall'illecito, sicché l'impugnazione della sentenza che abbia riconosciuto tale esimente non può limitarsi alla critica atomistica dei singoli elementi di giudizio, ma deve individuare la contraddittorietà e illogicità delle conseguenze tratte dall'esame complessivo degli elementi.

2.2. Il procedimento disciplinare.

Le pronunce sui profili processuali hanno interessato diversi aspetti del rito, sia dinanzi alla Sezione disciplinare, sia presso le Sezioni Unite.

2.2.a. Profili generali.

Sul tema dell'estensibilità della disciplina del processo penale, Sez. U, n. 17585/2015, Virgilio, Rv. 636141, in linea con la precedente giurisprudenza, ha ribadito che i richiami al codice di procedura penale contenuti nell'art. 16, comma 2 – in relazione all'attività di indagine – e nell'art. 18, comma 4 – per il dibattimento – del d.lgs. n. 109 del 2006 si devono interpretare restrittivamente e solo nei limiti della compatibilità, dovendo applicarsi, per il resto, le regole del codice di procedura civile.

Le Sezioni Unite hanno così escluso l'applicabilità delle norme del codice di procedura penale sull'assunzione e valutazione delle dichiarazioni rese da persone imputate in procedimenti connessi o di reati collegati, trattandosi di disposizioni riferibili esclusivamente ai rapporti tra procedimenti penali, le cui specifiche finalità giustificano limitazioni all'acquisizione della prova in deroga al principio fondamentale di ricerca della verità materiale.

2.2.b. Termini dell'azione disciplinare.

Riguardo al termine annuale per l'esercizio dell'azione disciplinare nel caso di illecito del magistrato emergente da ispezione ministeriale, in fattispecie soggetta ratione temporis all'art. 59 del d.P.R. 16 settembre 1958, n. 916, modificato dall'art. 12 della l. 3 gennaio 1981, n. 1, Sez. U, n. 19450/2015, Travaglino, Rv. 636600, ha ritenuto che il termine non decorra dalla conclusione dell'ispezione stessa, ma dal deposito della relazione ispettiva, che pone il Ministro a conoscenza dei fatti rilevanti per l'iniziativa disciplinare.

2.2.c. Rapporti tra il procedimento disciplinare e il giudizio penale.

Sul rilievo dei fatti contenuto in una sentenza penale passata in giudicato, ha trovato conferma il principio secondo cui il giudicato penale non preclude, in sede disciplinare, una rinnovata valutazione dei fatti accertati dal giudice penale, attesa la diversità dei presupposti delle rispettive responsabilità, fermo solo il limite dell'immutabilità dell'accertamento dei fatti nella loro materialità operato nel giudizio penale e, dunque, della ricostruzione dell'episodio posto a fondamento dell'incolpazione.

In applicazione di tale principio, Sez. U, n. 14344/2015, Greco, Rv. 635922, ha confermato la decisione impugnata, relativa a una condotta di abusivo uso personale del telefono cellulare di servizio per numerose chiamate a servizi di astrologia e cartomanzia, evidenziando che la definizione del procedimento penale con la formula "perché il fatto non sussiste", per difetto di danno economico tale da configurare l'elemento materiale del delitto di peculato, non preclude la valutazione ai fini disciplinari delle condotte effettivamente accertate, attesa la diversità del bene giuridico tutelato. Nel caso della norma penale, infatti, la tutela è rivolta al principio di buona amministrazione, mentre la norma disciplinare tende a preservare l'immagine e il prestigio della magistratura.

2.2.d. Impugnazioni delle decisioni della Sezione disciplinare del C.S.M.

Ha trovato conferma anche il principio dell'ammissibilità della diversa qualificazione giuridica dei fatti contestati, per cui la Sezione disciplinare del C.S.M. può dare al fatto contestato una diversa definizione giuridica, purché il fatto concretamente accertato sia stato descritto in tutti i suoi elementi costitutivi nel capo di incolpazione (Sez. U, n. 04954/2015, Curzio, Rv. 634507). La riqualificazione operata dal giudice disciplinare, in particolare, non viola il diritto al contraddittorio, richiamato anche dalla Cedu (in particolare, sentenza 11 dicembre 2007, Drassich c. Italia), essendo tale garanzia assicurata dalla possibilità di contestare la diversa definizione giuridica del fatto mediante ricorso per cassazione.

Le Sezioni Unite, nel caso di specie, hanno confermato la sentenza disciplinare, ritenendo il magistrato responsabile dell'incolpazione di cui all'art. 2, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 109 del 2006, contestata dal P.G. già all'udienza di discussione, previa modifica dell'incolpazione originaria, definita facendo riferimento all'art. 2, comma 1, lett. g), del medesimo decreto.

Sui profili del rito applicabile, l'art. 24 del d.lgs. n. 109 del 2006 prevede tuttora che il ricorso per cassazione contro le sentenze della Sezione disciplinare del C.S.M. si propone nei termini e con le forme previsti dal codice di procedura penale, anche se – a seguito della modifica apportata dalla l. 24 ottobre 2006, n. 269, art. 1, comma 3, lett. o) – esso è deciso dalla Corte di cassazione a Sezioni Unite civili. Di conseguenza, come rilevato da Sez. U, n. 01241/2015, Amoroso, Rv. 633756, il vizio di motivazione della condanna è denunciabile per cassazione ai sensi dell'art. 606, lett. e), c.p.p., non già ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., sicché non rileva la modifica a quest'ultimo apportata dall'art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in l. 7 agosto 2012, n. 134, che ha escluso la denuncia per insufficienza e contraddittorietà della motivazione. Nella pronuncia in questione, la S.C. ha affermato che la condanna disciplinare per ritardo nel deposito dei provvedimenti può essere impugnata e cassata per carenza e genericità della motivazione in ordine alle specifiche deduzioni del magistrato, dirette a giustificare il ritardo stesso e a evidenziarne la soluzione di continuità.

2.3. Le misure cautelari.

La revoca della misura cautelare disciplinare inflitta al magistrato, in forza del generale richiamo alle norme del codice di procedura penale contenuto negli artt. 16, comma 2, e 18, comma 4, del d.lgs. n. 109 del 2006, è ammissibile solo in presenza di fatti "nuovi" che, pur congiuntamente apprezzati a quelli originariamente esaminati, evidenzino un mutamento in melius del quadro cautelare (Sez. U, n. 15152/2015, Cappabianca, Rv. 636367).

2.3.a. Trasferimento cautelare ad altra sede.

Sul trasferimento cautelare ad altro ufficio del magistrato sottoposto a procedimento disciplinare in presenza di gravi elementi di fondatezza dell'azione e di motivi di particolare urgenza, Sez. U, n. 15152/2015, Cappabianca, Rv. 636368, ha specificato che l'art. 13, comma 2, del d.lgs. n. 109 del 2006 non pone limiti territoriali con riguardo all'individuazione della sede di destinazione.

Sempre sui profili territoriali, in caso di richiesta del P.G. di trasferimento cautelare ad altra sede di un magistrato già trasferito e in servizio presso un ufficio diverso da quello in cui aveva commesso i fatti disciplinarmente rilevanti, Sez. U, n. 15478/2015, Frasca, Rv. 636565, ha evidenziato la necessità di operare comunque la valutazione delle esigenze cautelari, con riferimento alla nuova sede ricoperta, non escludendo, di per sé, l'avvenuto allontanamento dalla sede di consumazione dei pretesi illeciti l'esigenza cautelare della preservazione del buon andamento dell'amministrazione della giustizia.

Riguardo al profilo delle funzioni di destinazione, l'esistenza di esigenze cautelari che giustifichino il trasferimento provvisorio di un magistrato con funzioni direttive o semidirettive esige che nella nuova sede egli non eserciti le medesime funzioni, le quali, imponendo lo svolgimento di attività organizzatoria e di direzione da parte del destinatario della misura cautelare, per di più in via provvisoria, coinvolgerebbero l'immagine del nuovo ufficio ben più che nella sola veste di magistrato singolo (Sez. U, n. 15478/2015, Frasca, Rv. 636566).

Rilevante, altresì, è Sez. U, n. 06917/2015, Vivaldi, Rv. 634917, che ha affrontato il tema dell'applicabilità al trasferimento cautelare dell'art. 33, comma 5, della l. 5 febbraio 1992, n. 104, in tema di assistenza ai portatori di handicap. Nella specie, il magistrato aveva richiesto di essere destinato a sede più vicina a quella di provenienza sulla base delle condizioni d'invalidità proprie e della madre. Le Sezioni Unite hanno escluso che il trasferimento cautelare, essendo diretto a tutelare i principi fondamentali della funzione giurisdizionale e il prestigio dell'istituzione giudiziaria, sia soggetto all'applicazione della l. n. 104 del 1992, in quanto le agevolazioni circa la vicinanza tra la sede di lavoro e il domicilio della persona handicappata da assistere sono concesse da tale norma "ove possibile" e non in termini assoluti. Diversamente, verrebbe contraddetto proprio il presupposto sul quale si fonda il trasferimento cautelare, vale a dire l'irrilevanza del consenso del destinatario del provvedimento, laddove la l. n. 104 del 1992, art. 33, comma 5, esclude testualmente che il dipendente che si trovi nelle condizioni di cui al comma 3 possa essere trasferito ad altra sede senza il suo consenso. La ratio legis del trasferimento cautelare, invece, è quella di evitare che la permanenza nel luogo in cui si sono verificati i fatti oggetto della contestazione in sede disciplinare possa ulteriormente aggravare la posizione dell'interessato e, soprattutto, compromettere i principi fondamentali ai quali è improntata la funzione giudiziaria, nonché il prestigio dell'istituzione giudiziaria.

È invece intervenuta sui confini tra il trasferimento ad altra sede o la destinazione ad altre funzioni in sede cautelare del magistrato incolpato (art. 13, comma 2, del d.lgs. n. 109 del 2006) e la sanzione accessoria del trasferimento ad altra sede o ad altro ufficio (art. 13, comma 1, del d.lgs. n. 109 del 2006), irrogabile nei casi di procedimento disciplinare per addebiti punibili con una sanzione diversa dall'ammonimento, Sez.U, n. 24825/2015, Cappabianca, Rv. 637596, secondo la quale il trasferimento, in via cautelare e provvisoria, del magistrato incolpato può determinarne la destinazione a funzioni diverse rispetto a quelle in atto ricoperte, mentre l'irrogazione della definitiva sanzione accessoria consente soltanto il trasferimento ad altra sede e ad altro ufficio ma non anche la perdita delle funzioni esercitate in precedenza. Nella specie, in via cautelare, il magistrato era stato da funzioni requirenti semidirettive a funzioni giudicanti di primo grado. Diversamente argomentando, secondo le Sezioni Unite, non risulterebbe garantito, anche in rapporto al criterio di tipicità e tassatività delle sanzioni, il razionale coordinamento con la previsione di cui all'art. 12 del d.lgs. n. 109 del 2006 in ordine a sanzione principale di analogo contenuto oggettivo.

2.3.b. Sospensione cautelare obbligatoria.

In tema di sospensione obbligatoria dalle funzioni e dallo stipendio per adozione di misura cautelare penale, a norma dell'art. 21 del d.lgs. n. 109 del 2006, Sez. U, n. 01239/2015, Di Palma, Rv. 633764, ha affermato che tale sospensione è soggetta a revoca facoltativa, e non obbligatoria, quando la detta misura sia cessata per motivi diversi dalla carenza dei gravi indizi di colpevolezza. Sul punto, la Corte ha specificato che il criterio di esercizio del potere di revoca è identico a quello concernente la sospensione facoltativa, a norma del successivo art. 22, la revoca della quale è sempre discrezionale.

2.3.c. Cessazione degli effetti della sospensione cautelare.

La sospensione cautelare del magistrato dalle funzioni e dallo stipendio cessa di diritto quando diviene definitiva la pronuncia che conclude il procedimento disciplinare, ai sensi dell'art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 109 del 2006.

Sez. U, n. 01239/2015, Di Palma, Rv. 633765, al riguardo, ha escluso l'applicabilità dell'art. 9 della l. 7 febbraio 1990, n. 19, che, per la generalità dei pubblici dipendenti, prevede la revoca di diritto della sospensione cautelare dopo cinque anni dall'adozione. La disposizione era stata invocata dal ricorrente in combinato disposto con il r.d. 30 gennaio 1941, n. 12, art. 276, comma 3, secondo cui ai magistrati dell'ordine giudiziario sono applicabili le disposizioni generali relative agli impiegati civili dello Stato, solo in quanto non sono contrarie all'ordinamento e ai relativi regolamenti.

La Corte ha tuttavia respinto tale prospettazione sia perché la specificità dello status di magistrato e delle funzioni dallo stesso esercitate giustificano una disciplina speciale rispetto a quella degli altri pubblici impiegati (art. 98 Cost., comma 1), sia perché il d.lgs. n. 109 del 2006, art. 23, comma 2, prevede – con norma speciale di chiusura, avente finalità analoga a quella di cui alla l. n. 19 del 1990, art. 9, comma 2 – l'ipotesi di cessazione di diritto degli effetti della sospensione cautelare, collegandola alla "definitività" della pronuncia della Sezione disciplinare che conclude il procedimento. Le previsioni della revoca di diritto della sospensione cautelare obbligatoria nell'ipotesi di cui al d.lgs. n. 109 del 2006, art. 21, comma 3, primo periodo, e della revoca facoltativa della sospensione cautelare obbligatoria, nonché di quella facoltativa nelle ipotesi di cui all'art. 21, comma 3, secondo periodo, e art. 22, comma 3, del relativo necessario intervento della Sezione disciplinare del C.S.M. (art. 105 Cost.), della facoltà di impugnazione di tutte le decisioni della Sezione disciplinare dinanzi alle Sezioni Unite civili della Corte di cassazione, di cui al successivo art. 24, assicurano adeguatamente sia il regolare e corretto svolgimento dell'attività giudiziaria, sia il rispetto dei diritti costituzionalmente rilevanti del singolo magistrato.

3. La responsabilità disciplinare degli avvocati.

Riguardo alla responsabilità disciplinare dell'avvocato, diversi sono stati gli interventi delle Sezioni Unite sui profili procedurali, con particolare menzione delle questioni riguardanti l'applicabilità del regime più favorevole della nuova legge professionale in tema di prescrizione e della decorrenza del termine per la riassunzione ex art. 297 c.p.c., in caso di sospensione del procedimento disciplinare per pregiudizialità penale.

3.1. Gli illeciti disciplinari.

Sulle fattispecie di illecito disciplinare, si segnala Sez. U, n. 10090/2015, Amendola, Rv. 635274, che ha respinto il ricorso avverso la condanna inflitta a un avvocato che aveva notificato atti di precetto per somme già incassate dall'assistito. La Corte ha affermato che il dovere di probità, dignità e decoro, sancito dall'art. 6 del codice deontologico forense, ha riscontro nell'art. 88 c.p.c., che non solo sancisce il dovere delle parti e dei difensori di comportarsi in giudizio con lealtà e probità, ma impone al giudice, ove il patrocinatore lo infranga, di riferirne all'autorità disciplinare. In aggiunta si è osservato che l'art. 92, comma 1, c.p.c. prevede la trasgressione del dovere di cui all'art. 88 c.p.c. – sovrapponile all'art. 6 del codice deontologico – come autonoma ragione di rimborso delle spese, anche non ripetibili. Si tratta, secondo la S.C., di indici normativi che inequivocabilmente danno tono e rilevanza disciplinare alla violazione del dovere deontologico sancito dall'art. 6.

3.2. Il procedimento disciplinare.

Riguardo ai profili procedurali, Sez. U, n. 23540/2015, Rv. 637295, Ambrosio ha confermato la natura amministrativa del procedimento dinanzi al Consiglio dell'ordine degli avvocati e delle relative funzioni esercitate in materia disciplinare, evidenziando che la regolamentazione di tale procedimento non è mutuabile, nelle sue forme, dal codice di rito penale, sicché il rinvio al codice di procedura penale, contenuto nell'art. 51 del r.d. 22 gennaio 1934, n. 37, <<opera limitatamente alle norme sulla deliberazione collegiale, senza estendersi alla pubblicazione, mediante necessaria lettura del dispositivo in udienza, della decisione, in quanto le adunanze del Consiglio non sono pubbliche e le relative statuizioni sono pubblicate tramite deposito negli uffici di segreteria, a cui fa seguito, anche ai fini della decorrenza del termine d'impugnazione, la relativa notifica all'interessato>>.

Nella fase amministrativa del procedimento, costituiscono valido atto di interruzione della prescrizione l'atto di apertura del procedimento e tutti gli atti procedimentali di natura propulsiva o probatoria (consulenza tecnica d'ufficio, interrogatorio del professionista sottoposto a procedimento) e dal momento dell'interruzione, ai sensi dell'art. 2945, comma 1, c.c. inizia a decorrere un nuovo periodo di prescrizione. Nella fase giurisdizionale davanti al Consiglio Nazionale Forense, invece, opera il principio dell'effetto interruttivo permanente (artt. 2945, comma 2, e 2943 c.c.), che si protrae durante il corso del giudizio e nelle eventuali fasi di impugnazione dinanzi alle Sezioni Unite e del giudizio di rinvio, fino al passaggio in giudicato della sentenza (Sez. U, n. 23364/2015, Rv. 637249, Mammone).

Sull'impedimento dell'incolpato a comparire alla seduta disciplinare del Consiglio dell'ordine, Sez. U, n. 03670/2015, Di Iasi, Rv. 634257, ha stabilito che l'avvocato non ha diritto al rinvio della seduta, né alla rimessione in termini da parte del Consiglio nazionale forense, qualora non provi di aver tempestivamente comunicato l'impedimento o di esservi stato impossibilitato per un caso di forza maggiore.

In ordine ai requisiti della contestazione disciplinare, ha trovato conferma il principio secondo cui la contestazione degli addebiti non esige una minuta, completa e particolareggiata esposizione dei fatti che integrano l'illecito, essendo, invece, sufficiente che l'incolpato, con la lettura dell'imputazione, sia stato posto in grado di approntare la propria difesa in modo efficace, senza rischi di essere condannato per fatti diversi da quelli ascrittigli. Nella fattispecie, Sez. U, n. 21948/2015, Giusti, Rv. 637140, ha ritenuto che la contestazione mossa all'incolpato – l'aver egli aggravato la posizione debitoria di una A.S.L. effettuando, per conto di uno stesso cliente, plurimi interventi in procedure esecutive presso terzi pendenti a carico della prima, e utilizzando decreti ingiuntivi resi contestualmente o in un breve arco temporale, così ottenendo, per ciascuno di essi, la liquidazione delle spese consequenziali – non necessitasse anche dell'indicazione del numero di iscrizione a ruolo dei procedimenti espropriativi in cui le condotte erano state riscontrate.

Sulle conseguenze scaturenti dalla mancata comunicazione all'interessato e al P.M. dell'apertura del procedimento, secondo quanto prescritto dall'art. 47, comma 1, del r.d. n. 37 del 1934, Sez. U, n. 00737/2015, Di Amato, Rv. 633718, ha precisato che tale omissione non determina la nullità della conseguente delibera del Consiglio dell'ordine degli avvocati, ma solo quella degli atti di istruzione eventualmente compiuti prima della predetta comunicazione.

Con riferimento ai poteri istruttori, Sez. U, n. 21948/2015, Giusti, Rv. 637141, ha affermato che il Consiglio dell'ordine ha il potere di valutare la convenienza a procedere all'esame di tutti o di parte dei testimoni ammessi, e, quindi, di revocare l'ordinanza ammissiva e di dichiarare chiusa la prova, quando ritenga superflua la loro ulteriore assunzione perché in possesso, attraverso la valutazione delle risultanze acquisite, di elementi sufficienti a determinare l'accertamento completo dei fatti da giudicare.

Sulla sospensione cautelare dell'avvocato, Sez. U, n. 03184/2015, Di Iasi, Rv. 634085, nel confermare che lo strepitus fori, quale presupposto della sospensione cautelare dall'attività, ai sensi dell'art. 43 del r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578, legittima la sospensione anche nell'ipotesi di un lungo lasso di tempo trascorso tra la commissione dei fatti penalmente rilevanti e l'adozione della misura cautelare in sede disciplinare, ovvero nell'ipotesi di procedimento disciplinare avviato da tempo, ha tuttavia precisato che lo strepitus fori deve essere effetto concreto e attuale dell'imputazione penale del professionista. Il Consiglio dell'ordine, pertanto, non può adottare la misura sospensiva per evitare un clamore soltanto prevedibile o solo astrattamente collegato al processo penale.

Ha trovato conferma, inoltre, il divieto di provvedere alla cancellazione dall'albo degli avvocati, anche nel caso di richiesta di cancellazione volontaria, quando sia in corso, a carico dell'avvocato, un procedimento penale o disciplinare, sicché l'istanza dell'interessato non ha effetti sospensivi del giudizio in corso (Sez. U, n. 15574/2015, Petitti, Rv. 636564). Tale divieto ha dunque portata generale.

3.2.a. Sospensione per pregiudizialità penale e decorrenza del termine per la riassunzione ex art. 297 c.p.c.

Particolare rilievo, in tema di pregiudizialità penale, assume la decisione Sez. U, n. 08572/2015, Rordorf, Rv. 635081, con riferimento alla questione se l'art. 297 c.p.c. debba trovare applicazione nel procedimento disciplinare che si svolge dinanzi al Consiglio dell'ordine oppure risulti incompatibile con le caratteristiche di tale procedimento.

La fattispecie riguardava un procedimento svoltosi in epoca anteriore all'entrata in vigore della nuova disciplina dell'ordinamento forense di cui alla l. 31 dicembre 2012, n. 247. In presenza di precedenti giurisprudenziali non univoci della S.C., le Sezioni Unite hanno evidenziato come il contrasto non verte sui presupposti che di volta in volta impongono, o eventualmente giustificano, la sospensione del procedimento disciplinare in presenza di un processo penale per i medesimi fatti, bensì unicamente sui termini della riassunzione del procedimento quando sia venuta meno la causa di sospensione (il primo orientamento prevede che il termine semestrale di cui all'art. 297, comma 1, c.p.c. per la riassunzione del procedimento sospeso per pregiudizialità penale decorre dalla conoscenza effettiva, da parte del Consiglio dell'ordine, della definizione del processo penale, al quale l'organo titolare dell'azione disciplinare è estraneo; tale conoscenza va fissata in epoca non anteriore al deposito in cancelleria della relativa decisione, non bastando a tale effetto la pubblicazione in udienza mediante lettura del dispositivo ai sensi dell'art. 615, comma 3, c.p.p. In senso contrario, si è osservato che per effetto della modifica dell'art. 653 c.p.p., disposta dalla l. 27 marzo 2001, n. 97, art. 1, qualora l'addebito disciplinare abbia a oggetto gli stessi fatti contestati in sede penale e quindi s'imponga la sospensione del giudizio disciplinare in pendenza del procedimento penale, ai sensi dell'art. 295 c.p.c., tale sospensione si esaurisce con il passaggio in giudicato della sentenza che definisce il procedimento penale, senza che la ripresa di quello disciplinare innanzi al Consiglio dell'ordine degli avvocati sia soggetta a termine di decadenza).

Secondo quanto statuito da Sez. U, n. 08572/2015, Rordorf, Rv. 635081, la natura amministrativa del procedimento disciplinare di competenza del locale Consiglio dell'ordine non esclude, sulla base della consolidata giurisprudenza della S.C., ove facciano difetto specifiche disposizioni a esso relative, l'applicabilità delle disposizioni del codice di procedura civile, in via generale, e di quelle del codice di rito penale quando si tratta di istituti che solo in quel codice sono disciplinati. L'applicazione dei principi generali dettati in materia dal codice di procedura civile, non contraddetti nella specifica materia da disposizioni di diverso tenore, impone, secondo le Sezioni Unite, di dare continuità a quel più risalente orientamento che ravvisava la necessità di riassunzione del procedimento sospeso per pregiudizialità penale entro il termine semestrale indicato dall'art. 297 c.p.c., comma 1. Infatti, una volta che si ritenga operante la sospensione del procedimento per pregiudizialità penale, in applicazione diretta o analogica del meccanismo stabilito dall'art. 295 c.p.c., un'esigenza di coerenza del sistema impone di rendere del pari operanti, sia pure con gli adattamenti del caso, anche le regole dettate dal successivo art. 297 per la ripresa del medesimo procedimento dopo la cessazione della causa di sospensione, pena l'inammissibile conseguenza di un procedimento che potrebbe restare sospeso a tempo indeterminato e potrebbe essere riassunto dal titolare del potere disciplinare in qualsiasi momento, senza limiti di tempo. Quanto all'individuazione del momento iniziale da cui detto termine dev'essere computato, la Corte ha stabilito che il procedimento disciplinare a carico di avvocati, che sia stato sospeso per pregiudizialità penale, deve essere riassunto nel termine perentorio di sei mesi stabilito dall'art. 297, comma 1, c.p.c., decorrente dal momento in cui il Consiglio dell'ordine abbia avuto conoscenza della definitiva conclusione del processo pregiudiziale. Spetta all'incolpato, inoltre, il quale eccepisca la decadenza per tardiva riassunzione, allegare e provare gli elementi di fatto dai quali sia possibile desumere che il Consiglio dell'ordine era venuto a conoscenza della conclusione del processo penale oltre sei mesi prima del momento in cui ha provveduto a riattivare il procedimento disciplinare sospeso per pregiudizialità.

3.2.b. Il nuovo codice deontologico e i procedimenti in corso al momento della sua entrata in vigore: favor rei e regime della prescrizione.

Sull'applicazione del codice deontologico forense approvato il 31 gennaio 2014, pubblicato il 16 ottobre 2014 ed entrato in vigore il 15 dicembre 2014, Sez. U, n. 03023/2015, Cappabianca, Rv. 634061, ha evidenziato che le norme del nuovo codice si applicano anche ai procedimenti in corso al momento della sua entrata in vigore, se più favorevoli per l'incolpato, avendo l'art. 65, comma 5, della l. n. 247 del 2012 recepito il criterio del favor rei in luogo del criterio del tempus regit actum.

Applicazione del regime di maggior favore si riscontra in Sez. U, n. 21829/2015, Petitti, Rv. 637127, in relazione all'art. 22 del nuovo codice deontologico, che non prevede più la sanzione disciplinare della cancellazione dall'albo. Di conseguenza, secondo le Sezioni Unite, la decisione del Consiglio nazionale forense che abbia confermato tale sanzione, respingendo la richiesta di applicazione di tale normativa di maggior favore, può essere sospesa ex art. 36, comma 7, della l. n. 247 del 2012.

Sulla successione delle discipline, in tema di prescrizione e applicabilità del regime più favorevole della nuova legge professionale, la giurisprudenza prevalente esclude l'applicabilità della novella ai procedimenti pendenti. Al riguardo, Sez. U, n. 14905/2015, Spirito, Rv. 636365 – che ha dato continuità a un precedente specifico della S.C. – ha stabilito che il nuovo e più mite regime della prescrizione di cui alla l. n. 247 del 2012 non si applica ai procedimenti in corso, giacché il principio di retroattività della lex mitior non riguarda il termine di prescrizione, ma solo la fattispecie incriminatrice e la pena. A sostegno della motivazione è stata richiamata Corte cost., 22 luglio 2011, n. 236, che ha ritenuto infondata la questione di legittimità costituzionale, sollevata in riferimento all'art. 117, comma 1, Cost. e in relazione all'art. 7 Cedu, dell'art. 10, comma 3, della l. 5 dicembre 2005, n. 251, Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione, nella parte in cui ha escluso l'applicazione dei nuovi termini di prescrizione, se più brevi, ai processi già pendenti in grado di appello o avanti alla Corte di cassazione. In senso conforme, Sez. U, n. 23836/2015, D'Ascola, Rv. 637285 e Sez. U, n. 23364/2015, Mammone, Rv. 637250. Minoritaria, Sez. U, n. 21829/2015, Petitti, Rv. 637128, in sede di domanda di sospensione cautelare della sanzione disciplinare ai sensi dell'art. 36, comma 7, della l. n. 247 del 2012, secondo cui l'art. 65, comma 5, della l. n. 247 del 2012, laddove sancisce che le norme del nuovo codice deontologico forense si applicano anche ai procedimenti disciplinari in corso al momento della sua entrata in vigore, se più favorevoli, spiega i propri effetti anche con riguardo al regime della prescrizione. Riguardo alla decorrenza del termine di prescrizione dell'azione disciplinare, in caso di illecito permanente, Sez. U, n. 01822/2015, Di Amato, Rv. 634060, in conformità alla giurisprudenza precedente, ha ritenuto che la prescrizione decorra solo dalla cessazione della permanenza, sicché, in caso di omissione del rendiconto di un deposito fiduciario, non rileva il momento della revoca del mandato, che fa sorgere l'obbligo di rendiconto, ma il momento in cui il professionista nega il diritto del cliente sulla somma depositata, affermando il proprio diritto di trattenerla.

4. La responsabilità disciplinare dei notai.

In materia di responsabilità disciplinare dei notai, si segnalano alcune pronunce della S.C. su talune fattispecie di illecito.

La prima decisione ha riguardato il mancato assolvimento dell'obbligo di formazione.

Sez. 2, n. 09868/2015, Migliucci, Rv. 635464 ha stabilito che l'obbligo di curare l'aggiornamento della preparazione professionale, attualmente previsto dall'art. 30 del d.lgs. 1 agosto 2006, n. 249, che ha sostituito l'art. 174, lett. b), della l. 16 febbraio 1913, n. 89, costituisce un precetto preesistente, già previsto nel codice deontologico approvato dal Consiglio nazionale notarile ai sensi dell'art. 2, lett. f), della l. 3 agosto 1949, n. 577, come sostituito dall'art. 16 della l. 27 giugno 1991, n. 220, e nel Regolamento sulla formazione professionale permanente dei notai, secondo il testo inizialmente approvato dal Consiglio nazionale del Notariato nella seduta del 9 settembre 2005. La S.C., nel confermare la legittimità della sanzione applicata per il mancato assolvimento dell'obbligo di formazione con riguardo al biennio 2008-2009, poiché tanto il precetto, al quale avrebbe dovuto conformarsi la condotta del notaio, quanto la pena derivante erano anteriori alla violazione contestata, ha ritenuto manifestamente infondata la questione di costituzionalità dell'art. 30 d.lgs. n. 249 del 2006 per violazione della delega di cui all'art. 7 della l. 28 novembre 2005, n. 246, avente a oggetto l'aggiornamento, il coordinamento e il riordino delle sanzioni.

La seconda pronuncia, in tema di uso di repertorio privo delle forme stabilite dall'art. 64 della l. n. 89 del 1913, ha qualificato come repertorio, in base a tale disciplina, soltanto il registro che, prima di essere posto in uso, sia stato numerato e vidimato in ciascun foglio dal capo dell'archivio notarile. Nella specie, Sez. 2, n. 12740/2015, Mazzacane, Rv. 635708 ha ritenuto che agli effetti dell'art. 138, comma 1, lett. d), della l. n. 89 del 1913, sono parificate le condotte dell'omessa tenuta del repertorio e dell'uso di un repertorio privo delle forme prescritte. In diversa fattispecie, Sez. 2, n. 11624/2015, Giusti, è intervenuta sull'obbligo di assistenza del notaio alla sede ex art. 26 l. n. 89 del 1913 dopo la modifica di cui all'art. 12 del d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, che prescrive per il notaio l'obbligo di tenere lo studio aperto nel Comune o nella frazione di Comune assegnatagli almeno tre giorni a settimana. La S.C. ha escluso che il notaio sia libero di scegliere di settimana in settimana e senza obbligo di preventiva segnalazione all'utenza e al Consiglio notarile quali sarebbero i tre giorni della settimana dedicati all'assistenza alla sede. Tale evenienza si porrebbe in contrasto con la ratio della norma, protesa ad assicurare il funzionamento regolare e continuo dell'ufficio. La Corte ha ritenuto, quindi, integrata la figura di illecito disciplinare ascritta all'incolpato, non avendo nella specie il notaio modificato l'originaria indicazione dei tre giorni della sua assistenza, risalente al tempo della sua iscrizione nel ruolo, ed essendo egli tenuto a presenziare allo studio in tali giorni.

Altra decisione, Sez. 2, n. 11665/2015, Migliucci, Rv. 635599 ha riguardato il "dovere di consiglio", di cui al combinato disposto dell'art. 147, comma 1, lett. b), della l. n. 89 del 1913, e dell'art. 42, comma 1, lett. a), del codice deontologico notarile. Il caso atteneva al comportamento del notaio che, in occasione della stipulazione di diversi contratti di mutuo fondiario funzionalmente collegati a contratti di compravendita immobiliare, aveva omesso di informare l'istituto di credito mutuante della circostanza che il prezzo degli immobili risultava inferiore alla somma mutuata. Secondo la S.C., nella fattispecie non risulta integrata l'ipotesi di illecito poiché il "dovere di consiglio", imposto dal codice di deontologia, investe solo le conseguenze giuridiche della prestazione richiesta al professionista e non le circostanze di fatto dell'affare concluso, tra le quali rientrano i rischi economici dello stesso, la cui valutazione è rimessa in via esclusiva al prudente apprezzamento delle parti.

Sez. 2, n. 17266/2015, Petitti, Rv. 636221, infine, confermando la precedente giurisprudenza, ha evidenziato che l'art. 147, lett. a), della l. n. 89 del 1913, configura come illecito condotte che, seppur non tipizzate, siano comunque idonee a ledere la dignità e la reputazione del notaio, nonché il decoro e il prestigio della classe notarile. L'individuazione in concreto delle condotte è rimessa agli organi di disciplina. La S.C. ha così confermato la decisione che aveva ritenuto integrato l'illecito per effetto di mancanze del notaio nella redazione del verbale d'inventario ex art. 775 c.p.c., quanto all'effettiva consistenza del patrimonio del de cuius e all'indicazione dell'orario di inizio delle operazioni.

  • appalto pubblico
  • clausola compromissoria
  • arbitrato commerciale
  • arbitraggio

CAPITOLO XLVI

L'ARBITRATO

(di Fabio Antezza )

Sommario

1 Premessa. - 2 Compromesso: interpretazione e distinzione tra arbitrato rituale ed irrituale. - 3 Patto compromissorio: validità e vessatorietà. - 4 Arbitrato ed appalto di opere pubbliche. - 5 Arbitrato, anche estero, e procedure concorsuali. - 6 Arbitrato, "arbitrato societario" e diritto del lavoro. - 7 Procedimento arbitrale e principio del contraddittorio. - 8 Anticipazione delle spese e prosecuzione del procedimento. - 9 Nullità del lodo e sua impugnazione. - 10 Rapporti tra arbitri ed autorità giudiziaria: eccezione di compromesso e questioni di competenza e di giurisdizione. - 11 Riconoscimento ed esecuzione in Italia di lodi stranieri.

1. Premessa.

Nel corso del 2015, anche argomentando dalla natura giurisdizionale e sostitutiva della funzione del giudice ordinario propria degli arbitri rituali, sono state emesse dalla S.C. numerose decisioni in ordine all'interpretazione del patto compromissorio, alla conseguente distinzione tra arbitrato rituale ed irrituale, alla validità della convenzione di arbitrato ed all'applicabilità ad esso della disciplina delle clausole vessatorie.

Sono stati altresì diversi i principi sanciti in merito ai rapporti con le procedure concorsuali, con l'appalto di opere pubbliche, con il diritto del lavoro e con l'autorità giudiziaria, nonché in tema di procedimento arbitrale, di impugnazione del lodo e di riconoscimento ed esecuzione in Italia del lodo straniero.

2. Compromesso: interpretazione e distinzione tra arbitrato rituale ed irrituale.

L'arbitrato rituale e quello irrituale sono riconducibili all'autonomia negoziale ed alla legittimazione delle parti a derogare alla giurisdizione per ottenere una decisione privata della lite. La loro differenza va invece ravvisata nel fatto che le parti, nel primo, vogliono che si pervenga ad un lodo suscettibile di essere reso esecutivo e di produrre gli effetti di cui all'art. 825 c.p.c., mentre nell'arbitrato irrituale intendono affidare all'arbitro la soluzione di controversie soltanto attraverso lo strumento negoziale, mediante una composizione amichevole o un negozio di accertamento riconducibile alla volontà delle parti stesse, che si impegnano a considerare la decisione degli arbitri come espressione della loro volontà.

Così argomentando, Sez. 1, n. 23629/2015, Di Virgilio, Rv. 637725, ha precisato che proprio alla stregua di tali principi deve essere interpretata la clausola compromissoria, dovendosi comunque tenere conto, quale criterio sussidiario di valutazione ex art. 1362 c.c., della condotta complessiva tenuta dalle parti nelle trattative, nella formazione dei quesiti, nello stesso corso del procedimento arbitrale e successivamente alla pronuncia del lodo.

Incidendo la natura rituale o irrituale dell'arbitrato sul problema processuale dell'ammissibilità dell'impugnazione del lodo per nullità, atteso che il lodo irrituale non è soggetto al regime di impugnazione previsto dall'articolo 827 c.p.c., la S.C., come ha precisato Sez. 1, n. 23629/2015, Di Virgilio, deve esaminare direttamente il patto compromissorio integrante la fonte dell'arbitrato e non limitarsi alla verifica della "tenuta", sotto il profilo motivazionale, dell'opzione ermeneutica adottata al riguardo dal giudice di merito.

Qualora, all'esito del procedimento ermeneutico avente ad oggetto la portata del patto compromissorio, residuassero dubbi in ordine all'effettiva scelta dei contraenti, per Sez. 1, n. 06909/2015, Genovese, Rv. 634958, anche con riferimento alla disciplina applicabile prima della introduzione dell'art. 808-ter c.p.c. ad opera del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, essi andrebbero risolti nel senso della ritualità dell'arbitrato, tenuto conto della natura eccezionale della deroga alla norma per cui il lodo ha efficacia di sentenza.

Sempre in tema di interpretazione del patto compromissorio – con particolare riferimento all'interpretazione della sua portata – è intervenuta Sez. 2, n. 03464/2015, Scalisi, Rv. 634557, per la quale esso è riferibile a tutte le controversie civili o commerciali attinenti a diritti disponibili nascenti dal contratto cui accede.

Da quanto innanzi argomentato discende, come ha precisato la predetta sentenza, che la rinuncia ad avvalersi di una clausola compromissoria in occasione di una controversia insorta tra i contraenti non implica, di per sé, una definitiva e complessiva abdicazione alla stessa in relazione ad ogni altra controversia, salvo che le parti non abbiano rinunziato definitivamente alla clausola compromissoria nel suo complesso, con accordo la cui validità presuppone il rispetto delle condizioni di forma e di sostanza propria di un patto risolutivo degli effetti del patto compromissorio.

3. Patto compromissorio: validità e vessatorietà.

In tema di validità del patto compromissorio e di applicabilità ad esso della disciplina delle clausole vessatorie ha statuito Sez. 3, n. 13312/2015, Pellecchia, Rv. 635911. Per la S.C., in particolare, come emerge dalla massima ufficiale, <<in materia di contratto di assicurazione, la clausola compromissoria inserita nelle condizioni generali di contratto, che preveda un meccanismo di corresponsione dell'onorario degli arbitri collegato al valore della causa, ma non in misura proporzionale, e indipendente dall'esito della controversia (nella specie, concretizzato nell'obbligo di pagare il compenso dell'arbitro rispettivamente nominato e di metà di quello dovuto al terzo), ha natura vessatoria se limiti il diritto dell'assicurato ad essere sollevato dalle conseguenze pregiudizievoli del sinistro esponendolo (soprattutto nelle controversie di modesto valore) all'esborso di rilevanti somme per gli onorari degli arbitri, non proporzionate a quelle riconoscibili a titolo risarcitorio, con valenza dissuasiva dal ricorso all'arbitrato, sì da favorire comportamenti dilatori dell'assicuratore in pregiudizio del diritto di difesa dell'assicurato>>.

Con riferimento alla validità della clausola compromissoria, ancorché per arbitrato irrituale, si è pronunciata anche Sez. 6-2, n. 10679/2015, D'Ascola, Rv. 635416, per la quale la clausola del patto compromissorio che attribuisca soltanto ad una delle parti la facoltà di declinare la competenza arbitrale e di chiedere che la controversia sia decisa dal giudice ordinario è in linea con i limiti di esercizio dell'autonomia privata ed è coerente con la tendenza del sistema favorevole al riconoscimento della giustizia pubblica quale forma primaria di soluzione dei conflitti.

4. Arbitrato ed appalto di opere pubbliche.

Il capitolato generale per le opere pubbliche ha valore normativo e vincolante e si applica, quindi, in modo diretto, solo per gli appalti stipulati dallo Stato mentre per quelli stipulati dagli altri enti pubblici, dotati di distinta personalità giuridica e di propria autonomia, le previsioni del capitolato costituiscono clausole negoziali, comprensive anche di quella compromissoria per la soluzione delle controversie con il ricorso all'arbitrato, che assumono efficacia obbligatoria solo se e nei limiti in cui siano richiamate dalle parti per regolare il singolo rapporto contrattuale.

Sez. 1, n. 00747/2015, Campanile, Rv. 634379, argomentando dall'assunto di cui innanzi, già consolidato nella giurisprudenza di legittimità, ha precisato che, affinché si produca l'efficacia obbligatoria della clausola compromissoria contenuta nel capitolato generale con riferimento ad enti pubblici diversi dallo Stato, la volontà di recepire il contenuto dell'intero capitolato e, dunque, anche della detta clausola, deve risultare espressa in maniera esplicita ed univoca.

La citata sentenza ha affermato il principio di cui innanzi con riferimento al capitolato generale per le opere pubbliche di cui al d.p.r. 16 luglio 1962, n. 1063 (oggi abrogato) ma esso è applicabile anche con riferimento alla successiva legge quadro 11 febbraio 1994, n. 109 (modificata dal d.l. 3 aprile 1995, n. 101, convertito nella l. 2 giugno 1995, n. 216) ed in generale a norme di legge richiamate dai contraenti.

In particolare, per Sez. 1, n. 16544/2015, Salvago, Rv. 636501, il richiamo a norme di legge nell'ambito di un contratto di appalto di opere pubbliche non è "formale", salva diversa volontà delle parti; il contenuto delle stesse viene recepito nella dichiarazione negoziale formandone elemento integrante,cosicché, l'estensione e i limiti del contratto vanno individuati esclusivamente con riferimento al contenuto della disposizione richiamata al momento della stipula, mentre le successive vicende della norma possono spiegare influenza sul rapporto solo se e quando le parti manifestino, anche tacitamente, la volontà di tenerne conto a modificazione dei pregressi rapporti.

5. Arbitrato, anche estero, e procedure concorsuali.

In tema di rapporti tra arbitrato e fallimento sono intervenute diverse decisioni della S.C., anche a Sezioni unite.

Sez. U, n. 15200/2015, Travaglino, Rv. 635994, hanno confermato che in sede arbitrale non possono essere fatte valere ragioni di credito vantate verso una parte sottoposta a fallimento o ad amministrazione straordinaria in quanto l'effetto attributivo della cognizione agli arbitri, proprio del compromesso o della clausola compromissoria, è paralizzato dal prevalente effetto, prodotto dalle dette procedure concorsuali, dell'avocazione dei giudizi, aventi ad oggetto l'accertamento di un credito compreso nella procedura concorsuale, allo speciale ed inderogabile procedimento di verificazione dello stato passivo. Nel caso di specie si trattava di amministrazione straordinaria nella quale, invocata l'ammissione al passivo, a sua volta contestata con l'opposizione ex art. 98 l.fall. di un credito il cui accertamento era già stato devoluto alla giurisdizione di un arbitro internazionale, il credito stesso era stato ammesso con riserva. La S.C., nel sancire il principio di diritto, ha negato, con riferimento alla illustrata fattispecie concreta, la sussistenza di una questione di giurisdizione rilevante ex art. 41 c.p.c., in quanto si controverteva nel merito dell'ammissione al passivo.

Il principio di cui innanzi, particolarmente pregnante anche in quanto sancito con riferimento ad arbitrato estero, ha carattere assoluto e non cedevole di fronte a convenzione arbitrale, come precisato da Sez. 1, n. 13089/2015, Didone, Rv. 635933. Tale sentenza ha difatti statuito che: <<la regola secondo la quale il curatore, che subentri in un contratto stipulato dal fallito contenente una clausola compromissoria, non può disconoscere tale clausola, ancorché configuri un patto autonomo, e, se il fallimento sia stato dichiarato dopo che gli arbitri siano stati già nominati ed abbiano accettato l'incarico, non può disconoscere gli effetti del rapporto già perfezionato e che ha avuto esecuzione, non si applica in relazione ai crediti vantati nei confronti di un soggetto sottoposto a procedura concorsuale>>.

L'inderogabilità del procedimento di verifica del passivo ad opera della clausola arbitrale è argomentata dalla S.C., nella decisione in oggetto, in ragione dell'assunto per il quale tutte le azioni dirette a far valere diritti di credito sul patrimonio del debitore insolvente devono essere accertate nelle forme previste dall'art. 52, comma 2, l.fall., al fine di assicurare il rispetto della par condicio creditorum.

Con riferimento agli effetti della dichiarazione di fallimento sui rapporti preesistenti, Sez. U, n. 10800/2015, Ambrosio, Rv. 635360, hanno chiarito che nel caso di clausola compromissoria stipulata prima della dichiarazione di fallimento di una delle parti, il mandato conferito agli arbitri non è soggetto alla sanzione dello scioglimento prevista dall'art. 78 l.fall., configurandosi come atto negoziale riconducibile all'istituto del mandato collettivo e di quello conferito anche nell'interesse di terzi. Nel caso di specie si trattava di clausola di arbitrato internazionale e la S.C. ha ritenuto che il principio di cui innanzi tragga conferma, ancorché indiretta, dall'articolo 83 l.fall. Se il procedimento arbitrale pendente non può essere proseguito nel caso di scioglimento del contratto contenente la clausola compromissoria, deve, di contro, ritenersi, come statuito dalla S.C., che detta clausola conservi la sua efficacia ove il curatore subentri nel rapporto, non essendo consentito a quest'ultimo recedere da singole clausole del contratto di cui chiede adempimento.

6. Arbitrato, "arbitrato societario" e diritto del lavoro.

In materia di lavoro, il combinato disposto dell'art. 5, comma 2, della l. 3 aprile 2001, n. 142 (come modificato dalla l. 14 febbraio 2003, n. 30) e dell'art. 2533, comma 5, c.c., non consente una esegesi per la quale ogni controversia tra il socio e la società cooperativa di lavoro possa essere sottratta alla competenza del giudice del lavoro ma ne impone una in senso del tutto restrittivo, tale da leggere le previsioni di competenza espresse a favore del giudice ordinario come eccezionali e comunque riferite al solo rapporto sociale stricto sensu e non alle vicende relative ai rapporti di lavoro che il socio abbia stipulato con la società.

Così argomentando, Sez. 6-3, n. 18110/2015, Frasca, Rv. 636740, ha statuito che la domanda di risarcimento per danno da mobbing avanzata dal socio lavoratore di una società cooperativa nei confronti della compagine sociale, in relazione a prestazioni lavorative ricomprese nell'oggetto sociale, rientra nella competenza funzionale del giudice del lavoro anche quando i rapporti di lavoro instaurati siano temporanei, permanendo la distinzione con il rapporto sociale.

Sicché, proprio in forza del principio di cui innanzi, la S.C. ha concluso nel senso che la clausola compromissoria contenuta nello statuto della cooperativa e non prevista da accordi o contratti collettivi non è idonea ad impedire il valido ricorso all'autorità giudiziaria, in forza dell'applicabilità al caso di specie dell'art. 806 c.p.c. nel vigore del testo anteriore alle modifiche apportate con d.lgs. n. 40 del 2006 ma anche in quello successivo alle dette modifiche, come chiarito in motivazione.

In ordine ai rapporti tra compromettibilità in arbitri, nella particolare forma del cosiddetto "arbitrato societario", e previsioni dello statuto societario, Sez. 1, n. 15841/2015, Nazzicone, Rv. 636117, affrontando questioni di diritto intertemporale, ha precisato che la clausola compromissoria contenuta nello statuto societario, la quale non preveda, non adeguandosi alla prescrizione dell'art. 34 d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, che la nomina degli arbitri debba essere effettuata da un soggetto estraneo alla società, è nulla dalla data di entrata in vigore del citato decreto e, nel caso di arbitrato irrituale, anche nell'ipotesi di procedimento arbitrale avviato prima di tale momento. La previsione di inapplicabilità della nuova disciplina ai "giudizi pendenti", stabilita dall'art. 41 d.lgs. n. 5 del 2003, infatti, chiarisce la S.C., è intesa a far salvi gli eventuali giudizi arbitrali in corso alla data di entrata in vigore del decreto, ma non già gli effetti della clausola arbitrale preesistente, che costituisce negozio e non atto processuale.

<<Le controversie aventi ad oggetto la validità delle delibere assembleari, tipicamente riguardanti i soci e la società in relazione ai rapporti sociali, sono compromettibili in arbitri ai sensi dell'articolo 34, comma 1, d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, qualora abbiano ad oggetto diritti disponibili>>. In tema di "arbitrato societario" Sez. 6-1, n. 17283/2015, Cristiano, Rv. 636505, in applicazione dell'enunciato principio, ha riconosciuto la competenza arbitrale in relazione ad una controversia avente ad oggetto l'impugnativa di una delibera assembleare di aumento di capitale e la conseguente domanda di risarcimento del danno, precisando che il detto art. 34 oltre che gli artt. 35 e 36 del medesimo decreto non dettano alcuna regola di interpretazione della clausola compromissoria societaria, non costituendo lex specialis rispetto alla norma di cui all'articolo 808-quater c.p.c. in tema di interpretazione della convenzione di arbitrato.

7. Procedimento arbitrale e principio del contraddittorio.

In tema di procedimento arbitrale e rispetto del principio del contraddittorio, Sez. 2, n. 10809/2015, Matera, Rv. 635441, ha confermato l'orientamento per il quale, qualora le parti con il compromesso o con la clausola compromissoria non abbiano determinato le regole processuali da adottare, gli arbitri sono liberi di regolare l'articolazione del procedimento nel modo che ritengono più opportuno, anche discostandosi dalle prescrizioni dettate dal codice di rito.

Tale libertà, però, ha precisato la sentenza citata, è limitata dal rispetto del principio del contraddittorio, posto dall'art. 101 c.p.c., che, comunque, necessita di essere opportunamente adattato alle peculiarità del giudizio arbitrale. Deve essere difatti offerta alle parti, al fine di consentire loro un'adeguata attività difensiva, la possibilità di esporre i rispettivi assunti, di esaminare ed analizzare le prove e le risultanze del processo, anche dopo il compimento dell'istruttoria e fino al momento della chiusura della trattazione, nonché di presentare memorie e repliche e conoscere in tempo utile le istanze e richieste avversarie.

In applicazione del principio di cui innanzi, la S.C. ha ritenuto esente da censure la decisione arbitrale assunta all'esito di consulenza tecnica di ufficio la cui relazione tecnica era stata svolta anche alla stregua di nuovi documenti prodotti da una parte al consulente tecnico di ufficio ma comunque resi conoscibili da quest'ultimo al consulente tecnico nominato dall'altra parte, con conseguente rispetto del principio del contraddittorio per essere stato il tecnico di parte messo in grado di svolgere le opportune difese.

Nel risolvere la questione di diritto di cui si è detto la S.C. ha chiarito anche i limiti del sindacato di legittimità nel caso di impugnazione di una sentenza che abbia deciso sull'impugnazione per nullità del lodo arbitrale, precisando che nel giudizio di legittimità non può essere esaminato direttamente il provvedimento degli arbitri ma solo la pronuncia emessa nel giudizio di impugnazione, allo scopo di verificare se essa sia adeguatamente e correttamente motivata in relazione ai profili di censura del lodo; con la conseguenza che il sindacato di legittimità va condotto esclusivamente attraverso il riscontro della conformità a legge e della congruità dei motivi della sentenza resa sul gravame.

8. Anticipazione delle spese e prosecuzione del procedimento.

Sez. 1, n. 17956/2015, Campanile, Rv. 636772, si è pronunciata per la prima volta in merito all'interpretazione della previsione di cui all'art. 816-septies c.p.c., introdotto dall'art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 40 del 2006, per la quale gli arbitri possono subordinare la prosecuzione del procedimento al versamento anticipato delle spese prevedibili. La disposizione di cui innanzi, <<pur dettata a tutela degli arbitri e fondata sui doveri di collaborazione scaturenti dal rapporto di mandato, non è ricollegabile ad una mera richiesta degli arbitri stessi, essendo necessaria – come ben evidenzia il termine "subordinare" usato dal legislatore – una specifica manifestazione della volontà di condizionare la prosecuzione del procedimento al versamento delle somme dovute a titolo di anticipazione delle spese>>.

Con la decisione in oggetto la S.C. ha chiarito che il riferimento alle "spese prevedibili", di cui all'art. 816-septies c.p.c., comunque non riguarda anche gli onorari, non essendo consentito agli arbitri procedere alla liquidazione del proprio compenso, come emerge dall'art. 814 c.p.c. che evidenzia la distinzione fra spese e onorari e dall'omessa indicazione, di tale distinzione, nel citato art. 816-septies.

9. Nullità del lodo e sua impugnazione.

In tema di nullità del lodo, in particolare di integrazione del dispositivo ad opera della motivazione al fine dell'esclusione del vizio di omessa pronuncia, è intervenuta Sez. 1, n. 19074/2015, Mercolino, Rv. 636683. Con la detta decisione la S.C. ha applicato all'arbitrato il principio di diritto per il quale la portata precettiva di una sentenza va individuata tenendo conto non solo del dispositivo ma anche della motivazione, quando il primo contenga comunque una decisione che, pur di contenuto incompleto e indeterminato, si presti ad essere integrata dalla seconda. Nella specie, ha trovato conferma la sentenza impugnata, la quale aveva escluso la ricorrenza del vizio in esame relativamente ad un lodo che, in motivazione, affrontava, ritenendola non meritevole di accoglimento, una domanda risarcitoria ed il cui dispositivo, tuttavia, non conteneva alcuna espressa statuizione di rigetto al riguardo.

Sempre in tema di impugnazione per nullità del lodo, con particolare riferimento ai limiti di deducibilità con il detto mezzo di gravame delle situazioni di incompatibilità degli arbitri, è intervenuta Sez. 1, n. 20558/2015, Mercolino, Rv. 637352. La S.C. ha ricordato che l'esistenza dell'incompatibilità deve essere fatta valere mediante istanza di ricusazione da proporsi, a norma dell'art. 815 c.p.c., entro il termine perentorio di dieci giorni dalla notificazione della nomina dell'arbitro o dalla sopravvenuta conoscenza della causa di ricusazione.

È stato altresì precisato che, ai fini della validità del lodo, sono invece irrilevanti le situazioni di incompatibilità delle quali la parte sia venuta a conoscenza dopo la decisione; le quali, ove non si traducano in una incapacità assoluta all'esercizio della funzione arbitrale e, in genere, della funzione giudiziaria, non possono essere fatte valere mediante l'impugnazione per nullità. Ciò in ragione dell'efficacia vincolante acquisita dal lodo e della lettera dell'art. 829, comma 1, n. 2, c.p.c., che circoscrive l'incapacità ad essere arbitro alle ipotesi tassativamente previste dall'art. 812 c.p.c., le quali fanno esclusivo riferimento all'incapacità legale di agire.

L'impugnazione del lodo per vizi attinenti al procedimento di nomina degli arbitri è ammessa dall'art. 829, comma 2, c.p.c., sempre che la relativa nullità sia stata dedotta nel giudizio arbitrale.

Nel riaffermare il principio di diritto di cui innanzi anche con riferimento all'arbitrato in materia di contratti pubblici, Sez. 1, n. 25525/2015, Genovese, ha precisato che esso opera anche successivamente alla dichiarazione di illegittimità dell'art. 150, comma 3, d.p.r. 21 dicembre 1999, n. 554, nella parte in cui sottrae ai contraenti la facoltà di nomina del terzo arbitro (nel caso di specie con sentenza del G.A. successiva alla nomina del terzo arbitro ed antecedente alla discussione in sede arbitrale).

La sentenza in oggetto ha chiarito altresì che, in senso contrario rispetto a quanto statuito, non può invocarsi l'art. 5 c.p.c., in considerazione del completamento della nomina del terzo arbitro anteriormente alla detta dichiarazione di illegittimità, in quanto non viene in esame una questione di spostamento della competenza (dagli arbitri al giudice ordinario). La competenza arbitrale non è difatti esclusa in conseguenza della declaratoria di illegittimità della previsione regolamentare, permanendo essa pienamente, sia pure con una diversa regola relativa alla composizione dell'organo collegiale decidente, avendo l'art. 5 c.p.c. solo rilievo esterno e non con riferimento al procedimento di nomina dei giudici di un collegio.

Gli effetti della nomina dell'arbitro nel caso di cui innanzi, come ha precisato la citata Sez. 1, n. 25525/2015, Genovese, non possono comunque dirsi sanati dall'art. 253, comma 34, lett. b), D.lgs. 12 aprile 2006, n. 163 (cd. "Codice degli appalti"). La norma transitoria da ultimo citata, che salvaguardia i pronunciati arbitrali già resi, esige difatti che siano state rispettate le disposizioni relative all'arbitrato contenute nel c.p.c., vale a dire anche quelle che hanno consentito alla volontà concorde delle parti la scelta del terzo arbitro.

Con particolare riferimento ai rapporti tra la decisione secondo diritto, laddove le parti non abbiano espressamente attribuito agli arbitri il potere di decidere secondo equità, e la possibilità di far valere errores in iudicando con l'impugnazione del lodo per nullità è intervenuta Sez. 1, n. 19075/2015, Mercolino, Rv. 636684. La S.C., muovendo dal disposto di cui all'articolo 829, comma 3, c.p.c., ha evidenziato che la violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia può essere fatta valere, quale causa di nullità del lodo, solo laddove tale possibilità sia espressamente disposta dalla legge ovvero contemplata dalle parti, in maniera chiara ed inequivocabile, nella clausola compromissoria o in altri atti anteriori all'instaurazione del procedimento arbitrale. A tali fini non è sufficiente la mera previsione, contenuta nel citato articolo 829, di una decisione secondo diritto sostanzialmente riproduttiva dell'art. 822 c.p.c. ed astrattamente riconducibile, pertanto, alla volontà di escludere il potere degli arbitri di decidere secondo equità.

Circa il rispetto del termine annuale per l'impugnazione per nullità del lodo collegiale, nel caso di mancanza di notificazione ed ai sensi dell'art. 828, comma 2, c.p.c., Sez. 1, n. 19163/2015, Mercolino, Rv. 637183, ha precisato che esso decorre dalla data della sottoscrizione apposta sul lodo dall'arbitro dissenziente. Nel caso di specie, in applicazione dell'enunciato principio di diritto, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata che aveva fatto decorrere il termine di impugnazione dalla data della sottoscrizione degli arbitri di maggioranza, considerando irrilevante la circostanza che lo spazio riservato alla sottoscrizione dell'ultimo arbitro fosse stato riempito con un rinvio ad una relazione ed accompagnato dalla sigla del suo autore.

In tema di impugnazione del lodo per nullità parziale o totale, Sez. 1, n. 20557/2015, Campanile, Rv. 637416, ha chiarito i rapporti tra fase rescindente e fase rescissoria, con riferimento al disposto di cui all'articolo 830, comma 1, c.p.c., nel testo introdotto dalla l. 1 maggio 1994, n. 25, il cui ultimo inciso è sostanzialmente immutato a seguito della modifica del detto articolo ad opera del d.lgs. n. 40 del 2006.

L'art. 830, comma 1, c.p.c. impone alla corte di appello, nel caso di accoglimento dell'impugnazione per nullità del lodo per un vizio che incida soltanto su una parte di esso, di accertare se detta parte sia scindibile dalle altre, evidenziando i rapporti di logica e giuridica connessione, dipendenza e pregiudizialità tra le varie parti della pronuncia arbitrale; all'esito di tale accertamento, di dichiarare la nullità parziale del lodo, così limitando la cognizione del giudizio rescissorio al capo o ai capi ritenuti viziati ed a quelli ad essi inscindibilmente legati, con la conferma del lodo nel resto, ovvero di pronunciarne la nullità totale.

Ciò premesso, la menzionata sentenza, ha chiarito che oggetto dell'indagine del giudice dell'impugnazione del lodo (indifferentemente proposta in via principale o incidentale) non è il collegamento astratto tra i rapporti sostanziali delle parti, né tra i vari negozi che da questi sono derivati, bensì quello esistente in concreto tra le varie statuizioni in cui il lodo è articolato; collegamento da accertare valutando se la parte o le parti da dichiarare nulle siano caratterizzate da petitum autonomo e indipendente da quello di una o di alcune delle altre, ovvero se fra esse sussista un vincolo di subordinazione o di connessione logica o giuridica (nel senso che la decisione relativa ad un rapporto giuridico sia virtualmente influente sulla decisione avente ad oggetto altro rapporto giuridico).

10. Rapporti tra arbitri ed autorità giudiziaria: eccezione di compromesso e questioni di competenza e di giurisdizione.

Sez. 6-1, n. 22748/2015, Mercolino, Rv. 637741, muovendo dalla natura giurisdizionale e sostitutiva del giudice ordinario propria degli arbitri rituali, ha ribadito che l'eccezione di compromesso ha natura processuale, precisando che essa inerisce a questione di competenza non rilevabile d'ufficio, in quanto di natura non funzionale e non attinente a diritti indisponibili.

Quanto al termine ed alle modalità per sollevare la questione di cui innanzi, argomentando dall'articolo 38 c.p.c., che fa riferimento alla comparsa di risposta tempestivamente depositata, il menzionato provvedimento ha poi statuito che l'eccezione di incompetenza deve essere fatta valere nella comparsa di risposta e nel termine fissato ex articolo 166 c.p.c., a pena di decadenza e conseguente radicamento presso il giudice adito del potere di decidere in ordine alla domanda proposta.

Sempre in tema di competenza e rapporti tra arbitri rituali e giudici ordinari, Sez. 6-1, n. 23176/2015, Genovese, Rv. 637743, ha precisato che la mancata impugnazione della declinatoria della competenza del giudice ordinario, dando luogo al giudicato sulla competenza degli arbitri, preclude questioni inerenti la clausola compromissoria, sia in sede di giudizio arbitrale sia in sede di impugnazione del relativo lodo. La S.C. ha sancito il principio di cui innanzi con riferimento a fattispecie per la quale non era applicabile l'art. 819-ter c.p.c., in quanto inerente procedimento arbitrale nel quale la domanda era stata proposta antecedentemente alla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 40 del 2006 e, quindi, non in ragione dell'attuale disciplina dei rapporti tra arbitri e autorità giudiziaria, dettata dal citato articolo, bensì in considerazione della natura giurisdizionale e sostitutiva della funzione del giudice ordinario propria degli arbitri rituali.

Quanto innanzi evidenziato deve però fare i conti con la disciplina transitoria dettata dal d.lgs. n. 40 del 2006 e, pertanto, come ha precisato Sez. 6-3, n. 10506/2015, Frasca, Rv. 635607, <<nei giudizi ordinari radicati anteriormente all'entrata in vigore dell'art. 819 ter c.p.c., la decisione con cui il giudice d'appello – in riforma della sentenza di prime cure – ritenga la controversia sottoposta al suo esame devoluta alla potestas iudicandi di un collegio arbitrale non integra una pronuncia sulla competenza ma sulla proponibilità dell'azione giudiziaria, risultando pertanto impugnabile con ricorso per cassazione e non con regolamento di competenza>>.

<<L'indagine sulla portata di una clausola compromissoria, ai fini della risoluzione di una questione di competenza, rientra nei poteri del supremo collegio ed in tale materia la Corte suprema è anche giudice di fatto>>, Sez. 6-1, n. 19546/2015, Ragonesi, Rv. 637119.

In tema di declinatoria di giurisdizione la S.C. ha ribadito l'operatività, anche con riferimento all'arbitrato, degli effetti sostanziali e processuali della translatio iudicii.

Sez. 1, n. 20105/2015, Campanile, Rv. 637585 e 637584, ha in particolare precisato che in tema di impugnazione del lodo arbitrale, a seguito di pronuncia declinatoria di giurisdizione, il termine per adire il giudice munito di giurisdizione, ove non indicato, è quello di cui all'art. 50 c.p.c. e che gli effetti sostanziali e processuali della domanda si conservano nel processo proseguito dinanzi al giudice munito di giurisdizione. Nel caso di specie il lodo era stato impugnato innanzi al Consiglio di Stato e, successivamente a declinatoria di giurisdizione, innanzi alla corte di appello nel rispetto dei termini di cui all'articolo 50 c.p.c., in ragione della mancata indicazione del termine per la riassunzione da parte del giudice amministrativo.

11. Riconoscimento ed esecuzione in Italia di lodi stranieri.

Sez. 1, n. 17712/2015, Bisogni, Rv. 636778, infine, è intervenuta in materia di riconoscimento ed esecuzione in Italia di lodi stranieri interpretando il combinato disposto degli articoli 839 e 840 c.p.c. e precisando che il procedimento da essi previsto si riferisce ai soli lodi stranieri e non anche alle pronunce giurisdizionali che abbiano avuto ad oggetto i lodi per effetto della loro impugnazione.

È esclusa l'operatività del detto procedimento anche nel caso di annullamento parziale del lodo da parte dell'autorità straniera, non essendo contemplata la possibilità di riconoscimento dell'efficacia esecutiva per le sole parti del lodo non annullate ed, anzi, ostando a ciò il disposto di cui all'articolo 840, comma 3, n. 5, c.p.c., che non distingue tra nullità, annullamento (totale o parziale), riforma o correzione.

La citata sentenza, dopo aver statuito il principio di si è detto, ha indicato anche la strada percorribile per ottenere l'esecuzione delle sentenze straniere di annullamento (totale o parziale) del lodo, individuandola nella messa in esecuzione o nella richiesta di riconoscimento del provvedimento straniero che ha annullato il lodo, per poter poi far valere, nel caso di non ottemperanza della parte soccombente, l'efficacia esecutiva anche delle statuizioni del lodo che non sono state oggetto di annullamento.